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Monday, January 27, 2025

LUIGI SPERANZA -- "GRICE E MASTROFINI"

 

Luigi Speranza -- Grice e Mastrofini: l’implicatura conversazionale e l’implicatura verbale di Romolo – la scuola di Roma – la scuola di Monte Compatri – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Monte Compatri). Filosofo romano. Filosofo Lazio. Filosofo italiano. Monte Compatri, Roma, Lazio. Grice: “I like Mastrofini; for one, he found how old Roman evolves into what we may call new Roman, or Italian!” – Grice: “And of course as a philosopher, he focused on the philosophical terminology – it takes a PHILOSOPHER to translate a philosophical text!” – Grice: “What I like about Mastrofini” is that he mostly kept with the cognates. La Crusca adores him!” Noto soprattutto per il volume “Le discussioni sull'usura” in cui sostenne che non è reato far fruttare il danaro e che né la Sacra Scrittura, né i Vangeli, né la tradizione ecclesiastica vietavano di ottenere un giusto interesse per danaro dato a prestito. Questo diede luogo a molte discussioni ma anche apprezzamenti lusinghieri da economisti dell'epoca e dall'opinione pubblica.  In precedenza aveva scritto un'opera di economia finanziaria, il Piano per riparare la moneta erosa relativa all'inflazione nello Stato Pontificio, opera largamente utilizzata per la riforma finanziaria dello Stato, intrapresa da Pio VII. L'edificio del Collegio Romano ove  insegna. Insegna a Frascatii. Nel pieno della crisi della Repubblica Romana, si trasfere a Roma dove venne nominato professore di eloquenza presso il Collegio Romano.Torna a a Frascati. Si trasfere definitivamente a Roma dove assume la carica di consultore della "Nuova Congregazione cardinalizia per gli affari totius orbis".  Produce le traduzioni dei capolavori di Floro, “Sulle cose romane,” e di Ampelio, “Sulle cose memorabili del mondo e degli imperi.” Traduce “Le Antichità romane” di Dionigi. Pubblica “Teoria e prospetto; ossia, dipinto critico dei verbi italiani coniugati, specialmente degli anomali o mal noti nelle cadenze,” opera che porta un grande contributo allo studio dell'italiano, utilizzata dall'Accademia della Crusca nella revisione del dizionario della lingua italiana. Pubblica “Della maniera di misurare le lesioni enormi nei contratti e uno studio sulla patria potestà e filiazione, che ha larga eco nei circoli giuridici romani, essendo allora in corso una causa di riconoscimento di paternità per successione tra i Torlonia e i Cesarini.  Piazza di Monte Citorio. Nell'edificio dove abita e muore, in piazza di Monte Citorio il Comune di Roma appose una lapide con il seguente ricordo: Abita in questa casa -- filosofo assai più grande che celebrato fissa le incerte leggi dei verbi investiga felicemente con l’uso della ragione i misteri della scienza divina S.P.Q.R.» “Dissertazione filosofica” (Roma); “Piano per riparare la moneta erosa” (Roma); “Ritratti poetici, storici, critici dei personaggi più famosi nell'antico e nuovo Testamento” (Floro); “Sulle cose romane” (Roma, Ampelio); “Sulle cose memorabili del mondo e degli imperi” (Roma); Dionigi di Alicarnasso “Le Antichità romane”, Roma, “Dizionario dei verbi italiani” (Roma); “Metaphisica sublimior de Deo triun et uno,” Roma, Appiano “Storia delle guerre civili dei Romani", Roma, Arriano “La Storia”, Roma, ristampata da Sonzongo con il titolo “Delle cose d'Italia” “Le usure,” Roma, “Amplissimi frutti da raccogliere sul calendario gregoriano,” Roma, “L'anima umana e i suoi stati,” Roma,  “Teorica dei nomi,” Roma, “Teorica e prospetto de' verbi italiani conjgeniti,” Roma. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il primo fondatore di Roma, e dell'impero e ROMOLO, generato da MARTE, e da Rea Silvia. Tanto nella sua gravidanza confessa di sèquesta sacerdotessa: nè la fama ne dubita quando poco appresso il fanciullo gettato con Remo suo fratello nella corrente per ancenno di Amulio, non potè soffocarsi. Imperoc chè il padre Tevere ritira dal lido le acque ed una lupa, lasciati i suoi parti, e seguendo il suono de'vagiti, inboccò li sue mamelle a' fanciulli, presentando in se stessa una madre. Cosi trovatili un regio pastore presso di un'arbore, e portatili in casa (2 gli educa. Di que' giorni Alba, opera di Giulo, e capitale nel Lazio chè avea quegli dispregiata Lavinia, città del suo padre Amulio. Sopra ttutto sembra inc satto l'intervallo da Augusto fino a Trajano Eglilo crededi anni duecento ; laddove è di anni cento due a!l'incircd. Ma forse vi è sbaglio nel testo e dee leggersi cento in lungo di duecento  Rea Silvia figliuola di Numitore presedeva al sacerdo zio di Vesta Quindi è dettaSacerdotessa. Nel testo in casam: questa voce può sign'ficare capan Tuttavia par verisimile che l'abituro di un regio pastore fosse alquanto migliore di una capanna. L'espressione italiana comprende ogni abitazione fosse capanna o no. av. Cr av. R. 26. na ENEA dopo finita la guerra con Turno foudo la città cui chiamò Lavinia dal nome della moglie. Ascanio, ossia Giulo, peròdi luifigliuolo dopolamortediEneafabbricò A!. ba Lunga la quale tu capitale del regno per trecento anni   Ani. dik. 3.av. Cr. essi viregnava, avendonecacciato il germane suo Numitore, dalla cui figlia Romolo era n..to. Adunque co stui nel primi bollore degli anni caccia Imulio suo zio dal principato, el'avoloviri pone. In tanto egli amante del fiume e de’monti, vicino a'quali era stato educato, meditava lemura di una nuovacitt). Ma l'unoe l'altro essendo gemelli; p acque loro consultare gl'ld dj, qual de’due le fondasse e vi dominasse. Per tanto REMO andossene al monte Aventino, el altro al Palatino. Colui pel primo vide VI avoitoj: posteriormente videne l'altro, ma XII: e vincitore negli augurji nal Area fin quì fatto un'ABOZZO di citta, piuttosto che una città; mancandole gli abitanti. Ma siccome riina neale vicino un bosco;eg! 2feceunasilo; edisubia tovisi adund moltitudine prodigiosa di uomini, Latini, e Toscani pastori, eGo ancotras marini, sia de ' Frigj venuti con ENEA, sia degl’Arcadi con Evantro. Cosi quasida varii eleinenti, ne trasse un corpo solo; ed e per lui creato IL POPOLO ROMANO. Vi quel popolo di uomini e cosa di una sola generazione. Si chiesero dunque de’matrimoni da'confinanti; e sccome non si otteneano, sono con la forza espugnati. Imperocchè finti de 'giuochi equestri, le vergini accorse per lo spets 747. incirca. Finalinente ROMOLO inalza Roma che diverrebbeca.  C o. za una città pieno di speranza, che guerriera diverrebbe; tanto ripromettendogli quegli uccelli, consueti a 7 LIBio sangue e prede. Sembra che in difesa della puova cit tá basterebbe un vallo; se non che deridendo Remo le angustie di questo, anzi condannandole con saltarle, e trucidato; è dubbio se per comando del fratello; ma certo ei ne fu la prima delle vittime; e CONSACrA COL SANGUE SUO e fortificazioni della nuova città. Av. Cr. R.2 so 52 7> ro dell'Italia e del mondo,   PRIMO 13 (+) Spoglie opine eran quelle che un comandante toglie all'imperadore o supremo comandante nemico uccidendolo di sua mano. Queste sono così rare; che se ne contano appena tre. Le prime le riporta Romolo contro di Acrone. Le seconde Cornelio Cosso contro di Tolunnio. E le terza Marco Marcello su Viridomaro. Giove poi e detto Feretrie o perchè a lui ferebantur si portavano le spoglie opime, o perchè ferisce col fulmine; o perchè nell'acquistare le spoglie opime un capitano ferisce l'altro con la spada. E questo un bel mantenere le promesse e intendere di dare alla donzella gli scudi perchè gli scudi le vibravano opprimendola. Questo metodo di mantenere le promesse, ras somiglia a quello usato dalla fanciulla per consegnare una porta creduta da Floro senza inganno o cone noi abbiamo tradotto, senza malizia, perchè non chiedeva danaro, ma gli scudi o li braccialetti. Potrà inai persuadere questa ragione? La vergine, che quisi addita, secondo Valerio Massimo e figliuola di Spur.Tarpejo il quale a tempi di Romolo presede alla fortezza: c coleiera uscita per prenderc acqua pe’santi riti,  tacolo, furon preda, e cagione immediata di guerre. Furono I Vejentire spinti e fugati: la città di Cenina fu presae diroccata: inoltre lo stesso monarca ne riporta con le sue mani a Giove Feretrio le spoglie ooiine del re. Ma le nostre porte furon date a Sabini per una donzella; nè già con malizia: ma chiesto avendone la fanciulla in ricompensa ciocchè essi portavano alle sinistre, gli scudi forse o li braccialetti; coloro e per man tenere a leila promessa e per vendicarsene la oppressero congli scudi. Ricevuti in tal modo fra le mura i nemici ne sorse nel foro medesim un'atroce battaglia; tanto che ROMOLO prega Giove che arrestasse la fuga vi tuperosa de’ suoi. Quindi ha origine il tempio, e Giove Statore. Finalmente le donzelle in lacere chiome s'intrammisero ad essi che infierivano. Così fu la pace riordinata, e stabilita l'alleanza con Fazio. Donde ne.diR. Cr. bandonati i lor domicilj, sen passarono alla nuova città, consociando co'nuovi generi loro gli aviti beni perdote. Accresciute in poco tempo le forze da il sapientissimo re quest: forma alla Repubblica. E la gioventù divisa in tribà con cavalli ed armi perchè sorgesse nelle subire guerre: fosse il consiglio su pubblici affari ne’ seniori, i quali si chiamano pari arringando dinanzi la città presso la palude della capra, e di repente levato di vista. Alcuni pensano che i senatori lo trucidassero per la ferocia dell'indole di lui. Dopo la morte di ROMOLO il trono resta privo di sovrano per un'anno, comandando in tanto a vicenda i senatori di cinque in cinque giorni. Quello spazio e chiamato interregno. Il magistrato a forma d'interregno ha luogo ancora ne'se. coli posteriori quando I consoli occupati in lontane azioni non potevano intervenire ai coinızj;o quando erano costretti a depor.  14 LIBRO dir. seguitò, cioc chèè portentoso a dire, che inemiciab 7.av. Cr. diR. 38. l'autorità, ma per la eta S.nuto. Ordinate in tal modo le cose, egli SI CONDO Tav. 37 av 713 so non che la tempesta e l'oscurarsi del sole presentaroncincid le imnagini con e di una santa operazione: alla nuale poco appresso diè credito GIULIO Proculo coll'offermare; che ROMOLO si era a lui dato a vedere Cr 743. informa più augusta della consueta; e che imponeva che per Dio se lo prendessero. Piacere a Numi che egli sichiami Virinoin sul cielo. Con tal mezo Roma conquisterebbe le genti. E' natura del Verbo di esprimere l'afermazione e la negazione. E siccome Essere e non essere esprimono appunto per se stessi l'affermazione e la negazione; ne seguita che il verbo Essere preso nudamente, o preceduto dalla particella “non”, è verbo per natura e per eccellenza. Comunemente la voce essere è nota col nome di verbo sostantivo, perchè esprime l'esistere, o L’ESSERE di sostanza. Le qualità che si affermano o negano possono aversi distinte o no, dall'affermazione,o negazione. Nel primo caso l'affermazione o negazione si addita col verbo essere, come si è detto. Ma nel secondo caso risulta un nuovo ordine di verbi più composti; appunto per chè in essi è riunita l'affermazione o negazione colle qualità che si affermano o negano: tali sono amare, godere, odiare, piangere et cetera, che significano essere nell'amore, nel gaudio, tra l'odio, o tra 'l pianto. Questo secondo genere di verbi ha servito incredibilmente a variare e fecondare il discorso, in somma alla dolcezza dell’eloquenza, e della Poesia. Chi afferma e nega, o afferma e nega dise stesso, che si chi a ma persona prima, o di altri a cui parla, che si chiama persona seconda, o di soggetto a cui non si parla, e si chiama persona terza. Per altro queste persone possono essere una, o più, cioè possono riguardarsi in singolare, duale, o plurale. E 'naturale che tanto nella nostra quanto nella più parte delle lingue s'introducesse l'uso di finire il verbo diversamente secondo la diversità delle persone,e del numero. E quindi abbiamo amo ami ama amiamo amate amano. E potendo il discorso riguardare cose presenti, cose cominciate e non finite, cose passate, più che passate, e future; fubene varia. Anzi siccome le proprietà si affermano o negano assolutamente, o sotto certi rapporti e condizioni. Cosi li verbi divennero parole terminate diversamente secondo la persona, il numero, i tempi, e i modi di affermazioni e negazioni assolute o relative.  S. 1. re il verbo secondo la persona, il numero, e i tempi. a I   6. Questi modisono cinque: Indicativo, Imperativo, Ottativo, Congiuntivo, ed Infinito. L'indicativo dimostra assolutamente che una cosa è, fu, sara; e perd vien detto ancora assoluto e dimostrativo. Cosi Pietro ama amò amerà. le scienze, forme tutte dell'Indicativo, dichiarano che Pietro amo, ama, ed amerà, assolutamente. L'Imperativo esprime comando, preghiera, avviso, consiglio, esortazione di far qualche cosa, e con una sola voce si vuol esprimere il comando, preghiera et cetera, e l'azion e che deve farsi. Tale sarebbe ama tu, amerai til, ameremo noi et cetera. Per tanto si esprime l'azione ed il modo col quale si fa, cioè per comando, preghiera et cetera; laddove nell'Indicativo mancano questi rapporti. L'Ottativo esprime desiderio di fare una cosa, giusta i varii tempi; e per questo è detto ancora desiderativo, e tale sarebbe, “O se amassi, io amerei, O avessi amato, lo avreiamato et cetera. Il congiuntivo è così detto perché si adopera quando si vuo le congiungere il discorso con altre cose precedenti, e perd siegue le particole sebbene, quantunque, conciossiacosache et cetera. Tále è quel di PETRARCA Italia mia, benchè il parlar sia indarno et c. E talequel di BOCCACCIO. .6.7.n.2. per l'amore di Dio, come chè il fatto sia et cetera. Tra i Greci l'Ottativo ha le sue desinenze tutte diverse dal congiuntivo: ma nella lingua latina e nella nostra L’OTTATIVO ADOPERA LE STESSE VOCI DEL CONGIUNTIVO, se ben si rifletta. Il verbo si dice di modo finito o determinato finchè si concepisce indicativo, imperativo, ottativo, congiuntivo. Ma talvolta esprime indeterminatamente qualche proprietà senz'additare ne persona, nè numero, come amare, leggere, et cetera, ed allora si chiama di modo infinito cioè indefinito ossia non determinato. La varia desinenza di un verbo secondo le persone, il numero, i tempi, ed i modi si chiama conjugazione. Ed i verbi si dicono di una conjugazione medesima o diversa, secondo che rassomigliano o no nel complesso di queste desinenze. E siccome queste si diversificano secondo la diversità dell'infinito; e l'infinito puo terminare in -are, in -ere -lungo e breve --, ed in -ire; cosi III sono le conjugazioni della nostra lingua. Tutti gl’infiniti terminati in -are si dicono della prima conjugazione come amare, balzare, danzare. Tutti quelli terminati in -ere sichiamano della seconda, o l'infinito sia lungo o breve, come temère,cadère, giacère, et cetera, e come credere, discendere, volgere, ecc.. I latini di queste due desinenze ne faceano II CONGIUGAZIONI diverse, come docère e legere. Nè mancato è pur tra gl'Italiani chi abbia concepite diverse le conjugazioni secondo l'infinito lungo o breve. Ma siccome, tolta la pronunzia lunga e breve dell' infinito, non vi sono altri di vari, parlando regolarmente; e siccome la pronunzia concerne il modo di significarlo in voce, non la forma del verbo; così piùra gionevoli sono quelli che rinniscono in una conjugazione gl'infiniti in -ere, lunghi o brevi. Spettano alla terza tutti i verbi terminati in -ire, come sentire, uscire ecc.  Chi si propone per iscopo di presentare il prospetto de'verbi italiani dee porre sott'occhio le varie desinenze di essi giusta i modi, I tempi, il numero, e le persone nelle varie conjugazioni. E cið ė propriamente che noi cercheremo di eseguire. Per vedere però più da presso il suggetto, anzi fin dalle origini, ed in tutta l'ampiezza sua, divideremo quesť opera in due parti. La prima e tutta di Teoria e di Prospetto generale; ed esporremo in essa come le conjugazioni latine sian si trasformate e si trasformino nelle presenti d'Italia; la dipendenza comune de' nostri verbi dall'infinito, e per ogni conjugazione il prospetto di qualche verbo che serve di norma in tutti i simili e regolari -come del verbo “amare” per la prima, de'verbi “temere” e “credere” per la seconda, e de’ 'verbi “sentire” ed “aborrire” per la terza. Anteporremo per altro a tutti il verbo “essere” come principio di ogni verbo, e quindi il verbo “avere” che prossimo gli succede, esprimendo la sostanza, che passa ad ottenere in generale delle proprietà. E ciò tanto più dee farsi; che senza questi due verbi, però detti “ausiliari”, non possono formarsi le tre conjugazioni divisate degl’altri verbi. Dato cosi principio e norma al prospetto di tutti i verbi regolari, verremo alla seconda parte ed esporremo ad uno ad uno per ordine alfabetico i principali tra' verbi anomali cioè quelli che in qualche tempo escono dalla legge consueta, ed i quali servono spesso di regola per altri anomali non dissimili. Il prospetto e distinto in quattro colonne. Nella prima si avranno le voci corrette, nella seconda le antiche, nella terza le poetiche, e nella quarta le non ben certe, gl'IDIOTISMI e gl’errori. Si avverta che non tutte le antiche sono affatto dismesse, anzi talvolta usate a tempo adornano la scrittura: come pur le poetiche non tutte sono così della poesia che non servano talora alla prosa. Il che si conoscerà dalle note. GLI ERRORI SON SEMPRE ERRORI. Gl'idiotismi poi sono voci usate nel parlare e nello scrivere familiare, non però nelle belle scritture, sebbene talvolta vi scorrano per incuria e per arbitrio degli scrittori che le decidon per buone, o vogliono nobilitarle con la fama già da essi acquistata. Per compimento dell'opera spesso porremo in fine del prospetto il participio ed il gerundio. Il primo é propriamente un nome tratto dal verbo. Dicesi participio perchè partecipa del nome e del verbo: e come nome si declina, e come tratto dal verbo esprime un qual che significato di questo. Tali sarebbono “amante” ed “amato”. Tra’Latini si aveano participii presenti, passati, e future: “amans”, “amatus” “amatVRVS” (cf. IMPLICATVRVM).  Presso noi, non si hanno che li presenti, e li passati che sono “amante”, “amato,” temente, temuto. Tra’nostri antichi furono ideati anche i futuri come fatturo, perituro ecc, ma non ebbero buon successo, nè più vi si pensa. Il participio passato e descritto per lo più nella formazione de' tempi PIU CHE passati: laddove il participio presente si troverà nel fine de' prospetti. Un tal participio può essere messo informa di aggiunto e di attributo come se io dicessi: la virtù possente, e la virtù a2  3. Il participio si riguarda anzi come adjettivo, che qual participio. Per chè sia participio con ogni proprietà, dee, quando si risolva, significare come i participj latini: come se dicesi canto possente a diletta re: schiere seguenti le altre ecc. E ciò rileva conoscere perchè non di raro si anno gl’esempj anzi di adjettivi che di participi, e noi pur he useremo in mancanza di participi, tali per ogni rispetto. Gerundio tra noi e tra' latini è una voce tratta dal verbo, la qual significa le affezioni di questo, ma la quale non si declina come il nome, nel che differisce dal participio: come amando, credenádo, temendo, sentendo. Da'quali esempj risulta che il Gerundio delle prime conjugazioni finisce in -ando e delle altre in -endo. L'uso di tali gerundi è frequentissimo nell'italiano in luogo ancora de'participj presenti. Ma veniamo all'argomento, Come le congiugazioni latine siansi trasformate e si trasformina nelle conjugazioni presenti d'Italia. TUTTE LE VOCALI LATINE, FINALI DI PAROLE INTERE, NE SEGUITE DA CONSONANTI, SI CONSERVANO. Così, in AMO ed AMARE, si conserva l'O di amo, e l'E di amare. Tutte le consonanti finali si tralasciano o mutano. Le consonanti sono M, S, T, NT, ST. Nel caso di NT si cambia il T in O, e però non si lascia che il T amant amano, amarunt amarono: ma talvolta tutto l'NT si muta in RO : amassent amassero: sebbe ne in questo e simili casi può sempre rimanere la regola di mutare il solo T in o dicendosi ancora “amassono”. Vedi il prospetto di amare.Tutti gli “U” finali seguiti da M o da S si cambiano in 0: POSSVM > POSSO. amamus amiamo: ma se gli U sono seguiti da NT si cambiano in o nei presenti e nei passati, ma nei futuri in AN. Così da legunt si trae leggono, e da amabunt ameranno. Tutti gli A ovvero gli E precedenti immediatamente l'S finale SI MUTANO IN “I”: amas > ami; times temi: e cosi da timeas abbiamo tu temi, e da legas tu legghi. Il che basta a conservare la regola, ma ora si dice anche “tu tema”, e “tu legga”. Tutti gli E, ogl'I precedent gli A, oppure gli O finali, si lasciano affatto. Timea temo, timeam icma. Sentio sento: sentiam io senta,  4 è possente: il fuoco bruciante, e il fuoco è bruciante: ma in tal caso NOZIONI ARCHEOLOGICHE.  Non dee sperar di comprendere il trattato che qui soggiungo se non chi conosce per le gli altri ne differiscano la lettura. sue regole l'idioma Latino e l'Italiano: 3. non si $. Tutti gl'I precedenti gli S finali in singolare si conservano assumendo nel futuro un A precedente: legis leggi: a ma bisamerai, ed in plurale si mutano in E: legitis leggele. Tutti gl'I seguiti dal solo T finale subiscono un cambiamento secondo i tempi. Ne'presenti si cambiano in E, e ne’ futuri in A accentatolegiilegge, creditcrede: amabit ameră, timebio temerà. Per i preteriti perfetti ne diremo più innanzi. Tutti i B avantil'afinalene gl'imperfettisi cambiano in “V” consonante, ed avanti l'O, l'I,o l'U finale del futuro, li B. caratteristichi della conjugazione del tempo si cambiano in R. Quindi si trae amerò da “amabo”, ma da belabo si forma belerò senza mutarne il primo B; perchè questo è proprio del verbo, e non della formazione del futuro. Queste regole sono ordinarie. Vediamolo. LATINO amatis est amamo reg. 3. e 2, ora amianio sono sono Ed eccone la maniera. Dalle regole 3. e 2. è chiaro che la prima persona debba essere so e l'ultima sono. Ora dee sapersi che appunto tra gl’antichi si trova non poche volte “so” per “sono” in prima persona. B. Jacop. Poes. Spirit. Venez. 1617. lib. 4. cant. 28.  stanz. 12. sei  amamus es еè sumus somo este credit et c. ama reg. 2 credi reg. 2. amas sentit et c. Amo reg.i. Vedo reg.4. vedi reg. 4. vede reg. 2. senti reg.2: Amo amat amant amano reg. Dicasi altrettanto di Video vides videt et c. credo ITALIANO ami reg. 4. e 2. 3. Applichiamo queste regole al presente del verbo sostantivo : Sum amate reg. 5. e 2, sente reg.6. credis credo So e finalmente Sono i 5 se, estis semo siamo sunt sete siete sentio sentis crede reg. 6. sento reg. 4. lo so nulla: ho peccalo: Mi exalto quantoposso. e cant. 3. st. 2. del lib, stes.   A pinger laer so dato. E GIUSTO de Conti nella bella mano pag. 39. La seconda persona es fu trasposta e non altro, facendo prece dere l'S. Quindi gl’antichi dicevano comunissimamente se anche senz'apostrofo per seconda persona: come Petrarca, Boccacci, Albertano, ed altri: ALBERTAN. ediz. di Fir. cap.23.  Selegaloa moglie? non domandare di scioglierti. Se sciolto da moglie? non domandar di legarti. E più sotto: e sìselenulo di tanto amarla moglie. PETRARC. canz. 26. v. 77. ediz. Comminiana Spirto beato, quale  6 Se, quando altrui fai tale? e altrove più e più volte. Il Decamerone secondo la ediz.1718. col la data di Asterdam ne è pieno. Senza questa origine che facono scerecheseper seconda persona è voce interae non accorciata, non s'intenderebbe, perchè gl’antichi spesso non l'apostrofassero. Tutta via per distinguerla a prima vista da se pronome, e condizionale, convenne in qualche modo contrassegnarla, e si fece uso dell'apostrofo: e servendo questo a notare le voci scorciate; si riguardo se persona seconda, come scorciata, quando non era: e perchè tutte le seconde persone singolari presenti dell'indicativo terminano in I Reg. 4.e seguendo le leggi generali, tal persona nel verbo sostantivo avrebbe dovuto essere un I. Così poco a poco si ricongiunse se ed i in sei, ed ora si crede questa la voce intera di tal persona. E cid supposto quando si scrive se per indicarla, si apostrofa, quasi fosse uno scorcio di Signor non è giovato Mostrarmi cortesia: Tanto so slato ingrato ! e altrove spessissimo. E GUIDO Guinzelli Rime antic. appresso la bel la mano ediz. di Firenz. 1715. Come io so avvolto nel Lenace visco; e se ne hanno esempj ancora nelle lettere di S. CATERINA, in Fr. Gi.ROLAMO da Siena nel1. Tom. delle delizie degli eruditi Toscani, ed in altri: vedi vocab. di S.CATER. alla voce essere: ma so trovasi parimente persona del verbo sapere, nata da sapio > sapo > sao > so: ovvero da scio regola 5. scosso so: la prima derivazione è di Menagio: a m e piacerebbe la seconda. Ma torniamo all'intento: siccomeso era voce ancora del verbo sapere, e SICCOME IL SAPER VERO E DI TANTO POSTERIORE ALL’ESSERE. Così per togliere ogni equivoco, si volle piuttosto ridurre il “so” del verbo essere in sono, che lasciarlo indistinto col “so” del verbo sapere. Chi dunque considera che il primo verbo italiano “essere” ha la voce “sono” per esprimere la prima singolare e la terza plurale, sappia che questo è stato UN MALE DI ORIGINE, voglio dire è provenuto dalla FIGLIOLANZA della Italiana dalla lingua latina, in forza delle leggi universali, che per tanta combinazione di circostanze cooperarono a trasmutare l'una nell'altra.   s e i : nè chi procede con tal veduta può riprendersi: ma in origine non vi era bisogno, e più che apostrofarsi, avrebbe dovuto accentarsi. sero eepere.ALBERTAN. Giud. cap. 51. Dal savio uomo eeda temere lo nimico. Or cid fecesi per distinguere e del verbo, dalla congiunzione e, come pure dal pronome ei solito ad apostofrarsi, e dalla congiunzione e seguita dall'articolo plurale ili quali due e iriunitisi rende anopere: ma col tempo, la varietà dell'apostrofe e dell'accento pote contrassegnare e diversificare abbastanza l’e del verbo dagli e di altro valore: vedi esseren.Trovasi ancora fra gl’antichi este per è ma rarissime volte: vedi Gradidi S. GIROLAM. ediz. Fir.1729. in fine alla voce este; finchè prevalsero le regole generali anzidette. Da “sumus” uscirebbe sumo o somo, e non semo. Ma siccome tutte le prime persone plurali dell'indicativo presente nelle seconde conjugazioni presero la desinenza in “-emo,” come avemo, tememo, ecc.,così da “sumus” e tratto semo. Ovvero siccome tutte le persone prime plurali ora pe'rincontri della forma loro anno rapporto con la seconda persona singolare tanto che sono un composto di questa con qualche a g giunta, come “amiamo” da ami ed amo, temiamo da temi ed amo et c;e siccome tal seconda singolare era se nel presente indicativo di essere, quindi ne uscisemo e poisiamo. Chi conosce gl’antichi sa quanto è familiare l'uso di “semo”. Ne allego un esempio dalla vita nuova di ALIGHIERI: Per chè semo noi venuti a queste donne? E Fra Jacop. lib. 1. sat, 5. Uomo pensa di che semo. Di che fummo, et a che gimo. Vedi il prospetto del verbo Essere In forza delle regole generali, la seconda plurale sarebbe “estes”. Ma trasponendo l'savanti l'E come nel singolare per uniformità maggiore con “sono”, “sei”, “siamo”. Sen'ebbe sele, e questa appunto è la voce degl’antichi: si consulti il verbo essere not. 5. FINALMENTE SI AGGGIUNSE UN “I” PER DOLCEZZA (“se” > “sei”) o per distinguere tal voce da alcuni sostantivi e sen ebbe siete, che ora è la voce più propria di questa persona. Apparisce dunque per quali gradi e per quali mutamenti siasi formato il presente come ora si usa del verbo essere, La terza persona si esprime con la voce “e”, che appunto RISPONDE all’ “EST” latino, lasciatene le consonanti SECONDO LA REGOLA 2. ma gl’antichi, prima che la lingua si modellasse in tutto, non di raro dis  7 Preferiti Imperfetti Amabam amabas amabat amabamus amabatis amabant Amaya reg.2.7. amavireg.2.4.7. amava reg.2.7. amavamo reg.7.3. 2. amavate reg.7.5.2. amayano reg.7. 2.   Temeva &c. legebam leggeva e e da sentiebam lasciatone l’I che è quel di sentio reg. 4. si ha sen leva com e era nelle origini prime, nelle quali, tutto risentiva di conjugazione seconda tra gl'italiani ne' verbi provenienti DALLA QUARTA DE’LATINI. Non è raro che “senteva” si oda anche ora tra' CONTADINI PIU CORROTI CHE SONO GLI ULTIMI A CORREGGERSI. E finalmente fu detto sentiya sentivi et c.lasciando l'E per l'I. Per queste regole e questi progressi apparisce che la prima persona dell'imperfetto doveva terminare in A amava temeva legge va sentiva. Al presente i filosofi ed i gramatici si meravigliano, per chè la prima e terza persona singolare combinino, e perchè la prima non siasi terminata in O. Ma la meraviglia cessa, se riflettasi che al cambiarsi del latino nell'italiano, si prendevano di netto I vocaboli antichi, nè si aveano di mira che certe regole, come le indicate di sopra, per contornarli di nuovo. E siccome tutte le prime singolari degli imperfetti levatane la terminazione latina in M ; restavano amaba legeba ec; cosi mutato il “B” in “V” non poté farsi a meno d'incorrere nel lo scoglio anzidetto. Molto più che in que'tempi non faceasi poco, se le parole non sapevano di latino. Veduto come siasi introdotto l'equivoco, ora tocca ai filosofi di emendarlo. Ttanto più che non siamo poi scarsissimi di esempii antichi pe'quali si compionoin o le persone prime singolari dell'inperfetto: de'quali mi piace allegarne qui alcuni riserbandone altri ailor verbi nel prospetto. Petrar. Vit. De Pontef. Ed Imperadori: VITA DI CALIGOLA, lo PREGAVO ogni giorno che Tiberio morissi. Così pure leggiamo in Fr. Jacop. 1. 4.can. 38. La cagion del mal FUGGIVO. Cavalc. Epist. di S. Girol. ad Eusloch. cap. 3. ediz. Rom.. E vedendomi io venir meno quasi ogni rimedio ed esser privato di ogni ajuto, GITTAVOMI a' piedi di Cristo &c.... iratoame medesimo erigido, solomi mettevo per li diserti, e dove io trovavo più oscure e aspre e profonde valli, e aspri monti o scogli pungenti o luoghi più aspri e spinosi; ivi mi ponevo in orazione. Pulci. Morg. c. 3. 62. lo mi posavo in queste selve strane.  Da Timebam così pure si ebbe C. XI. 83. Tal ch'io pensavo d'aver acquistato. 8 ec.16.44 Per Dio, cugin, ch'i'sognavo al presente, Che un gran lion mi veniva assalire. Onď io gridavo, echiamavo altra gente E però E con Frusberta il volevo ferire. e altrove più volte. Letter. San. CATER. di Sien. ediz. di Aldo pag. 14. a tergo. Dicevo: Signor mio io ti priego et c. e pag. 20. vi aggiunsi anzi che io volevo in voi la perfezione della carità  pag. 92.   desideravo divedervi: anzi tal voce desideravo si legge molte volte inquelle lettere. Vita B. COLOMBIN. ediz. di Roma pag.9. lo gode voé voi non mi lascia testare, e pag. 96. ad irviilveroio andavo a posarmi; pag.167. 0 figliuoli, e fratelli miei io non meritavo di es ser padre di tanta buona gente; pag. 174. E questa la compagnia che io dal e speravo, e pag. 299. Pensavo che quanto è maggiore la soggezione e l'unità ; tanto si vien piuttosto ad aver libertà : Vedi ero n.6. verbo essere:e n. 6. avere. Eram Erant Erate reg. 5. e 2. e quindi Eravate avevano reg. 7. 2. Imperocchè ben è facilissimo concepire, che se cambiavasi in questo tempo in V il B precedente l'A finale, potevasi cambiare in V parimente anche l'altro B: anzi parea troppo ragionevole, perchè non si notasse tanto di variodi usi in parole medesime, e si familiari. E' poi noto, che tutto il verbo “avere” si scrivea ne’ principi, e si scrisse a n cor dopo per lunghissimo tempo con l’ “H”” precedente: ed ora per un progresso, non saprei quanto considerato, si tralascia ancora nelle vo ci, che forse ne abbisognano. Ma giova esaminare ancora come siansi trasformati gl'imperfetti de'verbi ausiliari: Eccolo 9. Si possono da tutto ciò comprendere le cause de'cambiamenti prodotti nel presente di habco: seguiamoli via via, che'non sarà inutile la ricerca Lasciato l'E di habeo reg. 4, e le altre consonanti, e cambiatele giusta le altre regole, risulta 9 Era reg. 2. Eramo ed erale presentano Erano reg. 2. le voci come si traevano dal latino in ottima forma. Ma il va inserito eramus ed eratis Eras Era reg. 2. in eravamo, ed eravate negli altri verbi, mentre in suppongono il B cambiato in V, come dunque di vainera questa consonante. Tale aggiunta affatto manca la origine, nè fu, che una intrusione vamo ed eravate è contro per di altri verbi, che usciva, nato dal sentire le voci consimili isbaglio amayate &c. Il peggio no in quel modo, come amavamo, non dandosi quell'aggiunta fu che si anche alle voci era tolse la uniformità tiranno delle lingue, autorizza erano et c. Non dimeno l'uso, quel, più che le semplicie naturali vamoederavale essere, n. 6. Ma diciamo si trovino pur queste. Vedi que risultasse. Eccone la maniera fetto di avere, è come Haveva 8. Habebam habebas Habeva habevi era eramo erate, quantun dell'imper Aveva reg.7. 2. habebamus aveva reg. 7. 2. habebat habeva habevamo habevate habevano haveva havevamo avevamo reg.7.3.2. avevate reg. 7. 5. 2. habebatis habebant havevate havevano Erat Eramus Eratis Eri reg. 4. e 2. Eramo reg.3. e 2.e quindi Eravamo havevi avevireg.7. 4. 2. b   abbemo abbiamo &c. Forseil B fu raddoppiato per compensare la perdita dell'E nell’ “habeo.” Sia comunque, abbosi legge ancora in ALIGHIER, Infer. 25. E quanto io l'ABBO ingrado mentre io viva: E negl iAMMAESTRAMENTI degl’antichi certamente abbo provato; e più sotto: ripenso la seraa quello che iolo di abbo detto.E nelle Vite de’ SS.PP.e diz. Man.Fir, 1731., nella VITA DI GIOSAFATTE ediz. Rom., e nelle Noyelle antiche Fir, 1572 l'uso di “ABBO” è comune. Abbi è rimaso nel Congiuntivo. E 'poi noto, che gl’antichi usavano la seconda singolare presente dell'Indicativo ancora nel Congiuntivo, come resta tuttora in molti verbi, Così ami serve in tutti due i tempi alle due seconde persone singolari,e cosi temi può servire ancora, sebbene ora vi siano dei divarj. Sopravvanza nell'uso comune abbiamo; e siccome gl’antichi finivano le voci per tali persone in eino, cosi non vi è dubbio che ne'principj si dicesse “ABBEMO,” quantunque negli scritti forse non si trovi, per la rapidità di altri cambiamenti succeduti. Certamente l'uso di scambiare tutti i B nell'imperfetto di “HABERE,” di buon pra scorse in alcune, o in tutte le voci del presente, e si trasse da Habo Avo habi ave avemo avete habono avono ave resta tuttora tra’ poeti, e fu non meno della prosa. Vedi questa voce nel prospetto di avere. Avemo é comunissima tra gli’antichi. Avete rimane per ogni scrittura. Le altre tre voci presto furono cambiate: perchè siccome l'V consonante ha un suono come di vi, o di un i sibiloso; così specialmente se l'V sia doppio, l'avo, oppure avvo per abbo, fe sentire nella pronunzia questo i quasi doppio.E quindi è che il B. JACOPONE lib. 1. satir. 9. scrive Nè ferma fede per esempio ch'AJA; Franc. BARBERINI edizion. Roman. pag.189. Non veggio ancor chi contento AJA il core. E Francesco SACCHBTTI disse ajolo per lo ajo, cioè per lohu. S'insinud tal cambiamento nella seconda persona avi, é mutato l'V in I, se ne  habet abbi 1 habemus habe habemo habete abbe avi da Habeo Abbo habes Ch'io n'ajo una si dura e più sotto: ajo portato in core et c, ed altrove più volte: anzi usa “AJA” per abbia:lib.1.sat. 12.3. 10 Illuminato mostromi fore, E ch'AJA umilitate nel core. ALIGHIERI, Parad,17.   fece huii, e col tempo hai. E questa è la causa, per la quale ora ci troviamo con “hai”, seconda persona del presente dell'Indicativo, senza che volgarmente se ne intenda la origine. Può notarsi però che in forza della provenienza di hai l’i finale è risultato da un doppio i; e quindi seguendo le origini, avrebbe dovuto scriversi “haj”: e ciò sa rebbe stato opportunissimo pe' giorni nostri, ne'quali vuolsi lasciare anche l'h precedente. Imperciocchè chiarissimamente si distinguerebbe che “aj” è del verbo, senza pericolo alcuno che si confondesse con l'articolo plurale “ai.” La mutazione del doppio B in V ed in I doppio o lungo, al meno quanto al suono, porto l'altro cambiamento in aggio, aggi, aggiamo, aggia, aggiano: essendonoto che l'J lungo si cambia spessissimo in tal modo:e questa è la causa parimente, per cui si dice veg go veggiamo et c. Imperciocchè nelle prime origini si disse ancora vejo vej veje per vedo vedivede: si consulti il prospetto di vedere. Quindi 'Imperador Feder. Rim. ant. 114. Rispondimi Signor ch'altro non chiejo. Da crejo è propriamente quello scorcio, che pur si usd tra'poeti di cre' per “credo”, quasi crejo fosse cre io. Vedi il prospetto di credere. Ant. Pucci nel suo Centiloquio can. XI. terz. 27. scrive: Gli comandò che giù sedesse al piano. L'ultimo verso assai dimostra, che sie fu detto per siedi: E siccome in ALIGHIERI Inf. 27.53. si trovasi e'per siede; parchiaro che ambedue de rivino da sejo. Allego un esempio di “trajamo”: BOCCACCIO: g.8. n.5. lo voglio che noi gli TRAJAMO quelle brache del tutto: da ciò ben apparisce la origine di traggiamo &c. 12. Ridotto havi ad hai; dovea sembrare che fosse di netto stato levato l'V consonante, quando erasi inviscerato nell'j: e cið comparendo, era facile di lasciarlo pure nella terza persona have, e formar ne hae come si trova in Fr. Jacop., in Guid. Giud., in ALBERTANO,  Di voi,chiaritaspera. Rim .Allac. 408 Ciulo dal Camo Cose da non parlare. anzi avverto, che tra gl’antichi si trova ancora crejo, chiejo, sejo, trajamo, donde sono creggio, chieggio, seggo, lraggiamo &c,enon dalla mutazione del D in G come si tiene, forse meno propriamente dai Grammatici. Cosi Fr. Jac. lib. 5. c.3.12. secondo che io crejo: e nelleno te vi si legge: crejo,creggio,credo, e lib. 5. can.25. 12. II E vejo li sembjanti Quando ci passo e vejoti. F. Jac. lib. sat. 3.9. la sera il vei seccato. lib. 6. can. 45. 4. Che vee con vista acuda disse l'anziano: Sie giù a pena di cento fiorini: E volendo pagare a mano a mano, E l'anziano a pena di dugento b2   12 e generalmente negl’antichi. Cost Albertan. al càp. 12. L'avar7 sempre ha e le mani di stesepertorre. ..ivi l'avaronon haesicura vita. I Grammatici han creduto che quell 'E sia stato sopraggiunto all'ha per genio della lingua, che non amava finire le parole in accento. Ma questo sarebbevero, quando la parola originale della terza persona fosseha, ciòche è falso; essendo questa habet, habe, have. Hae dun que non èche have, toltone ”v per simiglianza di quanto era accaduto in hai, ed in hajo. 13. A questo proposito avverte, che non di raro fra gl’antichi si legge dae, fae, slae per dà, fa, sta, come leggesi trae, e come hne per ha. Anche gli E di dae, fae,stae, si credono aggiunti per la ragione medesima: ma egli è FALSO UGUALMENTE;  perchè dai ruderi antichi della lingua può concludersi ta esistenza degl'infiniti, daire, faire, staire, come esiste traire. Ora da quegl' infiniti daire et c. sorge naturalissimamente dae, fae, stae, cometrae, che ancorc irimane da trai re:vedi S. III. di questa Prima Parte sotto il titolo Dipendenza delle conjugazioni italiane dall'infinito, n.2.E quindi pure sono le voci dai, fai, stai, come trai, che altronde sono inesplicabili. A dichiarare quanto dico sappiasi, che Fr. Jacop. lib.6.c.10.st. 20.scrive A chi gli dice villania et c. Fra duo ladri allo staia. e lib. 4. c. 1o. E che al povero dala. elib.6.c.43.5. Ch'egli è il daenteeti il ricevitore: e lib.7. c.9. II.  Staendo in quest'altura dello mare: Vita S.Maria Mad. É cosistaendola poverettasì per l'amore che gid ave v a con celto di Gesù Cristo, si per la doglia ; cominciò a piangere. Parimente in Fr. Guitt. si legge più volte faite alla pag. 36, e faie alla pag.54. E nel TESORETTO: ponelemente al beneche faite per usaggio: e Franc. BARBERINO pag. 17. Faesselei di quel pregio degnare. Nei GRADI di S. Girolamo alla voce Fa il e nell'indice si dichiara, chel’idi faiteè un aggiunto,e non più:ma faie, faesse, e le voci slaca, daia &c. ne'verbi simili palesano il contrario: e Traire si legge in Fr. Guit. lett.2. pag.9, ma traers spiega ugualmente la origine di trae, come fae sorgerebbe ancora da faere, del quale fece uso Franc. BARBERINO nel verso allegato. Per tanto gli E di dae, fae, stae NON SONO AGGIUNTI, come si pensa, MA SONO NATURALI; ed ora non si è cessato diaggiungerli, ma sono stati tolti. Tornando alle voci hai ed hae, siccome in queste era perito \'u consonante; così poco a poco si tento,ma non riusci, di farlo pe rire nelle vociavemo, avete: e non è infrequente di udire aemo, aele; e nel futuro dell'Indicativo, e negl'imperfetti dell'Ottativo trovasi scritto arò, arai, arei, aresti' &c.come vedremo. Non prevalendo pero quel tentativo, siri serbarono le voci avemo, avete, e talvolta aviamo, aviate, aggiamo, aggiate. Essendosi creduto, che l’E di hae fosse ag giunto; presto fu stabilita ha per terza persona; talchè le prime tre fossero ho, hai, ha. La terza plurale divenne harno; perchè dall’ “habent” sifece haveno, haeno, hano, hanno,ed esistono ancora'esempi di dano, fano et c. per danno e fanno, voci similissime nella origine, com me è chiaro: vedi S. III. 12. 15. Ma passiamo ad esaminare come dai perfetti de'verbi latini si traessero quelli presenti d'Italia. Potrà ciò conoscersi ne'verbi comuni ad ambe le lingue, ma terminati secondo i metodi di ciascuna: E noi su questi rifletteremo. I Latini sincopizzavano il perfetto in più voci, togliendone il VI, o il Ve. Per avere dai perfetti latini l’italiano corrispondente, silasciil VI, o Ve in tutte lepersone per quanto si può senza contradire alle regole generali del s. I. Quindi nel la persona prima singolare dee lasciarsi il solo V, non potendosi togliere l'I finale, secondo la regola prima. Si noti, che la terza singolare risulterebbe simile ad alcuna voce del presente, e quindi nelle origini si accentava: ma ora se la voce finisce in A, si muta in O accentato. La prima plurale sarebbe amamo come nel presente, e quin di I'M si è raddoppiato. Del resto in Gio. VILLANI nella edizione fatta procurare da Remigio Fiorentino in Venezia si vede gran quan tità di persone prime plurali dei perfetti, scritte con un semplice M : come tememo per tememmo. Altrettanto si osserva in Fazzo degli Uber ti, nel Cavaliere Jacopo SALVIATI Tom. 18. Delizie degli eruditi Toscani, nella Cronica del Pitti, ed in altr’antichi; indizio che per tali vie si passava dal latino all'italiano in questo tempo. Anzi Celso CITTAD I ninelle sue Origini della Toscana favella osserva al cap. 6. che i Sanesi in tali persone non davano asentire che un M, quasi pronunziando facemo, dicemo &c, ed egli con pari ortografia scrisse tali voci. Ma Girolamo Gigli nel suo Vocabolario di S. Caterina noto alla lettera M, che a'suoi tempi (vuol dire un secolo dopo il Cittadini) quell'uso era perduto. Serbate dunque anche le regole generali del n. primo, avre di Ama(v)i ama (viisti ama(vit) ama(vi)mus ama(vi)stis ama (verunt Amai amasti amd amamo amammo amaste amarono. Dai Latini si disse ancora amávere: toltone il ve, si ebbe Vita Lano amare, e perché non si confondesse con l'Infinito, si muto l'E i n o, e si ebbe amaro per altra terza persona plurale. I Grammatici han ereduto che amaro sia precisamente una sincope di amarono, toltone il no. Á me però sembra che amaro sia voce intera in sestessa, e provenuta altronde, come ho dichiarato. E questa è la ragione, per cui amaro può troncarsi ancora, e dirsi amàr per amaro, laddove le troncature delle troncature non sono consuete, almeno nella lingua, come ora si trova.  13 mo 17. II P. Bartoli nella sua Ortografia riguarda come un incanto che le terze plurali del Perfetto indicativo scorciate tre volte s e m   14 pre significhino lo stesso con quadrupla desinenza: amarono, amaron, amaro, amàr. Ma l'incanto, se ben si consideri, non è che un caro abbaglio di un animo, che al veder primo si appaga, stanco delle molestie di riflettere. Imperocchè da amarono sitragge amaron, e qui cesserebbe la troncatura: ma perchè levato anche l'N ci troviamo da amaron in amaro, desinenza ancor buona; si è creduto, che tal bontà risulti in forza di uno scorcio: laddove amaro già era legittima desinenza in se stessa: e perchè tale, ammettevasi; non perchè nata da amaron, levatone l'N. A parlar dunque propriamente si hanno due desinenze, amaro, ed amarono, ed ognuna ammette uno scorcio, ama rono porgendo amaron, ed amaro la voce amar, col vago incidente, che se da amaron si spicca l'N finale; ci troviamo alla desinenza seconda, la quale è amaro. E siccome amaro è desinenza intera in se stessa; di qui nasce che gli scrittori del buon secolo, ed alcuni ancora del cinquecento, come il DAVANZATI ne fecero tanto uso: laddove le altre sincopi amar ed amaron sono assai più rare, spacialmente in prosa. Anzi si noti, che nelle NOVELLE 'ANTICHE la desinenza in aro è quasi la comune, laddove l'altra in arono vi è scarsa, e meno pregiata. Ma proseguiamo l'esame de perfetti: e prima nella terza conjugazione. Audi(vi audi(ve)runt Audii audisti audi audimmo audirono udiste udiro. proviene udiro dall'audivere, come amaro dall'amavere. E'poi noto, che nelle origini della lingua si disse in italiano anche “audire” finchè l' “au” si chiuse in “o”, cone nelle voci aurum, tesaurus,dalle quali si trasse “oro”, “tesoro” &c, e se n’ebbe udii, udisti &c.Vedi questo verbo nel prospetto. Debui debuimus debuerunt Devei,. Pertanto abbiamo da dové doveste  udisti audi(vi)t udi audi(vi)mus udimm o audi(vi)stis. Riguardo alle seconde conjugazioni, avanti l'I finale vi è l'U vocale, e non consonante, quindi regolarmente parlando tutto l'UI o l'UE si muta in E semplice, avvertendo, che l'1 finale nella prima persona dee conservarsi secondo i canoni generali debuisti Dovei deve, audiro devemmo, deveste, deverono, audi(vi)sti audi(vere) debuit debuistis debuere doverono dovero. audiste devesti, dovesti devero, Siccomel'U fu cambiato in E(dovei) gravato di accento, quindi nella terza persona non potea non dirsi se non dovè seguendo le regole ge Udii udirono dovemmo   nerali, o “dovèt”, trascurando la regola sulle consonanti finali; e da que. sto nacque che per istrascico di pronunzia fu detto ancora dovette, come dalla voce Giudit PETRARC. Trionf. fam. c. 2. v. 119. Non fia Guidit la vedovellaardita, si è fatto Giuditta, e come da Josafat, DANTE Infer. 10.v. 8.Quando da Josafat qui torneranno, si è prodotto Giosafalte comunemente. Fattosi dovei, dovė, o davèt, fecesi quindi per coerenza doveltero e dovelti: e cosi questi preteriti ebbero doppia desinenza: e si disse temci e temetti, teme e temette, temerono e temettero. E' poi tanto vero, che questa è la origine di temetti, tèmel te et c, che siccome lo stesso argomento vale per le terze conjugazioni; così talvolta si scontra ancor questa desinenza applicata alle medesime. Ond'è che trovasi fuggi, fuggi et c; e nelle Vire de SS.PP. ediz. Man.tom.1.pag.20. fuggitte,e nella pag.125 salitlepersa li: una nolle, essendo questi ito, alla casa di una vergine Cristiana o per rubare, o per altromalfare, salitte con certi ingegni il tetto della casa. Anzi questa ragione è sì certa che spessissimo le desinenze in ilte come salitle et c. furono modellate affatto a norma delle altre in elle, cioè di temelle,credette et c. Quindi è che nel medesimo tom. 1. delle Vit.deSS.PP. se in alcuni esemplarisi legge fuggitte, in altri, sihafuggelte: allapag. 101 ediz. citat. Vi è fuggetti per fuggii: nella 62, uscite per uscì, nella 71 irrigi delle per irrigidi, nella 73 finette per fini, ed Pucci versificatore famoso del trecento nel suo Centiloquio al can. 2. st. 69 ha sentelle per senti; ed Oito impe rador che ciò sentette, e così altre se ne veggono in altre pagine ed opere. Simile terminazione non potevaaver luogo nella prima conjugazione, perchè l'amavit, secondol'uso di cavarne il volgare, cessadove è il secondo a, dicendosi amo,e non cessanell'I con farsentire un amavit: il che direttamente gli avrebbe causato la uniformità, che'mai non ottenne: ora la desinenza in illi ed etti et c.è del tutto abolita per le terze conjugazioni: rimane ancora la cadenza in etti e dette, &c. per le seconde conjugazioni; ma forse, almeno in più verbi,è men cara che nelle origini della lingua, come potrà rilevarsi dal prospetto de' verbi, che soggiungeremo. E giacchè consideriamo il rapporto fra le desinenze delle terze persone de’ preteriti dell'indicativo, piacemi dilatare ancor più la serie delle riflessioni, picciole sì, ma pur necessarie per chi brami co noscere intimamente la lingua, e suoi movimenti. Ho detto di sopra, che dall'amavit, debuit, audivit si tragge amò, dove, udi, abolendoin tutto, quel vit finale: ma questa è piuttostola regola, che ora predo, mina. Del resto quando la lingua pendeva incerta sul fissare le sue desinenze, talvolta tentò rendere queste, tutte simili alla cadenza del. la prima conjugazione, e tal altra a quella della seconda. E certo quell'amavit ebbe talorauna desinenza come amao: di che produco un esempio luminoso di FR. Jacop. lib. 2.can. 2. Quando che in prima l'uomo peccdo Si guastò l'ordin lullo dell'amore: E questa è la causa, per la quale ora diciamo “amarono”, lassaro no, e non “amorono”, lassorono et c. vuol dire questa è la causa, per la quale la sillaba antipenultima è un a, e non un o. Tutte le terze plurali nascono nel preterito con aggiungere alla terza singolare un rono, o un semplice ro, ne'perfettianomali, o simili aglianoma li. Così diciamo sentirono, temèrono, crederono, sparsero, videro et c. Pardunque la original terza persona quella de'contadini “amà,” “lassà”,  et c. e quindi sen ebbe amarono, lassarono, e non amorono, las sorono &c.desinenza che leggesi in molti antichi: Così nelle Vite de’ Pontefici di  PETRARCA visileggeandorono, seccorono, e simili ordinariamente. Venturi traduttore di Dionigi di Alicarnasso è pie no di tali cadenze. Forse a dire amarono, lassarono &c.vi contribui pur LA DOLCEZZA per non avere insieme tre o finali amorono, lasso rono et c. Nel modo poi che il vit era supplito da un o nella prima conjugazione; lo fi pure nelle seconde e nelle terze: e quindi sono le voci temeo, credeo, poteo, aprio, finio, udio, e simili, tanto frequenti ne gli Scrittori. Ora queste desinenze, per le prime conjugazioni sono spente in tutto: ma nelle altre conjugazioni rimangono tuttavia per li poeti, e l'uso moderato può riuscire utile non meno che dilettevole. Chi non bene conosce le primizie della lingua, meravigliasi che imo di poteo, lemeo, udio &c. fossero comunissimi. I Grammatici dissero che l'o finale SI AGGUNSE PER LICENZA POETICA. Ma cið non ispiega perchè voci di questo conio abbiansi frequentissime ne'vecchi prosatori, come nelle Storie dei Villani, nel Davanzati, ed in altri. Dir finalmente che l’o si accresceva per non finire in accento, era un luogo comune, un parlar di abitudine, e nulla più. Si doveva avvertire, che quest'ori ceveasi da tutte le conjugazioni nelle terze persone singolari de'pre  16 Nell'amor proprio tanto l'abbracciao ; Che n'antepose se al creatore. E la Giustizia tanto s'indignao; Che la spogliò di tutto suo onore: Ciascheduna virtù l'abbandonao, Gli fu il demonio dato possessore: Nel tom. 12 degli Scrittor. Ital. Del MURATORI trovasi inserita la Memoria di Messer Lodovico di Buon Conto Monaldesti su la coronazione del Petrarca: costui, che lavidediperse, cosìscrive:Poi comparve lo Sena tore in mezzo a muti (molti)cittadini, e portao allo capo soio (suo) na corona di lauro,ese assettao alla sedia, e poi s'inginocchiaoallo senatore et c. Si vede in questi esempi, che si accento l a preceden te il vit,e questo vit fu supplito con un o.Più volteho notato, che presso alcuni contadini appunto ne'dintorni di Roma dicesi difforme mente amà,lassà,&c.per amò, lasciò come ora è laregola: Tocca al filologo accorto di rintracciarne le provenienze:esse non sono che per lo scorcio naturale,che si faceva della lingua parlata sotto questo cie lo da'nostri antenati.   teriti, e la uniformità medesima avrebbe fatto conoscere, che era un supplemento del vil, risecato dalle voci latinecorrispondenti, o pure una proprietàdi cadenza;e con cið sarebbesi dichiarato perchégliAn tichiusassero temeo, udio,e simili,promiscuamente in ogni scrittura, senzascrupolodiriprensioni. E'poitantomanifestochequell'O non si aggiungeva per non finire in accento, che nel Dittamondo si tro va unito anche alle prime persone della terza conjugazione, leggen dovisi nel 3 lib. cap. 15 udio per udii : 22. Tornando al nostro principio, apparisce dal fin qui detto che sitento chiudere in tutte le conjugazioni con desinenza simile allaprima:ma perchè l'uso non eraancora ben fissoe comune, si tento per eguale maniera terminare tutte le terze singolari d e' prete ritiinE,comein E finisce la terza singolare nella seconda conjugazione. Quindi è che troviamo amoe, teme, finie, e similicon tan ta abbondanza di esempj. Faz. Dittam. lib. 4 cap. 20 23. La chiusa delle terze persone tutteinO,ovverotutteinE,de riyava dallevoci corrispondenti latine, finite tutte in un modoamavil, timuit,audivit.Era difficile abbandonare ogni somiglianza nell'italiano,с  17 Passato poi Suasina, io udio et c. e cap. 16 Secondo ch'io udio, e'l nome prese e cosi nel lib. 4 cap. 4 vi si legge sentiu per io sentii, e nella Vin LadiGiosaf.pag.31 uno essemplo tidico chel'udio direa uno molto savio uomo : e pag. 34 lo ritornerò nella mia casa onde io uscio. Novell.ANTIC. Firenz.1572 novel. 20 lo poi che mi partio,abbo avuto moglie efigliuoli. Etic.di Arist. compend. da Ser BRUNET.ediz. Lion. pag. 100 quando io udio le loro parole, non mido lea &c. Gli o dunque di udio,finio, lemeo et c. in terza persona, non sono licenze di poeti,non aggiunteper iscansare gliaccenti,ma regole o modi di terminazione, e risultati di una lingua, che in altra si trasmutava,come or ora meglio dichiareremo. Che amoe si;che'lsipuò dir percerto. e . Che rifutoe l'onor di tanta manna. Vit. de S S. P P.  inciampo e in una pietra, e fece alcuno strepito: pag.10 con molte lagrime cantoe salmi, e pag.6 ľani male si levoe a corsa, e fuggie:pag. 43 per la sele l'uno morie,e pag. 47 udie una voce che gli disse et c.'Or questa uniformità fa vede re,come dianzi ho pur detto,una proprietà di cadenza nelle terze persone singolari del preterito in su le origini della lingua, e quin di è che se ne abbiatanta copia ancora ne'prosatori;e tanto èlun gi che l'E si aggiungesse perevitare l'accento,che ci è facile tro yare temè,ma non temee; se non forse per la rima.Cosl Dante dis sePurg.3212 senza la vista al quanto essermife e permife,voce interain sestessa,come vedremo nella seconda parte al num.6 del verbo Fare.   dopo che le altre persone omologhe del preterito si erano concordate nella desinenza.Così tutte le prime escono in I,amai, temei,udii, tutte le seconde in sti, amasti,temesti,udisti:e tuttelepluralihan pari concordia di finale. Or come poteasi tralasciare quesť armonia nelle sole terze del singolare? Questa è la origine vera degli O e degli E che si aggiungevano, e non le sognate fra le minuzie di una grammatica, che inaridisce. Col progressodel tempo sivolle trascurare quellaparitàdicadenza, e le voci sichiuseroin 0, in E, inI,ac centandole finalmente, sebbene quelle chiuse in O si trovino spesso tra gli Antichi senz'accento comeinFazio degli UBERTI, e nelle NoVELLE ANTICHE.Ed oranoi,lucidiesseridi unsecolointelligente, go diamo su la idea dolcissima di una lingua perfezionata. Ma i gravis simiAntichi,colle mire ch'essi aveano,questi Antichi io dico, risor gendo,ne sarebbero in tutto persuasi?  E cid su le terze persone singolari de'preteriti: ora torniamo al verbo temere o dovere, dalle considerazioni del quale siamo qui per venuti. Si noti che doverono e temerono ammettono le tre solite scor ciature Lemeron, temero,temer,come amaron, amaro, amàr,perchè da lemeron ci troviamo all'altra desinenza intera temèro prodotta da ti muere,come dovèro dadebuere: laddovedovellerononsopportacheuna scorciatura appena,potendosi faredovetter, ma non proceder più oltre; perchè le nuove scorciature non ci fanno casualmente trovare in altra desinenza compiuta in se stessa.Tanto è vero quelloche siadditonel 3. 17. E'certo che ne'perfetti delle seconde conjugazioni italianeso no le irregolarità più grandi: ma non ho veduto che altri notasse in esse un incontro curioso: cioè la irregolarità non concerne mai se non la prima persona singolare,e le dueterze singolare e plurale,mentre tutte le altre persone si trovan sempre comela regola chiederebbe. Cosi nel preterito rompere abbiamo ruppi, ruppe, ruppero anomale; e le altrevocisono rompesti,rompemmo,rompeste,come vorrebbe la indo le di un perfetto italiano regolare rompei, rompè et c. Tal cosa è so vente osservata e confermata con esempj nel prospetto. E m m i più vol. te nato il prurito d'indovinare onde sia talearcano di lingua. A me ne sembra la origine dall'avere le terze persone plurali una seconda desinenza derivatadal latino,per esempio rupere ond'èruppero,enon daruperunton d'èrupperono, oromperonoBo'i reg.2, chepursitro ya negli Antichi: vedi ilprospetto di questo verbo. Romperono ha l'ac cento,che riposa in su l’E: e quindila terza singolare non può es. sereche rompe, e la prima rompei; laddo veruppero hal'accento nell'U, restandobrevelaE.Quindi perleggedicorrispondenzalaterzasin golaredee tenere l'accento anch'essa nella vocale precedente, e non nella finale; altrettanto dee succedere nella prima singolare: e per ciddeemancarel'E diEInella desinenza, giacchèl'E diEIintutte le conjugazioni seconde è gravato di accento; efinalmentedee cavar seneruppi, ruppe,ruppero. Ma rompesti, rompeste,rompemmo non pos.  18 già   26. Ma diciamo qualchecosa de'perfetti de'verbiausiliari.Nascono fuit fusti fosti C2  sono non avere l'accento sull'E in forza dellaformazione loro,essen do in esse la E seguitata dalla doppia consonante S T, M M. Quindi non possono non esser tali come romperono, quantunque poco o nulla usate, come avviene in molti se provenissero da rompei, rompe, verbi irregolari. E per cið l'anomalia de'preteriti non può concer nere se non la prima singolare, e le due terze persone singolare e plurale de'perfetti. Questo discorso vale eziandio ne'verbi ano mali di terza conjugazione ; dicendo dell'I quanto si è detto dell'E. Potremo da ciðtantomeglio persuadersi, cheamaro, temero,&c. sono desinenze piene in se stesse, e non sincopi di amarono merono et c. fuisti Fui da Fui fuistis fuerunt fuere fummo fuste foste furono 19 fuimus furo Questo tempo somiglia in tutto al preterito debui o timui della se conda conjugazione latina,alla quale appartiene ilverbo esse,o pure essere secondo che leggesi in Plauto. Pure esso nelle persone non ha subito la legge di mutare l'UI:ma ciò non è stato senza una ragio ne: Imperocchè dando luogo a tal mutazione, sarebbe risultato fei, fe sti,fe et c, e questo è il preterito appunto del verbo fare: purtroppo si osservano tra gli Antichi talvolta le voci del preterito del verbo sostantivo piegate in quelle del verbo fare: Cosi Fazio degli UBERTI nelsuo Ditcam.1.4c.8 dissefoperfu. Per il diluvio chefositene broso:Filip.Vil,nelprologo allesueStorie:con lo stile che aluifo possibile:e Faz. Nel Ditlam. lib.3 cap.22 infinescrivefonno perfurono,e Fr.Guitt.let.12, scrivefoe per fu:e Fra Jacop.1.2 can.172 scrive fom per fummo.Per nonconfondere dunque una cosa con lealtre,non doveasi praticarela legge anzidetta: nei tempi debui,debuisti periva in. tuttele persone l'UI,eccetto l'Ifinalenellaprima perfareil cambiamen toindicato. Infuisti, fuimus &c. sièritenuto l'U, edèperitol'I:edin fuerunt è peritol'E. Si noti cheil fuit dagli Antichi si rendeva,e nesonopienii libri, perfue. Igrammaticihancreduto l'Edifue come una giunta per non terminare quell'E non è che la E nella quale dovea mutarsi l'UI, supplita in questo luogo per dare alla terza singolare del perfetto la desinenza in E,comune a tutte le persone simili di altri verbi di questa con jugazione, dicendosi lemè, iemelte, crede, ruppe et c. Tanto siam dunque lontani che l'e di fue siasi una giunta, che anzi era lettera distinti va della persona, ed una conseguenza dellamutazione, che aveasi a faredelUI in E, come più si poteva. E quando sparì quell'E, sitol fue fu in accento la semplicefu:mą   serealmente,non si cesso di aggiungerla.Ed ora ci rimane il sem plice fu, voce cheesce affatto da ogni regola di terminazione. da Habui E le voci avesti, aveste, avemmo sono comunissime: delle altre avei, avè, averono, se pur furono in uso, non ho presente nemmeno un esempio; e solamente mi ricordo che in Fr. Jacop.si legge avi per ebbi, ed avvero per ebbero. Di buon ora s'introdusse la irregolarità, la qua le concerne, come ho detto, la sola prima singolare, e le due terze singolare e plurale, e si fece ebbi, ebbe, ebbero; presa la occasione c o m e s'intende pel S. 17 dal habuere: perché se ne dovea cavare ha. bero,con lapenultima breve,donde ne seguitava habe per terza sin golare, ed habi per prima; e somigliando queste due voci ad altre dell'antico presente abbo, abb i et c, non potè non cambiarsi l’A in E, condirsiebi,ebe,ebero,ebbi,ebbe ebbero.IPoetitalvoltaco me PETRARCA Trionfo Fam.cap. : ora investighiamo, come da’pre teriti più che perfetti latini ne derivassero gl'italiani, che tanto sem brano differenti. E certamente i Latini esprimevano col tempo la qua lità che si affermava, ossia la cosa che siera fatta: e tali erano a m a yeram,fueram,habueram.Ma negliitaliani sidecomposero gliattri buti, e si disse io aveva amato,io aveva avuto,io era stato.Possiamo però conoscere che tra'Latini medesimi si aveano i semi di simili riso. luzioni. Cosi Cic. nel 15 Fam. 20 disse, quantum ex tuis litteris h a beo cognitum per cognovi:od in Verr.7 63 hodie sic homines ha bent persuasum: cosìnel 4 Ac. comprehensum animo habere atque perceptum; ed altrove assai volte. Pertanto nel passare da'preteriti più che perfetti latini agliitaliani,nonsifeceche ampliareciocchè giàsi usavadai Latinimedesimi. Abbiamopiù voltenotato,che  20 per la rima scrivo. no ebe con un b solo:qualche Antico ciò praticava quasi per abitu dine, come può vedersi nel Dittamondo di Fazio degli UBERTI l'uso finalmente ha stabilito ebbi, ebbe : ma,ebbero:vociche varianonel principio e nel fine come appunto i preteriti greci. 28.Ma bastisu'preteritisemplici avesti ayè avemmo aveste averono avero. 27.Seguendo le leggi descritte dovea nascere ancora Habuisti Habuit Habuimus Habuistis Habuerunt Habuere I Ayei v.92, li che incominciano ad imparare il latino quel lo scordano, facilmente,o che per disusoin parte esprimono le azioni trapassate col verbo habe re,e col participiopassato latino. va linguagl'Italiani erano Or siccome nelle originidella in rispetto della lingua latina nuo punto chi principia ad apprenderla come ap, o chi per disuso l'ha quasi di   menticata; così l'analogia e la voglia di esprimersi inqualche modo gl'indusseade comporre,edireioavevaamato,io avevaavuto. &c; lasciando in amalus ed habitus gli S finali, e mutando gli U in 0 secondoleleggidelş ireg:2e3, dalle qualiappuntorisultaamalo ed ayuto con i cambiamenti suggeriti appresso dall'uso. 29. Quanto al verbo essere:il più che perfetto latino è fu -eram, fu-eras,fu-erat&c:t alivocisonocompostedi eram,eras,erat,e fuo fuit: quasi dicasi io erafu:tu eri fu &c.Seguendo pertanto l'indole del tempo aveasi ad indicare tal nozione che spontanea si presenta: cioè dovevasi indicare che questo era spettante alfueram; non era indeterminato,e pendente come chiamano i Grammaticil'imperfetto, ma era piuttosto di un tempo definito e certo. E'noto che i Latini appuntocon la voce status, stata, statum upita al giorno o tempo accennavano i giorni e tempi definiti. Cic. Offic.37 status diessit cum hoste:o come Plinio disse stato tempore. Quindiin tempo che la lingua degenerava o si decomponeva si disse io era stato,cioè in tempogiàfisso, giàpassato,e non pendente:tueristalo,cioèintempo fisso et c, egli era stato, &c. La voce stato fu dunque come una giunta o segno di cosa passata, e non altro:ed in seguito si aggiunse a tutti itempi,che lo richiedevano nel verbo essere.I Grammatici han creduto, che stato sia il participio del verbo stare applicato al verbo essere. M a non dee presumersi che la formazione del verbo stare pre ceda quella di essere, che èil primo de’verbi,e verbo per essenza: edaggiungo che sto,stas tra'Latini,da'quali derivava in gran parte la lingua,se non è privo diparticipio, certamente ne somministrava un uso ben raro, come può intendersi, consultando il Forcellini sul verbo sto sta.Per taliriflessièda concepire,cheilverbo esserenon abbia participio se non quello dedotto da stalus, stala et c. usato in principio come segno e non più, di cose precedenti e consumate. 30. E da ciò nacque, che a poco a poco si tentò creare un par ticipio proprio di essere,facendosi essuto,issulo, o suto. Quindi AlBERTAN. Giud.cap.44pag.100 ediz.Fir.1610maggioronoreglisareb be essuto s'egli se ne fosse rimaso. Amm AESTRAM. degli Antic.pag.93 Nella Grecia la Filosofia non sarebbe stata in tanto onore s'ellanon fosse essuta invigorita per contenzione. Collaz. Ab. Isac. pag. 59 E se l'uomo avesseconosciuto lasua infermilate nelprincipio e avessela veduta ; non sarebbe essuto negligente. Questo participio pareva il più naturale: pur si disse anche issuto; ma più di raro: AMMAESTRAM.de gli Antic. pag. 303 la nuora il seguente di che è issuta menata, di. manda &c.Ma più di tutti fu in uso ilparticipio sutopiùanalogo a sono,sei &c,e molti nesonogliesempj in Boccaccio,nelle Croniche diLionardo MORELLI, nelMorgante del Pulci, nell'ARIOSTO, ed in altri: ne allego un solo tratto da' FIORETTI di S. Francesco cap. 38 a.me si è suto rivelato che tu et c. A fronte di tali sforzi non irragionevoli lavocestato, laquale nonera che unsegno,divenneilparticipio legittimo, esclusone ogni altro, 21    Ed eccone gli esempj. Fra JACOP. Poes, Spirit. lib.1satir.i averanno reg.2, 3,7 perchè se nell'habebo si cambiavano i due B in Vrisultava havevo e quindi havevi,haveva &c.come nell'imperfetto:nonvolendosi dun que ritenere il secondo B, fu necessità cambiarlo in altra consonante, e fu questa la R, e se n'ebbe averò, averai, averà et c. in forza delle regole generali citate: mapresto sitolseanchel'Eintermedio,esi fece Ayrd Avremo ayrai  22 Sempre serai in tenebria Ditlamon.lib.icap,25 eris erit erimus eritis erunt avrete ayrà avranno serai sera seremo Serete seranno. LATINO habebis AveròS.Ireg.7 31. Venendo ai futuri dirò prima come derivassero quelli de’ver bi ausiliari. Nel verbo essere è il futuro Ben serai crudo se gli occhi non bagni. FBA Guit, let. 3_pag. 13,e anche sera di molti. Dittamon. 1.2 c.31 L'ITALIANO nelle origini Sero Le cose quivi ne seran più conte. Novell,ANTIC,99 seranno queste le novelle che io porterò. Chileg. gegli Antichi trova questeésimili vocinon infrequenti.Manifesta mente dunque derivano dalle latine con la giunta di un S in prin cipio per uniformarle con sono, sei, siamo et c. Del resto eris,erit, giusta le regole, danno erai, erà,S. 1, e quindi serai, serà. Presso al cuni popoli ancora si ode ladesinenza serimo, serile, che presto fu ridotta in seremo, serețe et c. Al presente si trova cangiato anche il pri mo E,dicendosisarò,sarai.Questo cambiamento è1'usuale,ma non forse il migliore, secondo le regole. Vedi il verbo essere n. 13. Quanto al futuro di avere era il habebit averaiS.Ireg.5,e7 averemo reg.2, 3 habebitis LATINO Ero Habebo habebimus avera S. i reg 6, 7 averete reg. 2,5, 7 habebunt L'ITALIANO   e talvolta a simiglianza delle mutazioni occorse nel presente si tolse anche l'V,esen'ebbe Aremo arai arete arà E stabilita una volta la cadenza de'futuri ne’primi verbiessereed avere inserò, sarò, arò per continuadiscendenza dallatino;qualmeravi. glia che siestendesseposcia ai futuri di ogni verbo, esi dicesse amar),amerò,temerò&c. 32. Può nondimeno assegnarsi altra origine dei nostri futuri, sem-" plice al paro che universale. Nel nascere della lingua si scrisse raggioper amarò,faraggio per farò come leggonel B.Jacop. lib.2c.15, elio faraggio questa convenenza: edice raggio per dirò come lostesso autore scriye lib. 2.c. 25 or m 'udite in cortesia Però crudele, villano, e nemico Sarabbo, amor,sempre ver te se vale &c. In alcuni villaggi d'intorno a Roma si ode anch'oggi la desinenza in ajo, come farajo, amerajo et c. A ben riflettervi tali voci non senoncheamar-aggio, dicer-aggio,far-aggio &c:vuoldire aggioa fare,aggio a dire,aggio adamare:formole intutto del futuro:per chè colui,il quale ha afare, non ha fatto, nè fa, ma riserbasia fare: cioè dichiara l'azione sua come futura. E perché in luogo di aggio si disse ancora ajo; quindi è che si hanno pur le cadenze amerajo, farajo&c.Ma siccome in progresso abbo, aggio, ajo degenerarono nelle più semplici ho, hai, ha, avemo, ayete, e per sincope aemo, aele, han no;cosìda ultimosifeceaver-ho, aver-hai,aver-ha, enelpluraleaver emo, averele, lasciato l'a del dittongo in aemo, ed aete, e finalmente aver-hanno:ed eposto l'hozioso nel mezzo di tali composizioni,sieb be aver-o,aver-ai&c.Ma perchèho, ha,come monosillabe han suono tutto raccolto in esse,e grave come per accento; quindi è che poco a poco simise ancorl'accentonelleprimee terzesingolari,dicendo si averò, averà et c. Pari è la origine di serò, serai, serà et c.voci del futuro del verbo sostantivo, quali usarono da principio per sarò, sarai, sarà et c. Risultavano dall'infinito essere,troncatene le due prime let tereES,come insono, sei &c, tanto che se ne avessesere,equindi  aranno, come si scorge ne'libri degli Antichi: Così Lell. 5 tra quelle del B. GIOVANNI delle Celle: solo tanto l'arò a immutare, e nella letter. XI a Guido, arai Dio teco, e più sotto, dove arai a stare in eterno, e lett. 13, che mai non arannofine. FR. JACOP. lib. 2. cant. 3 pianto harete é dolore: tali yoci si hanno pure ne' GRADI di S. Girolamo nell'Eneida di Annibal Ca'Ro, e nel Cavalca, e comunissimamente nell'Orlando del BERNI. Diceraggiovi via via. FraGuit. ediz.Rom.1745lett,3 lamoremioparteraggio,elett.16 folle acquisto far mi guarderaggio: e tal volta ne'scuri principj della lingua s'incontra la desinenzain abbo,farabbo,amerabbo et c.per il futuro. GUITTON. d'Arez.Son. ame 23 Ard sono   ser-ho, ser-lai, ser-ha, ser-emo, ser-ete, ser-hanno:e finalmente sarò, sa rai,sarà&c.Siapplichi lateoria dichiarata ancheagli altriverbi, ed avremo amar-ò,amar-ai,amar-à,amar-emo,amar-ele,amai-anno, comesidisse originalmente: le Letteredi $.Caterina di Siena ediz. di Aldo son piene di questa desinenza,ed ilVarchi,egregio maestro di lingua, ne fa uso ben grande nelle opere sue.Ora l'A precedente l'R fina. lesicambia inE,non sapreiperqual vezzoirragionevole(vediama re nel futuro del prospetto:) e siè prodotto amer-ò,amer-ai,amer-à, amer-emo &c. Dicasi cid proporzionatamente di temerò,temer-ai,sentir-ò,sentir-ai et c. 33. Si noti, che la terza singolare del presente di avere era have, hae, ha. Spesso inluogodiadoperarehanelcomporre ilfuturo,fu adoperata la voce hae,con dire aver-lae, aver-ae, amer-hae, amer -ae, far-hae,far-ae. Questadesinenzaè frequentissimain alcuniantichi Scrittori. I nostri Grammatici han creduto che l'Ediaverae,farae &c. fosse un aggiunta, per genio della lingua, che non soffriva di termi nareinaccento:ma essa non èchelaE dihave,hae; etantoèlun gichefosseun'aggiunta,che anzidicendosiora averà,amerà,non già si è cessato di aggiungerla,ma si è tolta propriamente laE spet tante all'have,hae.Siapplichi quanto ho detto alla desinenzaameroe per amerò lemeroe,per temerò et c. E'difficile trovar parola italiana terminata in anno,la quale si scorci,eccetto le terze persone hanno, danno, fanno, stanno,vanno, formate tutte a simiglianza di hanno. Quindi le terze plurali avran no, ameranno &c.non si dovrebbero troncare;ma perchèson esseun composto di aver-hanno,amar-hanno;cosi queste voci non han po tuto perdere lo scorciamento particolare di hanno, e degli altri dan no, fanno et c. foggiati a simiglianza di esso, come si vedrà nel trat tare partitamente de'verbi.Anzi aggiungo,che hanno, fanno, slan no &c.intanto si scorciano perchè nelle origini si diceva fano,stano, e così forse hano:voci idonee tutte agli scorci,restando han, fan, dan:e siccome pur queste sirinvengono mozzando hanno,fanno&c, perciò sono ricevute. Chi volesse notomizzare più sottilmente questa materia, potrebbe trovare forse le tracce del futuro del presente nel futuro del congiuntivo. Cosi lasciato da amavero, celavero &c. ilve per simiglianza di quan to si pratico nel fissare la derivazione dei preteriti, si avrebbe ed accentandoli celaro  24 54. Riguardando a tal seconda spiegazione,i nostri futuri non sa rebbero quei de'Latini trasmutati:ma solo deriverebbero quanto ne derivano gl'infiniti de'verbi,ed il presente del verbo ave re, che ne sono gli elementi componenti. dal latino da Ama(ve)ro cela(ve)ro amaro et c. 55. Quanto agl'imperativi ognun vede che l'amato, il timelo, il legito, el'auditode'Latini,altrononèche l'amatu,temitu,leggi Amaro   lu,odi lu degl'Italiani. Le altre voci italiane sono pur le latine tra dotte:ma perchè questesono lestessedei presenti,partedelcongiuntivo, eparte dell'indicativo,overo del futuro dell'indicativo; cosìnon bi sogna se non investigare come que'tempi si diramino dal latino,cioc chè si è fatto, e si farà tuttavia. 36. Eccomi pertanto ad esaminare il congiuntivo de'Latini,dal quale hanno origine tutte le voci del nostro ottativo e congiuntivo. Ames Amet Amemus Ametis Ament Nelle voci amemus, ametis l’E si volge in IA, perchè nel tradurle si riguardanotalivocicomedipendenti dalla seconda singolare conlagiun t a d i a m o o diate, ami amo, ami -a l e. Del resto sebbene l ’ E finale avanti la S dovea mutarsi in I; e la E di amem o di amet dovea secondo leregole conservarsi; pure ne'principj non erano questi limiti abbastanza riconosciuti: e diceasi promiscuamente io ame,tu ame, que gliame:desinenza era questa originale, perchè meno distante dalla latina, taciutene le consonanti in fine, e resta tuttavia tra’ Poeti, spe cialmente per la rima: nondimeno si crede che questa sia termina zione di licenza, e non primitiva e spontanea. Tale è ilprogresso delle cose,c h e dimentichiamo gli usi più naturali, sostituendone altri men proprj,che poscia il tempo caratterizza come legittimi!Vedi amare num. 14. Nelle altre conjugazioni, lasciate o mutate le consonanti finali se condo le regole S. 1, e lasciato l'E, o l'I precedente l’A finale, S. I reg.4,risulta dal LATINO Timeas Timeat Timeamus Timeatis Timeant Tema Temi, e poi tema Tema Temiamo Temiate Creda  d 25 1 Timeam ITALIANO Ame,ed ora ami L'ITALIANO LATINO Amem Credam Temano Credi, e poi creda Creda Crediamo Crediate Credano Credas Credat Credamus Credatis Credant Ami Reg. 4 e 2 Ame,ed ora ami Amiamo Amiate Amino.   E ne verbi ausiliari. Nel qual mutamento l'EdiHabeam et c.èdivenuta per eccezione o dolcez. za un I, ed ilB siè raddoppiato, osservate ancora le regole generali. Quanto alsim, sis, sit, simus, sitis, sint, siccome il verbo essereè di seconda conjugazione, e tutte le seconde conjugazioni anno il presente del congiuntivo terminato in A nel singolare, almeno nella prima e terza persona; quindiè che si fece iosia, tusia,o sii,quegli sia, noi siamo, siate, siano. 37. Ma perchè nelle origini della lingua non era ben decisa la terminazione, con cui chiudere levocidel presente nel congiunti vo, si tento talvolta, o si dubito modificarle in tutte le conjugazioni, come nella prima. E siccome la prima era terminata in io ame ovvero 38. Così pure essendosi terminata la prima conjugazione in I nel presente del congiuntivo,siterminarono talvoltain Ipurlevoci delle altre: e si trova abbi per abbia, giunghi per giunga, vadi per vada &c,in terzapersona: Lett.S. Cat.pag.31. Deh!nonsirendi più il cuor nostro ambiguo,cieco, e negligente.E quindi è che tra'Cin quecentisti generalmente le terze plurali abbiano,temano,leggano fu Abbia  Habeam 26 tu ame Ilabeas Habeat Habeamus Habeatis Habeant Abbi ed abbia Abbia Abbiamo Abbiate Abbiano io ami quegli ame quindi èche si quegli ami; trovano anche i verbi di altreconjugazioni figurati. Così AB. Isac. Collaz. cap.2. cosi con scrive,abbie preziosa operazione: e cap. 12 abbie paura della superbia, ed ALBERTANO Giudice l'uno de Scrittori più antichi assegnato all' anno 1260 in circa, scrive vece diabbia al principio del cap. in 6 tu abbie: e si dice abbie cari tade e fa ciò che tu vuoi, e cap.9 dci render lo beneficio all'amico con usura se puoi:e se no; abbie spesso lo beneficio a te dato memoria: e cosi nel cap. 3 usa in pieper diche per dichi, enel 5 in finesap sappi: e nel cap. 9 sie per sia. Sie largo di dar mangiare Tuoi conti ecari amici,e nel alli cap• 38 de'tuoi beni e dello stato che Dio l'ha dato ţi stie contento.Tali formole parrebbono a chi non guarda alle origini, tutte licenziose, laddove ri naturali,quando erano modi primitivi e la lingua pendeva ancora indecisa circa la desinen za.Ora eccettosie efie,le quali pur vogliono gran parsimonia piùnon siuserebbono talivoci. Vediesserenot.17, avverto che tali voci abbie Del resto io non all'imperativo,sie&c.spettano al congiuntivo come. tu amirono abbino, temino, leggh i n o et c ., che poi l'uso ragionevolmente 27 ha ri pudiate, perchè rimanesse un divario tra le cadenze, onde riconoscer ne le conjugazioni. ec.1491. Are ( avrebbe) quelcolpo gillatigiù mille. E qual sare'colei che nol facessi? In questo esempio il primo sare sta per sarei, e l'altro per sarebbe. Eguali manieresiscontranoancora,ma più rare assai,nell'Orlanda del BERNI:così nel c.5.16  39.  Quanto all'imperfetto amarem,amares,amaret; taciutene le consonanti finali risultava amare, voce non distinta dall'infinito: si aggiunse per cið un I finale, e si fece amerei:e siccome il per fetto dell'indicativo termina in I, dicendosi amai, temei, sentii, e da questa si ebbe per seconda persona amasti, temesli, sentisti; cosi fu con progresso consimile terminata la seconda di questo tempo, dicen dosiameresti, temeresti, sentirestiaggiunto un TI ad amares,timeres, sentires,il quale in origine non era che un lu, e perciò trovasi tal volta ameres-tu, vederes-tu per amaresti, vederesti &c.Cosi PASSAVAN ti nel suoSpecchio di Penitenza pag.107. Avrestuoffeso intaleolal cosa?&c.Laterzaamaret,gittatoilT,divenneamare nuovamente, e per distinguerla si fece amerie,ovvero ameria per essere ne' prin cipii non ben precisa la vocale distintiva da aggiungersi. Quindi in FRA Jacop.lib.4 cantic.30 silegge fariemiconsumare,permifaria consumare;e nellib.5can.27 si ha vorrielo perlo vorria,eDan.Par. 29: 49 usa giungeriesi per sigiungeria. Nel Morgante del Pulci s’in contra un uso speciale, ma certo molto analogo a dimostrare la ori gine di questa persona.Egli più volte in vece di modificare diver samente la voce, o desinenza amare, aggiunge un apostrofe,e scrive amere',sare',potre'perameria,saria,potria.Vedi c.12,13,c.13, 13 e 38. E son qui per provarquelchel'hodetto. 'Amaremus diede ameremo mutatol'us in mo secondo le regole generali: ma perchè ameremo è pur del futuro, si aggiunse un'M, facendosiameremmo:amaretisdiedeamereste,come da amarespro viene ameresti; o come da amasti proviene amaste. amerieno da amerie; ovvero mutato il T di amarent in secondo le regole,siccomerisultaamereno;cosi coll'inserirviun'I,sen'ebbe amerieno. Amerie, ovvero ameria, ecostamerienosonodunque desi nenze originali:e questa è laragione, per cui ne' Prosatori antichi, come ne'Poeti, si trova tante volte la cadenza inieno,amarieno,te merieno,farieno: la quale ora è mutata in iano, ameriano, temeria AO et c.da ameria, cemeria, che prevalse sopra di amerie, temerie E disse sare'io, ch'era pursaggia, Che a cosi degno amante non piacessi, Purchè mai tempo e luogo accaggia; Ancormi dare il cord'uscirne nello, ipo d2   chissimo usate fin da principio.I Poeti,sovrani conoscitoridella dol cezza degl'idiomi, ritengono tuttora, usandola amplissimamente,la terminazione in ia ed iano. I Prosatori l'hanno quasi dismessa: nè io credo che ciò seguisse con piena ragione: giacchè si allontanarono davoci, le quali presentano laoriginelorodallalingualatina che ne era lamadre:e potevano variare con ogni dolcezza il discorso. Inluogo di ameria,ameriano sottentraronole altre amerebbe,ame rebbero, ovvero amerebbono. Queste voci a somiglianza di quelle del futuro sono composte ancor esse, ma dall'infinito e dalle terze del perfetto diavere, amar-ebbe, amar-ebbero,ovvero amar-ebbono.Può no tarsilamarciaincostantedegli uomini:mentre sonostatiesclusi tantiB dagl'imperfetti, e dai futuri,qui ne sono stati riprodotti con usura: la desinenza è divenuta più lunga, e talvolta quasi indistinta, essen dovi alcune terze. Resta a dire qualche cosa intorno la desinenza amassi, temes si&c.laqualeesprimeilpresentedell'ottativo,e l'imperfetto del congiuntivo. E 'manisesto che questo tempo è tratto dalle voci sincopizzate del più ch  perfetto de’ latini nel CONGIUNTIVO, tolto n e il v i come nel perfetto dell'indicativo, e serbate leregole generiche delle vocali finali, lasciato l'M, e mutata l'E in I et c. Amassi Amasse Amassimo Amaste Amasseno.  del perfetto, che somigliano, come crebbe, increbbe, bebbe, ecc. E poco vedo cosa abbia a fare ebbe e debbero, vocidel perfetto, convocidel soggiuntivo, lequalihannodell'imperfet persone to, cioè che resta da fare. Possono osservarsi al verbo amare, dove trattasi della desinenza in ia, ed iano, altre incongruenze. Ma l’uso ha già prevaluto, e chi parla dee parlare conl'uso. Tale appunto sorse la terza plurale: ed ancora n e restano degli esempj Fra Guit.  let.I pag.8 se'reiabitasseno,elett.2ev'entrassenoalcore. PETRAR. son. 154 che andassen sempre lei sola cantando&c.Ma posteriormente di “amasseno” si fa “amassono”, ed ora dicesi “amassero’ co munissimamente. Si noti che la seconda plurale amaste involge una mancanza di lingua: perchè non più vi resta il ssi o sse, caratteristi co di questo tempo, e perché amaste è voce plurale ancora nel perfetto dell'INDICATIVO. Ed è certo un difetto con una voce stessa esprimere tempi, emodi tanto differenti. Forse è natodaciòchetalvolta s'in contra voi avessi per voi aveste, come in Antonio Pucci Centiloquio cant.69 terz.58. Se voi in qua non m'avessi menato. Anzi ho notato che MACCHIAVELLI tanto conoscitore della sua lin Amassi nel suo 28 Ama (vi)ssem Ama (vi)sses Ama (vi)sset Ama (vi)ssemus Ama (vi)ssetis Ama (vi)ssent   Ma primach'iosentissetalruina&c. FRA JACOP.lib.6 c. 18. 28. 42. E siccome questo tempo nell'italiano esprime il presente dell'OTTATIVO, e l'imperfetto del congiuntivo, i quali non E cosìnella Gerus.: "Quel partissi addita azione già fatta.  29 gua, spesso in tal tempo usa la seconda singolare per la plurale con premettervi il pronome.Cosi nell'Arle della guerra ediz. Cosmopoli Far este voi differenza di qual arte voi li scegliessi, e pag.63 iodcsiderereichevoivenissiaqualcheesempio,pag.233.so lovorrei che voimi solvessiquesti dubbj,e 236 vorrei chemi dices si&c.Un tale scriveresidirebbeartifiziosoonegli gente?Glieru diti decideranno se forse era meno male così scrivere. Certo se replichiamo nel singolare io amassi, tu amassi,perchè non farlo nel plurale? Amassetesarebbestata,parmi,lavoce idoneae conseguente:ma sealtri la dicesse ora, sarebbe uno sgraziato, un imperito. Tanta è la prepon deranza degl’abusi, resi venerandi per vecchiezza. L'origine di questo tempo è similissima in tutti gli altri verbi.Così da timuissem è temessi, da legissem è leggessi, da audivissem udissi, &c.e nezliausiliaridafuissemfossi,dahabuissem avessi,mu tato al solito il B in V, e ľ U I in É come in “timuissem”, timui ecc. e tutti soggiacciono all'inconveniente anzidetto.Del resto ne'principj della lingua pendette incerto alcun poco se avesse a farsi amassio amasse di amassem, e così sentissi o sentisse di sensissem. Quindi Fazio nel Dittam. lib. 1 loro discordano, ma PROVIENE DAL LATINO, che era un più che passato. Così le di lui voci medesime scorrono a significare cose passate non senza un pocodi confusione:ma egliè male di origine, esivuol condonare:peress.SEGNERI Predic.358.10Visovviend'altroreo,che mai tollerasse una o più tragica o più tirannica forma di tribunale? E'chiaro che quel collerasse esprime cosa passata:tale è pur quello nelle Vit. De'SS.PP. tom.1pag.83.E allora conosceretechefuil meglio per m e ch' io m i partissi molto fra D'amarli e di servir, quant'io potesse. BARBER ch'io gli mandasse a quello. Giosafat ed io non sarei savio se io tale cosa manifestasse. Novell. ANTIC.37 s'iovolesse dire una mia novella&c.Nel primo tom.delle Delizie degli Erudili Toscani pag. CL.sinotanoaltriesempj disi mili desinenze. E se piaciuto pur fosse là sopra ch'iovi morissi, il meritai coll'opra. Quanto agli altri tempi amaverim, amavero et c. sono decom posti negl'italiani,che io abbia amato, o io avrò amato et c. Sicchè non vi resta presso a poco da osservare, se non quanto si disse in torno di habueram, fueram ecc DIPENDENZA delle conjugazioni italiane dall'infinito, e loro somiglianza generalissima. Conjugare i verbi italiani non èchevariarediversamentel'in finito,secondoimodi,itempi,lepersone,inumeri,come altrove si è detto. Or volendo conoscere queste variazioni e somiglianza loro generale, si avverta. Ogni infinito termina in “-RE”: “amare”, “lemere”, “credere”, “sentire”; e quasi tutte le variazioni succedono appunto in questo RE finale:solamente talvolta subisce de cambiamenti anche la vocale precedenteilRE.Cos)per avere I participj presenti, il “-RE” si muta in “-NTE” nelle prime e seconde conjugazioni: “amante”, “credente” &c.E nelle terze tutto l'IRE, per ess. di sent-ire si muta in ente, sentente; ovveroilREsimuta inENTE;obedi-re,obedi-ente.Per avereil par ticipio passato,aparlar generalmente, basta nella prima e terza con jugazione mutare il “-RE” in “-TO”: “ama-re” > “ama-to”,senti-re,senti-lo.nelle altreconjugazionisicambiatuttol'EREinUTO lem-ere,tem-ulo, cred-ere, cred-uto. 2. Quanto ai tempi per avere il presente singolare si lascia il RE dell'infinito, e lavocale precedente il “-RE” simuta in “-O” per le prime persone, e dove bisogna in Iperleseconde;ma perle ter ze persone, tolto ilRE, I'lsicambiainE nelleterzeconiugazioni: nelle altre non bisogna variazione ulteriore. Ama-re teme-re Crede-re a m a teme crede senti ne’plurali il “-RE” dell'infinito si muta in “-MO”, “-TE”, e “-NO”, per le prime seconde,e terze persone. Ama-mo Teme-mo Crede-mo ama-te teme-te crede-te senti-te a m a -n o teme-no crede-no Senti-mo  30 E cosi trovansi presso gli Antichi terminate le prime e terze plurali. E per dare qui un qual ch'esempio su le terze plurali, CASTIGLIONE nel suo perfetto cortigiano usa commoveno, rivesteno, discerneno, occorreno, cadeno, moveno, serveno, ed altre moltissime. Nell’archisihagiaceno, soggiaceno,ed altre. Ma ora l'uso porta che anche le vocali precedenti il “-RE” hanno subito de'cambiamenti, dicendosi tutte le prime persone amiamo, temiamo, crediamo, sentiamo:enelleultimedue conjugazioni terminandosi le terze persone plurali in ono, temono, cre sente -n o 1 S. III. 1. amo temo credo sento ami temi credi Senti-re sente. Quanto ai verbi della terza conjugazione, ne’’ qualivi è la doppia cadenzacome abborroeabborrisco (vediquestoverboinfine della prima parte ) sappiasi che la cadenza in isco esce di regola nei pre senti dell'indicativo, imperativo,e congiuntivo. Tutto il divario è che in questi presenti le persone, prima, seconda, e terza singolare, si formano come prima secondo le regole, e che poi alla vocale fi nale si antepone la sillaba ISC in ognuna di queste solamente, on de si abbia: la terza plurale si trae dalla prima così mutata, aggiuntole il “-N O”, segno della pluralità ne'verbi. “Abborrisco-no.” Ossia all'infinito abborri re, tolto il R E si congiunge sco, sci, sce, scono, abborri-sco, abbor ri-sci, abborri-sce,abborri-scono. 4. Il Re dell'infinito si muta in VA VI VA pel singolare a m a -re teme-re crede-re senti-re ama-va teme-va crede-va sentiva Ne plurali alla prima, o terza di ciascun singolare si aggiungono le distintive dette di sopra MO,TE,NO. amaya-mo temeva-mo sentiva-mo amava -te temeva-te credeva-te credeva-no sentiva.no Perfetti dell'indicativo per la terza persona l'ultimo “A” di “amasi” muta in “-O” accentato. Nelle altre conjugazioni si accentuano la E o l'I; masiaggiunge MMO  31 dono,sentono &c, come se aggiungasi ilNO alle prime persone, temo, temono,credo,credono,sento,sentono,laddove essendole terze plurali un multiplo di terza e non di prima persona singolare, non dove asiaggiungere il NO, segnodipluralità,senonallaterza sin golare, come dicesi ama, amano, e non amono. amava-no temeya -no STE 1) sentiva -te ama-vi ama -va t e m e -vi teme-ya “senti-va” credevi sentivi Imperfetti dell'Indicativo 2 ) personeplurali, RONO 3 crede-va credeva -m o abborr (isco abborr(isc)i abborr(isc)e 5.ToltoilRe dell'infinitosiaggiungeIperlaprima,eSTIper laseconda persona: per le   senti-sti senti ama-mmo teme-mmo crede-mmo senti. mmo amo teme crede ama-ste teme.ste crede-ste a m a -rono teme-rono 6.Ma nelle seconde conjugazioni,come in temere e credere, ol tre la legge universale,il RE dell'infinito spesso si muta per le pri m e in singolari in T T I; per le terze singolari in T T E, e per le terze plurali in TTERO ovvero in TTONO dicendosi Temei temetti Credei credetti Temė Futuri dell'Indicativo 7. Il solo E finale dell'infinito si muta, o cresce in O accentato 1 ) A I nelle amar-o temer-6 sentire amar-ete creder-emo sentir-emo Presenti dell'Ottativo IIRE si muta in “senti-ste” crede-rono senti-rono creder-o  33 ama-re tem e re cred e -r e ama-sti teme-sti crede-sti amar-emo temer-emo temer-ete creder -ete sentir-ete amar-anno temer-anno I SSI SSI SSIMO SSE. STE SSERO SSONO sentir-à senti i amar-ai temer-ai creder-ai sentir-ó amar-a temer-à creder-à sentir-ai ama-i teme-i crede-i amar-e temer-e creder-e Credé Temerono temettero temettono Crederono credettero credettono 2 ) del singolare A accentato 3 EMO ETE nelle2) delplur. ANNO 3) temette credette Si noti che ora si volge in E anche l'ultimo A di amare, almeno dagli Scrittori, non senza equivoco. Vedi amare nel prospetto not. 9. crederanno sentiranno sentire ama-re teme-re crede-re a m a -sse teme-sse crede-sse crede-ssimo ama-ste teme-ste senti-ssi serti-ssimocic. BBERO solamente nella prima conjugazione si è preso il COSTUME – forse NON RAGIONEVOLE – di cambiare 1A precedenteilRE dell'infinitoinE. sentire sentire-i credere-sti credere -bbe credere-mmo sentire-mmo credere-ste sentire -ste credere-bbero sentire-bbero credere-bbono sentire-bbono Si noti che le aggiunte che qui si fanno per le due prime per sone singolari eplurali sonole stesse dei perfettie che quelle che si fanno per le terze sono, direi, le terze del perfetto di avere, ebbe, ebbero,ciocchè facilita di molto la formazione di questo tempo, presente del congiuntivo AMO ATE credere credere -i sentire-sti sentire-bbe  ama-ssi a m a -ssi teme-ssi teme-ssi crede-ssi crede-ssi senti-re senti-ssi ama-ssimo teme-ssimo Amare Io ami Imperfetto dell'Ottativo Conjugazione 1." Si toglie il RE dell'infinito, e la vocale precedente il “-RE” si muta in I, e nel plurale si aggiunge 3 1 sentisse credeste, amassero amassono temessero temessono credessero credessono 33 I alla 1) S T I 2 ) del singolare BBE 3) MMO I) STE 2)delplurale amare amere-i amere-sti amere-bbe amere-m m o “amere-ste” amere-bbero amere -bbono 9. L'infinito resta immutabile e si aggiungono Tu ami Colui ami Ami-amo Ami-ate Ami-no temere temere -i temere-sti temere -bbe temere-m m o temere-ste temere -bbero temerebbono NO 2 person.  La vocale precedente il -re dell'infinito si muta in “a” in tutto il singolare, e nella terza plurale. Il resto è come nella prima :anzilla seconda singolare può terminare come nella prima conjugazione; i che sarà considerato ne verbi rispettivi. Credere Creda Creda o Credi Creda Crediamo Crediate Credano. Queste sono le variazioni. Gl’altri tempi composti risultano da alcuno de' tempi già esposti, presi da'verbi essere ed avere, e dal participio passato del verbo particolare, il quale si usa; e però non occorrono nuovi cambiamenti nell'infinito. Quindi si dovranno cercare nel prospetto. Intanto si potranno raccogliere alcune regole, e sono: Tutte le prime persone singolari dell'indicativo eccetto il perfetto e l'imperfetto finiscono in 0. Tutte le seconde in I in ogni tempo. Tutte le prime plurali in ogni tempo e modo in “-mo”, e le seconde in “-te”, e le terzein “-no” o “-ro” in alcuni tempi. Ma in tutte le prime plurali dei presenti di ogni modo, degl'imperfetti, e futuri dell'indicativola Mè semplice: amiamo, amassimo, amavamo, ameremo, temiamo, temessimo, temevamo, temeremo, &c. Ma ne'perfetti dell'indicativo e negl'imperfetti dell'ottativo la “m” è doppia: “amammo”, ameremmo, temeremmo, crederemmo, &c., e cosi le seconde plurali in que stid u e tempi ed anche nel presente dell'ottativo anno la “s” avanti ilTe finale dicendo siamásle amereste &c.!,le altre anno il semplice “-te.” Parimente, questi tre tempi possono finire in “-no” ed in “-ro” nelle terze plurali: amaro, amarono, amerebbero amerebbono, amas, amaranno, amarino. Gli. BIBLIOTECALVCCHESI -PALLIBIBLIOTECA LUCCHESI • PALLI III. SALA Scaffale. Pluteo. N. CATENA. h Digitized by Google Digitized by Gopgle COLLANA DEGLI ANTICHI STORICI GRECI VOLGARIZZATI. Digitized by Google Digitized by Google Dìgitized by Google Digit zec! ov \Vo3^ LE ANTICHITÀ ROMANE I DI DIONIGI D’ALIGARNASSO VOLGARIZZATE DALL’ AB. MARCO MASTROFINI già’ frofessore di matematica e di filosofia NEL SEMINARIO DI FRASCATI MtmOKX KOrJMMKTt USCOKTIUTÀ COI TM3T0 BAh TKÀBVTTOBt TOMO PRIMO MILANO DALLA TIPOGRAFIA De’ FRATELLI SONZOCMO M. Dionigi di Alessandro fu d’Alicarnasso, reggia un tempo della Caria, della quale pur furono Eraclito il poeta ed Erodoto di gr^ca istoria padre come Petrarca lo intitola nel terzo de' capitoli sul trionfo della Fama. E difficile determinare V anno, non che il giorno della sua nascita. Fozio nella sua Biblioteca (cod. ^4) dice che egli precedette Dione Cassio, ed Appiano Alessandrino, espositori aneli essi di Storie Romane. Errico Dodwello che meditò gravemente quelt argomento non seppe ristringersi ad altra particolarità, se non a questa, che Dionigi debbo essere nato fra t anno (i"G e ^oo di Roma calcolali alla maniera di V airone. DIOyiGI, toma ^ ‘, X / 2 I(. Dionigi sentiva in sè la nobiltà del cor suo] c si mosse verso la capitale del mondo, e venne a Roma nelt anno F^arroniano ja5, cioè finita la guerra interna di Augusto contro di Antonio ; domd è che egli non vi giunse prima dell' anno suo venticinquesimo. Fi si trattenne 22 anni: vi compose le opere critiche, e vi apprese intanto diligentemente C idioma del popolo vincitore su la mira di leggerne gli antichi monumenti nazionali, e di scriverne infine con greco stile una stona per uso de’ Greci suoi che troppo la ignoravano. Egli riusci nell intento, e la scrisse, e la divulgò nell anno Fcu roniano y47 sotto il nome di Antichità Romane come l ebreo Giuseppe Jion molto dipoi, forse ad imitazione di lui, e certo con più proprietà, pubblicò sotto il titolo di Antichità Giudaiche la storia del popolo ebreo, la quale era insieme la storia della origine stessa del mondo. III. Par che Dionigi delineasse la storia col disegno stesso con cui Firgilio cantava la Eneida: vuol dire l uno e l altro spargevano fiori appiè de’ trionfatori non senza il lusinghevole desiderio di guadagnarne la grazia : non leggera conquista per uomini inermi, autorevoli solo per sillabe, per parole, e per periodi ! 'Dionigi fece sapere a’ suoi che il popolo del Campidoglio non era poi barbaro ; anzi che era pur esso greco di origine, e che assai conosceva leggi e costumi ; e ciò perchè riuscisse il comando romano, se non pregevole, certo men duro nella Grecia d’ Asia e di Europa, paesi che una volta orati patria e tempio di fortezza e di libertà. Egli distese il suo scrino in venti liLri ; ma non sopravanzano che i primi dieci e parte dell’ undecimo; tutto il resto perì per la ingiuria de' tempi. Per quanto ci racconta Fozio  che aveala letta per intero, scorre ane la narrazione dagli Aborigeni e dalla venuta di Enea nella Italia fino alla guerra de’ liomani con Pirro, monarca degli Epiroti ; perchè ivi appunto comincia la storia Romana deli altro greco scriuor precedente, Polibio da Megalopoli. Quest ordine di storie si consideri diligentemente ; perchè da indi apparisce che Dionigi dee precedere c non seguire Polibio, come parve al primo che dispose la Collana Greca, e come trovo fatto pur questa volta irreparabilmente su Cantico disegno. Siccome un estero per la novità che v incontra, può notare ì. costumi varj de' popoli meglio che il nazionale che cresce e invecchia con essi ; così questi due Greci conversando co’ Romani seppero distinguervi e descriver più cose che i Romani stessi non han descritto e trasmesso con la successione de’ tempi ai tardi nipoti. Or ciò dovea tanto più seguitarne quanto che scrivean quelli pel greco il quale non avrebbe gustata nè intesa la loro narrazione se non esponevano minatamente le cose notissime tra Romani. E quindi è che Polibio delincò su la milizia romana quello che non si legge in niuno de’ romani scrittori medesimi: e Dionigi toccò tante picciole circostanze che meglio dichiarano le ori-,gmi, il complesso, ed il termine degli eventi: cioc Bihiiotre. cod. 8f>. ( 1 ) Ediz. romana di Vinccoio Pojryiuli delT anno che ne ha rendalo, e ne renderà sempre, preziosissimo quanto sopravanza delle storie di lui. V. Livio rimpelto a Dionigi è come il compendio rimpello all' opera estesa ; tanto che il primo raccoglie in tre libri ciocché l’altro dilata in undici. Nè io saprei dolermi su tanta espansione quando le cose vi fossero state moltiplicale in proporzione. Ma per dirne ciocché io ne penso, e dare intanto il paragone degli autori fin qui da me volgarizzati che sono Sallustio, Quinto Curzio, Lucio Floro, e Dionigi ; mi è sempre parato che in Sallustio non capano i sentimenti dentro le parole, che in Curzio si pareggino compiutamente gli uni alle altre, che in Floro le parole superino alquanto i sentimenti, e che in Dionigi fincdmente( siami cosi lecito di esprimermi) le sentenze galleggino affatto tra le parole. Sallustio é come il fior vivo, che di sé promette gran cose, ma stretto in parte ancora dalla sua buccia : Curzio è il fior copioso, odoralo, aperto graziosamente al sole che 10 vagheggia ; Floro è il fior vago, ma tutto spampanato con molte le f rendette e poco t odore; e Dionigi finalmente è il fiore delle ampie e libere frondi 11 quale sot^ di sé nasconde il picciolo guscio che ravvolgevalo, e par sorgere pomposo e vario tra le aure che lo investono, ma troppo, se lo stringi, è minore delle belle apparenze. Dionigi era un greco dell jfsia, e fa sentire in sé la prolissità propria di quella vastissima parte del globo. Le parlate in lui sono lunghissime, e per ordinario non ripetono se non ciò che presentano le storiche narrazioni ; laddoue in,Tilo Livio sono lampi e folgori, sentenze e risultati. V ultimo lascia a pensare, il primo li lascia senza pensieri prima che finisca di parlare ; nelV uno senti il capitano ed il console, nell altro lo storico d il declamatore : quegli è pieno di entusiasmo e di fuoco su gt interessi della sua nazione, /’ altro vi si spazia sopra come il panegirista che loda non per affetto, ma in vista di ricompense, o per moda. Forse tanta loquacità non piacque nemmeno tra' suoi nazionali; e Dionigi voglioso di essere letto, s’indusse a ristringere in un compendio di cinque libri quanto avea steso in venti. Fozio nella sua Biblioteca [cod. ^4) parla eziandio di un tale compendio ; e lo dice più utile per questo, che non contiene se non le cose necessarie alla storia. Egli paragona Dionigi in quel nuovo scritto ad un re che giudica e tiene intanto in mano lo scettro; e sentenzia ma con la precisione e col tuono di chi comanda. Vr. Quanto allo stile i giudizj ne sono difformi : vi è chi lo chiama scrittor soave, scrittore elegante ; e non vi è dubbio che e"li abbia de' bei tratti, dei pellegrini concetti, e gravissimi documenti. Nondimeno vi è chi dice risolutamente che Dionigi rimpetlo a Senofonte è come il duro e licenzioso jépulejo rimpclto alle maniere delicate e spontanee di Livio. Dionigi fa pur troppo conoscervi che egli non era nativo deir Attica. Fra le sue formole ne occorrono alcune  La prcsealc versione fu stampala in Roma l’anno i8ia. Dopo quest’ anno il Compendio fu creduto rilrovato in Milano. Se ne patterà nel tomo quarlo là dove sono i fiammcnli. Digitized by Google G nuove, Ialine (T indole, o certo non abbastanza monde da solecismo ; tantoché vi si violano le regole pròposte da esso medesimo nelle opere sue critiche per gli storici e per gli oratori. Ad ogni modo Dionigi é come la miniera ampia di oro, e come V archivio ricco di monumenti preziosi in mezzo di altri che sono anzi un ingombro ; dond è che un tale scrittore, come ho toccato dianzi, sarà caro finché saran care le storie. Ora diciamo qualche cosa delle versioni del nostro Autore. VII. Lapo lìira^o fiorentino il primo diede una versione latina di Dionigi. Questa fu pubblicata la prima volta in Trevigi Hanno i48o, e poi di nuovo in Basilea nel i53a. Il Glareano ebbe cura di tal seconda edizione e la purificò da sei mila errori coni egli dice. Boberto Stefano vedendo pubblicato Dionigi nella lingua non sua, trasse il greco originalo dalla Biblioteca dei re di Francia, e lo mise in luce l’anno ì5^(i. Il Gelenio divulgò colle stampe in Basilea [ anno iS/fg una nuova versione latina de’ dieci primi libri. Silburgio rettificò con critica squisitezza le tante lezioni non sane che ci aveano nel greco dello Stefano, e nel latino del Gelenio, e congiunse i due testi e li stampò V anno i586 in Francfort. In questa edizione vi é la traduzione dell’ undecimo libro fattu da Silburgio medesimo, li frammenti ricorielti delle Legazioni già pubblicale da Fulvio Ursino, ed un libro di annotazioni in fine. Mentre apparecchiavasi o compivasi da Silburgio questa edizione ; Emilio Porto diede su t originale dello Stefano una nuova Dìgilized by Googlc 7 traduzione latina delle antichità con amplissime annotazioni, imprimendo anche il libro delle legazioni con la trina interpretazione dì Stefano, di Sitburgio e di Porto. JSel 1704 si ebbe la vaghissima edizione fatta in Oxford la quale comprende il testo greco di Dionigi colla versione di Porto, emendata dove nera il bisogno, e le legazioni secondo la impressione fattane da falesie riunite a quelle già pubblicate da Ursino. Si cominciò finalmente nel 1774 ^ ^i compiè nel 1777 lO' edizione riputata la più corretta di Lipsia colle note varie di Errico Stefano, di Silburgio, di Porto, di Casaubono, di Fulvio Ursino, e di Giangiacomo Peiscke. Vili. Francesco Venturi fiorentino ci diede nel 1545 colle stampe venete la prima versione italiana delle sole antichità di Dionigi. In quell'epoca il testo greco non era nè stampato nè rettificato, e quindi avendo egli lavorato su di ^un manoscritto, frequentissime sono le aberrazioni dcd vero senso. Aggiungasi che lo stile è contorto, implicato, nè sempre regolare: in somma risente tutte le imperfezioni del primo traduttore latino Lapo Birago : nè questi potè sempre capire il senso del testo, ma dove ciò non potè fu contento di volgarizzare le parole greche, appunto come significavano, una per una. Il signor Desiderj nel continuare in Roma V anno 1 794 la edizion sua della Collana Greca ideava, parmi, riprodurre la versione stessa del Venturi; ed il primo periodo di questa è del V snturi in gran parte ; ma fatto accorto che grande ne era la oscurità, e poca la naturalezza. \ .Dìgitized by Google 8 continuò a pubblicare non il resto del Venturi, ma una traduzione di traduzione; t'uol dire, diede alla Italia un Dionigi tradotto, forse non sempre adeguatamente, e certo non sempre con purità di stile, sopra la traduzione francese, e non sid greco originale. Al primo leggere il Dionigi del Desiderj mi parve ravvisarvi una fisionomia anzi francese che greca. Adunque paragonai la versione framese del padre Francesco la Jai Gesuita con la produzione del Desiderj a luogo a luogo, e fui convinto che era ciò veramente che io sospettava. Questa immagine éT immagine, questa eco di eco che scolora le fattezze, e deprime sempre più la energia dell originale, questa stampa non greca, non francese, e forse non italiana, non dee numerarsi tra le versioni, degna almeno di un tal nome ; tanto più che quella versione frarucese essa stessa non lascia gustare la vena ampia, continua, maestosa del greco originale, ma presenta la inquietudine, lo scintillamento, e come la spezi satura consueta delle parli. IX. Che io sappia niun altro ha poi volgarizzalo tra noi Dionigi. La mia versione è diretta su la edizione di quest' autore intrapresa in Lipsia nel i Chi vuol ragione di ciascuna delle mie interpretazioni dee consultare il testo greco, la versione latina, le note in piè di pagina, ed in fine de’ tomi. Spesso a fissare i sensi ho consideralo anche la versione francese, supplitami dalla Biblioteca del Collegio Romano nella nuova mia dolcissima dimora in quel luogo nell’ anno 1 8 1 1, la quale mi concedè calma profondissima da compiervi quasi per intero la traduzione che ora presento. Sarebbemi piaciuto ugualmente di consultale la traduzione inglese di Eduard Spelman impressa in Londra t anno 1759; ma per quanto la ricercassi tra le Biblioteche, tra i libraj e tra gli amatori di libri, non mi venne fatto di rinvenirla in Roma. Aveva io già presso che terminato questo mio travaglio quando mi ju significalo che in Francia si pubblica una nuova versione di Dionigi: ho il piacere che l'Italia he veda contemporaneamente un altra sua, lavorata quasi tutta in Roma, ove lo storico di Ali-, carnasso stendevano già t originale. Roma i8ia. 1 1 I. UANTU^QUE alieno io ne sia, pur sono astretlo ad una prefazione, com’ usa nelle storie, e sopra di mfe ; non già per diffondermi nelle lodi mie proprie, che so quanto, udite, dispiacciano, o nelle accuse di altri scrittori, come fecero Teopompo ed Anassilao gli storici, ne’ prologhi loro ; ma solo per dichiarare le cagioni per le quali mi diedi a .quest’opera, e per dire de’ mezzi, onde io seppi ciocché son per iscrivere. E certamente chi risolve lasciare a’ posteri monumenti d’ ingegno, i quali, come i corpi, non vengano meno per anni, e molto più chi scrive le istorie, nelle quali, tutti concepiamo che siavi la verità, principio del sapere e della prudenza ; costui dee per mio sentimento, scegliere argomenti vaghi e magnifici, come bene fruttuosi a chi legge ; e poi dee preparare le materie opportune al subjelto con assai previdenza e lavoro. Imperocché chi ponesi a trattare di cose vili, abominate, indegne delle cure di una storia, sia che brami rendersi chiaro, ed acquistare comunque una fama, sia che voglia manifestare la idoneità sua nell’ arte del dire, non sarà mai da’ posteri né invidiato per la fama sua, né per 1’ arte encomialo ; lasciando a chi leggelo da sospettare che egli amasse nel vivere le maniere appunto che descrisse ; per essere gli scritti la immagine de’ cuori, come da tutti si giudica. Colui ^ poi che ottimo sceglie l’argomento; ma ne scrive scioperatamente, e come per caso, seguendo i ronoorl del volgo, nemmen’ esso ne ottiene lode niuna ; imperocché si spregiano, se negligenti sleno e confuse le storie delle città famose e de’ principi. Or pensando Io per uno storico esser questi I canoni sommi ed inviolabili, ed avendone tenuto cura gelosa ; non volli nè trasandare il discorso su di essi, nè compartirlo altrove, che nel proemio. II. £ che io scelsi argomento, bello, grandioso, uti-' lissimo; non bisognano, credo, molte parole a convincerne chi non affatto Ignora la storia comune. Imperocché se alcuno recando 41 pensiero su’ governi antichissimi delle città e delle genti e contemplandoli, parte a parte, o nel paragone dell’ uno coll’ altro, voglia saperne qual di esse fondasse principato più grande, o che più splendesse per azioni belle, in guerra ed in pace; vedrà che la signoria di Roma sorpassò di gran lunga quante prima di lei se ne additano, non solo jper grandezza d’impero e per luce d’imprese, cui niuno mai lodò' quanto basta, ma per la durazione ancora del tempo che abbraccia, 6no al presente. Fu pur antica la signoria degli Assirj, e ne chiama fino ai secoli favolosi ; ma non comandò che su picciola parte dell’Asia. Abbattè la monarchia de’ Medi quella degli Assiri, e crebbe a potenza maggiore sì, non però molto diuturna, cadendo alla quarta successione. I Persiani fiacca t ono il Medo, e dominarono infine quasi per tutto nel r Asia ; ben si gettarono poi su gli Europei, ma noti molto vi profittarono, e tennero poco più che dugent’ anqi II comando. Il Macedone, vinti li Persiani, superò colla sua tutte le dominazioni che precederono : Don però fiorì lungo tempo, comiuciaiido a declinare alla morte appunto di Alessandro : imperocché smembrato da’ successori il potere in molti principi, sostennesi la monarchia fino alla terza o quarta generazione ; ma resa debole per sé stessa, fu distrutta finalmente dai Romani : nou tenne poi mai servi tutti i mari e le ter re : che non vinse in Africa se non l’ Egitto, il quale non è vasto, nè sottomise tutta l’Europa ; ma nel settentrione di questa si estese alla Tracia, e nell’ occaso fino all’ Adriatico. III. Pertanto i più famosi degl’ imperj che precederono, giunti, come sappiam dalla storia, a tanta forza e grandezza, rovinarono. Con essi non sono poi da paragonare le Greche potenze le quali nè spiegarono mai si ampia la signoria, nè lo splendore si diuturno. Gii Ateniesi quando più poterono in mare, ne dominarono per anni sessantotto la spiaggia, e non tutta, ma quella solamente tra l’ Eusino ed il mar di Pamfilìa. E gli Spartani impadronitisi del Peloponneso e del resto della Grecia stesero fino alla Macedonia le leggi; ma non prevalsero che per quarant’ anni  nemmeno interi, e trovarono ne’Tebani chi li depresse. Ma la Repubblica romana signoreggia tutta la terra, non già la  testa uri o?ici in TpmiccfTx: cioè nemmeuo iuteri treot’aimi. Isacco Casaubono vi saslilui rinrxfxi'oyTX cioè quaranta. Pur questa emenda fu tolta, nè so perchè : concedendosi comunemente che gli Spartani dopo vinti gli .Ateniesi al fìuinc Egio furono gli arbitri più che 33 anni. Ciò stando non può dirsi nel testo m-mmeno interi treni’ anni, ma usando un numero rotondo, dovremo leggere quaranta come il Casaubono. l4 PROEMIO, deserta, ma quanta ne è 1’ abitata : signoreggia tutto il mare non solo  nai mente Oenotro diciassette generazioni avanti che a Troja si combattesse. E questa è l’epoca nella quale mandarono i Greci nella Italia una colonia. Oenotro poi si levò di Grecia ; perché non pago della sua parte : giacché nati essendo a Licaone ventidue figli; aveasi l’Ai^ cidia a dividere in altrettanti. Per tale cagione lasciando OcDOiro il Peloponneso, passò con fiotta gié preparata il mar Ionio, e passavalo teco Peucezio l’uno de' fratelli di lui. Navigavano con essi molti della sua gente, po^ pelosissima, come si dice, nelle origini ; e quanti altri de’ Greci non aveano terreno ^he loro bastasse. Peucezio pigliò sede in sul promontorio Japigio, appunto ove prima sbarcò nella Italia, cacciando chi v’ era, e da lui furono Pcucezj chiamati quanti abitarono que’ luoghi. Oenotro guidando seco il più dell’ esercito, venne ad altro seno più occidentale d’Italia, Ausonio allora chiamato dagli Ausonj, che la spiaggia nc popolavano. Ma quando i Tirreni diventarono i padroni de' mari prese il nome che tien di presente. IV. E trovando la regione bonissima da pascolarvi o da ararvi, ma deserta in moltissimi tratti, anzi con poco popolo ov’ era abitata j dìé la caccia a’ barbari in tina parte della medesima, e fondò citt.ì non grandi si, ma frequenti in sui mouli ; com’era stile antichissi> mo, di situarsi. Così tutta la regione fu detta Oenotria, essendone amplissimo lo spazio occupalo ; ed Oeuotr) pure si dissero gli uomini tutti a’quali comandava, mutando nome per la terza volta ; mentre Ezei si chiamavano dominandoli Ezeo, e poi subito Licaonj quando al governo succedè Ligaone. Menati però nella Italia da Oenotro, Oenotrj si nominarono per un tempo : nel che Sofocle il tragico mi è testimonio net suo TriptoIcmo : perciocché vi s’ inU'oduce la madre degli Dei che dimostra a Triptolcmo quanto spazio debba trascorrere per seminare i semi eh’ ella dati gli aveva. Or ella, mentovato prima l’ oriente d’Italia dal promontorio J.ipigio 6uo allo stretto Siciliano, e poscia additata la Sicilia che sta dirimpetto; volgasi tosto alla Italia occidentale, e numera i popoli più grandi della spiaggia, cominciando dagli Oenotrj: ma bastino le sole cose da lei dette ne’ jambj, percl)è dice : Questo é do tergo ; a destra siegue tutto La Oenotrìa, il mar Tirreno, e la Liguria. Antioco di Siracusa, scrittore antichissimo, annoverando i primi ad abitare la Italia e le parli occupale da ognuno, afferma che gli Oenotri in questo precederono ogni altro di cui s’abbia ricordo, dicendo: jéntioco il figliuolo di Zenofanle compilò su la Italia queste cose, le più credibili e più manifeste ira vecchi monumenti', la terra che ora Italia dimandasi la ebbero antkhism simamente gli Oenotri : poi discorre in qual modo la governassero, e come Italo un tempo divenisse re loro. 35 cd Itali ue fossero oomioati : e poi Morgili per essere a Morgite venato quel principato. E siccome stando Sicolo per ospite presso Morgite, e tentando appropriarsene la signoria, ne divise le genti ; conclude : cosi gli Oenotri divennero e Sicoli e Morgiti ed Italiani. V. Ora dichiareremo quanta fosse la gente degli Oenotri allegando per testimonio nn altro vecchissimo autore, io dico Ferecide, non secondo a niuno degK Ateniesi che trattasse delie genealogie. Egli fa su quelli che dominaron 1’ Arcadia questo discorso: nacque Licaoue da Pelasgo e Dejanira e sposò Cillene, una ninfa dell Najadi dalla quale ebbe nome il monte Cillene: poi divisando i generati da questi e quai luoghi ciascuno abitasse, fa menzione di Oenotro, e di Peucezio dicendo : Oenotro, donde Oenolrj son detti gli abitatori Italia ; e Peucezio onde sono i Peucezj lungo il golfo Ionio. Tali sono le cose dette da’ vècchj poeti e mitologi sul popolarsi d’Italia, e su la origine degli Oenotri. In forza di che, se greca veramente è la stirpe degli Aborigeni, come disse Catone, e Sempronio e molti altri ; io penso che provenisse da questi Oenotrj : perocché trovo e Pelasgbi e Cretesi, e quanti altri abitaron l’ Italia, venuti in tempi di poi : nè so vedere spedizione più antica di questa, che si recasse dalla Qrecia alle parti occidentali di Europa. Giudico poi che gli Oenotri occupassero molti luoghi d’Italia, o deserti, o poco popolati, e parte smembrati ancora dalle terre degli Umbri, e che Aborigeni si chiamassero per le abitazioni, come gli antichi le amavano, prese ne’ monti: cosi pur v’ ebbero in Atene que’ della spiaggia e dd monti. Che ie alcuni per indole non ricevono di subito senza prove quanto si afferma su cose antiche, nemmen subito decidano esser questi, o Liguri ovvero Umbri, o tali altri de’ barbari : ma sospendendo finché apprendano le cose che restano, giudichino poi da tutte qual ne sia la più verìsimile. VI. Delie città che furono degli Aborigeni, poche ora ne sopravanzano : perocché premute la maggior parte dalle guerre, o da altri mali che straziano, finirono in solitudini. E secoudo che Terrenzio Varrone scrisse nelle anlichilà, ve ne erano nell’ agro Reatino non lungi dagli Appennini ; e le meno disgiunte da Roma, ne disiavano per lo viaggio di un giorno. Di esse io ridirò le più celebri secondo la storia di lui. Palazio è l’ una, lontana venticinque stadj da Rieti, cittade abitata da’ Romani fino a miei giorni, presso la strada Quinzia. Siede Trebula a sessanta stadj pur da Rieti, su dolce collina : e da Trebula con pari intervallo disgiungesi Vesbola dicontro a’ monti CerauBj: laddove quaranta stadj ne è lungi Soana, città famosa con antichissimo tempio di Marte. Discostavasi Mifula da Soana per trenta stadj, e se ne additano ancora le ror vine, e le vestigia de’ muri. A quaranta stadj da Mifula elevavasi Orvinio, città, quanto altra mai, chiara e grande in que’ luoghi : e segno ancora ne sono i fondamenti delle mura di lei come le tombe di antica struttura, e li recinti pe’ cimiterj comuni su’ monti altissimi : e là pure vedessi nella sommità di lei 1’ antico tempio di Minerva : lungi dieci miglia da Rieti, procedendo per la strada Giulia, là presso il monte Corito v’ era Cararbari, e soprattutto ai Sicoli, loro conGnanti. E sa le prime pochi bravi, quasi giovani sacri mandati da genitori in traccia de’ bisogni della vita, nscirono seguendo un primitivo costume, che pur vedo seguito da molti de’ Barbari e de’ Greci. Imperocché quante volte le città moltiplicavano tanto in popolo che non più bastassero ad esse i proprj viveri ; quante volte fa terra danneggiata dalle mutazioni del cielo rendea meno dell’usato; e quante volte altro caso non dissimile buono o rio le necessitava a minorarsi di gente ; consacrando allora agl’ Idd^ d’anno in anno una serie di discendeuti Digitized by Google libro I. 2g gii armavano, e li congedavano. E con fausti augurii gli accompagnavano se giusta le patrie leggi sacrificando, rendevano grazie ai cieli per la generazione copiosa, o per le vittorie tra Tarmi : laddove se pregavano i Numi irati a rimovere da loro i mali che tolleravano ; li dimettevano pure slmilmente, ma rattristandosi, e chiedendo die loro si perdonasse. E quei sen partivano quasi non più avendo una patria, se pure altra non sen facevano che li raccogliesse o per amicizia, o combattendo, e vincendo ; ed il Nume al quale i congedati eran sacri parca per lo più cooperare con essi, ed alzarne sopra la espettazione le colonie. Su tale consuetudine gli Aborigeni, floridi allora in popolazione, e schivi, perchè noi credeano il meno de mali, di uccidete alcuno de’ posteri, consacravano agl’ Iddii d’ anno io anno le generazioni, e via via dimetteano gli allievi, già grandi fatti, dalla patria. Uscitine questi non desisterono di far contro i Sicoli, e derubarli. Ma non si tosto conquistarono alcuna delle contrade inimiche ; divenutine ornai più sicuri ancora gli altri Aborigeni i quali bisognavano di terreno, insorsero parte a parte su’ confinanti : e fondarono alcune città, e quelle, abitate ancor di presente, degli Antemnati, de’ Tellenesi, e de’ Ficolesi presso i monti Cornicli nominati, e dei Tiburtini finalmente, tra’ quali evvi un luogo della città che pure a dì nostri si chiama Siciliano. Nè furono ad altro vicino più molesti che incontro de’ Sicoli. Sorse da tali contrasti guerra con tutte le genti ; talché mai non fu per addietro la più grande in Italia, e v’ infierì lungo tempo. Dopo questo alcuni de’ Pelasgbi che abitavano la regione ora detta Tessaglia costretti di trasmigrarne, divenuei'o gli ospiti degli Aborigeni ; ed i compagni di arme, contro de’SicoIi. Gli accolsero gli Aborigeni forse {icr la speranza, io penso, di un utile, ma più per la comunanza di origine: perocché son pure i Pelasgbi un greco lignaggio, antichissimo del Peloponneso : quan tunque sciaurati per molte cose e principalmente per la vita errante, nè mai stabile in sede ninna. E certo, come molli affermano su di essi, abitarono su le prime la città che ora chiamasi Argo di Acaja ; traendo il nome di Pelasgbi da Pelasgo, loro sovrano, generato da Giove e da Niobe la figlia di F oroneo, quando il Dio si congiunse la prima volta con donna mortale, come è ndle favole. Poi nella sesta generazione lasciato il Peloponneso, passarono nella Emonia che ora Tessa glia si nomina ; e duci furono del passaggio Acheo e F tio, e Pelasgo, figli di Larissa e di Nettuno. Giunti nella Emonia ne cacciarono i barbari che 1’ abitavano, e la divisero in tre regioni cognominandole da’ condot tieri, F liotide, Acaja, e Pelasgiote. Fissi colà da cinque generazioni, lungamente vi prosperavano, profittando pur de’ campi migliori della Tessaglia: ma intorno la sesta generazione ne furono espulsi da Cureti, e da Lelegi che ora sono gli Eioli ed i Locri, e da più altri che abitavano intorno del Parnasso, guidando i nemici Dencalione il figlio di Prometeo e di Glimene nata dall’ Oceano. ' X. Dispersi nella fuga, altri vennero io Creta, altri ottennero alcune deile Cicladi. Alcuni abitarono la regione intorno di Olimpo e di Ossa, ora detta Estiotidc: ed altri furon portati nella Beozia, nella Focide e nella Eiubea : alcuni tragittandosi in Asia occuparono molte delle spiagge deli’ Ellesponto e molte delle isole dirim> petto, e quella che ora Lesbo si chiama, mescolatisi alla colonia che prima andavaci dalla Grecia sotto gU auspizj di Macaro Gglio di Criaso. La maggior parte però dirigeudosi entro terra a’ loro parenti i quali albergavano in Dodona, ed a' quali, come sacri, niuno facea guerra, abitarono quivi alcun tempo : ma poiché si avvidero che eran di aggravio, non bastando la terra a nutrire tutti in comune, se ne involarono, mossi dalr oracolo che ordinava loro di navigare in verso la Italia, allora chiamata Saturnia. E fatto apparecchio in copia di navi, passarono il mar Jonio, procurando giungere in parti presso la Italia. Ma pel vento di mezzogiorno, e per la imperizia de’ luoghi, portati più oltre capitarono ad una delle bocche del Pò chiamata Spi” itelo e quivi lasciarono le navi, e la turba meno idonea ai travagli con un presidio, per avervi una ritirata, se i disegni non riuscivano. Or questi rimanendo in quella regione circondarono di muro il campo dell’ esercito, cd introdussero colle navi copia di vettovaglie. E poi che videro succedere loro le cose come voleano, fabbricarono una città coLnome appunto dellabocca del fiume. Quindi prosperando più che tutti su le spiagge dell’ Jonio, e prevalendo lungo tempo sulle onde, portarono quant’ altri mai, decime vistosissime in Delfo alla Divinità, de’ beni tratti dal mare. Da ultimo però venendo amplissima guerra su loro da’ barbari intorno, ' losciarono la città, donde anche i barbari furono dopo nn tempo cacciati da’ Romani. Cosi mancarono i Pela minandola da Larissa, metropoli loro nel Peloponneso. Delle altre città ne resta pure alcuna fino a miei giorni, quantunque variati spesso gli abitatori: ma Larissa è distrutta già (la gran tempo : nè presenta dell’ antica esistenza altro segno più manifesto che il nome, e nemmeno questo è noto a moltissimi. Era non lontana dal foro chiamato Popilio. Finalmente possederono, togliendoli a Sicoli, molti altri luoghi entro terra, o lungo la spiaggia. XIII. I Sicoli ornai non più valevoli a resistere ai Pelasghi ed agli Aborigeni, riunendo i figli e le mogli e quanto aveano di moneta in oro ed argento, si levarono in tutto da quella terra. Ripiegatisi a’ monti verso del mezzogiorno, e trascorsa tutta l’ Italia inferiore, siccome dovunque erano discacciati, apparecchiarono in fine delle barche nello stretto, e notandovi il flusso e (piando era fausto, passarono dalla Italia in su l’ isola vicina. Allora i Sicani, Spagnuoli di origine, la pouedevano, nè da gran tempo vi erano stati ammessi, cercando uno scampo dai Liguri; e già per essi era detta Sicania l’isola un tempo chiamata Trinacria^ per la figura sua di triangolo. Non molti erano in questa grand’isola gli abitatori; ma la più gran parte vedeasi ancora deserta. Giunti i Sicoli ad essa, ne abitarono su le prime i luoghi occidentali, e mano a mano più altri, talché l’isola ne fu detta Sicilia. Cosi la gente de’ Sicoli abbandonò la Italia ', tre generazioni, come Ellanico di Lesbo scrive, prima delle cose trojane, correndo in Argo r anno vigesimo sesto del sacerdozio di Alcione. Perciocché stabilisce due passaggi fatti dalla Italia nella Sicilia il primo degli Elimei cacciati dagli Oenotri, e l’altro dopo cinque anni degli Ausoni, che fuggivano i Japigi. Dice che re di questi fu Sicolo, donde ebbero il nome gli uomini e 1’ isola. Filisto però di Siracusa scrisse che 1’ anno di quella discesa fu 1’ otuntesimo innanzi la guerra trojana: e che non Sicoli, non Ausonj, non Elimei, ma Liguri furono gli uomini trasportati dalla Italia, conducendoli Sicolo, figliuolo di Italo, e che dalla signoria di quello furono Sicoli nominati. Lasciavano i Liguri le patrie terre, astrettivi dagli Umbri e da’ Pelasghi. Antioco di Siracusa non distingue il tempo del tragitto; ma Sicoli dichiara quelli che tragittarono, premuti dagli Oenotrj e dagli Umbri, pigliatosi nel trasmigrare Sicolo per condottiero. Tucidide scrive che Sicoli furono i profughi, e Opici quelli che li fugavano, per altro molti anni dopo la guerra di Troja. E queste sono le cose che affermansi da uomini riguardevoli intorno de’ Sicoli, passati dalla Italia nella Sicilia. XIV. Impadronitisi i Pelasghi di una regione ampia e bella, ne ebbero pur le città ; poi fondandone altre ancor essi, crebbero presto e molto in forze, in ricchezze, ed altri beni ; non però ne goderono lungo tempo. Ma sembrando floridi troppo per ogni parte furono sbattuti dall’ ira de’ celesti, e quali ne perirono per divine calamità, quali pe’ barbari confinanti : e la parte più grande ne fu dispersa tra’ barbari, o nuovamente Ira’ Greci, e lungo ne sarebbe il discorso se per Digitized by Coogle tninuto seguissi un tal fatto. Pochi ne sopravanzaronc nella Italia per cura degli Aborigeni. Parve alle città che la origine prima di un tale struggersi di famiglie fosse la siccità che intristiva la terra, talché non restava frutto alcuno Gno al maturarsi negli arbori; ma innanzi tempo cadevano 5 nè i semi che sbucciavano in germi, vegetavano Gnchè le spighe floride si empiessero nei tempi naturali, nè bastavano i pascoli alle greggio. Non più le fonti eran atte a toglier la sete, guaste, impicciolite o spente dagli estivi calori. Consentivano con ciò le vicende delle bestie e delle donne nel generare : e quale sconciavasi in aborti, e quale dava Agli, morenti nel parto, o fatali nell’ utero ancora alle madri. Se scampavano 1 pericoli del parto, mutili, o storpi, o manchevoli per altro disagio, non eran’ utili, onde si allevassero. L’ altra moltitudine poi, specialmente la più vegeta era colta da mali, e da morti frequenti più delr usato. E consultando l’ oracolo per quale violazione di genj o di Nomi questo patissero, e per quali pratiche mai fosse da sperare una calma in tanti orrori, udirono ciò essere perchè esauditi ne’ loro desiderj, non aveano penduto quanto promisero ; ma dovevano ancora agli Dei cose preziosissime. Imperocché li Pelasghi l’idotti a penuria di ogni cosa nelle loro terre, si votarono a Giove, ad Apollo, ed ai Cabiri  di santiGcare ad essi le decime di ogni prodotto. Appagati nella preghiera presero ed offerirono agli Dei parte delle messi e de' frutti, quasi votati si fossero per questo soltanto.  Forte Castore e Polluce. E certo che erano Dei di Sanietracia. Digilized by Google 38 DELLE Antichità’ romane Mii'silo di Le$bo scrive ciò quasi con le parole medesime, toltone, che egli chiama Tirreni e non Pelasghi quegli uomini, di che dirò più sotto le cause. XV. Ascoltato 1’ oracolo non sapevano interpretarlo. Fra dubbj loro un più vecchio, raccogliendone i sensi, disse che erravano affatto, se credevano che gli Dei li punissero a torto : volere il diritto ed il giusto, che si desse loro la primizia di tutto : nondimeno aspettavano ancora parte della generazione degli uomini, cosa più che tutte ad essi accettissima: se avessero questa, l’oracolo sarebbe adempito. Parve ad altri che costui parlasse rettamente ; ad altri che tendesse delle insidie. E proponendo un tale che s’ interrogasse il Dio se gradiva che si facessero per lui le decime, ancora degli uomini ; inandarono i sacri vati per questo, e rispose che si facessero. Quand’ecco sedizione fra loro sul modo di decimarsi : e prima surse a vicenda tra’ capi della città ; poi l’altra moltitudine prese i suoi magistrati io sospetto: nè già sollevavansi con regola alcuna, ma come per entusiasmo e per divino furore. Cosi molte case furono abbandonate, trasmigrandosi parte di essi, nè sostenendo gli attenenti di essere abbandonati dai loro carissimi, e restarsene tra i più crudi nemici. Primi questi levandosi dall’ Italia errarono per la Grecia, e molto tra’ barbari: quindi ancor altri incorsero ne’ mali medesimi, continuandosi ogni anno la decima. Nè i magistrati la sospendevano, ma sceglievano le primizie de’ giovani più robusti pe’Numi, quantunque nel proposito di soddisfare agli Dei, temessero i moti di chiusciva a sorte per vittima. Erano ancora non pochi espulsi dagli avversar). 3^ per nimiclzia, lutto che sotto specie di oneste cagioni. Laonde spessissime furono la partenze ; e la gente Pelasga errò dispersa in più terre. XVI. Erano i Pelasghi, vivendo in mezzo a genti bellicose tra cure e pericoli, divenuti assai buoni nelle armi, e più ancora nella nautica per avere coabitato co’ Tirreni. La necessiti che ne’ stenti della vita ispira coraggio, fu loro maestra e direttrice in tutti i cimenti. Perciò non difUcilmente dovunque ne andavano vincevano. Erano chiamati ad un tempo Pelasghi e Tirreni dagli altri uomini si pel nome delia regione donde par ti vano, come in memoria della origine antica. Ora io dico ciò perchè alcuno udendoli chiamati Pelasghi e Tirreni da’ poeti e dagli storici, non meraviglisi come abbiano ambedue le denominazioni. Tucidide in Atte di Tracia fa menzione di loro e delle città che vi era no, abitate da uomini bilingui : e questo è il dir suo su’ Pelasghi. Ivi sono de Calcidesi, ma i più sono Pelasghi, cioè que’ Tirreni che abilarono un tempo Lemno ed Atene. E Sofocle nel dramma suo dell’ Inaco fa questi versi detti dal coro : Inaco genitor, figlio de' fonti Bel padre Oceano, assai splendendo, reggi Le terre d’ Argo e di Giunone i colli E i Tirreni Pelasghi. Quindi il nome de’Tirreni risuonava in que’ tempi nella Grecia : e tutta la Italia occidentale lo assunse ancora per sé, lasciando i nomi speciali de’ suoi popoli. Occorse già pari vicenda nella Grecia e nella regione ora detta Peloponneso: giacché dagli Achei, che eran Tuno de popoli che v’ abitavano, fu detta Acaja tutta la Pe nisola ov’ erano gli Arcadj, c li Jonj, ed altre nazioni non poche. XVII. L' epoca nella quale cominciarono i Pelasghi a decadere fu quasi nella seconda generazione innanzi la guerra di Troja, e durarono, direi, dopo ancora di questa 6nchè si ridussero ad un gruppo di gente. E, salvo la città di Crotone, famosa nell’ Umbria, e tale altra, se pur v’ ebbe, data loro ad abitare dagli Aborigeni, perirono tutte le rimanenti de’ Pelasghi. Crotone serbò lungo tempo l’antica sua forma, ora non è molto, ha mutato nome ed abitatori, e divenuta colonia romana, si chiama Cortona. Varj poi furono c molti che occuparono le sedi abbandonate da’ Pelasghi secondo che ciascuno vi confinava ; ma le migliori e le più si rimasero pe’ Tirreni. Quanto ai Tirreni v’ è chi li dice naturali d’ Italia e chi forestieri. E quei che li stimano propri della regione, affermano che si diè loro quel nome per gli edifizj sicuri, che essi i primi di quanti vi erano, si fabbricarono : imperocché le abitazioni con muri e con tetto son tirseis chiamate dai Tirreni come da’ Greci. Cosi pensano imposto loro quel nome per accidente come nell’ Asia ai MosinIcI dalle mosine che sono le case di legno abitate da essi, altissime in forma di torri. XVIII. Ma quelli che favoleggiano che i Tiireni sono stranieri, additano un tale, detto Tirreno, che fa  Ssronito altri Cotorni'n. 4 1 duce della colonia, e dal quale ebbe nome la nazione. Dicono che originario fosse di Lidia, chiamata già Meonia; e che da indi antichissimamente si trasmigrasse; e che egli fosse il quinto dopo di Giove. Imperocché narrano che da Giove e dalla terra nacque Mani, il primo a regnare in que’ luoghi : che da questo e da Calliroe. figlia dell’ Oceano nascesse Coti ; che da Coti sposatosi con Alle, figlia di Tulio, uomo paesano, germinassero due figli Adie ed Ati : che da Ati e da Callitea figliuola di Coreo sorgessero Lido e Tirreno : e che Lido rimastosi in que’ luoghi succedesse al regno paterno, e Lidia lo denominasse dal suo nome ; ma che Tirreno fattosi duce di una colonia occupò gran parte d’Italia, Tirreni chiamando il luogo, e quanti lo seguitarono. Erodoto però dice che Tirreno nacque da Ati figlio di Manco, e che P andarsene de’ Meonj nelr Italia non fu volontario. Imperciocché narra che regnando Ati si mise la penuria tra Meonj : che gli uomini ritenuti dall’ amore della regione si argomentarono in più modi a vincer quel male, taluni di colla parsimonia, e tal altri con 1’ astinenza : ma che prorogandosi la sciagura, tutto il popolo diviso in due, decise per le sorti chi dovesse di là trasmigrarsi, e chi rimanere y e che perciò 1’ un figlio di Ati si stette, partendosi r altro : la moltitudine che pendeva da Lido trasse colle sorti il suo meglio, e si stette ; ma 1’ altra pigliando quanto le si dovea per le sorti in danaro, navigò verso r occidente d’ Italia, e postasi dove erano gli Umbri, vi fondò città che duravano ancora al suo tempo. Ben so che altri non pochi scrissero, appunto come io scrissi, della origine de’ Tirreni ; ma che altri ne variano il fondatore ed il tempo. Imperocché dissero alcuni che Tirreno era figlio di Ercole e di Onfale Lidia : che venuto questo in Italia, espuke i Pelasghi dalle loro città, non però da tutte, ma da qnelle poste di là del Tevere su le parti boreali. Altri però ci fan vedere in Tirreno un figliuolo di Telefo venuto in Italia dopo la rovina di Troja. Zanto lidio perito quant’ altri mai delle storie antiche, e creduto nelle patrie non inferiore a niuno, nè mentova in parte alcuna de’ suoi scritti un tirreno signore de’ Lidj, nè conosce passaggio alcuno de’Meonj nella Italia, nè parla mai de’ Tirreni come di Lipia colonia, sebbene parlasse di cose ancora bassissime. Dice che Ati generò Lido e Toribo, che dividendosi il regno paterno si rimasero ambedue nell’ Asia, c che diedero il nome loro a’ popoli su’ quali comandavano. Imperocché scrive: da Lido si fecero i Lidj, e da Toriho i Toribi 5 poco d’ ambedue differisce l’ idioma, e gii uni, come li Jonj e li Doriesi, usano a vicenda le parole degli altri : Ellanico di Lesbo dice che i Tirreni chiamati già Pelasghi assunsero il nome che or hanno, quando abitarono la Italia ; imperocché nel suo Foronide  scrive, da Pelasgo re loro, e da Menippe figliuola di Peneo nacque Fraslore, da questo surse Amintore, che diede Teutamide, e da Teutamide ebbesi Nanas j regnando il quale i Pelasghi, profughi dalla Grecia  Opaieolo di Ellaaieo; ne fa meniione Ateneo nel lib. 9.. 4^ lasciarono le navi dove il fiume Spineto esce nel mare Ionio , ed invasero entro terra la città di Crotone; e di là movendosi fondarono quella che Tirrenia ora si chiama. Mirsilo sponendo come Ellauico le altre cose, dice tuttavia che i Tirreni quando erravano profughi dalla patria, furono detti Pelasghi per certa somiglianza loro con le cicogne, pelarghi chiamate; giacché passavano in truppa per le terre de’ Greci e de’ barbari: aggiunge che essi alzarono il muro detto Pelargico intorno la rocca di Atene. XX. A me però sembra che s’ ingannino quanti si persuasero che i Tirreni e i Pelasghi non sieno che una gente ; perciocché non è meraviglia che alcuni abbian talvolta il nome di altri, mentre in pari vicenda incorsero ancora altri popoli greci o barbari come i Trojani ed i F rigi, perchè prossimi di regione. Eppure molti fanno di questi due popoli Un solo, quasi distinti di nomi, non di lignaggio. I popoli poi d’Italia, nom meno che quei d’altri luoghi, furono confusi ne’ nomi. E v’ ebbe un tempo quando Latini, Umbri, Ausoni, e molti altri si chiamavano Tirreni da’ Greci ; riuscendo ogni ricerca di questi men chiara per la lontananza di que’ popoli : anzi molti degli scrittori pigliarono Roma ancora per città de’ Tirreni. Io dunque penso che queste genti mutassero il nome, variandosi fino il vivere : non penso però che una fosse la origine di ambedue, per molte cagioni, e più per le voci loro non simili,  Qui si estende il nome di ionio all’interno dell’ Adriatico. Spesso gli storici antichi cosi praticarono contro 1’ uso de’ geografi che distinguono 1’ uno dall’ altro mare. ma diversissime. Imperciocché nè li Crotoniati  come scrive Erodoto, nè li Piaciani ne’ proprj luoghi parlan la lingua dei circonvicini ; ma una ne parlano tutta lor propria; donde è manifesto che serbano i caratteri delr idioma che aveano quando in que’ luoghi si traslatarono. Meraviglisi poscia chi può che li Crotonlati somiglino nell’ idioma al Piaciani, popoli ne’ lidi dell’ Ellesponto, nè somiglino intanto a’ vicini Tirreni. Erano que’ primi ambedue Pelasghl ne’ principj loro : e se la unità di origine prendesi per causa della uniformità nei linguaggi ; dunque la differenza di origine è pur causa del divario di essi ; non dando un principio medesimo contrarj gli effetti. Certamente, se avvenga, ben è ragionevole quello, cioè che uomini di una gente medesima domiciliatisi lontani fra loro non conservino i caratteri de’ proprj idiomi per lo conversar col vicini; ma che poi negl’idiomi non somiglino popoli di una origine istessa, e d’ istesse contrade, ciò non è ragionevole per ninna maniera. Seguendo tali indizj convincomi che differiscono i Pelasghi dai Tirreni ; nè credo i Tireeni un tralcio de’ Lidj ; perocché nè parlano la lingua medesima, nè può dirsi che se non la parlano, ritengono almeno alcuni vestigi della teiTa materna, nè tengono per IdJj que’ che da’ Lidj si tengono ; nè li somigliano per leggi o per abitudini, ma in ciò dai Lidj si diversificano più, che da’ Pelasghi. Pertanto sembrano più verisimili quelli, che dicono un tal popolo, naturale  Cortoncsi. della contrada, non venutovi altronde : pérciocchè si rinviene antico in tutto ; nè simile ad altri nel parlare, o nel vivere : e niente ripugna che avesse un tal nome da’Greci o per le abitazioni fortissime  o per l’uomo ancora che li dominava. Ma i Romani con altri nomi li chiamano Etruschi dalla Etruria, regione dove un tempo abitarono : ed ora li dicono Toschi men propriamente, avendoli come i Greci, nominali prima con più verità Tioscovi per lo magistero nelle cerimonie del culto divino, nelle quali sorpassano lutti, Que’ popoli inoltre distinguono sè stessi dal nome di Rasenna r uno già de’ loro comandanti. Sarà poi dichiarato in altro libro quali città fossero abitate dai Tirreni e con / quali forme di governo, quanta fosse di tutti insieme la potenza, e quali, se pur degne ne ebbero di ricordanza, le azioni ne fossero, e le vicende. 1 Pelasghi che non perirono, nè si disgiunsero per fare colonie, si rimasero, pochi di molti, con gli Aborigeni, sotto le leggi de’ luoghi ne’ quali si lasciavano, e ne’ quali col volger degli anui i posteri loro fondarono Roma. E tali sono le novelle intorno de’ Pelasghi. Dopo non molto tempo, nell’ anno, al più, sessantesimo come narrano i Romani, prima della guerra trojana, capitò ne’ luoghi medesimi un’ altra spedizione di Greci la quale abbandonava il Pallanteo, città delr Arcadia. Il duce erane Evandro, figlio di Mercurio, e di una ninfa, abitatrice di Arcadia. I Greci la tengono per ispirata da’ Numi, e la chiamano Temide ;  Tirseis delle di opa J xvii. ma Carmeiita è delta nella patria lingua da’ romani che scrissero le antichità di Roma: perocché la ninfa avrebbesi a dir propriamente Tespi-ode con greca parola : ma le odi chiamansi carmi da’ Romani, e quindi è Carmenta : si consente poi che tal donna presa dallo spirito divino presagisse, cantandole, le cose avvenire ai popoli. Non venne quella spedizione di comun sentimento; ma nata sedizione del popolo, la parte inferiore, di voler suo si spatriò. Dominava di que’ tempi su gli Aborigeni Fauno, un discendente come dicono di Marte, uomo di azione e di prudenza, e riverito da’ Romani con sagrifìzj e con inni come un genio del loco. Ricevè' costui con assai benevolenza gli Arcadi che erano pochi, e diede loro della sua terra, quanta ne vollero ; ed essi, come Temide gli avea, vaticinando, ammaestrati, presero un colle poco lontano dal Tevere, il quale ora è nel mezzo di Roma, e tanto vi fabbricarono, che bastasse alle genti venute con le due navi dalla Grecia. Era questo il principio segnato dai. destini per formare col volger degli anni una città, non pareggiala mai da greca o barbara città per grandezza di abitazioni, di comando, e di ogni bene, e certamente memorabile soprattutto finché dureranno i mortali. Pallanteo chiamarono quel fabbricato come la metropoli loro in Arcadia: ora Palagio è detto da’ Romani per la confusione che inducono i tempi ; e ciò diede a molti la occasione di stolte etimologie. Dicono molti, e tra questi Polibio di Megalopoli, che quel nome viene da Pallante, un giovinetto ivi morto, nato da Ercole e da Cauna la 6glia  di Evandro: perchè facendogli questo avolo materno in quel colle un sepolcro, chiamò ' Pallanteo, quel luogo dal giovinetto. Io nè mirai in Roma la tomba di Fallante, nè conobbi che vi si praticassero funebri onori, nè potei conoscere nulla di slmile : quantunque la famiglia di lui non sia dimenticata, nè priva del culto col quale i semidei sono venerali dagli uomini. Perocché vidi che i Romani faceano gelosamente ogni anno pubblici sacriGzj ad Evandro e a Carmenta, come agli altri genj ed eroi : e vidi gli altari dedicali a Carmenta appiè del Campidoglio presso la porta carmentale, e quelli dedicali ad Evandro appiè dell’ altro colle detto Aventino, non lungi dalla porta trigemina ; nè vidi intanto cosa ninna di queste latta inverso Fallante. Gli Arcadi i quali coabitavano appiè del colle, eressero pure altri monumenti nelle forme della patria, e santi riti v’ istituirono ; ma per ispirazione di Temide, innanzi lutti a Pane Liceo, Nume il più antico e più riverito tra quelli di Arcadia, in sito idoneo, che i Romani chiamano Lupercale, e noi diremmo Liceo. Ora empiuto essendosi di abitazioni il suolo intorno ; non è facile rintracciarne la natura del luogo. Era questo, come dicono, appiè del colle, una spelonca, vetusta, grande, coperta da una querce, ramosa qual bosco : profonde bulicavano le fonti abbasso delle pietre ; e lo spazio appresso ai dirupi era opaco per arbori, altissime e folte. Qui collocando un altare a quel Nume compierono il patrio sagriGzio, che i Romani, non mutando cosa alcuna delle antiche allora fatte, ripetono ancora di presente dopo il solstizio d’ inverno nel mese di febbrajo. La maniera del sagrìGzio sarà detta più innanzi. Ergendo poi su le cime del colle un tempio alla Vittoria, stabilirono in questo ancora annui sagriGzj che i Romani tributano ancora. Gli Arcadi favoleggiano che questa sia figlia di Fallante generata da Licaone : e Minerva, fece, che ricevesse da’ mortali gli onori che le si rendono ; imperocché fu essa educata colla Dea, giacché la Dea nata appena fu consegnata da Giove a Fallante, e presso lui fu nudrita finché ascese alle stelle. Fondaronoancora un tempio a Cerere ed il sagrifizio, che faceano le donne ma non usate al vino, com' era la pratica de' Greci : nel che 1’ andare del tempo non ha cagionato mutazioni, fino a miei giorni. E Nettuno Ippio ebbe pure il suo tempio e le feste, dette Ippocratie da’ Greci, ma ConsucUi da' Romani: e Roma in esse libera per uso dal travaglio cavalli e muli, e ne incorona le teste di fiori. Consecraronu similmente altri tempj, altri altari, altri simulacri, costituendo purificazioni e sacrifici, ritenuti ancora ne’ modi medesimi. Né già sarei meravigliato se alcune di queste cose neglette, come antiche troppo, non avessero più ricordanza tra’ posteri : nondimeno le consuetudini presenti danno ancora assai da congetturare su’ riti arcadici d’ allora, de’ quali diremo altrove più pienamente. Dicesi che gli Arcadi recassero i primi nella Italia 1’ uso delle lettere greche, note ad essi da poco, e la musica della lira, della tibia e del trigono, non sonandosi ivi altri armonici stromenti che le sampogne de’ pastori : e dicesi che vi introducessero le leggi, vi raddolcissero le maniere del vivere, 6ere in gran parte, e che vi diflondessero le arti, e le istruzioni, ed altre utili cose in gran nume ro onde assai ne furono rispettati dagli ospiti. Questa greca moltitudine, seuouda dopo i Pelasghi, giunta nella Italia ebbe comune 1’ abitazione con gli Aborigeni in uno de’ bonissimi luoghi di Roma. Pochi anni dopo degli Arcadi vennero nella Italia altri Greci, guidati da Ercole il quale avea domato la Spagna, e le parti, fiu dove il sole tramonta. Alcuni di loro, implorato da Ercole il congedo dalla milizia, si fermarono in questi luoghi ; e trovando un colle opportuno, lontano al più tre sladj dal Pallanteo, vi si accasarono : chiamalo alloca Saturnio, o Crònio come i greci direbbono, ora si chiama Capitolino. Erano quei che rimasero per la più parte del Peloponneso, io dico i F enueati, e gli Epei della EUide, disamorati di viaggiare in verso la patria, perchè devastata nella guerra con Ercole. Mescolavansi ad essi alcuni de’ Trojani &tti prigionieri quando Èrcole prese già Troja, regnandovi Laomedonte. E pormi che in quei luogo si annidassero ancora tutti di quell’esercito, quanti o stanchi dalla fatica, o dal rigirarsi ottennero levarsi dalla milizia. Alcuni, come ho detto, stimano antico il nome del colle ; tanto che gli Epei gli si affezionarono nommeno in memoria del colle, Gronio chiamato nella Elide in su le terre di Pisa lungo le rive dell’ Alfeo. Gii Elicsi riputando quel poggio loro sacro a Saturno vi si adunano in fìssi tempi, e l’onorano con sacriGzj e con altro colto. Nondimeno Eusseno, ed altri mitologi VIOlfJGT, tomo I. i 5o nr.Italiani pensano che i Pisani per la simiglianza del Cromo loro dessero il nome anche all’ altro : che gli Epei con Ercole erigessero a Saturno l’ altare che trovasi alle falde del colle presso la via che mena dal Foro al Campidoglio : e che essi istituissero il sagriCzio che i Romani v’ immolano ancora con greche cerimonie. Ma io, paragonando, trovo  che prima della venuta di Ercole nella Italia quel luogo era sacro a Saturno, e Saturnio chiamavasi da’ terrazzani : e che tutta 1’ altra regione, che ora dimandasi Italia, era dedicata ancor essa a quel Nume, e Saturnia nominavasi dagli abitanti, come trovasi detto nelle risposte date dalle sibille o da altri Iddii. Eid in molti luoghi di questa sonovi de’tempj alzati a quel Nume, ed alcune città da lui si denominano, come allora tutta la Italia: e portano ancora il nome del Dio molti luoghi, singolarmente i monti e le rupi. Col volger degli anni fu detta Italia per un uom potentissimo, Italo nominato. Antioco di Siracusa lo dipinge per uomo destro e filosofo, il quale convincendo molti popoli col dire e molti colla forza, ridusse in poter suo quanto v’ è tra ’l golfo Napitino  e quello di Scilla : e quel tratto fu il primo che Italia da Italo si dicesse. Dopo ciò scrive che divenuto più forte, fece che molti altri gli ubbidissero; perocché mise il cuore su’confinanti, e ne prese molte città: e scrive finalmente eh’ egli era Qenotro di nazione. Ella(l) Cluverio in tini. Aniiq. I. IV crede die deliba Irgf’ersi Lame/in in Tece di IVrpitino. Filoguno k di parere die Lamet città di Lucania desse nome a questo golfo.. !) I iiko di Lesbo narra die Ercole coiiJucevasi i bovi di Gerione alia volta di Argo, ma che essendo già nell' Italia il tenero figlio di una vacca spiccossegli dall’ armento, e profugo vi errò da per tutto ; finché solcalo il mare interpostp giunse nella Sicilia : che cercando Ercole quell’ animale, e chiedendo ovunque capitava, se alcuno lo avesse veduto de’ paesani, siccome poco intendevano il greco, e da’ segni lo chiamavano come aneli’ oggi si chiama nella patria lingua vitello ; cosi Vilalia chiamò tutta la regione da questo percorsa. Non è poi meraviglia che uu tal nome si tramutasse com' è di presente ; mentre tanti greci nomi eziandio subirono pari vicende. Ma, sia che prendesse quel nome, come dice Antioco, dal condottiero, il che forse è più probabile, sia ebe dal vitello come pensa Ellanico ; raccogliesi da ambedue che lo prese intorno ai tempi di Ercole, o poco prima ; essendo chiamala iunanzi Esperia ed Ausonia dai Greci, e Saturnia da [laesani, come di sopra fu detto. Coutasi ancora tra qne’ popoli la novella ebe innanzi al principato di Giove ivi Saturno regnasse: e che tra loro più che altrove si avesse quella vita sì famosa, beata per tutti i beni, quanti le stagioni ne apportano. Ma se alcuno risecando ciocch’è di favoloso nel discorso, vaglia Intenderne la bontà di quella gioite, dalla quale il genere umano, sorto di recente dalla terra, come è vecchia fama, o d’ altronde, ne raccolse vantaggi moitissiini, e giocondissimi ; non troverà [>cr tal fine suolo pili acconcio di questo. Iiiiperocciiè se paragonisi una terra con altra di eguale granàezza, T Italia pei mio giudizio è la migliore neU' Europa, e dovunque. Non ignoro clie io sembrerò dir cose incredibili a molti, i quali risguardano l’Egitto, la Libia, e Babilonia, e quante altre vi sono beate contrade: ma io non pongo la ricchezza della terra in una specie sola di prodotti, nè invidierei di abitare dove pingui sono le campagne, nè vi si scorge altro bene se non tenuissimo: ma quella regione chiamo la migliore la ^ale sia bastantissima a sé Stessa, e che meno abbisogni deir altrui. Sono poi persuaso che la Italia paragonata con altra qualunque, appunto sia la terra datrice di ogni frutto, e di ogni utile. E certamente, se comprende campagne felici e molte, non perchè madre è di messi, è men propizia per gli arbori : e se vale assai per ogni genere di alberi, non perchè tale, è poco ubertosa^ nel seminarvi: o s’ è bonissima per ambedue questi usi, non per questo è men propria pe’ bestiami : nè perchè varia si dimostri ne’ prodotti e ne’ pascoli è disamena poi se vi si abita. Ma direi che di ogni agio soprabbonda e di ogni diletto. E qual terra mai frumentaria vince le terre dette della Campania, bagnate dalle acque non de’fiumi, ma del cielo f Io vi contemplai campagne che davano tre raccolte nudrendo dopo i semi del verno, quelli per la state, e dopo gli estivi, gli altri in 6ne per 1' autunno. Quale coltivazione supera in olio quella dei Messapj, de’ Daunj, de’ Sabini e di altri? Qual mai suolo con vigne sorp rende più che il Tirreno, l’Albano e il Falerno 7 il quale ama così le viti, che ne porge col tnen di lavoro amplissimi frutti e bonissimi. Ma oltre le terre che si lavorano, ivi molte pur se ue trovano, riservate per le capre e per le pecore ; ma più mirabili ancora sono quelle da pascervi le mandre dei cavalli e de’ bovi: imperocché soprabbondandovi l’erba palustre c dei prati, e riuscendovi fresca e rugiadosa nelle parti che si coltivano, dan pascoli senza limite in tutta l’estate, e mantengono in fiore gli armenti. Qual dolce spettacolo ivi sono le selve per balze, per valli, per colli non culti, e di qnale e quanto niateriale per le navi e per altre operazioni ì Nè già cosa alcuna di queste è dilTìcile ad ottenerla, nè rimota dall’uso degli ^ uomic : ma tutte sono pianissime, e tutte facili a trasmettersi per la moltitudine de’ fiumi, i quali scorrono tutta la regione : e li quali con utile vi agevolano i trasporti e le permute dei prodotti della terra. Vi si trovano ancora in più luoghi delie acque calde, propriissime a’ bagni, e bonissime per le cure di mali diuturni. E metalli vi sono d‘ ogni genere, e cacce d’animali in copia, e mari fecondissimi, come pure altre cose moltissime ; e più utili e più meravigliose. Benissimo soprattutto ne è 1’ aere per la dolce sua temperie secondo le stagioni, e poco opponesi con calori o freddi eccessivi al formarsi de’ fratti, ed al vivere degli animali. Non è dunque da meravigliarsi che gli antichi prendessero quella terra per sacra a Crono, o Saturno; concependo che questo Dio vi fornisse, e saziasse i mortali d’ogni bene. Ma sia che chiamisi Crono come da’ Greci, sia che Saturno  come da’Romaui;  Stefano r fiasaubono credono ebr qui fosse nel testo K^ac Digilìzed by Google ìy!^ dkt.i.t; Antichità’ koma^e •omprenJeitilo ciascuno di essi la natura tutta delle cose ; tu lo nomina come più vuoi. Nemmeno è da meravigliarsi cbe contemplando in quella ogni abbondanza e delizia, commoventissime cose, ne credessero ogni luogo più acconcio, degno degli Dei, com' era de’ mortali ; e li monti e le selve si ascrivessero a Pane, i prati e floridi luoghi alle ninfe, e le rive e le isole ai geuj marini, ed ogni altra parte ad un genio o a un Dio, come più couvenivagli. È fama che gli antichi immolassero a Crono umane vittime, come in Cartagine, ^ mentre esistè, come tra’ Celti, e come in mezzo di altri occidentali ; e che Ercole volendo precludere U barbarie di quel sacrificio, innalzasse l’ altare nel colle Saturnio, e facesse che vittime pure vi si ardessero con puro fuoco. E perchè que' popoli non sen corucciassero quasi spregiasse i patrj sacrifizj, è fama die gli ammonisse a placare l’ira di quel Nume; e piuttosto che gli uomini gettare nel Tevere legati nelle mani e ne’piedi, a gettarvi i simulacri loro, vestiti appunto com’ essi. Egli serbava una immagine degli antichi costumi, perchè si sterpasse alfine, quanta superstizione, ' restava ancora ne’ cuori. Conservavano i Romani tal pratica ancor ucl mio tempo, rlnovandola poco appresso all’equinozio di primavera nel mese di maggio nelle idi che chiamano, le quali vogliono che ricorrano il giorno aj>punto, cbe è il ipezzo del mese della luna. In questo il che linde > azieti, e bcDÌssiraa corrisponde alla parola Ialina di Saturno i e perh di sopra abbiamo usala il verbo saziata. Crono poi non h che il tempo ; cd il tempo lutto prepara, a di tallo ioruiicc ^li iiooiini col suo corso.  1 fiamapi Inp \nraa regolavano l’anuo sul corsa delia Urna,. DD i ponteGci, vale a dire i primi tra’ sacerdoti, come le vérgini, custodi del fuoco inestinguibile, i pretori, e gli altri che esser possono all’ opera santa, dopo avere compiuti secondo la legge il sagriGzio, gettano del ponte sublicio nel Tevere, trenta simulacri in forma umana Argei  nominati. Ma de’ sagriGzj e delle altre divine cerimonie^di Roma, nazionali o greche di maniere, diremo in altro libro ; richiedendo ora il subjetto che più riposatamente seguitiamo Ercole nella sua venuta in Italia, nè trasandiamo cosa da lui fattavi, degna di lode. ! XXX. E su questo Dio diconsi delle cose, quali più vere e quali più favolose : e cosi stanno le favolose. Ercole, oltre gli altri travagli, comandato da Eurisleo di condurgli da Eritea li bon di Gerione in Argo, tornando dalla impresa in sua casa, venne in molte parti d’ Italia e della terra degli Aborigeni, prossima ai Pallanteo. E trovandovi copioso e buon pascolo, vi addusse i bovi, ed egli, quasi stanco dalle fatiche, die desi al sonno. Intanto un ladro paesano, Caco di nome, capitò tra’ bovi, pascolanti senza custòde, e se ne in-' vaghi. Ben conobbe che Ercole si riposava ; ma vide che> nè puteali tutti involare occultamente, nè facile ne sarebbe la impresa. Quindi ne ascose pochi solamente ed il principio della nuora luna era principio insieme del nnoT mete. Di qui nasce che faceano combinare te idi di maggia cl plenilunio o col mezzo del mese lunare.  Queste figure erauo di giuoco: si chiamavano Argei, qnsai rappreseiilasscro tanti Argivi che si slarmioavann come nemici degli Arcadi. nell’ antro vicino, dov’ egli vivea, traendoveli via via retrogradi per la coda, perché vedendovisi le pedate contrarie all’ ingresso, potesse render vano ogni argomento sa di essi. Ma levatosi Ercole poco appresso, e numerati i suoi bovi ; come vide che ne mancavano, dubitò su le prime, ove fossero andati, e li cercò mano a a mano come erranti da’pascoli. Nè raggiungendoli ancora ; venne alla spelonca sebbene sconsigliatovi dalle pedate, niente meno pensando, quanto che ivi ne ritroverebbe il covile. Standone Caco dinanzi l’entrata, e richiestone, dicendo non averle vedute, nè volere che ivi più si cercassero ; anzi convocando clamorosamente i vicini, quasi patisse violenza dal forestiero ; Ercole, dubbioso in prima come istrigarsela, prende in fine a ' dirigere all’ antro ancor gli altri bovi. Ma non sì tosto quegli da entro sentirono la nota voce e 1’ odore, lasciarono verso gli altri di fnora un muggito, e fu quel muggito r accusatore del furto. Caco, vedutosi reo manifestamente, ricone alla forza convocando tutti i suoi compastori. Ecco Alcide investirlo colla clava, ed ucciderlo e sprigionarne i suoi bovi: poi vedendo, com’era la spelonca un refugio opportuno pe’ rubatori, la dirupò. Quindi, parificatosi con Tonde del fiume dalla strage, inalzò presso quel luogo a Giove ritrovatore un altare, ora visibile in Roma nella porta trigemina ; sacrificandovi un vitello al Nume onde ringraziarlo su’ bovi ricu-, perati. Roma porge ancora quel sacrificio, tutto con greci riti, come Ercole lo istituì. Gli Aborigeni e quegli Arcadi che abitavano il Pallanteo come seppero della morte di Caco, c mirarono Èrcole, nemici già del primo per le rapine, siu> pirano all’ aspetto del secondo, credendo non so che divino in lui per la grande avventura sua nella vittoria. I poveri tra loro spiccando ramnscelli di alloro, copioso in que’luoghi, ne coronarono Ercole e sè stessi ; ed accorrendo i loro monarchi lo invitarono ad ospizio. Come poi dal dir suo ne conobbero il nome, il lignaggio, e le imprese ; prolferivano a lui per benevolenza il i-egno e sé stessi. Ed Evandro che anticamente udito avea da Temide stessa, volere il destino che Erctde, il figlio di Giove e di Alcmena, cambiasse per la virtù la natura mortale colla immortale, appena ravvisò chi egli fosse, ansioso di prevenire tutti e di rendersi propizio l’eroe con gli onori de’ Numi, alzò di repente con assai cura un alure, sacrificandogli dove l' oracolo avea già significato, un giovenco, intatto ancora di giogo, e supplicandolo a ricevere da lui le primizie di un culto. Meravigliatosi Ercole delle accoglienze, tenne il popolo a convito, immolando parte de bovi, e separando per ciò le decime delle altre prede : poi donò a quei re che assai Io bramavano, molte delle terre de’ Liguri ^ e di altri confinanti, cacciando da esse alquanti ribaldi. Dicesi ancora che egli fe’ la ricerca, giacché i primi de’ paesani lo tenevano per un’ Iddio, che gli perpetuassero quegli onori, sagrificandogli ciascun anno un giovenco non domo, e santificandone l’azione con greche cerimonie : e dicesi che insegnasse queste a due famiglie le più riguardevoli perchè vittime in tutto accette gli si offerissero: essere poi quelle de’Potizj e dei Pinarj, le famiglie allora istruite del greco rito, e le loro generaziout aver lungo tempo continuata la cam de’ sagriiìzj, come v’ erano da colui depuute : talché i Potizj erano i capi nella santa operazione, ed aveano le primizie al bruciarsi delle vittime; laddove i Pinarj non ammetteansi a parte delle viscere, e teneano sempre i secondi onori nelle cose comuni ad ambedue. E cagione a questi della onorificenza minore fu la tardanza loro nel presentarsi; giacché comandati di venire sul far del mattino, giunsero essendo già consumate le viscere. Ora r incarico del santo ministero non è più de’ posteri loro: ma di servi comperali dal pubblico. Dirò poi nel suo luogo le cause per le quali il costume fu varialo, e le significazioni del Dio quando i santi ministri si permutarono. L’ara ov’ Ercole offerì le sue decime, chiamasi Massima da’ Romani, e trovasi presso al foro detto boario, veneratissima, quanto altra mai, da’ paesani : imperocché su questa fa patti e giuramenti chiunque vuole stabilità negli accordi ; e su questa si offrono spesso ancora le decime a compimento de’ voti. Nondimeno un tale altare nelle fattezze è minore della sua gloria. Vi ha de’ tempj di questo Nume altrove ancora in più luoghi d’ Italia ; e gli'altari ne sono per le città e per le strade: e diffìcilmente trovcrebbesi una popolazione che non lo adorasse. E questo ci tramandan le favole intorno di Ercole.  Il testo ove DioDÌp spiegava tali cose è perito. Potrà vederseue ciocché ne scrive Livio oel libro nouo. Egli dice occorsa la mutaiioDc quando Appio Claudio esercitava le funxinni di censore. Allora in un anno perirono dei Potizj trenta tnaschj abili a rinovaro le famiglie, a cosi la stirpe virile corse al suo termine. Ma il più vero è quest’ altro : e molti die scrissero le imprese di lui, cosi nella storia lo delincarono. Ercole divenuto potentissimo in arme tra tutti dei suo tempo, e postosi con esercito numeroso scorse tutta la terra cinta dall’ Oceano, levando, se ce ne aveano, qualunque tirannide, grave e molesta ai sudditi, e qualunque impero di città contumelioso e nocevole agli altri vicini colla condotta dura e colle uccisioni ingiuste degli ospiti, e stabilendo monarchi onesti, governi savj, c costumi socievoli ed umani. Scorse ancora tra’ Greci e tra’barbari, neirinterno de’ mari e delle terre, in mezzo popoli infidi, intrattabili : fondò città .su luoghi deserti, diresse fiumi che inondavano i campi, aprì vie su monti impraticabili, e mille cose fece onde i mari tutti e le terre si comunicassero ogni vantaggio. Giunse finalmente in Italia ma non già solo, nè con mandre di bovi ; perocché non è questa regione in senti‘o per chi viene dalle Spagne in Argo, nè conseguito ci avrebbe tanti onori per causa di un passaggio. Egli vi giungea dalle Spagne conquistate, ma con esercito amplissimo per sottoporsela, e dominarvi. Se non che fu costretto a consumarvi gran tempo, e perchè lontana era la sua fiotta, stanti le bnrrasche ree dell’ inverno, e perchè le genti d’ Italia, non tutte spontanee gli si abbassavano. E per non dire di altri barbari, i Liguri, popolo numeroso e guerriero, posto ne’ passi delle Alpi, tentarono d’impedirgli colle arme 1’ ingresso nella Italia, e là s’ ebbero i Greci battaglia fierissima, esaurendovi tutti gli strali. Eschilo, poeta antichissimo, menziona questa battaglia nel suo Prometeo disciolto. Ivi inducesi Prometeo (he presagisce ad Ercole non che le altre vicende, quelle che gli sovrastavano nella spedizione contro di Gerione, e nella guerra co’ Liguri, certamente non focile : e questi ne sono li versi : À fronte là de" Liguri starai. Imperterrita gente : onta e rammarco Non ti fa guerreggiarli, e per destino, Pugnanda, ti vedrai mancar gli strali. Ma poiché, vincendo, s’ impadronì di quei passi ; alcuni, specialmente se greci di origine, o non valevoli a resistere, sottomisero volontai^' le loro città ; ma i più vi furono astretti con le arme e con gli assedj. Quanto ai vinti in battaglia, dicesi che Caco, quel si noto per le favole de’ Romani, barbaro principe di barbara gente, gli si opponesse perchè dominava luoghi assai forti, il che lo rendeva molesto ancora ai vicini. Costui poiché seppe che Ercole si accampava ne’ piani contigui apparecchiatosi all’ uso de’ ladroni, appari con subita scorreria su 1' esercito di lui che dormiva, e ne involò le prede, quante ne erano senza guardia. i Ma rinchiuso poscia per assedio da’ Greci che ne espugnavano le fortezze, finalmente anch’ egli soggiacque, e nel mezzo de’ suoi baluardi. 1 suoi castelli furono rovesciati; ed i compagni di Ercole, Evandro con gli Arcadi,. c Fauno con gli Aborigeni suoi pigliarono ciascuno per  Eboliìlo sdisse il suo Proiueleo ignìfera, il suo Promeleo legato, ed il Prometeo seioUo. Strabono nel lib. i, Ateneo nel 14 liarlarono dell’ ultimo. Il secondo ci resta ancora.  I.' 6l 9Ò parte delle terre del vinto. Ma ben può taluno immagnare che i Greci rimasti in quella regione furono gli Epei, e gli Arcadi originar) della città di Feneo, e li Trojani, lasciativi a presidiarla. Perocché tra le arti imperiali di Ercole fu pur quella nommeno sorprendente che le altre, di sospingere tra le sue milizie uomini divelti a forza dalle città conquistate, e di metterli alfine, se animosi combattessero, ad abitare le terre invase, arricchendoli dell’ altrui. Per tali cagioni, e non per II viaggio che niente area di rispettabile, il nome e la fama di Ercole divenne grandissima nell’ Italia. Aggiungono alcuni, che ne’ luoghi ora abitati ^a’Komani egli vi lasciasse due suoi figliuoli gen^ retigli da due donne. Pallente era 1’ uno natogli da Launa  la figlia di Evandro: Latino è l’altro, natogli da una donzella boreale. Egli la conduceva seco dataci dal padre in ostaggio, e custodivaia finché candida si maritasse ; navigando però verso 1’ Italia ne fu vinto dall’ amore, e la fecondò. Ma essendo egli ornai per tornarsene in Argo concedè che si restasse sposa di F anno, re degli Aborigeni ; e per tale cagione molti tengono Latino per figlio di Fauno, e non di Elrcole. Narrano che PaUante morisse nel fiore primo degli anni: ma che Latino, adulto fatto, succedesse al comando degli Aborigeni : e che venuto lui meno senza stirpe virile, il regno, per la battaglia co’Rutòli confinanti, restasse al figlio di Anchise, vale a dire ad Enea, che  Quesu nel S Zini, precedeatemente è chiamata Canna, ed ora  chiama Launa. Forse non k che la tanto nota Lavinia detta da Greci Launa, Labina, Laiinia, o Laouinia.  iliveuae suo genero'; ma queste cose accaddero in altro tempo. Ercole, ordinate come volea, le cose tutte d’Italia, e giuntagli la flotta, salva dalle Spagne, ofTerl con sagrifizio agl’ Iddii le dècime delle sue prede, e là, dove alloggiavasi la milizia navale, eresse una piccola città, dandole il nome di sè stesso , la quale ora albergaci Romani, e giace tra Pompeiano e tra Napoli con porto sicurissimo per ogni tempo. Cosi divenuto tra gl’ Italiani simile ad un Dio per gloria, per emu> lazione, per onori, fece vela per la Sicilia. Gli uomini lasciali custodi ed abitatori dell’ Italia, là, d’ intorno al colle di Saturno, si ressero un tempo da sè stessi : ma non molto dopo compartendo i proprj costumi, le leggi, i santi riti agii Aborigeni, come già fecero gli Arcadi, e prima i Pelasgbi, divennero coudttadini degli Aborigeni, talché sembrarono in (ine una gente medesima. E questo sia dettò su la spedizione di Ercole nella Italia, e su quei del Peloponneso che vi restarono. Nella seconda generazione dopo la partenza di Ercole, nelr anno cinquautesimoquinto al più regnava su gli Aborigeni ornai da trentacinque anni Latino il Aglio di Fauno il discendente di quel magnanimo. In quel tempo i Trojani fuggendo con Enea da Ilio già debellata approdarono a Laurento, .spiaggia degli Aborigeni in sul mare Tirreno non lontano dalle bocche del Tevere. Ed avendo da’ paesani'uu luogo per abitarvi, c quanto chiedevano, alzarono poco  (^uMia citi à di Ercole, si crede dorè ora è la torre del Grt-cu nel gulfe di lungi dal mare in un colie uqa città cui chiamarono Lavinia. Ma da indi ’ a non molto, cedendo 1’ antico nome, ebbero quello di Latini dal re di que’ luoghi ; e levandosi da Lavinia insieme co’ terrazzani fondarono una città più grande, Alba denominata. Donde uscendo di tempo io tempo fabbricarono molte e molte delle città de’vecchj Latini, abitate in grandissima parte ancor di presente. Sedici generazioni 'dopo la presa di Troja spedironouna colonia nel Pallanteo, e nella Saturnia, dove già fabbricato avcano i Pelopounesj e gli Arcadi, e dove erano pur le reliquie di essi, e fecero che vi ^ abitasse. Allora cinto di mura il Pallanteo prese la prima volta la forma di una città. Allora ebbe il nome di Roma dal duce della colonia, io dico da Romolo, diciassettesimo tra’ posteri di Enea. Ma, perciocché gli scrittori, parte ignorano, e parte ricordano variamente quanto è della venuta di Enea nella Italia, non io vo' trattarne come di fuga, ma prendendo ciò dalle storie, almeno più accreditate de’ Greci e de’ Romani. Ora tali sono le cose narrate su quell’ argomento. Espugnato ilio da’ Greci .sia per l’ inganno del cavallo di legno, come è presso di Omero, sia pel tradimento degli Aulcnoridi, o per altra maniera, perirono in città la popolazione, e gli alleati, sorpresi ancora nelle camere loro ; sembrando che la sciagura gii assalisse, non guardandosene, tra la notte. Enea e con esso i Trojani venuti da Dardano c da Olrinio a soccorrere gl’lliesi, c quanti altri conobbero in tempo la sciagura, che era preso il basso della città, fuggendo a luoghi più forti di Pergamo occuparono il castello,  difeso da proprj muri, ove, come ia saldissima parte, erano le sante cose di Troja, e danaro in copia, insieme col fior dell’ esercito. Standosi colà respingevano chi tentava di espugnarveli; ma per la perizia ne’ sotterranei vi riceveano chi vi si riparava dalia città già pigliata. Così più furono quelli che ne scamparono, che non quelli che caddero prigionieri. Con tal metodo Enea conseguì che l' impeto col quale i nemici ovunque infuriavano, non comprendesse in un tempo ogni cosa. Poi calcolando nelle sue probabilità l’avvenire, siccome era impossibile conservare la città, perdutane già la più gran parte, si rivolse al partito di cedere le mura ai nemici, e di salvare almeno le persone, e le sante cose della patria, e quanto potea trasportarsi di danaro. Così deliberato, comandò che fanciulli, e donne, e vecchj, e quanti abbisognavano di pausa nel fuggire, s’ incamminassero intanto verso le cime dell’ Ida ; mentre ~gli Achei tra T ardore di espugnar la fortezza non curerebbero d’insegnire la moltitudine che levavasi dalla città: destinò parte di milizie in guardia di ehi si avviava perchè la fuga riuscisse più certa, e nello stato presente men dura; avvertendoli insieme che occupassero i luoghi più forti dell’ Ida. Intanto ( col resto dell’ esercito, ed era il più rilevante ) egli persistendo su le mura, teneavi dis’ ratti i nemici che le attaccavano, e rendeva meno disagiato lo scampo ai suoi, che sfilavano : se non che salendo poi Neptolemo co’ suoi la fortezza, e convocandovi d’ ogn’ intorno i Greci perchè lo ajutassero; Enea finalmente si ritirò. Spalancate le porte,. 6 !) deuominate perla fuga di tanti , anch’egli uscì per esse, ma in ordine di batiaglia tra quelli che gli restavano, portando su di ottime bighe il genitore, i patrj Dei, la sua donna, i figli, e quante v’ erano persone, o suppellettili più riguardevoli. Intanto gli Achei, presa di for/.a la città, spaziandosi intorno la preda, lasciavano ai fuggitivi grande comodità di salvarsi. Enea raggiungeva via via gli altri suoi, finché raccoltisi tutti in un corpo, occuparono i luoghi più forti deir Ida. Sopravvennero ivi ancora quelli che abitavano in Cardano ; perocché vedendo lanciarsi da Ilio fiamme copiose fuor dell' usato, abbandonarono tra la notte insieme la loro città, levatine gli altri, i quali partirono prima coti Elimo ed Egesto, avendosi apparecchiate delle navi. Poi vi giunse tutto il popolo della città di Ofrinio, e vi giunsero dalle altre città Trojane quanti aveansi cara la libertà, sicché in poco tempo la milizia vi divenne grandissima. Ora questi', fuggiti con Enea dal cader prigionieri, tenendosi in quei luoghi sperarono di rendersi dopo non molto alle patrie, appena i Greui via navigherebbero : ma i Greci sottomettendo Troja e le adjacenze, e devastandone le fortezze, apparecchiavansi a porre sotto giogo ì rifuggiti ancora ne’ monti. E mandando questi gli araldi perchè desistessero, nè li necessitassero alla guerra, si venne per le suppliche a trattative, e tali ne furono gli accordi. Enea e li suoi recandosi tjuanlQ  ni/Asf ^vyciéits, porle de' fu(;giiÌTÌ. s DIOAIGI t l. aveano salvalo nella fuga partissero in dato tempo dalla Traode, e consegnassero le fortezze : i Greci in apposito ovunque dominavano in mare ed in terra, vi procurassero la sicurezza à Trojani che viag~ giovano a norma de’ patti. Enea consentendo a lai leggi, anzi bonissime riputandole per le circostanze ; manda Ascaiiio il più grande de’ figli con banda di milizie per 10 più frigie, alla terra detta Dascilite ove ora è il lago uiscanio, perchè invitatovi da’ paesani a prendervi 11 comando. Ascanio andò, e vi stette ; ma non molto : perocché giugneudogli dalla Grecia Scamandrio e gli altri Ettoridi, rilasciativi da Necptolemo, egli guidandoli ne’ regni paterni, si rimise in Troja. E tanto è quello che si narra di Ascanio. Enea però com’ ebbe pronta la flotta, vj assunse gli altri figli, il padre, le cose auguste de’ Numi, e navigò su 1’ Ellesponto alla penisola vicina, chiamata Pallene, la quale giace dirim petto di Europia. Ivi un popolo ci avea, di Traci si, detto Cruseo, ma bellicoso e fidissimo tra quanti erano gli alleati de’ Trojani nella guerra. Tale è il racconto il più verisimile fatto da Ellanico, scrittore antichissimo, intorno la fuga di Enea 1  Nel teilo si legge: ZufUTns Europa: ciocebè ha prodotto degli equivoci: la vera lezione deve essere cioè di Europia la quale h regione della Macedonia che prende nn tal nome dal fiume Europo. Pailene talvolta è detta ancora città di Tracia, perchè li Traci vi comandarono. Del resto essa è pib distante che la Tracia a quelli che navigano dall’ Asia per 1’ Ellesponto. E Dionigi Den propriamente 1’ ha chiamala vicinissima per questi, essendo tale pinitesto la Tracia.  là dove tratta delle cose Trojane. Se ne hanno ancora degli altri e non simili in altre leggende, ma non si, come io penso, persuasivi. Decidane chi gli ode, come più vuole. Sofocle il tragico nel suo dramma su Lao coonte, esseudo già Troja in sul termine, rappresenta Enea che va con le sue robe in sull’ Ida, seguendo i voleri del padre Anchise, pieno dei ricordi di Venere, e mirando la distruzione ornai della patria ne’ freschi portenti avvenuti su’ figli di Laomedonte. E tali souo i versi di lui ma pronunziati da altra persona : £cco il fgliuol di tenere alle porte ; In dorso ha il padre, a cui di [bisso pende Cerulea veste dalle spalle, tocche Dalla folgore un tempo ; intorno intorno Gli fin turba i domestici, e le schiere Non si grande però, come tu pensi, De‘ Frigi, amanti d’ aver sede altrove. Menecrate di Zante fa saperci che Enea mise la patria nelle mani de’ Greci, tradendola per l’odio suo contro di Alessandro, e che gli Achei per tal merito gli con cederono che salvasse la sua casa. Egli comincia la sua storia dalla sepoltura di Achille in tal modo. Erano gli Achei liete afflizione, sembrando a sè stessi come privi del capo della milizia. Nondimeno ergendogli una tomba guerreggiavano di tutta lena ; finché Ti'P]a fu presa per tradimento di Enea. Quest’ uomo, perche spregiato da Alessando, ed escluso dagli onori  Piccolo dooo aozi nullo: raentte Enea aveva luLio questo, c più ancora, sema il iradìmento: yorrei dire che Meuecraie non è savio, uel tulio aluaeuo de’iUCt;outì, e quindi cUc poco stm da aiifudarsi. sacerdolali, rovesciò la reggia di Priamo, e divenne per tali opere come uno de' Greci. Altri però narrano eh’ Enea di quel tempo si trovava dove ferme si stavano le inavi trojane, ed altri che nella Frigia, speditovi da Priamo con soldatesca pe’ bisogni della guerra ; anzi evvi pure chi; assai piò favoleggia su la partenza di Enea : ma ne senta ognuno come vien persuaso. XL. Le vicende di lui dopo la partenza mettono più incertezza ancora in molti; perciocché taluni guidandolo in Tracia dicono che ivi compiesse la vita ; e tra questi sono Cefalone Gergitio, ed Egesippo il quale scrìsse intorno Pelleiie, antichi entrambi e rispettabili. Altri ripigliandolo dalla Tracia lo sieguono 6no all’ Arcadia ; e dicono che abitasse in Orcomeno di Arcadia, e nel luogo, che, sebbene entro terra, cangiossi in isola, per le paludi e pel fiume, che le colonie che ora chiamansi Cafie sursero per Enea e pe’ compagni, ma Gamie nominandosi allora da Capi trojano. Sono questi racconti di varj e di Aristo che scrisse le cose degli Arcadi. Novelleggiasi ancora eh’ Enea capitasse veramente in que’ luoghi, non però che in essi morisse, ma nell’ Italia : e ciò da molti attestali, come da Agatillo, Arcade poeta, nelle elegie scrivendo : Feline in Arcadia e generò nell’ isola Con le due donne Antèmone e Codone,  Due,/iglie ; e scorse nell' Italia, e quivi Del gran Romolo suo padre divenne. La venuta di Enea e de’ Trojani nella Italia la sostengono tutti i Romani ; e monumento ne sono le pratiche nelle feste e ne’ sagi'ifizj, i libri sibillini, gli oracoli Pitici, e ben altre cose, le quali niuno trascurerà, quasi aggiunte per ornamento. In Grecia ne restano tuttora molti indizj notissimi, come il porto nel quale approdarono, ed i luoghi ne’ quali si. trattennero, non essendo il mare navigabile. Siccome dunque sono tanti, io ne farò come posso menzione, ma breve. Primieramente dunque vennero in Tracia approdando alla penisola detta Pailene, tenuta, come indicai, da’ barbari chiamati Crusei, e v’ ebbero ospizio sicuro. Passando ivi r inverno edificarono in un promontorio un tempio a Venere, e fondarono la città di Enea, dove lascia rono quanti non poteano pe’ disagi più navigare, o quanti voleano rimanere, vivendovisi come nella patria. Questa durò fino al regno de’ successori di. Alessapdro, ma nel regno poi di Cassandro fu distrutta, quando sorse Tes.salonica : e gli Eneati e molti altri passarono alla nuova città., ; XLI. Salpando da Pailene vennero i Trojani a Deio, ove Anio signoreggiava. E, finché Deio fu popolata r e (lorida, molti erano gl’ indizj della venuta di • Enea, e de’ compagni nell’ isola. Dalla quale navigando a Citerà  aUra isola incontro del Peloponneso ’ vi edificarono un tempio a Venere. Da Citerà tornandosi al mare e trovando morto non lungi varono i Trojani con Eleno. Ottenuto l’ oracolo sulla nuova loro sede, offersero al Dio cose trojane, e tra queste crateri di bronzo, de’ quali alcuni manifestano ancora con iscrizioni antichissime gli oblatori : e quindi si ricondussero camminando quattro giorni alle navi. Intendesi la venuta de’ Trojani a Butrinlo da un colle ove accamparono, che ancora chiamasi Troja. Da Bu> trinto sospinti lido lido Gno al porto detto, dopo un tal fatto, di uincitise ed ora chiamato con nome men chia ro (a), eressero ancor ivi un tempio di Venere : e passarono il mar Ionio avendo per guida della navigazione molli, che volontari li seguitavano, e li quali menavano con sé Patrone da Turi con la sua genie ; ma li più di questi, giunta l’ armata nell’ Italia, tornaronsi alle patrie : rimasero però nella flotta Patrone ed alquanti de’ suoi mossi a far causa con Enea, nel cercar nuove sedi ; quantunque alcuni dicano che il domicilio mettessero in Alunzio di Sicilia. In memoria di tal beneGzio col volger del tempo i Romani donarono agli Acarnani Leucade ed Auaitorio, togliendole ai Corintii ; e permisero ad essi che lo bramavano, di rimettere ne’ pro Regia dirimpetto a Corfb dalla qnale è lontana 13 miglia. (a) Il Casaubono crede questo porto quello che da Tolomeo h chiamato Onchesmo, e da Strabone Oochismo ; il quale incontraTasi dopo Butriuto e Cassiope ( ora Januia ); crede che in principio si chiamasse di Anchise, poi di Anchesmo, o d^i Anchismo, e quindi men chiaramente, di Onchesmo, o di Oncbismo. Digilìzed by Google 7^ nm.LE antichità’ romane prj averi gli Oniadi, e di godere in comune con gli Etoli il frutto delle isole Ecliioadi. Calarono i compagni di Enea, ma non tutti in un luogo a terra ; approdando coi più delle navi al capo japigio, detto allora dei SalenUni ; e con le altre al lido, prossimo a quello cliiamato di Minerva nel quale Enea stesso sbarcò. Era questo sito ancora un promontorio ma con porto estivo denominato di Venere, appunto dopo quel giorno. Poi navigarono, quasi col piè sulla terra, fino allo stretto di Sicilia, lasciando, ovunque andavano, de’ monumenti, e tra questi là nel tempio di Giunone, la caraffa me fallica, la quale con antichissimo scritto manifesta 4I nome di Enea che porgevala in dono alla Diva. XLIII. Fattisi ornai vicini, eccoli nella Sicilia finalmente a Drepano, dir non saprei, se portativi per disegno di sbarcare, o se per le burrasche de’ venti, consuete in quel mare. Qui s’imbatterono coi compagni di Elimo e di Egesto fuggiti prima di loro da Troja. Favoriti questi da’ venti propizj e dalla sorte, nè gi'avati di molte bagaglio, erano in poco tempo approdati in Sicilia, e fabbricato aveano intorno al fiume Crimiso in una terra che i Sicani aveano amorevolmente ad essi ceduta, per essere Egeste nodrito già nella Sicilia e congiunto col sangue di loro per questo Caso. Uno dei maggiori suoi, famoso trojano, cadde nell’ ira di Laomedonte, e quel re pigliandolo, certo per una incolpazione, lo uccise, uccidendo nemmeno tutta la stirpe virile di lui perchè alfine non • sen vendicasse ; ma le vergini figlie giudicò bensì cosa non degna lo ucciderle, ma uon sicura nemmeno a permettersi che si accasassero. 73 eoa Trujani. Pertanto le diede a mercadanti con ordine che lontanissime le portassero. Or queste rimovendosi navigò con esse un cospicno garzone, il quale preso già dall’amore di una maritollasi, e trassela nella Sicilia; e là dimorandosi nacque di loro il fanciullo Egesle nominato. Apprese i costumi e la lingua del loco : infine morendogli i genitori, e dominando Priamo in Troja, brigossi per lo ritorno. E militò pur egli contro gli Achei ; ma prendendosi ornai la città, navigò di nuovo per la Sicilia, fuggendo con Elimo su tre navi, usate già da Achille quando saccheggiava la Troade, e poi da esso abbandonale perché  portn bello ^ o buono, ma nel codice Valicano ai La porto cattivo: il che varia la àeuicuta quali finge Nettuno che presagisca la grandezza avvenire li Enea, come de’ posteri, con tali maniere : Ifo, non i dubbio ; la virtù di Enea /leggerà li Troiani, e re^ranli Be’ figli i fgli, e chi verrà da loro. G^ncependo da ciò, che Omero conosciuto avesse che questi regnavano nella Frigia ; inventarono qnel ritorno di Enea, quasi fosse impossibile che abitando nella Italia dominassero genti trojaue. Eppure ben poteano comandare a Trojani già diretti nei viaggio e stabilitisi altrove: vi saranno forse altre cause per le quali diasi a vedere r inganno. XLY. Che se alcuni sien turbati da questo : che la tomba di Enea si dica e si additi in più luoghi, non potendo in più luoghi esser lui tumulato ; riflettano esser tal dubbio comune su molti uomini, specialmente su gli insigni per sorte, e vivuti sotto cielo ognor vario : e sappiano che una è 1’ urna che accoglie i loro cadaveri, ma molti tra le nazioni li monumenti per gratitudine sul bene che vi operarono, massimamente se tra quelle esistano stirpe o città che da essi provengano, o se lungo vi fecero ed amorevol soggiorno. Or tali appunto conosciamo che furono i casi che del nostro eroe si novelleggiano. Costui dopo aver operato che Ilio nelr esser preso non fosse totalmente distrutto, dopo aver operato che gli alleati si ritirassero salvi in Bebricia che chiamano; lasciò sovrano della Frigia 'Ascanio suo figlio, eresse in Pailene una città col nome di sé medesimo, maritò la figlia nell’ Arcadia, e fissò parte de’suoi nella Sicilia : e sembrando che segnalato avesse la sua dimora in più altre parti, beneficandovi ; ne acquistò la benevola propensione per la quale gli eroi quando cessano la vita dell' uomo si onorano, e con pompa di monumenti in più luoghi. £ veramente quali altre cause mai potrebbe alcuno ideare de’ monumenti di lui nell’ Italia ? Ma di ciò sarà detto nuovamente secondo che le materie de’ subjetti si dorran rischiarare. Che poi l’armata trojana non veleggiasse verso parti più remote di Europa, ne furono cagione gli oracoli, i quali prendéano compimento appunto in quei luoghi, e la divinità che tante volte avea rivelato, ciocché si volesse. Laonde approdati a Laurento alzarono le tende in sul lido. Ma stentandovi su le prime per la sete, perchè il luogo mancava di acque ; ecco vedonsi, ( dico ciò che ne udii tra’ paesani ) prorompere dalla terra spontanei rampolli di acque dolci, dalle quali fu tutto abbeverato 1’ esercito, ed irriguo ne divenne quel campo, scorrendo co’ rivoli loro dalle sorgenti fino a gettarsi nel mare. Ora però non si le acque abbondano che ne trascorrano, ma scarsissime, si restano in un cavo luogo, credute da’ paesani sacre al sole : e presso queste si additano due altari, trojani monumenti, rivolto r nno all’oriente l’altro all’occaso, ove favoleggiano che Enea facesse il primo sagrifizio in ringraziamento al Nume per le fonti che scaturirono. Poi sedutisi in terra per desinarvi, posero i cibi secondo molti su degli strati di appio come su le tavole ; ma secondo altri, per mondezza maggiore, li posero su focacce di farina : se non che finitisi i cibi apparecchiati, prima 1’ urto, indi r altro mangiava già 1’ appio o le focacce sottoposte ; quando com’ è fama, uno de’ Ggli, o certo della tenda slessa di Enea disse : oh ! Gn le tavole ci divoriamo. Destossi all’ udir ciò fra tutti un entusiasmo, uno strepito, come allora si compiessero i primi oracoli che riceverono : essendo già fatto ad essi un presagio, in Dodona secondo alcuni, o come altri dicono in Entra  nelle vicinanze dell’Ida ove sta la Sibilla, fatidica ninfa di que’luoghi. Questa annunziò loro che navigassero verso /’ occidente, finché giungevano in luogo, dove sarebbero mangiale le mense : e che prendessero, quando vedeano ciò verificaio, per guida un quadrupede, e dove stanco del viaggio sdrajavasi, ivi fondassero una città. Ricordevoli di quest’oracolo, chi per comando di Enea portava custoditi com’ erano i simulacri de’ Numi dalle uavi a luogo destinalo, e chi preparava basi ed altari per essi. Le donne accompagnavano le sante cose con ululati e con danze. InGne essendo già tutto pronto pei sacriGzio, i compagni di Enea stavano coronati intorno l’ altare.E già questi facevano de’ voti, quando la porca già pronta pel sagriGzio,gravida nè lontana dal parto, dibattendosi tra le mani de’ sacri ministri che la tenevano, fuggissene in parti più remote del mare. Enea concependo esser questa il quadrupede di cui 1’ oracolo signiGcò che sarebbe loro di guida le tiene dietro, non  Vi ebbero pià Lrilre ; I’ una in Beoiia l’altra in Tessaglia; (jui si parla della terza nella Jooia tra Llazomcns c Teon. Ma questa Krilra non era poi cosi vicina dell’ Ida : il che fa vedere che il testo non è puro abbastanza : seppure la idea di vicinanza non è qui relativa a distanze beo grandi. Digitized by Google  legni e cose di rustico apparecchio su le quali appariva che dolentissimo ne sarebbe chi ne era privato. In quel tempo Latino re guerreggiava co’ Rutoli, suoi vicini, ma con poca prosperità nelle battaglie. In tale suo stato gli annunziano, esagerando le imprese di Enea : che un esercito di forestieri gli devastava tutto il litlorale: che se non davasi presto a riutuzzarlo, avrebbe poi manifestamente guerra più aspra con essi, che non co’ vicini. Temè Latino a tal nuova, e ben tosto, sospesa la guerra presente, mosse con esercito poderoso contro a’ Trojani. Ma vedeudoli armali alla greca, intrepidi, in buon ordine, aspettare il cimento, si arrestò, difGdando di poterli sottomettere in un colpo, come avea già speralo nel moversi contro di essi. Ed accampatosi in un colle pensò che dovevaiuuanzi tutto ricrear le milizie dalla molta fatica, sostenuta nel lungo e coutinuo travaglio. Adunque ivi riposò quella notte; ma disegnò di lanciarsi al fare del giorno sul nemico. Fra tali risoluzioni un genio del loco venne a lui tra ’l sonno, e gl’ impose di ammettere i Greci che venivano a grande utilità di Latino, e bene comune degli Aborìgeni. Parimenti i Dei patrii, svelandosi tra la notte ad Enea, suggerivano che inducesse Latino a concedergli spontaneamente una sede nel luogo che bramava, e rendersi i Greci alleati, e non competitori nelle arme. Tal sogno contenne l’uno e r altro dal cominciar la battaglia. E non si tosto fu giorno, elle milizie mossero in campo; ecco gli araldi venire da ambe le parti ai capitani per chiedere un vicendevole parlamento; e si tenne. Latino il primo querelatosi della guerra improvisa e non intimata, chiedeva ad Enea che dicesse chi fosse, e con quale disegno invadeva e derubava que’ luoghi, non avendone mai ricevuto alcun danno, e non ignorando che gli assaliti rispingono gli autori della guerra. E laddove tutto esibivasi a lui se moderate ne erano le dimande, e potea rinvenire tutto nella cortesia degli abitanti ; egli violando la giustizia comune degli uomini, voile impudentemente anzi che da onorato, arrogarsi ogni cosa colla forza. Enea rispose : Noi siamo Trojani di lignaggio, e veniamo da una città non ignota affatto tra Greci. Essi espugnandola con gueira di dieci anni ce la tolsero ; ed ora vagabondi ci rigiriamo, sema città, senza regione, ove prendere sede finalmente. Siamo qui venuti seguendo i voleri de' Numi ; annunziandoci gli oracoli che que- ta è la tota terra che ci lascia come requie da tanti errori, Abbiam preso dalle wstre terre quanto ri era bisogno ; Noi provvedevamo anzi alla nostra infelicità che al decoro, lutto che non volessimo far cosa meno di questa, come novizj in tai luoghi. Ma ne daremo copiose e buone ricompense. Vi offeriamo i nostri corpi, le nostre anime, costumati ahbaslanza ai travagli. Comunque usar ne vogliale ; noi custodiremo come inviolabili le vostre tene, noi ci lanceremo ad acquistarvi quelle de' nemici. Noi vi supplichiamo che non ascriviate ad odio le cose operate; non avendole noi fatte per ingiuriarvi ma dalla necessità violentati; e ciò che non è volontario è pur degno di scusa. E se ora ce ne scusiamo, se ne imploriamo voi stendendovi le mani supplichevoli; già non si conviene che ci destiniate alcun male, Altrimente invocheremo gli Dei, invocheremo gli Genj di queste terre perchè ci condonino quanto abbiamo fatto o necessitati faremo. Noi tenteremo respingervi la guerra se ce la incominciate ; chè non è questa la prima nè la massima di quante ne abbiamo sostenute. Latino ciò udendo soggiunse : Io sono propenso inverso di tutti i Greci e mi struggono il cuore i mali necessarj degli uomini. E pregerei moltissimo di salvarvi se poteste mai farmi chiaro che qua venite bisognosi di una sede, per aver parte nelle nostre terre e su quanto vi sarà dato per amicizia, non per involarmi colle armi il comando. Se questo dir vostro è vero ; se ne dia, chiedo, la vostra fede e se ne riceva la nostra : e saranno queste le mallevadrici pure de' patii. Dtomet, Hmt r. s  L. Enea encomiò quel parlare ; e si giurarono tali patti tra i due popoli : Darebbero gli Aboiigeiti ai Trojani quanta terra volessero in qualunque parte del colle, dentro il giro di cinque miglia da questo. Li Trojani entrerebbero a parte della guerra che gli Aborigeni aveano tra le mani, e militerebbero con essi in qualunque altra li chiamerebbero. Farebbero in comune ambedue col senno e colla mano t utile vicendevole. Stabiliti tali patti, e confermatili con gli ostaggi, combatterono insieme contro le città dei Rutoli : e soggiogando in brevissimo tempo ogni cosa, presentaronsi ad ultimare la trojana città non compiuta, e tutti con un ardore vi fabbricavano. Enea le diè nome di Lavinia, come dicono i romani scrittori, dalla figlia di Latino, chiamata anch’ essa Lavinia; e secondo alcuni de' greci mitologi dalla figlia di Anio re tra Deliesi, Lavinia nominata ugualmente : perchè morendo questa nel primo costruirsi degli edifizj, e datale sepoltura appunto nello spazio dove Enea fabbricava , la città ne era il monumento. Dicesi che navigasse co’ Trojani conceduta dal padre alle istanze di Enea, come donna di senno e di profezie. È fama che i Trojani nel fabbricare Lavinia ne avessero questi segni. Accesosi jl fuoco da sè stesso in una valle, narrano che un lupo vi traesse colla bocca e gittassevi aride materie ; e che  si spiega per infermarsi, travagliarsi, quasi Dionigi dica che la donna fu sepolta dove infermava ; ma tal voce significa ancora fabbricare e rende il senso pib acconcio e concorde. Altronde non è facile che uno seppeliscasi nel luogo appunto o aiansa. o tenda dove si ammala. Digitized by Gopgle LIBKO I. 83 no’ aquila volaado, Vi eccitasse le (ìamtue col battere delb ale ; ma che una volpe in contrario si desse ad estinguerle colla coda, bagnatala iu un Hume : e die ora vincendo chi accendeva ed ora chi ammorzava, al> fine, prevalessero le due ale, partendosi la volpe senza che nulla più vi potesse: che Enea da quello spettacolo conchiudessc, come la colonia diverrebbe magniCca, meravigliosa, celeberrima ; darebbe il crescere di essa invidia ed affanno ai vicini ; ma ne vincerebbe ogni ostacolo, ricevendo dagl’ Idùii fortuna più potente dell’odio de’ mortali in combatterla. Questi sono i portenti famosi, nati colla città : e per memoria se ne custodiscono ancora da tempo antichissimo in mezzo al foro di Lavinia le immagini metalliche di quegli animali. LI. Poiché fu compiuta la città de’ Trojani entrò desiderio in tutti di giovarsi a vicenda ; e primi ne diedero r esempio i monarchi accomunando pe’ matriinonj il grado de paesani e de’ forestieri, e sposando Latino la sua figlia Lavinia ad Enea. Quindi presi ancor gli altri da brama eguale, dandosi in breve a gara 1’ uno all’altro leggi, costumi, sacrifici, congiungendosi in città di cure e di consorzio, e divenendone tutti un corpo e chiamandosene Latini dal re degli Aborigeni, osservarono con tal fermezza gli accordi, che uiun tempo mai più li divise. .Tali sono le genti che vennero e si congiunsero, e dalle quali è la stirpe de’ Romani, prima che si fondasse la città che otn gli alberga. Erano i primi gli Aborigeni, i quali cacciarono dalle proprie .sedi i Sicoli 4 greci antichissimi del Peloponneso, di quelli, io credo, spatriatisi con Eouotro dalle terre ora dette di Arcadia. erano secondi ì Pelasghi, usciti dal>' r Emonia, ora chiamata Tessaglia : ed erano terzi quei che vennero con Evandro nell’ Italia dalla città del Pallanteo. Si ebbero dopo questi gli Epei ed i Feneati del Peloponneso, militari di Ercole, a quali si mescolavano alquanti Trojani; e gli ultimi furono i Trojani scampati con Enea da Ilio, da Cardano e da altre loro città. LII. Che poi li Trojani ancora fossero Greci, principalmente di orìgine, usciti un tempo dal Peloponneso fu già detto da molti, ed io pure lo dirò brevemente: e cosi stà quel racconto. Atlante divenuto primo re dell Arcadia che ora chiamano, abitava intorno al monte detto Taumasio. Sette erano le figlie di questo ora trasferite, dicesi, nel cielo col nome di Plejadi. Giove sposandosi 1’ una di esse vi generò Giasone e Cardano: Glasoue si tenne celibe, ma Cardano sposò Crise la figlia di Palante, e gli nacquero Ideo e Cimante, i quali due regnarono nell’Arcadia, succedendo al trono di Atlante. Poscia avvenendo il gran diluvio in Arcadia ; i campi ne divennero paludosi, nò più coltivabili per lungo tempo. Gli uomini ridottisi ad abitare nei monti, e con scarsi viveri, consentendo ad una voce che le terre intorno non erano più bastanti a nutrirli, si divisero in due. Rimastisi gli uni nell’Arcadia crearono sovrano Cimante il figlio di Cardano > gli arltri partirono su gran flotta dal Peloponneso ; e direttisi in verso di Europia giunsero al golfo detto di Me lane, recandosi ad un isola della Tracia, non saprei se abitata allora o deserta, cui chiamarono Samo Tracia con nome composto dal duce e dal luogo, per essere questo nella Digilized by Google usno I. 85 Tracia, e Samone 1’ altro, figlio di Mercurio e di Rene, ninfa Gillenide. Ma non a lungo vi dimorarono ; cbé non era ivi una facile cosa la vita, avendosi a lot tare con terre ingrate e mare disastroso. Adunque lasciando un gruppo di loro nell’ isola, li più se ne mossero nuovamente inverso dell’ Asia sotto gli Auspicj di Bardano ; perocché Giasone era morto fulminato nell’ isola per avervi appetito il concubito con Cerere. Venuti al mare chiamato Ellesponto, e sbarcatine, abitarono la terra detta poi di Frigia. Ideo con la parte da lui retta della milizia di Bardano, abitò ne’ monti che • Idei si appellano da lui, ne’ quali ergendo un tempio alla madre degl’ Iddii v’ istituì misteri e sacrifici, durevoli ancora in tutta la Frigia: e Bardano nella Troade che dicono, fondandovi la città coi nome di sé medesimo, e ricevendone delle campagne da Teucro re, dal quale Teucria fu nominata la terra. Molti, tra’ quali Faiiodimo che scrisse delle antichità dell’ Attica, narrano che Teucro ancora passasse dall’ Attica nell’ Asia, e regnasse in sul popolo di Zipeta ; allegando su ciò molti argomenti. Quivi dominando egli campagna ampia p buona, ma non molto popolata, desiderò di vedere Bardano, e li Greci con esso venuti, si per avergli alleati nelle guerre co’ barbari, sì perchè la sua terra non giacesse deserta. LIU. Ora porta il subjetto eh’ espongasi da quali Enea discendesse : ed io ciò laro ; ma brevemente. Bardano morendogli Crise la figlia dL Fallante dalla quale avea due fanciulli, si sposò òon Batia la figlia di Teucro. Di lei nacqn^li Elrittooio, creduto tra’ mortali felidssif Digitized by Gopglc 86 dt:lle antichità’ eomane mo per lacloppia eredità della signoria paterna, come deli’ altra fondata dall’avo materno. Da Erittonio e de Callii’oe figlia di Scamandro nacque Troe dal quale ebbe nome la nazione. Da Troe e da Acalide fisiia di O Euniida sorse Assaraco : e da questo e da Glitodora figlia di Laomedonte ebbes! Capi. Poi questo e la ninfa, Kaide chiamata, generarono Anchise: e di Anchise e di Venere è figlio Enea. Cosi avrò dichiarato che i Troiani siano Greci di origine. LIV. Su 1’ epoca della fondazione di Lavinia scrivesi variamente : a me sembrano piò verisimiii quelli che r assegnano all’ anno secondo dopo la partenza da Troja. Imperocché Ilio fu preso nel fine della primavera, il giorno diciassettesimo prima del solstizio estivo, mancandovi otto giorni a compiersi il mese Targhilione secondo la cronologia di Atene: e dopo il solstizio rimaneanci venti giorni a terminare quel giro di anno. Pertanto nei trentasette giorni decorsi dopo quella presa io stimo che gli Achei provvedessero su le cose della città, che ricevessero le ambascerie di quelli che erano usciti, e giurassero dei patti con essi. Nell’ anno seguente e primo dopo la espugnazione, i Trojani salpando da quella terra circa l’ equinozio autunnale passarono 1’ Ellesponto: e portati nella Tracia ivi dimorarono quell’ inverno, rac^ cogliendo gli altri che giungevano ancora dalla fuga, e preparando la navigazione. Levandosi dalla Tracia in sul fare biella primavera tragittarono fino alla Sicilia dove riparatisi spirò intanto quell’ anno : ivi spesero il secondo inverno fabbricando città con gli Elimi. Ma divenuto il pela^ navigabile fecero vela dall’ isola, e Digitized by GoogieLIBRO I. 87 valicando il mare Tirreno vennero finalmente sul mezzo della estate a Laurento, spiaggia marittima degli Aborigeni, e presavi terra, vi fabbricarono Lavinia mentre compievano 1’ anno secondo dopo la invasione di Troja. Per tali detti sarà chiaro quanto io su ciò concepisco. LV. Enea fornendo la nuova città di tempj e di altri edifizj i più de’ quali persistevano ancora a’ miei giorni, alfine nell' anno seguente, terzo della sua emigrazione, regnò ma su’ Trojani solamente. Morendo però Latino nel quarto, ebbe anche il regno di questo si per 1’ affinità sua con esso, di cui Lavinia era la erede, si per essere lui già duce degli eserciti nella guerra coi vicini. Imperocché li Rutoli si erano di bel nuovo ribellati da Latino scegliendosi per capitano Turno un disertore di Latino, e cugino di Amata, regia moglie di lui. Questo giovine alle nozze di Lavinia comcciatosi dell’ affine suo che tenesse anzi cura degli esteri che de’ parenti, e sospinto da Amata e da altri, andò cM>lle milizie delle quali era capo, e si congiunse coi Rutoli. E mossasi per tali richiami la guerra perirono in battaglia vivissima Latino e Turno e molli altri ; trionfandone Enea. Da quell’ epoca ebbe questi lo scettro del suocero, e regnò dopo la morte di lui tre anni ancora ; ma nel quarto morì combattendo : perocché gli uscirono contro dalle loro città tutti in arme li Rutoli e Mezenzio re de’ Tirreni che per le sue regioni temeva, conturbato al vedere che la greca poteuza via via si ampliava. Si dié la battaglia, ma fortissima non lungi da Lavinia; soccombendone molti da ambe le parti, finché la notte sopravvenendo, divise gli eserciti. ENEA più non apparve ; e chi lo disse trasferito Ira’ Numi, chi perito nel fiume, presso cui fu la pugna. I Latini gli eressero un tempietto iscrivendolo : del Padre e Dio del loco il quale regge il corso del Jiume Numicio. Pur vi è chi dice edificato il tempio da Enea per An chise, morto P anno avanti tal guerra. L’ edifizio è non grande : ma tiene arbori ordinatamente intorno degne da vedersi. LVI. Passando Enea da questa vita, al più I’ anno settimo dopo la presa di Troja, assunse il comando su’ Latini Eurileone, quegli che. nella fuga intitolavasi Ascanio. Erano allora i Trojan! chiusi tra le mora, e la forza nemica ognora più spaventava ; nè bastavano i Latini a soccorrere gli assediati a Lavinia. Ascanio dun que il primo chiese pace e condizioni onorate ai ne mici : ma non giovando la inchiesta, fu costretto ren dersi pienamente, e finire la guerra come il vincitore ne giudicasse. Ma siccome il monarca de’ Tirreni oltre le tante cose intollerabili comandava come agli schiavi che si recasse ogni anno ai Tirreni quanto vino producerasi dalla campagna latina ; cosi per la ìndegnissi ma condizione Ascanio prima, e dopo lui li Trojani dichiararono co’ decreti loro sacro' a Giove ogni frutto della vite. E confortandosi gli uni gli altri ad imprendere da valentuomini, e chiamando i Numi a parte dei loro pericoli, si mossero di città ma tra notte non chiara per luna. E sopravvenendo improvvisamente, presero in un subito il campo nemico il più vicino alla città, riputato antemurale ancora delle altre milizie, perchè tenuto su luogo forte e difeso dal fiore de’ giovani tirreni, comandati da Lauso, figlio di Mezenzio, Intanto che questo luogo espugnavasi le soldatesche attendate nei piani vedendo la luce insolita, ed ascoltando le voci degli oppressi fuggirono ai monti. Ivi sorse fra loro paura e strepito grande qual suole tra schiere mosse di notte, che apprendano già già di essere assalite, ma nè ordinate uè provvedute abbastanza. I Latini all’ opposito poiché vinsero per assalto quel presidio, e conobbero lo scompiglio deir altra milizia, le furon sopra incalzando e trucidando : e questa non potea nemmeno sapere i suoi mali; non che pensasse ricorrere alla forza. Quindi confusi, incerti che fare chi s’ avvia tra .dirupi e ne soccombe, chi tra luoghi cavi ma senza esito, ed è preso. Li più non distinguendosi tra loro si trattarono ira le tenebre a vicenda come uemicì ; e ben fu la sciagi>ra micidialissima. Mezenzio occupato un colle con pochi, poiché vi seppe la morte del figlio, quanto esetcito gli fosse perito, ed in quai luoghi ora si fosse iin tempo in cui fu costrutta la città, signora al presente delle cose. Ma quali ne fossero i fondatori, con quali vicende recassero la colonia, o le fondassero la città, molti già lo narrarono, discordandone alcuni in più casi. Io sceglierò da' monumenti le cose più persuadevoli ; te quali sqn queste. LXYIl. Dopo che Amulio usurpò colla forza la reggia di Alba eliminando dagli onori paterni Numitore il fratello. più grande, scorse ad altre infamie col molto abuso dei diritti, macchinando all’ultimo distruggere la stirpe di Numitore per timore di subirne la vendetta, e per desideri^ di perpetuarsene il principato. E macchinando ciò da gran tempo, notò primieramente dove recavasi alla caccia Egeste il figlio già pubescente di Numitore, e, fattegli delle insidie nel meno visibile di que’luoghi, lo uccisse appunto che inseguiva le fiere, dando opera che si dicesse poi, che il giovine fu vittima de’ladroni. Ma tal voce artificiosa uon potè soffocare la verità che. lacevasi; perocché molli ebbero cuore di palesarla, con pericolo ancora. Ben conobbe Nunillore il successo ; ma tollerando con saviezza bonissima fìnse non conoscerlo per differirne i risentimenti a tempo meno pericoloso. Amulio tenendo la vicenda per occulta, fece ancora, che la figlia di IVumitore detta Rea secondo alcuni, e poscia Ilia quando fu matura per le nozze, si dedicasse al sacerdozio di Vesta perchè andando subito a marito noti partorisse un vindice della sua gente. Dee irenl’anni, e nommeuo rimanersi candida da cose maritali lina donzella messa alla cura del fuoco inestinguibile, o per altro religioso ministero serbato per legge alle sue pari. Compieva Amulio tutto ciò co’ bei nomi di onorare c distinguere il parentado : perchè non avevane egli introdotto la legge : anzi essendo già praticata non astringeva il fratello, sicché la prima volta esso tra’ nobili si valettse di quelli onori. E pregiavasi tra g]i Albani che le donzelle più nobili ministrassero a\^esia. Ben vedea Numitorc che il fratello non facea Ciò per amore del meglio: tuttavia non espresse l’ira sua, ma tacque profondamente ancora su questa ingiuria per .non esserne malmenato dal popolo. Dopo quattro anni Ilia recatasi al bosco sacro di Marte ad attingervi limpide acque pc’ sacriGzj vi fu violentala da uno, dicono, de’ giovani innamorato della donzella : o da Amulio non si per amori che per inganni, tutto in arme, e travisatosi quanto poteva, onde essere terribilissimo a vedere. Molli però novelleggiano che fu in persona il Nume del loco, acconciando a tal fatto varie circostanze divine, e che il sole se ne ascose.  I()3 e le tenebre si spnrsero in cielo. Essersi,la immagine di quel Dio presentata augusta più che la umana per la mole e per la bellezza. Aggiungono che colui che aveala violata ( e da ciò conchiudono che fosse un Iddio) dicesse alla fanciulla che si consolasse, non si affliggesse per la vicenda essere a lei fatte le cose de’matrimonj dall’ unirsele del genio del loco : ne partorirebbe due figli y potentissimi in arme. Narrano che, ciò dicendo, nna nuvola lo circondasse, e che spiccatosi di terra, si elevasse per 1’ aere. Non è poi questo il luogo, ma bastino i detti de’ filosofi, per discutere la sentenza da aversi su queste cose, cioè se debbano dispregiarsi come opere umane imputate agli Dei, la natura de’quali felice nè corruttibile non subisce niente d’ indegno ; o se debbano riceversene le narrazioni, perchè 1’ universo è un composto di tutte le sostanze, tra le quali haccene pure una intermedia tra la umana e divina, che ora mescendosi agli uomini, ora ai Numi, genera la stirpe degli eroi. La donzella dopo la violenza si diè per inferma : consigliatavi dalla madre per la sicurezza di lei, come per la riverenza de’ Numi : nè più andava alle sante cose,' ma se dovea porgervi l’ opera sua, supplivano le vergini, compagne nel ministero. LXIX. Amulio, sia che mosso dalla coscienza, sia che da’ concetti del verisimile, spiava attentissimo le ca gioni per le quali tcneasi tanto tempo lontana da’ riti divini. E mandò de’ medici su’ quali fidava moltissimo : ma pretestando le donne non essere un tal male da presentarsi ai maschj, mise la moglie sua per guardia della fanciulla. Ma non si tosto colei gli accusò la in(loie del male, conghietlurando da indizj muliebri, ignoti alle altre ; egli fe’ custodire co’ soldati la donzella: perchè il parto, ornai prossimo, non si occultasse. £ chiamando a collocjuio il fratello, disse la violazione recondita, dolendosi che i genitori vi stessero a parte con la fanciulla, e comandò che non tacessero, anzi pubblicassero il fatto. Asseriva Numitore eh’ egli udiva cosa incredibile: ma che egli era innocente in tutto, e chiedea tempo per chiarire la verità. £d ottenutolo a stento, poiché seppe dalla moglie la cosa come erale narrata in principio dalla fanciulla, gli riferì la violenza fatta dal Nume, e le cose dette su’ due gemelli, e dimandò che si prestasse fede a tanto, se da quel parto nasceane la ]>role cora’ era presagita dal Nume. Non essendo ornai lontano il parto ; egli non sarebbene deluso lungamente : intanto esibiva donne in custodia della figlia, nè ricusavasi a prova ninna. Acconsentivano quanti erano in parlamento: Amiilio però diceva che non aveaci punto di buono in que’ detti, e diedesi per ogni guisa a pci^ dere la lànciulla. Intanto presentansi gl’ incaricati per invigilare su quel parto, e narrano aver lei dato in luce due maschi. Insistè Numitore ben tosto in dimostrare che a'veaci. r opera del Nume, e richiedÈva che oltraggio non si facesse alla vergine incolpabile. Amulio nondimeno concepiva che ci avesse della cabala umana anche nel parto mer desimo, con essersi procurato 1’ uno de’ fanciulli da altra donua, ignorandolo o cooperandovi le custodi ; e molto su ciò fu disputato. Come i consiglieri videro che il re piegavasi ad ira inesorabile, sentenziarono aneh’ essi, com’ egli volea ; che si applicasse la legge, la quale ordina che uccidasi, battuta con verghe, la ver gine profanata nel corpo, e gettisi ciò che è nato da lei ndla corrente del fiume. Ora però le leggi per le sacre cose prescrivono che tali donne seppelliscansi vive. LXX. Fin qui la più parte degli scrittori narrano le cose medesime o con picciolo divario, altri seguendo più la favola, ed altri la verisimiglianza. Ben però discordano su ciò che vi rimane ; dicendo altri che la condannata fu tolta immantinente di mezzo, ed altri che serbata in carcere oscura fe’ nascere nel volgo la idea della occulta morte di lei. Scrivono che Amulio a ciò s’inducesse vinto dalla figlia supplichevole che chiedevagli in dono la cugina ; già nudrite insieme, e pari di età voleansi il bene di sorelle. Amulio che non avea se non quella figlia, gliela concedette ; nè più compiè la morte di Ilia, ma tennela rinchiusa, nè visibile; finché fu liberata col morir del medesimo. Cosi le antiche scritture discordano intorno di Ilia, ma tutte presentano un apparenza di vero ; e perciò ne ho fatta menzione. Chi legge intenderà da sè stesso quale sia più credibile. Quanto ai figli d’Ilia cosi scrive Fabio detto il Pittore, cui seguirono Lucio Cincio, Porcio Catone, Calpurnio Pisone, e la più degli storici.  Alcuni de’ ministri prendendo per comando di Amulio i fanciulli, posti in un cestello, ve li U'asportavano per gettarli nel fiume, lontano quasi cento venti stadii dalla città. Ma come vi si approssimarono e videro che il Tevere per le pioggie incessanti usciva dall’ alveo suo naturale in su i campi, discesero dalle cime del Pallanteo fino alle acque più vicine ; uè polendo avanzarsi più oltre, deposero il cestello appunto ove il fiume toccava, inondando le falde del monte. Ondeggiò quello alcun tempo ] ma poi ritirandosi la fiumana dalle parti più ester> ne, il vasello percosse in un sasso, e deviatone, travolse i fanciulli ^ che vagendo in sol fango si dimenavano. Quando apparendo una lupa, fresca di parto e gonfie le mammelle di latte ne porse i capi alle tenere bocche de’ medesimi, tergendoli via via colla lingua dal loto onde erano intrisi. Frattanto sopravvengono dei pastori che guidavano le greggi ai pascoli ; potendosi già per que’ luoghi camminare. Al vedere 1’ uno di essi come la bestia carezzava que’ pargoletti, restossi estatico per lo spavento e per la incredibilità dello spettacolo. Quindi ( perciocché non era col solo dire creduto ) andando, e raccogliendo quanti potea de’ vicini pastori, li con duce a mirare il portento. Approssimatisi questi, e vedendo come la bestia molcea que’ pargoletti, e come i pargoletti usavano colla bestia quasi colla madre, parvero a sé stsi presenti a celeste meraviglia : ma congregatisi e proceduti ancora più oltre tentarono col tuonare delle grida impaurire la lupa. E questa non incrudita affatto dal giungere degli uomini, ma quasi domestica fosse, ritirandosi passo passo da’ fanciulli, si levò ( mutoli restandone ) dalla vista de’ pastori, essendovi non lungi un luogo sacro, opaco per selva profonda, ove le fonti sgorgavano da pietre cave. Dicesi che quello fosse il bosco di Pane ; ed un allare’per lui vi sorgeva. In questo venne la fiera e si ascose. Ora il bosco non è più: ma ben additasi 1’ antro dal quale scorrevano le acque, in vicinanza del Pallanteo, lungo la via che mena al}  107 r Ippodromo ( 1 ) : scorgesi ivi prossimo un tempietto ov’ è j come effigie del fatto, una lupa che offre a due fànciullini le poppe ; metallico e di antico lavoro è quel monumento. Era questo luogo, com’ è fama, sacro per gli Ai'^ cadi che vi si accasarono con Evandro. Allontanatasi la fiera, i pastori presero i fanciulletti provvedendo che si allevassero appunto, come se volessero gli Dèi che si conservassero. Era tra questi un placido uomo, il capo de’ regj pastori, F austolo nominato, il quale trovavasi in città per alcun suo bisogno, nel tempo che lo stupro vi si riprendeva ed il parto d' Ilia.' Dopo ciò mentre erano que’ teneri putti portati al fiume, egli nel tornare ài Pallanteo, tenne per incontro divino la strada medesima di quelli che li portavano. E non dando vista di sapere principio alcuno del fatto, dimandò per sè que’ miserelli, e presili con voto comune, e recandoseli, venne alla moglie. E trovatala che avea partorito, e dolente, che il parto erale morto, la racconsolò, e le diede que’ fanciulli da sostituirsi ; contandole dalle origini la vicenda che li riguardava. Poi crescendo, chiamò r uno di essi Romolo e Remo 1’ altro. Fatti adulti / non somigliavano per la bellezza dell’ aspetto e della prudenza a pastore niuno di gregge immonde o di bovi, ma chiunque numerati li avrebbe tra’ regj figli, specialmente tra quelli creduti di generazione divina, come in Roma cantano ancora nelle patrie canzoni. Era la vita loro fra’ pastori, e col travaglio la sostenevano,  Cirro oTc -garrpgiavasi col corso Je’ cavalli.  fissando per lo più su’ monti e legni e canne in guisa che dessero in un tempo alloggio e tetto. Ed ancora nel lato che dal Pallanteo piegasi verso l’ Ippodromo V sopravanza 1’ uno di questi abituri, detto di Romolo > cui guardano come sacro, ma nulla vi aggiungono on-, de renderlo più venerando. Che se parte alcuna ne vi6a meno per anni o tempeste, la suppliscono, riparandola, quanto possono con simiglianza. Giunti a’ diciotto anni ebbero dispute su de’ pascoli co’ pastori di Numitore i quali tenevano i loro bovili sull’ Aventino, colle situato rimpetto del Pallanteo. Ricbiamavansi spesso gli uni su gli altri, che pascessero i campi non proprj, o soli si tenessero i campi comuni, o per cose altrettali, se ne avvenivano. Davansi per tali dissidj colpfdi mani e di armi ; e ricevendone da’ giovani assai li servi di Numitore, e perdendovi alcuni di loro, ed essendone esclusi a forza dalle campagne, cosi macchinarono. Disposero in valle occulta le insidie su’ giovani, e concordato con quei che le disponevano il tempo di eseguirle, gli altri intanto andarono in folla alle roandre de’ medesimi. Romolo di quel tempo crasi co’ paesani più riguardevoii recato alla città detta Genina per farvi a no^ me della comune i patrj sacrifizj. Avvedutosi Remo della incursione volò per la difesa, prendendo in un subito le armi, e li pochi venuti a lui per unirsegli dal villaggio. Non aspettarono quelli, ma fuggirono per tirarseli dietro, dove rivolgendosi a proposito gli assalissero. Ignaro della trama, seguitandoli Remo lungamente, si ingolfò nel luogo delle insidie ; e le insidie proruppero e li fuggitivi si rivolsero ; e circondando lui co’ seguaci. 1 09 e tempestando co’ sassi, gli arrestarono, com’ era il comando de’ loro padroni che volevano vivi que’ giovani nelle mani. Cosi 'fu Remo condotto prigioniero.Ma Elio Tuberone uomo grave, e ben cauto nel tessere le istorie scrìve : che avendo que’ di Numitore preveduto che i due garzoncelli erano per ofTerire a Pane ne’ lupercali 1’ arcade sagriGzio come era istituito da Evandro, tesero gli agguati pel tempo appunto del santo ministero, quando bisognava che I giovani, abitanti il Pallanteo, correswro dopo le oblazioni nudi per la terra, e velati solo nel sesso con le pelli recenti delle vittime. Era questo un tal rito patrio di espiazio^ ne, praticato ancora di presente. Standosi nel più angusto de’ sentieri i nemici a tempo per le insidie su quei facitori di sante cose, ecco venirsene ad essi la prima banda con Remo, seguitando più tarda 1’ altra con Romolo per essersi la gente loro divisa in tre masse, e distanze. Non aspettando quelli il giungere degli altri, dato un grido, uscirono in folla sa’ primi, e circondatili, gl’ investirono > chi con dardi e chi con sassi o con altro, comunque gli era alle mani. Sbalorditi questi dall’ inaspettato assalto, e mal sapendo che fare, inermi contro gli armati, furono assai facilmente arrestati. Con tal modo, o con quello tramandatoci da Fabio, divenuto Remo il prigioniero de’ nemici, fu tratto in Alba. Romolo, al conoscere le ingiurie sul fratello, pensò dover subito tenergli dietro col Bore de’ suoi pastori, quasi a ricuperarselo ancora tra via : ma ne fu distolto da Faustolo che vedea la insania del disegno. Era F austolo ancora tenuto come padre, avendo sempre occultato ai due garzoacelli i loro primi tempi, perchè non si mettessero di slancio a’ pericoli, prima della robustezza degli anni. Allora peiTò vinto dalla necessità rivela, solo a solo, a Romolo ogni cosa. E Romolo in udire tutta la sciagura che areali involti 6n dalla nascita, impietosito per la madre venne in grande ansietà verso di Nnmitore. E molto consultandosi con Faustolo conchiuse che doveva allora contenersi da ogni impeto ; sorgere poi con apparato più grande di forze a redimere la sua famiglia dalle ingiustizie di Amulio, e subire fin 1’ ultimo rischio in vista de’ grandi risultati, operando col padre della madre, quanto egli nc risolvesse. LXXII. Stabilito ciò per lo m^lio, Romolo convocando i paesani, e pregandoli a recarsi di subito in Alba, non però tutti io folla, nè ad una porta perchè non si eccitasse in città sospetto di loro, c a tenersi nel foro, pronti per eseguire, s’ incamminò per il primo verso di quella. Intanto quei che menavano Remo presentatolo ai regj tribunali, ve lo accusavano delle ingiurie, quante ne aveano da lui ricevute, e vi addita.vano le ferite dei loro protestando che abbandonerebbero tutte le manche, se non erano vendicati. Amulio volendo fare cosa grata alla moltitudine accorsa, come a Numitore, forse presente ad incolparlo per altri , volendo la tranquillità del paese, e stimando insieme sospetta la baldanza del giovane, imperterrito in sue parole ; lo ( i) Secondo Dionigi, Numitorc ignaro della condiziona di lìcmti, lo accusava a nome de’ suoi clienti.. Ili .condannò con rendere Numitore 1’ arbitro del castigo, e con dire che chi fa ree cose, non dee rintuzzarsene da altri quanto da chi le ha sostenute. Intanto che Remo era condotto con le mani addietro legate, ed erane vilipeso da’ pastori  che sei conducevano Numitore postoglisi appresso ne ammirava la bellezza delle forme che aveano molto del regio, e ne contemplava la nobiltà de’ sentimenti, che egli conservava in mezzo ancora a terribili cose, non volgendosi a far compassione nè importunando, come tutti fanno in simili casi, ma procedendo con silenzio maestoso al suo termine. Giunto in sua casa, Numitore fece che gli altri si ritirassero, ed egli, solo con solo, chiese a Remo chi fosse, e da quali parenti ; non potendo lui, : ootal giovine, essere da ignobile stirpe. E soggiungendo Remo quanto ne sapea dal suo nutritore., come dopo la nascita era stato esposto bambino nella selva col germano, gemello di lui, come raccolto da’ pastori fosse poi stato allevato ; colui, sospesone alcun tempo, alfine, sia che in ciò vedesse  vole sospettando che egli non pensasse come parlava, cosi rispose : I giovani, come è loro mestieri, vanno pasturando de' bovi pe' monti. Io men veniva in nome di essi cdla madre per dichiararle come stieno i loro fatti. Ma udendo come tu fai guardare questa donna, io dirigevami a supplicare la figlia tua perché a lei m' introducesse. E questo cestello, io recavalo meco per certificare i miei detti. Ora poiché tur sei fermo di ricondurre qua li garzoncelli, ne esulto ; e manda con me chi vuoi, che io dimostreroUi, perchè loro si annunzino gli ordini tuoi. Cosi dunque diceva per allontanare la morte de’ giovani, e sperando egli insieme fuggire da quelli che sei menavano, quando sarebbe ne’ monti. Amulio immantinente invia con esso i più fidi tra’ suoi militari, ordinando però segretamente che afferrino, e gli rechino quelli che il pastore dimostrerebbe. Intanto deliberò chiamare il fratello e farlo custodire, ma senza catene finché 1’ affare presente se gli acconciasse. Lo chiamò dunque ma in vista ben di altre cose. Mosso l’ araldo speditogli, dalla benevolenza e dalia compassione de’ mali di lui che pericolava non tacque i disegni di Amulio a Numitore : e questo manifestando a’ giovani l’ infortunio che pendeva su loro, e confortandoli a farla da valentuomini, -andò alla reg già tra le arme di clienti, di amici, e di non pochi servi fedeli ; e lasciato il mercato pel qual erano venuti in città, vi andarono ancora co’ pugnali sotto degli abiti i contadini, gente robustissima. £ forzando tutti con impeto comune l’ ingressa, non presidiato da molli,  I. I l5 bea tosto uccisero Amulio, e presero poi la fortezza. Cosi Fabio ne racconta su ciò. ' LXXV. Altri però giudicando non convenirsi punto di favoloso alla storia dicono inverisimile che la proje> zione de’ fanciulli non seguisse com’ era ordinata ; e dicono che l’amorevolezza della lupa che porge lemammelle ai fanciulli è piena di comiche incoerenze. Raccontano invece che Nnmitore al conoscere la gravidanza d’ Uia, ne tramutasse poi nel parto i figliuoletti, supplendovene altri nati di fresco ; e dandoli in fine ai custodi della parturieute, perchè al re li recassero. Sia che la fedeltà di questi fosse comperata con oro, sia che la sostituzione fosse compiuta per mezzo di femmine ; ad ogni modo Amulio prese ed uccise gli spurj; laddove i figli d’ llia cari più che ogni cosa a Numitore, furono da lui salvati, e consegnati a Faustolo. Asseriscono che un tal F austolo era un Arcade, originato da’ compagni di Evandro, alloggiato in sul Pallanteo colla cura degli armenti di Amulio ; e che condiscendesse di allevare i figli di Numitore, indottovi da Faustino , fratello sno, presidente de’ bestiami di ]Vnmitore i quali pascolavano per 1’ Aventino : essere stata la nudrice, la esibitrice delle poppe sue, non la lupa, ma com’^ verisimile la moglie di Faustino detta Laurenza, e Lupa con soprannome da quei del Pallanteo perchè prostituiva il suo corpo. Certamente era questo  Questo nome si legge Tariaroenle. Plutarco io Rumalo Io chiama PUiacino. Altri Io ha chiamalo Fausto: perchè tra Faustolo e Fausto siavi somiglianza come tra Romolo e Remo : ed altri con molla confusione lo chiama Faustolo come il fratello. il greco aatico ^ soprannome per le femmine le quali si vendono ne’ riti di amore, e le quali ora con più gentil nome, amiche si appellano. E quindi alcuni che ciò non sapevano ne tesserono la fàvola della Lupa, cosi chiamandosi quella bestia tra’ Latini. Aggiungono che i fanciulli slattati appena, filrono dagli aj loro mandati a Gabio città non lontana dal Pallanteo perchè vi prendessero greca istruzione ; e che nudriti colà presso gli ospiti di Faustolo Gno alla pubertà furono ammaestrati nelle lettere, nel canto, e nell’ uso greco delle armi ; che rivenendo poscia ai padri loro putativi brigaronsi co’ pastori di Numitore intorno de' pascoli comuni, e li percossero, e gli allontanarono colle greggie : essere tali cose state fatte col volere di Numitore perché si avesse un principio di ridami, ed una causa onde la turba de’ pastori in città si recasse : che dopo dò Numitore fe’ lamentanze contro di Amulio, quasi per grave danno e ruberie de’ pastori di lui ; dimandando che se egli non avead parte, gli desse nelle mani il porcajo, reo delia lite, e li Ggli di quello : che Amulio a rimuovere da sè quella. incolpazione, ordinasse a tutti gli accusati, ed a quanti si dicevano essere stati presenti al successo di comparire in giudizio per Numitore : che insieme concorrendo molti altri sul pretesto di quella causa, Numitore dicesse a’ nipoti quanta, sciagura gli avea perseguitali : e dimostrando^ lui che quella, se altra mai ve ne fu, quella appunto era 1’ ora della vendetta, iramautiuenle volarono colla turba de’ pastori all’ assalto. E queste sono le memorie su la origine e su la educaziouc de’ fondatori di Roma. Ecco poi le cose avvenute nella fondazione: ciò clic mi resta anche a scrivere, ed ora mi vi accingo. Poiché Numitore col morirsi di Amulio riebbe il principato ; spese breve tempo a riordinare su le antiche maniere la città, già premuta colla tirannide, e ben tosto fabbricandone un’ altra, meditava di crearvi anche un regno pe’ figli. Pareagli bello, essendosi il popolo suo troppo moltiplicato, levarne totalmente la parte almeno già sua contraria, per non più sospettarne. E comunicatosi co’ figli, ed essendone questi dilettati ; diè loro, perchè vi regnassero, le terre dove erano stali allevati, e la parte del popolo divenuta a lui sospetta, e disposta ancora per fare innovazioni, e quanti voleano spontaneamente mutar sede. Ci avca tra questi, come per una città che si mova, molti della plebe, e buon numero de’ più potenti, anzi pure dei Trojani reputati più nobili, de’ quali esistevano ancora a’ miei giorni, almeno cinquanta famiglie. Diede a’ giovani danaro, arme, frumento, schiavi, bestie pe’ trasporti, è quanto ricercasi per la fondazione di una città. Poiché questi ebbero cavato da Alba il popolo loro, aggregarono ad esso quanti rimaneano nel Pallanteo e nella Saturnia, e ne divisero tutta la massa in due parti. Sembrava loro che ciò desterebbe dell’ ardore nella gara di compiere più speditamente un lavoro ; quando fu causa del pessimo de’ mali, cioè di una sedizione. Imperocché celebrando le due parli il suo capo, ciascuna lo inalzava come il più idoneo al comando di tutti: al-tronde li due capi non più avendo una mente e non quella di fratelli, ma di soprastanti 1’ uno su 1’ altro, ornai non curavano 1’ eguaglianza, e moltissimo ambi'^ hivano. Celatasi fin qui, proruppe finalmente la loro ambizione per questo incontro. Non piaceva ugualmente a ciascun d'essi il luogo per fabbricarvi la città : vdleala Romolo sul Pallanteo per più cause, e per la prosperità del luogo, essendovi stati salvati e nudriti : ma sembrava a Remo da edificarsi nella sponda che ora da lui lìomoria si addi manda. Ben erane il luogo acconcio per una città, su di un colle non lontano dal Tevere, in distanza di circa trenta stadj da Roma. Da tal gara appalesaronsi ben tosto le voglie di soprastarsi; apparendo assai chiaro che qual, di essi prevaleva sulr altro dominerebbe ancora su tutti. Passato intanto alcun tempo, nè sceman. dosi punto il dissidio, parve ad ambedue da rimettersene all’ avo materno, e si recarono in Alba. E colui suggerì che lasciassero giudicare agli Dei, quale di loro due desse nome e comandi alia colonia. E predestinan do ad essi il giorno, ordinò che si trovasserò di buon mattino separatamente ciascuno nel luogo ove 'bramava porre la sede : e che sagrificandovi prima secondo le usanze agl’ Iddii vi osservassero gli uccelli propizj : e qudlo di loro due per cui sarebbero gli uccelli più fausti, quello comandasse la colonia. •! giovani lodato il consiglio partirono, e trovaronsi poi nel giorno decisivo, appunto come avevano convenuto. Prendeva Romolo gli augurj sui Pallanteo dove ujeditava fissare la  Pesto con altri colloca Komeria nelle cime dell’ Arentino : ma Dionigi sembra collocarla più lontana. Sarebbero mai state due queste Romnrie, o Remurie t colonia : ma Remo nel colle contiguo, detto Aventino, o Romoria, come altri raccontano. Erano con essi le guardie, perchè non permettessero che alcuno de’ due dicesse altre cose che le vedute. Postisi ambedue nei luoghi convenienti ; Romolo dopo un poco, per ansia, -e per invidia del fratello, e più che per invidia, per impulso forse di un qualche Nume, innanzi di avere osservato alcun segno, quasi il primo avesse veduto lo augurio lieto, spedi messaggeri al fratello, perchè a lui ne 'venisse prontamente. Ma non accellerandosi questi, perchè vergognosi di portare un inganno p intanto sei avvoltoi, volandogli a destra, apparirono a Remo. Era costui lietissimo delia veduta, ma dopo non molto gli inviati da Romolo, movendolo, sei menarono al Pallaa" teo. Dove giunti, Remo chiedeva da Romolo, quali uccelli avesse veduto : e dubitando Romolo come rispondere ; ecco dodici avvoltoi, propizj col volo gli si mostrarono. Inanimato al vederli disse, addiundoii a Remo: che cerchi tu s pel tempio, e per gli usi del comune. Tale era la partizione fatta da Romolo ne’ terreni e negli uo mini diretta alla massima eguaglianza comune. Vili. Ora dirò della partizione degli uomini per concedere privilegi ed onori secondo la dignità di ciascuno. Scevrò gli uomini cospicui per nascita, o lodati per virtù, o comodi secondo quel tempo per danaro, purché avessero prole, dagl’ ignobili, dagli abietti e dai bisognosi. E plebei nominò quelli di sorte deteriore, che il greco appellerebbe dimolici ; ma intitolò padri quei di fortuna migliore sia che per la età maggioreggiassero su gli altri, sia perchè avessero figli, sia per la chiarezza della prosapia, sia per tutte queste cagioni ; pigliando, come può congetturarsi, 1’ esempio dalla repubblica degli Ateniesi, quale esisteva in quel tempo. Imperocché questi chiamavano Eupatridi principalmente o patrizj li più distinti per nascita, e più potenti per danaro, a’ quali afQdavasi la cura della repubblica : e chiamavano agrici, o rustici gli altri che di niente eran arbitri sul comune: ma col volger degli anni furono ancor essi elevati agli onori. Per tali cagioni dicono gli scrittori più credibili delle cose romane che Padri fossero nominati que’ valentuomini, e patrizj i squadre de cavalieri erano divise in decurie come i chiaro da Varrooe e da Polibio.  li. i35 loro discendenti. Ma coloro che guardano 1’ affare con occhio d’ invidia, e malignano su le origini vili di Ror ma, non dicono che i patrizj avessero questo nome per tali cagioni, ma perchè soli potevano additare gli autori della loro generazione ; quasi gli altri non fossero che vagabondi, o senza liberi padri. E davano per sicuro argomento di ciò, che quando piaceva al re di convo> care i patrizj, gli araldi gl’ intimavano pel nome loro e per quello ancora de’ padri ; laddove pochi banditori invitavano alle adunanze i plebei rinfusamente col buccinare de’ corni da bove : ma nè la intimazione per mezzo di araldi è buon segno degl’ ingenui natali, nè il snon della buccina è simbolo della ignobilità de’plebei: ma la prima recavasi per onorificenza ; spandevasi l’altro per compendio ; non riuscendo invitare in poco tempo a nome tutta la moltitudine. IX. Poiché Romolo segregò li più degni dai men riguardevoli, ordinò per leggi le incombenze degli uni e degli altri. Adunque stabili che i patrizj intenti con esso alle cure pubbliche fossero i sacerdoti, i magistrati, i giudici, ma che li plebei, liberi da tali sollecitudini per la imperizia e per la penuria, lavorassero le terre, allevassero i bestiami, ed esercitassero le arti mercenarie, perchè non sorgesse fra loro sedizione, come in altre città, quando gli uomini di grado spregiano gli ignobili, o quando i vili c poveri invidiano la preminenza degli altri. Affidò, qual deposito, a’ patrizj i plebei, concedendo a ciascuno di questi di eleggersi liberamente tra quelli un patrono. Greca antica consuetudine era questa ritenuta lungamente da’ Tessali, e dagli Ateniesi  quando ancora conoscevano il meglio : ma poi declina rono al peggio, ed insolentirono su’ clienti; comandando loro cose non degne di uomini ingenui, minacciandoli di battiture se non ubbidivano, ed abusandoli con altre maniere, quasi schiavi comperatiGli Ateniesi chiamavano Thitas pe’ servigi che rendevano, i Clienti, ed i Tessali li chiamavano Ponesti  vituperandone fin col nome stesso la condizione. Ma Romolo fregiò con nome conveniente, chiamandola patronato, la garanzia de’ bisognosi e degl’ infimi : e date all’ uno ed all’ altro utili cure, ne rendè la congiunzione benevola veramente e cittadina. X. Le obbligazioni stabilite da lui sul patronato e conservatesi lungo tempo tra’ Romani erano queste: doveano i patrizj informare i clienti della legge che ignoravano, doveano prender cura di loro ugualmente, fossero o no presenti, e far su di essi come i padri su’ figli, quanto alla roba, ed ai contratti su la medesima ; movendo liti pe’ clienti se altri ne era danneggialo, su contratti, e subendola, se altri la moveano. E per dir molto in poco, doveano proctware. ad essi tutta la ti'anquillità della quale abbisognavano nelle cose domestiche e nelle pubbliche. I clienti a vicenda se i patroni scarseggiavano di beni doveano coadiuvarli, maritandosene le figlie : doveano riscattarli da’ nemici se alcuno di essi  Diouigi qui paragona i clienii Romani, i TMti drgli Ateniesi ed i Penesti dei Tessali : ma i Thili erano almeno liberi, e servivano per la miseria o pe' debiti. 1 Penesù dei Tessali erano un intermedio tra gli schiavi e gli uomini liberi. Non era cosi de’ c.ieuti Romani. Questi non di raro parteggiavano o superavano la fortuna dc'pauoui.  ir. 187 o de’ figli rtmaDeva prigioniero : pagare del proprio per loro non a titolo di prestito, ma di gratitudine le liù perdute, e le pubbliche multe tassate in moneta : e concorrere quasi ne spettassero alle famiglie, nelle spese di essi per le magistrature, per gli onori, e per le altre pubbliche dimostrazioni. Quanto ad ambedue poi non era lecito o giusto pe’ clienti o patroni che gli uni accusassero gli altri ; che si dessero testimonianze e voti contrari ; o si lasciassero cercare gli uni per nemici degli altri. E se alcuno era convinto di aver fatto l’opposito, soggiaceva alle leggi di tradigione promulgate da Romolo : ed era per chiunque santa cosa lo ucciderlo, come vittima a Dite ; costumando i Romani di consagrare agl’Iddj, spezialmente infernali, le persone alle quali volevano impunemente dare la morte, come fece allora anche Romolo. Adunque perseverarono per molto tempo tramandandosi da figlio Jn figlio le congiunzioni dei patroni e dei clienti, senza che niente differissero dai ligami strettissimi di parentela. Ed era gran lode per uomini d’ inclita stirpe aver clienti in più numero, custodendo i patrocini lasciati loro dagli antenati, ed acquistandone altri ancora colla propria virtù. E meravigliosa era la gara di ambedue per non lasciarsi vincere gli uni dagli altri nella benevolenza ; proferendosi li clienti a far quanto potevano verso de’ patroni ; nè volendo i patrizi dar loro molestia con riceverne danari in dono. Così era tra loro il vivere condito con ogni diletto ; e. la virtù non la sorte era la misura della felicità. XI. Non solamente poi vivea sotto l’ ombra de’ patrizi i38 la plebe di Roma; ma quella delle colonie di lei, quella delle città confederate ed amiche, e quella ancora delie conquistate colle armi tenevasi per custode e protettore qual più voleva de' Romani. E più volte il senato rimettendo ai protettori le controversie di città e di nazioni confermò le sentenze date da essi. Anzi era tanta la concordia de’ Romani cominciando dall’ ora che Romolo ne fondava i costumi, che mai per secento venti anni tumultuarono con stragi e sangue, sebbene nasces sero intorno del comune molte e gravi dispute tra la plebe e li magistrati, come nascono in tutte le città, picciole o popolose : ma illuminandosi, e persuadendosi a vicenda, e parte concedendo, parte ottenendo racchetavano le interne dissensioni. Dacché però Cajo Gracco, divenuto tribuno, sconvolse 1’ armonia della città, non cessano dal sopraffarsi colle stragi e con gli esilj ; nè risparmiano misfatto per vincersi. Ma per dir tanti mali avrem poi luogo più acconcio. XII. Ordinate tali cose, ben tosto Romolo deliberò di creare i consiglieri co’ quali dividere le pubbliche cure, e trascelse cento de’ patrizj cosi facendone la separazione. Prima nominò fra tutti il più idoneo, a cui si afBdasse lo stato, quando egli coll’ esercito uscirebbene dai confini. Quindi prescrisse a ciascuna tribù di scegliersi tre uomini, savissimi per età come insigni per nascita. Fissati questi nove impose ancora che ciascuna delle curie eleggesse tre li più opportuni fra li patrizj. Infine unendo ai primi nove dichiarati dalle tribù li novanta determinati col voto delle curie, e facendo presidente di tutti quell’unico prescelto da lui ; compiè la serie di cento consiglieri. Potrebbe il consesso di pesti signiBcare tra’ Greci un senato, e con tal nome chiamasi appunto tra’ Romani. Nè io saprei deGnire se un tal nome se lo acquistasse per la età senile, o per la virtù dei membri che vi furono incorporati. Certo solcano gli antichi dir seniori i più maturi negli anni e nelle opere. Quanti ebbero luogo in senato furono chiamati e si chiamano ancora Padri Coscritti. Greca isti-tuzione era questa : perocché quanti regnavano, sia pei^ chè succeduti a’ diritti paterni, sia perchè nominati capi dalla moltitudine, aveano un consiglio di ottimi uomini, come attestalo Omero, e poeti antichissimi : nè le monarchie primitive de’ principi erano, come ora, assolute, e Gsse agli arbitrj di un solo. XIII. Ordinato il consiglio de’ cento seniori, vedendo che egli avea bisogno di una gioventù regolata da usarla in guardia del corpo suo, come per incumbenze di affari pressanti, unì trecento i più robusti delle più insigni famiglie. Le curie nominarono ciascuna dieci di questi giovani come aveano nominato li senatori ; ed egli tenea sempre con sè tali uomini. E tutti, panti erano stabiliti in quella schiera, aveano il nome di Celeri, come dai più si scrive, per la speditezza ne’ loro servizj ; chiamandosi Celeri dai Romani gli uomini pronti e spedili nell’ operare. Ma Valerio Anziate dice che lo derivarono dal duce loro, Celere nominato. Era un tal duce riguardevolissimo nel suo grado ; ed a lui ubbidivano tre centurioni, ed a’ centurioni altri capitani minori. Questi lo accompagnavano per la città colle aste, pronù ai suoi cenni: ma nel campo erano propugnatori e custodi : e spesso dirigevano a buon fine ia battaglia,primi a cominciarla, ed ultimi a levarsene. Combattevano, dove il luogo consenti vaio, a. cavallo; ma appiè, dove era aspro, nè proprio da cavalcarvi. Sembrami cbe un tal uso lo derivasse da’Lacedemoni coll’intendere die tra quelli vegliavano alla custodia dei re, e li proteggevano nelle guerre giovani generosissimi, buoni per militare a cavallo ed appiede. XIV. Composte in tal modo le cose, comparti gli onori ed i poteri cbe volevano in ciascuno ; prescegliendone tali primizie pe’ monarchi. Volle dunque cbe avesse il -re primieramente la presidenza de’ templi e de’ sagrifizj, e che tutte per lui si compiessero le sante cose in verso de’ Numi : cbe fosse il custode delle leggi e dei patrj costumi: che avesse cura dei diritti provenienti dalla natura o dai patti : che esso giudicasse delle ingiustizie capitali ; ma rimettesse il giudizio su le altre ai senatori, e provvedesse che niente si peccasse ne’ tribunali: cannasse il Senato, convocasse il popolo, e primo vi dicesse il parer suo, ma seguitasse quello dei più. Tali sono le prerogative che egli riservò pe’ monarchi, oltre quella di un comando indipendente nelle guerre. Al consesso poi de’ senatori attribuì questi onori, e questa autorità : cioè, che esaminassero le cose che il re proporrebbe, e ne votassero, ma vi prevalesse la sentenza dei più. Trasse quest’ uso ancora da' Lacedemoni : perciocché li re de’ Lacedemoni non si preponderavano da fare a lor modo, ma l’ autorità su-t prema terminavasi nel senato. Lasciò da ultimo al popolo il potere di eleggere i magistrali, di appro-, l4l Tare le leggi e discutere intorno la guerra quando al re ne paresse, non però deOnitivamcnte se contrario tosse il senato. Il popolo dava i sufTragj non tutto in un corpo, ma convocato per curie ; e riferivasi poscia al senato ciocché le più sentenziavano. Ora cangiata è la consuetudine ; imperocché non è il senato che ratifica le sentenze del popolo ; ma il popolo è 1’ arbitro delle sentenze, del senato. Io lascio, che chi vuole esamini quale di queste due consuetudini sia la migliore. Con tali scompartimenti le cose civili prendeano marcia savia e regolata, e le militari altresì la prendeano docile e pronta. Imperocché quando fosse piaciuto al re di muover l’ esercito, non aveansi a creare i tribuni dalle tribù, nè li centurioni dalle centurie, nè li maestri dai cavalieri ; nè restava àd alcuno di essere coscritto, o scelto, o di ricevere il posto che gli conveniva. Ma il re intimava i tribuni, e li tribuni i centurioni. All’ avviso di questi ciascuno dei decurioni cavava i soldati, subordinati a sé stesso. Così per un solo comando la milizia, secondo che era chiamata, in parte o del tutto, presentavasi colle arme al luogo destinato. Xy. Romolo abilitando la città pienamente per la pace e per la guerra con tali istituzioni, la rendè con esse grande e popolosa : obbligò primieramente gli abitanti ad allevare tutta la prole virile, e le primogenite delle femmine, con ordine che non uccidessero niun infante più recente di tre anni, se pure non era storpio, o mostruoso fin dalia nascita. Tali sconci bambini non proibì che via si esponessero, se presentatigli a cinque uomini dei più vicini, vi consentissero. E per chi vioDigitized by Google i43 delle Antichità’ romane lasse questa legge stabili fra le altre pene la con6sca di una metà delle loro sostanze. Considerando poi che molle delle città d’ Italia erano miseramente premute dalla tirannide di uno o di pochi; procurò di ricevere e di tirare a sè li tanti che ^ne fuggivano, purché fossero liberi, senza esaminarne i pregiudizi, o la sorte, e tutto per ampliare la potenza romana, e diminuire quella de’ vicini. Adunque fe’ ciò cogliendone una bella occasione su le apparenze di onorare gl’ Iddi!. Fondatovi un tempio, non saprei deci ferace a quale de’ Numi, o dei genj, dichiarò come asilo per chi ricorrevaci il luogo tra ’l Campidoglio e la fortezza, ora detto nell’ idioma de’ Romani il basso tra le due selve, e nominato allora cosi, per essere quinci e quindi coperto dalle ombre delle piante amplissime delle terre contigue ai due colli. Inoltre per la riverenza de’ Numi, promise a chi rifuggivasi al santo luogo che non ci avrebbe molestie dai nemici, anzi, che se voleva albergare presso di lui, parteciperebbe ai diritti sociali, ed alle terre che leverebbe altrui guerreggiando. Pertanto vi si affollavano d’ ogn’ intorno uomini che fuggivano i mali domestici ; nè altrove poi si trasferivano allettati dai colloquj, e dalle cortesi maniere di lui. XVI. La terza istituzione di Romolo, degna soprattutto che i Greci la osservassero, e certo la migliore, come io penso di tutte, la quale fu principio della libertà stabile de’ Romani, nè poco contribuì per la formazione dell’ impero, la terza istituzione fu di non uccidere tutta la pubertà delie città debellate, nè di ridurre queste come terre da pascervi, ma di mandare \ li: 1 43 in esse chi se ne avesse in parte i campi, e di renderle, quando erano vinte, colonie de’ Romani, e talvolta ancora di ammetterle ai diritti stessi di Roma. Introducendo queste e simili pratiche fe' grande la colonia sua di picciola, come la cosa stessa dichiaralo. Imperocché quelli che fondarono Roma con esso, erano non più che tremila fanti nè meno che trecento cavalieri ; laddove quando egli spari dagli uomini vi lasciò quarantaseimila fanti, e poco meno che mille cavalieri. Ma se egli basò tali regole, le custodirono poscia i re die gli succederono, e dopo i re li magistrali che pigliavano di anno in anno il comando, aggiungendone altre per modo, che il popolo romano trovasi non inferiore a niuno tra quanti sembrano i più numerosi. XVII. Ora paragonando con questi i Greci costumi, non so come lodare le pratiche de’ Lacedemoni, dei Tebani, e degli Ateniesi che tanto pregiano sé stessi per sapere. Essi gelosi troppo dell’ incorrotto loro lignaggio, non comunicarono se non a pochi i diritti della propria repubblica, per non dire che taluni ripudiavano anche gli ospiti. Da tale arroganza però non solo non raccolsero alcun bene, ma gravissimamente ne scapitarono. Cosi gli Spartani battuti nella pugna di Leuttra con perdervi mille settecento de’ suoi : non solo non poterono mai più rilevarsi da quel danno, ma deposero turpemente il comando : e cosi li Tebani, e gli Ateniesi per la sola sconfitta riportata in Cberonea furono in un tempo spogliati da’ Macedoni e della preminenza su la Grecia, e della libertà. Ma Roma, brigata in guerre gravissime nella Spagna e nella Italia, brigata a i44  ricuperare la Sicilia e la Sardegna che le si erano ribel-' late, quando ardevano tutte in arme contro lei la Grecia e la Macedonia, quando Cartagine eie varasi novamente a disputarle il comando, quando l’ Italia, non che essere quasi tutta in rivolta, trae vale addosso la guerra detta di Annibaie ; Roma in mezzo a tanti pericoli, quasi contemporanei, non solo non si abbattè ; ma ne raccolse forze maggiori che dianzi, proporzionandosi fino per contrapporle a tutti i mali. Ne consegui già questo per favore di sorte propizia come alcuni sospettano ; mentre per conto della sorte sarebbe andata in rovina con la sola sciagura di Canne ^ quando di sei mila suoi cavalieri ne rimasero appena trecentosettanta, e di ottanta mila soldati ne scamparono pochi più che tre mila. Ora queste e le cose che io son per aggiungerne fanno che io prenda meraviglia su Romolo. Imperocché avendo concepito che le cause dello stato florido di una città sono quelle che tutti decantano, ma pochi seguitano, cioè primieramente la carità verso gli Iddii, colla quale tutte le cose degli uomini si risolvono in bene, e secondariamente la temperanza e la giustizia, per la quale men si offendono e più concordano fra loro, nè misurano la felicità co’ sozzi piaceri, ma colla rettitudine, e finalmente la fortezza nel combattere, la quale rende utili a chi le possiede anche le altre virtù ; ciò, dico, avendo Romolo concepito, non pensò che tali perfezioni provenissero per sè stesse, ma conobbe che le leggi provvide, e la bella emulazione nel disciplinarsi, formano appunto una città pia, prudente, giusta, bellicosa. Adunque molto in ciò vigilando, cominciò dal cullo de’ genj e de’ Numi : e seguendo le leggi migliori de’ Greci mise in pregio le sanie cose, io dico i templi, gli altari, le statue, le immagini, i simboli, le forze, i doni co’ quali gli Dei ci beneGcano, e le feste convenevoli per ogni genio o Nume; e li sacriGzj coi quali gradiscono essere venerati dagli uomini, e le cessazioni dalle arme, e li concorsi, e li riposi dalle fatiche, e quanto si addita di simile. Ripudiò le favole che sen divulgano, sparse di bestemmie e di accuse contro di loro, giudicandole ree, dannevoH, obbrobriose, indegne di un uomo dabbene non che de’ Numi ; e ridusse gli uomini a dire e sentire magniGcamente su’Nu^ mi, non a gravarli di cure aliene da una natura beata. XIX. Già non si ode tra’ Romani nè Gelo castrato da' Agli, nè Crono che stermina i figli per timore di essere da loro assalito, nè Giove che scioglie il regno di Crono, e rinchiude il suo genitore nella prigione del Tartaro. Non le guerre vi si odono, non le ferite, e le catene e le servitù degli Dei presso gli uomini : non feste vi si usano atre e dolorose per gli cluiaii e per il lituo di femmine che piangono gli Dei levati loro, come in Grecia il ratto si piange di Proserpina, e le avventure di Bacco, e cose altrettali. E quantunque ornai li costumi vi si corrompano, niuno ravvisa colà nè uomini invasali da’ Numi, nè furie di coribanti, nè baccanali, nè misteri iuelfjbili, nè veglie notturne di femmine e raaschj nei templi, nè osservanze consimili, ma ravvisa tutto praticarvisi e dirvisi verso gli Dei con tanta pietà con quanta non si pratica o dice BIONICI, tomo I.  tra’ Greci o tra’ Barbari. Eid io vi ho soprattutto ammirato, che sebbene sieno venute a Roma tante migllaja di esteri necessitati a venerare ciascuno i suoi Dii coi riti delle patrie loro ; pure mai questa, come pur troppo succedette ad altre città, non venne in desiderio di riceverne pubblicamente il culto peregrino : e seper le risposte degli oracoli introdusse talvolta sante cose come quelle della madre Idea, le onorò co’ riti suoi propri!, escludendone quanto ci avea di superstizione e di favola. Quindi i pretori ogni anno apprestano alla diva Idea sagrifizj e giuochi secondo le leggi romane : ma un frigio, ed una donna, fHgia ancor essa, le immolano il sacriGzio. Questi la recano in giro per la città questuando per la dea come è loro costume, fregiati di immaginette ne’ petti, movendo il passo, e percotendo i timpani intanto che altri gli accompagnano col suono delle tibie, e cantano gl’ inni della gran madre : ma ninuo de’ Romani nativi ornato con veste di vario colore va per la città questuando o sonando di tibia, o venerando con frigie adorazioni la diva  ; e tutto è secondo le leggi ed il voto del senato. Tanto è cauta la città su gli usi forestieri interno de’ Numi ; e tanto ne ripudia le osservanze vane nè decorose !  Questo (ratto su la madre Idea non è ben chiaro. Sembra che il culto de lei fosse ricerulo ed eseguito in una parte solamente colle leggi romane. Quei riti che non erano ricevati non poteano esercitarsi dai Romani. Dei resto Dionigi forse afferma senza verità che gli Dei forestieri adottati in Roma non si veneravano co' riti ancora de' forestieri. Arnob. lib. a e Valerio Massimo lib. primo possono dimostrare il contrario. Nè credasi che io non sappia che alcune delle favole greche sono utili agli uomini. Certamente talune dimostrano allegoricamente le opere della natura : e talune furono simboleggiate per confortarci ne’mali; altre levano i 'turbamenti ed i terrori dell’ animo, e lo purgano dalle opinioni non sane, ed altre ancora per altro buon termine furono immaginate. Ma quantunque io nommeno che gli altri, conosca tali cose, pure vi sono assai cauto, ed ammetto piuttosto la teologia de’ Romani; considerando che tenui sono i beni derivati dalle favole greche e che non possono far utile se non a pochi, a quelli cioè che investigano le cagioni per le quali furono inventate. Ora ben rari possiedono questa fìloso6a ; ma la moltitudine ignorante suole rivolgere al peggio i discorsi che se ne fanno, e patirne 1’ una o l’altra miseria, cioè di spregiare gl’ Iddii come implicati in 'tanto malfare, o di non contenersi m.ii più da ingiustizie e da vituperi, vedendo die sono questi gli esercizi de’ Numi. Ma lascisi ciò da contemplare a quelli che que sta parte sola si appropriano di filosofia. Quanto al governo istituito da Romolo io reputo degne della storia queste cose ancora : e primieramente il numero delle persone che egli deputò per le cure religiose. Certo niuno potrebbe additare in altra nuova città stabilitovi fin da’, principi .tanto sacerdozio e tanto ministero dei Numi. Per non dire de’ sacerdoti gentilizi, furono sotto il regno di lui creafi sessanta 'sacerdoti che fornissero le pubbliche divine funzioni delle curie e delle tribù. Nè io qui ridico non le cose che descrisse nelle sue antichità t Terrenzio Varrone, peritissimo tra quanti Borirono ai suoi tempi. Poi siccome altri per lo più fanno ineonsideratamente, e malamente la scelta de’ sacri ministri ; siccome altri ne mettono a prezzo le dignità per la voce de’ banditori; e siccome altri infine le compartono a sorte; egli non volle che fossero il premio dell’argento, o della sorte, ma decretò che si nominassero da ' ogni curia due uomini, maggiori di cinquanta anni -, pteeminenti di lignaggio, insigni pe’ meriti, agiati abbastanza di averi, nè difettosi in parte della persona. E comandò che questi avessero quegli onori non a tempo ma durante la vita, e che essendo per la età già liberi dalle cure militari, lo fossero per legge dalle politiche. E siccome alcuni sagrifizj si aveano a fare dalle femmine, ed altri da’ giovani, aventi tuttavia padre e madre ; cosi perchè questi ancora degnamente si amministrassero, ordinò che le donne de’ sacerdoti fossero le compagne de’ mariti ancora nel sacerdozio ; che esse compiessero le sante cose che le leggi della patria non permettevano agli uomini, ed i figli loro prestassero il servigio, proprio de’ giovani: Che se non avevano prole scegliessero dalle altre case nella curia loro i più graziosi tra’ fanciulli e fanciulle, perchè ministrassero, quelli fino alla pubertà, queste finché erano pure senza le nozze. Io credo che Romolo derivasse questé pratiche ancora da’ Greci ; mentre ciò che ne’ Greci sacri Qnesii fanciulli cosi eleni anche dalle altrui case erano chiamati Camillì e Camille. Plutarco nella vita di Numa accenna elio cosi chiamavansi que’giovinelti che ministravano 1 sacerdote di Giove,. 1 49 ficj forniscono quelle che Canifore si domandano, lo compiono tra’ Romani quelle che Camille  son dette, cinte di ghirlande la testa, come da’ Greci la testa inghirlandasi delle statue di Diana Efesina. E quanto èseguivano un tempo fra’ Tirreni e prima già fra’ Pelasghi i Cadolj nelle adorazioni dei Cnreti e degli Dei Grandi, lo ministravano nel modo medesimo ai sacerdoti i garzon celli nominati Camilli tra’ Romani. Prescrisse inoltre che intervenisse da ciascuna tribù ne’ sagriGzj un indovino, che noi chiameremmo Jeroscopo, ed i Romani chiamano aruspice, serbando in qualche tenue parte la denominazione primitiva ; e statuì, che li sacerdoti ed i ministri loro fossero tutti nominati dalle curie, ma confermati da quelli che interpretavano i voleri de’ Numi colla divinazione. XX [II. Ordinate tali cose intorno al servigio divino, divise ancora, secondo che era per cosi dire opportuno, alle curie le sante cose, destinando a ciascuna i Numi ed i genj che in perpetuo adorerebbe ; e tassò per le sante cose le spese che aveansi a supplire dal pubblico. Celebravano coi sacerdoti le curie i sagriGzj a loro assegna ti. facendo per le feste il convito nelle case delle curie.' Perocché vi era in ciascuna curia un cenacolo, ed insieme vi era un’ edifizio comune, consacrato per tutte ; -.come i Pritanei tra’ Greci. Que’ cenacoli, quegli edifizj, curie si, chiamavano, e si chiamano, come le partizioni stesse del popolo (a). E tale istituzione sem. (j) La voce Camille manca nel tetto : ma par troppo coerente colla totalità del senso, Canifore vai quanto portatrici de' canestri. (a) Varroiie uellil>. 4 della lingua latina diceche gli edirizj ciitabrami che Romolo se l’ avesse dalla disciplina che fioriva allora tra’ Lacedemoni ne’ riti sociali. Licurgo avea ciò, fluttua quella fra le tempeste ; e che però debbe un uomo savio di stato, legislatore o sovrano che sia dar leggi che rendano i privati prudenti e giusti nei vivere; Ma qon tutti mi sembra che vedessero egxialmente còn quali industrie e leggi si rendessero tali, e sembrami che alcuni assai, per non dire interamente, mancassero, nelle parti essenziali e primarie della legi.slazione.; come subito ne’sposalizj e nel convivere colle femmine, donde un legislatore dee cominciare, come ne cominciò la natura l’ ordine armonioso di noi tutti. Imperciocché taluni pigliando esempio dalle bestie vollero i congiungimenti del maschio colla femmina promiscui e liberi, quasi fossero cosi per liberare la vita dalle furie amorose, e preservarla dalie gelosie che uc> cidono, e rimoverla dai tanti mali che per causa delie femmine invadono le intere città, non che le famiglie. Altri esclusero dalla città tali silvestri e ferali eoocu bili accordando un uomo per una donna : in custodia però delle nozze, e della moderazione delle mogli, non tentarono più o meno far leggi, ma se ne astennero; quasi impossibile fosse il contrario. Aluri nè lasciarono, come taluni de' barbari, le cose amorose senza leggi, nè le mogli senza premunirle come i Lacedenàoni, ma vi promulgarono molte e castissime regole. E vi furono pur quelli che fondarono un magistrato che invigilasse intorno la purità femminile : ma non bastarono tali provvidenze alla cura. Fu quel magistrato languido più del dovere, nè potè ridurre a pudicizia chi mal ci avea contemperata la natura. XXV. Ma Romolo non dando azione all’uomo contro donna se adulterava, o se abbandonavagli la casa ; nè dandola alla femmina che accusava l’uomo di pessima amministrazione o d’ ingiusto ripudio ; non formando leggi sul ricevere e sul restituirsi della dote, nè definendo altra cosa qualunque, consimili a queste; ne stabilì solamente una, migliore assai ( come il fatto dichiarò) delle altre, colla quale fe’ le donne' savie e pudiche e di ogni onoralo contegno. E la legge fu: che la femmina maritala la quale secondo le sacre leggi recavasi alt uomo, divenisse partecipe de’ beni e delle sacre cose di lui. Gli antichi chiamavano con formola romana nozze sacre e legittime la confarreazioiie per l’uso conume del farro .che. noi Zea chia. I 53 nilamo. E come noi Greci tenendo l’orzo per antichissimo diam principio con esso a’ sagrifìzj ; ed questo. cliiamiamo: cosi li Romani giudicando cibo primitivo e pregevolissimo il farro; incomincian col farro, quante volte una vittima si abbruci. E ul rito persiste, nè si compensò con altre squisite primizie. L’ essere le donne fatte partecipi con gli uomini di un cibo il più sacro e primitivo, e della sorte di essi, qualunque fosse, aveva un nome dalla comunanza del farro, e ciò portava un ligame indissolubile di appropriazione, e niente polca disfare quel matrimonio. Questa legge necessitava le mogli eome prive d' altro rifugio a vivere co’ modi di chi aveasele maritate, e faceva agli uomini tenere le donne come cose proprie nè separabili. Quindi una moglie pudica e docile in tutto al marito, era appunto come r.uorao, l’ arbitra della casa. Morendo 1' uomo, ne era la erede, come la figlia del padre : se moriva senza figli e senza testamento, essa era la padrona di ogqi cosa lasciata da lui, ma se avea de’ figli essa era coerede di parte eguali con questi. Che se colei peccava, avealo giudice della delinquenza, cd arbitro della grandezza della .pena : se non che li parenti ancora insieme coir uomo la giudicavano fra le altre reità, se avea contaminato il suo corpo, o se bevuto del vino, mancanza certo nel parere de’ Greci tenuissima. Ambedue queste colpe, come le estreme delle colpe femminili, ordinò Romolo che si -castigassero : la contaminazione qual priimipio d’ insania, e la briachezza qual principio della contaminazione. E lungo tempo seguirono ambedue queste colpe ad avere odio implacabile tra’Romani. Ora che buona fosse questa legge su le donne; lo at> testa la esistenza lunga di essa ; consentendosi che per dnquecento venti anni non si sciolse in Roma niun matrimonio. Solamente narrasi, che sotto il consolato di Marco Pomponio, e di Cajo Papinio, nella olimpiade centesima trentesima settima Spurio Garvilio, uomo non ignobile, il primo lasciasse la moglie, costretto Innanzi però dai censori di giurare, che la donna sua non abitava in sua casa per generare con esso. Certamente la sua donna era sterile: ma egli per quest’ opera, quantunque la necessità ve lo' inducesse, ne ‘incorse r odio perpetuo del popolo. Tali sono le leggi egregie di Romolo colle quali rendè le donne piu disposte inverso de’ -mariti. Assai più gravi e più convenienti di queste e molto diverse dalle nostre sono le leggi sul rispetto e su la corrispondenza de’ 6gli, perchè onorino I genitori col dire e col fare quanto comandano. Coloro che ordinarono i governi de’ Greci, istituirono che i' figli rimanessero un tempo, troppo breve, sotto la potestà dei loro padri: vuol dire istituirono alcuni che vi restassero tre anni dopo la pubertà ; altri, fin che erano celibi ; ed altri finché non erano scritti nelle curie pubbliche: e questo a norma della legislazione appresa da Soloné, da Pittaco, da Caronda, uomini di sapienza riconosciuta. Preordinarono ancora delle pene ; ma non gravi su'figli indocili, permettendo ai padri di espellerli e diseredarli e non altro. Ma le pene miti uon bastano a correggere la precipitanza e la caparbietà de’ gióvani, nè a renderli nel bene attenti di trascurati. Dond’ è che assai. l55 vlluperii si commettono da’ Ogli contro de’ padri nella Grecia. Ma il legislatore di Roma diede a’ padri sul • figlio per tutta la vita autorità compiuta di escluderlo, di batterlo, di vincolarlo a’ lavori campestri, e di ucciderlo ancora se cosi volessero, quantunque il figlio già trattasse le cose pubbliche, già sedesse tra’ magistrati supremi, e già si avesse gli applausi per lo zelo suo verso del popolo. In forza di questa legge uomini ragguardevoli concionando da’ rostri su cose contrarie al ' senato', e care al popolo e divenuti perciò famosi, furòno di là staccati e rapiti altrove da’ padri, perchè subissero la pena che iie voleano ; e traendoseli per lo foro, ninno potea liberarli non il console, non il tribuno, e non la plebe da essi adulata, sebbene questa  valutasse tutti men che sé stessa in potere. Ometto di dire quanto i padri uccidessero de’ valentuomini, spintisi per virtù e per ardore a far magnanime imprese ma diverse da quelle prescritte dai padri, come abbiamo di Mallio Torquato e di altri, de’ qnali diremo a suo tempo. Né il legislatore di Roma ristrinse a questo soltanto i padri; ma permise loro anche di vendere i figli, niente attendendo che altri vinto dalla sua tenerezza riprendesse la concessione come dura e gravosa. SopratUttto, chi fu allevato colle maniere molli de’Greci riguarderà come a(Cerbo e tirannico, che lasciasse i padri utilizzare su’ figli eoi venderli fino a tre volte, dando licenza più grande a’ padri sn’ figli che non a’ padroni su gli schiavi. -.Perocché il servo venduto una volta se riacquista poi la libertà rimane in seguito padrone di sè : ma il figlio venduto dal padre se diviene libero ri-' cade di nuovo sotto il padre: e quantunque rivenduto e liberatosi per la seconda volta; pur trovavasi ancora servo del padre come in principio ; ma dopo la terza vendita più non era del padre. Osservavano da principio i re questa legge stimandola rilevantissima, scritta o non scritta che fosse, ciocché non posso decidere. Disciolta poi la monarchia, quando piacque ai Romani che si affiggessero nel foro, manifeste ad ogni cittadino., tutte le leggi e le consuetudini patrie e quelle ricevute di fuori, perchè il diritto comune non finisse col potere de’ magistrati ; i Decemviri che erano incaricati dal ' popolo di compilarle, e distenderle, scrissero ancora questa legge colle altre: e trovasi nella quarta delle dodici tavole, che chiamano, che essi esposero nel .fòro. Che  poi li decemviri, eletti trecento t^nni appresso per la ordinazione delle leggi, non diedero essi i primi questa legge ai Romani, ma che ricevutala come antica molto, non osarono toglierla, lo deduciamo da molle fonti,e principalmente dai decreti di Numa tra’quali era scritto; Se un padre conceda al figlio di prender moglie la quale secondo le leggi sia partecipe delle cose sacre e de' beni, questo padre non avrà fin dt. allora più facoltà di vendere il figlio. Or ciò non avrebbe., cosi scritto, se per le leggi antecedenti non era permesso af padri di vendere i figli. Ma basti su 'ciò : frattanto voglio dcllneare come in compendio la. bella istituzione colla quale Romolo ordinò la vita de’ privati. Vedendo che le adunanze politiche, ove i più sono indocili, non si riJucouo con magistero di. iSj parole a vivere temperantemente, a preferire il giusto all’ utile, a dumr la fatica, nè riputare cosa alcuna più onorata del retto procedere ; ma che piuttosto si dirigono ad ogni virtù colle consuetudini buone ; e vedendo che quelli ohe si disciplinano anzi di forza che spontaneamente, ben presto, se niente impediscali, ritornano ai geiij loro; non concedette che ai servi ed a’ forestieri di esercitare le arti sedentarie, illiberali, fautrici dei turpi desideri, come quelle che guastano e profanano i corpi e le anime di chi vi si applica. E lungo tempo rimasero queste ingloriose tra’ Romani, e ninno che nativo fosse di que’ luoghi, vi rivolse le industrie sue. Lasciò solamente per gl’ ingenui le due cure della cam> pagna e delle armi ; perocché vide che con tali maniere di vivere gli uomini signoreggiano il ventre, e meno languiscono tra gli estri amorosi, nè sieguono quella voglia di arricchire che dissocia i cittadini a vicenda, ma quella che trae 1’ utile dalle terre o da’ nemici. Riputando imperfette, anzi litigiose queste vite se disgiunte, non ordinò già che una parte si desse ai lavori del campi, e 1’ altra andasse e derubasse i nemici come la legge disponeva tra’ Lacedemoni; ma prescrisse in comune li rustici e li militari travagli. Se godea pace, ; costumavali a star tutti intenti per le campagne, salvo il giorno ( ed erari da lui destinato ogni nono giorno ) • in cui faceano mercato ; perchè allora amava che accorrendo iu città vi commerciassero. Ma se prorompeva la guerra, addestravali a farla, e non cedere gli uni agli altri nel faticarvi o lucrarvi; pèrocchè divideva tra loro ugualmente, quanto involava al nemico, campi, schiavi, danari, e xciidcali con ciò volenterosi ad imprendere. Spediva, non prolungava i giudizj su le offese scambievoli ; c quando giudicavale da sé medesimo e quando per mezzo di altri: e proporzionava ai delitti le pene. Considerando che la paura più che tutto respinge gli uomini dalle scelleraggini, coordinò più cose per incuterla, come un tribunale, ove sedea giudicando, nel più visibile luogo del foro, imponentissimo l’ apparato de’ soldati, trecento di numero, che lo seguivano, e le verghe e le scuri portate da dodici uomini li quali nel foro stesso batteano chi avea colpe degne di battiture, o nella' pubblica luce lo decapitavano, se altri ne avesse più grandi. Tale fu l’ ordine del governo indotto da Romolo, e da queste cose ben si può conghietturare su le altre. XXX. Quanto alle altre opere civili o beUiche di un tal uomo, queste ne furono tramandate, degne che si intessano ad una storia. Siccome i popoli circonvicini a Roma erano molti, e grandi, e bellicosi, nè punto amici di essa ; deliberò conciliarseli co’ matrimoni, mezzo gii> dicato dagli antichi saldissimo di procacciar le amicizie. Considerando però che tali genti non si unirebbero spontaneamente con loro, nuovi di colonia, impotenti per danaro, e privi d’ ogni gloria di belle operazioni, e che altronde cederebbero violentati, se oltraggiosa non fosse la violenza; risolvè, (ciocché avea NumitOre l’avo suo materno già suggerito) di faré, ed in copia, i 'matrimòni col ratto delle vergini. Cosi risoluto, fe’ Voti al Dio guidatore dei disegni reconditi, che se la prova gli riusciva appunto come la ideava, gli tributereUie ogni anno e feste e sagrifizj. Quindi riferito il .disegno in  li. 1 5() senato, e comprovatovi, propose di celebrare giuochi solenni a Nettuno, e ne sparse la nuova per le città vicine ; invitando chiunque al concorso ed ai giuochi, che giuochi sarebbero moltiplici di cavalli e di uomini. iVenuii forestieri in copia alla festa insieme colle mogli e co’ figli, e compiti già li sagriCzj a Nettuno e li giuochi, infine nell’ ultimo giorno quando era per dimettere la moltitudine fe’ intendere ai giovini che al dare di un segno certo, tutti involassero quante a loro ne capitavano, le vergine accorse agli spettacoli, le custodissero però quella notte inviolate, ed a lui le recassero nel prossimo giorno. Compartitisi i giovani in truppe non si tosto videro elevato il segno convenuto ; si volsero a far preda di vergini. Sorgene un tumulto un damore de’ forestieri che maggiore ne sospettavano il male. Condottegli nel prossimo giorno le vergini, Romolo consolavale disanimate, con dire che tendea quel ratto a maritarle non a vilipenderle. £ dichiarando che Greco, e primitivo, e nobilissimo era il modo tenuto da lui tra tutti i modi co’ quali si procurano le nozze alle femmine ; invitavale ad amare gli uomini che la sorte ad essi offeriva. Dopo ciò numerando le donzelle e trovandole secenlo ottantalrè ; scelse bentosto altrettanti de’ suoi non maritati, e con essi congiunsele. Egli legandole colle nozze secondo il rito della patria, rendeale partecipi dell’ acqua stessa, e del foco ; e quel rito mantienesi ancora. Alquanti scrivono che avvenne un tal fatto nell’ anno primo del regno di Romolo : Gneo Gellio lo assegna nell’ anno terzo, e ciò pare più verisimile. Imperocché non èprobabile che il capo di una città uascente si accingesse a tal opera prima clic ne avesse costituito il governo. Altri stimano cagione di quel rapimento la scarsità delle femmine, altri l'impulso a far guerra; ed altri più persuasivi, a’ quali io m’attengo, la necessità di aver amicizia cogli abitanti vicini. Ripetevano i Romani anche al mio tempo la festa allora consacrata da Romolo chiamandola Consuali (t). In essa un altare sotterraneo, scalzato intorno intorno di terra,, posto vicino al circo massimo, onorasi con sagriOzj, e primizie che bruciansi. Evvi corsa di cavalli sciolti, o congiunti ai carri. Conso chiamasi da’ Romani il Nume a cui tributano questi onori : e taluni con greca interpretazione dicono che sia Nettuno, scotitore della terra, e che si venera appunto in altari sotterranei, perchè questo Dio possiede la terra : ma io ne so’ pure altra origine perchè udii che la festa era celebrata per Nettuno, e per Nettuno li s giuochi equestri; ma che r altare sotterraneo era stato consecrato infine ad un genio ineffabile, guidatore e custode de’ segreti disegni. E certamente Nettuno in niun luogo tiene altari invisibili inalzatigli da’ Greci o da’ barbai'i. Pure è difficile a diffinire come stiasi la verità. Come la fama del rapimento delle vergini e gli eventi de’ giuochi si sparsero per le città vicine; altre si corucciaron su 1’ opera, ed altre invesugando 1’ affetto ed il fine ond’era avvenuta, la sopporlavanu in  I giuochi isliluili da Romolo nel ratto delle Sabine furono chiamali Consuali perchè fatti in onore del Dio Conso. Appresso furono detti Circensi quando Tarquinio Prisco fece il circo massimo. Sembra che la prima volta fossero celebrali nel campo Marso.. l6l pace. In fine però ne proruppero delle guerre, alcune sicuriiniente ben facili ; ma grave e disastrosa fu cjuella co’ Sabini. Felice fu l’esito di tutte, come prima che si cominciassero ne aveano presagito gli oracoli, i quali significavano che grandi ne sarebbero i travagli, ed i pericoli, ina lietissimo il fine. Le città che prime si misero a tal guerra furono Genina, ed Ànlemna, e Crustumero, in apparenza pel ratto delle vergini e jicr vendicarsene ; ma la cagione vera che ve le spingeva era la fondazione, era il créscere di Roma divenuta grande in poco tempo, e la voglia di non trascurare che più si estendesse quel male, comune a tutti i vicini. Ben tosto dunque spedendo ambasciatori ai Sabini gl’ invitarono perchè fossero i capi nella guerra, essi che erano i più polenti di arme e di danaro, degni di comandare ai vicini, nè oltraggiali menu degli altri; essendo le vergini rapite per la maggior parte Sabine. Ma poiché niente profittavano, pere he gli ambasciadori di Romolo contrariavano, ed appiacevolivano con parole e con opere quella gente ; stanche alfine di perdere più tempo coi Sabini i quali esitavano c rimettevano ognora a tempo più rinioto il consiglio di guerra, destinarono fra loro di combattere esse i Romani; pensando che avrebbono suificieiiza in sè stesse di forza, se univansi tutte tre, per invadere una città sola, nè grande. Così dunque si coiicerlarouo ; ma non si espedirono già per concentrarsi tutti in un esercito ; insorgendo innanzi gli altri i Ceuiuesl, pi'imarj già nel volere la guerra. Ora avendo questi mossa l’ armata, e devastando il campo contiguo, Romolo usci colle sue truppe : e piombando repentinamente su' nemici che non seu guardavano ; ben presto ne espugnò gli alloggiamenti, che appena erano formati. Poi gettatosi appressa quelli i quali si rifuggivano nella città, dove non crasi udita ancora la sciagura dei suoi, non trovandovi nè guardate le mura, nè chiuse le porle ; la invase a primo impeto, ed uccise, combattendo, e spogliò colle sue mani delle arme il re di essa venutogli incontro con forz^ poderosa, Cosi prendendo e comandando la città che gli consegnasse le armi, e togliendosene per ostaggio, que’ gioviui che più volle; marciò contro gli Antemnati. Rendutosj colla subita incursione padrone delle milizie di questi, sbandate ancora a far preda, come crasi padrone renduto delle precedenti, e trattati i vinti nella maniera medesima; ricondusse a casa l'esercito, recando le spoglie degli oppressi in battaglia, e le pripiizie delle prede ai Numi i quali onorò con assai sagriSzj. Andava-, massimo della pompa egli stesso in veste di porpora, e coronato di alloro le tempie, ma su di una quadriga  per serbare la dignità di monarca. Seguivano  Plutarco scrive c>;e Dipoigi uon dice bene quando afferma che Romolo veniva su di un carro. FwyueAer it vac piia-tt Aisrue-rur. Tito Livio scrive che Roipolo spolia ducis hostiunt cacti tuspensa, fabrieato ad id apté ferculo, gerent, i/t capholium asce/idit. Il Casaubono pensa che Dionigi per la non piena peiizia delia lingua latiua interpretasse quel ferculum di ^vio, dal quale derivava tali racconti, per cocchio;' quando eia ir. ' i63 le milizie de’ fanti e de’ cavalieri, ornate secondo i loro gradi, magnifìcando gl’ Iddii colle patrie canzoni, ed il capitano con gli slanci di versi improvvisi. Quelli della citii recatisi loro incontro colie mogli e co’ figli, e schierai isi quinci e quindi per le vie si congraiulavano con essi per la vittoria, e davano ogni altro segno di ami^ cizia. Entrata la truppa in città trovò crateri spumanti di vino e mense colme di ogni varieià di cibi appiè delle case più riguardev.oli pei’chè a piacere vi sì saziasse. Cosi andava con trofei e sagrifizj la pompa della vittoria istituita la prima volta da Koniolo, e chiamata dai Romani trionfo : ma ora, trascendendo ogni antica semplicità, spiegasi magnifica e clamorosa come in tragico rito, anzi per gala di ricchezze che in prova di virtù. Dopo la pompa e dopo i sagrificj Romolo edificò su le cime del cimpidoglio un tempio a Giove detto Fé-, retilo da’ Romani : Non era grande il sàiito edificio ; apparendone ancora i primi vestigi, e vedendosene! iati maggiori meno lunghi oi dal vero chi voglia questo (jiove Feretrio a cui Romolo offerse le anni, chiamarlo il Dio che tiene i trofei, o che porge come altri dicono, le spoglie de’ nemici, o il Dio preeminente, perché supera ed abbraccia tutta intorno la natura ed il movimento degli Esseri. piutlo.s(o come iuterprela Plulaico ciocché ni direbbe trnfeo. Lo stesso Plutarco ìoscgiia che Lucio Taripiaio Piiscu fu il (irinio che tiiuufasse sul cairu. Poiché Romolo ebbe tributalo agl’ Iddìi le primizie ed i sagrifìzj di ringraziamento, deliberò, prima di far al irò, col senato, com’erano da trattarsi le città debellate ; ed esso il primo ne dichiarò la sentenza che ottima riputava. E piaciuta questa come la più sicura e la più luminosa a quanti erano in quel consesso, ed encomiatone pe’ vantaggi che a Roma ne risultavano non pur di presente, ma in ogni avvenire; comandò che venissero a lui le donne di Cenina e di Antemna cadute prigioniere con altre. Riunitesi sconsolaté^, e prostratesi, e piangendo esse la sorte della patria; accennò che frenassero i pianti e tacessero e poi disse: hen dovrebbero i vostri padri, i vostri fratelli, e le intere vostre città subire ogni male, perchè scelsero anzi che r amicizia la guerra, e guerra non necessaria nè onesta. Nondimeno abbiamo noi deliberato di essere clementi con essi per molle cagioni, e perchè apprendiamo la vendetta de' Numi, pronta contro i superbi, e perchè temiamo la indignazione degli uomini, e perchè giudichiamo essere la compassione compenso non lieve de' mali comuni, noi che già la dimandavamo dagt altri : e finalmente perchè pensiamo che ciò non sarà caro e grazioso poco per voi, congiunte finquì co' vostri mariti senza che possano querelarsene. Condoniamo questo delitto, nè togliamo a’ vostri cittadini non la libertà, non i poderi, non altro bene qualunque. Lasciamo noi dunque ( nè già se ne avranno a pentire) lasciamo libera a tutti la scelta di rimanere in patria se il vogliono, o di traslatarsene. Ala perchè niente pià faccia abberrare le vostre  città, perchè niente più trovisi in esse che possa ridividerle dcdla nostra amicizia’, rìputianio espedientissimo e saluberrimo per la concordia e sicurezza di ambedue se le rendiamo colonie di Roma, e se da Roma vi mandiamo abitanti che bastino. Àndcde : statevi di buon animo : moltiplicatevi nelt ossequio e nella benevolenza de’ vostri mariti; tra’l dolce sentimento che liberi per voi sono i vostri figli, liberi i vostri fratelli, libere le patrie vostre finalmente. Ti-ipudiando in udir questo le donne e lagrimando viva^ niente di gioja partirono dal Foro. Romolo mandò in ciascuna città trecento uomini e le città cederono ad essi, dividendolo a sorte, il terzo de’ loro terreni. In opposito menò in Roma quanti Antemnati e Ceninesi vollero trasferirvisi, e raeuovveli colle mogli e co’ figli mentre ritenevano in que’ luoghi i campi ad essi toccati, e portavano seco il danaro che possedevano. Li descrisse il re ben tosto nelle curie e nelle tribù ; nè furono men di tre mila : tanto che ne’ cata-^ loghi romani si numerarono allora la prima volta sei mila fanti. Genina ed Antemna città non ignobili avean greco lignaggio : imperocché tolte ai Sicoli caddero in potere degli Aborigeni, i quali erano una parte degli Oeijoirj, venuti già dall’ Arcadia, come nel primo libro fu detto, ma ora finita la guerra divennero colonie romane.  Romolo dopo ciò condusse Tesercito incontro de’ Crustumerini, apparecchiati meglio che i primi : e vintili, quautiinque stati fortissimi , nella battaglia  Qui Dionigi è contrario a Livio il qnale scrive:' Poi t’in \ in campo e su’ muri, non volle che patissero più oltre; ma fece della città, come delie altre una colonia romana. Era Cruslumero colonia degli Albani speditavi mollo tempo innanzi di Roma. Divulgando la fama in molte città la fortezza militare del capitano e la clemenza in verso de’ vinti; si congiunsero ad esso ancora non pochi valentuomini ; i quali con tutte le famiglie a lui trasferendosi, gli recarono forze non dispregevoll. Ed uno de’ colli di Roma ancora chiamasi Celio, da Celio che uno fu di que’capi venuti dalla Etruria. Anzi a lui si diedero Intere città, cominciando dalla città dei Medullini, le quali divennero colonie romane. I Sabini al veder ciò se ne conturbarono, accusandosi a vicenda che non avessero messo iiu argine alla monarchia dei Romani in sul nascere, o che si avessero a brigare con lei fatta già grande. Nondimeno parve ad essi che fosse da correggere il primo errore collo spedire un esercito rispettabile. E riunitisi a congresso In Curi la più cospicua e la più imponente delle loro città, vi decisero co’ loro voti la guerra ; creaudone generalissimo Tito Tazio re dei Cureli. Deliberato ciò ripatiiaronsl e prepararono i Sabini la guerra per marciate In su la nuova stagione con esercito poderoso contra Roma. Intanto Romolo si apparecchiò fortlsslmamente onde jìsosplugere uomini fiorentissimi in arme. Elevando le mura del Palatino e torrioni più alti di camminò contro de Crustomenesi g i quali portavano la guerra z ftia qui ci ebbe men di contrasto perchè già gli animi erano abbaia tuli per le sconfitte degli altri  1 67 esse perché dentro vi si stessè con sicurezza, e circondando con fossi e irincere 1’ Avventino, ed il Campidoglio che ora chiamano, colli ambedue dirimpetto dei primo, e presidiandone l’uno e l’altro con salda guarnigione; ordinò che nella notte vi si riparassero e greggio e villani. Munì similmente con fossi e palizzate, e guardie ogni altro luogo opportuno per la loro salvezza. Intanto Lucumone, divenuto amico suo non molto di prima, Lucumone uomo operoso ed insigne nelle arme, venne a lui con buon sussidiodi Toscani da Vetulonia ; e vennero pure da Albano in copia, ( e mandavagli 1’ avo materno ) combattitori. commissari, arteBci di militari stromenti. Diè loro frumento ed arme e quanto facea di mestieri, e largamente ne diede per ogni vicenda. Poiché furono apparecchiati ambedue per r impresa, i Sabini al sorgere della primavera, ornai sul pnnto di cavar le milizie, deliberarono di spedire, e spedirono prima a’ nemici un ambasceria la quale esigesse le donne e la soddisfazione della rapinà di esse ; perchè se ’l giusto non ottenevano, apparisse che spinti dalla necessità davano alle arme. Romolo pregò in opposito che si permettesse alle donne rimanersene con quelli a’ quali si erano maritate giacché restie non ci convivevano: che se abbisognavano di altra cosa, volessero da lui riceverla come da un amico, non lo investissero colla guerra. I Sabini non contentati in alcuna dimanda menarono in campo venticinque mila pedoni e quasi mille cavalli. Non molto differiva dalla milizia sabina la romana ; numerosa di ventimila fanti, e di ottocenfp cavalieri, ed accampatasi divisa in due parli dinanzi la città, teneva con una parte il colle Esquilino sotto gli auspicj di Romolo, e con l’altra il Quirinale ( che allora non avea questo nome ), e Lucumone il Tin'eiio erane il capitano. Al conoscere tali disposizioni Tazio re dei Sabini levandosi di notte, traversò coll’ esercito la campagna, non già per danneggiarla, ina per mettersi prima del nascer del sole in sul campo tra ’l Quirinale ed il Campidoglio. Ma vedendo che tutto era custodito dalle guardie vigili de’ nemici, e che non ci avea luogo sicuro per lui, cadde in gravi dubitazioni senza rinvenire intanto come avea da usare quel tempo. Fra tante dubitazioni sorsegli una prosperità non pensata ; essendogli consegnato un de’ luoghi fortissimi con questo successo. Rigirandosi appiè del colle Capitolino i Sabini per esplorare se ci avea parte niuua, donde potesse espugnarsi con sorpresa, o di forza ; videli dall’ alto Tarpeja, una vergine cosi nominata, figlia del valente uomo al quale era la cura hdata di que’ luoghi : s’ invaghì la donzella, come scrive Fabio e Ciucio, dei braccialetti che que’ Sabini s’ aveano intorno la sinistra, e s’ invaghì degli anelli. Brillavano allora di oro i Sabini, molli nommen che i Tirreni nel vivere. Ma Lucio pisone il censore narra che la fanciulla ciò fece sul bel desiderio di esporre ai cittadini i nemici, nudi delle arme colle quali si difendevano. Ben può da quel che siegue raccogliersi qual sia di queste due cose la più verisimile. Mandando fuora una serva per una tal porticina che niun si avvide che fosse aperta, fe’ richiedere il monarca Sabino che venisse a lei senza compagni per nn colloquio ; ed essa parlerebbegli di cosa grande e necessaria. Accettò Tazio l’ invito su la speranza di un tradimento, e recatosi al luogo additatogli, e venutavi ( che ben lo potè ) la donzella, disse che il padre suo quella notte si era allontanato per un tal bisogno dalla fortezza, e che le chiavi delle portò erano presso di lei : consegnerebbele se a lei venissero quella notte, e se in premio della consegna le si dessero quelle fulgide cose che ì Sabini portavano tutti nella sinistra. Piacque a Tazio 11 partito, e contraccambiatasi ambedue la promessa con giuramento di non illudersi ne’ patti ; la vergine distinse la parte per la quale avrebbero a venire a quel fortissimo luogo, e distinse 1’ ora della notte in che meno s' invigila ; e poi ritornossene, nè quelli che eran dentro ne seppero. Concordano Gn qui ma non già nel resto gli storici romani. Pisone il censorino del quale abbiam detto di sopra scrive che Tarpeja spedì quella notte un messaggiero che signiGcasse a Romolo gli accordi fatti tra i Sabini e tra lei ; e come ella esigerebbe le arme difensive di essi, deludendoli coll’ ambiguità de’ trattati : egli dunque mandasse altra milizia nella fortezza, e vi sorprenderebbe i nemici col capitano spogliati di arme. Aggiunge però che il messaggero fuggendosi presso il re de’ Sabini gii accusasse i disegni di Tarpeja. Ma nè F abio nè Cincio dicono che ciò avvenisse, e sostengono che la donzella mantenesse i patti del tradimento. Dopo ciò continuano tutti la storia con slmiglianza. Imperciocché narrano che avvicinatosi il re dei Sabini col Gor dell’ esercito colei per adempiere le promesse aprisse a’ nemici la piccola porla concordata, e che destate le guardie del luogo le stimolasse a scampare sollecitamente per tragitti ignoti ai Sabini che ornai possedeano la fortezza. Narrano inoltre che i Sabini al fuggire di quelli, trovatene le porte aperte, occupassero la fortezza abbandonata ; e che la donna avendo prestato i servigi pattuiti, ne chiedesse il premio secondo i giuramenti. XL. Dopo ciò scrive Pisene che essendo i Sabini pronti di dare l’oro di che riluceano ne’bracci sinistri; Tarpeja la donzella ue pretendesse non i fregi ma gli scudi : che Tazio andasse in collera per l’inganno, ma pur si guardasse dal violare i trattati : che era a lui sembrato perciò che si dessero alla vergine le arme richieste ma per modo, che ricevutele non potesse valersene : che ben tosto dunque, comandando di essere imitato dagli altri, lanciasse lo scudo con quanta avea forza contro Tarpeja : la quale investita d’ ogn’ intorno e sopraffatta da tanti colpi e si gravi succumbè sotto delia tempesta. Ma Fabio ascrive a’ Sabini la frodolenza su’ trattati. Perocché dovendo secondo i patti dare a Tarpeja le auree cose che dimandava, rattristatine per la grandezza di esse, scagliarono su lei le arme colle quali si difendevano, quasi scagliar le medesime fosse un darle come aveano promesso quanto giurarono. Se non che sembra che i fatti consecutivi rendano più verisimile il giudizio ultimo di Pisone. Certamente fu la giovine, dove cadde, onorata di tomba, e la tomba sta nel più augusto de’ sette colli, e Roma ivi le replica ogni anno sacre libagioni. Io dico ciocché scrive Pisone. Cioè se ella fosse morta tradendo la sua patria non avrebbe ottenuto niuno di questi due onori nè da quelli che ne erano traditi, nè da quelli che ne furono gli uccisori : anzi se avanzo mai v’ era del tuo cadavere sarebbe stato poi disotterralo e gittato per atternre i posteri, e respingerli da simili operazioni. XLI. Tazio e li Sabini impadronitisi di quella fortezza, e pigliato senza disagi il più degli appareccbj de Romani, facevano ornai la guerra da luogo sicuro. Cosi tenendosi dunque ambedue le armate dirimpetto a piccola distanza fra di loro, molti erano in molte occasioni li tentativi e gli attacchi senza grandi risultati di danno o di utile per ninna delle parti. Due furono le battaglie più rilevanti date con tutte le milizie, schierate 1’ una contro l’ altra; e grande ne fu la strage vicendevole. Ma tirandosi in lungo, ambedue li re concorsero nel sentimento di venire a decisiva giornata. E recatisi nello spazio intermedio ai due accampamenti i capitani migliori nelle armi ed i soldati già sperimentati in mille cimenti fecero memorabili prove dando e ribattendo gli assalti, e traendosene e rimettendovisi ugualmente. Coloro i quali contemplavano da luogo munito la equilibrata battaglia, e che d’ora in ora piegava dall’ una o dall’ altra parte, incitando, ed acclamando incoraggivano chi vi si distingueva ; o con preghiere e pianti richiamavano chi vacillava o lasciavasi ornai sopraffare, perchè vile sempre non rimanesse. Dond’ è che gli uni e gli altri erano necessitati a sostenere travagli, maggiori delle forze. Cosi tenuta avendo la battaglia nel giorno con sorte eguale ; alfine essendo già notte si ravviarono lieti ai proprj alloggiamenti. Ne’ di seguenti dando sepoltura ai morti ristabilirono i feriti, e procurarono insieme altre forze. Poiché parve loro di farsi nuovamente alle mani, tornati jiel luogo medesimo vi combatterono fino alla notte. Prevalsero i Romani in ambe le ale; reggendone Romolo stesso la destra, e Lucumone il tirreno la sinistra. Ma restando dubbia ancora nei centro la sorte delle armi ; Mezio, cognominato il Curzio, uomo meraviglioso per le forze del corpo, magnanimo nelle arme, e chiaro soprattutto perchè noa turbavasi a pericoli o terrori, impedì la disfatta totale de’ Sabini e portò di nuovo contro de’ vincitori le schiere che sorvanzavano. Costui messo a dirigere 1’ armata del centro avea già vinto i nemici che gli stavano a fronte. Volendo poi ripristinare lo stato delle ale sabine ornai sbattute, e presso a dar volta, esortandovi la sua milizia si mise ad inseguire i nemici che fuggivano sbandati da lui, cacciandoli fino alle porte, cosicché Romolo fu costretto a lasciare imperfetta la sua vittoria, e rivolgersi ad accorrere contro la parte de’ nemici che era vincitrice. Cosi quel corpo de’Sabini il quale pericolava si riebbe j allontanaudosegli Romolo colla sua gente : e tutto il nembo si raccolse inverso di Curzio e de’ suoi che erano già vittoriosi, e questi tenendo fronte per un tempo ai Romani combatterono luminosamente. Ma poi rovesciandosi troppi su loro ; piegarono e rìpararousi negli alloggiamenti, assai contribuendo Curzio alio scampo col ritirarli grado a grado, non col fargli inseguire in disordine. Egli flesso arrestavasi in arme, e. facea fi'onte a Romolo che lo investiva. E grande e. 1^3 bella a vedere fu la gara de’ capitani che si attaccavano. Alfine essendo già Cur/io ferito, già esausto di sangue, riucnlava poco a poco, quando eccogli addietro una palude profonda ; difficile da girarla intorno, perchè cinta da’ nemici, e dilficilissima da traversarla per lo fango che ammassavasene alle sponde, e per le acque, che altissime vi erano in mezzo. Inoltratosi dunque vi si lanciò con tutte le arme. E Romolo sul pensiero che colui quanto prima perirebbe nella palude non potendovisi perseguitare pel fango e per le molte acque ; si rivolse contro degli altri. Ma Curzio dopo molti e lun> ghi stenti emerse finalmente còlle arme dalla palude, e fu portato a’proprj alloggiamenti. Rimanea la palude nel mezzo quasi del foro romano, e lago chiamasi di Curzio dalia vicenda ; ma ora è tutta ricoperta dalla terra. Romolo inseguendo gli altri avvicinasi al Campidoglio. Spaziava nella speranza di rivendicarselo : ma travagliato da molte ferite, e più da un colpo di pietra lanciatogli dall’alto nelle tempia fu preso ornai semivivo da’ compagni, e riportato dentro le mura. Sbigottirono i Romani più non vedendo il capitano, e dicdesi l’ala destra alla fuga. Sostenevasi ancora la sinistra diretta da Lucumone, uomo chiarissimo nelle arme, e segnalatosi per molte e belle imprese in tal guerra. Ma nemmeno questa più resse alfine ; quando colpito in un fianco da'Sabini cadde pur Lucumone rifinito di forze. Allora la fuga fu universale. I Sabini imbaldanziti gl’ incalzavano verso le mura: se non che giungendo alle porte pe furono respinti, sboccandone contro loro i giovani a’ quali aveva il re dato in guardia le mura. Ed a(Yrcttaiidosi quanto potè per soccorrerli Romolo stesso, riavutosi già dalla percossa ; la sorte assai ne variò della battaglia. Imperocché li fuggitivi mirando iuaspettataineute il sovrano, risorti dalla paura, si riordinarono, uè più s’ indugiarono a volar su’ nemici. Questi che aveano finora pressato i Romani e concluso non esservi schermo, che impedisse di prendere la loro città culla forza ; non si tosto videro il cambiamento inopinato e repentino, pensarono come scampare sè stessi. Il ritorno al campo era precipitoso per essi, inseguiti dall' alto, e per istrada profonda. Quindi grande fu la strage loro in questa ritirala. Cosi pugnato avendo quel gioruo da pari a pari, ma involgendosi ambedue tra casi inaspettati ; alfine ornai tramontando il sole, si divisero. Ne’ di seguenti consultarono i Sabini se avessono a ricondurre in patria l’esercito devastando intanto il più che poteano le campagne nemiche, o se di là ne chiamassero un altro, ivi trattenendosi cd insistendo fiuchè dessero buon fine alla guerra. Ben era misera cosa per essi partire, donde mauifeslcrebbcsi la infamia che niente aveano conseguilo; ed era misera cosa nonimeno il rimanersi non riuscendo loro disegno alcuno come speravano. Concepivano poi, che venire a trattali co’ nemici, unica maniera conveniente a levarsi di gueiv ra, gioverebbe anzi a’ Romani che a loro. Tuttavia uon meno, anzi assai più che i Sabini, erano i Romani caduti in gran dubbio intorno le cose da fare. Imperocché nè volevano rendere nè riteuere le donne ; riputando la prima cosa un seguito di uua [lerdila mauilcsta, cd  n. 175 un preludio di aversi nccessariamenle a sottomeltere anche ad altri coaiaudi : ma 1’ altra cosa presentava molli e gravi mali, distrutte le patrie campagne, e la gio> ventò più florida trucidata. Se faceansi a trattar coi Sabini, parca loro che questi non ser berebbero alcuna misura, per molte cagioni e principalmente perchè i superbi insolentiscono non condiscendono col nemico che volgesi agli ossequj. XLV. Mentre ambedue cosi cogitabondi, e così disanimati dal cominciare o battaglie o discorsi di riconciliazione dispergevano il tempo ; le mogli de’ Romani, quelle che erano sabine di origine, quelle per le quali ardeva la guerra, congregatesi ed abboccatesi fra loro in un luogo medesimo risolverono d’ intramettersi con ambi per la pace. Dava tal partito alle altre Ersilia, non ignobile di legnaggio tra’ Sabini. Di lei dicono che rapita già come vergine con altre donzelle, ora fosse maritala. lN|a più verisimile è chi scrive che ella si fosse rimasa spontaneamente colla unigenita sua, 1’ una delle derubate. Riunitesi a tal sentimento andarono le donne in Senato, ed ottenutovi di parlare, ve lo diffusero, chiedendo di uscir per un colloquio co’ loro parenti. Annunziavano che aveano molte e belle speranze di fiduiTe unanimi le due genti e stringerle di amicizia. Come udirono ciò quelli i quali consultavano col monarca assai ne furono dilettati, riputando che questo fosse r unico spediente in tanto inviluppo di cose. Adunque si decretò che quante Sabine avean Agli tante lasciando questi co’ mariti, avessero la potestà di andarne oralrici ai lor nazionali: che quelle però le quali eran madri di più 6gli ne recassero con sè la parte che più volcano, e trattassero la riconciliazione de’ popoli. Uscirono dopo ciò tra lugubri vesti, e talune coi teneri Ggliuoletti. Giunte al campo sabino mossero col piangere e col prostrarsi appiè di chiunque iucontravale tanta compassione, che ninno de’ riguardanti potea rattenere le lagrime. E Tannatosi per esse il fior del Senato, e comandate dal re che dicessero le cagioni della venuta; Ersilia, autrice e guida della S])edizioue, feceiie una lunga e patetica sposizione, implorando che donassero pace a’ mariti appunto in grazia di esse per le quali dicevano intimata la guerra. Si adunassero i principi loro; ed essi, veduto 1’ utile puliblico, discutessero le condizioni,per le quali cessassero le discordie. XLVI. Ciò detto caddero prostese co’ teneri figli appiè del sovrano e vi si tennero, finché quelli che erano presenti non le rilevarono da terra con promettere che farebbono quanto era onesto e possibile. Fattele uscire dal Senato, e consultando fra loro, si decisero per la pace. E prima si fece la tregua : poi riunendosi i re, si concordò su la pace ancora. E tali ne furono le convenzioni che sen giurarono. Sarebbero ambedue re dei Romani Romolo e Tazio con eguali poteri ed onori. La città serbando il nome del suo fondatore chiamerebbesi Roma, e romano ogni suo cittadino come per l’addietivMa tutti insieme si chiameiiano generalmente Quiriti desuntone il nome dalla patria di Tazio. Si domicilierebbero que’ Sabini che voleano, in Roma, ma comunicandosi le sante cose, c prendondo luogo nello tribù c nelle curie. Giurate questo cose, ed eretti gli altari ove far 1’ alleanza, in mezzo quasi della Via 1 Sacra, si mesoolarono insieme. Poi rao cogliendo ogni duce li suoi, tornarono alle proprie magioni. Si rimasero in Roma Tazio il monarca e con esso tre de’ più, riguardevoli Valerio Voleso, Tallo, soprannominalo il Tiranno, ed in fine Mezio Curzio, quegli che : avea colle armi trapassato la palude, e vi ebbero gli onori che i discendenti loro pur vi godcronow Anzi con questi si rimasero amici, consanguinei, e clienti, non minori di numero agli altri di Roma. Mentre ordinavano queste cose parve ai so vrani di raddoppiare il numero de’ patrizj per essersi la popolazione moltissimo arnpbata. Adunque segnando in X catalogo colle famiglie più nobili tanti cittadini novelli, quanti erano i primi, chiamarono patrizj ancor’ essi. Poi trascelli cento di questi col voto delle curie gli connumerarono ai senatori antichi. E su ciò concordano presso a poco tutti gli scrittori delle cose romane : differisce taluno sul: numero de’ sopraggiunti : dicendo che non cento cui cinquanta furono gl’ inseriti al Senato. Non consentono però gli storici romani su F onore che i re concederono alle donne perchè gli aveano rioou dotti aUa pace. Perocché scrivono alquanti che diedero ad esse distintivo grande e moltiplice non pure i prindpi, ma le curie : le quali essendo trenta, come già dissi, presero nome ognuna da queste, giacché trenta furono ancora le oratrici. Ma Terrenzio Varrone si di scosta da questi in tal capo, aflermando che i nomi erano stati imposti -alle curie anteriormente da Romolo, quando divise la prima volta il suo popolo: c die quei nomi furono desumi da’ capi di esse, o dalle antiche lor patrie. Aggiunge che le femmine andate ambasciadrici non furono trenta ma cinqueceutotrentatrè : dond’ è che noti sia verisimile che il re concedesse ad alcune poche di esse quell’onore, escludendone le altre. A me nè tali son parute queste cose da non farne parola, nè tali da scriverne dtra il bisogno. Ora l’ordine stesso della narrazione dimanda che io dica quali e donde fossero i Cureti alla città de’ quali apparteneva Tazio, e quei eh’ eran seco. Noi cosi ne sappiamo. Nel tempo che gli Aborigeni possedeano 1’ agro Reatino una vergine nobilissima natia di que’ luoghi entrò, per danzarvi, il tempio di Enialio. Enialio lo chiamano Quirino i Sabini, ed, ammaestrati da essi, i Romani, senza che sappiano dire più oltre s' egli sia Marte, o tal altro, eguale a Marte in onore. £ li primi pensano che 1’ uno e 1’ altro nome dicasi del Nume arbitro delle guerre ; ma gli altri che sia quel doppio nome non di uno, ma di due Dei bel licosi. La vergine danzando già nel tempio fu dallo spirito investita del Nume; e lasciale le danze si ritirò ne’ penetrali santi di lui, dove, come a tutti sembra, fecondatane, diede un fanciullo, che Modio fu detto, ed ebbe soprannome di Fabidio. Or questi, adulto  Vi è chi pensa che il Modio Fabidio sia il Afe £>iuj Fidius de’ fìoinaui, forinola colla quale riguardavaisi il Nume tutelare della fede, o pure Ercole figlio di Giove. Se ciò lesse, Diouigi avrebbe malameuie iuierpiaato quella formula Romana di giuramento.. 179 feuo nella persona, ebbe forma non umana, ma divina, e combattè con preemiuenza di tutti i valentuomini. Preso poi dal desiderio di abitare una città che avesse la origine da lui, congregando gente io copia da luoghi d’intorno, eresse in tempo assai breve quella che Curi addimandasi, denominandola, come narrano alcuni, dal Nume, dal quale è &ma che egli fosse generato, e come altri asseriscono dall’ asta, poiché Curi chiamasi 1 asta in. Sabina. Cosi scrive Terrenzio Yarrone. Ma Zenodoto Troizinio uno scrittore dell’Umbria, narra che le genti di essa furono prima abitatrici de’ campi detti Rèalini : che espulse da’ Pelasghi se ne vennero alla terra dove ora soggiornano, e dove mutato nome coi luoghi, si chiamarono Sabini per Umbri. Porzio Catone dice imposto tal nOme ai Sabini da un Nume di que’ luoghi Stoino Sanco, e che Sanco per alcuni vai quanto Dio Fidio, Dice che fii domicilio primitivo di essi un villaggio nominato Testrina presso la città di Amiterna ; che movendosi da questo inondarono i Sabini 1’ Agro ReatioQ abitato al Silio nel libro ottavo scrive. Ibant et laeti pars tanctum voce canehanl, Auetorem genlis, pars laudes ore ferebant, Sahe, Uuis, qui de patrio cognomine primus. Dixisli poputos magna ditione Sabinos. Forse dunque nel testo di Dionigi dee leggersi Sabo e non Sabino. Festo e Yarrone additano che Sanco tra’ Sabini siguifìca Ercole. Ora Plutarco nel suo Noma e Servio nel libro 8 dell’ Eneide derivano i Sabiui dagli Spartani, e gli Spartani da Ercole. Quindi quel Sabo Sanco non sarebbe che Ercole ; tanto più che Sanco 'redesi il me Diut Fiditu, c questa par furatola per additare Ercole. e lora dagli Aborigeni, e da Pelasghi : e che ne ottennero colla forza delle armi Colina la loro città più cospicua : che spedendo dal contado Reatino delle colonie fondarono altre città non poche, ove, senza cingerle di mura, si viveano ; e tra queste la città che Curi fu nominata : che occuparono campagne lontano circa dugento ottanta stadj dall’ AdrìaUco, e dugento quaranta dal mare Tirreno: e dice che stendeasi la lunghezza di quelle poco meno che mille stadj. Secondo le storie paesane intorno de’ Sabini abitavano con essi già dei Lacedemoni quando Licurgo tutore di Eunomo, nipote suo,. dava a Sparta le leggi : e questo perchè impazientiti alcuni dalia dura legislazione di lui, staccaùsi da’ compagni abbandonarono affatto la città ; e corso ampio tratto di mare, e desiderosi ornai di prendere terra dovunque, si legarono per voto cogl’Iddii di abitare quella appunto ove imprima giungerebbero. Venuti nell’ Italia ai campi detti Pomentini nominarono, dal mare che aveali portati, Feronia il luogo dove prima approdarono, e vi eressero un tempio alia Diva Feronia alla quale aveano fatto i lor voti ; e la quale mutatane una lettera ora Faronia si chiama. Alcuni da indi rimovendosi ne andarono a dimorar tra’ Sabini : e però spartane sono molte delle loro istituzioni, spartani principalmente gli amori per la guerra ; la parsimonia e la durezza nelle opere tutte della vita. Ma ciò basti su la origine de’ Sabini. L. Ben tosto Romolo e Tazio ampliarono la città congiungendole altri due colli, 1’ uno chiamato Quirinale, e Celio r altro. E ponendo separatamente le case. 1 8 1 viveasi ognuno nelle sedi sue. Avessi Rouiolo il monte Palatino ed il Celio, monte contiguo col primo. ^azÌo avevasi il Campidoglio, occupato già ne’ principi da esso, ed il Quirinale. Recisa la selva la quale spandevasi appiè del Campidoglio, e ricoperta in gran parte di terra la palude, la quale per la concavità dei sito rooltiplicavasi dalle acque scese da’ monti, fecero ivi il foro, dei quale servonsi ancora i Romani. E là tenendo le adunanze, consultavano nel tempio di Vulcano, cbe quasi al foro sovrasta. Inalzarono i tem^q, e consacrarono gli altari ai Numi, a’ quali gli aveano promessi co’ voti nelle battaglie. Romolo ne eresse uno a Giove Statore presso la porta òe Muggiti la quale mena dalla via sacra al Palatino, perché quel Nume esaudendo i voti di Romolo fe’ cbe l’ esercito suo già fuggitivo si arrestasse,, e si volgesse a fronte dei nimico. Tazio ne eresse al Sole, alla Luna, a Crono, a Rea, ' come pure a Vesta, a Vulcano, a Diana, ad Eniàlio ed altri difScili a nominarsi con greca parola. Mise in tutte le Curie le mense per Giunone Quirizia  le quali esistono ancora. Dominarono cinque anni insieme senza dissidio, e compierono in quel tempo con impresa comune la spedizione contro de’ Camerini. Impercioccbè questi mandando delle masnade assai danneggiavano loro il paese : e tuttoché chiamativi non erano mai comparsi a darne ragione. Adunque schieratisi a fronte di essi, e vintili in campo, e poi nell’ assalto delle mura, gli astrinsero a cedere le arme e la terza parte della re Secondo Pesto vuol dire Giunone coW atta, vedi $ 4^ prcoedenle. • Digitized by Google iSa PFLLE Antichità’ romane gione. Continuando nondimeno i Camerini ad Infestarla riuscirono nel terzo giorno I re coll’ armata e li fuga-, rono, e ne divisero ogni cosa ai proprii soldati, concedendo solamente che quelli, se volevano, si domiciliassero in Roma. Quattromila quasi ve ii’ ebbero, e lì compartirono tra le curie. E Camaria, sorta già tanto tempo prima di Roma, Camaria già domicìiio famoso degli Aborigeni, e poscia di un ramo di Albani, fu ridotta colonia de’ Romani. Tornò, nei sesto anno il comando a Romolo sodamente, morendo Tazio per le insidie de’ primarj tra Laurenlini tesegli per questa cagione. Scorsi gli amici di Tazio a far preda nel territorio de’ Laurenlini ne aveano rapito danari in copia, e menato via de’ bestiami t uccidendo o ferendo chiunque presentavasi a rivendicarseli. Spedita quindi dagli offesi una legazione a reclamar la giustizia, Romolo sentenziò che gli o^ fensori le si consegnassero. Tazio però sollecito degli amici, non istimava bene che si desse alcun cittadino perchè si portasse in giudizio tra forestieri e nemici. Laonde intimò che quanti si richiamavano della ingiuria venissero e discutesserla ne’trihunali di Roma. Cosi non trovando giustizia partirono indispettiti gli ambasciadori. Ma datisi per isdegno alcuni Sabini a seguitarli gli assalirono, che dormivano tra le tende lungo la via sorpresivi dalla notte : e spogliatili di ogni cosa, ne scannarono quanti giaceansi ancora ne’ letti. Si ricondussero alia loro città quauti si avvidero a tempo deir insidie e fuggirono. Dopo ciò venendo ambasciadori da Laurento e da molte città si dolsero su’ diritti violati, ed intimarono la guerra, se non erano compensati.  LII. Sembrava a Romolo, com’ era, terribile 1’ oltraggio d(^li ambasdadori e degno di una subita espiazione, es:;endosi profanata una legge santa. E vedendo che Tazio tcneane picciolo conto, egli senza più indugio presi e legati i complici, li diede agli ambasciadori \ ortato a Roma ebbe magnifica sepoltura, e la città gii rinnova ogni anno pubblici sagrifizj. LUI, Romolo trovandosi un’ altra volta solo nel principato purificò la infamia commessa contro gli ambasciatori pubblicandone privi dell’ ncque e del fuoco gli autori, faggitt già tutti da Roma al primo udire la morte di Tazio. In opposito essendogli conseguati da Laurento ero la vittoria per saviezza del capitano, il quale occupato di notte un monte non molto lontano da’ nemici teneavi in agguato il fiore de’cavalieri, e dei fanti, giuntigli ultimamente da Roma. Tornati in campo ambedue per combattervi come prima, non si tosto diè Romolo il segno convenuto a quelli del monte, corsero schiamazzando dalle insidie alle spalle de' Vejentani : e piombando essi, freschi ancora su uomini stanchi, non durarono lunga fatica a travolgerli. Pochi ne morirono in campo ; ma molti piò nellt; acque del Tevere, il qual fiume scorre presso Fidene, lanciativisi per iscampare nuotandovi. Perocché parte per le ferite e la stanchezza non resse a compiere il transito, e parte per la imperizia del nuoto e la confusione dell’ animo in vista dei pericoli soccombè tra’ vortici non preveduti. Se i Vejentani avessero ponderato seco stessi, quanto furono sconsigliati la prima volta, e se avessero dall’ora in poi cei^ cato la calma, non sarebbero incorsi in disastri, più gravi ancora. Ma sjierando di riaversi de’ mali passati, e pensando che vincerebbero di leggeri, se uscissero con apparato maggiore ; bentosto arrolate milizie in copia dalla città loro, e procuratene presso de’ nazionali secondo i trattati di amicizia, marciarono per la seconda volta contro de’ Romani. Si combattè di nuovo ferocemente presso piiuii. iiy Ci( ••. ' 187 Fidene ; e di nuovo i Bonnani vi superarono i Yejenti, e ve ne uccisero, e più ancora ve ne imprigionarono. F 11 invasa la loro trincierà piena di danari, di arme, di S( biavi: furono prese le barche lluviali cariche di vettovaglia copiosa e con queste per lo fiume trasportati in Roma li prigionieri. Fu questo il terao trionfo di Romolo ma più brillante assai de’precedcnti. Venne dopo non molto un' ambasceria de’ Vejenli per chetare la guerra e chiedere perdono de’ mancamenti, e Romolo ne secondò le istanze imponendo : che cedessero i terreni contigui al Tevere nominati Setlepagi : che non si accostassero alle saline presso le bocche del Jiume : e che dessero cinquanta ostaggi in pegno, che non farebbero innovamenti. Si rimisero i Vejeiiti alle leggi: e Romolo fece tregua con essi per cento anni, e ne scolpi su più colonne le condizioni. Rilasciò senza compenso i prigionieri vogliosi di andarsene ; ma rendè cittadini di Roma quanti pregiarono di rimanersene, ed erano più numerosi degli altri, e li comparti fra le curie, e diè loro in sorte le campagne di qua del Tevere.. Quest furono le guerre di Romolo degne di stima e di ricordanza : e parmi, che se egli non sottomise ancora altri popoli vicini, ne fosse cagione la fine prematura di lui, quando era florido ancora per le armi. Di questa fine varj e molli ne sono i racconti. Coloro .che più ne favoleggiano dicono, che intanto che aringava le milizie, abbujatosi l’ aere sereno, e fattasi procella terrìbile, Romolo diventasse invisibile, e che Marte il suo genitore in alto se lo rapisse. Ma chi scrive cose più vcrisimili dice che da’ suoi cittadini fu morto ; e dice elle gliene fu cagione 1’ aver egli restituito senza il voto del popolo, contro la consuetudine, gli osti^gi presi gii da' Vedenti ; il non serbare la eguaglianza tra i cittadini antichi e novelli, ponendo i primi in altissimo onore, e trascurando gli ultimi: e Gnalmente Tincrudelire nelle pene dei delitti, e lo insuperbire. Imperocché sentenziando, solo, da sé comandò che fossero precipitati dalla rupe non pochi nè ignobili uomini, incolpati di essere scorsi a predare i vicini. Ma soprattutto,ne fu cagione, 1’ essersi ornai renduto pesante, e dispotico f e tiranno, anzi che principe. Per questo, narrano, che i patrizj, congiuratisi, ne decisero la morte, e la eseguirono nel Senato ; e che divisone in brani il cadavere, perclté non se ne sapesse, uscirono occultandone sotto le vesti ognuno la parte sua, che pdi seppellirono, onde renderle invisibili. Altri però narrano che egli aringando fosse tolto di mezzo da’ cittadini nuovi di Roma ; e che m lanciassero ad ucciderlo quando appunto abbuiatosi il cielo, crasi il popolo dileguato, ed egli rimasto senza guardia : e però dicono che un tal giorno tien nome da quel dissiparsi di popolo, chiamandosi tuttavia fuga della moltitudine. Sembra che gli eventi ordinati da’ Numi sui concepimento e sul termine di quest’ uomo diano non piccola occasione a coloro che fanno de’ mortali un Iddio, e che ne spingono al cielo le anime più segnalate. Perocché nella .compressione della madre di lui sia per uno Dio, sia per un nomo, affermano che il soie si ecclissasse, e che tenebre, totali come nella notte, coprissero la terra; e che il simile avvenisse por nella morte. ROMOLO IL FUNDATORE DI ROMA, il primo, assunto da lei perchè la domioasse, cosi narrasi che finisse. E tutlodiè nella età di cioquanlactnque anni, e già monarca da trentasette non lasciò rampolli di sua generazione. Novello in tutto delr impero de’ popoli, se lo ebbe nell’ anno suo diciottesimo come unanimi lo ripetono gli storici di queste cose. LVII. Nell’anno seguente non si fece alcun re dei Romani : ma vigilava su la comune un magistrato detto interré, costituito in questa maniera. I Patrìzj ascritti da Romolo in Senato, dugento, come dissi, di numero si divisero io decadi. Poi traendo le sorti diedero la reggenza sovrana a que’ dieci che primi erano favoriti dalle sorti ; non già che i dieci reggessero tutti in un tempo, ma successivamente ciascuno cinque giorni, nei quali avea con sé li fasci, e gli altri simboli del regio comando. Il primo cedeva il comando ai secondo, questi al terzo e cosi fino all’ ultimo. Decorso lo spazio dei cinquanta giorni, fisso. pe’ dieci, primi nel comandare, succedea la decade seconda al governo, e poi le altre via via. Finalmente piacque al popolo di abolire questi decemvirati, essendo ornai stanco da tanto trasmutarsi di comandanti, varj nella natura e ne’ genj. Allora dunque i Senatori convocando l’ adunanza del popolo per tribù e per curie renderono ad esso il potere di discutere la forma del governo, cioè se volevano un re ; o se annui magistrati. Ed il po[K>lo non decise già esso, ma fece che scegliessero i Senatori, pronto di attemperarsi  Ciò fu nell’anno 713 avanti Cristo : secondo Catone nell’ anno 38 e secondo Varrone nel 4 ° di Roma] all’ ordìae che approverebbei'o. Parve a tutti di fondare la regia domiuasione ; ma non tutti concordavano tra i quali si avesse ad eleggere il futuro monarca : e chi pensava che tra vecchi e chi volea che tra’ novi Senatori ossia tra gli aggiunti di poi, à dovesse trascegliere il |>er8onaggio che regnerebbe su Roma. LYIII. Procedendo la disputa, si convenne finalmente su questi due punti : che i Senatori antichi scegliessero il monarca non però del ceto loro, ma qualunque altro ue giudicassero idoneo; o che farebbono ciò li Senatori novelli. Presero essi la scelta i Senatori più antichi, e molto consultandone stabilirono ; di non dare, giacché essi ne erano esclusi, il principato a niuno degli emuli, ma di creare monarca un personaggio cercato ed intro> dotto di fuori, nè aderente ad alcuno de’ due > principalmente perchè semi non ci avessero di discordie. Ciò deliberato, destinarono co’ voti loro, il figlio del chiarissimo nomo, Pompilio Pomone, Sabino di lignaggio, Numa di nome, e per età prudentissimo, come non mollo lontano dall’ anno quarantesimo. Regia ne em la dignità dell’ aspetto ; e grandissima la riputazione per la sapienza non pur tra’ Cureti ma tra popoli intorno. Pertanto riuniti in questa sentenza adunarono il popolo ; e fattosi in mezzo l’ uno di loro, interré di que’ giorni, disse : che piaceva a tutti i Senatori di fondare un regio governo : e che egli incaricalo di trascegliere chi lo assumesse trasceglieva in Numa Pompilio il monarca di Roma. Dopo ciò deputando dei Patrizj ; gli spedi perchè invitaswro il valentuomo alla Reggia. E fu questo nell’ anno terzo della Digitized by Google gemati da Romolo per non essere stati con'esso in guerra niuna, non godevano terre, nè utile alcuno. Questi senza case, e vaganti per la miseria, erano di necessiti nemid ai più ricchi, e vogliosi di mutamenti. Fra tali agitamenti fluttuava Roma quando Numa ne prese le redini, e su le prime ricreò la classe de poveri, compartendo loro porzione delle campagne possedute da ROMOLO, ed un tal poco ancora de’ terreni dei pubbln co. Non togliendo quanto godeano, ai patrizj fondatori di ‘Roma, e concedendo ai patrizj più recenti altri onori, ne chetò le discordie. Proporzionata come uno stromento tutta la moltitudine all’ oggetto unico del pubblicò bene; ed ampliato il giro della città con inchiudervi II Quiri. naie, colle non ancora cinto di mura, si rivolse ad altre istituzioni. E concependo che grande e beata diverrebbe la città che se ne adorna ; procurava queste due cose : la pietà primieramente, insegnando agli uomini, che gl’ Iddi! sono i datori e li custodi di ogni bene alla mortale natura ; e poi la giustizia, dimostrando che per essa i beni dispensati da’ Numi arrecano delizioso godimento a chi li possiede. Non reputo però che slan tutte da scrivere le leggi e le pratiche per le quali consegui 1’ uno e l’altro intento e con tanta amplitudine; perchè temo la prolissità de’ racconti, uè la vedo necessaria ad una storia pe’GrecI. Solo ne dirò sommariamente le cose principai lissime, idonee a dimostrare la mente di un tanto uoimo, cominciando dalle disposizioni di lui sul culto divino. Lasciò nel pieno vigore lé consuetudini e le leggi die  trovò fondate da ROMOLO, credendole benissimo istitoite: ne supplì quante ne erano state da lui pretermesse ; e diè sacri luoghi a’ Numi, non adorati ancora, c fece altari e tempj, e compartì feste per ognnnp, e ministri per le sante cose. Finalmente ne ordinò colle leggi la illibatezza, le espiazioni, le suppliche e tante altre onori Gcenze e tanto culto ; quanto non mai ne ebbe nonbarbara gente, nè Greca, nemmeno delle più famose un tempo per la pietà. Comandò che Romolo ancora, divenuto più che uomo, s’ intitolasse Quirino, e si onorasse con templi e con annui sacrifizj. Perocché non sapendosi ancora come Romolo fosse sparito, se per divina provvidenza, o se per Iraude umana ; venne in mezzo del F oro un tal Giulio, un agricoltore della stirpe di Ascanio, uomo incolpabile di costumi, nè capace di mentire per utile alcuno. Ora costui disse che tornandosi di campagna vide Romolo che partivasi di città colle arme ; e che fattoglisi più da vicino gl’ intimava : O Giulio va, riferisci in mio nome ai Romani ; che il Genio che ni ebbe in sorte per custodirmi quando io nacqui ; questo, ora che io compiei la mortale carriera, mi solleva tra Numi, e che io sorto Quirino, Noma stese in iscritto tutte le ordinazioni su le cose divine, dividendole in otto classi, quante erano quelle de’ sacerdoti. Diè l’ incarico primo delle funzioni religiose ai trenta Curioni de’ quali io diceva che coinr pieano i sacrifizj comuni delle curie : diè 1’ altro si Stefanofori detti da’ Greci, e Flamini dai Romani, cosi nominati dai portare delle berrette e delle bende le  Nel usto PUot e stemma. 0 ptimo era una specie di berretta quali portano ancora, e le quali Flama si chiamano : diede il terzo ai capitani dei Celeri, soldati come additai, che combàttono a piedi e a cavallo in guardia dei monarchi; e certo que’ capitani ancora fornivano divini ordinati esercizj : diede il quarto a quelli che interpetrano i segni mandati dal cielo, e dichiarano se conceróOno private o pubbliche cose. I Romani chiamangli Auguri dall’ indole dei precetti dell’ arte loro, e noi OionopoU li chiameremmo, uomini scenziati in ogni divinazione de’ segni del cielo, dell’ aere, e della terra. Il quinto alle vergini, custodi del fuoco sacro, appellate Vestali fra loro dal nome della Diva a cui servono. Noma il primo fondò il tempio di Vesta, e misevi delle vergini che ministrassero nel culto di lei. Su che rileva che io dica alcune poche còse le più necessarie ; dimandandole il sobjetto ; perocché degna ne è la ricerca, e degna pur si stima da’ romani scrittori in questo luo 30 a consola di una tomba, non 1’ esequie, non altro rito niuno legittimo. Molti sono gl’ indiz) di mancanza nel santo ministero, e principalmente lo spegnersi del fuoco: accidente che i Romani temono più di tutti i mali, pigliandolo, e sia qualunque Torigine di esso, come presagio della rovina ultima di Roma. E molto ossequiando e placandolo; di nuovo riconducono il fuoco nel tempio. Ma di ciò sarà detto a suo luogo. > LXVIIL Ben è degna che raccontisi l’assistenza manifestata delia Dea per le vergini indegnamente accusate. Credesi questa da Romani, quantunque ioconcepibile, e molto gli scrittori ne ragionarono. Quei che vansene a maniera degli Atei filosofando, se filosofare dee dirsi mai questo, ripudiano tutte le assistenze de’ Numi avvenute tra Greci e tra Barbari, e molto ne deridono i racconti, ascrivendole a ghiattanza nmana, quasi niuno de’ celesti prenda cura delle cose de mortali. Ma quelli che non levano agl’ Iddi! questa cura, e li giudicano propiz) ai buoni, e malafifetU a’malvagj, venendosene con istorie moltissime, non prendono per impossibili tali divine manifestazioni. Narrasi dunque che smorzandosi un tempo il fuoco per poco avvedimento di Emilia, che allora ne era la guardiana, perocché ne avea trasmessa la cura ad una compagna novella, e di fresco ammaestrata ; Borsene in città turbamento ben grande, e si cercò dai pontefici se violazione ci avesse nel ministero santo del fuoco. Allora, dicono, che Emilia, la incolpabile Emilia, non sapendo che farsi nell’evento stendesse io presenza de’ sacerdoti e delle vergini le mani in su l’altare e dicesse: o Vesta, o tu Dea, custode di Roma, se 2o5 io santamente, e debitamente compiei le sacre tue cerimonie ornai da treni anni, se pura l anima mia, se immacolate ti si presentarono le membra di questo mio corpo, deh ! tu soccorrimi, nè volere trascurare^ che la tua sacerdotessa miserandamente si muoja. Ma se io pur commisi alcuna cosa men pia, deh ! che nelle pene mie la pena si dissipi di Roma. Ciò detto è fama che spiccando il lembo dalla veste di lino onde era coperta lo gittasse in so 1’ altare : e che dopo la preghiera, essendo la cenere già fredda, e già senza favilla ninna, brillasse di.su per quel lembo una damma copiosa, talché più non abbisognò la città né di puri' ficaztoni, né di fuoco novello. Più meraviglioso ancora e più somigliante ad una favola è ciò che io sono per dire. Narrano che un tale accusasse Tuzìa 1’ una delle vergini ma >n alle gazioni non vere di congetture e di testimonj ; non polendo affermare che fosse per lei venuto meno il ìkoco : e che la vergine comandata rispondere dicesse che smentirebbe co’ fatti le calunnie : che ciò detto invocata la Dea perché le fosse guida nelle sue vie, s’in? camminasse verso del Tevere concedendolo i pontefici, seguita dalla moltitudine: che giunta in riva del fiume, si ponesse a cimento impossibile, ora passato in proverbio : cioè, che prendesse acqua con un vaglio vuoto e ve la recasse fino al Foro, quivi ai piedi spargendola de pontefici. E narrano che dopo ciò 1’ accusatore di lei, per quante ne fossero le ricerche, né vivo più nè morto si ritrovasse. Ma quantunque dell’ intramettersi della Dea potrei soggiungere più cose ; reputo che bastino le dette finora. 2o4 delle Antichità’ romane La sesta parte delie istituzioni religiose fa quella intorno àe Salii che chiamansi In Roma. Numa stesso li nominò scegliendo dodici decentissimi giovani patiizj. Stansi le sacre loro cose nel palazzo ; ed essi ne sono chiamati Palatini. Ma gli Agonali, de’ quali serbansi le sacre cose nel poggio Collina, questi cognominati Salj Collini, furono istituiti dopo Noma da Ostilio re pel voto fatto da lui nella guerra co’ Sabini. Del resto i Salii tutti sono danzatori e lodatori dei Numi delle arme. Tornano le loro solennità arca i tempi delle nostre Panalenee nel mese detto di marzo : si celebrano a pubbliche spese per piò giorni, ed in questi guidano per la città cori di saltatori al Foro, al Campidoglio, ed altri luoghi speciali, o comuni. Variopinte ne brillano le toniche traversate con cinture di rame ; ed affibbiate sono le trahee loro che chiamano, luminose di porpora intorno. Sono le trahee in Roma pregiatissime, e proprie del luogo. Torreggiano loro sul capo tiare  alte con forma di cono, apici dette fra loro, ma cirbasie tra’ Greci. Ognuno è cinto di spada; stringe colla destra mano un’asta o verga, o cosa consimile ; e colla sinistra uno scudo romboidale, stretto ne’ lati, quale è quello de’ Traci, e quale, dicesi che in Grecia lo portino quelli che vi celebrano le 'sacre cose dei Curetl. I Salj, per quanto io conosco, sarebbero con greca Interpetrazione I Cureli, denominati  Nel testo sono detti piUi, ma le cirbasie erano specie di tiare secondo Esicbio la lesione dello scudo romboidale è del codice V aticano e par la migliore.. 2o5 cosi tra noi dalla età giovanile  ; ma tra’ Romani hanno quel nome dal moversi faticoso : perocché spio carsi e battere co’ piè la terra tra lor si chiama salire. Per questa ragione medesima quanti altri noi chiameremmo dallo spiccarsi e battere con tal modo, essi gli chiamano salitorì con voce originata dai Salj (a). Che poi dirittamente io do questi nomi, può chi vuole, concluderlo dalle cose che fanno. Movonsi colle arme regolatamente al suono delle tibie, ora insieme, ora a vicenda, e danzando intuonano patrie canzoni. Ora se dee con antichi monumenti procedersi, i Gureti furono primi che insegnarono a danzare armati tripudiando e battendo con le spade gli scudi : nè bisogna che io ripeta ciocché ha la fàvola su loro, essendo noto poco meno che a mtti. Ben molti sono gli scudi che portano i Salj, 0 che i loro ministri portano sospesi in su de’bastoni: ma tra questi uno ce ne ha che dicesi caduto dal cielo. È fama che fosse nella reggia ritrovato di Numa, non avendovelo recato ninno, anzi neppur conoscendosene la forma nella Italia. Argomentarono da tali due segni 1 Romani che fosse quell’ arme celeste di origine. E volendo, Numa che lo scudo si onorasse, e recasse nei dì solenni per la città da’ giovani cospicuissimi, e riscotesse annui sagrifizj ; e temendo che i nemici in oc  Quasi aiaao Ktft$ gioTaoi, ma forte ebbero cuti nome ^wi rnt cioè dalla tontora : perchè erano tosi nella parte anteriore del capo. (a) Si saltava anche prima de’ Salj, però la voce salùores che precede non è pptieriote al nome de’ Salj. culto lo ÌDsidiassero e rapisserio; dicono che fabbricasse molti scudi uniformi a quello caduto dal cielo, accingendosi Mamorìo artefice a questo, che f arme divina per la somiglianza egualissima con altre umane non più potesse contrassegnarsi e riconoscersi da chiunque vi macchinasse un inganno. Ebbe quel rito de Cureti accoglienza e pregio tra’ Romani, come io lo deduco da più seghi, e principalmente dai spettacoli nel circo e nei teatri. Ne’ quali spettacoli giovinetti già puberi, acconci d’ abito con cimiero, con spada, e con scudo, moTonsi come con le leggi di un ritmo armonioso; e £utlioni chiamansi i duci della pompa, dalla invenzione fattane, sembra, nella Lidia. Questi sono, a me pare, immagine de’ Salj ; perocché non fanno appunto come i Salj cosa ninna in foggia de’ Cureti sia negl’ inni sia ne’ salti; e prendonsi da ogni condizione; laddove i Salj deggiono esser liberi e naturali del luogo, e ricchi di padre e di madre. Ma perché mai rigirarmi più a lungd su queste cose? È la settima parte delle leggi sacre indiritta a dar ordine a’Feciali che chiamano. Questi con greca significazione giudici si direbbono della pace : scelgonsi tra le più illustri famiglie, e restansi per tutta la vita ht santo ministero. Numa anch’egli dava la prima volu ai Romani tal ceto venerando. Io non so definire sé egli ne derivasse l’esempio dagli Equicoli, come alcuni pensano, o se, come Gelilo scrive, da Ardea : bastami dir solamente che innanzi Numa non erano Feciali tra i Romani. Numa quando era per dar guerra a’ Fidenati, perchè aveano fatto scorsa e ruberia nel territorìu'dt  lui ; Numa gl’ ioslitul, perchè vedessero se voleano pa> ciGcarsegli senza le arme, come vinti dalia necessità poi fecero. E poiché non ci ha nella Grecia tribunale di Feciali; giudico necessario di adombrare quante e quali De sieno le incombenze; perchè coloro che ignorano la pietà che i Romani coltivano, non si meraviglino che tutte ad ottimo fine riuscissero le guerre loro : certamente imprendeano queste con prìncipj e cagioni onestissime, dond’è che aveano propizj gl’ Iddi! ne’ pericoli. Non è già fiicile, per la moltitudine, comprendere le cure tutte de’ Feciali. A delinearle però con tocco lieve son tali : debbono cioè provvedere ' che i Romani non movano guerre ingiuste a ninna città confederata ; che cominciando taluna a rompere i trattati verso loro, vadano ambasciatori, e ne dimandino il giusto prima con parole, poi v’ intimin la guerra, se non ubbidiscono. Similmente se mai confederati alcuni dicendosi offesi da’ Romani chiedano de’ compensi, debbono i Feciali riconoscere, se quelli han sofferto contro dei patti; e se par loro che lamentinsi con diritto fan prendere e consegnare i colpevoli ai danneggiati. Giudicano su gli oltraggi degli ambasciadori, e vegliano per la Osservanza fedele dei trattati : fan le paci o le annullano, se fatte sieno contro le leggi sacre : decidono ed espiano, quante sono, le violazioni fatte de’ giuramenti e delie alleanze' da’ capitani : ma di ciò dirò ne’ suoi Inoghi. Quanto ali’ andarsen’ essi come araldi per esigere soddisfazione da città che sembrino offenditrici, ne ho conosciuto (peste cose, non indegne ancor esse che si risappiano, per la molta cura che involgono della giu-." sUzia e della pietà. Uno de’ Feciali eletti a voti dagli altri, cinto degli abiti e delle insegne sacre perchè fra tutti distingnasi, vassene alla città rea: ai primo toccarne i conGni, attesta Giove ed altri dumi che egli' viene perchè Roma sia compensata : poi giurando che, dirigesi alla città colpevole, ed invocando s’ei mentisce, maledizioni terribili contro sè stesso e contro Roma, slanciasi olure i conGni. Quindi protestandosi ancora col primo che gli s’ imbatte, rustico o cittadino che sia, C; ripetendo l’ esecrazioni medesime, continua di andare iu città ; ma prima di entrarvi protestatosi nel modo ine>. desimo col portinajo e con qual’ altro nelle porte gli capita il primo, s’inoltra sino al Foro; ove giunto parlamenta co’ magistrati ; aggiungendo tratto .tratto giur ramenti, ed imprecazioni. Se danno soddisfazione consegnandogli li colpevoli, egli menali seco e vassene, amico già, dagli amici. Che se dimandano tempo per consultarsi, ripresentasi dopo dieci giorni, e pazienta Gno alla terza dimanda. Decorsi trenta di se la città non siegue il dover suo, egli invocati i Numi celesti e grinfemali se ne parte, questo solo dicendo, che Roma deciderebbe, tra la sua calma, su loro. Poi recatosi cogli altri Feciali in Senato, dichiaravi come tutto fu compiuto secondo le leggi sacre, quanto convenivasi : e che se vogliono risolversi per la guerra niente vi si oppone dal canto degl’ Iddii. Senza tali pratiche nè il popolo, nè il Senato può conchiudere col voto suo j la guerra. Questo è quanto abbiamo risaputo su’ Feciali. Nelle ordinazioni di Numa intorno le,, cose divine v’ ebbe in ultimo la classe la. quale ottennero quanti aveano in Roma sacerdozio ed autorità superiore. Questi con patria voce si chiamano pontefici dal rifarsi di un ponte di legno che è uno degl’ incarichi loro ; s son gli arbitri di cose grandissime. Imperocché giudicano tutte le cause sacre de' privati, de’ magistrati e de’ ministri de’ Numi : fissano le cose religiose non scritte nè solite ; scegliendo le leggi, e le consuetudini che stimano più acconcie : esaminano tutti i magistrati o tutti i sacerdoti a’ quali è fidata la cura de’sagrificj e ' della venerazione de’ Numi: provvedono che i loro ministri e cooperatori non violino punto le sacre leggi : espongono ed interpetrano il culto de’ Numi e de’ Genj a’ privati che lo ignorano; e se colgono alcuno, disubbidiente agli ordini loro, lo puniscono secondo i delitti: ma essi non soggiacciono nè a giudizio nè a multe, non rendendo ragione nè al Senato nè al popolo. Non travierà poi dal vero chiunque vuole chiamare tali sacerdoti o dottori, o dispensatori, o custodi, oppure interpetri delle sante cose. Mancando ad alcuno di loro la vita gli viene sostituito un altro, il più idoneo ripu .tato tra’ cittadini ; nè già il popolo sceglielo ; ma essi medesimi : 1’ eletto però piglia il sacerdozio, quando propizj gli siano gli augurj. E tali sono, oltre alcune più piccole, le leggi più grandi e cospicue di Numa sulla pietà, compartite secondo i rami varj del culto, per le quali Roma ne divenne più religiosa. Moltissime poi sono le leggi che guidano r uomo a vita frugale e temperata, e che ingenerano r amore della giustizia' la quale custodisce in città la coacordia : altre però di queste sono scritte, ed altre non scritte ma passate pel lungo esercizio in abitudini. E lungo sarebbe a dire di tutte ; ma basterà dire di due più degne di ricordanza, e cbe sono argomento delle altre. La legge su’ confini da’ poderi fu causa che oguuno si contentasse de’ proprj ; non gli altrui desiderasse. Imperocché comandando a ciascuno di marcare intorno i proprj poderi, e di porvi de’ sassi per termini, dichiarò sagri que’ sassi a Giove Terminatore, e volle che tutti periodicamente ogni anno recatisi in sul luogo vi facessero sopra de’sagrifizj, e stabili parimente una festa in onore degli Dei termini. I Romani chiamano la festa Terminali, da que’ sassi o termòni, che essi con simiglianza al nostro idioma, chiamano termini ^ mutata una lettera soia. E se alcuno involava o trasponeva que’ termini fu per legge sacro agl’ Iddii ; talché potesse, chiunque volevalo, uccidere qual sacrilego impunemente, e senza macchia di colpa. Nè stabili tal diritto su’ poderi de’ privati solamente, ma su quelli del pubblico eziandio, circondandoli di con&ni ; perchè gii Dei termini tenessero distinte le terre comuni dalie individuali, e quelle de’ Romani dalle altre de’ convicini. Praticano i Romani pur ne’ miei tempi un tal rito, almeno per apparenza, come ricordatore de’ tempi : perocché riguardano i termini come Numi, e sagrificano ad essi focacce di fior di farina, ed altre primizie di frutti, e non già cose animate ; essendo profanità riputata insanguinarne le pietre. E bisogna che rispettino la cagione medesima per la quale fecero d’ogni termine un Dio, contenti de’ poderi proprj, non arrogandosi gli altrui colla forza, o coll’ inganno. Ora però contrassegnano i propri  ma a propagare la giustizia e la moderazione ; e con questi tenne il comune di Roma ordinato più ancora di una famiglia. Con quello poi che ora io sono per dire egli fe’ Roma sollecita procnratrice delle cose necessarie e delle dilettevoli. Considerando il valentuomo che una città istituita per amar la giustizia e serbare la temperanza non dovea penuriare delle cose necessarie ; divise tutta la campagna in porzioni chiamate pagi, assegnando per ciascuna un capo che la visitasse e curasse. Questi recandovisi di tempo in tempo, e notandovi i buoni o tristi cultori, ne riferivano poscia al sovrano ; ed il sovrano ricompensava i buoni con lodi e con altre gentili maniere ; e svergognava i tristi o mullavali, onde accenderli a cultura migliore. Quelli dunque che sciolti dalle core della guerra o della città sen vivevano in ampio ozio, pagandone col vitupero o colle multe la pena, diventavano tutti operosi in lor bene, e riputavano la ricchezza della terra che è la più giusta di tutte, essere ancora più dolce della militare, che incerta fluttua ognora. Segui da ciò che Numa fu amato dai sudditi, emulato da' vicini, e celebrato da’ posteri. Per opera di lui nè sedizione interna disunì la città, nè guerra esterna la distolse dalla disciplina sua bonissima e mirabilissima. E tanto i circonvicini furono alieni da prendere la calma inerme de’ Romani come occasione d’ invaderli; che se prorompea guerra alcuna tra quelli, assumevano i Romani per mediatori; e deliberavano di spegnere le inimicizie su le condizioni date da Numa. Pertanto io non prenderei vergogna di collocare questo uomo tra’ più famosi per sorte beata. Nato di regia stirpe ebbe regia presenza, e si esercitò nelle discipline non già di lettere vane, ma in quelle donde apprese la pietà verso i Numi, e la pratica di altre virtù. Giovine fu riputato degno di prendere il comando di Roma : ed invitatovi a prenderlo per la bella fama delle sue virtù, regnò per tutta la vita su popolo docilissimo. Complesso com' era di persona ^ nè danneggiatone mai dalla sorte, giunse a lunghissima età. Finalmente consumato dalla vecchiaja venne meno a sé stesso con morte placidissima. Quel medesimo genio di felicità che gli era toccato da principio, quello sempre lo accompagnò finch’ egli non fu tolto dall’ aspetto de’ mortali. Visse più di ottant’anni, regnandone quaranlatrè. Di lui restarono, come i più scrivono, quattro figli, ed una figlia, de’ quali conservasi ancora la discendenza : ma Gellio scrive che egli non lasciò che una figlia, dalla quale nacque Anco Marzo, terzo re di Roma dopo lui. Tutta la città si abbandonò, lui morendo al dolore ; facendogli nobilissima sepoltura. Egli riposa nel Gianicolo di là dal Tevere. E tali sono le (jose che ‘ abbiamo risapute su Numa. IVEancatO Numa Pompilio, i Senatori arbitri nuovamente de’ pubblici affari deliberarono di conservare il governo medesimo: nè già il popolo era di altro avviso. Adunque deputarono un numero certo de’ Seniori i quali comandassero intanto nell’ interregno. Da questi, approvandolo tutto il popolo, fu nominato re Tulio, Ostilio, di cui la origine fu, come siegue. Un tale, Ostilio di nome, uomo nobile e facoltoso di Medullia, città fondata dagli Albani, presa a condizioni da Romolo e venduta colonia romana, trasportatosi, per domiciliarvisi, a Roma, vi tolse in moglie una sabina, la figlia appunto di quella Ersilia, la quale, ardendo la guerra co’ Sabini, consigliò le sue nazionali di ao libro in. 2 i 5 darne oralrici ai padri loro su de’ mariti, e la quale sembra la cagion principale che i due popoli si racchetassero. Compagno costui di Romolo in più guerre, e segnalatovisi per opere grandi ; moti finalmente, lasciando un unico figlio, nel combattere co’ Sabini, e fu sepolto dai re  nella parte più insigne del Foro, onorato di una iscrizione, che la virtù ne ricordava. Cresciuto 1’ unigenito suo, e legatosi con nobile matrimonio, ne ebbe un figliuolo; e Tulio Ostilio fu questi, uomo elBcace. Dichiarato monarca dal voto, dato secondo le leggi dal popolo; i Numi ne approvarono con augurj propizi la scelta. Quando egli prese il comando, volgea r anno secondo della olimpiade vigesima settima nella quale Euriboto ateniese vinse nello stadio essendo arconte Leostrato (a). E nello stringere appena lo sceu tro si affezionò la classe de’ mercenari e de’ poveri con questa liberalissima azione. Aveansi i re predecessori eletto ampio e bel territorio, colle rendite del quale fornivano i templi di sagrifiz), e le regie case di abbondanza moltiplice. Romolo avealo tolto a’ primi possessori colla legge delle armi : e morendosi lui senza figli, aveaselo goduto Numa che gli succedette nel re^ gno. Laonde non era allora quel podere del popolo ; ma perpetuamente dei re. Tulio nondimeno concedè che si compartisse tra’ Romani privi in tutto di campagna; dicendo essere a lui sufficienti le sostanze paterne per le cose de’ Numi, e della regia famiglia. Sollevò  Romolo e Tazio. ( 3 ) Anni di Roma 84 secondo Varrone, 8 a secondo Catone, avanti Cristo 670.] Goa questa beneGcenza li cittadini bisognosi ; tanto che non più stentassero in servigio degli altri. E perché ninno fosse privo di alloggio aggiunse a Roma il monte Celio chiamato. Ivi quanti non aveano magione se la fabbricarono, pigliatovi sito che bastasse : ed egli stesso la sua residenza vi collocò. E tali sono le operazioni urbane di quest' uomo degne di ricordanza. II. Ma delle militari molte se ne raccontano, ed io mi accingo a parlarne, cominciando dalla gueiTa di lui con gli Albani. Gluvilio, un Albano, allora magistrato supremo, fu cagione che i dne popoli consanguinei si scindessero, e separassero. Punto da invidia, e mal più la invidia potendo rattemperare su la prosperità de’ Romani, come superbo e maligno per indole, risolvè d’ implicare i due popoli in guerra vicendevole. Non sapendo però come volgere gli Albani a commettergli che portasse 1’ esercito contro Roma ; altronde non avendone alcuna causa giusta e necessaria; macchinò' questa o simile trama. Concitò, promessane la impunità, li più poveri e li più baldanzosi degli Albani a far preda su’ campi romani: dond’ è che seguendo un guadagno senza pericolo molti che tra ’l pericolo ancora seguito r avrebbero, empierono le terre vicine di assalti e di latrocinj. E ciò fece con disegno non alieno, come r evento stesso lo dimostrò. Perciocché prevedea che i Romani non sofierendo le rapine correrebbono all’ armi, che egli potrebbe accusarli al suo popolo come primi a romper la guerra : e prevedea che moltissimi Albanesi invidiosi delia prosperità della colonia, riceverebbero C6n piacere le accuse, e farebbero la guerra contro di senti se fosse da accettarsi il partito. A16ne, ascoltatine i roti, tornò nel consesso e disse: A noi non sembra o Tulio che abbiamo a lasciare solitaria la nostra patria, deserti i templi paterni, vuote le case degli antenati, e desolata infine quella sede che i nostri padri tennero quasi per cinquecento anni; tanto più che nè guerra ce ne bandisce, nè flagello niuno del cielo. Non però ci dispiace che formisi un Senato, e che una sia la città che domini, sut altra ancora. Scrivasi questo se così vi pare, tra le condizioni, e levisi ogni seme di guerra. Concordi 6n qui, difTerivano poi sa la città che prenderebbe il comando. E molti furono i discorsi quinci e quindi tenuti, giustificando ognuno che dorea la propria città signoreggiare su l’ altra. L’ Albano insisteva su questo diritto : Noi o Tulio siam dagni di comandare anche al resto d Italia, perchè una gente siamo di Grecia, e la più potente che qui in torno si alloggi. Crediamo giusto di precedere i Latini almeno, se non altri, nè già senza cagione; ma per la legge comune data dalla natura a tutti gli uomini, che 1 padri comandino ai figli : crediamo che ci si convenga il Comando su la vostra città, piucchè su le altre, che pur sono nostre colonie, delle quali non possiamo finora dolerci. Noi abbiamo inviato la colonia nella vostra ; nè già da tanto tempo che siane per t antichità svanito ogni legame di sangue ; ma indietro da tre generazioni. Quando la natura avrà capovolte le leggi umane facendo che i giovani maggioreggino su veechj, e li posteri su gli antenati; allora, e non prima, noi sottoporremo la nostra città madre perchè sia governata dalla colonia. Questo è ìuno de' titoli della nostra superiorità, nè questo mai cederemo spontaneamente. Il secondo è tale. Voi lo prendete, detto non come per calunnia o doglianza, ma per sola necessità. Il popolo di Alba mantienesi ancora qual era sotto de' fondatori : nè può alcuno additarvi altro ramo di uomini, se non Greci o Latini, partecipi della nostra repubblica: ma voi avete contraffatto la sì gran purità della vostra cittadinanza intrinsicandovi Tirreni e Sabini, ed altri barbari molti, erranti e senza patrj lari. Tanto che poco soprawanzavi di quell ingenuo lignaggio che da noi vi si diramava, ed è questo, come un solo, tra i moltissimi, ricevuti dt altronde. Se noi vi cediamo il comando; il . non ingenuo comanderà su l ingenuo, il barbaro al Greco, i estero al patriota. Nè già potreste voi dire che non permettete a peregrini di amministrare il comune, e che voi, naturali del luogo, voi presiedete e regnate : voi creale re forestieri, e senatori in gran parte di altri popoli. Dite: v'inducete a ciò di vostro volere? Ma chi mai di voler suo f chi se più sia valeni uomo abbandonasi cd governo dei meno riguardevoli ? E se apparisce, che voi siete a ciò sospinti da necessità, ben sarebbe grande tj pravità, grande la manìa nostra se volontarj a tanto c inchinassimo. Da ultimo così dico ; in Alba niuna parte ancora si è smossa della repubblica : corre già, da che vi si abita la decima ottava generazione ; e V ordine ancora vi si mantiene, e le abitudini primitive. Ma la vostra città senza buorì ordine e senza bel complesso, come nuova, e sorta da più genti, assai bisogna di tempo e di vicende, perchè inferma e scissa, com’ ella è, sì articoli e calmisi. Tutti poi concederanno che deono le cose ordinate antistare alle disordinate, le cose note alle ignote, e le sane alle inferme. Voi dunque chiedendoci in contrario ; non bene adoperate. A Fuffezio che cosi ragionava sottentrando Tul.> lo rispose, o Fuffezio, o uomini di Alba noi li abbiamo uguali con voi li diritti della natura e del merito de progenitori ; perocché vantiamo ambedue la origine da capi medesimi. Quindi niuno è di noi da meno, o da più dell’altro. Noi non istimiamo nè vero nè giusto che debbano le città madri, quasi per legge indispensabile della natura, dominare su le colonie. E molte sono le nazioni dove le città madri servono, non comandano alle colonie. Massimo, luminosissimo aSi esempio del proposito mio si è Sporta, elevatasi a comandare non pur gli altri Greci: ma fino i Doriesi da’ quali discendeva. Sebbene e che giova dir su gli altri? Voi stessi, voi padri della colonia che fece tlioma, voi non siete che un tralcio de’ Laviniesi. Quindi se diritto è della natura che le città madri regnino su le colonie, non saranno con precedenza i Laviniesi li legislatori de’ nostri popoli ? E ciò sia detto sul primo de’ vostri titoli sì bello nelle apparenze. Siccome tu poscia o Fuffezio ti davi a contrapporre r una all’ altra città, quali sono, dicendo che il puro lignaggio di Alba rimanesi tale ancora; laddove il nostro si è degenerato col tanto soprajfondervi de' forestieri, e che non sono degni i non ingenui di comandare agli ingenui, nè i forestieri agl’ interni ; vedi, quanto anche in ciò ti sei deviato. Tanto è lungi che noi vogliamo vergognarci di rendere la patria nostra comune a chi vuole; che anzi,, di ciò moltissimo ci gloriamo : nè già siamo noi gli autori di tale istituzione : ma ce ne diede Atene l’esempio, Atene tra Greci famosissima per questo, almeno in parte se non in tutto. E questa pratica è sorgente a noi di molti beni non che ci dia rimprovero e pentimento, quasi per essa, mancassimo. Tra noi comanda e provvede, e tali altri onori si gode chi di essi è degno non chi tiene il molto oro, nè chi può la serie additare degli avi sempre nazionali : perciocché non poniamo in altro la nobiltà che nella virtù. ; l'altra moltitudine non è che il corpo della città il quale somministra potenza e forza a savissimi consiglieri. Con tale benevolenza si è la nostra città fatta grande di piccola, e formidabile d' ignobile tra’ popoli intorno, ed è cominciata tra noi la forma di signoria, che tu o Fuffezio condanni, e che niuna ornai de’ latini può disputarci'; perocché sta la potenza delle città nella forza delle armi ^ e la forza delle armi nella moltitudine delle persone. Ma le città piccole, e spopolate, e però deboli non comandano le altre, anzi nemmeno sé stesse. Jo generalmente stabilisco che uno debbe esaltare il proprio governo e riprovare quello degli altri, quando può dimostrare che la sua città col metodo che le ascrive, diviene glande e felice, e che le altre se ne decadono e sconciansi appunto col non seguirlo. Ora così vanno le cose; la vostra città già nel fior della gloria, già ricca di molti beni, si è ridotta ad uno scarso abitato ; e noi movendoci da piccioli principi abbiamo tra non molto tempo ingrandito Roma più d’ ogni altra città vicina, e colle istituzioni che tu ne biasimi. Le. nostre sedizioni, poiché di queste ancora tu ne incolpi o Fuffezio, nontendono alla depressione o rovina, ma sibbene alla salvezza ed incremento del comune. I giovani vi contendono co’ schiari, i nuovi con gli antichi cittadini chi più debba operare il pubblico bene. E per dir tutto in breve, spettano alla città che dee comandare le due qualità, forza nel guerreggiare, e saviezza nel risolvere; e queste tra noi sono ambedue. Né ce ne fa testimonianza un millantarsene vano, ma il fatto che supera ogni dire. Imperocché non era  ni. 233 possibile che la nostra città nella terza generazione appena dopo la origine, fosse già divenuta sì grande e' potente, se non abbondavano in lei senno e valore. Argomentano la nostra potenza le tante città. Ialine le quali sebbene da voi fondate, pure voi dispregiane do, si concederono a noi per essere comandate anzi da Roma che da Alba. E questo perchè potevamo noi prosperare gii amici e por già gl’ inimici ; ma non potfiono gli Albani altrettanto. Ben altre cose e fortissime o Fuff&sio potrei rispondere ai diritti che ne presentasti. Ma considerando che vano è il distendersi, perciocché il dir breve vale quanto il prolisso con voi che siete i competitori, ed i giudici; cesso tT insistere. Aggiungo soltanto, e finisco, che io penso che tunica maniera, bonissima per togliere le nostre controversie, della quale si valsero greci e barbari ne’ dissidj di principato edi territorj sia questa, cioè che gli uni e gli altri veniamo a battaglia con una parte solamente dell’esercito, vincolando la sorte della guerra alla vita di pochissimi, e concediamo che la città che co’ suoi guenneri vince i guerrieri delt emula, quella domini ancora. Ben è giusto che ove le parole non vogliono, i brandi decidano. Tali furono le dispute di que’ due principi su la preminenza delle città : ma il seguito delle dispute non fu se non quello suggerito dal Romano. Imperocché quelli di Alba e di Roma presenti al colloquio cercando ^ un sollecito fine alla guerra ; deliberarono di risolver la lite colle armi. G)ncluso ciò, si ebbe controversia intorno ai numero de combattenti; non sentendone ambedue li capilani in un modo. Imperocché Tulio voleva che si decidesse la gara col menomo delle persone, contrapponendo per combattere uno de’ più riguardevoli Àlbahi ad altro simile de’ Romani : ed egli stesso era pronto a spendersi per la patria, invitando TAlbano ad emularlo. Diceva che era pur bello che quelii che prendono il comando delle schiere, prendano pur la tenzone pel comando e pel principato o vincano de’’ valent' uomini, o vinti ne siano. E qui ricordava quanti capitani e quanti re cimentarono la vita loro per lo comune, tenendo essi a vii cosa di partecipare al più degli onori, ed al men della guerra. L’ Albano credea ben detto che dovessero le due città rischiarsi con pochi: discordava però su la battaglia di un solo contro di un solo. Esponeva che bello, anzi pur necessario è il combattimento da solo a solo intorno la sovranità pe’ capi degli eserciti quando fondano la propria potenza; ma che stolido anzi vituperoso è ne’ suoi pericoli quando ne disputano due città sia che sperimentino sorte propizia sia che malvagia. Adunque consigliava che tre valent’ uomini dell’una e tre deU’allra città pugnassero in vista di tutti gli Albani e Romani ; essendo questo numero, come avente principio, mezzo e fine, propriissimo alla total decisione della controversia. Ciò stabilito per voto de’ Romani e degli Albani il congresso fu sciolto ; e ciascuno ritornò nei proprj 'alloggiamenti. Poi convocando i capitani ciascuno le loro milizie a parlamento, riferirono la disputa vicendevole, e le condizioni ricevute per la soluzion della guerra. Approvarono vivamente gli eserciti i patti di ambedue li capitani ; e gara meravigliosa di onore comprese centurioni e soldati ; desiderando moltissimi di riportare la palma di quel combattimento, e studiandovisi non pur con parole, ma profTerendovisi con preludj di bell' ardore ; tantoché si rendette malagevole ai duci il giudiziosu quelli che erano i più idonei. Se alcuno vi era nobile per luce di origine, o forte per gagliardia di corpo, o cospicuo pe’ fatti di arme, o segnalato comunque per eventi ed ardire, insisteva che mettessero lui primo fra i U'e. Ma tali fiamme di emulazione che più e più si dilatavano in ambedue gli eserciti le ripresse il capitano di Alba col riflettere che la provvidenza celeste antivedendo già da tanto tempo la tenzone che sarebbe tra le due città, ne avea preordinato che quelli che vi si cimenterebbero fossero non ignobili di lignaggio, buoni in guerra, belli a vedere, nè simili a molti pe’ casi della nascita rara, meravigliosa, impensata. Sicinio un di Alba avea nel tempo medesimo maritato due figlie gemelle, 1’ una ad Orazio Romano, e r altra a Curazio  un Albano di popolo. Ingravidarono ancora ambedue queste donne in un tempo, ed ambedue diedero nel primo parto prole virile, e trigemina. I genitori pigliandone buon augurio per sé, per le famiglie, e per le patrie allevarono e perfezionarono tutti que’ gemelli. Iddio, come io dicea da principio, diè loro beltade, robustezza, magnanimità; talché non cedeauo a niuno de’ben avventurati per indole. A questi  Mei testo Corazio. Sigonìo crede che vada bene e che in Tito Livio si debba leggere Curazio, com' egli ha trovato in un manoscritto e non Cariazio come comnnementesi legge. deliberò FufTezio di appropiare la battaglia sa la preminenza de’ popoli. Quindi invitando vid un colloquio il re di Roma gli disse: XIV. Un Dio, sembrcuni o Tulio che provvedendo le nostre città, dia loro segni manifesti di benevolenza in p ià cose; come su la tenzone imminente. Certo ben dee parere in tutto opera divina e meravigliosa che si rinvengano per combatterci uomini non inferiori a niuno di prosapia, buoni nelle armi, belli a vedere j originati da un padre, nati da una madre sola, e venuti', ciò che è pià singolare, in ungiamo stesso alla luce ; e tali sono gli Orazj fra voi, tali fra noi li Curazj. Che dunque non abbracciamo una tale provvidenza divina, e non assumiamo ambedue per questa gara di sovranità que trigemini ? Bisplendono tn essi ancora le doti sublimi, quante altre mai ne brameremmo in chi fosse per uscire al paragone delle armi; ed essi pià che tutti gli Albani e Romani han pure il bene che essendo fratelli non abbandoneranno, pericolano, i compagni nella impresa. Cesserà subitamente rimpetto a loro la emulazione difficile a calmarsi per altra maniera in altri giovani, de' quali tnolti tra voi penso che di virtà competerebbero, come Ji'a gli Albani competono. Noi persuaderemo questi di leggeri, se additeremo loro come la bontà Divina ba prevenuto le sollecitudini umane, dandoci con. egualità chi decida con le armi le contese della patria. Nè già crederanno di essere superati dalla virtit dè' fratelli trigemini; ma da certa prosperità di natura ed opportunità di fortezza eguale in essi per competere. Cosi disse Fuffezio, e comune ne fa I’ approvazione, quantunque presenti vi fossero i più bravi di Alba e di Roma. Soprappensò Tulio un poco, e seguì : Ben sembra o Fuffezio che abbi tu saviamente concepito. Imperocché meravigliosa è la sorte che ha dato in questa generazione ad ambedue le città prole tanto simile; quanta altra volta mai non vi s’incontrò. Mi sembra però che non abbi tu considerato che assai rattristeremo i giovani se chiediamo che fra loro dontendano. Imperocché la madre degli Orazj nostri è sorella della madre de' vostri Curazj : e questi cresciuti giovanetti nel seno di tali due donne si carezzano ed amansi come fratelli. Bada che non sia forse, indegna cosa dare le armi e sospingere gli uni alla morte degli altri, questi, congiunti per fratellanza e per educazione. Il sangue se vi si astringono, il sangue di cui si lordano ritornerà su noi che ve li astringiamo. Replicò F ufTezio ; iVbn ignoro o Tulio, il parentado de’ giovani ; nè io già, se li ricusano, sono per violentare i cugini alla battaglia. Ma non sì tosto mi venne in pensiero di mandare dal canto mio li Curazj di Alba io gli investigai se porrebbonsi volentieri al cimento. E ricevendo essi il dir mio con enfasi incredibile e meravigliosa, io fui deliberato allora di svelare e proporre quel mio sentimento. Suggeriscoti che anche tu facci altrettanto chiamando quei tuoi trigemini, ed esplorandone i cuori. Che se vorranno anch’ essi esponersi per la patria, tu ne accetta la benevolenza : ma se ricusano, tu per niun modo non isforzarvegli. Io di loro presagiscoti ciocc/l’ è degli altri miei. Se come abbiamo ascoltato ( giac~ chè venuta è fino a noi la fama della loro virtà ) sa~ migliano i pochi bennati, e se bellicosi ancor sono per indole ; abbracceranno prontissimi, e senza che niuno ve li necessiti, di combattere per la patria. XVI. Accolse Tulio il suggerimento : e conchiusa una tregua di dieci giorni per consultarsi, e tentare 1’ animo degli Orazj, e risponderne ; si ricondusse a Roma. Deliberatosi ne’ primi sei giorni co’ migliori, e vedutili per lo più propensi agl’ inviti di Fufiezio; chiamò li fratelli trigemini, e disse : Fu/fezio o uomini Orazj, abboccatosi meco nell' ultimo congresso nel campo, mi annunziò, che crasi fatto per la provvidenza degli Iddii, che si cimenterebbero per V una e per V altra città tre bravi, de quali invano ne cercheremmo altri più. valorosi, o più idonei, cioè li Curazj per Alba, e voi pe'Jìomani. Ciò conoscendo, mi disse, che aveva egli primo investigato, se que vostri cugini si esporrebbero volontari per la patria : e trovatili che ardentissimi correrebbono ad ogn impresa, inanimatone mi propose V evento, invitandomi perchè io vedessi di voi parimente, se voleste offerirvi per la patria, e rispondere in campo ai Curazj, o se lasciaste ad altri tanta emulazione. Ben io mi argomentava che voi per lo valore dell’ animo, e per la possanza delle mani, doti in voi non occulte, spontanei più che tutti, vi rischiereste per trionfare : ma temendo che la consanguinità vostra co’ tre gemelli di Alba non fosse un impedimento al vostro ardore, chiesi tempo a risolvermene, e feci tregua con lui di dieci giorni. Restituitomi in Roma adunai li senatori, e proposi l’qffare sicché ne discutessero. Parve al più, di loro che se voi spontanei vi mettereste alla impresa, bella e degna di voi, impresa che io già voleva, solo io per tutti combatterla ; allora ve n esaltassi e v ac-^ cettasi. Ma se voi, restii contro al sangue de vostri, e non già confessandovi pusillanimi, dimandereste altri fuori della vostra famiglia ; allora, parve loro, che io non dovessi farvene la menoma violenza. Così pronunziava il Senato : nè già ne avrà egli rammarico se voi riguarderete la impresa come grave: ma non picciola è la gratitudine che dovravvene, se voi pregierete la patria più de’ parenti. Or su ponderate col bene vostro, ciocché siate per farvi. Udendo i giovani questo ; si ritirarono, e conferirono brevemente. Tornatisi quindi a rispondere cosi disse il maggiore fra loro : Se noi fossimo liberi; se fossimo gli arbitri unici delle nostre risoluzioni; e tu ci avessi o Tulio incaricato di consultarci su la pugna contro i nostri cugini: già ti avremmo risposto de' nostri voleri. Ma perocché vive il nostro genitore senza cui niente vorremo dire nè fare ; preghiamoti che ci concedi alcuna requie a risponderti, finché ce ne intendiamo con esso. Encomiando Tulio la pietà loro, e volendo che cosi appunto facessero ; partirono in verso dei padre. Dichiaratogli l' invito di F uffezio, il colloquio di Tulio con essi, e la risposta vendutagli ; alfine insisterono perchè dicesse ciocch'egli ne sentisse. E colui sottenlrando disse : Pietosamente o figli adoperaste riserbandovi al padre, nè risolvendovi senza a4o lui. Ma ò tempo ornai che voi pure vi manifestiate idonei a tali consigli : concepite già venuto il fine dei miei giorni; palesatemi ciocché scegliereste di fare, deliberandovi tra voi sema del padre : Allora cosi rispose il maggiore: Noi o padre assumeremmo a noi di combattere per la preminenza di Roma, e ci porremmo alle vicende che a Dio si piacessero; bramosi anzi di morire che di vivere indegni di te e degli oìvtenatì. Il ligame del sangue co’ nostri cugini non lo avremo noi sciolto i primi; ma come sciolto già dalla sorte, placidi lo mireremo : perocché se i Corcai; stimano la parentela men che il benfare ; nemmeno agli Orca] parrà quella più. onorevole della virtiu Come il padre conobbe i loro sentimenti, divenutone lietissimo, e sollevando le mani al cielo, parve che rendesse copiose grazie agl’Iddii, perchè gli avessero dato figli onesti e generosi. Quindi prendendoli uno per uno, e dando loro soavissimi amplessi e baci di amore, voi vi avete, disse, magnanimi figli, anche il mio voto. An• date j rispondete a Tulio i pietosi e belli sentimenti. Allora giojosi quelli per le ammonizioni paterne si divisero, e corsi al monarca accettarono la battaglia. E colui convocato il Senato, e mollo encomiativi i giovani spedisce messaggeri alPAIbano per dichiarargli che i Romani sieguono,il suo volere, e pongono gli Oraz) per combattere sul principato. Ora dimandando il subbletlo che rappresentisi diligentemente la forma della battaglia, nè scorrasi di volo su’ casi che la seguirono, simili a quelli di una tragedia, tenterò di pareggiare, quanto io posso, coi detti ogni cosa. Venuto il tempo di compiere le condisioni, uscirono tutte in campo le milizie romane, e dopo le milizie, fatte prima suppliche ai Numi, uscirono i giovani. Essi ne andavano compagni del re, mentre il popolo per tutta la città gli acclamava, e spargeva loro de’ fiori sui capo. Erano già uscite anch’esse le schiere albane. Collocatesi le une in vicinanza delle altre destinarono per teatro dell’ azione il campo che separa i confini di Alba e di Roma ove già s’ alloggiavano entrambi gli eserciti. Quivi sagrificando giurarono anzi tutto Romani ed Albani su le vittime che ardevano di essere contenti della sorte la quale per r una e per l’altra città risulterebbe dal combattere dei cugini, e di osservare santamente i patti senza mescervi inganno, essi nè i posteri. Compiuti tali sacri riti in verso de’ Numi si avanzarono in arme dal proprio campo, spettatori gli uni e gli altri della battaglia ; lasciando, tre stadj o quattro di spazio intermedio pei combattitori. Prescntaronsi indi a non molto il capitano di Alba ed il re di Roma conducendo quello i Curazj, e questo gli Orazj, armati splendidissimameute, e con apparato quale il prendono, uomini destinati alla morte. Giunti gli uni vicino agli altri consegnarono le loro spade agli scudieri ; e corsero e si abbracciarono, piangendo vicendevolmente, e chiamandosi co’ più teneri nomi; talché datbi tutti intorno alagrimare, accusavano la grande inumanità loro, e de’ capitani, perché potendo definire la lite con altri, l’ aveano ridotta al sangue de’ parenti ed ai contaminarsene delle famiglie. Staccatisi CDalmente i giovani dagli amplessi, ripigliale dagli scudieri le spade, e già ritiratisi quanti s’ aveano intorno, si contrapposero secondo la statura, e si avventarono.. XIX. Stavansi Gn qui le milizie placide e senza clamori : ma poi da ambedue proruppero grida frequenti, esortazioni scambievoli per chi avea da combattere e voti e rammarichi, e continui suoni di voce, varj secondo r ondeggiare vario della mischia, quali per le cose fatte e vedute dall’ una e dall’ altra parte, e quali per le cose future o pronosticale : ma più dalle immaginazioni ne derivavano che dai successi ; perocché la visione fatta in tanta distanza non era ben chiara ; e passionandosi tutù pe’loro combattenti, prendeano come avvenuto quanto ideavano. E gli assalti incessanù, le ritirate degli emuli, e li passaggi rapidi, e li rivolgimenù  degli uni in su i luoghi degli altri levavano ai riguardanù la forza del distinguere. Durò tal vicenda gran tempo; perocché gli uni e gli altri aveano pari le forze del corpo, pari la generosità degli animi, e bonlssime le armi che li circondavano; nè rimaneano loro membra alcune indifese ; tanto che feritivi, subito ne morissero. In tale stato molti Romani e molti Albani in mezzo all’ansia di vincere e nel commovei'si pe’loro atleti, s’ inGammavano, elGgiandosi appunto con gli affetti di quelli, quasi volessero anzi star nel conflitto, che rimirarlo. AlGne il maggiore degli Albani serratosi col Romano che stavagli a fronte, e dando e ricevendo  Cioè il voiiat della taccia, molalo luogo. colpi su’ colpi ; immerse non so come la spada nel> r anguinaja dell’ emulo. Questi ingrevilo già da altre ferite ai riceverne l’ ultima e mortale, cadde, rilascian dosi nelle membra, e spirò. Alzarono a tal vista gli spettatori tutti le grida ; gli Albani come già vineitori, e li Romani quasi già vinti ; concependo i due loro fàcilissimi da essere conquisi dai tre degli Albani. Frat' tanto il Romano che era per soccorrere il caduto com> pagno y vedendo quanto l’Albano rabbellivasi ai fausto evento, si spiccò come un lampo su lui, e menando e riportando ferite in copia, alfine gli cacciò la spada nella gola e lo uccise. Ricambiatisi in poco d’ ora i successi de’ combattenu, e le affezioni degli spettatori, elevandosi i Romani dal primo abbassamento, e per^ dendo gli Albani la esultazione ; un’ altra volta ancora la sorte spirò contraria ai Romani, e ne umiliò le spe concio ; por zoppicandone, ed appoggiandosi via via su lo scudo, reggeva ancora, e si ritirava presso del fratello rimastogli, che starasi alle prese col Romano. Restava a questo F uno de' contrarj a fronte, venendogli r altro da tergo. Allora temendo che avendola a fare con due che da due lati lo investivano, sarcbbenc facilmente rlnthiuso : e trovandosi invulnei^to ancona ; pensò di separare i nemici e combatterne. 1’ uno dopo r altro. Concepì che avrebbeli facilmente disgiunti se facesse vista di fuggire; non potendo ambedue segui tarlo, giacché vedeane l’ uno infermo del piede. Cosi deliberato fuggi con quanto avea di velocità, nè gli vennero meno le speranze. L’ albano che non avea piaga mortale, tennegli immantinente appresso; ma l’ invalido a camminare si rimase più addietro che non dovea. Qui gli Albani confortavano i suoi : riprendevano i Romani il proprio guerriero : anzi cantavano quelli e si maguifìcavano, come sul termine glorioso della impresa ; ma s addoloravano gli altri come non più potesse la fortuna rasserenarsi verso di loro. Quando ecco il Romano, coltone il punto, si rivoltò rapidissimo ; e prima che r Albano potesse guardarsene, gli diè colla spada in un braccio, e spiccoglielo nel gomito. Fattagli. cadere la mano e colla mano la spada gli sopraggiunse un colpo, e con questo la morte. Quindi si lanciò su r ultimo albano e lui già derelitto, già semivivo scannò. Poi spogliati i cadaveri de’ cugini, corse in città ; volendo esso il primo dare al padre la nuova della vittoria. Portavano però i destini che essendo mortale anch’ egli non avesse prospera ogni cosa ; ma sentisse i morsi ancora della invidiosa fortuna. Lo avea questa iu pochi momenti venduto grande di picciolo, e sollevato a chiarezza inaspettata e mirabile, e questa appunto nel medesimo giorno lo gittò dentro amara sciagura, spingendolo ad uccidere la sorella. Come egli fu vicino alle porte di Roma, videvi moltitudine immensa che fuori se, ne versava, e vide accorsa con essa ancor la sorella.^ Tnrbato ài primo vederla perchè essa, donzella ornai nubile, ave^ lasciato la custodia materna, e si fosse esposta in mezzo di turba incognita ; ne formava pensieri funesti: ma si rivolse alfine ad altri più miti e be nevoli, quasi ella cedendo al muliebre genio avesse ne, gletto il decoro per desiderio dì salutare primieramente il fratello salvo, e d’ intenderne i fatti virtuosi degli' estinti. Colei però s’era ardila di mettersi alla insòlita via non' per desiderio del fratello ma vinta dall’ amore di uno de’cugini, col quale aveale il padre fuo concordate le. nozze. Celavano colei l’ ineffabile afletto ; ma poiché seppe da un tal dell’ esercito gli eventi della giornata ; non più lo contenne : ma lasciati i domestici lari corse come furiosa alle porle di Roma, nemmeno volgendosi alla nutrice che la seguiva, e la richiamava. Uscita dalla città come vide il fratello festevole colle ghiriande trionfali dntegli dalle regie mani, e gli amici che portavano le spoglie degli estinti, e tra le spoglie ancora 1’ ammanto vario, che essa avea colla madre tessuto e màhdato in pegno delle nozze allo sposo, giacché usano gli sposi futuri tra’Latini abbigliarsi di ammanto vario; come vide il caro suo dono macchiato di sangue ; si lacerò le vesti, si battè con ambe le mani il petto; ululò, richiamò l’ amato cugino ; tanto che grande stupore ne invase quanti in quel luogo si stavano. £ pianto il destino dello sposo folgorò col fisso sguardo sul fratello, e gridò: Tu esulti o sozzissimo uomo su la occisione decagoni, e tu, scellerato, tu privasti con ciò dello sposo la misera sorella tua. Nè pietà senti de’ trafitti parenti che pure chiamavi fratelli tuoi; ma f innebrj di gioja quasi per buonissima impresa y e vai fra tanti mali coronato. E qual cuore è mai il tuo ? forse di una fera ?  anzi, colui replicò, di un cittadino che ama la patria ; di uno che punisce chi le vuol male, siasi egli un estraneo o siasi un domestico. E tra questi colloco te pure, te' che vedendo i beni grandissimi, e i grandissimi mali in un tempo awemUici, la vittoria della patria che io qui ti presento, e la morte de tuoi fratelli ; già non esulti o malvada pe’ beni comuni della 'patria, nè ti addolori pe’ domestici infortuni > spregiati i fratelli, non sospiri che lo sposo ; e profani te stessa non fra le tenebre ; ma nel pubblico aspetto di tutti. A me la mia virtù, rimproveri, a me le mie corone ! O non vergine, non ‘sorella, e non degna degli avi! Poiché dunque non piangi i fratelli ma lo sposo ; poiché tieni il corpo co’ vivi, ma V anima colf estinto ; va, ten corri a lui che richiami, nè più. disonorare il geni' tare, e i fratelli. Cosi dicendo, più non serbò misura nell’ odio della scellerata ; ma le immerse con quanto area d ira la spada ne’Ganchi; ed uccisala andossene al padre. I costumi e gli animi de’ Romani erano allora cosi pieni dell’odio del male, e cosi fermi in questo; che se alcuno li voglia paragonare co’ nostri, dirà che erano aspri e duri, nè diversi molto da quei delle fiere. Il padre udita la spaventevole uccisione non -solo non se ne corrucciò ; ma la tenne come debita e decorosa ; perciocché nè permise che fosse portata nella sua casa ; nè procurò che la seppellissero nelle tombe degli avi ;  nè clic fosse con esequie e fregi, c conianque coTunebri riti onorata. Ma coloro che passavano dove giacevasi uc> mettono che uccidasi alcuno impunemente, e riferendo gli esempi dati dagl’iddi! su le, città che non vendicano gli scellerati. Faceva il padre le difese del giovine, ed incolpava la Gglia ; pretestando eh’ ella non ebbe morte, ma castigo : che niuno era nella domestica sciagura giudice più acconcio di lui come genitore di ambedue. Moltiplicandosi da arabe le parti i discorsi, assai fu perplesso il monarca come avesse a terminare il giudizio. Eigli per non portare la colpa, e la maledizione nella magione sua da quella dell’ autore di esse credea bene che non si assolvesse chi dichiaravasi reo del sangue della sorella, sparso prima di ogni condanna, e per cagioni per le quali vietano le leggi che uccidasi : non ammettea però che si avesse ad immolare come un omi> cida chi avea scelto di cimentarsi per la patria e tanta signoria le avea procacciato, mentre nou tenealo per colpevole il padre stesso a cui la natura e la legge danntT ' i primi diritti di risentimento per la figlia. Incerto come decidersi, tenne da ultimo per lo meglio rimetterne al popolo la sentenza. Il popolo Romano divenuto allora la prima volta giudice di un omicida si attenne alle de-^ siinazioni del padre, ed assolvette il suo liberatore dalla morte. Pure non istimava il re che' bastasse a chi volea mantenere la pietà verso i Numi tal giudizio venduto dagli uomini: ma chiamati i pontefici commise loro .che placassero i Geni! e gl’ Iddi!, e mondassero il giovine colle espiazioni le quali purificano da morti involontarie.. a 49 E quelli eressero due altari, l’uno a Giunone, Dea difenditrice delle sorelle, e 1’ altro ad uno Dio, chiamato  Genio da’ nazionali, col nome appunto de’cugini Curazj uccisi dal giovane. E facendo su questi de’ sagrifìzj, ed usando nondimeno altre espiazioni, da ultimo passarono 1’ Orazio sotto il giogo. Costumano i Romani, quando diventano gli arbitri di nemici che abbassano le armi, di piantare due aste diritte, acconciandone una terza supina su di esse ; e poi di passarvi sotto li prigionieri, e dimetterli alfine liberi verso le patrie loro. E questo è ciò che chiamasi giogo. Coloro che lustrarono J1 giovane si valsero di tal ultimo rito nel purificarlo. I Romani tutti stimano sacro il luogo della città dove fu praticata la cerimonia. Rimane questo nell’ angusta via che mena giù dalle Carene coloro che vengono all’angusta via Cipria. Ivi sorgono altari allora edificati, e su gli altari stendesi 1’ asta supina confitta ai due muri contrapposti: pende questa sul capo di quelli che ne escono, e chiamasi nel parlar de’ Romani asta o legno della sorella. Questo luogo onorato con annui sagrifizj ricorda in Roma ancora la sciagura del giovane: ma ricorda il valor suo tra la battaglia la colonna angolare che è principio del portico secondo nel Foro dalla quale pendevano già le spoglie de’trigemini Albani. Le armi vennero meno per gli anni ; ma la colonna serbane ancora la denominazione chiamandosi pilastro Orazio. Che anzi evvi in Roma una legge nata da tal fatto,  Genio Curazia: fu così detto perchè destinato a placare le ombre de' Coratj. Ed Orazio meritava appunto di essere espiato dal sangue della sorella e de’ cugini.  ed osservatavi pur nel mio tempo, a riverenza e gloria de’ giovani immortali, la quale ordina che nascendo dei tiigemini si dispensino per essi a pubbliche spese i vi veri Gno alla pubertà. Tal Gne ebbe la serie delle cose degli Oraz] iniessuta d’ inaspettate e meravigliose vicende. Indugiatosi il re de’ Romani per un anno onde apparecchiare quanto era d’uopo alla guerra; inGne deliberò di avanzar coll’ esercito contro Fidene. Preodea le cagioni di guerra da questo, che invitau i ciuadioi di essa a giustiGcarsi circa le insidie ordite su gli Albani e Romani non aveano ubbidito, anzi dando in un subito alle armi e chiudendo le porte e congregando le schiere ausiliarie de’ Yejenti, erai^si manifestamente ribellati. Aggiungevasi, che andati gli oratori per inten dervi le ragioni della rivolta, i Fidenati non altro risposero, se non che non aveano essi cosa alcuna comune co’ Romani Gn dalla morte di Romolo al quale si erano, giurando, congiunti di amicizia. Su tali cagioni armò le sye milizie, e fe’ richiedere le conJederate, delle quali Mezio F uffezio recava da Alba le più numerose in apparato bellissimo ; tantoché superava ogni altra forza amica. Tulio commendò Mezio, come detet^ minato a prendere seco lui la guerra ardentissimamente, in ogni miglior modo ; e Io rendè consapevole di tutti i disegni. Ma quest’ uomo incolpato già da’ suoi come rio capitano di guerra, anzi calunniato di tradimento ; questo dopo che si era tenuto per tre anni sotto 1’ autorità suprema di Tulio, alGne sdegnando un principato schiavo dell’ altrui principato, e di essere diretto. s5l pimtosto che dirigere; macchinò cosa non degna. Imperocché mandati messaggeri segreti a’ nemici de’ Romani, irresoluti anewa per la ribellione, gl’ infiammò ^, che non piò dubitassero ; promettendo che in mezzo della battaglia investirebbe egli stesso i Romani. E tali cose macchinando e facendo ; potè rimanersene occulto. Tulio apparecchiate le milizie sue e quelle de’ com-i pagni le portò su’ nemici, e valicato il fiume Aniene si pose non lungi da Fidene : ma scoprendo innanzi di questa io ordinanza un gran numero di Fidenati e loro compagni si tenne in calma tutto quel giorno: nel seguente convocando 1’ albano F nlfezio, ed altri de’ piò intimi amici ponderò con essi com’era da praticare la guerra ; e poiché parve loro che fosse da combattere spe> ditamente, senza indugiarvisi ; egli preaccennando i posti e r ordine che ognuno prenderebbe, e destinando per la zuffa il prossimo giorno, congedò l’ adunanza. Quindi FufFezio che ancora tenevasi occulto con molti degli amici sul tradimento che meditava, fatti a sé venire i più cmpicui tra’ suoi centurioni e tribuni disse: Tribuni, centurioni, io sono per comunicarvi grandi, inaspettate cose, che vi tacqui finora. Vi raccomando se non volete distruggermi che voi pure le taciate : anzi che miei cooperatori vi siate, se utili a compiersi vi parranno. Il tempo angusto non consente che io distesamente vi parli di ogni cosa; e ristringomi alle primarie. Io per tutto V intervallo che fummo subordinati a' Romani fino a questo giorno ; io m’ ebbi una vita piena di vergogna e di rammarico j eppure fui onorato dal monoica loro della maaSa  gisàratitra 'suprema, oggimaì da tre anni, è lo sarò' nemmeno per sempre se il voglio. Ma perciocché mi parca t estremo de vituperj che io' solo mi fossi felice' nella sciagura comune ; e vedeva intanto io bene che eravamo stati spogliati della sovranità contro tutti i diritti sacri dell’ uomo ; cosi mi diedi a considerare come potessimo ricuperarla, ma senza rischiarvi gran fatto. E discorrendola io meco moltissimo ti-ovai una via sola facile nè pericolosa che guiderebbe all’ intento, cioè che sorgesse loro una guerra da confinanti. Imperocché prevedeva io che i Romani avrebbono a chiamare le truppe ausiliarie, e le nostre massimamente, e prevedeva dopo ciò che non avrei gran bisogno di persuadervi che più. bello, e più giusto è combattere per la nostra libertà, che per istahilire' r impero de’ Romani. Spinto da tali pensieri produssi a’ Romani la guerra de’ sudditi loro Fidenati e Vejenti risolvendoli alle arme con esibire che io prenderei parte con essi. Fin qui si rimase occulta a’ Romani la pratica ; ed io provvidi intanto per me la occasione di assalirli. Ora considerate quanto sia questo opportuno. Primieramente, grande in una ribellione manifesta, sarebbe il pericolo o di avventurare ogni cosa mentre siamo sprovveduti per la fretta, e contiamo unicamente su ciò che potrebbero le nostre forze ; o di essere sorpresi da essi già pronti mentre ci apparecchiamo e ci procuriamo dagli altri un ajuto. Noi però così non manifestandoci non cor-reremo nè V uno nè V altro disastro,• e ne avremo raccolto almen questo bene. Secondariamente noi non.. a53ci daremo a percuotere la grande, la bellicosissima potenza e fortuna degli emuli con le violente maniere, ma si bene colle artijiziose e scaltre, con le quali si prendono finalmente le cose trascendenti, e meno facili a battersi colla forza ; nè già saremo a far questo i primi, o li soli. Inoltre siccome le nostre milizie mal potrebbero schierarsi in campo a fronte di quelle de’ Romani e degli alleati ; così abbiamo congiunto a noi le forze sì grandi, come vedete, dei Veìenti e de Fidenati. Anzi si è da me provveduto che le ardite schiere di questi ne diano con effetto il soccorso che ne ho cercato. Imperocché già non sarà J.a pugna nelle nostre campagne; ma battendosi i Fidenati per le proprie, difenderanno in esse an~ coro le nostre. E quello che riesce dolcissimo agli uomini, quello che di raro occorse ne’ tempi andati ; questo ancora per voi si combina : noi giovati dai nostri alleati sembreremo di avere ad essi giovato, E se r affare si termina a piacer nostro, come par verisimile; i Fejenti e li Fidenati che avranno liberato noi da un durissimo giogo, essi noi ringrazieranno quasi col favor nostro ottengano un pari benefizio. .Questi sono i successi che da me con gran diligenza procurati mi sembrano bastare ad ispirarvi confidenza, e viva prontezza ad insorgere. Ora udite in qual modo io voglia por mano alla impresa. Tulio mi ha destinato appiè del monte ; perchè io vi governi luna delle ale. Ma quando saremo per attaccarci co’ nemici ; io non attendendo allora tale destinazione ; mi ritirerò poco a poco sul monte. Voi seguitemi allora ordincUamente. Giunto alle cime ed in salvo, udite come io continuerò. Quando vedrò le cose che qui dico riuscirmi come io le disegno ; quando vedrò infiammati di corono i nemici perchè noi cooperiamo con essi, umiliati e spaventati come traditi i Romani ; e come è verisimile, già più. intenti a pensare la fuga che le difese; allora io starò su loro : ed io coprirò de’ loro cadaveri il campo ; perocché scendendo dcdC altura destra a basso, mi gitterò su di essi sbigottiti e dispersi con esercito pieno di beW ardore e di ordine. 'Rilevantissima è nelle guerre la fama sparsa di un tradimento anche falso degli alleati, o del giung.'re di altri nemici ; e sappiamo che grandi eserciti furono totalmente da tali vane apprensioni rovinati, più che da altri spaventosissimi casi. Il nostro adoperare però già non sarà fama vana, nè arcano spaurimento ; ma cosa più che tutte terribile a vedersi e provarsi. Ma ( dicansi pur le cose consuete a presentarsi contro la espettazione, giacché la vita ne involge molte, nè verisimili ) se gli eventi riusciranno contro i disegni ; anch’ io farò cose ben altre da quelle che in mente io ravvolgevami. Allora io piomberò co’ Romani su nemici ; co’ Romani raccoglierò la vittoria, simulando di aver prese le alture per cingere gt inimici. Ben avran fede i miei detti concordandosi le opere colle finzioni : tanto che noi non comunicheremo cogP infortuni di niuno, e solo parteciperemo lo belle vicende dell’ uno o delC altro. Io tali cose ho deliberato : e tali cose eseguirò col favorB degV Iddii come bonissime non solo per gli AU boni ma per tutti i Latini. Bisogna che voi guardiaie prima che tutto il silenzio : poi, che serbiate il buon ordine, che vi prestiate immantinente ai comandi, che guerrieri vi siate pieni di bell’ ardore, e che tali rendiate pur quelli che vi ubbidiscono ; considerando che il combattere nostro per la libertà non somiglia al combattervi degli altri, consueti ad essere comandati, e lasciati da loro padri in tale condizione. Noi liberi siamo naU dai liberi : anzi i nostri avi ci han tramandato il comando su vicini ; serbarono questa forma per cinquecento anni ; nè di questa si troveranno per noi spogliati li posteri. Nè tema chi vuole far questo, quasi rompa i trattati, e violi i giuramenti fatti sopra di essi: pensi piuttosto che egli i diritti ripristina rotti e violati da' Romani : nè già i tenui diritti ma quelli che la natura ci ha dato degli uomini, quelli che la legge ha fondato comune ai Greci ed ai Barbari, vuol dire che i padri comandino j i padri dian leggi ai figli, e le città madri alle colonie. Questi sacri diritti che mai saranno cancellati dalla natura degli uomini, questi noi volendo che siano perpetuati, nè frangiamo alleanza fàuna, nè genj nè Dii ci si potran corrucciate quasi non sante cose facciamo, se mal pià comportiamo servire cì nostri discendenti. Cnloro però che li hanno conculcato i primi, e che con opera indegna han tentato di far prevalere la umana alla le^e divina ; coloro, corn è giusto, e non già noi, s' avranno a fronte V ira de’ Numi, c su di essi non su noi soi't  gerà la vendetta degli uomini. Pertanto se queste vi sembrano le cose migliori / eseguiamole, e chiamia^ movi protettori gl’ Iddii. Ma se alcuno sente in contrario e sente o t una o t altra delle due cose ; vuol dire o che più, non debba ricuperarsi t antica dignità della patria ; o che debbasi aspettare un tempo pià acconcio del presente ^ e differire; costui' non esiti, a dire i suoi pareri; e quello sarà fatto che a tuui sembri il migliore. Alfìae lodato nel dir suo dagli astanti, e promettendosi questi a far tutto ; esso ne obbligò ciascuno col giuramento, e dimise radunanza. Nel prossimo giorno all’ uscire appunto del sole, uscirono da’ proprj alloggiamenti le milizie de’ Fidenati e degli alleati, e si schierarono per la battaglia: vennero nemmeno di fronte i Romani, e si ordinarono. Tulio stesso e i Romani si opponeano coll’ala sinistra ai Vejenti i quali formavano la destra nel corpo loro. Nell’ ala destra dei Romani si stava Mezio Fuffezio e gli Albani presso del monte incontra de’ Fidenati. Rendutisi ornai vicino gli uni degli altri, gli Albani prima di essere a tiro si staccarono dal resto dell’ esercito, ascendendo ordinatamentè sul monte: I Fidenati ciò vedendo e cerziorandosi della realtà del tradimento promesso dagli Albani si portarono più baldanzosi contro de’ Romani. L’ala destra de’ Romani, essendosene tolti gli alleati, erane ornai rotta e molto in pericolo. Combattea però bravissimamente 1’ ala sinistra e Tulio con essa in mezzo di scelti cavalieri. Quand’ ecco un cavaliere affrettandosi verso quelli i quali pugnavano presso del monarca, o Tulio, disse, la nastra ala destra è sul perdersi : gli jilbani, abbandonatala, ascendono il monte, ed i Fidenali che li teneano schierati dinanzi, ora preponderando a fronte ilelt ala tanto indebolita j già la circondano. I Romani ciò ndcmlu, e vedendo T accelerarsi degli Albani in sul monte; temerono di essere avviluppali da' nemici, taulu che non aveano cuore nè di combattere, nè di restare in quel luogo. Or qui, dicesi, che Tulio niente commosso all aspetto di un male si grave e tanto inaspettato facesse uso dell’ avvedutezza : e che salvasse con questa 1 esercito ornai nel pericolo manifesto di essere circondato; c disfacesse e terminasse tutto il bene degli inimici. ltn[>erocchè non si tosto il messaggero ebbe detto; egli a gran voce sicché i nemici, la udissero, o Bomani, esclamò, li nemici son vinti. Gli Albani sul mio comando hanno occupato come vedete il monte prossimo a noi per piombare alle spalle de' nimici. Mirale ! gli abbiamo pin e al nostro buon punto gli impiegabili awersaij. Noi siamo loro dirimpetto, e gli Albani alle spalle : pià non possono aveutzare, ISO retiocedei e. Dall' uno de' lati rinserrali il fiume, dall’ altro il monte : ci daran pure le pene meritate. Andate : avventatevi intrepidamente su loro. Cosi esclamando ne andava tra le milizie. E ben presto i Fidenati furono presi dalla paura che quel tra> dimenio, si rivolgesse fìnalmente su loro per frodolenza del capo degli Albani : perchè nè lo vedeano schierarsi contro i Romani, nè fulminarsi contro di essi come avea già promesso. Altronde avea quel parlare iniiammati di VIOSIGI, P>m l. ir ardire e riempiuti di confidenza i Romani. Adunque scop piando in un grido e ristrettisi lanciarousi all’ inimico. Piegarono allora, e fuggirono i Fidenati in disordine alla loro città. Il re de’ Romani rilasciando la cavalleria su questi atterriti e turbati li perseguitò qualche tempo; ma vedutili poi sbandati, senza animo di raccogliersi e senza forza, permise che fuggissero ; e si rivolse contro r altra parte de’ nemici ancora ordinata. Ivi era battaglia viva tra’fanti; e più viva ancora tra’ cavalieri. Imperocché li Yejenti quivi schierati non che sbigottirsi e dar volta, resistevano all’ impeto de’ cavalli romani. Alfine vedendo che l’ ala loro sinistra era battuta, e chel’esercito de’Fidenati e degli alleati fuggiva tutto precipitosamente, anch’cssi per timore di non essere colti in mezzo da’ nemici che tornavano da inseguire gli altri, diedero volta, e si scomposero e tentarono di salvarsi a traverso del fiume. I più robusti, e men carichi di ferite, nè impotenti a nuotare passarono senza le armi il fiume e scamparono: ma quanti non aveano l’uno o l’altro di que’ requisiti, affondavano tra’ vortici ; essendo il Tevere presso Fidene rapido e tortuoso. Tulio intanto impose a parte de’ cavalieri di uccidere i nemici che. accorrevano al fiume, ed egli conducendo il resto delr esercito assali gli accampamenti de’ Vejenti e gl’ invase. E tali sono le operazioni che diedero, a’ Romani salute inaspettata. Quando il re d’Alba vide manifestamente vittoriose le milizie di Tulio ; egli per dare a vedere che faceala da alleato, calando dal monte le sue, le menò contro de’Fideuuti che fuggivano ; e molli in tale stalo. ... a!xg ne uccise. Tulio vedendo il suo fare, ed esecrando la nuova sua tradigione, dissimulò di presente, finché lo avesse nelle mani : ansi diè vista di lodare tra molli come l>onissima l’ andata di lui su pel monte : e spcuna banda di cavalieri lo richiese che desse ultimi contrassegni di zelo, incaricandolo, che cercasse con diligenza, e trucidasse que’ Fidenati che non potendo ripararsi tra le mura, vagavano dispersi intorno • in tanto numero per la campagna. Colui quasi avesse, già conseguila Tana delle due cose che sperava, e quasi, fosse accetto veramente a T ullo, ne fu dilettato ; e cavalcando gran tempo per que’ campi fe’ strazio, de’ prò-, fughi i quali sopraggiungeva. E già tramontato il sole, condusse i suoi squadroni da tale persecuzione al campo Romano, c vi festeggiò con gli altri la notte. Tulio di-, inoratosi nell’ accam|)amento de’ Vejenti fino alla prima vigilia vi esplorava da’ prigionieri più riguarderoli quali fossero mai stati li capi della rivolta. Come poi seppe che ci avea tra congiurati anche 1’ Albano Mezio Fuffezio, gli parve che i fatti di lui concordassero colle indicazioni de’ prigionieri. Adunque montato in sella si ri-, condusse cavalcando in città fra lo stuolo dc’suoi più fidi. E prima della mezza notte convocando dalle case loro i Senatori ; disse del tradimento degli Albani, dandone |)er teàlimonj li prigionieri ; e narrò gli artcGzj co’ quali egli avea deluso i nemici e li Fideuali. E poiché la guerra avea fine bonissimo ; invitò loro a discutere come si avessero a punire i traditori, perchè Alba si rendesse |>iù savia per 1’ avvciiire. Parve a tulli giusto anzi necessario che si ['Unissero quanti si erano messi ad ojteia tanto cellerata. Si ondeggiò però molto intorno la ma-' oiera facile e sicura della esecuzione. Sembrava loro im> possibile che tanti cospicui Albani si potessero involare con morte tenebrosa e nascosta. Che se tentassero arrestarli e punirli palesemente, torneasi che quel popolo, piuttosto che ciò non curare, volasse alle armi. Non voleano poi combattere in nn tempo co’ Fidenati/ coi Tirreni, e con gli Albani loro consocj.Ora non espedendosi essi ; diè Tulio in6ne uu suo parere cui tutti encomiarono. Io ne dirò dopo un poco. Siccome non era Fidene distante da Roma se non cinque miglia ; ' cosi egli eccitando con tutto r ardore il cavallo si restituì negli alloggiamenti : e prima che il giorno brillasse’ laminoso, chiamando Marco Orazio il superstite de’ trigemini, e dandogli li fanti e li cavalieri piò scelti, ordinò che marciasse con questi ad Alba, che vi s’ introducesse in sembianza di amico ; che, quando ne avesse in sua balia gli abitatori rovinasse da’ fondamenti la città, non risparmiando edifizio alcuno privato o pubblico, se non i tempj: non vi uccidesse però nè vi oltraggiasse uomo ninno, ma consentisse che ognuno s’avesse le sue cose. Spedito questo egli aduna tribuni e centurioni, palesa ad essi il decreto del senato, e forma di loro la guardia del corpo suo. Si presentò dopo non molto 1’ Albano in gaudio per la vittoria co mune, e per congratularsene con Tulio t e Tulio serbando tuttavia li segreti suoi, Io encomiava, confessavalo degno di gran doni, ed invitavalo a scrivere i nomi de’ valentuomini che si erano più distinti nel combattere e portarglieli perchè tutti partecipassero ai beni della villoria. Inondatone costui dal jnacere diè su di una tavoletu in iscritto i nomi de’ suoi più fedeli, de’ quali si era valuto ne’ disegni reconditi. Allora il re di Roma invita a radunarsi lutti, senza le arme, e radunatisi ; fece che il duce degli Albani, come li centurioni e tribuni si collocassero presso di lui, e che gli altri Albani ordinatamente si compartissero ; ponendo dopo loro il resto degli alleati e dietro tuui infine circolai-mente i Romani, tra’ quali ce ne avea de’ magnanimi, co’ brandi sotto degli abiti Quando poi gli sembrò di avere a suo bell’ agio i nemici ; sorgendo cosi ragionò : Romani, amici, compagni di arme, finalmente abbiamo col favore degl' Iddìi portala la vendetta su Fidene e su quanti partigiani di lei, furono arditi investirci con guerra manifesta. Seguirà da questo t una delle due, vale a dire che quanti ci molestavano si cheteranno ; o ne daranno pene tanto più spaventose. Ora venule già le prime nostre imprese a buon termine, é tempo iche puniamo quei guerrieri che avendosi il nome di amici nostri, ed assunti a questa guerra da noi perchè facessero contro (i nemici comuni, abbandonarono la loro fedeltà verso noi, si strinsero con patti segreti a nemici, e macchinarono la universale nostra rovina. Ben sono essi peggiori de' nemici manifesti, e perciò degni di pena più grande. Imperocché facile cosa è deludere le insidiose lor trame, e ribattere si possono se ci assaliscono come nemici : ma né riesce di leggeri cautelai si da amici che la fan da nemici, né si possono risospingere se ci prevengano. Ora tali sono i guerrieri che Alba ci manda\>n : ingannevoli alleali ! eppure non danneggiati, ma beneficati grandemente, e in tante cose da noi. Noi, ramo già della lor gente, non toglievamo punto della lor signoria, ma 'la nostra forza, la nostra potenza fondavamo qol domare i nostri nemici. Premunendo di mura la nostra patria contro genti amplissime e bellicosissime abbiamo prodotto ad essi un alta sicurezza in fra le guerre de’ Tirreni e de’ Sabini : tantoché serbandosi la nostra città prosperamente, dovean essi rallegrarsene principalmente ; e decadendo questa non dovean meno rattristarsene che per la propria città. Essi però si ostinarono ad invidiare non solamente il nostro ben • esseio, ma il proprio ancora nel nostro : e da ultimo non potendosi più Iodio nascondere, ci hanno premeditato la guerra. Ma perciocché vedeano noi benissimo acconci a ripeivoterli, non essendo essi valevoli contro di noi, c invitarono a trattati ed amicizia, e richiesero che la lite sul principato si decidesse con la tenzone di tre combattenti. Acoetlammo t invito e vincemmo ; e ci fu la loro città sottomessa. Or, dite : che abbiamo noi fatto dopo questo ? Potendo noi ricevere gli ostaggi da Alba, polendo mettervi guarnigiotìe, e qual’ uccidervi, qual cacciarne de’ principali a por dissidio tra t uno e t altro popolo; potendo cambiarvi in favor nostro la forma del governo, smembrarne il territorio, prescrivervi de’ tributi, e torlo infine le arme ciocché era facilissimo, ed avrebbe tanto più noi convalidato ; polendo noi tutte queste cose ; non abbiamo pur voluto farvene in. 263 nemmeno una, mossi anzi dalla pietà versò loro, che dalla sicurezza del nostro principato. E preferendo cioccK era il decoio all’ utile abbiamo conceduto che si godesse ogni suo bene. Permettevamo che Mezio Fujfezio, che essi avevano elevato à primi gradi come il più degno, vi amministrasse ancora la repubblica. Ed essi ( ascoltate qual .contraccambio ce ne renderono quando più bisognavamo dell’ amicizia, e delle armi loro ) ! si convennero in segreto col nemico comune di assalirci insieme tra la battàglia ; e quando t inimico e noi eravamo già già sul combattere ; essi lasciando il posto della ordinanza, corsero a’ monti vicini onde preoccuparne le alture più forti. E se la cosa andava loro a seconda, niente avrebbe impedito che noi tutti perissimo 'circondati dagli amici e dai nemici ; e che tulli i combattimenti da noi sostenuti per la signoria della nostra città, tutti in un giorno, svanissero. Ma poiché tal disegno riuscì vano primieramente per disposizione benefica degV Iddìi da quali ripeto quanto io fo mai di buono e di bello, e poi per t avvedimento mio che non poco valse a scoraggir t inimico ed accendere i nostri, essendo stato mio stratagemma il dire che gli Albani ^ ordine' mio preoccupavano il monte per cingere t inimico ; poiché t affare si terminò coll utile nostro ; noi non sarenpmo, quali essere ci conviene, se non punissimo i traditori ; quelli io dico i quali, doveano se non per altro, almeno pe' ligami di parentado serbare gli accordi ed i giuramenti, fattici di recente, e li quali non temendo gl Jddii che fecero testimonj de’ loro trattati, non riverendo la giustizia stessa, non la riprovazione degli uomini, non calcolando la grandezza del pericolo se il tradimento sconciavasi, tentarono in miseranda maniera di perdere noi progenie, noi benefattori loro, essi nostri fondatori, e congiurali con gt implacabili nostri nemici. Dicendo lui queste cose prorompeano gli Albani in gemiti, e preghiere d’ogni modo. ÀHermavail popolo non aver lui saputo niente dei disegni di Mezio : simulavano' i capitani non aver conosciuta la mao chinazione, se non che nel darsi della battaglia, quando più non era in poter loro d’ impedire, o non fare i comandi. Riferivano altri il lor fatto alla insuperabile necessità di congiunzione e di parentado ; quando il re, fatto silenzio disse: niente,. Albani, niente ignoro, di quanto allegate per iscusannivi. E penso che il più di voi noi sapesse quel tradimento, perchè dove molti sono i consapevoli, non si tacciono, neppur brevissimo tempo le cose : penso che de’ tribuni e de’ centurioni la parte minore fosse la complice ; ma che la più grande non era che aggirata, e ridotta a passi non volontari. Che se niente di ciò fosse vero ; se voi tutti Albani, quanti qui siete, e quanti si rimasero in Alba, vi aveste in cuore di danneggiarci, nè già da ora, ma da tempo antichissimo ; pur s avrebbe il liomano nella sua parentela una ben forte cagione a pazientarne le ingiurie. Perchè però non più vi aduniate a consulte ingiuriose contro noi, non più violentati, non più sedotti vi troviate da’ capi della vostra città ; ito abbiamo pure sebbene unico, questo rimedio : vale a dire che divenendo tutti cittadini di una città riguardiamo questa sola per patria, e partecipiamo ciascuno ai beni e mali di tei, coma essa ne incorre. Finché saranno come ora discordi i pareri, finché disputeremo su la preminenza; non sorgerà mai stabile pace fra noi ; principalmente se gli uni i primi siano per insidiare gli altri con vista di dominare vincendo, o di essere come parenti impuniti se perdono. Imperocché quelli die sono assalili tenteranno riscuotersi coll estremo de' mali, nè fuggiranno modo alcuno onde nuocere gli tdtri quali nemici, come ora addivenne. Pertanto sappiate: avendo io nella scorsa notte adunalo il SeruUo, i Romani per bocca sua emanavano, ed io firmava il decreto che la vostra città fosse disfalla, nè si permettesse che vi restasse in piedi edifizio niuno privato nè pubblico alf infuori de' templi : che quelli che vi abitano ritenendo ogni bene, non ispogUali di schiavi, non di bestiami, non di oro pongano da ora innanzi la sede in Roma: che gli Albani poi, che non hanno campo alcuno se lo abbiano, purché non sia de' poderi sacri co’ quali si procacciano i sagrifizj : che io provveda i luoghi della città dove le abitazioni si fondino degli emigrati, e supplisca a chiunque di voi più ne ahbisogna, i mezzi onde tompierle : che tutta la vostra moltitudine prenda la forma del nostro po.polo ; comportasi in, curie e tribù; abbia parte nel Senato e nelle magistrature più insigni, e si ascrivano alle famiglie patrizie le famiglie de'Giulj, de' Servi Ij, de Geranj, de Metelj, de’ Corazj, de’ Quintìlj , e de’ Cluvilj ; che finalmente Alezio e quanti deliberarono con esso il tradimento, se ne abbiano le pene, e noi le stabiliremo queste, giudici sedendo di ogni causa ; mentre a ninno dee negarsi giustizia e difesa. XXXI. Intanto che Tulio cosi diceva i poveri tra gli Albani gradendo di essere fatti abitatori di Roma, e di parteciparne le campagne, lo acclamavano a gran voce. All’ opposito i più cospicui per grado o più agiati per sorte si affliggeano che avessero ad abbandonare la propria città, e le case paterne, e vivere per 1’ avvenire in terra altrui; nè più sapean che dire in tanto orribile necessità. Poiché Tulio ebbe investigato i pareri della moltitudine, impose a Mezio, che allegasse, volendo, le sue giustiBcazioni r e costui non sapendo che replicare alle accuse ed alle testimonianze t disse che il Senato di Alba avealo segretamente incaricato di far ciò quando usci per guerreggiare; e pregava gli Albani ai quali avea tentato di racquistare il comando, che lo soccorressero, nè guardassero con indifferenza la patria che rovinava, e tanti cittadini degnissimi che erano strascinati al supplizio. E già nasceane tumulto nella moltitudine, e volavano alcuni ad afferrare le armi ; quando i Romani che circondavano l’adunanza sguainarouo, datone il segno, le spade : ed essendone tutti aiierriti ; sorse Tulio un'altra volta e disse: Albani, non qui vi è dato d' insorgere, nè di trawiarvi: giac‘  Lrsino, e Patino de Famil. Romanor. leggono Quinzf.  ’ ^6'J cJtè tulli, se ariìiste commovervi, sareste trucidali da questi : ( E cosi dicendo additava le spade de’ suoi ). Prendete ciocché vi si dona, diventale fin da oggi Romani. È per voi necessità, domicitiaivi in Roma, o non avere più patria sulla terra. Marco Orazio andò sulC ordine mio fin dalC aurora per abbattere la vostra città dai fondamenti, e condurne in Roma gli abitanti. Ora sapendo che ornai questo è fatto, non vogliate correre alla morte; ubbidite. Metio Fuffezio, quesf occulto nostro insidiatore, che nemmen ora teme d’ invitare alle armi i turbolenti e li sediziosi'; questo ne darà le pene, degne del perfido cuore e scellerato. Sbigottì ciò udeudo la parie irritata degli adunali, come vinta da insuperabile necessità. Fremea Fufiezio per l’ opposi to, e vociferava, ma solo, e reclamava r alleanza, egli che era accusato di averla tradita, nè perdea la baldanza, anche in mezzo de’ mali ; quando i littoii per comando di Tulio afferrandolo gli squarciano in dosso le vesti e lo caricano di battiture. Poi quando parve che ornai quel supplizio bastasse ^ avvicinando due carri, legarono con lunghe redini le braccia di lui nell’ uno di questi, e li piedi nell’ altro. Allora spingendo gli aurighi quinci e quindi i due carri ; egli strascinato e tirato in parti contrarie, fu subitamente ridotto in brani. Tale fu il termine miserando e vergognoso di Mezio. Infine io stesso re mise un tribunale per gli amici e complici di lui nel tradimendo ; punendoli, come li scopriva rei, colla morte >, a norma delle leggi su’ disertori e su’ traditori. Intanto che si laccano tali cose, Marco Orazio spedilo innanzi con scelta milizia a distruggere Alba compiè’ ben tosto la marcia, e se ne impadroni ; trovandovi le porte non chiuse, nè difese le mura. Poi convocando la moltitudine le palesò quanto era accaduto nella battaglia, e quanto il Senato di Roma ne decretava. Contrariavano quelli, e dimandavano tempo almeno per ispedire degli ambasciadori. Ma costui senza indugio spianò case, muri ; e tutti in somma i privati e pubblici ediGzj ; scortandone con assai diligenza a Roma gli abitatori, che menavano e portavano ogni loro bene con sé. Tulio ritornato dal campo gli comparti ira le curie e tribù romane, li coadjuvò per fabbricare ne’ luoghi, che sceglievano in Roma, le case : dispensò porzione sufGciente de’ terreni del pubblico fra i loro meroenarj, e sen cattivò con altre amorevolezze la moltitudine. Ma la città di Alba già fondata da Ascanio nato da Enea figlio di Anchise, e da Creusa figlia di Priamo, quella che per quattrocento ottanlasette anni dalla sua fondazione era tanto cresciuta di popolo, di ricchezze, di ogni ben essere, quella che aveva propagato trenta colonie in trenta città del Lazio e che era sempre stata la capitale della nazione, quella alfine vittima ^i) dell’ ultima delle sue colonie giace squallida ancora e desolata. Prese requie nell’ inverno il re Tulio ; ma nel sorgere della primavera cavò nuovamente l’ esercito contro Fidene. Non era venuto a’ Fidenati, nè lo pretendeano, pubblico soccorso ninno dalle città confederate : solamente da più luoghi erano venuti de’ mer Anni di Roma 88 secoodo Catone; 90 secondo Varane, e G 6 f aTanli Cristo] cenar} ; e contando su questi osarono un’ altra volta esporsi in campo. Schierativisi, uccisero molti de’ nemici; ma poi furono rispinti di nuovo tra le mura. Come però Tulio cingendo la città di argini e fosse la ridusse alle ultime angustie ; vinti dalla necessità, si renderono a discrezione. Divenuto costui padrone della città vi uccise nemmeno gli autori della ribellione. Lasciò gli altri a sé stessi ; concedendo ebe godessero i lor beni : e restituendo ad essi la forma che aveano di reggenza, congedò 1’ armata. Restituitosi a Roma onorò gl’ Iddii con la pompa trionfale e co’ sagrilìzj promessi, e fu questa la seconda volta che trionfò. Si eccitò dopo questa a’ Romani la guerra de’ Sabini ; e tale ne fu la cagione. Onorasi da’ Latini e Sabini in comune il tempio, sacrosanto più che ogni altro, della Dea nominata Feronia, che taluni con greca interpetrazione chiamano la portatrice de’ fiori ^ 0 r amica dei serti, o Proserpina. Essendosene annunziate le feste, erano dalle eittà d’ intorno venuti molti per supplicare, e sagrificare alla Dea, e molti, mercadanti, artefici, agricoltori per guadagnare nel concorso ; ivi tenendosi fiera famosissima più che in altri luoghi d’ Italia. Recavansi per avventura a questa luogo alquanti non ignobili tra’ Romani, quando alcuni Sabini concertatisi, li circondarono e derubarono. E 1 quantunque si spedissero de’ messaggeri, non voleano su questo i Sabini rendere la giustizia : ma riteneansi 1 danari e le persone degli arrestali ; imperocché dolevansi anch’ essi de’ Romani che avessero dato ricetto ai fuggitivi de’ Sabini, costituendo il sacro asilo, come si dicliiarò nel primo libro. InSammanciosi da tali queri> monie alla guerra uscirono con moltissime schiere in campo aperto. Fecesi ordinata battaglia, e pari splendeavi il coraggio de’ combattenti ; tanto che separatine dalla notte lasciarono la vittoria indecisa. Ke’ giórni ap]>res$o considerando ambedue la mohitudiue degli estinti c de' feriti, ricusarono ogni altro cimento ; ed abbandonando gli accampamenti, si ritirarono. Ma tenutisi iu cylma per quell’ anno uscirousi di nuovo a fronte con. forze più formidabili. Si appiccò la zuffa presso di Erelo lontana centoquaranta sladj da Roma, c molti vi soccombeano da ambe le parli. E pendendo questa zuffa ancora lungo tempo sospesa, Tulio elevò le mani al cielo, votandosi che se vinceva in quel giorno i Sabini istituirebbe delle feste a Saturno ed a Rea con pubblica s])esa. Celebrano ogni anno i Romani tali feste dopo che barino riportato tutti i frutti della terra. Egli facea voto insieme che raddoppierebbe il numero de’ Salj. Derivano questi da nobile prosapia,, e ne’ debiti tempi si cingono di arme, e saltano accordando al suono delle tibie i salti, e cantando patrie canzoni, come ho spiegalo nel bbro primo. A quel volo si mise tanto ar dorè ne’ Romani che questi pressando, come freschi soldati, gli stanchi, ne ruppero le schiere in sul mancare del giorno, e ridussero gli stessi capitani a dar principio alla fuga. E seguendo essi li fuggitivi ai propri irincieramcnli, ne raggiunsero la maggior parte vicino alle fosse. Tuttavia nemmeno dopo ciò retrocederono : ma rimanendosi ivi nella notte imminente, e respingendo i uciuici che pugnavano da entro il vallo,. 271 invasero alRne gli accampamenti. Trasportaronsi dopo ciò quanta preda voleano dalle campagne sabine : e siccome niuno più presenlavasi a combatterli, si ricon> dussero in casa. Fece il re per questa battaglia il terzo trionfo. Quindi per le molle ambascerie de’ nemici depose le armi, avendone da essi li suoi disertori, e li soldati suoi caduti prigionieri ne’ pascoli; ed esigendone la multa decretata contro loro dal Senato di Roma il quale avea calcolato in argento r danni ricevuti da’ nemici negli armenti, nelle bestie da giogo, e nelle altre cose tolte ai coltivatori dei cttmpi di lei. Fransi cosi scioiii dalla guerra i Sabini : e scrittine su colonnette i trattali, gli aveauo collocati nei tempj. Ma suscitatasi per le cagioni che tra poco diremo, la guerra di Roma con le città latine, congiurate fra loro, guerra che non parea da essere ultimata nè con prestezza nè con facilità ; li Sabini afferrarono di Lenissima voglia tale occasione, e dimenticarono quasi non fatti, i giuramenti e i trattati. E reputando esser questo il buon punto da rivendicare anche il multiplo del danaro sborsato a’ Romani ; uscirono su le prime, in pochi, ed occulti a predarne le campagne vicine. E succedendo in principio il disegno secondo il desiderio, perchè non accorreva milizia ninna in difesa de’ coltivatori ; si adunarono in gran numero e palesemente : e spregiato l’ inimico macchinarono di recarsi fino su Roma. Adunque congregarono le soldatesche da ogni loro città, brigando di congiungersi co’Laiini. Ma non venne lor fallo di ottenere nè amicizia uè lega ninna con quella gente. Imperocché Tulio veduti i loro peusieri, fe tregua colle città latine, e deliberò di volgere le annate contro di essi. Egli aveva in arme il doppio di allora, quando mosse alla presa di Alba, ed aveà rac colto il più che potea di sussidj dagli alleati. Già 1’ esorcito de’ Sabini crasi concentrato. Quindi avvicinatisientrambi alla selva della dei malfaUori  si accam-t parono a picciola distanza fra loro. Nei giorno appresso investendosi, combatterono, ma con dubbia sorte gran tempo ; finché violentati al far della sera i Saliini dalla ’ cavalleria romana piegarono ; e molta ne fu nella ' fuga ' la uccisione; spogliarono i vincitori i cadaveri de’ iie-> mici ; invasero quanto ci avea di danaro negli alloggiamenti ; e conducendosi dalle campagne il fiore delie prede, tornaronsi a casa. Tal fine ebbe pe' Romani la guerra Sabina nel regno di Tulio. Erano le città Latine divenute allora per la prima volta discordi da Roma, perchè essendo distnitta Alba, ricusavano fidare il comando di sé stesse ai Romani che ne erano i distruttori. Tulio, volgendo l’anno quindicesimo dalla caduta di Alba avea spedito ambaseladori alle città filiali, o suddite di questa le quali eran trenta, per chiedere che ubbidissero ai Romani, padroni di ogni cosa degli Albani, e con ciò dell’ imperio ancora su’ Latini. DIcea che due sono i titoli pe’ quali gli uomini diventano gli arbitri di altrui : la libera dedizione e la necessaria : e che i Romani se gli aveano ' tutti due per dominare le città già ligie degli Albani : [tercliè i primi avevano vinto i secondi dichiaratisi loro  Livio la chiama tj-lva malUiom.. 2; 3 nemici, e fra le arme, ed aveano poscia accomunato Roma ad essi che aveano perduto la patria. Ora da ciò seguitava che gli Albani o vinti o volontarj cedeano ai Romani l’imperio de’sndditi loro. Non risposero le città Latine una per una agli oratori : ma congregatesi pei deputati a Ferentino decisero co’ voti loro d^ non sottomettersi a’ Romani ; e crearono immantinente due capitani arbitri della guerra e della pace, 1’ uno Anco Publicio della città di Cori, e 1’ altro Spurio Vecilio di Lavinia. Si fece per queste cagioni guerra tra Romani e tra’ popoli di una gente medesima : continuò cinque anni ma quasi civilmente secondo 1’ antica temperanza. Imperocché venendo le intere milizie degli uni a battaglia ordinata con le intere milizie degli altri, mai non si fece gran danno, nè piena occisione ; nè mai ninna loro città vinta in guerra, soggiacque alla distruzione, alla schiavitù, o ad altre insanabili disavventure. Ma gettandoti gli uni ne’ territori degli altri ne’ tempi della raccolta pascolavano e predavano e ritiravansi in casa, e cambiavansi lì prigionieri. Tulio solamente cinse di assedio Medullia città latina, divenuta come fu detto nel libro antecedente fin da’ tempi di Romolo colonia dei Romani, ed ora congiuratasi co’ suoi nazionali, e con ciò la ridusse a non più tentare innovamenti. Non oocorse a ninna delle due parti alcun altro de’ mali consueti nella guerra perché le guerre de’ Romani di quei giorni eran subite, e per la subitezza non iochiudevano tanto rancore. Cosi adoperava nel suo principato Tulio Osiiiio, r uuo de’ pochi uomini degni di lode per l’ar> dire felice tra le arme, e per la saviezza ne’ pericoli ; c più che per tali due cause, per ciò che egli non era precipitoso a far gueire, ma postovi si, non mirava che a silperare in tutto i nemici. Dopo uu regno di trenta due anni mori per l’ incendio della sua casa, e con lui pur morirono nel fuoco medesimo la moglie, i figli, i domestici. Vi è chi dice che la casa di lui fu messa in fiamme dai fulmine ; essendoglisi irritato il Nume per alcuna sua non curanza di sante cose, perchè si erano sotto lui tralasciati dei sagrifizj della patria, introducendovisi in parte gli altrui. Ma i più raccontano che fu quel disastro per insidia degli uomini ; ascrivendolo a Marzio, re, successore di lui : perocché Marzio sde guavasi, dicono, che egli nato di regio lignaggio dalia figlia di Numa Pompilio vivesse tra’ privati : e vedendo già grande la prole di Tulio, altamente ne sospettas’a, che' se costui periva, passasse il regno a’ figli di lui. Fra tali concetti insidiava da gran tempo la regia vita. £d essendogli molti Romani, fautori per dargli lo scettro, e Tulio essendogli amico, ed era creduto fidissimo; spiava la occasione di sorprenderlo. Era Tulio per fare in sua casa un sagrilizio al quale non volea presenti che i suoi più congiunti; ma divenuto per avventura quei giorno ferale per tenebre, per pioggia, per nembi, le guardie aveano lasciato deserti gii atrj della reggia. Parendo questo il buon punto s’introdusse Marzio e i compagni co’ brandi sotto degli abiti : uccisero il monarca, i figli e quanti vi erano : vi appiccarono il fuoco in più bande e poi divulgarono la novella del fuoco. Ma io non ricevo la novella, perocché, nè vera la credo, nè verìsimile : e piuttosto m’ appìglio 'alla prima opinione, e penso che quest’ uomo per ira degli Iddìi corresse tal sorte. Imperocché non è facile che la congiura, operandola molti, si resusse occulta : nè il capo di essa era sicuro che egli sarebbe proclamato monarca da’ Romani dopo la morte di Tulio Ostilio: e quando fosse tutto stato sicuro per lui dal canto degli omini, non potessi confidare che somiglierebbero i divini agli umani pensieri. Bisognava dopo il voto delle tribù che propizj gli augurj comprovassero il regno per lui. Qual genio o qual Nume avrebbe mai sopportato ebe un uomo cosi lordo di delitti e di sangue si acco> stasse agli altari suoi per compiervi de’sagrifizj, o altre pie cerimonie ? Per tali cagioni io riferisco quell’ evento agl’ Iddìi, non alle trame degli uomini. Tuttavia ne giudichi ognuno come più vuole. Dopo la morte di Tulio Ostilio fu creato secondo i patrj costumi l’ interré dal Senato ; e l’ interré dichiarò sovrano della città Marzio, che Anco denominavasi. E Marzio, dopo confermati i decreti del Senato dal popolo, dopo renduti agli Iddii quanto a loro si conveniva, e compiuta a norma delle leggi ogni cosa, assunse il comando nell’ anno secondo della ohm\ piade 35. nella quale vinse Sfero spartano, nel tempo che Damasìa esercitava in Atene l’annuo magistrato. Ora osservando questo re la trascuraggìne delle pratiche religiose istituite da Noma, avolo suo materno, esserti ) Catone Varroae Ruma] vando die il più de’ Romani erano divenuti guèrrieri è dediti a vili guadagni, nè più si volgeano come prima ai lavori della terra; chiamati tutti a parlaménto, esortò che ripigliassero il culto degl’ Iddii come a’ tempi di Numa ; dimostrando che per tali negligenze delle sante cose erano venuti in città morbi e pestilenze ed alu'i Hagelli che ne aveano desolata parte non picciola : e che lo stesso re Tulio perchè non vegliavane quanto doveva alla custodia, travagliato per molti anni da tutti i generi de’ mali, nè più essendo padrone della stia mente, ma decadutagli questa come il corpo, incone in catastrofi miserande egli nemmeno che la sua stirpe." E lodando a’ Romani la pubblica forma indotta da Numa come egregia e savia, e generatrice di abbondanza quotidiana per giustissime cause ; raccomandò che la ravvivassero e volgessero l’ opera loro, a coltivare le terre, ad allevare i bestiami, e ad altri lavori, liberi dalle ingiustizie della violenza e della rapina, e spregiassero in fine le utilità che nascono dalla guerra. Con questi e simili detti risvegliava iu tutti il dolce trasporto per la calma, aliena dalle armi, e per la industria sapiente. Convocando poi li pontefici, e prendendone le leggi delineate da Numa intorno le cose divine, le scrisse ed esposele in su tavolette nel Foro a chiunque volesse vederle. Ora quelle tavolette vennero meno: perocché non usavano ancora le colonne di metallo ; ma scriveansi in tavole di querce le leggi del fero e de’ templi. Dopo la cacciala dei re furono Hprodolte in pubblico dal pontefice Cajo Papirio, il quale avea la cura suprema delle cose divine. Rendendo il suo splendore ai ministeri negletti de’ sacerdoti, e rendendo ai lavori suoi la turba oziosa ; encomiò gli utili agricoltori, e ne biasimò gl’improvidi, come cittadini non veri. Lusingavasi al favore di tali istituzioni di vivere sempre libero da guerre e disastri come 1’ avo materno : tuttavia non ebbe pari ai desiderj la sorte ; ma in onta del cuor suo fu necessitato alle arme, e ravvolto in tutta la vita fra turbolenze e pericoli. Im> perocché nel primo ascendere al comando appena diede calma allo stato, i Latini ve Io dispregiarono : e pensandolo per codardia non idoneo alla guetra; tutti mandarono entro i confini di lui bande di rubatori, che ' assai danneggiarono molti Romani. E spedendo il sovrano degli arobasciadori a chiedere compensagioni pei Romani secondo i trattati, finsero ignorare in lutto quei latrocini, non die fossero con pubblica autorità concertati. Diceano pertanto non dovere di cosa alcuna risponderne a’Romani; tanto più che i trattati erano con Tulio e non co’ presenti; e Tulio mancato, erano periti con esso gli accordi. Necessitato da tali pretesti e cavillazioni de’ Latini Marzio portò conti'O loro l’ esercito. Postosi all’ assedio della città di Politorio, la prese a condizioni prima che i soccorsi le giugnessero de’ Latini. Non infierì già cogli abitanti, ma portossegli tutti a Roma co’ beni che avean seco, aggregandogli alle tribù. Ma siccome i Latini mandarono nell’ anno seguente nuovi abitanti a Politorio, e ne coltivavano i campi, così Marzio pigliando I’ eserdto lo ricondusse contro di loro. Uscirono dalle mura i Latini e combatterono; ma egli li vinse, e prese la città per la seconda volta. E peixìhè più non fosse un richiamo de’ nemici. nè più lavorassero i campi di lei, ne abbattè le mura, ne incendiò gli edi6zj, e parli. Recaronsi nell’anno appresso i Latini a Mednllia ov’ erano de’ coloni romani, e dandole d’ ogn’iniomo l’assalto la espugnarono. Maiv 'zio andato di quel tempo contro la città di Tillene e divenuto vincitore in campo, c poi su le mura, la sottomise. Non tolse a’ prigionieri nulla di quanto aveano: ma li trasse in Roma ove. diè loro de’ luoghi perchè vi edi6cassero le abitazioni. Soggiacque Medullia per tre anni ai Latini, ma nel quarto la riconquistò con molle e grandi battaglie. Espugnò dopo non molto Fidene, città presa tre anni addietro per condizioni ; e ne 4rasferl tutto il popolo a Roma ; e non danneggiando la città più oltre, parve che si diportasse anzi con man sneludine che con' prudenza. Imperocché li Latini vi supplirono nuovi abitanti; e sen tennero e sen goderono il tet^ritorio ; tanto che fu Marzio costretto di accorrervi per la seconda volta; e divenutone per la seconda volta padrone a grande fatica ; ne abbandonò le case alle fiamme, e ne devastò le mura. XL. Occorsero dopo ciò due battaglie tra’ Latini e Romani. Durò la prima lungo tempo : e gli uni sembrandovi eguali agli altri, si distaccarono, e ritiraronsi a’ proprj alloggiamenti. Nella seconda i Romani vinsero i Latini e gl’ incalzarono fino alle trinciere. Dopo ciò più non vi ebbe fra loro battaglia ordinata : ma continue furono le scorrerie degli uni su le terre vicine degli  Vi i ehi legga Ficolara per Fidrue. E verameaie più sotto si parla della ribtIlioBe di Fideue.. 279 altri ; > econtinua le scaramucce tra cavalieri e fanti che volteggiavano; ma per lo più colla meglio de’ Romani i quali teneano in campo aperto appiè di castelli opportuni un armata sotto gli ordini di Tarquinio Toscano. Ribellaronsi intanto que’ di Fidene da’ Romani, nè già' dichiarando guerra manifesta ; ma danneggiandone a poco a poco con occulte incursioni le campagne. Marzio' però presentandosi loro con esercito ben fornito innanzi che si apparecchiassero alla guerra si accampò d’appresso alia città. Fingeano i magistrati non supere per quali affronti i Romani fossero venuti contro di loro : e di-chiarando il re che veniva per aver soddisfazione dei latrocinj e danni fatti da essi nella sua terra ; si escusarono che niente era stato con pubblica autorità, e chiesero tempo per esaminare e discernere i complici delle ingiustizie. Procrastinavano intanto, non adempievano gli obblighi loro, adunando in segreto de’ sussidj, e travagliando all’ apparecchio delle arme. Marzio conosciutine i disegni scavò de' cunicoli dal suo campo fino alla città : e compiutone il lavoro suscitò le schiere, conducendole con molte scale e mac^ chine e stromenti proprj per gli assalti, alle mura, non' però dove riuscivano sotto queste le vie sotterranee, ma in tutt’ altra parte. Accorsi in folla i Fidenati dove erar assalto, bravamente lo rispingevano, quando ì Romani incaricatine, dato 1’ ultimo traforo ai cunicoli, sboccarono dentro la città; e trucidando chiunque capitava, spalancarono le porte agli assalitori. Soccomberono nella presa della città molti de’ Fidenati; Marzio impose agli altri che cedessero le armi : poi fattili per la voce dei banditori congregare in luogo certo, ne battè con Terghe e ne uccise alcuni pochi, autori della ribellione ; e concedè che i soldati saccheggiassero le case di tatti. ÀlSne lasciato quivi un presidio marciò coll’ esercito contro de’ Sabini. Nemmeno questi eransi tenuti ai patti conchiusi con Tulio ; ma gettandosi nelle terre de' Romani ne aveano devastato le più vicine. Marzio, cono sciato dagli esploratori e dai disertori il tempo acconcio ad investirli, andò con i suoi iànti, e mentre i Sabini spargeansi a predar le campagne prese di assalto le loro trincierò, fornite di pochi difensori ; ordinando intanto che Tarquiuio piombasse con la cavalleria su i nemici che divisi rubavano. Al vedere la cavalleria romana verso loro lasciarono i Sabini la preda e quanto seco portavano o conducevano di proficuo, e fuggirono agli alloggiamenti. Ma non sì tosto mirarono questi hr potere de’ fanti ; dubitarono dove rivolgersi, finché si sparsero per le selve e per le montagne. Perseguitati pelò da soldati leggeri e da' cavalieri, ne scamparono pochi, soccombendone la parte più numerosa. Spedirono dopo ciò nuovi ambasciadori a Roma ed ottennero l’amicizia che voleano. Imperocché la guerra, permanente ancora, co’ Latini rendea necessaria la tregua o la pace con gli altri nemici. Xl.II. Intorno al quarto anno dopo questa guerra Marzio il re de’ Romani andò colle sue milizie e col più che potè delle ausiliarie contro de’ Vejenti, e devastò gran parte della loro campagna; imperocché questi si erano i primi gettati nell’ anno precedente sul territorio romano; e molto vi saccheggiarono, e vi uccisero. Ben uscirono  sperità, grandi oltre il dire, su le prime si diedero in pochi a scorrerne e derubarne le campagne : poi lusingati dal guadagno misero palesemente in piede un esercito ; e le desolarono. Ma non riuscì loro di portarsi via que’ guadagni, nè di partire impuniti. Imperocché venuto provvidamente il re de’ Romani, e posto il stio presso al campo de’nemici, gli astrinse a fare giornata. Sorse dunque battaglia terribile, e molti perirono da ambe le parti : nondimeno per la sperienza, e per la tolleranza de’ travagli, antica fra loro, prevalsero finale mente di gran lunga i Romani, e fecero ampia uccisione, seguitando immantinente i Sabini che disordinati e disgiunti riparavansi agli alloggiamenti. Poscia invadendo pur questi pieni di ogni ricchezza, e ricuperando i prigionieri usurpati da’ Sabini quando predavano ; sen tornarono in patria. Tali si dicono le gesta guerriere di questo re, credute degne di ricordanza, e di stima da’ Romani : sono poi le politiche, quelle che mi accingo a narrare. Primieramente aggiunse alla città non piccìola parte rinchiudendo fra le mura 1’ Aventino. E questo un colle alto leggermente, con perimetro di circa stadj diciotto : r occupavano allora piante di ogni genere e più che tutto lauri bellissimi, dond’ è che una parte di esso chiamasi laureto da’ Romani : ora è tutto ingombrato di case, e tra’ molti edi6zj, il tempio sorgevi di Diana. Dividevalo valle angusta e profonda dal colle della città ^ chiamato Palatino, dove fu Roma nel na cer suo collocata : ma ne’ tempi appresso l’ intervallo tra due colli fu riempiuto di terra : ora vedendo che un tal colle sarebbe un luogo forte per un armata nemica se nini si avvicinasse, lo circondò di mura e fossi, e inisevi ad abitare le genti trasportate da Telline, da Poiilorio, e da altre città soggiogate. Celebrasi tale istituzione del re come utile e bella, perchè Roma ne divenne più ampia, e meno espugnabile per quanti nemici mai le soprastassero. Migliore del regolamento anzidetto è 1’ altro che la rendè più felice nel vivere, e la mise ad imprese più generose. Imperocché scendendo il fiume Tevere dai monti Appennini, passando appiè di Roma, e scaricandosi attraverso de’ lidi del mare Tirreno, dirotti e senza porti, rende alla città picciolo bene, e certo non memorabile, perchè dove si scarica non evvi un emporio il quale riceva e cambj a’ mercadanti le merci portatevi dal mare, e giù colla corrente stessa del fiume. Altronde essendo il Tevere navigabile fin dalle origini con barche fluviali mezzane, e dal mare fino a Roma co’ legni grossi da trasporto ; egli deliberò di fare ivi un luogo da ricever le navi, servendosi della imboccatura come di porto ; tanto più che ivi il fiume si spande amplissimo, e formavi gran seni appunto come ne’ siti de’ porti migliori. E, ciò che porge più meraviglia, il Tevere non è traversato nella sua foce da cumuli di arene, come altri gran fiumi, nè dilagasi in stagni o paludi, nè consumasi con altre maniere prima che giintga nel mare : ma sempre navigabile si scarica per una sola bocca naturale, separando a forza le acque marine, quantun(]ue ivi spiri un vento occidentaie grande e malagevole. Adunque le navi lunghe per quanto grandi, e quelle da carico, capaci ancora di tre mila misure, si avanzano per la bocca del medesimo e giungono a Roma, sospintevi con remi e funi : ma le navi maggiori fermate colle ancore presso la imboccatura si vuotano su barche fluviali, che succedono ai trasporU. Tra lo spazio cui cingono il mare ed il Gume con forma di cubito, il re fece erigere una città chiamandola Ostia, o come noi diremmo, porta dall’ uso che presta, rendendo con ciò Roma mediterranea e marittima, talché godesse i beni ancora d’ oltremare Inoltre cinse dì muro il Gianicolo che è un colle alto di là dal Tevere, e posevi guarnigione che bastasse per difendere chi navigava in sul Game ; imperocché li Tirreni tenendo lutto il tratto di là dal Gume infestavano e derubavano i mercadanti. E dicesi che egli soprapponesse al Tevere il ponte Sublicìo, il quale dee per legge esser tutto di legno, senza rame nè ferro, ed il quale, perchè sacro lo estimano, conservasi ancora. E se parte alcuna ne pericola, i ponteGci la curano, compiendo insieme patrj sagriGzj mentre riparasi. Operate nel suo principato tali cose degne di storia. Marzio dopo un regno di ventiquattro anni moti, lasciando Roma non poco migliore di quello che avessela ricevuta, e lasciando due Ggli 1’ uno fanciullo ancora, r altro di più anni, e già nubile. Dopo la morte di Marzio, il popolo rimise al Senato la scelta del governo che più bramava ; ed il Senato Gssò di litenerne la forma consueta. Adunque furono gl’ interré dichiarati ; e questi riunirono pe’ coi^ mizj la moltitudine, e scelsero Lucio Tarquiuìo per monarca. E confermando i segni divinf la elezióne della moltitudine ; egli assunse il regno nella olimpiade nella quale Cleonida tebano vinse nello stadio, mentre era arconte in Atene il figliuolo di Enioco. Ora, secondo che io ne trovo negli scritti di que’ luoghi, dirò di quali parenti, e di qual patria fosse questo Tarquinio, per quali cagioni venisse in Roma, e per quali arti giugnesse al comando. Un tale di Corinto, ( Demarato ne era il nome ) della stirpe de’ Bacchiadi, risolutosi di commerciare navigò per la Italia con nave propria e proprie merci. Vendutele nelle città tirrene allora le più prosperose d’ Italia, e fattovi assai guadagno, non volle più rigirarsi per altri porti ; ma tenne continuamente lo stesso mare, portando le greche cose ai Tirreni, e le tirrene ai Greci ; donde ricchissimo né divenne. Nata però sedizione in Corinto, e postasi la tirannide di Cipselo attorno de’ Bacchiadi, egli ricco uomo, e del grado degli ottimati, più non credendo sicuri col tiranno i suoi 'giorni, raccolse quanto potea di sue robe, e fece vela per sempre da Corinto. E perchè stante il commercio continuato egli aveva amici molti Tirreni, anche riguardevoli; specialmente in Tar> quinia, città, grande allora e felice, quivi si domiciliò,' prendendovi una nobile donna per moglie. Da questa nacquero a lui due figli, chiamandone con tirreni nomi Aronle 1’ uno, e 1’ alu'O Lucumone. Diè loro greca é  Anni di Roma l3S secondo Catone, i^o secondo Varrone, e 6i4 acanti Cristo] tirreoa istituzione, e adulti fatti, li cougìaute per matrimonio colle più insigni famiglie. Mori non molto dopo il primogenito suo, non avendosi ancora di lui prole distinta. Da indi a pochi giorni si mori per l’ ambascia Demaralo ancb’ esso destinando erede di ogni sua cosa Lucumone il Aglio superstite. Investito questi de’ beni paterni, che erano assai grandi, desiderò di essere nom pubblico, di maneggiare il comune, e Ggurare co’ primi della città. Ma respinto in ogni parte da’ paesani, e non aggregato non dico a’ primarj ma nemmen co’ mediocri, mai sopportò quel dispregio. E sentendo come Roma accogliea con beneplacito i forestieri, e facevali cittadini, e gli onorava secondo i lor gradi ; risolvette di trasferirvisi. E raccolte per ogni modo le cose sue menò seco moglie, amici, e domestici quanti ne vollero ; e molti vollero con lui trasmigrarsi. Giunto al colle chiamato Gìanicolo, che è quello donde Roma presentasi in prima a chi .vien di Toscana, un aquila calatasi di repente, gli ghermisce il pileo che tieu sul capo, e sollevatasi, roteandosi a volo, si occolu al Aae nell’ allo delK aere : poi d’ improvviso rimise in capo a Lucumone il suo pileo come eravi quando sei portava. Riuscì tal segno inaspettato e meraviglioso a tutti: e Tanaqaila (che tale ne era il nome) la' moglie di Lucumone, sperimentata assai nell’ arte patema degli auguri > menatolo in disparte. lo abbracciò colmandolo di belle speranze, come se dalla condizione de’ privati a quella gingnerebbe dei re. Desse dunque  Latoiò la moglie graeiJa : e da essa aacrjua poscia Arunlc dopo la morie di Demaralo]. opera, moitranJosene degno, di ricererc il comando dai Romani spontaneamente. Lieto Lucumone de’ successi, ornai presso alle porte, supplicò gl’ Iddi! che verificassero gli augurj ; supplicò che gli dessero un ingresso felice, e si mise dentro la città. Quindi venuto a colloquio con Marzio il regnante indicò primieramente chi egli fosse, poi co> ni’ egli era deliberato domiciliarsi in Roma ; che avea perciò portate seco le paterne sostanze, delle quali pos sedendone piucché un privato, esibivale fin d’ allora in servigio de' Romani e del re. Lo accoke questi di buon grado, ascrivendo lui co’ Tirreni compagni in una curia e tribò. Cosi fabbricò Lucumone in città la sua casa, avutone in sorte il sito che bastasse, e ricevutane pure' una parte di campagna. Ciò fatto, e divenuto del nu-> mero de’ cittadini, osservando come ogni Romano ha un nome comune, ed inoltre uno patronimico e gentilizio, e volendo in ciò conformarsi, assunse, per suo nome comune quello di Lucio in luogo di Lucumone, e pel gentilizio quello di Tarquinio dalla città dove ebbe i natali e la educazione. In breve divenne 1’ amico del sovrano, donandogli ciocché si avvedea che più gli bisognava, e porgendogli danari, quanti ne erano di mestieri per la guerra. Combattitore benissimo a piede e a cavallo contavasi per sapientissimo quante volte bi sognassero opportuni consigli. Nè già col divenire caro al monarca aveasi perduto la benevolenza de’ Romani, ma si vincolò molti de’ patrizj co’ beneficj, e tentò di affezionarsi la plebe col chiamarla, e salutarla, e conversarla piacevolmente, e col porgerle danari ed altre significazioni di amore. Tale era Tarqulnio, e per tali cagioni vivendo Marzio divenne il più cospicuo de’ Romani ; e morendo questo fu da tutti proclamato degno del trono. Salitovi fece guerra in principio con gli Apiolani, popolo non ignobile del Lazio. Imperocché gli Apiolani, come tatti del Lazio, credendosi colla mone di Marzio sciolti dai trattati di concordia devastavano le campagne romane pasturandovi, e saccheggiandovi. Di che volendo Tarquinio farli pentiti usci con grande armata, e disfece quanto era il meglio del territorio di quelli. Ben sopravvenne gran soccorso per gli Apiolani da’ popoli vicini del Lazio : ma egli attaccò due volte battaglia con essi, e vintala due volte, si ristrinse all’ assedio della città, spingendovi a mano a mano delle schiere 6n alle mura. In opposito dovendo quelli della città combattere pochi di numero e senza intermissione contro i molti e freschi, soccomberono alfine. Presa la città di forza, i più degli Apiolani morirono con le arme in pugno : e se taluni le cederono, furono venduti colle altre prede. Furono le donne e i fanciulli condotti schiavi da’ Romani : fu la città lasciata al saccheggio, e dopo il saccheggio alle fiamme. Il re dopo' questo, e dopo rovesciate le mura da’fondamenti ricondusse in casa le milizie; rivolgendole poi contro la città de'Crustumerini: colonia anch’ essa de Latini, la quale erasi ceduta a’Romani nel tempo di Romolo : ma cominciava di nuovo a tenersela co’ Latini, dacché Tarquinio prese il comando. Nè già bisognarono a questo assedj e travagli per umiliarsela. Imperocché li Crustumerini vedendo la moltitudine venuta contro loro, la debolezza propria, e la niuna aita de’ Latini verso di essi, aprirono le porte ; ed uscitine i più anziani e più riveriti consegnarono a lui la citld, supplicandolo che usa^e moderazione e clemenza. Ben fu l’ evento propizio ai desiderj: perciocché andato quel inotutrca in città non vi uccise ninno, ma banditine per sempre alcuni pociù, amatori della ribellione, concedè che gli altri ritenessero i beni loro, e partecipassero come) prima alla cittadinanza romana. Ma perchè più non si rimovessero, lasciò de’ Romani con essi. LI. Egual sorte incontrarono i Nomentani datisi a pari consigli. Imperocché spedendo bande di ladroni ne’ campi de’ Romani si costituirono aperti loro nemici ; coutidaudu nella confederazione de’Latini. Ma giuguendo Tarquinio su loro, e tardando il soccorso latino, e non b.isiando essi contro tanti nemici, uscirono 'di città coi simboli di pace, e si renderono. Gli abitanti di Collazia 111 archi narono far battaglia co’Romani ed emersero dalle mura di essa : ma superati in tutti gli attacchi e molto danneggiatine ; furono costi-etti rifuggirsi tra le mura, e spedirono alle città de’ Latini per chiederne truppe compagne. Ma indugiandosi questi, e presentando i ne terre, ninno resistendovi, e messo il campo dinanzi la città, ne invitava gli abitanti a far pace. Ma ricusando questi, e confidando su le fortibcaziooi dei ricinti, e concependo che -verrebbero per loro schiere confederate d’ogn’ intorno, il re ne circondò con truppe le mura, e le assalì. Resisterono lungo tempo i Cornicolani combattendo virilmente, e coprendo di ferite gli assalitori, ma stanchi pei dalla continuità de’ travagli, e piò stanchi eziandio dalla discordia, perchè non erano più unanimi fra loro volendo altri la resa, ed altri la difesa della città Gno agli estremi ; furono alGne espugnati. Li più generosi di loro perirono fra le arme nella presa della città : gli altri, salvatisi come ignobili, furono venduti schiavi insieme co' fanciulli, e colle donne, la città fu prima abbandonata al saccheggio, e quindi alle Gamme. Dicchè malcontenti i Latini deliberarono con voto comune di uscire io campo contro a’ Romani: e fatto grande apparecchio di forze, si gettarono su le terre più buone di essi, e v’ invasero assai prigionieri, e vi divennero signori di amplissime prede. Volò Tar> quinio contr essi coll’ esercito spedito e pronto : nè po tendo raggiungerli, portò su le terre loro simili calamità. Cosi per le vicendevoli incursioni ne’ campi vicini.. 2()r molle lerano le perdite e gli acquisti di ambedue. Vennesi con tutte le forze a battaglia ordinata presso Fi^ deoc; e molti ne perirono da ambe le parti; ma vincendo inCne i Romani, costrinsero i Latini a lasciare il campo, e fuggirsene tra la notte alle loro città. Dopo quel comlntti mento marciò Tarquinio colle milizie schierate alle città de’ Latini esibendo ad essi la pace. E queste non avendo né riunite le forze' comuni, nè ben confidando su’ proprj apparècchj, accettarono  batteano questi nell’ ala destra ed aveano già fugato gli emuli che eran con essi alle mani, ma l’ inaspettato presentarsi di lui li sorprese e sconvolse. Intanto la fanteria romana riavutasi dalla paura piombò su’ nemici. Allora grande fu la strage de’ Tirreni, e piena la rotta dell’ala destra. Tarquinio dato avviso ai duci della fau> teria di tenergli appresso in buon ordine, e passo passo, spinse di tutta lena i cavalli in su gli alloggiamenti ne mici; e gl’ invase a prìm’ impeto, prevenendo quelli che vi si riparavano dalla fuga. Imperocché quelli che ne erano in guardia non avendo prima saputa la sciagura che invalse su i loro, né potuto distinguere per la rapidità del corso quali cavalli venivano, lasciarono che entrassero. Invasi gli alloggiamenti de’ Latini, quelli che dalla fuga vi accorrevano come ad asilo, vi erano sorpresi ed uccisi da’ cavalieri che lo aveano preoccupato : e se altri si fossero affrettati di là verso il piano s’ imbattevano' colla fanteria romana, e ne perivano : li più di loro spintisi e concnlcatisi a vicenda soccomberono con ignobile e miserabile fino intra i valli, e li fossi. Dond’ è che quanti vi sopravanzavano non avendo via ninna di salvezza erano costretti di rendersi ai vincitori. Tarquinio impadronitosi di persone, e robe in copia vendè le prime, e concedè le seconde in premio ai soldati. LV. F allo ciò si diresse alla città de’ Latini onde prendere combattendo quelle che a lui non si davano : non però vi fu bisogno di assalti : ma si rivolsero tutte alle umiliazioni ed alle preghiere ; e mandando oratori a nome del comune supplicarono che desse fine alla gtierra co’ patti che gli piacevano, e si renderono. 11 re divenutoi cosi l’arbitro delle città fu moderatissimo e mitissimo verso di tutte : perocché non uccise, non bandì, nè multò niuno de’ Latini. Lasciò che godessero -le terre loro, e conservassero le leggi delia patria : ma comandò che rendessero ai Romani i disertori ed i prigionieri senza prezzo ninno: che restituissero ai padroni i servi, quanti presi ne aveano nel fare le prede, agli agricoltori il danaro quanto ne aveano derubato ; e compensassero tutti gli altri danni o guasti, se causati ne aveano nelle scorrerie. Fatto ciò dichiarò che sareb-bero gli amici e li confederati de' Romani se pronti sarebbero in tutto ai loro comandi. A tal fine venne la guerra de’ Romani co’ Latini ; e cosi Tarquinio vinse e trionfò. L’ anno appresso prendendo 1’ esercito, lo conduce contro i Sabini, avvedatisi già molto innanzi dei disegni e de’ preparamenti suoi contro di loro. Non aspettarono questi che la guerra passasse in sul proprio territorio ; ma premunitisi di forze sufilcienti si avanzarono tutti ad un luogo. Fattasi ne’ confini battaglia fino a sera non vinsero né gli uni uè gli altri, anzi molto ne furono afiaticati. Quindi ne’ giorni appresso nè il duce Sabino nè il re dei Romani cavarono le milizie dagli accampamenti: ma via via trasmutandoli, senza danneggiare le terre, si ricondussero in casa ; ambedue coi disegno di piombare nella primavera con armata più grande 1’ uno nel territorio dell’ altro. Poiché furono ambedue preparali, primi si mossero i Sabini fiancheggiati da sussidio sufficiente di Tirreni, e collocarousi presso Fidene, dove l’ Aniene concorre col Tevere. Fecero questi due campi, l’uno dirimpetto, e come in continuazione dell’altro; avendoci tra tutti due 1’ alveo delle correnti riunite, e sull’ alveo un ponte di legno congegnato di picciole barche, il quale rendea spedito il transito dall’ uno all’ altro campo, anzi rendeali di due uno solo. Tarquinio uditane la irruzione aach’ egli cavò le sue genti, e si trincerò presso 1’ Aniene, alquanto più sopra di loro in una munita collina. Erano venuti ambedue con tutto l’ardore a tal guerra ^ por non vi ebbe ninna battaglia ordinata, non grande nè picciola. Imperocché Tarquinio con iscaltrezza di capitano prevenne ed isconciò tutte le opere de’ Sabini, e ne distrusse l’ uno e l’ altro campo. Lo stratagemma fa questo. Preparate e riempiute piociole barche fluviali di legna aride e di zolfo e di |>cce ul fiame presso al quale esso accampava, e poi colto uii vento propizio, ordinò che nella vigilia mattuliiia si desse fuoco a qnei combustibili e si lasciassero le navi a seconda della Corrente. Queste scorrendo iu breve tempo la distanza intermedia percossero il ponte, e vi comunicarono ' in più luoghi r incendio. Accorsi per ajuto i Sabini a tanta fiamma improvvisa, e datisi a far tutto, quanto giovasse ad estinguerla, ecco intanto gingnere su l’alba Tarquinio coU’eseixito in ordinanza; ed investire l’nno de’ campi, deserto di guardie, andate in gran parte contro del fuoco. Pochi dunque sorsero a resistervi ; talché senza fatica gl’ invase. Mei tempo di tale operazione altre milizie romane sopravvenendo espugnarono anche il campo Sabino posto di là dal fiume: premesse da Tarquinio nella prima vigilia erano su piccioli navigli valicate da sponda a spanda, laddove fattosi di due fiumi uno solo, rimarrebbero invisibili nel passaggio. Appena poi videro il ponte iu fiamme piombarono ( che tale ne era l’ accordo ) in sul campo dei Sabini : ove quanti ne erano o combattendo caddero appiè dei Romani, o gittatisi a nuoto nella 'confluenza de’ fiumi nè resistendone all’ impeto, si affondaron tra’ vortici : peri nou picciola .parte ancora per liberarne il ponte, tra le fiamme. Tarquinio, preso l’uno, e l’altro campo, diede a’ soldati. le robe che vi erano percltè se le compartissero, ma ' condusse in Roma e guardò ’ con molta diligenza li prigionieri ; ben molti in tutto, Sabini e Tirreni. Sentirono a tale sciagura i Sabini la propria debolezza, e mandando gli ambasciadorì concbiusero, 00 ’ Romani una tregua di sei anni. I Tirreni mal sop-, porundo che fossero tante volte vinti, e che Tarquinio jer quante istanze ne facevano, non s rendesse i loro prigionieri, anzi li ritenesse come ostaggi ; decretarono di spingere tulle generalmente le città Tirrene in guerra contro de’ Romani e di non più riguardarla come alleata, se taluna se ne ricusava. Cosi deliberati cavarono in campo le milizie, e tragittato il Tevere si trincierarono presso Fidene. E prima s’ impadronirono di questa con frodoienza, per esservi sedizione tra’ cittadini: poi fatti prigionieri in buon numero, e condottesi via via gran prede dal territorio romano ^ tornarono in patria. Fidene sembrava loro una piazza bonissima d'ar me in tal guerra; e vi lasciarono guernigioue quanta ne bastasse. Ma Tarquinio mettendo per la stagione seguente in arme tutti i Romani, e congregando il più che poteva di alleali marciò sui giugnere della primavera contro i nemici prima che riunitisi dalle varie città venissero su lui come 1’ anno d’ innanzi. Dividendo in due parti tu'.ia 1’ armata, egli stesso ne andò colla milizia romana contro le città de’ Tirreni : e fidate le truppe ausiliarie, per lo più latine, ad Egerio il suo consanguineo, gl’ ingiunse di marciare conU'O Fidene. E queste piene di disprezzo per l’ inimico, accampatesi in luogo non ben sicuro presso delia città ; non fiirono per poco tutte disfatte. Imperocché le guardie di Fideue procuratosi un rinforzo occulto dai Tirreni, e spiatone il tempo opportuno, fecero una sortita ed invasero il campo nemico non bene difeso, e grande fu la strage di qaein che erano usciti per foragghtre. la opposito la milizia romana sotto gli ordini di Tarquinio, manometteva e depredava le terre di Vejo, e traevane molti vantaggi. Ben si riunirono poi grandi snssidj da tutte le cittA de'Tirreni in sostegno di Vejo : ma Tarqnioio diede ad essi battaglia, restandone non dnbbiamente vincitore. Poi scorrendo a bell’ agio il paese nemico lo devastò : Cnalmente lattivi molti prigionieri, e presevi assai cose come in terre felici, essendo ornai per finire la state, si ricondusse in casa. Straziati i Vejenti da quella battaglia non uscivano più di città, ma dentro vi si teneano, mirando intanto sterminarsi le loro campagne : Perocché Tarquinio uscito per la terza volta, privavali per il terzo anno dei prodotti delle loro campagne, desolandole in gran parte : e non avendo poi come più danneggiarli condusse 1’ esercito alla città di Cere, sigilla chiamavasi la città quando i Pelasghi ne erano gli abitanti, ma soggiacendo poscia ai Tirreni fu Cere nominata. Era questa felice e popolata quanto altra mai fra’ Tirreni. Quindi ne uscì valido esercito a combattere per le proprie campagne, e molti vi straziò de’ nemici ; ma perdendovi più ancora de' suoi, rifuggissene alla cittàRimasti i Romani padroni di una terra la quale somministrava tutto in abbondanza vi si trattenero molti giorni ; finché venuto il tempo di ritirarsene menarono con sé quanta preda potevano, e si ridussero in casa. Riuscitegli come desiderava le operazioni su Vejo, Tarquinio ricavò l’esercito contro i nemici di Fidene per cacciameli, con ansia di punire quei che aveano la ci ttà consegnata a’ Tirreni. Vi fu batttaglia tra’Romani Digitized by Google LÌBRO III. 299 tf tra le ihilizie ascile da Fidene, e' poi darò contrasto nell’ assalto delle 'mura. Fu la città pigliata di forza, e tatti li prigionieri Tirreni legati e custoditi. Dei Fidenaii giudicati autori della rivolta quale ne fu battuto pubblieatnente e poi decapitato, e quale bandito per sempre. I Romani lasciativi per abitatori e custodi della città misero a sorte e se ne appropriarono i beui.  LX. Occorse l’ ultima battaglia fra Romani e Tirrani' presso di Ereto nella Sabina. Imperocché lì Tirreni erano venuti attraverso di questa incontro al Romano persuasi dai potenti di que' luoghi che i Sabini militerebbero insieme con essi. E certamente già era spirata la tregua sessennale conchiusa da questi con Tarquinio, e molti ardevano dal desiderio di emendare le antiche disfatte, essendo già cresciuta nelle città gioventù numerosa. Non pelò succedette ciò come ideavano : perchè ben tosto si presentò l’esercito Romano, nè potè farsi che ab cuna delle città mandasse un soccorso ai Tirreni ; e solo vi si congiunsero alquanti volontari, e pochi reclutali a gran soldo. Fu questa guerra la più grande di quante ne sorsero infra loro ; ed i Romani ne crebbero meravigliosamente, riportandovi una segnalata vittoria, ed il Senato ed il popolo decretarono a Tarquinio il trionfo, lu opposito lo spirito ue decadde ne’ Tirreni ; perchè avendo spedito da ogni loro città tutte le milizie, non riebbero salvi, se non pochi di tanti; gii altri o perirono tra la battaglia, o fuggiti in luoghi non idonei per Io scampo, si arresero. Colpiti da tanta sciagura i primarj delle città la fecero da savj ; perchè prendendo Tarquinio una nuova spedizione su loro, essi riunitisi a consiglio deliberarono trattare della pace ; e mandarono da ogni città plenipotensiarj anziani e riipettabili per concilitiderla. Teneano questi al re che gli udiva ragionamenti, induttivi a misericordia e moderazione, e ricordavano il parentado di lui colla lor gente; quando Tarquinio disse che volea sapere unicamente, se disputavano ancora intorno ai diritti e venivano per fare la pace con certe riserve ; o se confessavausi vinti, e rendevano a lui le proprie città. E rispondendo questi che le rendevano, e che desideravano la pace comunque loro si concedesse, egli dilettatone disse : ascoltale con quali condizioni sono per dare la pace, e quali benefizj vi dispenso con essa. Non io rn ho già nelt animo di uccidere, o bandire, o multare alcuno de' Tirreni. Lascio Ifs vostre città senza guarnigioni, senza tributi : lascio che vivano arbilre di sè stesse, e colla forma primiUva di governo. Ma per tante cose che io concedo a voi giudico che questa sola da voi mi si dia, cioè che io m'abbia la direzione suprema che pur ni avrei delle vostre città quand anche voi noi voleste, finché io sono il vincitore. Piacemi aver questo da voi sporta taneamerUe anziché di mai animo. Andate, riferitene alle vostre città, lo vi prometto sospendere le armi, finché torniate. Ricevute queste risposte andarono di volo gli ambasciadori; e dopo pochi giorni ritornarono portando non già parole nude, ma i fregi stessi del comando coi  Anni di Roma i 65 ecoado Caioae, 177 secondo Varrone, 587 avanli Cristo] ' 3oi qnali adornano i proprj monarchi, la areano seguali di giogo e di esecrasione. Ma se acquistano in guerra una vittoria ; se il irj di ogni città : e prima che 1’ armata de’ Romani venisse nelle terre loro, essi menarono la propria nelle campagne di quelli. Come il re Tarquinio udì che t Sabiui aveano passato 1’ Aniene e che devastavano per tutto intorno de’ loro accampamenti, prese : i giovani ro nani più spediti e piombò di tutta fretta su’ nemici sparsi a predare. Ed uccisine molli, e ritolta loro la preda che si recavano, mise il campo suo presso del loro. Passati cosi pochi giorni, finché gli era di città venuto il resto delle milizie, e le truppe ausiliarie dagli alleali, presentò la battaglia. LXV. Vedendo i Sabini i Romani venuti con ardore per combattere, cavarono la propria armata ancor essi, non inferiori nè di numero, nè di valore. Investitisi combatterono con tntto 1’ aadire fin eh’ ebbero a fare coi soli schierati di fronte : ma poi fatti accorti che marciava loro alle spalle un altro esercito ordinato e ben fornito; abbandonarono le bandiere e dieronsi alla fuga. Era di Romani 1’ esercito che apparve alle spalle, fanti lutti e cavalieri scelti, disposti insidiosamente da Tarquinio tra la notte in luoghi opportuni. Spaventali i Sabini da questi nomini inaspettati che li raggiungevano non fecero più ninna bella azione ; ma quasi colti dagli inganni de’ nemici, ornai sotto il nembo di danno irreparabile, tentarono chi d’ una e chi d’ altra via salvare sè stessi. Allora appunto però soggiacquero a strage grandissima inseguiti e rinchiusi d’ ogn intorno dalla cavalleria de’ Romani ; tanto che pochi in lutto si ripararono nelle città vicine : gli altri, quanti non caddero combattendo, rimasero prigionieri. Imperocché que gli lasciati negli alloggiamenti nè ardivano respingere r assalto de’ nemici, nè uscire in battaglia : ma cosierpati dal male impensato renderono senza combattere sè stessi e quel posto. Le città de’ Sabini vinte come dai stratagemmi e dagl’ inganni non dalia virtù dei nemici, si accinsero a mandare ben tosto milizie più copiose, e capitano piu sperimentato, Tarqajuio vedendo il loro dise^o, guidò soliecitameotc l’ esercito, e passò 1’ Anieue prima che quelli si potessero tutti riuuire. A tal nuova il duce Saltino andò prestissimo quanto polea colla nuova armata e mise il suo presso al campo romano su di un colle erto e dirotto : non giudicava però ben fatto dar battaglia se prima a lui non giungevano le altre milizie de’ Sabini. Solamente spedendo • delle bande de’ cavalieri, e postando delle coorti nelle balze e nelle selve contro quelli che uscivano a foraggiare, impedì che i Romani infestassero colle scorrerìe la campagna. Per tal sua condotta di guerra molte erano le scaramucce, ma di pochi fanti e cavalli, e niuna la battaglia universale. Adunque temporeggiandosi, e sdegnandosi Tarquinio dell’ indugio, risolvè di andare colr esercito alle trinciere de’ nemici, e più volte ne fece l’assalto: ma vedendo che non era farìle espugnarli per la fortezza del luogo, destinò di abbatterli colla penuria. E stabilendo delle guardie su tutte le vie che menavano’ al colle, nè permettendo che i nemici andassero a far legna, e recassero foraggi pe’ cavalli, o prendessero altro che facea di mestieri dalla regione; li ridusse a gravi disagi. Tanto che furono costretti, cogliendo uoa notte burrascosa per vento e pioggia, lasciare vergogno samenle quel luogo; abbandonandovi giumenti e tende, e feriti, ed ogni apparecchio militare. I Romani cono; seiutane al nuovo giorno la partenza, e lattisi padroni del campo senza contbattete vi predarono tende, e giumenti ed ogni cosa, e conducendosi i prigionieri si ravviarono a Roma. Continuò questa guerra cinque anai, 3o5 c gli uni (levasUnJo le campagne degli altri; .diedero via via delle battaglie piu o men grandi, vinte di raro da’ Sabini, e spessissimo da’ Romani : i ma nell’ ultimo cimento ebbe interamente il suo termine. Imperocché li Sabini non già di aumo in mano come dianzi ma quanti per la età ' lo poteano, erano tutti in uh tempo stesso marciati alla, guerra. In opposito i Romani tutti, raccolte le forze aosiliarìe latine, tirrene, ed in genere degli alleati erano venuti a fronlè del nemico. 11 duce Sabino dividendo le milizie ne avea fatto due campi : aveale il re dei Romani compartite in tre corpi in tre campi non molto lontani fra loro, ed egli comandava i Romani; dato ad Aruntc figliuolo del suo fratello il governo de’ Tirreni, e quel de’ Latini e degli altri ad un valentuomo per consiglio e per arme, ma forestiero e privo della patria. Servio era il nome di lui, e Tullio quello della sua stirpe : e fu quegli appunto cui dopo Tarquinio, morto senza prole virile, i Romani inalzarono ai trono per amore del suo ben lare tra le arme e nell’ uso della repubblica. Io sporrò ma nel suo luogo la prosapia, la educazione, le avventure di quest’ uomo, c come gl’ Iddii per lui si manifestassero. Allora dunque, poiché gli uni e gli altri vi  furono apparecchiati, diedero la battaglia. Avevano i Romani l' ala sinistra, i Tirreni la destra standosi i Latini schierati nel centro. Durò vivissima tutto il giorno la battaglia finché viuserla di gran lunga i Romani. Uccisero molti de’ nemici segnalatisi nell’azione; e più ancora ne presero prigionieri tra la fuga. Espugnatone INTONICI y t n> T, >0 l’uao e r altro accampamento ne ammassarono ricchezze in copia, e signoreggiarono senza timore Hitla la campagna: e messala a ferro e fuoco, e distruttivi gli alloggiamenti sen tornarono a casa ornai tramontando la estate. Tarquinio a questa vittoria trionfò per la terza volta nel suo principato. E preparando nelf anno seguente r esercito nuovamente per condurlo contro le. città de’ Sabini, non più concepirono questi nulla di magnanimò e di grande, ma deliberaronsi tutti per la pace prima di mettere a pericolo sè stessi dei giogo, e le patrie della rovina. Pertanto vennero da ogni città li Sabini principali a Tarquinio uscito con tutta 1' armata, e cederongli le terre loro supplicandolo di miti condizioni : e colui propensissimo ricevendo, perchè senza pericolo, il sottomettersi di quella gente, fe’ tregua e pace ed amicizia co’ modi appunto co’ quali aveala innanzi fatta co’ Tirreni, e rendè loro pur senza prezzo li prigionieri. Tali sono le imprese militari di Tarquinio: le urbane e pacifiche son come sieguono; che già non voglio passarle senza ricordo. Giunto appena ai comando desiderando, come aveano fatto i re predecessori, di conciliarsi la plebe, se la conciliò con questa beneficenza. Scelti fra tutto il popolo cento nomini a’ quali il pubblico grido accordava virtù guerriere, o civil sapienza, li nominò patrizj aggregandoli a’ senatori : i quali essendo fin’ allora dugento ampliaronsi al numero di trecento fra’ Romani. Poi, quattro essendo le vergini  Ad. di Boom 171 secoudo Catone, 173 secondo Varronc, e. 58 i avanti Cristo] 3o7 custodi del fuoco inestinguibile egli ve ne sopraggiunse altre due: imperocché cresciuti i pubblici sagrifizj ai quali doveano intervenire le vergini Vestali ; non parve che quattro più ne bastassero. Seguirono la istituzion di Tarquinio ancor gli altri principi, e sei pur ne’ miei tempi si additano le vergini ministre di Vesta. Ed egli sembra il primo, che guidato dalla ragione, o forse; dalle insinuazioni de’ sogni come pensano alcuni, ideò li castighi co’ quali i sacerdoti puniscono quelle che la verginità non conservano : e gl’interpreti delle sante coso dicono che que’ castighi si rinvennero dopo la morte di lui ne’ libri delle Sibille. Certo ne’ giorni suoi fu ravvisato che Pinaria Vergine, la figliuola di Pubblio, an(lavasi con membra non pure ai sacri ministeri. Ho poi già dichiaralo nel libro innanzi qual sia di tali castighi la forma. Egli abbellì circondando di officine di artefici, c di altri apparecchi il Foro ove si arringa e si giudica, e compionsi altre pubbliche cose : egli il primo deliberò di costruire con gran pietre lavorate a misura i muri della città, già vili e grossolani: ed egli prese a cavar la cloaca o canali sotterranei pe’ quali tutto, quanto scola dalle strade, vasseiie a scaricare nel Tevere : meraviglioso è questo edifizio, e maggior di ogni dire. Io tengo in Roma per tre magnificentissime cose, c donde la potenza rilevisi dell’ impero ; gli acquedotti, i lastricati delle strade, e le cloache ; non già che io ne rifletta la utilità della quale dirò ne’suoi luoghi, ma si bene 1’ amplissima spesa. E ben può questa argomentarla taluno da un fatto solo del quale io nc fo mallevadore Cajo Aquilio. Scrive costui che non più scorrendo, perchè negligentale, le cloache, i censori le diedero a spurgare e racconciarle per mille talenti. F e pur Tarquiuio il circo massimo tra ’l colle Aventino e tra’l Palatino costruendovi il primo intorno intorno sedili coperti. Certamente il popolo per addietro starasi in piede agli spettacoli in cima a’ palchi, fondati su cavalletti di legno. Compartì similmente il luogo in trenta spazj assegnandone uno per ogni curia, per^ chè ciascuna sedesse e mirasse dal posto che le si doveva. Anche questo edifìzio sarebbe col volger degli anni numerato tra le meraviglie bellissime della città. Perocché stcndesi il circo per lungo tre stadj e mezzo, spandendosi quattro jugeri per largo. Cinge i due lati maggiori ed uno de’ minori una fossa profonda e larga dieci piedi per raccogliere le acque, e dopo la fossa i portici sorgono con tre piani. I portici terreni han di pietra e poco elevati i sedili come ne’ teatri ; ma di legno sono ne’ portici più alti. Concorrono i due lati maggiori ad un tutto e congiungonsi fra di loro per via del minore che formato in guisa di luna li termina: cosicché risulta da tre ordini un sol porticato amGteatrale di otto stadj capace di cento cinquantamila persone. L’altro de’ lati minori che restasi aperto contiene !e mosse donde i cavalli si rilasciano, spalancandosi tutte in un tempo, ad un suono. • F uori dell’ amfìteatro evvi pure altro portico ma di un piano solo, il quale in sè contiene le òfTGcine c sopra le officine le abitazioni. In ognuna delle officine sonovi 'ingressi e scale per chi viene agli spettacoli ; e con ciò' nOri siegue confusione tra tante migliaja che vanno e tornano. Si accluse il re similineatc a iàbbricare il tempio di Giove, di Glaaoue, di Minerva per adem> plere il voto da lui fatto a quegl’ Iddìi nell’ ultima guerra co’ Sabini. Ma siccome il colle destinato per la santa magione abbisognava di radili travagli, perché non era questo agevole da salirlo nè eguale, ma scosceso e tutto ' acuto in su la cima; eg^i ponendo intorno intorno altri ripari, e tra’ ripari e la cima assai terra lo rendè piana ed acconcio! pel tempio. Non però s’ebbe il tempo di metterne le fondamenta, Tnon essendo egli vissuto che quattro anni dopo il fin della guerra. Molti anui ap> presso, Tarquinio terzo re dopo lui, quegli che fu espulso dal trono, ne gitlò le fondamenta, facendo gran parte del sacro edilìzio : ma noi compiè nemmen' egli, e solo ebbe il tempio il suo termine sotto gli annui magisirati da’ consoli dell’ anno terzo. Ben’ è convenevole che le cose ricordinsi accadute prima della erezione di questo, come pur le ricordano quanti scrìssero la storia di quei luoghi. Deliberatosi Tarquinio a far qnel tempio impose primieramente agli auguri, convocandoli, che spiassero co’ divini riti quale in città ne fosse il loco più accon do e più caro a que’Numi. E riferendo esser questo il colle che sovrasta al Foro, colle detto Tarpeo di quei giorni, ed ora del Campidoglio, comandò che replicati i riti santi additassero in qual parte principalmente del Campidoglio aveansene a porre le fondamenta. Non era ciò cosi fàcile a definirsi ; perchè sorgendo io sul colie a riverenza de’ genj, e de’ Numi altari in gran nume ro ; doveasi trasportare questi, e lasciar libera l’ area pel tempio novello degl’ altri Iddìi. Parve agli auguri di fare le divinazioni loro so di ogni altare, e poi moverlo se il proprio Nome Io concedeva. Consentirono alquanti genj e Numi che i loro altari fossero altrove portati : ma il Dio Termine è la dea Gioventù per quanto gli auguri pregassero e ripregassero non gli udirono ; nè condiscesoro a cedere il luogo. Adunque furono gli altari loro inchiusi nel tempio che destinavasi: ed ora r uno resta nel vestibolo, e l’altro nel sacro ricinto stesso di Minerva presso al simulacro di lei. Presagirono da ciò gl’ indovini che ninna età mai nè li termini moverebbe né il florido stato di Roma : ciocché si é già verificato fino a’ di miei per ventiquattro generazioni. Nevio chiamavasi per nome proprio, ed Azio col nome della prosapia il più insigne degli auguri, che trasferì quegli altari, definì il tempio di Giove, ed altre celesti cose ridisse per la sua divinazione al popolo. Si consente che carissimo egli fosse agl’ Iddii fi:a tutti del santo suo ministero, e che conseguito avesse riputazione grandissima per le prove da lui date incredibili e trascendenti nell’arte sua divinatoria. Io ne ricorderò solamente una la quale mi fu meravigliosissima infra tutte, dicendo innanzi per quale incontro di casi, e per quali divine occasioni venne in tanta chiarezza che fe’ tutti li coetanei comparir dispregevoli. Povero fu il padre di lui, cultore d’ ignobile campicello. Nevio il suo figliuoletto porgeagli l’opera sua, quanta per la .età ne poteva, e guidava de’ porci, e pascevali. Caduto una volta nel sonno, nè più rinvenendo al riscuotersi alcuni di quegli animali, ne pianse per timore de’ paterni castighl. Ma poJ venendo al tempietto sacro agli eroi nel suo campicello, pregò che a lui concedessero di trovare le perdute cose ; egli prometteva loro se ciò concedessero il grappolo più grande del suo poderetto. Trovò indi a poco gli animali, e volea recare i promessi doni agli eroi: ma 'grande era 1’ ambiguità sua nel decidere il maggiore ira’ grappoli. Adunque conturbatone supplicava gl’ Iddii che volessero col mezzo palesargli degli uccelli ciò che cercava. Or qui per divino favore gli venne in mente di dividere la vigna in parte destra e sinistra, e notare gli auspicj che in ognuna occoiresero. Apparsi in una delle parti gli uccelli com’esso ve li bramava, suddivise pur questa in due considerando gli uccelli che vi capitassero. Determinandosi con tale distinzione di luoghi, e venendo da ultimo alla vite indicala dagli uccelli: ebbe un tal grappo incredibile nella sua forma. Egli recavalo appiè delle immagini sante degli eroi, quando il padre lo vide. E meravigliato questi di una tal mole del frutto, e domandando d’ onde se lo avesse : il figlio narrò dalle origini tutto il successo. Concependo colui, ciocch’ era, che fossero questi naturali preludi della divinazione nel figlio, lo condusse in città, e lo sottomise a’ maestri delie lettere. E poiché fu nelle comuni discipline istrutto quanto bastava, affidollo all’ augure più dotto fra’ Tirreni perchè Io erudisse nel suo sapere. Nevio che avea naturali lumi per la divinazione, aggiungendovi pur gli altri de’ Tirreni ; superò di gran lunga quanti erano intesi agli anspicj. Quindi nelle consultazioni sul pubblico tutti gli auguri della città v’ invitavano lui quantunque non fosse del Digitized by Google 3i2 delle Antichità’ romane ceto loro, per la reltitudiae sua nel pronosticare, ti cosa mai vaticinavano, se non ' approvata da lui. Ora volendo Tarquinio creare tre nove centurie  di cavalieri da lui scelti, ed intitolarle dal nome suo e degli amici, questo Nevio il solo magnanimamente gli resisti, non permettendo che alcuna si alterasse delle istituzioni di Romolo. Disgustato per la proibizione il sovrano, e sdegnato con Nevio diedesi a vilipenderne 1’ arte come di nn vano nè veridico parlatore. Con tale intendimento chiamò Nevio nel suo tribunale essendovi moltissimi presenti del Foro.. Egli avea già divisato con qnei che lo circondavano i modi onde convincere l’aagure di menzogna: e lacendosegli questo dinanzi lo accolse con degnevoli salutazioni : ed ora, disse, o Nevio è il tempo di mostrare il potere delf arie tua divinatoria. Siccome io macchino di pormi ad una gran cosa ; vorrei per f arte tua risapere se possa riuscirmi. Or va : consultane co' riti tuoi, o toma il più presto per dirmene : io qui su questa sede ti aspetto. Esegui l’ augure i comandi, e dopo non molto tornò dicendo che propizj erano gli auspicj, e fattibile £ intento di lui. Diè Tarquinio in un riso a tali voci, e cavando dal seno una cote ed un rasojo gli disse: ora ben apparisce o Nevio che tu mi deludi, deluso che se’ manifestamente dagl Iddii, dacché ardisci anrutnziarmi possibili, le impossibili cose : per Nel testo ^vXmt tribù : ma i chiaro che parlandosi di cavalieri non debba pensarsi a tribù : Forse vi ò qualche sbaglio. Gli altri storici in questo luogo chiamano centurie quelle che Dionigi chiama tribù ciocché io meditava se potessi col rasojo fendere questa cote per mezzo : ridevano tutti d’ intorno, e Nevio niente commosso dalla beffa e dallo strepito : ferisci, disse, o Tarquinio animosamente come ideavi la cote: perciocché ne sarà divisa, e se no ; mi ti offero ad ogni pena. Sorpreso il re della confidenza dell’augure mena il rasojo su la cote, e l’ acume del ferro ne penetra r interno e dividela, incidendo anche in parte la mano che la teneva. Esclamarono per la novità quanti contemplavano la incredil.'ile e meravigliosissima cosa. Tarquinio vergognatosi del cimento dato a quell’ arte, c voglioso di emendare la indecenza de’ vilipendj ^ primieramente cessò da que’ suoi tentativi su 1’ ampliar le centurie ; poi risoluto di onorare Nevio come il più caro di tutti i mortali ai celesti, obbligosselo con pegni vari e copiosi di benevolenza ; e perchè la memoria se ne perpetuasse tra’ posteri collocò la statua di lui, fabbricala in rame, nel Foro : e questa, più picciola di nn uomo mezzano, e velata il capo, esisteva pur nel mio tempo dinanzi la curia, da presso del fico sacro. Dicesi che poco lungi del fico sia la cote sepolta ed il rasojo sotto di un’ ara sotterranea ; e quel luogo chiamasi il pozzo da’ Romani. Tali sono i ricordi che si hanno su questo indovino. Tarquinio ornai chetavasi dalla guerra, vecchio già di ottanta anni ; quando mori tra gl’ inganni de’ figli di Anco Marzio. Aveano questi macchinato fin da principio di balzarlo dal trono, e più volte vi si erano adoperali su la speranza che, balzatone lui, diverrebbe di loro come trono un tempo del padre, e die (li leggieri ad essi darebbonlo i cittadini. Delusi via via dalla speranza gli ordirono alfine insidie insuperabili che gii Dei non permisero che restassero impninite. Io narrerò la forma delle insidie. Quel Nevio del quale io dissi che erasi opposto al re che volea di meno far più le centurie, questi (piando più per le arti sue Boriva, quando potea sopra tutti i Romani come augure nobilissimo, allora sia per invidia degli emuli, sia per insidie de’ nemici, sia per altra sciagura, spari di subito da’ mortali ; nè alcuno potè de’ congiunti indovinare il destino di lui, nè più trovarne il cadavere. Addoloratone il popolo, e mal sopportando il suo danno, e molto sospettando di molti; i figli di Marzio ne ristrinsero su Tarquinio l’ accasa. E non potendo allegare argomenti e non segni della calunnia ; insisterono su queste due ombre di ragione. Era la prima, che volea Tarcpiinio far molti e gravi attentati contro le pubbliche norme ; e che però si era tolto d’ intorno chi sarebbe •per contrapporsegli come per l’addietro : la seconda era poi, perchè succeduto tanto infortunio non aveane fatta niuna ricerca, ma trasandavalo in tutto : nè avrebbe mai cosi praticato chi non era tra’ complici. E fattosi col dispensare de’ loro beni, gran seguito di patrizj e di plebei diedero gravissima accusa a Tarquinio, e stimolarono il popolo a non trascurare un tanto scellerato che stendea le mani su le sante cose, e la regia autorità contaminava ; molto più che egli non era un romano, ma un estero, anzi uno senza patria. Tali cose dicendo nel Foro uomini ; autorevoli nè infacondi ; concitarono molti plebei perchè lo rispingessero se venivaci come impuro da quel luogo. Ora cosi fecero, perchè nè poleano combattere la verità nè persuadere al popolo che dal trono il cacciassero. Se non che dissipando lui con difesa validissima le incolpaeioni, e Tullio il genero suo, potentissimo tra la moltitudine, risvegliando verso lui la tenerezza de Romani ; furono quelli avuti per calunniatori e scellerati, e carichi di vergogna partirono dal Foro. Sconciati in tal tentativo, ma tuttavia per> donati per opera degli amici, perchè Tarquinio contenevasi a fronte di tanta perfidia in vista de’benefizj pa gravidasse, e ne partorisse poi Tullio. Certamente non par la novella affatto credibile : pur la rende inverisimile meno un tal altro segno divino inopinato e meraviglioso intorno di quest’ uomo. Imperocché sedendosi un' tempo egli di mezzodì nella regia camera, e presovi dal sonno ; una fiamma gli usci balenando dal capo. Videro questa la madre di esso e la regia consorte, che per la camera passeggiavano, e quanti erano presenti alle donne : e luminosa gli si tenne intorno intorno del capo finché accorsa la madre riscosselo. Allora insieme c ciansi nemmeno le picciolo ingiustizie, e solleverai li poveri co’ benefizj, e co’ doni ; e quando ne parrà tempo, (diora diremo che Tarquìnio è morto ; allora gli daremo pubblica sepoltura. O Tullio ! tu nudrilo, tu educalo, tu renduto partecipe da noi di tanti beni quanti ne derivano i figli da padri e deUle madri, tu congiunto alla nostra figliuola, tu se mai divieni, o Tullio, re de’ Romani, è giusto che almeno in riguardo mio la quale tanto in ciò ti coadjuvai, presenti la benevolenza di un padre verso questi teneri fanciuU letti : e che quando siano già grandi, quando già bastanti a regnare, tu renda (diora al primogenito la corona di Roma. V. Così dicendo diede' 1’ uno e 1’ altro fanciullo in braccio alia 6glia ed a! genero : e risvegliò tenera compassione verso di ambedue ; poi quando ne fu tempo, uscita di camera impose ai domestici che assistessero, come richiedeasi, per la cura, e convocassero i medici. Lasciala passare la notte, siccome nel giorno appresso accorse gran turba alia reggia ; ella si fe’ vedere alle finestre che rispondono alla via dinanzi dell atrio : e su le prime scoperse quelli che aveano congiurata la morte del sovrano, e quindi presentò tra le catene i sicai'j mandati per compierla : e quando vide il popolo in pianto per la sciagura, quando videlo fremere contro de’ malvagi ; alfine gli disse, che pur non era la perfida trama riuscita, e che potuto non avevano trucidare Tar quinio. Confortavansi tutti all’ annunzio ; quando ella mostra in Tullio il personaggio eletto dal re, finché guariscasi, per curare le private sue cose, e le pubbliche. Adunque andossene il popolo, lieto come se il re non avesse niente patito di terribile, e gran tempo si rimase con questo concetto. Tullio cinto da’ regj littori marciò con valida schiera al Foro, e fece pe’ banditori intimare che venissero i Marzj al giudizio. E siccome questi non ascoltarono ; ne proclamò 1’ esilio perpetuo, ne confiscò li beni ; e cosi tenne sicuro lo scettro di Tarquinio. Ma sospendendo alquanto la narrazione, vo’ dir le cause per le quali io nè con Fabio consento nè con quanti scrivono che i fanciulletti lasciati da Tarquinio eran suoi figli ; perchè se altri si avviene in quei scritti non creda che io improvvisi quando non figli li chiamo, ma nipoti. Essi divulgarono ciò su que’ garzoncelli, ma per' negligenza ; niente considerando gli assurdi eie im cuni Storici Romani levarli con altri assurdi, e dissero che non era già madre de’ fanciulli Tanaquilla ma Gegania, una donna, di cui nulla additarono le istorie. Ma in tal caso riesce improprio il matrimonio di Tar> quinio nella età quasi di ottanta anni, e certo inverisimile riesce in quella età la generazione di figli. Nè già egli era mancante di prole ; tanto che ne languisse pei desiderio : ma egli avea due figliuole e queste già maritate. In forza di tali assurdi e di tali impossibilità dico che que’ fanciulli non eran figli ma nipoti di Tacquinio ; nel che sieguo Lucio Pisene, uomo savio, e funii co che ciò scriva ne’ suoi annali. Ma forse eran questi, nipoti a Tarquinio per nascita, e figli per adozione, e forse fu questa la origine dell’ abbaglio di tutti gli Storici delle cose Romane. Or dopo un tal prologo egli è tempo di ripigliare la narrazione. Vili. Poiché Tullio prese le redini del ^ornando, e dileguata la fazione de’ Marzj, giudicò di averselo consolidato ; fe’ con magnifica pompa trasportare Tarquinio, come spirato alfine per le ferite ; condeoorandolo di un cospicuo monumento e di altri onori : e tutore essendo de’ regi fanciulli ; e curò e guardò fin d’ allora le privale loro cosce le pubbliche. Non andavano tai fatti a grado de’ patrizj, ma doleansi e sdegnavansi, mal soffiando eh’ egli a sé stabilisse il regio potere senza le  Addì, di Roma sec. Catone, 179 scc. Varrooe : e 577 avanti Cristo] forme prescritte dalle leggi. E riunendosi più volte i più potenti, trattavano fra loro de’ mezzi onde abbattere TiU legittimo governo. Ora parve ad essi, come fossero la prima volta adunati, per tenere il Senato, da Tallio di violentarlo a lasciare i littori e le altre insegne del comando ; e fatto ciò di nominare gl’ interré da’ quali si scegliesse regolarmente chi dominasse. Tallio, risaputo il disegno, si diede a favorire il popolo, c soccorrerne i poveri, sperando coll’ opera sua di ritenere r impero. £ chiamata la moltitudine a concinne, presentò dinanzi la ringhiera i fanciulli ; e poi disse : IX. Molle cause o cittadini ihi astrinsero a prender cura di questi teneri garzoncelli. Perciocché Tarquinio l m>olo loro accolse e curò me privo di padre e di patria, nè fecemi punto meno che a un figlio; ma diedemi la sua Jìgliuola in isposa, e mi amò finché visse, e mi onorò sempre, come sapete, quasi fossi da lui generato : e poiché fu colto dalle insidie egli affidatami in caso di morte la cura de' fanciullettì. Ora e chi mi stimerebbe pietoso verso gl Iddf, chi giusto verso gli uomini, se io trascurassi e tradissi questi oifani a quali tanto io sono debitore? Ma nè io tradirò la mia fede, né darò per quanto è da me, 1 ultimo abbandono, a fanciulli già derelitti. Ben è giusto che ricordiate voi li benefizj che l avolo suo dispensava su voi quando a voi subordinava tante città Latine emide del vostro principato, quando vi umiliava i Tirreni i pià potenti tra tutti i vicini, e quando neces^ sitava al vostro giogo i Sabini ; procurandovi ognuna di tali cose in mezzo a grandi pericoli. Speltavasi a voi per tanta sua beneficenza di essere grati a lui finché visse, e di esserlo dopo la morte in verso dei posteri -suoi, e non già di seppellire coi cadaveri dei benefattóri la memoria ancora delle opere. Pensatevi dunque tutti eletti custodi de’ fanciulli, reusicurate per essi il regnò che t avo ad essi lasciava. Già non tanto benerisentiranno essi dalle cure di me che son uno, quanto ‘dal soccorso, comune di voi tutti. Io mi vedo necessitato a dir questo ; sentendo che > alcurù commovonsi contro loro, e vogliono dare ad altri il co mandò. Io vi. supplico o Romani, che memori ancora siate de' combattimenti che .io feci pel vostro princù pato, i quali np pochi sono nè piccoli. Ma ben sa^ pendolo voi, non occorre che altro io vi dica, se non che rivolgiafe su questi fanciulli gli obblighi che me ne avete. Imperocché non io per me fabbrico il prir^ cipato : nè se io mel cercassi, ne era già meno degno degli altri; piacemi solamente amministrare il comune in sussidio della stirpe di Tarquinio. Io vi raccomando che non vogliate ahbtmdonare a sé stessi questi farin ciuUi ora che il regno ne pericola : sarebbero anche espulsi da Poma, sé fauste riuscissero le prime mosse ai nemici. Ma non debbo io più dilungarmi su ciò, mentre sapete voi quello che dee farsi, anzi siete per fare quanto conviene.. Ora udite il bene, che io a voi apparecchio, e pel quale qui vi adunai. Quanti a debiti saziacele nè potete levarvene per la indigenza,, tutti sarete da me soccorsi come cittadini, e come già tanto affaticati, in servigio della patria; pert;hè voi che avete fondata la libertà di lei, la vostra non perdiate : io porgerò del mio danaro onde i debiti estinguiate. Inoltre quanti torranno ad imprestilo io non più soffrirò che sieno imprigionati per debito : ma porrò per legge che niuno dia de' prestiti assicurandoli su la persona di uomini liberi, mentre io penso che basti agli Usuraj di rivalersi su bèni de' contraenti. E perchè da 'ora in poi sosteniate più di leggeri il tributo pubblico, pel quale i poveri sono gravati, e ridotti a far debito ; comanderò che si registrino tutti i beni, e che ciascuno dia secondo l' aver suo, come odo che si pratica rtelle città più grandi e meglio ordinate ; mentre ancK. io credo più giusto e più vantaggioso al Comune che chi più possiede più paghi, e meno chi meno, Piacemi inoltre che il terreno pubblico f quello che avete corsquislato colle Urrtse > non sia come ora de più impudenti, nè che per compera ve lo abbiate, nè indarno: ma che quelli se lo abbiano infra voi che privi sono di terre : perchè voi liberi essendo non serviate, nè coltiviate le campagne altrui, ma le pròprie ; imperocché già non allignano generosi pensièri' ov’è disagio del vitto quotidiano. Soprattutto ho deliberalo render pari e fàcile il governo per tutti, e dàce a tutti eguale azione contro chiunque; perciocché sono alcuni venuti in tanta baldanza che oltraggiano il popolo, nè. liberi stimano i poveri fra voi. Ora perchè i più grandi nemmeno che gl’ infimi esigano' e Soffrano il giusto;, io farò leggi proibitive della violenza, e lonservOtrici dei diritti lomuni: nè mai lascciò di provvedere a questa libera procedura di lutti conlto tutti. Sorsero, lui cosi dicendo, grandi elogj tra la moloi gli esuli, e di ceden’i ai figli di Marzio, a quelH che vi lumno ucciso Tarquinio, quel re si buono, e sì amico di Roma, a quelli che macchiatisi in tanta scelleraggine, non osando risponderne in giudizio, si tolsero a voi colla fuga, a quelli in fine a quaU avete voi t acqua interdetta ed il fuoco. E se ben tosto non vòlavane a me t avviso, tali patrizj eccitando una forza straniera, avrebbero di bel nuovo introdotto nel cuor della notte i fuorusciti in Roma. Ben vedete voi quantunque io le taccia, le seguile, come i Marzj favoriti da' patrizj sarebbonsi impadroniti senza fatica di tutto, atsalendo primieramente me che il custode sono della regia prole, me che t autore fui del giudizio contro di loro, e spegnendo finalmente i regj fanciulli, e tutti I consanguinei, e tutti gli amici, quanti ve ne restano, di Tarquinio. Misere le nostri ritogli, le nostre madri, le nostre figlie, e misere le femmine tra noi! le avrebbero que' ribaldi ( tanta lumno di brutale e di tirannico ! ) terwie in' conto di schiave. Ora se tanto o popolani piace a voi pure, che qua si riammettano, anzi che re si proclamino i parricidi, e che i figli se rie scaccino de’ vostri benefattori, e dal trotto . tolgano che V avo ad essi lasciava ; se tanto, dico, a voi piace ; io mi cheto su destini. Ma deh ! per gli Iddj, deh / pe’ genj tutti, quanti le mortali cose riguardano ( e noi colle nostre donne, noi co’ nostri figli supplichiamo voi pe’ tanti benefizj ancora che Tar quinio su voi spondeo perpetuamente, e pe’ tanti, eh’ io stesso vi procurava ), deh ! coruredeteci questo dono ; manifestateci i vostri voleri una volta. Se voi credete altri più degni di noi di tale onore ; questi fanciulli f e tutto il parentado di Tarquinio, partiranHo, abbandoneranno la vostra città. Io poi ben altri più generosi consigli ho per me ! Ahbcatanza vissi alla virtù, abbastanza alla gloria : mancatami la vostra be^ nevolenza, quella che io pregiava più che tutti i beni, già non voglio io vivere indecorosamente presso di abtri. Prendete i vostri fasci, dateli, se così piacevi, ai patrizj. Io mel vedrò, -nè mi oppongo. Cosi dicendo, e già standosi in atto di ritirarsi sorse un clamor vivo per tatto, nn pregare, an piangere, perchè restasse, e governasse nè temesse. Allora alcuni, sparsi ad arte qua e là pel Foro, gridarono che si creasse re, che si convocassero le curie, e sen chiedessero i voti. Così preordinato T evento; ben tosto il popolo tutto vi propendè. Tallio ciò vedendo non trascurava la occasione: ma professandosi ad essi obbligatissimo che memori fossero de’ benefizj, e promettendone più ancora se re lo creasseró ; prescrisse il gionu> de’ comizj ; ordinando che v’intervenissero lutti dalla campagna. Accorso il popolo ; egli chiamando una per una le curie consegnava ad esse i lor voti. E giudicato da tutte le curie degno del trono ; vi ascese. : nè curò del Senato che non volle come solea ratificare la scelta del popolo. Cosi re divenuto fondò molte altre istituzioni, e fece grande e memorabile guerra co’ Tirreni. Io dirò prima delle istituzioni. Appena strinse lo scettro comparti tra’ mercenarj Romani le terre del comune : poi fe’ comprovare le leggi su i contralti e su le ingiustizie dalle curie, estese ^illora a cinquanta, quantunque non sia ora ciò da ricordare. Aggiunse a Ronia il Viminale, e l’Esquilino due colli, cosi nominati, capaci T uno e 1’ altro di nna città liguardevole, dispensandoli parte a parte ai Romani privi di case, perché ivi se le fabbricassero ; anzi egli stesso ivi ediCcò la sua nel sito più idoneo delle Elsquilie, Fu questo 1’ uhimo re che ampliò il circuito, della città, congiungendo ai cinque gli altri due colli, dopo avere presi gli aiigurj e compiute le usate pie cerimonie inverso gl' Iddj. Non poi la citti mise mai più da largo le sue mura ; non avendolo, come dicono, permesso i destini : ma tutti intorno i sobborghi che pur sono molti e grandi, si resuno so>perti, non chiusi da mura, ed espostissimi, se nemico mai sopravvengavi. Che se alcuno mirando a questi, voglia la grandezza racco-r glierne di Roma ; egli errerà certamente : perocché noo avrà nino certo seguo, dal quale discernere fin dove la città si oontinua o dove si termina. Cosi bene que’ sobborghi al fabbricato inleroo si congiungono, che presentano a chi li contempla la immagine come di una città che stendesi all’ iii6nito. Ma se taluno prendendo regola dalle mura, certamente malagevoli a distinguersi per le molte case fabbricatevi intorno, ma che pur sevv bano via via de’ vestigj dell' aulica loro struttura voglia risaperne il circuito in ristretto dei circuito di Alene; vedrà che il ricinto di Roma non molto eccede quello di Atene. Ma quanto alla grandezza e bellezza che Rpma presenta a miei giorni ; avremo appresso luogo più acconcio a discorrerne. Poiché Tullio comprese entro un giro solo di oiura i sette coili ; divise la città in quattro parti ; de-' nominandole da que’ colli, 1’ una Palatina ^ l’ altra Siiburrana, la terza Collina, e 1 ultima Esquilina. Cosi distese a quattro le tribù che erau tre sole. Intimò poi che chiunque abitava 1’ una delle quattro parti, quasi paesano di quella nè portasse in altra il suo domicìlio, nè in altra desse il nome suo pe' cataloglù militari, nè il tributo per le spese della guerra : in somma che noi^ rendesse in altra i servigi che doveansi pel comune; nè più ordinò le milizie secondo le tre tribù disposte come prima per genti  ma secondo le quattro da lui create e compartite ne’varj luoghi ; destinando per ciascuna un capo qual sarebbe un tribuno o prefetto, il quale dor vesse conoscere il domicilio di ognuno. Quindi ordinò che in ogni quadrivio si facessero da’ vicini picciole sacre cappelle agli Dei lari custodi della contrada, istituendo per legge che ogni anno si onorassero di aagrifizj, e che ciascuna famiglia porgesse loro le obbla-zioni sue : comandò che assistessero e ministrassero à chi facea tal sagri6zio non gl’ ingenui ma i sèrvi ; dilettandosi quegl’ Idd) del ministero di questi. Continuano i Romani pur nel mio tempo pochi giorni dopo de’Sa tumali tal festa, veneranda in tutto e magniBca, e detta compitale da’ quadrivi che compiti da .loro si chiamano.  Romolo fece ire tribù eecondo te diverse genti : erano la tribù, la prima Ramnentù dei Romani posti ad abitare nel Palatino, la seconda TatUnsU da Tasio, ebbe il monte Capitolluq, e la tersa dei Luceri a luco o dal bosco dato per asilo i era degli stranieri che aveano ivi cercato nn rifugio. Col progresso del tempo siccome la gente aggregala a Roma superara il popolo primitiro ; COSI Tullio fece una nuova divisione di tribù.. a 5 Serbano nel sagrifìzio 1’ anticx) rito, placaodo gl Iddj Lari con intrametlervi i servi, a’ quali tolgono in quei giorni quanto tien forma di servile; perchè riconfortati da tali dolci maniere ove è misto del grande e dell’ono, riGco sì affezionino più vivamente ai padroni e men sen> tano il peso della loro condizione. Inoltre, come Fabio scrive, divise tntla la campagna io ventisei parti, chiamandole tribù parimente : e congiunte queste alle quattro urbane se ne ebbero trenta inAutte : ma Yenonio dice che se ne ebbero trentuna : laddove Catone ben più autorevole di essi (,) afferma che le tribù ne’ tempi di Tullio furon tutte, non però distinguene il numero. Tullio dunque secondo gli atupizj divisa la campagna in tante parti, quante mai furono, apparecchiò su luoghi montuosi e fortissimi degli asih\ chiamandoli pagos con greco nome o castelii, onde renderne salvi i coloni. Imperocché .quivi tutti si rifuggivano ndle irruzioni de’ nemici, e quivi spessissimo pernottavano. Ci aveano in questi de’ presidi incaricati di conoscere i nomi de’ coloni, contiihnenti a quel borgo, e li poderi su quali viveano. E se mai portava il bisogno di convocare que’ contadini per le arme, o di esigere da ciascuno le lasse ; questi li congregavano, o ne raccoglievano le somme. £ perchè la moltitudine non fosse difGcile a trovarsi, ma facile a descriversi e palese; fece erigere degli altari ai Numi contemplatori e custodi del luogo, perché quella ogni anno vi si riunisse e ve gli onorasse con pubblici sacri Gzj, istituendo  Di Fabio • di Venonio.  tal (ine la festa soleanissima delta dei viUagi ."^Anzi intorno a tali sagrifizj scrisse leggi che i Romani ser bano ancora. Per tal sagriSzio, per tal celebrità volle cbe contribuissero tulli una data moneta, altra però gli uomini, altra le donne, ed alu'a gl’ impuberi : talché numerandosi queste dai, presidi delle sante cose rilevavasi il totale degl’ individui secondo il sesso e la. 6tà. E volendo, come scrive Lucio Pisone nel primo degli annali, conoscere quanti erano domiciliati in Roma, quanti vi nasceano o vi morivano, o toccavano  la età virile; stabili qual moneta dovessero i parenti vergare per ognun che nasceva nell’ erario di Eileitia, detta dai Romani Giunone Lucifera, o in quello che chiamano di Venere Libitina, là nel bosco, per ognun che moriva, o in quello della Dea Gioventù per ognuno che alla virile età perveniva. Da queste monete intendeasi ogni anno quanti erano in tutto, e quanti aveano idoneità militare. Ciò fatto diede ordine, che i Romani. registrassero, apprezzandoli inargento, i lor beni, e giurando di apprezzarli come dee 1’ uomo candido e buono t e che insieme dichiarassero quanta era la età loro, quali i padri loro, le mogli, ed i figli ; aggiungendovi dove in città soggiornassero, o in quale de’ villaggi d^Ho campagna ; e chi non &cea pari stima era in pena spogliato de’ beni, flagellato e Venduto. Dorò questa legge lungo tempo tra Romani. XVI. Cosi prese da tutti 'le stime, e rilevatone il numero di essi, e la grandezza de’ beni loro introdusse (l) Ciut Paganaliu. una instituzione savissima che fu poi larga fonte di beat a’ Romani, come il fatto stesso Io dimostrò. La islit zione fu di segregare dal resto del popolo quei che aveano sostanze più grandi non però minori di cento mine, e di ordinarli in ottanta centurie , le quali, armandosi, portassero scudo argolico, elmo di bronzo, corazza, stivali, asta e spada. Poi separandole tutte in due parti formò quaranta centurie di giovani per le spe> dizioni in campo aperto, e quaranta de’ più adulti, le quali in città si restassero per custodirla quando le altre uscivano per la guerra. E questa era la milizia, prima di ordine ; per altro i giovani aveano sempre il primo luogo onde proteggere tutta l’armata. Dal residuo quindi del popolo segiegò quelli ancora che aveano meno di cento mine non però più scarse di settantacinque, compar lendoli in venti centurie che portassero arme, simili a quelle de’ primi, toltane la corazza e dato ad essi lo scudo lungo in luogo dell’ argolico (u). E dividendo quelli di oltre quarantacinque anni dagli altri che aveano età militare formò dieci centurie di giovani, le quali an Nel Cesto Xt^gn: questa roce k ambigua: può sigaificare centuria, manipolo, coorte. Il traduttore latino la interpreta per centuria : e questa pare la nozioue piti acconcia : ma deve riflettersi che cengia: vai quanto compagnia di cento, laddove in questo luogo non significa cento esattamente ; ansi ne] paragrafo iS di questo libro significa ben altro che cento. Tra I LATINI ci ebbe io Cfypeut e lo tculuni. Il primo era detto cevrir da’ Greci, ed il secondo Bv/if i il primo era più breve e sièrico, l’altro piò lungo. La nostra lingua, come di un popolo che più non usa quelle armi non ba forse parole ben disliute o note pet indicare la doppia forma. Targa, Rotella o Broccbiero può forse dirsi il C/fpeus, e scudo è voce generica di ogni sorta di quelle armi. Digitìzed by Google a8 DELis Antichità’ romane dassero in guerra per la patria,  dieci di anziani che in gtiardia rimanessero delie mura. Era questa la milizia, seconda di ordine, e prendea luogo dopo de' primi nella battaglia. Una terza ne fece di quelli che aveano meno di settantacinque mine non però sotto le cinquanta; ma ne minorò T armatura non solo delle corazze come alla seconda; ma de’ stivali ancora. Descrisse pur questi in venti centurie dividendoli parimente secondo 1’ età, talché se ne avessero dieci de’ più gióvani, e dieci de’ più maturi. Era il luogo loro nelle battaglie appunto dopo quelli che seguivano i primi. XVII. Trasse un quart’ ordine di soldati da quelli che avean meno di cinquanta, e non meno mai di venticinque mine; disponendolo in venti centurie, dieci dei floridi, dieci de’ provetti per anni, come avea fletto cogli altri ; e dando loro per arme scudi, aste, e spade, e r ultimo posto nelle battaglie. Reclutò la quinta milizia da quelli che avean meno di venticinque mine, non però meno di dodici e. mezzo, acconciandola kcondo gii anni di ognuno in trenta centurie, quindici de’ più avanzati, e quindici de’ più giovani. Diè loro strali e Sonde, ma luogo fuori deli’ esercito, Uiesso in battaglia. Comandò che quattro centurie allatto inermi accompagnassero tutte le altre : cioè due di annajuoli, di falegnami, e di altri per altro militare lavoro, e due di sonatori di trombe e timpani e di altri stromenti pe’ bellici segni. Ma gli arteflci seguitavano la miUzia dà second’ ordine : e distinti anch essi per età, quali se. guitavano le bande de’ giovani, e quali degli anziani. I^addove i sonatori di trombe e di timpani lenean dietro alla miUzia quarta di ordine ; distribuiti anch’ eglino in giovani e vecchi. Erano li centurioni tmcelti fra' tutti li più insigni nelle arme; e reggea' ciascuno la sua centuria docilissima ai cenni. Tale era il metodo onde avessi la soldatesca legionaria e leggera. Scelse poi la cavallerìa dai più facoltosi, e più cospicui di lignaggio, e formatene diciotto centurie le dié compagne alle prime ottanta centurie de’ legionarj. Erano pur di queste diciolto, chiarissimi lì centnrioni. Finalmente ridusse ad una centuria gli altri tutti, ben più numerosi de’ primi che aveano men che dodici mine e mezzo, e gli escluse dalla milizia e li rese immuni da ogni tributo. Cosi risuitaron sei ordini che i Romani dicono classi denominandoli con greca parola : imperocché quello che noi significhiamo colla voce imperativa colei ( chiama ) lo significan essi coll’altra cala (>) ed anticamente caleseis pronunziavano in vece di classi. Comprendeano queste classi cento novanutrè centurie. Formavano la prima Bovantotto centurie compresevi quelle de' cavalieri : ventidue cogli artefici la seconda : venti la terza : di nuovo ventidue co’ sonatori di trombe e di timpani la quarta ; trenta la quinta : ed era dopo queste una centuria uuica la classe de’ poveri (a).  Calo catas tt antico veibo latino por chiamare j donde pur cbbesi la noce Calerule. (a) Classe prima. 9S -seconda aa ' tersa. ao quarta aa quinta 3 o sesta. Introdotto un tale sistema, iatimava i soldati per la guerra secondo le centurie, e li tributi secondo li beni. Quante volte a lui bisognassero dieci o ventimila soldati ; avendo distinta la moltitndine in cento novantatrè centurie, imponea ebe desse ognuna la sua parte. Calcolando, le spese da farsi pe’ frumenti e per gli bisogni di guerra ; egli stesso le compartiva secondo gli averi di ognuna tra le centurie, ordinate in cento novantatrè. Seguitò da questo ebe i possidenti piò grandi essendo minori di numero ma divisi io più centurie fossero sensa requie astretti a più guet're, e vi contribuissero danaro più ohe altri : laddove i possidenti mezxani e piccioli quantunque più numerosi, ridotti in meno centurie, non combatteano che alternativamente e di raro, né pagavano se non leggeri tributi ; e quelli che non possedeano quanto rìchiedevasi, erano intatti da ogni molestia. Nè ciò facea senza causa ; ma persuaso che gli averi sono per 1 uomo il premio della guerra,. e ohe ciascuno travaglia per difenderseli ; riputò giusta cosa, ohe chi pericola su più beni, più ancora al pericolo si opponga colla robba e colla persona : che men di molestia risenta in ambedue chi men perderebbe: e finalmente che chi non teme per cosa ninna non sia nemmeno in cosa alcuna aggravato, immune da’ tributi perchè bisognoso, e libero dalla guerra perchè libero da’ tributi. Imperocché li soldati Romani militavano allora, ciascuno a spese sue non lo stipendio riceveano dal pubblico ; nè pensava altronde che avesse a contribuire chi non aveane i mezzi e stentava il vitto quotidiano : nè che colui che non contribuiva militasse a spese altrui qual mercenario. G)sl rivolse Ai più ticchi tatto il carico de’ pe ricoli e delle spese : vedendo però che sen disgustavano^ nè raddolcì per altro modo il mal contento, e ne rat temperò lo sdegno, concedendo ad ewi tal prerogativa per cui gli arbitri sarebbero del pubblico esclusine i poveri. Nè comprese il popolo di ciò che facessi le con srguenze. Era la prerogativa ne’ comitj, ove dai popolo risolveansi. le cose le più gravi. Ho già detto di sopra come il popolo secondò le antiche l^gi era 1’ arbitro di tre cose grandissime e necessarissime : cioè di eieg> gere i suoi capi in città e nel campo, di ammettere o di abrogare le leggi, e di conchiudere la guerra o la pace.' E tali cose discuteva, e decidevate il popolo per curie, parrggiandovisi il voto del grande a quello del picciolo possidente. ^ E siccome pochi, come avviene, erano i facoltosi ; ma più assai li poveri; cosi preva leano questi ne’ comlej. Tullio ciò vedendo trasferì nei ricchi la prepotenza de’ voti. Imperocché quando pare vagli di' far creare i Magistrati o discutere le leggi, o Conchiudere la guerra teneva i comizj non più per ci^ rie, ma secondo le centurie anzidette. E prima chia mava a dare il Suo volo le centurie di maggior possi densa le quali èrano ottanta di fanti e diciotto di cavalieri. Or' queste più numerose che le altre di Un tre  quando fossero unanimi, superavano le altre ; e la di scussione avea fine. Che se non si univano queste in uu parere ; invitava allora le ventidue scritte nel se coud’ ordine., £ se i voti sciudcvansi ancora ; soprac  Erauo noTanioUo, e le altre tutte novauUoinijue. cbianuva le centarie di terz’ ordine : iodi quelle del quarto, e cosi via via, finché novantasette centurie si trovassera consentanee. Che se ciò non ottenessi neppure colla quinta, chiamata, ma le cento novantadue centurie si contrapponeano con parti eguali.; invitava allora 1’ ultima centuria che era de’ bisognosi, e però libera dai tributi e dalla milizia. E qualunque fosse la parte alla quale accostavasi questa centuria ; quella preponderava. Ma ciò era ben raro a succedere, per non dire impossibile ; mentre il più delle discussioni termi navasi col chiamar de’ primi ordini senza procedere al quarto. Doud’ è che l’ invito de’ quinti e degli ultimi superduo riusciva. Istituendo tal sistema e tal prerogativa inverso de’ ricchi, Tullio deluse, come ho detto i poveri ; né sei conobbero, e furono esclusi dalle cariche. Immaginavano questi che essendo richiesti un per uno a dare il suo voto, ciascuno nella sua centuria, avessero egual parte nel tutto : ma s’ ingannavano : perchè uno era il voto della intera centuria, e qual centuria conteuea. men cittadini e quale più i^sai ; e perchè prime votavano le centurie più ricche, più numerose per serie, quantunque con men cittadini. Aggiungi che un solo era il voto de’ bisognosi, quantunque fossero i molti ; ed aggiungi che ultimi si chiamavano. Per tal metodo i ricchi, quatunque assai soggiacessero a spese, né avessero mai requie da’ perìcoli della guerra, men sentivano il  Erano le centurie senza l’ultima 193. numero la cui metà è 96. Affinchè dunque vi, fusse preponderanza doveva un parlilo nascere almeno da 97 e I' alito da 96 ocniutia.peso ; perchè erano gli ariìitri divenuti di gravissime cose, ed aveano tolto agli altri tutto il potere. Altronde i poveri se non aveano che la minima parte nelle pabbliche cure sei comportavano placidi e ebeti, perchè liberi dai tributi e dalla guerra. Dond è che que’ medesimi i quali consigliavano ciocché era da fare ; quegli appunto se ne mettevano ai pericoli ed alle opere. Durò tal sistema per molte età tra’ Romani. Ma ne’ tempi miei fu variato, e renduto più popolare per forza di grandi necessità, non perché le centurie fossero disciotte ; ma perchè non più serbavasi 1 antica diligenza nel chiamarle; come io stesso, presente più volte ai comizj, ho veduto.: ma non è questo il tempo conveniente a parlar di ciò. Tullio data cosi regola al censo, comandò che tutti i cittadini andassero colie armi al campo più grande dinanzi Roma : e là, messi in squadre i cavalieri, ordinati li fanti in battaglia, e ridotti i soldati leggeri, ciascuno nelle proprie centurie ; li espiò con un toro, un ariete ed un capro. Egli fatte condurre prima tre volte le vittime intorno dell’ esercito le sagri Beò poscia a Marte, Nome sovrano di quel luogo. Anche a miei giorni vengono i Romani purificati con egual cerimonia, che essi chiamano lustro, dopo &tto il censo, da que’ che n’ esercitano' il magistrato santissimo. Come rilevasi da’ libri de’ censori, il, catalogo de’ Romani che si registrarono ascese allora ad ottantaqnattro mila settecento. Prese questo re non picciola provvidenza per ampliare le classi del popolo, ideandone de' mezzi sfnggiti a suol predecessori. Imperocché provvidero questi a far moltitudine ricevendo i forestieri e consociandoseli senza divario di natali o di sorte. Ma Tullio concedè che entrassero a parte della repubblica pur gli schiavi Fenduti liberi, se mai non volevano ripatriare. Àdon que permettendo che registrassero le loro sostanze iusieme con gii altri uomini ingenui gli ascrive fra le tribù urbane che erano quattro fra le quali ritrovasi aa cora la discendenza dai liberti, e fece che vi godessero quanto gli altri vi godeano di diritti.  Disgustandosi di questo e mal sopportandolo i Patrizj ; egli convocatane la moltitudine disse : cho meravigUctvasi primieramente de' malcontenti se credei vano che t uomo libero differisse dal servo per natura piuttosto che per la, sorte : e secondariamente se mv~ stiravano gli uomini degni di onori non dai costumi né dalle maniere, ma dalla prosperità, vedendo quanto caduca, e quanto mutabile sia la prosperità, mentre TÙuno, nemmeno de’ più felici, può dire quanto tempo gli durerà. Considerassero quante città barbare e gre^ che erano di serve divenute libere, e di libere serve. E qui condannava la grande loro incongruenza mentre rendevano liberi uomini degni di esserlo, e poscia ad essi invidiavano la cittadinanza : e consigliavali piuttosto a non liberarli, se malvagi li riputavano: ma -se ripa tavanli buoni, non li vilipendessero quantunque forestieri. Dicea, che ben era informe nè savia cosa che essi ammettessero alla loro cittadinanza tutti i forestieri, senza distinguerne la sorte, o por mente, se erano servi divenuii liberi ; e poi tenessero come indegni di tal graeia ^elli stessi che erano da loro liberati : e dicea, che essi i quali credeano più saperne che gli altri non vedeano poi le cose presenti, elementari, e piane anche ai più inetti': cioè che assai penserebbero i padroni anon rendere liberi cosi di leggeri i servi se poi doveano accomunarseli alle cose più grandi fra gli uomini : e che i 'servi assai più si studierebbero di far Fatile de’ padroni, se capivano che resi liberi sarebbero ancora cittadini di una città grande e beata ; e che ambedue questi beni Se gli avrebbero appunto dai padroni. Da ultimo fattosi a ragionare su F utile pubblico ricordava a chi io sapeva, ed a chi noi sapeva insegnava, che una città che aspiri al comando, una città che pre pansi alle grandi cose, non dee niun bene cercare quanto F aumentò del popolo, onde aver forze contro tutte le guerre, e non distruggere Ferario con assoldare gli estranei, perciò dicendo che i primi re concedevano a forestieri la cittadinanza. Che se ora adottavano la sua legge; aggiungeva che per loro via via crescerebbe una gioventù numerosa, nè sarebbero mai scarsi di soldati ; anzi che ne avrebbero abbastanza quantunque fossero astretti far guerra contro di tutti. Vi sarebbero ancora oltre le pubbliche, altra utilità non poche pe’ ricchi se lasciavano che gli schiavi renduti liberi avesser parte nelle adunanze ; mentre ne sarebbero in queste nel maggiore bisogno favoriti co’ voti o con altre decenze, e la scerebbero ne’ discendenti di essi altrettanti clienti ai posteri loro. Consentirono a tal dire i patrizj che si am> mettesse un tal uso in repubblica: e vi persevera ancora, custodito come una delle leggi sacre ed inviolabili. E poiché son venuto a tal parie di narrawoue ; parmi necessario adombrare i costami de’ Romani in que’ tempi sopra gli schiavi ; perchè niuno riprenda nè il re che tentò volgere in cittadini gli schiavi già liberi, né quei che la legge ne ammisero, quasi abbiano incautamente abolito istituzioni bellissime. Ottenevano i Romani dei schiavi per giustissime guise:' imperocché gli aveano o comperandoli dal pubblico che metteali qual preda all’ incanto, o concedendo un capitano che si appropriassero i presi in gnerra insieme con altre cosej o redimendoli da altri che gli aveano. con eguali marniere acquistati. Mé Tallio che lo introdusse, nè gli altri che lo riceverono e serbarono; tennero come vituperoso e nocivo al pubblico il costume pel quale si ridonasse la libertà e la patria da chi possedeali come schiavi, a quegli uomini che spogliati in guerra di patria e di libertà si erano utili dimostrati verso i primi che gii aveano soggiogati, o verso altri che gii avevano comperati dai primi. Ricuperavano moltissimi la libertà gratuitamente in vista deir onesto e bel procedere loro : e questo era il più onoridco mezzo onde riaversi : pochi ne sborsavano un prezzo, accozzato con legittime e caste fatiche. Non è però così di presente, ma sono le cose in tanta confusione, e cosi belle virtù de’ Romani sono invilite e bruttate; che chiunque trae danaro da crassazionl^ da sfasci, da prostituzioni o per altre ree guise, costui con tal prezzo redimesi, e diviene un Romano. Ottengono altri un tal dono dai loro padroni, divenutine i complici degli avvelenamenti, delle uccisioni, e. delle ingiustizie contro la : repubblica e contro gl’ Iddj : tal altri Digitized by Goo e de’ Veietiti, -già prime ad insorgere, e colpevoli di aver mosso le altre alla guerra co’ Romani, queste in pena le multa della campagna, coi divise in sorte tra gli ammessi di fresco alla cittadinanza di Roma. Compiate tali cose in guerra ' ed in pace, e fondati due tempj l’uno nel Foro boario, e l’altro in riva del Tevere alla Fortuna sembratagli propizia tutti i suoi giorni, e da lui chiamata Kirile come chiamasi ancora  ; alGne provetto assai per età, nè lontano ornai dal suo termine, morì tra le insidie dei genero suo e della Gglia. Io dirò di queste insidie ma ripigliandone il GIo alquanto da lungi. Avea Tullio due Gglie, nategli da Tarquinia, sposata a lui dal re Tarquinio medesimo. Divenute nubili le donzelle, cugine dal canto materno a’ nipoti di Tarquinio, diedele appunto a questi per mogli, la più grande al più grande, e la minore al minore ; cosi parendogli che meglio converrebbobo a chi le prendeva ;  Tullio fondò piò che due tempj. Fiutar, in quest. Rom. 74  Ma la fortuna ViriU fu coosccrata da Anco e non da Serrio secondo lo stesso Plutarco De Fortuna Roman, se non che per la diflbrmità de’ costami si trovò ì’ua genero e l’ altro accoppiato col sao contrario. Lucio il maggiore, baldanzoso, caparbio, tiranno per indole, ebbesi la fanciulla, savia ^ mansueta, piena di amore paterno: laddove Arunle il più tenero, mite molto per genio e tutto affabile, se ne ebbe la iniqua, e tutta ardire, e tutta odio contro del padre. Ora seguiva che movendosi ognuno a seconda del genio suo venivane ripiegato in contrae rio dalla sua donna. Ardea lo scellerato dal desiderio di balzare il suocero dalla reggia : ma intanto che a tale disegno applicavasi, erane dai voti contrariato e dal pianto della consorte. In opposito il mite sposo, fermo in cuor suo che non aveasi ad offender il suocero ma che do veasi aspettare che la natura ne consumasse la vita, ni tollerando che il fratello commettesse quella ingiustizia, era spinto in contrario dalia ribalda sua compagna, che lo istigava e garrivalo, rimproverandolo come vile. E poiché niente poteano nè le suppliche della savia donna che insinuava il suo meglio al non giusto suo sposo, nè le istigazioni della malvagia che provocava ai delitti Taomo suo, che non era temperato a commetterne; ma ciascuno seguiva l’indole sua tenendo per molesta la compagna perchè non avea desiderj uniformi ; la prima ne piangeva, ma comportava l’acerbo suo caso, quando l’altra fremevane audacissima, e cercava come togliersi dal sno camerata. Or qui levatasi di mente la scellerata, considerando quanto bene a lei si confarebbe il marito della sua germana, sei fa eh iamare, quasi per abboc carsegli di necessarie cose. E poiché fu venuto; ordinando che si rititasserò quanti eran seco per discorrere sola con solo Or su, disse, o Tarquinio posso io liberamente e senza pericolo ridire quanto medito pel bene di ambedue ? Lo celerai tu quanto sei per udire ? o vai meglio che io taccia, nè palesi V arcano' consiglio ?, £d invitandola Tarquinio à dire, e certificandola coi giuramenti, qualunque ne volesse, cbe-taóerebbe i discorsi ; ella non più contenuta dalla verecondia >neO‘ amici che abbondano, ed altre comodità copiose e grandi per imprendere. Che più, dunque t’ indugj ? u4 spetti forse il tempo che per sé stesso venga e ti dia la corona senza che pur te ne brighi ? Quando ? dopo la morte di Tullio ? Jippunto la fortuna riguarda gl’ indugj degl’ uomini, appunto la natura pon fine alle vite secondo la proporzione degli anni ! Anzi oscuro, incomprensibile è f esito delle cose mortali. Sebbene, io lo dirò pur francamente, quandi anche tu me ne chiami temeraria, una a me sembra, una la causa per la quale niente commoveti, non l’ amor degli onori non della gloria. Hai tu donna mal conforme a tuoi modi; e questa li lusinga, e t’ incanta, £ ammollisce : e da questa rendalo men che uomo diverrai finalmente un ignoto. Così pure quel marito eh’ è meco, tutto paura, e senza nulla di virile, quegli ha depresso me ch’era nata alle grandi cose, quegli ha fatto il fiore languir di bellezza che mi avvivava. Se portava il destino che tu prendessi me per moglie ed io te per marito, già non saremmo tanto tempo vivati nella ignobilità de’ privati. Che dunque non emendiamo le colpe della sorte ? che non trasmutiamo il matrimonio ? che non togli tu dalla vita cotesta tua donna ? Io sì che apparecchio per quel mio marito /’ egual trattamento. E quando, spenti questi ^ ci sarem conjugcUi y allora consulteremo con 'sicurezza sul resto, liberi già dagli ostacoli che ci conturbavano. Che so altri per cUtre cause teme la ingiustizia ; già non è da riprendersi chi tutto ardisce per dominate. Mentre Tullia cosi diceva, ne ascoltava Tai> quinio con diletto i disegni : e dando immantinente e ricevendo i pegni di fede, e le primizie dell’ empie nozze, si ritirò. Non andò guari tempo ; .e perirono p^ eguale sventura la primogenita di Tullio, ed il minor de’ Tarquinj. E qui sono astretto a far parola di nuovo di Fabio, e riprenderne la negligenza nell’esame dei tempi. Imperocché fattosi alla morte di Arante non. pecca per questo capo solo come io dinanzi dicea, che deaerivelo per figlio di Tarqninio ; ma per l’ altro ancora che narra, che mortosi Arunte fu sepolto dalla madre Tanaquilla, la quale non potea di que’ tempi più vivere. Conciossiachè giù di sopra fu dimostrato che costei numerava settantacinque anni, quando mori Tarquinio. Ora aggiungi a questi altri quarant’ anni, giacché sappiam dagli annali che Arunte mancò nell’ anno quarantesimo del regno di Tullio; e saran gli anni di Tanaquilla cento quindici. Tanto picciola nelle storie di que^ st’ uomo é la cura intorno la ricerca del vero ! Dopo ciò Tarquinio senza indugio riprese in Tullia una moglie, ricevendo lei da lei stessa, e senza che la madre approvasse, o consolidasse il padre quelle nozze. E come que’ due impurissimi, come que’ due micidiali si congiunsero, tentarono di cacciare se noi cedea di buon grado, Tullio dal trono: e teneano perciò delle conventicole, e raunavano que’ senatori che aveano cuore alieno da lui e dalie forme di un governo’ popolare, e comperavano i più bisognosi della città quei che non Bveau cura ninna della giustizia, facendo intanto tutto senza nasconderlo. Tullio vedendo ciò, ne fu contur baio, e temette di essere sorpreso da qualche infortunio. Nè dovrebbesi meno se dovesse far guerra alla figlia ed ai genero, e pigliarne vendetta come di nemiri. Adunque invitò molte volte Tarquinio a discorso in mezzo degli amici ; ora redarguendolo, ora ammonendolo ed ora esortandolo a non far contra lui mancamento. Poiché però costui non lo attendeva, e pretestava che direbbe in Senato i suoi diritti; egli stesso adunando il Senato, incominciò : Tarquinio o senatori ( e ben mi è ciò manifesto ) Tarquinio tien dei congressi; Tar~ quinio m insidia lo scettro. Io da lui voglio, presenti voi, risapere, qual privata ingiuria ha da me sostenuta, o qual vede che io ne ho fatta sul pubblico per insidiarmi. Rispondi Tarquinio, non '{infingere, di che avresti tu mai per incolparmene? È questo il Senato, ove di essere udito desideravi. E Tarquinio replicò : Breve o Tullio sarà il dir mio, ma giusto ; e però voleva io profferirlo tra questi. Tarquinio V avolo mio possedè la reggia di Roma, e molti e grandi travagli sostenne per essa. £ lui morto, io, gli debbo succedere secondo le leggi comuni de’ Greci e de Barbari. E convenivasi, come si conviene a quei che succedono agli avi, che io ne ereditassi non pur le monete, ma la reggia : e tu mi davi le une, come lasciate da esso, e mi toglievi la reggia, e già da tempo la tieni, senza averla mai ricevuta a norma delle leggi : perocché nè gl’ interré vi ti scelsero, nè i senatori mai per te davano il voto, nè assunto vi eri dacomizj legittimi come l’avo mio e come tutti i re precedenti. Tu andavi al trono,e comperando e subornando per ogni modo una turba di vagabondi e di miseri, una turba rovinata nella stima per le accuse e pe’ debiti, una turba infine niente sollecita del pubblico bene : e così andandovi nemmeno dicevi di stabilirlo per te, ma davi' le viste di custodirlo per noi orfani e pargoletti: e dichiaravi, udendolo tutti, che quando saremmo già adulti, lo renderesti a me che sono il pià grande. Se dunque volevi tu far la giustizia, quando mi consegnavi la casa, quando il danaro dell’ avo ; dovevi tu consegnarmene nommeno la reggia seguendo V esempio dei tutori onorati e dabbene, i quali ponendosi alla cura de’ regi figli, orfani de loro padi’i, rendono ad essi appena son grandi puntualmente e santamente la signoria degli antenati. Che se ancora non io semhravati idoneo a pensieri convenienti, ìiè bastante pei giovani anni a città si popolosa, dovevi almeno restituirmene il governo quando io giunsi ai treni anni che son gli anni vegeti del corpo e della mente, e ne’ quali tu mi davi la tua figlia in isposa. Avevi pur tu questa età quando prendevi la cura della nostra casa e del regno. Ti sarebbe, cosi facendo, accaduto di esserne detto pietoso e giusto, di essere il partecipe de’ miei consigli, il partecipe degli onori, e di udirmiti chiamar padre, e benefattore  e salvatore ; e con ogni bel nome, quanti ne sono destinati dagli uomini per le assioni le pià preziose ; nè io già da quarantaquattr anni sarei privo del regno, io non informe di corpo, io non disadatto di mente. E ciò stando y osi pur dimandarmi quale aggravio io ne senta, sicché io labbia per inimico, e te ne accusi? Anzi dX, Tullio, dì per qual causa non mi stimi tu degno degli onori delt avo ; dì, qual ne trovi, qual ten ^ngi buon titolo di tal mia privazione ? Non pensi forse che io sia germe puro di quella stirpe, ma intrusovi e spurio ? Come dunque tu curavi un estraneo da quella famiglia ? o come, quando ei crebbe, gliene rendevi la casa ? O pensi che io non lontano molto dai cinquant’ anni > io pur siegua ad essere un orfano ? un incapace ed moneti del pubblico ? Lascia dunque gli schemi di domande invereconde; cessa una volta di esser malvagio. Che se hai giuste cose a rispondere io, son pronto di rimetterle a questi giudici, de’ quali tu non potresti ih città rinvenirne altri migliori. Ma se di qua levandoti ricorri tu, come sempre solevi, a quella tua ligia moltitudine ; già non sarà che io mel soffra. Io qui sono appeaecchiato disputare sul giusto ; ma lo sono ugualmente per eseguirmelo, se non miascolti. Al tacere di lai ripigliando Tullio il discorso, così disse : Quanto è vero o senatori che dee t uomo aspettarsi ogtd caso pià impensato nè crederne assurdo rduno, se fn questo Tarquinia sta per levarmi dal pritKÌpato : questo Tqrquinio, else io prendea, che io salvava fanciulletto da’ nemici che lo insidiavano, che io educava e crésceva, e cresciuto, ' compiaceami di avermelo a genero, ed erede infine di tutto se io patissi umana vicenda. Ma poiché tutto mi riesce in contrario, e che ne sono ami accusato come ingiusto ; serberommi a piangere la mia sorte, rispondendo ora su miei diritti a fronte di lui. O Tarquinio, io presi la cura di voi lasciati fanciullini : nè già di voler mio, ma costrettovi dalle brighe, la presi. Imperocché si dicea che quelli ette aveano manifestamente ucciso I avolo vostro onde riprendersi il tròno, avrebbero occultamente insidiato • anche tutto il parentado : e quanti a voi per sangue si riferiscono, tutti confessano, che se quelli restavan gli arbitri del comando, non avrebbero pur seme lasciato della stirpe de’ Tarquinj. Non ci avea curar tore, non tutore ninno di voi se non una donna, la madre del vostro padre,. bisognosa ancor essa di alr tri curatori per la cadente età siui. Rimanevate vm solo a me corifidati, custode unico dell orbitade vostra, a me che ora chiami un estraneo, un che niente a voi si appartiene. Jn tali turbolenze ponendomi al comando io punii gli uccisori' deU’ avolo vostro', e ’ voi crebbi allo stato di uomini, nè avendomi prole virile, io vi eleggea ^perchè à me succedeste. E questo o Tarquinio il discarico della mia ‘cura; nè già potresti in parte alcuna imputarmene di menzogna,. Ma quanto al regno, poiché di questo mi accusi, odi come io me ìo abbia^ e le Cause per le quali non a voi lo ceda, nè ad altri. Quando io presi 11 governo, avvedutomi che mi si tramavano delle insidie, volea nelle mani riporlo del popolo. E chiamando tutti a concioAe, io già faceami a cedere il comando per cambiare con una vita di calma e senza pericoli^ la vita del comcmdare, la quale è piena di invidia, e sparsa pià di amarezze che di piaceri. Non comportarono i Romani che io tanto eseguissi, nè vollero alcun altro sul Comune, e me ritennero, ed a me diedero col consenso de’ voti, il régno, quel possesso loro, o Tarquinia, e non vostro. Così pure l'Oveano già dato all’ avolo vostro tuttoché forestiero, e niente congiunto col re precedente ; sebbene Anco Marzio lasciava de’ figli maschi e floridi per anni ^ e non de’ nipoti, e piccioli, come Tarquinio voi lasciò. Se legge è comune di tutti, che chi eredita le sostanze e i danari dei rei che cessano, debba insieme r,iceverne il regno, dunque non fu Tarquinio l’ avolo vostro che al morire di Anco ottenne là cotona, ma il figlio primogenito di questo. Ma il popolo di Roma chiama al comando t uomo degno di averlo, e non il successore del p’adre. Imperciocché giudica che le sostanze sieno di chi le possiede, ma che il regno sia di quelli che il diedero ; giudica convenirsi che ottengano quelle gli eredi per sangue o per testamento se i padroni sén muojono, e che tomi l’ altro a chi ’l diede se vien meno chi preselo a reggere •; se non forse hai tu da contrappormi che I avolo tuo ricevette il regno con tal condizione che non potesse pià tortegli, e che lo tramandasse a voi suoi discendenti; sicché non fosse pià t arbitro esso popolo, di conferirlo a m, levandolo a voi. Ma se hai tu punto di simile, che noi produci? Ma non gli hai tu questi patti. Che se io non ebbi il regno per buona via come dici, noneletto dagf interré, noti portato dai senatori agli cffari, né compiendo il resto a norma dette leggi; questi dunque, .questi ho 10 vilipesi e non te : e questi e non tu, saria giusto che V autorità men finissero. Ma nè io violai questi, né cdtro chiunque. Jl tempo tn é buon testimonio’, che 11 potere mi fu dato legittimamente, e che legittima^ mente mel tengo. Imperocché già ne volge I armo quarantesimo e niun Romano pensò mai che io commettessi, avendolo, una ingiustizia ; e non il popolo, non il Senato mai si mosse a spogliarmene. Ma lascisi pur tutto ità : diasi pur luogo alle tue ragioni. Se io te privava di un deposito delt avo, se io mi ascrissi il tuo regno contro. tutti i diritti degli uomini, convenivasi che tu a quelli ne andassi che mel diedero : che con quelli ti ramaricassi e garrissi che io mi tenga te cose non 'mie ; è che essi mi si obbligarono col dispensarmi t. altrui: e se tu il vero dicevi; di teneri gli [avresti persiutsi. Che se tu non certificavi ciò cotuoi parlari ; e tuttavia pensavi, indebita cosa che io regnassi, e che tu sei pià acconcio al maneggio del pubblico ; potevi almeno, fatta ricerca diligente de miei errori, e numerate le belle tue gesta, riclamartene giuridicamente la precedenza. Ma tu non hai fatta, nè luna nè F altra cosa; e dopo tanto tempo, finalmente, quasi riavendati da lunga ebbrietà, vieni per accusarmene  e nemmen ora dove si dee. Canciossiachè, già non conviene che queste cose qui dichi ( e voi non ve ne sdegnate o Padri., mentre io cosi parlo non perchè vi si tolga questa causa, ma per dichiararvi li costui vanilotfuj ), ma conveniva che preaccennandomi tu. che aduneresti il popolo a conciane là mi accusassi. Ora ciocché hai tu schivato, lo supplirò io questo per te :• convocherò il popolo, lo Jarò giudice delle Mense che òuoi : lascerò che decida di nuovo, qual sia pià idoneo di nói per comandare ; e quello che là destinasi, quello adempirò. Ma basti il fin qui detto a risponderti : perciocché toma allo stesso dir poche o molte ra^ni eon emoli che non le apprezzano, men-, tre questi per indole nemmen soffrono ciocché li per-, suada ad essere umani. Ben io mi meravigliava o senatóri che sdeuni di voi (se ve ne sono ) volendo depor me, cospirassero con costui. F^olentieri udirei da loro per qual mia ingiustizia mi fan guerra, o da quale mio trattò inaspriti. Sanno essi forse che assai nel mio principato, perirono senza essere uditi, assai furono spogliati, di patria, assai delle sostanze, o con altro sciagure affitti ? o non avendo a ridire su me niun tirànnico modo di questi, sono essi forse conseqtevoli delle, mogli lóro da ma disonorate ; delle prof ansate loro verini figlie, o di tal altra mia incontinenza su ingenue persone ? Egli è giusto se in me sorto tali eplpe, che io sia, nonuì del regno privato, che della vita. O può .dire alcuno che un superbo io sono, un esoso per la mia durezza, un-iiHollerabile per la mia caparbietà nel governare ? Qual mai dei re predecessori fu così moderato, così umano nel suo potere, o qual fu con tutti come me, quasi un tenero patire co’ figli? Io quel potere che voi mi deste, voi custodi di ciò che avete dagli avi ricevuto io non lo volli questo nemmen per intero : ma creai leggi, ( e voi le approvaste queste leggi) su cose principalissime,• e le intimai perchè tutti esigeste e rendeste cots-esse i diritti, ed io stesso il primo mi vi sottoposi, docile come un privato agli ordini, che io dava per nitri. Che più : non io mi tenni giudice di tutte le ingiusti-‘ zie ; ma commisi che voi stessi giudicaste delle pri-, vate} ciocché ninno uvea fatto dei re precedenti. ^Laon de, non vedesi in me colpa sicché altri me ne contrarino. O turbano voi forse i benefizf miei verso del popolo ? Ma non sarebbe così pensare un offendeivi ! se già tante volte con voi me ne giustificai. Se nonché niente bisognano discorsi tali : se a voi pare chequesto Tarquinio, preso il govermo, sia per ammiinistrarvelo anche meglio : io non invidio a. Roma .il suo miglior principe. Restituendo il comandò al po-^ polo che mel diede, e tornandomi tra privati, farò che vedasi chiaramente che io sapea tanto, ben' io minare, ' quanto io posso dignitosamente servire^. 55 ascese in tribuna, e tennevi un patetico e Inngo ragionamento óve numerò le gesta militari eh’ egli iece mentre viveva Tarquinio e dopo, e .ricordò mano a mano le istitnaioni donde sembrava il Cornane prosperato di, molte ; e grandi utilità. E venendogli dal dir di ogni fatto -amplissime lodi, e desiderando ornai tutti sapere perchè li ridicesse, palesò finalmente come Tarquinio accusa• vaio di' egli tenesse a torto un regno che a lui si doveva : e come apaigeva che l’avolo gli avea nel morire lasciato con le ricchezze anche, il regno, e che non po-, teva il popolo concedere ciocché suo non era. E qui -^Vegliatosi in tutti clamore, ed. indignazione, egli intimando silenzio, piega vali, che non impazientissero nè tumultuassero a quel dire : ma chiamassero Tarquimo, e se. forse aveva giuste cose da esporre le conoscessero: e se lo trovassero offeso, e se. piò idoneo a reggere, gli affidassero pure il comando di Roma : egli se ne allontanerebbe, e renderebbelo ad essi da’ quali lo .ebbe. Cosi lui dicendo e movendosi già per,i iscendere dalla ' tribiina,, proruppe da tutti un grido, un gemito, un pregar vivo ebe non cederne ad alui.il comando. E ci avea por chi esclamava elve si avesse a tempestare Tarqninio : e colui, vista in fremito la moltitudine, temendo che non gli desser di mano ; foggiasene cogli amici in casa. Allora tripudiando tutto il popolo ricondusse tra gli applausi e le acclamazioai Tullio alla reggia. Tarquinio, veuutogK meno, quel tentativo, fremè dal rancore, che il Senato non gli dess^ alcnn aiuto, quàndo egli fidava su questo principalmente; e teuniesi per alcun tempo in casa non conversandolo che gli amici. Quando la donna sua gli si fece a dire elle più non dovea star mollemente a bada, ma ebe dovea^ lasciate le parole, Tenire ai fatti, e primieramente cercar pace per mezzo degli amici da Tnib'o, perché colui credendoselo riconciliato, meno il guardasse. E parendogli eh’ ella ben consigliasse, finse di esser pentito, e più volle per .mezzo degli amici Orò caldamente Tullio affinchè lo perdonasse ; né difficilmente ve lo indusse, essendo placabilissimo per indole, ed alieno da nna guerra inestinguibile colla figlia e col genero. Ma venutogli poscia il buon ponto, essendo il popolo sparso ne’ campi per la raccolta, egli usci cìnto di amici co’pngnali sotto ' d^li abiti: dati i fasci ad alcuni de’ servi, e presa per se regia veste ed altri simboli del comando, si recò net F oro ; e standosi dinanzi la Curia, intimò che il banditore convocasse il Senato. E siccome ci aveanO già pel Foro appostatàmente molti de’Patrizj consapevoli ed istigatori del delitto ; allora si concentrarono. Intanto corso alcuno in casa di Tullio lo informa come Tarquinio' ersi uscito con regie vesti, e chiamava i Padri a consiglio. Stupitosi Tullio dell’ ardimento andò tra piccfolo seguito con più velocità che saviezza: e giunto nella Curia) e vedutolo in sul trono, e con gli altri distintivi reali, chi, disse, chi, scelleratissimo uomo, ti concedè questi onori? e colui, /ìi, replicò, l’ardire tuo; fu la tua inverecondia o J\dlio ; perocché non essendo tu libero, ma servo nato da serva  e posseduto qual prigioniero dalT avolo mio, ti arrogasti il comando di Roma. Tullio, ciò udendo, inaspritone, à biqciò fnor di proposito su lui, come per isbalzaflo dal trono. Vide. 5'J TaitjaÌDio ciò con diletto ^ e sorgendo dalla regia sede afferra e trasportasi Ini vecchio, che grida, ed invoca i suoi. Giunto fuori della Curia egli florido e forte, le vaio in alto > e trabalzalo giù per le scale che mettono al luogo de contizj. Alzatosi appena dalla caduta il vecchio, cóme vide intorno, pieno tutto de partigiaui di Tarquioio, e deserto e vuoto de cari suoi, partesene malconcio e mesto con pochi che lo sostengono, e ricoóducoDO, mentre riga intanto la via di sangue.Narransi dopo ciò le opere dell’ empia e barbara figlia, tremende ad udirsi, come portentose nè credibili a farsi. Costei sentendo che il padre era ito in Senato vogliosissima di conoscerne la fine, venne in sul cocchio nel Foro : e conosciutavela, e veduto Tarquinio in su le scale della Curia, essa la prima a gran voce lo salutò monarcA, supplicando gF Iddii, che il regno di hii riuscisse propizio a Roma. E salutandolo monarca altri ancora de’ cooperatori suoi, • lo trasse in disparte e di^se: Le prime cose o Tarquinia te hai Ut faUe come àoveansL Ma finché vive TuUio non potrpi renderli stabile il regno. Egli se abbia picciolo tempo di questo giorno ; ecciterattene incontro il popolo ; e tu sai’ quanto il popolo tutto è per lui. Su dunque' prima ih ei torni in casa, manda chi lo uo cida ; te ne libera. Ciò detto, e sedutasi di nuovo in sul cocchio,. parti. Tarquinio convinto che la iniquissima donna ben consigliava, spediscegli contro alquanti de’ suoi  co brandi : e quelli trascorrendo rapidissimaménte la via raggiunsero Tullio pressò la casa, e lo uccisero. Abbandonato palpitavane ancora il cadavere per la strage recente ; quando la figlia sopraggiunge : ma stretta essendo la via donde avessi à passare le mule a tal vista si spaventarono : e 1’ auriga stesso .che le guidava mosso da compassione si fermò e si volse a colei. La quale dimandandogli perchè mai non procedesse : Non vedi, disse, o Tullia, che qui giace U morto tuo padre, nè vi è transito fuorché, sul cada- vere suo ? E sdegnatasene quella, e levatosi lo scAbello da’ piedi e lanciatoglielo disse : ’E non le guidi o stolto in sul morto ? E colni gemendo anzi per la compassione elle per la percossa spinse forzosamente le mole so del cadavere: E la via chiamata Olbia  per addietro, fu dopo il tragico e barfiAro caso, detta nélF idioma de Romani scellerata.  Tale è il termine di Tullio dopo quarantaquattro anni di regno. Dicono che qnest’nomo il primo alterasse ì patrii costnmi e le leggi .ricevendo il principato non' dal Senato insieme, e dal popolo come tatti i re precedenti ma dal popolo. sedo, guadagnane dosene la classe > indige nte con' distribnzione e'donii, ^ altri sedncimentL E cosi sta la'veritè; perciocché' nei •> (l) OAjStar >0 greco saU fiUce, firtunaUn sareiiba il teina che la vìa ftlice fortunata fu delta scelterata pel delitto. Alcuni leggono va-fis io luogo di tXfittf, certamente, secondo che scrive Varrime nel lib. ^, de lingua laiina, i Sabini quando tinnirono ai Romani, chiamarono Cipria la contrada di Roma nella quale si alloggiarono come per buono angario, perché Cjrprwn tra’ SaiNui tigniScava il bene. E secondo ciò la contrada, detta Cipria o. buona dni Sabiui pel buon augurio, sarebbe appunto quella ghe fu. poi della scrllerata per la empietà commessavi. Ma Varrone .scrive che questa contrade cran prossime, e non già le. medesime.. prifni tempi quando un re moriva, il popolo dava al corpo del Senato la podestà di stabilire la forma che pià volessero di governo, ed il Senato nominava gl’interré, e gl’ interré sceglievano per sovrano 1’ uom più pregevole sia de’ cittadini, sia de’ nazionali, sia de’ forestieri : e se il Senato ’ne approvava la scelta, se il popolo co^ voti suoi r aotorizzava, se gli anspizj la confermavano, còlui prendeva il comando. Che se mancava alcuna di queste condizioni, ne; nominavano nn 'secondo ; e poi un terzo, se avveniva che il secondo non avesse propiziò quanto era d’ uopo dal cielo e dagli' notami. Ma Tullio, come innanzi fu detto, assumendo in principiò il carattere di regio tutore, e poi guadagnandosi il popolo con gli amorevoli modi', fu -re nominata solamente da quello Poi • diportandosi come uomo temperato e clemente fe' colle opere successive tacere le accuse, che non avesse adempita ogni cosa a norma delle Ipggi ; lasciando a > molti il 'sospetto, che se non era presto > levata; avrebbe' ridottolo Statoa forma di una repubblica. E (|nesta é la cagion principale. per ui dicesi che alenai de’ palrizj lo insidiassero^ Pionr potendo con altro modo hnirne il comando, inisero -TarqUinie alla impresa e gli cooperarono il regno^ per voglia di deprimere -il •'popolo fornài troppo potente pel ' governo  tura un giorno ; nella prossima notte spirò. S’ ignorava però da molti la maniera del termine suo. Diceano alcuni eh' ella stessa aveasi data da sé la morte, anteponendola al vivere. Altri però diceano che era stata uccisa dalla figlia e dal genero come troppo addolorata e benevola inverso lo sposo. Per queste cagioni il corpo di Tullio fii privo di regj funerali, e di magnifico monumento : conseguì però coUe opere sue memoria perenne in tutti, i tempi. Anzi quanto iegU | fosse caro agl’ Iddìi lo., fece eziandio palése nu segno celeste : dond’ è che alcuni tennero ancora per vera la opinione incredibile e fiivolosa intorno la nascita sua come dianzi fa detto. Appiccatosi il fuoco id tempio delia fortuna, che egli area già fabbricato, mentre tutto era preda delle fiamme ne rimase intatta solamente la statua di lui in legno dorato.. Il tempio e quanto .è' nel tempio rifabbricati dopo l’ incendip sul modo antico presentano le traccie di un’ arte recente: ma la statua, antica com era nelle fattezz^. vi riscuote ancora il qulto dai Romani. E ciò è quanto abbiamo ricevuto sopra Tullio. Dopo di lui prese la siguoria di Roma Laicìo Tar^illnio non gi^ fecondo le log^ ma colle armi nelr anno quarto dell olimpiade sessantesima prima nella quale vinse nello stadio Agatarco, essendo arconte di Atene Tericleo. Cosmi spigando la popolar moltitudine, spregiando i patria] da’ quali era stato condotto al trono, e confondendo e sconciando ogni costumee legge e disciplina colla quale i re precedenti ave'ano dato forma a Roma; rivolse il governo in nna manifesta tirannide. E primieramente mise intorno a sé guardie di bravi, naaionali ed esteri, con spade e lan ce, i quali vegliando di notte negli atrj della reggia, é scortandolo di giorno, ovnnqne ne andasse, lo scber missero appieno dalle insidie.' Inoltre non usciva nè di continuo, né con periodo certo, ma di raro, e quando non aspettavasi. Deliberava su le cose comuni molto in sua casa, e poco nel F oro, in mezzo a’ parenti più stretti cbe lo guardavano. Non concedette che alcuno di quei che il volevano si presentasse a Ini se noi chiamava : e presentatoglisi, non era giè con esso, compiacevole e mite, ma grave ed aspro ' come un tiranno, e terrìbile ansi che gioviale a vedere. Definiva le controversie su’ contratti in conformità de’ costumi suoi, non delle leggi e del dritto. Per le quali cagioni i Romani lo denominaron superbo, ciocché nell’idioma nostro vuoi dire soperchiatore contrassegnando l’ avo col soprannome di Prisco, o come noi diremo antico per nascita, giacché quello aveva i nomi appunto del giovine.  NelP annp e di Roma secondo Catone, a seconde Vatreus, e &3a avanti Cristo. Qaaado poi concepì di aver già consolidato il suo regno, concertandosene co’ più ribaldi de’ suoi ami> d, avviluppò tra accuse capitali i piò cospicui de’ cittadini ; e primieramente i contrari suoi, quei che già non^voleano che Tullio si levasse dal trono, e quindi altri li quali immaginavaseli malcontenti del cambiamento, o li quali abbondassero di riccbezae. Coloro che in giudizio li riducevano, gli accusavano l’un dopo l’altro con delitti falsi, e con quello specialmente che tendevano insidie al re che ne era il giudice. Ed egli quali ne condannava alla morte, e quali all’ esilio: e confiscati i beni degU uccisi o banditi, dispensavane alcun poco tra gli accusatori, serbandone la piò gran parte per sè. Pertanto molli de’primar} vedendo le ca> gioni per le quali erano insidiati, lasciarono, prima di essere complicati in delitti, Roma tutta al Uranno. Vi furono pure alcuni sorpresi ed oppressi di furto da lui nelle case o ne’ campi : uomini ben degni di riguardo, ma non piò sen trovarono nemmeno i cadaveri. DiBtrutla così la maggior parte del Senato con suagi e con esilii perpetui la supplì con chiamare agli onori di quei che mancavano i propri amici: nè però concedette loro di fare o dire se non quanto egli avesse prescritto. Tanto che li senatori già scelti da Tullio, e superstiti ancora nel Senato, e contrarj fin’allora al popolo sul concetto che la mutazione tornerebbe in lor bene per le promesse avutene da Tarquinio ingannevoli e tradiuici, vedendo infine che non aveano piò parte nelle pubbliche cose, anzi che aveano' come il popcdo per dula la libertà ne sospiravano : ma temendo un avvenire ancor più tetribile, nè potendo impedire pianto faceagi, chctaronsi necessariamente a’ mali presenti. Or vedendo il popolo dò, pensava che stesse lor bene, e godea sul Hintraccambio, quasi là tt> rannida foste per essere 'grave a quelli soltanto e non pericolosa per lui ; quando non molto dopo ne vennero i mali ancora più su di esso : imperocché Tarquinio annullò tutte le leggi di Tallio per le quali il popolo rendeva ed esigeva il giusto con diritti eguali senza es> seme come prima sovverchiato da’ patria) ne’ contratti : né lasciò pur le tavole dove erano scritte, ma fattele levare dal Foro le distrusse. Poi tolse i daz), propoiv zionevoli ai registri delle sostanze, tassandoli novamente sul modo antico. E se mai bisognavano a lui denari, Contribuivane il più ' povero quanto il più ricco. Or tale regolamento esaurì subito colla prima imposizione gran parte dei popolo; essendo astretti a pagare dieci dramme a testa. Intimò 'che non più si facessero quei concor, quanti sen facevano per villaggi, per curie', o per vicinati, a Roma, o nella campagna in occasione di feste o sagri6zj comuni, perchè riuneudovisi molti non vi macchinassero occultamente fra loro di abbattere il principato. Ci aveano qua e là disseminati, ignoti osservatori e spie dei detti e de’ fatti, e questi intra punto contro il governo scandagliavano gli animi: e se scoprivano alcuno esasperato da’ mali introdotti lo in(xilpavano presso del tiranno: ed aspre irreparabili ne erano le pene, se restava convinto. Né gli bastò di abusate m tal modo' del popolo : ma raccogliendo dal meazo di esso quanti ci area 6di e proprj per la gnerra, astrinse gli altri a lavorare in città, riputando che i re moltinimo pericolano, ae i più scellerati e poveri stieno oziosi. E desiderando vivamente che si ultimassero nel suo regno le opere lasciate imperfètte dall’ avo suo, che si continuassero; fino al fiume le cloache cominciate da quello e si circondasse di portici coperti il Circo Massimo il quale -non aveane che le gradinate; si applicarono a questo lavoro; e ne i ottennero parco frumento i poveri, altri tagliandone i materiali, altri guidando i carri che li trasportavano, ed altri portando su le spalle i pesi. Chi scavava sotterranei canali e largure : chi facea volte in essi ; e chi sn. Tarquinio perché aveasi scelto Mamilio per genero e non lui, fece uda lunga accusa di Tarquinio nmnerandone le op^re di orgoglio e di soperchieria, come il nou essere venuto in consiglio, dove eran già tutti, e dove gli aveva esso • stesso invitati. Difendealo Maroilio, imputando l’ indugio a cause urgenti^ime, e chiedea che diiferissero ; e differirono il consiglio al prossimo giorno, indotti dai suo parlare i Latini. (t) Livio nel lib. i dice che era della Aiceia : Tur /mi Herdoiui ai Arida. Forte la gran vicinanta di Coriolo e dell'.tfr(cM Ccce prender l’nna per l’altro. Coriolo era fra i terrìtorj Amiate, Ardcatinp, ed Aricino, tal monte Giov. toJOttlQGiunto nel giorno appresso Tarquinio, e congregato il consiglio, e toccato di volo l’ ittjiagio suo ^ fecesi a discorrere della preminenea che a lui cecnpe- teva come posseduta già dall’avo per la forza delle armi; e presentò gli accordi delle città fatti ctm quello. Lungo fu il suo ragionamento intorno dei diritti -e def patti; e grandi le premesse di beneficare le città se amiche gli si tenessero, e provocavale infine a far guerra con esso ai Sabini. Come dié fine al dir suo. Turno recatosi innanzi accusava la tardanza di lui, nè permetteva che li compagni gli cedessero il principato, perchè nè dovuto a lui per giustizia, nè possibile a darsegli con utile dei Latini. E molto ragionò su l’nna e su l’altra cosa dicendo che i patti che avean segnati ccfll’avo suo quando gli accordarono la sovranità finirono colla sua morte, per non essere scritto in quelli che il dono esienderebbesi anche ai posteri suoi. E qui dimostrava eh' egli chè pretendeva succedere ai diritti dell’avo, era il più ingiusto, e malvagio ' de’ mortali : e ne allegava le opere da lui latte per aversi il comando di Roma. Adunque scorrende^ i tremendi e molti suoi delitti, conchiuse infine che egli non tenea legittimamente nemmeno Roma, non avendola come i re precedenti ricevuta da’sudditi spontanei.; Egli t lui presa, disse, colla violenza e ' colle armi: et fondatavi la tirannide, uccide, esilia, confisca, e tòglievi fin la libertà di parlare, non che quella del vi~ vere. Ben sarebbe grande la stoltezza, grande la ingiuria inverso gli Iddj ripwmetlersi mai tratti umani e benevoli da un empio e da uno scellerato, e credere che chi non ha perdonato nemmeno agi intimi ruoi j nemmeno al suo sangue, risparmi poi gli altri. Esorlavali dunqne giacché noa eransi ancora sottoposti al giogo, a combatto^ per non sottoporvisi. Da ciò che pativano gli altri di terribile argomentassero ciocché sa rdibero essi per sopportare. Vaiatosi Turno di questo discorso, ed assai commossine i più; Tarqainio dimandò per difendersene il giorno seguente, e lo ebbe. E sciolto appena il consiglio ; convocati i suoi più intimi, esaminò con essi ciocch’ era utile a farsi. £ quali suggerivano le ruposte di apologia, quali ragionavano fra loro de’ mezzi onde era da blandirsi la moltitudine. Soggiunse Tarquinio che niente di ciò bisognava, e disse il parer suo di le vare l’accusatore, anziché di purgarsi dalle accuse. E lo datone da tutti e concertatosi con essi; pigliò tali vie per l’intento, quali non sarebbero cadute in mente di uomo che macchina o si difende. Imperciocché cercati U servi più rei che menavano i giumenti o curavano le robbe di Turno, e corrottili con argento, gl’ indusse a prendere da sé stesso nella notte assai spade e portarle nell’ ospizio del padrone e nasconderle, e lasciargliele tra le bagaglio. Poi nel giorno appresso, riunitosi il consiglio, e venutovi : Breve è, disse, topologia su le mie colpe, e giudice ne stabilisco t accusatore mede^ simo. Questo Turno, o compagni, giudice stabilito delle reitadi che ora mi ascrive, questo da tutte assolveami già, quando chiese in isposa la mia figlia. Ma poiché ne fu rigettato, com' era ben giusto ( imperocché qual savio mai rispinto avrebbe Mamilio, un si nobile, un sì potente Latino, e prescelto avrebbe per genero costui, che mal può delincar la sua stirpe, fino al trisavolo ? ) poiché ne fu rigettato, indispettitone mi assalisce colle accuse. Doveva, se per tale mi conoscea qual mi accusa, non desiderarmi per suocero : o se mi tenea per onesto quando mi chiese ‘la figlia, non doveami ora come un ribaldo accusare. E ciò basti su mei perciocché non si debbe ora più discutere se buono o malvagio io mi sia, quando voi, o compagni, voi correte il più grave de’pericoli. E. su me potete aruor dopo chiarirvi : ben ora dee colla salvezza vostra la libertà provvedersi della patria. 1 primarj delle città, quei che ne maneggiano il pubblico, tutti sono insidiati da questo bel capo-popolo, il quale apparecchiasi, uccidendo i più cospicui, torsi il regno del Lazio. E questo, questo é il fine che qua lo menava. Né già io parlo immaginando, ma di pienissima scienza, datami nella notte andata da uno dei complici della congiura. E se voi vorrete meco alt ospizio di costui venire, io ven darò documento infallibile del dir mio, le armi che vi occxdla. Or lui cosi parlando sciamarono tutti, e chie> sero, temendo per sè, che certificasse il fatto,. non gK illudesse. E Torno, come lui che non avea preveduto le insidie, disse che volentieri ricevea la inquisizione, e chiamò li primarj per compierla, aggiungendo che seguirebbe l’una delle due, o che egli morirebbe se il trovassero con apparecchio di altre arme che pel viaggio, o che le pene sue subirebbe chi lo calunniava. Cosi piacque ; ed andarono e trovarono nelf albergo cU liti tra le bagaglie le spade na$costevi da’ servi. ÀUora Dòn lasciando nemmen che parlasse gillarono Turno in UDS voragine, e coprendolo, vivo ancora, di terra lo aterminaron sul fatto. Ed encomiando nell’adunanza Tar> quinio come benefattore comune delle città, perchè ne àvea salvalo gli ottimati, lo crearono capo della nazione co’ diritti appunto co’ quali ne aveano già creato Tarqui nio r avolo suo, e poi Tullio. Scrissero in su colonne que’ patti, e datosene il giuramento per la osservanza, si congedarono. Tarquinio divenuto capo de’ Latini spedì messaggeri alle città degli Eroici e de’ Yolsci invitandoli a far seco amicizia ed alleanza. Ma de’ Volaci due sole cittadi Echetra, ed Anzio secondarono l’ invito ; laddove gli Eroici si decisero tutti per 1’ alleanza. Ora curando Tarquinio che gli accordi colle città si conservassero in ogni volger di tempo ; deliberò fissare un tempio comune ai Romani, ai Latini, agli Eroici ed ai Volaci confederatisi, perchè riunendosi ogni anno al luogo destinato vi mercantassero, e banchettassero, partecipando de’sagrifizj medesimi. Ed ascolundone tutti con piacere la idea, scelse quanto era possibile in mezzo de’ popoli per luogo della riunione il monte sublime, il quale sovrasta alla città di Alba : e dichiarò per legge che in questo fbsser le fiere, in questo fosse triegua di tutti in verso di tutti, e conviti si facessero e sacrifizi comuni a Giove detto Laziale, prescrivendo quanta parte dovesse ogni città contribuire per essi, e quanta riceverne. QuaranUsette furono le città compartecipi delle feste e de’ sacrifizj ; e tali sagrifizj e tali feste le conti nuano ancoc di presente i Romani che Laiine le chiamaoo. I^e città compagne nel sagrificare portano agnelli^' o cacio, o latte, o tal’ altra oblazione in fratti e farine. Immolandosi però da tutte un sol toro, ciascuna prendeane per sè la parte stabilitale. Il sagnfizio è per tutti, ma presiedono al rito santo i Romani. ^ L. Poi cb’ ebbe rassodato il regno con tali confederazioni ; risolvè di porure Tarmata contro i Sabini. E reclutando de’ Romani quei che men sospettava che farebbonsi liberi se otteuevau le armi, e conginngendo con essi truppe alleate, più numerose ancora delle sue, devastò le campagne Sabine : e vintivi quei che vennero con esso a battaglia ; menò l’esercito contro de’ Pomentini. Abitavano questi la città di Sessa e pareano i più felici de’ conBnanti, anzi per la felicità molesti e gravi a tutti. Avendo egli già reclamato ad essi per alquante rapine e prede, e richiestili che dessero de’ compensi, non aveano dato che orgogliose risposte: e quindi postisi in arme aspettavano pronti la guerra. Adunque venuto con essi in sul conBne alle mani, ed uccisine molti ; ne respinse e rinchiuse gli altri fra le mura : e poiché non più ne riuscivano, accampatosi dirimpetto, li circondò di fossa e vallo, investendo la città con assalti continui. Resisterono quei che v’erano dentro, durando assai tempo fra stenti luttuosi. Ma poi venendo ad essi meno ogni mezzo, infiacchendo ne’ corpi, e non ricevendo soccorsi, nè requie mai, anzi travagliando di e notte ; furono sopraffatti dalia forza. Impadronitosi della città trucidò quanti vi stavan colle amie: lasciò che i soldati rapissero donne, fanciulli, quanti sopportavano di cader prigionieri, e moltitudine non facile a calcolarsi di servi : e concedè' che invadessero e si portassero qnant’ altro veniva loro ' alle mani sia nella città, sia per la campagna : ma 1’ oro e l’argento, quanto se ne trovò, lo fe’ tutto rammassare in un luogo, e decimatolo per la fondazione del tempio, ne divise il resto fra le milizie. Tanta poi ne fu la somma che ogni soldato rioevè cinque mine di argento e la decima per gr iddj non fu minore di quattrocento talenti di ar' gento. LI. Ancora egli stavasi a Sessa quando gli giunse un messaggio, eh' era uscita la gioventù horentissiroa dei Sabini: che gettatasi in dne corpi nelle terre de’ Romani devastavano le campagne, l’ uno tenendosi presso di Ereto, e 1’ altro presso di Fidene : e che se una forza non le si opponesse, ben tosto tutto soccomberebbe. G>m’ ebbe ciò udito lasciò picciola parte dell’esercito in Sessa con ordine che vi guardasse le prede e bagaglie : e prendendo con sé il resto della milizia, spedita e leggera, e marciando contro quei che erano accampati presso di Ereto, si trincerò su le alture a picciolo intervallo da essi. Decisero i due Sabini dar la battaglia in sul mattino; e spedirono perchè venisse l’esercito ancor di Fidene. Ma scuoprl Tarquinio il disegno per essere stato preso chi portava le lettere dagli uni agli altri. Per tal successo ei si valse di questo accorgimento. Divise r esercito in due parti, e ne mandò l’ una fra la notte di nascosto de’ nemici su la via che viene da Fidene, e schierando l’ altra in sul brillare del giorno, la menò dagli alloggiamenti alla battaglia. Coraggiosi gli uscirono incontro i Sabini non vedendo gran serie de' nemici, e credendo non altro mancare aliare mata di Fidene, se non di gingnere. Coti venutisi que-> sti a fronte combatterono, e la pugna pendè gran tempo dubbiosa, quando li soldati spediti nella notte da Tarquinio ripiegarono la marcia, e correvano a tergo dei Sabini. Sbalordirono questi al vederli, e ravvisarli dalle insegne e dalle armi, e gettando le proprie tentarono di salvarsi : ma il tentativo rìnsd difHcilissimo, essendo essi circondati da’ nemici e rinchiusi dalia cavalleria dei Romani postata d' ogn intorno. Pertanto pdchi ne scamparono e tra duri casi : i più ne perirono, o cederono. Quelli eh’ erano lasciad agli alloggiamenti non li sostennero ; e quel luogo di sicurezza fu invaso al primo assalto. Furono qui prese le robbe de’Sabini, e qui molti de prigionieri, e qui le robbe de’ Romani quante ne erano intatte, e tutto fìi salvato per chi le aveva perdute; LIL Riuscito il primo saggio a Tarquinio secondo il cuor suo, prese 1’ esercito, e ne andò contro i Sabini accampati giù in Fidene, a’ quali non era ancor nota la disfatta dei loro. Usciti questi dagli steccati erano per avventura tra via: ma non si tosto furono più da vicino e videro le teste de’loro capitani confitte alle aste ( che ve le aveano i Romani confitte ed ostentavanle per ispaventare i nemici); conoscendo com’era l’altro lor campo distrutto, più non tentarono nulla di generoso, ma rivoltisi alle suppliche ed alle umiliazioni si resero. Cosi devastati miseramente, e vituperosamente nell’ uno e nell’ altro esercito, e ridotti i Sabini a speranze tenuissime, anzi timorosi che fossero le loro città pigliate di assalto ; spedirono ambasciadori per la pace., profierendosi per sudditi e tributar). Pertauto lasciò la guerra, e ricevute appunto >a tali coudizioni le loro città, si ricondusse a Sessa ; e ritiratene le milizie lasciatevi, e le prede ed ogni bagaglio, tornossene a Roma coll’ esercito carico di ricchezze. Poscia fe’ molte incursioni su le terre de’ Yolsci, quando con tutte le forze, e quando con parte, ne ottenne gran prede. Ma riuscitegli per lo più le cose a voler suo ; gli si eccitò una guerra coi con&nanti ben lunga pel tempo, giacché durò sette anni continui, e ben grande pe’ casi inaspettati e terribili. Ora io dirò brevemente le cagioni per le quali nacque, e qual ne fu 1’ esito, essendo stata terminata per inganni e per stratagemmi non preveduti. LUI. Una città, Latina di gente, e colonia già degli Albani, lontana cento stadj da Roma ( Gabio ne era il nome) sorgeva in su la via che mena a Palestrina. Città popolosa allora e grande qnant’ altre, ora non tutta si abita, ma solo presso la strada per uso degli alloggi. E ben può raccoglierne la grandezza e la magnificenza, chi mira le rovine in più luoghi delle case ed il giro delle, mora, che in gran parte esistono ancora. Eransi qua concentrati alquanti involatisi da Sessa, quando fu presa da Tarquinio, e molti fhggiti da Roma. Or questi supplicavano e pressavano quei di Gabio a prendere vendetta di loro, promettendo gran doni se ai beni proprj tornassero ; e dimostrando possibile e facile la distruzione del tiranno. Adunque ve gl’indossero sul riflesso che in Roma a ciò coopererebbero, e che lì Volsci erano ad altrettanto animati; giacché mandate aveano delle ambascerie, bisognosi anch’essi di ajutO’ per imprendere la guerra contro di Tarquinio. Si fe^ cero dopo questo irruzioni con eserciti poderósi, fi scorrerie su 1’ altrui territorio e battaglie, com’ è Veri simile, ora di pochi con pochi, ora di tutti contro di tutti: e quando i Gal^, respinti fino alle porte i Romani, ed uccidendone diedero intrepidamente il guasto ai lor campi ; e quando i Romani incalzando i Gabj e rinchiudendoli nella loro città, • sen portavano schiavi, e preda copiosa.. •. •. LIV. Or ciò facendosi di continuo, fu l’una e l’altra parte costretta a cinger di mura, e presidiare i luoghi forti delle proprie terre in ricovero de’ contadini. Di là prorompevano su’ predatori, e scendendo folti, straziavano, se ne vedeano, i piccoli corpi staccati dal resto dell’ esercito, o li disordinati per poca apprensìon de’ nimici, come accade nei pascere. Similmente temendo r una parte gli assalti improvvisi dell’ altra fu costretta a munire dì fosse e di muri le città facili a scalarsi ed a prendersi. Adoperavasi in ciò principalmente Tarquinio : e rassicurò con molte fortificazioni il tratto intorno la porta la quale menava a Gabio, scavandovi fosse più larghe, elevandone più alte le mura, e coronandole di torri più spesse : imperocché la città sembrava in tal canto men solida, quando era nel resto dei suo circuito sicura abbastanza, nè facile da invaderla. Se non che si fece in ambedue le città penuria di ogni vettovaglia, e costernazione gravissima per l’avvenire, essendo le campagne diserte per le incursioni incessanti de’ nemici, né più somministrando de’ frutti come accade a’ popoli avvolti in guerre diuturne. 11 disagio però’ stringeva i Romani più che i Gabj ; tanto che U poveri infra quelli, angustiatine più che gli altri, giudicavano essere da venire a trattati, e far pace comunque coi Gabj, se la volessero. LV. Or dolendoti Tarquinio altamente de successi, e non sofierendo di' deporre obbrobriosamente le armi^ nè polendo altronde resistere più inmmzi ; volgevasi a tutte le prove, a tutti gl’ inganni. Quando il figlio più grande ( Sesto ne era il nome  ) scoperse al padre un suo disegno. Egli parea mettersi ad impresa audace quanto pericolosa ; pur non essendo impossibile, concedettegli il padre che operasse di voler suo. Sesto dunque ‘fintosi in discordia col padre per voglia di por fine alla guerra : ne fu battuto colle verghe nei F oro, e con altri modi oltraggiato ; tanto che se ne sparse intorno la fama. E su le prime inviò come profughi i suoi più fidi perchè dicessero occultamente ai Gabj che egli deliberava far guerra al padre, e che ne anderebbe tra loro se gli desser parola di proteggerlo come gli altri refugiaii Romani, senza renderlo ai padre per isperanza di finir col suo danno le proprie nimicizie. Udirono con diletto quei di Gabio il discorso, e concordandosi di non offenderlo, egli venne, e con lui molti compagni e clienti come fuggitivi; e per meglio  Tito Lirio dà questo nome e' questa impresa al figlio minore : ma il disparere col padre e l’ incarico assunto pare più yerisimile in chi area più diritto di succedere ad un regno. direnuLo assoluto, e tale era il figlio maggiore. Pertanto il racconto di Uiouigi sembra più naturale, qualunque fosse il nome del finto rilielle. Vedi S 65 di questo 'libro. accreditare la ribellione sua dal padre portò seco molto di argento e di oro. Dopo ciò sotto velo di fuggir lar tirannide molti a lui confluirono ; tanto che ornai glie n’ era intorno un corpo ben forte. Concepivano quei di Gabio che avrebbono grande incremento dal giugnere di tanti ad essi, e lusingavansi che tra non molto .avrebbono suddita Roma, illusi ancor più dalle opere di quel ribelle, il quale scorrendo di continuo la cam pagna, raccoglievane prede ubertose. Ed il padre appunto, risapendo prima in quai luoghi il figlio verrebbe, ubertose glie le apprestava, e senza guardia se noa di scelti cittadini che egli v’ inviava come a lui sospetti per farli distruggere. Su tali significazioni molti credendolo amico fido, e buon capitano, e molti arrendendosi all' oro suo ; lo inalzarono al comando supremo delle milizie. Sesto divenuto per frodi e per illusioni T arbitrò di un tanto potere spedi, senza che i Gabj se ne avvedessero, un tale de’ servi suoi per dichiarare al padre r autorità che avea preso, e per udirne ciocch’era da fare. Tarquinio volendo che il servo non intendesse ciocché ordinava al figlio di fare, venne ( e conducea seco il messo ) al giardino, congiunto al regio palagio. Aveaci là de’ papaveri nati spontaneamente, già pieni di frutto, e maturi per la raccolta. Or tra que’ papaveri aggirandosi e dando co’ bastoni in su le tòste de’ più alti, abbattevali. Congedò ciò fatto il messaggiCro niente rispondendogli, quantunque interrogato ne fosse più volte. Egli imitava per quanto a me sembra la prudenza di Trasibulo Milesio. Imperocché chiesto da Periandro, allora tiranno di Corinto, per via di un messaggiero, con quali modi possederebbe più saldamente il comando, non rispose pur sillaba, ma fatto cenno all’ inviato die lo seguitasse, il. condusse in un campo di biade, ed ivi percosse le spiche più eminenti, le atterrò ; signiBcaudo che. cosi dovea pur egli troncare, e dismettere i -primi delle città. Or facendo Tarquinio allora somigliantemente. Sesto ne intese le mire, e come ordinavagli di por giù li più insigni di Gabio. E convocò la moltitudine, e le tenne un lungo ragionamento su questo, ehe egli ricorso cogli amici alla, lor buona fede, rischiava ornai di esser preso da alcuni, e dato al padre: ma che era pronto a deporre il co^ mando, an^i che Lucerebbe la città prima di cadere in tanto infortunio ; e qui lagrimava e deplorava la sorte sua, come quelli che di cuore si dolgouo su’mali estremi., Lyil. Irritatane la moltitudine, e ricercando sollecita quali mai fossero per, tradirlo, esso nomina Antisiio Petrone, il personaggio più distinto di Gabio. Egli erane il più insigne divenuto pe molti belli suoi regolamenti in pace, e pe’ molti capitanati in campo esercitati. Reclamando intanto quest’ uomo, ed offerendosi come Hbero da’ rimorsi ad ogni esame, disse 1’ altro che volea che se ne investigasse la casa: e che vi manderebbe perciò degli amici: egli intanto aspettasse TtelP adunanza finché ritornassero. Imperocché già era Sesto riuscito a corrompere con argento alquanti servi di lui perché prendessero e ponessero in sua casa lettere contrassegnate co’ sigilli paterni, e macchinate in rovina di Pelrone. Or come gl’ inviali alla indagine (che non aveala Pelrone contradetla ma concednla) vi rinvennero le carie occulutevi, tornarono recando all’adunanza molte lettere indicatrici, e quella scritta ad Anlistio; e dicendo Sesto che vi riconosceva il sigillo del padre la sciolse; e la diede allo scriba perchè la recitasse. Scriveasi in questa che gli consegnasse il figlio, vivo principalmente ; o se ciò non poteasi, almeno glie ne mandasse la testa recisa. Diceva, che darebbe ad esso ed d complici, oltre le taglie promesse già prima, la cittadinanza di Roma : che gli ascriverebbe tutti frd patrizj ^ ed aggiungerebbe case e poderi e doni, grandi e copiosi. Arsero dallo sdegno i Gibinj ; dialordtva Antistio dalla sciagura impensata, mancando- gli fin la voce: ma quelli co’ sassi lo tempestano e lo uccidono ; lasciando a Sesto la cura di far la ricerca e la vendetta su gli altri, compartecipi in ciò di Petrone. E Sesto fidando le porte agli amici suoi perchè gl’ incolpali non s’ involassero mandò per le misepiù illastri, e vi uccise molli de’ valentuomini. Intanto che ciò faceasi ed era in Gahio tuivbolenza pe’ sì gran mali ; Tarquinio avvertitone per lettere vi marciò coll’ esercito, e giunto prima della mezza notte ed apertegli le porte da uomini posti ad arte per questo, ed entratele ; s’ impadronì senza stento della città. Come il male fu ravvisato, deploravano tutti sè stessi, e le stragi, e la schiavitù che patirebbono, e temeano insieme gli orrori, quanti ne vengono su por poli sorpresi da’ tiranni. Quando pur li trattasse mitissimameute ; immaginavansi la perdita della libertà, e de’ beni, e cose altrettali. Pure Tarquinio sebbene scellerato, sebbene implacabile in punir gl’ inimici non fe’ ntilla di ciò che aspettavano e temevano ; nè uccise, nè liandl, nè disonorò, nè multò persona ninna di Gabio. Ma convocando la moltitudine, e prendendo regie maniere in luogo delle tiranniche sue, disse che restituiva la propria città ; che concedeva ad essa i lor beni; e che donava inoltre a tutti cittadinanza quale appunto r avevano i Romani : non già che ciò facesse per benevolenza inverso de’ Gabj ; ma per consolidare a sè con essi .la signoria su’ Romani; pensando che diverrebbe presidio stabi^imo per sè e pe’ figli la fedeltà di un popolo che fuori di ogni speranza era salvo, e ricuperava tutti i suoi beni. E perchè non più temessero per 1’ avvenire nè dubitassero se stabili sareb.bero. tali parole ; scrisse le condizioni colle quali sarebbero amici,' e le giurò subito nell’ adunanza, e poi toccando gli altari e le vittime. Monumento di quest’alleanza esiste in Roma nel tempio di Giove Fidio, chiamato Sango da’.Ròmani, uno scudo circondato colla pelle del bue sagrlGcato allora appunto per compierne il giuramento, su la quale scritte ne sono con antichi caratteri le condizioni. Ciò fatto, e dichiarato Sesto re di Gabio, ritirò le milizie; e tal fine ebbe la guerra con quella città. Dopo ciò Tarquinio dando requie al popolo dalle cose militari e dalle battaglie; si mise alla erezione de’ templi, desideroso di compiere i voti dell’avo. Erasi questi nell’ ultima guerra co’ Sabini votato a Giove, a Giunone, a Minerva di fondare ad essi de’ tempii se vincesse. E già, come fu detto nel libro prece dente, avea con grandi ripari e con terra|)ieni accori data l’altura ove destinava di erigerli; ma non potè' poi compierne la impresa. Deliberatosi Tarcpilnio di ultimarla colle decime delle spoglie raccolte in Sessa posevi a lavorare tutti gli artefici. Or qui narrasi che. accadesse un meraviglioso portento sotterra, doè che scavandosi per le fondamenta, e che già molto essendo gli scavi profondati, si rinvenisse la testa di un uomo ucciso come di recente, con faccia simile a quella dei vivi, stillandone ancora dalla ferita un sangue tepido e fresco. In vista di tale prodigioi^arquinio comandò gli opera) che sospendessero lo scavo : e convocando gli indovini della patria dimandò che mai dir volesse quel segno. Ma non rispondendone, anzi dando' essi la scienza di tali cose ai Tirreni, ricercò da loro e seppe qual fosse fra’ Tirreni l’ interprete più famoso de’ por tenti ; ed a questo inviò messaggieri i più pregievoli cittadini. Giunti i valentuomini alia casa dell’ augure, si le loro incontra un giovinetto a cui dissero di essere ambasciatori di Roma, vogliosi di consultare il vate, e pregavano che a lui li presentasse. Il giovine allora : Colui, disse, che ricercate, è mio padre: egli è di presente occupato : ma presto a lui passerete. Ora intanto che lo aspettate, ditemi perchè mai ne venite. Così voi se mai per imperizia foste per ishagliar la dimanda; istruiti da me non errerete. E le giuste interrogazioni non sono già la minima cosa nell arte de’ vaticini. Or piacque a coloro di secondarlo, e sveUrono a lui quel portento. Ckime il giovine gli ebbe ndiù, sopraslando breve tempo, ascoltate, disse o Bontani. Il mio padre ve lo interpreterà tal prodigio, e senza menzogne ; che certo ad un vMe non si convengono. Ma perchè neppur voi erriate, nè mentiate su le cose che direte o risponderete ; apprendete da me questo > che assai rileva che vel sappiate. Quando esposta gli avrete la meraviglia ; ei soggiungendo di non intendere appieno ciò che vi dite, descriverà colla verga quanto un picciolo tratto di terra, e poi vi dirà : seco la svrs tarsìa qvzsta nè la partx CMS GUARDA l' ORISNTS, quSSTA CBS L OCCASO: QUSSTA È LA PARTS SOREALS, QUSSTA LA OPPOSTA. Ed indicandole intanto colla verga vi chiederà da qual canto fu tiltvenuta la testa. Or che vi esorto io che rispondiate ? appunto che non concediate che fosse trovata in alcuna delle parti eh' egli addita colla ver^ ga, e ve ri interroga, ma che in Eotna tra voi fu veduta su la rupe Tarpea. Se tali risposte serberete; se punto col dir suo non ve ne allontanate; allora egli ravvisando che il fato non può cangiarsi, vi svelerà, non vi occulterà quel prodigio che volete, che interpetri. LXL Ammaestrali in tal modo i legati, piando il vate ne ebbe comodità, venne un tale che a lui li condusse, e parlarono del portento. Ora lui sofisticando, e descrivendo in terra circonferenze e linee rette, e facendo in ogni quadrante interrogazioni sul trovamento, non si turbarono punto di mente i legali, ma tennero la ridata, come aveala suggerita il 6glio dell’ indoTino, nominando sempre Roma e la rupe Tarpea, e pregando l’interprete che non travolgesse il segno, ma ne dicesse a proposito, e schiettissimamente. Cosi non potendo il vate nè illudere gli oratori, nè imbrogliarè r augurio, soggiunse ; Andate, annunziate o Romàni a vostri concittadini, portare il destino che il luògo dove avete il teschio trovato sia capitale di tutta l’Italia. Dall’ ora in poi capitolino fu detto il luogo del travamento; capi chiamando i Romani le teste. Tai>i quinio udendo ciò da’ legati rimise gli opera] su'lavori; e molto fece del tempio, ma noi compiè, cadendo 'in breve dal regno. Roma alfine lo perfezionò nel terzo consolato. Fu basato il tempio su di una altura la quale aveva un circuito di otto plettri, ed ogni lato di esso apprassimavasi ai dugento piedi col picciolo divario nemmeno di quindici piedi interi tra la lunghezza e la latitudine. Perciocché il tempio riedificato dopo l’incendio a’ tempi de’ nostri padri su’ fondamenti medesimi differisce dall’ antico per la sola preziosità della materia. Dalla parte della facciata che guarda il mezzogiorno circondalo un ordine triplice. di colonne : ma doppio solamente è quell’ordine nei lati. Tre sono’ in uno i templi, e paralleli, e divisi da mura comuni. Sacro è quello di mezzo a Giove, e quindi è l’ altro. di Giunone, e quinci di Minerva : ed un solo tetto, di un comignolo solo li ricopra. Questo tempio terminara a Iriargolo : la cima del. triangolo in tutto il tetto ossia il colmo del letto è ciò che cbiamasi comìgnolo. Uno de’ nostri lempj a tre narate sotto un tetto comune può foeilitare t’ intelligenza di questo luogo. Dicesi che nel regno di Tarquinio occorresse ai Romani un’ altra propizia e meravigliosa avventura sia per dono di un nume sia di un genio, la quale salvò la città non per poco tempo ma finché visse, più volte, da gravi mali. Una donna, nè già nazionale, venne al tiranno, vogliosa di vendergli nove libri di oracoli Sibilini : ma ricusando Tarquinio comperarli al prezzo cei> catogli ; colei partita ne spiccò tre libri e li arse. Riporundo dopo alquanto i libri superstiti gli ofierl sul prezzo medesimo. Riputatane stolta, e derisane perchè di minori volumi n’esigea la somma appunto che non aveane potuto ricevere quando erano più; si ritirò nuovamente e bruciò metà dello scritto che rimaneva. Tornò quindi co’ tre libri ancor salvi, e chiese l’oro di prima. Attonito Tarquinio su i disegni della donna fece cercar gl’ indovini, e narrò 1’ evento, e dimandò ciò ch’era da fare. Or questi conoscendo da alquanti segni che ripudiavasi un bene mandato dal cielo, e dichiarando che grande era la sciagura che non avesse comperato tutti i volumi ; comandò che si numerasse alla donna il valor dimandato, e che gli astanti prendesser gli oracoli. La donna che avea dato que’ libri, inculcò che si custodissero con diligenza, e sparve dagli uomini. Tarquinio creando tra’ cittadini i duumviri o due riguardevoli per-i aonaggi, e subordinando ad essi due ministri pubblici ; diè loro la’cura de’ libri : ma poi cucitolo io una otre bovina gettò nel mare Marco Acilio 1’ uno de’ due rignardevoli perchè parea sfregiare la buona fede, ed era accusato di pai-ricidio da uno de’pubblici ministri. Dopo la cacciata dei re, fattasi la repubblica a sostenere gli Oracoli, nominò custodi loro, durante la vita, personaggi chiarissimi, liberi da ogni militare e civile incomben 2 a, consociando ad essi ancor altri pubblici uomini, senza i quali non poteano i primi consultare que’scritti. A dirla in breve, i Romani non guardano ninna cosa con tanto zelo non i poderi sacri, non i tempj, quanto le risposte divine delle Sibille. Yalgonsi di queste i Romani quando il Senato sta per votare in tempo di civil sedizione, o di grave infortunio in guerra, o di portenti e grandi visioni, malagevoli ad intendersi, come avvenne più volte. Fino alla guerra chiamata Marsica gli oracoli posti in un’ ama marmorea ne’ sotterranei del tempio di Giove Capitolino furono custoditi dai decemviri. Ma braciandosi poi questo dopo 1’ olimpiade centesima settantesima terza sia per insidie, come pensano alcuni, sia per caso ; arsero colle votive cose del nume, anche i libri. C gli oracoli che ora si hanno, furono.' portati in Roma da più luoghi, quali dalle città d’ Italia, quali da Eritra dell’Asia, speditivi per decreto del Senato Commissarj a trascriverli, e quali da altre città, trascrittivi da' privati. Ma sen trovano confusi co’ Sibillini anche aluri, come convincesi da que’ che acrostici si dimandano. Io qui dico ciocché Terrenzio Varrone ha scritto nelle sue teologiche trattazioui. Avea Tarquinio operate queste cose in guerra ed in pace ; avea fondate due colonie, l’uja Cioè Segni, per caso, perché svernando ivi i suoi soldati aveansi il campo come una città ridotto ; e la seconda Circea-per disegno, perché ponessi nella campagna Pomentina, la più grande intorno del Lazio, e contigua col mare, in bel sito, alto discretamente, che sporge quasi penisola nel mare Tirreno ; ed abitato già com’ è fama da Circe la figlia del Sole : avea dato qnesle due colonie a due figli suoi che ne erano i fondatori, Circea ad Anmte, e Segni a Tito. Ma quando in niun modo temea del suo principato ; allora per la ingiuria fatta ad una donna da Sesto il suo primogenito, fu cacciato dai principato e da Roma. Àveano gl’ Iddj dato il segno della calamità futura della sua famiglia con molti augurj de’ quali qu^ sto, fu l’ultimo. Venute nella primavera delle aquile in un luogo adjacente alla reggia fecero il nido su di un’alta palma : mentre però teneano i figli ancor senza penne, volandovi in folla degli avoltoi disfecero il nido: ed uc cisane la prole, e bezzicando e ferendo co’rostri e colle ali, respinsero dalla palma le aquile che tomavan dal pascolo. Vide Tarquinio l’augurio, e vegliava per istorname se poteva il destino: ma non potè superarne la forza ; e perdette il regno, congiurando su lui li pa trizj, e cooperandovi il popolo. Io tenterò dichiarar brevemente gli autori della congiura ; e come si fecero ad eseguirla. Guerreggiava Tarquinio colla città di Ardea sul pretesto che ricettava i fuggitivi da Roma, e macchinava di rimetterli in patria : ma in realtà perchè ne aspirava le ricchezze come di una delle città più felici d’ Italia. Ribbattendolo però gli Ardeatini generosamente, e prolungandosi l’assedio loro; stanchi quei del campo per la diuturnità della guerra e quei di Roma impotenti a più contribuirvi; si disposero a ribellarglisi, appena ve ne fosse un principio. Intanto Sesto il primogenito de’ figli di Tarquiaio spedito dal padre nella cittì chiamata Collazia per compiervi talune incombenze militari si alloggiò presso il congiunto suo Lucio Tarquinio detto Collatino. Fabio delinea quest’uomo come figlio di Egerio, del quale ho sopra dichiarato ch’era figlio dei fratello di Tarquinio l’antico, re de’Romani. Da lui messo al governo di Collazia ne fu chiamato Collatino, lasciandone la denominazione anche a’ posteri suoi. Io sono persuaso che questi era nipote ad Egerio se avea la eti conforme ai figli di Tarquinio, come Fabio ha scritto e molti con esso ; e la cronologia conferma tal mio concetto. In que’ giorni Collatino era nel campo. Adunque la moglie di esso, una Romana, figlia di Lu crezia riposava, e colla spada in mano vi penetrò, non sentito nemmeno da quelli che prossimi alla porta dormivano della camera. F attesi al letto, e svegliatasi la donna col giugnere delle insidie, e chiedendo chi fosse, colui svela il nome ; e comanda che taccia e resti nella camera, minacciando lei della vita, se tentava fuggire, o gridare. Cosi, sbalorditala, propose alla donna di scegliere .qual più le piacesse o lieta vita, o morte infame, ó'e t’ induci, disse, a compiacermi, io te farò mia spo~ sa y e tu regnenù meco, ora s.u la città che mio pardre mi assegna, e dopo la morie del padre sii Ro'mani, sii, Latini, sii Tirreni e su quanti egli domina. Io, tu lo sai, primogenito de' suoi figli, io sarò t erede del regno, come à ben giusto. E quali beni inondano i re, de' quali' tutti sarai tu meco posseditrice ; che giova che io qui ti additi, se tu ne sei peritissima? Che se tenti resistermi per salvare la tua pudicizia, ucciderò te prima, poi scannando un dei servi porrovene a lato i cadaveri, e dirò che sorpresa avendoti in obbrobrio col servo, io vi punii tutti due per vendicare la ingiuria del mio congiunto ; tanto che turpe, ignominiosa sarà la tua fine, nè la morta Uia spoglia saià di sepolcro onorata nè di altre funebri cerimonie. Ora siccome assai minacciava, insisteva, giu> rava a^ ogni suo detto ; Lucrezia sbigottita di una morte infame venne nella necessità di cedere agli arbiirj amorosi di lui. Fattosi giorno; costui sazio della voglia scellerata e Ainesta, tornossene al campo : Lucrezia però corucciata per l’evento ascese quanto potè frettolosa in sul carro, e venne a Roma, cinta di lugubri vesti, ed occultandovi sotto il pugnale; non salutando, salutata, negl’ incontri, né rispondendo a chi voleva intendere de’ suoi mali, tutta cogitabonda, e mesta, e lagrimosa. Giunta a casa dal padre '( e ci aveano alquanti parenti ) ella prostratasi e stregasi ai ginocchi del padre vi singhiozzò, ma senza parole : e sollevandola e stimolandola il padre a dire ciocché solTerto avesse: Padre, disse, ecco la supplichevole tuai se tremenda, se insanabile è tonta mia, padre la vendica: non trascurare Ut figlia tua, incorsa in mali più gravi della morte. Stupitosi il padre, e con esso par gli altri, eccitavala a dire chi offesa 1’ avesse, e di qual modo. E colei ripigliava: Le udirai le mie ingiurie ; ma hrevissimamenle o padre: e solo or tu mi concedi questa grazia che prima te ne chiedo. Convoca gli amici, e i parenti che puoi, perché da me la odano, da me, non da altri la calamità che io patii. Quando tavrai conosciuta la terribile, la ver-, gognosa necessità ch’io sostenni; tu deciderai con essi la vendetta che dei per me fare e per te. Ma deh / non indugiarmi tu lungamente. Corsi all’ invito sollecito 'e premurosissimo i più riguardevoli nella casa com’ ella dimandava, narrò loro, pigliandolo dalle origini, tutto l’ evento. E qui abbracciandosi ai padre, e molto lui supplicando, e gli astanti e gl’Iddj, eli patri! lari che solleciti la scioglie sero dalla vita ; trasse il pugnale che celava sotto le ve sti e, portandosene una piaga sui petto, 6no al cuore se lo internò. Clamore intanto e gemiti e femmineo tumulto turbando tutta la casa ^ il padre avviatosene al corpo la circondava, la richiamava, la curava quasi potesse redimerla dalia ferita : ma colei tra le sue braccia palpitando e spirando Gai. Parve il caso agli astanti si terribile e si miserando che una fu la voce di tutti che era mille volte meglio morire per la libertà che patire ingiurie siffatte dai tiranni. Era tra questi Publio Valerio, discendente da uno de’ Sabini venuti con Tazio a Roma, uomo intraprendente e destro. Costai fu da loro spedito in campo perchè narrasse al marito di Lucrezia r evento, e perchè ribellassero, uniti, le milizie dal tiranno. Uscito appena dalle porte eccogli per avventura incontro Collatino il quale veniva dall armata a Roma ignaro de’ mali che straziavano la sua casa ; e Lucio Giunio soprannominato Bnilò cioè stolido se tal nome ne interpetri con greche maniere. E poiché li Romani additano quest’ultimo come principalissimo nell’ abolir la tirannide; porta il pregio che preaccennisi brevemente chi, di qual sangue egli fosse, e come sortisse un tal nome. niente a lui consentaneo. Di costui fu padre Marco Giunio, proveniente da uno di que’ che menarono con Enea la colonia, e distintissimo per la sua virtù tra’ Romani : fu la madre Tarquinia, figlia di Tarquinio 1’ antico. Egli ricevè la educazione, e tutta la coltura nazionale, nè la indole sua contrariavasi a niun de’ bei pregi. Dappoiché Tarquinio ebbe ucciso Tullio levò segretamente di mezzo con molti uomini probi anche il padre di lui non già pe’ delitti, ma per la ingordigia d’ invaderne le ricchezze ereditate da pingue, antico patrimonio di famiglia : levò similmente con esso il figlio primogenito di lui nel quale appariva non so che di generoso, e che sofferto non avrebbe invendicata la morte del padre. Bruto giovinetto ancora, -e privo in tutto del soccorso de’ parenti si rivolse al mezzo savissimo di fingersi, stolido divenuto. Dall’ ora in poi, finché non gli sembrò di averne il buon tempo, ritenne le apparenze dello stolido ; e se n’ ebbe il soprannome, ma si liberò con questo dalle ire del tiranno, mentre tanti egregj uomini ne soccombetrano. Tarquinio trascurandone la demenza apparente e non vera, spogliatolo di tutti i beni paterni, e datogli un tal poco pel vitto quotidiano, lo custodi presso di sé, come garzoncello orfano, e bisognoso di chi lo qurasse, e concedè che oo’ figli suoi conversasse ; nè già per onorarlo qual congiunto suo, come fingea tra’ parenti, ma perchè desse da ridere a’ propj figli, dicendo costui le mille frivole cose, e facendone le simili agli stolidi veramente. Anzi quando mandò li due figli Àronte e Tito per interrogare 1' oracolo di Delfo su la peste ( giacché nel regno suo proruppe una peste insolita su le vergini e su i fanciulli che in copia ne perivano, e più terribile ancora e men curabile su le gravide, che morte cadeano col proprio feto in su le vie ) quando io dico mandò questi per conoscere dal nume le cause del male e lo scampo, allora congiunse ancor lui co’ figli che gliel chiedeano perchè avessero intanto chi beffare e deridere. Giunti all’oracolo i giovani ed ascoltatolo su la causa ond’ erano inviati porsero sacri doni al nume, e lungamente risero di Bruto che avea consecrato ad Apollo una bacchetta di legno ; ma colui trapanatala tutta come una fistola aveaci offerto, senza che ninno ne sapesse, una verga di oro. Poi consultando essi il nume chi mai, portavano i destini, che divenisse re di Roma ;-^rispose che il primo che bacerehhe la madre. E non intendendo i giovani la mente dell’ oracolo concordarono di baciare insieme la madre onde regnare in comune. Bruto però penetrato ciocché 1’ oracolo volea significare, non si tosto discese nell’ Italia, prostratosi, ne baciò la terra, giudicando questa la madre di tutti. £ tali SODO i fatti precedenti di quest’uomo. Come Bruto udi da Valerio i successi di Lo eresia e la storia della morte di lei sollevando le mani al cielo disse: O Giove, o Dei tutti, quanti vegliate su la vita de’ mortali, è dunque giunto finalmente il tempo per aspettare il quale io contrafeci finora me stesso ? Fuole dunque il destino che Roma sia da me liberata e per me dalla insojfribil tirannide ? E ciò dicendo vassene sollecito in casa insieme con Collatino e Valerio. Entrata la quale, appena Collatino videvi Lucrezia stesa nel .mezzo, col padre allato, scoppiando in copi ge miti la slringea, la baciava, la chiamava, e fra tanta sciagura uscito di mente tenea colla estinta il discorso, quasi fosse ancor viva. Or essendo lui tutto in pianto, e con esso il padre a vicenda, e tutta rimbombando la casa di lamenti e di gemiti; Bruto, rimirandoli disse: O Lucrezio, o Collatino, o voi tutti, parenti di que^ sta donna, beri avrete altra volta il tempo di piangerla. Ora ( e ciò deesi alla ingiuria presente ) pensiamo ^ come vendicarla. Egli sembrava dir giusto : adunque se dendo soli fra sè, sgombrata immantinente ogni turba dimestica, esaminarono ciò ch’era da fare. Bruto cominciando il primo a dire sopra sestesso che la sua demenza non fu vera, qual parve a molti, ma simulata ; e svelaudo le cause per le quali diedesi a fingerla, e giudicatone savbsimo infra tutti ; alfine, allegatene molte, ed acconcio ragioni, animò tutti al parer suo di cac(t) Plinio sul fine del libro XV. scrive che Bruto baciò la terra di Delia, a non dall Italia. dare Tarquinio e li figli da Roma. E vedmili ornai tatti consentanei, disse Che non era pià tempo di parole e promesse, ma di opere; e che egli imprenderebbela il primo se cosa alcuna fosse da imprendere. Ciò dicendo, e stringendo il pugnale con cui la donna fini sestessa, e venuto al cadavere di lei, che giaceva ancora spettacolo compassionevole a tutti, giurò su Marte, e su gli altri Dei Che farebbe tutto, quanto potea, per abbattere la tirannide di Tarquinio, che non pià si riconcilierebbe co' lii'anni, nè permetterebbe che altri si riconciliasse con essi: ma terrebbe per nimico, chiunque non volesse fare altrettanto ; e perseguite-^ rebbe fino alla morte la tirannide e li partigiani di essa. Che se mancava a quel giuramento, imprecava per sè e pe’ figli un termine della vita, quale il termine fu della donna. Ciò detto invitò pur gli altri a simile giuramento : e quelli, niente esitandone, levaronsi, e dandosi a mano a mano il pfignale giurarono, ed investigarono poi qual fosse la maniera di dar principio all’ impresa. Bruto cosi consigliò : Primieramente poniam le guardie alle porte, perchè Tarquinio non penetri niente di ciò che in Roma si dice o si opera contro la tirannide, innanzi che noi siamo ben preparati. Quindi portando il cadavere della donna, lordo comi è di sangue, nel Foro, ed esponendovelo, chiamiamovi a parlemento il popolo. E quando siavisi congregalo, quando ne vedremo già piena ( adunanza; allora Lucrezio e Collatino presentandosi narrino H orribile caso, e deplorino la loro sciagura ; poi qualunque altro facciasi innanzi ed ocf)3 ousi la ^tirannide, e provochi li cittadini a liberarsene. Oh! come avran caro di veder noi patrizj insorgere i primi perla libertà. Stanchi del Tiranno, e de’ molti e terribili mali che ne han sofferto, non abbisognano die St un primo impulso appena. Quando vedremo la moltitudine in furia per togliere la monarchia ; farremo c^ risolva co' voti, che Tarquinio non dee più regnare su Roma, e solleciti ne spediremo il decreto in campo all' esercitaIvi quando coloro che han tarmi conosceranno che tutta si è la città ribellata da Tarquinio, infiammeransi per la libertà della patria, insensibili a tutti i doni del tiranno, essi che non più reggono agli affronti de' f gli, e degli adulatori del perfido. Or avendo lui cosi detto soggiunse Valerio: Tu mi sembri o Giunio che abbi giustamente parlato su le altre cose ; ma quanto ai comizj vorrei da te sor pere chi li potrà convocare legittimamente, e chi dare alle curie i voti; essendo questo offizio de' magistrati, e niun di noi trovandosi magistrato. Ripigliando allora Giunio : o Valerio, io, gridò, sono tale; imperocché sono il tribuno de Celeri, e per legge mi è dato d intimare quando voglio le adunanze. Tarquinio dava tal massimo incoi ico, a me come stolido, e che appresa non ne avrei la potenza, o che se appresa V avessi, non saprei prevalermene. Ma io mi son quegli che il primo arringherò contro del tiranno. Detto ciò lo applaudivano tutti come lui che prendeva le mosse da principio legittimo e buono ; e lo pressavano a dirne anche il seguito ; ed egli disse : E poiché ci piace far questo, vediamo ancora qual maDigitized by Google J)4 delle antichità romane gistrato, e da chi mai crealo, debba reggerci dopo Ut espulsione dei re : anzi vediamo qual Jorma daremo allo Stato f liberi dalla tirannide ; imperciocché prima ài accingersi ad opera siffatta vai meglio di avere de liberata ogni cosa, anzi che se ne lasci alcuna non discussa, né premeditata. Ora dica ciascuri di voi su tali cose ciocché ne pensa. Dopo ciò si tennero molti discorsi e da molti. Chi numerando i gran beni fatti da tutti i re precedenti, amava che si riordinasse la regia dominazione; e chi ricordando le tiranniche ingiustizie di altri e di Tarquinio finalmente su’ proprj cittadini, non voleva il Comune sotto di un solo, ma che piuttosto arbitro se ne dichiarasse il Senato come in molte delle greche città : varj però non anteponeano nè 1’ uno né r altro, ma consigliavano che si fondasse un governo popolare, conne in Atene, esponendo le ingiurie, le. avanìe de’ pochi ^ e le sedizioni de’ miseri contro de’ potenti, e dichiarando che in città libera il comando più sicuro e più degno è quello delle leggi, eguali per tutti. Ma sembrando a tutti malagevole ed arduo il giudizio su la scelta pe’ mali che sieguono da ogni governo ; alfine Bruto, ripigliando disse : O Lucrezio, o Collatino, o voi tutti, quanti qui siete, uomini buoni, e JigU ancora di buoni-, io quanto a me non penso che noi dobbiam di presente dar nuova forma allo Stato. Troppo é picciolo il tempo a cui siamo ridotti, perché ci sia facile staBilirvela armoniosa ; lubrico altronde, e pericoloso, é tentar di cambiarvela, quantunque benissimo su di essa avessimo risoluto. Quando ci saremo levati dallà tirannide, allora potrem finalmente, consultandoci con più agio e più feria, trascegliere il governo migliore a fronte de' menò buoni j seppur avvene uno migliore di guei'^ che 7?omolo e Numa e gli altri re successivi stabilirono e ci "lasciarono, donde la città ne crebbe e ne prosperò, signora fin qui di più popoli. Solamente vi esorto che si emendino, e che provvedasi ora che più non v abbiano i mali terribili solili prorompere dalle monarchie, pe’ quali si mutano in tirannidi crude, e pe' quali tutti le abborrono. Ma quali son queste provvidenze ? Primieramente giacché molti attendono ai nomi, è secondo i nomi vanno al male o fuggono t utile ; e siccome è succeduto che ora molto attendasi a quello di monarchia; vi consiglio che il nome cangiate del governo, fe che da ora in poi quelli che vi comandano non più re li chiamiate, non più monarchi, ma con appellazione più discreta ed umana : poi, che non più rendiate un sol uomo arbitro di ogni cosa, ma fidiate a due la potenza dei re, come odo che i Lacedemoni fanno da molte generazioni, e che perciò ne hanno più di tutti i Greci leggi buone, e stato felice. Diviso il comando in due, e l’ uno potendo appunto quanto F altro ; meno acconci saranno a violarci, e meno ad opprimerci: anzi da tale egualità dee seguirne principalmente la verecondia, il ritegno vicendevole dell’uno per F altro, sicché noti si sfrenino, ed una viva gara per la fama della giustizia. E poiché molti sono li regii distintivi, io giudico che y impiccioliscano o tolgano quelli che àddolorano a rimirarli o sdegnano il popolo, io dico gli scettri, dico le corone di oro ^ e le clamidi eli oro intessute e di porpora, se non forse si asswnono ne' giorni festivi e ne’ trionfali per magnificare g/i Jddj ; mentre usate di raro non offendono. In opposito penso che si conservi a questi uomini la sedir curule ove siedono rendendo ragione, e la veste candida cinta intorno di porpora, e li dodici fasci che il venir loro precedano. Oltracciò perchè quelli che prendono il comando non molto ne abusino, io penso utilissima e principalissima cosa, che non lascinsì comandare tutta la vita. Imperciocché riesce a tutd grave un comando ind^nito, uft comando che non pià dia di sè ragione ; e di qua vien la tirannide. Ma si limiti come tra gli Ateniesi f autorità del comando ad un anno. Quelcomandare a vicenda e quell' essere comandato, quel deporre il pMere prima che il pensar vi si guasti, preoccupa le indoli vane, nè lascia che vi / inebbrino. Se .così stabiliamo, goderemo i beni che sono il frutto di una regia dominazione, e schiveremo i mali che né conseguitano. E perchè il nome regio, consueto già tra' nostri avi, ed introdotto in questa città co t gli augurj propizj degl Jddj che lo favorivano, ti custodisca, almeno per tale riguardo ; si faccia continuamente, a vita, ed onorisi un re del Culto ^ un che libero dalle cure militari in questo solo si occupi e non in altro, cioè che abbia, quasi re ne fosse, l’ arbitrio sovrano de’ sacrifizj. Ora udite come fia ciascuna di queste cose.  ’ Io, poiché dalle leggi mi si concede, io raccoglierò, come diceva, l’adunanza del popolo, e riesporrò la mia mente di bandire Tarquinia colla moglie e coi figli da Roma e suo territorio, escludendoneli per sempre essi e la lor discendenza. Quando avran ciò stabilito co’ voti, io dichiarando allora il governo che pensiamo fondare, eleggerò V interré, il qual nomini quelli che prendano le redini della repubblica. Quindi io deporrò la prefettura dei Celeri; e V interré da me creato, proporrà gl’ idonei all’ annua preminenza, rimettendoli al voto de’ cittadini : e se il pià delle centurie ne tien buona la proposta, se propizj gli oracoli la favoriscono, assumano i fasci e le insegne del potere sovrano, e provvedano che libera abitiamo la patria, nè pià li Tarquinj vi ritornino. Imperocché questi, abbiatelo per certo, se non invigiliamo su loro, tenteranno colla persuasiva, colla forza, coll’ inganno, per ogni via finalmente, rimettersi nell impero. Queste sono le somme, le principalissime cose, che io dir posso e raccomandar di presente. Quelli poi che avranno il comando devono, come io giudico, esaminare una per una, le cose particolari, giacché troppe, nè facili a discutersi pienamente ; e noi siamo stretti dal tempo: anzi'deono, come usavano i re ponderarle col corpo del Senato, non concludendone alcuna senza noi ; e quando siano approvate dal Senato, rapportarle, come f accasi tra i nostri maggiori, al popolo non levandogli niun diritto di quanti s’ avea nel principio. Così le sue magistrature saranno sicurissime e bellissime. Proferendo Giunio Bruto tal suo parere tutti lo commendanino ; e datisi ben tosto a consultare, decisero che si nominasse interré Spurio Lucrezio il padre di colei che uccise sestessa: e che da lui si scegliessero per avere il potere dei re Lucio Giunio Bruto, e Lucio Tarqninio Collatino. Stabiliscono che tali soprastanti nell’ idioma loro si chiamassero Consoli, vnol dire consiglieri o capi del ronsiglio, interpetrando in greco tal nome, giacché i Romani ciocché noi simboulas diremmo chiaman consiglio. Coi volgere però del tempo i consoli furono per l’ ampiezza del potere chiamati Ypati dalia Grecia, comandando essi a tutti e t^ neodo.il più sublime de gradi; e chiamandosi da’ nostri antichi Ipaton quanto sopralzasi, e maggioreggia. Dopo tali consulte e tali istituzioni supplicarono co’ voti gli Iddj che fossero propizj ad essi .intenti ad opera si giu non colla sepoltura a norma delle leggi : e Tarquinia la donna di questo ch’egli dovea venerare qual. madre, come sorella del padre, Tarquinia già tanto .sollecita in suo bene, % egli la strangolava, sì, questa misera, innanzi che prendesse il lutto, e che rendesse in su la tomba al marito gli ultimi onori. Così contraccambiava quelli da quali fa salvo, da quali fu nudrito, ed. a quali avrebbe pur succeduto sol che avesse un poco aspettato finché venisse loro naturalmente^ la morte. Ma perchè più, su questo riprendolo, quando, oltre i delitti contro de’ consan^inei e de’ suoceri, ho pur da accusarne le tante prevaricazioni contro la patria, e contro noi tutti, se prevaricazioni son queste, e non sovversioni e rovine di ogni costume e di ogni legge. E per comiiKiare subito ^dal regno, come lo prese egli questo ? forse come i re precedenti? ma quando mai? molto nè egli lontano. Imperocché quei tutti furono da voi portati al trono secondo i patrj costumi e le leggi, prima col decreto del ' Senato che è il capo di ogni pubblica deliberazione, poi degl’ interré scelti ed incaricati dal Senato per nominare il pià idoneo al comando f e co’ voti dati ne' comizj dal popolo, da cui, la legge vuole, che si ratifichi ogni cosa più rilevante, e finalmente cogli augurj f colle vittime, e con altri segni propizj senza i quali niente giovano i maneggi e le previdenze degli uomini. Or dite, qual di voi mai vide una parte almeno fatta di ciò quando Tarquinio prese il comando ? qual vide decreto preliminare del Senato? quale scelta degl’ interré? quali suffiragj del popolo ? per non dire dov è tutto questo ? quantunque se egli voleva il regno lecitamente, non dovea parte ninna pretermettersi di quanto chiedesi dalle leggi. Certo se alcuno può dimostrarmene fatta pur una di queste cose, più non vo’ che si brontoli su le altre che si tralasciarono. Come dunque egli si spinse al trono ? colle arme, come i tiranni, colla violenza, colla congiura degli scellerati, noi riprovandolo, e dolendocene, E fattosi re, comunque ciò fosse, la sosteneva egli V autoràà tua regalmente ? Emulava i suoi predecessori i quali co’ detti e co’ fatti costanti così ressero, che lasciarono a’ posteri la città più felice e più grande che presa non V avessero ? Chi, se pure è sano di mente, chi potrà mai dir ciò, vedendo quanto miseramente e scelleratamente siamo stati da lui malmenati. Tacio le sciagure di noi senatori, le quali, pur un nemico, udendole, ne piangerebbe, e come siam pochi rimasi di molti, come rendati abbietti di granài, e come venuti a disagio e stento, cadendo dai tanti e sì ampj beni. Que’ grati j que’ potenti,. Io3 que cospicui uomini, po' quali questa nostra città era un tempo magnifica, quelli perirono, o fuggono la patria. E le vostre cose y o popolo, come stan esse ? Non ha tolto. a voi le leggi ? non i concorsi soliti per le feste e pe’ sacrifizj ? Non ha fatto cessare i comkj, i suffragj, e le adunanze tutte su le pubbliche cose? Ridotti siete, quali schiavi comperati, ai vilipendi di tagliare, di portare pietre ed arbori, di logorarvi tra gli antri e i baratri senza requie mai, neppur tenuissima dai mali. Or quando avran fine mai tali strazj ? fino a quando li starem sopportando ? Quando la patria libertà vendicheremo ? ... Al morir del tiranno ? Appunto ! Dite ci sarà allora pià facile ? E perchè non piuttosto assai meno ? se per un Tarquinio ne avrem tre molto pià scellerati? Se chi di privato è divenuto monarca, se chi tardi ha cominciato a nuocere, ha percorsa tutta la malvagità de’ tiranni, quali, pensate, esser debbono i discendenti da lui, scellerati di stirpe, scellerati di educazione, che mai non poterono vedere nè apprendere in città misure politiche di moderazione ? E perchè non per congetture, ma intimamente conosciate la perversità loro, e quai cani latratori alleva contro voi la tirannide di Tarquinio ; specchiatevi in un azione sola del primogenito. E questa la figlia di Spurio Lucrezio, lasciato prffetto in Roma dal Tiranno nelP andare alla guerra, e moglie insieme di Tarquinio CollaUno, del consanguineo de’ tiranni che pur tanto ha da loro sopportato. Or questa per serbarsi pudica. e tutta agli amori del suo marito, come fanno le virtuose, avendo Sesto qual parente preso ospizio appo lei, mentre Collatino era lungi nelt armata, non potè schivare nella passata notte le onte. sfrenate della tirannide; ma violentata come una schù^va sostenne ciocché libera donna non dee. Pertanto esacerbatane, e presa la ingiuria per insoffribile, dopo che ebbe narrato al padre e a congiunti le vicende ree che la desolarono, dopo che ebbe pregato e scongiurato che la vendicassero per tanti mali; alfine traendo il pugnale che celava nel seno, profondosselo, e vedendola il padre j o Romani, nelle viscere. O tu certo mirabile, o tu di encomj degnissima per la nobile ' risoluzione ! t’ involasti, moristi non reggendo agli obbrobri del tiranno, e  ricusasti le dolcezze tutte del vivere perchè simile calamità non ti avvenisse. Avrai tu dunque o Lucrezia nella tua femminil condizione K avuto il. cuore de’ valentuomini, e noi, uomini nati, noi saremo in viltà men che le femmine ? Tu perchè predata a forza del fiore immacolato della tua pudicizia, avrai tu reputato la morte pià dolce e pià beata della vita; e noi non avrem pur nell’ animo, che Tarquinio non da una notte, ma già da venticinque anni ci opprime, e ci ha colla libertà levato gli agi tutti del vivere ? No ; pià non dobbiamo, o Romani, noi vivere avvolgendoci in tanti pericoli, noi che discendenti siamo di que bravi, che vollero fondare i diritti fin per gli altri, e lanciaronsi a tanti .pericoli per la sovranità e la gloria : ma V una delle due si dee scegliere o libera vita, o morte onorata. È pur venuto il tempo che bramavamo ; perchè lungi è il tiranno dalla città, e perchè duci sono della impresa i patrizj, e perchè se con animo pronto ci facciamo ad imprendere, non abbisogniamo di cosa niuna non di uomini, non di danari, non di arme, non di capitani, non di altro apparecchio militare ; essendone Roma pienissima. Siaci pure una volta vergognà che noi che cerchiamo signoreggiare i Volsci, i Sabini, ed altri moltissimi^ noi stiamo • ad altri servendo, e che mentre tante guerre imprendiamo per in^andire Tarquinio, niuna per la nostra liberuì ne facciamo.Ma di quali incora^menti ci varrem per la impresa, di quai leghe ? È questo che rimanenti a dire. Primieramente c incoraggiremo su la speranza negl’ Iddj de’ quali Tarquinio viola le sante cose, i templi, gli altari, libando e sacrificando con mani lorde di sangue, e di ogni scelleraggine contró de cittadini; appresso c incoraggiremo su la speranza che abbiam su noi stessi che nè pochi siamo, nè inesperti di gierra ; e finalmente sul rinforzo di quegli alleati i quali non ardiranno far novità se noi non ve 'gV invitiamo ; ma se vedono che noi il valor nostro raccendiamo, lietissimi ci si uniran per combattere ; nemico essendo della tirannide chiunque vuole esser libero. Che se alcuno di voi teme quei cittadini che in campo si porran con Tarquinio per militare con esso contro noi ;• non bene teme costui. Anche ad essi è grave la tirannide, ed ingènito in tutti è V amore della libertà : ed ogni occasione di mutamento basta a chi è misero necessariamente. Che se voi li chiamerete col voto vostro a soccorrer la patria, non timore li riterrà co’ tiranni, non grazia, e non cosa ninna la quale sforzi o persuada, a mal fare. E se in alcuni si è per la ria natura, e la trista educazione abbarbicato V amor dei tiranni ; ridurremo ancor essi, che molti non sono, con insuperabile necessità sicché utili ci divengano i malevoli ; perciocché teniamo in città quali ostaggi i loro figli, le mogli, i parenti, pegni carissimi che ognuno pregia più che la vita. Or se noi prometteremo di rendere questi, se decreteremo per essi la impunità quando distacchinsi dal tìrannno ; di leggeri li persuaderemo. Cosicché fatevi cuore o Romani, concepite belle speranze per V avvenire, uscite per una guerra, certo la più gloriosa di quante mai ne imprendeste. Si, palrj Dei, propizj curatori di questa terra, sì Genj, tutelari già de nostri padri, sì, città carissima infra tutte ai Celesti nella quale nascemmo e cresciamo, sì noi vi difenderemo co’ pensieri, colle parole, colle opere, colla vita ; pronti a tutto soffrire, quanto la fortuna porti ed il fato. Presagiscorni che alla impresa buona seguirà fine bonissinto. Possano quanti confidano, quanti decidonsi come noi, voi salvare ed essere da voi salvati parimente. Mentre Bruto aringava, faceansi ad ogni suo detto acclamazioni dal popolo in signiBcazione, che esso appunto cosi voleva, e comandava. Ed i più sentendo quel parlare maraviglioso ed inaspettato lagrimavano per tenerezza. Inondavano passioni varie nè punto 1 07 amSi ogni petto: e dove il rancore, dove la gioja trionfavano, là pe’ mali già sostenuti, qua pe’ beni che si aspettavano. Dove era audacia, dove timidità, quella che incitava a non curar sicurezsa contro i subjetti, odiati perchè intenti a far male ; e T altra che oppo neasi agl’ impeti delia prima, perchè vedea non facile la rovina della tirannide. Ma non sì tosto colui cessò dal parlare ; tutti, quasi con una bocca, ad una voce esclamarono, che guidassegli alle arme. E Bruto dilettatone, sì, disse, ma quando prima avrete udito, e confermata co’ voti vostri i decreti del Senato. E noi decretiamo CHS i TAsqvatj s tutta la consangvu HIT a' loro svogano ROMA E QUANTO È Ds' ROMAICI : CBS NIUNO FOSSA DIRE O BRIGARE SUL RITORNO DEI tiranni; e se contravviene; si" uccida. Or se volete che un tal parere si adotti ; compartitevi in curie, e datene i voti. Questo incominci per voi li diritti della' vostra libertà. Disse ; e cosi fu hitto : e poiché tutte le Curie ebbero decretato 1’ esilio del tiranno ; Bruto fattosi innanzi, ripigliò : Giacché avete voi ratificato quanto deesi, le prime cose ; ascoltate U resto che abbiam deliberata su lo Stata. Esaminando noi qual magistrata esser dee V arbitro del comando, ci è piaciuto, non già di rinnovare il comando di un solo, ma di creare ogm anno due capi con regio potere, che voi stessi eleggerete ne’ comizj, votandovi per centurie. Or se volete anche ciò ; datene il voto. Il popolo lodò questo ugualmente; nè vi fu pur un voto contrario. Quindi ripresentatosi Bruto, nominò Spurio Lucrezio per interré, perchè secondo le patrie leggi prendesse cura de’comisj. Costui sciogliendo ' r adunanza, ordinò che tutti subito si recassero in arme al campo, dove solcano tenere i comizj. Recativisi ; scelse due Bruto e Gollatino che facessero quanto facevano i re. Ed il 'popolo chiamato per centurie con fermò la magistratura a que’ due. Tali sono le cose ai lora fatte in città. Tarqninio come udì da messaggeri sottrat tisi per avventura da Roma prima che le porte se ne chiudessero, che Bruto (perché narravano questo solo) fattosi capo-popolo, aringava i cittadini, e suscitavali a rendersi liberi, parti senza dirne le cause, prendendo se^o i figli, ed altri più fidi, e correndo a briglie sciolte onde prevenire la ribellione. Ma trovando chiuse le porte, e piene le mura di arme, tornossene, quanto potè, veloce nel campo affligendosi e lagrimando : se non che già le sue cose erano qui pure in iscompigUo. Imperocché li consoli antivedendo la sollecita venuta di lui verso Roma aveano per altra via spedito all’armata, invitandola a togliersi dal tiranno, ed annunziandole i decreti di quei della città. Or Tito Erminio e Marco Orazio lasciati dal tiranno nel campo prendendo quelle lettere le recitarono nell’ adunanza : e dimandando via via per centurie ciò che era da fare, e piaciuto a tutti che si ratificassero le deliberazioni della città ; più non riceverono Tarquinio che tornavasi a loro. E caduto pur da questa speranza fuggisseue con pochi alla città di Gabio f della quale, come ho detto di sopra, avea creato monarca, Sesto il suo primogenito. Esso già canuto per anni avea tenuto per cinque lustri il comando. Erminio ed Orazio, concbiusa una tregua di quindici anni cogli ÀrdeatinI, ricondussero in patria le milizie. Per tali cause e da tali uomini fu tolta in Roma la regia dominazione, conservatavisi per dugcnto quaranlaquattr’ anni dalla sua fondazione, e divenuta in fine tirannide sotto 1’ ultimo re. OloMSERVATASl in Roma la regia dominazione per dugento quarantaquatlr anni e cangiatavisi poscia in tirannide sotto r ultimo re fa per le cagioni anzidette abolita da tali uomini  sul principio della olimpiade sessagesima ottava, nella quale Iscomaco da Crotone vinse allo stadio, mentre Isagora esercitava in Atene r aunuo magistrato. Ed istituitasi la signoria de’ pochi, mancando quattro mesi al compiersi di quell’anno, assunsero i primi il comando supremo, Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquioio Collatino col nome di consoli,  Anni 345 fecondo Catone e i 47 'ecjndo Varrone dalla fondailone di Roìna, e So; avanli Cristo] cosi chiamandosi da Romani, come già dissi, nel patrio idioma i capi del Senato. Poi congiungendo questi a sè gli altri che numerosi tornavano dal campo in città dopo conchiosa la tregua con gli Àrdeatini ; e pochi giorni appresso la espulsione del Tiranno convocando il popolo a parlamento, e ragionando copiosamente su la concor dia ; fecero di bel nuovo decretare co’ voti, come già quelli che erano in Roma lo avevano decretato, bando perpetuo ai Tarquinj. Dopo ciò puri6cando la città, fattone sacrifizio ; essi i primi, stando intorno le vittime, giurarono, e ccndussero pur gli altri a giurare, che mai più dal bando richiamerebbero il re Tarquinio, nè la prole di lui, nè i figli de’ figli : anzi che non più iarebbono re ninno in Roma, nè tollererebbono chi far cel volesse. Cosi giurarono su’ Tarquinj, su figli, e su la prosapia loro. E, couciossiachè pareano i re, stati autori di molti e gran beni inverso del pubblico, deliberatisi a conservare il nome almeno di tal signoria, finché Roma durava, comandarono ai pontefici ed agli auguri di eleggere il più idoneo tra’seniori, perchè tolto da tutte le cure, se non dalle religiose, presedesse in sul culto, e Me si chiamasse non delle politiche, non delle militari,. ma delle sante cose. Per tanto fu delle sante cose nominato re per il primo Manio Papirio, uomo patrizio e dedito alla dolce calma. II. Stabilito ciò, temendo, io credo, che non si generasse negli altri sui nuovo governo la idea non vera, che in luogo di uno dominavano due re la città mentre Secondo Feslo il primo re tacriJieuUu, fa Sicinnio Beliulo, ed in cfò discorda da Dionigi e da Livio. Ir uno e 1’ altro de’ consoli avca come un tempo i re le dodici scuri ; deliberarono preoccupar tal concetto, e scemare la invidia del comando, e fecero cbe l’uno de’consoli portasse dodici scuri, e F altro dodici littori colle verghe coronate solamente  come narrano alcuni: talché le scuri le assumesse e recasse ora l’uno ora F altro vicendevolmente per un mese intiero. Animarono con questo F umile plebe a conservar quel governo ; e con simili cose non poche. Imperocché rinnovarono tutte le leggi scritte da Tullio su’ contratti ; le quali si tenean per umane e popolari, e Tarquinio aveale tutte soppresse : e comandarono che si facessero come a’ tempi di Tullio, i sagriGzj che in città si faceaiio o nella campagna, riuiiendovisi que’ di Roma e de’ villaggi. Concederono che il popolo si radunasse per le cose più rilevanti, e desse il voto, e ripigliasse a voler suo gli usi primitivi. Piaceano tali cose alla moltitudine ravvivatasi dal servir lungo a libertà non aspettata. Nondimeno ci ebbero alquanti i quali desiderosi de’ mali della tirannide per demenza o per avarizia congiurarono di tradire la patria e richiamarvi i Tarquinj, trucidandone i consoli : ed io dirò quali ne fossero i capi, e come im provvedutamente scoperti, mentre credeansi occulti atutti, ma riassumerò le cose alquanto più addietro. III. Caduto Tarquinio dal trono, si tenne per un tempo, non lungo, in Gabio, raccogliendo quanti a  Il lesto non è ben fìsso : e fotse dee leggersi verghe curve o grosse nella lesta. Il codice Valicano avendola voce xafvtat e noa xtfà/tttt favorisce la idea di verghe grosse in testa. Silburgio propende per le verghe ricurve iu cima lui ne venivano amici della tirannide pià che delia libertà, e confortandovisi in su le speranze de’ Latini, quasi potessero questi ricondurlo alla reggia. Ma poscia che le città non io ascoltavano nè voleano per lui fare una guerra ai Romani ; disperandone alfìne il soccorso fuggissene a Tarquinj città Tirrena, donde era la materna origine sua. E cattivandosi que’ cittadini co’ doni, e prodotto da essi in piena adunanza, rinnovò 1’ antica congiunzione con loro, e commemorò li benefizj deU r aiuolo suo con tutte le città Tirrene, e gli accordi che avean fatto con lui. Poi si lamentò con tutti della sciagura che avealo preso, e come travolto in un sol giorno da lietissima condizione, ora profugo con tre 6gli e bisognoso fin del necessario, era costretto ricórrere a popoli, un tempo, sudditi suoi. Scorrendo su tali cose pateticamente e con molte lagrime, indusse il popolo a spedire il primo a Roma uomini che portas sero parole di pace per lui, quasi i potenti ivi fossero per favorirlo, ed ajutarlo al ritorno. Nominati quelli eh’ egli volle per ambasciadori, ed istruitili delie cose che erano da dire e da fare gli spedi con alquanto di oro e con lettere de’ fuorusciti con esso dirette con preghiere agli amici e domestici loro. IV. Venuti questi a Roma dissero hi Senato : che chiedea Tarquinia la franchigia di venire con pochi prima in Senato, e poi, quando ciò fossegli conce-duto dal Senato, nell adunanza del popolo per darvi conto delle opere sue fin dai principj del regno, falline giudici tutti i Romani, se alcuno mai lo accusasse. Che se appien si giustifica, se persuade che egli non ha colpe degne dell esilio ; allora se gUel concedano, regnerà novamente con que' limiti che gli prescriveranno : se poi decreteranno di non voler più. come per l’ addietro la sovranità dei re, ma di fon-^ darne un altra qualunque, egli uniformandovisi al pari degli altri reslerassene colla sua famiglia in Roma, sua patria, libero almeno della vita degli erranti, e de' profughi. E ciò detto supplicavano il Senato pei comuni diritti che vogliono che niun si condanni senza discolpe e giudizj, a concedere una difesa della quale essi giudicherebbero. Che se ciò non volevano a lui concedere, fossero compiacevoli almeno in vista della città la quale s' intrametteva. Compiacendola, tuttoché senza discapito loro, assai onorerebbero la città che ciò conseguiva. Uomini essendo, non si elevassero sopra la sorte degli uomini: nè serbassero immortali sdegni in cuori mortali : ma in grazia degt intercessori si sforzassero anche contro lor voglia di usare mansuetudine ; considerando eh' egli è da savio condonare le inimicizie per le amicizie ; ma da stello e da barbaro volgere in nemici gli amici. V. Aveano ciò detto, quando Bruto sorgendo replicò : Sul ritorno de' Tarquinj in Roma cessate o Tirreni di più ragionarne. Imperciocché già si è qui J volato irreparabilmente per l'esilio loro: ed abbiamo tutti ^giurato agC Iddj di non restituire i tiranni, e di non tollerare che altri ce li restituisse. Ma se chiedeste con altra moderazione a cui nè le leggi nè li giuramenti si oppongono', manifestatevi. Or qui faitùi innanzi gli ambasciadoi’i soggiunsero : Terminale ci sono contro la espettazione le prime dimandet ambasciadori per uno che si raccomanda, per uno che vuole dare a voi conto di sè stesso, abbiamo chiesto qual grazia ciocch’ era diritto per lutti : nè potemmo ottenerlo. Ora poiché ve n è parato così ; non più vi presseremo sul tornar de' Tarquinj. J\oi facciamo istanza per un altro diritto di cui la patria c incaricava, e su cui non legge, non giuramento impediscavi, cioè che rendiate al monarca i beni clm [ avolo suo possedeva senza toglierli a voi nè di forza nè in occulto, ma portati qui avendoli, come ereditati dal padre. A lui basterà, se lo ricupera, il suo, per vivere altrove Jelicemente, senza vostra molestia. RitiraroDsi ciò detto gli ambasciadorì. Bruto T uno de’ consoli suggeriva che si ritenesser que' beni in compenso delle ingiustizie sì gravi e sì numerose dei tiranni contra del pubblico, e per util di Stato : perchè non si dessero ad essi de mezzi co’ quali far guerra ; preammonendo, che nè si affezionerebbero ad essi i Tarquinj col riavere i lor beni nè sosterrebbero una vita privata, ma porterebbero su Romani le arme di altri popoli, e tenterebbero di tornare colla forza al comando. Collatino però consigliava il contrario, dicendo che non gli averi, ma le persone dei tiranni noceano la città. Pertanto scongiuravali a guardarsi prima dalC incorrere nella rea fama di avere espulso i Tarquinj per invaderne i beni, e poi dal porgere ad essi cosi spogliandoli, giusta occasione di guerra : dicea che non era chiaro, che ricuperando i beni si accingerebbe^ ancora ad una guerra con essi, laddove era ben manifesto, che non ricuperandoli f rion si cheterebbero. VI. Cosi dicendo i consoli ; e molti sentendola colr uno e coir altro ; il Senato dubitò come avesse a risolvere. E ripigliandone per più giorni l’ esame, e parendogli che Bruto consigliasse il più utile, ma Collatino il più giusto ; in ultimo deliberò che giudice ne fosse il popolo. Or qui dette essendo più cosedairnno> e dall’ altro de’ consoli, e venendo alBne le curie, che eran trenta di numero, ai voli, preponderarono le une alle altre con si piccini divario che quelle le quali intimavano che si rendessero i beni superarono di uà sol voto le altre le quali voleano che si ritenessero. I Tirreni avuta la risposta dai consoli : e molto lodando' la città che anteponesse all’ utile il giusto ; spedirono a Tarquinio perchè mandasse chi ricevesse i beni di lui ; frattanto essi resiavansi a Roma sul titolo del trasporto de’ mobili, o di dar sesto a ciò che non potessi menar via j nè carreggiare : ma in realtà spiando e brigandovi, come il tiranno aveali incaricali. Perocché ricapitarono' le lettere de’ profughi agli attinenti loro ; pigliandone le altre di replica. E conversando, e studiando le affezioni di molti, se ne trovavano alcuni facili ad essere guadagnati per la poca fermezza, per la inopia, o pel desiderio di 'empiersi nella tirannide, davansi a subornarli coir oro e con ampliarne le belle speranze. Vi sarebbero secondo le apparenze in città si grande e si popolata, alquanti non degl’ infimi solo ma de’riguardevoli i quali anteporrebbono il governo men buono al migliore 'y or furono tra questi i due Giunj Tito e Ti> berio, figli di Bruto il console, puberi appena, e con essi i due Geli]  Marco e Manio fratelli della moglie di Bruto, idonei a’ pubblici affari : Lucio e Marco Aquìlio, figli ambedue della sorella di Collatino, altro consolo, e conformi di anni al figli di Bruto, presso a’ quali, non più vivendo il lor padre, per lo più si adunavano e ctmcertavano sul ritorno de’ tiranni. VII. Tra le molte cose, per le quali a me sembra che Roma giugnesse per la provvidenza de’nnmi a stato si prospero, non sono le infime quelle che avvennero allora. Imperocché si mise in que’ sciaurati tanta de.menza, e tanta cecità, che osarono fino scrivere al tiranno di propria mano lettere che indicavano il numero copioso de’ congiurati ed il tempo nel quale assalirebbero r uno e r altro console, lusingati dalle epistole del perfido ad essi per le quali volea sapere i .compensi che avrebbe a dare, tornando in trono, al Romani. Ebbero i consoli queste lettere per tale incontro. Eransi i prlmarj de’ complici riuniti in casa, degli Aquilj nati dalla sorella di Collatino, invitativi come a sante cose e sagrifizj. Dopo il convito ordinando che quei che lo aveano ministrato uscissero e si • tenessero nell’ anticamera; confabulavano infra loro su • la rintegrazione del tiranno, e segnavano ciascuno, i .mezzi che glien parevano di mano propria in lettere che gli Aquilj doveano far giungere ai messaggeri Tirreni, e questi a Tarquinio. Intanto uno schiavo (Vin Sigonio ne scogtj LÌTiani pone Vitel^ in luogo di Gellj seguendo le antoriià di Livio e di Plnisrco. dicio ne era il nome ) della città di Genina, il quale fervito gli avea di bevanda, sospettando dalla remoaione de’ servi che coloro macchinassero qualche scelleraggine, si stette solo fuori della porta, ed applicatovisi in una fessura ben lucida, ne udì li discorsi, e ne vide le lettere che vi si scrivevan da ognuno. Quindi a notte avanzala uscendo come in servigio de’ padroni, non ardi di andare ai consoli sol timore che volessero per r amor de’ congiunti che il fatto si occultasse, e ' levas~ sero di mezzo chi porgea la dinunzia : ma recatosi a Pubblio Valerio l’ uno de’ quattro, primarj nel tor la tirannide y congiunsero a vicenda la destra, e giuratagli da lui sicurezza, gli svelò quanto odi, e quanto vide. Colui, saputo il fatto, si presentò • senza indugio su r alba in casa degli Aquilj con valida schiera di clienti e di amici, e penetrandone senza >ntesa le porte come per tutt’aliro affare, s’impadronl delle lettere mentre pur v’ eran que’ giovani, i quali menò seoo innanzi de’ consoli. Vili. Ora essendo io per dire le sublimi, e meravigliose gesta di Bruto di che tanto i Romani si magnificano, temo che sembrino austere troppo nè credibili ai Greci, giacché tutti sogliono per natura giudicare le cose che di altri si dicono dalle proprie, e secondo queste aversele per credibili o non credibili. Nondimeno io le dirò. Non si tosto fu giorno, sedutosi Bruto in tribunale, ed esaminando le lettere de' congiurati, appena scopri quelle de’ figli distinguendole dai sigilli, e dopo rotti i sigilli, dai caratteri; ordinò primieramente •he lo scriba leggessene 1’ una e l’ altra, sicché tutti le udissero, e quindi che i Ggli dicessero su ciò se voleano. Niuno de’ due ardiva rivolgersi impudentemente a negarle per sue, ma quasi avessero già condannato sè stessi, piangevano. Egli soprastando breve tempo sorse ; ed intimalo silenzio, ed aspettando tutti qual ne sarebbe la flne, disse, che condannavali a morte. Or qui alzarono tutti la voce, alienissimi, che avesse un tal uomo a punire sè stesso colla morte loro, e voleano condonare al padre la vita de’ figli. Ma egli non comportando nè le voci nè i pianti comandò a’ satelliti che di là rimovessero i giovani che lagrimavano e supplicavano e co’ nomi più teneri lo chiamavano. Riusciva spettacolo meraviglioso a tutti che un tal uomo niente piegato si fosse nè per le preghiere de’ cittadini, nè per la commi aerazione inverso de’ figli : assai però parve più portentosa 1' austerità di lui circa il supplizio. Imperocché nè permise che si uccidessero i figli allontanati dal cospetto del popolo, nè egli, almeno per fuggirne la terribile vista, si ritirò dal Foro finché non furono puniti : nè condiscese pure, che subissero, non disonorati co’ flagelli almeno, la morte destinata. Ma custodendo tutte le consuetudini, e tutte le leggi quante ve n’ ha su’ malfattori, egli stesso nel Foro tra la pubblica vista presente a tutto, fattili prima straziar colle verghe ; concedette alfine che con le scurì si decapitassero. Sorprendente soprattutto, inconcepibile era in quest’ uomo la immobilità degli sguardi senza indizio nemmeno di compassione. Tanto che piangendo tutti, egli solo fu visto non piangere sul destino de’ figli: nè sospirò per sè stesso, nè per la solitudine la quale facevasi nella sua casa, nè diè segno in tutto di debolezza: ma senza lagrime, senza lamenti, e come inalterabile, portò magnanimamente la sua sciagura. Tanto era forte di animo, tanto costante in compiere le risoluzioni, e tanto superiore agli affetti che turbano la ragione ! IX. Uccisi i &gli fe’ chiamare immantinente gli AquiIj, 6gli della sorella dell’ altro console, presso a’ quali teneansi i congressi de’ congiurati. E comandando alle scriba che ne leggesse l’ epistole sicché tutti le udissero ; intimò ad essi che sen difendessero. Ma i giovani venuti dinanzi al tribunale, sia che ammoniti ne fossero dagli amici, sia che di per sè lo risolvessero, si gittarono a piedi dello zio per essere da lui salvati. Ma comandando Bruto ai littori che li svellessero, e li traessero se non voleano giustificarsi alla morte ; Collatino sopraggiunse a questi, che sospendessero alquanto finché abboccavasi col collega, e pigliatolo da solo a solo orò lungamente pe’ garzoncelli ; parte escusandoli che fossero caduti in tale stoltezza per inesperienza e per compagnie triste di amici, e parte eccitandolo a condonare la vita di parenti, dimandandolo in grazia lui che non d’altro mai più lo vesserebbe, e parte facendo riflettere che turberebbesi il popolo tutto se davausi ad uccidere chiunque sembrato fosse tenersela co’ fuorusciti perchè ritornassero ; imperocché dicea eh’ eran molti, e parecchi non ignobili di lignaggio. Ma non venendogli di persuaderlo; ne chiese almeno pena più mite che non la morte, dicendo: mal convenirsi che i complici si avesser la morte, mentre il tiranno non sostenea che l’ esilio. E perciocché Bruto ripugnava da pene più mi, nè voleva (ciocché chiedeva da ultimo il suo collega ) nemmeno differire il giudizio de’ colpevoli, e minacciava, e giurava di darli tutti appunto iu quel giorno alla morte ; Coliatino sdegnatosi in fine che niente ottenea ; soggiunse : io, pari tuo, to scamperò que' giovini se tu se tanto intrattabile e duro : E Bruto indispettitone, no, disse, Coliatino ; non potrai finché 10 vivo far salvi i traditori della patria : anzi tu pure darai tra non molto le pene che meritL X. Ciò detto, e messa una guardia su’ giovani chiamò 11 popolo a parlamento : e riempiutosi il Foro, perchè il supplizio de’ figli suoi, già si era in città divulgato, egli facendosi in mezzo, cinto da’ più cospicui de’ senatori disse : lo vorrei o Cittadini, che Collatino, questo mio compagno, fosse concorde con me su tutto, ed odiasse e combattesse i tiranni non pur colla voce, ma colle opere. Ora poiché lo trovo manifestamente contrario e congiunto in tutto a' Tarquinj di sangue, di voglie, e di brighe onde riconciliarceli, anzi col-[ utile suo che del comune ; io sono risoluto di op~ pormegli perché non compia le ree sue macchinazioni, e perciò vi ho qua convocati. Io dirò primieramente in qitanto pericolo sia la città ; poi come t uno e t altro di noi siasi diportato. Biunitisi alquanti in casa degli Aquila nati dalla sorella di Collatino, e tra questi ambedue li miei figli e li fratelli della mia moglie, ed altri non ignobili ; stabilirono, e congiitrarono la mia morte, e di restituirvi in Tarquinio il monarca. E già erano per mandare ei fuorusciti /efrtere contrassegnate da loro caratteri e sigilli. Ma si fe ciò, la Dio mercede, a noi manifesto, indicandocelo questo uomo, che è un servo degli jiquilj, di quelli presso i quali si adunarono e scrissero nella notte precedente le lettere ; e noi, le abbiamo noi, queste lettere. Io già ne punii Tito e Tiberio miei figli : e niente, non leggi, non giuramenti, furono da me violati per la clemenza di un padre. Ma Collatino mi ritoglica dalle mani gli Aquilj con dire che non soffrirebbe che partecipassero la sorte de' miei figli, se partecipato ne aveano i disegni. Ma se costoro non soggiacìono a pena, nemmen dunque vi dovran soggiacere non i fratelli della mia moglie, non quanti sono, i traditori della patria. E qual diritto più grande avrò io contro questi, se risparmiatisi quelli ? Dite, qual contrassegno c mai questo, di amici della patria, o del tiranno, di conferma del giuramento che avete voi tutti prestato noi precedendovi, o di sconvolgimento e di perfidia ? Se egli rimanevasi occulto, pur sarebbe in preda alle fune e sotto la vendetta degli Dei che spergiurava. Ora poiché vi si è palesalo a voi si spetta, a voi di punirlo. Vi persuadea costui pochi giorni addietro che rendeste i suoi beni al tiranno, non perchè la città se gli avesse per usarne in guerra contro i nemici, ma perchè li nemici gli avessero per usarne contro la città. Ed ora si arroga di esentare dalle pene i congiurati a restituirvi i tiranni, in favore come è chiaro di questi, perchè se mai tornano, sia di forza, sia per tradimento egli in vista di tanti servigj ne ottengcL come amico, quanto dimanda. Ed io che non ho perdonato a’ figli miei, io dovrò, o Collatino, te risparmiare, che sei con noi di presenza, ma coll’ animo tra’ nemici ? E tu che salvi i traditori della patria, tu me che per essa travagiiomi, ucciderai ? Or potrà farsi ? Eh ! che lontani siamo di molto. E perchè non possi nulla di simile, ti levo dal consolato e cornandoti che in altra città ti conduciti. E voi o citiiadini voi chiamerò ben tosto per centurie, e presi i voti, deciderete se dobbiam così fare. Intanto, (e vivissimamente avvertitelo ) voi l' una delle due mi dovete, escludere Collatino, o Bruto. XI. Or lui cosi dicendo ; Gollatino esclamando ed angustiandosi, cbiamavalo di cosa in cosa calunniatore e traditore degli amici : e purgandosi dalle incolpazioni contro di lui, pregava intanto pe’ fìgii della sorella: ma perciocché non permettea che si dispensassero i voti contro di lui ; inferocivane il popolo, levandosi a remore in ogni suo dire. Ora essendo cosi inferocito nè soffrendo discolpe, nè volendo preghiere ma solo che si dispensassero i voti ; ed interponendosene il suocero Spurio Lucrezio, uom pregiatissimo, per timore che Collatino non perdesse ignominiosa mente ad un tempo il magistrato e la patria, chiese da ambi i consoli facoltà di parlare. Ed ottenutala, esso il primo, come dicono gli storici Romani, giacché non v era ancor r uso che un privato aringasse il comune ; diedesi pubblicarrtente a pregare 1’ uno e 1’ altro de’ consoli, Collatino perché non si ostinasse e non ritenesse il comando a mal cuore de’ cittadini, che spontanei gliel diedero ; ma se pareva a que’ che gliel diedero di ripeterlo, volontanamente lo restituisse, e levasse co’ fatti, non coi detti le accuse contro di lui : prendesse le sue cobbe e si recasse ad abiure altrove, dovunque voleva, Gnchè 10 Stato non era in salvo ; cosi porUndo 1’ utile pubblico : riflettesse come in altre ingiustizie gli uomini se ne sdegnano, quando sono commesse : ma che sospetundosi di tradimenti stimano anzi saviezza temerne invano e guardarsene', che trascurarli e lasciarsene rovinare. Persuadeva poi Bruto, che non cacciasse dalla città con vergogna e con vitupero quel magistrato com> pagno col quale avea preso le risoluzioni più belle {>ér la patria : ma che desse a lui, s’ avea cuore di lasciare 11 suo grado e di trasmigrarsi, tutto 1’ agio a raccor le sue robbe, e gli aggiungesse a nome del popolo un dono come pegno di consolazione nelle sue calamità. Cosi consigliando quel valentuomo, inUnto che il popolo ne lodava i discorsi, Collatlno depose la sua dignità, contristato che per la pietà de’ parenti era astretto a lasciare e senza demeriti la patria. All’ opposito encomiavalo Bruto perchè risolveva il migliore per la sua Roma e per sè, e pregavalo a non. disamorarsi nè verso di lui, nè della patria : trasportando altrove la sede, considerasse ancor sua, la patria che lasciava, nè si meschiasse a’ nemici contro lei non colle parole, non colle opere. Considerasse in somma questo transito suo qual pellegrinalo, non qual bando, o fuga: tenesse il corpo presso quei .che lo ricevevano, ma V affetto suo, lo. tenesse questo, presso quei che lo mandavano. Or, cosi avendo ammonito quest’ uomo persuase il popolo a regalarlo di.’ laS venti talenti, con aggiungerne egli cinque del suo. Ca duto Tarquinio Cotlaiino in tale disgrazia si ritirò a Lavinia, antica madre de’> Latini dove carico di anni mori. Bmto non sopportando di essere solo al comando, per non dare sospetto, che levato avesse il compagno dalia patria per fervisi re, chiamò bentosto il popolo al campo dove usava eleggere i sovranie gli altri magi strali, e creò per collega nel consolato Pubblio Yale rio, uno dei discendenti, come sopra fu detto, dai Sabini, uom degno di ammirazione e di lode per le molle suo doli, e principalmente per la sobria sua vita. Egli trovando in sé stesso una luce naturale di filosofia, la fece brillare in più affari, come poco ap presso diremo. Unanimi questi in tutto, immantinente diedero a morte, quanti erano, i congiurati al ritorno de’ fuom sciti, e dichiararono libero e cittadino il servo. che aveali denunziali, colmandolo di oro. Poi fecero tre bellissimi ed utilissimi regolamenti, che la città contemperarono a pensare tutta di un modo, sminuendo il favor pe' nemici. Il primo spediente fu di scegliere i migliori della plebe e di crearli patrizj, onde compier con essi un Senato di trecento. Appresso esposero al pubblico le suppellettili del tiranno, concedendo che ognuno se ne avesse, quanto toglievano ; e compartirono i terreni di esso a chi non aveane, riservandone unicamente il campo tra ’l fiume e tra la città, dedicato già dal voto degli antenati a Marte, come prato benissimo pe’ cavalli e per gli esercizj de’ giovani in arme. Tarquinio però, sebbene prima di lui fosse già sacro a qnel nume, aveaselo appropiato, e sem inavaci : di che è sommo argomento la risoluzione allora presa da’ consoli sul ricollo che sen ebbe. Imperocché sebbene avessero conceduto al popolo di prendere e portarsi quanto era del tiranno, non però consentirono che alcuno si arrogasse il grano germogliatovi, sia che fosse nelle spighe, sia che nell’ aja, sia che già lavorato ; ma decretarono che si gettasse nel fiume come esecraa do, né degno che se lo avessero in casa. £ di tal giuo sopravvanza ancora, monumento famoso, la isoletta sacra ad Esculapio, bagnata intorno dal fiume, prodotta, dicono, dagli ammassi delle paglie corrotte, e dai fango che vi si appiccò nel correr delie acque. Rispetto a quelli che eransi fuggiti a Tarquinio accordarono ad essi generale perdono, e ritorno sicurissimo in patria fra venti giorni, intimando a chi venuto non fosse in quel termiue, 1’ esilio perpetuo e la confisca de’ beni. Or tali provvedimenti impegnarono ad ogni cimento quei che godeano le robe, quante mai fossero del tiranno, sul timore che non venisse ior meno l’utile che ne aveano; come impegnarono a favorire non più la tirannide ma la patria, que’ lutti che per le gesta loro sotto dei despoti, eransi esiliati da sé stessi, per timore di non pagarne le pene. Ciò fallo, si diedero co pensieri alia guerra tenendo intanto 1’ esercito in campo presso di Roma sotto le insegne e li capitani per addestrarvelo ; perchè aveano udito che i fuornscili apparecchiavano centra loro ua armata dalle città dell’ Etruria, e che quelle de’ Tarquinj e de’ Vejenii, potentissime ambedue, cooperavano manifettamente al ritorno di essi, mentre gli amici loro adunavano dalle altre de’ stipendiati e de’ volontarj. Ma non si tosto seppero che l’ inimico moveasi, deliberarono di farsegli incontra ; e passando prima di esso il fiume, s' inoltrarono e si accamparono vicino ai Tirreni nel prato Giunio, presso la selva sacra ai genj di Orato. Trovaronsi ambedue le milizie quasi pari di numero con ardore eguale per combattere. £ su le prime, surse, appena si videro, picciola mischia tra’ cavalieri, innanzi che le fanterie prendessero campo. Cosi gli uni sperimentarono gli altri, e non vincitori e non vinti si ritirarono ciascuno al corpo de’ suoi. Quindi messa la fanteria nel centro, e la cavalleria nelle ale si mossero da ambe le parti coll' ordine stesso fanti e cavalli gli uni contro degli altri. Conducea l’ala destra Valerio il console, contrapponendosi a’ Yejeuti : Bruto reggea la sinistra avendo a fronte la n^ilizia de’ Tarquiniesi comandata da’ figli del tiranno. XV. Erano già già per venire alle mani quando ' avanzandosi dalle fila de’ Tarquiniesi 1’ uno de’ figli del tiranno, ( Aruute ne era il nome) il più vago di aspetto, e più magnanimo de’ fratelli, e spinto il cavallo verso i Romani in parte, dove tutti ne intendesser la voce, coperse d’ ingiuria il duce Romano, chiamandolo ferino, selvaggio, lordo del sangue de’ figli, imbelle e vile, e lo sfidò per tutti a combattere solo. E colui non  Cosi nel Codice V.iticano. Alcuni peto leggono jirslo in luogo di Orato, perchè secondo Tilo Livio e Valerio Massimo jfrtia si idiiamava la selva. più bastando alle ingiurie, spronò dal suo posto il cavallo senz' attendere gli amici che nel distoglievano, correndo fortissimamente alla morte che eragli apparecchiata dai fati. Rapiti ambedue da pari ardore, intenti a ciò che era da fare non a ciò che ne patirebbono, avventano impetuosamente i cavalli uno a fronte dell’altro, e vibransi colle aste colpi vicendevoli, non reparabili cogli scudi, nè con gli usberghi, immergendone la punta chi nelle coste, e chi nelle viscere. Urtatisi per la foga del corso i cavalli nel petto, eievaronsi su pie’ di dietro, e girandosi colla cervice rovesciarono i cavalieri. Cosi caduti giaceansi versando sangue in copia dalle ferite, e lottando colla morte. Come le milizie videro caduti i duci loro, spiccaronsi tra clamori e strepito, e sorsene battaglia, quant’ altre mai ferocissima, di fanti e di cavalieri ; con sorte non dissimile. Imperocché li Romani dell’ ala destra comandati da Valerio console vinsero li Vejenti, ed incalzandoli 6no agli alloggiamenti, copersero il campo di stragi. Per l’ opposito i Tirreni dell’ ala destra guidata da Tito e da Sesto figli del tiranno misero in volta i Romani dell’ala sinistra, e corsi presso alle loro trincierò usarono perfino tentare se poteano in quell’ impeto primo espugnarle. Ma contrastati e feriti assai da quei che v’ erano dentro, si ripiegarono. Àveanci di guardia i Triarj, cosi detti, veterani peritissimi di guerra pel lungo esercizio, e soliti riservarsi pe’ cimenti più gravi, quando ogn’ altra speranza vien meno. XVI. E fattosi già il sole presso l’ occaso, tornarono gli uni e gli altri a’ proprj alloggiamenti non ti lieti per la viuoria, che doleati per la moltitudine de’ perduti compagni. E se doveasi far nuova battaglia non credeano bastarvi quanti erano intatti fra loro ; essendo i più feriti : se non che più grande era I’ abbattimento, e la diffidenza ne’ Romani per la morte del comandante; in guisa che venne a molti in pensiero che fosse il loro migliore di abbandonare prima del di le trìnciere. Ma intanto che cosi pensavano e dicevano usci circa la prima vigilia dal bosco presso al quale accampavano una voce, sia del genio tutelare del bosco medesimo, sia di Fauno che chiamano, la quale rimbombò su l’uno e l’altro esercito, sensibilissima a tutù. A Fauno ascriveano i Romani i panici timori, e tutte le visioni che varie ne’ luoghi varj presentansi spaventosamente ai mortali : e di questo Dio dicono che sian opera le chia mate fatte dal cielo, le quali tanto perturbano chi le ascolta. Animava questa voce i Romani a bene operare quasi avessero vinto, significando come era morto uno di più tra’ nemici : e dicono che levatosi a tal voce Valerio ne andasse nel cuor della notte agli alloggiamenti de’ Tirreni, e che uccidendoveli per la più parte, o fugandoneli s’ impadronisse del campo. Tal fu l’esito di questa battaglia. Nel giorno appresso i Romani spogliarono i cadaveri de’ nemici ; • seppelliti quelli de’ suoi, partirono. I migliori de’ cavalieri, presolo con molta onorificenza e con lagnme, riportavano a Roma il corpo di Bruto in mezzo ai fregi della propria virtù. Mossero all’ incontro di essi il Senato che avea decretato che si portasse il duce con pompa trionfale, ed il popolo che ricevè l’ esercito con BIOaiGl, torneai. crateri colmi di vino e con mense. Giunti nella città ; il console ne trionfò come i re soleano, quando solennizzavano i sagriBzj e le pompe pe’ trofei ; ed offerse a’ numi le spoglie, e fe' di quei giorno una festa, convitando i più riguardevoli de cittadini. Pigliata nel giorno appresso lugubre veste, ed esposto il cadavere di Bruto su magnidco letto in splendido ornamento nel F oro, vi convocò la moltitudine, e salito in palco, ve ne recitò 1’ elogio funebre. Io non so ben discemere se Valerio il primo introdusse in Roma quel costume, o se dai re io desunse : ben so che tia Romani antichissima é la istituzione degli elogi nella morte de’ valentuomini ; e so da’ pubblici documenti di poeti antichi, e di storici famosissimi che non i Greci i primi la fondarono. Imperocché le vecchie storie danno a conoscere che ci aveano in morte di uomini insigni, combattimenti equestri e ginnici, come Achille ne fe’ su Patroclo, e come Ercole, prima ancora, su Pelope : ma che gli encomj se ne recitassero, ninno lo scrive se non i tragici di Atene, i quali adulando la propria città, favoleggiarono che avesse ciò luogo nei sepolti da Teseo. Laddove tardi istituirono gli Ateniesi per legge le funebri laudazioni ; sia che le incominciassero su quelli che morirono per la patria ad Artemisio, a Salamina, a Platea, sia che su quelli i quali caddero a .Maratona. E la impresa di Maratona, se in quella sì cominciarono gli elogj pe’ defonti, è più tarda della morte di Bruto per sedici anni. Che se alcuno, lasciando d’ investigare quali stabilissero prima i lugubri encomi, voglia esaminare presso chi sia la legge meglio ordinata ; la troverà tanto più savia tra questi che tra quelli, quanto che gli Ateniesi introdussero i pubblici elogi mortuali, pe’ defunti in battaglia, quasi estimassero la bontà del solo termine glorioso della vita, sebbene al> tronde indegnissima : laddove i Komani destinarono tal6 onore non al soli estinti nel combattere, ma a tutti gli uomini, insigni per sublimi consigli, o per belle operazioni, sia che in città, sia che in guerra avessero comandato, ovunque morissero, giudicando che debbansi i valentuomini celebrare non per la sola morte luminosa, ma per tutte le virtù della vita. Così muore Giuoio Bruto, colui che schiantò la tirannia, che primo fu console dichiarato, che tardi rendutosi illustre 6orl sì, piccini tempo, ma fortissimo parve fra tutti. Non lasciò prole non di maschi non di femmine, come scrivono gli storici i quali esaminarono le cose de’ Romani, ancor le più chiare : di che ne allegano molti argomenti ; e questo infra gli altri non facile a vincersi, che egli era dell’ ordine de’ patrizj ; laddove quei che si dicono originati da lui li Giunj e li Bruti eran tutti plebei, perocché conseguivano le cariche degli edili e de’ tribuni, che son quelle che per legge a’ plebei si permettono, e non il consolato, cui niun conseguiva fuorché li Patrizj. E quando questa dignità si concedette ancora a’ plebei coloro non la ottennero se non tardi. Ma lasciamo che discutano ciò quelli a’ quali si appartiene conoscerlo più chiaramente. XIX. Dopo la morte di Bruto, Valerio il collega suo, divenne sospetto al popolo quasi cercasse lo scettro ; primieramente perchè tenea solo il comando, dovendo far subito eleggersi un compagno, come quando Bruto ripudiò Gollatino ; e poi perchè aveasi fabbricato la casa in sito invidiato, preso nella parte alta e dirotta del colle, il quale chiamasi Yelio e domina il Foro. Convinto però da' suoi come ciò dispiaceva al popolo, pre&sse il giorno pe’ comizj e fe’ darsi un compagno in Spurio Lucrezio. E morendo costui dopo pochi giorni della sua magistratura, sostituì Marc' Orazio ; e trasferì r abitazione sua dalle cime alle radici del colle, perchè i Jtomani, come ei disse concionando, potessero tempestarlo co sassi date alto se trovavano eh ei facesse ingiustizia. E volendo rendere il popolo più certo della sua libertà levò le scuri dai fàsci, dando ai consoli sue cessivi il costume, durevole pur ne’ miei giorni, di usare le scuri quando escono di città, ma di non portare nell’ interno di essa che i fasci soli. Fondò leggi piene di amicizia e di sollievo inverso del popolo; proibendo con una manifestamente che niun de’ Romani andasse alle magistrature se dal popolo non le prendeva; con pena di morte a chi contravvenisse, e licenza a tutti di ucciderlo. Con altra legge si decretava : Se un magistrato Romano voglia uccidere, o battere, o multare alcuno in danari; possa f uomo privato appellarne al popolo senza che intanto niente ne soffra dal magistrato finché il popolo ne sentenzii. Or siccome onoravasi con tali regolamenti il popolo ; cosi ne diedero al console il nome di poplicola, che in greco appunto significa curatore del popolò. E tali sono le cose fatte in quell’ anno dai consoli. Nell anno seguente è di nuovo creato console VALERIO, e con esso LUCREZIO: ma non si fece nulla di memorabile se non il censo de’ beni, e la tas sazion dei tributi per la guerra secondo le istituzioni di Tullio re : cose tutte sospese nel regno di Tarquinio, e rinovate da essi la prima volta. Trovaronsi in Roma idonei alle arme cento trenta mila : e fu spedito un esercito per guardia a Sincerio (z), luogo di frontiera contro i Latini e gli Ernie! da’ quali si aspettava la guerra. Creali consoli (3) Valerio detto Poplicola per la terza volta e Marc’ Orazio con esso per la seconda, 'Laro, re di Chiusi nell’ Etrurìa, quegli che Porsena si cognominava, promise ai Tarquinj ricorsi a lui, 1’ una di queste due cose, o di riconciliarli co’ Romani pel ritorno, e la ricuperazion del comando o che ripiglie rebbe e renderebbe ad essi i beni de’ quali erano stati spogliati. Imperocché spediti 1’ anno precedente amba>> sciadori a Roma, i quali portavano preghiere miste a minacce, non aveaci ottenuto nè la riconciliazione, nè il ritorno de’ Tarquinj; pretestando il Senato le imprecazioni e li giuramenti fatti contro di questi, nè aveaiie riavuto i beni, negando restituirli coloro che se gli aveano divisi, e godevanli. E non contentato in niuna delle domande, e chiamandosene vilipeso e conculcato,  a46 secondo Catone e a4S secondo Varrone dalla fondazione di Roma, e 5o6 STanti Cristo. (a) Nel Codice Vaticano sì legge Tiiionirio. (3) a47 sec. Ceti e a4g see. Var. dalla fondazione di Boma, e 5o5 avanti Cristo] arrogante altronde, e briaco per 1’ ampiezza delle sue ricchezze e dominio, credette avere cagioni assai per abbattere la signoria de’ Romani, come già per addietro desiderava, ed intimò loro la guerra. A lui si con giunse Ottavio Mnmilio il genero di Tarquinio sul disegnò di mostrare tutto 1' ardore suo per la guerra. Egli si mosse dalla città del Tuscolo e menò seco i Carne rifai, e gli Antemnati, lignaggio latino, alienali già palesemente da’ Romani, e molti volontarj suoi fautori, delle altre genti Latine le quali ricusavansi ad una guerra manifesta contro di una città confederata, e tanto poderosa. Saputo ciò li consoli romani ordinarono a’tmltivatori di portare masserìzie, bestiami, e schiavi ai monti vicini, fabbricandovi -ne’ luoghi forti de’ castelli, opportuni a difendere chi vi si riparava. Quindi premunirono con più potenti maniere e con guarnigioni il Gianicolo, alto colle, cosi chiamato, nelle vicinanze di Roma di là dal Tevere, e provvidero con ogni diligenza perchè non divenisse un baluardo pe’ nemici contro la città, e vi depositarono gli apparecchi per la guerra. Quanto alle cose interne della città le disposero, ancor più propiziamente verso del popolo, diffondendo assai beneficenze su’ poveri, perchè questi non si ripiegassero in verso de’ tiranni, nè tradissero per 1’ utile proprio, il comune ; imperocché decretarono che fossero immani da’ tributi pubblici, quanti al tempo dei te ne pagavano, nè soggiacessero a spese di milizia e guerra, giudicandoli assai contribuirvi se la persona esponevano per la patria. Collocarono nel campo dinanzi Roma la milizia preparata ed esercitata già da gran tempo. Giunto il re Porsena coll’ esercito espugnò di assalto il Gianicolo, spaventandovi i Romani che lo presidiavano, e sostituendovi guarnigione tirrena. Quindi marciò verso la città quasi avesse a prenderla senza fa tica. Ma fattosi ornai prossimo al ponte, e visti accampati i Romani nella riva a lui più vicina del fiume si apparecchiò per combattere, in guisa da sopraffarli col numero, e spinse assai spregiantemente innanzi la milizia. Reggeano l’ ala sinistra Tito e Sesto figli di Tarquinio, tenendo sotto gli ordini loro i fuorusciti da Roma, il fiore della gente di Gabio, e stranieri, e mercenari non pochi. Mamilio il genero di Tarqninio comandava la destra ov’ erano i Latini ribellatisi da’ Romani: finalmente il re Porsena avea la fanteria schierata nel centro. Ma Spurio Largio, e Tito Erminio teneano l’ala destra de’ Romani contro ai Tarquinj: Marco Va lerio, fratello del console Poplicola, e Tito Lucrezio il console dell’ anno precedente stavano colla sinistra a fronte di Mamilio e de’ Latini. Moveano tutti due i consoli il corpo fra le due ale. Fattasi alle mani combattè virilmente l’una e l’altra milizia con lunga resistenza; superando i Romani per esperienza e fortezza i Tirreni e i Latini ; ma potendo questi assai più de’ primi col numero. Alfine cadendone quinci e quindi in gran copia s’ intimorirono prima i Romani dell’ aia sinistra in vedere i loro duci Valerio e Lucrezio feriti, e portati fuori della battaglia ; e poi, quando mirarono in piega i loro compagni, sbigoltironai aneli’ essi, quei dell’ala destra sebbene ornai vincitori delle schiere de’ Tarqainj. E fuggendosi tutti alla città, |>recipitosi, in folla, su per un ponte solo ; piombavAno intanto su loro ferocissimi gl’ inimici : e poco mancato sarebbevi che Roma priva di mura dalla banda del fiume, fosse espugnata, se i vincitori investita 1’ avessero misti co’ fuggitivi. Se non che sostennero r inimico, e salvarono tutto 1’ esercito tre uomini, due seniori, Spurio Largio, e Tito Erminio, appunto i duci dell’ ala destra, e Publio Orazio, un giovine, il più beilo, il più valoroso de’ mortali Coclite detto dallo strazio degli occhi, per essergliene stato di velto uno in battaglia. Era questi figlio dei fratello di Marc’ Orazio console, e traeva la origine sua generosa da Marco Orazio 1' uno de’ trigemiai che vinse già li tre Albani,. quando le città guerreggiando per la preminenza. accordaronsi a non cimentarsi con tutte le forze, ma con soli tre uomini, come fu dichiarato nei libri antecedenti. Questi soli fattisi alla lesta del ponte disputarono gran tempo il passo al nimico, fermi sul posto medesimo, in mezzo a nembo di strali e tra ’l fulminar delle spade, finché tutta l’armata ripassò di qua dal fiume. Come però videro in salvo i suoi, Erminio e Largio, laceri già nell’ armatura pe’ colpi incessanti, si ritirarono a grado a grado. Orazio però, sebbene dalla città lo richiamassero i cittadini ed il console, e tentassero per ogni via di salvare un tal uomo ai parenti e alla patria, Orazio solo non ubbidì, ma nel posto suo si rimase come dianzi, raccomandando ad Erminio di dire in suo nome ai consoli che tagliassero verso la città, quanto prima potevano il ponte. Era di quel tempo il ponte uno solo e di legno, con tavole congiunte per sè stesse e non per ferrei grappi, quale custodiscesi tuttavia dai Romani : raccomandò nemmeno che quando avessero sconnesso il più del ponte, quando picciola parte resterebbe a disfarne, a lui lo dichiarassero con certi segni, o con sonora voce. Lasciassero a lui poi la cura del resto. Cosi ricordando a que’due si tenne in snl ponte, e parte col ferir della spada, parte col dar dello scudo, ne respinse, quanti investendolo, vi si avventavano. E già quelli che perseguitavano il romano non ardivano più venire alle mani con esso, come preso da furore e fermo di morire , molto più che non era facile andar fino a lui, che aveva a destra e a sinistra il fiume, e dinanzi un monte di cadaveri e di armi : ma tenendosegli discosti Io bersagliavano in folla con lance, e dardi, e sassi quali empirebbon la mano ; o coi brandi e coi scudi degli estinti, se non aveano i primi stromenti. Resistea colui colle armi loro medesime : tirando su la moltitudine ; sempre, com’ è verisimile, colpiva alcuno. E già percosso, già carico egli era di ferite in più parti del corpo, già un colpo portatogli direttamente per la coscia alla testa del femore, lo addolorava e difficoltava nel caminare; quando, udendo gridarsegli addietro essere il ponte nella sua più gran parte disciolto, si gettò di un salto colle arme nel fiume. E valicatolo a stento, perchè divenuto rapido e molto vorticoso per le travi che già sostenevano il pon te, e che ora abbattute rompevano il corso delle acque, fecesi a terra finalmente senza avere in quel tragitto perduta niuna delle armi. Tale azione produsse a lui gloria immortale : e li Romani coronandolo lo portarono immantinente per la città com’ nno degli eroi tra’ cantici trion&li. RU versavasi la urbana moltitudine, finché le era permesso, per desiderio di vederlo, almeno nell’ ultimo presentarsele; sembrandole che tra non molto morirebbe per le ferite. Scampò tuttavia da morte; ed il popolo mise nella parte più cospicua del Foro la statua metallica di lui com’ era fra le armi ; e diedegli del terreno pubblico quanto ne potrebbe in un giorno un pajo di buovi arare d’ intorno ; e senza contare i pubblici doni, ogni uomo o donna, i quali erano insieme più che trecento mila, gli recarono ciascuno il vitto di nn giorno mentre era fra tutti terribile la peuorta. Orazio dimostrala in tal tempo tanu virtù parve più che tutti i Romani invidiabile. C quantunque, divenuto perchè zoppo, inutile ad altr’ incarichi nou potesse in vista di tale sciagura conseguire nè il consolato, nè altre militari presidenze ; nondimeno per le gesta meravigliose fatte da lui, vedendolo tutti ì Romani, in quella battaglia, merita di esserne encomiato quanto mai lo fosse ciascuno de’ più famosi per la fortezza. Cajo Muzio, soprannominato Cordo, sceso da chiari antenati, anch’ egli si mise ad una nobilissima impresa. Io ne dirò tra poco dopo esposti i mali che allora ingombravano Roma. Dopo quella battaglia il re dei Tirreni collocatosi nel monte vicino, dal quale avea discacciato il presidio romano, dominava tutta la campagna di là dal Tevere. Li figli di Tarquinio, e Mamilio il genero di lui tragittando le milizie loro picciole barche aU. ' i3y r altra riva per cui vasai a Roma, accampamsi in luogo ben forte. Donde slauciandosi davano ilguasto alle terre, ed agli alloggi pe’ bestiami, e piomavano su’ bestiami stessi che uscivano dai sicuri luo^i per pascere. Ora essendo tutto 1 aperto in balìa el iie mico, nè più di qua, nè più sopra il fiume reandoai in città le merci se non scarsissime; vi riuscì be tosto carestia gravissima ; consumandovi tante raigliaja Iprovvigioni già fattevi, che non erano copiose. Allea gli schiavi, abbandonandoli ogni giorno, in buon nttiero, disertavano dai padroni, e li più malvagi del ppolo trasferivansi alle parti del tiranno. In vista di ciò arve ai consoli di supplicare i Latini i quali riverivano' le> gami del sangue, e sembravano fidi ancora, che ian> dassero come prima potean de’ rinforzi : e di spjire ambasciadori a Cuma nella Campania, ed alle itià Fomentine per ottenerne dei grani. Non sovvenneri ad essi i Latini ; come quelli che non credevano giusti far guerra con Tarquinio nè co’ Romani, avendo con mbedue vincolo di amicizia : ma Erminio e Largio pediti commissari pel trasporto de’ frumenti, avendo trincate da’ campi Pomentini più barche di ogni vettvaglia, le introdussero in una notte senza luna dal tare EU pel fiume, in occulto de’ nemici. Ma venuta mno ben tosto pur questa provvigione, e ridottisi gli uoainì ai disagi di prima ; Porsena chiarito dai disertori cime, que’ eh’ eran dentro vi penuriavano, mandò arabi ad essi intimando che ricevessero Tarquinio se veleno liberarsi dalla guerra e dalla fame. Non comportarono i Romani il coaando, risola piuttosto di subirne ogni male. Ma prevedendo > Musi' che l’una delle due ne seguirebbe, o che vinti dal bogno non terrebbono gran tempo la parola, o che aendola ne perirebbono sgraziatissimamente; pregò li coioli che gli adunassero il Senato, come volesse proprgli grandi e rilevantissime cose : e radunatosegli, disse Io medito o senatori una impresa, donde il popo nostro s’involi da’ mali presenti. Ardita molto ella ì questa, ma facile, io penso, da compierla. Beri, riuscendomi, poco, ower nulla io spero su la mie vita. Ora essendo io per espormi a tali pericoli, anaaiovi da speranze sublimi, non ho voluto che, voitutti lo ignoraste ; perchè se mi accada di mancar la trova, io sitine celebrato almeno per V azione bellis.ma, e me ne abbia gloria eterna in luogo del capo mortale. Già non era sicuro palesar quanto mcchino al popolo, perchè niuno spinto dall util suo ne riferisse à nemici, quando è ciò da nascondersi cote arcano indicibile. Pertanto a voi primi e soli maniestolo, i quali, ne confido, lo tacerete: gli altri da vo r udiranno a suo tempo. La impresa che io medito è mesta : Fintomi disertore, andrommene al campo Treno. Se non mi ciedono e muojo, voi non avrete peduto che un cittadino : laddove se mi riesce introdumi in quel campo ; io vi prometto di uccidervi il sue re. Caduto Porsena, sarà per voi finita la guerra. Io pronto sono ad ogni sorte, qualunque gli Dei me ne òstinino : e tenendo voi per consapevoli e teslimonj miei presso del popolo, e pigliando il genio buoni della patria per guida, portomi^ e vado. Encomiatone dai senatori presenti, ed avuti gli augurj propizj per la impresa, passa il Tevere : e giunto agli alloggiamenti de’ Tirreni, ne penetra come nno di essi le porte, deludendone le guardie : perchè non portava arme visibili, e perchè parlava alla tir> rena, come eravi fanciullo stato istruito dalla sua natrice tirrena. Approssimatosi al Foro ed alla tecda del principe vedevi un uomo cospicuo per grandezza e complessione di membra seduto in veste di porpora nel tribunale in mezzo a molti che armati lo circondavano. Or pensò, ma indarno, che costui fosse Porsena, non avendo altra volta mai veduto il re de’ Tirreni : ma egli non era che il regio scriba il quale sedea nel tribunale e numerava i soldati, e registravano i pagamenti. Inoltrasi a tal vista tra la moltitudine fino allo scriba, e salito, senza esserne impedito perchè inerme, snl tribunale, cava il pugnale che celava sotto l’abito, e daglielo in capo. Ucciso con un colpo lo scriba, egli è preso immantinente e portato al re già consapevole della strage. Il quale vedutolo appena, Ah scelleralissimo ! esclama, pagherai ben presto le pene che meritasti. Dì, chi sei ? donde vieni ? e su qual confidenza osasti un tanto attentato ? Destinavi la sola morte delio scriba, o la mia parimente ? quali compagni hai tu della perfidia? Non celarmelo, o li tormenti vi ti forzeranno. E Muzio non presentando pur un segno di paura non col variar del colore, non colla fissezza dei pensieri, nè con altre affezioni solite in chi dee punirsi (li morte gli rispose : lo sono un Romano: venni qual diserlom ed tuo campo, nè già per causa vile, ma per liberare la patria dalla guerra, lo voleva uccidere te, qu$nUmque io non ignorava che o riuscissi o fai' lèssi tujl colpo io ne dovrei morire : io destinava con' secrard alta patria la vita, e lasciarle pel corpo che essa àveami dato, una gloria sempiterna. Errai : e causa ifelT errore furono la porpora, lo scanno, e le altre irfsegne del comando. Uccisi chi non voleva !. . lo scriba tuo per te stesso. Pertanto io non ricuso la morte thè io decretava a me medesimo nell accingermi a rfuesta impresa. Che se tu giuri per gli Dei di risparmiarmi li tormenti e gli ohbrobrj ; io prometto che ti svelerò cose, gravissime per la tua salvezza. Cosi Muzio diceva per deluderlo. E colui come attonito, e temendo pericoli non veri da molti, glie lo giurò. Muzio allora ideato un inganno del quale non potea convincersi : disse : O re, trecento Romani tutti a ma pari di età, tutti patrizj di condizione, abbiamo mac' chinata di ucciderli, dandocene vicendevoli giuramenti. Pavé, a noi quando ci consultavamo su le maniere insìiiarli, che non tutti insieme ci ponessimo a questa impresa, ma ciascuno da sà, tacendo perfno ai compagni, quando, dove, come, e con quale occasione £ investirebbe, acciocché facile ci fosse di occulterei. Cosi macchinando, ci demmo le sorti, ed io me la ebbi il primo per cominciare la impresa. Istruito tu dunque che tanti valentuomini hanno sete egiude di gloria, e che forse alcuno la sazierà con successo più fausto del mio ; deh ! considera se possi more mai guardia abbastanza che ti d fenda. Il re ciò udendo comanda al atelliti che incalenino costui, se lo menino, e lo custodiscano diii> gentissimamente : egli poi convocando i più amici, e facendo che Arunte il figlio suo gli sedesse da presso, ragionò con essi le maniere da far vane le insidie : ma suggerendone gli altri picciole cose ; non pareano cogliere il punto : quando il figlio suo propose un consiglio, superiore all’ età ; perciocché volea che non si pensasse a guardie onde precludere i mali, ma piuttosto a far quello per cui le guardie non bisognassero. E maravigliandosi tutti del suo consiglio, e desiderando sapere come lo eseguirebbe ; col farci, ei disse, amici i nemici, e col pregiare o padre, la salvezza tua più che il ritorno degli esuli. Soggiunse il re: cìut egli ben diceva, ma essere da consultare come consdignità si pacificassero. Sarebbe gran vitupero, se egli che uvea superato in battaglia, e tenea ristretti i Romani fra le mura si ritirava, senza compiere quanto avea promesso ai Tarquinj, quasi vinto dai vinti, e quasi fuggisse chi non ardiva nemmeno uscire dalle porte. Facea conoscere che l’unico mezzo da togliere le niniicizie sarebbe, se gli avversar) mandassero ambasciadori per trattare gli accordi. Cosi disse in quel giorno agli astanti ed al figlio: tuttavia pochi giorni dipoi fu necessitato egli il primo a fare proposizioni di pace per questa cagione. Sbandatisi intorno i suoi militari, e datisi a predar di continuo quei che recavano in città le merci; i consoli Romani se ne misero in buon luogo alle insidie, e molti ue uccisero, e più ancora ne imprigionarono. Di  ohè nuioontenti i Tirreni ne facean crocchio e sussurro iocolpaodo il monarca e i duci suoi sul tanto prolungarsi della guerra, e sfogandosi in desiderj di rendersi alle lor case. Or vedendo come tutti gradirebbero ma nilestamente la pace spedi per trattarla i più intimi suoi. Scrissero alcuni che fu con essi spedito anche Muzio sul giuramento di tornare poscia al monarca: ma vo glion altri che fosse piuttosto custodito come ostaggio nel campo fino alla pace : il che forse è più verisimile.' Questi poi furono gli ordini che il re diede a’ commise sarj ; non dicessero parola sul ritorno de Tarquinj ; ma ne raddomandassero i beni, principalmente gli ereditar] dal canto di Tarquinio P antico, già posseduti da essi bitoncunenle : e se ciò ricusatasi; dessero almeno, quant’ era possibile, i compensi delle case, de' bestiami, de' campi, delle raccolte, come purea loro espediente, col danaro del pubblico, o de' possessori, ed usufruttuarj atlucdi de' beni. E ciò quanto ad essi. Chiedessero poi > per lui che deponea le inimicizie li sette pagi, cosi detti, antico luogo dell' Etruria, invaso da Romani nella guerra e tolto aproprielarj, e finalmente chiedessero de' giovani delle famiglie più insigni, per ostaggio, che i Romaai si terrebbono amici costanti de' Tirreni.Venuti i deputati a Roma, il Senato per in sinuazione di Poplicoia console si risolvè di accordarne tutte le dimande in vista della penuria che alHigeva il popolo e. la classe de poveri ; onde accettissima sarebbe loro una pace, giusta nelle condizioni. Il popolo ratificò tutti gli articoli del decreto del Senato; non soffri però die si vendessero i beni, o si desse a’ Tarquinj danaro, privato nè pubblico, e volle che si mandassero ambasciatori a Porsena perchè si contentasse degli ostaggi e della regione che dimandava. Quanto ai beni egli giudice fosse tra’ Romani e tra Tarquinio, udisse 1’ una e r altra parte, e ne sentenziasse non per favore nè per nimicizia. Partirono i Tirreni con questa risposta, e con essi gli ambasciadori del popolo i quali conduceano per ostaggi venti giovani delle famiglie più illustri, avendo i primi dato i consoli Marco Orazio il 6gl lo, e Publio Valerio la figlia, idonea già per le nozze. Pervenuti questi nel campo, il re dilettatone, e moltolodati i Romani, conchiuse una tregua per un numero certo di giorni, e prese a giudicare la causa. Baltristaronsi però li Tarquinj, caduti dalle speranze più lusinghiere, che avrebbegli quel monarca ricondotti sui trono ; e per necessità dovéttero acconciarsi alle circostanze, e prendere clocch’era lor conceduto. Giunti da Roma al tempo ordinato i più anziani de’ senatori e gii oratori della eausa ; il re sedutosi cogli amici nel tribunale, ed assunto anche il figlio per giudice ; intimò che parlassero. Trattavasi ancora la causa, quando un tale annunziò che gli ostaggi s’ eran fuggiti. Perciocché le donzelle tra' questi, avuta come la chiedeano, la facoltà di andare e di bagnarsi nel fiume, andatevi, dissero agli uomini che alquanto se ne discQstassero, finché lavate e rivestite si fossero, sicché non le vedessero nude. Or questi cosi facendo ; quelle gitlatesi a nuoto ripararonsi a Roma, eccitatevi da Clelia che le precedeva. A ul nuova Tarqutnto assai rimproverava li Romani di iperginro e di mala fede, e provocava il sovrano perchè più non gli adisse, come divenuto il giuoco dei loro tradimenti. Esciisavasi il console, dicendo queir opera, tutta delle donzelle, senza voler del Senato: e che presto dimostrerebbe che niente era per inganno. Persuasone il re concedè che andasse e rimeuasse come pròmettea le fanciulle. Andò Valerio appunto con tal fine: Dia Tarquinio e il genero macchinarono in onta di ogni diritto un opera infanóissima, e spedirono in su la strada una banda di cavalieri per sorprendere le fanciulle ricondotte, il console, e quanti tornavano al campo, e ritenersene le persone pe’ beni tolti da’ Romani a’ Tarqninj, senz’ aspettare il fine del giudizio. Ma non permisero gl’ IJdj che succedesse loro secondo il disegno : perché mentre gl’ insidiatori uscivano dal .campo Latino per sopraffarsi a que’ che venivano, il console romano era già passato innanzi colle fanciulle : e già era alle porte degli alloggiamenti Tirreni quando fu sopraggiunte da’ persecutori. Si fe’ qui mischia fra loro, ma ben presto fu nota a’ Tirreni, e ne corsero frettolosissimi in ajuto il figlio del re con de’ cavalieri, e la schiera dei fanti che stava di guardia innanzi del campo. Sdegnatosi di ciò Porsena convocò li Tirreni > e narrò come essendo egli fatto giudice da’ Romani di quello ond’ erano accusati da Tarquinio ; gli espulsi, e bene a  diritto, da loro, aveano tentato di violare, le persone sacre degli ambasciadori e degli ostaggi, in tempo di tregua, e prima che si decidesse la causa. Dond’ è che i Tirreni assolvettero su di ogni richiamo i Romani, e togliendosi all amicizia di Manilio e di Tarquinio, intimarono loro cb’ entro il pros rimo giorno si ritirassero. Così lì Tarquinj  pieni in principio di belle speranze per 1’ ajuto de Tirreni, o di essere di nuovo i tiranni di Roma, o di ricuperare! loro beni, perderono 1 uno e 1 altro per la offesa degli ostaggi e degli ambasciatori, e partirono con infamia, e con odio dai campo. Il re poi de Tirreni facendosi condurre gli ostaggi dinanzi dei tribunale gli rendette al console, dicendogli che pregiava la fedeltà de' Romani più di ogni ostaggio. R lodando Clelia, che avea persuaso le compagne di passare a nuoto il fiume, come ne suoi pensieri maggiore del sesso e della età, e feli citando Roma perchè allevava non pure de valentuo mini ma delle eroine, regalò la donzella di un cavallo generoso, e magniCcamente bardato. Sciolta radunanza fe’ cogli ambasciatori de Romani gli accordi e li giuramenti di pace e di amicizia, e li onorò come ospiti, e restituì senza prezzo, perchè li recassero in dono alla loro città, tutti li prigionieri, che eran pur molti : ordinò che rimanessero com erano i padiglioni suoi, fatti non come per breve durata su le terre altrui, ma fregiati, quasi una città, con private e pubbliche spese; quantunque i Tirreni dopo avervi alloggiato, usassero di. t noti  serbarli. E fu questo, se in danaro si .calcola, non picciolo dono pe Romani, come lo di chiarò la vendita fattane da questori dopo la partenza del re. Tal fu la fine della guerra de’ Tirreni e di Laro Porsena la quale avea ridotto i Romani a tanti Dopo la partenza de’ Tirreni adunatosi il Senato Romano decretò che si mandasse a Porsena.il trono di avorio, lo scettro, il diadema e la veste trionfale colla quale i re si adornavano: e che Muzio, espo stosi alla morte per la patria, e cagione principalissima del termine della guerra, si premiasse a spese del pubblico,> come già Orazio che resistè sul ponte, con tanto terreno; di là dal Tevere, quanto poteane in un giorno solcare intorno coll’ aratro : e questo è il terreno che pur nel mio tempo si chiama il prato di Muzio. Cosi fu decretato su gli uomini. Quanto a Clelia concederono che una statua di metallo se le innalzasse, ed i, padri 'delle donzelle glie la innalzarono nella via sacra,' dove mette al Foro : tifa noi non più ve l’ abbiamo trovata ; e dicesi che mancò per un incendio delle case d’intorno. Fu quest’anno compiuto il tempio di Giove Capitolino, dei quale partitamente abbiamo scritto nel libro antecedente. E Marco Orazio console lo consacrò, e lo intitolò prima che potesse tornare Valerio il compagno, uscito per avventura dalla città coll’ esercito, per difenderne la campagna : perocché Mamilio spedendovi a far preda, assai vi danneggiava li coltivatori éhe vi si erano di fresco l'icondótti, lasciate le fortezze. -E questo è ne’ fasti dèi terzo consolato. Spurio Largio e Tito Erniinio consoli dell’anno' quarto  io compierono senza guerra. Morì nel 1 • ; I • • • (i| Plutarco sclibenè poslèriore a Dionigi dice che la statua di Clelia esisteva aucora su la via sacra là donde vasai isf e-asAttrter in palatiwn. Casaub. (3) Ad. 348 secondo Catone, e aSo secondo Vatrone dalla fuudasioue di Roma, e 5o4 avanti Cristo] 149 loro consolato Aruote il 6glio di Porsena re de' Tirreni Assediava già da due anni, la città della Riccia, perché conchiusa appena 1’ alleanza co’ Romani, prese dal padre metà dell’ esercito, e marciò contro quella città per sottoporsela, e dominarvi. Ma essendo ornai per espugnarla, sopravvennero a questa de’soccorsi da Anzio,. dal Tuscolo, e da Cuma della Campania. Egli schierò le milizie sue' minori contro le più numerose: ma dopo respinti, dopo incalzati gli altri 6no alla città, peri finalmente, vinto egli stesso dai CumanI condotti dalr r Aristodemo, che Malaco si chiamava. Fuggi, non sostennesi a tale caduta 1’ armata di lui. Molti ne ^ soccomberono incalzati da’ Cumaui ; ma più ancot^ : sbandati ; ridotti senz' arme, nè più Idonei per le ferite a. fuga più lunga, ripararonsi nel territorio non lontano di Roma. Se li menarono i Romani dalle .campagne' in citté^ nelle proprie case, portandovene i più malconci a cavallo., o su carri, o su cocchi: e ciascuno a proprie spese li nudrirono, e curarono, e ristorarongll con sol-, lecitudine molto affettuosa. Di talché molti di loro legati da tanta benevolenza desiderarono non di tornarsene in patria, ma di rimanersi fra tali benefattori ; ed il Senato assegnò loro perclié vi si fabbricasser le case, la valle tra ’l Palanteo, ed il Campidoglio, lunga presso a quattro stadj. Chiamasi questa anch’ oggi nell’ idioma de' Romani la contrada Tirrena ; e vi si passa venendo dal Foro al circo massimo. E per tali cortesi maniere ebbero dal re di quella gente dono non lieve, e che assai li dilettava, la campagna di là dal fiume, ceduta già da essi quando ne ottenner la pace. Cori iSó trìbuUroao agl’ Iddj li sagnfiz) magoìBci che aveano già promesso co’ voti se ricuperavano mai li sette pagi. Correa nell’ anno quinto dopo la espulsione dei re la Olimpiade sessantesima nona, nella quale Iscomaco Crotoniate vinse allo stadio, Acestoride fa 1 arconte di Atene per la seconda volta, e furono consoli Romani Marco Yalerìo, fratello di Valerio Poplicola, e Publio Postumio, detto Tuberto. Arse nel loro consolato un’ altra guerra co’ vicini, la quale cominciò colle prede, e procedette a numerose e grandi battaglie : finché cessò da indi a quattro consolati, dopo essersi nel tempo intermedio sempre stato fra le arme. Imperocché alcuni Sabini considerando Roma indebolita per gl’ incontri suoi co’ Tirreni, quasi non dovesse mai più ricuperare l’antica dignità, ne assalirono, affin di predarli, e certo molto ne danneggiarono, li coltivatori, i quali calavano di bel nuovo dai luoghi forti alla campagna. I Romani prima di prendere le armi spedi rono ambasciadori a chiedere conto e soddisfazione, tal> ché non più molestassero chi lavorava i terreni. Ma non ricevendone che orgogliose risposte, intimarono ad essi la guerra. Valerio il console il piimo con truppe equestri e con fiore di milizie leggere scorse tu que’ rubatori de’ campi, e grande fu la uccisione de' sorpresi nri pascoli, sbandati, com’ è verisimile, nè provvidi del venir de’ nemici. E spedendo i Sabini contr’essi un  An. a49 ài Rom. ucondo Caioae, e aSi secondo Varronr, e &o3 vanii Criaio, esercito sotto un duce perito di guerra, i Romani usci rono di bel nuovo con tutte le forze, dirette da ambi li consoli. Postumio mise il campo nelle alture prossime a Roma, pei'cbi uon vi si facesse una subita irruzione da’ fuorusciti. Ma Valerio marciò di fronte al nemico iu riva all’ Aniene, fiume che nella città di Tivoli casca da rupe altissima, e poi corre, dividendoli fra loro, i campi de’ Romani e de’ Sabini, finché vago in vista e dolce a beverne, scende nel Tevere. Erano i Sabini dall’ altra parte del fiume non lungi dalla corrente su di un colle non molto forte, e che poco a poco degrada. In principio gli uni rispettando gli altri esitavano a passare il fiume e farsi alle mani. Ma poi non per calcolo e previdenza di beni, ma rapiti dfiir ira e dall’ ardor di combattere, furono alle prese. Imperocché venuti ad abbeverare i cavalli e far acqua, inoltraronsi molto entro il fiume, vmile allon nel suo corso, perché non accresciuto dalle acque in vernali : e siccome bagnavali appena, poco più su delle ginocchia ; lo trapassarono. Attaccatisi in su le prime pochi con pochi, ecco accorrere altri a difenderli, ognuno dai proprj alloggiamenti, e via via sopraggiungerne di rinforzo, come questi o quelli erano superati. E quando i Romani respingevano i Sabini dal fiume, e quando i Sabini ne toglievano l’uso ai Romani. E molti uccisi e feritivi, ed eccitativisi tutti a combattere, come avviene nelle scaramucce fortuite, sorse ardore eguale di passare il fiume ne’ duci stessi degli eserciti. E primo passandolo il console Romano e con esso r armata sua, ' piombò su li Sabini. Non eransi questi ancora nè bene armati, uè schierati ; pure non esitarono ad accettar la battaglia, inanimiti molto è spregianti, perchè non arcano a farla nè con ambi li consoli, nè con tutte le milizie Romane, e slanciatisi, combatterono con furia di baldanza e di odj.  Ardea rivissi ma la battaglia ; ma se 1’ ala destra, or’ era Postnmio il console, superava gli avversar] ed avanzavasi ; la sinistra ‘era travagliata e respinta al fiume. Or saputo ciò 1’ altro console usci coll’ esercito suo : marciava egli pian piano colla fanteria, ma fe’ precedere in fretta colla cavalleria Spurio Largio Seniore, e console dell’ anno precedente. Andato costui di tutta briglia passò facilmente il fiume, che non era guardato da alcuno, e giratosi attorno l ala destra dei toemici pigliò di fianco la cavalleria de’ Sabini., Or qui sorse battaglia diuturna e grave di cavalleria con cavalleria. Frattanto avvicinatosi anche Postumio co’ suoi fanti a queU’ ala ed investitala, molti ne uccise, e molti ne disordinò : di modo che se non sopravveniva la notte, i Sabini avviluppati da’ Romani che già prevalevano, sarebbero stati del tutto disfatti : ma le ombre occultarono qùei'che fuggivano dalla battaglia come inermi e radi, e salvi si ricondussero alle lor case. Impadronironsi i consoli senza combattervi de’ loro alloggiamenti, abbandonati dalle guardie al veder quella fuga : ed occupatevi molte suppellettili, e datele in preda all’esercito, lo rimenarono in patria. Cosi riavutasi Roma, allora la prima volta, da’ inali suoi co’ Tirreni, senti lo spirito antico, ardi come prima arrogarsi 1’ impero su’ vicini, decretò pe’ due 'consoli insieme un trionfo, e di più che si desse a Valerio che era I’udo di questi, un sito nella partepiù distinta del Pallanteo, dove gli si fondasse una casa a spese del pubblico. Questa è la casa innanzi alla quale sta il toro di bronzo, e questa tra tutti i privati e pubblici ediCzj è la sola che ha le porte che aperte si girano in fuori. XL. Presero dopo questi il consolato Publio Valerio Poplicola per la quarta volta, e Tito Lucrezio, di bel nuovo collega suo (a). Quest’ anno le città Sabine, tenuto un congresso comune, decretarono far guerra ai Romani, quasi fosse finita 1’ alleanza loro, per essere caduto dal trono. Tarquinio a cui 1’ aveano giurata. Aveale indotte a ciò,1’ uno de’ figli di Tarquinio, Sesto di nome, il quale coll’ onorare e supplicarne i cittadini primari di ognuna, metteva in tutte un animo per la guerra : anzi aveva a sé guadagnate, e consociate a queste pur le due città Camcria e Fidene, ribellatele da’ Romani. In contraccambio le città lo elessero generalissimo loro con facoltà di reclutare milizia da ognuna, come quelle che aveano perduta la prima battaglia per la insufficienza delle forze, e del capitano. Ed in ciò si adoperavano questi : ma la fortuna volendo contrappcsare i beni al mali di Roma, le diede in luogo degli alleati che le si eranp tolti, un rinforzo, quale non 1() Tra i Greci era grande onarificenia aver le porte che ai apriaaero au.la pubblica strada; e questa servitù della pubblica strada coiopcravasi a gran presso: come è chiaro da ciò che si legge d’Ificrate presso di Aristotele negli Economici. (a|)'An. di Bom. aSo secondo Catone, e aSa secondo Varrone, e 5oa av. Cristo] imperava dal canto de’ nemici. Tito Claudio, un Sid>mo domiciliato a Regillu, nobile e denaroso, fuggissene in seno di lei menando con sé gran parentado, ed amici e clienti in copia, i quali spatriavano con le famiglie ; tanto che tra, questi ce ne avea cinque mila buoni per le arme. E questa dicesi la cagion cbe lo spinse a tra sferire in Roma la sede. I primar) delle città più cospicue alienatisi da lui -lo aveano incolpato di poca affezione verso il pubblico bene, citandolo qual traditore ; come r unico che mal soffriva la guerra, e che avea ripugnato in consiglio a quei che voleano sciolta 1’ alleanza, nè permise che i suoi cittadini AtiGcassero il decreto degli altri. Or temendo egli un giudizio, ove le non sue città sentenzierebbero della sua sorte, raccolse le sue robe, e gli amici, e si congiunse ai Romani, non senza picciolo sbilancio degli affari ; talché parve a tutti la cagion principale dell’ esito propizio della guerra. Per tanto il Senato ed il popolo lo ascrissero tra’ patrizj, lasciandogli in città quanto sito volle per fabbricarvi ; e gli donarono i terreni pubblici tra Fidene e Picenza perchè li • compartisse co’ suoi compagni, da’ quali risultò poi la tribù Claudia che ancora tiene quel nome. Apparecchiatasi appuntp l’ una e 1’ altra parte, li Sabini i primi cavarono le milizie e fecero due accampamenti, r uno all’ aere aperto non lungi da F idene, r altro in Fidene a difesa del popolo, come in rifugio dell’ esercito esterno in caso di sciagura. I consoli Romani al sapere la venuta de’ Sabini contra loro,• uscirono anch’ essi con floride scltiere, e presero campo, separati T ano dall' altro, Valerio a fronte degli allog ' giatnenti sabini all’ aere aperto, e Lncreaio poco più di sopra, in un altura donde potea vedere l’ armata com. pagna. Era disegno de’ Romani di venire quanto prima a giornata per decidere subitamente, e visibilmente la guerra. Ma' il capitano Sabino temendo di attaccare in pieno giorno la baldanza e la robustezza romana, sempre ferma, contro ai casi anche più duri, deliberò di investirla di notte. Quindi facendo preparare quanto era necessari a riempire le fosse, e trascendere il vailo, quando ebbe pronto tutto, voleva tor seco il 6or deU r esercito, ed assalire nel primo sonno le trincee de’Ro mani. Su tal disegno avea fatto intendere all’ armata di Fidene che quando si avvedessero del giunger suo venissero anch’ essi dalla città, ma con armi leggere : ed avea posto in luoghi opportuni gli agguati con ordine, che se andavano dei rinforzi a Valerio dall’altro campo, uscissero loro alle spalle e gli assaltassero fra strepito di voci e di arme. Sesto con tale risoluzione, istruitine e trovativi pronti li centurioni, non aspettava che la opporiobità. Ma un suo disertore venuto al campo romano disse di quella trama al console. Giunsero non molto dopo i cavalieri con dei Sabini che usciti a far legna furono presi. Interrogati questi separatamente c/te mai preparasse il lor capo, risposero, che scale e ponti : ma che dove, o quando fosse per valersene, non lo sapeano. Valerio ciò udendo spedi Marco alr altra armata per divisare a Lucrezio che vi comandava r animo dei nemici, e come si dovessero questi assalire. Poi chiamando egli stesso tribuni e centurioni, dicendo quanto avea raccolto dal disertore, e da’ prigionieri ; confortandoli ad esser magnanimi, e credere cb’ era giunto alfine il tempo sospirato onde prendere' su’ ne mici una luminosa vendetta ; prescrisse ciocché dovessero fare, diede i segni, e rinviò ciascuno alla sua schiera., XLII. Non era ancora la notte a mezzo, quando il duce Sabino fatti levare i soldati, ne condusse il fiore al campo romano, imponendo, a tutti che, taciti, avanzassero senza strepito di arme ; perchè i nemici non si avvedessero di loro prima che fossero giunti. Or come i primi a procedere furono vicini al campo, nè videro ivi lume di fuochi, nè voci vi udirono di sentinelle, assai riprendeano di stoltezza i Romani, quasi tralasciata ogni gtiardia, se la dormissero : c già riempiute le fosse in gran parte, le passavano senza ostacolo alcuno. I Romani però si teneano, non veduti si per le tenebre, ma schierati nello spazio tra i valli e le fosse, e quando chi le passava era loro alle mani, uccidevanlo. Rimase alcun tempo occulta la rovina di chi precedeva a quei, che seguivano. Ma non si tosto quei eh' erano vicini alle iosse videro col chiarore della luna che nasceva, i mucchi incontro de’ cadaveri de’ compagni, e le schiere valide de’ nemici che resistevano; gettarono le armi, e fuggirono. Allora alzato i Romani un altissimogrido, perchè quel grido era segno all’ altra armata, corsero in folla su loro. Lucrezio a quei clamori, spediti subito 1 cavalieri per ispiare se ci aveàno insidie nemiche, si mosse indi a poco egli stesso col fiore della fanteria. Imbattutisi i cavalieri con gli usciti da Fidene per insidiare, li fugarono: ma la fanteria perseguitava) ed uccidevali, : ornai disordinati e sena’ arme, quelli che erano venuti ad assalire il campo romano^ Morirono in teli òombaltimenti circa tredici mila tra Sabini ed al leali, rimanendone prigionieri! quattro mila dugento: ed il campo loro fu preso nel giorno medesimo.  la stoltezza, e chiamandoli degni di morte quanti ve ne erano, giacché nè erano grati pe’ beneGzj, nè faceano senno pe’ mali ; ne batterono alla vista del pubblico culle verghe, e poi vi uccisero i più cospicui per nobiltà. Quanto agli altri lasciarono che albergassero come prima, ponendo a coabitare con. essi la guarnigione che era decretata dal Senato, e dandole parte de' terreni tolti a quelli. Dopo ciò ritirarono le truppe dalle teiTe nemiche, e trionfa• rono secondo il decreto del Senato. E tali furono le geste di, questo consolalo. Creato consolo Publio Postumio Tuberto per la seconda volta, e con esso Menenio Agrippa Lanato , fecesi ma con piu schiere la tersa Irmzione dei Sabini prima che i Romani se n avvedessero, e pro> cedette 6n presso le mura di Roma, Risultarono da questa molte uccisioni non solo di agricoltori romani, colti repentinamente da nembo che non aspettavtno prima di ricoverarsi ne’ castelli vicini, ma di quelli eziandio che in città dimoravano. Imperocché Postumio il console riputando insopportabile quella ingiuria; uscì di tutta fretta, con truppe comunque per soccorrere i suoi, pih animoso in vero che savio. I Sabini, visto con quanto dispregio, disordinati, e sbandati si avanzassero verso loro, e latto disegno di ampliarne ancor più la negligenza, partirono con marcia più che ordir naria, quasi fuggissero addietro, finché giunsero ad una selva profonda ove il resto celavasi delle loro milizie. Or qui voltando faccia contrastettero a chi gl'inseguiva; ^ come pure gli occultati nel bosco ne uscirono, vociferando. Ed essendo essi in buon ordine e molti, prostesero gli altri che combattevano disordinati, sbandati, ansanti per lo viaggio ; e rinchiusero in una pendice deserta quanti ne fuggirono, con preoccupare le vie che menavano a Roma. E perocché già la luce era mancata ; posero le arme presso di quésti invigilandoli tutta la notte, sicché taciti non s’ involassero. Saputosi in città r informnio, vi fu gran turbamento, e concorso  ai muri, e. timor comune, che i nemici trasportati, dal successo propizio, si presentassero in quella notte a  An. di Rom. aSi secoado CaioDe, a53 secondo Varrone, e Sol av. Crino.. 1 5g Roma: e là com piange vans! i morti; qua i commiseravano li sopra vanzatt, come quelli che 'se nop erano immaniineote soccorsi, caderebbero prigionieri per la penuria. Passatasi con tanto mal' in cuore senza sonno la notte, Menenio, nato il giorno, armò li più floridi per anni, e li guidò ben forniti e con ordine a liberare gli assediali nel monte. I Sabini al vedere che ti avan> cavano non li aspettarono ; e tolto il campo si ritirarono, pensando che bastassero loro i vantaggi presenti: e senza indugiarsi gran tempo, tornarono festeggiando alle patrie, ricchi di bestiami, di schiavi, di danari. XLV. Rattristati i Romani dal danno, e credendolo causato da Postumio il console ; deliberarono di mar> ciane sollecitamente con tutte le forze contro la Sabina, desiderosi di rifarsi della perdita inaspettata ' e turpe j molto più che assaissimo gli aveva esulcerati 1’ ambasceria recente e contumeliosa e superba colla quale i nemici, come già vincitori, e prenditori senza contrasto di Roma se non erano ubbiditi, comandav.vno che rendessero ai Tarqninj la patria, cedessero ai vincitori r imperio, e stabilissero il goverho e le leggi, come sarebbero ordinate da questi. Aveano i Romani replicato a tali messaggi, che annunziassero alle loro comuni che i Romani comandavano ai Sabini, di deporre le armi, di sottomettere le loro città, di ubbidire,come per addietro, e ciò fatto di venir supplichevoli per iscusarsi dalle ingiustizie e da’ mali onde gli aveano violati nelle incursioni passate, se voleano pace ed amicizia : ma se ricusa vansi a tanto, aspettassero tra non molto la guerra su le loro città. Cosi comandando e comandati a vicenda, quando ebbero tutto in pronto ; uscirono per la guerra. Conducevano i Sabini il -fiore de’ giovani di ogni città con arme bellissime : e li Romani tutta la milizia urbana e le guarnigioni, concependo che i domestici e li schiavi, e quanti superavano ^ la età militare, bastassero in difesa di Roma e dei castelli della campagna. Cosi concentrati si accamparono ambedue con breve intervallo fra loro non lungi da Ereto, città de’ Sabini. Come gli uni sepper degli altri o per con~ gettura dall’ampiezza degli alloggiamenti, o per ciò che ne udivano da’ prigionieri ; si eccitò ne’ Sabini confi denza e disprezzo inverso la scarsezza degl' inimici ; ma timore ne’ Romani per la moltitudine di essi. Pur fepero cuo^e, e pigliarono qualche speranza su la vittoria pe’ segni mandati loro dal cielo, e per 1’ ultima visione, quando erano 'per ischierarsi, che fu questa : Su le punte dei lanciotti (sono queste le armi che i Romani scagliano nel farsi alle mani; bastoni grossi che ti empion le mani, e lunghi, con ferrei spuntoni nell’ uno e nell’ altro estremo, diritti, nè minori di tre piedi, tanto che le armi, compresovi il ferro, somigliano ad aste mezzane ) su le ferree ponte di. questi lanciotti, piantati tra padiglioni, brillarono delle fiamme ; talché per tutto il campo fu luce continua come di accesi fanali, gran tempo delia notte. Ora come gli auguri dichiaravano ( nè già era difficile intenderlo ), concepirono che gli Dei con tal visione annunziassero loro una sollecita e luminosa vittoria : imperocché tutto cede al fuoco, nè cosa vi è che per esso non consumisi. E _ Dpercfac le fiamme brillarono su le armi loro; uscirono con assai fiducia dalle trinciere, e nell’ estero di tale fi ducia, attaccatisi combatterono, sebbene di tanto minori, co' Sabini. La sperienza eh’ era in essi col vivo amor dei travagli, elevava li a spregiare ogni pericolo. Postumio il primo ebe guidava 1’ ala sinistra, inteso a riparare la passata disfalla urtò 1’ ala destra de’ nemici, non curando la vita per la vittoria : e come chi rapito è da furore, e fermo per ogni via di morire, si lanciò nel mezzo di essi. Allora i soldati i quali erano nell’ al tr’ ala con Menenio ornai stanchi, ornai cacciati di po sto, al conoscere che que’ di Postumio prevalevano su gli emoli, rimbaldanzirono e turbinaronsi su gli avversar] loro. Cosi piegò 1’ una e 1’ altr’ ala de' Sabini, e diedesi pienamente alla fuga. E dopo la perdita delle ale nemmeno quelli che erano ordinati nel centro per sislerono, ma forzati dalla cavalleria Romana che gli assaliva si misero in volta. Tutti al proprio alloggiamento si riparavano, ma i Romani seguendo e investendo, ne invasero 1’ uno e 1’ altro. C se l’esercito ne mico non fu totalmente distrutto, ne fu cagione la notte ed il luogo della sconfitta, che era nella Sabina. Imperocché per la perizia de’ siti chi fuggiva salvavasi in casa più facilmente di quello che lo potesse, per la imperizia sua, sorprendere chi 1’ inseguiva. Nel prossimo giorno i consoli, bruciati i cadaveri dei loro, e raccolte le spoglie, e tra queste le armi abbandonate dai vivi nel fuggire, e trasportando seco non pochi fatti prigionieri, c le robe invase' (non compresevi quelle tolte da’ soldati ) colla pubblica vendita delle quali cose ogaaao riebbe i prestiti, contri' baiti per la spedizione ; tornarono con una luminosa vittoria nella patria. Quindi per decreto del Senato Tubo e r altro ne trionfarono ; Menenio col trionfo primario sedendo su regio carro, Postumio col secondario, e men grandioso, che chiamano della ovazione, altera'tone il nome che era greco, sicché più non distinguesi. Conciossiaché per quanto io ne concepisco o ne trovo in molli degli storici Romani questo trionfo chiamavasi nelle origini Evezione da ciò che vi si praticava : ed il Senato, come Licinio racconta, ora per la prima volta ne ideò la pompa. Differisce quest’ onor secondario dall’ altro, primieramente perchè chi sei gode, entra la dttà colle schiere a piedi e non sul carro come in quello: e poi, perchè non porta come l’altro la toga contraddistinta pe’ ricami varj e per l’oro ; nè la corona pur di oro; ma la toga candida contornata di porpora, la quale è l’ abito nazionale de’ comandanti e de’ consoli, e la corona di alloro (a) : e se tien le altre cose ; in questo cede al primo trionfante, che noU va collo sceturo. Postumio poi, sebbene più che altri segnalato  OTaxione tu detta originalmente evatio ; qnindi % !a voce di Virgilio I. 6. Ea. Evantes orgia circum ducehat Phrygias. Questo ovari era dal greco tva^nt il qnale esprimeva le accismasioni fotte con dire ss lasserò Tarquinio, Mamilio, gli Aricini, e cbiunqae davasi per accusatore di quella, iìuchè uditili tutti, seutenziarono essere stata l’alleanza rotta dai Romani; e fecero intendere a Valerio che col suo tempo discuterebbero come aveano a vendicarsi di loro che aveano i diritti calpestati del sangue. In mezzo a tali vicende congiurarono molti servi d’ invadere i luoghi riguardevoli di Roma, e d’ incendiarla in più parti. Se non che datone indizio da’ complici, ne furono ben tosto chiuse le porte dai consoli, e preoccupati i siti forti dai cavalieri. Allora quaiiU erano denunziati partecipi della congiura presi immantinente tra i domestici, o portati dalla campagna, perirono tutti, battuti, tormentati, crociGssi. E tali sono le cose operate in quel consolato. Sotlentrati a tal dignità Servio ^ Sulpizio Camerino, e Manio Tullio Longo , alcuni di Fidene con vooando de’ soldati dal popolo de’ Tarquiniesi occuparono il castello di essa, e parte uccidendo, parte esi liando quelli che si opponevano, ribellarono di nuovo Fidene ai Romani. Venutivi degli ambasciadori da Roma, erano per malmenarli come nemici: ma contenutine da’ seniori, gii esclusero dalla città senza udir nè rispondere. Il Senato quando seppe tali cose' non voleva ancor far guerra co’ Latini, perchè aveva udito che non a tutti piaceano le risoluzioni del congresso, che i poti) An. di Roma 354 secondo Catone, aS 6 secondo Varrone, a 498 STtnli Cristo] poli ia ogni città vi si ricusavano, e perchè certo diceansi più quelli che voleano mantenere 1’ alleanza, che gli altri i quali sciogliere la voleano. Pertanto decretò che Manio un de’ consoli marciasse con armata poderosa contro Fidene: e questi, depredatane impunissimamente la campagna senza che niuno gli si opponesse, ne andò coir esercito fin sotto le mura, e provvide che non più vettovaglie vi s’ introducessero, nè armi, nè soccorso niuno. Ridottisi i Fidenati a guardare le mura, spedirono alle città de’ Latini per implorarne solleciti ajuti. Convocarono i capi di quelle un congresso comune di tutte : e datavi di bel nuovo facoltà di parlare ai Tarquinj come agli altri che venivano dagli assediati, invitarono i consiglieri, cominciando da’ seniori e più cospicui, a djcbiarare il lor voto, e come aveasi a far guerra ai Romani. Dicendovisi molte cose, e prima su la guerra se dovesse ratificarsi, i più torbidi fra i consiglieri insistevano perchè si riconducesse Tarquìnio al trono, e sì volasse in soccorso di Fidene. Essi miravano con questo ad ottenere cariche di comando militare, e mescersi ai grandi affari ; e quelli vi miravano soprattutto, i quali cercavano in patria preminenza, e tirannide, lusingati che avrebbero ad essi ciò procacciato i Tarquinj se ricuperavano il regno. Ma i più agiati e miti ( ed eran questi i più accreditati nel popolo ) chiedeano che si stesse ai patti, non si corresse ciecamente alle armi. Respinti quei che brigavansi per la guerra dai consiglieri di pace, persuasero all’ adunanza che mandasse almeno oratori a Roma perchè la pregassero, ed esortassero a ricevere i Tarquinj e gli altri fuoruscili senza pena e senza memoria d’ Ingiurie : giurasse que ' sto, e si governasse poi di suo modo. Ritirasse però r armata da Fidene ; non potendo essi guardare con Indifferenza che i parenti ed amici loro si spogliassero della patria.' Ma se ricusasse far 1’ una e l’altra di queste cose, le s’ intimasse, che deciderebbonsi per la guerra. Non ignoravano costoro che Roma non pieghe rebbesi nè all’ una nè all’ altra dimanda : ma cercavano pretesti decorosi onde romperla, sperando Intanto di rendersi col tempo e colla buona grazia benevoli i loro contrarj. Concluso questo, fissarono un anno, ai Romani per deliberarsi, come a sè per apparecchiarsi : e nominati gli ambasciadori come parve ai Tarquinj; sciol sero r adunanza. Separatisi i Latini, ognuno per la sua patria, Mamilio e Tarquinlo vedendo che i popoli propendevano alla pacej deposero le speranze che aveano su loro come istabili in tutto. E cangialo consiglio si rivolsero a mettere in Roma stessa una guerra interna, nè preveduta, svegliandovi sedizione tra’ ricchi e tra’ poveri. Imperocché già disunita vi si era, nè più riguardava al ben pubblico una gran parte del popolo, quella principalmente dei bisognosi e degli oppressi dai debiti; e ciò appunto per 'gli usura) che non usavano moderazione ne’ crediti, ma fin carceravano e malmenavano i debitori come schiavi comperati. Su tale notizia spedì Tarquinio a Roma Insieme co’ messaggeri latini persone non sospette con oro. Intramettendosi questi co’ poveri e coi baldanzosi, e parte dando, e parte promettendo se ivi il re sen tornasse; aveano subornato moltissimi. Àdunque fecesi contro i3e’ potenti una congtnra de’ poveri ingenui, e de’ servi màlvagi, i quali stimolati dal desiderio di esser liberi, e disamoratisi de’ padroni perchè aveano punito nell’ anno antecedente i loro conservi, gl’ insidiavano. Ed essendo malcreduti e sospetti, come se venutone il tempo essi pure gli assalirebbero ; con piacere si diedero a chi gl’ invitava. Il disegno poi della congiura era tale. Doveano i capi di essa occupare in una notte senza luna i luoghi eminenti e forti della città ; gli altri poi come intenderebbero dai gridi che gitteriano, aver loro già preso que’ siti opportuni, doveano uccidere tra ’l sonno i proprj padroni, saccheggiare le case doviziose, e spalancare ai tiranni le porte. Ma la providenaa celeste la quale in ogni tempo ha salvato, e salva tuttavia Roma y fe’ traspirare i disegni al consolo Sulpizio. À lui ne diedero indizio due già propensi a Tarquinio, anzi principalissimi nella con> giura, Publio e Marco fratelli, della città di Laurento necessitati da impulso divino. Imperocché si presentarono loro tra’l sonno visioni spaventevoli, minacciandolt di pena gravissima, se non si chetavano e toglievansi dall’ impresa. E già parca loro che i rei genj gl’ incalsassero, li battessero, e sterpassero loro gli occhi, colmandoli di altri mali terribili. Dond’ è che spaventati e tremanti destaronsi, nè più poterono pel turbamento aver calma nel sonno. E su le prime per togliei'si ai genj rei che li conculcavano, tentarono i sagrifizj di propiziazione co’ quali si allontanano i mali. Non traen> done però niun frutto, si rivolsero alla divinazione : e celando lì disegni, perchè non eran da dirsi, cercarono solamente d’intendere se tempo fosse da compiere cioc' chè volevano. Ma rispondendo l’oracolo eh’ essi teneano via di delitto e di perdizione, e che se non mntavan proposito, ne perirebbero infamissimamente; investiti dal timore che altri non li prevenisse nel portare in luce l’arcano, lo indicarono essi medesimi al consolo che in città si trovava. Costui lodatili, con promessa grande ancora di beneficarli se il dir loro a’ fatti corrispondesse; li ritenne ambedue presso di sè y tacendone con chiunque. Allora introdotti in Senato i deputali latini, tenuti a bada fino a quel giorno per la risposta, disse di concerto co' padri : amici, compagni, andate, riferite al comun dei Latini che il popolo di Roma non condiscese prima il ritorno al tiranno su le istanze dei Tdrguiniesi, nè punto appresso vi si commosse irt forza di tutti i Tirreni che ciò domandavano, e guidati da Porsena ci portavano la pià orribile delle guerre; ma che seppe vedere i suoi campi manomessi, ed arsivi li casolari, e perfino ridursi a difendere le sole sue mura per esser libero, e non comandato a fare ciò che non vuole. Dite, che meravigliati ci sia^ mo che sapendo voi ciò, siale venuti a comandarci che ricevessimo il tiranno, e ci levassimo dall assedio di Fidene, con intimarci la guerra se ricusassimo. Cessino di opporci ornai più tali pretesti, fiacchi, impersuasibili, di nimicitia. Nondimeno se vogliono per questo scindersi dalla nostra alleanza e far guerra, più non s’ indugino. Data tale risposta agli ambasciadori, ed accompagnatili per significazione di onore fuori della città, poi disse in Senato delia occulta cospirazione ciocché aveane appreso dai delatori : ed avutane autorità piena d’ investigare L complici, e trovarli, e punirli, non tenne già mezzi orgogliosi e tirannici, come un altro ridotto a tale necessità gli avrebbe tenuti, ma si rivolse a mezzi ragionati, salutevoli, e convenienti al governo d' allora. Imperocché non deliberò che i satelliti snoi svellessero per le case i cittadini dall’ amplesso delle mogli, de’ figli, e de’ padri, e li traessero a morte ; considerando quanta pietà ne sarebbe tra gli attinenti nel distacco de’ cari lor pegni, e temendo che alcuni, disperatisi, corressero alle arme, e si necessitassero ai male a costo di sangue civile. Non deliberò che si erigessero de’uribunali contro di essi; riflettendo come tutti negherebbero, e come non avrebbero i giudici argomenti incontrastabili e saldi, ma semplici denunzie, e colle quali, se credeansi, dovrebbero sentwaziare la morte de’ cittadini. Ma per sorprendere i novatori ideò tal metodo, per cui li capi si adunassero prima spontaneamente in un luogo, e quindi arrestati vi fossero per argomenti indubitabili, che non lasciavano mezzo a discolpe : ideò che fosse questo luogo di unione non una solitudine, o ritiro, dove pochi osservassero, e convincessero; ma il Foro, talché scoperti alla presenza di tutti ne fossero in proporzione puniti, nè sorgesse in città turbamento nè sollevazione degli altri, come suole ne’ castigi de’ congiurati, massimamente in tempi pericolosi. Forse un altro, quasi poco sia bisogno di precisione in tai cose, penserà che basti dir sommarianieute che arrestò tutti i complici de’ maneggi secreti, e gli uccise; ma io riputando degna che ricordisi la maniera onde furono presi, ho risoluto non tralasciarla; perciocché giudico che non basti all’ utile di chi legge le storie conoscere il termine solo de' fatti, (piando brama piuttosto ognuno che gli si espongane le cagioni, le guise delle operaxioni, i pensieri di chi praticavate, e come i Numi li favorissero ; nè gli si taciano le conseguenze che per natura vi si congiungono. Molto più ch’io vedo essere tali cognizioni necessarie agli uomini di Stato, perchè abbiano d^lì esempj co’ (piali dirigersi ne’ varj casi. Or questa fu la maniera ideata dal console per l’arresto de’ congiurati. Chiamati i più validi de’ senatori ordinò che al segno convenuto occupassero in città con seguito di amici e di parenti i luoghi forti ne’ (piali per avventura abitavano : istruì poi li cavalieri a tenersi armati nelL' case più acconcie intorno del Foro, e compiere ciocché sarebbe lor comandato. E perchè nella presa de’ cittadini i loro fautori non si elevassero, nè ci avessero interne stragi nel tumulto, scrisse al console che assediava Fideoe, perché al far della notte marciasse col fior dell’ esercito alla volta di Roma, e lo accampasse nelle alture intorno de’ muri. Ciò preparato; impose ai delatori che venissero circa la mezza notte nei Foro ai capi de’ congiurati con i compagni loro più fidi come a ricevervi 1’ ordine, il posto, ed il segno, in somma come per udirvi ciascuno ciocché avrebbe egli a fare. Or ciò appunto si fece. E poiché tutti questi si furono accolli nel Foro; immantinente al darsene di un segno arcano per essi, i luoghi foni farooo pieni di uomini, armatisi per la patria ; e r intorno del F oro fu guardato da’ cavalieri, sen.ia che via vi lasciassero per chi volea ritirarsene. Intanto Manio r altro console si presentò coll’ armata in campo Marzo. Nato appena il giorno i consoli, cinti da uomini di arme, recaronsi ai tribunali, e fecero che i banditori ~ invitassero pe’ quadrivi il popolo a parlamento. Concorsa la moltitudine, le rivelano il maneggio sul ritorno del tiranno, e le presentano i delatori. Quindi concedendo che si difendesse chiunque volea per ambigua 1’ accusa, nè volgendosi pur uno a respingerla ; passarono dal Foro in Senato per chiedervene la sentenza dai padri: e presa e scrittavela ; tornati al popolo gliela pubblicarono, e tale ne era il tenore. Si desse ai due denunziatori la cittadinanza, e dieci mila dramme di argento a testa, e venti jugeri de’ terreni del pubblico ^ e se così ne paresse al popolo si prendessero i complici della congiura, e si uccidessero. E ratificando il popolo quel decreto, ordinarono che uscissero dal Foro quanti vi erano per 1’ adunanza : e chiamati i littori colle arme, intimarono che dessero morte a tutti li congiurati : e quelli, circondandoli ; appunto ov’ eran già chiusi, trucidarono li colpevoli. Uccisi questi, non che ammettere le incolpazioni su degli altri partecipi, ne assolvettero qualunque era salvo ancora dal supplizio ; e ciò per togliere ogni turbolenza da Roma. Cosi finirono quei che aveano macchinata la congiura. Appresso il Senato ordinò che tutti si purificassero per essere stati ridotti a sentenziare la morte de’ conci ttadini : nè concedersi loro d’intervenire alle sante cose ed ai sagrifizj, prima di esserne rendati mondi e tersi colle espiazioni consuete. E poiché da quei che dirigono le cose divine, a norma delle leggi della patria fu compiuto quanto ricercavasi per sanliGcarli, decretò che ia rendimento di grazie si facessero sagriGcj e giuochi agonali per tre giorni. In questi giuochi sacri e denominati di Roma Mauio Tullio 1’ uno de’ consoli caduto tra la pompa dal carro sacro nei circo, ne mori da indi a tre giorni : e perchè poco rimaneva dell’ anno, Sulpizio tenne in questo tempo il consolato senza collega. Furono designati consoli per l’anno seguente Publio Veturio, e Publio Ebuzio Elva. E di questi Ebuzio fu incaricato delle cose politiche le quali sembravano abbisognare di cure non tenui, perchè i poveri non facesservi mutamento. Veturio poi menando seco metà dell! esercito, devastò le campagne de’ Fidenati senza che ninno gli ostasse : e postosi all’ assedio della città, davate assalti continui. Ma non potendola espugnare con questi, la cinse di vallo intorno e di fosse per sottometterla colla fame. E già ne eran gli abitanti nelle angustie, quando venne un soccorso di Latini spedito da Sesto Tarquinio, e grano, ed arme, ed altre cose utili per ia guerra. Cosi ringagliarditi osarono uscire dalla città con forze non piccole, e mettersi in campo aperto. Allora non più giovò pe’ Romani la cir convallazione ; ma parve che vi bisognasse una battaglia. Diedesi questa vicino alla città ; pendendone qualche  Ad. di Roma aS5 secondo Catone, 357 secondo Varrone, s 4 o 7 av. Cristo.. l'jj tempo dopo l’ esito incerto. Infine, quantunque più copiosi di numero, sopraiTatti i Fidenati dalla fermezza Romana ne’ travagli, acquistata col molto esercizio, fu> rono ridotti alla foga. Non fu la strage loro copiosa, per essersi tra non molt^ ritornati in città mentre gli altri respingevano dalle mura chi gl’ incalzava. Dissipatesi dopo ciò le truppe ausiliarie sen partirono senza avere punto giovato gli assediati ; e la città ricadde ne’ mali e nella penuria di prima. Intanto Sesto Tarquinio marciò con un armata Latina sopra di Segni dominata da’ Romani come per occuparla a prira’ impeto^ Ma resistendogli da entro generosissimamente, tentò di stringerli ad abbandonarla almeno per la fame. Se non che spesovi gran tempo senza opera niuna degna di ricordanza, e giunte vettovaglie e rinforzi dal canto ? dei consoli ; ne perde la speranza ; e ritirandone 1’ armata, ne sciolse l' assedio. > • LIX. Nell’ anno seguente i Romani elessero consoli Tito Largio Flavo e Quinto delio Sicolo. delio, dolce per indole e popolare, fu messo dal Senato con metà dell’ armata su le cose politiche per vegliare contro dei novatori: Largio ordinate milizie e stromenti da imprender gli assedj, parti per la guerra co’ Fidenati ; E spossatili colla diuturnità dell’ assedio, e col disagio di ogni cosa, desolavali ognora più, minando i muri, ei^ gendo terrapieni, avvicinando macchine, nè lasciando di e notte di stringerli, tanto che sen prometteva in breve il t. I i  All. >li Roma lS6 secondo Catone, aSR eecondo Varroue, • /Jg6 avanti Cristo] di espugnarli. Né le città Latine, su le quali contando ì Fidenati trovavansi in guerra, potevano ornai più salvarli. Imperocché niuna città bastava sola da sé per liberarli dall' assedio: nè le forze comuni di tutte si erano riunite ancora : ma li capi del|e città Latine a’ frequenti messaggi de’ Fidenati rispondeano sempre di un modo, cioè che presto giungerebbe loro il soccorso: non però mai nino fatto moveasi pronto su le promesse, né le speranze scintillavano più in là delie parole. Nondimeno i Fidenati non diffidavano in tutto de’ Latini: ma persistevano su la espettazione di essi affronte di tutti i mali, sopialtutto della fame, la quale facea senza combattere strazio grande degli uomini. Spedirono, è vero, alfine come stanchi da’ mali a chiedere al console tregua di un numero certo di giorni per deliberare intanto su la pace co’ Romani, e sui modi onde riordinarla. In realtà però ciò non cbiedeano per deliberare, ma per fornirsi di compagni di arme, come alcuni disertati di fresco da essi indicarono, giaoché nella notte innanzi aveano spedito i cittadini loro più cospicui, e più validi tra’ Latini, perchè iu forma di oratori suppbcassero quel popolo. Largio, ciò saputo, ingiunse agli ora tori che deponessero le armi e spalancassero le porte, e poi favellasser di tregua : iu altro modo non pace, non armistizio, non moderazione, non umanità presumessero dai Romani. Frattanto provvide che gli ambasciadori deputati ai Latini. non rientrassero in città ; preoccupando con guardie rigorosissime le vie che vi conducevario. Tal che diffidatisi gli assediati di un ajuto qualunque degli alleali si videro astretti a pregar veramente l’iaimico. B riunitisi, conohiusero di soiTrire la pace, comunque il vincitore la desse. Altronde il console ( tanto i costumi de’ capitani di que’ tempi respiravano 1’ amor della pa> tria, e tanto erano lontani dalle maniere tiranniche che pochi san fuggire de’ capitani presenti, invaniti dal C 0 i mando I ) il console sebbene prendesse la città niente vi permutò di voler suo : ma fattala deporre le armi, e presidiatala, conducendosi a Roma e convocando il 3^ nato, lasciò che esso ne deliberasse. Lieti i Padri del rispetto del valentuomo verso loro dichiararono che i più nobili dj Fidene secondo che il console li giudi casse capi della ribellione, si battessero colle verghe, e ei decapitassero : su gli altri poi disponesse egli stesso come glien parrebbe. Largio divenuto 1’ arbitro di tutti sparse in vista del pubblico il sangue, e confiscò li beni di alcuni pochi accusati dal partito contrarlo; ma concedè che gli altri ritenessero la patria e le robe loro, e solamente ne dimezzò le campagne, poi dispensate a sorte tra’ Romani lasciati in guardia della fortezza. Alfine dopo ciò ricondusse in casa 1’ esercito. LXI. Risaputasi fra’ Latini la espugnazione di Fidene, ogni città ne fu sospesa e tremante, e mal soddisfatta de' capi suoi ; come tradito avessero li confederati. C fattosi consiglio in Ferentino, quei che persuadevano la guerra, assai vi accusarono gli altri che la dissuadevano. Erano de’ primi Tarqulnìo, e Mamilio il genero di lui e li capi tra gli Aricini. Rapiti dal dir loro, quanti erano i Latini, vollero generalmente la guerra contro de' Romani, e diedero scambievole giuramento, che tiiuua l8o città tradirebbe il comune, nè farebbe pace sema il consenso delie altre decretando : che qualunque non os-> servasse i patti decadesse dalla lega alla esecrazione e nimicizia di tutti. Sottoscrissero e giurarono questi patti i deputati degli Àrdeati, degli Aricini, dei Boiaiani, dei Bubentani, dei Coresi, dei Corventani, dei Gabj, dei Lavrentini, de' Laviniesi, dei Labiniani, de' Labicani, de' Nomentani, de' Moreani, de' Prenestini, de' Pedani, dei Querquetulani, de' Satricesi, de' Scaptini, de’ Sezzesi, de' Teliini, de' Tiburtini, de'. Tuscolani, de' Tolerini, de' Trienni, de' Veliterni. Doveansi scegliere tra gl’ idonei alle armi, tanti in ogni città quanti ne parrebbono ad Ottavio Mamilio e Sesto ^ Tarquinio, i quali erano generalissimi nominati. E per giustifìcare ancor più li titoli della guerra spedirono a Roma da ogni città li personaggi più insigni come oratori. Venuti questi in Senato dissero : che quei della Riccia si richiamavan di Roma, perchè qucuido i Tirreni mossero contro loro la guerra, essa non solo die a’ primi libero il passo per le sue terre, ma li coadjuvò su quanto era d' uopo, ricoverandoli mentre poi ne fuggivano e salvandoli tutti, inermi e feriti : eppure non ignorava che quelli portavano guerra al corpo tutto della nazione : e che se avessero domalo  Dioaigi nel namerare questi popoli siegue l’ordine dell’ alfabeto latino e non del greco : del resto numera popoli quando nn tal Bruto nel lib. VI. di quest' opera § 74 dice ebe furono trenta i popoli latini concorsi a tal guerra. Dovrebbero dunque additarsene altri sei. Nel codice Vaticano si numerano ancora i Tolerini che noi abbiamo ugualmente allegali nel testo. La nomenclatura per quanto aia stata emendala non par libera ancora da ogni storpiatura.. ' i8r la Riccia; niente pià gli avrebbe impediti, sicché non soggiogassero le altre città. Pertanto annunziavano che se Roma voleva darne conto a quei della Riccia nel tribunale comune de’ Latini, e rimettervisi al giudizio di tutti, non avrebbon essi cagioni di guerra. Ma se tenendosi all alterigia sua consueta ricusava affatto condiscendere sul giusto e su V onesto inverso de’ confederati ; minacciavano che i Latini tutti la moverebbero con tutte le forze la guerra. LXn. A tale invito il Senato alieno di fare cogli Ari cini una causa dov’ essi giudicherebbero, e dove prevedeva che i nemici non sentenzierebbero di questo sola mente, ma vi aggiungerebbero ordinazioni ancora più gravi, decise che accettava la guerra. Argomentava dal valore e dalla sperienza de’ suoi tra le arme che Roma non incorrerebbe in danno ninno: apprendendo però la moltitudine de’ nemici, sollecitò più volte con ambascia tori le città vicine per confederarsele ; se non che spe divano i Latini ancora nelle stesse città legazioni che accusassero a lungo Roma, e la contrariassero. Gli Err nici adunati a consiglio di stato diedero all’ una e alr altra ambasceria risposte sospette nè salutevoli, dicendo che per ora non si vincolavano con alcuno; ma voleano posatamente discutere qual de’ popoli seguisse causa più giusta, e prendeansi per discuterne un anno. I Rutoli in contrario promisero senza arcano mandare soccorsi ai Latini : ma dissero che se Roma volea deporre le inimicizie, essi mansuefar ebbono i Latini, e ne concilierebbono gli accordi. Risposero i Volaci che si stupivano della impudenza de’ Romani ; perciocché sapendo essi quante volle gli avessero offzzl conTenlftnti a pcgnere ^elfa tnrblo ratiBcò; dando t principj certi di una tirannide a norma  : Quindi i capi del Senato si fecero a considerare lungamente e providamente il personaggio che avrebbe a comandare. Paiea loro che vi fosse necessità di un nomo espedito negli affari, più che perito nell’ arme, e savio, e temperato, sicché poi non > delirasse per l’ampiezza del comando; insorama di uno il quale oltre le belle doti, quante ai buoni comandanti si convengono, sapesse presieder con fortezza, nè cedere mollemente alle istanze. Di un uomo tale appunto abbisognavasi allora. .Videro concorrere doti siffatte quante seu chiedeano in Tito Largio, uno de’ consoli ; laddove delio il collega, uomo altronde buonissimo, non era nè attivo, nè bellicoso, nè imponente, nè temuto, ma edite troppo in punire chi non ubbidiva. Nondimeno il Senato prendea .verecondia di levare a que^o un’autorità che aveva secondo le leggi, e di concentrare .nell’ altro il potere di ambedue, anzi un poter più che. regio. .Teniea per qualche maniera che delio riflettendovi, non si gravasse della rimozione sua, come disonorato dai Padri ; e camhiale le maniere del vivere, si ponesse alla testa del popolo, c turbasse dal fondo la repubblica. Esitando tutti, e gran tempo, per la verecondia di proporre ciocché ideavano, un seniore, venerabilissimo tra gli uomini consolari, diede un tal suo parere, per cui fu salvo l'onore di ambedue li consoli, scegliendo essi appunto il personaggio più acconcio al comando. Diceva : Poiché il Senato ha risoluto, ed il popolo ha ratificato che il poter del comando si affidi ad un solo, restano ai Padri due cure non picciole : chi debba sottentrare ad una autorità pari alia monarchia, e chi possa legittimamente nomiruuvelo. Or egli suggeriva che l’uno de’ consoli sia per cessione, sia per sorte', eleggesse il romano più idoneo, a far 1’ utile e il bene della patria: giacché trovandosi allora in città magistrati sacrosanti, non vi abbisognavano gl’ interré come nella monarchia, per eleggere di accordo chi succedesse al comando. ' i Applaudivano tutti al partito, quando levatosi un altro disse : Ali sembra o Padri che debbasi alia sentenza aggiungere: che reggendo di presente la repubblica, due valentuomini, de’ quali non trovereste i migliori, V uno 'debba dare la nomina, e l’ altro riceverla, talché scelgati essi fra loro il più idoneo ; e C uno e i altro se ne abbia onore e soddisfazione uguale, quello perchè sceglie nel collega il più degno, c questa perchè scelto sen trova : dolcissime e bonissime cose ambedue. Ben vedo che sebbene io non avessi ciò aggiunto ; pure avrebbono i consoli così DWaiGI, toma II. il praticalo ; egli è meglio^ nondimeno che il facciano eziandio col vostro volere. Parve a tutti ciò detto a proposito, e niuno più notandovi altra cosa, ne decretarono. I consoli ricevuto il potere di eleggere fra loro il più idoneo al comando, fecero una mirabilissima cosa, e ben varia dalle affezioni dell’ uomo. A vicenda r uno dicea 1’ altro, e non sè, degno del comando : così passarono tutto quel giorno, encomiando l’ un l’altro, e insistendo ciascuno per non comandare: tanto che gli astanti in Senato ne furono in grandi perplessità. Sciolto il Senato, i parenti più prossimi di ciascuno, e li Padri più venerabili recatisi a Largio assai lo stimolarono £no a notte avanzata, dichlaraùdogli come il Senato poneva in esso ogni speranza, e dicendo che le sue ritrosie volgevansi in pubblico danno: egli tuttavia ricusava, ora supplicando, ed ora contradicendo. Adunatosi nel prossimo giorno il Senato, mentre colui ripugnava, nè levavasi ancora dal suo parere su le istanze comuni, Clelio sorge, e lo nomina, come gl’interré solevano nominare, e lascia il consolato. Fu questi il primo che, solo, fu reso àrbitro in Roma della guerra, della pace, d’ ogni affare, col nome di Dittatore  sia per la podestà di ordinare e dettare leggi su’ diritti e sul bene degli altri, come glien pareva e piaceva, chiamandosi da’ Romani Editti gli ordini e prescrizioni sul giusto e su l’ ingiusto : sia per essere allora un tal. uomo detto e dichiarato da un solo e non dal popolo secondo i riti della  Ad. di Roma aS6 socondo Catone, a58 secondo Varrone, • ar. Cristo] patria, perché comandasse. Guardaronsi dal dare al magistrato di una città libera un nome esecrabile e grave per rispetto di quelli che ubbidivano, sicché in odio del titolo non si conturbassero, e per rispetto di chi prendeva il comando, sicché nè fosse costui offeso dagli altri senza saperlo, uè gli offendesse egli co’ modi consueti nel grande potere. E certo il nome di dittatore non bene l’ ampiezza ne significa del potere ; non essendo la dittatura che un Dispotismo elettivo. Sembra che i Romani ne traessero pur da’ Greci la istituzione. Imperocché gli Esimneti che chiamavansi antichissimamente tra loro erano, come dichiara Teofrasto nel libro intorno del regno, despoti elettivi. Li creavano le città non per tempO' indefinito o perpetuo, ma nella circostanza, e fin quando sembrava che giovassero loro, come li Mitilenei già scelsero Pittaco contro gli esuli, compagni di Alceo poeta. Tennero questo metodo I primi che aveano appreso per esperienza ciò che giovava. Imperocché nelle origini era ogni greca città sovraneggiata, non però dispoticamente come tra’ barbari, ma secondo le leggi e le patrie consuetudini : ed un re si avea tanto più per potente quanto era più giusto, e più fido alle leggi, e men schivo de’ patrii costumi : ciocché s’ intende per Omero il quaì nomina i sovrani, vindici del diritto, e de/f onesto. Tennesi lungo tempo la signoria dei re come quella de’ Lacedemoni sotto fisse  Mèi testo: intarrtXnt, e SiftttTttrtXuf. cioè che si reruuio sul giusto e su C onesto.  costituzioni. Ma cominciando poi taluni di questi a trascendere gli usati poteri, poco concedendo alle leggi e molto ai genj loro ; ne furono i popoli in tutto disgustati, e rovesciarono 1’ autorità de’ monarchi, e le loro maniere : e stabilendo leggi e creando magistrati, assunsero questi come custodi delle città. Ma perciocché non bastavano nè a proteggere il giusto le leggi poste da essi, nè a coadjuvare le leggi li magistrati o li comissarj che avean cura di queste ; e percioccliè il tempo col volger suo mena tanta varietade ; furono astretti a fare stabilimenti non ottimi si, ma certo i più consentanei alle vicende che li sorprendevano o di sciagure abborrite, o di smoderate prosperità. Per le ' quali confondendosi ' lo stato della città, e bisognandovi un pronto riparo ed un arbitro immediato, furono necessitati a rialzare l’autorità dei monarchi e dei re, velandone coi nomi la esistenza. Cosi li Tessali denominarono Tettar' ~ chi questi arbitri, e gli Spartani li chiamarono Armosti per timore d’ intitolarli tiranni o monarchi : aggiungi. che teneano per cosa scellerata rinovare poteri abattuti tra giuramenti ed esecrazioni su 1’ oracolo de’ numi. Quindi, come ho detto, a me sembra che i Romani prendessero da' Greci l’esempio: Licinio però crede che i Romani ideassero un dittatore a norma degli Albani ; scrivendo cbe questi, venuta meno la regia discendenza dopo la morte di Numitore e di Amulio, eleggessero annui presidenti col potere appunto dei re, ma con titolo di dittatori. Io non ho voluto esaminare onde Roma derivasse il nome, ma sibbene onde pigliasse la idea dell’ autorità che in tal nome si ' addita. Se uon che forsb non è pregio dell' opera che scrivasi di ciò più luDgameate. Ora dirò brevemente ciocché Largio il primo dittatore facesse, e con quale apparato decorasse la sua dignità ; persuadendomi che siano più utili ai lettori le materie appunto che porgono in copia esempj splendidi ed opportuni pe’ legislatori, e capi de’ popoli, in somma per quanti vogliono governare e maneggiare il pubblico Imperciocché non io prendo a descrivere le istituzioni > e li modi di una città vite e negletta, né li consigli e le pratiche di uomini ignobili e di niuna espettazione, sicché lo studio mio su tenui e volgari cose paja ad altri frivolezza e molestia : ma di una città legislatrice di tutti, e di capitani che la sollevarono a tanto potere; cose tutte che se un amante della sapienza giunga a non ignorare ; ne sarà per politico ravvisato. Investito Largio appena del suo potere dichiarò maestro de’ cavalieri Spurio Cassio, già console nella olimpiade 70. Osservavasi tal costume da’ Romani fino a’ miei giorni, e ninno mai, scelto per dittatore, ne tenne la dignità senza maestro de’ cavalieri. Quindi a rilevare la potenza di una tal dignità, per imporre piuttosto che per osarne, ordinò che i littori marciassero per la città con fasci e scuri secondo il costume ivi proprio de’ re, tralasciato poscia da’ consoli, e primieramente da Valerio Poplicola per diminuire la odiosità del comando. Spaventati con questo ed altri segni di regia dominazione i turbolenti eà i novatori, comandò a lutti i Romani di adempiere la migliore delle leggi .di Servio Tullio, sovrano popolarissimo, cioè di assegnare per tribù li loro beni, li nomi delle mogli e de’ figli, e la età loro e de’figli. Terminato in breve il registro per la severità de’ castighi, perdendosi da’ contravventori i beni e la cittadinanza ; si rinvennero cento cinquanta mila settecento e più Romani adulti. Poi separando gli uomini di età militare dai provetti, e riducendoli in centurie ; li divise tutti, fanti e cavalieri in quattro parti : e ritenutane una, che era la migliore, per sé, fece che delio già suo collega nel consolato se ne eleggesse un altra qualunque tra le rimanenti : che Spurio Cassio il prefetto de’ cavalieri avesse la terza, e Spurio Largio il fratello la quarta ; la quale fu comandata trattenersi e presidiare insieme co’ vecchi la città. Egli poi, com’ ebbe pronto quanto bisognava per la guerra, menò le milizie in campo aperto; appostando tre armate ne’luoghi appunto donde sospettava che i Latini uscirebbono. E considerando esser proprio de’ savj capitani fortificare le sue cose come debilitare quelle del nemico, e terminare le guerre senza battaglie e stenti, o certo col minimo danno delle milizie ; anzi considerando che sciauratissime e luttuosissime più che tutte sono le guerre tra’ popoli amici e congiunti ; concludeva che si aveau queste a finire con tratti di clemenza piuttosto, che di rigore. Adunque spedendo occultamente persone non sospette ai più riguardevoli de’ Latini, li persuase a rendere la pace alle loro città: e spedendo insieme apertamente ambasciadori ad ogni città, come alla rappresentanfa generale di tutte; ottenne senza difficoltà che non tutti avessero più l’antico ardore per la guerra; alienandoli principalmente cogli ossequiosi modi e co’ benedzj dai duci loro. In opposilo Mamilio e Sesto, che aveano da’ Latini rice TUto il generai comando, riunite nel Tnscolo le forze, si apparecchiavano come per piombare su Roma ; se non che spesero su ciò gran tempo o che aspettassero le città le quali tardavano, o che non buoni apparissero loro gli auguri santi. Intanto alcuni di loro spiccatisi dall' esercito devastavano la campagna romana. Largio, risaputolo, spedi delio su loro col fiore dei cavalieri e de’ soldati leggieri : e costui, presentatosi inaspettatamente, gli assalì, e ne uccise, imprigionandone la più gran parte. Largio curatine li feriti, e guadagnatiseli con altre amorevolezze li rinviò senza offesa o prezzo al Tuscolo ; mandando riguardevolissimi romani ton essi per ambasciadori. Or questi operarono che si sciogliesse l' armata latina, e si facesse tra le città la tregua di un anno. Largio, ciò fatto, ricondusse l’ armata dalla campagna: e designando i consoli depose prima che ne spirasse il tempo la dittatura senz’ avere ucciso, o bandito, o ridotto comunque a gravi mali un romano. Cominciato T invidiabile esempio da un tal uomo si mantenne in quanti ottennero poi quella dignità fino alla terza generazione prima della mia. Imperocché la storia fino a quest’ epoca non presenta ninno il quale non esercitasse quella dignità moderatamente e qual cittadino, quantunque Roma fosse astretta più volte a sospendere le magistrature ordinarie, e concentrare tutto nelle mani di un solo. E non sarebbe gran meraviglia se personaggi ottimi della patria pigliando la dittatura solamente nelle guerre cogli esteri si fossero tenuti incorrotti nella grandezza del potere: ma pigliandola nelle sedizioni interne, grandi e molte, per togliere I sospetti di regni e tirannidi rinascenti, o per altra sciagura, lutti, quanti la ottennero, conservaron sestessi iqiniacolati, e simili al primo dei dittatori. Tanto che tutti unanimemente conclusero che la dittatura era 1’ unico rimedio contro de’ mali intrattabili, e 1’ ultima speranza dii salute quando sparse sono le altre speranze. dalla procella. Quattrocento anni però dopo la dittatura di Tito Largioj a memoria de’ Padri nostri parve tal carica biasimevole ed esecranda per Lucio Cornelio Siila che primo ne abusò, vendicativo e 6ero : talché li Romani allora sentirono a prova, ciocché aveano prima ignorato, che la signoria de' dittatori non era se,, notk liran nide : imperocché costui ordinò un Senato di uomini comunque, infìacchi 1’ autorità del tribunato, devastò città intere, distrusse e creò regni, ed altre cose fece e disfece dispoticamente, le quali lungo sarebbe a raccontare. Oltre i cittadini uccisi in battaglia, ne trucidò nemmeno di quaranta mila, datisi a lui prigionieri, dopo averne prima tormentati alcuni. !Non è questo il tempo di discutere se egli fe’ ciò necessitato o per utile del comune : solamente ho voluto dimostrare che ne divenne abominato c spaventevole il nome di dittatore: ciocché pur succede ad altre cose ammirale e disputate dagli uomini, non che alle sole dominazioni: perciocché tulle le cose appariscono belle e giovevoli se bene si .adoperino, come danncvoli c turpi se mal si dirigano ; di (he ne è causa la natura che in lutti i beni ha sparso i germi dei male ; se noa die di tali cose diremo altrove più propriamente. L’ anno prossimo a questo nella olimpiade 'j i ^ nella quale vinse allo stadio Tisicrate Croloniatejessendo Ipparco F arconte di Ale ne, presero il consolato Aulo Sempronio Atratino e Marco Minucio. Li anno prossimo a questo nella olimpiade 71. nella quale vinse allo stadio Tisicrate Crotoniate essendo Ipparco arconte di Atene, presero il consolato Aulo Sempronio Atralino e Marco Minucio , ma niente vi operarono degno di ricordanza, nè in città nè fra le armi : perciocché la tregua co’ Latini dava loro placida calma cogli esteri, e la legge decretata dal Senato di sospendere la esazione dei prestiti, finché la guerra imminente avesse buon termine, avea sopito le somfi) Àn. di Roma aS7 secondo Catone, 259 secondo Vairone, • 4 recchi per la guerra. Il complesso de’ Romani era vo- lentei'oso e propensissimo a combattere ; ma il più dei Latini eravi disanimato e forzato : dominando per le città uomini quasi tutti corrotti dai doni e dalle prò messe di Tarquinio, e di Mamilio, rimossi dalle cure pubbliche quanti favorivano il popolo e ripudiàvan la guerra. Cosi non più dandosi a chi la volea la facoltà (li discorrere, si ridussero i più corucciati a lasciare in copia la patria, e fuggirsene in Roma. Nè quelli che dominavano ve gl’ impedivano, ma teneansi obbligatissimi ai competitori, dell’ esilio spontaneo. Li riceveano i Romani e compartivano tra le milizie interne, e mescbiavano alle coorti urbane quanti ne venivano con mogli e figli, ma spedivano gli altri a' castelli intorno e per le colonie, sopravvegliando intanto che non facessero' mutamenti. E consentendo tutti che bisognavaci novamente un arbitro assoluto il qual potesse ordinare a suo modo ogni cosa, fu nominato dittatore Aulo Poslumio il console più giovine da Virginio il collega : e costui, come già 1’ altro dittatore scelse per suo maestro de’ cavalieri Tito Ebuzio Elva, e registrati in poco tempo tutti i Romani già puberi, ordinò la milizia in quattro parti, reggendone egli 1’ una, dandone a reggere la seconda a Virginio il compagno nel consolato, la terza ad Ebuzio il maestro de’ cavalieri, c  An. di Roma aSS secoado Catone, aCo secondo Varrone, • 4e essi agevolerebbero ossea più le cose loro. Se non che mentre deliberavano ancora giunse coll’ armata sua da Roma Tito iVirgiuio r altro console, marciato improvvisamente nella notte dinanzi : e prese anch’ egli campo in altra altura assai forte. Di modo che i Latini rimasero intracchiusi, nè più idonei ad un assalto, avendo a sinistra il console e a destra il dittatore. Adunque tanto più sen conturbarono tra quelli i capitani i quali non voleano se non partiti sicuri, e temerono che tardando si riducessero a consumare le loro provvigioni, le quali non erano molle. Postumio notando quanta fosse la imperizia loro nel comandare spedi Tito Ebuzio maestro dei cavalieri col nerbo de’ cavalli e de’ soldati leggeri ad .occupare un monte rilevantissimo in su la via, per la quale recavansi i viveri dalle loro terre ai Latini. Andò questa milizia espedita con la cavalleria, e condotta di notte tra selve non frequentate ; prese il monte prima che i nemici se ne avvedessero. V. I capitani nenuci osservando invasi anche i posti forti che erano loro alle spalle, nè più avendo speranze buone sul trasporto indubitato de’ viveri da’ paesi loro, deliberarono respingere i Romani dal monte prima che vi si assicurassero ancora cogli steccati. Adunque Sesto r un d’ essi presa la cavalleria vi si lanciò con impeto ; quasi la cavalleria Romana non si tenesse a ribatterlo : ma tenendosi questa bravissimamente contro gli assalitori, Sesto durò qualche tempo ora dando voi ta, ora tornandole a fronte. Ma perciocché quel luogo riusciva opportunissimo a chi ne avea le alture, e costava assai travagli e ferite a chi vi si recava dabbasso ; e perciocché giungeva ai Romani un soccorso di milizia legionaria mandata appresso da Postumio ; egli ritirò, non potendo altro fare, la cavalleria negli alloggiamenti. I Romani impadronitisi appieno del luogo, si misero a fortificarlo pubblicamente. Dopo ciò parve a Sesto e Mamilio ndn essere più da indugiare gran tempo, ma doversi decidere la sorte con una pronta battaglia : e parve allora anche al dittatore di esporvisi, quantunque avesse ne’ principi ideato di dar fine alla guerra senza combattere, sperando giungere a ciò, specialmente per la imperizia de’ capitani. Imperciocché da’ cavalieri custodi delle strade furono sorpresi de’ messaggeri che andavano dai Yolsci a’ Latini con lettere di avviso che, indi a tre giorni al più, verrebbe milizia copiosa di rinforzo da loro, come altra dagli Eroici. Or ciò ridusse i duci Romani a venire, sebbene contro il proposilo, a pronta giornata. Datosi da ambe le parti il segno della battaglia ; si avanzarono gli uni e gli altri al campo intermedio, e cosi vi ordinarono le armate. Sesto Tarquinio ebbe a reggere 1’ ala sinistra de’ Latini, ed Ottavio Mamilio la destra. Tito 1’ altro figliuolo di Tarquinio comandava il centro óve erano i disertori e fuorusciti Romani. La cavalleria divisa in tre parti fu dispensata alle ale ed al centro. In opposito Tito Ebuzio ebbe 1’ ala sinistra de’ Romani contro di Ottavio Mamilio, e Tito Virginio il console si contrappose colla de stra a Sesto Tarquinio; Empiva de’ genj suoi Postumio stesso il dittatore 1’ armata di mezzo, e moveala contro Tito Tarquinio ^ e gli esuli da Roma j i quali eran con lui. Il complesso delle milizie venute a combattere erano ventiquattro mila fanti e tre mila cavalieri nella parte Romana, e quaranu niila fanti, e tre mila cavalieri nella Latina. VI. Quando erano per andare a combattere i capitani Latini, aringando ognuno i suoi, diedero mille eccitamenti di coraggio, e ricordarono lungamente ciocché bisogna al soldato. Dall' altra parte il Romano vedendo cbe i suoi temeano come quelli che cimentavansi con gente assai più numerosa, e volendoli sollevare da quella paura, fe’ radunarli, e poi tra corona di senatori, onorabili per anni e per credito, cosi concionò : Gli Dei cogli aitgurj, colle viltime, con ogni segno divinatorio promettono alla nosti'a patria Li libertà, ed una propizia vittoria; contraccambiandoci della pietà verso loro, e della giustizia esercitata da noi verso gli altri in tutta la vita : per lo contrario, inìmici sono, come deano, de' nostri nemici, perchè tante volte e tanto da noi beneficali, essi parenti, essi amici nostri ', essi legatisi a noi di giuramento per avere appunto gli amici stessi ^ i nemici, ora spregiato ogni vincolo, ci movono una guerra ingiusta non per decidere qual di noi si abbia la preminenza e il comando, ciocché sarebbe il meno de mali ; ma in favor dei timnni, e per fare la patria nostra che è libera', schiava ai Tarquinj. Ora intendendo voi o centurioni e soldati, che militano con voi gli Dei, quelli stessi che hanno sempre difesa Roma, si con^ viene che rnagnanimi vi dimostriate in questa battaglia : molto più che ben sapete che gli Dei favoriscono i bravi combaltitori, quelli che quanto è da loro fan tutto per vincere, e non quelli che figgono i 'pericoli, md quelli che li sostengono per salvare' sè stessfi Inoltie a voi sono apparecchiati dalla sorte altri mezzi non pochi per la vittoria, e tre soprattutto manifèstissimi. Vn. Il primo è la fedeltà scambievole, requisito principaliss'tmo in chi disegna vincere l’ inimico ; imp^ciocchè non' dee già cominciar • questo giorno a rendervi amici fidi e costanti; ma la patria ha da tanto tempo preparato' a voi tutti un tal bene. V oi allevati in urta terra, educati di una maniera sagrificate agl’ Iddj su di altari medesimi :. e voi avete fin qui partecipato i tanti beni e sperimentato insieme i tanti mali, i quali rinforzano, anzi rendono indissolubili, le amicizie fra gli uomini, quante volte presentasi loro un cimento comune su gravissime cose. In secondo luogo, se voi soggiacerete .ai nemici, già non sarà che alcuni di voi restino immuni, altri subiscano r estrema degl' infortunj ; ma tutti, sì, tutti perderete la gloria vostra, f impero, ' la libertà j noit più padroni delle mogli, non più de' figli, non più _ •' delle sostanze, non più altro bene vostro qualunque. ^ E li vostri capi, li vostri pubblici magistrati ‘ miserandamente moriranno tra flagelli e tormenti. Se già non offesi da voi punto nè poco, fecero a voi tutti ogni maniera cT ingiurie ; e che mai potete aspeltarvene ora se vincano, nella memoria che hanno de’ mali ; che gli avete ridotti fuori della patria, che gli avete spogliati de’ beni, nè consentile che tornino alle case, paterne ? L’ ultimo de’ mezzi indicàtir, nè minore degli altri se rettamente sen giudichi,, è che noi troviamo le cose tra’ nemici men prospere che non pensavamo. E certo vedete voi da voi stessi che tolto gli Anziati, niuno è qui per soccorrerli nella guerra. Noi concepivamo che verrebbero per essi tutti i Eolsci ; e Sabini ed Ernici in copia, e mille altre vane paure ci i fingevamo. Erano questi tutti sogni de’ Latini, immaI ginati su promesse vane, su speranze senza base. Quindi altri nel meglio ne abbandona la causa, spregiando r euUorità de’ sì belli capitani:, altri li terranno ^ anzi a bada che li soccorreranno, temporeggiandoli con lusinghe ; e quelli che or si apparecchiano, come tardi per la battaglia, inutili diverranno. Che se alcuni di voi pensano che giusto sia I ciocché io dico, eppur temono. la quantità de' nemici, j. a I I  €onoscanò per una breve iilruzione, o piuttosto ricordo, che essi temono non temibili cose. E prima conside\ tino che il pià di' loro è stato forzato alle arme contro di ìtoi, come ce lo ha con tante opere e detti mànìfestato ; e che gli spontanei, quelli che di lor piacere combattono pe’ tiranni sono ben pochi, e piuttosto una parte insensibile rimpetto di voi. Appresso considerino che le guerre guidale a buon successo non la superiorità' nel numero, ma nella fortezza. E lunghissima opera sarebbe ricordar quanti eserciti di barbari, quanti di Greci, tuttoché preminenti di numero, siano stati disfatti da piccioli corpi e quasi non credibili a dir. Ma tralascio gli esempj altrui : dite ^ quante guerre non avete voi ben guerreggiato con armata minore della presente, e contro apparecchi assai pià potenti di questi ? Dite ; voi fin qui teiribili agli altri che avete combattuti e vinti, siete ora voi dispregeiSbli a questi Latini, ai Folsci loro alleati, perchè non vi han essi mai sperimentato Jra le arme ? Sapete pure voi tutti quante volte i nostri padri gli hanno in campo superati ambedue. E vi par verisimile che la condizione da’ vinti sia dopo tante perdite migliore, e peggiore sia quella de' vincitori dopo tanti bellissimi fatti ? E chi,' se abbia mente, chi mai dirà questo ? Anzi ben io mi 'stupirei se alcuno di voi paventasse questa turba ove si pochi sono li bravi, e spregiasse la milizia nostra si forte e si numerosa ; che nè pai' numerosa nè pià forte mai ne abbiamo finora schierato in battaglia. Che pià : deve, o cittadini ì esservi impulso grandissimo a non temere, nè ricusare i pericoli t ejsere come vedete qui pronti ai pericoli, e correre con voi la sorte stessa delle arme i primarj de’ senatori, quelli che la età o la legge gli esenta dalla milizia. Che^sl; che egli sarebbe vituperoso che -uomini nel fior degli anni temessero i pericoli quando i provetti gli affrontano, Avran cuore i vecchi di ricevere per la patria la morte se dare non là possono ai nemici; e voi li sì. vegeti, voi che ben potete • f una e l’ altra cosa, o salvarvi e vincere senza danno, o certo magnanimamente operare, e soffrire, voi non vorrete nè cimentare la sorte, nè la Jama .procacciarvi de’ valorosi F No, ciò di vói non è degno, o Homani, ai quali sopravvanzan tante mirabilissime gesta degli antenati, le quali niuno loderebbe mai quanto basta : e se voi vincerete questa guerra, i vostri posteri ancora si gioveranno di tante vostre gloriosissime imprese. Ma perchè nè sia senza frutto chi si delibera K alle grandi azioni ; nè si trovi col danno chi ne teme i rischj oltra il debito, udite prima d incorrerla, Indite qual sarà la sorte dell’ uno e delt altro. Chiunque ìlei combattere imprende belle e magnanime gesta ne sarà da chi ’l vede encomiato ; ed io, quando dispenserò li premj che .ciascuno' -dee raccoglierne. secondo il costume della patria j quando. darò insorte le, terre pubbliche, io costui ne appagherv, sicché pià di nulla abbisogni. Al contrario chiunque nel cuor suo vile, offensivo de’ numi, si deciderà per la fuga, costui si troverà per me colla morte che fogge ; chè ben è meglio per esso e per altri che un tale cittadina perisca : e così perendo, non che attere i funebri onori eia tomba ^ si resterà, non emulato' nè pianto, in abbandono agli uccelli e alle fiere. Con ioli previdenze, andate : combattete alacremente ; e V abbiate per guida alle grandi azioni la speranza buona, chè dato a questo cimento un termine generoso, come tutti desideriamo, avrete ottenuto amplissimi beni, avrete liberato voi dal timor dei tiranni, avrete, come doyeasi, corrisposto alla patria, che chiedea la gratitudine vostra per avervi generati e nudriti, avrete operato eh i teneri vostri figli, le vostre mogli non sqffrano oltraggio da nemici, e che ì vecchi vostri genitori vivano in calma il picciolo avanzo di vita. Felici voi d quali riservasi tornare da questa guerra col trionfo, mentre li figli vostri' ve ne aspettano, e le spose, e li genitori. Quanto sarete celebrati, quanto ' invidiati pel coraggio di dare voi stessi per là patria ! Tutti deano morire valentuomini o no] ma il moribe con dignità' e CON GLORIA NON È PROPRIO CHE DE' VALENTUOlilNIAncora egli continuava tali detti magnanimi ; quando ecco spargersi nell’ esercito un ardore divino, e tutti ad una voce gridare : ardisci, e guidaci. E qui Postuniio encomiando la loro prontezza; e votandosi agl’ Iddj, se avea buon successo nella guerra, di fare grandi e sontupsi sagrilìzj, e ^lendidissimi giuochi da rinnovarsi in. Roma ogn’ anno rilasciò le milizie perchè si oi'dimssero. Quindi come i duci diedero il segno e le, trombe l’invito a ^mbattere; lanciaronsij gridando, quinci c quindi prima i soldati leggeri e li oavalietà, e poi le lej^ioni le quali aveano schierameotd ed armi consimili. Fecesi di tutti una mischia vivissima, ^dottasi tutta al dar delle mani. Tennesi questa lungo tempo contraria alla espcttazione di ambedue, sperando gli Ubj e gli altri che non avrebbero nemmeno a combattere, ma che a prim’ impeto forarebbero, ed intimorirebbero rinunieo; i Latini alhdati alla cavalleria loro numerosa quasi i’ urto ne fosse irreparabile alla cavalleria Romana; e li Romani aU’andarne audaci c spregianti ai perìcoli, quasi cosi avessero a soprailare l’ inimico. Non ostanti tali primitivi concetti degli uni su gli altri, vedeano tutti seguire il contrario. Quindi considerando che il mezzo di salvarsi e di vincere era la propria fortezza non la paura de’ nemici ; militarono bravlssimamente anche sopra le forze ; e varie ne furono le vicende e le sorti. XI. Primieramente li Romani del centro dov’ era il fiore de’ cavalli con Postumio dittatore, e'dove combatteva egli stesso tra’ primi, cacciano di posto i loro compettitori dopo ferito con uno strale in una spalla, cd inabilitato a valersene, Tito l’ uno de’ figli di Tarqurnio ; sebbene Licinio c Gellio senza esaminare le cose verisimili e possibili, suppongano esser questo che militando a cavallo restò ferito lo stesso re Tarquinio, uomo più che nonagenario. Caduto Tito, le sue milizie  .\nofaa Tito Lhrio i di questo parere, quantunque avesse considerata la difficoltà degli anni : ^li scrìve in Postumiwn prima inacìesuos aiihortantem i/utruentemtfua, Tarquinius super but quamquam jam alate et viribus crai graiùar equnm infestas admitil. Nà SODO mancsti altri re che in quella ^ fornivano tutti gl' incarichi del regno o còmbattevano. Massiuissa fu I’ uno di.questi, cd .àntea re degli 'Setti mori combattendo, vecchio pi4 (he di novant’anni tennero fronte alcun tempo, e sollecite ne raccolsero vivo il corpo, non però fecero altro più di generoso, ma rinculavano incalzate via via da’ Romani, 6nchè soccorse da Sesto l’ altro 6glio di Tarquinio co’ fuorusciti Romani, e da truppa scelta di cavalieri si arrestafono, e tornarono su l’ inimico. Cosi ripigliato Corano combattevano questi nuovamente. Intanto negli altri coi> pi  segnalandosi più che tutti i duci Ebuzio e Mamilio, fugando ovunque volgeansi chi resisteva, e rior dinando i loro se scompigliavans! ; vennero a disfida in fra loro : lanciatisi 1’ uno su l’ altro portaronsi colpi gravissimi, ma non mortali, Ebuzio spingendo 1’ asta per la corazza al petto di Mamilio, c Mamilio traforando il braccio destro di Ebuzio: tanto che ne caddero ambedue da cavallo. Portali amedue fuori della battaglia Marco Va lerio che era un’ altra volta luogotenente anzi il più vecchio, prese le veci di Ebuzio maestro de’ cavalieri : ma contrastando colla sua la cavalleria nemica, e contenen dola per breve tempo, infine fu violentato e respinto assai lungi ; perocché gèinsero in ajuto al nemico i fuorusciti Romani a cavallo, o di milizia leggera: e Maiadìo stesso riavutosi dalla percossa era tornato in campo con cavaleon Filippo Macedooe. E Luciioo scrive che Tarqptinio superbo più che nonagenario viveva robustissimo in Coma. Forse Licinio e Gellio non son dà riprendere. Dee poi notarsi, che Tarquinio; anche secondo Dionigi, visse più di novani’anni. Vedi § ai di questo libro. '  Cioù Mamilio nell’ ala destra de’ Latini ed Ebutio nella sinistra de’ Romani, percbù già stavano appunto in queste aie ; uù Diouigi lia (inora dello che avessero cambiato posto.  lerla numerosa e col nerbo de’ soldati espeditì ; anai in questa pugna cadde trafìtto da un’ asta Io stesso luogotenente Valerio  quegli che il primo avea trionfato de’ Sabini, e rialzato lo spirito di Roma infìacchito pei danni ricevuti da’ Tirreni : e con lui pur caddero altri molti nobili e valorosi Romani. Sorse sul caduto corpo di esso una lotta vivissima facendosi scudo allo zio li due Publio e Marco, fìgli di Poplicola. Or questi consegnandolo intatto colle armi sue, mentre respirava ancora, ai scudieri perchè Io riportassero agli alloggiamenti; lanciarono sestessi in mezzo al nemico spinti dall’onta ricevuta e dall’ardore dell’ animo : ma piombando d’ ogn’ intorno i fuoruscili su loro, alfine carico r uno e r altro di ferite mori (a). Dopo tale infortunio r armala Romana fu cacciala di posto, ed assai malmenata dalla sinistra fino al centro. Il dittatore al conoscere che i suoi fuggivano, ben tosto si staccò per soccorrerli con i cavalieri che aveva d’ intorno : e dato ordine a Tito Erminio di andare coll’ ala della caval Intende il Valerio fratello di Valerio l’oplicola: però il primo Valerio è detto tio de’ fìgli di -Poplicola. Il Valerio del igotliti, li menò contro 1’ armata di IMamilio, ed egli stesso avventandosi addosso di lui die era il più grande e più gagliardo di quanti gli erano a fronte, lo uccise; ma fattosene a spogliare il cadavere, egli ancora vi soccombò trafitto .dal brando di un tale in un lato. Sesto Tarquinio, duce dell’ala sinistra Latina, resistendo tuttavia tra tanti mali, avea cacciata di posto 1’ ala destra de’ Romani : come però vide Postumio venire su lui col uei'bo de’ cavalieri, disperatosi corse in mezzo a’ nemici. E qui circondato da’ fanti e da’ cavalieri ed investito, quasi una fiera d’ ogu’ intorno, mori, ma non senza averne anche egli stesi molti di quelli che lo investivano. Caduti i duci, pienissima fu la fuga de’ Latini, e la presa de’ loro alloggiamenti, abbandonati pur dalle, guardie. Dicchè i Romani se n’ebbero molti e belli vantaggi. Gravissima fu la perdita de’ Latini, tanto che moltissimo ne decaddero : e la strage fu tanta, quanta mai più per addietro ; imperocché di quaranta mila fanti e tre mila cavalli, come ho detto di sopra, nemmeno dieci mila tornarono salvi alle case. XIII. È fama che in questa battaglia si rendesser vi_sibili al dittatore, ed al seguito suo due cavalieri adorni del Gore primo di giovinezza, grandi e belli assai più 2i8 delle antichità.’ romane che la condizione non sostiene dell’ uomo ; e che ponendosi alla testa della cavalleria romana, peKotessero colle aste i Latini che le si avventavano, o' li sospingessero a rapidissima fuga. E fama è similmente che dopo la fuga de’ Latini, e la presa de’ loro alloggiamenti, presso al crepuscolo vespertino, appunto quando la zuffa ebbe fine, si dessero a vedere in abito militare nel F oro romano due giovani altissimi, e vaghissimi ', spirando in volto ancora 1’ ardore della battaglia, dalla quale venivano, e reggendo cavalli, molli di sudore. Dicesi che smontati l’ uno e 1’ altro da’ cavalli, lavavansi nell’onda, la quale sorgendo presso il tempio di Vesta forma una lacuna, picciola si, ni profonda : ma che fattisi molli intorno di loro, e chiedendone se punto recassero di nuovo dall’ esercito, rilevarono ad ei Ciocch’era della battaglia, e come 1’ aveano guadagnata: e che partiti poscia dal Foro non più furono veduti da alcuno, tuttoché seu facesse ricerca grandissima dal comandante lasciato in Roma Come però nel giorno appresso riceverono i capi della città lettere dal dittatore, e conobbero 1’ assistenza dei due numi, e tutti i successi della battaglia ; giudicarono che i .due personaggi apparsi fossero, com’ era verisimile, gl’ Iddii stessi, e conchiusero che erano le immagini di Polluce e di Castore. Attestano la comparigione inaspettata e meravigliosa di questi Numi, molti segni ancora, come il tempio fondalo a Castore e Polluce nel Foro, appunto dove comparvero j e la fonte vicina, chiamati c creduta sacra finora, e li sagrifizj magnifici che il popolo ne celebra ogni aqno per mezzo de’  a fare nè 1’ una nè l’ altra di queste due cose: che. era bensì, da giovine iL trasporto d’ allora per combattere ; ma che assai più biasimevole sarebbe' il fuggirsene a casa : e che qualunque de’ due parliti seguissero, andrebbe a genio de’ nemici. Era il parere di questi, cbe di presenta 'si triucierassero e preparassero quanto bisognava per la battaglia, e clic intanto spedissero ai Volaci per chiedere che inviassero nuove forze onde pareggiare quelle de’ Romani, o che richiamassero le altre già’inviate. La sentenza però sembrata più persuasiva e ratificata da’ capi fu di mandare al campo romano alcuni osservatori col nome di ambasciadori onde preservarli, li quali, complimentandolo, dicessero al capitano, che il comune de' Volsci mandavali per ajuto de'Bomani: si doleano però che giunti tardi per la battaglia non troverebbero uemmen gratitudine di tanto amore, vedendo come l’aveano già vinta a grande lor sorte, anche senza degli alleati. Con tali dolci maniere illudendo, c dandosi per amici, andassero, spiassero, conoscessero la moltitudine de’ nemici, le arme, gli appareccbj, i disegni. Conosciuto ciò, discuterebbesi qual fosse il migliore, lo aspettare nuove truppe, o menare le presenti all’ assalto. Poiché si riunirono tutti in questa sentenza, ne andarono gli oratori eletti da essi al dittatore : e poiché recati nell’ adunanza vi esposero gl’ insidiosi loro discorsi ; Postumio soprastando alcun tempo, alfine rispose: Voi siete o Volsci venuti qua con rei consigli sotto belle parole,: nemici nelle opere, volete presso noi la stima di amici. Voi foste inviati dal vostro comune ai Latini per combatterci. Ora. non essendo voi giunti a tempo per • la bat&iglia ; anzi vedendo questi già vinti, cercale deluderci con dirne cose contrarie a quelle che eravate per Jdré. Ma nè sincera è r amicìzia del parlare che assiunete in vista del tempo presente, nè sincero il titolo della vostra legazione ; ma pieno è di malizia e d’ inganno. Non voi veniste sensibili pe nostri beni, ma per investigare qual sia lo stato tra' noi di debolezza 'e di forza. Messaggeri ne' detti, voi non siete che esploratori nè fatti. E negando questi, ogni cosa, soggiunse che presto li convincerebbe. E qui produsse le lettere dei Volsci intercettate da lui prima delia battaglia, e chi le portava ai duci dei Latini, nelle quali prometteano mandare a questi un soccorso. Riconosciute le lettere, e palesato dai prigionieri il comando che aveano ; arse la moltitudine di manometter que’ Volsci, quali spie sorprese nel delitto. Non però volle Postumio che essi, nomini probi, si diportassero come i malvagi ; dicendo esser meglio serbare  permesso a quelli a’, quali solcasi, che die^fes^ i loro pareti ; Tito Largio, il primo de’ dittatoti create già per l’anno antecèdente  consigliò che usassero'^ la sorte sobbriamente. Diceva ' essere encomio grahdissimo per una città come per un uomo se rion lasciandosi corrompere dalle prosperità, le sostiene con regola e con dignità : odiarsi tutte le prosperità, quelle principalmente per le quali possono ingiuriarsi, e gravarsi i  Vuol dire tre anni addietro: come fu notalo da Silburgio. miseri e li sottomessi. iVon confidassero su la sorte, essi che àveano sperimentato tante volte ne’ beni, e ne' mali proprj, quanto fosse mal ferma e mutabile: nè Kiducessero i nemici 'alla necessità di pericolo estremo per la qualè ipesso gli uomini s’ innalzano, e combattono sopra le forze. Temessero, se prèndeano pene irreparabili e dure su chi avea mancato, di provocarsene f ira comune di ogni popolo sul quale aspiravano di comandare ; imperocché decaduti dalle maniere consuete colle quali eransi rendati chiari di oscuri parrèbbono aver fatto ' della sovranità una tirannide, nqn lìn governo éd un patrocinio. Dieea che mezzana non irremisibile è la colpa, se città già libere,• anzi usate al comando, nOn sanno dall’ antico grado discendere. Se quei che anelano il meglio, siano sé falliscono il colpo, vendicati immedicabilmente ^ niente ipipedirà, che gli uomini, generati tutti con intimo amore della libertà si distravano gli uni cogli altri. ^AggiuDgefra che assai piti nobile, assai piti fenho è il principato^ che amministrasi tenendo i sudditi colld beneficenza ' non co’ supplizf : perciocché dà quella' nasce la benevolenza, e dà questi il timore > e ciocché si teme, ^^si odia vivàmente per necessità di natura. Da ultimo pregayali a pigliar per esempio le opere bellissime pqr le quali gli antenati loro'tajfto erano encomiati'^ ' e qui ridiceva com' èssi aveano niàgnificatò" Bonia ^à piccola, non diroccando le città prese',' nè Spopolandole nè spegnendovi almeno gli adulti, ma riducendqle colonie di Bofna, e concedendo la cittàdLinanza a tutti i yinti che in Jtoina vollero domiciliarsi. Tilo Largib mirava col dir sao principalmente a questo, che si riqovasse co’ Latini l’alleanza, com’ eravi staU,'nè più ingiuria dcun% di qualunque città si ricordasse. Servio Sulpizio punto non contradisse intorno la pace e la rinovazione dell’ alleanza. Siccome di oomini che aveano tr^viatot E costui pigliandone -vesti e cibi per r esercita, ^e. scegliendone trecento .. ostaggi, dalle famiglie più cospicue, _ parti come ^ avesse dissipata la guerra. Non però fu, questo un dissolver!^ 'ma .piuttosto un dlHerirla, e dar causa di apparecclij ad essi, preoccupati dal giungere loro inaspettato. Ritiratosi l'esercito romano, si accinsero i Volaci di bel nuovo alla guerra, e munirono e meglio presidiarono le città, ed ogni luogo acconcio da rifuggirvisi. Si consociarono con essi per l'impresa i Sabini, e gli Ernie! svelatamente ; ma segretamente molti altri ancora. I Latini, essendo venuti ad essi a,mbasciadori per chiederne 1’ alleanza, li legarono e menarono a Roma. Fu sensibile il Senato alla / costanza della lor fede, e più ancora alla prontezza colla quale > solcano spontaneamente per esso cimentarsi, e combattere, ^^iudi restituì loro gratuitamente, ciocché pur vedea di’ essi desideravano, ma vergognavansi dimandare, intorno atbeimila fatti prigionieri nelle guerre eoa essi : e perchè il dono, prendesse una forma degna de’ parenti, -li rivestì tutti con abiti proprj di uomini liberi. Del resto fece intendere che non abbisognavasi di sòccorso latino, dicendo che bastavano a Roma le proprie forze. per vendicarsi de’ ribelli. E cosi risposto ai Latini'^ decretò la guerra contro de’Volsci. Ancorò il 'Senato sedeva nella Curia, ancora considerava quali milizie destinasse a marciare ; quando fu visto nel Foro un uomo che antichissimo di anni, sordido ne’ vestimenti, e ha^'buto ^ capelluto ., gridava ed invocava soccorso dagli uomini, Accorsa la moltitudine Intorno; égli postosi in luogo donde fosse visibile disse: Io. generato libero y dopo. 'èssere finché n era la ptà., marciato in tutte le spedizioni, dopo averi' sostenuto vent’ otto battaglie ^ e riportato pià volte,i premj militari.,' alfine quando sopravvennero i tempi che strinsero Jìonm alle ultime angustie fui necessitato a prendere wi prestilo per supplire al tributo che mi si chiedeva: perchè il mio campicetlo' era desolato da’ nemici, e le' rendite urbane tutte. per la penuria de’ viveri mi si consumavano. Cosi non avendo come più redimere il debito, fui condotto dal prestatore con due miei figliuoli a servire. Comandandomi poi quel padrone non facili cose io contraddissi ; e ne fui con moltissimi talpi battuto^ E così dicendo squarciò la lurida veste ;,e mostrò pieno il petto di ferite, e grondanti le spalle di sangue. E. qui ululando, e piangendone la moltitudine .?' ^1 Serrato si disciolse : e tutta la città fu percorsa da’ poveri che. deploravano la infelice lor swte, ^ cliiedeano soccorso da’ vicini. Uscirono allora dalle Case  tutti quelli che erari servi pe’ debiti, abbuffati le chiome, e la maggior parte colle catene alle mani,,' e co’ ceppi nei piedi, senza che alcuno osasse reprimerli: e so altri osava pur toccarli, erane manomesso co’ dU'ittL della, forza. Tanta rabbia in quel punto invase il' popolo ! Nè molto dopo il popolo fu pieno di uomini che fuggivano la forza di chi signoreggiavali.. Appio a, come .autore non ignoto de’ mali, temette coutfa di sè le ffe della moltitudine, e s’involò, fuggendo, dal-Foro. Ma Servilio deposta la veste contornata di porpora, e gettatosi lagrimando appie di ciascuno ; a stento li persnase a contenersi per quel giorno, e tornar; nel seguente, mentre il Serrato  provvederebbe iij qualche modo su loto. Cosi dipendo, Ds’ creditori e comandando al banditore di proclamare, die ninno de’ creditori potesse trar seco pe’ debiti alcun cittadino, finché il Senato su ciò deliberasse, e che tutti gli astanti 'ne andassero ove più /deano senza timore ; chetò la turbolenza. Partirono allora dal Foro: ma nel prossimo giorno vi' si riunì non solo la moltitudine della città, ma r altra ancora de’ campi vicini; tanto che sull’ alba già .il Foro ne ribolliva. Adunatosi il Senato per discu te re ciocché era da fare, Appio chiamava il compagno adulatore del popolo e capo' della insolenza de’ poveri : e Servilio rimproverava lui come austero, caparbio, e fabbro de’ mali che pativano: nè ci avea niun fine alla disputa; Intanto latini cavalieri spronando vivissimamente i cavalli si apprésentarono al Foro, annunziando essere già usciti 1 nemici con -.esèrcito poderoso, e già sovrastaìre alle cime -de’ monti loro. Cosi dissero questi : e li cavalieri, e quanti avéano ricchezze e gloria ereditaria, armaronsi in fretta, come.su. pericolo estremo; laddove i poveri ;• sjngolarmenle gravati da’ debiti, nè toccavan armi, né -soccorrevano in alcun modo a’ pubblici bisogni: anzi gioivano, ed accoglievano con desiderio la guerra esterna, come quella che redimerebbe loro dai mali presenti. E se altri, gli' esortava a respingere gli inimici, mòstràvanò a lui le catene é. li ceppi, e lo confondevano addinrtandando, se Cosse mai degno combattere per difendersi tanto benefizio. Anzi taluni osarono perfino dire., esser meglio servire ai -Volsci, che soffrire i vilipendj de’ patrizj. Infine., era tutta la città ripiena di ululàti; di tumulti, e di ogni lutto di femmine. A tale spettacolo i senatori pregarono ii console Servilio, come più autorevole presso del popolo, a soccorrer la patria. E costui convocandolo al Foro, dimostrò la urgenza del tempo presente, e coiùe non ammettesse discordie civili : pregava e supplicava che piombassero unanimi tutti sul nemico, non che tollerassero che rovinasse la patria, ov’ èrano le divinità paterne, e le tombe. degli antenati, cose preziosissime tutte presso i mortali. Sentissero verecondia pe genitori incapaci a difendersi per la vecchiezza ; e pietà delle donne che bentosto sarebbero astretti a subire gravi ed inesplicabili affronti : ioprattiitto commiscrassero che teneri figliuoletti, cèrto non educati a tale speranza, avessero a finir tra' le ingiio'ie e i vilipendj spietati. Quando tutti al paio concordi, tutti al paro infiammati, avessero tolto il rischio presente; allora discutessero comèra da ordinare un governo eguale, comune, salutevole a tulli, e 'tale, che nè i poveri insidiassero ''agli averi, del. ricco,, nè il ricco i poveri ne conculcasse ^ cose tutte in società dannosissime. Allora discutessero con quale pubblica discrezione fosse da provvèdere ai poveri, con quale agli altri li quali dopo dati i prestiti per soccorrere, ora ne erano ingiuriati : nè dalla sola Roma si leverebbe la fede do contralti, bene principalissimo tra gli uopiini e cuslóde dell' armouia nel corpo delle città. Dette queste e slmili cose, quali convenivano al tempo, da ultimo provò com’ era la benevolenza sua stala sempre costante verso del popolo^ e.pregò'che in contragcamblo, almeno di questa, si unissero per la spedizione j essendo a' lui data ^'.amministrazione della guerra, e quella di Ron^a alt compagno. Protestava che la sorte avÉvd così destinate a Ipro le. parti : che il Senato tn>evalo\ assicurato di cpncedere quanto egli prometteva al popolò;,.'eche egli aveva assicurato il Senato cìie\ il .pòpolo non tradirebbe la patria ai nemici. Ciò detto ido^ose al banditore dì pubblicare che hiunof poiesséarrogarsi le case di quelli che rnilitassètó. oon lui. ccfntro.^i Vblshi, nè venderle, nè impegnarle^ nè. rendet .sérVQ' pe' contratti alcuno della stirpe di èostbro, np impedire : veruno a guerreggiare : perwtessero pei^' Sècjondò^ i patti le 'azioni de’ pre^ stamri.'coutre'qaellijche -noli, prendeano le armi. Come i pòveri ódirono tiòj. decisero, e lanciaronsi tutti, pienirdi ardore aUa guerra'; vchi stimolato dalla aperto dì, guadàgnare ; cbi ..dalla benevolenza pel capitano,,^ et gVan'.-p.firte' per. levarsi da ‘Appio e dai vilipendi; ^ersQ q^^rv lllnrra et  ! màli : finché, vinsero noRofecero che lungo tempo si 'oppo’neàiercr ai sopravvenendo’ ài ^Rqmani'laVlèro cavalleria vamente 'i, Sabini r ’e fatta'assai' strage, ttfrnaroho a Roma conducendo seéo'in’’cópia li prigidhln.''ETmpnb^oi cei/cati e messi nella 'carcere feSabln^éhefècaùsi a. Roina sul titolo, di veder gli ^spettàcoli, dóveariq’ se^rido Taccordo all’ avvicinàrsi'aéi lóro, prebccuparne ^ T luoghi piu forti : e li sagnfizj ihterrbttK per' (a guerra fiiroho per decreto del Senato raddoppiati ; talché oc fu ^oju e riposo nel popolo. Ancora festeggiavano 1 quand’ ecco ambasciadori dagli Arunci, popolo che occupava i più be’ luoghi della Campania. Presentatisi questi in Senato dimandavano' il territorio tolto dai Romani ai Volsci Eccetrani e dispensato agli nomini mandativi per guardia della nazione : dimandavano insieme che tal guardia si richiamasse; altrimenti verrebbero quanto prima gli Arunci su’ Romani, e vendicherebbero tutti i mali che aveano causato ai loco vicini. Replicarono a ciò li Romani. Ambasciadori, annunziate agli Arunci che noi Tlomani teniamo per ^uslo che altri lasci a’ posteri suoi ciocché ha conquistato per valore su nemici : che la guerra degli Arunci non la temiamo ; giacché non è questa per noi nè la prima nè la più terribile : che noi costumiamo combattere con chi vuóle per t impero e pel bene ; e se la cosa riducasi ora all arme, intrepidamente all arme verremo. Dopo ciò movendosi gli Arunci con esercito poderoso, e li Romani con quello che aveano sotto gli ordini di Servilio ; si scontrarono presso la Riccia città lontana centoventi stadj  da Roma. Accamparonsi ambedue su di alture forti, e poco distanti fra loro: e poiché vi ebbero trincierati gli alloggiamenti, scesero al piano per combattere. Avendo Appio cosi detto, ed acclamandovelo strepitosamente i giovani, quasi egli desse il ben della patria ; Servilio ed altri seniori sorsero per contraddirlo : furono però sopraffatti da giovani che erano venuti preparati ed insistevano con forza grande; tantoché prevalse inGne la sentenza di Appio. Dopo ciò li consoli, sebbene i più volessero Appio per dittatore, come l’unico da por freno alle sedizioni, pure lo esclusero di concerto, ed elessero Marco .Valerio frateDo di Pubblio già primo console, uomo anriano e popolarissimo di credito, persuasi che a lui basterebbe la terribilità della sua carica; e che si abbisognasse più che tutto di un uomo placido, perchè non si ^cessero delle innovazioni. ^ XL. Valerio investito della sua dignità, e scelto per maestro de’ cavalieri Quinto Servilio fratello d> Servilio, collega di Appio pel consolato ; ordinò che il po^ polo si radunasse a parlamento. E raduna tovisi albra la prima volta ed in gran moltitudine, da che guidato all’ armata erasi poi scisso manifestamente al dimettersi di Servilio dai magistrato ; Valerio ascese in ringhiera e  Qursto Valeria nel § 13 delMibro presente si dice ucciso in baiiaali ; ed ora si desorWe colile diitaiore. Vedi la nota al S 11 ciiaia. disse : Sappiamo o cittadini che sempre di vostro buon grado hanno a voi comandato alcuni della stirpe dei p^alerj, da' quali liberati dalla dura tirannide, non foste mai rigettati nelle' oneste domande^ nè temeste violenza ; affidandovi a quelli che sembravano e sono popolarissimi infra tutti. Pertanto non io qui parlo y quasi voi abbisognate di essere illuminati che noi convalideremo al popolo la libertà la quale gli abbiamo da principio vendicato : io parlo per ammonirvi solo brevemente affinchè siate pur certi che vi manterremo quanto promettiamo. Non ammette che vi deludiamo V età nostra venuta alla perfezione ^e men sostiene che vi ri^riamo, il grado supremo che abbiamo, e finalmente dMbianm pur vivere V avanzo dei nostri giorni tra voi per iscontarvela se parremo di avervi abusati. Io tralascio però queste cose giacché non abbisognano di molto discorso tra voi che le conoscete. Ma ciò che avendo voi sopportato dagli altri, pormi che dobbiate ragionevolmente temerlo da tutti, nel vedere che sempre il console che v’invitava contro i nemici, prometteavi dal innato, senza mantenervele mai, le cose, per voi necessarie ; questo io vi convincerò che non dovete di me sospettarlo, principalmente per tali due argomenti : prima perchè a deludervi in tal modo' mai sarebbesi il Senato abusato di me che amantissimo sono del popolo, avendone altri più. acconci : e poi perchè non mi avrebbe mai condecorato della dittatura per la quale io posso concedervi anche senza di lui ciocché il vostro meglio mi sembra. Digitized by Googli !ì5o delle Antichità’ romane. Non crediate che io dia mano al Senato per ingannarvi f nè che io consultando con esso vinsidii. E se voi così giudicate ; fate ciocché pià volete di me, come del più, scellerato tra’ mortali. Ma liberate, datemi udienza, da tale sospetto gli animi vostri : ripiegate la collera dagli amici su vostri nemici che vengono per levarvi la patria, e per fare voi schiavi di liberi, sollecitandosi a premervi con tutti i mali y riputati gravissimi dagli uomini. Già non lontani si dicono dalle nostre campagne. Sorgete, accingetevi, mostrate loro che la milizia Romana in discordia, tissai pià vale della loro, tutta unanime. Se presi noi tutti da un ardore, piomberemo su loro ; o non ci aspetteranno, o prenderanno le pene degne del^ r audacia loro. Considerate che i nemici che a voi portano la guerra sono i Fblsci, sono i Sabini, quelli che tante volte avete combattuti e vinti: e che non ora han fatto pià grande il corpo nè pià generoso di prima il cuore ; ma che ben altro se lo hanno ; tuttoché ci disprezzino per le patrie gare. Quando avrete punito V inimico, io vi prometto che il Senato darà buon fine alle vostre contese pe’ debiti, ed alle oneste dimando secondo la virtù che mostrerete nella guerra. Intanto libere siano le sostanze, libere le persone, libera la fama de’ cittadini Romani dalle azioni de’ prestiti, e di ogni altro contratto. Per quelli poi che combatterai!, con impegno bellissima corona fia la patria ridiriaata, luminosa la gloria tra compagni, e pari la nostra ricompensa a vivificar le famiglie, c magnificarne cogli onori la stirpe. Siavi  aSi esempio, ve n’ esorto, V ardor nùo verso de' pericoli : io stesso come imo combatterò de’ pià robusti tra voi. Udì tali detti, coDsoIandosi il popolo, e come quello che non più sarebbe deluso, promise di arrokrsi per la guerra; e sen fecero dieci corpi militari, ciascuno di quattromila uomini. Prese ogni console tre di questi corpi con quanta cavalleria gli fu compartita. Il dittatore prese gli altri quattro col resto de’ cavalli. Ed apparecchiatisi ben tosto, marciarono a gran fretta Tito Velurio contro gli Equi, Aulo Verginio contro i Volaci, ed il dotatore Valerio contro de’ Sabini; rimanendo a guardia della città Tito Largio co’ più vecchi, e con piccolo corpo di giovani. La guerra co' Volsci ebbe prontissima risoluzione : imperocché necessitati a combattere, pensando gli antichi mali, e come aveano milizia più numerosa, piombarono i primi, anzi pronti che savj, su’ Romani, appena si videro accampati, gli uni dirimpetto degli altri. Attaccatasi vivissima la battaglia, fecero molte magnanime cose ; ma scontramdone ancor più terribili, fuggirono finalmente. Il loro campo fu preso, e Velletri loro città principale fu ridotta per assedio. Lo spirito poi de’ Sabini fu invilito ancor esso in brevissimo tempo, essendosi 1’ una e 1’ altra parte deliberata a campale battaglia. Dopo ciò la campagna fu saccheggiata, e presi alcuni villaggi, ove i soldati acquistarono schiavi e roba in copia. Gli Equi all’udire la fine de’ compagni, riflettendo la propria debolezza  An. iti Roma a 6 o secondo Catone, 363 secondo Varrone, a Ì93 av. Cristo. si misero su luoghi forti ; e ritirandosi alia meglio per le cime di monti e balze presero tempo e mantennero alcun poco la guerra. 'Non però poterono ricondurre illeso r esercito, perchè sopravvenendo i Romani arditissimamente su pe’ dirupi ; ne espugnarono a forza il campo. Dond’ è che fuggirono dalle terre de’ Latini, e le città si ridiedero colla facilità, colla quale erano^ già state prese al giungere del nemico. Alcune però furono espugnate, non cedendone le guarnigioni ostinate il comando. Riuscitagli la guerra secondo il disegno, Va lerio trionfò, com’ era 1’ uso, per la vittori^ e congedò la milizia, quantunque non paressene al Senato tempo ancora, afBnchè i poveri non esigessero le promesse. Quindi a diminuire la sedizione in Roma, scelse alquanti di questi, e li mandò nelle terre acquistate colle arme 'e tolte ai Volsci, perchè le possedessero, e le presidiassero. Ciò fatto chiese ai Padri che avendo avuto il popolo tanto pronto a combattere, gli osservassero le promesse. Non però davano questi udienza, ma si opponevano come dianzi all’ intento,; perchè li giovani e più violenti e più numerosi tra loro, fatto partito, brigavano ancora in contrario, e chiamavano con alta voce la prosapia di-^ lui adulatrice del popolo, e conduci trice alle ree leggi, tanto care ai Valer] su le adunanze e su’ tribunali; 'malignando che aveano con queste annientato tutto il potere de’ patrizj. Esacerbatone  Allude alla legfi^ falla da Valerio 1’ aano 347 di Roma secondo Catone, colla quale davasi ad un privato il diritto di appellare al popolo dai magistrali che lo aveano condannalo. Vedi 1. 5, S 9molto Valerio, e dolutosi come se calunniato a torto patisse pel popolo, compianse il vicino fin d’ essi cbe cosi consigliavano : e com’ è verìsimile nel suo caso, presagendo loro pi& cose, altre per passione, altre per intendimento maggiore degli altri, s’involò dalla Curia,  convocato il popolo disse : Cittadini, dovendovi io piena riconoscenza per la prontezza colla quale mi vi deste per In guerra ; e più. per la virtù la quale dimostraste in combattere ; io molto mi adoperai perchè foste voi ricompensati con ogni modo, principalmente col non essere delusi nelle promesse che io vi feci a nome de’ Padri, quando fui scelto consiglierò ed arbitro di ambe le partì, onde ridurvi allora scissi, a concordia. Nondimeno ora sono impedito di soddisfarvi da uomini che non mirano il bene della 'comune ma solo il proprio, almen di presente. Questi prevalendo di numero prevagliono con una potenza che ad essi la gioventù concede più che la perizia degli affari.' Ed io, sono vecchio come -.vedete e vecchi pur sono i miei compagni buoni solo nel consigliare, ed invalidi per eseguire, e la provvidenza su la repubblica sembra ridotta propriamente a questo, che r una parte pregiudichi V altra. Io sembro al Senato un vostro fautore, e voi mi accusate come benevolo troppo verso del Senato. 5e il popolo innanzi carezzato da me fosse venuto meno alle promesse del Senato, sarebbe la giustif razione mia, che voi. siete i mancatori, e non io. Ora però non mantenendosi i patti dal Senato, mi è necessario dichiarare che è senza mia parte quanto patite, e che io medesimo sono come voi, anzi più, di voi, circonvenuto e deluso. Imperocché. non solo io sono offeso con ingiuria a tutti comune, ma in ispecie con quante mormorazioni di me vanno facendo. Di me si mormora che io per far f utile de’ privati dispensai senza il voto del Senato a’ poveri Va voi le spoglie prese nella guerra ; che io rendei del popolo ciocché era di tutti, e che per impedire che il Senato vi malmenasse, licenziai, ripugnandovi lui, la milizia che dovea tenersi ancora nelle terre nemiche fra le marce, e i Vavagli. Mi si rimprovera la spedizion de’ coloni nella regione de’ V^olsci, perchè ho io comportilo una terra ampia e buona a poveri Va voi, piuttosto che donarla a pcUrizj ed a cavalieri. Soprattutto mi si provoca indignazione moltissima perchè io nel fare la leva ho assunto più che quattrocento do’ vostri tra cavalieri ; don^ è che ricchi ne son divenuti. Se ciò mi avveniva quando fiorivano gli anni, ben avrei insegnato co’ fatti a’ nemici, qual uomo avessero vilipeso. Ora essendo io più che settuagenario, invalido a provedere fino a me stesso, e reggendo che non più la vostra sedizione può da me racchetarsi ; rinunzio la' dittatura : e chi vuole, io gliel concedo, faccia di me come giudica, se crederi comunque da me danneggiato, XLY. Intenerirousi tutti a que’ detti e gli fecero se gulto quando parti dal Foro. Ma questo appunto esasperò contro lui li senatori: e ben tosto ebbe tali conseguenze. I poreri non più celatamente nè di notte, come per addietro, ma pubblicisshnamente riunÌTansi,c trattavano di scindersi da’ patrizj. Il Senato, disegnando impedirneli, diede ordine ai consoli di non dimetter r esercito. Certamente eran questi arbitri ancora delle reclute, come sacre pe’ ligami de’ giuramenti militari. £ per questi vincoli ninno attentavasi di abbondonaroe le insegne ; tanto la riverenza potea de’ giuramenti ! Alle^ gavasi per titolo della ritenzione, che gli Equi e li Sa^ bini eransi convenuti per la guerra contro de’ Romani. Ora essendo i consoli usciti colle schiere, ed essendosi accampati non lontani 1' uno dall’ altro, i soldati radu naronsi tutti in un luogo colle arme, e per istigazione di un tal Sicinio Belluto se ne ribellarono ; appropiandosi le insegne, cose tra’ Romani onoratissime e sante, come simulacri di Numi. E creatisi nuovi centurioni, ed un capo in Sicinio Belluto; occuparono non lontano da Roma presso 1’ Aniene un monte che sacro si chiama 6n da queir epoca. Pregando, sospirando, prornettendo, li richiamavano i consoli ed i centurioni ; ma Sicinio replicò: Qual fare è il vostro o Patrizj che ora vogliate richiamare quelli che avete espulso dalla patria, e che di liberi gli avete schiavi rendati ? Con qual credito mai ci assicurerete le promesse, le quali siete rimproverati di aver tante volte tradito? Piuttosto, poiché volete in città, soli, aver tutto ; andate ; abbialevelo : non vi angustiate pe' bisognosi, e pe miseri. Per noi sarà buona ogni terra; e qualunque ne terremo per patria, solchè vi si abbia la libertà. Annunziatesi tali cose in Roma, tutto vi fu  .\n. dì Roma a 6 o tccoudo Catone, 263 secóndo Varrone, e 49 ^ T. Cristo. romore e pianto: e là correva il popolo, intento a la> sciar la città, qua li patrizj cbe voleano alienameli, colla forza ancora, se ricusavano. Soprattutto eravi clamore e pianto alle porte ; ed ingiurie vi si facevano, come tra’ nemici, con parole e con opere, niun più riverendo nè la età, nè l’ amicizia, nè la gloiia della virtù. Non potendo però, come scarsi, i soldati di guardia destinativi dal Senato custodire le uscite, le abbandonarono, sopraffatti dalla moltitudine. Allora versandosene fuora gran popolo ; parca lo spettacolo, còme la città fosse presa. Gemeano, si rimproveravano quelli che ' restavano, vedendo che desolavasi. Dopo ciò si fecero molte consultazioni ; si accusarono gli autori delia separazione; ed intanto correano li nemici, depredando la campagna, 6no a Roma. Li fuorusciti presero i viveri necessarj drile terre intorno, nè punto più le danneggiarono. Tenendosi in campo aperto accoglievano quanti venivano da Roma, o da’ castelli intorno ; tanto che ne divennero numerosi ; perciocché vi concorrevano, non solamente quelli che voleano levarsi dai debiti, dai giudizj, e da altri; angustie imminenti, ma tutti eziandio gl’ inBngardi, gli oziosi, i malcontenti ; quelli che in malfar si emulavano, che Invidiavano l’ altrui ben essere, o che per altri mali, e cause comunque, discordavano dal governo. XLVII. Adunque si eccitò ne’ patrizj turbazione, ed angustia grande, e paura, come se li fuorusciti e li nemici stranieri fossero per venire quanto prima contro di Roma. Poi, quasi tutti ad un segno, prendendo coi loro clienti le armi, altri corsero alle strade donde pensavano clie giungessero gl’ inimici, altri ai castelli per difenderne i posti forti, ed altri ai campi innanzi la città per trincerarvisi, e quei che per la vecchiaja non poterono iàr nulla di ciò, furono distribuiti per le mura. Come però seppero che i fuoruscili nè si univano coi nemici, nè saccheggiavano la campagna, né faceano altro danno considerabile, respirarono dalla paura ; e mutato pensiero, esaminarono come si riconciliassero. Suggerirono i capi del Senato mezzi di ogni genere, diversi per lo più fra loro; ma li più anziani suggerirono i più discreti, e più convenienti ai tempi ; facendo riflettere che il popolo twn ti era separalo da loro per malizia, ma in forza de proprj mali, o delle promesse non mantenutegli, e che auca così risoluto V utile suo piuttosto tra la collera che tra la calma della ragione, vizio consueto nella ignoranza. Aggiungevano che i più di questi conoscevano di avere mal deliberato, e cercavano emendarsene, se il buon punto ne avessero iiche già ne' ei^an le opere come di chi si pente ; e che volentieri tornerebbero nella patria se potessero, augumrvisi un avvenire felice, dando loro il Senato perdono, e pace decorosa. In mezzo a tali consigli supplicavano che essi che erano i gratuli non sentisser la ira più che i minori’, nè differissero stolti a riconciliarsi allora .quando fossero necessitati a far senno, e curare il male più piccolo col più grande, vuol dire, quando' avessero a tedere le armi, e le persone, e togliersi da sè stessi la libertà : cose tutte quasi impossibili a farsi. Usassero moderazione, pròponessero i primi gC ulili consigli, e la riunione, avvertendo che se era proprio de' patriiù] comandare e dirigerò ; era propria ancora de' buoni C amicizia e la pace. Mostravano che la dignità del Senato non minorasi quando provede alla sicuiozza col sopportare pazientemente le perdite necessarie ; ma quando opponesi tanto ostinatamente alla sorte che la repubblica ne rovini : gli stolli trascurare la sicurezza per amor del decoro : ben essere da ceivare ambedue queste cose : ma dove sia da cedere V una o C altra, doversi la salvezza riputare più necessaria. Era l’intento li tali consiglieri che si mandasse a fuorusciti per trattar della pace non altrimente che se la colpa loro non fosse insanabile. Piacque cosi appunto al Senato ; e scelti personaggi accontissimi, li diresse a quelli che erano in campo con ordine d’ intenderne i bisogni e le condi' zioni colle quali volessero in cittlt ritornare ; perciocché se fossero discrete e fattibili, jl Senato non le rigetterebbe : intanto se depenessero le arme, e tornassero in Roma, promettea loro perdono e dimenticanza perpe tua di tutto il passato : come belle ed ntili le ricompense a chi servisse valoroso, ed affrontasse ardentemente i pericoli per la patria. Recarono gli oratori e comunicarono tali voleri al campo, aggiungendovi cose consentanee. Non accettarono' i fuorusciti l’ invito : anzi rimproverarono a’ patrizi T orgoglio, la dnrezza, le simulazioni loro perchè fingevano ignorare i bisogni del popolo, e quelli pe’ quali si era separato. Ci assolvono, diceauo, da ogni pena per la ribellione, come fossero i padroni, essi che abbisognano dell’ ajulo nostro. Quando giunga su loro, e sarà tra non molto, con tutte le forze il nemico ; non potranno alzare nemmen lo sguardo contr esso, e pur ci voglion far credere che non sia bene loro t esser difesi ; ma felicità di chi si unisce a difenderli. Aggiunsero a tal dire che se vedevano già le angustie di Roma ; comprendereb- bero poi meglio con quali nemici avessero a guerreggiare : e qui minacciarono molto e veementemente. Non contraddissero a ciò, ma partirono, e dichiararono i legati a’ patrizj le risposte dei segregati: e Roma, uditele, se ne turbò ; e temette più che per addietro. Il Senato non sapendo come espedirsi o diffenrc, si disciolse, dopo avere più giorni ascoltate le infamazioni e le ac> cose vicendevoli de’ suoi capi fra loro. Il popolo rimasto in Roma per benevolenza verso de’ patrizj, o per desiderio della ..patria più non somigliava sestesso; dileguandosene gran parte nascostamente o in pubblico > nè sembrandone il resto affatto più stabile. Fra tali vicende i consoli, avendo poco più tempo per comandare, fissarono il giorno pe’ comizj. Venuto il tempo nel quale aveansi a riunire nel campo Marzo e scegliere i proprj magistrati; ninno ambiva, nè sostenea di esser consolo. Adunque nella Olimpiade setlantesÌDa seconda nella quale Tisicrate da Crotone vinse allo stadio, essendo arconte in Atene Diogneto ; il popolo rielesse al consolato due vecchi consoli Postumio Gominio e 'Spurio Cassio, uomini cari alla moltitudine ed ar grandi, da' quali già domati i Sabini aveano lasciato di competere dell’ impero con Roma. Or questi riassumendo il loro grado alle calende di settembre, vale a dire prima del tempo consueto ai consoli precedenti, convocarono innanzi tutto il Senato per deliberarvi sul ritorno del popolo. CbieslO' il’ parere di tutti ; invitarono a dire Menenio Agrippa, uomo allora venerabile per età, credulo più che gliaU tri insigne in prudenza, e lodato principlmente' per loi scelta de’ suoi regolamenti, perchè teneasi^al mezzo non fomentando 1’ arroganza de’ nobili, nè lasciando che i| popolo operasse tutto a suo modo. Or questi esortando il Senato alla riconciliazione, disse r Se quanti qui siamo o Padri Coscritti fossimo tutti di un animo; e se niuno si opponesse a far pace col popolo, comtmque la facessimo, per giuste o per ingiuste condizùy^ ni ; e se questo fosse proposto unicamente d diseu^ tere ; dichiarerei, con poche parole dà che ne penso. Ma perciocché alcuni giudicano che sia dà ponderare ancora se forse riesca più utile far guerra a fuorusciti ; non credo che io possa in ^ pocoinsinuare dà che dee farsi: ma sento il bisogno tt istruir ampiamente su la pace quanti tra voi ne discordano. Imperocché questi conducono a cose contraddittorie ; spaventano voi, che già ne temete, su mdli da nulla o lievi a curarsi, e trascurano gl' immedicabili e gravi. Certamente cosi propongono perchè non decidono delr utile colla ragione, ma col furore e coll’ impelo. E come si direbbe che essi provvedono le cose proficue, o fattibili almeno, quando stimano che Roma, una  A^oi di Roma a6t ceoodo Catóne, o63 secondo Varrone,e 4{)t arami Critu.  a6i città si grande, ed arbitra di tante genti ^ e già in~ yidiata e molestata da’ vicini, possa ritenerle e difenderle facilmente senza il suo popolo, o che possa in luogo del suo sì scellerato introdurre altro popolo che per lei combatta del principato ; che con lei sia di buon accordo su la repubblica, e sempre moderato in pace ed in guerra ? Eppure non altro potrebbono dirvi quei che tentano dissuadervi dalla pace. L. Ma qual sia la più stolta di queste cose, vorrei che voi stessi lo decideste dalle opere. Considerate, che alienatisi da voi li più poveri perchè abusaste della loro infelicità senza modestia e senza politica, e che recatisi appena fuori della città senza farvi o macchinarvi altro mede, col solo intento di averne una pace non ingloriosa, molti de’ vostri nemici abbracciarono con trasporto questa occasione come dono della sorte, e riedzan lo spirito, e credono venuto per loro fitudmente il tempo felice da battere il vostro impero, di Equi, i Eolsci, i Sabini, gli Etnici, questi che mai si alienano eìal farci la guerra, esatperali ora dalle sconfitte recenti, già devastano le nostre campagne. Que’ Campani, que Tirreni die vacillavano nella nostra soggezione ora parte fi abbandonano matdf estàmente, parte in occulto • vi si preparano. E gli stessi LeUirti, quantunque nostri congiunti, a me non semhran procedere di buona fede, costanti neW amicizia; ma odo che guasti sono in gran numero per amore di un cambiamento, che tanto gli uomini alletta. Noi die abbiamo fin qui portato in campo aperto la guerra su gli altri; noi ci stiamo or qui dentro, difensori delle mur^; lasciando senza seminarli i nostri terreni, anzi 1 vedendovi saccheggiali i villaggi, via levale le predo, e fuggirsene di per sestessi gli schiavi, senza che abbiamo rimedj a tanti mali. Non pertanto noi ' tutto soffriamo, perchè speriamo ancora che il popolo ci si riconcilj, ben sapendo che da noi dipende il toglierecon un solo decreto la sedizione. Ma se pessimo è lo stato nostro in campagna;, non è meno funesto e terribile dentro le mura. Noi ' non ci siamo .apparecchiati già da gran tempo, come per un assedio, nè bastiamo di numero contro tanti nemici. La nostra gente è poca, nè da guerra, e plebea, per gran parte, merce nar f, clienti, artefici, custodi tton affatto saldi dello stato turbato degli Ottimali : e le continue loro diserzioni verso de’ fuorusciti ce li hanno rendati tutti sospetti. Soprattutto essendo le nostre campagne dominate da nemici, ed impossibilitato il trasporto de’ viveri ; abbiamo a temer di una fame : e quando a tal disagio saremo; tanto più ci spaventerà la guerra, la quale senza questo ancora non concede mai calma allo spirito. Quello poi che supera tutti i mali è vedere le donne dei segregati, vedere i teneri figli, i padri cadenti, che sqqallidi e miserandi si rigiran pel Foro e per le vie, che piangono e supplicano e stringono a ciascuno la destra e i ginocchi, e deplorano la solitudine loro presente e più ancor la futura, spettacolo in véro desolante ed insopportabile ! Niuno è si barbaro che non s intenerisca a mirarlo, e non si appassioni sul destino degli uomini. Che se abbiamo a diffidar su plebei ; dofremo rimoverne gt individui, altri come inutili nelr assedio, ed altri come amici non saldi. Or se questi rimovansi, quid forza rimane in guardia di Roma ? o da quale soccorso animati ardiremo star contro dei mali ? V unico nostro rifugio, P unica nostra buona speranza è la gioventù patrizia : ma poca come vedete ella è questa, nè bastante a darci i grandiosi disegni. Che dunque impazzano, quei che propongon la guer^ ra, o perchè mai ci deludono, e non consigliano piut~ tosto di cedere fin da ora senz ar^ustie, e senza sangue Roma ai nemici ? Ma forse io ciò dicendo son cieco, e predico per terribili, cose che non son da temere. Roma non corre altro rischio che di un cambiamento, cosa certo non difficile ; potendovisi facilissimamente introdurre mercenarj e ' clienti in copia da ogni gente e luogo, posi van divulgando molli de contrarj al popolo, uomini, viva. Dio y non dispregievolì. A tanta stoltezza vengono alcuni ; che non propongono già consigli salutevoli, ma desideri impossibili I Ora io volentieri dimanderei questi uomini quode tempo mai ne si, dia per far tali cose, essendone tanto vicini i nemici : qtude condiscendenza alt indugio o al ritardo del giugnere degli alleali in mezzo à mali che non temporeggiano, nè aspettano ? Qual uomo, o qual Dio mai vi terrà sicuri, o congreghem da ogni luogo in gran calma, e qui ci porterà de’ sussidj ?. Inoltre e quali tuoi saran. ' quelli che lasceranno la patria per venirsene a noi ? Quelli forse che haruus case e Dii Lari € viveri ed onori tra proprj cittadini per la nobiltà degli antenati, o quelli che per la gloria risplendono de' pnoprj meriti ? E chi mai sosterrebbe di abhemdonare i proprj commodi, e partecipare vergognosa^ mente i mali altrui ? Eppure a noi si verrebbe non per dividere con noi la pace e le delizie, ma la guerra e i pericoli, e questi incerti, se a bene riescano ! Convocheremo forse una -turba, qual fu quella rigettata da noi, plebea e senza lari? Ben è chiaro che pe' disagi suoi, io dico pe’ debiti, per le penalità, c per cause altrettali prenderà volentierissima. dovunque una sede : ma sebbene questa plebe sia utile, c ( per concederle questo ancora ) sebbene sia moderata ; tuttavia ci riuscirà generalmente, assai, meno 'buona della nostra, perchè non è rutta tra nci, nè come noi disciplinata, e perchè ignora i nostri costumi, le nostre leggi, e le nostre maniere.  celebrasi la vostra clemenza,  il quale nè manda a noi per conciliarcisi esso che à C offensore, nè porge risposte umane e socievoli a quelli che noi stessi gli abbiamo inviati : ma s’ inalbera e minaccia, nè lascia conoscere quello che voglia. Udite voi dunque ciò che iò consiglio che^ facciasi. lo nè penso il popolo irreconciliabile a noi > nè > ohe mai farà quanto mincucip, ; dióchà mi sono buon argomento le opere sue che a’ detti non somigliano. -Dond’ è che io lo credo assai piò che noi sollecito di pacificarsi. Certamente noi abitiamo una patria onoratissima, e teniamo irt poter nostro le sostanze di lui, le case, i genitori, a tutte le cose pià preziose : ed egli si trova senza patria, senza magioni, senza i pegni suoi più, cari, e senta V abbondanza ancora del .^vivere quotidiano. Che se alcuno mi chieda perchè mai fra tanti patimenti egli nè accetti gl inviti nostri, nè mandi a noi per istanza niuna, rispondo s ciò essere manifestamente, perchè Digitized by Google 2G8 delle antichità’ romane fin (jid mn intese dal Senato che parole senza vederne poi le opere o di benevolenza o di moderazione ; e perchè crede di essere stato molte volte ingannato da noi che promettevamo di provvedere su lui, senza avervi mai provveduto. Non ci spedisce ambasciadori perchè son qui tanti che ce lo accusano, e perchè teme non ottenere ciò che dimanda : e forse così gli suggerisce un ambizione non bene considerata; nè già è meraviglia. Imperocché son pure tra noi non pochi, difficili, contenziosi, i quali colle brighe loro non vogliono che cedasi punto ai cóntrarf, e cercano per ogni via di sopraffarli senza mai condiscendere essi i primi, finché loro non sottomettasi chi vuole essere beneficato. Or ciò considerando io penso che debbansi spedire al popolo ambàsciadori, principalmente di stia confidenza : e consiglio che questi ambasciadori siano plenipotenziarj, perchè levino la sedizione coi patti che essi terranno per giusti, senza rimettersene al Senato. Questo popolo che ora vi pare sì spregiante e grave, questo darà loro utlienza, al vedere che voi cercate veramente la concordia, e ridurrassi a condizioni più mitij senza chiederne alcuna vituperosa, o non fattibile. Imperocché tutti, e specialmente i plebei, ne’ dissidj s' irf urtano con chi su loro insolentisce ; ma si ammansano con chi li blandisce. Cosi disse Menenio; e levossene in Senato gran romore, parlandovi ciascnno alia sua volta. I fautori del popolo esortaVansi a vicenda a dar tutta la mano perchè rlpatriasse, avendo per capo di questo consiglio il pii riguardevole de patrizj. Per Topposìto quegli ottimati die cercavano che nulla si alterasse de’ costumi della patria mal sapeàno ciò che avessero a fare, nò voleano condiscendere; nè poteano ostinarsi. Nondimeno uomini integerrimi né caldi per l' uno o 1’ altro partito voleano la pace, intenti a questo di non essere assediati tra le mura. Or qui fattosi da tutti silenzio il più anziano dei 'ìonsoli encomiò Menenio della sua generosità, stimo landò anche gli altri a somigliarlo nella cura della repubblica, a dir francamente ciocché ne sentissero, e compiere senza strepitò ciocché sen decidesse: indi nel modo stesso cercandolo dei suo parere, chiamò per nome Manio Valerio, nomo infra tutti gli ottimati carissimo ài popolo, e fratello all’uno di quelli che aveano liberato Roiòa dai tiranni. Costui levatosi in piede ricordò ai Padri i suoi provvedimenti, e come avendo egli presagito più volte i terribili casi avvenire, ne tennero pochissimo conto : poscia esortò li contrari discutere ornai su la moderazione, ma solo a vedere ( giacché non aveano permesso che si estirpasse quando era ancor piccola ) di racchetare ora, comunque, il pià presto, la sedizione, perchè, trascurata, non procedesse pià oltre, e non divenisse incurabile f o presso che incurabile, e sorgente di mali senta fine. Dichiarò che le dimande del popolo non sarebbero come per r avanti; e pronosticò che non si accorderebbe colle condizioni di prima insistendo per la sola remissione dei debiti, ma che vorrebbe forse un qualche difensore, onde tenersi illeso nell' avvenire : affermava che dopo introdotta la dittatHra era venutameno la le^e tutelare della Uhtrià la quale non per^ metteva a’ patrizj di uccidere alcun cittadino non giudicato, nè di cederlo giudicato reo nelle mani de’ lorocontradditori, e la quale concedeva a chi volea V appelto f di portare le cause al popolo da’ patrizj f tanto che quello si eseguisse che il popolo ne decidesse^ Poco mancarvi che non fosse statà tolta al popolo tutta la potenza esercitela già da esso ne' tempi ad dietro, quando non potè ottenere dal Senato per le imprese rmlitari il trionfo a Pubblio Servilio Prisco, uomo infra tutti degnissimo di quest’ onore. Pertantoben essere verisimile che il popolo cosi ojfeso sconfortisi nè abbia se non triste speranze della sua sicurezzaj Non il console, non il dittatore aver potuto soccorrerà il popolo, quantunque il volessero,; .anzi averne partecipale le incurie e V avvilimento, perchè studia vansi provvedere su lui. Essersi poi cospirati per im pedirli non uomini autorevolissimi fra li patrizj, ma uomini oltraggiosi, avari,. acerrimi ne’ rei guadagni,  quali, pe’ grandi prestiti a grandi usure, aveano ridotto schiavi ì pià de’ cittadini ; dicea che questi facendo loro leggi dure, orgogliose. aveano alienata tutta la plebe da patrizj ; e che datosi per capo Appio Claudio, odiatore della plebe, e propizio ai pochi y rimescolavano tulli gli affari di Roma. E se la parte savia del Senato non si contrapponesse, la repubblica pericolerebbe di essere schiava o distrutta. Da ultimo dichiarò ben fatto valersi del parer di Menenio, e chiese che si spedisse al popolo qiumto prima: procurassero i deputati quanto volessero la calma della sedizione : ma se il popolo non accettava le dimando loro, essi quelle accettassero del LIX. Sorse, invitato, dopo lai Appio Claudio, uomo contrario al popolo, e grande estimatore di sestesso, nè senza cagione. Perocché nel vivere suo quotidiano era moderato e santo, nobile nella scelta de' provvedimenti, e tale da conservare la dignità de’ patrizj. Costui pren dendo occasione dell’ aringa di Valerio, disse : Certamente sarebbe Valerio men riprensibile se palesava unicamente il suo parere, senza condannare quello de’ contrarj ; giacché non avrebbe nemmen egli ascoU tato i suoi vizj. Siccome però non fu pago di dar consigli onde renderci schiavi ai cittadini pili vili, ma sferzò pure i suoi contrarj, cimentando anche me ; così vedomi necessitato assai di rispondere, e di respingere primieramente le calunnie a me fatte. Son io rimproverato di una condotta nè' sociale, nè decorosa, quasi io cerchi per ogni via far danari, quasi spogli molti de’ poveri della libertà, e quasi da me sia derivata in gran parte la separazione del popolo. Ben vi è facile però di conoscere che niente di ciò è vero, niente probabile. Or su, dimmi, o Valerio, quali sono quelli che ho io ridotti servi pei debiti, quali i cittadini che ora tengo nella carcere ? (filale dei fuorusciti si è privato della patria per la durezza e per V avarizia mia ? Certo non potrai tu dirlo. .Anzi tanto è lungi che alcuno sia da me riilotto servo pe’ debiti che. io sparsi tra molti V aver mio, nè mi rendei schiavo, nè disonorai niuno di quei che mi hanno defraudato : ma tutù ne son Uberi, e tutti me ne ringraziano, e stansi nel numero degli anici e de clienti miei pià familiari. Nè ciò dico per incolpare chi non opera come me, nè per ingiuriare chi ha faUo cose concedute dalle leggi; nta solo per levas'e da me le calunnie. In ciò poi che mi accusa della durezza e del patrocinio mio sui scellerati, chiamandomi odUpopolo ed oligarca perchè favorisco il comando de’ pochi, in ciò son io da riprendere quanto voi che avete ricusato, come pià riguardevoU, di soggiacere ai men degni, e di lasciarvi togliere il comando dei vostri antenati da una democrazia, pessimo infra tutti i governi. Nè già perchè egli soprannomina oligarchia il comando de’ pochi dovrà questo disciogliersi per le beffe del nome. E pià giustamente e propriamente possiamo noi riprendere lui come un adulatore del popolo, ed un ambizioso di tiranneggiare. Perciocché niuno ignora che la tirannide nasce dalle adulazioni della plebe : e che la via speditissima a rendere le città schiave è quella che mena al comando col mezzo de’ cittadini peggiori. Or egli ha fin qui carezzato costoro, nè tuttavia cessa di carezzarli. Ben vedete che questi abietti, questi miseri, non avrebbero. mai ardito d’ insolentire in tal modo se non fossero stati eccitati' da questo sì riguardevole e bello amatore della patria, come se l’  tali trattare, Abhiam per ostaggi le loro mogli, i loro padri, e tutto il parentado, dei quali non potremmo ckiedtrne altri migliori dd\Numi, Questi, li collocheremo • nói, questi al cospetto dei loro congiunti, minacciando, se tentano assafirti, di ucciderli con estremi supplizj: ina, credetemi, dove ciò sappiano, voi li riceverete inermi', supffikhevoli, piangenti, pronti ad ogni pena. Terribili sono tali necessità, e frangono, ed annientano ogni baldanza.E questi sonod riflessi -^pd quali non dobbiamo la guerra temere degli esuli. Le mirtacce poi di altri popoli rum ora Ut prima volta si trovarono fnire in paroUf; ma 'per ^addietro ancora ci si scoprirono sempre rtùnori delt apparenza quante volte i popoli fecero di noi paragone. M quelli che tengono per insufficienti le intime nostre forze, e però temono appunto la guerra, quelli non bene le han calcolate. Ai citrini da noi separati, se il vogliamo, possiamo contrapporre scegliendoli e liberandoli, il ' fiore de’ servi. Certamente vai meglio donare a questi la libertà, che lasciarsi torre da quelli il comando : tanto più che stati essendo questi tante volte presenti ne’ nostri campi hanno sperienza che basta di guerra. Per combattere poi cogli esteri usciremo ' noi stessi pieni di ardore e meneremo con noi tutti i clienti, e tutto il resto del popolo : e perchè sia questo ' cspedito a cimenti, rilasceremp ciascuno privatamente, e non max per legge, ad esso i suoi debiti. Se dobbiamo in vista de’ tempi cedere in parte e temperarci; non dee mai farsi questo con cittadini che ci s' inimicano, ma cogli amici, perché sappiasi che noi concediamo grar zie, eomthossi e non violentali’, che se queste non bastino, se bisognino altre fòrze, f arem venirne dai presidii e dalle colonie: e quanta siala moltitudine loro, è facile raccoglierlo dalC ultimo censo. 1 .Romani atti (die arme son cento trenta mila, e di questi appena la settima tparte è fuggita ' da noi ( 1 ). Non commentoro qui le' trenta città de’ Latini, le quali come voitre alleate ^ combatteranno di bonissima voglia per voi, sol che decretiate di ammetterle alla vostra cittadinanza che > sempre .vi hanno domandata. Ora vi aggiungo' (.e finisco ) quello che rileva fra le arme assaissimo, e che voi non avete avvertito, o certo niun dice de’ Padri. Chi cerca il buon esito delle guerre, di niente ha tanto bisogno, quanto di egregi capitani. Or di questi la nostra città soprob[Questo ceuso non par quello fatto da T. Largio primo dituiorr, ma l’altro fissato da Sigouio oell’ anno sGu di Roma, ov dice eba furono numerati più che centodieci mila ciuaUini. benda, ma scarsissime ne sono quelle de' nemici. Lè grandi milizie se ricevano duci mal atti alle arme, si svergognano, e rovinano di per sestesse con danno tanto maggiore, quanto sono più numerose: ma i buoni condottieri presto rendono grandi anche picciole armate. Di qua seguita che fiiìchà avrem uomirU buoni al comando, mai avremo penuria di quelli che fac cianci comandare. Or ciò considerati^, e ricordando voi le imprese di Roma ; certo mai non porrete decreti meschini, vili, indegni. Che dunque, se alcuno tnel chiede, ( e già forse bramate da gran tempo saperlo ) che dunque io propongo che facciasi ? Io pro-> pongo che nè spediscansi ambaseiadori d fuorusciti ^ nè sen decida arti, finché raccolto il voto de’ senatori SI dedicassero ai voleri dei più. Se violato 1’ uno e r altro di questi cousigli, faceano di lor voglia la pace ; protestavano che noi permetterebbero, ma vi si opporrebbono di tutto lor animo, colle parole finché dovevasi, o colle arme in ultimo se bisognava. Era que> sto partito J1 più forte, aderendovi quasi tutta la gio ventù palriaia. In opposito piegavano al partito di Me-s uenio e di Valerio tutù quelli che aveano cara la pace, p cbe torneano soprattutto per 1’ età loro, considerando quanti siano .nelle città li mali delle guerre civili. Mossi però dai clamori e dai tumulto dei giovani, adombrati dall’ ambizione loro, e dall’ arroganza contro de’ consoli, e timorosi che indi a poco si venisse alle mani se nou cedevano; si volsero in ultimo a piangere, e supplii care, piangendo, i conirarj. Sopitosi coi tempo lo strepito, e tornato il silenzio, i consoli abboccatisi fra loro, cosi conchiusero. Noi vorremmQ primieramente o Padri Coscritti, che voi tutti foste unanimi d intelligenza e di volere in^ torno la salvezza del comune : se no, che i più gio^ vani almeno cedessero, non ripugnassero d seniori, considerando, che ancK essi giunti alT età di questi avran pari onori dai discendenti. Ora siccome vediamo voi caduti in una discordia, rovinosissima fra i mali umani, e sorgere qui mollo f arroganza de’ giovani ; e siccome poco ornai soprawanza del giorno, nè possono aver fine le discussioni ; ritiratevi dal SeruUo : tornerete in cUtra adunanza più placidi e con sentenze migliori. Che se qui persevera l’ amore delle contese, non più ci varremo de' giovani por giudici, né per consiglieri su ' quello che giova : ma precluderemo il disordine con una legge ; determinando la età che aver dee chi consiglia. Quanto a’ seniori se non si uniscono ne' sentimenti ; torneremo a dar loro la parola, e ne risolveremo le dispute per una via speditissima, la quale è meglio che voi udiate e conosciate precedentemente. Voi sapete che noi abbiamo fin dalla fondazione di Roma, che il Senato è t arbitro, è vero, di ogni cosa, ma non di crearei magistrati, rum di fare le leggi, rum di portare  o cesseue la guerra ; le quali tre cose il popolo le difinisce in "ultimo col suo voto. E siccome ora non consultiamo che su la guerra e la pace ; cosi debbe il popolo, liberissittur ne' suoi voti ratificare indispensabilmente i vostri decreti. Quando voi dunque avrete dichiarato i vostri pareri, ru>i scguerulo questa legge, inviteremo la moltitudine al Foro, perchè ne sentenza. Così le' contese avran fine ; mentre ciò che la pluralità dei voti destinavi, quello abhracceremo. Senza dubbio son degni di quest’ onore quelli che si tennero finora henaffetti alla patria, io dico i compartecipi de' nostri beni e de mali. Sciolsero, ciò detto, radunania. Fecera nei giorni appresso annunziare a tutti de’ villaggi e della campagna che si presentassero, e similmente al Senato che si riunisse nel di stabilito ; e qnaudo videro la città riempita di popola, e gli animi de’ patrizj mossi dalle preghiere fatte tra le lagrime, e tra’ lamenti de’ vecchi genitori, e de’ teneri '6gli de’ profughi, recaronsi nel tempo destinato sul finir della notte al Foro, angusto a tutta ia moltitudine. Venuti al tempio di Vulcano donde solcano aringar l' adunanza, lodarono primieramente Il popolo dello zelo e della prontezza nell accorrere in tanta frequenza: quindi lo esortarono che aspettasse in calma la risoluzione del Senato; animando intanto gli attenenti de' profughi a buone speranze, come quelli che riarrebbero tra non molto i loro pegni dolcissimi. Dopo ciò passando in Senato vi tennero benigni e modesti ragionamenti, ed invitarono ancor gli altri a proporre consigli vantaggiosi, ed umani. Chiamarono innanzi tutti Menenio, il quale alzatosi in piede rivenne ai suggerimenti di prima stimolando il Senato alla pace : e riproponendo che si deputassero ai segregati bentosto de’ personaggi, arbitri di concordare. Invitati poi secondo 1’ età sorsero a mano a mano gli uomini consolari: parve a tutti questi che fosse da seguire il parer di Menenio ; finché toccò ad Appio di favellare. Or questi sorgendo t'eggo, disse, o Padri Coscritti che piace ai consoli e poco meno che a tutti di rimpatriareil popolo colle condizioni eh’ ei vuole: che fra tutti i contrarj della pace or io rimangomi solo, esposto aie odio di quello, e niente utile a voi. Ala non per questo rimovomi dalle mie prime deliberazioni : nè ripudio da me stesso ciò che intendo su la repubblica. Quanto piò. restomi derelitto da quelli i quali come me ne sentivano ; tanto piò col volger degli anni ne sarò pregiato tra voi, sarò in vita coronato di gloria, e morto sarò benedetto dalla ricordanza de posteri. Sia pure o Giove Capitolino, o Dei presidenti della nostra città, o eroi e genj, e quanti in guardia avete il suolo Romano, sia pur Diomcj, urna IT. i a8a.  hello ed utile a tutti il ritorno de fuorusciti, e delusa resti la espettazione eh’ io ni' avea su 1’ avvenire. Ma se pe’ consigli presenti dee venire (e fia ciò palese tra non molto ) alcun disastro su Roma, deh ! rettyicateli voi prestamente, e fate la nostra salvezza. Deh ! siate benevoli e propizj a me che non avendo mai voluto dir le piacevoli per le utili cose, non tradirò nemmen’’ ora il comune per la mia sicurezza. Io così volgomi a pregare gV Iddj ; perchè non abbisognano più, parole. Ripeto la sentenza di prima : assolvasi IL POPOLO RIMASTO IN CITTa’ DAI DEBITI ; MA COMBATTANSI CON TUTTO L ARDORE I FUORUSCITI TINCBÈ STARANNO SU LE ARMI. E ciò detto Gnl. Poiché le sentenze de’ seniori concordaronsi con quella di Menenio, e poiché venne il discorso ai giovani ; standosi tutti in espettazione, sorse Spurio Nauzio, un rampollo della prosapia nobiliasima originata da quel Mauzio compagno di Enea nel guidar la colonia, e sacerdote di Minerva m'bana, il quale nel trasmigrare aveane portato seco il divin simulacro, dato poi successivamente in custodia a’ suoi discendenti. Ora Nauzio che parea per le sue belle doti più nobile ancora di tutti i giovani, nè lontano mollo dall’ ottenere la dignità consolare, cominciò la difesa comune di questi : diceva che quando nel Senato  Anche Virginio fa meniioue di questo Nauxio, che egli chiama Pfautt, nel libro 5. Tum senior PfaMes, unum Triionia Paìlas, Quaeitt docuit, muUaqus insignem reddidit arte, Haec responsa datai precedente avetmo pronunziato in contrco'io de' padri non fu già per amore di contendere o insuperbire con essi, ma solo mancando, se aveano pur mancato, per inesperienza di anni : e qui soggiunse che farebbero fede di ciò col variar sentimento : che lasciavano a loro come più savj decidere co’ voti il ben del comune : essi non contrarierebbono, ma secon' darebbero i seniori. E dichiarando Io stesso ancor gli alni giovani, toltine pochi, legati di parentado con Appio ; i consoli ne lodarono la verecondia ; ed esorta tili ad essere sempre tali ne' maneggi ' pubblici, elessero tra’ seniori piÀ cospicui dieci deputati, uomini consolari tutti, fuori che uno. Furono gli eletti, Manio Valerio, Tito Largio, Agrippa Menenio figlinolo di Gajo, Publio Servilio figliq di Publio, Postutnio Tuberto figlio di Quinto, Tito.Ebuzio Flavio figlio di Tito, Servio Sul picio Camerino figliuolo di Publio, Aulo Postumio Albo  prima alle tose loro quei che le aveano lasciate. Presi tali ordini, partirono i deputati nel giorno (1^ Nel testo si omeltoDO Maoio Valerio, Tito Largio, e si nolano altre maacaaxe in questo luogo. Noi alitiamo seguita la lesione di Porlo medesimo. Precedè la fama il giunger loro, divulgando nel campo tutte le cose fatte in città : dond’ è che lasciando tutti le fortificazioni uscirono immantinente incontro a’ deputati che erano in via. Aveaci nel campo un uomo turbolento affatto \ e sedizioso, acuto a preveder da lontano ciocché avverrebbe, nè insufficiente, come parlator lusinghiero, a dirne quanto ne pensava. Chiamavasi questi Lucio Giunio col nome appunto di lui che tolse i tiranni : e voglioso di assumerne il nome per intero, facessi intitolare Bruto ancora. Rideano i più su la cura vana di esso^ e Bruto il chiamavano quando pungere lo volevano. Or questi mise in cuore a Sicinio, duce dell’ esercito, che il bene del popolo non istava nel rendersi troppo facilmente, sicché men degno ne fosse il ritorno per le umili condizioni ; ma nel resistere lungamente, simulando come in tvia tragedia. E profferendosi egli a Sicinio di parlare in favore del popolo, e suggerendogli altre cose che erano da fare o dire, lo persuase. Dopo ciò Sicinio, convocato il popolo, impose a’ legati che dicessero le cagioni per le quali venivano.Recatosi in mezzo Manio Valerio come il più provetto e popolare, e contestatagli dalla moltitudine la sua benevolenza con grida e saluti amichevoli, alfine, fatto silenzio, disse: Niente, o popolo proibisce che vi riconduciate alle vostre case, niente che vi pacifichiate co’ Patrizi. Il Settato ha per voi decretato' un ritorno utile e decoroso j e di non pià ricordare o vendicare il fatto finora. E noi che vedeva propensissimi per voi, come da voi rispettati, ha qui deputato con poteri assoluti di concordare : affinchc noi non opinando nè congetturando su vostri desiderj, ma udendo da voi stessi con quali condizioni chiedete riconciliarvici, ve le accordassimo se moderate, se non impossibili, nè impedite da indecenza insanabile, sene’ aspettare il voto de’ Padri, e senza intristire V affare colle dilazioni, e colla invidia dei contrari. Avendo il complesso de’ Padri così per voi decretato ; ricevetene il dono lieti, pronti, e benevoli s pregiandone degnamente una sorte sì bella, e ringraziando vivamente gV Iddj che Roma, la dominatrice di tanti popoli, che il Senato, regolatore di tutto il bene che è in essa, mentre V usanza della patria non permette che cedasi ad alcuno, cedano alle istanze vostre solamente, nè pretendano come i più. grandi su’ men grandi discutere minutamente quanto conviene ad ambedue, ma primi essi vi spediscano per. la pace : che non piglìasser con ira le risposte imperiose da voi fatte ai primi ambasciadori, ma pazientassero alt orgoglio e fierezza di una ostinazione giovanile, come il buon padre sul figlio non savio : che volessero indirizzarvi una seconda ambasceria, diminuire i loro diritti', e rimettervisi dove la moderazione il consente. Giunti a tanta felicità non esitate a dime ciocché bisognavi, e non esorbitate o cittadini : lasciate le sedizioni : tornatevi giubilando alla terra che vi ha generati e nudriti :  Allude ai scDatorì che arrebbono perorato in contrario nei Senato. Già non le deste voi li trofei e le ricompense pià belle, riducendola quanto è da voi solitaria, o come un campo da pascolarvi. Se trascurate questa occasione, forse ne richiamerete pià volte la somigliante. Taciotosi Valerio fècest innanzi Sicinio, e I disse, che chi ben consulta non riguarda V utile da una banda sola, ma lo contempla nel suo rovescio ancora, principalmente in affare di tanta importanza. Pertanto comandò che chi volea rispondesse a ciò, deponendo ogni verecondia e timore. Non permettere la natura delle cose che essi benché ridotti a tante angustie cedessero per paura o per vergogna : E qui, fatto silenzio, e gli uni riguardando su gli altri, e cercando chi perorasse pel comune; ninno si presentò. Ma replicando Sia aio altre volte l’ istanza venne alfine in mezzo secondo gii accordi quel Ludo Ginnio desideroso di essere cognominato Bruto : ed avuto a far dò grandi significazioni dalla moltitudine, tenne questo ragionamento : Il timore che avevate de’ Patrizj o compagni è scolpito ancora per quanto vedo, e triorfa negli animi vostri. Abbattuti da questo timore esitate far qui, udendovi tutti, i discorsi che usavate tra voi. Forse ciascuno confida che il vicino suo aringherà sul comune, e che piuttosto incorrerà tra’ perìcoli ogni altro e non egli : ami che egli tenendosi in salvo, goderà senza perìcoli parte del bene che possa mai nascere dall ardire degli altri : ma stolto è questo concetto. Imperocché se tutti aspettiamo la stessa cosa, la codardia di ciascuno sarà nocevole a tutti; c dove ognuno figurasi la sua sicurezza; ivi insieme con tutti rovinerà la comune. Ma se non avete appreso finora che per le arme ci togliemmo la paura, e per le arme avete consolidata la vostra libertà ; conoscetelo ora almeno, ed i Patrizj, essi stessi ve 10 insegnino. Questi orgogliosi, questi durissimi uo~ mini, non vengono come prima comandando e minacciando, ma supplicandoci, ed esortandoci a tornare alle nostre case : e già cominciano a trattarci come liberi veramente. Che dunque or più vi anneghittite e tacetq ? Che non la Jote da liberi uomini ? c se avete già scosso il freno : che non dite qui ora pubblicamente ciocchò avete sopportato da loro ? O miseri ! e quali patimenti temete ? se io stesso v invito a parlar francamente ? Io dunque, io stesso mi rischierò di dire liberamente per voi ciocché è ffusto, senza niente occultare. E poiché Valerio dice che niente proibisce che vi rendiale alle case vostre concedendovisi dal Senato il ritorno, ed essendosi decretato di non perseguitarvi ; io risponderò a lui cose nemmeno vere che necessarie a dire. Oltre i motivi ben grandi e varj, tre ne sono o Valerio fortissimi e chiarissimi che c impediscono di rimetterci a voi deponendo le armi. Il primo è che venite a noi per esortarci come traviati; e Radicate beneficenza vostra accordarci il ritorno : 11 secondo è che invitando noi a pacificarvici, niente dichiarate le condizioni compiacevoli o giuste su le quali possiamo ciò fare : è poi ! ultimo che niente di quanto ci promettete sarà per essere stabile, giacchè avete continuato a rigirarci e deluderci tante volte. Discorrerò di ciascuna di queste cose, incominciando dai diritti ; giacché sempre dai diritti si vuol cominciare sia che trattinsi le cose private, sia che le pubbliche. Noi dunque se ve ne abbiamo mai fatte, noi non chiediamo nè impunità nè dimenticanza delle ingiurie. E non yorremo piò. rio starci a parte della vostra città, ma dandoci in balia della sorte e dei genj che ci guidino, ci fermeremo là dove .porta il destino. Ma se per colpa vostra noi siamo ridotti alla condizione in cui ci troviamo ; e percpè non confessate che voi li quali foste gli oltraggiatori, voi abbisognate anzi di perdono e di dimenticanza ? Come dite di accordarci voi questa ; quando avreste a dimandarcela ? Come così vi magnificate quasi voi calmiate lo sdegno verso di noi, quando dovreste cercare che noi verso di voi lo placassimo ? Cosi confondete la natura della verità, così la dignità dei diritti pervertite ! Che poi non siate voi gli offesi ma offensori; che voi beneficati tante volte e tanto dal popolo per fondare la libertà e V impero, lo abbiate non bene contraccambiato ; uditelo, e convincetevene. Io non parlerò se non di cose che voi sapete, e se alcuna mai sarà falsa ; reclamate per gli Dei ve ne prego, non che stiate a bada pazientando. Il nostro governo primitivo fu monarchico, e lo abbiamo conservato per sette generazioni. In tutti que’ principati il popolo non fu mai conculcato dai re, specialmente dagli ultimi. Anzi lascio di dire che derivò da quel dominio molti e segnalati vantaggi;. a8g impemcchè per obbligarlo a sestessi e console porgeva al popolo, noi non più memori verso di voi dei mali antichi, noi pieni di lusinghiere speranze per f avvenire, ci dedicammo tutti a voi stessi; e dissipate in poco tempo tutte le guerre, tornammo con seguito folto di schiavi e di prede bellissime. E voi, ne avete voi dato ricompense giuste, o degne de’ pericoli ? ma quando mai ? troppo lungi ne siamo. Anzi ne avete tradito le promesse che imponevate al console di farci a nome del comune. E quest’ uomo bonissimo, del quale abusavate per deluderci, lo avete. questo privato del trionfo, quando degnissimo ne era più che tutti i mortali. Nò già per altra cagione così ancor lo spregiaste, se \ non perchè vi dimandava che adempiste le promesse, e perchè sdegnato mostravasi che ci beffaste. Ultimamente ( vi aggiungo questo solo intorno al diritto, e finisco ) quando gli Equi, i 5abini, i Volsci insorsero di comun voto, e concitarono ancor gli altri, non foste ridotti, voi venerabili e gravi, a ricorrere a noi negletti e vili, colmandoci di promesse per iscamparvela ? e non volendo parer d’ ingannarci come altre volte, trovaste per coprir la impostura questo Mania Falerio, uomo amantissimo della plebe. E noi credendogli come a uomo dal quale non saremnw traditi perchè dittatore, ed amicissimo nostro f ci consociammo novamente a voi per questa guerra, e vincemmo i nemici con ‘ battaglie non poche, nè pieciole, nè ignobili Ridotta la guerra a bellissimo fine prima ancora delle sperante comuni, tanto foste alieni da renderne grazie, e ben copiose al popolo, else cercavate ritenerlo anche senza voglia, sotto le insegne e fra V armi, per trasandar le promesse, come trasandarle destinavate fin dal principio. E non tollerando il valentuomo la beffa, nè la infamia delV opera, e riportando in città le bandiere, e rilasciando tistti per le proprie case ; voi, presone motivo onde non far la giustizia, ingiuriaste lui, nè serbaste a noi veruna delle convenzioni con tre abusi gravissimi, perchè profanaste la maestà del Senato, annientaste il credito di un tal uomo, e rendeste inutile cC vostri benefattori il merito delle fatiche. Omj potendo noi dir queste e simili cose non poche, non abbiamo o Patrizj voluto piegarci (die umiliazioni ed alle preghiere, nè accettare come i rei di gravissime colpe, il ritorno su la obblivion del passato. Sebbene, essendoci noi qui riuniti per concordare ; non dobbiamo ora investigare pià sottilmente queste cose, ma vociamo trascurarle e dimenticarle, • e tenercele. Che non dite voi dunque palesemente a qual fine siete qui deputati, e qual cosa venite per chiederne ? Su quali speranze volete in città ricondurci ? Qual sorte abbiamo a prendere per guida del nostro ritorno ? Qual giubilo, quale benevolenza ci aspetta ? Fin qui non abbiamo punto ascoltate esibizioni umane e benefiche, non onori, non magistrature, non sollevamento dalla indigenza, nè altre cose qualunque, sebbcn tenuissime. Quantunque non dovea già dùcisi ciocché siete per fare, ma ciò che fate, perchè sperimentandovi subito benevoli nelle opere vostre, vi argomentiamo ancor tali per l’ avvenire. Ma io penso che voi risponderete a ciò, che voi siete qui plenipotenziari, e che qualunque^ cosa ci persuaderemo a vicenda, sarà stabilita. Or_ sia ciò vero; e ne sieguano conformi gli effetti ; niente vi contraddico. Bramo però sapere le cose che da loro ci si faranno dopo queste. Vale a dùe, quemdo avremo noi detto su quali condizioni vogliamo il ritorno ; e quando ci saran concedute ; chi ci sarà di esse mallevadore ? Su quale sicurezza deporremo le armi, e metteremo le nostre persone di bel nuovo nelle lor mtmi ? Su quella forse dei decreti che si faran dal Senato, non essendovene ancora ? Ma qual cosa mai impedirà che annullino questi con altri decreti, quando così paja ad Appio e ad altri che pensan com’ egli ? Con^ teremo forse su la dignità dei deputati che ne porgono in pegno la fede loro ? Ma prima ancora ci han deluso colla interposizione di tali uomini. Riposeremo forse ne trattati fatti innanzi agV Iddj, e confermati da loro co' giuraménti? Ma io temo di ogni fede umana consimile, vedendola da quei che comandano vilipesa. E so, nè già ora per la prima volta, che i trattati forzosi tra chi brama esser libero e chi vuol dominare han vigore soltanto finché la necessità così porta. Or quale è queir amicizia e quella fede nella quale siamo costretti ad ossequiarci contro voglia, insidiando t uno il tempo dell' altro ? Allora incessanti i sospetti e le calunnie; allora le invidie e gli od] ed ogni maniera di mali: allora la gara di preoccuparsi a distruggere V emolo ; riuscendo ogn indugio a mal termine. Non vi è, come tutti sanno, guerra più. trista della civile : questa i vinti fa miseri, ed ingiusti li vincitori : e li 'vinti han dagli amici i lor mali, i vincitori agli amici li causano. Or voi dunque o Patrizi vogliate chiamar noi a pari circostanze, a pari bisogno non desiderabile ; e noi o plebei non ci rendiamo loro mai più: ma come la sorte ci ha divisi, così teniamoci in calma. Abbian pur essi tutta Roma, senza noi se la godano, e ne raccolgano soli ogni bene, essi che han ridotto fuor della patria noi miseri, noi disonorati plebei. E noi andiamocene pure dove gt Iddj ei guidano, considerando che non la nostra ma t altrui città lasciamo. Niuno di noi qui lascia non campagne proprie, non abitazioni paterne, non sacerdozi, non ‘ magistrature comuni come in sua patria per t esercizio delle quali siavi ritenuto pur contro voglia ; anzi nemmeno lasciammo qui per noi la libertà, quella che ci avevamo colle arme e con tanti travagli acquistata. Imperocché parte i nemici, parte la miseria quotidiana, parte V alterigia degli usurieri ci han guasto e consunto e tolto ogni cosa : tanto che noimiseri eravamo ridotti a coltivare le terre di questi zappando, piantando, arando, pasturando, divenuti conservi degli schiavi loro da noi presi colle arme; e chi di noi portavamo catene alle mani, chi ne piedi, chi nella cervice finalmente, come fere intrattabili. E qui non ricordo le ferite, gli avvilimenti, le battiture, le fatiche da notte a notte , ed ogni altra sevizia, e non le ingiurie, e non C orgoglio che ne abbiam sostenuto. Liberati, la Dio mercè, da tanti e sì gran nudi, fuggiamo ben contenti quanto possiamo e sappiamo, e prendiamo per. duci della fuga la sorte e gl’ Jddj li quali veglian per noi, considerando come patria nostra la libertà, e la virtù còme nostrà ricchezza. Ogni popolo nè, ammetterà, sì perchè non molesti, come perchè utili a chi ne riceve. E ci siano in ciò' di esenqtio molti Greci,  Dal tempo prima dell’alba fiuo a aera.  e molti barbari, e principalmente gli antenati tii quelli e di noi. Gli antenati nostri passando con Enea dal£ Asia nelC Europa fondaronsi nel Lazio una patria : e poi spiccandosi da Alba sotto gli au spicj di Romolo che guidava la colonia, pigliarono sede ne' luoghi appunto abbandonati da noi. Abbiamo noi forze non già poco maggiori che essi, ma triplicate, e celione molto più giusta di trasmigrare. Quelli partivan da Ilio perseguitati da nemici, e noi di quà dagli amici : e ben è più misera cosa essere espulsi dai domestici, che dagli estranei. Quei che a Romolo si ligaroho per compagni trascurarono la patria per cercare terre migliori : ma noi lasciamo un vivere senza città, un vivere senza case paterne quando rechiamo la colonia : e certo la rechiamo non odiosa agl Idàj, non molesta agli uomini, nè gravosa a terra niuna ; non rei' del sangue e della strage de’ cittadini che ci han discacciati, non rei del ferro o del fuoco messo ai campi che abbandoniamo, nè di altro monumento qualunque fondatovi di eterna inimicizia; come spinti da necessità sconsigliata rei se ne fanno i popoli traditi nett aUeanza. Noi chiamati in testimonio i genj e gl' Iddj che guidano con giustizia le cose mortali, e lasciandQ'che essi prendano per noi la vendetta, abbiamo chiesto unicamente di riavere i nostri teneri figli, i (secchi Padri, che in città si rimasero, e le mogli in fine, se alcune pur vogliono dividere con noi la nostra sorte. Contenti di ricevere questo, non altro dimandiamo da Roma, E voi tanto impolitici f tanto insocievoli verso de' miseri, vivete felici, e come più desiderate. Appeaa Bruto ebbe ciò '' detto si tacque. Parve agli astanti tutto vero quanto disse intorno ai diritti, e quanto per accusare la superbia de’ senatori, principalmente quando dichiarò che la semplicità dei patti era tutta piena d’ intrico e d’inganni: ma quando infine delineò gli alTronti che aveaoo patito dagli usucierì, e ciascuno ricordò li suoi mali ; niup v ebbe sì fermo di animo, che non si desse a piangere, e lamentare i danni comuni. Nè impietosirono già sol essi, ma fino gl’ inviati dal Senato. Non poteano que’ seniori contenere le lagrime, pensando la calamità per la separazione de' citudini : e rimasero gran tempo tra 1’ afflizione, e tra ’l pianto senza sapere ornai che più dire. Cessali gli alti gemiti, e tornato il silenzio nell’ adunanza, procecedelte per farvi le difese Tito Largio autorevole sopra tutti i citudini per anni, e per dignità, come lui che due volte console, e già rivestito della ditutura, avea con esercitarla bene più che gli altri, renduu venerabile, e sanu una carica altronde odiata. £ datgsi a parlare sopra i diritti, e ulvolta incolpando gli usuraj perchè aveano operate cose durg, e disumàne ; talalira rimproverando i poveri come non giusti nel' chiedere che si rimettessero ad essi i debiti per forza anzi che per grazia, e nell’ esacerbarsi col Senato piuttosto che con quelli che impedivano che si'ccmcedesse loro alcuna cosa anche moderaU; e dippiù tentando mostrare cl^e picciola era la parte del. popolo, .ingiuriosa suo mal grado, e necessiuta a dimandate per la igopia gravissima la condonaeione dei debiti, ma più grande assai la parte la quale esigeva ciò perche viveasi scorretta, insolente, voluttuosa, e preparata a supplire co’ furti alle sue passioni, talché ' doveansi ben distinguere i poveri dai ribaldi, quelli che erano da compatire da quelli che erano da odiare ; ed aggiungendo in (ine discorsi consimili, veri si ma non grati generalmente; non soddisfece tutta la udienza. Dond’ è che sorsene strepito grande di voce, altri sdegnandosi. quasi rincrudisse loro gli affanni, ed altri confessando che dicea pur troppo il vero. Ma perciocché gli ultimi erano assai minori di numero, scomparivano tra la moltitudine degli altri, e prevaleano soprattutto i clamori degli adirati. À queste cose ne aggiugnea Largio poche altre su la partenza e precipitanza loro, quando ripigliando la parola Sicinio il capo del popolo ne riaccese assai più lo sdegno con dire : che ben poleano da un tal parlare, comprendere quali onori e quali ringraziamenti ne avrebbero, se tornassero nella patria. Se quelli che slansi nel colmo de’ pericoli, ed abbisognano del braccio del popolo, e per questo a lui vengono, non san trovare nemmen ora discorsi moderati ed umani; qual animo dee credersi che avranno quando siano .le cose riuscite loro secondo il disegno, e quando chi offendono ora colle parole, sia sottomesso loto ancora nelle opere ? Da quali insolenze mai si conterranno ? da qual; flagelli, o da quali tiranniche sevizie ? Se a voi dà il cuore, ei dicea, di servire tutta la vita incatenati, battuti, straziati col ferro, col fuoco, colla fame, con ogni guisa di maU;  su, non perdete tempo, gettate le armi, seguitateli. Ma se V è pure in voi desiderio di libertà ; non pazientate ornai più. Ambasciadori ! o dite su quali cortidizioni ci richiamate ; o partite daW adunanza ; perchè non lasceremo più che vi parliate. E qui tacendosi lui, tutti gli astanti ne strepitarono, acclamandolo, perchè area detto a proposito. Restituitasi quindi la calma Menenio 'Agrippa il quale areva interloquito in Senato sul popolo, e proposto e fatto principalmente che gli s’ inviasse un’ ambasceria plenipotenziaria, fe’ cenno di volere aneli’ egli discorrere. Riuscì la richiesta gratissima ; e parea come r augurio che udirebbe nsi allora Analmente condizioni giuste, e salutevoli ad ambe le parti. E subito esclamarono tutti a gran voce, che parlasse. Poi si chetarono, e si profondamente, quasi fessevi solitudine. Parve uu tal uomo, com’ era verisimile, assai persuasivo nei suoi discorsi, e tutto confacevole ai voleri della udienza: è' fama però che in ultimo proponesse una tal favola sul gusto delle Esopiane espressivissima delle circostanze, e che con questa principalmente li guadagnasse. Dond’ è che la favola fu creduta degna di ricordanza, e rapportasi io tutte le storie antiche. L’, aringa di lui fu questa : Popolo, noi veniamo dal Senato a voi, non per difendere lui, nè per accusarne voi: nè già pormi che il tempo ciò chieda, nè che ciò sia prosperevole per la sorte della .repubbUca. Ma noi veniamo con tutto f ardore e V efficacia per 'levar le discordie, e rimettere la > repubblica nel 'buon ordine primitivo^ rivestiti per ciò fare di^ un potere assoluto. Pertanto non pensiamo che,sian ora da esaminare i diritti > come fece con orazione lunghissima questo Giunio ; pensiamo piuttosto che debbansi con gli amorevoli modi ricongiunger gli spiriti. Qual fede sia poi per garantire le nostre convenzioni, ve lo esporremo, appunto come ne cibiamo deliberato. Considerando noi else le sedizioni si curario in ogni città col to gliere i semi delle discordie, abbiamo giudicato ne cessarlo di conoscere e spegnere le cause produttrici della divisione. Or trovando noi che le esazioni dure de’ presuli sono la origine de’ mali presenti ; così le correggiamo. Decretiamo che quanti soggiacciono a debiti, nè possono estinguerli, ne siano del tutto assoluti. Decretiamo Uberi tutti, quanti son detenuti per aver differite le paghe oltre i tempi legittimi, e decretiamo liberi infine quanti furono in mano consegnati dei creditori per sentenze speciali di giudici^ annullando noi queste totalmente. Cosi ripariamo ai contralti precedenti tenuti come causa della sedizione: ma quanto a centratti avvenire facciasi come ne ordinerà la legge che sarà costituita da voi, da tutto il popolo, dal Senato. Dite, non erano queste le cose che vi alienas>ano da’ Patrizf ? Non giudicavate voi che sareste conienti, e che altro di più non bramereste, se le impetravate Oggi vi si concedono ; andate, tornatevi' gittiilando alla patria. I riti poiche convalideranno ed assicureranno questi trattati saran quelli appunto delle leggi, usati nel depórsi delle inimicizie. Il Senato approverà pur egli questi trattati ^ e darà loro forza di Digilized by Google 3o2 delle Antichità’ romane leggi quando scritti gli avremo. Anzi schiviamoli qui noi come ne piace ; ed il Senato vi sarà sottomesso. E che questi si rimarranno indelebili ; che il Senato non potrà mai sopraggiungervi nulla in contrario, noi qui deputati, noi li primi ne facciam garanzia sul corpo, e vita, e stirpe nostra, e con noi pure ve ne fan garanzìa li senatori che firmeranno il decreto. Imperocché mai, ripugnandovi noi si decreterà cosa niuna contro del popolo ; giacché noi -siamo li primi del Senato, e noi li primi a dichiarare i nostri pareri’. ven farà da ultimo garanzia la fede comune atutti i Greci, e a tutti i Barbari, quella che niun tempo mai potrà cancellare, quella che con giuramenti, e libagióni rende i Numi vindici degli accordi, e su la quale chetaronsi tante, e non picciole nimicizie de’ privati, e tante guerre di repubblica con repubblica. Or questa fede ricevetela ancora voi ; sia che vogliate permettere a noi, pochi si, ma capi del Senato, di giurarvi a nome di questo,^sia che vogliate che tutti i Padri sottoscrivano e giurino con rito santo di serbarvene i patti inviolati. E tu, o Bruto, non incolpare il pegno delle destre, non le libagioni, non la fede data invocandone i Numi, né togliere tali espedienti bellissinii degli uomini: e voi non vogliate tollerare che costui ricordi le promesse tradite dai scellerati e dai tiranni, da quali tanto è lontana la virtà de’ Romani. Or lasciate, che io soggiunga (e terminò) una cosa non ignorata i fiè controversa da rtiun dei/ mortali. Ma quale è mai questa? Essa importa >'t utit colmine,. e saU/a le parti f una colt altra : essa è r unica e sola che ci raccolse già tutti in un corpo, e che mai farà separarci. Abbisogna, nè mai cesserà di abbisognare la moltitudine imperita di sas>j che la dirigano ; come un complesso di savj idonei a dirigere abbisogna di chi lascisi governare. Nè ciò per immaginazioni sappiamo, ma per esperienza. Che dunque ci riduciàmo a tremare brigandoci gli uni con gli altri ; o che ci logoriamo in triste ^parole ; essendoci facilissimo tornare alt utile nostro ? Che dunque non ci espandiamo, ed abbracciamo, e voliamo (dia patria, aUe antiche delizie, agli oggetti di tanti dolcissimi e soavissimi nostri desiderj ? A che cercare impossibili assicw'ozioni? A che fidanze malfide^ come in guerra nemici fierissimi che in tutto sospettano il peggio ? A noi, o plebei, a noi membri del Senato, basta la sola vostra parola, clte non sarete se tornate iniqui con noi: e perchè ? perchè sappiamo il vostro buon allevamento, la istituzione legittima, e le altre virtù che avete in guerra ed in pace dimostrate. E se i contratti oggi ottengono a nome del comune una riforma, così dimandando la fedeltà, così la speranza, degli uni verso degli altri ; teniam certo ancora che siano per corrispondere in voi le altre buone doti : e niente da voi cerchi (uno ^i giuramenti, niente gli ostaggi, nè altro pegno qualunque di sicurezza ; nè però mai contrarieremo le vostre dimande. Ma ciò basti su la fedeltà intorno • la quale Bruto c incolpava. Che se in voi resta aricora alcuna, invidia non degna, che vi àccita a pensar' pravanten^s del Senato •, io dùò pur. di questa : e voi attenti, in calma, ascoltatemi o plebei. 1 ' Somiglia ad un corpo umano una repubblica : perciocché l uno e t cdtra risultano da più parti ; nè ciascuna delle parti in essi ha forze eguali, né porge un uso medesimo. Adunque se le membra del corpo umano ricevessero tutte, come il senso, la voce, e poi nascesse discordia fra loro congiurandosi tutte le altre ad una ad una contro del ventre, e, li piè si dolessero che il corpo intero poggiasu loro, le mani che solo esse traltan le arti, procacciano il necessario, combattono co’ nemici, e pongono molti t^ri beni in comune-, gli omeri perchè p'orVan essi ogni peso, la bocca perchè parla, la testa percitè vede, perchè ode, e perchè comprende tutti i sensi onde il complesso vive del corpo ; e se quindi dicessero, or tu buon ventre fai tu niuna di queste cose ? quale riconoscenza, qual utile tu ci rendi? Anzi tanto sei lontano dal cooperare e dal compiere con nei alcun utile comune ; che ne impedisci e conturbi, e quel che è più intollerabile, ci necessiti a servirti, e portarti di ogn intorno quanto ti sazj negli appetiti tuoi. Orsù; chè non ci rendiamo noi liberi, nè cessiamo dalle cure che .in grazia di lui sosteniamo ? Se così piacesse loro, se nhtna parte più fornisse le proprie funzioni-, or potrebbe il corpo a lungo 'sussisterne ? Anzi in pochi dì consumerebbesi dsdla fame, pessimo fra tutti i mali ; e niuno può dirne il contrario. Or concepite pure altrettanto di una repubblica. Compiono questa molti generi di persone niente, infra li>r,sornigUanti'; e ciaicùno le porge un uso proprio di lui t come le nsembra lo porgono al corpo. Chi coltiva i campi f chi pe' campi combatte co' nemici : chi ne reca assai beni tr^Jicando pe' mari ; e chi travaglia in su le arti necessarie. Se ciascun genere di queste personeinsorga contro il Senato, che è l’ ordine degli ottimali, e dica ; qual cosa, o Senato, tu ci fai di bene ? e per qual causa, non avendone tu alcuna; vuoi, comandare sugii altri? Non ci terremo una volta da questa tirànnide tua ? nè vivremo indipendenti ? Se con tali pensieri si levasse ognuno dalle usate incombente ; cosa impedirà che una tale sconcia repubblica miseramenteperisca per la fame, per la guerra, per ogni male ? Istruiti dunque, o voi del popolo, che come ne' corpi nosU'i il ventre accusata a torto da molti, nudrito nudrisce, conservato conserva ; e quasi uim dispensa universale, porge ad ogmino il' suo bene, e la sussistenza in un tutto ; così nelle repubbliche il Senato che matteria il comune e provvede a ciascuno V utile suo, tutto salva e custodisce e dUrige ; cessate di lanciar contro lui voci ccUunniose, quasi per lui siate fuori della patria, e ne andiate raminghi e mendici. Il Senato non volle mai questo, nè farawelo : anzi vi chiama, evi supplica, e vi stende le mani, e vi spalanca le porte, e raccoglievi. Intanto che Menpnìo concionava, sorgeano ad ora ad ora voci varie e molte da^i astanti. Ma pai> chè sul fine del suo ragionatiteoto si diede a comma veri!, e 'deplorare le disgrazie e la sorte immiucnle su DlOUtai, lomo II. a di ambedue, su quelli rimasi in città e su gli altri che ne erano usciti ; si misero tutti a piangere, ed unanimi ad una voce gridarono che li riconducesse alla patria, né più s’ indugiasse. E poco mancò che partissero tutti a furia dall’ adunanza ; rimettendo ogni cosa ai deputati senea brigarsi più oltre della sicurezza. Se non che Bruto facendosi innanzi ritardò l’ impeto loro, dicendo : che erano pur buone per quei del popolo le promesse del Senato, e chiedendo che grazie appieno gli si rendessero per le cose a loro concedute. Aggiungeva ancora di temere per l’ avvenire che uomini una volta oppressivi, si dessero, venutone il tempo, a ricordare, e punire le cose operate dal popolo. Jtimanervi una sicurezza sola per quelli che temono questo dagli Ottimati, cioè quella di rendere indubitato che, se vogliono, non posson piii offenderli. Finché sta in essi il poter danneggiare, non mancheran de malvagi che il vogliano. Pertanto se il popolo ottenga tal sicurezza ^ -non altro resteragli da chiedere. Ripigliando Menenio, ed invitandolo a dire qual sicurezza pensava che al popolo bisognasse, concedeteci, disse, che noi ci scegliamo ogni anno dall' ordine nostro alcuni magistrati i quali non siano ad altro autorizzati che a proteggere gli oltraggiati, e gli oppressi nel popolo, nè lascino che alcimo sia defraudato de' suoi diritti. Alle^ cose accordateci aggiungete in grazia ancor questa, ve ne preghiamo, ve ne supplichiamo, se la pace esser dee non in parole, ma in fatti.. 11 popolo udendo un tal dire lo accompagnò con grandi e lunghe acclamazioni, raccomaiidau dosi ai deputati che gli concedessero anche questo. I deputati ritirandosi daU’adunanza, e conferendo alquanto in fra loro, vi ritornarono dopo jion molto. Taciutisi tutti, Menenio fattosi iunanzi disse : La dimanda è grande e piena o plebei di enormi sospetti. A noi viene timore ed ansietà che non abbinasi a fare due città di una sola. Quanto è da noi, nemmeno in ciò vi ci opporremo, or voi compiaceteci (tende anche (Questo al ben vostro ) date a tre deputati che tornino in Aonuif e narrino al. Senato la richiesta. Non ci arr roghiamo noi di risolverne > quantunque abbiamo da esso U potere di concordare come ne piace, arbitri in tutto di prafnettere.. Siccome il caso che ci occorre è inaspettato e nuovo ; così ce ne riportiamo ai Padri, quasi in esso V autorità ci si limiti. Ci persuadiamo, pelò ‘ che essi ne sentiran come noi. Frattanto io qui resto >, e con me parte dei deputati. Valerio e gli altri onderanno. Stabilito ciò gl’ incaricati d’ informare il Senato spronarono i cavalli alia volta di Roma. Proponendo i consoli in Senato la richiesta; Valerio opinò che si concedesse. Appio, nimico Gn da principio di ogni, accordo, contraddisse anche allora chiarissimameute, esclamando e rilevando, chiamatine in testimonio i Numi, i germi dei mali che impiantavano alla repubblica. Non però convinse la pluralità, desiderosa, come ho detto, di .spegnere la discordia. Adunque il Senato autorizzò con suo decreto lè promesse dei deputati ai popolo, come pure che gii accordassero la sicurezza che dimandava. Fatto ciò tornando il giorno ap|>resso i deputati nei vi eapoM0a4.";^HH Ieri del Senato. Quindi esortando ' MenenioU'^poii^lD d’inviare alquanti a’ quali il Senato desse la Sull' ftdé ; fu spedito Lucio Giuùo Bruto, del qnale abbiÀtt'i^no di sopra, e Marco Decio, e Spurio Icilio con esso. Andò metà dei deputati compagna di Bruto in Roma. Agrippa, pregatone, si rimase nel campo, per istender la legge a norma delia quale il popolo creerebbe i suoi magistrati. 'Nel di seguente Bruto rìlortiò già fatti i patti col Senato per mezzo de’ Feciali, che cfaia> mano. Divisosi allora il popolo in Fratrie,  come ah tri qui nominerebbe quelle che essi dipono Curie, dichiarò suoi, magistrati dell’ anno Lucùr Gìnnio Bruto,  Cajo Sicinio Belluto, 6 no a > quel di loro capi, e con essi ancora Ca}o e Publio Licinio ì e Cap Icilio Ruga. Assunsero questi cinquei primi' la^ potestà tribunizia, quattro giorni avanti le idi di ’decembre {%), CO 7 me pur nel mio tempo si pratica. Firttterle ’eiéEÌoni'parve a’ deputati del Senato, adempito l’ intento della loro missione. Ma Bruto, convocata l’ adunanza ' del popolò, consigliò che dichiarassero i suoi magistrati Santi ed: invìo Lìtio, Dionigi, ed altri storirn antichi non ben si accordano sn la nomina di questi magistrati. Livio dice che i due i primi nominati furono Cajo Licinio, e L. Alhiud. e che questi poi si scefaero tre colleglli tra quali fiv Sicinio V autore delia seditìone. -Ma^ Dionigi pone per primi Lucio. _Giunio Bru^o, e C. Sicinio Bellirto : a quindi C. e Fuhiio Liciuro, e C. Icilio Ruga. (3) Anni di Roma 361 secondo Catene, s63 aeeondo Varrona, a 491 avanti Cristo.. 3o9 labili slabilenilone la sicurezza colle leggi e co’giiiramenti. Piacque ciò a tutti, e si fece su lui e su collcghi la legge : che niuno forzaste un tribuno ) come un altro qualunque a far mai cantra sua voglia ; ni lo battette, ni lo uccidesse, né ordinasse ad altri di balte rio, o di ucciderlo. Che te alcuno a dà contravvenga anche in parte ; itane reo capitale ; se ne diano a Cerere -i beni : e chiunque lo uccide, abbiasi coma puro dalla strage. E perchè non si potesse mai più far cessare questa legge, ma restasse immobile iu ogni ar venire ^ si stabili che ì Romani giurassero tutti co’ riti santi dì osservarla ' essi, ed i posteri loro perpetuamente.E si aggiunse ai giuramenti la preghiera, che gli Dei superni, ed inferni fossero propizj a' chiunque favoriva la legge, ma contrarj a quanti la violavano, come cootaminati di delitto gravissimo. Da indi sorse ne’ Romani il-cosWme che persevera pur ne’ miei giorni, di riguai^ dare le persone de’ tribuni come sacrosante. XC. Concordato dò, fecero un aitare su le dme della montagna ovo s’^erano accampati, e lo denomina rono nell’ idioma, loro, l’altare di Giove la cito su la fiducia di respingere i nemici che si avan zavano ; ma costretti bruttamente a fuggire^ prima di dare alcuna nobile prova, nemmen fecero punto di ger nevoso combattendo poi su le mura. Adunque i Ro> mani in un sol gioruo s’ impadronirono sehzà tere dei lor territorio, e, ne presero a forza la citti, nè con molto travaglio. Il comandante Romano concedè '. .. 'V (t) Vuoi' (lire Edile. Era qacsto vócaboìo proprio d’ RoroasK' che le miline si approp lasserò le robe invase; e presi diala la città, ne andò col resto deli’ esercito contro l'altra città de’ Volsci, chiamata Polusca, non molto lontana da Longola. Nè osando alcuno di uscirgli incontro, percorse facilissimamente U campagna, e ne investi le maia. E datisi i soldati, chi a spezzare le porte, chi a scalare le mura ed ascenderle; Polusca anch’essa fu presa nel giorno medesimo. Il console scel-, tivi alcuni pochi, autori della ribellione, li fe’ morire : e multati gli, altri in danari, e spogliatili delle arme; gli astrinse a dipendere in avvenire dai Romani. Lasciato anche in guardia di  Digitized by Google 3aa Delle antichità’ romane ni. Volgendo la olimpiade sessantesima quarta, in-' tanto che Milziade 'era arconte di Atene, i Tirreni dei contorni del golfo Jonio, cacciati poscia di là dai Galli, e gli Umbri con essi, e li Dauuj, ed altri barbari in copia tentarono distruggere Cuma, Greca città tra gli Opici fondata dagli Eretrj e da’ Calcidesi , senz’ altra vera cagione, se non che ne odiavano la prosperità. Imperocché Cuma famosissima di quei tempi in tutta r Italia per la ricchezza, per la potenza, e per molti altri beni, avea le terre le più fruttuose della Campania, con porti utilissimi presso al Miseno. Invidiandone i barbari il si gran bene, le mossero incontro con diciotto mila cavalli e con cinquecento mila fanti (a), e non meno. Accampatisi questi non lungi dalla città surse un portento meraviglioso, quale non ricordasi accaduto mai nè tra’ Greci dovunque, nè tra’ barbari. I fiumi che scorreano presso gli alloggiamenti ( Volturno nominavasi 1’ uno, e l' altro il Ciani (3) ) lasciando lo  Gli Eretrj ed i Calcidesi erano popoli dell’ Eukea o Ne^o ponte. Elrelrìa era distante venti miglia da Calcide. Vi erano dus altre Eretrie. Vedi tom. i, la not. al S 4^ parla della prima. (a) Par troppo torrente contro di una città : forse vi à d>aglio nei numeri. (3) Vi sono altri lìami di pari nome. Questo à quello additato da Virgilio 1. a, Georg., Vicina Veitvo Ora jugo,el vaeutt Ctanius non aeqmt acervis. Antonio Boudrand: (vedi novum Lexicon Geographic.) chiama questo fiume Agno ; e dice che passa presso di Acerra, di Aversa e Mintomo. Forse il Ciani h quello stesso fiume che ora chiamasi JPatria nelle catte geografiche scendere lor natarale  si ripiegarono, rifluendo gran tempo dall’ imboccatura alle fonti. Vista la meraviglia, fecero core i Cnmani di piombare su’ barbari, come se i Numi fossero per deprimere l’altezza di quelli, e per sublimare loro che depressi ornai ne pareano. Pertanto dividendo in tre corpi la gente militare, con uno guaiw darono la città, con altro le navi, e coi terzo, :hieratoio avanti le mura, aspettarono l’ inimico che inoU travasi. Seicento erano i cavalli Cumani, e quattro mila cinquecento i fanti : pure si pochi di numero tennero fronte a tante migliaja I IV. Ck>me i barbari seppero che eransi appareo:hiati per combattere, dato un grido, coisero in barbara for> ma, disordinati e misti, cavalli e fanfl, appunto per annientarli tutti in un colpo. Il luogo, dove innanzi la città si affrontarono, era una valle angusta, rinchiusa da lagune, e da’ monti, propizia al valor de’ Cumani, ma nemica alla fdUa de’ barbari. Dond’ è che, travolgendosi e calcandosi questi, gli uni gli altri in più luoghi, e principalmente su pel fango intorno la palude, si distrussero in gran parte fra loro, senza pur venire aUe mani colia Greca milizia di Cuma : e quell’ esercito appiedi si numeroso, e disfatto, e sbaragliato da sestesso, fini qua e là fuggitivo, senz’ avere operato nulla di generoso. Li cavalieri però si avventarono, e molto travagliarono i Greci : ma non potendo circondar l’ inimico per r angustia del loco, e temendo i destini che combatteano per Cuma colle piogge, co’ tuoni, co’ fulmini, si diedero anch’ essi alla fuga. In questa battaglia i cavalieri Cumani militarono tutti luminosamente, riconoDigiiized by Google 3a4 delle Antichità’ bomane sciutine quindi come autori della vittoria. Si distinse so' pra tutti Aristodemo cTiiamato Màlaco ; imperocché solo opponendosi, uccise il capitano nemico, e molti valorosi. Finita la guerra porgeansi sagriGzj di ringraziamento ai numi, e davasi magnifica sepoltura agli estinti in battaglia : ma quando si ebbe a decidere a chi si dovesse la corona, come al più forte ; assai se ne disputò. Li giudici più ingenui, e con essi anche il popolo, voleano che ad Aristodemo si concedesse ; ma i più potenti, e con loro tutto il Senato, ad Ippo'medonte, duce de’ cavalieri. Di que’ tempi era in Guma il governo degli ottimati, nè molto il popolo vi potea : ma natavi sedizione appunto per tal controversia, i seniori temendo che tanta ambizione finisse colle armi e colle stragi, persuasero ambedue li partiti di dar "pari onore all' uno e all’ altro di que’ valorosi. Da quell’ ora divenne Aristodemo Malaco il protettore del popolo : e poiché ‘si avea procacciato una persuasiva nei discorsi di Stato, commovea con questa la moltitudine, allettando lei con stabilimenti gradevoli, beneficando coll’aver suo molti ' de' poveri, e rimproverando i potenti che si appropiavano ciocché era del comune. Dond’ é che ne divenne ai primi degli ottimati molesto e terribile., V. Venti anni dopo la battaglia co’ barbari vennero ambasciadori dalla Riccia co’ simboli di pace al Cumani per supplicare che li soccorressero nella guerra contro i Tirreni. Imperocché Porsena re di questi dopo la pace con Roma dando metà dell’ esercito, come esposi ne’libri antecedenti, ad Arunte suo figlio, lo aveva inviato, voglioso che n’era, ad acquistarsi un dominio : e costui di quel tempo appunto assediava gli Arieini rifugiatisi tra le ;nura, sulla idea di prenderne tra non molto la città colla fame. A tale ambasceria li primi degli ottimati odiando Aristodemo e temendo che non causasse alcun male al governo ; concepirono di avere il buon punto di levarsel d’ intorno con delicate maniere.v Persuadendo il popolo a spedire due mila per soccorso degli Aricini, e nominandone capitano Aristodemo come il più insigne nelle armi, fecero poi tal maneggio, nde iusingarsi che colui perirebbe o per le battaglie co’ nemici, o per le fortune di mare. Imperocché resi dal Senato arbitri di scegliere quei che dovrebbero andare di rinforzo, non v’ inchiusero alcuno de’ più famosi e più riguardevoli ; ma reclutando i più poveri e più scellerati .da’ quali aveano sospettato sempre delle sommosse, ordinarono con questi l’ armata, e riducendo in mare dieci navi antiche, pessime a correr le acque, e dandone il comando a Cumani poverissimi, ve la soprapposero, con minacciare di morte chiunque ne disertasse. VI. Aristodemo, dicendo unicamente che non ignorava le mire degli avversar) che in apparenza Io mandavano per soccorrere, ma in realtà per farlo soccombere ; assunse il comando dell’ esercito. E facendo ben tosto vela co’ deputati Aricini, e superando a stento e con pericolo il tratto interposte, di mare, approdò sui lidi più prossimi dell’ Aricia. E lasciata guarnigione sufBciente alle navi, e fatto nella prima notte il cammino il quale vi restava, che certo non era lungo, si presentò su 1’ alba inaspettato agli Aricini. Accampatosi presso di loro, e persuasi gli assediati di uscire all’ aperto sfidò ben tosto i Tirreni a battaglia. Schieratisi ed attaccatisi, gli Aricini resisterono piòciolo' teinpo, e piegarono e rifuggironsi in folla tra le mura. Aristodemo però coi pochi scelti Gumani che avea d’ intorno, so~ Bienne tutto il forte della battaglia, ed uccisone di sua Diano il duce, mise in fuga i Tirreni, riportandone una vittoria nobilissima. Ciò fatto, e magnificato dagli Aricini con doni copiosi rinavigò speditamente verso Cuma peressere egli stesso nunzio della vittoria. Teneano dietro a lui molte barche Aricine colle spoglie e coi schiavi presi ai Tirreni. Avvicinatosi a Cuma e messe a proda le navi, concionò tra 1’ armata. E molto accusando i capi della città, e molto encomiando quelli che si erano segnalati nella battaglia, e dispensando argento e parteci pando a ciascuno i doni degli Aricini; pregò che di tali beneficenze si ricordassero, quando sbarcherebbero nella patria, e lo fiancheggiassero se mai gli ottimati gli creavan pericolo. Confessandosi tutti obbligatissimi per la salvezza insperata che aveano da lui ricevuta, come perchè tornavano colle mani non vuote in famiglia ; e protestando che darebbero a' nemici anzi sestessi che lui ; Aristodemo, rirtgrazionneli, e sciolse 1’ adunanza. Quindi chiamandone al suo padiglione i più ma liziosi e prodi, e guadagnandoli tutti co' doni, co' bei discorsi, e colle spc>anze lusinghiere, li fé pronti a mutare il governo che vi era. VII. Presi questi per ministri e per combattitori, istruitili parte a parte su ciò che avessero a fare, e messi in libertà gli schiavi che conduceva per obbligarsi ancor essi, viaggiò piò oltre colle navi coronate  6no ai porti di Cuma. I padri e le madri de’militari, tutto il parentado, i Ogli insieme e le mogli, venutili ad incontrare mentre scendevano a terra, lagrimavano, gli abbracciavano,. li baciavano, li chiamavano con tenerissimi nomi. Tutto il resto della moltitudine urbana ricevette fra tripudj ed acclamazioni il capitano, accompagnandolo fino alla casa. Di che dolenti i capi della cittò, quelli principalmente che gli aveano affidato 1’ armata e ne aveano con altri modi tramato la rovina, facean tristi colloqui su T avvenire. Aristodemo lasciati decorrere alquanti giorni onde rendere agi’ Iddj li suoi voti ^ e ricevute intanto le sue navi da carico rimaste indietro, alfine venutone il tempo, disse voler esporre in Senato le cose operate nella guerra e mostrargli le prede riportatene. Riunitisi in numero i primarj, ed i magistrati nel Senato, egli fattosi innanzi prese a dire e narrare tutte le cose operate nella battaglia : quando gli uomini apparecchiati da lui per 1 impresa, accorsi in folla nel Senato co' pugnali sotto gli ‘ abiti, vi uccisero tutti gli ottimati. Si diedero allora a fuggire e correre, chi alle proprie case, chi fuori delia città, quanti erano al Foro, eccetto i complici del disegno, i qnali avevano occupato la fortezza, il porto, ed ogni luogo monito delia città. Nella notte seguente sprigionando quanti vi erano ( e molti ve ne erano ) dalle pubbliche carceri, destinati alla morte, ed armandoli con altri suoi amici, tra quali (t) In segno della -riltoria riportala. G>si ae’trionfì ai coronavano ancora LI FASCI erano gli Schiavi Tirreni, ne fece un corpo di guardia per la sua persona. Fatto giorno, convocato il popolo a parlamento, ed accusativi a lungo gli uccisi, disse che erano stati meritamente % puniti ; avendo per tante volte insidiata a lui la vita : ma che, quanto agli altri .cittadini, egli darebbe loro la libertà, la eguaglianza .dei diritti, ed altri beni copiosi Vili. Ciò dicendo, ed elevando tutto il popolo a speranze meravigliose, stabili due regolamenti, pessimi tra tutti i regolamenti ^ ed iniziativi di ogni tirannide, io dico la nuova division delle terre e la remissione dei debiti. Figli promettea provvedere su l’una e l’altra cosa, purché fosse eletto comandante assoluto, finché il comune fosse in salvo, e v’ordinassero uno stato popolare. Con piacere ud) la plebe e tutti i peggiori che avrebbonsi a ghermire i beni degli altri: ed egli, avutone un potere indipendente, aggiunse un nuovo decreto col quale deludendo ancor essi, alfine tolse a tutti la libertà. Imperocché fingendo temere torbidi e sedizioni de’ nobili contro dei .plebei per le assoluzioni dai debiti e per le divisioni nuove de’ terreni, disse che a precludere una guerra ed un eccidio civile, trovava un solo rimedio, cioè che, tutti prima di ridursi a tal male, recassero dalle loro case le arme, e le consacrassero agl’ Iddj per averle nel bisogno pronte contro i nemici esterni se ne venivano, e non contro sestessi: pertanto esser bonissima cosa che stessero quelle presso de' Numi. Persuasi di tanto i Cu> mani ; egli nel giorno stesso ebbe le armi di tutti, e negli altri appresso fe’ cercare le case di • ognuno, \iccldendovi molti buoni, sul pretesto che non avessero portate ai Numi tutte le armi. Dopo ciò fortificò la tirannide sua con tre generi di guardie : il primo fu di que’ vilissimi e reissimi cittadini co’ quali tolse 1’ autorità degli ottimati : il secondo fu de’ servi indegnissimi renduti liberi da esso perchè aveano trucidati i loro pa> droni : ed il terzo furono i militari assoldati da’ barbari più inumani. Erano questi nommen di due mila, e validissimi più che gli altri nelle arme. Tolse le immagini degli uccisi da ogni luogo sacro e profano supplendovi in vece loro le sue. Le case, i campi, ogni avere di questi lo donò tutto ai complici suoi nel preparargli la corona, riservando per sè l’ oro e 1’ argento, e quanto altro è base della tirannide. Ma li doni più numerosi e più grandi li profuse tra gli assassini dei loro padroni ; i quali chiesero perfino in moglie le donne e le figlie de’ padroni medesimi. Quantunque però niente avesse in principio curata la stirpe virile degli uccisi, alfine si accinse a sterminarla tutta in un giorno, sia che per un qualche oracolo, sia che per computi verisimili concludesse che perpetuava con questa a sestesso uno spavento non piccolo. Ma perciocché vivamente nel distoglievano quelli  presso a’, quali dimoravano i figli e le madri, egli vo-lando concedere loro un tal dono, gli assolvè, sebbene contro sua voglia, dalla morte. Per cautelarsi però da loro sicché congiurandosi non .insorgessero contro il suo regno ; comandò che uscissero tutti dalla città chi verso r uno e chi verso l’ altro luogo : e vivessero per le  I Saidliti del tiraoDu alli quali egli stesso le area mariiate campagne senza istruzione e coltura, propria di liberi giovinetti, con pascer le greggi o con altri campestri esercizi, minacciando di morte chiunque di loro in città fosse preso. Cosi quelli, abbandonati I patri > sosteneansi come schiavi per le campagne, servendo agli uccisori medesimi de’ padri loro. E perchè niente) pi& ci avesse di virile o di generoso prese ad effeminare colle Istituzioni sue tutta la gioventù Cumana, togliendole I ginnasi e gli esercizi militai, e variandone le maniere già consuete del vivere. Volle che I giovani come le donzelle nudrisser la chioma, e bionda la riducessero e ricciasserla, e ricciata di reti lievi la cii^ condassero ; e portassero toghe talari e ricamate, e clamidi sottili e molli, vivendosi all’ ombra. Donne, educatrici loro, li accompagnavano, recando parasoli e ventagli ai spettacoli di suono e danza e simiglianti musiche dissolutezze: ed esse li lavavano, esse portavano ai bagni i pettini, e gli alabastri con gli unguenti, e gli specchj. Con tal modo ammorbidiva i giovani fino ai venti anni, concedendo allora che passasser tra gli uomini. Ma egli che avea cosi vituperato e danneggiato i Cumani, egli che non avea risparmiato loro nè impudenze, nè sevizie, egli alfine già vecchio, quando si credea sicuro nella tirannide, Sterminato con tutti, i suoi, ne pagò le giustissime pene ai Numi ed agli uomini. X. I prodi che insorgendo liberarono la patria dalla tirannia di lui furono i figli de’ cittadini uccisi : quelli che egli avea risoluto in principio di trucidare tutti in nn giorno, ma che poi risparmiò, come ho detto, vinto dalle istanze de’ satelliti suoi, maritati da lui colle madri loro, comandando che abitassero per le campagne. Pochi anni appresso viaggiando egli pel contado e vedendoli già adulti e molti e floridi ; temè che non n congiurassero ed assalisserlo : e macchinò di prevenirli ed ucciderli tutti prima che niuno se ne avvedesse. Adunque consultandosene • cogli amici, deliberava con essi le maniere sollecite e piane ma occultamente, onde spegnerli. Sepperlo que’ giovinetti per indizio forse di alcuno che ne era consapevole, e, forse mossi da con getture probabili, fuggironsi ai monti, dando di piglio ai fèrri degli agricoltori. Corsero ben presto in ajuto loro i fuorusciti Cumani rifugiati in Capua, tra’ quali erano i più cospicui, e seguiti in gran parte dagli ospiti loro Campani, i figli d’ Ippomedonte, di quello che nella guerra Tirrena avea comandato la cavalleria. Essi armati recavano a’ compagni le armi con una truppa non picciola di amici e di mercenarj della Campania. Alfine riunitisi scorrevano e turbavano predando i campi nemici, ritoglievano gli schiavi dai padroni, ed ogni altro qualunque dalle carceri, e gli armavano, e quanto, non poteano trasportare o menar seco lo davano alle fiamme, o alla mòrte. Ansio dubitava il tiranno come avesse a combatterli, perchè nè sapeasi quando impren derebbero, nè teneansi fermi sempre in luoghi medesimi, ma regolavano le loro incursioni o colla notte fino all’ aurora, o col giorno fino alla notte. Avendo più volte spedito milizie ma' indarno a guardia delle cani pagne, a lui ne venne un tale degli esuli malconcio di battiture, spedito ad arte da essi quasi un disertore. Costui chiedendo la impunità promise al tiranno di guidare 1’ armata che manderebbe con lui, nel luogo appunto ove quelli sarebbero nella notte imminente. Indotto il tiranno a credergli perchè non chiedea verun premio, e porgea sestesso in ostaggio, spedi li suoi duci più fidi, seguiti da molli cavalieri e da’ mercenari, con ordine di conduire a lui, legati almeno, i più, se non tutti quegli esuli. Il disertore eh’ erasi a ciò posto menò tutta la notte 1’ armata a disagi gravissimi per vie non trite e per boschi, in parti le più lontane dalla città. Come i ribelli e l profughi posti per le insidie intorno all’ Averno, monte vicino alla città, conobbero pe’segnali dati dagli esploratori che l’armata del tiranno era uscita, mandarono circa sessanta i più arditi di loro che cinti da irte pelli portavano fi)sci di sarmehti. Or questi nell’ ora, quando accendonsi i lumi, chi per l’ una e chi per 1’ altra parte entrarono, quasi opera), la città senza essere conosciuti; ed entrali cavarono da’ sarmenti le spade che vi occultavano, e si raccolsero tulli ad un luogo. Donde marciando in schiera alle porte che menano all’Averuo, ne uccisero i custodi che dormivano, e spalancatele, v’ introdussero tutti i loro che v’ eran già prossimi, nè per tanto il fatto ^ ravvisa vasi ancora. Scontravasi per sorte in quella notte una pubblica festa, ond’ è che tutti oziavano per tutto in città tra le bevande ed altri diletti. Or ciò diè loro gran sicurezza di trascorrere tutte le vie che guidavano alla casa del tiranno : e nemineu qui trovando nelle entrate molti, nè .vigilanti, ve gli uccisero senza stento, oppressi dal sonno o dai vino : ed internatisi in folla trucidarono nell’ abitazione, quasi una greggia, tutti gli altri, ornai pei vino non più arbitri de’ corpi nè degli animi loro. Or qni preso Aristodemo, i figli, e tutti i parenti, e battutili gran parte della notte, e torturatili, e devastatili con ogni male, gli uccisero finalmente. Cosi sterminando dalle radici quella stirpe di tiranni fino a non lasciarvi non fanciulli, non donne, non consanguineo ninno ; e rintracciati tutta la notte tutti li cooperatori a fondar la tirannide ; andarono, nato il giorno, nel F oro, e con Tocatovi il popolo, e depostevi le arme, renderono la patria a scstessa. Or questo Aristodemo nel quartodecimo anno della sua tirannide in Cuma, questo vulcano gii esuli compagni di Tarquinio cbe giudicasse tra loro e la patria. Ripugnarono alcun tempo i deputati de’ Romani, come quelli cbe nè erano a tal fine venuti, nè avevano dal Senato i poteri per difendere ivi Roma. Non profittando però niente, anzi vedendo quel despota propendere in contrario per le brighe, e per le istanze degli esuli ; chiesero un tempo per le difese, e depositarono una somma per garanzia di eseguirle essi stessi. Ma poi nel correre di questo tempo, quando niuno più vegliava su loro, fuggirono, ritenendosi il tiranno gli schiavi, li giumenti, e li danari che aveano portalo per comperare de’ viveri. Tali furono gl’ incontri di queste legazioni, e così riuscì loro di tornarsene in patria sebbene senza l’ intento. Ma la legazione spedita neU’Etruria comperatovi miglio e farro lo trasportò su barche fluviali a Roma, e Roma ne fu nudrita sebbene per  poco ; fiocbè consumatili, ricadde ne’ disagi medesimi. Non erari genere di alimenti a cui non si rivolgesse. Dond’è che non pochi tra la scarsezza, e la inconve' nienza de’ cibi non soliti, s’ avean male nella persona, o diventavano a tutto impotenti, non soccorsi nella pcvvertà. Come ciò seppero i Yolsci domati di fresco, s’ istigarono con vicendevoli occulti messaggi a riprender le armi, quasi fosse impossibile che i Eomaui resistessero bersagliali dalla guerra e dalla fame. Ma i numi propiz) che vegliavano perchè non rimanessero in preda a’ nemici, ne dimostrarono allora più chiaramente la protezione. Di repente si mise tra^Volsci una tal pestilenza, quanta non leggesi mai stata in Greche o barbare terre, disfacendoli promiscuamente di ogni età, di ogni fortuna, di ogni temperamento, validi o invalidi. Mostrò soprattutto gli eccessi del, male Yelletri, città insigne, de’ Yolsci, e grande allora e popolosa. La peste appena ne rispailniò la decima parte, investendovi e consumandovene le altre. Ond’ è che i superstiti a tanto infortunio, mandati ambasciadori, e dichiarata a' Romani la loro solitudine, sottomisero fa città. E siccome aveano prima ricevuto de’ coloni da essi ; ne chiedeano di presente ancor altri. XIII. Impietoùrono, sapendoli, ai loro mali i Romani ; nè pensarono che si avessero a premere come nemici fra tanta sciagura, dacché pagavano agl’ Iddj le pene per ciò che voleano fare su Roma. Piacque loro, di riammetter Yelletri, e spedirvi numero non picciolo di coloni presagendone sommi vantaggi. Parea che il posto, se presidiavasi acconciamente, sarebbe ostacolo grande e ritardo a chiunqae si voleva rimescolare e sommoversi. E concepivasi che la penuria di Roma non poco si scemerebbe se una parte notabile di popolo altrove si trasferisse. Inducevali soprattutto a spedire una colonia la sedizione che vi si riproduceva, non essendovi ancora sopita in tutto la prima. Imperocché il popolo discordava un altra volta come per addietro, e ne odiava i Patrizj : e molta era 1’ amarezza dei discorsi co' quali accusavano la poca cura, e la scioperatezza di essi perchè non aveano a tempo preveduta nè riparata la penuria futura, dicendo alcuni perfino che ad arte aveano procurato la caresua per astio e desiderio di affliggerne il popolo in memoria della ribellione. Per tali riguardi sollecitissima fu la spedizione della colonia, de slinativi dal Senato tre condottieri. Da principio udiva il popolo con diletto che trarrebbonsi a sorte i coloni, perchè sarebbe cosi levato dalla fame, e perchè viverebbe in terra felice : ma poiché rifletté che la peste ge aeratasi nella città che gli avrebbe a ricevere aveva distrutto i suoi cittadini, e temè che in tal modo ancora maltratterebbe i coloni, variò poco a poco di sentimento. Tantoché non molò, anzi meno assai che il Senato ne permetteva, esibironsi per la colonia : e questi bentosto ne furon pentiti come sconsigliati, e scansavano di uscire. Da tale vincolo erano trattenuti questi e quanti altri non più si acconciavano ad andare. Ma dertretato avendo il Senato che la colonia si ricavasse dal complesso di tutti i Romani secondo le sorti, e stabilendo dure ed irreparabili pene per chi ricusava ; alfine fu per tale necessità condotto il numero conveniente in iVelle tri. Noo raoUi giorni appresso un’ altra colonia fu tra> sferita in Norba, città non ignobile dei Latini -. XrV. Non però segui da ciò ninna delle cose con~ gbietturate da’ patrizj secondo la speranza di spegnerele discordie. Imperocché la plebe rimasta intrisi più ancora, vociferando con assai clamore contro de’ padri nelle adunanze prima di pochi, indi di molti, per la fame divenuta gravissima; e concorrendo al Foro volgeasi lamentosa ai tribuni suoi perchè 1’ aiutassero. Or tenendo questi adunanza, fattosi innanzi Spurio Icilio allora capo di essi perorò lungamente contro de’ padri aumentandone quanto potè la malvolenza. Egli istigò pur altri a dire pubblicamente ciocché sentivano, e principalmente Siccinio e Bruto allora edili, invitandoveli a nome, appunto come capi già del popolo nella prima sedizione, ed inventori, anzi magistrati la prima volta della podestà tribunizia. Presentatisi dissero anch’essi, udendoli il popolo vogliosissimamente, malignissime cose già da molto tempo premeditate, come se la carestia fosse procurata per malizia de’ ricchi, perchè il popoloavea loro malgrado, ricuperata colla sedizione la libertà. Dissero che i ricchi non aveano pur la miaima parte del disagio dei poveri : molta essere la loro non curanza de’ mali, perchè aveano cibi occulti e danari onde comperarli se introducevansi, laddove i plebei mancavano di ognuna di queste due cose: protestarono che mandare i coloni a’ luoghi contagiosi, era un avviarli a rovina visibile e funestissima, aggravando quanto più poteana  A tempo di Plinio era nn ammasso di rovine. Restava circa sei miglia lontana da Segni ameasogiomo. con parole il male. Chiedeano qual sarebbe il fine a tante sciagure, e richiamavano loro in memoria gli an> tichi Hagelli, ond’ erano stati malmenati da’ ricchi ; ag> giungendo ancora iinpuuissimamenie cose consimili. Da ultimo Bruto la Gni minacciando, dicendo cioè, che se secondavano, egli necessiterebbe quanto prima a spegner r incendio quelli stessi che eccitato Taveano. E così r adunanza fu sciolta. XV. Intimoriti i consoli su tali innovazioni, e solleciti che le adulazioni di Bruto verso del popolo iiou terminassero in grandi sciagure, intimarono nel prossimo giorno il Senato. Ivi si fecero discorsi molti e varj da essi, come dagli altri seniori. Pensavano alcuni che si dovesse blaudire i plebei con ogni dolcezza di parole e promessa di opere, e renderne i capi più moderali con esporre lo stato delle cose, e convocarli e consultare insieme il bene comune : io opposito altri consigliavano che non cedessero, uè si abbassassero verso del popolo : essere la moltitudine, imperita, e caparbia : insolente, incredibile 1’ ardore dei capi che 1’ adulano : facessero piuttosto costare che non ci avea ne’ patrizj colpa ninna, c promettessero ovviare, quanto potè vasi, al male. Redarguissero e miuacciassero di pene condegne i sommovitori dei [K>polo, se nou si chetavano. .\ppio era il primo in tal sentimento, e prevalse in mezzo alle grandi opposizioni de’ padri. Tanto che il popolo turbalo all’ udirne tanto da lungi i clamori accorse alla curia, e tutta la città fu sospesa nella espeltazione. Dopo ciò li consoli usciti adunarono il popolo, restandovi breve DlOXlGi t Zumo 21.parte del giorno, e tentarono di esporgli i voleri del Senato. Contraddissero i tribuni, nè già fu vicendevole nè ordinato il colloquio. Gridavano, interrompevansi ; tanto che non era facile agli astanti distinguere i loro pensieri, e ciò che volessero. Diceano i consoli cb’essi come di autorità premineute doveano comandare in tutto alla città ; laddove i tribuni replicavano che i consoli avean dritto in Senato, ma su le adunanze del popolo i tribuni : questi aver tutto il potere su quanto si dee discutere e sentenziare da’ voti del popolo. Prendea parte, vociferava per essi la moltitudine, pronta ad assalire se bisognava, chiunque ostasse loro. Altronde i patrizj acclamavano, e davan animo ai consoli, circondandoli. Vivissima era la contesa per non cedere gli uni agli altri ; quasi allora appunto si cedessero i diritti una volta per sempre. Già il sole era per tramontare, e tuttavia concorrea dalle case nuovo popolo al Foro: e se la notte non li troncava, forse i dissidj finivano a colpi, ancora di pietre. Bruto perchè ciò non seguisse, fecesi innanzi, e chiese ai consoli di parlare ; promettendo di sedare il tumulto. Concederono questi che parlasse, parendo loro che si deferisse ai consoli mentre quel capipopolo ciò chiedeva da essi, presenti i trihuui. Fatto silenzio, Bruto senza dir altro interrogò li consoli di tal modo: Ki ricordale voi che lasciando noi le divisioni, ci accordavate per^ diritto che quando i tribuni adunassero sotto qualunque fine il popolo, i patrizj nè intervenissero all’ adunanza, nè la turbassero ? Ce ne ricordiamo, disse Geganio. E Bruto ripigliò : qual male aveste voi dunqué da noi che c impedite, nè permettete che i tribuni dicano ciocché vogliono? E Geganio rispose: perchè non voi, ma noi consoli avevamo chiamato il popolo a parlamento. Se fosse stalo invitalo da voi, non V impediremmo ; anzi nemmeno curiosi ci brigheremmo in ciò che si tratta : ora essendo da noi convocalo, non v' impediamo che Jdvelliale ; ma che noi ne siamo impediti, ciò non è giusto. Allora Bruto, abbiamo vinto, disse, o popolo: concedesi a noi dagli awersarj q> anlo chiedes’amo : ora desistete, chetatevi, ritiratevi : domani promettevi dichiarare quanta forza V abbiale. E voi tribuni cedete ad essi di presente nel Foro : non sempre già qui cederete qiumdo abbiate compreso ( e presto lo comprenderete, io prometto chiarirvene ) il potere del vostro magislialo. Abbasserete cotanta loro preminenza : e se troverete che io V abbia deluso, fate ciocché vi piace di me. XVII. E uiuno più contraddicendo, ritiravausi tutti dall’ adunanza : non però gli uni e gli altri con pari divisaniento. Credeano i poveri che avesse Bruto ideato qualche nobile impresa, e che non indarno la promet' lesse : ma i patrizj trascuravano la leggerezza di lui, pensando che T audacia delle promesse non andasse più in lò delle parole; non essendo conceduta dal Senato ai tribuni altra autorità che di proteggere il popolo, se non facevasi ad esso ragione. Non però la cosa parca spregevole a tutti, specialmente ai seniori, ma che dovesse attendersi che la manìa di un tal uomo non generasse mali insanabili. Bruto la notte appresso svelato il parer suo fra i tribuni, e raccolta una massa non tenue di popolo, ne andò di conserva nel Foro : e prima clie si facesse di chiaro, occupato il tempio di Vulcano donde eglino soleano concionare, invitarono il popolo a parlamento. Empiutosi il Foro di un concorso, quale mai più V era stato, presentasi Icilio il tribuno, e parlavi luughissimamente contro de’padri. Egli commemora quanto han latto in danno del popolo, e come nel giorno addietro aveano impedito lui fin di parlare contro i poteri ancora della sua dignità. E qui disse : e di che altro tarem più padroni se noi siam di parlare ? Come potremo soccorrere voi se ojffesi, quando ci si toglie la libertà di adunarvi ? Son le parole i preludj delle operazioni : nè ignorasi che quelli che non possono dir ciocché pensano, nemmen possono far ciocché vogliono. Pertanto o ripigliatevi, disse, la potestà che ci deste, se non volete mantenercela inviolabile; o proibite con legge che alcuno più ci si opponga. A tal dire provocavalo il popolo che egli stendesse la legge : e siccome teneala già scritta, la lesse. £, dispensati i voti, fe’ che il popolo immantinente ne decidesse ; parendogli non esser questo un affare da esitarne, o differirlo, perchè non avesse altri inciampi dai consoli. La legge era questa : Concionando un tribuno al popolo, niuno aringhi in contrario, nè interrompalo : e se alcwio contravvenga, dia mallevadori ai tribuni di pagare, chiamatone in giudizio, la multa che gl imporranno : e non dandoli, egli sia punito di morte, li beni di lui sien sacri, e tutte le controversie su tali multe spettino al popolo. I tribuni confermata coi voli la legge dimisero 1’ adunanza : ed il popolo si ritì rò, tatto di bu on anirno, e pieno di riconoscenza per Bruto, come per 1’ autore della legge. Dopo ciò li tribuni ripugnavano ai consoli molto, e su molte cose : nè il popolo ratificava i decreti del Senato, nè il Senato approvava decisione niuna della plebe. Cosi teneansi contrapposti e sospetti. Non però r odio loro, come avviene in simili turbolenze, procedette a danni irreparabili. Imperoccbè nè i poveri investirono mai le case de’ ricchi ove concepivano che troverebhon de’ cibi riservali ; nè mai si lanciarono su palesi merci per involarle : ma pazienti comperavano a gran costo il poco, e sostcneansi di radici e di erbe se penuriavan di argento. Nè mai li ricchi per dominare soli nella città violentarono colla forza propria, o de’ clienti, (eh’ era pur molta) la classe indigente, esiliandone o trucidandone ; ma conduceansi come padri savissimi inverso de’ figli, con cuore sempre benevolo e premuroso tra le lor delinquenze. Or tale essendo lo stato di Roma, le città vicine invitavano qual più volealo de’ Romani tt traslatarsi nel seno di esse, allettandoli con dar loro la cittadinanza, ed altre propizie speranze : ma le une invitavano mosse dai bei genj per benevolenza e pietà nei mali altrui, le altre (ed eran le più !) per invidia della prosperità passata della repubblica. E furono ben molli quei che partirono con tutte le famiglie, e posero altrove il soggiorno : ma taluni di questi, riordinato lo stato, ripatrìarono, e tal’ altri mai più. Or ciò vedendo i consoli parve loro, per voler del Senato, che avesse a farsi una iscrizione di soldati, e porre in campo un esercito. Prendeano occasione speciosa a tanto dall’ essere la campagna tante volte danneggiata dalle scorrerie, e saccheggi de’ nemici ; calcolando ancora i beni che nascerebbero dall’ inviare un esercito di là da’ confìni : mentre quei che restavano avrebbero, come diminuiti, le vettovaglie in più copia: e gli altri colle arme vivrebbero io siti più abbondanti a spese dell’ inimico, e la sedizion tacerebbe, almen quanto si tenesse in piedi l’armata. Tanto più poi sembrava che resùiuirebbcsi la calma tra patrizj e plebei, quanto che dovrebbei'o militare insieme, e partecipare i beni e i mali a fronte de’ pericoli. Non però la moltitudine ubbidiva, nè si presentava spontanea, come altre volte, per essere iscritta. Non vollero i consoli foi^ zare secondo le leggi i renitenti : ma alcuni patrizj s’iscrissero volontarj co' loro clienti, congiungendosi ad essi che uscivano, anche picciola parte di popolo per militare. Era duce di quest’ esercito quel Caio Marcio, il quale espugnò la città de’ Coriolani, e riportò la corona dei forti nella pugna cogli Anziati. Or vedendo lui per capitano, i più de’ plebei che aveano piglialo le anni vi si confermarono, altri per benevolenza, altri per la speranza di esserne diretti a buon fine. Imperocché famosissimo egli era quest’ uomo, e grantal esercito fino ad Anzio ; impadronendosi di schiavi ^ e di bestiami in copia, senza dirne il mollo grano che era ne’ campi ; tornandone indi a non molto ricchissimo fatto di viveri : tanto che quei che s’ eran rimasti, eran mesti e dolenti verso de’ tribuni, pe’ quali sembravano privi di un tanto bene : cosi Geganio e Miuucio consoli di queir anno trovatisi in tempeste varie e grandi, e più volte in pericolo di rovinar la cilli, non operarono nulla con troppa efficacia : pur salvarono la repubblica più savj che prosperi nell uso delle circostanze. XX. Marco Minucio Augurino, ed Aulo Sempronio Atraiino eletti consoli dopo loro, presero per la seconda volta quel grado. Non imperiti nell’arme, e nel dire, empierono con assai provvidenza la città di grano e di ogni maniera di viveri, come si ristringesse all’ abbondanza la concordia del popolo. Non però poterono ottenere 1' uno e 1’ altro bene ; ma venne colla sazietà pur l’orgoglio in quelli eh’ eran saziati. E quando meno pareva, allora fu su Roma il pericolo maggiore che mai per addietro. I commìssarj spediti pe’ grani, comperatone negli emporj entro terra o sul mare, lo aveano già trasportato a' pubblici serbato)'. Quand’ ecco i negozianti pure di viveri ne condussero d’ ogn’ intorno in Roma : e Roma comperando a pubbliche spese i lor carichi, li custodiva. Vennero i primi i commissarj spediti in Sicilia, Geganio e Valerio con piene assai barche ; portavano in esse cinquanta mila moggia siciliane di grano, metà procacciato a lievissimo costo, e metà regalato e mandato a spese sue dal tiranno. Nunziatosi in città 1’ arrivo delle navi portatrici de’ grani siciliani ; discussero i patrizj longamente come avesse a disporsene. I più moderati e popolari fra loro, considerata la pubblica calamità, consigliavano che il grano donato dal re si donasse ancora a tutti del popolo, e che 1’ altro  Anni iti Roma 263 seconda Catone, 265 secondo Varone, e 469 avanti Cristo.  tìet.le Antichità’ hotmane comperato coll’ erario, si vendesse loro a picciol mercato, ricordando clie per tali beneficenze principalmente si ammansano gli onimi de’ poveri verso de’ ricchi. Per r opposito i più arroganti fra loro, ed amici del comando dei pochi, sentenziavano che aveasi con tutto r ardore e l’ ingegno a deprimere il popolo, ed eccitavano a non fargliene se non carissima la vendita, perchè la necessità li rendesse per innanzi più savj e più conformi alle leggi. Fra questi amici del comando de’ pochi era pur quel Marcio, chiamato Coriolano, uè già dicea come gli altri in occulto e con riguardo i proprj sentimenti, ma di proposito, e con ardore, sicché molti del popolo lo udirono. Avea costui non che le cause comuni contro del popolo, motivi privati e recenti onde parer di odiarlo meritamente. Cercando esso ne’ comizj ultimi il consolato, il popolo se. gli oppose, ad onta de’ padri che lo sostenevano, nè permise che lo conseguisse ; perchè sospettava che un tal uomo colla chiarezza ed ardire suo prendesse ad abbattere il tribunato ; e tanto più ne temea che vedeva che tutti i patrizj aderivansi a lui, come a niun altro mai per addietro. Inbammato costui dalla ingiuria, e macchinando riordinar la repubblica su le antiche maniere, adoperavasi, come ho detto, palesemente, incitandovi pur gli altri, aU’annientamento del popolo. Lui cingeva un seguito di molti nobili e ricchissimi giovani, e per lui stavano molti clienti, prosperatine già nella guerra. Esaltato da questi, andavano fastoso, e minaccievole, e fra tutti chiarissimo; non però ne ebbe termine fortunato. Adunatosi pe’ casi presenti il Senato e proponendo, com’ è costume, il proprio parere prima li seniori, tra quali non molti con trariarono manifestamente la plebe ; alfine ridottasi la disputa ai giovani, egli chiese da’ consoli il poter dire ciocché voleva : e tra ’l favor grande, e la grande attenzione di tutti cosi contro del popolo ragionò. Che U popolo non siasi ribellato per necessitA e per disagi, ma sollevalo dalla rea speranza di abbattere il comando de' pochi, e farsi egli stesso l’ arbitro del comune ; credo ornai che lo abbiate o padri compreso voi tutti, considerando la incontentabilità sua nel pacificarcisi. Non era il solo disegno suo di violare la fede de' contratti, e di abolire le leggi che la garantivano, senza passare più oltre. Esso per levare il magistrato de' consoli, ne fondava un altro nuovo, c lo rendeva sacrosanto ed immune per legge, ed ora, e voi non vel conoscete, lo ha con un plebiscito recente immedesimato al poter dei tiranni. E per certo, quando gC incaricati di un tal magistrato col pretestare i bei titoli di proteggci'e i plebei malmenati opereranno con esso e disporranno come a lor piace, quando niuno, non uomo privato, non pubblico, potrà impedirne gli abusi per timor della legge la qual toglie anche il dire non che il fare, minacciando la morte a chi pur lascia fuggirsi una libera voce in contrario ; dite, e qual altro nome dee mettere allora chi ha senno a tal magistrato se non quello di ciò che è veramente, e che voi tutti confesserete, quello cioè di una tirannide ? Siasi un solo che tirantt^ggia, siasi il popolo tutto, e qual divario ? quando uno appunto è l’operar di ambedue? Era ottimissima cosa non lasciare mai che il seme s’ introducesse di un simil potere y e soffrir prima tutto, come il valorosissimo jéppio voleva, antivedendone da lauto tempo le ree conseguenze. Ma giacché ciò non si fece, ora almeno sradichiamolo, gettiamolo dalla città mentre è debole ancora, e facile da superarlo. Certo voi non siete, o padri coscritti, nè i primi, nè i soli a’ quali tocchi ciò fare ; quando molti già tante volte deviando dalle buone risoluzioni su di affari gravissimi ; e ravvoltisi in necessità sconsigliate, tentarono estinguere il mal già cresciuto, se impedito nel nascere non lo avcano. E quantunque la penitenza di chi lardi fa senno sia da meno della previdenza ; tuttavia sott’ altro rispetto apparisce non inferiore, rmnullando V errar già commesso coll’ impedir che si termini. Se alcuni di voi han per gravi le operazioni del popolo, se pensano doversi lui prevenire sicché più non esorbiti, ma vien loro la verecondia di parere i primi a rompere i patti e li giuramenti; sappiano, che se fan ciò, saranno incolpabili innanzi gl’ Iddj, e compiran la giustizia col? utile proprio ; giacché non eomincian essi /’ oltraggio ma lo respingono, non tolgon essi i patti, ma chi prima li tolse puniscono. E grandissimo argomento siavi che non voi cominciate a rompere i patti, non voi l’alleanza, ma il popolo il quale non più soffre le leggi colle quali ottenne il ritorno. Non chiese già egli i tribuni per danneggiare il Senato ; ma per non essere danneggiato. Eppure or ne usa non per ciò che lo dee^ nè per ciò che fu crealo, ma per turbare e confondere lo stalo della repubblica. Ben vi ricorda dell ultima adunanza, e delle cose dettevi dot tribuni, e quanta euroganza e quale disordine vi dimostrassero. Ed ora, niente più savj, quanto fasto non menano al vedere, che tutta la forza della città sta ne’ voti, e ne’ voti ci vincon essi, tanto maggiori di numero ? Se dunque han essi incomincialo a frangere i patti e le leggi; che dobbiamo noi fare se non rispinger la ingiuria p se non ripigliarci giustamente ciocché ingiustamente ci han tolto ? e frena' tante lor pretensioni ognora più grandi? e ringraziare gl Iddj che non han permesso che essi coll acquisto del primo potere divenissero savj per t avvenire ; ma gli han ridotti a tal vituperio e briga per la quale voi di necessità tentaste ricuperare il perduto, e custodir ciocché resta, come si dee? Se volete riavervi; non altra occasione mai fia così buona, quanto la presente. Ora la più parte di essi è vinta dalla fame, e /’ altra non potrà resistere lungamente per l indigenza, se abbia i viveri scarsi e cari. Li più rei, quelli non mai propensi al comando de’ pochi, ridurransi a lasciarci, ma gli altri più miti diverranno ancora più docili, nè mai più vi turberanno. Custodite dunque, non iscemate di prezzo i viveri, e fate che vendansi il più caro che mai. Voi ne avete oneste occasioni, e pretesti lodevoli nella ingratitudine di un popolo che mormora, quasi abbiate voi prodotta la carestia, nata dalla ribellione loro, e dal guasto che diedero alle campagne, levandone e trasportandone ciocché vollero come da terre nemiclie, e nelle spese dell’ erario per la spedizione de’ commissarj in cerca di viveri, e nelle tante altre ingiurie, onde foste oltraggiali. Conoscansi fin da ora quali sono i mali co’ quali ci afliggeranno, se non facciamo tutto a piacere del popolo, come i capi loro dicono per atterrirci. Se vi lasciate fuggir di mano questa occasione ; ne sospirerete le mille volte una simile. E se il popolo sappia una volta che voi macchinavate di abbattere tanta sua forza, ma ne desi-, steste ; tanto più vi si renderà gravoso, tenendovi nei vostri voleri come nemici, e come impotenti ne’vostri timori. Si divisero a tal dire di Marcio i pareri, e molto si romoreggiò nel Senato. Imperocché quelli che da principio contrariavan la plebe, e ne ammisero malgrado loro la pace, tra quali erano i giovani, quasi tutti, e li più ricchi e più riguardevoli de’ seniori ; esasperandosi della impudenza di essa, encomiavan quest’ uomo come generoso, come amico della patria, e che parlava il ben del comune. Ma quelli che propendeano, come prima, verso del popolo, nè stimavano le ricchezze oltre il dovere, nè credevano cosa alcuna necessaria quanto la pace, eransi corucciati a tal dire, non che vi aderissero. Volevano che si vincessero i poveri colle dolci, non colla violenza : essere la dolcezza una cosa non solo conveniente ma necessaria ; principalmente per la benevolenza verso de’ eittadini : e chiamavano que’suoi consigli non libertà di detti, e di opere ; ma delirj : nondimeno questo partito, come picciolo e debole, era sopraffatto dall’ altro più forte. Oi! dò vedendo i tribuni ( eran questi presenti, invitati in Sonato da’ consoli ) gridarono e fremerono, chiamando Marcio peste e rovina della città ; come lui cbe usciva in discorsi si rei contro del popolo. E se i patrizj non lo frenavano coll’ esilio o con la morte, mentre svegliava in Roma una guerra civile, essi, diceano, che lo punirebbero. Or qui nato un tumulto ancora più vivo pei discorsi dei tribuni, principalmente dal cauto dei giovani cbe mal sopportavano quelle minacce ; Marcio animatone parlò più veemente ancora e più risoluto. Io, diceva, io se voi non la finite di far qui turbolenza, e di sommovere i poveri; io da ora innanzi mi farò cantra voi non colle parole, ma colle opere. Or qui riscaldatosi più ancora il Senato, i tribuni vedendo che più erano quelli che volevano richiamare, che serbare i poteri conceduti alla plebe, fuggirono dal Senato gridando, e protestando gl’ Iddj, vin non fate voi parer vere le calunnie che di voi si spar^ gono ? e che savj sono pel pubblico, quanti consigliano che non pià crescer si lasci questa vostra potenza violatrice delle leggi ? A me così par certamente. Afa se vorrete far cose, contrarie a quelle delle quali vi accusano, moderatevi, ve ne consiglio : ricevete a cor placido, e non con ira, i discorsi dai quali siete investiti. F’oi se così fate, ne parrete uomini dabbene, e coloro che vi odiano, ne saran/w pentiti. Avendovi cojè noi fatto ragione amplissima come pensiamo, non siate, ve n esortiamo, indegni di voi. Folendovi noi implacidire non esasperare ; miti, umane furono le opere colle quali vi abbiamo trottato : io dico, per tacere le antiche, quelle fattevi di recente pel vostro ritorno. Certamente sarebbe pur giusto che voi vi ricordaste di queste ; mentre noi vorremmo dimenticarcene. Tuttavia la necessità ci stringe a ricordarvele per chiedervi in contraccambio di tanti e grandi benefizj che noi già concedevamo alle istanze vostre, che nè si uccida, nè bandiscasi Un uomo amantissimo della patria, e nobilissimo infra tutti nella guerra. Non poca sarebbe la perdita, voi lo vedete, se Roma fosse privata di tanta virtà. Egli è giusto che mitighiate lo sdegno verso lui, risgiiardando almeno quanti ne salvò di voi nella guerra, e ripetendone le belle sue gesta, non perseguitandone lé vane parole. Niente vi hanno i detti nociuto di lui, ma moltissimo i fatti vi giovarvno. ' Che se pur siete inflessibili in suo riguarda, donatelo almeno a noi, donatelo al Senato che vel chiede : rendete una volta la stabile calma, e la sua unità primitiva alla patria. E se voi non vi piegherete alle nostre persuasive ; riflettete che neppur noi cederemo alle vostre violenze. Così il popolo messone a prova o sarà cagione a tutti di amicizia sincera e di beni maggiori; o nuovo principio di una guerra civile, e di gravissimi mali. I tribaoi, avendo Minuzio cosi perorato, consideratane la moderazion del dire, e come la plebe mossa dalia dolcezza delle sue promesse, ne furono sdegnati e dolenti, e soprattutti Cajo Sicinio Belluto, quegli che avea suscitato i poveri a ribellarsi da’ patrizj ed erane stato nominato capitano, 6nchè fìiron su Tarmi. Nemicissimo degli ottimati, era perciò stato portato a grande chiarezza da’ cittadini. Ora creato per la seconda volta tribuno giudicava che a ninno giovasse men che a lui che la città fosse appieno concorde, e ripigliasse la forma antica. Imperocché vedeva che se governavano gli ottimati, egli nato e cresciuto ignobile, senza luce alcuna d’ imprese in pace o in guerra, non avrebbe più gli onori, nè la influenza medesima ; anzi che correrebbe pericoli estremi, come sommovitore dei popolo, ed autore di tanti suoi mali. Fissato adunque ciocché avrebbe a dire e fare, e consultatosene co’ tribuni compagni, poiché li ebbe unanimi, sorse, e lamentata brevemente la disgrazia del popolo, lodò li consoli perchè degnati si fossero di rendere ragione ai plebei, senza spregiarne la loro bassezza : e d'sse che rìngraziava i patrizj ancora, perchè nasceva finaluaente in' essi la cura della salate de' poveri ; e che molto più egli ciò contesterebbe 'a nome di tutti i colleghi, quando darebbero pur le operc> simili ai hitti. Cosi proemiando, e parendone anzi sedato, e propenso alla pace, si volse a Marcio presente ai consoli V e disse i E tu o valentuomo niente ti difendi coi tuoi cittadini su quanto hai detto in Senato ? Chè non supplichi piuttosto, e ne plachi lo sdegno, sic’ chò miti sieno nel sentenziartene ? Già non 'vorrei che tu negassi un tale tuo fallo, avendolo tarili ve ; nè che, tu Marcio, tu pià altero in cor tuo che un privato, ti volgessi ad invereconde difese. Sarà parato non indegno ai consoli ed ai patrizj di aringare essi in tuo bene, nè parrà per te degno che tu lo facci su te stesso? Or cosi parlava -costui ; ben conoscendo che quel generoso non soffrirebbe mai di essere T accusator di sestesso, e chiedere come colpevole la esenzion della pena, nè mai contro l’ indole sua ricorrerebbe alle umiliazioni ed alle suppliche: ma che o ricuserebbe fare ogni difesa ; o facendola coll’ innato ardimento suo, niente tempererebbe nè il popolo, nè il dire. E cosi fu ; perchè taciutisi, e presi i plebei, quasi tutti, da bel desiderio di liberarlo, purchéegli ne &vorisse la occasione, manifestò tanta insolenza e dispregio per essi ; che nè, presentatosi, negò le parole da lui dette in Senato, nè come pentitone, si diede ad impietosirli e placarli: ma fin sul principio non li volle, come privi di autorità competente per giudici di cosa ninna, pronto per altro a sottomettersi, com era la  legge, al tribunolc de’ consoli, se alcuno volesse ac> cusarvelo, e cbiederoe soddisfazione pe’deui, o per le, opere. Diceva eh’ egli era, colà venuto, giacché vel chiamarono, parte per riprendere le loro prevaricazioni, e la incoutentabiUlà j manifeslala aemprepiù nella separazione y e dopo il riiomo ; e parte per consigliarli, per fiammata, soffiandovi, 1’ ira del popolo, concluse l’ao cosa, che il tribunato ne sentenziava la morte, per r oltraggio fìtto agli edili, che egli percosse e respinse, mentre per ordin suo lo arrestavano il di precedente: non finire che su chi gC incarica, gli oltraggi de’ ministri, E così dicendo ordinò che portassero Marcio al l’altura che sovrasta sul Foro. È questa un dirupo ro> vinoso e vasto donde solcano precipitare i rei condan nati alla morte. Corsero gli edili per prenderlo: ma dato un altissimo strido, si levarono conira loro in folla i patrizj, e quindi contro de’ patrizj il popolo : e molto era in arabe le parti il disordine, molto lo in giuriarsi. Io spingersi, Tassalirsi. Se non che gli autori di un tanto moto furouo rattenuti e necessitati a moderarsi dai consoli i quali, cacciatisi in mezzo, coman darono ai littori di rimover la turba. Tanta era allora negli uomini la riverenza per quel magistrato, e tanto il pregio deir autorità suprema ! Intanto Sicinio non piò saldo, ma perturbato, e timoroso di ridurre i partiti a respingere forza con forza, non volendo lasciare, nè potendo continuare la impresa una volta tentata, era pensierosissimo su >ciò che fosse da fare. Or lui vedendo in tanti dubbj Lucio Gin nio Bruto, quel capipopolo che ideò le condizioni della concordia, uomo acuto specialmente in trovare, ove mancano, gli espedienti, venne, e solo con solo, suggerì che non si ostinasse in una disputa ardente, nè legittima : mirasse tutti i patrizj irritati, e tutti pronti alle armi se vi fossero invitati dai consoli, ma dubbiosa la parte migliore del popolo, nè ben animata a permettere senza previo giudizio la morte dell' uomo più. insigne di Roma : cedesse per allora, egli così consigliava; badasse a non combattere i consoli per non eccitare mali manieri : piuttosto indicesse a un tal uomo, fissandone un tempo qualunque, di perorar la sua causa, i cittadini votassero per tribù su lui: e ciò sen facesse che la pluralità de’ voti dichiarerebbe. Non competere che ai tiranni la violenza che ora minacciavasi, facendosi il tribuno accusatore in un tempo e giudice ed arbitro della pena : ma in una repubblica doversi agli accusati le difese come voglion le leggi, ed il gastigo secondo il voto dei più. Cedette Sicioio a tale consiglio non trovandone altri migliori, e fattosi innanzi disse : Foi vedete o plebei V entusiasmo de’ patrizj per la violenza e le stragi : vedete come tengon voi tutti da meno che un solo caparbio che oltra^a una intera repubblica. Non conviene che noi li somigliamo e corriamo alla nostra rovina, cominciando o respingendo una guerra. Ma perciocché alcuni di loto allegano, come onorevol pretesto, la legge la qual non permette che uccidasi un cittadino ' senza previo giudizio, ed allegandola ci tolgono d infliger le pene ; diasi pur luogo alla legge ; quantunque ne’ nostri disagi abbiamo noi mai sofferto nè cose giuste, nè secondo le leggi da essi. Dimostriamoci anzi probi colle clementi maniere, che del numero de’ vostri of Linno VII. 36 1 Jénsori colla violenza. Ritiratevi ; aspettate, nè già sarà molto, il tempo avvenire. Noi preparando in^ tanto le cose che importano, fisseremo a codest’ uomo un tempo perchè si difenda, e non eseguiremo se non la vostra sentenza. Quando v' avrete in mano i suffragi secondo la legge, votatene allora la pena che merita. E ciò basti su questo proposito : Che poi giustissima facciasi la compra e la distribuzione dèi grani, noi vi provvederemo, se questi (\) ed il Senato non vi provvedono. E ciò detto disciolse i' adunanza. Dopo questo evento i consoli convocando il Senato considerarono posatamente come dar fine alla discordia presente. Sembrò loro primieramente che dovessero cattivarsi il popolo con vendergli i viveri a picciolo e fàcil mercato, e poi persuadere i lor capi a chetarsi in grazia dei Senato, nè astringere più Marcio al giudizio, e temporeggiare in fine lunghissimamente, se non lasciassero persuadersi, finché l’ ira del popolo si diminnissc. Ciò decretato portarono e proclamarono al popolo tra pubblici applausi l’ editto su i viveri cosi concepito che : sarebbero i prezzi de' generi necessari al vitto quotidiano, tenuissimi come innanzi la sedizione. Poi col molto insistere presso de’ tribuni ebbero per Marcio dilazion quanta vollero, se non piena assoluzione. Anzi essi stessi gli procacciarono altro indugio, valendosi di questa occasione. Gli anziati, spedita una banda di pirati, aveano predato non lu ngi dal lido,  I CoDsvii.mentre tornavano in casa, le navi e i deputati del re di Sicilia, che aveano recalo i grani in dono ai Romani, e volgendone ogni cosa come di nemici ad olile, ne teneano in carcere le persone. I consoli, ciò saputo, spedirono agli Anziati : ma non potendone per ambasciadori ottener la giustizia, decisero marciare colle armi su loro. Adunque fatto il ruolo di tutti gl’iegli ninna delle cose ordinate dalle leggi su de’ giudizj. Pareva ai consoli, deliberatisi col Senato, che non fosse da permettere che il popolo s’ impadronisse di un tanto potere. Or si diè loro un titolo giusto e legittimo d’impedirneli ; e credeano, usandolo, di renderne vani lutti i disegni ; tanto che invitarono a colloquio tutti i capi del popolo. Congregitisi cou quanti erauo gli opportuni per essi, Minucio disse : Tribuni, ci è piaciuto decretare che bandiscasi la sedizione da Jloma con tutte le forze, nè più nudrasi contesa ninna col popqlo ; vedendo voi principalmente che tornavate dalla violenza alla giustizia ed alla ragione. Or noi lodando voi di questo proposito, abbiamo reputato che il Senato, come è patria usanza, vi precedesse co’ suoi decreti. E potete contestare voi stessi che dalP ora che i nosU'i avi fondarono Roma, il Senato che la ebbe, ritenne sempre questa precedenza : e che il popolo senza la previa risoluzione idi lui mai nò giudicò, nè votò non solo in questi tempi, ma nemmeno in quelli dei re. Tanto che li re non rimettevano al popolo, se non le cose decise in Senato, e così le confermavano. Non vogliate dunque levarci questo diritto, nè abolire tal bella istituzione primitiva. Preanvmonile il Senato, se avete il bisogtto di cose moderate e giuste, e quello che il Senato ne avrà giudicato, quello notificate al popolo, e ne decida. Cosi discorrendola i consoli, Sicinio mal sopportavali, nò volea render aibitro di cosa ninna il Senato. Ma gli altri, eguali a lui di potere, seguendo i suggerimenti di Lucio  consentirono che si facesse questo previo decreto. Imperoccbé ancor essi avevano Lucio Bruto: forte come pensa il Ccleoio, dee leggersi Decia in luogo di Imcìo, .Certamente in questi affari elibe parte anche Deciò nominato prima e poi da Dionigi: vedi I. fi, § 8S. Bruto aveva, tt vero il pronome di Lucio ; Ma Dion'gi nou lo ha mai contratte guato ancora col solo pronome.  r)ELLr antichità’ romane falla ( nè i consoli la esclusero ) la istanza ragionevole ; Che il Senato desse la parola anche ai tribuni, che sono i procuratori del popolo, come agli altri che volevano aringare favorendo, o contrariando; e che infine, dopo udite le discussioni di tutti, -allóra ciascun padre porgesse il suo voto, premesso il giuramento legittimo, come ne’ giudizj, e dichiarasse ciocché gli paresse il giusto e V utile della repubblica : e quello si tenesse per valido che i più. preferissero. Concedendo i tribuni che si decretasse come i consoli dimandavano ; si divisero. Raccoltisi nel giorno appresso i padri in Senato, i consoli vi esposero le convenzioni: e quindi chiamando i tribuni gl’ invitarono a dire le cause per le quali venivano. £ qui fattosi innanzi Lucio, colui che avea condisceso che si facesse il previo decreto, disse : Potete ravvisare o padri ciocché sia per succedere, vuol dire che noi saremo accusati appresso il popolo dell’ essere qui venuti, e che V accusatore sarà quel nostro collega, per quel previo decreto che V abbiam conceduto. Pensava costui che -non dovessimo noi chiedere da voi quello che ci attribuiscon le leggi, nè prendere per benefizio quanto avevamo per diritto. Chiamali in giudizio correremo in rischio non tenue, che condannati, abbiamo a soffrire bruttissimamente come chi diserta, e tradisce. Ma quantunque ciò sapessimo ; noi siamo qui venuti, superiori a noi stessi j confidando su la rettitudine della causa, e mirando ai giuramenti secondo i quali voi do' 'vete dirigere le vostre sentenze. Noi tenui siamo, e disacconci pià assai che non conviene, a parlar di tali cose, che piccole certamente non sono. Porgeteci non pertanto udienza y e se queste vi parranno giuste ed utili, e vi a^iungo, necessarie ancora pel conw ne, vogliate spontaneamente concedercele. Primieramente dirò sul diritto. Quando o senatori cacciaste i monarchi avendo noi compagni nelr opera, e fondaste il governo nel quale ora siamo, ed il quale noi non riproviamo, voi vedendo i plebei aggravati ne’ giudizj se mai li facevano ( e molti scn facevano ) co’ patrizj, emanaste per suggerimento di Publio Valerio consolo una le^e per la quale permettevasi a tutti i plebei sowerchiati da quelli di appellare al popolo : e per niun altra, quanto per questa legge, procacciaste la concordia di Soma, e respingeste i re che vi tornavano in seno. Jn forza di questa l^ge citiamo codesto Caio Marcio dinanzi al popolo, e gli prescriviamo che risponda su cose nelle quali tutti ci diciamo da lui sowerchiati ed offesi. Nè su questo abbisognavi previo decreto del Senato. Imperocché voi siete gli arbitri di deliberare i primi, ed il popolo di confermare co’ voti quello su cui le le^i non pollano ; ma dove ci han le leggi, sono immobili, e debbono osservarsi, quantunque niente ora voi, perchè si osservino, decretaste. Già non dirà ninno che in caso di aggravio ne’ giudizj un privato appelli validamente al popolo, nè validamente v’ appellino i tribuni. E forti per tale concession della legge, veniamo qui, non senza pericolo, ad esser sotto voi giudici. Pel diritto della natura, diritto che non è scritto, nè introdotto come le altra leggi, noi vogliamo che il popolo non sia nè da pià nè da meno di voi : mentre con questo diritto ha con voi sostenute molte e grandissime guerre, e mostrato ardore vivissimo per compierle, contribuendo non poco perchè Roma le desse, non ricevesse da alwi le leggi. Or voi farete che noi non siamo da meno che voi se frenerete col terror di un giudizio chiunque attenta contro le nostre persone e la libertà. Pensiamo che i magistrati, le precedenze, gli onori debbansi compartire ai primi e pià virtuosi tra voi : ma pensiamo pure ben giusto che essendo tutti sotto un governo, tutti dobbiamo ugualmente e senza riserva o non essere offesi ^ o riceverne pari soddisfazione. Come dunque a voi concediamo que’ gradi sublimi e luminosi, così non vogliamo esser privi dei diritti eguali e comuni. Ma sebbene potrebbero aggiungersi le mille cose, bastino le dette fin qui sul diritto. Or quanto sian utili queste cose, quanto il popolo le apprezzi se faccianst, lasciate che io brevemente ve lo esponga. Su dunque : se alcuno vi dimandi qual pensiate il pià grande de’ mali, quale la cagioH pià pìonta della roiàna delle città ; non di~ reste che sia questa la dissensione? certo che sì. Or chi è si stolido, chi sì fatto a rovescio, chi  sì ne“ mico della eguaglianza, il qual non veda, che se concedasi al popola di giudicare le cause che gli spettano, avrem la concordia ; ma se gli si neghi, leverete a noi per fino la libertà ( chè la libertà si toglie, a chi le leggi si tolgono e li giudizj ), e ci ridurrete ad insorgere nuovamente, e combattervi ? Certo che nelle città dalle quali si escludono i giudizj e le leggi, la discordia soUentra e la guerra. Chi non si è trovato in guerre civili non è meraviglia che per la inesperienza non senta ribrezzo de mah antecedenti, nò precluda i futuri. Ma quelli, che caduti come voi tra pericoli estremi, felicemente se ne liberarono, sgombrando i mali come permetlevasi dalle circostanze ; quelli, io dico, se vi ricadono, qual mai scusa aver possono sufficiente e decorosa ? Chi non condannerebbe la stoltezza e delirio vostro grandissimo, considerando che voi li quali per non avere la plebe discorde vi piegaste, non ha gìiari t a tante concessioni, forse non tutte convenevoli ed utili, ora vogliate in discordia tornarvela, tutto che non siate offesi negli averi, nelf onore, o in altre pubbliche cose, e solo per favorir chi la odia ? Se non che voi ciò non farete se savj. Con piacere io V interrogherei quali concetti erano i vostri quando ci concedevate il ritorno colle condizioni che chietlevamo. Ne apprendevate voi forse ragionando un bene ? o fu necessità che vi ridusse a cedere ? Se ne apprendevate il bene di Roma, e perchè ora non vi ci attenete ? se fu necessità, se impossibilità di essere diversamente, or che vi dolete del fatto ? Bisognava, se pur tanto potevate, non cedere forse da principio ; ma ceduto avendo una volta, non dovete più rimproverarvene. A me sembra o padri che voi seguiste il vostro migliore nel paci/icarvici : ma se fu necessità di scendere a condizioni; ella è pure necessità mantenercele. Voi gV Iddj chiamaste vindici degli accordi, imprecando molte e terribili pene a chiunque li violava di voi o de nipoti in perpetuo. Ora io non Pedo perchè dobbiamo tediare pih a lungo voi che tanto bene il sapete, con dire che giuste ed utili sono le nostre dimande, e molta la necessità che vi astringe a corrisponderle, se memori siete de Muramenti. Voi capite, o piuttosto ( giacché io non dico cosa che voi non sappiate ) voi tenete presente che rileva per noi non poco il non desistere dalla impresa per violenza o per inganno, e che un fortissimo stimolo ci ha qui condotti, offesi gravemente, e pià che gravemente, da quest’ uomo. Date dunque su quanto ho detto il vostro voto, ma, dandolo, considerate qual sarebbe il vostro animo verso quel plebeo, se alcuno pur ve ne fosse, il quale tentasse dire o fare centra voi nelle adunanze, ciò che qui codesto Marcio ha pur tentato di dire. Le convenzioni della pace sacrosante al Senato, quelle che munite più -che con vincoli adamantini j ninno di voi, per averle giureUe, nè de’ vostri discendenti può sciogliere, finché Roma fia Roma ; quelle ha il primo codesto Marcio tentato di rovesciarle, non essendo nemmen quattro anni che si conclusero, e tentato ha di rovesciarle non col silenzio, non da oscurissimo luogo, ma qui, pubblicissimamente, al cospetto di voi tutti', sentenziando, che non dovea più lasciarsi, ma ritogliersi a noi la podestà tribunizia, che è la primaria ed unica difesa della libertà, e col mezzo della quale potemmo ri^ congiungersi. Nè qui C ardinsento finì del suo dire, ina vi consigliava a ritorcela ; divulgando come una ingiuria la libertà dei poveri, e tirannide nominando r uguaglianza. Risovvengavi ( era questa la più infame delle istanze sue ) com’ egli disse allora, che era pur venuto il tempo di ricordar tutte le ingiurie del popolo nella prima discordia, e come esortava quindi a mantenere la stessa penuria di viveri, giacché il popolo, logoro dai disagf diuturni si ridurrebbe a cedere in tutto ai patrizj. Non resisterebbero i poveri gran tempo comperando a carissimo prezzo cibi scar-^ sissimi ma parte se ne andrebbero lasciando la cUtà, e parte rimanendovi, perirebbero infelicissimamerUe, E così delirava, così era in ira ogF Iddj ciò persua~ dandovi; che non discerneva che oltre i tanti mali co quali travagliavasi per annientare i trattati del Senato, quando avrebbe ridotto i poveri i quali eran pur tanti, alle angustie de viveri, questi poveri appunto farebbonsi addosso agli autori delle angustie, non più tenendoli per amici. Tanto che se voi pur delirando approvavate il suo parere; non restava più mezzo : ma ne andava la rovina intera del popolo, o de patrizj. Imperocché non ci saremmo già dati quasi schiavi a spatriare o morire : ma chiamando i genj ed i numi in testimonio de' mòli che soffrivamo ; avremmo riempiute, ben lo intendete, le piazze, e le vie di ukdergogne ; sin che tu abbi un altra difesa qua^ Itlnque; scendi da quel tuo enlusiatmo orgoglioso e tirannico, toma, o sciaurato, ai concetti del popolo : renditi simile agli altri', prendi come chi ha peccato e raccomandasi, un abito dismesso, addolorcvole  conforme ai disastri, e cerca il tuo scampo ; umiliandoti, non insolentendo dinanzi gli oltraggiali da te. Sianti esempio di bella moderazione^ le opere, le quali se tu avessi ùnitalo, non saresti ora ripreso dai tuoi cittadini, io dico, quelle di tanti buoni, quanti qui ne vedi, segnalati per tante virtù militari e civili, quante non sarebbe facile nemmeno in grati tempo pen.orrere. Li quali quantunque grandi e risspettabili ; niente mai fecero di duro, niente di or^ goglioso contro noi si tenui e bassi, e primi intromiìsero discorsi di pace, primi la pace offerirono, quando la sorte ci avea separati, e concedcron la pace non su le condizioni che essi riputavan migliori, ma su quelle che noi chiedevamo ; dandosi infine premura grandissima di levcu'e i disgusti recenti su la dispenstt de' grani per la quale noi gli accusavamo. Ma tralasciando le altre cose, quali ptcghiere non fecero per te, nel tuo superno accecamento, presso tutti, e presso ciascuno del popolo per involarti alla pena? Appresso i consoli ed il Settato, i> quali invigilano su questa, tanto grande città, crederon bene che al giudizio ti sottomettessi del pòpolo, nè tu o Marcio a bene lo tieni ? Questi tutti non han per un biasimo il pregare per tuo scampo il popolo, e tu per biasimo tei prenderai? JVè ciò li bastava, o magnanimo ; ma quasi fatta una belV o pera, ne vai con fronte altera e magmfìcandoti, e niente adoperandoti a mansuefarli? per non dire che insulti, che rimproveri, che minacci la plebe. E pretendendo lui quanto niuno di voi ; non vi sdegnerete, o Padri, a tanto orgoglio ? Se voi tutti risolveste di accingervi ad una guerra per esso ; egli dovrebbe amarvene, e tenersi tutto pronto per voi, non accettar però mai un tal bene privato col danno comune, ma sottomettersi alle difese, alla sentenza, a tutte infine le pene, se bisognasse. Questosarebbe l’ obbligo di un vero cittadino, di uno che vuole il bene colle opere, non colle parole. Ma le violenze presenti qual ne additano mai C indole sua, quale la inclinazione ? quella appunto di violare i giuramenti, di tradire la fede, di rescinder gli accordi, di far guerra al popolo, di oltraggiare le persone dei magistrati, di non sottometter la propria per niuna mai di queste cause, e di girarsela franchissimamente, non come un eguale di tanti cittadini, ma come uno che niun teme, e di niuno abbisogna, immunissimo in tutto da tribunali e discolpe. Or non è questo un vivere alla tirannica? certo che jì / Eppure a conforto di quest’ uomo spargono aure lievi e suoni dolci, alcuni tra voi che pieni di odio implacabile verso del popolo non san vedere che questo male si termina anzi contro de’ nobili che degl’ ignobili, e credonsi affatto sicuri, sol che deprimano il partito che è loro contrario per natura. Ma non così sta il vero, ingannati che siete. Prendete a maestra la esperienza che Marcio stesso vi somministra, prendetene il corso dei tempi: illuminatevi per gli esempj stranieri insieme e domestici.^ e ravvisale, che la tirannia la qual nudtesi contro i plebei, contro tutta la città si alimene ta: e che la tirannia che ora contea noi s’ incornine eia, fortificatasi, contea tutti ruggirà. Ragionate queste cose da Oecio, e supplite da’ triboni compagni quelle che mancar vi sembravano, quando il Senato nè dovè sentenziare, levaronsi i primi in piedi i seniori tra gii uomini consolari, inviati secondo r ordjne consueto dai consoli, e quindi via via gli altri men riguardevoli per queste qualità : seguirono ultimi i giovani, ma non disser parola ; perocché ci avea di que’ giorni ancora tra’ Romani la verecondia, che niun giovane si arrogava saperne più degli anziani. Pertanto accostaronsi essi alle sentenze de’consolarì. Erasi preordinato che i senatori presenti giurassero prima, come ne’ tribunali, e poi dessero il voto. Appio Claudio il patrizio, come ho detto, più acerbo col popolo, e che mai non aveva approvato che si concordasse con esso, mal soffriva che ora si facesse un pari decreto, e disse : Avi'ei veramente voluto, e più voltf ne ho supplicato i numi, essermi sbagliato io circa il sentimento su la pace col popolo, vede a dire che il ritorno de’ fi frusciti non era nè giusto, nè decoroso, nè utile; tanto che quante volte sen prese a trattare^ tante io primo ed ultimo mi vi opposi, anche abbona donalo da tutti. Anzi avrei voluto o padri, che voi li quali per le speranze concepute del meglio, cora- (UscendesCe ed popolo sul giusto e su t ingiusto, He compariste ora più savi di me. Hiuscitevi però le cose, non come io desiderava, anche pregando_ne i numi, ma come io prevedeva, e cangialevisi le beneficente in vilipendio ed odio ; io lascerò, come estraneo a ciò che dee farsi, di riprendervi e di contristarvi in vano per le vostre mancanze, quantunque sarebbe pur facile, ed è pur questo f uso dei più. Dirò piuttosto ciò che può rettificare le cose passate, quelle almeno che non sono in tutto insanabili, e renderci più savj circa le presenti. Quantunque non ignoro, che dicendo io liberamente i miei sentimenti, parrò farneticare e sagrifìearmi, ad alcuni di voi, li quali considerino quanto sia disastroso il parlar francamente, e riflettano la calamità di Mcuxio, il quale non per altra cagione ora corre perìcolo della vita. Ma io non penso che la cura della propria salvezza sia da pregiarsi più che il pubblico bene. Già questa mia persona è tutta pe’ vostri pericoli, tutta pe' cimenti della patria ; tanto che gl’ incontrerò generosissimamenle, come piace agl’ Iddj, con tutti voi, o con pochi ^ e solo ancora, se bisogna. Nè finché io vivo, mai mi terrà la paura dal dire quello che io penso. E primieramente io voglio elte vi persuadiate una volta senza eccezioni che il popolo è malaffetto, e nemico al governo presente f e che qualunque cosa gli avete, coma deboli, corueduta, £ avete spesa vanissimamente, e vi è stala cagione di vilipendio, quasi conceduta £ abbiate per forza, non a ragion veduta, c per beneplacito. Considerate come il popolo si appartò da voi, pigliando le armi, e come ardi mostrarvìsi palesissimamente per inimico, non o^eso da voi realmente, ma fingendosi offeso : perchè non polca corrispondere a suoi creditori, e dicendo, che se decreten ate la remissione dei debiti, e la condonazione delle colpe commesse per la sedizione, non desidererebbe più oltre. 1 più di voi, non però tutti, sedotti da vani consiglieri ( cosi /atto mai non lo avessero ! ) deliberarono di anntdUire le leggi, mallevadrici della fede pubblica, nè più ricordane, nè perseguitare l’ esorbitanze passate. Egli però non si tenne già contento di questa concessione, pel solo bisogno della quale diceva di essersi ribellato ; ma ben tosto pretese altra prerogativa più grande, e meno legittima : io dico quella di eleggersi ogni anno dalt ordin suo i tribuni, pretestando il troppo nostro potere, peichè fossero scudo e rf i^io d poveri oltraggiati ed oppressi, ma in realtà tendendo insidie alio stato delta repubblica, e volendola ridurre democratica. Adunque vi persuasero questi consiglieri a lasciare che entrasse in repubblica il tr ibunato ; come in fatti vi entrò per isciagura comune, e princìfxdmente in onta del Senato, mentre io, se bene ve ne ricorda, tanto ne schiamazzava, protestando ai numi ed agli uomini, che introdurreste tra voi una guerra interna ed implacabile, e presagendovi tutti i mali, quanti ve ne avvengono. E questo buon popolo che vi ha egli fatto dopo che gli avole conceduto il tribunato? Non ha già valuta’o degnamente tanto dono, anzi nemmeno da voi prese con prudenza, e con verecondia, come so glie lo abbiate accordato, premuti e costernali dalle forze di lui. Ha detto che aveasi a rendere sacro, inviolabile, sicuro pe giuramenti, ed ha pretesa un autorità migliore che rwn quella da voi destinata pei consoli. E voi avete tollerato ancor questo, e là tra le vittime giuravate la roidna di voi e de’ vostri di-scendenti. E dopo questo ancora che vi ha fatto egli mai questo popolo ? In luogo di riconoscervene,  dolora per le altrui sciagure, e sa compatire gli uomini costituiti in dignità, se la sorte loro travolgasi. Tuttavia diresse a Marcio la maggior parte del discorso mista di ammonimenti, di esortazioni, e di preghiere che facevano violenza. E giacché egli era la causa. della discordanza del popolo dal Senato, e calunniavasi come tirannica la esuberanza delle sue maniere, e temeasi che per lui si desse principio alle sedizioni e ai mali gravissimi, quanti ne sorgono dalle guerre civili; pregavalo a non verificare, o non confermare almeno le incolpazioni e le paure con quel suo nou gradito contegno : assumesse un abito più umiliato : sottomettesse la sua persona per dar conto a quelli che chiamavausi oltraggiati da lui : si presentasse alle difese contro di un accusa ingiusta si, ma che in giudizio appunto si annullerebbe. Sarebbe un tal fare più sicuro per la salvezza, più splendido per la fama che desiderava, e più consentaneo colie opere antecedenti. Dichiarava che se ostinavasi anziché raddolcirsi, e se riduceva, persuadendoli, i padri a subire ogni pericolo per òsso, misera sarebbe per loro se vinti la perdita, ma turpissima se vincitori, la vittoria. E qui tutto davasi al pianto, riepilogando i mali gravi e non dubbj che straziano nelle discordie le città. LY. Tali cose esponendo con molte lagrime non artificiose 'e noa finte, ina vere, egli venerabillstima per anni e per meriti, come videne commosso tutto il Senato, cosi con più confidenza seguitò, dicendo : Se alcuno di voi conturbasi, o padri, pensando che introducesi un tristo costume nel concedere al popolo di votar su patrizj, e che non produrrà niun bene f autorità de' tribuni che tanto si fortifica, sappiate che voi siete errici, e v ideate il contrario di quel che conviene Imperocché se mai vi sarà metodo salutare, metodo per cui non si tolga né la libertà nè le forze a Romec, e per cui le si conservi in perpetuo la concordia ; senza dubbio il metodo principalissimo sarà quello che assumasi anche il popolo al goverrto, talché non sìa questo nè pretta oligarchia, nè democrazia, ma un tal misto di tutti. E questa la forma che più che tutte ne giovi ; perchè ciascuna delle altre, applicata sola, com è per sestessa, scorre facilissimamente alle insolenze ed alle ingiustizie; laddove quando una forma si abbia ben contemperata da tutte, allora se una parte commovesi ed esce dalr orditi suo, vien contenuta sempre dall altra, che è savia, e tiensi al dovere. La monarchia divenuta dura^ superba, tirannica, suole abbattersi da pochi valenti uomini : la oligarchia, qual voi t avete al presente, se troppo s' innalza per le ricchezze e per le aderenze, nè più tien conto della giustizia e della virtùf si annienta da un popolo savio : un popolo savio e che vive secondo le leggi, se poi volgesi ai disordini ed alle ingiustizie; è sopraffatto dalle arme, e rimesso piomat, tamo II. '. j5 Digìtized by Google 386 DELLE antichità’ ROMANE in dovere dal pià forte. Voi trovaste, o padri, rimedj efficaci perchè il potere di un solo non si mutasse i n tirannide. Voi scegliendo in luogo di un solo due capi della repubblica, e dando loro il comando non per un tempo illimitato, ma per un anno; destinaste oltracciò per invigilarli i trecento patrizf, i più anziani e più grandi, da' quali è composto il Senato. Ma voi, per quanto si vede, non avete fin qui messo per voi niun che vi osservi, e tenga in dovere. CeT’~ tornente io finora non temei che vi corrompeste ancor voi tra t abbondanza, e la grandezza dei beni, per-chè non è molto che avete liberato Roma da una vecchia tirannide ; nè aveste mai comodo di scapricciarvi e cC insolentire per le guerre continue e lunghe. Ma riflettendo io ciocché può succedere dopo voi, e quante mutazioni suol produrre la diuturnità dei tempi ; temo che i potenti del Senato si rimescolino, e riducano per occulte vie finalmente il governo in tirannide. Ma se comunicherete il comando col popolo, non sorgerà quindi alcun male. E se altri ( giacché tutto dee prevedersi da chi consulta su la repubblica) se altri tenti elevarsi più de’ colleghi e del Senato, procacciandosi un seguito di uomini pronti a congiurare e ad offendere ; costui citato dai tribuni al popolo, per quanto egli sia grande e magnifico, renderà conto ai negletti ed ai poveri : e trovatosi reo, ne subirà le pene che merita. Ma perchè il popolo con tal potere non insolentisca nemmen esso, nè guidato da capi rei s’ inalberi contro de' buoni, tiranneggiando che nasce tmcìie nel popolo la tirannide ) ; lo invigilerà, nè pennellerà che ne abusi un uomo distintissimo per saviezza. Un dittatore eletto da voi con potere assoluto, inappellabile, separerà dalla città la parte infetta di popolo, nè lascerà che la sana se ne corrompa. Egli, riordinati i costumi e le preclare maniere del vivere, nominati i magistrali, che giudica savissimi per la cura del pubblico, ed eseguili tali cose in sei mesi, rientri di bel nuovo nella classe de’ privati, conservando per sè t onore, e non più. Pertanto considercutdo vqì questo, e giudicando bonissima tal forma di repubblica, non vogliate da ciò che chiede escludere il popolo. Ala come avete attribuito al popolo che scelga ogni anno i magistrali che regolino, che ratifichi o annulli le leggi, e decida della guerra e della pace, cose tutte rilevantissime e principali tra quante in uno stato sen facciano ; nè avete di niuna di esse lasciato cubitro indipendente il Senato ; cosi chiamale anche il popolo a parte dei giudizj, massimamente se alcuno sia accusato di offendere la stessa repubblica, eccitando sedizioni, preparando la tirannide, convenendosi co’ nemici di tradirci, e macchinando mali consimili. Imperocché quanto più renderete terribile agl indocili ed ai superbi la trasgression delle leggi, e le innovazioni di Stato, mostrando intenti su loro più occhi e più guardie ; tanto più la repubblica starà nel suo fiore. Dette queste e cose consimili, tacque. Convennero nel parere medesimo gli altri senatori sorti dopo lui, eccettuatine pochi. E standosene ornai per formare il decreto ; chiese Marcio la parola e disse : Quale, o padri coscritti, io sia stato verso la repub^ blica, come io sia venuto in tanto pericolo per la benevolenza mia verso di voi, e come ora io ne sia da voi contraccambiato fuori della mia espettazione, voi tutti il vedete, e meglio lo intenderete ancora dopo dato un fine alle mie cose. Ed oh ! se come la sentenza di Valerio prevale ; così vi giovasse, ed io mi sbagliassi nelle mie congetture sul futuro. Almeno però perchè voi che siete per emanare il decreto, conosciate le cause p^r le quali mi consegniate al popolo, nè io ignori su che sarà combattuto nelt adunanza di esso ; intimale ai tribuni che dicano alla presenza vostra la ingiustizia su la quale mi accuseranno, e qual titolo diasi a questo giudizio. LVin. Egli cosi diceva, perchè congetturava che a vrebbe a difendersi appunto pe’ discorsi fatti in Senato, e perchè voleva che i tribuni convenissero che su que sto appunto verserebbe l’azione. Ma i tribuni consultatisi lo accusarono che brigato avesse la tirannide, e su. questa accusa chiedevano che venisse a difendersi. (Schivi di restringere 1’ accusa ad una sola causa, e questa nè valida nè cara ai Senato ; riserbavansi il potere di accusarlo su quanto volevano > pensando che resterebbe così Marcio spogliato di tutto il soccorso del Senato ). Marcio dunque replicò: se io debbo essere giudicato su questa calunnia, mi sottometto ed giudizio del popolo, nò mi oppongo che ne stenda il Senato 'il decreto. Piaceva al più de’ padri che su ciò si rigirasse l’accusa e per due fini: perchè da indi in poi non più sarebbe un senatore incolpato per dire cioc> chè pensava nelle consultazioni ; e perché di leggieri quel valentuomo se ne purgherebbe, sobbriissimo altron de, ed irreprensibile nella vita. F u dunque, secoudo ciò, steso il decreto pel giudizio : e dato a Marcio tem po per preparar le difese da indi al terzo mercato. Tenevasi allora, e tuttavia si tiene da’ Romani il mercato in ogni nono giorno. In questi adunandosi i plebei dalle campagne in città ; vi cambiavan le merci, e vi discutevano le liti private : e ricevendo i voti ; sentenziavano su le cause pubbliche, riservate loro dalle leggi, o dal Senato. Negli otto giorni intermedj a’ mercati viveansi nelle campagne, essendone i più di loro lavoratori e poveri. I tribuni preso il decreto, e recatisi al Foro, v’adunàrono il popolo : e lodatovi con ampj encomj il Senato, e lettavene la sentenza ; intimarono il giorno nel quale si finirebbe quella causa ; raccomandando a tutti d’ intervenire, perchè discuterebbono importantissime cose. LIX. Divulgato ciò ; vivissime furono le cure e i ma neggi de’ plebei e de’ patrizj ; di quelli come per punire un arrogante, e di questi perchè non restasse all’ arbitrio de’ loro avversar] il difensore del comando de’ pochi. Pareva ad ambi che si mettessero in quella causa a pericolo i diritti tutti della vita e della libertà. Giunto il terzo mercato, si ridusse dalle campagne in città tanta moltitudine, quanta mai più per addietro, occupando infino dall’ alba il Foro. I tribuni la invitarono a riunirsi per tribù, separando con funi il sito dove ciascuna si alluogherebbe. L’ adunanza su quest’ uomo fu la prima la quale votasse per tribù , sebbene assai si opponessero i palrizj perchè ciò si facesse ; chiedendo che si tenessero, com’era l’uso della patria, i comizj per centurie. Imperocché ne’ primi ten>pi se il popolo dovea votare su di una causa qualunque rimessagli dal Senato ; i consoli adunavano i comizj per centurie, compiendo prima i sagrifìzj legittimi, che in parte si compiono ancora. Il popolo ordinato come nei tempi di guerra sotto i centurioni e le insegne, adunavasi nel campo di Marte posto innanzi della città. Quivi non prendevano e davano tatti insieme il lor voto ; ma ciascuno nella propria centuria, secondo che eran chiamate dai consoli. Ed essendo le centurie cento novanta tre, e dividendosi queste in sci classi, chiamavasi innanzi tutte, e dava il suo voto la prima classe, la quale formata dei più riguardevoli per sostanze, e primi negli ordini militari, comprendeva diciotto centurie equestri, ed ottanta appiedi. Appressò votava 1’ altra classe la quale men comoda per sostanze, seconda nell’ ordine della battaglia, e men cospicua de' primi per armatura, formava venti centurie; aggiuntene ancor due di artefici, i quali apprestano legni e ierro, ed ogni altra macchina militare. Costituivano i chiamati nella terza classe venti centurie, inferiori tutte nell’ onore, nell’ ordine della battaglia, e nelle armi, non simili a quelle de’ precedenti. Gli altri chiamati appresso, rispettabili anche meno in pregio di sostanze e di armi, ma più sicuri di posto nella battaglia, divideausi ugualmente  Anni di Roma a63 secoado Catone, aR5 secondo Varrone, a 4^ aeCristo.  ia venti centurie ; alle quali se ne univano altre due y di suonatori di corni e di trombe. Qiiamavasi per quIn-i>. 4 t S'So j ù tratta la materia medesima. I soldati che qui si dicoDo immuni dai cataloghi militari, erano certameule liberi dalle coscrizioni: peraltro potevano militare se volevano. (a) Nella prima classe ci aveano ottanta centnrie appiedi a diciotto a cavallo, ìu lutto novanlollo vedi loco citato. Le altre classi in tutto costituivano novantacinque centurie : perchè la seconda classe comprendeva venlidua centurie: la terza venti: la quarta di nuovo ven lidne : e la quinta trenta; risultaudo la sesta da una sola. Digitized by Google 3q2 delle antichità’ romane bio da ricorrere al voto fioale de’ poveri. Era questo il refìigio estreirio, se mai le cento novantadue centurie scindeansi in parti eguali ; e ne preponderava la parte alla quale quell’ ultimo voto si volgeva. Chiedeano i difensori di Marcio che si adunassero i comizj ordinati secondo gli averi, immaginandosi forse che il valentuomo sarebbe liberato dalle novantotto centurie' della prima classe quando le chiamavano, o dalie altre almeno della seconda o della terza. Ma sospettando eziandio ciò li tribuni, conclusero che si avesse a riunire il popolo per tribù, e così renderlo giudice della contesa ; perchè nè i poveri ci avessero men potere dei ricchi, nè i soldati leggeri men di quelli di grave armatura, nè la moltitudine, differita per 1’ ultima chiamata, fosse impedita a dare egnal voto. Divenuti tutti pari nell’ onore. e nel voto, avrebbero ad una sola chiamata dato i loro suffragi tribù. Or pareano i tribuni più giusti che gli altri, col pensare che il giudizio del popolo fosse veramente del popolo, non della parte fautrice degli ottimati ; e che su le offese di tutti, tutti dovessero sentenziare. Conceduto ciò con stento da’ patrizj, essendosi ornai per disputare la causa, Minucio 1’ altro de' consoli ascese il primo in ringhiera, e disse quanto eragli stato commesso dal Senato. E prima ricordò tutte le beneficenze, quante il popolo ne avea ricevute da’ patrizi : e poi chiese in contraccambio di queste, eh’ eran pur tante, che il popob concedesse una grazia, necessaria ad essi che la domandavano, pel pubblico bene : quindi lodò la concordia e la pace e rilevò di quanti beni Sten causa I’ una e T altra nelle citUi: condannò le sedizioni e le guerre intestine; e mostrò, che ne erano stale distrutte le città con gli abitanti, anzi le • intere nazioni : raccomandò che secondando l’ira non isceglies sero il peggio per lo migliore: che provredessero il futuro con saviezza, non si valessero in consultazioni gra vissime dèi consiglio de cittadini più tristi, ma di quelli che tenean per bonissimi, da’ quali sapeano sere stata tanto giovata in guerra ed in pace la patria, e de’ quali non era giusto che diffidassero, quasi avessero già mutato > natura. Era 1’ intento di tanti discorsi, che non dessero niun voto contro di Marcio, ma in vista prindpal mente di essi assolvessero quel valentuomo ; ricoi> dandosi quale egli era stato per la repubblica, quante guerre avea portato a buon termine per. la libertà e per r impèro di Roma, e come non farebbero cosa nè pia; nè giusta, nè degna di. loro, se ingrati alle opere segnalate di lui ne punissero le vane parole. Esservi bellissima la opportunità di dimetterlo ; giacché egli presen tava la sua pmeona ai nemici, per subirne in pace il giudizio che di lùi formerebbero. E se non che riconciliarsegli, persistevano duri, implacabili con esso, almeno giacché il Senato trecento i: più insigni della città, facevasi a supplioudì, s’ impietosissero e mansuefacessero, ciò considerando ; nè per punire un nemico ributtassero le {ghiere di tanti amici, ma in grazia di tanti valealuomini condonassero la pena di un solo. Dette queste consimili cose, aggiunse in ultimo, che se assolvesserò dopo dati i voti un tal uomo, parrebbouo ril.iaciarlo per non esser stato un ofTeusore del popolo : ma se proibivano di prosegniroe il giudieio, mostrerebbero di donarlo a tanti che per lui supplicavano. E qui taciutosi Minucio, fecesi innanzi Sicinio il tribuno, e disse: che. uè egli tradirebbe la libertà del popolo, nè permetterebbe di buon grado che altri la tradissero. Pertanto se i patiizj sottomettevano realmente un tal uomo al giudizio del pòpolo, iàrebbe che su lui si votasse, nè punto da ciò i si scosterebbe. ^ E; qui subentrando Minucio replicava : Poichésiete o tribuni fermi in tutto eli dare il voto su quest’uomo; almeno non lo accusale di altro che della offesa imputatagli. K poiché lo dinunziaste reo di ambita tirannide di chiarate e convincete, ciò con gli argomenti t ma' non vogliate .nè ricordare nè accusare le parole, le quali 10 incolpavate, di^ carer. detto in Senato.^ Imperocché 11 Senato lo dichiarava immune da que'sta colpa j e sentenziò phe al popolo si. presentasse '..per le cause convenute. E qui lesse la seuteoBa. E pò,bn gli altri più potati de’ tfibutii. Manon eà' tosto' tocoù atMarciu-di perórare, combaciando da capo, numttò quante spedizioni militari avea sostenuto dalla prima età sua>per.^ blica, quante corone trionfali avea' riportate da saoi cc.^^ mandanti, quanti erano i nemici presi da lui prigionieri, quanti li Cittadini salvati nelle battaglie. E ad ogni dir suo mostrava i premj dati al suo valore, e ne profferiva io testimonio I capitani, e ne chiamava a nome i cittadini liberati. E questi si presentavano sospirando e supplicando i cittadini a non uccidere, nè distruggere come nemico chi era la causa della loro salvezza ; chiedendo la vita di un solo per quella di tanti, ed esibendo in luogo di lui sestessi, perchè come più voleano ne disponessero. Erano i più di loro del popolo  anzi al popolo utilissimi. E preso il popolo da verecondia all’ aspetto ed alle lagrime di tanti ne impietosi, e ne pianse. Quando Marcio squarciandosi 1’ abito, mostrò pieno il petto, piene le altre membra di cicatrici, e dimandò se credeano poter esser le opere di un uomo stesso salvare il popolo in guerra dà nemici, e saU alo opprimerlo nella pace : e se chi fonda una rannlde, caccia dalla città una porle del popolo, dal (filale principalmente la tirannide si alimenta e corrohora. E lui parlando ancora, tutti i più mansueti, e più umani del popolo esclamavano, che si rilasciasse: e vergognavansi che stesse fio dal principio in giudizio per simil cagione un uomo che avea tante volte spregiata la propria salvezza per quella di tutti. Ma tutti i più invidiosi, tutti i più malevoli ai buoni, e più pronti alle sedizioni, soffrivano di mai in cuore di avere a liberare un tal uomo : tuttavia non sapeano che più fare, non apparendo in esso indizj nè di tirannide, nè di ambizion di tirannide, e su ciò dovessi giudicare. Or ciò vedendo quel Decio che avea ragionato in Senato, e procurato che si stendesse il decreto per la causa, levatosi in piede fece silenzio e disse : Poiché, o popolo, i patrizj hanno assoluto Marcio dalle parole dette in Senato, e da fatti violenti e superbi che le seguirono: nè vi hanno lasciato mezzi onde accusarlo ; udite, non le parole, no, ma la egregia cosa che questo valentuomo vi apparecchiava ; uditene £ orgoglio, la sovverchieria, e conoscete qual vostra legge, egli privatissimo uomo, violasse. Koi tutti sapete che quante spoglie nemiche ci riesce di acquistar col valore, tutte per legge son del comune, e che niuno, nemmeno lo stesso capitano, non che un privato, ne è £ arbitro ; sapete che il questore le prende, le vende, e, fattone danaro, lo versa nel pubblico erario. Or questa legge che niuno da cheRoma è Roma non solo non ha mai violato, ma nemmeno ha ripreso come non buona ; questa già firmala, invalsa, questa ha £ unico Marcio conculcata, appropriando le prede che erano del comune, £ anno scaduto, e non prima. Imperocché essendo noi scorsi su le terre degli Anziati, e pigliato avendovi prigionieri, e bestiami, e frumenti, ed altro in copia ; egli non depositò già tutto' nelle mani del questore: e nemmeno, alienandolo, ne mise il prezzo nel£ erario : ma divise in dono agli amici suoi per cattivarseli, tutta la preda ; or questo io dico eh’ egli è argomento certissimo di tirannide. E come no ? Costui beneficava col tesoro pubblico li suoi adulatori, li custodi della sua persona, li cooperatori della tirannide. E vi affermo che questo fu come un abrogare manifestamente la legge. Or su, facciasi pure innanzi Marcio, e dimostri £ una o £ altra delle due; omelie egli non compartì le belliche prede a’ suoi amici ; o che se bene ciò fece, non ruppe la legge. Ma egli non potrà dire ninna di queste due cose. Imperocché voi sapete ( una e V altra, la legge e t opera : Nè mai potrete coll assolverlo, dar vista di conoscere i diritti ed i giuramenti. Lascia o Marcio le corone ed i premj, lascia le ferite ed ogni ostentazione, e rispondi a questo, su che li concedo ornai che tu parli. Cagionò tale accusa grande mutazione; e li più dolci, e più premurosi per I’ assoluzione di questo uomo si rallentaron ciò udendo. E li più perfidi, quali erano i più della plebe, deliberati allatto di perderlo, vi si ostinarono ancor più, per una occasione si grande, e simanifesta. EU’ era ben vera la distribuzion della preda, non era però fatta per mal genio, nè in vista di una tirannide, come Decio calunniava, ma solo con fine benissimo, con quello cioè di riparare ai mali della repubblica : perchè essendo allora il popolo discorde ed alienato da’patrizj, i nemici dispregiandoli, ne scorrevano e ne predavano di continuo le campagne. E quante volle parve al Senato di spedire una forza che li reprimesse, ninno usciva del popolo, anzi giubbilava contemplando i casi d’ intorno, nè le forze dei patrizj bastavano a contrapporsi. Or ciò vedendo Marcio promise ai consoli, se lo creavano capitano, di portar su' nemici un’armata spontanea, e di pigliarne ben tosto vendetta. Ottenuto Marcio il potere, congregò li clienti, gli amici, e quanti voleano partecipare le sue fortune, e la sua gloria nelle armi. E quando parvegli che si fosse raccolta milizia sufficiente ; la menò su’ nemici che niente ne prevedeano. Scorso in region doviziosissima, ed arbitro divenuto di amplissima preda, permise alle sue milizie che tutta se la dividessero, afUnchè li compagni dell’ impresa, raccoltone il frutto, andassero pronti anche agli altri cimenti : e quelli, che impigrivano in casa, considerando da quanti beni, a’ quali poteano partecipare, gli allontanasse la sedizione; divenissero più savj per le spedizioni seguenti. Tale era su ciò la idea del valentuomo. Ma la turba invida e tenebrosa, considerandone con malvolere le operazioni, credette vedere in esse un predominio, nna largizione tirannica. Dond’ è che il Foro si riempié di clamori e di tumulto : nè più Marcio, nè il consolo, nè alcun altro sapeano che rispondere, riuscendo la incolpazione inaspettata ed improvvisa. Poiché dunque ninno più faceane le difese; i tribuni dispensarono alle tribù li suffragi, proponendo per pena del delitto Y' esilio perpetuo, io credo perchè temevano, che se proponevano la morte, non sarebbevi stato condannato. Dato da tutti il voto, e numeratili, non vi fu gran divario. Imperocché essendo allora ventuna le tribù le quali ottennero il voto, nove si decisero per la liberazione di Marcio, tanto che se altre due vi si aggiungevano, sarebbe stato, còme ordina la legge, liberato per la uguaglianza.  Se le trìbCk erano at, e nove si dichiararono per Marcio: dunque dodici lo condannarono; e però ire o non due altre trilnt ci Toleano per uguagliare i Voli della condanna e dell’ assoluzione. Forse Dionigi Tuoi dire che se la tribù condaunaTauo cd undici assolvevano, l’efHcacia de’ voli era la stessa in guisa, che per uu voto di più non cnndannavasi il reo, ma si rilasciava. Se ciò è, nel lesto non vi è discordia, ma la voce dovrà tradursi I Fu questa la prima oitasione di un patrizio al popolo per esserne giudicato : e d’ allora in poi fu stabilito il costume che i tribuni chiamano chi lor piace de’ cittadini a subire il giudizio del popolo. £ dopo tal fatto ancora assai il popolo si elevò, decadendo nomtneno il potere de’ pochi, perché ne furono ridotti ad ammettere > plebei nel Senato, a concedere che aspirassero agli onori, a non vietare che prendessero i sacerdozi, e a dividere con essi per forza e loro malgrado, o per provvidenza e saviezza, i tanti bei pregi, un tempo proprj solo de’ patrizj, come ne’ luoghi opportuni diremo. Del resto l’ uso di citare i cittadini primai'j al giudizio della moltitudine può somministrare materia ben ampia di discorso a chi vuol biasimarlo o lodarlo ; perciocché molli uomini probi ed egregj ne sostennero cose non degne della loro virtù, fatti inglòriosameute uccidere e malvagiamente pe’ tribuni : e per r opposito ne pagarono pnre la debita pena molti uomini aiToganti e tirannici, astretti a dar conto del vivere e procedere loro. Quando dunque vi si faceano con cor buono le discussioni, e vi si reprimevano le esorbitanze dei graudi, quella sembrava mirabilissima cosa, ed erano da tulli lodata : ma quando a torto il merito vi si prostrava de’ valentuomini egregj nel governo del comune ; sembrava orribilissima, e gli autori se he accusavano non per la uguaglianza de' voti come abbiamo (allo ma per la efficacia de’ voti. Sappiasi in fioe che talono de’ critici afferma che le tribù allora erano 3i, e non 3i ; ma il Sigonio de civiiate Rom. G. 3, ed Onofrio Vanvlno al c. 8, sostengono che erano realmente Tcntuna. della coDsnetudtne. Esaminarono, evvero, più volte i Romani se la dovessero annullare, o custodire come r aveano ricevuta dagli antenati ; ma non diedero mai fine all’ esame. E se pur io debbo dirne ciocché ne penso, a me ne sembra la istituzione, se per sé si consideri, vantaggiosa, anzi necessariissima a Roma ; esservi però più o mcn bene riuscita, secondo il carattere dei tribuni. Imperocché se scontravansi savj, giusti, e solleciti del pubblico, più che del proprio lor bene, e se chi offendeva la patria ne era, come dovea, castigato; in tal caso un timor vivo frenava ancor gli altri dai fare altrettanto. E 1’ uomo buono, 1’ uomo avvanzatosi eoo cuore puro ai maneggi pubblici né subiva pene vergognose, né gìudizj, alieni dal procedere suo. Ma quando aveansi il poter tribunizio nomini scellerati, intemperanti, avari, succedeane tutto l’opposito. Tantoché non dovessi rettificar come erronea la consuetudine, ma curar piuttosto come si avesser tribuni probi ed onesti, senza che tanta autorità temerariamente si conferisse. Tali furono le cagioni, e tale il termine della prima sedizione de Romani dopo la espulsione dei re. Io ne parlai lungamente, perché ninno si meravigli come i patrizj permisero che il popolo si attribuisse tanto potere, nè succedessero intanto come in alure città, gli eccidj e le fughe degli ottimati.' Ciascuno brama conoscere delle insolite cose la cagione ; proporzionandosene a questa la credibilità. Dond’è che io conclusi che non sarei stato creduto in gran parte o in tutto, se io diceva nudamente, e senza allegarne le cause, che i patrizj aveano ceduto ai plebei la primazia ; e che polendo dominare come nei comando dei pochi, aveano fenduto il popolo arbitro di affari gravissimi: e cosi concludendo ; volli esprimerle tutte. E poiché ira loro non si violentarono e necessitarono colle armi, ma coocordaronsi colla persuasiva, giudicai portare il pregio dell’ opera, che si esponessero soprattutto i discorsi tenuti allor dai primari ciascun dei partiti. E ben io mi stupirei che taluni pensassero doversi i falli della guerra descrivere minutissimamente, e taivoha consumassero tante parole intorno di una sola battaglia dicendo la natura de’ luoghi, la proprietà delle armi, la forma delle ordinanae, le ammonizioni del capitano, e tatti i motivi, quanti coadiuvarono la vittoria ; nè poi credessero che narrando i movimenti, e le sedizioni civili sen dovessero insieme riferire i discorsi pe quali si operarono impensate e maravigliosissime imprese. Certa-' mente se nel governo de’ Romani vi fu portento degno di encomi, e della emulazione di tutti, fu questo a parer mio, famosissimo più che i tanti, che pur vi furono stupendissimi, vuol dire che i plebei spregiando i patrizi non si avventa sser su loro, uccidendone in copia i più insigni, ed usurpandone i beni, e che quelli che esercitavan le cariche non conquidessero di per sestessi o co’ soccorsi di fuori tutto il popolo, rimanendosene poi liberi da paure in città ; ma che a guisa di fratelli co’ fratelli, e di figli co' padri in una savia famiglia, la discorresser fra loro su’ diritti comuni, e finissero le controversie col dialogo e colia persuasione, senza permettersi gli nni contro degli altri azione alcuna inir DtOSttGl, tomo //• iG qua ed insanabile, come nelle loro sedizioni ne fecero i Corciresi, come gli Argivi, i Milesj, e la Sicilia intera, e tant’aliri. E jier queste cause io volli anzi estenderne che ristringerne la narrazione ; e ciascuno ne pensi come glien pare.. Avuto allora il giudizio un tal esito, il popolo si parti con una vana ghiattauza; concependo aver tolto il comando dei pochi. Altronde i patrizj ne andavano umiliati e mesti, ed incolpavano Valerio per suggerimento del quale avevano rimessa al popolo la sentenza. E quelli che riconducevano Marcio, impietositi, ne sospiravano e ne lagrimavano : non però vedeasi Marcio né piangere, nè lamentare la sorte sua, nè dire o fare cosa qualunque, non degna de’ sublimi suoi genj : anzi dimostrò più ancora la generosità e fortezza deir animo suo, quando giunto in casa ridevi la moglie e la madre che aveansi squarciata la veste, e pesto il petto, e gridavano, come sogliono in simili casi, donne separate dai loro più cari per 1’ esilio, o per la morte : niente invili tra le lagrime, niente tra’ clamori delle donne. Ma dato loro un amplesso, le animava a tollerar virilmente la disgrazia, raccomandando ad esse i suoi figli. Grande era 1’ uno di dieci anni, ma sosteneano l’ altro colle braccia ancora. E senza dare altri pegni della sua benevolenza, e senza tor seco ciocché bisognavagli per 1’ esilio, usci sollecitamente dalle porte, non indicando a ninno, dove si trasferiva.,Venuto pochi giorni appresso il tempo de’comizj, furono dal popolo scelti consoli Quinto Sulpicio Camerino e Spurio Largio Flayo per la seconda volta. Turbarono quest’anno la città molti segni di celesti terrori. Imperocché apparvero a molti visioni insolite, e voci si udirono senza niun che parlasse ; le generazioni degli uomini e delle bestie assai scostandosi dal naturale tendevano al mostruoso ed all’ incredibile: e si udivano m più luoghi risonare gli oracoli, e donne da divino furor sorprese annunziavano alla città lamentevoli e terribili sorti. Si aggiunse a tanto un tal contagio nellamoltitudine. Fece questo assai strage di bestiame, ma non molta fu la mortalità degli uomini, non estendendosi il morbo più in là che a far dei malati. E chi diceva succedere l’ infortunio per disegno de’ numi i quali si vendicavano dell’essere espulso dalla patria il migliore de’ cittadini ; e chi dicea che gli eventi non erano opera divina, ma fortuiti, come tutte le vicende degli uomini. Poi si presentò, portatovi in una lettiga, un infermo, chiamato Tito Latino di nome, vecchissimo d’anni, fornito a sufficienza di beni, e che avea per lo più vivuto nella campagna, lavorandola colie sue mani. Costui venuto in Senato rivelò che avea tra il sonno veduto Giove Capitolino che standogli a fronte, ua, disse ; fa intendere d tuoi cittadini che nelT ultima pompa che mi celebrarono, non mi diedero un buon capo per la danza. Pertanto mi ripetano, e compiano un altra festa di nuovo, non avendo io accett ata la prima. Dicea costui che risvegliatosi non faeea verun caso delia visione, ma teneala come una delle comuni ed illusorie. Quando ecco infine gli si presentò nel sonno  Anni di Roma a64 secondo Catone, 66 secondo Varrone, e 48iS av. Cristo. la immagiue stessa, e bieca e sdegnata, che non avesse annunziato i comandi al Senato, e minacciandolo, se non gli annunziava immantinente che apprenderebbe con grave suo danno a non trascurare gt IddJ. Questa seconda visione, egli disse, che la riguardò come la prima, vergognandosi di assumer rincarico, egli vecchio e lavoratore, di portare al Senato i sogni suoi, pieni di augnrio e di terrore, perchè non vi fosse deriso. Or pochi giorni appresso il vago e giovine suo figlio, senza malattia, e senza niuna causa sensibile fu rapito da morte improvvisa. E ben tosto il simulacro stesso del nome apparendogli nel sonno gli dichiarò che egli area già colla perdita del figlio subita la pena della sua trascuraggine, e del dispregio delle celesti voci, ma che ben tosto ne subirebbe ancor altre. Udendo tali cose disse che contentissimo ne accettava Uannuntio, Se avesse a morirsi, non più curando la vita: che non gli diede il nume però questa pena, ma che gl'internò per tutto il corpo dolori acutissimi ed insoffri-^ bili, non potendone movere parte alcuna senza tormento estremo. E che allora infine comunicato ^evento agli amici, venivane per consiglio loro al Senato. Pat^a, ciò dicendo, che poco a poco si riavesse dal dolore. Alfine compiuto il discorso, usci di lettiga, ed invocato il nume, ne andò per la città libero e sano in sua casa. Il Senato ne fu spaventato ed attonito ,  Questo fatto è riportato aoclie da Livio. Cicerone Io allega nel lib. I de Dininalione. Quanto è facile sognare con chi sogna l Ma il Senato avea bisoguo d’ illudere un popolo superstiiiuso, e ne secoudò li delirj. Per tali vie la verità si confonde, e si allouuna! nè sapeva inf]ovinare ciocché il nume signifìcasse, e qual fosse nella festa antecedente il duce, de’ salti che buono a lui non paresse. Àlfìne un tale, memore delr evento, lo disse ; e tutti se gli accordarono. Qr fu r evento cosi : Un Romano non ignobile consegnando un suo schiavo agli altri conservi perchè lo menassero alla morte, ordinò per renderne più romorosa la pena, che lo traessero, flagellandolo, pel Foro, e per tutti, quanti erano, i luoghi più insigni della città. Precedè costui la festa che la città avea prescritto che si facesse in quei tempi a tal nume. Coloro che lo spingevano al supplizio slargandogli e legandogli ambedue le mani ad un legno, postogli dietro il petto e diretto per le spalle fino agli estremi delle braccia, lo seguivano, e lo battevano nudo co’ flagelli. Stretto costui da tale necessità gridava e con sconce voci, quali il dolore gliele suggeriva, e tra salti indecenti, per le battiture. Or questo giudicarono tutti che fosse il saltatore non buono indicato dai nume. E giacché sono a tal parte d’ istoria penso non dover tralasciare i riti che nella festa si tengono dai Romani: non perchè più bella ne sia la narrazione per giunte teatrali e per fioriti discorsi, ma perchè sia più credibile il proposito rilevantissimo, vuol dire, che greche furono le colonie fondatrici di Roma, e venute da famosissimi luoghi, e non barbare e non prive di case, come alcuni hanno esposto. Imperocché nel fine del primo libro, tessuto da me su la origine sua, promisi convalidarla con mille forti argomenti di leggi, di costumi, d' industrie che vi persistono ancora, quali si ricevette dagli avi ; nè giudico che basti a chi scrive le storie antiche de’ luoghi delioearle come degne di fede perchè tali si odono da’ paesani, ma per l’ opposito giudico che a renderle credibili abbisognino queste di altri documenti invincibili, quali 'sono principalissima mente le cerimonie, ed il cullo usato in ognr città verso i numi e i genj patrj. Certamente li Greci e li barbari custodiscono queste gelosamente per lunghissimo tempo frenati dalla riverenza de’ numi vendicatori. E ciò fanno i barbari soprattutto per molte cagioni da non essere qni ricordate. E ninno ha mai persuaso a dimenticare o corrómpere alcuna delle divine cose gii Egizj, i Lìbj, li Celti j gli Sciti, gl’ Indi # e generalmente tutti i barbari, seppure caduti sotto il comando di altri non furono necessitati ancora di volgersi ai riti loro. Roma però non fu mai ridotta a tal sorte, anzi essa diede agli altri le leggi perpetuamente. Se traeva da’ barbari l’origin sua, dovette pur da’barbari derivare s le istituzioni nazionali, per le quali g[iunse a tanta fortuna : e quindi dovette astringere tutti i sudditi a venerare gl' Iddj con le forme Romane come niigliori. Se dunque i Romani eran barbari, niente poteva ritardare che barbara si rendesse tutta la Grecia che ornai da sette generazioni ne porta il giogo. Alcuno forse crederà che bastino per segno non piccolo delle pratiche antiche, quelle che ancor vi si usano. Ma perchè altri noi prenda come insufhciente per la opinione non giusta, che i Romani quando vinser la Grecia, con piacere ne assunsero i costumi come migliori, ripudiando i proprj ; ho deliberato aiv _ gomentar dal tempo quando essi non ci dominavano ancora, nè avevano olire mare 1’ impero, valendomi deir autorità di Quinto Fabio senza che altra me ne bisogni. Imperocché antichissimo tra quanti scrissero le cose ror.. .u., ce le accredita -non solo perciò che ne ha udito, ma perciò che ne ha veduto ancora. Il Senato, come ho detto di sopra, aveva decretato quella lesta, per adempiere il voto fattone da Aulo Postumio dittatore, quando fu per combattere le cittàribellatesi de’Latini, che tentavano rimettere Tarquinio sul trono: ed aveva decretato che si applicassero ogni anno ptr li sagriGcj e pe’ giuochi cinquecento mine di argento ; e puntualmente ve le applicarono fino alla guerra con i Cartaginesi. In questi sacri giorni si faceano molte cose conformi alle greche usanze circa il concorso, 1’ accoglienza de’ forestieri, e le immunità, cose tutte > ben difficili a descriversi. Le cose poi, che concernono la pompa, i sagrifizj, ed i certami, erano come sieguono, e ben da queste si possono argomentare, quali fossero ancora, le tante cbe sen taciono. Prima cbe si desse principio ai giuochi, le persone che aveano il potere più graude, avviavano dal Campidoglio la pompa, conducendola pel Foro al Circo Massimo : e nella pompa eran primi i lor figli prossimi alla pubertà : ma que’ garzoncelli che poteano per 1’ età far parte della pompa ne andavano a cavallo se fossero di equestre famiglia, o a piedi, se a piedi dovessero mili^'U'e; e .quali nc andavano ad ale e caterve, e quali a corpi ed ordinanze maggiori come per essere istruiti: e ciò ptrcliò fosse visibile ai forestieri la gioventù Romana che era per giungere alla età militare, e quanto ne fosse il numero^ e quanta la bellezza. Venivano appresso loro i guidatori di quadrighe, di bighe, ed altri che pompeggiavano su cavalli non aggiogati. Seguivano quindi i combattitori di certami leggeri o gravi; e nudi si vedevano, se non quanto velavano le parti del sesso. E tal costume conservasi ancor tra' Romani come nei prìncipi aveasi pure tra’ Greci, finché tra’ Greci vi fu tolto dai Spartani: Perchè il primo che prese a nudarsi il corpo e nudo corse ne’ giuochi Olimpici nella olimpiade decimaquinta fu Acanto di Lacedemonia; laddove innanzi lui vergognavansi i Gi'eci di avere tolto nudo il corpo ne’ spettacoli, come certifica Omero scrittore antichissimo e degnissimo più che tutti di fede, il quale introduce gli eroi cinti da una zona. Quindi descrìvendo il certame di Ajace e di Ulisse ne’ funebri onori di Patroclo disse : Sceser cimi di zona ambi alla pugna. E ciò dichiara ancor più nell’ Odissea, narrando il pugilato di Irò e di Ulisse in tal modo : SI disse ; e tulli encomiaro Ulisse, E di una zona circondàndo i lombi, Gli ampi e voghi suoi femori scopria, ' E nude Sen vedean le vaste spalle,, Nudo il petto t e le braccia. Ed introducendo quel misero che non volea combattere, ma ne temea ; scrive : Cosi diceano : ad Irò il cor si scosse .•. Cinserlo i proci di una zona, e tutto Tremante lo sospinsero alla pugna. Tal costume primitivo de’ Gred serbato fino ali’ ultimo tempo dai Romani dimostra che questi non lo appresero ultimamente da noi, anzi che non lo mutaron col • tempo, come abbiamo noi fatto. Teneau dietro agli atleti, cori di saltatori divisi in tre bande : erano i primi adulti, imberbi gli altri, e giovani gli ultimi ; venivano quindi sonatori che davan fiato a tibie di antica forma, e picciole, come costumasi ancora, e citaredi che toccavan col plettro lire eburnee di sette corde, ed altre ancora di più, barbiti nominati. DI questi era mancato l’uso ne’ miei tempi tra’ Greci quantunque fosse lor proprio : ma tra’ Romani conservasi In tutti i sagrifizj 'di antico rito. Erano 1’ apparato de’ saltatori purpuree toniche, cinte con metalliche fasce, e spade che ne pendeano, ed aste anzi corte che giuste : vedeasi negli altri uomini elmo di bronzo con cimieri vaghi, e pcnnacchj che P adornavano. Era di ogni coro il duce un uomo il qual dava agli altri la forma del ballo ; rappresentando moti marziali e vivi, con ritmo per lo più proceleusmatico. Era greca antichissima pratica anche quella di saltare colle armi e Pirrica si chiamava, sia che Minerva cominciasse la prima dopo la disfatta de’ Titani a danzare e saltare colle arme tra cantici trionfali per la vittoria ; sia che prima ancora fosse il  Proceleusmatico cbiamaTasi no piè metrico di quattro sillabe brevi : e quiudi si diceauo fttrfi i versi che conteueano que' piedi. Forse furono cosi detti perché soleano premettersi, caulandoli, r7r rttXtvrfitiTt vuol dire alle esortazioni o comandi. Quindi il ritmo proceleusmatico ne’ balli dovrebbe avere allusione a tali piedi o versi, ed esortazioni. rito Introdotto da’ Cureti, quando educando Giova voleano carezzarlo col suono delle arme, e con lièti moti e cadenze, come la favola narra. Omero più volte, e principalmente nella foiDiazione dello' scudo che dice  donato da Vulcano ad Achille, mostra l’ antichità • di questo rito, e la nascita sua tra’ Greci. Imperocché rappresentando in esso due città, l' una ornata di pace bella, e l’ altra straziata dalla guerra, delinea, com’era naturale, la felicità di quella con feste, con matrimonj, e conviti, e dice : Faeton la danza i (Rovani, e frattanto Vdiati il suon di tibie, e cetre ; e tutte, Meravigliando ai limitar di casa, Stavan le donne. E di nuovo elogiando con vago ornamento nello scudo un altro coro di giovani e di vergini Cretesi dice : Aveaci espresso V inclito Vulcano Un vario coro somigliante a quello. Che Dedalo formò per Arianna, Che in si bei ricci avea la chioma attorta : Qui giovinetti e ver^nelle vaghe. Tenendosi per man, facean lor dama. Ed esponendo 1’ ornamento di questo coro per dichiarare che i giovani saltavano colle arme, scrive ' E quelle 'avean vaghe ghirlande, e questi Aurate spade a cinti argentei appese. E parlando dei duci del salto loro, di quelli che davano agli altri le prime mosse, dice :. Il popolo prendea dolce diletto Intorno al coro; e due de' saltatori Clan cantando e danzando a tutti in mezzo, Nè solo potrem yedere la somiglianza co’ greci riti da qnfsie danze marziali ed ordinale, usate da' Romani ne’sagrifìcj e nelle pompe, ma dalle danze ancora sati ricFie e derisorie. Dopo i cori armati vedeansi in mostra cori imitatori de’ satiri, non dissimili dalla greca Sicinne. L’abito in chi Vappresentava un Sileno erano ispide vesti, chiamale da alcuni Cortee  ; e manti con ogni varietà di fiori: in quelli poi che somigliavano un satiro erano perizomi e pelli caprine, e sui capo criniere irte di lioni, e cose altrettali. Or questi beffavano e contraffaceano serj moti, spargendovi del ridicolo : e gli andamenti de’ trionfi assai palesano che era antico e proprio de’ Romani il motteggio e la satira. Imperocché permettevasi u quelli che segui van la pompa lanciar beffe e giambi so gli uomini più riguardevoli, c fino su’ comandanti ; siccome un tempo in Alene era^ permesso che nè lanciasser quelli che sul carro se^itavau la pompa, e che ora cantan versi improvvisi. Eid io ne’ funerali di personaggi cospicui, specialmente se già fortunati, vidi tra le altre pompe cori in forma di satiri che precedevano il feretro, e saltavano come nella Sicinne. Che poi il gioco e la danza alla guisa de’ satiri non fu ritrovamento de’ Liguri nè degli Umbri nè di altri barbari, abitanti dell’ Italia, ma de’ Greci ; temo di sembrare molesto, volendo a lungo convincere una cosa della quale già si conviene. Dopo questi cori pasA  Vossio scrive più cose intorno a qeeslo genere di saltasione nel I. a c. 19. lusiiiul. Poei. (a) Cortee proviene questa voce da ^cfTts r:hc siguitica Jìeno, erba CC. ’  e savano molti sonatori di tìbie e di cetere : e poi quelli che portavano profumi di aromi e d’ Incensi, e quelli che portavano lavori meravigliosi di oro e di argento sia de’templi, sia del comune. Venivano In ukimo della pompa recati su le spalle di nomini I simulacri divini foggiati come quelli de’ Greci quanto alla forma, agli, abiti, al simboli ed al doni, secondo che que’ numi es-‘ sendooe stati I trovatori, gli aveano, ciascuno., donati ai mortali, nè solo v’ erano I simulacri di Giove, di Giunone, di Minerva, di Nettuno, e degli altri che li Greci contano tra I dodici numi ; ma di altri più antichi da’ quali la favola origina i dodici ; io dico i simulacri di Saturno, di Rea, di Temide, di Làlona, delle Parche, di Miiemosine, in somma di lotti, quanti hao templi, ed are fra i Greci, come quelli de’ numi che favoleggiansi nati dopo che Giove ottenne l’impero, vuol dire quelli di Proserpina, di Lucina, delle Ninfe, delle Muse, delle Ore, delle Grazie, di Bacco, e quelli de’ semidei, l’ anime de' quali spogliate de.l corporeo frale diceansi andate in cielo, e goilervi onori simili ai divini, cioè quelli di Ercole, di Esculapio, di Castore e Poi luce, di Elena, di Pane, e di altri mille. Se dunque i fondatori di Roma eran barbari, e se v’istituiron tal festa; com’era possibile mai che adorassero tutti I numi e genj della Grecia, negligentando I propr) ? Almeno mi si dimostri un altra gente non greca, la quale avesse  Erodoto narra nel libro seconda che: i Greci derivarono questi dodici Numi dagli Egiij. L’interprete di Apollonio scrive die questi erano : Giove, Apollo, Mercurio, Nettuno, Marte, Vulcano, Giunone, Diana, Pallade, Cerere, Venere, e Vesta. tali sante cose come nazionali ; ed allora si condanni la mia dimostrazione come non buona. Terminata la pompa facean sagri Gzio i consoli e que’ sacerdoti a’ quali spettavasi, e la forma del santo rito era quale appunto tra noi. Lavatesi le mani, lustrate le vittime con acqua pura, sparsi i frutti di Cerere sul capo di esse, e poi fatti de’ voti, comandavano infine ai loro ministri d’ immolarle. E quale di questi mentre la vittima era in piede ancora ne percotea le tempia colla mazza, e quale nel cadere la trafiggeva colle coltella. E poi scorticandola c squartandola prendean le primiziedi ciascuno de’ visceri e di ogni membro : e sparsele con farina di fiiTo, le portavano ne’ bacini a quelli che sagrilìcavano : e questi soprappostele all’ altare, le arde-^ vano, e spruzzavano intanto di vino. E poi facile intendere dalle poesie di Omero essersi ciascuna di queste cose fatta secondo le leggi istituite da’ Greci pe’sagrifizj: perciocché descrive gli eroi che si lavan le mani ed usano farina di farro con sale dicendo : E lavaron le mani, e sparser farro : E che ne tagliano i capelli e li gittano al foco in quei detti : Ma cominciando il santo rito getta 1 capelli sul foco ; E li descrive che colpiscono colle mazze in fronte le vittime, e che cadute le immolano come fa nel sagrifizio di Emeo. Percotela, di quercia alzando un tronco, Cui rapido poi lascia ; e lascia insieme Lo spirito la vittima, e qui gli altri Miseria in inani, e ne arrostino. E descriveli che pigliano le primizie delle viscere, e di altri membri, e le infarinano, e le bruciano su gli altari: come fa nel sagri fì ciò medesimo. E da ogni parie le primìzie piglia Be’ membri tutù, e crudi ancor li copre Di grasso, e di farina ; e dagli al foco. Ora io so per averlo veduto, che i Romani osservano ancora tali riti ne' loro sagrificj : e su questo argomento, anche solo, mi rendei certo, clie i fondatori di Roma non furono barbari, ma grecivenuti da tutte le parti. Ben può essere che alcuni baiiiari somiglino in pane ai Greci nelle istituzioni de’ sagriliz), e delle feste ; ma che in tutto somiglino loro, ciò non è verisimile. Mi resta ora di dir brevemente de’ giuochi che faceano dopo la pompa. Era prima la corsa delie quadrighe, delle bighe, e dei cavalli sciolti, come nei giuochi Olimpiaci e Pitiaci de’ Greci in antico, e fiu di presente. Ne’ certami equestri si conservano ancora tra’ Romani due istituzioni antiche, come furono fondate in principio, quella cioè de’ carri a tre cavalli, la quale ora in Grecia è cessata ; sebben vi fosse anticbissima e già ne’ tempi eroici ; introducendo Omero de’ Greci che ne usarono nelle battaglie. Imperocché essendo due cavalli congiunti come nelle bighe un terzo accompagnavali contenuto e tratto colle redini, e chiamato parioron appunto dall’ esser più libero ; e non come gli altri in biga. L’ altra cosa di cui restano ancor le vesiigie ne’ riti aniichi di alcune poche città di Grecia è la corsa di quelli che anduvau su’ Carri ; peroccliè finite le gare a cavallo, smontati dal carro quelli clt e sedere  presso  del  focolare  in  silensio  era un  aulichissioia  maniera  di  supplicare.  Addita  anche  ciò  Tucidide nel  t libro,  discorrendo  di  Temistocle:  e si  vede  un  tal  rito  piò chiaramente  io  Plutarco nella  vita  di  Coriolano,  appunto  iu  questo luogo.  le  calamità  che  lo  (lageilavaDO, e lo  ìnchinaTano  a ricorrere perfino  ai  nemici, pregavalo  ad  avere  idee  miti e benevole  verso  chi  rivolgevasi  a lui, non  a tenerlo, mentre  davaglisi  nelle  mani, come  avvemrio, nè  a mostrar  la  sua  forza  contro  gl'  infelici  e depressi, e ri flettere  piuttosto  quanto  istabili  fossero  le  sorti  degli uomini.  £ ciò  puoi, disse, apprendere  principidmente da  me, che  già  potentissimo  fra  tutti  in  città  grandissima, ora  derelitto,  infelice, bandito, senza  patria, debbo  correr  la  sorte  che  vuoi  tu  destinarmi.  Io, se tu  amico  me  ne  rendi, io  ti  prometto  far  tanto  bene ai  Volsci, quanto  male  ad  essi  cagionai, mentre  ne era  nemico.  Ala  se  prevedi  tuU'  altro  di  me, siegui r ira  tua, dammi  in  sulC  atto  la  morte, immolando colle  stesse  tue  mani  il  supplichevole  tuo, presso  a’ tuoi  focolari. IL  Or  lui  cosi  dicendo, Tulio  gli  stese  la  destra, e sollevandolo, animavaio  a confidare  ; perocché  non  sof^ frirebbe  cose  indegne  della  sua  virtù  : professavasi  insieme obbligatissimo  che  avesse  ricorso  a lui,  per  essere questa  non  picciola  significazione  di  onore  : promise che  renderebbegli  amici  tutti  i Volsci, cominciando dalla  patria  sua, nè  mentite  ne  furono  le  parole.  Dopo non  molto  tempo  deliberandone  da  solo  a solo,  Marcio e Tulio,  conchiuscro  di  movere  la  guerra,  Tulio,  concentrando tutte  le  forze  de' Volsci,  voleva  marciare  immantinente su  Roma,  mentre  era  agitata  ancora  dalla sedizione, e sotto  consoli  imbelli.  Marcio  in  opposito pensava  che  vi  abbisognasse  prima  un  titolo  onesto  e giusto  di  guerra  ; dicendo  che  gl’  Iddj  mcschiavansi  a tulle  le  cose, e panico  Urmenle  a quelle  della  guerra quanto  sono  più  rilevanti, ed  oscure  nell’  esito.  Aveaci allora  tra’ Volsci  e tra' Romani  sospension  d’arme,  e tregua  ed  amicizia, conchiusa  poco  innanzi  per  due anni.  Se  tnovi, disse, inconsideratamente  e precipitosamente la  guerra, tu  sarai  colpevole  di  aver  rotti  gli accordi,    te  ne  avrai  propizj  gVIddj  ; ma  se  aspetti che  i Eomani  ciò  facciano  ; si  giudicherà  che  tu  risospingali, e protegga  la  confederazione  che  violano. Ben  ho  io  con  assai  provvidenza  trovato  come  ciò  facciasi, e come  essi  i primi  volgansi  alle  arme, e noi siam  giudicati  et  imprendere  una  guerra  giusta  e santa. Bisogna  che  per  maneggio  nostro  essi  i primi  offendano il  giusto  : e tale  è questo  maneggio  che  io finora  ho  celato  profondamente, aspettandone  il  tempo, e che  ora  di  necessità, sollecitissimo, ti  svelo, procurandone  tu  la  esecuzione.  Debbono  i Romani far  sagrifizj  e giuochi  assai  sontuosi  e magnifici,  e molti  accorreranno  di  fuori  agli  spettacoli.  Attendi  la occasione,  ed  accorri  tu  pure  a tanto  apparato, dando opera  insieme,  che  vi  accorra, il  più  che  per  te  si  possa de’  Volsci.  Come  tu  sia  in  città, fa  che  alcuno  degli intimi  tuoi  vadane  ai  consoli, e dica  loro  secretissimamente, che  i Volsci  tra  la  notte  assaliranno  Roma, e che  perciò  vengono  in  tanta  moltitudine.  Tu ben  sai  quanto  apprezzeranno  la  nuova  : vi  cacceran senza  indugio  da  Roma, e vi  porgeranno  un  titolo giusto  di  risentimento. HI.  Esultò  Tulio  meravigliosamente, ciò  udendo  : e differito  il  tempo  d’ imprendere  ; diedesi  ad  apparecchiare  la  gnerra.  Approssimatisi  poi  gli  spettacoli,  ed essendo  già  consoli  Giulio  e'  Pinario  ; am>rsevi  da  tutte le  città  la  gioventà  più  florida  dei  Yolsei, come  Tulio bramava.  La  maggior  parte  non  avendo  ricetto  ndle case  e preo  degli  ospiti, presero  alloggio  in  sacri  e pubblici  luoghi;  e quando  giravansi  per  le  strade,  ne andavano  a crocchi  e moltitudini  : tantoché  già  su  loro in  città  si  faceauo  discorsi  e sospetti  non  buoni.  In  questo mezzo  venne  ai  consoli  un  delatore  apparecchiato da  Tulio, come  avea  Marcio  suggerito  : e quasi  avesse a svelare  a'  nemici  una  pratirà  arcana  in  danno  degli amici  suoi, strinse  ’i  consoli  a giurare  di  salvar  lui, né  mai  dire  ad  alcuno  de’ Yolsei  chi  avesse  ciò  palesato, e poi  dinuneiò  gli  assalti  mentiti.  Parve  ai  consoli vero  il  racconto, e ben  tosto  invitati  i senatori  ad uno  ad  uno, si  congregarono.  Presentatovi  il  delatore, ed  avutene  le  eguali  promesse, replicò  la  dinunzia  medesima. Coloro  a’  quali  parea  già  cosa  piena  di  sospetto che  venuta  fosse  agii  spettacoli  tanta  gioventù  di  una sola  nazione  nemica, assai  più  ne  temerono, aggiungendovisi  ora  una  dinunzia  della  quale  ignoravano  la frodolenza.  Parve  a tutti  che  si  cacciasser  di  città  quei forestieri  prima  che  il  di  tramontasse  con  bando  di morte  a chi  non  ubbidisse;  e che  li  consoli  invigilassero sicché  tranquilla  ne  fosse  la  uscita, e senza  offese. lY.  Decretato  ciò  dal  Senato, altri  scorrendo  le  strade intimavano  ai  Yolsei  di  partire  immantinente  tutti  per la  porta  detta  Capena, ed  altri  con  i consoli  li  scortavano, mentre  partivano.  Or  qui  più  che  altrove  si conobbe  quanta  mai  fosse, e quanta  vigorosa  quella moltiiadine  ; uscendo  In  un  tempo  tutu  per  una  porU. Usci  sollecitissimo  Tulio  prima  che  tutti, e prese  non lungi  da  Roma  un  tal  posto, dove  raccogliere  gli  altri che  seguitavano.  E quando  tutti  furono  giunti, convo> catane  l' adunanza, assai  v’  incolpò  li  Romani, dichia> rando  grave  ed  indicibile  1’  affronto  de  Volsci, unici  ad essere  espulsi  fra  tanti  forestieri  : ed  eccitandoli  tulli perchè  ciascuno  lo  raccontasse  in  sua  patria, e vi  trattassero le  maniere  di  vendicarsene  e reprimere  per  l’avvenire tanta  insolenza  ne’  Romani.  Cosi  dicendo  ed  infiammandoli, dolenti  già  per  1’  oltraggio, sciolse  1’  udienza.  Ricondottisi  in  patria, ridissero  ciascuno  ai compagni  la  ingiuria, esaggerandola, unto  che  ne  furono tutti  esacerbali, nè  poleano  rattemperarne  lo  sdegno. E spedendo  una  città  all’  altra  degli  ambasciadori, chiesero  un  congresso  generale, per  concordarvisi  intorno la  guerra.  Succedeva  tutto  ciò  per  briga  di  Tulio principalmente.  Cosi  li  magistrati  di  tutte  le  città, e moltitudine  grande  ancora  di  altri  adunaronsi  nella  città di  Eccetra, ripuUU  la  più  acconcia  per  congregarvisi. Dettevi  assai  cose  dai  capi  di  ogni  città, si  dispensarono i voli  finalmente, e prevalse  il  partito  di  mover la  guerra, avendo  primi  i Romani  conculcato  gli  accordi. Y.  E qui  proponendo  i magistrati  varj  che  si  discutesse la  maniera  di  fare  la  guerra,  presentatosi  Tulio consigliò  che  si  chiamasse  Marcio, e da  lui  si  udissero i metodi  di  abbattere  la  potenza  Romana  ; giacché  ninno più  di  lui  conoscea  da  qual  lato  questa  fosse  inferma, e da  quale  vigorosa.  Il  consiglio  piacque  e tutti  cscla  I I tnarono  che  si  chiamasse  immantinente  il  valentuomo. Marcio  ottenuta  l’ occasion  che  volea, presentatosi  mesto e piangente    soprastette  alcun  tempo  e poi  disse:  Se 10  vedessi  che  tutti  pensaste  ad  un  modo  su  la  mia disgrazia, giudicherei  non  essere  necessario  difendermene. Ma  considerando  che  Ira  indoli  tante  e varie  evvene  forse  alcuna  che  forma  concetti    veri    degni sopra  di  me, quasi  il  popolo  m'  abbia  per  cagioni  solide e giuste  espulso  di  patria  ; debbo  innanzi  tutto dir  qui  tra  voi  circa  il  mio  esigilo.  E voi  che  ben sapete  P infortunio  che  io  m’  ho  da'  nemici, e come indegnamente  io  sia  perseguitalo  dalla  sorte,  voi, mentre  qui  lo  espongo,  contenetevi,  prego,    vogliate desiderare  d intendere  ciocché  dee  farsi, prima  che  ne abbiate  compreso  chi  sia  che  i^i  consiglia.  Breve  ne sarà  il  discorso  quantunque  pigliato  dalle  origini.  Era 11  governo  Romano  da  principio  un  tal  misto  del  comando di  un  solo  e dei  pochi  ; fnchè  Tarquinio, r ultimo  de'  monarchi, tentò  volgerlo  tutto  in  tirannide. Adunque  i capi  nel  comando  de’  pochi  insorgendone, lo  espulsero  : e subentrando  essi  al  maneggio del  pubblico, basai  orto  una  reggenza  più  savia  per confessione  di  tutti, e più  buona.  Ma  da  ora  in  dietro non  più  che  Ire  o quattf  anni, i più  miseri, e li più  oziosi  de'  cittadini, dandosi  capi  scelerati,  ne  coperser  d ingiurie  ; tentando  infine  di  abbattere  l'  aulì] Queste  lagrime  forse  le  TÌile  più  Io  storico  che  Marcio.  It contegno  Ji  >{uesto  valoroso  era  stalo  hen  altro  coi  tribuni  e col popolo  li  Roma  come  apparisce  dal  libro  antecclcnte  j e 'come  può coucloJersi  dal  $ del  presente.  /oriUÌ  de  pochi.  I capi  del  Senato  ne  incollerirono tutti, e cercarono  come  reprimere  la  insolenza  de'  rivoltosi. Di  mezzo  a c/uegli  ottimati  udppio  C uno  dei seniori, degnissimo  di  lode  per  tanti  titoli, ed  io V uno  de’  giovani, parlammo  sempre  liberissimamente non  per  combattere  il  popolo, ma  perchè  sospetta  ci era  la  prepotenza  de'  ribaldi;  non  per  rendere  schiavo niuno, ma  per  garantire  a tutti  la  libertà, come  ai migliori  il  comando  sul  pubblico. VI.  Or  ciò  vedendo  que’  tristissimi  capipopolo  vollero in  priruipio  tor  di  mezzo  noi  franchissimi  oppositori : e gittarono  le  mani, non  già  su  tutti  due  in un  tempo  perchè  il  fatto  non  fosse  grave  troppo  ed esoso, ma  su  me  primieramente  che  era  il  più  giovane, e men  dijfcile  da  opprimere.  Cosi  tentarono  di perdere  me  prima  senz'  (uUorità  di  giudizio, e poi mi  chiesero  dal  Senato  per  la  morte.  Ala  venuti  lor meno  ambedue  que  tentativi  ; mi  citarono  ad  un  giudizio ( ed  essi  aveano  ad  esserne  i giudici ) per  incolpazioni di  bramala  tirannide  ; nè  videro  che  rùun tiranno  tenendosela  co’  pochi  combatte  il  popolo, e che  piuttosto  egli  col  popolo  conquide  il  partito  più valido  nella  città.  Un  giudizio  mi  destinarono  non per  centurie, com’  era  C uso  della  patria,  ma  un  giudizio come  tutti  consentono, iniquissimo, e,  la  prima e f unica  volta, su  me  praticato, un  giudizio  dove  i merccnarj, li  vagabondi, e quanti  insidiano  gli  averi altrui, preponderavano  su'  boni  che  voleano  salvi  i diritti  ed  il  pubblico.  E tante  erano  in  me  le  ragioni per  non  esserne  condannato, che  sottomesso  ai  giu  1.3 ditj  di  una  turba, odiatrice  in  gran  parte  de' buoni, e però  mia  nemica^  non  fui  sopraffatto  che  per  due voti:  sebbene  i tribuni  divulgassero  che  assai  sarebbero disonorali  nel  loro  comando, e patirebbono  da me  l estremo  de  mali  se  io  fossi  assoluto, ed  insi^ stessero  intanto  contro  me  con  tutto  F ardore  e la sollecitudine  nella  causa.  Così  malmenato  damici  cit^ ladini, reputai  che  più  non  sarebbe  vita  la  mia, se non  prendessi  di  loro  vendetta.  Quindi  sebbene  il potessi,  ricusai  vivere  senza  cure,  o tra’ parenti  nelle città  de’  Latini, o nelle  colonie  fondale  di  recente dà  miei  maggiori  : e tra  voi  mi  ricorsi, che  io  ben sapeva  essere  tanto -offesi  da’  Romani  e nemicissimi loro, per  farne  con  voi  quanto  -potessi  le  vendette colle  parole,  se  le  parole  vi  bisognavano  ; o colle opere,  se  le  opere.  Intanto  io  vi  rendo  amplissime grazie  ; perchè  mi  avete  voi  ricevuto, e perchè  mi  date tali  significazioni  di  onore, niente  ricordando, nò contando  i mali  che  un  tempo  voi  rtemici  miei,  avete da  me  sostenuto  fra  le  arme. VU.  Or  dite, e qual  genio  sarei  io  mai  se  spogliato da  uomini  per  me  beneficati, della  riputazione e degli  onori  quali  tra  miei  mi  si  competevano,  e privato  della  patria, della  famiglia, degli  amici, dei numi  patemi, delle  tombe  avite  e di  ogni  altro  bene; se  ritrovate  tra  voi  tutte  queste  cose  per  le  quali  già in  grazia  ài  essi  v infestai  colia  guerra  ; ora  terribile non  mi  dimostrassi  con  quelli  che  nemici  mi  furono in  luogo  di  cittadini,  e propizio  agli  altri  che  amici mi  si  rerìdono  di  nemici  ? Io  sicuramente  non  terrei nemmeno  per  uomo  chiunque    ax>esse  nitnicizia  per chicli  fa  guerra,    benevolenza  per  chi  lo  ha  salitilo  :non  iilitno  mia  patria  una  città  che  mi  ha  ripntliato, ma  quella, dove  sehben  forestiero  divengovi  cittadino  : nè  già  reputo  amica  la  terra  ove  sono  oltraggiato, ma quella  ove  trovo  la  sicurezza.  E se  Dio  ne  porga  il favor  suo, e voi  pronta, com’  è giusto, C opera  vostra ; seguiranno, spero, grandi  e subiti  cambiamenti, foi  ben  sapete  che  i Romani  cimentatisi  con  tanti nemici  non  han  temuto  niun  più  che  voi  ; e che  niente cercati  più  attenti  quanto  indebolire  Ya  vostra  nazione. E pigliandole  colle  arme, e devUmdovele  colle  speranze di  amicizia, ritengonsi  le  vostre  città  per  questo, appunto, perchè  unendovi  tutti  in  un  corpo  non portiate  su  loro  la  guerra.  Se  voi  dunque  a vicenda persevererete  procurando  il  contrario  ; e se  avrete  come ora, tutti  un  animo  per  la  guerra  ; Jacìlmente abbcUterete  la  loro  potenza. Vili.  E poiché  ricercale  il  parer  mio  sul  modo  di entrate  in  campo  e dirigervi,  sia  per  attestato  della esperienza  mia, sia  della  vostra  benevolenza, sia  per [ uno  e { altro  ; io  dirò  tutto, e senza  velo.  Primieramente vi  esorto  a vedere  che  vi  abbiate  una  causa religiosa  e giusta  di  guerra.  E come  religiosa,  come giusta, come  utile  insieme  ve  l’ abbiate  ( in  udite.  Picciolo, sterile, aveano  da  principio  i Romani  il  lor territorio, ma  vasto, e buono  è quel  che  vi  aggiunseio, togliendolo  a’  vicini  ; e se ciascuno  dei  derubati tipela  il  suo,  tiiutia  città  diverrà  quanto  Roma  picciola, debole, bisognosa.  Or  io  penso  che  voi  doiHate  i primi  cominciare.  Spedite  ambasciadori  che richiedano  le  vostre  città, quante  ne  tengono, e che intimino  loro  di  abbandonare, quanto  han  fabbricato per  le  vostre  campagne, e li  premano  a rendervi, quanto  si  hanno  di  vostro  appropriato  colle  armi:  nè vogliate  prima  che  vi  rispondano, romper  la  guerra. Cosi  facendo  otterrete  V una  o t altra  delle  cose  che più  bramate.  Vuol  dire, o ricupererete  le  cose  vostre, senza  pericoli  e spese  ; o rinvenuto  avrete  il  titolo onesto  e giusto  di  prender  le  arme  : giacché  tutti confesseran  per  bellissima  la  condotta  di  non  chieder r altrui, ma  il  proprio;  e di  combattere  in  fine  se non  ottengasi.  Or  su, qual  cosa  pensate, faranno  i Eomani  a tali  vostre  proposte  ? che  renderanno  forse le  vosUe  regioni  ? ma  qual  cosa  impedirebbe  più  mai che  lasciasser  tutto  t altrui?  se  verrebbero  poi  gli Equi  e gli  Albani, se  i Tirreni  e tanti  altri  a ripetere ognun  le  sue  terre.  O pensate  che  riterranno  le vostre  cose, nè  vorranno  affatto  la  giustizia  ? Così appunto  io  ne  penso.  Voi  dunque  protestandovi, i primi, offesi  da  loro;  e volgervi  per  sola  necessità alla  guerra  ; avrete  compagni, quanti  spogliati  de’ beni hanno  fin  qui  disperalo  ricuperarli  altrimenti, che per  le  arme.  Bellissima  è poi  la  occasione,  e di  cui non  avrete  mai  più  la  simile  per  andar  su  Bomani, preparata  fuori  di  ogni  speranza  dalla  sorte  propizia agli  offesi;  perciocché  li  Romani,  discordi  e sospetti fra  loro  a vicenda,  nemmeno  luin  capi  idonei  per  la guerra.  E questo  è quanto  io  poteva  suggerire  e raccomandar con  parole  agli  amici,  detto  lutto  con  cuor sincero  e benevolo  : quanto  poi  si  dovrà  provvedere  e compier  colle  opere,  lasciate  che  i duci  deli  armata lo  curino.  RispeUo  a me  son  per  voi, comunque  di me  disponiate;  e mi  sforzerò  di  non  riuscirvi  U pm ignobile  sia  de’  soldati  sia  de’  centurioni, sia  de'  capitani. Spendetemi  dove  pià  vi  son  uUle, e tenetevi cerio,  che  io,  che  già  contro  voi  guerreggiando,  tanto vi  ho  danneggiato;  ora,  per  voi  combattendo altrettanto vi  gioverò. IX.  Marcio  cosi  disse, e U Volsci, menlre  parlata ancora, davan  segno  di  gradirne  i discorsi  : ma  poi  che ucque, miti  a gran  voce  allesUrono  che  benissimo consigliava  ; e senza  concedere  che  altri  più  disputasse, ratificarono  il  parer  suo.  Quindi  stesone  il  decreto,  e scelti  immantinente  i personaggi  più  riguardevoli  di  ogni cillA, gl’  inviarono  ambasciadori  a Roma  : dichiararono Marcio  membro  de’ consigli  in  ogni  città,  e lo  auumzzarono  a conseguire  in  ciascuna  le  magistrature  e gli onori  più  grandi  che  vi  erano.  Per  altro  anche  innanzi le  risposte  de’  Romani, si  diedero  agli  apparecchi  di guerra.  E quanti  erano  ancora  disaaimali  per  le  perdite nelle  battaglie  antecedenti, tutù  si  rincorarono  quasi fossero  per  abbattere  la  potenza  Romana.  Gli  oratori spediti  a Roma, presentali  al  Senato, dissero, che  sarebbe a’  FoLsci  carissimo  cessare  le  controversie  coi Romani, e viverne  da  ora  innanzi  alleati  ed  amici senz  artifici  ed  inganni  : e dichiarano  che  stabile  sarà questa  fede  e quest'  amicizia, se  riabbiano  le  terre  e le  città  che  furono  tolta  loro  da’  Romani  : laddove  in altro  modo    pace  mai  vi  sarà, né  amicizia  coslan.  1-j te  ; giacché  V offeso  è naturalmente  in  guerra  perpetua colf  offensore.  Cliiecleaao  pertanto  di  non  essere colla  esclusione  delle  giuste  dimcuide  necessitati  alla guerra. X.  Detto  dò, fecero  i padri  ritirar  gli  oratori, e consullaron  fra  loro.  E cónchiusa  la  risposta  ^ li  riobia> maroQO  in  Senato, e dissero  : Conosciamo  o Fólsci che  voi  non  f amicizia  cercate  ; ma  pretesti  splendidi di  guerra  : perocché  ben  vedete  che  mai  vi  saran concedute  le  dimande, per  le  quali  venite, indegne, inammissibili.  Se  voi  date  ci  aveste  da  voi  stessi  e pentitine'  poi  ci  raddomandaste  le  vostre  terre  ; non sareste  affatto  oltraggiati, non  riavendole.  Ora  però voi  oltraggiate  noi, pretendendo  ciocché  è degli  altri: giacché  non  eravate  voi  gli  arbitri  delle  terre, se  la légge  delle  armi  ve  le  toglieva.  ^ noi  teniam  per giustissimo  quanto  possediamo. per  le  vittorie  : nè primi  noi  abbiamo  fondata  questa  legge, nè  la  crediamo degli  uomini, anziché  degli  Dei.  E se  i Greci, se  i barbari  tutti  se  ne  valgono  ; noi  non  tlaremo  già in  ciò  segrà  di  debolezza, nè  renderemo  punto  delle nostre  conquiste.  Imperocché  ben  sarebbe  vituperosissima cosa  lasciarsi  per  timore  e per  stoltezza  ritogliere ciò  che  per  senno  e per  nuignanimità  si  possiede. Noi    a combattere  vi  necessitiamo, se  non volete  ; nè  se  volete, ve  ne  ritiriamo.  La  rispingeremo, se  ce  la  incominciate, la  guerra.  Riportate  ai Folsci  queste  risposte,  e dite,  che  se  pigliano  essi i primi  le  arme, noi  gli  ultimi  lo  deporremo, Diomai, tomo  ut. Prese  qpeste  risposle  Je  riferirono  gli  tmibascia dori  al  Comune  de  Volaci.  E convocato  di  bel  nuovo U Consiglio,  si  concbiuse  in  fine  d’ intimare  a nome  di tutta  la  nazione  la  guerra  ai  Romani.  Quindi  scelsero Tulio  e Marcio  con  assoluto  potere  capitani  di  tutta  1’  armata, e decretarono  che  si  ascrivesser  milizie, si  contribuisser  danari,  c si  facessero  altri  apparecchi,  quanti ne  vedean  necessarj  per  la  impresa. 'E  già  essendo  per isciogliersi  l’ adunanza  ; Mar.io  levatosi  in  piè  disse  e Bonissimo  è quanto  si  è qui  decretato  dal  vostro  Comune ; e facciasi  pur  tutto  a suo  tempo.  Intanto  però che  qui  scrivonsi  le  milizie, e preparansi  le  altre  cose che  dimandano  cura  e tempo  ; io  e Tulio  ci  porremo in  su  r opera..  Seguite  noi,  quanti  volete, saccheggiando le  campagne  nemiche, partecipare  a gran  prede. Io  vi  prometto, se  il  del  ne  ajuta, molti  e grandi vantaggi.  Li  Romani  non  sonasi  ancora  apparecchiati, vedendo  che  noi  non  abbiamo  riunito  le  forze;  sicché potremo  senza  paura  scorrere  a nostro  bell  agio  tutte le  loro  campagne. Accettato  da’ Volsci  anche  questo  partito,  j duci uscirono  immantinente, e prima  che  in  Roma  se ne sapesse, con  molta  soldatesca  volontaria.  Tulio  si  gettò con  parte  di  essa  nel  territorio  latino  per  impedire  i soccorsi  che  di    ne  andrebbero  al  nemici, e Marcio guidò  le  altre  aUe  campagne  di  Roma.  11  male  giunse improvviso  a quelli  che  vi  erano  ; e. caddero  in  poter de' nemici  molti  ingenui  Romani  e molti  schiavi;  e bovi  e giumenti’,  ed  altro  bestiame  non  poco.  Quanto era  derelitto  di  grano, di  ferramenti, o di  altro  onde la  terra  cohirasi, tutto  fu  predato, o disfatto.  Dii  uU timo  recando  'fino  il  fuoco, lo  gettarono  i Volscl  pe’ca sali  ; tanto  che  quelli  che  ne  furono  spogliati, non  po3  secondo  Varrone  c 486  aranii  Cristo. perocché  ne  andarono  ai  Volsci  appena  si  ebbe  la  guep. ra, e concordarono, e giurarono  T alleanza.  Or  questi spedirono  a Marcio  la  milizia  più  numerosa  e più  risolutai.  Dato  da  questi  un  principio, molti  altri  ancora favorivano  occultamente  i Volsci  ; mandando  loro  dei sussidi  non  però  per  decreto  o pubblica  approvazione. E se  taluno  de’  loro  voleva  a quelli  coogiungersi',  've gl’  incitavano, non  che  gl’  impedissero.  Dond’  è che  i Volsci  accozzarono  in  breve  tempo  tanta  milizia,  quanta mai  più  per  addietro, nemmen  quando  le  loro  città  più 6orìvano.  Marcio  che  ne  era  il  duce  la  gittò  di  bel  nuovo su  le  campagne  di  Roma  ; e tenendovisi  molti  giorni, devastò  quanto  crasi  lasciato  nella  prima  incursione.  Non prése  però  questa  volta  prigionieri  molti  ingenui  uomini, giacché,  raccolte  le  cose  più  pregévoli,  ransl questi  ritirati^  in  Roma o ne’  castelli  più  vicini, e meglio fortiGcalj.  Ma  depredò  il  bestiame  che  non  arcano potpto  ridurre  altrove, e gli  uomini  che  lo  pasturavano, come  il  grano  tenuto  ancora  nelle  aje  ed  altri  prodotti che  raccoglie vanSi o che  erano  già  pe’ grana).  Cosi  derubata 6'  guastata  ogni  cosa, non  osando  alcuno  di conlrapporglisi,  riportò  nuovamente  in  patria  1’  esercito, carico  di  grandi  acquisti,  e quindi  lento  in  sua  marcia.   I Volsci  veduto'!’ ampio  guadagno,  e convintisi dell’  abbattimento  de’  Romani, che  predatori  già delle  robbe  altrui, miravano  ora  devastarsi  impunemente le  proprie;  ne  imbaldanzirono  soprammodo,  e concepirono pur  la  speranza  di  dominare, quasi  fosse  per loro  facilissima  e vicinissima  cosa  annientare  il  potere degli  avversar].  Adunque  facaano  agl’  Iddj  sacriBzj  di nngrauamento, oraavapo  i templi  ed  i pubblici  fori di  spoglie  che  dedicavano.  E tutti  iu  feste,  in  sollazzi, ammiravano  e celebravano  Marcio, qual  uomo  ipsignitaimo  fra  gli  altri  nella  guerra, e qual  duce  cui  ntun pareggiava  non  Romano,  non  Greco,  non  barbaro  cajiitano.. Soprattutto  lo  felicitavano  della  sua  prosperità  ; vedendo  che  quanto  intraprendeva, riuscivagji  tutto speditissimamenle, secondo  i disegni.  Tanto  che  ninn v’era  di  età  militare  il  qual, volesse  non  esser  con  lui; ma  spiccavansi,  e venivano  da  tutte  le  città  per  aver parte  nelle  sue  gesta. Il  duce, corroborato  ]’  ardore  dei Volici, e depresso  il  coor  de’  nemici, e ridottolo  ad irrisolutezza  indegna  de’  valentuomini, marciò  coll’  esereito  contro  le  città  che  alleate  di  essi  teneansi  ajncora fedeli:. ed  avendo  ben  tosto  apparecchiato  quanto  ricercavasi  per  gli  assedj, piombò  su’  Tolerini, gente  del, Lazio.  I Tolerini, preparatisi  molto  prima  per  la  gueiv ra, e portalo  in  dllà, quanto^  bisognavacl  della  campagna, ne  scontraron  l’ assalto.  Ben  resisterono  alcup tempo, combattendo  e ferendo  ip  copia  i nemici,  dalle mura, ma  risospinti  è travagliati  poi  fino  a sera  dai feombolierì, le  abbandonarono  in  gran  parte.  Marcio, compreso  ciò, diede  ordine  ad  altri  che  applicasser  le scalchila  parte  derelitta  del  ricinto:  ed  egli  ne  àndò col  fior  de’  bravi  alle  porte  ; sebbene  infestato  cogli strali  dalle  torri  : e là  ^^zzali  i  serragli, il  primo  si mise  in  città:  ma  perciocché  si  era  disposta  alle  porte una  schiera  folla  e poderosa  di  nemici;  questi  lo  riceverono virilmente  ; disputandogli  lungo  tempo  intrepidi r intento, finché  perdutine  molti, dieder  volta, e sbanduiì  fuj^ronsi  jier  le  vie.  Gl  insegoi  Marno, acciden(Ione  c|uanli  ne  sopraggiangeva  ; se  'gettate  le  anni  non volgeansi  alle  preghiera.  lolanto  gli  asc^i  per  le  scale impadronironsi  delle  mura.  Cosi  la  città  fu  presa, e Marcio separò  dalle  prede  quanto  era  donativo  pe'  numi, o decorazione  per  le  città  de’  Yolsci, abbandonando  il  rea’  soldati,  Aveanci  nell’acquisto  uomini, danari, grani; tanto  cUe  non  riuKl  facil  cosa  a vincitori  tor  via  tutto in  un  giorno.  Adunque  menandoselo, o trasportandolo successivamente  di  per  seslessi,   assalto, prese  ad  investirne  in  gran  parte le  mura.  I Bolani, aspettatane  1’  ora  conveniente, spalancano le  mura  ; e sboccandone  in  numero, a schiera, e con  ordine  ; si  avventano  su  quelli  che  stavano  a fronte: ed  uccisone  molti, e più  antera  feritine, e ridotti  gli altri  a turpissima  fuga, cioulraron  le  mura.  Marcio, che non  era  presente  al  sito  dell’  inforinnio, conosciuta  la  fuga de  Volsci  accorse  di  tutta  fretta  con  pochi  : e raccogliendo quei  che  vagavan  dispersi, li  ticongiun^  e rìaoimò  : poi riordinatili,  edimostrato  ciocch’ era  da  fare;  comandò loro  di  attaccar  la  città  verso  le  porte  appunto.  Ricorsero i Bedani  a’  tentativi  medesimi, emergendo  in  gran mollitudine  dalie  porte.  Non  gli  aspettarono  i Volsci, ma  ripiegandosi  fuggirono  giù  pel  declivio  come  il  duce avea  già  suggerito.  Non  videro  i Bolani  l’ inganno, e tnoltissime  li  seguitarono  : quando  slontanatisi  già  dalle mura  ; Marcio  che  avea  seco  il  fiore  de’  giovani, diede su  loro  : e qui  molta  ne  fu  la  uccisione  ; fuggissero  o resistessero.  Seguitando  poi  li  respinti  fino  alle  porte, li prevenne;  internandovisi  a 'forza,  prima  che  si  richiudessero. Impadronito^si  il  duce  appeua  delle  porte  ; ecco giugnere  altra  moltitudine  di  Volaci.  Li  Bolani  abbandonate le  mura, rìpararonsi  nelle  case.  Divenuto  in  tal modo  r arbitro  anche  di  questa  città, concedette  a’  soldati di  farne  schiavi  gli  uomini, e di  porne  a sacco  le robe.  E trasportatane, come  altre  volte, successivamente, a grand’  agio, tutta  la  preda, abbandonò  la  città finalmente  alle  fiamme. Pigliando  quindi  1’  esercite, ne  andò  su’  Labicàni.  Eran  questi,  come  altri, 'Colonia  già  degli  Albani, ma  popolo  allora  ancb’  esso  dei  Latini.  Or  egli  per  atterrirli fin  dentio  le  mura, sparse, giuntovi  appena, su’Joro  campi  il  fuoco,  principalmente  in  quelli  donde era  .per  essere  più  visibile.  Ma  i Labicani, avendo  ben fortificate  le  mora    sbigottirono  p?r  1’  arrivo  di  lui, nè  diedero  segno  alcuno  di  debolezza  : ma  si  opposero e pugnarono  generosamente;  trabalzandoli  piùjvolte  fin da  sopra  le  mura.  Non  però  resisterono ' con  successo; combattendo  pochi  contro  di  molli, e senza  requie  mai, nemmen  picciolissima  i giacché 'frequenti  erano  intorno la  città  gli  assalti  successivi  de’  Volsci  ; ritirandosene  via via  gli  stanchi, e cimentandosi  altri  l'ecpnti.  Adunque data  per  un  intero  giorno  battaglia,    fattasi  pausa emmen  su  la  notte-,  furono  dalla  stanchezza  astretti  a lasciare  in  fine  le  mura.  Marcio,  espugnatele,  ne  rendè é schiavi  li  cittadini, e dté  tutto  in  preda  a’  soldati.  Di  là trasferendo  1’  esèrcito  io  ordinanza  contro  la  città'  de’  Pedani, Latina  anch’  essa  di  popolo, la  pigliò  di  forza, giuntovi  appena.  E trattatala  come  le'  altre  già  prese, levandone  in  su  1’  alba  le  truppe, le  menò  béntotfto  sa Corbione.  Ma  nell'  approssirharvisi  gli  abitanti  1’  apersero, ed  uscirongli  incontro, presentando  simboli  di  pace, e la  ' resa  loro  senza  combattcrè.  Ed  egli, encomiatili  come savj  nel  provvedere  a séslessi, comandò  che  gli  portassero grano  ed  argento, come  l’ esercito  ne  bisognava  ; e ricevuto  tutto  secondo  i comandi, marciò  co  snoi  contro Coriolo.  Gederonò  gli  abitanti  pur  questa  senza  resistenza ; ma  perciocché  con  pienissima  propensione  supplirono viveri,  danari,  e quanto  Kn  chiese, nè  ritirò 1  armata  ; come  su  territorio  àmico.  E per  fermo  ; egli procurava!  con  ogni  sollecitudine  che  quelli  che  si  rendevano non  subissero  i mali  causati  dalla  guerra  ; ma riacquistassero,  intatte  le  loro  terre, e li  bestiami, e gli schiavi  che  aveano  lasciati  ne’  loro  poderi  : nè  permetteva che  le  truppe  alloggiassero  belle  città  di  essi  ; perchè non  fossevi  danno  di  furti  o prede, ma  le  accampava presso'  le  mura. XX.  Di 'qua  mosse  l’esercito  verso  Bovilla    città cospicua  allora  è contata  tra  le  primarie  de’ Ladini,  che   Nel  lesto  dice  Boia:  ma  forse  dee  leggersi  Bovilta  \ percbl;' Coriolgoo  già  era  stato  ai  Toleriai, a Bota, a Labico, a Pedo,  a Corbipne, ed  a Coriolo. -Potrebbe  dubiigrsi  se  sia  scritto  Bovilla  nel $180  nel  presente  di  questo  libro  : Si  descrivono  tulle  due  come so  r alture  ; parlandovisi  di  declivj  ; e Boriila  eia  nella  via  Appia in  piano, secondo  Cloretio. erair  pochissime.  Nod  Io  accolsero  già  quei  che  v’  erano dentro,'  confidati  nelle  fortificazioni 'assai  vàlide,  e nel numero  dei  difensori.  Adunque  egli  eccitando  le  trupper a combattere  generosanaente, e proponendo  amplissimi premj. a’ primi  che  ne  salisser  le  mura;  si  accinse  all’as^ salto.  Or  qui  vivissima   sava  ; n^i  perchè, spalancate  le  porte ne  uscirono  in furia  ed  in  copia, e ne  incalzarono'  abbasso  quanti  ne erano  a fronte.  Assai  perirono  di  Voisci  in  quella  sortita, e diuturna  fu  la  zuffa  sopra  le  mura  ; sicché  mai più  speravano  d’ invaderle.  Ma  il  duce  supplendo  nuovi soldati  non  fe’ conoscere  la  perdita  degli  altri:  e raccese l’ardore  dei  vacillanti;  portandosi  egli ‘stesso  alla  parte di  esercito  che  pericolava  : Nè  spiravano  coraggio  i delti soli, ma  i fatti  ancora  'di  lui  : corse  a tutti  I pericoli, nè  lasciò  tebtativo, finché  non  si  preser  le  mura.  Irilpadronitosi  poi  della  città,  messa  parte  dei  vinti  a 61  di spada  per.  le  leggi  dei  forti, e parte  rendulala  schiava, ricotadusse  f esercito.  E^Ii  rimenavalo  dopo  una  segnalala vittoria  c^'co  di  spoglie  bellissime,  e ricco  de’  tanti  danari, ivi  presi, quanti  in  ninna  delle  città  coqquistate. Dopo  ciò  tutta  la  regione  percorsa  'Era  in  po ter  sùo, nè  più  gli  resisteva  ninna  'città  se  non  Lavinia, la -prima  delle  città  fondate  da’ Trojani  approdati  con Enea  nell’  Italia, dalla  quale  dm  vano  i Romani  come di  sopra  fu  dichiarato.  Gli  abitanti  pensavano  dover  prima incontrare  ogni  male,  che  'mancar  di  fede  ai  discendenti loro.  Adunque  vi  ebbero  attacchi  terribili  su  le mura,  e battaglie  veementi  per  le  forltficazioiu:^non  però sì  espugnarono  a prini  impeto  ; ma  parve  abbisògnarvt assedio, e tempo.  Postosene  Marcio  all’  assedio  cinse intorno  la  dtià  di  vailo  e fossa, e guardò  le  strade, perché  non  le  si  recassero  esterni  soccorsi  e viveri.  I Romani  udita  la  rovina  delle  città  vinte, compresa  la necessità  delle  Fendutesi  a Marcio, pressati  da’  messaggi quoiidiaid  delle  altre, fedeli  ancora, che  imploravano ajulo,,  spaventati  insieme  dalla  circonvallazione  che  tiravasi  intorno  Lavinia, e convinti  che  se  cadea  questo iurte  > la  guerra  verrebbe  addirittura  su  loro, crederono uno  solo  il  rimedio  a tanti  mali, decretare  il  ritorno  di Marcio.  Tutto  il  popolo,  gridava  questo, e li  tribuni voleano  lare. una  legge  per  annullarne  la  condanna  : ma^ li  patrizj  si  opposero,  ricusando  che  si ' annullassé  alcuna sentenza  enianàta.  E petuo.  Che  dunque  impedisce  che  rivenghi  alla  dolce, alla  carissima  vista  de' tuoi  pià  congiunti,  e ricuperi t amatissima  patria, e comandi,  come  ti  si  conviene, a chi  comanda,  e sii  duce  de' duci,  e ne  lasci  C amplissima gloria  a'  tuoi  figli  e nipoti  ? E che  tali  e tante  promesse  avran  prontissimo  effetto,  noi,  quanti qui  vedi, noi  tutti  ne  siamo  i mallevadori.  Finché  nè stai  di  fronte  col  campo  e colla  guerra, non  parve al  Senato    al  popolo  far  su  te  decisione  ninna  di clemenza  e di  moderazione  ; ma  se  ti  levi  dalle  arme, avrai, né  tardi, e noi  lo  porteremo, il  decreto del  tuo  ritorno. Tali  sono  i beni  se  alla  patria  ti  riconcilii: ma  se  ti  ostini, se  t odio  non  deponi  verso  noi  ; dure  e molte  ne  saranno  le  conseguenze  : ed  io  due le  pià  manifeste  te  ne  addito  ; vuol  dire  : la  prima che  avresti  il  barbaro  amore  di  un'ardua  anzi  impossibile cosa, di  abbattere  cioè  la  potenza  di  Roma, e colle  arme  de'  Volsci  : C altra  che  quando pure  tu  ben  ^ indirizzi  e riesca  alf  intento, ne  sarai creduto  il  pià  sciaurato  de'  mortali.  E perchè  io così  congetturi  su  te  ; lo  ascolta  o Marcio, nè  t’  inacerbare  sul  franco  mio  dire.  E prima  ne  intendi  la impossibilità.  Molta  è in  Roma, e tu  U>  sai,  la  gioventìi  paesana  : e se  le  si  tolga  ( e torrassele  per  la necessità  presente  in  tal  guerra  ) la  sedizione, racchetando il  timore  comune  tutti  i dissidj, non  pià  li V jIscì, ma  niuna  gente  d’ Italia  ci  abbatterrà.  Molte sono  le  milizie  de  Latirù, molte  quelle  degli  alleati, coloni  di  Roma, le  quali  aspettati  che  in  breve  giungano per  soccorrerci.  1 capitani, come  te, seniori  o giovani, tand  sono  di  moltitudine, quanti  in  tutte  lo altre  città  non  sono.  Ma  t ajuto  pià  grande  di  tutti, quello  che  non  ei  ha  mai  deluso  ne’ grandi  accidenti, e che  pili  vale  di  tutte  le  forze  degli  uomini,  è la beneifolenza  de’  numi, per  la  quale  teniamo  questa città  già  da  otto  generazioni  non  pur  libera,  ma  felice, ed  arbitra  di  tante  nazioni,  JVon  pareggiarci  ai Pedani, ai  Tollerim, agli  altri  popoletti, de’  quali sormontasti  le  cittadelle.  Anche  un  altro  duce  minore di  te, e con  esercita  minore  che  questa  tuo, violentato avrebbe  tali  fiacche  e poco  presidiate  munizioni. Ma  considera  la  grandezza  della  nostra  città, la luce  sua  per  tante  imprese  guerriere, e C ajuto  divino pel  quale, già  picchia, tanto  s’  inff-andì  : nè concepire  che  si  diversifichi  codesta  tua  forza  colla quale  vieni  a tanta  cimenta  : anzi  ricordati  che  un esercita  meni  di  Folsci  e di  Equi  che  noi  stessi  abbiam  vinta  in  tanto  battaglie  in  quante  osarono  di affrontarci  : Talché  ben  vedi  che  porti  a combattere i men  forti  contro  i pià  valorosi,  e chi  sempre  perdette contro  vincitori  costanti,  E quand’  anche  fosse il  contrario  ; pur  sarebbe  da  meravigliare, che  tu perita  di  guerra  non  sappi, che  ne'  pericoli  non  è pari  r artlire  in  ehi  difende  i suoi  beni, ed  in  chi cerca  gli  altrui  ; che  questi  se  non  vincono, niente  vi scapitano;  ma  niente  agli  altri  pià  resta,  se  perdonoE questa  principalmente  è la  causa  che  le  grandi armate  svaniscono  contro  le  piccole,  e le  migliori. contro  le  men  buone.  Chè  può  la  terribile  necessità, ponno  i pericoli  estremi  spirare'  corono  anche  ad indoli  che  non  ne  abbiano.  E quanto  alC arduità  deb r impresa  potrei  dire  piò  cose, ma  bastino  queste. Mi  resta  a fare  un  solo  discorso,  cui  se accompagnerai  colla  ragione  non  colf  ira, vedrai  che esso  è giusto, e ti  verrà  pentimento  del  procedere tuo  : ma  quat  è mai  questo  discorso  ? Gli  Dei  non concessero  a niuno  che  nasce  mortale  solida  scienza delt  avvenire  : nè  troverai  da  tutti  i secoli  alcuno  cui tutto  riuscisse  propizio  senza  mai  contrarietà  della sorte.  Perciò  li  piò  awanzati  in  prudenza, quale  il vivere  lungo  e la  molta  esperienza  la  recano, deano prima  di  accingersi  ad  una  impresa  considerarne  il termine,  non  solo  se  riesca  come  pur  lo  vorrebbono, ma  nel  caso  ancora  che  devii  dai  disegni:  e ciò  deano i comandanti  principalmente  delle  ‘ guerre, a'  quali, quanto  piò  essi  dispongono  gravissimi  affari,  tanto piò  tutti  ascrivon  la  origine  de'  buoni  o tristi  successi ; tal  che  se  vedono  esser  niuno, o ristretto  e piccolo  il  danno  dell'  azione  se  la  sbagliano, allora la  intraprendono, ma  se  vario  e grande  lo  vedono, la  tralasciano.  Or  fa  tu  similmente  ; prevedi  avanti di  operare  ciocché  sia  per  incontrarti, se  manchi, o se  tutto  non  ti  viene  a seconda  nella  guerra.  Tu  sarai colpevole  presso  gli  ospiti  tuoi  di  aver  tentato  imprese, grandi  piò  che  eseguibili.  Concepisci  ( nè  già lasceremo  impuniti  quelli  che  han  preso  ad  offenderci ) che  r esercito  nostro  vengavi  novamente  ^ e devasti  le  loro  campagne  : non  potrai  evitare, 0 di essere  obbrobriosamente  trucidato  da  quelli  a’  quali sei  causa  di  mali    grandi, o da  noi  che  ora  vieni per  uccidere  e per  soggiogare.  Forse  essi  stessi  innanzi di  patirne  alcun  male, tentando  far  pace  con noi  dovran  consegnarti  alla  patria  che  ti  punisca  : e già  Greci  e barbari  assai,  ridotti  a pari  vicende, dm'ettero  ciò  sopportare.  Or  ti  pajono  queste  picciolo cose, non  degne  a discorrerle, o tali  che  debbansi trascurare, o non  piuttosto  mali  estremi  a patirsi  ^ fra  tutti  i mali? XXVni.  Ma  via;  n abbi  tu  pure  il  buon  termine; e qual  frutto  allora  ne  avrai  così  desiderabile, così meraviglioso  ? qual  mai  gloria  ne  avrai  ? Deh  ! considera questo  ancora.  Ti  succederà  primieramente  di esser  privo  degli  obbietti  che  piò,  ami, e piò  ti  appartengono ; io  dico  della  madre  alla  quale  porgi amara  la  ricompensa  di  averti  generato  e nudrito,  e de'  tanti  travagli  che  sostenne  per  te  : dico  della  savia consorte  la  qual  vedova  e solitaria  sta  desiderandoti, e deplorando    e notte  il  tuo  esilio  : e finalmente de'  due  tuoi  figli  a quali  aspettavasi, come  ai posteri  di  egregj  progenitori, che  ne  percepissero pieni  di  fama  buona  gli  onori  se  la  patria  fosse  felice. Di  questi  tutti  sarai  costretto  a vedere  le  dolorose e sfortunate  catastrofi, se  ardirai  sospingere  fino alle  mura  la  guerra  ; giacché  a ninno  de'  tuoi  perdoneranno gli  altri  che  temono  pe'  ctai  loro, e che  patiscono disastri  eguali  da  te.  Concitati  dalla  propria calamità  doranti  terribilmente  e spietatamente  a balterli,  ad  ingiuriarli,  e far  loro  ogni  specie  di  vilipendj  : e di  ciò  non  questi  che  il  fanno  ma  tu  ne sei  r autore, che  ve  gli  astringi.  Tali  i frutti  sono che  gusterai, se  ti  giunge  V intento.  Or  su  contempla la  lode  che  te  ne  avrai, la  emulazione,  gli  onori,  cose tutte  desiderevoli  a buoni:  Z’  uccisore  sarai  nominato della  madre, C uccisore  de'  figli, il  traditore  della consorte  y la  rovina  della  patria.  £ ninno  buono, niun  giusto  vorrà, dovunque  tu  capiti,  partecipare  ai tuoi  sagrifizj, alle  tue  libagiorU, al  tuo  consorzio  : nè  sarai  caro  a quelli  nemmeno  per  la  benevolenza de’  quali  ciò  fai  : ma  godendo  dascun  d'essi  il  frutto della  tua  empietà, detesteranno  la  ostinazion  del  tuo cuore.  Lascio  di  dire  come  senza  /’  odio  che  avrai  fin da  piò  miti, ti  sarà  intorno  la  invidia  [non  piccola degli  eguali, il  sospetto  degl’  inferiori, e per  queste due  emise, le  insidie, c ta/ui  altri  infortunj, quanti è verisimile  che  sopravvengano  ad  un  uomo,  privo  di amici  in  terra  di  estranei.  Lascio  di  dire  le  furie  che ispiransi  da’  numi  e da’  genj  negli  empj  e ne’  facinorosi, dalle  quali,  straziati  ne’  corpi  e nelC  anima, vivono  sciaurata  la  vita, aspettandone  misera  ancora la  fine.  Tali  cose  considerando  o Marcio  ' correggiti  ; e cessa  d’ inseguir  la  tua  patria.  Riguardando  la sorte  come  autrice  de’  mali  che  hai  da  noi  tollerato,  o fatto  a noi, toma  felicissimo  a'  tuoi, ricevi  gli empiessi  carissimi  della  tua  madre, le  amorevolezze soavissime  della  tua  sposa, ed  i baci  dolcissimi  dei • tuoi  figli  :  almen  simili  cose  di  sè.  Ma  qual  altro  può gloriarsi  o centurione, o comandante  d aver  presa come  io  la  città  de’  Coriolani  f  O qual  altro  in un  giorno  stesso  ruppe  f annetta  nemica  come  io  ruppi quella  degli  .daziati,  che  veniva  per  soccorrere  gli assediati  7 Lascio  di  ricordare  che  dopo  tesi  pegni  di tnrtà  potendo  io  prendere  in  copia  dalle  prede  oro, argettto, schiavi,  giumenti,  gceggie, e terre  vaste,  e feconde, non  volli  : ma  intento  a serbarmi  principalmente senza  invidia,  pigliai  per  me  solamente  dalle prede  un  cavallo  militare, e da  prigionieri  t ospite mio, ponendo  tutto  il  resto  ad  util  comune.  Dite  : era  io  per  tanto  degno  di  premj  o di  pene  ? Dovea subire  la  legge  da’  vilissimi  cittadini, o darla  io  loro ? O non  mi  espulse  il  popolo  pcf  questo, ma  per  La  lode  h,  perebt  Coriolano  prese  con  pochi  la  città,  sema essere  ni  ooniaodanle,    tribuno,  a' qMii  sarebbe  alato  unto  piti facile  invaderla  colle  milisie  dipendenti.  chè  io  era  nel  retto  della  vita,  un  intemperante, un suntuoso,  un  senza  leggi?  Ma  chi  potrà  dimostrarmi un  solo,  pe  miei  piacer  non  legittimi  esule  dalla  pa^ trio,  spogliato  dalla  libertà,  privato  degli  averi,  o ridotto  ad  altra  sciagura  qualunque  ? se  nemmeno  i nemici  mai  di  tali  cose  m’  incolparono  o calunniarono, contestando  anzi  tutti  come  irreprensibile  la  vita mia  quotidiana?  La  scelta,  dirà  taluno,  abbonila de  tuoi  governamenti  ti  procacciò  questo  male  ; Ut polendo  eleggere  il  meglio  ti  appigliavi  al  peggiore  : e dicesti  e facesti  tutto  perchè  in  patria  cadesse  il comando  degli  Ottimati,  e s' impadronisse  del  comune la  moltitudine  imperita, e scellerata,  O Minucio  ! Ben  io  mi  adoperava  in  contrario, e provvedeva  che il  Senato,  maneggiasse  in  perpetuo  il  comune, e restasse la  patria  forma  di  governo.  Per  tali  belli  stabilimenti, creduti    pregievoli  da’  nostri  antenati, io me  n ebbi  dalla  patria  la  si  fausta  e beata  ricompensa, cacciatone  non  solo  dal  popolo, o Minucio, ma  molto  innanzi  pur  dal  Senato, il  quale,  quando io  mi  opposi  a'  tribuni  che  m incolpavano  di  tirannide, mi  animò  da  principio  con  vane  speranze,  quasi osso  fosse  per  operare  la  mia  sicurezza, ma  poi  temendo de’  plebei  mi  si  distolse, e mi  cedette  a’  nemici. O Minucio  ! tu  eri  console  quando  faceveui  il previo  decreto  pel  giudizio,  e quando  Falerio,  cita tanto  ne  fu  lodato, esortava  col  dir  suo, che  io fossi  al  popolo  consegnato.  Ed  io  temendo  dal  Senato un  decreto  che  mi  consegnasse  ; condiscesi, e promisi  di  andare  f e presentarmi  io  stesso  in  giudizio. Ma  dP  Minucio, rispondi  : parvi  al  popolo solo, o pure  al  Senato  ancora  io  parvi  degno di  castigo  per  lo  buon  inaneggio  e condotta  mia  pubblica ? Se  così  edlora  a tutti  ne  parve  ; e tutti  mi scacciavate;  egli  è chiaro  che  quanti  così  deliberavate, odiavate  allora  la  giustizia,    restava  in  Roma  alcun luogo  che  sostenesse  il  bene.  Che  se  il  Senato, violentato, si  rendette  al  popolo, e quella  fu  /’  opera  della  necessità  non  del  cuore  ; confessate  che  siete il  gioco  degli  scellerati,    resta  al  Senato  podestà niuna  su  qurmto  mai  scelga,  E ciò  stando, mi  chiederete che  io  men  venga  ad  una  città  dove  i buoni son  vittima  dei  ribaldi?  Troppo  di  stolidità  mi  condannate ! Or  su:  diamo  che  io  persuadami,  e che deposta, come  chiedete, la  guerra, ne  andiamo  ; qual  sarà  dopo  ciò  f animo  mio  ? quale  la  vita  ? Sebbene  eletto  il  partito  piò  sicuro  e meno  pericoloso t cercando  io  poi  li  magistrati,  gli  onori,  ed  altro che  io  credo  competermi, soffrirò  di  adulare  la turba  che  li  dispensa?  vilissimo  diventerei  di  magnanimo, e niente  più  V antica  virtù  mi  gioverebbe.  O restando  ne’  miei  costumi, e serbando  le  istituzioni mie  del  viver  civile  mi  opporrò  a quelli  che  diverse ne  sieguono  ? Or  non  è manifesto  che  il  popolo  di nuovo  mi  combatterebbe, che  a nuove  pene  mi  citerebbe, cominciando  l'accusa  da  questo,  che  io  ridonato da  esso  alla  patria, pure  ai  piaceri  di  lui  non mi  conformo  ? Certo  non  dee  dirsi  cdtrimente.  E qui sorgerà  tal  altro  insolente  tribuno  che  simile  agl'Icilj ed  ai  Decj  m incolpi  di  scindere  i cittadini  fra  lorOf d insidiare  il  popolo, di  tradire  la  patria  a'  nemici, di  tentare, come  Decio  me  ne  imputava, la  tirannide, o taC  altra  ingiustizia, come  ad  esso  ne  paja; giacché  non  mancano  a chi  ti  odia  i pretesti.  Pro durransi  dopo  queste, nè  già  tardi, le  imputazioni ancora  su  le  cose  da  me  fatte  in  tal  guerra,  che  io percossi  la  vostra  regione,  che  rapii  prede,  che  espugnai città,  che  di  quelli  che  le  difendevano  parte  ne uccisi,  e parte  a’  nemici  li  consegnai.  E se  gli  accusatori allegheran  tali  cause  ; che  dirò  io  per  ispedirmene  ? o con  quale  soccorso  sosterrommi  ? Non  è dunque  chiaro  o.  Minucio  che  belle v'  avete, ma  pur  finte  le  parole, e che  un  bel  velo date  ad  un  impuro  disegno  ? Non  a me  concedete  il ritorno  ; ma  vittima  al  popolo  me  portate  ; e forse ( giacché  buone  idee  su  voi  non  mi  vengono  ) vi  siete concertali  a ciò  fare, seppure  ciò  non  voleste,  senza prevedere  ( e vi  si  accordi  ) i mali  che  ne  avrei  da soffrire.  Or  che  varrebbemi  la  vostra  ignoranza  ? che  la  vostra  stoltezza  ? se  non  potreste, anche  volendo, niente  impedire, necessitati  di  concedere  anche questa  colle  altre  cose  alla  plebe.  Se  non  che non  piti  bisognan  parole  a mostrare  che  questa,  che io  chiamo  via  prontissima  di  rovina  : niente, sebben voi  la  chiamate  ritorno, gioverammi  per  la  salvezza. Che  poi  ( giacche  m'  invitavi  a riguardare  ancor  questo ) niente  o Minucio  mi  giovi  per  la  buona  fama, niente  per  P onore, niente  per  la  pietade, anzi  che io  opererei  turpissimamente  ed  empiiss imamente  se  a voi  mi  rendessi;  ascoltalo  dalla  mia  parte.  Io  militai già  contro  questi  Folsci, e molto  nel  militare  li danneggiai  ; procacciando  alla  patria  impero, forza, chiarezza.  Non  convenivasi  thè  io  fossi  onorato  dai beneficati, ed  abborrito  dagli  offesi  ? jdppunto  ; se a ragion  si  operava.  Ma  la  sorte  perverti  tutto, e rivolse  ciocché  t uno  e C altro  mi  doveano  in  contrario. Voi  per  le  cose  onde  io  era  a questi  nemico, mi  spogliaste  di  tutto  il  mio,  e, quasi  ciò  fosse  nulla, mi  bandiste  : laddove, questi  che  avean  tanto infortunio  da  me, mi  raccolsero  questi  nelle  proprie città  povero, abbietto, senta  casa  e senza  patriaNè  bastando  loro  questo  splendido, questo  generosissimo tratto  ; mi  han  conceduto  cittadinanza, magistrature y onori, quanti  ven  sono  piti  grandi  in  tutte le  loro  città.  Ma  lasciamo  questo  : ora  mi  han  fatto comandante  assoluto  delV  esercito  posto  oltra  iete  a chiedere, e non  4^  me, la  pace  o la  tregua. Tuttavìa  non  vi  do  questa  risposta  : ma  venerando gl’  Jddj  patenti, rispettando  le  tombe  avite, commiserando la  terra  ove  nacqui, le  femmine, i fanciulli non  degni  che  su  di  essi  ricadano  le  colpe  de’  genitori e degli  altri  ; e j nommen  che  per  questo  o Minucio, in  grazia  di  voi  che  foste  qua  deputati  dalla città  ; vi  rispondo, che  se  i Romani  rendono  ai  folsci  le  terre  tolte  loro, e le  città  che  ne  tengono, richiamandone i proprj  coloni;  se  fanno  pace  con  essi  comunanza  perpetua  di  diritti, come  co’  Latini, e giuramenti  ed  esecrazioni  contro  de’  violatori  de’  patti; io  do  fine  alla  guerra.  Annunziate  primieramente  ad essi  questo, poi, come  avete  presso  me  perorato, aringate  presso  loro  sul  giusto  : e quanto  è bella cosa  che  ognun  s’ abbia  il  suo, e vivasi  in  pace  : quanto  pregevole  che  niun  tema    i nemici, nè  i tempi  : e come  è biasimevole  che  chi  ritiene  l’  altrui si  esponga  senza  necessità  alla  guerra  con  pericolo delle  cose  anche  proprie.  Dimostrale  loro  che  non eguali  sono  i premj  vincendo  o perdendo  per  chi  appetisce r altrui  : e se  vi  piace  aggiungete, che  quelli che  han  voluto  prendere  le  città  degli  oltraggixti, se infine  poi  non  prevalgono, perdono  pur  la  terra, e la  città  loro, e vedono  malmenate  obbrobriosamente le  mogli,  portati  i figli  agli  affronti,  e li  padri  lorOj fatti  schiavi  di  liberi, nelC  estrema  vecchiezza  ; Persuadete insieme  il  Senato  che  dovrà  tanti  mali  alla stoltezza  sua  non  a Marcio.  Terocchè  potendo  fcàre  il giusto  ; potendo  non  incorrer  ne’  mali  ; corrono  agli ultimi  rischi, aspirando  sentpre  alC  altrui.  Questa  è la  risposta;    potreste  altra  averne  dame:  andate, ponderate  ciocché  a fare  v abbiate  : io  vi  do  trenta giorni  per  decidervi.  In  questo  tempo  ritiro  o Minwciò  in  riguardo  tuo  e degli  altri  t esercito  da  questi campi,  che  asscù  se  vi  rinuuiesse,  ne  sarebbero  danneggiati, Al  ventesimo  giorno  mi  ci  aspettate  a pigliarne la  risposta. Ciò  detto  sorse, e sciolse  1’  adunanza  : e nella  notte  seguente  presso  1’  ultima  vigilia  levò  l' esercito, e lo  condusse  OMilro  le  altre  città  Latine, sia  ebe realmente  fosse  persuaso  che  di    verrebbono  de’  sussid) a’  Romani, come  1’  ambasciadore  avea  detto, sia  che egli  ne  spargesse  la  voce  per  non  sembrare  d  interromper la  guerra  in  grazia  de’  nemici.  E piombando  sopra Longola, ed  impadronitosene  senza  fatica, e fattovi come  nelle  altre,  dei  schiavi, e delle  prede;  venne  alla città  de’  Satrìcani.  Presala, e tenutovisi  pitxiolo  tempo, ordinò  che  parte  dell’  esercito  recasse  le  spoglie  raccolte da  ambedue  queste  città  in  Eccetra, ed  egli  marciando coir  altra  parte  venne  a Ceda,  che  chiamano.  Otte nutala, e derubatala  -,  si  gittò  nel  teiritono  de’  Polu scani .  Non  valsero  nemmen  questi  a resistere  ; ed espugnatili, si  avanzò  verso  le  altre  città  : prese  di  as  Questa  Toce  è aiqbigaa.  Lirio  nooiioa  Tiebbia  ; ed  altri  ia questo  luogo  di  Oiooigi  vorrebbe  por  Silia  Seste  : ma  questa  par troppo  lootaaa  pel  viaggio  di  Marcio. (ij  Lapo  parve  leggere  Ttuelarù. salto  gli  Albieti  ed  i MugiUaui  ; e ricevette  a patti i Corani.  Divenuto  in  trenta  giorni  padrone  di  sette citti  ; si  rivolse  a Roma  con  più  milizie  che  prima  : e fermandosene  lontano  poco  più  che  trenta  stadj, si  accampò presso  la  via  Tuscoiana.  Intanto  che  prendeva  ed univa  a sé  le  città  de’  Latini, parve  ai  Romani, consultale lungamente  le  proposte  di  lai, di  non  far  cosa indegna  della  repubblica.  Pertanto, se  i Yolsci  partissero dal  territorio  loro, degli  alleati  e de’  sudditi, e lasciasser  la  guerra  e spedissero  ambasciadori  per  trattare la  pace  ; il  Senato  decidesse  allora  e ne  riferisse  al  popolo le  condizioni  : non  decidesse  però  mai  nulla  di umauo  su  loro, finché  stavano  con  ostili  maniere  su  le campagne  di  Roma  e degli  alleati.  Couciossiachè  li  Romani (Muervarono  sempre  altamente  di  non  far  mai  nulla pe  comandi, nè  pel  terror  de’  nemici  ; ma  di  compiacere, e contentare  gli  avversar]  pacificatisi,  e rendutisi, nelle  dimande  se  fosser  discrete.  E Roma  ha  mantenuto tale  sublimità  di  carattere  in  molti  e grandi  pericoli, nelle  guerre  co  cittadini  e cogli  esteri, e tuttavia  lo mantiene. Deliberate  tali  cose, il  Senato  scelse  am)>asciadori  altri  dieci  tra’  consolari, perchè  dimandassero a Marcio  che  non  desse  ordini  duri    indegni  di  Ro  Silbnrgio  sospetta  ebe  io  luogo  di  Albiètì  debba  leggersi  Lahitiiati  ciot  Laviniaui  di  Lauinio, la  presa  del  quale  era  stata  tralasciata, come  si  t veduto  di  sopra.  Il  cognome  di  Lucio  l'apirio Mugillaoo  prova  che  vi  ebbe  una  città  Multila  di  nome, donde tono  i MugiUani. montai. ama  Ili.  t Digitized  by  Google 5o  DELLE  Antichità’  romane ma, ma  deponessc  le  nimicizie, ritirasse  le  truppe  dal territorio, e cercasse  di  trattare  con  modi  persuasivi  e conciliativi, se  voleva  che  gli  accordi  tra  due  popoli fossero  permanenti  ed  eterni  ; giacché  gli  accordi  sia privati, sia  pubblici, conceduti  per  la  necessità  e pei tempi,  finiscono  appunto  co’ tempi  e colla  necessità.  Or questi, eletti  ambasciadori, non  si  tosto. udirono  l’ arrivo di  Marcio, andatine  a lui, dissero  assai  cose  atte a guadagnarlo, badando  di  non  offendere  co'  discorsi  la maestà  della  repubblica.  Marcio  però  non  rispose  altro se  non  che  consigliavali  ( e questa  era  1’  unica  tregua che  dava  ) a tornar  fra  tre  giorni  con  deliberazioni  migliori. E volendo  essi  replicare  ; non  lo  permise  : ma impose  che  partissero  immantinente  dal  campo.  E minacciando che  li  tratterebbe  come  spie  se  non  ubbidivano ; quelli  ammutoliti  partirono  incontanente.  I senatori quantunque  udite  le  risposte  ostinate  e le  minacce di  Marcio, pnre  non  decretarono  di  portare  1’  esercito di    dai  confini, sia  che  ne  temessero, come  raccolto in  gran  parte  di  fresco, la  inesperienza, sia  che  1’  abbattimento temessero  dei  consoli, poco  intraprendenti per  sestessi, e giudicassero  pericoloso  il  cimento  ; sia che  i segni  celesti  interdicessero  loro  quella  uscita  per mezzo  degli  uccelli, degli  oracoli  Sibillini, o di  altra visione  : cose  che  non  sapeano  gli  uomini  di  allora, come  i presenti, trascendere.  Adunque  deliberarono  di guardare  la  città  con  vigilantissima  cura,  e di  respingere dalle  fortificazioni  gli  aggressori. Ciò  fatto  e preparato  ; nè  tuttavia  disperando di  piegar  Marcio, se  lo  pressassero  con  deputazione  più  augusta  e più  grande, decretarono  che  pontefici ed  auguri,  e quanti  arcano  sacri  onori  e ministeri nelle  pubbliche  divine  cose  ( e molti  sono  fra  loro  e sacerdoti  e santi  ministri, e questi  i più  cospicui  pel sangue  paterno,  o pel  merito  proprio)  andassero  in  copia co’ simboli  delle  divinità  riverite  e festeggiate  in  Roma, e cinti  di  sacre  vesti, al  campo  nemico, e vi  replicassero gli  stessi  discorsi.  Giunti  questi, e dettovi  quanto aveano  dal  Senato, Marcio  non  rispose  nemmeno  ad essi  per  ciò  che  chiedevano;  ma  consigliò  che  partendo adempissero  gli  ordini  se  volevan  la  pace;  o la  guerra in  città  si  aspettassero  : del  resto  intimò  che  non  più ritornassero  a lui  per  far  parlamento.  Caduti  ancora  di questo  tentativo, e deposta  ogni  speranza  di  pace, si apparecchiavano  i Romani  per  1’  assedio  ;, collocando  i giovani  più  vigorosi  alle  fosse  ed  alle  porte, e li  veterani già  licenziati  ma  pur  buoni  ancor  per  le  armi, alle  murai Le  mogli  loro, quasi  approssimatasi  già  la tempesta, lasciato  il  decoro  col  quale  si  tenevano  in casa, correano  ai  templi  piangendo  ed  abbracciandosi a’  simulacri  de’  numi.  Ed  ogni  sacra  magione, specialmente  quella  di  Giove  in  Campidoglio,  risonava  di  ie minei  ululati  e di  suppliche  : in  questa  una  matrona preminente  per  lignaggio  e per  dignità  trovandosi  allora nei  meglio  degli  anni, attissima  a provveder  ciocché deesi  (Valeria  ne  era  il  nome)  sorella  di  quel  Poplicola  il  quale  aveali  già  liberati  dai  tiranni',  eccitata  da istinto  divino, si  fermò  nel  grado  più  alto  del  tempio, convocate  le  donne  compagne, primieramente  le  consolò  ed  animò  a non  smarrini  ne’  mali, poi  diede  a vedere  che  restavaci  una  speranza  di  scampo,  riposta in  loro  nniramente, se  faceano  quanto  era  d'uopo.  Allora r una  di  esse  ripigliò  : Con  quale  opera  nostra mai  potremo  noi  donne  salvcwe  la  patria, non  sapendo  più  fare  ciò  gli  uomini  ? E qual  forza  ahhiam  noi,  deboli,  sciaurate F E Valeria,  non  le  arme, disse, abbisognano, non  le  mani  ; dispensandoci  da ciò  la  natura,  ma  le  arnorevolezze  e la  persuasiva. Or  qui, fàltusi  clamore, e pregandola  tutte  a svelarlo se  pur  ci  avea  rimedio  alcuno, disse  : In  questo  lutto, in  questo  disordine  di  vestimenti  prendete  compagne anche  altre  donne,  e menando  con  voi  li  vostri  figli, ne  andiamo  in  casa  di  Veturia  la  madre  di  Marcio. E ponendo  i nostri  figli  dinanzi  le  ginocchia  di  essa, e lagrimando  ; scongiuriamola  che  impietosita  di  noi non  colpevoli  di  male  ninno,  e della  patria  ridotta  in pericolo  estremo, vada  al  campo  nemico  ; e vi  meni i suoi  nipoti,  la  madre  loro  e noi  tutte,  le  quali  la seguiremo  co'  nostri  figlioletti  : e che  interceditrice presso  del  figlio,  lo  dimandi,  lo  supplichi  a non  fare la  calamità  della  patria.  Lei  piangendo  e rimovendolo; nascerà  forse  alcuna  compassione  o mite  pensiero in  quesF  uomo, che  già non  ha  si  duro  ed  impenetrabile il  cuore  da  respingere  fin  la  madre  che  abbraccigli le  giruscchia. Poiché  le  astanti  ne  approvarono  il  dire;  ella supplicando  i numi  di  dare  persuasiva  e grazia  alle  istanze, loro  pari)  dal  tempio.  La  seguitarono  le  altre  ; e prese dopo  ciò  per  comp-igne  alti’e  donne, ne  andarono  in fòlla  alla  casa  della  madre  di  Marcio.  Volannia  la  mo glie  di  Marcio  seduta  presso  la  suocera  si  meravigliò nel  vederle, e disse  : E che  possiamo  noi  farvi, o donne, cito  in  tanta  moltitudine  venite  ad  una  casa di  sciagura  e di  aflizione?  E Valeria  soggiunse:  i?tdoUe  a pericoli  estremi  noi,  con  questi  fanciullelli, veniamo  a te  supplichevoli,  o Feturia,  per  implorare^ tonico  e solo  ajulo,  e primieramente  che  abbi  pietà della  patria  non  mai  fin  qui  stata  in  man  de'  nemici, eicchè  non  vegli  soffrire  che  ora  la  libertà  le  si  tolga dai  Folsci;  seppur  conquistando  la  patria  la  rispar~ mieranno,  non  la  struggeranno  dai  Jondamenti.  Dipoi per  noi  preghiamo  e per  questi  miseri  fgU,  sicché non  veniamo  tra  gli  strazj  degf  inimici,  noi  niente ree  de  mali  accaduti.  Se  un  cuor  ti  resta  in  parte  almeno, clemente  ed  umano;  deh!  tu  ne  compassiona, o F fluria, tu  donna, e tu  partecipe  de'  diritti  sacri, inviolati  delle  donne  :  prendi  teco  Folunnia,  questa ottima  donna,  e con  essa  i suoi  figli,  prendi  coi figli  nostri  pur  noi  supplichevoli  a un  tempo  e magnanime, e vieni  al  tuo  figlio, persuadi, insisti, ni dar  fine  alle  suppliche, finché  pe'  tanti  benefizj  tuoi non  ottieni  da  lui  che  si  rappacifichi  co’  suoi  cittadini, e rendasi  alla  patria  che  lo  ridomanda'.  Ut,  ben 10  sai,  trionferai  di  lui,  che  pietoso,  certo  te  non dispregierà  prostrata  a’  suoi  piedi.  E tu  riconducendo 11  figlio  tuo  alta  patria,  ne  avrai,  corni  è giusto, splendore  sempiterno, perchè  C avrai  liberala  da  tale ())  Meli’  uso  della  Religione  comune rischio  e terrore:  e sarai  cagione  a noi  di  essere  oHo~ rate  presso  degli  uomini  ; perchè  avremo  sciolta  la guerra  che  non  potè  da  essi  dissiparsi.  Parremo  cojI le  discendenti  veramente  delle  femmine  che  mediatrici terminarono  la  guerra  di  Romolo  co’  Sabini  ; e conm giunsero  duci  e nazioni,  e grande  renderono  di  piedola  la  città .  Magnìfica  sarà  t impresa,  o Feturia, d' aver  seco  riportato  il  figlio, d’aver  liberata  la patria  > salvate  le  sue  concittadine  ; e di  lasciare  ai posteri  suoi  luce  indelebile  di  virtù.  Dacci,  o Fetum ria, con  cuore  spontaneo  e vivido  questa  grazia  ; vieni, ti  accelera  ; poiché  grande, imminente  il  pericolo non  ammette  più  indugio, o consiglio. XLI.  Giù  detto, tutta  in  pianto, si  tacque.  E piangendo pur  esse,  e pregando  vivamente  le  compagne; iVeturia,  vinta  dalle  lagrime,  dopo  breve  silenzio,  disse: Foi  seguite, o Falena, leggera  e fiacca  speranza  ; promettendovi  un  ajulo  da  noi  ; donne  infelici.  Ben abbiamo  tenerezza  per  la  patria, e volontà  di  saL'ore I cittadini,  qualunque  mai  siano;  ma  la  potenza  e la efficacia  ne  mancano  per  compiere  ciocché  vogliamo. Marcio, o F ileria, ne  rifugge  da  che  il  popolo  fe’ di  lui  r amara  condanna, ed  odia  tutta  la  casa  insieme colla  patria.  E ciò  diciamo, sapendolo  da  Marcio stesso',  non  da  altri;  perocché  quando  soggiaciuto alla  condanna  venne  in  casa  in  mezzo  agli  amici, trovando  noi  addolorate, abbattute, co’  figli  suoi  su le  ginocchia, e che  piangevamo, corri  era  giusto, e   Vedi  1.  a,  $ 4^   espone  disicsantenle  tale  storia deploravamo  la  sorte  che  ci  soprastava  nel  perderlo  ; egli  fermatosi  alquanto  da  noi  lontano,  insensibile  come una  pietra,  e co’  sguardi  fissi,  partesi,  disse  ^ Marcio  da voi,  o madre,  o Volunnia  donna  bonissima,  cacciato  dai suoi  cittadini  perchè  prode,  perchè  amico  della  repubblica, e perchè  subito  ha  tanti  travagli  per  la  patria.  Voi  sostenete, come  si  conviene  a femmine  virtuose, tanta calamità, non  facendo  mai  nulla  d’ indegno, mai  nulla di  vile:  consolandovi  in  questi  fanciulli  sulla  mia  privazione, educateli  degni  di  noi, e della  stirpe.  Gli  Dei concedano  ad  essi, uomini  divenuti, sorte  più  buona  ; ma  virtù  non  minore.  Addio.  Io  vado, e lascio  questa città  che  più  non  cape  gli  onesti  uomini.  Addio  numi tutelari,  e tu  Vesta,  paterna  divinità,  e voi  quanti  siete Dei  di  questo  luogo.  Appena  ciò  disse, noi  misere, noi  dal  dolore  impedite,  scoppiando  in  gemiti,  e per^ cotendoci  il  petto  portai'amo  a lui,  per  riceverli  an~ cara, gli  amplessi  estremi  : ed  io  menava  meco  il maggiore  de’  figli, e la  madre  avevasi  in  braccio  il minore.  Quando  egli,  ritirandosi  e rispingendoci,  disse: Da  ora  innanzi  Marcio  non  più  sarà  tuo  figlio, o madre, togliendoti  la  patria  in  esso  il  sostenitore  della  tua cadente  età, nè  più  sarà  da  questo  giorno  il  tuo  sposo, o Volunnia:  ma  sii  pur  felice,  un  altro  cercandotene più  di  me  fortunato  : nè  più  sarà  padre  vostro o figli  carissimi:  ma  orfani  e solitarj  presso  queste  crescete fino  agli  anni  virili.  Ciò  detto, nè  soggiungendo altro,    comandando,  e non  significando  nemmeno ove  andasse, uscì  di  casa, o donne, solo, senza servi, in  disagio, senza  portare  seco  delC  aver  suo neppure  il  vitto  di  un  giorno.  E già  volge  t anno quarto  eh’  egli  fuggì  dalla  patria,  e riguarda  noi  tutto come  straniere, niente  scrivendo, niente  mandandoci a dire,  e niente  volendo  di  noi  risapere.  Or  presso un  cuore  si  duro, si  impenetrabile, o Troieria, qual forza  avranno  le  preghiere  di  noi  alle  quali  non  dava, partendo  £ ultima  volta, non  un  amplesso, non  un bacio, non  significazione  niuna    affetto? Che  se  tuttavia  domandate  voi  questo, e volete in  tutto  vederne  wniliate  ; concepite, che  io  e Volunnia  a lui  ci  presentiamo  co’  figli.  Quali  discorsi io  madre, dirìgo  la  prima, quali  preghiere  porgo  al mio  figlio  ? Dite, ammaestratemi.  Chiederò  che  per^ doni  a suoi  cittadini  da  quali  ( e senza  che  offesi  gli Oi’esse  ) fu  privato  della  patria  F Chiederò  che  inteneriscasi o compassioni  la  plebe,  che  su  lui  non  seppe intenerirsi, tré  compassionarlo?  Che  abbandoni  e tradisca quelli  che  esule  lo  hanno  raccolto, i quali  sebbene malmenati  già  un  tempo  da  lui  tanto  e sì  feralmente, pur  non  £ odio  gli  mostrarono  di  nemici, ma  la  benevolenza  di  amici  e di  congiunti  ? E con qual  cuore  pregherei  io  mai  questo  mio  figlio  che amasse  chi  lo  sterminava,  ed  oltraggiasse  chi  lo  salvava ? Non  sono  questi  i discorsi  di  una  madre  savia al  suo  figlio, non  di  una  moglie  al  marito  : nè  voi ci  astringete, o donne, che  imploriamo  da  lui  cose non  giuste  presso  degli  uomini,    pietose  presso  gli Iddii:  piuttosto  lasciate  noi  misere  nella  umiliamone ove  siamo  per  la  sorte, senza  che  noi  pure  svergfsgniamo  piu  ancora  noi  stesse. Taciutasi  lei,  surse  un  tanto  lamentarsi  di femmine,  e tale  un  pianto  ne  riinbotnbò,  che  udendosene i • clamori  per  gran  parte  della  cUlà, si  empierono di  popolo  le  vie  d’ intorno  la  casa.  Poi  rinovando  Valeria più  lunghe  e più  commoventi  preghiere, le  altre donne, com’  erano  congiunte  di  amicizia  o di  sangue con  r una  o l’ altra  di  loro, supplicavano  ancora  in atto  di  stringerne  le  ginocchia.  Tantoché  non  più  restendo  per  l’ afflizione  fra  tanto  piangere  e supplicare; cedette  infine  Vetutla, e promise  di  andarne  oratrice per  la  patria  co'  figli  e colla  moglie  di  Marcio, 'e^  con quante  cittadine  voleano.  Racconsolatesi  allora  vivaiùeuté, ed  invocati  i numi  a favorire  le  loro  speranze, partirono dàlia  casa, e nunziarono  ai  consoli  il  fatto.  E questi,  lodandone    buona  volontà,  convocarono  ed interrogarono  i padri, se  fosse  da  concedere  che  le femmine  ^uscissero.  Or  molto,  e da  molti  se  ue  disputò; tanto  che  giunti  a sera  dubitavano  ancora  ciocché  fosse da  fare.  Dicevano  molti  non  essere  piccolo  cimento  permettere che  le  donne  andassero  co’  figli  al  campo  dei nemici;  imperocché  se  questi,  spregiando  le  leggi  sacre degli  ambasciadori  e de’  supplichevoli, volessero  che  le femmine  non  più  'rìtornassero, prenderebbono  Roma senza  combattere.  Pertanto  consigliavano  che  si  lasciassero andare  a Marcio  solamente  le  donne  che  a lui  si appartenevano  insieme  cu’  figli.  Altri  però  giudicavano che  non  si  concedesse  che  andassero  nemmeno  rpieste; anzi  esortavano  di  custodirle  gelosamente, e di  considerai le  come  ostaggi  sicuiissimi,  perchè  la  città  nou  subuse  grave  disastro.  Per  l’ opposito  altri  proponevano che  si  accordasse  a quante  donne  volevano, di  uscire, perchè^  le  donne  congiunte  a Marcio, fornissero  con  ' più  dignità  la  mediazion  per  la  patria.  Dicevano  che non  succederebbe  ad  esse  niente  di  sinistro;  giacché  ne sarebbero  mallevadori  primieramente  i numi  col  favore santo  de’  quali  si  moveàno  ad  intercedere  ; e poscia  il duce  stesso  al  quale  ne  andavano, come  uomo  puro ed  inviolato  in  sua  vita  da  ogni  ingiusto  ed  empio  attentato. Vinse  finalmente  il  partito  che  accordava  alle dònne  di  andare,  e còn  decoro  amplissimo  di  ambedue; del  Senato  come  savio, perchè  vide  ciocché  era  a farsi il  migliore, senza  punto  turbarsi  al  grande  perìcolo  ; e di  Marcio  finalmente  per  la  sua  pietà,  perché  fh  confidato, che  niènte  oliraggerebbe  tal  parte  imbelle,  espostasi a lui  quantunque  egli  fosse  nemico.  Steso  il  decreto, e recausi  l consoli  al  Foro,  e raccoltovi  il  popolo,  essendo già  notte, vi  palesarouò  il  voler  del  Senato, e preordinarono, che  tutti  al  nuovo  giorno  accorresserò  alle porte  per  accompagnarvi  le  donne  che  uscireld)ero.  Busi frattanto,  diceano,  che  curerebbero  quanto  era  d'uopo. Era  ornai  l’alba  vicina;,  quando  le  donne  portando i figli  loro, andarono  colle  faci, e presa  in  sua casa  Vcinrìa, la  condussero  alle  porte.  I consoli  idlesUte  mule  da  tiro,  e carri, ed  altri  trasporti  moltissimi, ve  le  acconciarono,  e seguironle  per, lungo  tratto: le  accommiatavano  intanto  i senatori  ed  altri  in  buon numero  con  auguri,  con  preghiere,  con  eocomj, rendendone cosi  più  dignitoso  il  viaggio.  Come  si  potè dal  campo  distinguere, che  donne, lontane  ancora, si àvanzavano, Marcio  spedi  de’  cavalieri  per  apprendere che  fosse  quella  moltitudine, e perehé  dalla  catti  ne veoisse.  E risapendo  da  loro  che  venivano  le  donne Romane  oo  6gli, e che  innanzi  -di  tutte  era  la  madre di  lui,  e la  moglie  co’  figli  suoi;  stupì  da  principio  che femmine  potessero  aver  cuore  di  avanzarsi  co’  Ggli  senza guardie  al  campo  nemico, e darsi  a vederè  ad  uomini insoliti, lasciata  la  verecondia  conveniente   a matrone ingenue  e pudiche, e la  paura  del  pericolo  nel  quale incorrerebbero, se  questi  volgendosi  airutile  più  che  al giusto, volessero  acquistarle,. e giovarsene.  Ma  posciacbè  furono  vicine, deliberò  di  uscire  dal  campo  con alquanti  ' verso  la  madre, comandando  ai  littori  che quapdo  le  fossero  dappresso  deponessero  le  scuri, e le abbassassero  i fasci.  Usavano  i Romani  questo  rito  quando i magistrati  minori  s’  incontravano  co’  maggiori  ; ed  il rito  persevera  ancora.  Osservò  Marcio  allora  tal  pratica, e rimosse  tutti  i segnali  dell’  autorità  sua  ; quasi  egli dovesse  presentarsi  ad  una  autorità  maggiore  : tanta  fa la  riverenza, tanta'  la  sollecitudine  sua  per  la  pietà verso  la  madre. Fattisi  ornai  vicini, si  avanzò  la  prima  per riceverlo  la  madre, ahi  ! quanto  miseranda, squallida vestunenti, e logora  gli  occhi  dal  piatito.  Come  la vide, Marcio, duro, imperturbabile  fin’  allóra  contro tutti  gli  assalti, non  più  valse  a persistere  nel  proposito suo:  ma  vinto  dagli  affetti  del  cuore  umano  corse, la  strinse, la  baciò, la  chiamò  con  tenerissimi  nomi:  e molto  lagrimandone, e curandone  ; la  sostenne,  mentre venuta  meno  abbandonavasi  a terra.  Soddisfiitta  la  tenerezza  sna  verso  la  madre, ricevendo  la  donna  sna  che sea  veniva  co’  figli  disse  ^ Fornisti  o Koluimia  gli  offizj  di  ottima  donna, > uh’endoli  presso  la  mia  genitrice: ed  io  godo  come  su  dono  dolcissimo  infia tutti,  che  non  t qhbandonasli  nella  sua  solitudine. Dopo  ciò  chiamato  a sé  1’  uno  e l’altro  de’  figli, e carezzatili come  si  conveniva  ; si  rivolse  noVamente  alla madre,  invitandola  a dire  per  qual  fine  veniva:  ed  ella soggiunse  che  il  direbbe, udendola  tutti  ; giacché  non chiederebbe  se  non  giustissime  cose.  Lo  esortava  dunque che  sedesse  nel  luogo  appunto  dal  quale  solea  far  giustizia a’  suoi  militari.  Con  piacere  udì  Marcio  la  proposta, pen    varrebbesi  di  assai  più  regioni  per  rispondere alle  istanze  .di  essa, e darebbe  dv  opportunissimo luogo  fra  la  turba  la  risposta .  Adunque  recatosi  al tribunal  militare  fe  da  indi  rimovere  e calarne  al  pianteiTeno  la  sedia, giudicando  non  dover  lui  tenersi  p’ù alto  che  la  madre, nè  còn  maestà  niuna  contro  di  lei. Poi  fatti  sedere  presso  di    li  più  cospicui  de’  capitani e dei  centurioni, e lasciando  che  intervenissero  quanti volevano  ; significò  alla  madre  che  incominciasse. Veluria, poste  innanzi  del  tribunale  la  donna di  Marcio  co’  figli  e le  altre  più  ragguardevoli  tra  le Romane, ' pHmieramente  rivolti  gli  occhi  alla  terra, pianse  lungamente, p mosse  tenera  compassione  negli astanti  : poi  raccogliendo    stessa  disse  : Le  donne, o   Perché  sarebbe  siala  risposta  pubblica;  udendolo  cbi  Tclcea  ; e perché  cjuel  luogo  stesso,  di  dignità  e di  comando  aerebbé  ricordalo Ila  madre  le  ubbligaiionf  Che  egli  arcTa  co'  Votaci. (a)  Anni  di  Roma  a06  sccoodu  Calorie,  a63  secondo  Varoue, e 4^  arami  Criaio. Marcio  figlio,  considerando  gC  info rtunj  che  su  di esse  piomberebbero  se  la  città  divenisse  de  nemici, diffidatesi  di  ogn  altro  soccorso, poiché  tu  davi  le  sì dure,  le    ostinate  risposte  agU  uomini  che  chiedeano un  fine  alla  guerra  ; queste  donne, o Marcio ^co’  /?glioletti, in  questo  lugubre  apparato  ricorsero  a me tuà  madre, ed  a V olunnia  tua  sposa  per  supplicarci 'a  non  permettere  che  avessero  tanto  male  ‘da  te,  più che  da  ogn  altro, esse  cfie  non  ci  aveano  offeso punto    pocO',  e che  grande  ci  aveano  dimostrata la  benevolenza  nella  nostra  sorte  felice,  e viva  nommeno  la  compassione  quando  ne  dec'ademmo.  Noi  ben possiamo  testificarti  che  dalf  ora  che  tu  lasciavi  la patria, daW  ora  che  noi  restavamo  derelitte  nella  solitudine, e nel  nulla, esse  di  continuo  ci  visitarono, ci  consoletrono, e piansero  al  pianto  nostro.  Memori di  tanto  io  e questa  tua  donna, coabilatHce  mia, non  abbiamo  già  ripudiato  le  loro  preghiere, ma preso  abbiam  cuore  di  cercarti  ; e pregarti, corno  ci atìdimandavano, per  la  patria. E lei  parlan(h>  ancord, Marcio  ripigliava  : rnadre  ! se'  tu  venuta  per  un  impossibile, venendomi a chiedere, che  io  Iralisca  quelli  che  mi  hanno  ricettato a quelli  che  mi  bandivano, quelli  che  mi  donavann  i beni,  più  grandi  fra  gli  uomini  a quelli  che tutto  il  mio  rn  involavano.  Io  pigliando  questo  cofnando,  dos  a malle\'adori  i genj  ed  i numi,,  che  non  avrei tiadito  gU  ospiti  miei,    finita  la  guerra  se  cosi  non fosse  piaciuto  a tutti  i Volsci.  Pertanto  adorando gt  Iddìi  su  quali  giurai,  riverendò  gli  uomini  a quali vincolai  la  mia  fede,  guerreggieiò  fino  alla  decisione co'  Romani.  Se  renderanno    f^olsci  le  terre  che"  ne possiedono  colla  forza  ; e se  amici  se  ne  fwanno, accomunando  ad  essi  tutto, come  co'  Latini  ; deporrò ' le  armi  : altrimente  mai  contro  di  essi  le  deporrò  / Voi  dunque  andatene.,  o donne,  riferite  ai  vostri  un tal  dire, e persuadeteli  a non  pretendere  ingiustamente [ altrui,  ma  contentarsi  del  prpprio, quando altri  lascia  che  lo  abbiano.  Non  aspettino  che  si  ritolga loro  colla  guerra, quanto  colla  guerra  usurparono ai.  Volsci;  perocché  li  vincitori  non  saranno  già paghi  di  ricuperate  i lor  beni,  ma  vorranno  quelli ancora  de’,  vinti.  Se  ritenendosi,  e difendendo  ostinatamente ciocché  lor  uon  si  spetta,  vanno  incontro  m pericoli,  accusino  sestessi,  e non  Marcio,  e non  altri de'  mali  che  piomberanno  su  loro.  E tu  -daW  altra parte',  o madre, io  figlio  tuo  le  ne  prego, non  mi sollecitare  a cose  non  degne,    giuste;  nè,  unendoti d miei  e tuoi  malevolissimi, volete  credere  a te  contrarj  quelli  che  'ti  sono  per  natura  amicissimi  : ma standoti, coni  è ragìc^nevole, presso  me, vegli  riguardare per  patria  quella  che  io  riguardo',  e possedere per'  casa  quella  che  io  possiedo,  e godere  con  me  gli onori  miei, e la  mia  riputazióne, presi  per  parenti, per  amici  e nemici  tuoi,,  quelli  appunto  cK  io  prendami. Bandisci,  o misera, f afiìanno  sostenuto  finora per  la  mia  fuga,  e pesfa  in  tale  tua  forma  .di afliggermi.  Gli  altri  beni, o madre, più  belli  della  speranza, più  grandi  del  desiderio  mi  son  dati  da  mimi, e dagli  ùomini.  L’affanno  che  io  prendea  su  te,  non contraccambiandoti  col  nudrirli  ne'  senili  tuoi  giorni, diffuso  per  le  mie  viscere,  amareggiava  e levava  la mia  vita  da  ogni  bene.  Se  meco  ti  rimani,  se  partecipe ti  fai  di  ogni  mia  cosa;  più  non  mi  mancherà alcuno -tra  L mortali. E qui  taciutosi  lui, Veturia  sopraslando breve  tempo  &nchè, cessassero  le  lodi  cbe  molte  e grandi gli  si  fecero  da’ circostanti,  soggiunse:  Non  io.  Marcio figlio, ti  voglio  il  traditore  de'  Volsci, che  ricevitori tuoi  nelC  esìlio, ti  onorarono  in  iMtte  guise, e ti affidarono  il  comando  di  ses tessi  ; nè  voglio  che.  tu da  te  solo  finisca  senza  il  voto  comune,  la  guerra contro  i patti  e i giuramenti,  chè  facevi  loro,  quando prendevi  armata  : nè  temere  che  la  madre  tua  siasi di  tanta  malvagità  riempiuta  ; ‘ che  inviti  C unigenito e carissimo  figlio  a cose  vituperose  e non  giuste:  ma cJtiedo  che  tu  levi  col  pubblico  voto  la  guerra, ridu^ cendo  i V ytsci  a temperanza, e ponendo  tra  le  due genti  pace  ì>ella  e decorosa.  E ciò  sarà  fatto, se  al presente  movi  t armata  e la  ritiri,  e fai  tregua  per un  anno  ; perocché  spedendo  e ricevendo  in  questo tempo  ambasciadori, procaccerai  pace  stabile, e vera amicizia.  Tu  ben sai  che  f Romani, se  il  disonore, o la  impossibilità  non  lo  vieta  ; faranno  vinti  dalle persuasive  ogni  cpsa  : laddove  violentali, come  ora vuoi  tu  violentarli, non  concederanno  mai  cosa  picciola  o grande, come  puoi  tu  conviruertene  da  tanti esempj, ed  ultimamente  dalle  cose  concedute  ai  Latini che  deposeco  le  ormL  1 Volsci,  dirai,  sono  assai  ' più  pertinaci,  come  avviene  ai  gran  fortunati.  Ma  se ricordi  loro  che  ogni  pace  vai  più  della  guerra:  e che più  stabile  è quella  che  si  fa  per  amicizia  la  quale rende  i cuori  propizj, che  non,  f altra  la  quila  per necessità  si  riceve:  esser  proprio  de’ sa>’i  moderare  la sorte,  quando  stimano  averla;  non  però  mai  ft^  cosa indegna  nelle  vicende  infelici  e meste  ; se  dirai  loro gli  altri  documenti  quanti  sen  trovano  ( notissimi  a voi che  il  pubblico  maneggiate ) per  indurre  a dolcezza  a mansuetudine  ; scenderanno  dalt  eUterigia  ove  sono, e concederanno  che  facci  quanto  credi  a loro  giovevole, Ma  se  resister^anno, se  non  ammetteranno  il dir  tuo, sollevati  dalle  belle  Jbrluna  provenute  da  te e dal  tuo  comandare, cqme  siati  quéste  immutabili  ; rendi  loro  palesemente  co  lesto  tuo  capitanato, nè  il traditore  sii  di  chi  te  lo  afJidcR>a, nè  il  combattitore de’  congiuntissimi  tuoi  ; cose, T una  e t altra  indegnissimo. Queste  soao, o Marcio  figlio, le  cose  che io  vengo  a supplicarti  che  sian  fatte  da  te, non  impossibili come  tu  dici,  ma  pure  da  ogni '' rimorso  di ingiustizia, e di  malvagità. Tu  temi  '(  sono  questi  i titoli  che  vai  magn'ficanio  col  discorso  ) tu  temi  d’  incorrere    fai quanto  consiglioU,  la  taccia  rea  come  d’ ingrato  versa i tuoi  benefaUori, i quali  ti  accolser  nimico, e ti a nmisero  a tutti  i-loro  beni, quali  se  gli  hanno  co^ loro  che  nacquero  cittadini.  Ma    j non  hai  tu  lendulo  toro  il  molliplice  e bel  contraccambio  ? non  hai suj'ferato  i benefizj  loro  colt amplitudine  immensa  dei tuoi?  Costoro  che  leneano  pel  sommo  e pel  più  amabil  de  beni  viversi  liberi  usila  patria  ; gli  hai  tu  ridutU  (fuesti  non  solo  arbitri  stabilmente  di  sestessi, ma  tali  infine  da  bilanciare, se  tornasse  lor  megliò, di  abbattere  la  potenza  de' Romani,  o di  partecipare, ugualmente  alla  repubblica  che  Roma  ha  fondato. Lascio'  di  dire  con  quante  spoglie  abbi  ornalo  le  loro città  per  la  guerra,  e con  quanta  ricchezza  premiato quelli  che  vi  militav vedo  che^  gU  orgogliosi  che quei  che'  spregiano  le  preghiere  -de  supplichevoli,  corrono all  ira  de'  numi  ed  alia  sciagura  finalmente. Certo  gl'  Jddii  • istituirono  e ne  dierono  tale  costume,essi  i pruni  ptrdanano  s e fqcili  si  rappaciane';,  e molti  si. placarono  già  pe’  voti  j e'  pe'  sagrifizj  verso di  uomini,  lontani  per  grandi  reità  da  loro".  Quando o A/arcio  tu  tioti  vagli  che.  l’  irà  de’  celesti  sia  mor-^ tale, ma  immortale  quella, degli  'uoniini  ; • forai  con rettitudine  f e con  dignità  tua  o della  patria, se  ne condoni  gli  errori, essa  già  correggendosene, e placandotisi, e rendendoti  quanto  prima  ti  levava. Che  se  implacabile  ti  rimani, rendimi  questo deposito,  questo  benefizio y i quali  niun  altro  può  ripeterti i e pe’  quùli  hai  tu  non  le  minime, ma  le auiplissinte  è pregiatissime  doti,' onde  tutto  ottenesti,, rendimi  il  corpo  tuò  e l’ànima.  Derivate  le  hai  queste da  ma;  ; nè  luogo  o tempo, nè  beneficenze, nè  • grazie  di  Fblsci  o di  altri  mai  tanto  ' eccederanno  e saliran  fino^  ai  cieli  ;.  che  tu  possi  csmcellar  la  natura,,nò  pù't  udirne  i diritti.  Mio  sarai  pur  tu  semproj e sempre  il  bene  del  vivere  a me  dovrai  perla  prima, e 'farai  senza  scusartend  quanto  ti  additnandoCiò  prescrive  la  natura  ai  viventi  che  sentono  e che ragionano  { >e  di  ciò  confidata  puf  io, ti  supplico  o Marcio  figlio  a non  portaré  guerra  alla  patria;,  o qui  sto  per  oppormiti  se  le  fai  violenza.  O me  tua madre  che  mi  ti  oppongo  sagrijicherai  prjma  di  tua mano  alle  furie, e cosi  darai  principio  alla  guerra; o,  se  temi  la  infamia  di  matricida,  cedi  o figlio  alla madrfi  tua  ; dammi, flie  il  puoi, questa  grazia.  Se questa  leg^e  che  niun  tempo  ha  mai  tolto,  mi  assiste, mi  protegge  > non  è giusto  o Marcio  che  io  sola  sia da  te  priva  degli  onori  che  essà  mi  concede.  Ma  Icssciando  questa  legge, ricordati  la  tanta  e gran  sc^ie de'miei  benefizj.  Io  prendendo  a curar  te  fanciulletto, orfano  del  padre  tuo védova  me  ne  rimasi, e gli stenti  tutti  soffersi  onde  allevasi,  madre  tua  non solo, ma  padre  in  ur[  tempo, educatore  é sorella dimoetrandomiti, ed  ogni  altra  spficie . di  teneri  .oggetti. Divenuto  tu  grande,  potendo  io  liberarmi  dalle • cure, nutritandomi  ad  •altri, e darmi  nuovi  figli  e nuove  speranze  sostenitrici  della  vecchiezza;  non  volli, hià  restài  ne'  tuoi  lari  'domestici, contenta  della  vita medésima,  e ristringendo  a 'te  sólo  ogni  mia  consolazione, ogni  bene.  Di  questi  ine. ne  privasti tu,  parte di  voler  tuo, parte  senza  volerlo, rendendomi  infelicissima tra  le  madri.  ^ qual  tempo,  da  che  toccasti l' età  •virile, qual  tempo  io  pissr  mai  sene’  agitazioni e terrori?  e quando  ebbi, mai  l'  anintà  tranquilla  so' pra  di  te, vedendo  che  acciimolavi  guerra  a guerra, che  passavi  da  battaglia  a battaglia,  e ricevevi  ferite su  ferite  ?. . Lll.  E quando  ti  desti  alla  repubblica  cd  al  maDigilized  by  Google ’ Lifino  vm.  69 ncggìo  de'  pubblici  affari, gustai  forse  io  tua  madre diletto  alcuno  ? Eh  ! Che  ne  divenni  allora  più  misera, mirandoti  in  mezzo  alla  civil  sedizione.  Imperocché le  uìe  provvidenze  pér  le  quali  più  sembravi valere, e per  le  quali  sostenendo  i patrizj, spiravi indignazione  contro  del  popolo, queste  mi  spaventavano tutta, considerando, per  quanto  tenui  motivi tramutasi  la  sorte  degli  uomini:  e sapendo  dai  tanti casi  uditi  che  qualche  ira,  divina  traversa  i valentuomini, e la  invidia  umana  li  perseguita.  E_  così  non fossi  stata, come  io  ' m'  era  troppo  vera  indovina degli  eventi!  fa  civile, invidia  t' assalì,  ti  sopraf/kee, ti  sifclse  dalla  patria,.  Il  refto  della  vita  mia,  se  vita può  dirsi  da  che  partendoti  ' mi  lasciasti  co'  figli  tui, passò  tra  questa  desolazione.,  Va  questo  apparato  di lutto.  Per  tutto  questo  io  che  molèsta  mai  non  ti  fui, nè  ti  sarò  finché  vivo, ti  prego  che  vagli  serenarti una  volta  co' tuoi  cittadini  f' c finir  C Ira  acerbissima che  nudri  contro  la  paù'kt.  E con  ciò  di  cosa  io  ti prego  non  buona  per  me  solq,  ma  per  ambedue.  Per le  Se  tea  persuadi, nè  scorri  ad  azioni  non  degne  ; perchè  avrai  C anima  immacolata  e libera  da  ogn’  ira, da  ogni^  terrore  di  furie  persecutrici, e p6r  me  poi, perchè  la  fama  che  men  yetrà, mentre  vivo,  dai cittadini,  e dalle  cittadine.  Tenderà  beati  i miei  .giorni f e quella  che  mi  sarà  dispensata  come  io  presagisco, dopo^  morte, renderà  sempiterno  il  mio  nome. E se  'dopo  morte  riceve  alcun  luogo  le  anime  sciolte da  corpi;  riOn  riceverà  già  la  mia  quel  sotterràneo rp tenebroso  ove  dicono  che  i detnoni  soggiornano  ; nq 1 il  ampo  che  chianìdn  di  Lete;  ma  C etere  sublime  e puro,  ove  dicono  che  albergano  con  prospera  e beata sorte  i JigUifoli  de’  numi.  JB’ià  divulgando  anima min  la  pietà  e le  grazie  onde  m’hai  riverita,  ten  chiederà per  sempre  dagt  Iddii  la  degna ricompensa. Ma  se  dispregi  la  madre  tua, se  inonorata la'  rimandi  n  per  me  fortunata nò  per  le,  la  quale  hai  salvato  la  patria,  e perduto insieme  il  pietoso  ed  amantissimo  tuo  figliuolo.  Cosi detto, si  ritirò  ne'  siioi  padiglioni  ; comandando  che  lo seguitassero  la  inoglie;  la  madre  -,,  i fi^i  : é vi  si.  tenne tutto  il  resto  dei  giorno, eonsultaudo, con  esse  ciocché era  da  fare.  Enrono  le  risoluzioni  : che    il  Senato proponetse  al  popolo, nè  il  popolo  decretasse  nulla del  suo  ritorno, prima  che  .si  persuadesse  aWolsci r amicizia  e la  cessaziofs  della  guèrra.  Egli  leverebbe e ritirerebbe  /'  esercito, marciando  cofne  tu  terre  di amici:  Dato  conto  del  suo  capitanato,  e dimostratina  i beni;  pregherebbe  quelli. che  glie  lo  aveano  càtfi flato,  a’  volersi  ricongiungere  per  giuste  condizioni  ai nemici,.  ed  incarieore  lui  pefchè  vi  fosse  ne  patti  t ofpùtà, senza  niuna  fmdolenza.  Che  se  protervi  pei successi  filici  non  aecettósser  la. pace;  egli  si  spoglie rebì>e  del  comando.  In.  tal  caso  o non  sosterrebbero essi  di  ^leggete  un  altro  per  ^mancanza  di  buoni  capi ioni  ; o cimentandosi  di  'affidare  le  forze  ad  un  altro qualunque,  imparerebbero  a grande  lor  danno,  ciocchi era  V utile  a Jare.  Tali  sono  le  deliberazioni  ira  loro tenute,  e riconosciute  per  eque  e giuste,  e capaci  presso tutti  di  buona  faina,  oggetto  principalissimo  delle  cure  del valenluomo.  Ben  erano  essi  agitati  da un  timido  sospetto che  la  turba  irragionevole  speraozala  di  debellar  riiiinii co,  delusane,  alfìne  infuriasse;  e setiz’amihctter  discorso trucidasse  come  traditore' quel  suo  capitarlo;  tuttavia  deliberarono d’inedutrere  non  pur  questo  ma  ogn^allro  più tetro  pericolo,  e serbare  vh-tuosameule  la  fede.  E poiché il  giorno  piegava  a sera;  datesi  vicendevoli  signiflcaziout di  affetto, uscirono  da'  padiglioni, e quindi  le  donne tornarono  a Rema.  Esitose  Marcio  agli  astanti  le  cause che  lo  inducevano  a scioglier  là,guerra, e pregò  lungamente t sòldan  che'gb'el  condqnassero, e che  tornati in  patria, ricordevoli  de’  suoi  beneQzj,.  non''  permettessero essi  compagni  suoi, che  subisse  alcun  reo  trattamento dagli  altri.  Ej  ragionate  altre  cose, tutte  persuasive, t:omandò  che  iaces^erq  le  b^gagHe, oude  partire la  notte  'seguentPi LVi  Coinè  seppero  dalla  fama,' percorsa  alle, donne, die  Icvavasi  il  pericolo  loro, uscirono  lietissimi  i Romani dalia  dtlà  per  incohlcarle;  dicendo  e fàcendo  ora a cori,  ora  ad  uno  ad  uno,  salutazioni  e' cantici  e tripudj, quali  gli  latino  e li  dicono  quelli  che'  da  rischio terribile  passano   prosperità  non  pensata.  Si  menò  poi Ja  notte  tutta'  In  feste  e conviti  : nel  giórno  appresso  il Senato  adunato  da  consoli  su  Marcio  dichiarò  che  si differisse  in  tempo  più  acconcio  a risolver  gli  onori  da farseglt  : ma.  che  per  lo  zelo  ditnostrato    desse  alle donne  nc’ pubblici  antichi  registri  un  elogio  che  ne'portasse  eterna  la  memoria, tra’  posteri, ed  un  donativo, qual  sarebbe  il  pti\  car ed  ' ' i Romani  -colende  ; giorno  appunto  che  disciolse  la 1 “ ^,   Cotiolano  si  approssioiò.due  volte  a Roma  j 'la  prima  volU ai  accampò  preaso  le  fosse  delle  Cluvìlie.-io  distaosa  di  ciitipie  miglia, e la  seconda  io  luogo  anche  piò  vicino  a Roma,  iiitburgio scrive,  che  io  questo  secondò  luogo  appunlo  fu  eretto  il  tempio  delta Fortiuia  Mulirhrc.  A questa  sci\tei]sa  sembra  corritpondero    ricchezze, noh  ricéVò  con  dispiacere  la  iùtérro zvon  della  guerra, e^  favorendo  il  valentuomo, escusavàlo  se  non  la  dltlmava,  mosso  daUe  prègbieve  e dalla compassion  della  madre.  Ma  la  gioveUtù  rimaka  nelle città,,  tocca  da  invidia  per.  le  grandi  prede  fatte  dalFe scrci'to,  e’  delusa  delle  speranze  che  aveva,  se  prendei^ dosi  Roma  ne  era  Oaccàto  l’orgoglio;  ne  fremette, e fi  esulcerò  contrd'del  capitano.  £ finalmente  assunti,  per ca|)i  della  scellcrsgginc  uomini .potentissimi  tra  quelle  genti, imbarbarì, e commise  nn  indégnissimo  fatto.  Istigavala  aoprattattO  Azzio  Tulio  circondato  da  non  pochi di  ogni  città.  Costui  non  polendo  più  la  invidia  sua contro ‘Marcio;  aveva  già  da  uii  tempo  risolato  di  ucciderlo occultamente  e frt^dolentemeote, se  quel  duce xiuscendo  ne’  disegni e 6accando  Roma  tort^Va  dal sottometterla  ai  Volsci, o di  darlo  manifestamente  ai suoi  partigiani  ^d  ucciderlo  come  traditore,  se  falliva nella  impresa, è tornavane  senza  l’ intento.  Ora  ciò  fece appunto.  Imperocché ' convocando  gente  non  poca;  le accusò  quel  .valentuomo  argomentando  dal  vero  il  falso, e conghietturando  dalle  cose  già' state,  quelle -che  non sarebbero  mai  t poi  comandò  che  deponesse  il  comando, e desse  conto  del  suo  capitanato.  Once  costui  delle truppe  rimaste  nelle  città, come  ho  detto  di  sopra,  ‘era l’arbitro  di  raccogliere  le  adunanze,  e di  chiaipare  chi voleva  in  giudizio.  Marcio  giudicava  non  dover  contrapporsi  a ninna  delle  dué  intimazio.ni  ; solamente  discordava  nel metodo  di  soddisfarvi  ; 'credendo  che  égli  dovesse  prima dar  conto  de’  fatti  della  ' guerra, e pqi  deporre, se così  paresse  a tutti  i 'Volséi, il  comando.  Affermava che  non  dovesse  di  tanto  esser  arbitra  una  sola  città corrotta  in  gran,  parte 'da  Tulio;  ma  tutta  la  nazione, raccolta  in  comizj  legittimi, ove  fossero  spediti  deputati da  'ogni . città,  come  portava  il  'costucrie,  quando  aveansi a discutere  i grandi  jeffari.  Opponevasi  a ciò  Tulio,' ben vedendo  cbe  se  Marcio, ahroòde  parlatore, facciasi  tra la  pompa  di  capitano  a dar  conto  delle 'tante  e belle sue  gesta  trionferebbe^ della  moltitudine  ; c non' cbe  suhire  le  pene  • de’ traditori, ne  diverrebbe  più  onorato  e )>iù  grande.  Impe^occbé  ’ sarebbero  per  concedergli  tutti che  solo  finisse  a piacer  suo  la  guerra, ed  arbitro  re stereljbe  di  ogni  cosa.  Adunque  per  molto  tetnpo  se  no suscitarono  ogni  giorno  dicerie  vicendevoli, e reclami in  Senato,  éd  altercazioni  vive  nel  Foro  ; uou  essendo lecito  a niun  di  essi 'far  violenza  all’ altro, garautito dalla  dignità  pari  della  magistratura,.  Or  poiché  non dovasi  fine,  alla  disputa  ; Tulio  comandò  a Marcio  di venire  in  dato  giorno  a deporre  il  suo  gradò,  e sottomettersi ai  proressi  di  tradimento,  E sollevati  eon  lusinghe' di  benefizi  > uomini  audacissimi, e messili  per capi  della  scellcraggiuc  indegna;  si  portò  nel  Foro  destinato. 'Asceso  ' nel  tribunale  accusò  Marcio  con  tòòlte incolpazioni  ; ed  istigò  la  moltitudine  a'  degradarlo  a fo4'za, se  spontaneo  non  lasciava  il  comando. ' LIX,  Accese  Marcio  anch’  esso  per;,  far  le  difese  ; ma ì grandi  clamori  de’ seguaci  di  Tulio  gli  tolsero  di  parlare. Dopo  ciò  gridandosi:  {ira, ferisci, lo  efreonJa' rouo, e con  .nembo  di  sassi  lo,  uccisero  uomini  inso-, lentissimi.  Ed  essendo  lui  strascinato  Foro, quelli che  erano  presenti  allo  spettacolo,  e quelli  che  Vi  sopravvennero dopo  eh’  egli  erst  spirato, deplorarono  il valeniaoiiio  ; perchè'  non  degna  avea  da  loro  la  ricatupensa.  E Hdiceano  quanto  bene  avea  fatto  al  comune, e r arresto' .voleanO  degli  uccisoci,  perchè  dato.aveano esempio  di  opèra.  ingiusta,  e lesiva  delle  '.città,  spegnendo senz’iimmelterne  le  difese  violentemente  un  di loro, c questo,, comaudante.  Ne  fremeauo  soprattutto i compagni  di  lui  uclle  spedizioni.  Epoiché  non  erano stati  da  tanto  d’ impedirne  i mali mentre  viveva  ; delU berarono  riconoscerlo  de’benefizj,  almeno  dopo  la  morte; recando  al  Foro  quanto  alla  deliha  onorificenza  ricluedesT  de’'valentoomini.  Quando  lutto  fu  pronto  > collocarono lui  con  veste  di  capitano, su  letto  vaghissimamente ornato  : poi  facendo  precedere  quelli  che  recavano le  prede,  le  spoglie,  le  cotone,  le  immagini  delle citli  prese  da  lui  ; ne  sollevarono  il  feretro  i giovani più  segnalati  fra  le  armi.  Lo  portarono  al  sobborgo  più ragguardevole, accompagnandone  il  cadavere  i 'cittadini tutti  con  gemiti  e la^inDe.  uomo  il.  più  grande di  tutti  'al  suo  tgmpo'  nelle  armi.  Continente  da  lutti  i pacetri  che  traspòrUmo  i giovani, seguiva 'la  giustizia ifon  involontario  per  le  leggi  che  forzano  col  timore de’ supplizi',  ma  spontaneo,  come  per  inclinazione  d’indole bennata.  Non  tenea  per  virtù  non  offendere  ; e bramava  non  solo  di  esser  puro  egli  stestd  da  ogni malfare,  ma  credea  giusto  di  astringervi -anche  gli '^allri. Magnanimo', liberale, intentissimo  a soccorrere  quando cpnoscevalo, il  bisogno  degli  amici, npn  era  inferiore a ninno  de’  patrizj  nel  roaneggio.del pnbblico.  C se  fa sedizione  della  città  non  lo  avesse  impedito  da'  pubblici .•(Tari, forse'  Roma  preso  avrebbe  da'  regolamenti  suoi grande  aògumeolo  d’iiQpero.  Ma'già.  non  può  farsi  cbe tuKe  le  virtù  si  uniscanó  nella  natura  di  un  nomò  ; nè da  seme  mortala  e caduco  sorgerà  mai  niutlo  per  ogni parte  peidetto. LXI.  Il  ‘destino  che  ' propizio  area  sparso  in  esso  i germi  di  tali  virtù^    ne  mise  alfiri  ancora  di  sciagure e dì  mali.  Non  era  dolcezza    illarità  ne’ suoi  modi, non  degnevolezza  ne  salmi  e ne’  colloqui, ..  non'  facilità di  placarsi, non  moderazione  nell’  ira  se  contro  alcnno la  concepisse, grazia  in6ne,  quella  die  adorna  tmte le  nmane  cose.  ¥élnto  lo  avresti  sempre  difficile,  e sempre  acerbo,  f^ocquero  a lui  mólto  tali  maniere,  e soprattutto  la  severità  sua  ^moderata,' incredibile,  e senza scintilla  mai  di  chnuenza  ne|)ar  custodia  dei  giusto  e delle leggi.  Ma  ben  sembra  vero  il  detto^d^  filosofi  antichi, che  le  virtù  specialmente  quelle  delia  giustizia,. sono moderàzioni, e non  estremità  de  costumi  : perocché sia  che  la  ginstizia  manchi  dal  mezzo, sia  'che  lo  ecceda ; non  più  giova  i mortali, cagionando  talvolta  gran danni, e ridùcendo  a stragi  > miserande, ed  immedicabili inali.    fu  cbe  la  troppo  sollecita  e troppo  austera esigenza  del  giusto  la  quale  ridusse  Marcio  fuori  della patria,  e senza  il  frutto  delle  altre  belle  sue  doti.  Potendopiegarsi  per  atòunà  maniera  al  popolo,  e lasciare qualche  cosa  af  loro  desiderj  e divenire  il  primo  fra loro  ; non  volle  : ma  contrariandoli  in  qualunque  cosà  ' la  quale  ad  essi  non  si  dovea,  se  ne  concilò  l’ odio, c fu  cacciato  dalla -patria.  Potendo,  appena ^ sciolse  la guerra,  lasciare  il  comando  deifarmata,  e trasferire  alet 8o  trove  la  sua  dirnora, Gncbè  gli  fossi!  conceduto  il  ri torno  alU  patria,  anzi 'che  esporre  ^ stesso  à nemici, ed  alle  stoltezze  della  moltitudine  ; ne  vide  la  necessità di ‘farlo, e non  volle.  Ma  giudicando 'dovere  affidare sè  stesso  a chi  gli  aveva  affidata  T armata, .c  conto del  suo  capitanalo,  e se  irovavasi.  reo  di  co.sa  alcuna subirne  le  pene  secondo  le  leggi;  raccolse  amaro  U frano  di  tanta  giustizia.  Pertanto    col  disciogìiersi  de’  corpi  aiicUo l’anima,  qualunque' cosa  ella  sia,  si  discioglic,    punto ne  so^ravvanza;  io  non  vedo  come.chiamare  beati quelli  elle  non  goderono  della  loro  virtù  niun  frutto, anzi  pci^  essa  perirono.  M.i  se  le  anime  nostre  ’Soprav- vivono  Immortali  affatto  come  pensano  alcuni  ;'0  qùalebe  tempo  almeno  dopo  la  .-partenza'  loro  dal  corpo,  il più  lungo  quelle  do’,  buon;, ed  .il  più  breye  quelle  dei malvagi  (it;  certo  parrà  beq  grande  ai.  virtuosi  l’ onore che  li  seguita,  loipérocclié  sebbene  la  fortuo' stasi  loro contrapposta;  avranno  buona  fama  e langbissima  la  ri cordanza  tra’ vi vanti,  come  appunto  ' accadde  a questo uomo.  Perocché  non  solaincute  ’mofto  io  piansero  e Io onorarono,  i Yolsci  come  virtuosissimo;  ma  li  Romaui, conosciutone  appena  il  caso, riputandolo  sciagura  altissima di  Roma, ne  fecero  pnvalo  e pultbJ/co  lutto.  Le donne  come  usano  in  morie  dei  domestici  loro  amaiiss.ifni, lasciarono  da  un  canto  l’ oro, la  porpora, ei • V.   [1  Vossio  nel  lil>  i ^ de  IJoloturia  dctltice  d  f|iicslo  passo ch^  Diouigi  crcdctle  che  le  auhne  esùtono  Jpu  !a  tnofie  del  colpo ma  solo  -per  un  tempo  limitalo  ; e per  ciò  lo  ridice  nella  classe  dt (|iicl!i  che  pensavano  quaulu  alla  durazioue  delle  anime  come  gU  Stoici \  8 I atterono  fra  loro  senza  regola, senza  comando,  misti  e confusi:  tanto  che  grande ne  fu  la  strage  in  ambe  le  parti  ; e forse  totale  ne  sarebbe stata  la  rovina, se  il  sole  non  tramontava.  Ma cedendo, loro  malgrado, alla  notte, che  inipedivali  di contendere, separaronsi, ed  alloggiaronsi  ciascuno  nel   Aa.  di  Ruma  aGG  secondu  Catoue,  aGS  secoudu  V'arrooe, e 48G  8T.  Cristo.DJONICI. tomo  Iti.  fi proprio  campo.  La  maltina  i duci  lerando  le  truppe  si ricondussero  alle  loro  case.  Udirono  i consoli  dai  diser.tori  e da  altri  divenuti  prigionieri  col  fuggire  dalla  battaglia, qual  furia  e quale  flagello  divino  fosse  nell’esercito; non  però  colsero  la  occasione  tanto  a proposito per  essi  non  lontani  più  di  trenta  stadi,    gl’  incalzarono nella  ritirata  : nel  qual  tempo  se  essi  freschi, in buon  ordine, avessero  perseguitato  gli  emoli  stanchi, feriti,  confusi,  e già  pochi  di  molti,  di  leggieri  gli avrebbero  totalmente  distmtu.  Sciogliendo  aneli’  essi  il campo,  tornarono  in  patria  sia  che  fossero  paghi  del bene  dato  loro  dalla  fortuna, sia  che  non  fidassero  su r annata  loro  non  disciplinata, sia  che  assai  valutassero il  perdere  anche  pochi  soldati.  Ma  giunti  in  città  vi furono  vituperati, riportandovi  fama  di  pusillanimi  per tale  condotta.    facendo  altra  spedizione, rassegnarono il  poter  loro  a’  consoli  susseguenti. Presero  l’ anno  appresso  il  consolato  Cajo i^quilio  e Tito  Siccio, uomini  periti  di  guerra .  E facendo  questi  proposizioni  di  guerra;  il  Senato  decretò che  si  spedisse  un’  ambasceria  per  chiedere  soddisfazione secondo  le  leggi  dagli  Ernici,  popolo  amico  e confederato, il  quale  aveva  offesa  Roma  nel  tempo  della  guerra de’  Volsci  e degli  Equi  con  prede  e scorrerie  su  le terre  contigue  : e decretò  che  intanto  che  ne  avessero la  risposta  i consoli  iscrivessero  milizie  quante  ne  potevano, convocassero  con  messaggi  gli  alleati, ed  apparecchiassero sollecitamente  col  mezzo  di  molti  ministri  Roma Catone Varrooe LiDno  vili.  83 armi, grano, (lanari, e quanto  è necessario  ()cr  la guerra.  Tornali, cspcKero  gli  ambasciadori  le  risposte degli  Ernia,  i quali  diceano  non  esservi  pubbliche  convenzioni tra  loro  e tra’  Romani, e che  pensavano  già sciolte  quelle  che  vi  furono  tra  loro  e tra  Tarquinio, come  detronizzato, e morto  in  terra  straniera  : che  le prede  e le  incursioni  non  furono  ingiustizie  del  pubblico, ma  di  privati  intesi  al  guadagno:  e che  non  doveano  però  nemmeno  gii  autori  di  quelle  consegnarsi  al supplizio:  e lamentandosi  che  avessero  anche  gli  Eroici patito  altrettanto  ; signiQcavano  che  volentieri  accetterebbero la  guerra.  Il  Senato, ciò  udendo, decretò  che si  dividessero  in  tre  parti  le  nuove  reclute  descritte:  che il  console  Cajo  Aquilio  marciasse  coll’  una  sugli  Eruict già  in  arme  aneli’ essi:  che  Tito  Siccio,  l’altro  console, ne  andasse  coll’ altra  su  i Volsci  : che  Spurio  Largio, nominato  da’  consoli  comandante  della  città, prend cero  ciò  primi  li  Volsci  ; e ben  tosto  la  ottennero  ; dando  l' argento  multato  dal  console, e somministrando quani’  altro  bisognava  all’  esercito  ; dopo  avere  promesso che  sarebbero  ì sudditi  de’  Romani,    più  da  tali  ao> cordi  si  leverebbono.  In  ultimo  gli  Eroici  vedutisi  rimasti soli, trattarono  coi  console  di  amicizia  e di  pace. Ma  Cassio  assai  richiamandosi  di  essi  con  gli  ambasciadori, disse, che  prima  doyeano  far  quanto  conviene ai  vinti  ed  ai  sudditi,  e poi  discorrer  di  pace;  e soggiungendo  gli  ambasciadori  che  lo  farehhono  se moderata  e possibile  ne  fosse  la  esecuzione, comandò loro  che  gli  portassero  in  grasce  i viveri  di  un mese,  ed  in  argento  la  somma  onde  stipeudiarue  t soldati secondo  il  solito  per  sei  mesi:  e definendo  un  numero di  giorni  entro  cui  potessero  tutto  apprestatali  ; concedette  intanto  ad  essi  una  tregua.  Presentarono  gli Ernici  ogni  cosa  con  prestezza  ed  impegno,  e spedirono di  bel  nuovo  i parlamentar]  di  pace.  Li  lodò  Cassio  c li  rimise  al  Senato.  Ne  deliberarono  i padri  a lungo;  e piacque  loro  che  si  ammettessero  questi  all’ amicizia,  c Cassio  il  console  esaminasse, e decidesse  le  condizioni de’  trattati  da  conchiudersi.  Approverebbero  i padri  ciooch’  egli  ne  stabiliva. Prescritto  ciò  dal  Senato;  Cassio  tornando  in città  chiedeva  un  secondo  trionfo  per  aver  sottomesso i popoli  più  riguardevoli  : ant>gavasi  però  quest’  onore per  le  aderenze, piuttosto  che  di  giustizia  lo  ricevesse tinperocchc  non  avendo    prese  città  per  assalto,  nè disfatti  eserciti  in  campo  aperto  ; non  potca  menar  seco in  spettacolo  i prigionieri  e le  spoglie  che  sono  gli  ornamenti dei  trionfi.  Ma  lo  amare  il  piacer  suo  ; non  le risoluzioni  simili  a quelle  degli  altri, gli  concitò  subitissima invidia.  Impetrato  il  trionfo  pubblicò  la  concordia, com’  aveala  firmala  con  gli  Eroici.  Erano  le  condizioni trascritte  da  quella  conchiusa  già  co’  Latini. Dicchè  mollo  si  dolsero  i più  provetti  ed  autorevoli, e tennero  lui  per  sospetto, sdegnati  che  gli  Eroici, estraneo popolo, fossero  pareggiati  di  onore  ai  Latini  loro congiunti  ; e quelli  che  dato  non  aveano  neppur  minimo segno  di  benevolenza  partecipassero  le  cortesi  retribuzioni di  chi  tanti  dati  ne  avea.  Soffrivano  ancora  di mal'  animo  la  superbia  di  quest’  uomo, perché  onorato dal  Senato  non  aveali  a vicenda  onorati, fissando  e pultblicando  i patti  come  glie  ne  parve  ; non  di  concerto comune  coi  padri.  Così  la  troppa  felicità  nuoce, non giova  ; divenendo  insensiòilmente  per  molli  cagione  di orgoglio  incredibile,  e stimolo  di  desiderj  superiori alla  natura;  come  avvenne  a costui.  Condecorato  allora dalla  città  egli  solo  fra  tutti  con  tre  consolati  e due trionfi  ampliava  l’ onorificenza  sua, ambizioso  del  regio potere.  Considerando  però  che  la  via  più  sicura  per  chi ambisce  il  regno  e la  tirannide  è quella  di  guadagnare il  popolo  co’benefizj,  e di  costumarlo  ad  essere  alinien tato  da  chi  dispensa  le  pubbliche  cose  ; a questa  si  rivolse, e senza  manifestarsene  ad  alcuno.  E perocché  ci aveva  un  terreno  amplissimo  del  comune  ma  trascurato e goduto  da^  ricchi  ; deliberò  di  compartire  questo  tra’l popolo.  E se  contentato  si  fosse  di  procedere  fin  qui  ; forse  riuscito  sarebbe  ue’ disegni.  Ma  trasportatosi  a troppo ; cagionò  sedizione  nou  picciola, e fine  sciaurato  a sestesso.  Imperocché  presunse  congiungere  alla  divisioa del  terreno  non  pure  i Latini  ; ma  gli  Ernici, ricevuti ultimamente  per  cittadini. Tali  cose  ideando  a conciliarsi  quelle  nazioni, convocò  nel  glotoo  dopo  il  trionfo  il  popolo  a parlamento. Quindi  asceso  in  tribuna  com’  è 1’  uso  de’  trionfatori, prima  dié  conto  delle  opere  sue,  delle  quali  era la  sostanza  : che  fatto  console  Ut  prima  %>oUa  vinse  i Sabini,  e li  rendè  sudditi  a Roma  alla  quale  disputavano il  comando  : che  fatto  console  per  la  seconda, racchetò  la  civil  sedizione, e restituì  la  plebe  alla  patria : e ridusse  amici  e (compartecipi  della  cittadinanza di  Roma,  i Latini  che  erano  consanguinei,  ed  emoli eterni  delt  impero  e della  gloria  di  lei;  tantoché  non più  la  contrariarono, ma  riguardarono  Roma  come patria  loro.  Chiamato  la  terza  volta  al  consolato  necessitò li  V ilsci  ad  essere  amici, di  nemici  che  erano, colle  armi,  e sottomise  spontanei  gli  Ernici,  popolo vicino,  grande,  potente,  ed  attissimo  a nuocer  molto, o giovare.  Eisponendo  queste  e simili  cose  chiedeva  al popolo  che  attendesse  a lui, provido  soprattutti  ora  e per  sempre  della  repubblica, e chiudendo  il  discorso disse  che  farebbe  e tra  non  molto  tali  e tante  beneficenze che  supererebbe  quanti  erano  encomiati  di  aver amato  e salvato  il  popolo.  Oisciolta  1'  adunanza  invitò nel  giorno  appresso  a raccogliersi  il  Senato  sospeso  e timoroso  pe’ delti  antecedenti  di  lui.  Prima  di  ogni  altra cosa  propose  un  tal  suo  sentimento  tenuto  occulto  alla plebe, e chiese  ai  padri  che  giacché  questa  era  stata  si utile  per  la  libertà  dando  mano  a farli  dominare  su  gli altri, prendessero  cura  di  lei  e le  dispensassero  il  terreno, pubblico  in  sestesso  per  essere  acquistalo  colle armi, ma  goduto  in  fatti  senza  niun  dritto  da  patrizj impudentissimi  : e poi  chiese  che  si  rendesse  dal  pubiuale  fu  sopraimominaiu  Poplicola. potenti  per  aderenze  e ricchezze, e tutto  che  giovani, non  inferiori  a niun  pari  loro  nei  trattare  le  pubbliche cose  esercitavano  la  questura.  Ed  arbitri  per  questo -di intimar  le  adunanze  accusarono  al  popolo  con  incolpa zioni  di  tirannide  Spurio  Cassio  il  console  dell’  anno precedente,  che  osò  d’introdurre  le  leggi  su  la  partizione delle  campagne  ; e • preGggendogli  il  giorno,  lo  citarono a giustiCcarsene  presso  del  popolo.  Adunatasi  nei  giorno prescritto  gran  gente  essi  invitandola  ad  ascoltare  dimostrarono che  le  opere  manifeste  di  quest’  uomo  non comprendeano  nulla  di  buono  : primieramente  perchè mentre  i Latini  appagavansi  di  essere  ammessi  alla  cittadinanza, e riputavano  sommo  il  favore  se  la  ottenevano; egli  console  non  solamente  concedè  la  cittadinanza che  dimandavano,  ma  decretò  che  si  desse  loco  il  terzo delie  spoglie  della  guerra,  se  in  comune  la  sostenessero: secondariamente  perché  rendette  amici  in  luogo  di  sudditi, concittadini  in  luogo  di  tributar)  gli  Eroici  che, vinti, doveano  ben  esser  contenti  se  non  erano  danneggiati  collo  smembramento  delle  lor  terre;  anzi  ordinò che  si  desse  loro  pur  la  terza  parte  delle  prede  e 'Tlelle campagne  che  fossero  mai  per  conquisure.  Tanto  che divisa  la  preda  in  tre  parti  doveano  i sudditi  e foresuerì pigliarne  due  parli, ed  i paesani  e padroni  una  sola. Dimostravano  che  da  questi  due  assurdi  ne  segnirebbe r uno  o altro, se  volessero  pe’  molti  e segnalati  servigi condecorare  un  altro  popolo  come  i Latini,  o come  gli Eroici  che  ninno  prestato  ne  aveano,  vuol  dire:  o che non  avrebbero  che  dar  loro  , o se  volessero  pareg  Il  lesto  di  Rciske   si  togUmero e confiscassero  i beni  del  padre  che  ne  avea  svelato  le brighe  per  la  tirannide  ; e per  questo  io  decidomi  piuttosto per  la  prima  narrazione.  Le  ho  nondimeno  riferite ambedue,  perchè  coloro  che  leggono  aderiscano  a quale più  vogliono. Insistendo  poscia  alcuni  perché  si  uccidessero i figli  ancora  di  Cassio;  parve  al  Senato  aspra  la inchiesta    utile.  E congregatosi  decretò  che  si  rilasciassero, c vivessero  sicurissimi  da  esilj, da  infamie, da  ogni  sciagura.  Da  quel  fatto  si  stabili  tra’  Romani r uso, custoditovi  fino  a’  miei  giorni, che  vadano  immuni da  ogni  pena  i figli  di  padri  delinquenti, sian essi  figli  di  tiranni, di  parricidi  o di  traditori, che  tra loro  è il  massimo  dei  delitti.  E quelli  che  vicini  al  nostro tempo, circa  il  fine  della  guerra  Marsia, e della guerra  civile  dandosi  ad  abolire  quest’  uso, impedirono finché  dominarono  che  i figli  dei  proscritti  da  Siila giungessero  agli  onori  paterni  e prendessero  posto  in Senato, sembrarono  far  opera  degna  della  esecrazione degli  uomini, e della  vendetta  de’  numi.  Perocché  col volger  degli  anni  raggiunse  loro  la  giustizia, vendicatrice non  riprovata, per  la  quale  furono  dal  colmo  della gloria  precipitati  ai  fondo  delia  miseria;  non  lasciandosi del  lignaggio  loro  se  non  la  prole  nata  di  femmine.  E colui    che  li  distrusse  riordinò  quei  costume  com’era ne’ prìncipi.  Pfeaso  di  alquanti  greci  però  non  è così mite  il  costume;  perchè  alcuni  credono  giusto  che  i gli  de’  tiranni  co’  tiranni  finiscano;  ed  altri  con  perpetuo esilio  li  punistxtno;  quasi  non  consenta  la  natura  che sorgano  figli  buoni  da’  padri  rei  ; nè  figli  rei  da  buoni padri.  Ma  su  ciò  lascio  che  altri  discuta,  se  migliore  è l’uso;  de’  Greci  o migliore  quel  de’  Romani  : ed  io  prosieguo la  storia.  Dopo  la  morte  di  Cassio  i fautori  del  comando de’ pochi  divennero  più  baldanzosi,  e spregiatori del  popolo.  Laonde  gl’  ignobili  per  nome  e sostanze  se ne  abbatterono  ; accusando  molto  sestessi  di  stoltezza, perchè  aveano  colla  condanna'  di  lui  distmito  il  custode fidissimo  della  fazion  popolare.  Era  questa  la  causa  per la  quale  i consoli  non  eseguivano  il  decreto  de’ senatori pel  quale  doveano  eleggere  i dieci  che  determinassero la  terra  pubblica, e riferire  in  Senato  quanta  parte  ne fosse  da  dividere, ed  a quali  persone.  Adunque  si  tenean  de’  crocchi  mormorandovisi  in  ciascuno  so  l’ inganno, ed  incolpandovisi  più  che  tutti  i tribuni  precedenti come  traditori  del  comune  ; slmilmente  faceansi dai  tribuni  d’  allora  continue  le  adunanze  e le  richieste della  promessa.  Or  ciò  vedendo  i consoli  deliberarono rimovere  col  pretesto  di  guerra  la  parte  sediziosa  della   Aagatto. città  ; percccbé  di  qae  tempi  il  territorio  era  iofesiato da’  ladronecci, e dalle  scorrerie  de  popoli  circonvicini. Adunque  per  far  la  vendetta  degli  aggressori  aveano inalberato  i segnali  di  guerra, ed  iscriveano  le  milizie della  città.  Ma, non  dando  i poveri  il  nome  loro,  non potevano  astringervi  a nonna  delle  leggi  gl  indocili, {jerocchè  li  tribuni  proteggevano  la  moltitudine, e lo avrebbero  impedito,  se  altri  tentava  portar  la  violenza su  le  persone, o le  robe  di  chi  ricusava.  Adunque lanciarono  i consoli  molte  minacce, che  non  permette rebbero  che  alcuno  rivoltasse  la  moltitudine  ; e svegliarono ne’  cuori  un  secreto  sospetto  che  nominerebbero un  dittatore  il  quale  sospendesse  tutti  gli  altri  magistrati, ed  avesse  egli  solo  un  potere  supremo  ed  irrefragabile. In  tale  apprensione  i plebei  temendo  che  il  dittatore fosse  Appio, uomo  duro  e dlflìcile, piegaronsi  a soffrire ogni  cosa, piuttosto  che  questa. Descrittone  il  molo, i consoli  presero  le milizie, e marciarono  su  l’ inimico.  Gettatosi  Cornelio nel  territorio  de’Vejenti  ne  portò  via  la  preda  sorpresavi. Allora  i Yejenti  spedirono  ambasciadori, ed  egli rilasciò  loro  i prigionieri  per  date  somme,  e concedè la  tregua  di  un  anno.  Fabio  coU’altr  armata  piombò  su la  terra  degli  Equi, e quindi  su  quella  de’  Volsci.  Pazientarouo  i Yolsci  alcun  tempo,  ma  non  molto,  che fossero  i campi  loro  predati  e devastati:  poi  spregiando i Romani come  venuti  con  armata  non  grande  impugnarono in  buon  numero  le  armi, ed  uscirono  su  le terre  degli  Anziati  per  Incontrarli  : se  non  che  ne  andarono anzi  precipitosi  che  savj  : perocché  se  giungevano  inaspettati,  e K>rprendeano  i Romani  mentre  erano qua  e là  dispersi;  ne  avrebbero  assai  variato  le  vicende; ma  il  console  istruito  del  giunger  loro  dagli  esploratori, richiamò  bentosto  i suoi, sbandati  com’  erano, da’  foraggi, e dié  loro  la  ordinanza  conveniente  alla  guerra. Come  i Volaci  che  .-venivano  confidando  e spregiando, videro  fuori  dell’  imaginazione  tutte  le  forze  nemiche ordinate  e raccolte, sbalordirono  alio  spettacolo  inopinato : nè  più  curando  la  salvezza  comune, provvide ognuno  alla  sua,  e dando  volta,  con  quanto  aveàno  di velocità,  fuggirono  tutti  chi  per  una  e chi  per  altra  via; salvandosene  la  maggior  parte  nella  città .  Solamente nu  picciolo  corpo  il  quale  era  più  che  gli  altri  ordinato ritirandosi  alla  cima  di  un  monte, quivi  pose  le  armi e vi  pernottò.  Ma  ne’  giorni  seguenti  essendo  dal  console circondala  1’  altura  e chiusene  tutte  le  uscite, necessitato dalla  fame  si  sottomise, e cedette  le  arme.  11 I console  fe’  vendere  pe’  questori  quanto  vi  era, prede, spoglie,  prigionieri,  onde  riportarne  danaro  alla  patria. Non  molto  dopo  levò  1’  esercito  dalle  terre  nemiche  e a suoi  lo  ricondusse, ornai  standosi  1’  anno  per  terminare. Giunto  il  tempo  da  creare  i magistrati, i patrizj che  vedevano  il  popolo  irritato  e pentito  della  condanna di  Cassio, deliberarono  di  sopravvegliare  perchè  non facesse  movimenti  elevato  di  nuovo  a speranze  di  donativi e di  divisioni  di  terre  da  taluno  che  prendesse gli  onori  consolari  pieno  della  facondia  per  aringarlo e travolgerlo.  Parve  loro  che  se  il  popolo  desiderasse ponto  di  ciò,  potesse  impedirsegli  con  eleggere  un  console  ad  esso  non  £tvorevole.  Ck>nchiuso  ciò  confortano perchè  aspirino  al  consolato  Fabio  Cesone  1’  uno  degli accusatori  di  Cassio  fratello  di  Quinto,  console  attuale^ e Lucio  Emilio   altro  patrizio  propensi^mo  agli  Otti mali.  Non  potendo  il  popolo  impedir  questi  due  che aspirassero  al  consolato, usci  dal  campo  e si  levò  dai comizj.  Perciocché  ne’comizj  centuriati  tutto  il  poter de’snfiragj  assorbivasi  da’ cittadini  più  illustri  e primi  di ordine  ; e di  raro  cosa  alcuna  si  decideva  col  voto  ancora delle  centurie  intermedie  di  ordine:  la  classe  estrema poi  nrila  quale  votava  la  parte  più  misera  e più numerosa  non  avea, come  innanzi  fii  detto,  se  non  un voto  solo, il  quale  era  1’  ultimo. Adunque  negli  anni  dugento  settanta  dalla fondazione  di  Roma    essendo  Nicodemo  1’  arconte  di Atene  divennero  consoli  Lucio  Emilio  figliuolo  di  Mamerco,  e Fabio  Cesone  figliuolo 'di  Cesone.  Ora  succedette loro  secondo  il  desiderio  di  non  essere  pertui> bati  da  sedizioni  civili;  per  essere  la  repubblica  investita di  fuori.  E le  cessazioni  delle  guerre  esterne  sogliono rieccitare  le  nazionali, e dimestiche  tra’  Greci, tra’  bar bari,  e dovunque,  principalmente  tra’ popoli  che  vivono Ira  le  armi  e i travagli  per  amore  della  bbertà  e del comando  ; perchè  gli  animi  avvezzi  a bramare  ognora più, ridotti  senza  gli  esercizj  consueti  difficilmente  si contengono.  Su  tal  vista  comandanti  savissimi  fomentano sempre  alcuna  discordia  cogli  esteri;  giudicando  migliori le  guerre  nelle  regioni  altrui  che  nella  propria.  Allora Roma Giatonc Varrone]  I 1 I fecondo  il  genio  appunto  de’  consoli, occorsero  come bo  detto,  le  insurrezioni  de’ sudditi.  Imperocché  li  Volsci sia  che  hdassero  ne’juoti  interni  di  Roma,  contendendo il  popolo  co’  magistrati  ; sia  che  fremessero  per  la  infamia della  precedente  disfatta,  ricevuta  senza  combattere; sia  che  insuperbissero  per  le  forze  loro  che  eran  grandissime; sia  che  seguissero  tutte  insieme  queste  cagioni; aveano  deliberato  ikr  guerra  ai  Romani.  E raccogliendo i giovani  da  tutte  le  dtté  marciarono  con  parte  dell’esercito contro  le  città  de’  Latini  e degli  Ernici, e coll’ altra  che  era  la  più  numerosa  e più  forte  teneansi pronti  a ribattere  chiunque  si  avanzasse  contro  le  loro. 1 Romani  ciò  saputo  deliberarono  dividere  1’  armata  in due  corpi,  e guardare  con  uno  le  terre  degli  Ernici  e de’  Latini, e correre  coll’  altro  a depredare  quelle  dei iVolsd. Avendo  i consoli, com’  è loro  costume, tirato  a sorte  le  milizie  ; Fabio  Cesone  assunse  il  comando di  quelle  che  andavano  a soccorrere  gli  alleati, e Lucio  marciò  colle  altre  contro  la  città  degli  Anxiati. Avvicinatosene  ai  confini, e vedutevi  le  armi  nemiche, si  accampò  su  di  un  colle  a fronte  di  ^e.  Ma  uscendo i nemici  ne’  giorni  consecutivi  più  volte  in  campo, e sfidando  alia  battaglia;  egli  credette  avere  il  buon  punto, e cavò  le  sue  schiere.  Ed  ammonitele, e riammonitele prima  del  cimento  ; alfine  diedene  il^egno  e le avventò. Bentosto  i soldati  alzato  il  grido  consueto  della battaglia  pugnarono  folli, a schiere  e coorti.  Esaurite poi  le  lance, i dac;di  cd  ogni  arme  da  tiro  si  scagliarono, rotando  le  spade,  gli  uni  su  gli  altri  con  ardire e desiderio  eguale  di  misurarsi.  Era  iu  ambedue  simi lissima  la  maniera  di  combattere  : nè  maggiore  tra  Ro mani  la  saviezza  e la  sperieuza  che  gli  aveva  rendati già  più  volte  vincitori, nè  maggiore  la  costanza  e la sofferenza  per  1  esercizio  di  tante  battaglie  ; ma  le  doti stessissime  brillavano  pur  tra’  nemici  6n  dall’  ora, che fu  duce  loro  Marcio,  famosissimo  duce  romano.  Adun(jne  gii  uni  resistevano  agli  altri  senza  cedere  il  posto preso  in  principio.  Ma  dopo  alquanto  i Volaci  a poco a poco  si  ritirano, schierati, e con  ordine, tenendo fronte  ai  Romani.  Tendea  quel  movimento  a dividere le  milizie  di  questi  e combatterle  da  lut^o  elevato. In  opposito  i Romani  credendo  che  questi principiasser  la  fuga  tennero  anch’  essi  a passo  a passo in  buon  ordine  dietro  loro  che  si  ritiravano.  Ma  poiché videro  che  a rilancio  conevano  agli  alloggiamenti  anch’ essi  rapidissimi, in  disordine  li  seguitarono.  Intanto le  centurie  estreme  e la  retroguardia, quasi  già  vincitrici, spogliavano  i morti, e davansi  a predare  la  regione. Vedendo  ciò  li  Voisci  che  facean  credere  di fuggire, giunti  appena  alle  Urincee, voltata  faccia, si contrapposero  : e quelli  che  erano  negli  alloggiamenti, spalancate  le  porle, accorsero  numerosi  da  più  parti. Or  qui  cambiarono  le  vicende  della  battaglia  : chi  perseguitava fugge, e chi  fuggiva  perseguita.  Perirono, com’  è naturale, molti  bravi  Romani  incalzati  giù  pel declivio, e circondati  ; essi  pochi, dai  molti.  Non  dissimile sorte  incontrarono  quanti  eransi  dati  a spogliare e predare, impediti  di  retrocedere  schierati  e con  oi^ dine  ; imperocché  sopraHatti  ancor  essi  da'  nemici  restavano  iracidali  o prìgiooierì.  Quanti  però  di  questi  o di quelli  respinti  giù  pel  monte  fuggivano  in  salvo  ; soccorsi, benché  tardi,  dalia  cavalleria,  tornavano  al6ne a’  proprj  alloggiamenti  : e parve  che  a non  essere  intc-ramenie  distratti  giovasse  loro  un’acqua  dirottissima  dal cielo, ed  un  bujo  qual  formasi  per  nebbia  profondissima ; perocché  non  potendo  i nemici  vedere  più  di  lon tano, infkslidirottsi  a seguitarli  più  oltre.  La  noue  appresso il  console  movendo  l’ armata  la  ritirò  cheta, in buon  ordine, sicché  1’  inimico  noi  comprendesse.  Al tornar  della  sera  mise  il  campo  presso  la  ciué  di  Longòla  t scegliendo  un’altura  idonea,  onde. respingerne  gli assalitori.  E qui  fermatosi  curava  gli  egri  .dalle  ferite, e rianimava  gli  aiHitti  dalla  vergogna  delia  disfatta  impensata. Tale  er^  lo  stato  de’  Romani.  Li  Volacipoi  come  al  nascere  dei  giorno  conobbero  che  quelli eransi  di  loggiati;  portarono  più  da  vicino  il  campo  loro. Quindi  spogliato  avendo  i cadaveri  de’  nemici, raccolto i semivivi  che  davano  speransa  di  guarigione, e seppellito gli  estinti  loro  compagni, rientrarono  la  città  di Anzio  che  prossima  rimaneva.  Qui  cantando  inni  e porgendo in  ogni  tempio  sagrifìzi  per  la  vittoria, si  diedero ne’ giorni  seguenti  ai  conviti  e piaceri.  E se  teneansi  a quella  vittoria,    intraprendevano  altra  cosa;  la  guerra avrebbe  avuto  per  essi  nn  esito  fortunato.  Imperocché li  Romani  non  aveano  cuore  di  uscire  dagli  alloggiamenti per  combattere  ; anzi  desideravano  di  lasciare  le  terre nemiche, anteponendo  nna  fuga  ingloriosa  ad  una  morte DIOIfJGI, tomo  ut.   manifesu.  Infiammati  però  da  speranae  maggiori, perderoDO  la  gloria  ancora  della  prima  vittoria.  Udendo  dagli eipioratori  e dai  disertori  che  i Rbmani  andati  salvi eran  pochi, e per  lo  più  feriti  ; ne  concepirono  disprezzo grandissimo, ed  impugnate  le  armi  marciaron  sa  loroi Li  seguitarono  senza  1’  armi  moiri  della  città  per  vedor la  batuglia, e per  fare  insieme  prede  e guadagni.  Ma quando  giunti  all  altura  circondarono  gli  alloggiamenti, e presero  a svellerne  gli  steccati  ; proruppero  prima  su di  essi  i oivalieri  Romani, postiti  a piede  per  la  condizione del  luogo,  e poi  li  triarj, schieratisi  strettissimi. Sono  questi  i veterani  a’  quali  si    la  guardia  degli  alloggiamenti, se  le  milizie  escono  per  combattere, ed a’  quali  per  mancanza  di  altri  ripari  si  ha  restrerao  indispensahil  ricorso  quando  avviene  strage  funesta  de’  giovani. Ne  sostennero  i iVolsci  la  irruzione  e pugnarono gran  tempo  pieni  di  valore.  Ma  non  favoriti  poi  dalla natura  del  aito  se  ne  rimossero  : e fatto  a’  nemici  danno tenue,    degno  di  memoria,  e ricevutolo  essi  più grande  ancora;  calarono  alia  pianura.  Messi  quivi  gli alloggiamenti, schierarono  ne’  giorni  appresso  1’  armata, e provocarono  i Romani  alla  battaglia  : nè  pertanto  uscirono questi  al  paragone.  1 Volsci  vedendo  ciò  li  spregiarono : e convocate  le  milizie  dalle  loro  città  ; si  ap pareccbiarono  per  espugnarne  le  trincee  colla  moltitudine. E ben  erano  per  fare  alcuna  cosa  di  grande  riducendo per  patri  e colla  forza  il  console  e i suoi  che già  penuriavano  ; ma  giunse  prima  di  loro  il  soccorso Romano, e furono  traversati  da  compiere  con  bellissimo (ìpe  la  guerra.  Imperocché  Fabio  Cesoue  l’altro  console,.  I I 5 Mpen rono  compartiti  pe’  corpi  varj.  I consoli  dopo  avere  sup> plite  le  coorti  mancanti, tirarono  a sorte  il  comando degli  eserciti.  Prese  F abio  l’ esercito  sostenitore  degli alleati, e Valerio  1’  altro  che   accampava  tra’Yolsci  ; recandovi le  nuove  reclute.  I nemici  saputo  il  giugner  di lui, deliberarono  far  venir  nuove  troppe, trinderarsi  in luogo  più  forte,    coìrere,  come  prima, per  lo  dispregio rovinose  vicende.  F orqirono  i duci  tutto  ciò  speditissimàmente, intenti  l’ uno, e l’ altro  a guardare  le trincere  sue  dagli  assalti, non  ad  assalir  le  inimiche, per  espugnarle.  Cosi  decorse  non  poco  tempo  fra  terror  vicendevole  che  1’  ano  1’  altro  investisse.  Non  poterono però  l’uno  e l’altro  osservare  sino  al  fine  il  proposito. Imperocché  quante  volte  spedivasi  alcuna  parte di  esercito  pe’  frumenti  o per  altro  bisogno  ; davansi  attacchi e percosse,  con  esito  non  sempre  vittorioso  per '   Cesare (a)  Altenlare  so’  Iribaoi  era  delitto  graTÌssimo, perchè  le  persone loro  si  riguardavano  come  sacre  ed  inviolabili  : Quindi  Cicerone nel  lib.  3 de  legibns  scrive:  quodque  ii  prohibessint, quodque  plcbem  rogaisint  ralitm  està  ^ taneiique  turno.   vin.  I ig UD  de'  partiti.  Ne  perirono  in  tante  scaramacce  non  pochi ; restandone  feriti  ancor  più.  Non  riparava  le  perdite Romane  alcun  nuovo  rinforzo  venuto  altronde  ; mentre i Volsci, sopravvenendo  ad  essi  schiere  su  schiere, si erano  moltissimo  ampliati.  Dond’è  che  animatine  i duci loro, cavarono  dalle  trincee  1’  esercito  per  la  battaglia. Usciti  i Romani  nommeno  e schieratisi  a fronte,  insorse  una  mischia  grandissima  di  cavalli,  di  fanti, di  soldati  leggeri, pieni  tutti  di  ardore  e di  > sperienza e ciascuno  col  disegno  che  dipendesse  da  lui  solamente la  vittoria.  Cadutine  dall’  una  e dall’  altra  parte  molti estinti, e piò  ancor  semivivi  ; si  ridussero  a pochi  quelli che  tuttavia  rimanevano  tra  la  mischia  e il  pericolo.  Or non  potendo  questi  fare  le  azioni  di  guerra  perchè  gli scodi  destinati  a difendere, pieni  di  dardi  conGccativi  ^ aggravavano  la  sinistra, né  permettevano  che  si  tenesse ferma  in  atto  di  ripercotere  i colpi, e perchè  le  spade erano  ornai  spuntate,  rotte, inutili  ; tanto  più  che  il combattere  di  tutto  il  giorno  gli  aveva  stancati,  mer^ vati, illanguiditi  a ferire, e la  sete,  il  sudore, l’aiTanno travagliavali  come  chi  combatte  a lungo  nelle  ardentissime ore  di  estate;  la  battaglia  non  prese  termine  me morando, ma  1’  nnò  e l’ altro  duce  ritirarono  ben  vo lentieri  le  armate  : e tornarono  a’  proprj  alloggiamenti^ Non  uscivano  più  gli  uni  o gli  altri  a combattere,  ma standosi  dirimpetto  spiavano  a vicenda  le  sortite  degli emoli  pe’  bisogni  di  guerra.  Parve  nondimeno, e molto in  Roma  se  ne  discorse, che  la  milizia  Romana, potendolo, non  facesse  nulla  di  luminoso  per  odio  contro del  console, e per  indignazione  su’  patrizj, mentitori nella  dÌTÌsione  delle  terre.  In  opposito  i soldati  acctisa vano  il  console  come  insulficiente  ; scrìvendone  ognuno lettere  ai  suoi.  Tali  furono  gli  eventi  nel  campo  in  Roma intanto  molti  segni  celesti  annunziarono  l’ira  divina  con voci, e viste  inusitate.  E tutti  i segni  concorrevano  a questo, come  i vati  e gli  spositorì  delle  sante  cose, te nutone  consiglio, interpretavano, che  alcuni  de’  numi erano  esacerbati, perché  non  riceveano  gli  onori  legit timi,  o riceveano  sagrifizj  non  puri,    pii.  Faceasi dunque  grande  ricerca,  6nchè  diedesi  indizio  a’  sacerdoti che  l’ una  delie  vergini, custodi  del  fuoco  sacro  ( Opimia  n’ era  il  nome)  avea  la  verginità  contaminato,  e con  la  virginità  le  sante  cose.  Or  questi  con  indagini e discussioni  chiarìtlsi  .esser  vero  pur  troppo  il  fello  indicato, spogliarono  quella  delie  sacre  bende,  e condottala di  su  |1  foro,  la  seppellirono  viva  tra  sotterranee pareti.  Flagellarono  poi  nella  pubblica  luce  ed  uccisero due  convinti  del  fello  con  essa.  E ben  tosto  favorevoli le  sante  cose, e favorevoli  si  ebbero  le  risposte  degl’indovini, come  per  la  pace  venduta  da’  numi. XC;  Giunto  il  tempo  de’comizj, e venutivi  i consoli, ebberì  briga  e contenzione  assai  viva  tra’  patrìzj  e tra  ’l popolo  su’  personaggi  che  avrebbero  da  pigiare  il  comando. Voleano  quelli  promovere  al  consolalo  giovani intraprendenti    amici  della  plebe  ; e per  insinuazione loro  chiedevalo  il  figlio  di  Appio  Claudio, di  quello  riputato già  si  contrario  al  popolo  ; ed  era  questo  figlio pieno  di  orgoglio  e di  audacia, e potente  per  amicizie e clientele  più  che  lutti  dell’  età  sua.  Per  l’ opposito  il popolo  nominava  a far  l’ utile  pubblico  e volea  per  con  vm:  1 3 1 soli  personaggi  anziani, notissimi  per  le  d^ci  maniete sole  vi  marciasse  colle  armate.  Fu  tal  decreto  un  sub> bjetto  di  contraddizioni  : perocché  molti  non  lasciavano che  la  guerra  uscisse, ricordando  a’  plebei  la  partizion delle  terre  decisa  già  da  cinque  anni  dal  Senato, e come tra  le  belle  speranze  furono  defraudati, e protestando che  non  particolare  ma  comune  sarebbe  quella  guerra, se  la  Etruria  tutta  levavasi  unanime  a soccorrere  ì suoi nazionali.  Non  poterono  però  nulla  tali  sediziosi  discorsi; imperocché  per  le  insinuazioni  di  Spurio  Largio  anche il  popolo  ratiScò  la  sentenza  de’  padri  : pertanto  i consoh  cavarono  gli  eserciti, e gli  accamparono  separati r uno  dall’  altro, non  lungi  da  Yejo.  Si  tennero  in  tal modo  più  giorni:  non  uscendone  però  l’inimico  coll’armata  ; datisi  a saccheggiarne  i campi, sen  tornarono  con quanta  poteano  più  preda  in  patria.  Or  ciò  e non  altro vi  ebbe  di  memorabile  sotto  questi  consoli.  L JLj  anno  appresso  nacque  disparere  tra  ’l  popolo  e tra  i senatori  su  la  scelta  de'  consoli  : imperocché  questi voleano  promovere  al  consolato  due  di  cuore  patrizio, laddove  la  moltitudine  due  ne  volea  popolareschi. Arse  la  disputa  finché  tra  loro  si  persuasero,  che  ambedue le  parti  dovessero  nominare, ciascuna, un  console. Pertanto  il  Senato  elesse  Fabio  Cesene  per  la  seconda volta, quello  appunto  che  aveva  accusato  Cassio  come reo  di  tirannide,  ed  il  popolo  creò  Spurio  Furio Roma Catone Vairone.  laS nella  olimpiade  settantesima  quinta  ; essendo  Calliade Arconte  in  Atene, al  tempo  appunto  che  Serse  fece  la sua  spedizione  contro  della  Grecia.  Or  avendo  questi preso  appena  il  comando, yennero  in  Senato  gli  ambasciadori  Latini  per  supplicarvi,  che  si  mandasse  loro coir  esercito  l’ uno  de’  consoli, il  quale  non  permettesse che  la  insolenza  degli  Equi  procedesse  più  oltre.  Annunziavasì  insieme  che  la  Etruria  tutta  era  in  moto, e che  tra  non  molto  uscirebbe  colle  armi  per  essersi  già riunita  in  (x>mizj  generali  : come  pure  che  avendo  i Vejenti  insistito  per  congiungersele  contro  i Romani, ne  aveano  Gnalmente  ottenuto, che  potesse  ogni  Tirreno parucipare  alla  impresa:  dond’ è che  fatto,  si  era  un corpo  riguardevole  di  Vejenti  volontari, per  militarvi. Or  ciò  vedendo  i magistrati  Romani  deliberarono  che  si recintasser  le  armate, e che  li  consoli  uscissero  con  esse r uno  per  combattere  gli  Equi, ed  esser  il  vindice  dei Latini  ; e l' altro  per  marciare  contro  l’ Etruria.  Opponessi a ciò  Spurio  Sidnio    l’uno  de’tribnoi,  è con gregando  ogni  giorno  il  popolo  a conclone  raddomandava  le  promesse  dal  Senato, e protestava  che  non  pen> metterebbe, che  si  eseguisse  niuna  delle  cose  decretate da’  padri  su’  nemid  o su  la  dttà,  se  prima  non  creavano i Died, per  deBnire  le  terre  del  pubblico, e non  le compartivano, come  eransi  obbligati  in  verso  dd  popolo. Implicavasi, nè  sapeva  che  fare  il  Senato  ; quando  Ap>   In  atconì  codici  ti  legge  Icilio:  e Lirio  stesso  nel  lib.  4, dice  : auetoret  fuitte  tam  Uberi  popolo  mffrayì  leitios  accipio, ex  famitia  i/ifeetUtima  patribue  Irei  in  eam  antuun  Uibunot  plebù ereaioi. e pio  Claudio  suggerì  che  si  procurasse  la  dissensione  tra questo  e gli  altri  Tribuni  ; perciocché  vedea, eh'  essendo r oppositore  inviolabile,  ed  impedendo  col  poter  dei^ leggi  i decreti  de’ padri,  non  rimaneva  altra  via  da  rintuzuraelo,  se  non  quella  che  un  altro  di  eguale  onore e potenza  operasse  in  conurario, e proibisse  ciocch’  egli proibiva:  consigliava  inoltre  che  quanti  prenderebbero successivamente  il  consolato  si  adoperassero, e mirassero sempre  ad  avere  iàmigliari  ed  amici  de’' tribuni, ripe tendo  non  esservi  altr’  arte  da  iuvalidame  il  potere, se non  quella  di  ridurli  discordi. II.  Parve  ai  consoli  che  Appio  ben  consigliasse,  ed essi, e gii  altri  de’più  potenti  si  afiàticarono  vivamente, perchè  quattro  de’  tribuni  si  dessero  ai  voleri  del  Se> nato.  Or  questi  cercarono  alcun  tempo  persuadere  colle parole  Sicinio  a desistere  dalla  mira  che  i terreni  si' dividessero innanzi  la  fin  della  guerra.  Ripugnando  e giurando, e dicendo  però  costui  protervissimamente, che vorrebbe  piuttosto  vedere  la  città  caduta  in  poter  dei Tirreni  e di  altri  nemici, che  lasciare  placidi  a sestessi que’  che  godeansi  le  terre  del  pubblico, pensarono  di prender  quindi  la  bella  occasione  di  parlare, e di  operare contro  tanta  arroganza, non  udita  con  piacere, nemmeno  dal  popolo.  Adunque  dichiararono  che  gliel proibivano  ; e fecero  svelatamente, quanto  piacque  al Senato, ed  ai  consoli.  Dond’  é che  Sicinio  rimasto  solo non  era  più  1’  arbitro  di  cosa  niuna.  Fecesi  dopo  ciò la  iscrizion  dell’  annata, e si  apparecchiarono  dai  privati, e dal  pubblico  con  ogni  diligenza  le  cose  tutte necessarie  per  la  guerra.  I consoli, tirata  a sorte  la  spe.  127 dÌEioQ  loro,  uscirono  ben  (osto  all'aperto,  Spurio  Furio contro  le  città  degli  Equi, e Fabio  Casone  contro  i Tirreni.  Corrispondevano  i successi  appunto  ai  disegni  di Spurio  ; non  avendo  i nemici  nemmen  cuore  di  venire alle  mani  : e potè  di  quella  spedizione  raccogliere  danari e prigionieri  in  buon  numero  ; imperocché  per  poco non  scorse  tutto  il  territorio  nemico, menando  o portando via.  Concedè  tutte  le  prede  in  dono  ai  soldati  : e se  parea  già  da  gran  tempo  l’amico  del  popolo;  più che  mai  se  lo  accarezzò  con  tal  suo  capitanato.  Del quale, finito  il  tempo, ricondusse  l’ esercito  intero,  inviolato, ricchissimo  divenuto, alla  patria. IIL  Fabio  Cesone  diresse  nemmeno  bene  il  comando deir  armata, por  andò  privo  delle  lodi  delle  opere, non per  colpa  sua, ma  perchè  fin  d’ allora  che  fe’  giudicare, e dare  a morte  Cassio  il  console,  come  intento  alla  tirannide, non  avea  più  lafiètto  del  popolo.  Donde  che li  soldati  suoi  non  erano  disposti    ad  ubbidire  colla prestezza  la  quale  abbisogna  al  duce, che  ordina, nè ad  espugnare  con  ardore  quantunque  muniti  di  fòrze convenienti, nè  a guadagnare  colle  insidie  i posti  opportuni al  buon  successo, nè  a fare  cosa  niuna  dalla quale  raccogliesse  onore  e fama  buona  pe’  comandi  che dava.  Le  altre  iocongruenze  poi  colle  quali  spregiavano esso  capitano  erano  per  lui  meno  gravi, nè  di  tanta  rovina per  la  patria.  Se  non  che  quel  che  fecero  in  ultimo creò  pericolo  non  lieve,  e grande  ignominia  per  ambe> due.  Imperocché  scesi  a battaglia  campale  fra  i due  colli su  quali  alloggiavano  diedero  molte  e splendide  prove di  valore, fin  a scingere  i nemici  a dar  volta  ; non però  gl'  inseguirono  nella  fuga, sebbene  il  capitano  ve gli  scongiurasse, né  vollero  con  fermezza  asserliame gli  alloggiamenli  ; ma  lasciata  la  bell  opera  imperfetta, si  ritirarono  alle  proprie  trincee.  Anzi  tentando  il  console capitano  dire  alcune  cose  :  molti  a gran  voce ne  lo  beffarono,  e redarguironlo  che  avesse  per  la  im> perizia  sua  nei  comandare,  fatto  tra  lor  la  rovina  di tanti  valentuommi:  ed  aggiungendo  altre  maldicenze  e querele, esigerono  che  sciogliesse  il  campo, e li  riconducesse a Roma, come  insufficienti  ad  una  seconda  battaglia, se  il  nemico  su  loro  tornasse.    puntò  si  pie garouo  per  le  ammonizioni, nè  si  commossero  pe’  g> miti, e per  le  suppliche  di  lui, nè  le  grandi  minaccie ne  riverirono  { ma  sd^nandosene  ognora  più  si  ostinarono. Per  le  quali  cose  tanta, e tanto  universale  fu la  insubordinazione, e il  dispregio  pel  capitano;  che  le-vatisi intorno  la  mezza  notte, dismisero  le  tende, e raccolsero le  armi  ; trasportandone  li  feriti, senza  comando ninno. ly.  Il  duce  vedendo  ciò  fu  costretto  dare  il  segno per  tutti  della  partenza  ; temendo  1  audacia  e l’ anarchia loro  : ed  essi  come  salvatisi  colla  fuga, pervennero  in gran  fretta  su  1’  alba  presso  di  Roma.  Le  guardie  delle mura  ignorando  che  fossero  amici, brandirono  le  armi, e chiamaronsi  a vicenda  ; e tutto  il  resto  della  ciltè  si empiè  di  confusione  e tumulto, come  per  grande  sciagura : nè  si  aprirono  le  porte, se  non  a di  luminoso, quando  si  ravvisò  eh’  era  1’  esercito  loro.  Questo  poi,   Secondo  ua’ altra  leiione  il  teaio  Mrebbe  : ami  tentando  aieuni  dare  ai  cotuoU  nome  d' Imptradore  ec. per  tacere  la  infamia  deli' abbandono  del  campo,  corse a riscbio  non  lieve, traversando  disordinatamente  di notte  le  terre  nemiche.  Imperocché  se  gli  emoli  se  ne avvedevano, e lo  inseguivano, niente  impediva  che  lo sterminassero.  Cagione, come  ho  detto, di  questa  irragionevol  partenza, o fuga, fu  l’odio  del  popolo  contr dei  capitano,  e la  invidia  su  la  onoriBcenza  di  lui,  af> finché  più  autorevole  non  divenisse  per  la  gloria  del trionfo.  I Tirreni  conosciutane  al  quovo  di  la  rimozione, spogliarono  i cadaveri  de’  Romani, presero  e trasportarono i feriti, e saccheggiarono  nelle  trincee  tutti  gli apparecchi, certamente  ben  grandi, come  per  guerra diuturna. Alfine  dopo  avere, quasi  vincitori,  depredate le  terre  nemiche  più  prossime, ricondussero  in  patria 1’  armata. V.  Creati  consoli  dopo  questi  Cajo  Malllo, e Marco F abio  per  la  seconda  volta, siccome  il  Senato  decretò, che  marciassero   contro  Vejo  con  armata  quanta  po> teano  numerosa, intimarono  il  giorno  per  la  iscrizioa dei  soldati.  Ben  pose  loro  Impedimento  per  questa  Til>erio  Pontificio  T uno  dei  tribuni  con  reclamare  il  de-creto su  la  partizione  delle  terre  : ma  essi,  come  aveano fatto  i consoli  antecedenti, guadagnando  altri  de’  tribuni, disunirono  que'  magistrati, e cosi  diedero  esecnzlone pienissima  ai  voleri  del  Senato.  Finita  in  pochi  di  la coscrizion  militare, uscirono  contro  de’  nemici  ; conducendo ciascuno  due  legioni, reclutate  dalf  interno  di  Roma Catone Varrons] Roma, e milizia  non  minore  ; spedita  dalle  colonie  e da’  sudditi.  Giunse  dai  Latini  e dagli  Emici  il  doppio del  soccorso  intimato, non  però  li  consoli  lo  usarono tutto, ma  rimandandone  la  metà, li  ringraziarono  amplissimamente di  tanto  buon  animo.  Accamparono  innanzi di  Roma  una  terza  armata  floridissima  di  due  legioni, per  guardia  del  territorio, se  mai  vi  si  presentasse altro  esercito  nemico  improvviso  ; e lasciarono  a difenderne  le  fortezze  e le  mura  gli  altri  non  più  compresi nella  iscrizion  militare,  ma  validi  ancora  per  le armi.  Quindi  guidando  gli  eserciti  fin  presso  di  Vejo ne  misero  il  campo  su  due  colli  non  molto  lontani  fra loro.  Accampavasi  davanti  la  città  l’armata  nemica, numerosa e buona  pur  essa  ; anzi  maggiore  non  poco  della Romana  per  esservi  accorsi  i primarj  di  tutta  la  Etmria co'lor  dipendenti.  All’aspetto  di  tanta  moltitudine,  allo splendore  delle  armi, assai  temerono  i consoli  di  non listare  a vincere, se  metteano  l’ esercito  loro  non  bene concorde  a fronte  dell’ esercito  unanime  de’ nemici.  Adunque deliberarono  i consoli  fortificare  il  campo, e prender tempo, finché  l’ audacia  nemica, elevata  da  un  irragionevol  disprezzo, desse  loro  la  opportunità  di  ben fare.  Seguivano  dopo  ciò  preludj  continui  di  battaglie, e brevi  scaramucce  di  soldati  leggeri  ; non  però  mai nulla  di  grande  o di  lumino). VI.  Mal  soffrendo  t Tirreni  la  dilazion  della  guerra accusavano  i Romani  di  viltà  perchè  non  uscivano  a battaglia, e magnifica vansi, quasi  avessero  questi  ceduta loro  r aperta  campagna.  Anzi  tanto  più  si  elevavano  a spregiare  le  milizie  nemiche  e vilipenderne  i consoli  ;.  1 3 I quanto  che  credeano  gl’  Iddj  combattere  pc’  Tirreni.  E certo  caduto  un  fulmine  nel  quartiere  di  Cajo  Mallio ]'  uno  de’  consoli,  ne  abbattè  la  tenda, ne  mandò  sosso pra  i focolari, ne  macchiò  le  arme, le  bruciò  d’  intor no, o in  tutto  glie  le  distrusse  ; e ne  uccise  il  più  co spicuo  de’  cavalli  dei  quali  valessi  nel  combattere, ed alquanti  de’  servi.  E condossiacbè  gl’  indovini  diceano che  i numi  annunziavano  la  presa  del  suo  campo,  e la rovina  de’  personaggi  più  riguardevoli  ; Mallio  levò  l’ e centrò nel  campo  stesso  del  compagno.  I Tirreni  conosciuta la  traslazione, ed  uditane  la  causa  da’  prigionieri, s’ ingrandirono  tanto  più  nel  cuor  loro,  quasi  il cielo  ancora  guerreggiasse  i Romani;  e moltissimo  confidarono di  vincerli.  E gl’indovini  loro  i quali  sembrano aver  meglio  che  quelli  di  altri  popoli  esaminato  i segni superni,  e d’onde  scoppino  i fulmini,  e dove  finiscano dopo  il  colpo,  da  qual  Dio  vengano, e con  quale  presagio di  bene  o dì  male;  esortavano  che  si  andasse  al nemico, inlerpetrando  il  segno  avvenuto  a’  Romani  in tal  modo  : poiché  il  fulmine  cadde  nella  tenda  consolare ov'  è il  centro  del  comando, e disfecevi  tutto insino  ai  focolari  ; egli  è indizio  divino  a tutto  l’  esercilo  deir  abbandono  del  campo  espugnato  a forza, e della  rovina  de'  più  riguardevoli.  Se  dunque, diceano, coloro  che  ebbero  U fulmine  restavansi  nel luogo  fulminato,    trasportavano  ciocci  erano  significato infra  gli  altri  ; la  presa  di  un  campo, e la distruzione  di  un’armata  sola  avrebbe  appagato  lo sdegno  del  nume  cite  U contrariava.  Ma  perciocché cercando  precedere  col  senno  gli  Dei  si  trassero  aiì aluo  campo,  lasciato  deserto  il  proprio,  quasi  il  segno celeste  fosse  pel  luogo  non  per  gli  uomini  ; quindi è che  [ ira  ' dà' ina  fulminerà  lutti  e chi  trasmutatasi, e chi  li  raccolse.  E siccome  mentre  la  necessità  divina prenunziava  la  presa  del  campo  essi  non  aspettarono, ma  lo  cederono  di  per  sestessi  a nemici, così  non  il campo  abbandonato  sarà  preso  di  forza, ma  quello che  ricettò  chi  lo  abbandonava. I Tirreni,  udite  tali  cose  dagl’indovini,  invasero con  parte  dell’  esercito  il  campo  derelitto  da’  Romani, per  valersene, contro  dell’  altro.  Erane  il  luogo  ben forte,  e mollo  accomodato  per  impedire  chi  da  Roma andava  all’  esercito.  Fatte  poi  diligentemente  altre  cose colle  quali  superar  l’ inimico, recarono  in  campo  1’  armata. Ma  standosene  i Romani  in  calma, i più  audaci fra  loro  scorsi  e fermatisi  a cavallo  presso  le  trincee, rampognarono  tutti, quasi  femmine  : e dicendo  simili  i duci  loro  agli  animali  più  timidi, gli  sbeffavano, e chiedeano  l’ una  delle  due, vuol  dire  ; che  se  disputavano altrui  la  gloria  delle  armi  ; scendessero  in  campo, e ne  decidessero  con  una  sola  battaglia  : ma  se  riconosceansi  per  codardi  ; cedessero  le  arme  ai  più  forti, subissero  la  pena  delle  opere,    più  aspirassero  a nulla di  grande.  Replicavano  altrettanto  ogni  giorno:  ma  per ciocché  niente  ne  proGttavano  ; deliberarono  rinserrarli intorno  intorno  con  muro,  per  astringerli,  almeno  colla fame,  alla  resa.  consoli  lungo  tempo  guardarono  solamente ciocché  facevasi  non  per  codardia    per  molIcsza,  essendo  Tuno  e l’ altro  animoso  e guerriero;  ma perchè  temevano  il  mal  talento,  e la  ritrosia  nata  e perpetuatasi  ne’  soldati  plebei  fin  d’ allora  che  il  popolo tumultuò  per  la  division  delle  terre.  Ancora  stavano loro  su  gli  orecchi, e su  gli  occhi  le  cose  che  avea fatte  nell’  anno  precedente  per  astio  sul  console, vituperose né  degne  di  Roma,  cedendo  la  vittoria  ai  vinti, e sostenendo  fin  gli  obbrobrj  di  una  fuga  non  vera, affinchè  colui  non  trionfasse. Vili.  Volendo  tor  vii  finalmente  dall’  esercito  la  sedizione e richiamare  alla  concordia  primitiva  la  moltitudine ; e dirigendo  a ciò  tutti  i disegni  e le  providenEe  ; poiché  non  poteano  ravvederla    co’  supplizj  parEÌali  come  protervissima  ed  armata,    co’ discorsi  come insofferente  di  essere  persuasa, concepirono  che  due vie  rimarrebbero  per  la  riconciliazione;  vuol  dire;  la infamia  di  essere  vilipeso  da’ nemici  per  gli  uomini  (che pur  ce  ne  avea  ) d’  indole  moderata, e la  necessitò, coi  tutti  paventano, per  gl’  indocili  al  bene.  Adunque per  effettuare  ambedue  queste  cose,  lasciarono  che  i nemici  li  disonorassero  colle  parole, biasimando  la  calma loro  come  la  calma  de’  vili  ; e li  necessitassero  coi fatti  pieni  di  arroganza  e disprezzo  a tornar  valentuomini, se  tali  non  dimostravansi  per  sestessi.  Speravano, se  ciò  faceasi, grandemente  che  accorrerebbero  tutti  al quarlier  generale  fremendo, gridando, ed  istando  di esser  condotti  al  nemico.  Or  ciò  appunto  addivenne  ; imperocché  non  si  tosto  prese  il  nemico  a rinchiudere con  fossa  e steccalo  le  uscite  dal  campo, i Romani considerata  la  indegnità  dell’  opera, ne  andarono  prima in  pochi, indi  in  folla  alle  tende  dui  consoli, c vi  schiamazzarono,  e come  di  tradimento  li  redarguirono; protestando  infine  die  se  niun  de’  due  li  guidava, essi di  per  sestessi  volerebbero  colle  armi  alla  roano  su  gli avversar).  Ciò  fatto  da  tutti,  giudicando  i consoli  venuta alfine  la  opportunità  che  aspettavano, imposero  agli araldi  di  chiamarli  a parlamento.  Allora  Fabio  recatosi innanzi  disse  : Sohìati, capitani,  tarda  è la  vostra  indignazione su  vilipendj  che  vi  si  Jan  da’  nemici  ; nè  più in  tempo  è la  volontà  che  at'ete  di  combatterli,  pei'che  m annestatasi  troppo  dopo  il  bisogno.  Allora  doveasi  ciò  fare  quaruìo  li  vedeste  la  prima  volta  scendete dalle  trincee, e cercar  la  batiaglia:  jdllora  bello era  il  combattere  pel  comando, e degno  della  sublimità de’  Romani.  Ora  necessario  ne  si  è reso,  e certo non  di  egtuile  decoro, quatulo  ancora  vincessimo. Nondimeno  sta  pur  bene  che  vogliate  una  volta  ri' scuotervi,  e riavervi  delle  occasioni  tralasciate,  E molto siete  lodevoli  per  tale  ardore  verso  le  nobili  gesta  ; imperocché  procede  da  virtù, e vai  meglio  cominciar ciocché  deesi  aruhe  tardi,  che  mai.  Ed  oh!  cosi  tutti V abbiate  sentimenti  consimili  per  t util  vostro, e vi animi  tutti  uno  zelo  medesimo  per  combattere.  Paventiamo noi  però  che  i trasporti  de’  plebei  contro de’  magist  rati  per  la  division  delle  terre,  siano  cagione al  pubblico  di  sciagure,  E ciò  noi  paventiamo,  perché i clamori, e le  istanze, e la  insofferenza  per  uscire, non  è forse  in  tutti  t ejffctto  di  un  disegno  medesimo. Ma  quali  di  voi  anelale  uscir  dai  campo  per  punir f inimico  ; e quali  per  fuggirvenc.  E cagione  del  tintor  nostro  non  sono  già  gl’indovini,  non  le  congetture; ma  fetui  più  che  notorj  e non  antichi,  anzi  freschi delt  anno  precedente,  come  tutti  sapete,  quando uscendo  contro  questi  nemici  medesimi  un  esercito nostro  numeroso  e forte, e pigliando  fn  la  prima battaglia  un  esito  propizio  per  noi, mentre  Cesane mio  fratello,  console  condottiero  poteva  espugnare  gli alloggiamenti  loro  e riportare  alla  patria  una  vittoria luminosa,  alquanti  presi  da  invidia  della  gloria  di  lui perchè    era  popolare    mirava  nel  suo  governo  a far  le  voglie  de’  poveri, levarono  le  tende  la  notte stessa  dopo  la  battaglia, e fuggirono  fuori  di  ogni comando,  senza  valutare  il  pericolo  che  comprendevali nelf  andare  privi  di  ordine  e di  capitano  per  le  terre nemiche, e fra  la  notte, e senza  riguardare  quanta vergogna  ri  avrebbero, perchè  quanto  era  in  loro, cedevano  C impero  a nemici,  essi  già  vincitori  ai  viziti. Tribuni, centurioni, soldati  ! in  vista  di  tali  uomini, non  buoni    per  dominare, nè  per  farsi  dominare, che  pur  sono  molti  e caparbii, e colle  armi, non abbiamo  noi  fin  qui  voluto  la  battaglia, nè  osiamo ancora  per  tali  compagni  decidere  in  campo  la  somma delle  cose, perchè  non  sian  essi  tT  impedimento  e di danno  a chi  presenta  tutto  il  buon  animo.  Ma  se  la divinità  richiami  ancor  essi  a buon  senno,  se,  lasciate da  parte  le  discordie  per  le  quali  ha  il  nostro  comune tanti  mali  e sì  gravi, e differitele  ai  tempi  di  pace, vorranno  redimere  ora  col  valore  { obbmbrio  passalo: niente  impedisce  che  ne  andiamo  caldi  di  belle  speranze al  nemico.  Oltre  le  tante  opportunità  di  vinrere, le  più.  grandi  e più  solide  ce  le  porge  la  stoli^ dità  degli  avversar]  medesimi.  Costoro  superiori  a noi di  molto  nel  n limerò,  ed  atti  con  ciò  solo  a contrahhilanciare  t animosità  e perizia  nostra, han  privato sestessi  fin  di  quest’  unico  vantaggio, consumando  il più  delle  milizie  in  guardia  delle  loro  fortezze.  Ap-presso, quantunque  dovrebbero  fare  ogni  cosa  con diligenza  e saviezza  considerando  con  quali  e quanti grand  uomini  abbiano  a misurarsi,  pur  vanno  conarroganza  ed  incuria  al  cimento, come  sian  essi  invincibili, e noi  sopraffatti  dal  terrore  di  essi.  E le fosse  con  che  ci  cingevano, e le  corse  a cavallo  fin sotto  ai  nostri  alloggiamenti, e tan^  altre  ingiurie colle  parole  e colle  opere,  questo  appunto  dimostrano. Or  via  dunque,  ciò  riguardando  e le  tante  e sì  belle antiche  battaglie  nelle  quali  gli  avete  vinti  : andatene con  ardore  a questa  ancora.  E quel  luogo  dove  ciascuno sarà  collocato, quello  concepisca  essere  la  casa, i poderi, la  patria  sua  : concepisca  che  chi  salva  il vicino  in  battaglia  salva    ancora:  e che  abbandona sestesso  a nemici  chi  abbandona  il  compagno.  Ilammentatevi  soprattutto  che  di  quelli  che  persistono  valorosi e combattono, pochi  no  soccombono  ; laddove pochi  ne  scampano,  e a stento,  di  quelli  che  piegano, e figgano. X.  Egli  seguitava  ancora, in  mezzo  a lagrime  copiose, tal  discorso  animatore, e chiamava  a nome  ciascuno de’  tribuni, de’  centurioni, e de’  soldati, nolo a lui  per  le  belle  prove  di  valore  date  nel  combattere, e prometteva  a chi  più  segnalato  sarebbesi  nella  batlaglia  molti  e gran  pegni  di  benevolenza, onori, r;c> cliezze, soccorsi  d’  ogni  guisa  in  parità  delle  imprese  ; quando  proruppe  da  tutti  una  voce  che  inviuvalo  a con6dare, e portarli  al  nemico.  Cessata  questa, gli  si fece  innanzi  dalla  moltitudine  Marco  Flavoleio, plebeo di  condizione  ed  arteGcc, non  vile  però, ma  per  le sue  virtù  pregiato, e prode  in  guerra  ; e per  tali  due rispetti  condecorato  in  campo  di  una  presidenza  luminosa, cui  sieguono  ed  ubbidiscano  per  legge  sessanta centurie.  I Romani  chiamano  primipili  nel  patrio  idioma tali  condottieri.  Or  quest’  uomo, altronde  grande  e bello, postosi  in  parte,  donde  fosse  a lutti  visibile,  alfine disse:  K oi  temete,  o consoli,  che  le  opere  nostre non  corrispondano  alle  parole  ? Io  per  il  primo  vi darò  su  mestesso  le  assicurazioni  meno  equivoche della  mia  promessa.  E voi  cittadini, voi  compagni della  sorte  medesima, voi  che  avete  risoluto  di  pareggiare ai  detti  le  opere, non  sbaglierete  facendo quanto  io  fo.  E qui, sollevando  la  spada, giurò  con formola  sacra  e solenne  ai  Romani, per  la  sua  buona fede, di  non  tornare, se  non  dopo  vinti  i nemici,  alla patria.  Sorsero  al  giuramento  di  Flavoleio  lodi  amplissime d’ogn’intorno.  Fecero  bentosto  altrettanto  i consoli e mano  a mano  i duci  minori, tribuni  e centurioni  ; e la  moltitudine  finalmente.  Yidesi  dopo  ciò  molto  buon animo  in  tutti,  molta  benevolenza  fra  loro, molta  confidenza, e fermezza.  Partiti  dall’  adunanza, chi  metteva il  freno  ai  cavalli,  chi  le  spade  aguzzava  e le  lance  ; e chi  riforbiva  gli  scudi  ; ond’  è che  tra  poco  tutta  1’  armala fu  in  pronto  per  la  battaglia.  I consoli, invocali  gl' Iddìi  con  voti,  con  ugrifizj, con  suppliche,  perchè fossero  i duci  essi  stessi  di  quella  uscita, portavano fuori  degli  steccati  l’esercito,  schierato  in  buon  ordine. I Tirreni  vedutili  scendere  dalle  loro  trincee, ne  stupirono, e vennero  ad  incontrarli  con  tutte  le  forze, XI.  Come  furono  gli  uni  e gli  altri  sul  campo,  e le trombe  annunziarono  il  seguo  delta  battaglia, corsero quinci  e quindi  con  alti  clamori.  E fattisi  i cavalieri su  i cavalieri,  ed  i fanti  so  i fanti;  pugnarono,  e molu fu  la  occisione  in  ambe  le  parti.  I Bomani  dell’ala  destra comandati  dal  console  Mallìo  malmenavano  il  corpo che  li  contrastava, e smontati  da  cavallo  combattevano appiedo:  ma  quelli  dell’ala  sinistra  erano  circondali  dal corno  destro  de’  nemici.  Imperocdiè  essendo  ivi  la  milizia tirrena  più  elevata  e più  numerosa, i Romani  ne erano  battuti,  e coperti  di  ferite.  Comandava  in  questo corno  Quinto  Fabio  luogotenente  e già  due  volte  console. Egli  resistè  lungo  tempo, ricevendovi  ferite  sopra ferite  ; ma  poi  trafitto  da  una  lancia  nel  petto  fino  alle viscere, esangue  ne  stramazzù.  Come  ciò  udì  Marco Fabio  il  console  che  crasi  ordinalo  nel  centro, pigliò seco  i più  bravi,  e,  chiamato  Fabio  Cesone  l’uno  dei fratelli, marciò  verso  1’  altro  Fabio .  E proceduto buon  tratto,  e trascorso  all’ala  destra  de’ nemici,  venne a quelli  che  circoudavano  i suoi.  Dato  l'assalto,  causò strage  cupa  a quanti  avea  tra  le  mani,  e fuga  ad  altri che  erano  da  lontano.  Trovato  il  fratello  che  respirava   Il  ferito.  Par  questo  il  senso  migliore.  Nel  testo  si  legge in  luogo  di  Fabio.  Qui  dunque  si  hanno  tre  Fabj, Marco, Quinto, c Cesone,  fiaiclli  lutti  tre.  ancora,  lo  soUcTÒ;  ma  questi  non  molto  sopravvivendo, morì.  Crebbe  qui  l’ira  a’ vendicatori  suoi  su’ nemici.  Nè più  riguardando  la  propria  salvezza  lanciatisi  in  piccieda sebiera  nel  mezzo  di  essi, dove  erano  più  folti, vi  alzarono monti  di  cadaveri.  Pericolò  da  questa  |>arte  la milizia  toscana, ed  essa  che  prima  incalzava  en  incalzata dai  vinti.  Per  l’ opposto  c|oelli  dell’ala  sinistra  che gii  crollavano, e gii  meticvansi  in  piega  li  dove  era Mallio,  quelli  fugarono  i Romani  contrapposti.  Imperoo cbè  trafitto  Mallio  con  una  lancia  da  banda  a banda  in un  ginocchi  o, c riportato  da’  suoi  che  lo  circondavano agli  alloggiamenti  ; i nemici  lo  credettero  estinto, e se ne  animarono  ; ed  assistiti  pur  da  altri  forzavano  i Romani, ridotti  senza  duce.  I Fal^  dunque  lasdalo  il corno  sinistro  furono  di  nuovo  astretti  a soccorrere  il destro.  I Tirreni, vistfli  che  venivano  con  esercito  poderoso, desisterono  dall’  inseguire  : e strettisi  fra  loro, combatterono  io  ordinanza, perdendovi  molti  de’  loro  ; e molti  nocidendovi  de’  Romani. XII.  Intanto  i Tirreni  ebe  avevano  invaso  gli  alloggia menti  lasciati  da  Mallio, aizaione  il  segnale  dal  capitano, marciarono  con  gran  fretta  ed  ardore  verso  gli altri  alloggiamenti  Romani  perchè  non  bene  forniti  di guardie.  Era  il  loro  concetto  verissimo  ; perché  tolti  i triarj  e pochi  giovani,  non  v’  erano  se  non  mercadanii, e servi, ed  artefici.  Ma  ristringendosi  molti  in  picciolo spazio  presso  le  porte,  ebbevi  una  viva  e terribile  zuffa con  strage  copiosa  e vicendevole.  Accotzo  con  i cavalieri Mallio  il  console  per  ajuto  ; cadde  col  cavallo,    potendo risorgere  per  le  molle  ferite  vi  morì.  Perirono ancora  intorno  a lui  molti  giovani  valorosi  : e per  tale infortunio  gli  alloggiamenti  furono  espugnati  ; vcriGcan dosi  cosi  li  vaticini  fatti  ai  Tirreni.  E se  avessero  ben usato  la  sorte  presente,  e guardato  quegli  alloggiamenti; sarebbero  stati  gli  arbitri  delle  provvigioni  de’  Romani  e gli  avrebbero  costretti  a partire  obbrobriosamente  : ma datisi  a predare  le  cose  rimastevi, e li  più  a ristorarsi ancora, lasciaronsi  fuggir  di  roano  una  bella  occasione. Imperocché  nunziatasi  appena  all’  altro  console  la  presa del  campo, accorsevi  co'  fanti  e cavalieri  migliori.  Li Tirreni  saputo  che  veniva  cinsero  le  trincee  ; e fecesi battaglia  ardentissima  tra  chi  voleva  ricuperar  le  sue cose, e chi  temea, se  ricuperavansi, 1’  ultimo  eccidio. Ma  traendosi  in  lungo, e riuscendovi  migliore  assai  la condizione  de'  Tirreni, perchè  combatteano  da  luogo elevato  contra  uomini  stanchi  dal  'combattere  di  tutto  il giorno;  Tito  Siccio  legato  e propretore,  consigliatosene con  il  console, intimò  la  ritirata  ; e che  si  riunissero ed  attaccassero  tutti  le  trincee  dal  canto  più  facile. Trascurò  la  banda  verso  le  porte  per  un  discorso  plausibile che  non  lo  ingannò;  per  questo  cioè,  che  i Tirreni sperando  salvaf&i, ne  uscirebbero  : laddove  se  di ciò  disperavano  circondati  da  nemici  senza  uscita  niuna; sarebbero  necessitati  a far  cuore.  Portatosi  in  una  sola parte  l’assalto;  non  più  si  diedero  i Tirreni  a resistere; ma  spalancate  le  porte, salvaronsi  ne’  proprj  alloggiamenti. II  console, rimosso  il  pericolo, scese  di  nuovo a dar  soccorso  nel  piano.  Dicesi  che  questa  battaglia de’  Romani  fu  maggiore  di  tutte  le  antecedenti  per  la mollltudine  degli  uomini, per  la  durazione  del  tempo, e per  l’ alleraarvi  della  sorte  ; imperocché  venti  mila erano  i fanti,  tutti  di  Roma,  floridi  e scelti,  oltre  mille dugento  cavalli  che  univansi  alle  quattro  legioni  ; ed  aU trettanta  era  la  milizia  de’  coloni, e degli  alleati.  La }>attaglia  conunciaia  poco  prima  del  mezzogiorno  si  estese 6no  air  occaso, e la  sorte  ondeggiò  quinci  e quindi gran  tempo  tra  vittorie  e tra  perdite.  Occorsevi  la  morte di  un  console, di  un  legato, stato  due  volte  console, e di  tanti  altri  capitani, tribuni, e centurioni, quanti mai  piu  per  addietro.  Il  buon  esito  della  giornata  fu creduto  de’  Romani  non  per  altro, se  non  perché  li Tirreni  fra  la  notte  lasciarono  il  proprio  campo,  e passarono altrove.  Il  giorno  appresso  fattisi  i Romani  a saccheggiare  il  campo  Tirreno  abbandonato, e seppellire le  morte  spoglie  dei  loro,tornarono  agli  alloggiamenti. Dove  riunitisi  a parlamento  diedero  i premj  di onore  a quelli  che  avevano  combattuto  da  valorosi, e primieramente  a Fabio  Gesone  fratello  del  console,  che avea  fatto  grandi, e meravigliose  gesta  : in  secondo luogo  a Siedo,  cagione  che  gli  alloggiamenti  si  ricuperassero ; ed  in  terzo  a Marco  Flavoleio  duce  di  una legione,  si  pel  giuramento,  che  per  la  magnanimità  sua tra  pericoli.  Rimasero  dopo  ciò  per  alquanti  giorni  nel campo  ; ma  ninno  più  dimostrandosi  per  combatterli  tornarono alla  patria.  In  Roma  per  battaglia  si  grande  laquale  prendea  fine  bellissimo, voleano  tutti  aggiungere r onor  del  trionfo  al  console  che  tornava  : ma  il  console stesso  noi  consentì, dicendo,  non  essere  pia  cosa, nè  giusta, che  egli  s’  avesse  pompa  e corona  trionfale per  la  morte  del  fratello  e del  collega.  E qui  lasciate le  insegne, e congedalo  1’  esercito, depose  ancora  i) consolato  due  mesi  prima  del  termine  suo, non  po> tendo  ornai  più  sostenerlo  per  la  grande  finta  che  lo travagliava  e riduoevalo  in  letto. Il  Senato  scelse  gl’  interré  pe’  comizj, e convocando il  secondo  interré  la  moltitudine  nel  campo  Marzo, vi  fu  nominato  console  Tito  Yerginio, e per  la terza  volta  Fabio  Cesone,  colui  che  ebbe  i primi  premj della  battaglia  ed  era  fratello  insieme  del  console, che avea  deposto  il  comando.  Questi,  decidendo  ciascuno  per sé  l’esercito  col  mezzo  ddle  sorti,  uscirono  in  campo, Yerginio  per  combattere  i Yejenti  e Fabio  gli  Equi  che scorrevano,  depredando,  le  campagne  Latine .  Gli Equi  all’  udire  che  i Romani  venivano, si  levarono  iu fretta  dalle  terre  nemiche, e ritiraronsi  alle  proprie  città, sopportando  che  si  derubassero  le  terre  loro  : tanto  che il  console  col  subito  venir  suo  s  impadroni  di  danari, di  persone,  e di  altre  prede  in  copia.  Si  tennero  i Vejenti  in  principio  tra  le  mura  ; ma  quando  parve  loro di  avere  il  buon  ponto, usarono  su’  Romani  sbandati, ed  intenti  alla  rapina  delie  campagne.  E perciocché piombarono  numerosi, in  buon  ordine  contro  di  essi, non  sedo  ue  ritolser  le  prede;  ma  uccisero,  o fugarono quanti  si  opposero.  E se  Tito  Siccio  legato  non  accorreva, e li  frenava, con  soldatesca  ordinata  appiedi  e a cavallo, niente  .impediva  che  I’  esercito  in  tutto  si  distruggesse. Ma  giunto  lui  per  impedir  ciò,  si  affrettaci) Adoo  di  Room  37S  aecaudo  Catone,  377  secondo  Marrone  e 479  av.  Cristo]  I 43 rono  a rlunirsegli, senza  eccettuarne  alcuno, tutti  i dispersi. Coocenlralisi  tutti  occuparono  a sera  un  colle,  e vi  pernottarono.  Animati  dalla  prosperità  li  Vejenti  accamparonsi  presso  del  colle  e chiamarono  altri  dalla  città, quasi  avessero  addotti  i Romani  in  luogo,  privo  in  tutto de’  viveri, e poiessero  tra  non  molto  necessitarli  ad  arrendersi. Accorsavi  gran  moltitudine, si  misero  due campi  ne’  lati  possibili  ad  espugnarsi  del  colle  ; ed  altre picciole  guarnigioni  in  siti  men  facili  ; tanto  che  tutto ribbolliva  di  armati.  Fabio  l’ altro  console  intendendo per  le  lettere  del  compagno  che  gli  assediati  nel  colle erano  agli  estremi,  e sul  punto  ornai  di  rendersi  per  la fame, se  alcuno  non  li  soccorreva  ; raccolse  1’  esercito, e corse  su’  Vejenti.  E se  giungeva  un  giorno  più  tardi; niente  gli  sarebbe  valuto, ma  trovato  avrebbe  l’ esercito rovinato.  Imperocché  quei  del  colle  costretti  dalla  penuria ne  uscirono  per  correre  a morte  più  onorata  ; e fattisi  alle  prese  co’  nemici, combattevano  esausti  dalla fame, dalla  sete, dalla  veglia, da  ogni  disagio.  Ma dopo  non  molto,  quando  videsi  l’esercito  di  Fabio  che giungeva  numeroso,  in  buon  ordine,  tornò  la  conBdenza ne’  Romani, e la  paura  negli  avversar).  Dond’  è che  i Tirreni  più  non  estimandosi  acconci  per  fare  giornata cx>ntro  di  un  esercito  fresco  e potente, abbandonarono l’ impresa, e partirono.  Ma  non  si  tosto  le  due  armate Romane  si  ricongiunsero, fecero  un  amplisnmo  campo in  luogo  munito  presso  della  città.  Trattenutisi  quivi più  giorni, e saccheggiatone  il  meglio  del  territorio  di Vejo;  rimenarono  in  ‘patria  gli  eserciti.  Avvedutisi  i Vejenti  che  le  milizie  Romane  eransi  levate  dalle  insegne, presa  ia  gioventù  più  spedita  che  essi  tenevano  ia arme, e quanta  ne  era  presente  de’  loro  vicini, si  gettarono su  campi  confinanti, e li  depredarono  pieni  di fratti, di  bestiami, di  uomini  ; per  essere  i contadini calati  da’  castelli  a pascere  i bestiami  c lavorare  le  terre su  la  fiducia  che  aveano  nell’  esercito  Romano  trincierato  innanzi  di  loro.  Non  eransi  questi  ai  partir  dell’esercito affrettati  a ritirarsi  colle  cose  loro,  non  temendo che  i Vejenti, tanto  danneggiati, dessero  cosi  pronta la  ripercossa  a’ nemici.  Fu  la  irruzione  de’  Vejepti  piccola se  se  ne  guardi  il  tempo  ; ma  grandissima  per  la quantità  de’  campi  saccheggiati  : ed  avanzatasi  fino  al Tevere  verso  il  monte  Gianicolo  a meno  di  venti  stadj da  Roma  ; le  recò  dolore  e vergogna  insolita  ; non  essendovi sotto  le  insegne  milizie  che  impedissero  a quella di  estendersi.  Cosi  l’esercito  de’  Vejenti  prima  che  queste si  riunissero  ed  ordinassero, corse  desolando, e parti. XV.  Adunatisi  quindi  il  Senato  e i consoli, c datisi a considerare  in  qual  modo  fosse  da  far  guerra  a’  Vcjenti  ; prevalse  il  partito  di  tener  ne’  conOni  milizie  di osservazione  pronte  sempre  in  campo  per  la  difesa  del territorio.  Couturbavali  che  grande  ne  diverrebbe  il  dispendio, laddove  l’ erario  era  esausto  per  le  imprese continue, nè  più  bastavano  i beni  ai  tributi  ; e molto più  contnrbavali  la  recluta  di  tali  presidj  da  spedirsi   perocché  ninno  voleva  star  in  guardia  per  tutti:  dovendosi travagliare  non  a volta  a volta,  ma  sempre.  Essendo per  tali  due  cause  mesto  il  Senato;  i due  Fabj  (a)   1 due  Fabj  sono  Marco  Fabio,  e Fabio  Cesoue  nomiaati  di  topna.;  145 convocarono  qnanti  partecipavano  il  loro  lignaggio.  Con saltatisi,  promisero  al  Senato  di  andare  spontaneamente essi  per  tutti  a tal  rischio, conducendo  seco  amici  e clienti, e militandovi  a proprie  spese  ; finché  durerebbe la  guerra.  Ed  esaltandoli  per  la  disposizion  generosa, e contando  tutti  di  vincere  anche  per  (jnesta  opera  sola, pigliarono  essi  famosi  in  città  le  aripe  tra’sagrifizj  e tra i voti,  e ne  uscirono.  Era  duce  loro  Marco  Fabio  il console  dell’  anno  precedente,  quegli  che  vinse  i Tirreni in  batuglia.  Esso  menava  presso  a poco  quattro  mila, clienti  per  la  maggior  parte  ed, amici, ma  trecento  sei ve  n’ erano  delia  stirpe  de’Fabj.  Usci  non  molto  dopo su  le  orme  loro  l’armata  Romana,  comandata  da  Fabio Cesone,  Tuno  de’ consoli.  Avvicinatisi  al  Cremerà,  fiume non  molto  discosto  da  Vejo, fordficaroiio  su  di  una balza  precipitosa  e dirotta  un  castello  opportuno  a difendere tante  milizie,  e vi  scavarono  intorno  doppie fosse, e vi  elevarono  torri  froquenti.  Cremerà  fu  nominato ancor  esso  il  castello  dal  fiume.  E conciosnachè molti  esercitavano,  ed  il  console  stesso  coadiuvava  quel lavoro, fu  terminato  prima  che  noi  pensassero.  Allora cavò  r esercito, e marciò  su  1’  altra  parte  alle  terre  dei yejenti, poste  incontra  al  resto  della  Etruria, dove quelli  tenevano  i bestiami, non  aspettandovi  mai  l’arme Romane.  Fattavi  gran  preda  se  la  recò  nel  nuovo  castello, esultandone  per  due  cause, cioè  per  la  vendetta non  tarda  pigliata  su’  nemici, e per  1’  abbondanza  che dava  copiosissima  ai  soldati  che  lo  presidiavano,  percioc  chè  niente  ne  riservò  per  l’  erario, o ne  dispensò  tra  lo DIONIGZ, tomo  in.  1  sue  milizie,  ma  tulio  concedette  a quelli  che  guarda^ vano  la  regione,  greggi,  giumenti,  gioghi  di  buoi, ferramenti, e quanto  era  utile  per  la  coltura.  E dopo ciò  rlmenò  1’  esercito  a Roma.  Erano  dopo  fondato  il cartello  i Vejenti  a mal  termine  ; non  polendo    lavo t^re  con  sicurezza  le  terre, nè  ricevere  esterne  vetto> vaglie.  Imperocché  li  Fabj    diviso  in  quattro  parti  la gente  loro, con  una  difendevano  il  castello, e le  tre altre  scorrevano  la  regione  nemica  pigliando,  e traspor> landò.  E quantunque  molte  volte  i Vejenti  gli  assalirono con  truppe  non  poche  nell’  aperto, e se  li  tirarono dietro  in  terre  piene  d' insidie  ; essi  nondimeno  vinsero r uno  e r altro  pericolo  ; e fatta  glande  uccisione, n ricondussero  salvi  al  castello.  Pertanto  non  osavano  più li  nemici  d’ investirli, ma  tenendosi  per  Ib  più  tra  le mura, np  faceano  furtive  sortite.  E cosi  ne  andò  quel r inverno. XVI.  Entrati  l’anno  appresso  (a)  in  consolato  Lucio Emilio, e Cajo  Servilio, fu  nunziato  a’  Romani, che i Volsci  e gli  Equi  eransi  convenuti  di  portare  su  loro la  guerra,  e d’ invaderne  tra  non  molto  le  terre;  e verissimo ne  era  1’  annunzio.  Imperocché, armatisi  gli  uni e gli  altri  prima  dell’  aspettazione, corsero, e devastarono, ciascuno, la  regione  vicina  a sestesso, persuasi che  non  potrebbono  i Romani  combattere  in  un  tempo i Tirreni, e rispiiigere  altri  che  gli  assalissero.  Poi  so  Cioè  quelli  i quali  prcaidiavauo  il  casiello  aoUo  gli  auspicj di  Marco  Fabio. Roma Catone Varroae] {iravveiiendo  altri  ridicevano  che  I’  Elriiiia  tutta  levavasi in  guerra  coulro  i Romani, e preparavasi  di  s[>edire  ia comune  un  soccorso  a’  Vejenti.  Or  lo  avevano  i Ve> jenti  f incapaci  di  espugnare  il  castello, imploralo  qu> sto  soccorso  ; commemorando  la  unità  del  sangue, 1’  amicizia,  e le  tante  guerre  che  aveano  insieme  combattute. Anzi  aVeano  dimandata  l’ alleanza  loro  nella  guerra co’  Romani  non  si  per  questi  riflessi, come  per  quello ancora, che  i Vejenti  erano  su  la  frontiera  dell’  Etraria ; e frenavano  una  guerra, che  versavasi  da  Roma  su tutta  la  nazione.  Convinti  di  tanto  i Tirreni  promisero mandare  tutti  i sussidj  che  richiedevano.  Per  1’opposto il  Senato,  informatone,  risolvette  spedire  tre  eserciti.  Ed arrolate  in  fretta  le  milizie;  fu  spedito  Lucio  Emilio  sa i Tirreni.  Usci  pur  con  esso  Fabio  Ceso  ne, colui  che avea  di  fresco  deposto  il  comando, ottenuta  dal  .Senato la  facoltà  di  ricongiungersi  in  Cremerà, e partecipare  t pericoli  della  guerra  colle  genti  Fabie  che  il  fratello aveaci  condotte  in  difesa  del  luogo  : ma  egli  v’  andava co’  suoi  compagni  ornato  di  autorità  proconsolare.  Cajo Srrvilio  l'altro  console  marciò  contro  i Volsci,  e Servio Furio  proconsole  contro  gli  Equi.  Seguivano  ciascun  di essi  due  legioni  Romane, e truppe  alleate  non  minori di  Eroici, di  Latini, e di  altri.  Servio  il  proconsole espedì  la  guerra  con  termine  rapido  e lieto  ; perciocché fugò  gli  Equi  con  una  battaglia, e senza  stento  ; impaurendoli al  primo  investirli  : e poi  rifuggitisi  questi ne’ luoghi  forti  ; ne  devastò  le  campagne.  Ma  Serviliu  il console  fattosi  a combattere  con  fretta  ed  orgoglio,  incontrò ben  altra  sorte  da  quella  che  ne  aspettava:  Opposiiglisi  i Volsci  bravissimameote, vi  perdette  molti  va lentuomini:  tanto  che  si  fidasse  a non  far  più  battaglia: ma  standosi  negli  alloggiamenti, deliberò  di  mantenere la  guerra  con  tenui  mosse  e scaramuccie  de’ soldati  leggeri. Lucio  Emilio  mandato  nell’  Etruria, trovando  accampati innanzi  della  città  li  Yefenti  con  grandi  rinforzi di  quella  nazione, non  indugiò  per  imprendere  : ma dopo  un  giorno  da  che  erasi  trincerato, presentò  le schiere  in  battaglia.  Vi  si  lanciarono'  i Vejenti  arditissimamente: ma  divenuta  questa  eguale  in  ambe  le  parti; prese  i cavalieri, e.  gli  avventò  su  1’  ala  destra  de’  nemici ; e perturbatala;  corse  su  la  sinistra,  combattendo a cavallo  dov’era  luogo  da  cavalcarvi,  e dove  no,  smontando, e combattendo  a piede.  Venute  in  travaglio  ambedue le  ale, nemmeno  ' il  centro  potè  più  sostenersi, forzato  dalla  fanteria  : e fuggirono  tutti  verso  gli  alloggitrmenti.  Emilio  allora  gl’  inseguì  con  le  milizie  ordinate, e molti  ne  uccise.  Giunto  presso  gli  alloggiamenti diedevi  con  mute  continue  1’  assalto, ostinandovisi  tutto quel  giorno  e la  notte  seguente  : finché  nel  giorno  appresso languendo  i nemici  pel  travaglio, per  le  ferite, e per  la  veglia, se  ne  impadronì.  Quando  i Tirreni videro  i Romani  trascendere  le  trincee, le  abbandonarono, e fuggirono  quali  in  città,  e quali  a’ monti  vicini. Tennesì  il  console  per  quel  di  negli  alloggiamenti  nemici ; ma  nel  giorno  prossimo  onorò  con  doni  convenienti i più  segnalati  in  combattere,  e concedette  a’ soldati quanto  era  ivi  stato  lasciato, giumenti, schiavi, c tende  piene  di  ogni  ricchezza.  E 1’  esercito  Romano  se ne  ricolmò  quanto  non  mai  per  altra  battaglia;  impe  1 4p rDcclièJi  Tirreni  vivono  vita  delicata  e sontuosa  in  patria, ed  in  campo  ; e portan  seco, non  che  le  cose necessarie, suppelletlili  ancora  di  pregio  e di  artifizio, ond’  esserne  in  piaceri  e delizie. Ne’  giorni  appresso  stanchi  da’  mali  i Vejenti spedirono  ambasciadorì  i più  anziani  della  città  cq^  modi de’ supplichevoli  per  trattare  intorno  la  pace  col  console. Or  questi  sospirando,  prostrandosi^  e dicendo,^  tra  molte lagrime,  quante  cose  mai  sogliono  impietosire;  indussero il  console  a questo,  che  permettesse  loro  d’inviare oratori  a Roma  per  dar  fine  in  Senato  alla  guerra  : e che  non  danneggiasse  in  tanto  la  terra  loro, finché  ne tornassero  colie  risposte.  Ad  ottenerne  però  questo,  promisero, come  volle  il  vincitore, dar  grano  per  due mesi, e danari  per  sei  pe’  stipeudj  di  tutta  V armata.  E portate, e ricevute, e dispensate  tra'  suoi  tali  cose, il console  conchìuse  con  essi  la  tregua.  Il  Senato, uditi gii  ambasciadori, viste  le  lettere  del  console  che  molto pregava,  e raccomandava  che  si  finisse  il  più  presto  la guerra  co’  Tirreni  ; deliberò  dar  la  pace  che  dimandavasi  : e che  nel  darla  il  console  Lucio  Emilio  stabilisse le  condizioni  che  gli  sembrasser  migliori.  Il  console  a tale  risposta  si  concordò  co’  Vejenti, facendo  una  pace anzi  umana, che  utile  pe’  vincitori, senza  riserbare  per essi  delle  terre, senza  impor  nuòve  multe,    garantire i patti  cogli  ostaggi.  Or  ciò  lo  mise  in  grand’  odio, e fu  causa  che  non  avesse  dal  Senato  ringraziamenti,  come savio  nel  procedere  suo.  Imperocché  chiese  il  trionfo; ed  i padri  si  opposero  ; incolpando  1'  arbitrio  de'  suoi trattati, definiti  senza  il  pubblico  voto.  AlìGaché  però nou  sei  prendesse  ad  ingiuria, nè  sen  corucciasse  ; lo destinarono  a portare  le  armi  contro  de’  Volaci  in  soccorso dell’altro  console,  perchè,  come  fortissimo  nomo eh’  egli  era, desse  ivi, se  poteasi, buon  fine  alla  guerra, e dissipasse  1’  odio  dell’  azion  precedente.  Ma  costui sdegnato  sa  la  negazion  degli  onori  fece  presso  del  popolo lunga  accasa  de’  senatori, cpiasi  dolesse  loro  che spenta  fosse  la  'guerra  co’  Tirreni.  Diceva, che  ciò  facevano ad  arte  in  conculcaménto  de  poveri, perchè i poveri, delusine  già  tanto  tempo,  non  insistessero  per la  division  delle  terre, se  tornavano  dalle  guerre  di fuori.  Queste  e simili  contumelie  lanciò  con  indignazione vivissima  su’  patrizj, e sciolse  1  armata  che  avea con  lui  combattuto, e richiamò, e congedò  1’  altra  che era  tra  gii  Eqni  sotto  Furio  proconsole.  Con  die  renelle conti ricchi  i poveri. Presero  quindi  il  consolato  Cajo  Orazio, e Tito  Menenio nella  olimpiade  settantesima  sesta, quando  vinse  allo  stadio  Scamandro  da  Mitilene,  essendo in  Atene  Fedone  P arconte^  Il  torbido  interno impedì  questi  a principio  ne  fatti  del  comune,  fremendo la  moltitudine, nè  tollerando  che  si  fornisse  niuna  pubblica cosa  innanzi  la  divisione  delle  terre.  Ma  poi,  vinto il  popolo  dalla  necessità, lasciò  quanto  facea  sommossa e tumulto, e ne  andò  spontaneo  in  sul  campo.  Imperocché le  undici  popolazioni  Tirrene  non  comprese  nella Roma Catone Varrone. stimi  molto  potere  ai  tribuni  di  malignare doni  contro  del  Senato,,  e di  alienare  n  ciò principio  alla  guerra.  Levaronsi,  ciò  convenuto, dal  par- lamento.  Indi  a non  mollo  spedirono  i Yejenti  a raddo mandare'  da’  F abj  il  castello, e già  tutta  1'  Etruria  era sa  r arme.  I Romani, conosciuto  ciò  per  lettere  spedite da’  F abj, decretarono  che  uscissero  ambedue  i consoli r uno  alla  guerra  che  sorgea  dall’  Etruria, e 1’  altro  a quella  che  ardeva  già  co’  Yolsci.  Orazio  marciò  con  due legioni  e con  truppe  alleate  ben  forti  contro  de’ Yolsci, Menenio  dovea  con  altrettanta  soldatesca  incamminarsi contro  r Etraria.  Ma  intanto  che  si  apparecchia,  e s’in> dogia  ; il  castello  di  Cremerà  fu  preso, e distratta  la stirpe  de’  F abj.  La  sciagura  de’  quali si  narra  a due modi  r uno  non  persUadevole, 1’  altro  piò  prossimo  al vero.  Io  gli  esporrò  tutti  due, come  gli  ebbi. XIX.  Narraoo  alcuni  che  sovrastando  no  patno  sagrideio  che  doveasi  porger  da’Fabj,  uscirono  gli  uomini con  pochi  clienti  per  compierlo, ed  andarono, senza esplorare  le  strade, non  ordinati  sotto  le  insegne, ma incauti  e negligenti, quasi  passassero  terre  amiche, nei giorni  lieti  della  pace.  I Tirreni, saputane  anzi  tempo r andata, disposero  tra  via  le  insidie  con  parte  dell  e> sercito, mentre  1’  altra  parte  veniva  in  ordinanza  non molto  addietro.  Approssimatisi  i Fabj,  sorsero  i Tirreni dalle  insidie, e gl’  invasero  di  fronte, e di  fianco  ; assalendogli non  molto  dopo  da  tergo  il  resto  de’ Tirreni. Circondatili  d’  ogn’  intorno  con  fionde, con  archi, e dardi, e lance  ; gli  uccisero  tutti  colla  moltitudine  dei colpi.  Or  tale  racconto  a me  sembra  poco  persuasivo. Imperocché  non  par  verisimile,  che  tali  uomini,  addetti com’  erano  alla  milizia,  ne  andassero  dal  campo  in  città senza  il  voto  del  Senato  per  sagrìficarvi  ; potendo  il santo  rito  fornirsi  per  altri  del  lignaggio  medesimo,  già provetti  negli  anni.  Che  se  tutti  erano  partiti  d  Roma senza  che  stesse  ne’patrj  lari  alcuno  de’ Fabj;  nemmeno può  credersi, che  uscissero  dal  castello  quanti  di  questi il  guardavano;  imperciocché  se  ne  andavano  tre  o quat tro, bastavano  a compiere  il  santo  rito  per  tutta  la  prosapia. Per  tali  cagioni  a me  non  sembra  credibile  questo racconto. L’  altro  che  io  reputo  piò  verisimile  su  la  distruzione di  essi, come  su  la  presa  del  cartello, così procede.  Andando  questi  di  tempo  in  tempo  per  foraggiare, e.  spandendosi  ognora  più  da  largo,  come  quelli che  prosperavano  ne'  tentativi  ; i Tirreni, raccolte  gran forze,,  si  accamparono,  senza  che  il  nemico  ne  sapesse, in  luoghi  vicini  : poi  facendo  uscire  da’  castelli  masse  di pecore, di  buoi, di  cavalli, come  per  pascere, accendevano i Fabj  ad  invaderli:  ond’ è che  venendo  questi predavano  i pastori, e menavano  seco  i bestiami.  Davano i Tirreni  di  continuo  tal  ca, traendo  i nemici  sempre piii  lontani  dal  campo  : or  quando  ebbero  con  gli  allstlameoti  perpetui  dell’  utile  rallentate  le  provvidenze  loro per  la  sicurezza;  misero  di  notte  gli  agguati  in  luoghi opportuni, intanto  che  altri  stavano  su  le  allure  per esplorare.  Nel  giorno  appresso  mandali  innanzi  alcuni soldati, come  per  difesa  de’  pastori,  cavarono  mollo  bestiame da’  castelli.  Come  fu  nunziato  ai  Fabj, che  se andavano  di    dai  colli  vicini, troverebbero  ben  tosto il  piano  ripieno  d  ogni  bestiame  senza  valida  guardia  : lasciarono  nel  castello  un  idoneo  presidio, e vi  si  diressero. E trascorrendo  frettolosi, ardenti  veri,  e dicendo  opera  loro,  quanto  è l’opera  di 'una sorte  improvveduta, ed  inevitabile  ; li  renderono  insolenti, se  già  erano  esasperati.  Fra  tanti  mali  i consoli spedirono  con  molti  danari  chi  comperasse  grano  dai luoghi  vicini  : e comandarono  che  chi  teneane  in  casa oltre  i bisogni  moderati  della  vita, lo  recasse  al  pubblico: e destinatone  i prezzi  convenienti,  e fatte  queste e cose  altrettali, ammansarono  i poveri  che  si  sfrenavano, e si  rivobero  di  bel  nuovo  agli  apparecchiamenti delia  guerra. E certo  tardando  a giugnere  le  vettovaglie di  fuori, e finite  in  breve  le  interne,  non  aveaci  altro scampo  da’ mali:  ma  doveasi  neceariamente  o rischiare tntte  le  forze  e snidare  i nemici  dai  territorio,  o morire tra  le  mura  per  le  discordie  e la  fame.  Adunque  elessero farsi  incontro  ai  nemici, come  al  meno  dei  mali. E levatbi  di  città  coll'esercito  valicarono  circa  la  mezza notte  su  picciole  barche  il  fiume,  e prima  che  il  giorno fosse  luminoso, già  teneano  il  campo  presso  a’  nemici. Donde  cavato  nel  giorno  appresso  1’  esercito, 1’  ordiua  Di  ani  illiberali  • sordide.  Silbtirgio  inleade  (|r.  Quindi  è che  se dividasi  390U  per  laS  risulta -i6.  Casaub. le  trasmutarono  in,  àlire  di  pecore  e’  buoi, tassato  anche il  numero  di  questi  per  le  ammende  avveniife, che i magistrati  imporrebbero  su’ privati.  La  condanna  di Menenio  fa  causa  che  i patriaj  si  sdegoas'sero  col  ppolo, nè  più  gli  permettevano  di  fare  la  divisione  delle terre, nè  voleano  in  cosa  ninna  condiscendergli.  Ma  tra non' molto  lu  potilo  il  pplo  de’ suoi  giudizj, appunto nell’  udire  la  morte  di  Menenio..  Imperocché  non  crasi questi  mal  p(ù  veduto  nelle  adunanze, o"  ne’  pubblici luoghi:  e polendo  pagare  l'ammenda  (giacché  non  pochi de’  suoi  eran  pronti  a soddisfarla  pr  esso  ), e con ciò  non  perdere'  niun  pubblico  diritto  j non  volle  : ma giudicando  pri  la  ingiuria  alla  morte;  si  tenne  in  casa, nè  più  ammise  prsona, e rifinito  dal  dolore  e dalla ’ fame  ' abbandonò  la  vita.  E tali  sono  le Operazioni  di quest’  anno.  Divenuti  consoli  Pulsilo  Valerio  Poplicòla  e Cajo  Nauzio,  fa  condotto  a giudizio  capitale  anche un  altro  patrizio  Servio  Servilio,  console  dell’anno  precedente, non  laokò  -dopo  che  aveva  lasciato  il  coma'udo. Due  tribuni  Ludo  Cedicio, e.Tito  Stazk)  erano  quelli che  lo  accusavano’  al  popolo chiedendo  ragione  non d' ingiustizia  alcuna, ma  degl’  infortuni  suoi, perchè nella  ballagUa  co’  Tirreni  spintosi  egU  fin  sotto  alle  trincee nemiche  con  più  ardirò  che  prudenza, e rincalzatone da  quei  d’ entro' che  ne  uscirono  in  copia, vi prJetle  il  meglio  de’  giovani.  Questo  giudizio  parve  ai patrizi  il  più  duro  di  tutti.' E congregavansì, e doleansi,   Abdo  di  Roma  979  Mcoado  Catoast  aSi  secondo  Varrone, e 473  >r.  Cristo] lG5 è teneano  per  gran  male  se  il  bell’  ardire, e il  non  ri cu  sarsi  ai  pericoli  accusarasi  ne’  capitani  che  non  tro vavan  propizia  la.  sorte,  e da  quelli  che  non  erano nemmeno  stati  ne’  perìcoli  : dicevano, che  qne’  giudizj aarebbero, coni’  era  verìsimile, cagione  di  timori  e di ignavia  ne’ comandanti,  e di  non  &r  loro  mai  piu  con cepire  nuovi  trovameoti  : che  perita  ne  sa.rebbe  la  libertà, come  annientata.!’ antorità  del  capitano.  Ed  insistevano caldamente  presso  la  plebe >.  perchè  non  conrebbe il . danno  se  puoi  vanti  i dttci  > pe’  successi  non buoni.  Venuto  il  tempo  del  giudizio, fattosi  innanzi Lneio  Cedicio,  uno  de’ tribuni,  accusò  Servilio  di  avere per  imprudenza  ed  imperizia  di  comando  menata  i’  armata incontro  a pericoli  manifesti, e rovinato  il  Bore della  repubbnca  : tanto  ohe  se  informalo  beo  tosto  il console ' compagno  della  sciagura  volando  a lui  coll’esercito,  non  respingeva  i nemici,  e salvava  i suoi;  niente impediva  che  non  fosse  disfatta  anche  tutta  1’  altra  milizia, e che  in  avvenire  per  metà  decadesse, non  che si  ampliasse  la'' potenza  di  Ronìa.  E cosi  dicendo  presentava per  testimOnj  i centurioni, quanti  ve  n’  erano, èd alcuni  soldati,  i quali,  volendo  rilevare  sestessi  dall’  infamia della  disfatta  e della  foga,  d’  allora, versavano  sul capitano    colpa  degl’  infortito)  del  combattimetnto. Quindi  inspirando  viva  compassione,  verso  gli  estinti  in quella  giornata,  exl  esagerando  quel  male,  ne  ricordò  con. molto  .disprezzo  ancor  altri, i quali  detti  in  comune contro  i ' patrìzj, scoraggiavano  chiunque  di  loro  volesse intercedere  per  Servilla  ; é dopo  ciò  gli  concedè  la  diiE Servilio  pigliando  a difendersi  disse  ^ Ciftadini, se  mi  chiamale  al  giudizio,  e cìuedete  ragione del  "mio  capitanalo  ; san  pronto,  a renderla  : ma  se mi  oliiàmate  ad  una  pena  già  risoluta, e'  mente  pift giova  eh’  io  dimostri  che  non  v oJ[esi;  prendete  fusa-, temi  come  avete  già  stabilito.  .Egli'è  pur  meglio  eh’ io mora  non  giudicato  cK  ottener  le  difese,    persua-, dervele  ; perciocché sembrerei  patir  con  giustizia  ogni cosa  che  su  me  sentenziaste.  Altronde  voi  meno  sa~ rete  colpevoli,  se  togliendomi  le  difese,  jnentre  oscura ancora  c la  mia  colpa, se  colpa  ho  mai  fatta  ; secondate 1 vostri  risentimenti.  Il  pensier  vostro' dalla  vostra udienza  mi  -sarà  chiaro  : il  silenzio  o'  il  tumulto  mi saran  d argomento  se  m’ avete  alle  ^scolpo  chiamato, o alla  pena.  E biò  detto  si  tacque.  E fatto  silenzio,  e gridando  ben  molli  che  facesse,  cuore, e dicesse  ciocché voleva,  cosi  ripigliò:  Cittadini,  se  .voi  siete  i‘ giudici, non  i nemici  miei  ; di  leggeri  spero  XOftVincervi, che non  v’  oj^esì  ; e comincio  da  ciò  cito' tutti  sapete.  Io fui  scelto  console  ’coll  ottimo  V-erginio, quando  i Tir^ reni  fortificatisi  nel  colle  imminente  a Ronìà, domi navano,  tutta  intorno  la  campagna,  sperandosi  di  abolire ben  tosto,  ambe  il  vostro f principato.  Eravi  in città  fante, discordia, defeienza onde  risolvette.  Incontratomi in  tempi  così. turbati  e terribili  ruppi, unito  al  collega, due  volte  in  battaglia  i nemici, e gli  astrinsi  a lasciare,  il  castello, 'che  guardavano. Feci  dopo  non  molto  cessare  la  fame, ricondotta t abbondanza  npl Foro, e consegnai  d consoli  susseguenti sgombro  da’  nemici  il  territorio  che  n’  era  pie-HO,  e Roma  sana  da  tutti  i mali  politici, i cot pipopoU  l’  avea/io  inabissata.  So  dunque  non  è de^ litio  vincere  gt  inimici, e di  che  mai  son  io  ’^lpevole presso  vai  ? O conte  ha  Servilio  offeso  il  popolo',  se alcuni  bravi  incontraron  la  morte  col,  maU:hio  combai tere  ? Già  non  v’  è niun  Dio  che  asiicuri  ai  capitani la  vita  de  suoi  militari  ; nè  prendiamo, d, comando con patti  e formale  di  vincer  lutti  i nemici  ^ e non perdervi  aldino  de'  nostri.  E chi  mai, s egli  è uomo^ chi  si  offrirebbe  di  riunire  in    tutti  i bei  tratti  di consiglio  buono, e di  sorte  ? Anzi  i grandi  risuUad con  pericoli  grandi  s'  ottengono. Nè  già  io sono  il  primo  éte  m’  avessi  tale ÒKonlro  in  combattere,  ma  se  l ebbero,  dOei,  quanti fecero  pericolose  battaglie  con  poche  schiere  contro  lè molte  nemiche.  Incalzarono  alctzni  i nemici, e poi furono  incalzati:  ne  uccisero,  e ne  furono  decisi,  anche in  più  nurhero.siri  capitani, riuscitici  altri  con  termine  buotto, ‘altri con  doloroso  ? E perchè  dunque^  lasciate  gli  altri, e me  'giudicale  ; se  a norma  ponderale  delle  leggi  le opere, non  degne  della  sapienma  e del  capitanato  ? Quante  imprese  più  audaci  ancor  della' mia  cadde  in pensiero  capitani^  di  compierle, quando  la  circostanza non  ammetteva  consigli  sicuri,'  é già  maturati^ Chi  strappando  le  insegne  dalle. mgni  de'  soldati, le gittò  fra  nemici, perchè  i suoi  scoraggiati  ed  intimoriti  d -rìànimassero  a forza,  istruiti, che chi  non salvatale  ne  avrebbe  morte  ingloriosa  dal  comandante, jiltri  scorrendo  sul  territorio  nemico, ucdicarono  e ruppero  i ponti  de'  fiumi  valicati,  perchè  i soldati  non. vedessero  scampo  nella  fuga,  se  la  tramavano, e com^battessero  coji  ardore  e ferrnezza.  Altri dando  alle fiamme  le  bagagUe  e le  tende, necessitarono  ' i suoi a ritrovare  nelle  terre  nemiche  quanto  lor  bisognava. 'Lascio'  mille  altre  imprese',  audaci  tutte, ed ideate  da  capitani, che    .potrei  pur  dire  'su  la  storia, e su  la  sperienza, e per  le  quali  ninno  mai, faUilagli  .la  prova,  soggiacque  alle  pena  E già  niuno può  redarguirmi  che  mettendo  i compagni  ad  aperto pericolo, io  xnen  tenessi  lontano.  Se  io  mi  vi  esposi cogli  .altri, se  ultimo  me  ne  ritolsi, se  vi  'corsi  la sorte  comune  di  tutti  ; e diche  • sono  io  reo  ? Ma basti  il  fin  qui  detto  su  me. Voglio  ora  dirvi  alóune  poche  cose  intorno del  Senato  e de’  patrizj, perocché  f odio  pubblico contro  di  loro  per  la  division  sospesa  àeUe  terre  deot neggìa  eutcora  a me,    l accusatore  mio  occultò  que-^ sto facendomene  parte  non  piccola  delt  accusa.  E questo  dir  mio  sarà  libero  ; giacché  diversamente  nè io  saprei  parlarvi,    > voi  profittarne  Popolo!  voi  nè giusti  siete    retti non  rendendo  grazie  al  Senato de'  tanti  e 'grandi  benefit j che  ne  aveste  ; e sdegnandovi che  non  'per  invidia  ma  per  calcolo  di  ben  pubblico, vi  si  oppone  .in  cosa  che' dimandate, la  quid conceduta  tusai  nocerebbe  '.al  comune.  Piuttosto  dovevate accettarne  i consigli  pome' nati -da  principj  sol dissimi, pel  bene  di',  tutti, e tenervi  dalle  sedizioni'} 0 se  non  potevate  con  tal  sano  discorso  frenar  gli appetiti,  t non  sani, dovevate  implorar  te  dimande, persuadendo, non  violentando,  Imfièroechè  li  doni spontanei  titnpettp  de’  violenti  son  più  cari  per  chi  li dona  y e più  stabilì  per . chi.  H riceve..  Or  • voi, viva Dio, non  ' avete  ciò  cónsiderato  : nia  commossi  ed inaspriti  dai  capipopolo,. come  il  mare  dai  venti  che insorgano,  F un.  dopo  F altro, non  avete  lasciato  che la  patria  riposasse,  nemmen  picciolotempo.,, tra  la xoima, 'e  il  sereno.  Dondt  è che.  noi.  dobbiam  pensare migliore  per  noi  la  guerra,  che  la  pace  ;^iacchà  nella guerra  maltrattiamo  i nemici,  ma  gli  amici  nella  pace. Se  voi  lipulate  tutti  burnii  e lutti  utili,  come  sono, 1 decreti  del  Senato  ; perchè,  non  avete  riputato  tale anche  questo  ? E se  credete  che  il  Senato  non  provveda con  semplicità,  mq  che  male,  e vituperosamente amministri, 'perché  noi  degradate  / voi  tutto, e ven prendete  le  cariche, e consultate  e guerreggiale  voi  per  la  potenza  di  Roma, ma, lo  stuzzicate, e lo  indebolite poco  a poco, chiamandone  i personaggi  più illustri  in  giudizio?  Certo  sarebbe  pur  meglio  che  fos situo  tutti  insieme  combattuti, che  càìunmati  ad -uno ad  uno.  Sebbene, non  siete  voi, con’  io  diceva, la cagione  di  ciò,  ma  i capi  del  popolo  che  vi  sommovano, non  sapet^o  essi    ubbidire  y nè  comandare. E per  ciò  che  spetta  alla  loro  imprudenza  ed  impe^ rizia',  già  più  volte  sarebbefi  la  nave  rove^aicita.  Eppure il  Senato  che  ha  riparato  tante  volle  i loro  sbache.  fa  che  la  vostra  repubblica  navighi  rettamente,  ' ascolta  ^ peggio  della  maldicenza  da  loro.  Or  queste cose, vi  piacciano  o no-,  le  ardisca  io  dire  con  ogni verità:  e vorrei  piuttosto  morire;,  videndorm  di  una libertà  'profittevole  ab  pubblico  {. che  salvarmi  adulandovi. G}si, dicendo,, senza  volgei^i  a lamentare  o deplorar  la  sciagura, senza  uniilianti  a suppliche,  e proslrai^ioni  non  degne  y e senza'  ..palesai^  affezione  alcuna men  che  generosa, lasciò  che  parlassero  gli  altri, 'dogliosi di ' coadiuvarlo  arringando,  o testificando:  Lui  di scolpavano,  molti  che  eran  presenti, singoK\rmente  Ver giuio, gii  cpnsòle.  co'n  euo  lui, riputato  l’autore  della vittoria!  Coitui  non  solamente  dimostrò  Servilio  irreprensibile, ma  degno  che  si  encomiasse  ‘ed  otiofasse come  peritissimo  in  guerra, e savissimo  tra’  capitani. Diceva  che  se  credeano  buono    termine  della  gaerra dovevano  ringraziar  lutti  due  ; o tutti  dile  punirli  se sci  aurato  ; giacché  avevano  .tntti;.dne  avuto 'doiiiu  ni  i consìgli, le  opere, la  fortuna.  Commovea  non  solo  il discorso  di  lui  ma  la  vita  intera,  speriménUtta  in  tutte le  belle  ationi.  A^iungevasi, ciocché  ispirò  piò  compassione, la  forma  addoloievole, (piai  suoL  essere  in qiielli  che  han  sofferto,  o siano  per soffrire  tamii  terribilL  Tanto  che  li' congiunti  degU  uccisi,  quelli  che pareano  più. implacabili  contro  1  autore  tl^l  danuo, Ia sciaronsi  vincere-,  e deposer  lo  sdegno  che  ne  aveano manifestato  ; imperocché  qinna  tribù  nel  dare  il  voto  ló diede  per  la  condanna.  E tal  fu  la  fine  de’  pericoli  di Servilio.  Marciò  non  mólto  dòpo  contro  i Tirreni r armata  Romana  sotto  gli  auspicj  dei  console  Pubfio Valerio,  perocché  si  era  d^  bei  nuovo  levau  in  arme la  città  di  Vejo, ubendpsde  i Sabini, alieni  fino  a quei giorno  di  unirsele, quasi  aspirasse  cose  impossibili  : quando  però  vider(>  Menenio  in  fuga  e presidiato  il monte  prossimo  a Roma, giudicando  ^ scadute  le  forze Romane, e sbaldanzito  1’  animo  di  quella  'repuUilica, eoncertaronsi  co’  Tirreni, spedendo  loro  milizie  numerose. I Vejenti  confidati  su  le  schiere  proprie  e su  quelle giunte  di  fresco^  da’  Sabini  frattanto  che  aspettavano  le ausiliarie  degli  altri  Tirreni  anelavtino, di  volarsene  a Roma  col  più  dell’  esercito, quasi  ninno,  ne  uscirebbe  a combattere, ma  dovessero  per  assalto  espugnarla, o ridurla con  la  fame.  Indugiandosi  però  essi  ed  aspettando i confederati,  lehti  a ingiungersi,  Valerio  ne  prevenne i disegni, guidato  contra  loro  il  fiore  de’  Romani, .e gli  alleati,  con  sortita  non  manifesta,  ma  occulta  quanto polevasi.  Imperocché  .uscito  da  Roma  sul  far  della  sera, e valicato  il  Tevere  ; si  accampò  non  lontano  dalla  città. Poi  levando  F esercito  su  la  mezza  notte, si  avanzò  con marcia  oi-dinata;  e prima  che  fosse  il  giorno,  investi r nna  de’  campi  nemici.  Erano  due  questi  campi  ; di^ sgiunti, ma  non  molto, fra  loro, l’ uno  de’  Tirreni, r altro,  de’ Sabini.  Fattosi  primieramente  stil  campo  Sa bino,  assalirlo  fb  prenderlo  ; ''dormendovi  i più  senza' guardia  sufficiente,  'come  in  terra amica, e liberi  da ogni  sospetto, nwntre  non  si  annoqziavano  in  parte  ai cuna  i nemici.Preso  il  campo, quali  furono  uccisi  tra il  sonno, quali  ^orti  appena’,  o mentre  si  armavano, e quali  armati  già, mal  resistendo  disordinati  e dispersi: la -più  parte  peri,  fuggendo  verso  .1’ altro  campo,'  sorpresa dalla  cavalleria. Valerio',  invaso'  il  'campo  Sabino, marciò  su r altro  de’  Vejenti, postisi  in  luogo  non abbastanza  sicuro: ma  non  poteano  più  gli  assalitori  ghingeM  oc-' culti, per  essere  il  giorno  già  chiaro  ; e datoyi  da  fnggitivi  r avviso  della  strage  Sabina, e di  quella  imminente ai  Tirreni.  Pertanto  eca  necemario  andar  con fortezza  al  nemico.  'Ecco  dunque  resistere  con  ardore sommo  i. Tirreni  avanti  j^i  alleggia'menti, e fervisi' aspra tenzone  e strage  vicendevole.;  stando  'lungo  tempo  incert^  e pendendo  or  quinci  Or  quindi  la  sorte  della guerra.  Alfine  dan  volta  i Tirreni, sospinti  dalla  cavalleria Rpmana, e ricacciansi  tra  le  uincee.. Segueli il  consolé, ed  approssimatosi  alle  trinclere    ben  formate, nè  in.  luogo, come  ho  detto, abbastanza  sicuro, le  assaU  da  più  parti  ; travagliandovi  tutto  il  resto  del giorno, nè  desistendone  por  nella  notte  appresso.  I Tirrenivinti  da’  mali  incessanti  / a'bbandonano  su  l’ alba  il CAmpo  ; altri  in  città  iuggeo4o$i, altri  dispergendosi  pei boschi  vicini.  Il  console, invaso  par  questo  campo,  diè riposo  ; in  quel  giorno  all’  esercito  : e net  seguènte  com> parti  la  preda  copiosa  de’ due  alloggiameuti  tra  le  Site milizie, coronando  co  premi  ^ usati  chiunque  s’ era  più segnalato  nel  'combattere.  SenrUio  il  console  dell’  anno precedente, quegli  che  sfuggi  le  ^ne  popolari, mandato ora  luogdtenente  di  Valerio,  parsé  aver  pià  che tatti  risplenduto  fra  le  arme, e sospinto  i Vejeqti  alla fuga;  è per  tale  SUO  merito  ne  ebbe  il  primo  i premj, riputati' più  grandi  tra' Roiliani. 'Fatti  quindi  spogliare  i cadaveri  nemici, e>  seppellire  quelli  de’suoi, marciando, e venendo  il  console  coll’  esercito  ne’  campi  prosskni  a Vejo;  sfidò  quelli  d’  entro  per  la  battaglia.  Ma  non  presentandovisi  alcono, e conoscendo  altronde  esser  cosa ben  ardua  pigliarli  di  assalto, come  chiusi  in  città  fortissima, scorse  ingran  parte  il  lor  territorio,  e si  glttò su  s quello  dé’  Sabini.  E saccfaeggikto  pei^.,  più  giorni', pur  questo, ^ che  era  ancora  intatto  ; ricondusse  l’ esercito carico  di  prede  àmplissimi  in  patria.  ‘ Usci  di  città molto  a dilungo  per  incontrarlo  ' il  popolo  cintp  di  ghir ciò  Furio  ;  il  Senalo  decretò  che  Tnino  de’due  mar, classe  ^contro  di  Vejo, ed  essi  decisero,  come  u$ayasi, colle  sortì,  chi  andasse.  E 'toccato  a Malliq,  vdlò  colr armata,  e mise  il  campo  presso  a’ nemici.  I Vejenti ristrettisi  fra  le  mora, resisteroùO  intanto,.  e spedirono alle  città  Tirrene, _ ed  ai  Sabini,'  recenti  loro ' alleati, chiedendone  che  mandassero  sollecito  ajuto,  .Ma  perciocché non  furono  secondati -e  consumarono  .tra  poco  i viveri  ; alfine  ^ necessitati  dalla  fame, uscirono,  i personaggi  più  provetti  e 'più  veóer;iodi  e co’ simboli  di.  pace, ne  andarono  ambasaiadori  ai  console  per  intercedere  ' da  esso  il  fin  della  guerra.  M^o  comandò  che  poetassero a lui  li  viveri  di  due  mesi  per'.tulta.rarmsui).  o tanto  di  argento  da  stipendiamela  per  un’anno,  e ciò.Roma fatoae Vacroae. fatto, perirebbero  al  Senato  per  trattarvi  la  pace.  Ac> cattarono  i Vejenti  le  condiaioai,  e dati  beu^tosl  gli stipendi, e per  concession  del  console, anche  in  luogo del  grano  il  suo  prezzo, ne  andarono  a Roma.  Introdotti in  Senato  cercarono  perdono  t delle  cose  operate fin’ allora,  e requie  dalla  guerra  in  tu.tio.  l’ avvenire. Disputate  più  cose  per  l’una  e l'atra  sentenza,  al  line prevalse  quella  che  insinuava  la  riconciliazione, e vennesi  ad  Una  tregua  di  quaraot  anni.,  Gli  oratori,  avuta la  pace,  assai  de  ringraziarono  Roofa, e partirono.  In opposito  Mallio  vi  tornò  finita  la  guerra, e vi  chiese, e n’ebbe  il  trionfo  a piede .  Fecesi,  reggendo  questi consoli, il  censo  ; ed  i cittadini  che  assegnarono  sè Stessi,  i beni,  e li  figli '^ià  puberi,  fotono,  poco  più. che  cento  fneUta'  mila;  Giunti  dbpo  quesU  al  consolato . Lucio Emilio  Mamertx)  per  la  terza  volta  e Giulio  Yopisco nella  olimpiade  settantesima  settima  (a), nella  quale vinsè  allo  stadio  Date  Argivo, mentre  Caritè  era  l’a  ' contedi  Atene  ; ebbero  assai  travaglioso  e turbato  il comando, sebben  tacesse.  la  guerra  di  fuori.  Standosi ogni  nemico  in  calma  ; ineprsero  per  le  se4izìoni  interne, in  pbricoti, prossimi  a rovinar  la  repubblica. Sciolto  il  popolo  dalia  otilizia  insistè  ben  tosto  per  la division  delle' lem.  'Imperocché  fra  i tribuni  aveacene uno  baldanzoso,    disacconcio  alle  arringhe.  Gneo Genuzib.eia  deiso,  l’ istigatore  dei  popolo.  Egli  ad  ora   L’ovatiooe.  Roma Catone Varrauc].  177 nJ  ora  adunauJolo, per  conciliarsi  i poveri  ; pressava i consoli  all  eseguire  il  decreto  del  Senato  sa  la  divi sion  delle  terre.  E questi  ricusavano  dicendo, non  esserne la  esecuzione  stabilita  pel  consolato  loro, ma  per quello  di  Vergiiiio, e di  Cassio  a’ quali  era  diretto  il decreto  : similmente  che  gli  ordini  del  Senato  non  erau leggi  perpetue, ma  previdenze, valide  per  un  anno. In  mezzo  a tali  pretesti  non  potendo  costringere  i consoli che  aveano  autorità  più  grande  della  sua  ; diedesi a protervi  consigli.  Mise  in  pubblica  accasa  Mallio  e Lucio, consoli  dell’  anno  precedente, e prescrisse  loro il  giorno  nel  quale  dovésse  giudicarsene, pronunziando svelatamente  per  titolo  dell'  accasa, ch’essi  aveano  offeso il  popolo  col  non  avere  nominati  i decemviri, com'era il  decreto  del  Senato, per  dividere  finalmente  i terreni. Che  se  non  menava  in  giudizio  altri  consoli  quando dodici  erano  i consolati  dalla  emanazione  del  decreto, ma  faceva  rei, questi  due  soli, della  promessa  tradita; davano  per  cagione  la  mansuetudine  sua.  In  ultimo  disse; che  i consoli  attuali  allora  unicamente  ridurrebbonsi  a divìder  le  terre, quando  vedessero  alcuni  de’  trasgressori puniti  dal  popolo, considerando  che  avverrebbe anche  ad  essi  altrettanto. Ciò  detto, esortati  tutti  a venir  pel  giudizio, giurò  per  le  sante  cose, che  egli  osserverebbe  il proposito, ed  insisterebbe  con  tutto  l’ardore  su  la  condanna di  quelli,  e prefisse  il  giorno  in  cui  sen  farebbe la  causa.  I patrizj, ciò  udito, caddero  in  molto  timore e sollecitudine, come  dovessero  liberare  que’  due, e reprimere  1’  audacia  del  tribuno.  Deliberarono  resistere DIOXIGI . tomt  Iti.  i> al  popolo  fortissimameote, e bisogoandovi, colie  armi ancora, né  permettergli  cosa  ninna, se  mai  la  decretasse contro  la  dignità  consolare.  Non  però  vi  bisognò violenza  ninna, cessando  il  pericolo  con  risoluzione  inaspettata e repentina.  Imperocché  quando  mancava  al giudizio  un  giorno  solo;  Genuzio  fu  rinvenuto  morto nel  suo  letto  p senza  indizio  niuno  di  uccisione  non  per isu-azio, o capestro, o veleno, nè  per  altre  insidiose maniere.  Risaputosi  il  caso, e portatone  il  cadavere  nel Foro, parve  questo  come  un  impedimento  divino, e ben  tostò  il  giudizio  fu  tolto.  Imperocché  niun  tribuno osò  di  riaccendere  la  sedizione, anzi  molto  condannò  le lune  di  Genuzio.  ' Se  dunque  i consoli  quando  il  cielo chetò  la  discordia  avessero  ceduto,  non  insistito  in  contrario ; non  sarebbero  incorsi  in  altro  pericolo.  Ma  datisi ad  insolentire  e spregiare  il  popolo,  e fatti  vogliosi di  mostrargli  quanto  era  il  potere  del  loro  comando  ; causarono  mali  gravissimi.  Intimata  una  iscrizioa  militare, e forzandovi  chi  ricusava, con  multe  e verghe  : ridussero  il  più  del  popolo  alla  disperazione,  principalmente per  tali  motivi. Publio  Valerone, un  plebeo, d’  altronde illustre  fra  le  arme,  e già  capitano  di  centurie  nelle guerre  precedenti, fu  segnato  da  essi  per  semplice  legionario. Or  lui  reclamando, e ricusando  un  posto  che lo  disonorava  quando  non  aveva  demeriti  anteriori,  sdegnaronsi  i consoli  de’  liberi  modi, e comandarono  ai Kttori  di  nudarlo  a forza, e di  batterlo.  Il  giovine  invocava i tribuni, e chiedeva, se  era  colpevole, di  essere giudicato  dal  popolo.  Ma  non  udendolo, ed  insistendo  i consoli  perchè  i latori  sei  menassero, e lo  bal^ lessero;  egli  riguardò  la  ingiuria  come  insoffribile,  e divenne  appunto  il  vindice  di    stesso.  Imperocché, fortissimo  eh’  egli  era, trae  de’  pugni  in  faccia, ed  atterra il  littore  che  primo  lo  investe, e poi  l’ altro.  Esasperandosene iconsoli,  e comandando  a tutti  insieme  i satelliti  di  avventarsegli  ; parve  raiion  superbissima  ai plebei  ebe  eran  presenti.  E congregandosi  ; e schiamazzando  per  istigarsi  1’  uno  V altro  alla  vendetta;  ritolsero il  govane,  e respinsero  colle  percosse  i littori.  Alfine si  spiccavan  su  i consoli, e se  questi  non  isparivan  dai F oro  ; sarebbevisi  fatto  male  gravissimo.  Per  tale  evento tutta  la  città  se  ne  scinde  ; ed  i tribuni  placidi  fin’  allora, fremendo  ne  accusano  i consoli  : e le  contese  per la  ditnsion  de’  terreni  cangiaronsi  in  altra  più  grave  su la  forma  del  governo.  Imperocché  irritandosi  i paU-isj come  i consoli, quasi  fosse  l’ antorilà  conculcata  di questi  ; voleano  precipiur  dalla  rupe  l’ audace  che  insorse su  i littori.  Per  1’  opposi to  i plebei  riuni vansi, e vociferavano  e conciUvansi  a non  tradire  la  libertà.  Si rimettesse  la  causa  al  Senato, vi  si  accusassero  i consoli, e se  n esigesse  un  castigo, perchè  non  lasciarono goder  de’  suoi  dritti, e traturono  come  uno  schiavo,  e diedero  a battere  un  uomo  libero, un  cittadino, che chiedeva  l’ ajuto  de’  tribuni, e di  essere, se  fosse  reo, giudicato  dai  popolo.  Fra  tali  contrasti  e ritrosie  di  cedere gli  uni  agli  altri, decorse  tutto  il  tempo  di  quel consolato  senza  fatti  di  guerra,  o di  governo,  belli  e memorandi. Xh.  Venuto  il  tempo  de’comizj  furono  dichiarati consoli  Lucio  Pina  rio  e Publio  Furio .  In  principio di  quest’  anno  la  cilià  fu  piena  ben  tosto  di  religiosi  e divini  terrori  pe’  molli  portenti  e segni  che  apparvero. £ li  vali, e gl'  interpreti  delle  sante  cose,  dichiaravano tutti, esser  questi  gl’  indizj  dello  sdegno  celeste  per  alcuna sacra  cosa, fatta  con  ministero  non  pio, nè  puro. E dopo  non  mollo  ne  venne  su  le  donne  un  morbo, chiamato  contagioso, e tanta  moruliià  per  le  gravide principalmente, quanta  mai  più  per  addietro.  Imperocché partorendo  prole  immatura  e già  morta, perivan con  essa.  IVè  le  suppliche  ne’  templi  e nelle  are  de’numi,    i sagrifizj  di  espiazione  fatti  a scampo  della  patria o delle  famiglie, portarono  un  fine  ai  mali.  In  tal rio  stato  un  servo  diè  cenno  a’  pontefici, che  una  delle vergini  sacre, custodi  del  foco  inestinguibile, ( Orbilia ne  era  il  nome  ) avea  la  sua  verginità  estinta, e che non  pura  sagrificava  ; ed  essi  traendola  dai  Santiìario, e dandola  a giudicare  ; poiché  per  gli  argomenti  fu  rea manifesta, la  batterono, e condottala  con  pompa  lugubre per  la  città, la  seppellirono  viva.  Di  quelli  poi  che ebbero  il  mal'  affar  colla  vergine, 1’  uno  si  diè  la  morte di  per    stesso;  l’altro  fu  preso  nel  Foro  pe’ soprastanti delle  sante  case, e flagellato  come  uno  schiavo, ed  ucciso.  Dopo  ciò  fini  ben  tosto  la  infermità  sopravvenuta alle  femmine, e la  tanto  lor  perdita. La  sedizione  già  si  diuturna  in  Roma  de’plebet co’  patrizii, vi  ribolli  per  opera  di  Publio  Valerone  tribuno, quello  che  ntll'  anno  precedente  aveva  disubbi|i)  Anno  di  Roma  aSa  secoudo  Catone,  aS;  secondo  Varrone,  e 4^0  av.  Cristo] dito  i consoli  Emilio  e Giulio  quando  il  segnavano per  legionario,  di  centurione  che  era.  Costui  nato  di stirpe  vilissima, e cresciuto  in  grande  oscurità  e disagio, fu  creato  tribuno  dal  ceto  de'  poveri, appunto perchè  sembrava  che  avesse  il  primo  tra’  privati  umiliato il  grado  consolare, autorevole  Gu’  allora  come  quello dei  monarchi,  'e  molto  più  per  le  promesse  che  dava di  togliere, giurilo  al  tribunato, la  potenza  de’  patrizj. Costai  quando  l' ira  del  cielo  era  cheta, convocando  il popolo,  fece  uba  legge  su  le  elezioni  popolari  trasmutando i comizj  che  i Romani  chiamano  per  curie  in quelli  per  tribù.  Io  sporrò  qual  sia  la  differenza  degli uni  e degli  altrL  Li  comizj  curiati  perchè  fossero  va^ lidi, conveniva  che  precedesseli  il  decreto  del  Senato, che  il  popolo  vi  desse  il  voto  di  curia  in  curia  ; e che oltre  questi  due  requisiti, niun  segno, nè  augurio  celeste vi  si  opponesse  : laddove  gii  altri  comizj  compivansi  dalle  tribù  con  un  giorno  solo  senza  decreti  anteriori del  Senato, senza  sagriGzj, e senza  le  divinazioni degli  auguri.  Due  degli  altri  quattro  tribuni  volean  com’ egli  la  legge  ; ed  esso  tenendosi  amici  que’  due  ; ne andava  superiore  a fronte  degli  altri  che  la  ricusavano i quali  eran  meno.  I consoli, il  Senato, i patrizj  intendeano  tutti  a distoglierla  e renderla  vana.  E recatisi in  folla  al  Foro  nel  giorno  preGsso  dai  tribuni  per  fondare la  legge, vi  furono  aringhe  di  consoli, di  senatori provetti, e di  chiunque  il  volle, per  dimostrare  gli assurdi  di  essa.  Risposero  i tribuni, e di  bel  nuovo  i consoli  ; e prolungandosi  mollo  le  altercazioni, fecesi notte, e l’ adunanza  fu  sciolta.  Proposero  nuovamente i tribuni  pel  terzo  mercato  la  diacussion  su  la  legge  ; ma concorsavi  gente  anche  in  pi  et copia, se  n’ebbe  un fine  simile  al  precedente.  Or  ciò  vedendo  Publio,  deliberò di  non  permettere  ai  consoli  di  accasare  la  legge, nè  al  patrizj  di  trovarsi  al  dar  de’  sufiì'agj.  Perocché questi  co’  loro  amici  e clienti  non  pochi, ingombravano gran  parte  del  F oro, facendo  animo  a chi  denigrava la  legge, e remore  a chi  difendevala, e cose  altrettali che  nel  dar  dei  voti  sono  indizio  di  violenza  e disordine. XLII.  Se  non  che  ne  interruppe  i disegni  tirannici nn’ altra  calamhé  mandata  dal  cielo.  Imperocché  sorse in  città  nn  morbo  pestilente  che  infuriò  pnr  nel  resto d’ Italia  ; non  però  quanto  in  Roma.    valeva  per  gii infermi  soccorso  umano, morendovi  del  pari  e chi  era con  ogni  diligenza  curato,  e chi  non  lo  era.  Nemmeno giovarono  allora  suppliche, sagrifizj, espiazioni  private o pubbliche, alle  quali  necessitati  si  rivolgono  gli  uomini io  tali  casi  per  estremo  rimedio.  Il  male  non  distinse non  età, non  sesso, non  vigore, non  debolezza, non  arte, non  cosa  ninna  di  quelle  che  pajono  renderlo più  leggero;  ma  comprendea  del  paro  Uomini  e donne, giovani  e vecchi.  Non  però  durò  gran  tempo, e questo  impedì  che  la  città  ne  perisse  totalmente.  Si gettò  come  torrente  o incendio  su  gli  nomini  con  impeto furibondo, ma  passeggero.  Quando  il  male  diè requie  ; Publio  era  per  uscire  di  carica.  E siccome non  potea  stabilire  in  quel,  resto  di  tempo  la  legge  ; soprastando  i comizj  j chiese  di  nuovo  il  tribunato  per l’anno  seguente,  fatte  molte  e grandi  promesse  al  popolo: e di  nuovo  se  lo  ebbe  egli,  e due  de’ compagni. Per  Topposito  i patrizj  tentarono  far  console  un  uomo aspro,  odiatore  del  popolo,  e che  non  lascerebbe  punto diminuire  l’ autorità  de’  pochi  : io  dico  Àppio  Claudio, 6glio  di  queir  Appio  eh’  crasi  tanto  opposto  al  ritorno del  popolo.  Or  quest’uomo  che  moltissimo  contraddiceva alla  scelta  dei  tribuni, questo  che  non  avea  nemmeno voluto  venire  al  campo  p’ comic],  sei  crearono  con- sole, quantunque  assente, avutone  precedentemente  il decreto  del  Senato. Terminati  ben  tosto  i comic]  > per  esserne partiti  i poveri  appena  udito  il  nome  di  Appio  ; pre^ sero  il  consolalo  Tito  Qninuo  Capitolino  ed  Appio Claudio  Sabino,  nomini  non  simili  di  caratteri  e di voglie .  Perocché  Appio  voleva  distrarre  tra  le  milizie di  fuori  il  popolo  ozioso  e povero, afGnchè  coi suoi  travagli  guadagnasse  dai  beni  ' del  nemico  il  vitto giornaliero, di  cui  tanto  penuriava, e rendendo  UliK servigi  alla  patria, non  fosse  malafFelto  e molesto  a’  padri che  governano  il  comune.  Dicea  che  avrebbe  puiv le  cagioni  plausibili  di  guerra  una  città  che  si  procacciava il  comando, e che  era  da  tutti  invidiata  : chiedeva che  argomentassero  dalle  cose  passate  le  future, esponendo  quanti  moti  erano  stati'  in  città, e come sempre  nella  cessazion  della  guerra.  Quinzio  però  non pensava  di  portare  ad  altri  guerra  : dichiarando  che  dovea  bastar  loro  quando  il  popolo  ubbidiva  chiamato contro  ai  pericoli  esterni, che  sopravvengono  e stringono, e dimostrando, che  se  forzassero  nel  caso  preti) Anno  di  Roma  a83  secondo  Catone, aSS  secondo  Varrone, av.  Cristo] sente  gl'  indocili, indurrebbero  la  disperazione  come  i consoli  precedenti  1’  avevano  indotta.  Dont}  è che  porrebbonsi  essi  a repentaglio  o di  opprimere  la  sedizione col  sangue  e colle  stragi, o di  scendere  con  vitupero  ad appiacevolire  la  plebe.  Comandava  Quinzio  in  quel  mese ; tantoché  non  potea  1’  altro  console  far  nulla  senza il  consenso  di  esso..  Ma  Publio  e li  compagni  ripigliarono senza  indugio  la  legge, che  non  aveano  potuto stabilire  nell'  anno  precedente, aggiungendo  a questa, che  si  creassero  ne'  comizj  stessi  ancora  gli  edili:  o che tutto  in  fine,  quanto  si  trattava  o risolveva  dal  popolo, si  trattasse  e risolvesse  nel  modo  medesimo  con  i comizj per  trìbùr  Or  ciò  era  l’ annientamento  manifesto del  Senato, e l’ inalzamento  del  popolo. A tale  notizia  mpensierirono, e discussero i consoli, come  togliere  pronti  e sicuri  la  sommossa  e la  sedizione.  Appio  consigliava  che  si  chiamassero  alr armi  quanti  volean  salva  la  forma  della  repubblica  ; e che  si  numerassero  tra’  nemici  quanti  si  opporrebbero ad  essi  che  le  impugnavano.  Ma  Quinzio  giudicava  che si  dovesse  prendere  il  po[x>lo  colla  persuasiva, e con.vincerlo  die  per  ignoranza  de’ -veri  interessi  sla  nciavansi a rovinose  risoluzioni.  Dicea  esser  t estremo  'della  de^ menta  estorcere  colla  forza  da’  cittadini  ritrosi  ciocché aver  ne  poteano  di  buorr  grado.  Ora  approvando  pur gli  altri  senatori  il  parere  di  Quinzio  ; i consoli  ne  andarono al  Foro,  e chiesero  da’ tribuni  un’aringa,  ed il  giorno  in  cui  farla.  Ottenuta  a stento  l’una  e l’altra istanza,  venuto  il  giorno  richiesto,  e concorsa  al  Poro moltitudine  d’ ogni  genere  preparata  per  opera  de’  due magistrati  in  favor  loro, presenlaronsì  i consoli  per  censurarvi la  legge.  Quinzio, uomo  altronde  discreto, e persuaso  che  il  popolo  avessi  a guadagnar  col  discorrere, chiese  il  primo  udienza, e ragionò  cose  a propo sito, e con  piacere  di  tutti  ; cosicché  li  fautori  delia legge  impotenti  a dir  cose  pii^  giuste  o benigne,  assai ne  furono  imbarazzati.  B se  il  console  collega  non  lavasi ancora  troppo  gran  moto  ; forse  i plebei  riconoscendo che  non  cercavano    il  giusto, nò  il  bene  ripudiavan  la legge.  Ma  perciocché  colui  tenne  un  discorso superbo, e grave  ad  udirsi  da’poveri  ; il  popolo  ne  fu crocciato, implacabile, e discorde, quanto  mai  piò  per addietro.  Non  parlò  costui  come  a uomini  liberi,  a cittadini arbìtri  di  fare  e disfare  le  leggi  : ma  quasi  parlasse con  nomini  vili, forestieri, né  liberi  solidamente; vi  lanciò  detti  amari,  insoffribili:  vi  lamentò  le  assoluzioni dei  debiti, e ricordò  la  separazione  dai  consoli  ; quando  dato  di  piglio  alle  insegne, che  pur  sono, santissima cosa, abbandonarono  il  campo, volgendosi  ad un  esilio  volontario.  Richiamò  li  giuramenti  che  avean fatti, quando  presero  per  la  patria  le  armi, che  poi contro  lei  sollevarono.  Pertanto  diceva  che  non  sarebbe meraviglia  se  essi  che  avevano  spergiurato  gl’iddj, lasciato i capitani, e diserta, quanto  era  in  loro, la  p^ttria, e che  vi  erano  tornati,  confusavi  la  buona  fede,  e sovvertitevi le  leggi  ed  il  governo, ora  non  si  dimostrassero moderali  ed  utili  cittadini  : mai  incitati  da  nuòvi desideri  ed  eccessi, talvolta  chiedessero  magistrati  proprj, scelti  dall’ordin  loro,  e questi  iudipendentì, inviolabih  ; tal’  altra  chiamassero  in  giudizio  per  cagioni turpissime  que’palrizj  che  loro  paressero,  trasferendo dal  celo  più  puro  al  più  sordido  i poteri  con  cui  Roma faceva  un  tempo  giudicare  sull’  esilio  e la  morte;  e talora i mercenari  e privi  de’  palrj  lari  com’  erano, fissassero leggi  ingiuste  ed  oppressive  contea  i bennati, senza  lasciare  al  Senato  la  facoltà  di  proporle  prima col  sno  decreto, tolta  ad  esso  una  prerogativa  che  aveva V sempre  avuta  senza  contrasto,  fin  sotto  de’monarchi,  e de'  tiranni.  E dette  molte  altre  cose  consimili, senza lasciare  indietro  memorie  amare,    risparmiare  nomi ingiuriosi  ; alfine  pronunziò  questo  ancora  per  cni  tntto il  popolo  ne  infuriò, vale  a dire  che  mai  la  città  che terebbesi  totalmente  dalle  sedizioni  ma  che  sempre  infermerebbesi  per  nuovi  mali, finché  fossevi  il  poter  dei tribuni  ; affermando  che  negli  affari  politici  si  dee  vedere che  i principi  sian  buoni  e giusti, giacché  da  buon seme  si  ha  frutto  buono  e felice,  ma  infelice  e reo  da reo  seme. Diceva  : se  questo  potere  fosse  erttraio  in città  di  buon  accordo  per  ulil  comune;  venutovi  col favor  degli  augurj  e della  religione, sarebbe  stalo  a noi  causa  di  molti  e gran  beni, di  unione, di  leggi savie,di  speranze  belle  dal  ctmto  dé’ numi,  e di  mille altre  cose.  Avendovelo  però  introdotto  la  violenza,  la prevaricazione, la  discordia, il  timore  di  una  guerra interna,  e tutti  i mali  più  odiati  fra  gli  uomimf  come con  tali  principii  ne  sarà  mai  fausto  e salutare?  Ben è superfìua  cosa  cercar  farmachi  e cure  quante  sen possono  ai  mali  che  ne  germogliano  finché  restavi  la radice  viziata.    mai  vi  sarà  termine, mai  requie alcuna  dallo  sdegno  celeste, finché  ques^  invìdia, in saziabile  furia  in  città  s’  annida, e lorda, ed  infracida tutto.  Ma  per  tali  cose  vi  sarà  discorso,  e tempo più  acconcio.  Ora,  poiché  si  vuole  rimediare  alle  còse presenti  ; io  lasciando  ogni  acerbità, vi  dico  :  N&  questa  legge,    altra  qualunque  non  approvata  prima  dal  Senato  sarà  mai  valida  nei  mio  consolato.  Ma  so> n Sterrò  con  parole  gli  ottimati, e quaudo  anche  1’  o pere  vi  bisognino, nemmeno  in  queste  sarò  vinto  dagli  avversar).  E se  non  prima  ayete  saputo  quanta  sia  r /lutorità  de'  consoli, nel  mio  consolato  lo  saa prete,  a Àppio  cosi  disse, quando  Cajo  Lettorio  il piò  provetto  e più  venerabile  de’  tribuni, uomo  riconosciuto non  ignobile  in  guerra, e buono  al  maneggio degli  affari, sorse  e replicò, cominciando  da  alto, e ragionando  a luogo  sul  popolo, quante  diftìcili  spedizioni avessero  intrapreso  i poveri, da  lui  vilipesi, nonsolo  nel  tempo  dei  re, quando  forse  era  necesiiià, ma dopo  la  espulsione  loro  per  acquistare  alla  patria  la libertà  e il  comando.  Pur  non  ebbero, dicea, ricompensa ninna  da  palrizj, né  goderono  alcuno  de'  pubblici beni;  ma  quasi  presi  in  guerra, furono  privati injino  della  libertà  : e se  volevano  conservarsela  dovettero. abbandonare  la  patria, cercando  una  terra ove  non  fossero, essi  liberi  uomini, insultati^  Senza violentare, senza  obbligare  colle  arme  il  Senato, ebbero nella  patria  il  ritorno, condiscendendo  a lui  che chiedeva  e pregava  che  si  rendessero  alle  abbandonate lor  cose,  fi  qui  spose  i giuramenti, e rammentò  gii accordi  fatti  per  questo  ritorno;  tra’ quali  v’era  I amnistia di  tutto  il  passato,  e la  concessione  a’  poveri  di eleggersi  magistrati  i quali  proteggessero  loro, e resistessero a chiunque  volesse  mai  conculcarli.  Scorrendo su  ^li  subjetd, aunoverò  le  leggi  fondate  poco  prima dal  popolo  ; come  quella  su  la  iraslasion  dei  giudizj  per la  quale  il  Senato  cedeva  ài  popolo  che  chiamasse  in giudizio  qual  più  volesse  de’  patrizj  ; e 1’  altra  sul  dar dei  suffragi,  la  qual  rendeva  arbitri  de’ voti  i comìzj  per tribù, non  quelli  per  centurie. E così  ragionato  Sul  popolo  ; rivolgendosi  ad Appio  disse  : E tu  ardisci  et  insultar  quelli  pe’  quali la  repubblica  divenne  di  piccola  grande, e luminosa d' ignobile  ? tu  chiami  sediziosi  gli  altri  ^ e rimproveri loro  tome  fuorusciti  ? Quasi  non  tutti  rammentino ancora  ciocché  avvenne  tra  noi, vuol  dire  che  gli  avi tuoi  levarono  il  capo  contro  de’  magistrati, abbandonaron  Ut  patria,  e supplichevoli  qui  s' alloggiarono.  Se non  forse  voi  che  avete  abbandonala  la  patria  per amore  della  libertà, voi  v avete  fatto  un  opera  belìa^ fié  ^ella  è quella  de’  Romani  che  han  fatto  altrettanto, Tu  ardisci  calunniare  l’ autorità  de’ tribuni  conte introdotta  a mal  fatto  ; e persuadi  qui  noi  che  c involiamo questo  sacro, questo  immobile  rifugio  de’  poveri, confermatoci  da  numi  a dagli  uomini  per  tanto grandi  cagioni  ? Ta  tirannissimo, ninUcissimo  che sei  del  popolo  ! E non  giungi  nemmeno  dunque  a vedere, che  ciò  dicendo, oltraggi  il  Senato, oltraggi la  tua  mùgislratura  ? Insorse  pure  ' tutto  il  Senato contro  dei  re, più  non  potendo  so  ferirne  la  superbia c gli  affronti  ; e fondò  il  consolalo, e prima  di  bandirli da  Rema  f coesi  altri  ministri  del  regio  potere. 2'antochè  ciò  che  dici  contro  del  tribunato  come  introdotto mal  fato,  per  la  origine  sediziosa,  ciò  dici ancora  contro  del  consolato  ; giacché  non  altra  causa il    nascere  se  rwri  lo  scuotersi  de’  patrie j contro  dei re.  Ma  che  parlo  io  di  queste  cose  con  te  quasi  con cittadino  buono  e Moderato, quando  tutti  sanno  che tu  sei  di^ stirpe  mal  grazioso, anzi  acerbo, anzi  infesto al  popolo, nè  buono  da  ingentilire  la  salvatichezea  tua  ? X)  perchè  non  pospongo  i detti, e ^ investo co’  fatti, e ti  mostro  che  tu  che  non  ti  vergogni di  chiamare  il  popolo  un  sordido, e senza  casa, tu non  sai  quanta  sia  la  forza  di  lui  ? quanta  quella  del suo  magistrato  a cui  le  leggi  ti  obbligano  di  dar  luogo e di  cedere  ? ma  già  lasciati  1 rammaricìd  delle parole, comìncio  le  opere. E ciò  detto  giurò  col  giuramealo, più  rive reado  infra  loro, di  sostenere  la  legge;  o di  morire.  E qui  taciutisi  lutti, e latti  empiutisi  di  ansietà  su  ciò che  farebbe  : comandò  che  Appio  ne  andasse  dall  adunanza. E perciocché  non  ubbidiva, ma  cingendosi  coi littori  e colia  turba  che  aveasì  perciò  condotto  di  casa, ripugnava  ad  andare  ; Lettorio, intimato  pe’  banditori silenzio,  consigliò  che  i tribuni  facessero  portare  il  console nella  carcere.  E qui  la  guardia  di  lui  si  avanzò, comandata, come  ad  arrestarlo  ; ma  il  littore, che  il primo  se  la  ebbe  innanzi, la  battè  e respinse.  E levatosi romor  grande  e rammarico;  v’accorse  lo  stesso  Lettorìo, eccitando  la  turba  in  ' suo  ajulo.  Se  gli  oppose  Appio con  giovani  bravi  e numerosi;  ed  eccone  quinci  e quindi viluperauoni, grida, spinte  ; talché  la  contesa  divenivane  zuflà, ornai  cominciandovisi  il  trar  delle  pietre. Se  non  che  ripresse  tali  colpi, e fece  chn  il  male  non procedesse  più  oltre  Quinzio  l’ altro  console, cacciandosi egli  c li  più  anziani  de’  senatori, tra  le  minacce, e supplicando  e scongiurando  tutti  a desistere.  Non avanzava  allora  se  non  picciola  parte  del  giorno,  e però si  divisero  finalmente, ma  di  mal’  animo.  Incoiparonsi i magistrati  a vicenda  ne’  giorni  appresso  : il  console accusava  i tribuni  che  tentassero  di  annientare  il  suo grado  col  volere  in  carcere  chi  lo  rappresentava  ; ed  i tribuui  il  console, pe’  colpi  portati  su  persone, sacre ed  inviolabili  per  la  legge  ; e de’  colpi  avea  Lettorio  i segni  manifesti  nel'  sembiante.  Intanto  stavasi  la  città scissa  e fremente.  I tribuni  ed  il  popolo  occuparono  il Campidoglio,  non  tralasciandone  mai  la  guardia,  giorno' e notte  : il  Senato  adunatosi  tenne  lunga  e travagliosa discussione  intorno  ai  modi  di  chetar  la  discordia, considerando la  gravezza  del  pericolo, e come  nemmeno  i consoli  fossero  uniti  fra  loo);  giacché  volea  Quinzio conr^dere  al  popolo  le  istanze  • moderate, ed  Appio  vi ripugnava, a costo  ancora  della  vita. E poiché  ninna  cosa  avea  termine, Quinzio presi  nn  per  uno  i tribuni  ed  Appio, orando, scongiurando, raccomandava  loro  di  antepoiTe  il  ben  pubblico al  proprio.  E vedendo  alfine  ornai  rimplacidili quelli,  ma  duro  in  sua  caparbietà  il  console  compagno; persuase  Leitòrio  e i seguaci  di  lui,  sicché  rimettessero al  Senato  l’esame  de’ privati  e pubblici  risentimenti.  ConTocato  quindi  il  Senato,  lodativi  ampiamente  i tribuni, e scongiurato  il  compagno  a non  contrastare  la  salvezza pubblica, invitò  tutti, secondo  il  solito, a dirne  il  parer suo.  Invitato  per  il  primo  Publio  Valerio  Poplicola, disse:  che  doveansi  dal  pubblico  condonare,  non  portare in  giudizio  le  incolpazioni  vicendevoli  de'  tribuni e del  console  su  quanto  s’ avean  fatto  o sofferto  nel tumulto;  perchè  non  erosi  fatto  per  mal  animo,  nè per  ben  propiro, ma  per  gara  di  preminenza  in  repubblica: quanto  alla  legge  poi  sen  facesse  previo decreto  in  Senato  ; giacché  Appio  console  non  voleva che  senza  questo  al  popolo  si  proponesse.  Del  resto provvedessero  tribuni  e cofisoli  insieme  il  buon  ordino, e C armonia  de'  cittadini  nel  dar  de'  suffragi.  Approvarono lutti  quel  dire  ; e ben  tosto  Quinzio  fe’  dare  il volo  a’  senatori  su  la  legge.  AcCusolla  Appio  per  più capi,  e -molto  i tribuni  se  gli  opposero,  ma  vinse  (ìnalmente  di  gran  lunga  il  partito  per  introdurla  ì stesone il  decreto  del  Senato,  ne  tacquero  le  gare  de’ magistrati, il  popplo  di  buon  grado  lo  accolse, e fece  co’  sufTragj suoi  la  legge.  Da>quelip    fino  a miei  tempi  i comizj per  tribù  decidono  col  volo  loro  la  scelta  de’  tribuni  e degli  edili  ^enza  dipendenza  ninna  dagli  augurj^e  dalle cose  di  religione.  E tal  fu  la  soluzione  de’  dissidj  che di  que’ giorni  conturbarono  Roma. L.  Piacque  dopo  non  molto  ai  Romani  di  arrolar  le milizie, e spedire  ambedue  ^ consoli  contro  gli  Equi  e li  Volsci:  perocché  nunziavasi  loro  eh’ erano  uscite  truppe Roma Catone Varrone] in  gran  numero  deli’  uno  e dell’  altro  popolo  e depredavano  gli  alleati  Romani.  Apparecchiati  dunque  in  fretta gli  eserciti, e sceltone  colle  sorti  il  comando  ; Quinzio marciò  contro  gli  Equi,  ed  Appio  contro  de’Volsci.  Ma ciascun  dei  due  consoli  v’  ebbe  le  vicende  che  meritava. Imperocché  l’armata  di  Quinzio  benevola  al  vaientQomo per  la  moderazione, e per  la  dolcezza  di  lui, ne  ubbidiva pronta  i comandi, e le  più  volte  anche  senza  comandi affrontava  i pericoli, per  acquistargli  fama  ed onore.  Dond’è  che  scorse  in  gran  parte,  saccheggiando, la  region  de’  nemici  ; senza  eh’  ardissero  questi  venirne alle  mani  : e raccoltevi  amplissime  prede, e vantaggi, e dimoratavi  alcun  tempo  scevra  in  tutto  da  mali;  si  presentò di  bel  nuovo  in  patria, rimenandovi  il  suo  capitano luminóso  per  le  belle  azioni.  Ma  1’  arntata, andatane con  Appio, lasciò  per  odio  di  lui  ipulti  patrj  dovéri; perocché  fu  mal  animata  in  ogni  spedizione  e poco curante  il  suo  duce:  e quando  le  bisognò  far  battaglia co’ Volscl, schieratavi  da . esso,  ricusò  di  venire  alle mani.  Centurioni  ed  antesignani, chi  lasciò  la  schiera sua, chi  gettò  1’  insegna, e rifuggironsi  agli  alloggiamenti. E se  gl’inimict,  sorpresi  dalla  stranissima  fuga, ed'  intimoriti  per  essa  di  un  qualche  inganno, non  desistevano dall’  incalzarli  ; perivane  il  più  de’Romani.  Or ciò  faceauo  a mal  cuore  del  capitano, sicché  egli  sulr esito  di  fauste  battaglie,  non  crescesse  col  trionfo,  e con  altri  onori.  Nel  giorno  appresso  ora  il  console  redarguendoli per  la  fuga  -ingloriosa, ora  esortandoli  a cancellarne  la  infamia  con  un  generoso  combattimento, ora  minacciandoli  che  varrebbesi  del  rigor  delle  leggi  se ig3 non  teneansi  fermi  contro  a’  pericoK, essi  ìadociii  tut>' lavia  Io  intronarono  colle  grida, e cltiesero  che  li  ri> tirasse  dalla  guerra, come  invalidi  a pi&  resistervi  per le  ferite.  E quasi  feriti  davvero, ' aveansi  alcuni  fasciate membra  sanissime.  Appio  adunque, necessitatovi, ritirò r esercito  dalle  terre  nemiche;  ed  i Volaci  tenendogli dietro,  ne  ticoisero'non  pochi.  Giunti  in  terre  amiche, il  cònsole  convocatili, e fintine  i grandi  lamenti, annnnrìò  che.  punirebbeli  come  i disertori.  E quantunque seniori  e magistrati  militari  assai  lo  pregassero  a temperarsi, nè  volgere  la  patria  di  danno  in  danno  ; egli non  tenne  conto  di  alcnno, e stabili  la  pena.  Quindi i centarìoni  le  cui  centurie  fuggirono  'e  li  portatori delie  bandiere, che  le  aveano  peivlute, gli  nm  furono decapitati  colle  scuri, e gli  altri  Colle  verghe  battuti  e morti.  Del  resto  della  diilizia  ne  peri, tirata  a sorte, la  decima  parte  per  tatti.  Tale  fra  Romani  è il  castigo per  chi  lascia  l’ ordinanza, o getta  la  insegna.  .Dopo ciò  egli, duce  odióso, condocendo  1’  avanzo  dell’  esercito mesto  è disonoralo  ; ornai  sovrastando  i oomiz), si rimise  in  patria. Dichiarati  consoli, dopo  questi, Lncio  Valerio per  la  seconda  volta, e Tiberio  Emilio  ;  i Tribuni contenutisi  già  per  qualche  tempo, introdussero  di  bel nuovo  il  discorso  su  la  division  de’ terreni.  £d  andatine ai  consoli, chiesero  supplichevoli  ed  insistenti  che  si mantenessero  al  popolo  le  proihesse  fattegli  dal  Senato   Addo  di  Roma  384  ,  piacciavi  udirle  o no,  vi  dico,,  veracissimo e libero, come  utili  di  presente, e sicure  per  P avvenire, se  lascerete  mai  persuadervene  ; quantunque  per. me  che  affronto  pel  pubblico  bene  l'odio  altrui  saran causa  di  mali  non  pochi.  Imperocché  ragionando  antivedo, e presentami  i casi  altrui  come  norma  de'miei. Appio  cosi  disse, e consenlendo  con  lui  quasi tutti, fu  sciolto  il  Senato.  Irriuronsi  i tribuni  per  la ripulsa  : e partitisi, considerarono  come  punirne  un  tal uomo.  In  mezEO  al  molto  discutere  piacque  loro  di  sottoporre Appio  ad  un  giudizio  capitale.  Pertanto  accu sandolo  .nell’  adunanza  del  popolo, invitarono  tutti  a venire  in  giorno  determinato, per  sentenziare  su  lui. Sarebbero  queste  le  incolpazioni, vuol  dire  che  stabiliva massime  ree  cofilro  il  popolo  ; che  riaccese  in  città  la sedizione  ; che  alzò  viqlento  le  mani  sul  tribuno  ad onta  delle  leggi  sacrosante  ; e che  duce  delC  esercito, sen  tornò  pieno  di  sciagura, e (T  infamia.  Annunziate tali  cose  al  popolo, e destinato  il  giorno  in  cui  di(^ vano  che  ne  farebber  la  causa, intimarono  ad  Appio  di comparire  a difendersi.  Sen  dolsero  e prepararonsi  i padri  Con  tutto  l’ ardore  a salvarlo.  Eid  esortandolo  a cedere  al  tempo, e prender  abito  conveniente  alle  cir> costanze  ; replicò  che  mai  non  farebbe  azione  vile, nè degna  delle  precedenti;  e che  sosterrebbe  anzi  mille morti  che  prostrarsi  supplichevole  ad  alcuno.  Rimosse alquanti ‘che  eran  pronti  d’ Intercedere  per  lui, dicendo: die  sarebbegli  stata  doppia  vergogna, se  vedesse  altri fare  per  lui  ciocché  non'  dovea  fare  nemmeno  per  sè stesso.  Dette  queste, e cose  consimili, senza  cambiar vestimenti,    tener  di  sembiante,    llul  fìnsero  che  per  una  Infermità morisse.  Portatone  quindi  il  cadavere  nel  Foro, -il  Gglio di  lui  fattosi  innanzi  ai  tribuni  ed  ai  consoli   dimandò che  convocassero  Tadananza  legittima;  e ^mettessero a lui  di  lare  sul  padre  suo  la  -funebre  laudazione,  usala in  morte  de’ Valentuomini.  Intimarono  ai  consoli  l’adu nanzB  ; ina  vi  ripugnarono  itribuni, ed  imposero  al giovine  di  tor  via  quei  cadavere.  Non  sofferse  il  popolo né  guardò  con  indifferenza  clte  inonorato  il  cadavere  si rimovesse  ; ma  concedette  al  > 6glU>  di  rendere  i consueti onori  al  padre  : £ tale  fu  la  fine  di  Appio. I consoli  arrotarono,  e cavarono  di  città  le  milizie ; Lucio  Valerio  per  combattere  gli  Equi  e Tiberio Valerio  i Sabini  ; perciocché  gli  ultimi  ne’  tempi  della sedizione  entrarono  il  territorio  romano,  e danneggiatane gran  parte, ne  partirono  con  amplissima  preda  : gli  Equi  poi  venuti  più  volte  alle  mani, e presevi  molte ferite,  eransi  riparati  in  luogo  fortissimo,    più  ne scendevano  per  combattere.  Ben  tec^ò  Valerio  di  assediare quelle  trincee, ma  ne  fu  proibito  dal  cielo.  Imperòcclié  mentre  v’andava  e ponessi  all’opera;  si  mise il  cielo  in  caligine, in  pioggie, in  fulgori, e tuoni spaventevoli.  Se  ne  sbandò  l’ esercito, ma  sbandatosi appena  cessò  la  procella  : e fecesi  grande  serenità.  Prese il  console  come  cosa  di  religione  un  tal  fatto  : e perciocché gl’  indovini  diceano  non  essere  da  por  quell’assedio ; egli  diè  volta,  e saccheggiò  la  terra;  e lasciata in  utile  de  soldati  la  preda, ricondusse  in  patria  l’eser cito.  Tiberio  Emilio  però  scOrrea  fin  dal  principio  con assai  negligenza  le  regioni"  de’ nemici,    aspettavano ornai  più  le  milizie;  quando  uscirono  a fronte  i Saliini, e sen  fece  battaglia  ordinata, quasi  dal  mezzodì  fino  a sera.  Sorprese  dalla  notte  ritiraronsi  le  armate  ciascuna aoi al  suo  campo, nè  vincitori    vinte.  Ne’giorai  appresso i duci  presero  cura  de’  loro  estinti, e munirono  di  fossa gli  alloggiamenti  ; ambedue  con  proposito  di  difender' visi, non  di  uscirne  per  offendere.  Poi  col  volger  del tempo  levarono  le  tende, e partironsi  cogli  eserciti. L’  anno  dopo  nella  olimpiade  settantesima ottava  in  cui  vinse  nello  stadio  Parmenide  di  Possido> nia, mentre  Teagene  vea  l’ annuo  magistrato  di  Atene, furono  in  Roma  consoli  Aulo  Verginio  Cclimoutano  e Tito  Numicio  Prisco.  Ascesi  appena  questi  al  comando, ridicevasi  che  giungevano  i Volsci  con  esercito  poderoso. Nè  mólto  dopo  fu  invaso  da  essi, e dato  alle  Gamme un  posto  ne’  dintorni  di  Roma  : e non  essendo  questo mollo  lontano  ; il  fumo  stesso  annunziava  alia  città  l’in ibrtunio.  Immantinente,  essendo  ancor  notte,  inviarono i consoli  de’  cavalieri  per  osservare, e misero  guardie su  le  mura;  ed  essi  stessi  schieratisi  fuori  delle  pqrte co’  soldati  più  spediti, v’  a^ettavano  i ' rapporti  de’  cavalieri. Fatto  giorno  raccolta  la  milizia  che  avevasi  iu Roma,  andarono  contro  a’ nemici:  ma  questi,  derubato il  luogo'  ed  incendiatolo,  ne  erano  ben  tosto  partiti. Liberarono  r consoli  )e  cose  che  ardevano  ancora, e lasciatovi  un  presidio  sen  tornarono  a Roma.  Pochi giorni  appresso  usci  coll’  armata  propria, e con  quella degli  alleati  l’ uno  e 1’  altro  console  : Yergiulo  contro degli  Equi  e Numicio  contro  de  Volsci  : e ciascuno  se n’  ebbe  fra  le  armi  il  successo  che  desiderava.  Devastando Verginio  le  terre  degli  Equi  non  ardirono  questi   Attuo  di  Roma  z85  tecondo  Calotte,  >87  secondo  Varroac, e 4^  av.  Cristo. di  venire  alle  mani.  Ben  posero  nna  imboscata  di  uomini scelti  ove  speravano  di  piombare  su  l’inimico  sban> dato;  ma  vanissima  ne  fu  la  speranza.  Imperocché  saputosi ben  tosto  pe’  Romani, fecevisi  vigorosa  battaglia: ove  gli  Equi  tanto  perderon  de’  suoi die  più  allora  non vennero  al  paragone  delle  armi.  Numicio  marciò  su  la città  degli  Anziati, 1’  uua  allora  delle  primarie  tra’VoIsci, ma  non  se  gii  oppose  armata  niuna, riducendosi tutti  a rispingerlo  da  entro  le  mura.  Fu  dunque  saccheggiato gran  tratto  della  lor  terra,  e presa  una  cittadella in  sui  lido,  la  quale  era  per  essi  come  arsenale ed  emporio,  ove  concentravano  il  molto  che  andavano depredando  sul  mare.  L’  esercito  si  attribuì  per  concessione dei  console  gli  schiavi, i danari, i bestiami, le merci  : ma  gli  uomini  liberi  che  non  erano  periti  tra  la guerra  furono  presentati  all’ incanto.  Si  acquistarono  nommeno  su  gli  Anziati  ventidue  navi  lunghe, ed  apparecchi ed  armi  di  navi.  Alfine  per  comando  del  console  i Romani  ne  bruciarono  le  case, ne  devastarono  l’ arsenale, e ne  distrussero  da’ fondamenti  le  mura;  perchè, ritirandosene  essi, quel  luogo  non  fosse  un  castello vantaggioso  per  gli  Anziati.  Tali  furono  le  azioni  separate de’  consoli  ; poi.  gettatisi  insieme  sui  territorio  dei Sabini, e depredatolo, rimenarono  a Roma  gli  eserciti; e r anno  finì.  L’anno  appresso  fatti  appena  consoli  Tito  Quinzio Capitolino,  e Quinto  Servilio  Prisco,  tutta  la milizia  romana  fu  in  arme, e spontanea  si  presentò Auno  di  Roma  aS6,  secondo  Catone,  aS8  secondo  Varrone, e 4^  av Cristo..  ao3 quella  degli  alleati, prima  che  richiesti  ne  fossero.  Dopo ciò  fatte  suppliche  ai  nami,  ed  espiato  l’esercito,  mar> ciarono  i consoli  contro  a  nemici.  Li  Sabini  contro  ai quali  era  andato  Servilio, non  che  schierarsi  in  batta> glia, non  nscirono  nemmenoall’  aperto:  ma  tenendoM dentro  del  chiuso,  lascravano  che  si  devastassero  loro  le terre,  s’ incendiasser ’ le  case,  e gli  schiavi  se  ne  fuggis . sero.  Dond’  i che  i Romani  tornarono  a grand’  agio dalle  lor  terre, carichi  di  preda, e risplendenti  di  glo ria.  E cosi  terminò  la  spedizion  di  Servilio.  Quinzio, ed  il  seguito  suo, movendosi  con  marcia  più  che  mili tare  contro  gli  Equi, ed  i Volsci,  venuti  ambedue  dalle regioni  loro  in  un  sito  stesso  a combattere  per  gli  altri, ed  accampatisi  davanti  di  • Anzio  : diedesi  a vedere improvviso.  E fermatosi  non  lungi  dal  campo  loro  in tm  luogo, basso  per    medesimo, che  era  quello  ap> punto  dove  prima  fa  veduto  e vide  gli  avversar), posevi  le  bagaglie  per  far  mostra  di  non  temere  i nemici, quantunque  superiori  di  numero.  Or  com’  ebbero  ambedue tutto  in  punto  per  la  battaglia, uscirono  in  campo, cd  avventatisi  pugnarono  infino  al  mezzogiorno. Non  cedevano,  non  superavano,  quésti  o quelli,  ristorando sempre  la  parte  che  vacillava, co’sussidj  ordinàli per  questo.  Allora  quando  come  superiori di  nnmero, cominciarono  i Yolsci  e gli  Equi  a vantaggiare  ^ e pre> valerne;  non  avendo  i Romani  moltitudine, pari  all’ardore, Quinzio  veduti  estinti  molti  de’  suoi, e ferito  il più  de’  superstiti, era  per  intima  ve  la  ritirata  : ma  temendo poi  di  dar  vista  ài  nemici  di  fuggire;  concluse, ch’egli  dovea  cimentarsi.  E scelto  il  nerbo  de’cavalieri. Digitized  by  Google 2o4  delle  antichità’  bomane vola  in  soccorso  de'  laoi  nell'  ala  destra, dove  principalmente perìcclavaoOi  Ed  ora  sgridando  di  codardia  li duci  stessi, ora  ricordando  le  passale  battaglie, e dipingendo la  infamia  ed  il  pericolo  loro  se  fuggivano; alfine  disse  una  cosa  Gota  sì, ma  cbe  rincorò  li  suoi più  che  tutto, e sbigottì  F ibiiuico.  Egli  divulgò  che r allr  ala  sua  incalsava  già  gli  avversar}, e già  stava prossima  agli  alloggiamenti  r e divulgandolo,  spronò  sui nemici  ; e sceso  di  cavallo  co’  bravi  suoi  cavalieri,  prese a combattere  di  piè  fermo.  Tornò  l’ audacia  aUora  nei suoi  che  ornai  si  abbandonavano, e divenuti  quasi  altri da  quelli  cbe  erano,  fulminaronsi  tutti  sul  nemico.  Talché li  Volsci  contrapposti  -appunto  in  quella  parte,  dopo aver  luogo  tempo  résislito, piegarono  finalmente.  Quinzio fiigaiili  appena, rimonta  il  cavallo e corre  all’  altr’ala,  e mostravi  a’ fanti  suoi  disfatta  l’ala  nemica,  e raccomanda  che  non  sieno  per  virtù  minori  de’compagni. Dopo  ciò  niono  più  de' nemici 'tenne  fronte, ma  fuggirono  tutti  alle  trincee.  Non  gl’  inseguirono lungo  tempo  i Romani, ma  beutoste  se  he  rivolsero forzali  dalla  stanchezza,    più 'avendo  ornai  l’arme, pari  al  bisogno.  Decorsi  alquanti  giorni, convenuti  per seppellire  gli  estinti e curare  i mal  conci, avendo  già riparato  quanto  mancava  loro  per  combattere,  fecero nuovo  conflitto  intorno  gli  alloggiamenti  romani.  Imperoccliè  venute  nuove  reclute  ai  Volsci  e agli  Equi  dalle terre  circonvicine,  inanimito  il  capitano  perchè  i suoi erano  il  quintuplo  de’  Romani, e perchè  vedeva  le  trincee di  questi  su  luogo  non  abbastanza  munito, credette il  buon  punto  d’  assalirvegli.  Con  tal  disegno  guidò. . ao5 su  la  mezza  notte  1’  esercito  intorno  al  vallo  de’  Romani, e cinseli, e tineli  in  guardia, percbè  inosservati non  s’ involassero.  Quinzio  saputa  la  moltitudine  de’ nemici, ebbe  caro  di  accoglierla.  Ed  aspettaudo  che  fosse  • giorno,  e principalmente  Tura  nella  quale  il  Foro  suol riempirsi, quando  vide  > che  i nemici  venivano  ornai stanchi  dalla  vigilia  e dalle  scaramucce,  non  per  centurie, nè  in  schiera, ma  confasi  e sparsi;  immantinente, spalancale  le  porte, precipita  su  loro  col  nerbo  de’  cavalieri, mentre  i fanti  lo  seguitavano  serrati  e stretti. Sbalorditi  i Yolsci  dall’  audacia, dopo  aver  sostenuta bteve  tempo  la  furia  della  irruzione,  rinculano,  e lasciano gli  alloggiamenti.  E percbè  non  lungi  da  questi aveasi  un  colle  alquanto  elevato  ; vi  accorrono, come a riprendervi  requie  ed  órdine. 'Non  riuscì  però  loro  di fermarsi  e di  riaversi, giungendo  ben  tosto  i nemici, stretti  quanto  poteano  colle  coorti, per  non  esserne trabalzali, nell’  ascendere  a forza  la  pendice.  Fattasi azione  vivissima  per  gran  parte  del  giorno,  ne  perirono molti  diagli  ani  e degli  altri.  I Volaci, 'tuttoché  superiori nel  numero,. e rassicurati  dal  posto  occupalo,  nou goderono  alcuno  de’  dué  vantaggi  : ma  violentati  dall’ardore e dalla  virtù  de’  Romani, abbandonarono  il  colle. F uggendo  però  verso  le  trincee, molti  ne  soccomberono. Imperocché  non  cessarono  i Romani  d’inseguirli, ma  tennero  immantinente  .dietro  loro, senza  desisterne, finché  ne  presero  a forza  il  campo.  Impadronilivisi  dei prigionieri  e di  ogni  cosa  lasciatavi  cavalli, armi, danari, che  erau  pur  molli, passarono  ivi  la  notte.  Nel giorno  appresso  il  console,  apparecchialo  ciocché  bisoDigitized  by  Google 2o6  delle  antichità’  romane goava  per  un  assedio, diresse  1’  esercito  alla  città  degli Ansiati, uon  lontana  più  di  trenu  stadj.  Per  avvenlora ivi  slavan  di  guardia  alquanti  Equi  ausiliarj  e custodivan le  mura, e questi  per  terrore  della  baldanza  romana naacchinavan  fuggirsene.  Saputo  dagli  Anziati, ed  impediti partirne, congiurarono  dar  la  cittade  a’Roraani  che si  appressavano.  Gli  Anziati  avuto  sentore  pur  di  questo, cedettero  al  tempo  : E imnvenutisi  cpn  loro  ; si  diedero a Quinzio, in  modo  che  gli  Equi  pe^  patto  si dimettessero,  accettassero  gli  Anziati  in  città  la  guarnigione, e seguissero  i comandi  de’  Romani.  Divenuto pertanto  il  console  arbitro  della  città,  pigliatine  stipendi ed  altri  bisogni  dell’  esercito, e presidiatala,  se  ne  ritirò. Uscitogli  per  tal  gesta  incontra  il  Senato,  lo  accolse gratissimamente,  e lo  onorò  del  trionfo. L’anno  -appresso  furono  consoli  Tiberio Emilio  per  la  seconda  volu,  e Quinto  Fabio  Ggliuolo dell’  uno  dei  tre  fratelli, duci  già  della  guarnigione  spedita in  Cremerà^  ed 'ivi  periti  co’ loro  clienti.  Ora.  favorendo Emilio  console  ai  tribuni, e rimescendo  qu^ti di  bel  nuovo  il  popolo  intorao  la  divisione  de’  campi  ; il  Senato  voglioso  di  cattivarselo, e sollevarne  i poveri, stabili  di  compartir  loro  uu  tratto  del  territoifio  conquistato r anno  avanti  su  gli  Anziati.  Furono  deputati  per la  divisione  Tito  Quinzio  Capitolino, quello  appunto  a cui  si  erano  gli  Anziati  venduti, e Lucio  Furio  ed Àulo  Verginio.  Non   stumio  Albino  per  la  prima  volta,  e Quinto  Servilio Prisco  per  la  seconda.  Nei  lor  giorni  gli  Equi  risolvei Roma Catone Vsrrone e tero  vioiai-e  i patti, recenti  co’  Romani, per  questa  cagrane.  Gli  Aoziati  che  avevano  case  e campi, rimasero nella  lor  patria, coltivando  le  terre  ad  essi  concedute, come  quelle  attribuite  ai  coloni, a’  quali  davano  con regole  Gsse  parte  del  frutto  :quelli  perd  che  unila  più avevan  di  questo,  si  trasmigrarono.  Gli  accolsero  di  buon grado  gli  Equi  fra  loro  ; ma  uscendone, d^>redavx> le  terre  latine  : dond’  è cbe  'i  più  audaci, e più  poveri ancora  degli  Equi, fecero  causa  con  essi.  Lamentarono i' Latini  r insulto  in  Senato,  e'tdiiesero  che  mandasse loro  un  esercito,  o loro  concedesse  di  ribattere  gli  autori delia  guerra.  Il  Senato, udito  eiò, nè inviare  un  esercito, né  permise  ai  Latini  che  lo  menassero : ma  scelti  tre  ambasciadori,  capo  de  quali  era  Fa-,bio, quegli  che  l' anno  avanti  avea  conchiuso  il  trattato, ordinò  loro  di  chiedere  dai  primarj  della  nazione, se  mandava  il  pdbtdico  per  qite’  latrocini  ne’campi  degli alleati  di  Roma, anzi  di  Roma  stessa, ne’  quali  eransi anche  fatte  alcune  scorrerie  da, quegli  esuli  : o se  il pubblico  non  avea  di  ciò  colpa  ninna  : E se  diceano che  r opera  era  de’  privati  senza  volere  del  popolo  ; chiedessero  nelle  mani  le  predé  nomuMno  ohe  i predatori. Venuti  gli  oratori, ed  ascoltatili  ; gli  Equi  diedero oblique  risposte, dicendo, che  1’  opera  non  era  certo fatta  per  pubblico  voto,  ma  che  non  istimavano  bene consegnarne  gli  autori, perché,  ridotti  già  senza  patria, e vaganti, erano  come  supplichevoli  stati  ricevuti  nelle campagne  (t).  AddoloravaSi  Fabio,  e reclamava  i patti   Vuol  c^ita  pareva  loro  come  tradire  la  fede  oepiiale, $e  ti conergnaTeoo.  Linno  IX.  209 traditi, pur  vedendo  che  gli  Equi  s’inGngevano, e dimandavano tempo  a consultarsi, e lo  intrattenevano come  pe’  doveri  ospitali  ; si  rimase  infra  loro  con  di> segno  di  esplorare  le  cose  della  città.  E visitando  ogni luogo  sul  titolo  di  vagheggiarvi  le  cose  dei  templi  e del  popolo, gli  opifizj  delle  arme  da  guerra  o Gnite o che  si  lavoravano, comprese  i loro  disegni.  Tornato n  Roma  disse  in  Senato  quanto  aveva  udito, e veduto. Ed  il  Senato, non  più  dubbioso, decretò  che si  mandassero  i F eciali  per  intimare  agli  Equi  la  guerra, se  non  cacciavan  da  loro  i fuorusciti  di  Anzio, nè promettevano  rintegrare  i danneggiati.  Replicarono  gli Equi  baldanzosi, Gno  a dir  che  accettavano, nè  già  di mala  ' voglia, la  guerra.  Li nigione  su’  turbolenti  di  Anzio, onde  rassicurarsene, e Spurio  Furio  l’altro  de’consoli  coll'esercito  contro  degli Equi.  Marciò  ben  tosto  1’  uno  e 1’  altro  ; nfa  gli  Equi udendo  uscita  già  l’armata  romana  si  mq^sero  da’ campi degli  Ernici  per  incontrarla.  Vedutisi  appena  fra  loro, tutto  che  non  fossero  molto  distanti, per  quel  giorno si  trìncierarono.  Nel  giorno  appresso  i nemici  vennero quasi  alle  trincee  de’Romani  per.  esplorarvenè  gli  animi. E poiché  questi  non  uscivano  alla  battaglia,  fattevi  delle scaramucce,  e niente  di  memorando,  sen  partirono  assai   Allude  ai  Romaui' portali  non  molto  prima  iif  Aniio, come coloni  pcrchi  nel  tempo  slesto  invigilassero  e lenestero  iit  soggeunn^ Ig  città  proclive  alla  ribellione magnificandosene.  Il  cohsole  lasciate  nel  giorno  seguente quelle  trincee,  come  non  molto, sicure, trasposele  in sito  più  acconcio, e vi  scavò  fossa  più  profonda  ^ e vi piantò  steccati  più  alti.  Crebbe  a tal  vista  il  cuor  dei nemici, e molto  più  quando  ad  essi  pervennero  altri snssidj  de’  Volaci  e degli  Equi  ; tanto  che  senza  più indugi  marciarono  al  campo  romano. Il  console  considerando  che  a lui.  non  bastava r>esercito  contro  le  dpe  nazioni,  spedisce  alcuni  cavalieri con  lettere'  in  Roma  perchè  mandisi  a lui  pronto  soccorso, pericolandogli  tutta  l’ armata.  Giuntivi  questi  su la  mezza  notte, Postumio  il  collega  di  lui  ricevendole, fe’  convocare  per  via  di  molti  araldi  i padri  in  Senato: e prima  che  il  di  si  chiarisse,  crasi  decretato  che  Tito Quinzio  già  console  per  la  terza  volta  portasse  bentosto con  autorità  proconsolare  il  fior  de’  giovani  a piedi  ed a cavallo  sul  nemico, c che  Aulo  Postumio  il  console raccolte  il  più  presto  le  altre  milizie, a raccoglier  le quali  vi  abbisognava  più  tempo,  li  soccorresse.  Quinzio riuniti  sul  principio  del  giorno  presso  a cinque  mila volontari,  dopo  non  molto  marciò.  Gli  Equi  ciò  sospettando non  istavansi  a bada  : ma  deliberati  d’  assalir  le trincee  de’  Romani  prima  che  vi  giungesse  il  soccorso, si  divisero  in  'due  corpi, e t’  andarono  per  espugnarle colla  forza, e col  numero.  Fecesi  per  tutto  il  giorno calda  battaglia, spingendosi  questi  audacemente  in  più parti  su’ ripari,    reprimendosene  pe’ tiri  continui  delle lance, degli  archi, e delle  fionde.  Adunque, confortativisi  a vicenda,  il  console  ed  il  legato  spalancando  in uri  tempo  le  porte, ne  sboccano,  e piombando  co’soldati  più  validi  da  ambedue  le  parti  del  campo  su  i ne mici,  ne  rispingono  quanti  vi  salivano.  Messili  in  fuga, il  console  insegai  breve  tempo  i soldati  a lui  coatraposti,  e poi  si  ripiegò:  ma  il  fratello  suo  e Publio  F urio il  legato  trasportati  dalla  impresa  e dall’  ardore  corsero incalzando  e uccidendo  fino  al  campo  nemico  ; e non avean  seco  se  non  due  coorti, numerose  in  .tutto  di mille  uomini.  Gli  avversar)  loro  be  erano  intorno  a cinque  mila,  osservato  ciò,  si  avventano  dagli  steccati.. E mentre  questi  vengon  di  fronte, la  cavalleria, fatto un  giro,  prende  alle  spalle  i Romani.  Publio  ed  il  seguito suo  cosi  circondato  e disunito  dal  resto  de  suoi ben  potea  salvarsi  se  cedeva  le  arme,  esibendogli  questo i nemici, cbe  assai  valutavano  far  prigionierì  que’mille bravi,  quasi  potessero  in  vista  di  essi  ottener  pace  ono rata:  ma  i Romani  spregiato  l’invito  ed  animatisi  a non far  cosa  indegna  della  patria,  combatterono  e spirarono tutti  Ira’  cadaveri  de’  nemici. Morti  questi, gli  Equi  inebbriati  dal  buon successo  presentaronsi  alle  trincee  romane  elevando  confitto alle  aste  il  capo  di  Publio  e di  altri  cospicui,  per iscoraggirne  quei  d’ entro,  e necessitarli  a ceder  le  arme. Ma  se  venne  ad  essi  pietà  per  la  sciagura  degli  estinti compagni, e se  ne  pianser  la  sorte, si  moltiplicò  ben anche  lo  spirito  per  combattere  e l’ onorato  amore  di vincere  o di  morir  come  quelli  prima  che  andar  prigionieri. Circondati  dunque,  com’erano  de’ nemici,  passarono i Romani  senza'  sonno    notte, riordinando  le parli  che  aveano  soiferto  nelle  trincee, e quant’  altro mai  potea  respingere  gl’  inimici  se  tentavano  un  altra volta  investirveli.  F ecest  nel  giorno  appresso  di  bel  nuovo r assalto, schiaotandovisi  lo  steccalo  in  più  parti.  Più volte  furono  gli  Equi  respinti  da  quei  d  entro  che  ne uscivano  a schiere, e più  volte  nell’  audacia  delle  soi> lite, lo  furono  questi  dagli  Equi.  Durò  tutto  il  di  la vicenda:  quando  fu  il  console  romano  ferito  nel  femore da  uno  strale  a traverso  dello  scudo,  e feriti  pur  furono  ^ molti  de’  più  rignardevoli, quanti  li  combattevano  infoiano. Ornai  vacillavano  t Romani, quando  su  l’ imbrunir della  sera  ecco  inopinatamente  apparire  Quinzio per  soccorrerli  col  corpo  de’  prodi  volontarj.  I nemici, vedutili  che  avanzavano, diedero  di  volta, lasciando l’assedio  imperfetto:  ma  quei  d’  entro  incalzandoli  nella ritirata  facean  strazio  della  retroguardia : se  non  che indeboliti  per  la  più  parte  dalle  ferite,  non  gl’  inseguirono a lungo  ; ma  presto  si  ripiegarono  verso  il  lor campo.  Dopo  ciò  si  tennero  gli  uhi  e gli  altri  lungo tempo  fra  le  trincee, guardando  sestessi. Quindi  mentre  il  nerbo  de’  Romani  era  impegnato in  campo, altre  milizie  di  Equi  e di  Volaci credendo  il  buon  punto  d’ ime  depredando  la  regione, uscirono  tra  la  notte  ; ed  invasala  in  parte  lontanissima dove  gli  agricoltori  viveano  scevri  d’ogni  paura,  occuparono non  poco  di  robe  e di  nomini.  Non  però  ne ebbero  bella  in,dné    facile  la  ritirata, imperocché Postumio  il  console  mepaudo  agli  assediati  nel  campo  i soccorsi  adunati, appena  udì  le  operazioni  de'  nemici, si  presentò  loro  contro  la  espettazione.  Non  sbalordironsi essi,    tremarono,  ma  ponendo  a bell’agio  le  bagaglio e le  prede  in  luogo  sicuro, e lasciandovi  guarnigione delle  antichità’  romane che  bastasse,  marciarono  ordinali  al  nemico.  Venuti  alle mani, sebben  pochi  contro  molli, fecero  memorabili prove.  Imperocché  precipitandosi  giù  dalle  campagne uomini  in  copia  cinti  di  lieve  armatura  conir’  essi  che eran  tutto  arme  il  corpo, fecero  grande  uccision  dei Romani  ; e per  poco  non  si  ritirarono, lasciando  nell’altrui territorio  un  trofeo  su  gli  assalitori.  Ma  il  console e con  esso  i cavalieri  più  scelti  spronandosi  a redini abbandonate  su’  loro, dov^  erano  il  forte, e combattevano ; ve  li  sbaragliarono  e  prostrarono  in  copia. Battuti  que’  pnmi, anche  il  resto  dell’  armata  respinto fuggì  : e la  guaniigìone  delle  bagaglie, lasciatele, s  involò di  su  pe’  monti  vicini.  Cosi  pochi  moriron  di  essi nella  battaglia  ; ma  moltissimi  nella  fuga, perchè  ignari de’  luoghi  ed  inseguiti  dalla  cavalleria  de’  Romani. Intanto  Servio  1’  altro  console  persuaso  che  il collega  ne  veniva  a lui  per  soccorrerlo,  e temendo  che 1 nemici  ^non  gli  uscissero  incontra  e glien  traversasser la  strada  ; risolvè  frastornameli, con  assalirli  negli  aU loggiamenti.  Questi  però  lo  prevennero;  perciocché  sapuu  la  sciagura  de’  compagni  dai  predatori  salvatisi, levarono  il  campoj  e nella  notte,  che  fu  la  prima  dopo la  battaglia,  rientrarono  in  città,  senza  che  avesser  potuto tptanto  aveano  disegnato.  Ma  se  ne  periron  di  loro tra  le  battaglie  e i foraggi  ; ne  soggiacquero  nella  fuga d’ allora  assai  più  di  prima  (ra  quelli  che  restavano addietro.  Aggravati  questi  dal  travaglio  e dalle  ferite, Iraendosi  a stento  innanzi, perchè  non  .prestavansi  ad essi  i lor  membri, stramazzavano, vinti  principalmente dalla  sete, presso  de’  ruscelli  e de’  dumi  : e raggiunti da’cavallert  romani,  erano  trncidali.  Netnraeno  i Romani tornarono  felici  in  tutto  da  quella  f guerra  ; perdutivi molti  valentuomini,  ed  il  legato  che  vi  si  .era  segnalato, più  che  tutti, nel  combattere.  Non  pertanto  rivennero in  patria  con  una  vittoria  non  inferiore  a ninna.  E ciù fecesi  in  quel  consolato.  Sacceduti  consoli  Lucio  Ebusio, e Pnblio Servilio  Prisco  ;  k Romani  plinti  da  mori>o  contagioso, quanto  mai  più  per  addietro, non  fecero  in queir  anno  cosa  ninna  degna  di  rimembranza    in guerra    in  pace.  Gettatosi  quel  morbo  in  prima  tra gli  armenti  de’  cavalli, e de’  bovi, e poi  delle  capre  e delle  pecore, disfece  quasi  tutti  i quadrupedi.  Quindi serpeggiando  tra'  pastori  e tra’  coloni  via  via  per  tutta la  regione, in  ultimo  invase  anche  Roma.  Non  è facile ridire  quanti  servi,  quanti  mercenàrj,  quanti  della, classe indigente  perissero.  Da  principio  se  ne  trasportavano  i cadaveri  a mucchi  su’  carri  : ma  poi  quelli. de’,  men  riguardevoli  si  gettarono  nella  corrente  del  fiume.  Contasene perito  il  quarto  de’ senatori, e con  essi  i due consoli,  ed  il  più  de’  tribuni.  Cominciò  quel  morbo  intorno a’  primi  di  settembre, e prosegui  per  un  anno in^ro, investendo  e consumandone  di  ogni,  sesso  e di ogni  età.  Saputosi  tra’ vicini  il  disastro  romano,  gli  Equi ed  i Yolsci  lo  riputarono  occasione  bonissima  da  levare sene  il  giogo, e fecero  patti,  e giuramenti,  di  alleanza fra  loro.  Quindi  preparato  quant’  era  d'  uopo  per  1’  assedio, uscirono  gli  uni  e gli  altri  il  più  presto  colle  Roma  Catone Vartoae milizie;  inondando  su  le  prime  il  territorio  de Latini  e degli  Emici,  onde  precludere  a Roma  il  soccorso  degli alleati.  E nel  giorno  che  giunsero  ai  Senato  gli  oratori de’  due  popoli  assaliti  per  ottenerne  ajuto, in  quei giorno  appunto  era  morto  Ebuzio  1’  uno  de  consoli   standosi  già  Servilio, eh  era  1’  altro, per  morire.  Or questo, sopravvivendo  anche  un  poco, convocò  il  Sepa to.  Portativi  i più  de’  padri  malvivi  su  le  lettighe  dichiararono ai  legati  di  annunziare  a lor  popoli  ^ che  U Senato  concedeva  ad  essi  di  respingere  col  proprio  valore i nemici, finché  il  consolo  si  risanasse, e fosse raccolto  un  esercito  per  soccorrerli.  A tali  risposte  i Latini  concentrato  ciocché  poteano  dalie  campagne, guardavano  le  mura,  trascurando  ogni  altro  danno.  Ma gli  Eroici  non  reggendo  al  guasto  ed  al  sacco  de’ campi, diedero  all’ armi,  ed  uscirono.  Infine  dopo  fatte  luminose battaglie  con  perdervi  molti  ^de’  loro  ed  uccidervi  molto più  de  nemici, fuggirono, necessitati, fra  le  mura, né tentarono  più  di  combattere. Pertanto  gli  Equi  ed  i Volsci,  depredatone il  territorio,  si  avvanzarono  impunemente  ai  campi  Tuscolani.  E derubati  pur  questi  senza  che  ninno  li  respingesse, scorsero  fino  ai  Sabini  ; e giratisi  impunemente anche  su  le  terre  loro, avviaronsi  a Roma.  Ben poterono  essi  turbarla;  non  però  conquistarla.  Quanlun que  languidi  nella  persona, e perduta  1  uno  e F altro console,  mortone  di  fresco  ancora  Servilio,  armatisi  oltre le  forze  i Romani, si  misero  su  le  mura.  Estese allora  per  circuito  quanto  quelle  di  Atene,  sorgeano queste  parte  su  i colli  e su.  scogli  dirotti,  fortissimi  per,  a 19 natura, e bisogoevoli  appena  di  difesa, e parte  assicurate dall’ alveo  del  Tevere,  fiume  largo  quattrocento piedi  ,  profondo  da  navigarvisi  con  legni  grandi; rapido  quant  altri  e vorticoso  nel  corso.  Non  passasi questo  appiedi  se  non  per  vìa  de’  ponti, de’  quali  ve n  era  allora  sol  uno, e di  legno, cui  disfacevano  nei tempi  di  guerra.  Il  lato  di  Roma  men  arduo  ad  espu gnarsi  dalla  porta  chiamata  Esquilina  fino  alla  Collina era  fortificalo  eoli’ arte;  imperocché  scavata  innanzi  ci avevano  una  fossa, larga, dove'  eralo  il  meno, più  di cento  piedi, e cupa  di  trenta, è quinci  e quindi  su  la fossa  elevavasi  un  moro,  cinto  da  argine  interno  ampio ed  alto,  talché    battere  quello  si  potrebbe  cogli  arieti, né  rovesciar  sbucandone  le  fondamenta.  Lungo  questo lato  circa  sette  stadj  spandesi  cinquanta  piedi  per  largo. Or  qui  schieratisi  in  folla  i Romani  respingevano  1’  as salto  nemico  :perocché  noù  sapevano  allora  i mortali né  far  testuggini  sotterranee, né  macchine  espugnatrict delle  mura.  Diffidatisi  gli  assalitori  di  prendere  la  città ritiraronsi  dalle  mura, e devastandone, ovunque  passavano la  campagna,  sea  tornarono  in>patria. I Romani  come  sogliono  quando  restano  senza chi  comandi, scelsero  gl’  interré  per  tenere  i comizj, e vi  crearono  consoli  .Lucio  Lucrezio  e Tito  Veturio Gemino  (z).  Sotto  questi  ebbe  requie  la  pestilenza;  puc   'Wel  testo:  ntritfit  rìkirftr  : la  toco  rXtrftr    interpreta da  altri  per  jugero  : Svida  la  interpreta  per  cesto  piedi.  Ma  tale cspoiisione  noa  corrisponde.  ' (a)  Aano  di  Roma  aga  secondo  Catone,  394  secondo  Varrone, e 46a  av.  Qrisio.  1 furono  diflerite  le  controversie  civili  private  o pubbliche: e tentando  Sesto  Tito  T uno  dé’  tribuni  >,  riaccendere quella  su  la  division  de’ terreni;  il  popolo  gli  si  oppose, e rimisela  a tempi  più  acconci.  Eccitossi  in  tutti  in  vece I un  desiderio  di  punire  quanti  aveano  dato  guerra  alla repubblica  ne’ giorni  del  morbo.  Cosi  decretata  la  guerra dal  Senato,  e ratiScata ' dal  popolo,  si  arrolarono  le soldatesche  : e ninno  di  anni  militari, quantunque  pri> vilegiatone  per  le  leggi,  cercò  sottrarsi  da  quell’  impresa. Diviso  r esercito  in  tre  parti  1  una  fu  lasciata  in  guardia di  Roma  sotto  gli  auspicj  di  Quinto  Fabio,  uomo consolare  ; e le  altre  seguirono  i consoli  contro  i Yolsci e gli  Equi.  Aveano  gii'  fatto  altrettanto  i nemici.  Riunitesi le  milizie  migliori  d’  ambedue  quelle  nazioni, teneano  il  campo  aperto  sotto  due  capitani  per  cominciare dalla  terra  degli  Ernici, dove  ' allor  si  trovavano, a devastarne  quanta  ne  soggiaceva  ai  Romani  : la  parte men  atta  delle  ipilizie  crasi  lasciata  in  custodia  delle città,  perchè  su  di  esse'  ngn  venisse  irruzione  improvvisa dagli  emoli.  Avuto  infra  loro  consiglio, crederono  i consoli  il  meglio  d’ investire  innanzi  tutto  le  lorp  città sul  riflesso  che  la  unione  delle  armate  si  scioglierebbe, se  ciascuno  udisse  ridotta  in  pericolo  estremo  la  sua  patria ; giacché  riputerebbero  assai  meglio  salivare  le  proprie cose  che  guastar  le  ini  miche.  G)sl  Lucrezio  piotnbò su  gli  Equi, e Yeturio  su  i Yolsci.  Gli  Equi  trascurando ogni  rovina  di  fuòri  guardavano  la  città  e li  castelli. In  opposito  i Yolsci  ardimentosi, arroganti, spregiando  1’  armata  Romana  come  diseguale  contro  la  Lisno  IX.  221 lor  ffloltitudiae, uscirooo  4 combattere  pel  territorio proprio,  e misero  il  campo  presso  di  Yeturio Ma  come accade  a milizie  receuti, raccolte  per  la  circostanza  alla rinfusa  di  mezzo  a villani  e cittadini, privi  in  gran parte  di  arme  o di  sperienza, non  ebbero  cuore  nemmen  di  venire  alle  mani  : e perturbatine  i più  fin  dal primo  avventarsi  de’  Romani, non  reggendo    al  suono delle  arme  percosse, nè  ai  gridi, preludio  della  battaglia, tornarono  con  dirottissima  fuga  in  città.  Dond’  è che  incalzati  dalia  cavallwia  ne  perirono  molti  nello stretto  de’  sentieri, e più  ancora  mentre  a gara  si  cacciano tra  le  porte.  A tale  disastro  accusarono  i Yolsct sestessi  d’ imprudenza, nè  più  tentarono  di  cimenUrsi. Li  capitani  però  che  tenevano  in  campo  aperto  le  milizie dei  Yolsci  e degli  Equi  all’  udire, com’  erano  investite le  loro  città,  deliberano  di  fare  ancor  essi  alcuna magnanima  impresa, levandosi  dalle  terre  de’  Latini  e degli  Eroici, e marciando  on  quanta  avean  furia  e prestezza  su  Roma.  .Ancor  essi  avean  mira  che  rinscisse loro  r uno  o 1’  altro  de’  due  belli  disegni, cioè  d’  invadere Roma,improvvista, o di  richiamarvene  le  armate di  lei  dai  loro  territori,  necessitando  ti  consoli  a soccorrer la  patria.  Su  tale  pensiero  marciarono  a gran fretta  per  essere  inaspettati  su  Rotna, coll’  effetto  delr opera. Avvicinatisi  di  nuovo  al  Tuscolo,  udendo  che le  mura  di  Roma  erano  tutte  piene  di  arme,  e che  in antecedente  aveva  tentalo  il  primo  d’  iikrodiuTe  tale eguaglianza  ; ma  dovette  lasciar  I  opera  imperfetta,  tro-; vandosi  U gran  numero  del  popolo  nell'  armata  in  sai' campi  nemici, tenutovi  ad  arte.,da’  consoli, finché  il tempo  finisse  del  loro  governo. IL  Postisi  quindi  a tale  impresa  il  uibubo  Aulo  Veoginio’e  li  colleghi, t voleano  consumarla:  ma  i consoli, col  Senato, e. con   altri  in  città. più  potenti  adoperavansi costantemente  per  ogni  maniera,,  affinchè  ciò  non  seguisse, nè  dovessero  governare  secondo  le  leggi  : e.  più volle  sen  tenne  1’  adunanza  del  Senato,  piA  volte  quella del  popolo  ; facendo  i lor  magistrati  ogni  sforzo  gli  uni contro  degli  altri  ; doiid’  era  a tutti  viàbile  che  verreb!>e da'  tanto  Jisàdio  alla  città  disastro  insanabile  e grande. A tali  |>resagj.  dai  canto  degli  uomini  agglongevansi  i terrori  dal  canto  del  cielo, d’  alcuni  de'  quali  non  Irovavansi  L àmili  ne’  pubblici  scritti, né, par  monumento qualunque.  Ben  trovavanà  occorse  ancora  in  antico  e coiTuacazioni  soorrenti  pelcielo  ed.  accensioni  fissa  in  un luogo,  muggiti  e scosse  continue  delia  terra,. e larve qua  e là  vaganti  per  l’aere,  e voci  desolatrioi, e cose alirallali:  ma  ciò  che  non  erasi  mai    sperimentalo nà udito,  e che  più  che  lutti  perturbava.,  era  che  il  cielo navigò. dirottamente  pQngià  con  nembo, dii  neve, ma con  brani,  più  o men  grandi  di  carne;  che  tali  cairn momot, ltrio  di  ''contndirla  fino  al ritorno  del  terso  mercato.  Or  molti,  d^l  Seoatè  giovani e vecch), nè  giè  de’  più  dispregevoli, la  contraddissero per  più  giorni  cou  as^ai  studiati  discorsi.  Stanchi  poscia 1 tribuoi  per  tanto  consumarsi  di  tempo, più  non  per> misero  che  altri  aringasse  in  contrario:  ma  predesti Dando  il  giorno  nel  quale  espedire  la  legge, invitarono i plebei  a raccogliersi  appunto  in  quello, giacché  non sarebbero  più  conturbati  dalle  lunghe  concioni, ma voterebbero  su  di  essa  per  tribù.  Cosi  promisero, e sciolsero  4’  adunanza. Dopo  ciò  li  consoli  e li  patrizj  più  potenti  andatine più  esasperali  ad  essi  reclamarono, e dissero  che non  permetterebbero  che  introducessero  leggi  senza previo  decreto  del  Senato  : SSSMUS  IM  lecci  t patti DELLE  ANTICHITÀ’  ROMANE DSL  COMVNS  DELLB  ClTtjC  IfOTf  DI  ONA  PARTE  DS~. GLI  ABlTAafl  DI  QUESTE  : CHE  QUAWDO  LA  PARTE-, MEIf  SANA  VI  da'  leggi  ALLA  MIGLIORE  A PRSf.UDlO MANIFESTO  DI  DANNO  TRISTO,  INSANABILE, SCON GISSIMO. Quale., aggiuDgevaQO  qtuU  potere  avete  voi o.  tribuni  di  far  leggi  o distruggerle  ? Voi  non  avete con  questi  diritti  ricevuta  dal  Senato    magistratura: voi  chiedeste  il  tribunato  in  difesa  de'  poveri  offesi o soverchiati, non  per  altra  briga  niuna.  Che  se  aveste già  prima  tal  potenza  cedendo  il  Senato  ad  ogni  vostra pretensione  ; non  C avete  voi  questa,  perduta  col mutar  dei  comizj  ? perciocché  non  i Pereti,  del  Sornald',  non  i voti  dati  per  centurie  destinano  voi  per tiibuni: voi  non  premettete  ai  comizj  per  la  vostra creazione    i sagfijicj  dovuti  per  legge, né  altri  ossequj  verso  de'  numi, nè  pietose  -opere  verso  degli uomini.  Come  a voi  si  appartiene  far  cose  ( quali  appunto  sono  le  leggi)  che  ahbisognavtmo' di  culto  e di sagrifizj  di  un  dato  rito, se  i riti  tutti  violate  f Coai lissero  ai  tribuni  i patrixj  seniori, cosi  li  giovani, .che andarono  cinti  da  un  seguito  per  la  città  : e rìcuperà^ rono  colle  dolci  i cittadini  più  miti  spaventando  i ca-, parbj  e K turbolenti  se  non  faceano, senno,  col  terroc de’  pericoli  : anzi  battendo  come  schiavi, ed^  escludendo dal  Foro  alcuni  de’ più  bisognosi  ed  abjelti,  i qualt non  curavano  se  non  l’ utile  proprio.  • V.  L’  uno  di  quelli  ebe  ebbe  maggior  seguilo, e che poteva  aUora  più  di  lutti  i giovani  fu  Quinzio  Cesone, figlio  di  Lucio  Quinzio  chiamato  Cincinnato, nobile, Straricco, bellissimo, valentissimo  nelle  armi, e nel  dire Or  questi  molto  allora  si  scaricò  su'  plebei, non  aste nendosi'    da  parole, molesiissitne  ad  uomini  liberi, nè  da’  fatti  corrispondenti  alle  parole,  Pertanto  i pairizj lo  onoravano,  e ^istigavanlò  più  a tener  fronte  ai  perìcoli, promettendogli  sicurezza  essi  stessi  : ma  i plebei r odiavano  più  che  ogni  altro.  Or  da 'un  tal  uomo  risolverono liberarsi   i tribuni  avanti  tutto  per  abbattere in  esso  gli  altri  giovani, e necessitarli  ad  esser  più  savj. Ciò  risoluto, e preparati  assai  discorsi  e lestimon}^, lo dtardno  come  reo  di  pubblica   offesa  per  punirlo  'di morte.  Intimatogli  di  presentarsi  al  popolo,  venutone  il giorno, e convocata  1’  adunanza, perorarono  a lungo coofra  lui  ; nunierando  tutte  le  violente  fatte, ed  allegandone gli  offesi  stessi  per  teslimonii.  -Or  .qui  data  licenza di  parlare  ; il  giovine  chiamato  a difendersi  non ubbidiva  : ma  volea  soddisfare  ai  privati  in  'quanto  diceansi  oltraggiati  da  loi  > secondo  le  leggi, tenutone  il giudizio  innanzi  de’  consoli  : ma,  il  padre  di  lui  vedendo i plebei  sofferime  malamente  le  ritrosie, prese  a difen’^erlo  egli  stesso  ; dimostrando  le  tante  delle  accuse  coqic false  f ed  insidiose, e dimostrandole,. quando  negar  non poteansi, come  picciole, leggere, nè  dégne  dell’  ira  del popolo, e su  cose, fatte  non  per  trama  o disprezzo, ma  piuttosto  per  enfasi  giovanile  di  gloria.  Per  questa diceva  eh’  eragli  occorso  talora  di  fare  e tal  altra  di  pa> rire  forse  incautamente  nelle  contese;  non  essendo  lui nel  fiore  degli  anni  e del  senno.  Pertanto  pregava  il popolo  non  solamente  che  non  se  gli  adirasse  pel  discorrere suo, ma  che  giel  condonasse  in  vista  delle  belle gesta  di  esso  le  quali  operarono  fra  le  armi  la  libertà de’  privati  ed  il  comando  della  patria, ed  invocavano fin  d’  allora  per  lai  quando  Avesse  mancato  la  clemenaa ed  il  soccorso  di  tcuti.  E qui  narrò  le  campagne  da  lai sosténute, -e  le  battaglie  nelle  quali  avea  riportato  dai capitani  la  corona  de’  prodi, quante  volte  eravi  stato  la diiesa  de’  cittadini, e quante  avea  primo  salito  le  mura de’  nemici  : da  ultimo  ri  rivolse  ad  impietosire  e scongiurare il  popolo  in  riguardo  della  modera^'one  sua verso  tutti, e del  vivere  ‘suo  conosduto  sempre  come innocente  ; chiedendo  che  in  grazia  almeno  gli  salvassero il  figlio. Compiacevasi  il  popolo  a tali  discorsi, e deliboravasi  rendere  H 6glio  al  padre.  Se  non  che  riflettendo Yerginio  che  se  costai  non  subiva  le  pene  ; ne  diverrebbe intollerabile  1’ audacia, e la  caparbietà  de’ giovani, sorse  e disse  : Contestata  o Quinzio  è la  tua  virA, la tua  benevolenza  verso  del  Spopolo  e te  ten  debbe  tutta la  stima:  ma  la  molestia, e la  insolenza  di  codesto  tuo figlio  verso  tutti  non  ammette  escusàzione  o perdono. Egli  educato  con  la  tua  disciplinà    discreta,  cpme  tutti sappiamo, e si  popolare  ; ne  abbandonò  gli  ammaestramenti e seguì  V arroganza  de  tiranni, e la  sfrenatezza de' barbari, portando  in  città  gf  incentivi  a tristissiiHe  opere.  E sia  che  tu  noi  conoscessi  per tale  ; ora  che  tei  conosci  ben  dei  con  noi  e per  noi concitartene  : che  se  per  tale  il  sapevi, e lo  coadiuvavi in  quanto  egli  inviliva  ognora  pià'  la  sorte  dei poveri  ; eri  anche  tu  lo  scellerato, e mal  souavati intorno  la  fama  di  uom  probo.  Afa  tu  non  vedevi ( ed  io  stesso  potrei  contestartelo  ) quanto  egli  dalla. . a3i tma  uirtà  degenerava.  Sebbene  io  tenga  però, che  allora tu  non  partecipavi  con  esso. nelF  offenderci  ; dolgomif  che  ora  come  noi  non  te  ne  sdegni.  Ma. perchè  tu  meglio  conosca  qual  niostro'  abbi  nudrito senza  avvedertene  contro  la  patria,  quanto  tirannico, c non . puro  nemmeno  tlal  sangue.. dk'  cittadini  ^ odi la  egregia  opera  sua, e contrapponi  a questa, se puoi, U bellici  suoi  prèmji  E voi, quanti  siete  imo pioto  siti  al  pianger  di  un  padre, considerate  se  stia bene  che  risparmisi  un  tal  cittadino.  E qui  fe'  cenno  a Marco  Volscio  T uno  de’  suoi colleghi  perchè  sorgesse  e dicesse  quanto  sapeva  di  quel giovane.  E fatto  silenzio, e grande  espettazioiie  ; V(d> scio  soprastando  alcun  poco-,  disse  : Oltraggiato, e pià che  oltraggiato  che  io  fui  da  quest’uomo, ben  avréi voluto  pigliarmene, o cittadini, le  pene  che  ut  erano concedute  dalle  leggi  : ma  impeditovi  allora,  dalla mia  debolezza, dalf  esser  mio  di  plebeo, prenderò ora  che  mi  è dato  f le  parti  di  testimonio, se  quelle non  posso  di  accusatore.  Udite  le  acerbità, le  indegnità che  men  ebbi.  Era  Lucio, fraltel  mio,,che  io amava  piti  che  tutti  i mortali  Avea  \ questi  cenato mecò.  presse  di  un  amico, quando  al  giungere  della notte  di  levammo, e partimmo.  E già  passavamo  per il  Foro, quando  si  abbattè  con  noi  codesto  petuUui-,te, seguito  da  giouani  pari  suoi:  li  quali,  ebbrj  ed 'arroganti  che  erano, beffarono  ed  insultarono  noi, quanto,  insultato  e beffato  avrebbero  i meschini  e gli .ignobili.  Così  provocati  j V uno  di  noi  parlò  liberissimamente. Or  codesto  Cesane  estintando . ria  cosa ttdire  ' ciocché  non  voleva, gU  s'  avventò, lo  battè  : e mainìenalolo  con  i calci  e con  ogni  guisa  di  sevizio^ e cT  ingiurie;  io  uccise.  Ucciso  lui,  manomise  ancor me, che  ne  gridava, e ne  repugnava  quanto  io  po~ tev'a  : nè  mi  lasciò, se  non  dopo  credutomi  estinto, ài  vedermi  immobile  in  terra, e senza  voce.  Allora se  no'  andò  giubilando  come  per  bellissima  prova  ; ed  allora'  gli  astanti  raccòlsero  noi  lordi  dal  sangue  j e riportarono  a casp  Lucio  il  fnio  fratello, morto, come  ho  detto, e me  presso  che  morto, e che  certo ornai  poco  sperava  di  sopravvivere.  Occorse  ciò. sotto i consoli  P^ublio  Servilio, e Lucio  Ebuzio, quando spaziava  in  Boma  la  ff-an-' pestilenza,  alla  quale  eravamo soggiaciuti  atKor  noi.  Quindi  non  potei  dimandarne ragione, morti  /essendo  i consoli  tutti  due.  Succederono  poi  consoli  Luaezio  e Tito  Terginio.  Io voleva  allora  ' citarlo  in  giudizio  ; ma  ne  fui  impedito dalia  guerra, fasciando  ambedue  per  essa  la  città. Jiitomati  .questi  dal  campo, quanto  volte  16  citai presso  de  òiagittrati, quante  volte  mi  vi  accostai, tante  ( e ben  molti  lo  sannò  ) fui  da  esso  ferito.  E questo, 'o  popolo, che  io  ne  ho  tollerato,  questo  vi ho  detto  con  tutta  la  verità. Alzarono  a quel  dire, gli  astanti  le  grida, (eolandone  molti  la  vendetta  colie  lor  inani.  Ma  vi  si  opposero i consoli, ed  i più  de’  tribuni, alieni  che  in  città s’  introducesse  la  tea  consuetudine  ; tanto  più  che  la parte  più  sana  del  popolo  non  voleva  che  si  toglicssero le  difese  a chi  pericolava  in  giudizio  della  vita.  La  cura duirque  della  ginsUzut  represse  allora  gii  empiti  della  iur scienza, ed  il  giudizio  fii  differito  non,  senza  contenzioni e dobbj  non  piccioli,  se  dovesse'  intanto  il  reo serbarsi  neiia  carcere, o dare  i mallevadori  per  la  sua dimissione, come  il  padre  di  lui  dimandava.'  Il  Senato adunatosi  decretò  che  se  no  desse  malleverìa  • sotto  ob-> biigazion  pecuniaria  ; ed  egli  libero  andasse  finché  di lui  si  giudicasse.  Or  mancando  il  giovine  di  comparire  • al  suo  tempo  ;. i tribuni  convocarono  il  giorno  appresso la  molthndine, e contro  lui  sentenziarono  ; dond’  è che i mallevadori, eh’  eran  dieci, pagarono    multa  convenuta in  sicurezza  delia  sua  presentazione.  Colto  dunque fra  tali  insidie  dai  tribuni  che  guidavano  tutta  la  trama, colle  itestimobianze  di  Volscio, che  poi  false  si  riconóbbero, Cesone  fuggi  nell’  Etruria.  Il  padre  di  lui  venduto il  più  di  sue  cose, e rintegrati  i mallevadori  delle  multe obbligate  visse  tra  il  disagio  e lo  stento  in  un  poderétto; che  aveasi  con  picciolo  abituro  lasciato  di    dal  Tevere, coltivandolo  con  ponchi  servi,    più  rècandosi  in  città per  1’  afflizione,  b la  inopia,    riabbracciando  gli mici, né  iniramettendosi  -a  festa, o ricreazione  niuna. Ai  tribuni  però  succedé  ben  altro  che  le  loro  speranze: imperocché  non  .solo  qon  se  ne  chetò  pér  alcun  modo la  gioventù  contenziosa  ammaestrata  dai  mali  di  Cesone  ; -ma  ne  imperversò  più  ancora, contrastando  co'  detti  e co’  fatti  la  legge;  talché  non  poterono  affatto  stabilirla, cousumandosi  in  brighe  la  loro  magistratura.  Pertanto il  popolo  confermò  pel  nuovo  anno  i tribuni  medesimi. ' fX.  Ascesi  ai  grado  consolare  Valerio  Popiicola, e Cajo  .Claudio  Sabino  ,  Roma  corse  in  pericoli   quanti   Anoo  di  Roma  39!  secondo  Catons, 396  secondo  Varrone, c 4''8  av.  Cristo. uiai  più  ^ per  la  guerra  cogli  i esteri, attiratale  dalle  d!i cordie  domestiche, come  af  eano  j preoooziato  i libri sibillini,  e li  segui  dimostrati  1’  anno  precedente  dai numi.  Io  sporrò  cagione,  che  suscitò  U guerra, e ciò che  fu  per  queau  operato allora  da’  consoli.  Li  tribuni preso  di  nuovo  il  lor  grado  su  la  speranza  di  fondare la  legge, vedendo  console  Ca)o  Claudio  pieno  di  odio ereditario  contro  del  popolo,  e sollecito  per  ogni  guisa nd  impedire  quanto  facevano  ; e vedendo  i più  potenti de’  giovani  trascorsi  -iu  fùria  manifesta  da  non  combatterli colla  forza, ed  i più  della  plebe  obbligati  da'  servigi de’  patrizj, e rimasti  senza  il  primo  ardore  per  la  leggQ deliberarono  spingersi  all’  intento  con  mezzi  più  risoluti, onde  atterrire  quei  della  plebe, e far  desistere  il  console. Su  le  prime  procurarono  spargere  voci  varie  per  la  città, poi  sederono  da  mattina  a sera  coosultaudosi  visibiloRate senza  comunicarne  ad  alcuno    consigli    parole.  Ma quando  parve  loro  tempo  di  .eseguire  i disegni,  finsero delle  lettere  ; facendosele  recare  mentre  sedeano  nel  Foro da  un  ignoto.  E come  prima  Je  lessero,, battendosi  la .fronte, e contristandosi  ne’  set^bi^nti  ; levaronsi  in  piede. Accorsa  gran  moltitudine,  ed  insospettitasi  che  fosse  in quelle  lettere  indicato  alcun  grande  infortunio,  essi  or dioaroiio,pe’ banditori  silenzio  e dissero;  La  repubblica o cittadini  sta. negli  estremi  pericoli.  E sé  la  benevo^ lenza  degl  iddj  non  avesse  provveduto  a chi  era  per. incorrervi  : noi  tutti  saremmo  in  fetali  sciagure.  Chiediamo che  vi  tfiniale  qui  breve  tempo, finché  riferiamo al  Senato  eiocohè  ne  si  avvisa,  e facciamo  di  cornuti volo  oiocché  si  debbo  ; E ciò  detto, ne  andarono  ai consoli.  Frattanto  che  il  Senato  si  radunava,  faceansi pel  Foro  molti  e svariati  discorsi;  ripetendo  altri  appo> stalaroente  ne’crocchj  ciocché  era  stato  intimato  loro da’  tribuni  ; ed  altri  pubblicando, come  detto  ai  tribuni, ciocché  temeano  essi  stessi, che  succedesse.  Chi  dicea che  i Volsci  e gli  Equi  aveano  accolto  Quinzio  Cesone il  giovine  condannalo  dal  popolo, creandolo  comandante assoluto  delle  due  genti  e che  leverebbe  .gran  forze  e marcerebbe  contro  di  Roma:  echi  dicea  che  quel  giovine d’  accordo  cp’  patrizj  tornava  con  esterne. milizie, perché  si  abolisce  una  volta  per  sempre  il  magistrato che  era  il  presidio  de’plebei  : altri  aggiungeva  che  eosì non  sentivano  tutti  i patrizj  ma  i giovani  soli:  e. vi  fu chi  ardi  fino  dire  che  colui  si  stava  occulto  in  città, e che  occnpenebbe  i posti  più  acconci.  Ondeggiando  cosi tutta  la  città  per  |a  espeUazioue  de’  mali, e sospettandosi tutti, e guardandosi  gli  uni  dagli  altri  : i consoli convocano  il  Senato  : ed  i tribuni  vengono  e palesano ciocché  avvisavasi  loro:  parlava,  per  tutti  Aulo  Yerginlo e disse  :   • f > X.  Finché  gli  annunzj  che  ci  si  davan  de'  medi  ^ ci  sembrarono  non  accureUi, ma  vani  e senza  fondai mento, sdegnefmmo  o padri  coscritti, di  pubblicarlit tal  timore  che  non.se  ne  eccitassero  grandi  txirbamenti, come  sogliono, alP  udirsi  triste  cose, e con riguardo  di  non  essere  da  voi  creduti  anzi  precipitosi che  savj.  Non  però  lasciammo  tali  annunzj, trascu^ rondo  li  eiffaUo  : anzi  ne  abbiamo  i investigata  la  ver rità, quanto  per  noi  si  potè..  Ora. poiché  la  provit denzu  celeste, la  quale  ci  ha  ‘sempre  salvato  la  repubblica, ci  benefica  p svela  i segreti  consigli  y e le ree  macchinazioni  di  uomini  nemici  agt  iddj, e teniamo fin  delle  lettere  che  abbiamo  di  fresco  ricevute in  pegno  di  benevolenza  da  ospiti,  che  voi  poscia adirete,  e poiché  concorrono  e concordano  gC  indizf Interni  con  gli^  altri  di  fuori, e gli  affari  che  abbiam tra  le  mani  non  ammettono  più.  indugio  e riserva  i deliberiamo, com’  è giusto, palesarli  a vói, prima che  al  popolo.  Sappiale  dunque  che  hanno  contro  il popolo  congiuralo  uomini  non  ignobili, tra'  quali  dipèsi-esser  parte,  non  grande  però,  degli  anziani, ascritti  al  Senato, ma  più  grande  de’  cavalieri  che ascritti  non  vi  sono  ; e questi, quali  siano, non  è tempo  ancora  di  rivelarlo.  Questi, come  udiamo, colta  una  notte  oscura,  sono  per  assalirci  tra’l  sonno, quando    può  risapersi  ciocché  è fatto, nè  vaUomo  a congregarci  e difenderci.  Fermi  sono  d'investire ‘e  di  uccidere  nelle  case  noi  tribuni  e quei plebei  che  st  opposero  iy  o fossero  mai  per  opporsi ad  essi  circa  la  libertà.  Quando  avran  tolto  noi, pensano  di  aver  da  voi  ciò  che  resta, sicurissima ' mente, cioè  che  revochiate  di  comun  voto  le  concessioni da  voi  fatte  alla  plebe.  Fedendo  però  che  han bisogno  per  compiere  ciò  di  prepararsi  occultamente una  milizia  di  fuori, e non  piccola, si  hanno  eletto capo  queir  esule  nostro,  quel  Ceso e, convinto  delV eccidio  di  cittadini, e della  discordia  della  città, • e pure  fatto  per  alcuni  di  qua  entro, fuggir  salvo dal  giudizio  e da  Roma, con  promettere  di  procurargli il ritorno, magistrature, onorificenze, ed  altri, compensi  de' servigj.  E questo  Cesene  ha  protnesso di  conduf  loro, milizia  di  Equi  e di  Eplsci, quanta abbisognane.  Egli  verrà  tra  non  molto  co’  più  audaci, introducendoli  a pochi  a pochi  e '.sparsamente  in  ci/r tà:  l^  altre  milizie,  quando  saremo  periti  noi  capi del  popolo  si  avventeranno  su  gli  alpi  del  popolo stesso, i quali  difendessero  ancora  la  libertà.  Queste, o padri  coscritti  sono  le  terribili, le  impurissime opere  che  disegnano  far  tra  le  tenebre, senza  temere r ira  degli  iddj, nè  riguai  dare,  la  vendetta  degli uomini.  Agitati  da  tanto  pericolo, a voi  ne  veniamo supplichevoli, o padri,  voi  scongiuriamo  per  gf  iddj, voi  pe  genj  adorati  dalla  patria, voi  per  la  memoria dei  tanti  e gravi  nemici  da  noi  combattuti  in  coma-, ne,  affinchè  non  lasciate  che  noi  patiamo  le    dure, ed  indegnissime  offese  : ma  v’  'empiate  come  noi  di risentimento, e ne  soccorriate, e puniate, come  delf~ Lesi,  tali  macchinatori  tutti, o nei  capi  almeno  della infame  congiura.  E prima  che  tutto, dimandiamo  o padri  che  decretiate,  come  è giusto,. che  inquisiscasi da  noi  tribuni  su  le  cose  deferiteci;  perciocché  oltre, la  giustizia, la  necessità  dee  rendere, inquisitori  di-, agentissimi  gV  investiti  dal  pericolo.  Che  se  alcuni tra  voi  son  disposti  di  non  compiacerci  punto, anzi di  contrariarne  in, quanto  vi  diciamo  del  popolo  ; volsntieri  conoscerò  da  essi  quale  vi  disgusti  delle. nosVe  dimande, e ciò  che  vogliate  da  noi  finalmente Che  non  facciamo  forse  niuna  ricerca, ma  trascu~ riamo  la  si  bufa  e si  rea  tempesta  che  pende  sul popolo  ? E chi  direbbe  li    fatti  decisori  esser  sani, e non  corrotti)  e non' partecipi  della  congiura  anzi chi  non  direbbe  che  temono  per  sestessi, temono  di essere  scoperti, e quindi  scansano  che  si  esamini  • il vero  ? Perciò  non  debbesi  attendere  a tali  uomini.  O vorranno  forse  che  non  siamo  noi  gl'  inquisitori 'di dò;  ma  il  Senato  e li  consoli?  Ma  che  impedirebbe che  i tribuni  pure  dicessero, che  a loro  che  han preso  a difendere  il  popolo  / a loro  si  spetta  la  inquisizione de  plebei, se  alcuni  mai  congiurassero contro  de'  padri  e de'consoli, e macchinassero  la rovina  del  Senato  ? Or  che  seguirebbe  da  ciò  ? questo appunto, che  mai  la  indagine  si  farebbe  maneggi  reconditi.  Noi  però  mai  ciò  nort  faremmo,  perchè sospetta  ne  sarebbe  f ambizione  : e così  voi  non bene  adopererete  dando  mente  a coloro  che  non  vogliono che  noi  pure  slam  pari  a voi  ne’  casi  nostri, per  fare  F esame;  ma  benissimo  adopererete  riguardando questi, come  nemici  comuni.  Al  presente, o padri  coscritti, niuna  cosa  tanto  bisogna, quanto  la sollecitudine:  glande,  imminente  è il  pericolo;  e C indugio a salvarsi  è sempre  intempestivo  ne’  mali  che non  indugiano.  Lasciando  dunque  le  altercazioni, e i lunghi  discorsi  decretate  ornai  ciocché  F utile  vi sembra  della' repubblica.  eraoo  i padri  come rìsolfere:  e riflettevano  seco  stessi,  e ripetevano 'fra loro, come  fosse  ugualmente  arduissima  cosa  concedere e non  concedere  ai  tribùni  di  fare  inquisiaione  su  loro, in  affane  comune  e gravissimo.  Ma  Cajo  Claudio  1’  uno  ajg de  consoli, che  tenea  per  obliqua  quella  loi^  proposta, sorse  e disse  : iVon  penso, o Kergìnio, che  costoro sospettino  me  come  partecipe  della  congiura  che dite  macchinata  cantra  voi, e cantra  il  popolo  e sospettino  che  io  sorga  a contraddire, perchè  temo  per me  o per  alcuno  de  miei  che  n è complice  ; giacché il  tenore  della  mia  vita  esclude  in  tutto  da  me  tali sospetti.  Io  dirò  sincerissimamente  e sema  riguardi ciocché  reputo  £ utile  del  Senato  c del  popolo.  Molta, anzi  affatto  s’  inganna  Ferginio, se  concepisce  che alcun  di  noi  sia  per  dire  ohe  si  lasci,,  sema  discuterlo, im  tal  affare    grande  e necessario  ; e che non  debbono  aver  parte, nè  star  presenti  alla  indagine i magistrati  del  popolo.  Niuno  è sì  stolido, niuno    malevole  al  popolo  che  voglia  ciò  dire:  Che se  dunque  alcun  chiede, qual  ne  ho  male, ohe  insorgo contra  cose  che  io  concedo  per  giuste; e che presumo  io  mai  col  mio  dire  ; io, viva  Dio, ve' lo esporrò:  Io  penso,  o padri  coscritti,  che  i savj  debbano considerar  sottilmente  i germi  e le  linee  prime di  ogni  affare  : imperocché  deesi  di  ogni  affare  discorrere secondo  che  ne  stanno  i principj.  Ora  udite da  me  ciocch'  è V intrinseco  del  subietto  presente, e quale  il  disegno  de  tribuni.  Non  riesce  ora  loro  di ultimare  ninna  delle  cose  incominciate    proseguite nelC  anno  antecedente, perchè  voi  vi  opponete  ad essi  come  allora, nè  pià  il  popolo  li  favorisce.  E ciò conoscendo  cercano  necessitare  voi, sicché  cediate loro  anche  vostro  malgrado, ed  il  popolo, sicché cooperi  a quanto  mai  vogliono.  Ma  per  quanto  se  ne consultassero,  per  quanto  volgessero  da,' ogni  banda, V affare, non  trovando  mezzi  semplici  e buoni  per V uno  e V altro  intento  ; alfine  così  la  discorsero..  Lainenliamoci  che  alenai  nobili  han  congiurano  di> abballcre  il  popolo  / e di  uccidere  quanti  ne  proca nino  la  salvezza.  E quando  avrem  &UO, che  tali  cose,  preparale  da  gran  tempo,  siano. in  cittA  disseminate,;  e sembrino  credibili  I  popolo  (e  credibili  le  renderà a la  paura)}  allora  fiugeremo  delle  lettere  da  presenti  larcisi  per  un  ignoto  in  presenza  di  molti.  Ne  amdre>  mo  quindi  In  Senato,  ci>  sdegneremo,  ci  dorremo,  e cercheremo  il  poter  d’ inquisire  su  le  dinunzie  dateci.  Se  i patria)  ci  si  oppongono,  prenderemo  ‘da  indi  ^argomento  di  calunniaiii  presso  del  popolo;  ed  il a popolo  esacerbato  contro  di  essi  diverrà  ^ propizio  a X .quanto  noi  vogliamo.  Che  se  cel  concedono  leveremo X di  città, come  trovati  complici, i più  misgnanimi  frA  loro, e più  nemici  nostri, vecch j ^o  giovani.  Impe rocchè  coloro  intimoriti  di  essere  condannati  o pat tuiranno  con  noi  di  non  più  contrariarci  ; o saran  costretti  a lasciare  la  patria  : e co^  la  fàzipn  contrap posta  sarà  desolata  . Tali  sono  i loro  disegni p padri  coscritti,  e quando  li  vedevate  che  sedeano  o consultavano  ^ al~ lora  tesseano  C inganno  contro  i più  riguwrdevoli  tra, voi,  allora  complicavan  la  rete  contro  i cavalieri  più puri.  E che  ciò  sia  vero  ; presto  ve  lo  dimostro.  Dì, yèrginio, dite  voi, su  quali  pende  il  pericolo, da quali  ospiti  aveste  la  lettera  ? dove  abitano, come  vi conoscono',  come  seppero  tali  nostre  cose  ? Perché differiste  a svelare  i lor  nomi, perchè  prometteste dirceli  poi, nè  li  avete  già  detti  ? Qual  fu  V uomo che  vi  portava  le  lettere  ? che  noi  menate  voi  qui  y sicché  su  lui  cominciamo  a diicutere, se  vere  elle siano  y o se  piuttosto, come  io  penso  finte  da  voi  ? E gt  indizj  interni  che  si  accordano  co’  segni  di  fuori quali  sono  mai  questi?  o chi  mai  ve  li  diede  ? Perchè ne  celate, non  ne  pubblicate  le  prove  ? Se  non. che  mal  si  trovano  prove  di  cose  che  non  furono mai come  io  credo, nè  mai  saranno.  Questi  o padri coscritti  non  sono  indizj  di  una  congiura  contro loro  ma  piuttosto  delle  insidie  e del  mal  animo  che essi  covano  contro  di  voi, come  C affare  dichiaralo  • per    stesso.  Ma  voi  siete -di  ciò  la  causa,  voi  che concedeste  loro  le  prime  cose,  e portaste  a tanta  potenza codesto  insano  1 loro  magistrato, quando  lasciaste nell’  anno  antecedente  che  giudicassero  per  falsi titoli  Quinzio  Cesone  y 'e  soffriste  che  strappasSer dal  seno  un  tanto  difensor  de'patrizj.  Da  ciò  nasce chepili  non  serban  misura, nè  tolgon  di  mira  i nobili ad  ano  ad  uno,  ma  investono  e scacciatio  in  un globo  tutti  i migliori  della  città  : Eciò  che  è peggio  j non  permettono  nemméno  che  contraddiciate  Biro, e V atterriscono  con  darvi  per  i sospetti, e calunniarvi come  complici  de’ segreti  disegni  ^ con  dirvi  ben  tosto inimici  del  popolo, e citarvi  al  popolo  stesso, perchè -subiate  la  pena  de’  discorsi  qui  fatti.  Ma  su  ciò diremo  altrove  pià  acconciamente.  Ora  per  istringere e non  prolungare  il  discorso, ammoniscavi  che  vi PTOIftCr, tomo  in.  ' it guardiate  da  codesti  turbatori  di  'Jioma, dti  codesti seminatori  de’  mali.    celerò  già  al  popolo  quanto qui  dico  ; ma  gli  sporrò  liberissimo  che  non  pendo su  lui  niente  di.  male, se  non  quanto  glien  fanno  i tristi  ed  insidiosi  ..tribuni, benevoli  ne'  sembianti  e nemici  ne' fatti.  Sorse  al  dire  del  console  clamore  m tomo  ed  applauso  ben  grande, e sciolsero  1’  adunanza senza  ^pertncHve  che  '^pià  i tribuni  parlassero.  Dopo  ciò Yergiaio  convocato  il  popolò,  vi  accusò  il  Senato  ed  i consoli.  Ma  Clandio  ve  li  escusava  apptmio  co’  discorsi tenuti  in  Senato.  Presero  i più  discreti  del  popolo  per vana  quella  paura:  ma  i più  sjolidi  per -vera,  credendo le  dicerie  : e quanti  ne  erano  I più  soellerali, ^anti  i più  bisognosi  ognora  di  un  cambiamento, vi  xercaròno un  pretesto  -di  sedizione, je  di  torbido, doù  che  mi> ressero  a far  disceraere  il  Vero  dal  falso. Intanto  un  Sabino  non  ignobile  di  lignaggio, potente  in  averi  (Appio  Erdonio  ih  chiamavano.)  si pose  in  cuore  di  abbattere  la  potenza  romana, sia  che ne  cercasse  per    la  tirannide, sia  che  una  grandezza ed  un  dominio,  ai -Sabini,  sia  che  tina  fama  luminosa al  suo  nome.  Comnni'catosi,  in  quanto  a tale  idea,  con' molti  amici, divisata    maniera  dell’  impresa, ed  approvatone ; riuni  li  clienti, e li  più  baldanzosi  de’  servi suoi.  Concentrati  In  poco  tempo  intorno  a quattro  mila uomini, ed  apparecchiate  arme,  viveri, e quanto  bisognava per  una  guerra,  gl’  imbarcò  su  legni  fluviali.  ?iavigando  sul  Tevere, gli  approssimò  a Roma  dalla  banda, ove  sorge  il  Campidoglio, non  lontana  nemmeno uno  stadio  dal  fiume.  Era  la  notte  in  sul  mezzo:  ed  in  Roma  calma  grandissima.  Egli  dunque  al  favore  di  queo  ottenuti  i luoghi  piu  acconci,  ricever^  gli  esuli,,  liberare,  gli  schiavi, sdebitar  con  promesse  i poveri, e consociare  a sestesso 4utti  gli  akti  cittadini  clie  dal  basso  loro  stato  invidiavano ..ed  odiavano  i potenti,  e seguivano  con  diletto  la mutazione.  La  iipniagine.  che  deludevalo  intanto  che  lo isperariziva  di  ottenere  quanto  aspettava, era  la  civil sedizione,  per  la  quale  concepiva  che  più  non  vi  fosse amicizia, nè  ligame  tra  i plebei  e tra’  patrizj.  Che non  fosse  a lui  riuscita  ninna  di  tali  cose  r allora  disegnava chiamare  con  tutte  le  milizie  i Sabini, i Yolsci ed  altri  vicini, quanti  voleano  iredimerst  dal  giogo  esecrato de’  Romani. . Occorse,  però  che  s’ ingannasse  in  lutto  ; jmpe> aocchè    si  diedero  a lui  gli  schiavi,    gli  esuli  ripatriaronb,    gl’ indebitati  q disonorali 'anteposero'!’ utile proprio  al  comune,    i sqcj  esterni  ebbero  spaziò  abbastanza da  preparare  la  guerra:  giacché  tale  affare,  che diede  tanta  paura  e turbamento  a^  Romani, ebbe  Gne ben  tosto  ne’  primi  tre  o quattro  giorni.  E per  verità, presa  appena  la  fortezza, datisi  gli  abitanti  dei  luoglù   Questa  porta  fu  chiamala  ancora  scellerata  perchè  poterono per  essa  uscire  ma  non  tornare  i Pabj  che  andarono  a Cremerà contro  i Toscani  j come  iuiUcano  Testo  ed  Ovidio.  Fasi.  a. intorao  che  non  erano  rimasti  uccisi, a gridare  e fug-' gire  ; il  popolo  non  sapendo  che  mai  fosse, impugnò le  armi, e Corse  parte  ne  siti  eminenti  y o ne’  spaziosi, che  eran  molti, della  città, e parte  ne’  campi  vicini. Quanti  perduto  il  fiore  degli  anni  erano  nella  impotenza delle  forze, salirono  colle,  mogi)  ai  tetti  delle  case  per combattere  di    li  forestieri, parendo  loro  ogni  luogo pieno  di  nemici.  Fatto  giorno,  come  seppesi  che 'erano in  città  prese^  le  fortezze, e chi  prese  le  avesse  ; i coasoli andarono  al  Foro, e chiamarono  i cittadini  alle arme.  Li  tribuni  convooita  la  ' moltitudine  dissero  che non  voleano  far  cosa  contraria,  alla  patria  ne’ suoi  pericoli ; ma  che  riputavaào  giusto, che  il  popolo  il  'quale espoùevasi  a tanto  cimento  vi  si  esponesse  con  patti espressi  : Se  i patrìzj, diceano, promettono, chiamarti done  mallevadori  gli  Dei,  che  Jinifa  la  guerra  cìoon^ cederanno  di  creare  i legislatori, e di  vivere  pari  a noi  ne  diritti  per  t avvenire;  liberiamo  con  essi 'la patria  : ma  se  ricusano  ogni  partito  di  moderaziode  ; e perchè  mai  cimentarsi  ?'  perchè  gettile  la  vita, quando  niun  bene' ce  ne  ridonda  ? Mentre  cosi  dicevano ed  il  popolo  se  >ne  persuadeva  tiè  udiva  le  voci di  chi  altro  gli  suggerisse  ; Claudio. disse  ohe  non  tJ>bisognavasi  di  tali  che  soccorressero  la  patria  non volontari, ma  per  prezzo  e non  ' lieve  : che  i pcurizj armando  sestessi  e i clienti,  e chiunque  univasi  loro spontaneamente  assedierebbero  le  fortezze  ; Che  se tali  milizie  non  pareano  sufficienti;  ne  chiamerebbero ancora  dai  Latini  e dagU  Ernici  : e se  la  necessità stringesse, prometterebbero  la  libertà  agli  schiavi  :  cAe  infine  inviterebbero,  tutti,  piuttosto  che  quelli  che in  tal  congiuntura  profittavano  della  odiosità  de'  vec~ chj  fatti.  Contraddiceva  a tanto  Valerio  1’  altro  console  : e giudicando  che  non  dovesse  mettersi  in  guerra  coi patris)  la  plebe  già  adirata  con  essi  .-consigliava  che  si cedesse  al  tempo  : si  pretendesse  da'  nemici  esterni  il diritto:  ma  si  usasse  helle  gare  domestiche  equità  e dolcetta,  E sembrato  egli  al  più  dei  padri  di  aver  dato il  consiglio  migliore,  ne  venne  all’ adunanza  del  popolo,e tenutovi  un  ' conveniente  discorso, lo  terminò, giu> rando, che  se  i plebei  si  unissero  a, lui  con  ardore sella  guerra,  q, riordinassero  le  cose  della  città;  concederebbe ai  tribuni  di  far  discutere  al  popolo  la  legge che  essi  progettavano  su  la  eguaglianza  ne’ diritti,  e che terrebbe  modo  onde  ciò  che  fosse  à questo  piaciuto  si eseguisse  nel  suo  consolato.  Ma ‘non  portava  il  destinò eh’  egli  adempiesse  alcuno  de’ patti,  seguendolo  ornai  da presso  la  morte. Sciolu  i’ adunanza, intorno  a’ crepuscoli  vespertini accorse  ciascuno  a’  suoi  posti  per  dare  a’  capi  il suo  nome,  ed  il  militar  giuramento;  e fra  tali  due  cure si  consnmò  qncl  giorno  e la  notte  che  lo  segui.  Nel giorno  appresso  furono  compartiti  e còllocati  da’  consoli i tribuni  sotto  le  insegne  sante, aiTollandovisi  la  nioltitndine  ancora  abitatrice  della  campagna.  Ordinata  così ben tosto  ogni  cosa, i consoli  divisero  le  milizie,  e ne tirarono  a sorte  il  comando.  A Claudio  toccò  d’ invigilare innanzi  le  mura, aIBnché  non  entrasse  in  sussidio altr’  armata  di  fuori  ; perocché  sospettavasi  di  un  moto assai  grande,  e temeasi  che  piomberebbero  forse  tutti  i nemici  su  loro.  Portò  la  sorte  che  Valerio  si  mettesse all’  assedio  delle  fortezze.  Altri  duci  furouò  destinati  sb I di  altri  luoghi  muniti,  interni  alla  città ^ ed  altri  su  le vie  che  menano  al  Cartipidoglio  per  impedire  che  vi passassero  al  nemico  gli  schiavi  e li  bisognosi  temuti soprattutto.  Non  venne  a Roma  sussidio  di  alieniti, se non  de’  Tnscolaili, informati  ed  apparecchiati  in  una notte  e guidati  da  Lucio  Mamilio, uomo  operosissimo, e capo  allora  della  nazione.  Questi  soli  entrarono  con Valerlo  a parte  de’  pericoli, et  dimostrandovi  Ihtta  la benevolenza  e lo  zelo  ; rivendicarono  con  eSso  le  fortezze. Diedevisi  da  tutte  le  parti  1’  assalto  : chi  adattava su  le  donde  vasi  pieni  di  bitume  e pece  incendiaria, e lanciavali  dalle  case  vicine  in  sul  colle  : chi  recava, fasci  di  sarmenti, e fattine  cumoli  ben  àltj  su  lo  sco' sceso  della  rupe  gli  ardeva, lasciando  che  il  vento  ne trasportasse  le  damme:  i più  magnanimi  ristrettisi  nelle Schiere  salivan  alto  di  su  per  vie  manufatte  : ma  la motti(udine  colla  quale  tanto  sorpassavano  1  inimico, niente  giovava  ad  essi  che  ascendevano  per  sentiero angusto, pièno  sopra  di  sassi  da  trabalzameli, e tale che  i pochi  vL  divenivano  bastanti  contro  i mólti  : nè la  costanza  acquistala  tra  le  molle  ‘‘guerre  incontro  ai pericoli  valeva  punto  per  chi  rampicavasi  diritto  sa  pei scogli.  Pcroccliò  facessi  la  battaglia  con  colpi  lontani  e Dòn  a corpo  a corpo  onde  moslraiwi  audacia  e forza  ; le  arme  lanciate  da  basso  in  alto  giungevano, cotn  -è verisimile, se  colpivano, languide  e tarde  ; laddove quelle  scagliate  dall’  alto  in  basso  piombavano  penetranti e piene, secondandone  il  peso, \ lor  tiri.  Non  però invilivano  gli  assalitori, ma  persistevano, necessitati, tra'  mali, senza  rèquie  alcuna  diurna  o notturna  : tanto che  mancate  finalmente  agli  assediati  le  arme  e le  forze, dopo  il  terzo  giorno  gii  espugnarono.  Perdeèouo  i Ro mani  in  questa  battaglia  molti  valentuomini, ed  il  console', valentissfmo, come  tutti  concedono.  Costui  sebbene ricevute  molte  ferite, non  si  levava  da’  perìcoli  : ma  saliva  tuttavia  la  rocca, finché  gli  precipitarono  ad dosso  un  macigno, che  gli  tolse  • la  vittoria  e la  vita. Espugnata  la  fortezza, Erdonid  robustissimo  che  era  di corpo-,  e bravissimo  in  arme, destò  strage  incredibile idtornct  di  sé,  ma  sopraffatto  infine  dai  colpi  morì.  Tra quelli  che -avevano  occupato  con  esso  il  castello,  pochi furoRO  pigliali  vivigli  più  trafissero  sestessi,  o perirono precipitandosi  dalla  rupe. XVII.  Finito  cosi  l’attacco  de’ Ladroni,  i tribuni  riprodussero le  ‘interne  discordie, chiedendo  dal  console superstite  che  adempisse  le  promesse  circa  la  istituzioa della  legge  fatte  loro  da  Valerio, estinto  nella  battaglia. Trasse  GlandLò  in  lungo  qualche  tempo,  ora  con  espiar la  città, ora  con  fare  agl’  Iddii  sagrifiz)  di  ringraziamento, ed  ora  dilettando  il  popolo  con  spettacoli  e giuochi.  Alfine  mancatigli  tutti'!  pretesti  disse,  che  dovessi nominare. in  luogo  del  defunto  un  altro  console, perocché  le  cose,  fìtte  da  lui  solo  non  sarebbero    legutime  ',    salde,' ma  salde  saqebbero, e legittime  fatte da  ambedue.  Respintili  con 'questa  replica,  prefisse  il giorno  pe’  oomizj  ove  farsi  un  collega.  Intanto  i capi dei  Senato  concertarono  con  maneggi  occulti  fra  loro  il console  da  eleggersi.  Venuto  il  giorno  de’comizj,  quando il  baDclitore  chiamò  la  prima  classe,  le  diclotto  ceniarie de’ cavalieri  e le  ottanta  de’fanti  ricchi  di  più  possideusa entrate  nel  luogo  dimostrato  nominarono  console  Lncio Quìdeìo  Cincinnato,  il  cui  figlio  Cesone  ridotto  a già di^o  capitale  da’  tribuni, avea  per  necessità  lasciato  la patria:  >nè  più  si > chiamarono  altre  classi  a dare  il  lor voto,  giacché  le  centurie  che  lo  aveano  dato  superavano per  tre  centone  le  rimanenti.  Il  popolo  si  ritirò  pronosticando il  suo  male, perché  sarebbe  il  consolato  in mano  di  chi    odiava.  Il  Senato  spedi  uomini  che prendessero  e menassero  il  suo  console  al  comando. Quinzio  arava  allora  per  avventura  un  campo  per  seminarvi, ed  egli  stesso  scinto  di^  tonica, col  pilco  in testa, e con  fascia  ai  lombi, teneva  dietro  ai  bovi  che lo  fendevano.  Or  vedendo  i molti  che  a lui  si  recavano, fermò  1’  aratro, e dubitò  buon  tempo  chi  fossero, e perchè  sen  venissero  ; ma  precorrendo  un  tale  ed  ammonendolo ad  acconciarsi, andò  nell’  abituro, e acconciatovisi  riuscì.  Gli  uomini  spediti  a riceverlo, lo  salutarono tolti  non  dal  suo  nome, ma  come  console  : e messagli  la  veste  circondata  di  porpora, e dategli  le scuri, e le  altre  insegne  de’  consoli, lo  pregarono  che in  città  si  portasse.  £ colui  soprastando  alcun  tempo  e lagrimandone  disse  : questo  mio  campiceUo. in  qilesto anno  restar^  dunque  non  seminato,  ed  io  correrò  pericolo di  non  avere  come  alimentarmene.  E qui  salutata la  consorte,  ed  intimatole  che  provvedesse  alle  coso dimestiche, sen  venne  a Roma.  Or  questo  mi  son’  io condotto  a dirlo  non  per  altra  cagione, se  non  perchè sì  conosca  quali  erano  allora  i primarj  di  Roma,  come operosi, collie  savj  ; e come, non  che  gravarsi  di  noa povertà  onorata, ricusavano, non  ambivano  i sovrani poteri.  Dal  che.  sarà  manifesto, che  i moderni  non  so migliano  a quelli  nemmen  per  poco, eccettuatine  aiquanli, pe’  quali  vive  ancora  la  maestà  romana  e serbasi una. immagine  di  que  tempi.  Ma  basti  su  ciò. Quinzio  preso  il  consolato    chetò  li  tribuni dalle  innovazioni  e dalle  brighe  su  la  legge, con  intimare, ehe  àc  non  la  finivano, porterebbe  tutti  i cittadini fuori  di  ' Roma, minacciando  una  spedizione  sui Volsci.  E replicando  i tribuni  che  lo  avrebbero  impedito di  arrolare  l’esercito;  egli  convocata  un’  adunanza, disse  che  lutti  si  erano  vincolati  col  giuramento  militare di  seguire  a qualunque  guerra  fossero  chiamati,  li  con soli;  come  di  non  lasciar  le  bandiere  e di  non  far  cosa contro  Ja  legge.  Diceva  che  con  assumere  il  consolato, ei  tenevali  tutti  sotto  quel  giuramento.  Ciò  detto, giu-> rando  che  si  varrebbe  delle  leggi  contro  gl’  indocili, fe’  cavar  le  bandiere  da’  tèmpli.  £ perchè  disperiate  di ogni  aggiramento  di  pòpolo  nel  mio  consolato, non tornerò,  disse',  da  cnmpi  nemici  se  non  dopo  Jinitone il  tempo.  Apparecchiatevi  dunque  in  quanto  v è necessario, come  per  isvernare  nel  campo.  Sbalorditili con  tal  parlare,  quando  li  vide  alquanto  più  mansuefatti supplicarlo  di  esser  liberi  dalla  spedizione,  dichiarò  che sospenderebbe  in  grazia  loro  la  guerra,  purché  non  fa cessero  movimenti,  lasciassero  eh’  egli  reggesse  il  con[fi) Roma  Catone Varrone] -solato  a suo  modo,  e dessero  ed  esigessero  scambievole mente  il  giusto. Calmata  la  turbòienza,  ristabilì  su  le  istanze loro  li  giudizj  interrotti  da  tanto  tempo, ed  egli  straso decise  il  più  delle  cause  colla  equità  e colla  giustizia, sedendosi  quasi  tutto  il  giorno  nel  tribunale, > io  atto sempre  compiacevole, mite, umano  verso  de’  ricorrenti. Operò  con  questo  die  il,  governo  non  sembrale  aristo cratico, che  i poveri, gl'  ignobili, ed  altri  infelici  comunque conculcati  da’ potenti,  OOn  avessero  bisogno  dei tribuni, 'nè  desiderassero  piu  nuova  legislazione  per  essere trattati  cOn  eguaglianza, anzi  che  amassero  e gradissero tutti  il  ben  essere  attuale  delie  leggi.  Fu  iodato nel  valentuomo  questo  procedere,  òome  pure,  che  fluito il  suo  comando, ricusasse  non  che  lieto  riaccettasse  il consolato  offertogli  nuovamente.  Imperocché  il  Sanato che  vedea  la  moltitudine  non  alièna  di  obbedire  aU’uom buono, rivolealo  a grand’  istanza  nel  consolato, perché li  tribuni  brigavansi  a non  lasciare  uemmen  pel  terzo anno  il  magistrato,  ed  egli  sarebbesi  ad  essi  contrapposto rattenendoli  dalle  innovazioni  colla  verecondia  o col  terrore. Disse  che  non  appcovava  cJte  i tribuni  non  cedessero il  grado  loro  ^ ma  che  egli  non  incorrerebbe ' neir  acciua  di  essi.  E convocato  il  popolo  e lamentatovisi  lungamente  de’  riottosi  a deporre, il  comando, giurò  solennissimamente  di  non  ricevere  il  consolato  innanzi di  averlo  ceduto.  E prefisse  il  giorno  pe’  comizi, e designativi  i consoli, si  ritirò  di  bel  nuovo  nel  suo picciolo  abituro, c visse, come  dianzi, col  travaglio delle  sue  mtini.  > X  aSi Divenuti  consoli  Fabio  Ylbolano  per  la  terza volta, e Lucio  Cornelio  ,  e celebrando  i patrj  spet> tacoli, frattanto  circa  eeì  mila  Eqof, uomini  scelti, marciarono  in  lieve  armatura  nella  notte, e la  notte durando  ancora  giunsero  al  Tuscolo, città  latina, distante  nemmeno  di  cento  stadj  da  Roma.  Trovatene aperte  come  in  tempo  di  pace, le  porte, nè  '"custodite le  mura,  la  invasero  al  giunger  primo,  in  odio  de’Tuscolaci  > perchè  erano  gli  ardenti  cooperatori  dei  Ror mani, e principalmente  perchè  essi  gli  unici  aveano fatto  causa  di  guerra  con  loro  nell’  assedio  del  Campidoglio. Uccisero  certo  degir^uomini, non  però  molti nella invasione  della  città  ; perocché  mentre  prendeasi quei  che  v’ -erano, eccetto  gl  invalidi  per  vecchiezza  e per  mali, fuggirono ^ spingendosene  fuori  per  le  porte. Fecero  prigionieri, le  donne, i fanciulli,  i servi,  e diedero  il  sacco  alle  robe.  Nunziatasi  in  Roma  la  espugnazione,, i consoli  conclusero  che  si  dovesse  bemosto provvedere  ai  fuggitivi  e rendere  loro  la  patria.  Opponendosi però  U tribuni,  non  permettevano  che  si  arrolasscr  soldati,  se  prima  non  si  desse  il  voto  su  la  legge. Cònlurbandosene  il  Senato,  e ritardandosi    spedizione, sopravvennero  altri  messi 'da’  Latini  colia  nuova  che  là città  di  Anzio  erasi  manifestamente  ribellata,  accordandoviki  i Volsci, antichi  abitatori  di  essa,  e, li  Romani venutivi  come  coloni, e compartecipi  de’  terreni.  Giunsero contemporaneamente  de’  nunzj  ancora  dagli  Eroici e dissero, che  già  era' uscita, e già  stava  nel  lor  ter  Adqu  li  Roma' 395 secondo  Catone, 397  secondo  Varrone-,   457  av.  Cristo] -ritorio  un  armata  grande  di  Volaci  e di  Equi.  A tali a^unzj  parve  al  Senato  che  dovesse  > ornai,non  indù giarsi, ma  corrersi  con  tutte  le  forze  da  entrambi  i consoli  : e che  chiunque  ciò  ricusasse, romano  o confederato : si  avesse  per  inimico.  Or  qui  li  tribuni  cederono, e li  consoli  descrissero  quanti  aveano  età  militare, e convocate  le  truppe  alleate,  uscirono  bentosto  in campo  ; lasciando  il  terzo  delle  milizie  urbane  in  guardia di  Roma.  Fabio  n  andò  di  fretta  coIF  esercito  su gli  Equi  fra’  Tuscolani  : li  più  di  quelli  saccheggiata  la città, sen’  erano  già  ritirati  : ma  pochi  ne  difendevano ancora  il  castello.  E questo  assai  forte, uè  bisognavi molto  presidio.  Adunque  alcuni  dicono  che  le  guardie del  castello, dal  quale,  come  elevato, scopronsi  dj  leggeri tutti  i dintorni, vedendo  uscire  da  Roma  un’  armata, lo  abbandonassero  spontaneamente:  altri  però  dicono, ebe  postovi  da  Fabio  l’ assedio  si  renderono  a patti, e passando  sotto  giogo  ebbero  in  dono  lai  vita. Fabio  venduta  la  patria  ai  Tnscolani,  levò  l’eaercito  sul  far  della  sera, e marciò  di  tutta  fretta  coiv tro  a’ nemici  ^ Equi  e Volsci  che  accampavano,  come udiva, con  armata  numerosa  intorno  alla  città  dell’  Algido. Viaggiando  tutta  la  notte  si  trovò  su  l' alba  a fronte  dei  nemici  alloggiati  nel  piano  senza  vallo, senza fossa,  come  nel  proprio  territorio',  con  disprezzo  degli avversar).  Or  qui  confortati  i suoi  a farla  da  valentnqmini, piombò  prima  sul  campo  nemico  con  la  cavalleria, mentre  i frati  alzato  il  grido  militare  la  seguitavanoAltri  furono  uccisi  che  dormivauo, altri  che  sorti appena  davano  all’  armi, e volgeansi  a resistere  : ma  li.  a53 più  gettaronsi  alla  fuga  e si  dispet^ro.  Presi  con  molta fiicilltà  gli  alloggiamenti,  concedette  a’ suoi  che  vi  s’impadronissero di  robe  e persone,  salvo  quanto  era  dei Tuscolani.  Non  istette  quivi  gran  tenapo, e menò  1’  armata'su  la  città  degli  Eccctrani,  riguardevolissima  allora tra  quelle  de’  Volaci,  e fondata  in  fortissimo  luogo.  Tenutovisi  più  giorni  da  presso  coll’  esercito  su  la  Speranza che  quei  d’  entro  uscissero  per  combattere, nè  uscendone ; diedesi  a devastare  la  loro  campagna  piena  di bestiami  e di  uomini;  non  avendone  gii  assediati  ritirato prima  ciò  che  v’  era  pel  troppo  repentino  giungere  dèi nemici.  Fabio  'lasciò  che  i soldati  facessero  anche  qui le  prede  per  loro, e consumati  più  giorni  nel  farle  ; alfine  con  essi  ripatriò.  Cornelio  T altro  console  mossosi contro  i Romani  di  Anzio,  e li  Volsci  sen’ imbattè  colr esercito  loro  che  l’aspettava  a’ confini.  Fattovisi  alle mani, uccisine  molti, e fugatine  gli  altri, s’ avanzò  col campo  fin  presso  fe  mura:  ma  non  osandovisi  più  uscirne a combattere  ; prima  desolò  la  lor  terra, e poi  ne  rinchiuse la  città  con  fossi  e steccati.  Vinti  allora  dalla necessità, ne  uscirono  novamente  con  tutte  le  forze, che  erano  molte  si, ma  disordinate.  Paragonatisi  in  battaglia, sostenutala, ancor  peggio, e fuggitine  scoraggiti e svergognati, si  rinserrarono  un’  altra  volta  tra  le  mura. Il  console  non  dando  ad  essi  tempo  di  riaversi, portò le  scale  alle  mura,,  e ne  abbattè  con  gli  arieti  le  porte: e cenciossiachè  da  entro  vi  resistevano  affaticati  e languidi; ve  li  espugnò  senza  molto  travaglio.  Quanto  eravi monetato, quanto  di  oro, di  attuto, di  rame,  fe’  portarlo neU'erario  : gli  schiavi, e le  altre  prede  le  fe’  raccogliere  e venderle  da’  questori  ; lasciando  a’  soldati, quanto  ve  n era, alimenti, vesti, e cose  • altretuli  di lor  giovamento.  Poi  scelti  tra  i coloni  e t^a  gli  Anziaii nativi  i capi,  clie  eran, molti,  più  cospicui  della  rivolta, e battutili  lungamente  e decapitatili  inSne, si  ravviò coir  esercito  alla  patria.  Il  Senato  usci  all  incontro  dei consoli  che  tornavano, decretando  che  ambedue  trion lasserò:  si  concordò,  per  finire  la  guerra,  cogli  Equi, che  aveano  perciò  spediti  oratori, e nei  patti  fu, che ritenessero  le  cittò, e eie  terre  che  aveauo  nel  tempo che  si  conehindeva  la  pace, ma  ubbidissero  ai  Romani; non  pagassero  tributi,  ma  somministrassero  ideile  guerre, come  gli  altri  alleati, truppe  ausiliarie.  secondo  >1  bisogno : e con  ciò  l’ anno  spirò. XXII.  L’anno  appresso    fatti  consoli  Cajo  Nauzio per  la  seconda  volta,  e Lucio  Minu^io  ebbero  per  qualche tempo  guerra  domestica  su’  diritti  civili  con  Verginio  e li  compagni  di  lui, tribuni  già  da  quattro  anni. Ma  poi  venendo  alla  città  guerra  da-’ popoli  iotorno, e paura  che  le  tógliessero  il  régno  ; presero  con  trasporto l’ evento  come  dalla  fortuna  : e fatti  i cataloghi  militari, divise  in  tre  parti  le  milizie  interne  e confederate,  e bsciatane  una  in  città  sotto' gK  ordini  di  Fabio  Vibolano  ; essi  alia  testa  delle  ^ altre  uscirono  immantinente, Nauzio  contro  de’  Sabini, e Minucio  contro  degli  Equi. Iniperoccbé  questi  due  popoli  s’ erano  di  que’  giorni  ribellati a’  Romani  : li  Sabini  manifestamente  tanto,  che  si erano  avanzati  sino  a Fideue,  città  dominati  da  Roma,   Roma  Catone Varrone. I.  a55 che  ne  era  distante  quaranta  stadj  ; laddove  gli  Equi ferbavano  colle  parole  i ^diritti  dell’  ultima  pace  ; facendola nelle  opere  da  nemici,  con  movere  guerra  ai  Latini, confederati  di  Roma, quasi  i^el  trattato  di  pace non  ressero  mcbiuSo  ancor  essi.  Comandava  l’armata  loro Gracco  delio  ^ uomo  intraprendente, che  avea  renduto quasi  regio  il  potere  arbitrario  di  cui  era  stato  adornato. Costui  ne  andò  fino  al  Tuscolo, città  pigliata  e saccheggiata ancora  nell’  anno  antecedente  dagli  E^ui,  che poi  ne  furono  espulsi  dai  Romani, e rapi  dalle  campagne quanti  uq  sorprese‘ uomini  in  copia e bestiami, guastandovi  i fruiti, buoni  già  da  ricoglierli.  E giunta un’  ambasceria,  dal  Senato  per  intendere  le  cause  per  le quali  guerreggiavano  contro  gli  alleati  de’Romani  quando erasi  di  fresco  giurata  pace^con  essi, nè  frattanto  era occorso  disturbo  alcuno  tra’due  popoli, e dovendo  questa ammonir  Clelio  a dimettere  i prigionieri  che  avea di  quelli, a ritirare  1’  armata, e ‘ subire  il  giudizio  su le  ingiurie  o danni  fatti  a’ Tuscolani  ; colui  s’  indugiò lungamente  scuz’  abboccarsele come  impedito  dalle  occupazioni. Alfine  quando  gli  parve  tempo  di  ammettere r ambasceria,  e quando  i.  membri  di  essa  ebbero  espresso gli  annunzi  del  Senato  $ egli  Soggiunse:  Mi  meraviglio, o Romani,  come  voi  per^dominare  e tiranneggiare., temale  per  Turnici  lutti  gli  uomini, anche  senza  esserne  offesi.  Voi  non  permettete  che  gli  Equi  si  venr dichino  de'  Tuscolani,  contrarj  loro.,  senza  che  ciò  si concordasse  nella  pace,  firmala  con  voi.  Se  dite  che abbiamo  oltraggiato  e danneggialo  voi  ; vi  rinlegretemo  a norma  de'  patti  : ma  se  venite  a chieder  conto Digilized  by  Goc^le 2 56  dell?:  Antichità.’  romane su  Tuscolani  ; nienle  vale, che  a me  parliató, o vai quanto  parliate  con  quella  pianta;  e frattanto  additò loro  un  &ggio  , che  prossimo  frondeggiava. I Romani  cosi  vilipesi  da  colui  non  cavarono subito, abbandonandosi  all  ira, gli  eserciti  : ma  repUcarono  un  altr  ambasceria, e mandarono  i Feriali  che chiamano, uomini  sacrosanti,. per  attestare  i genj  ed  i numi, che  essi  porterebbero, necessitati, una  guerra legittima, se  non  erano  soddisbuti  ; e dòpo  ciò  spedirono il  console  colle  milizie.  Gracco  all’,  intendere  che i Romani  venivano,  levò  l’esercito,  e lo  portò  più  ad dietro,  seguendolo  pasto  passo  i nemici.  Egli  volea  ridurli in  luoghi  da  vantaggiarsene  ^ come  addivenne. Imperocché  tenendo  in  mira  una  valle  cinta  da  monti, non  si  tostò  i Romani  vi  s’ internarono, egli  voltò  faccia, e si  accampò  su  la  strada  che  conduce  fuori  di quella.  Segui  da  questo,.che  i Romeni  misero  il  campo non  dove  il  volevano, ma  dove  la  circostanza  lo  permetteva. Ivi    era  facile  il  pascolo  pe’  cavalli, per.  essere il  luogo  chiuso  da  monti  ripidissimi  e nudi  ; nè facile  I dopo  aver'  consumato  quelli  che  portavano, procacciare a sestessi  gli  idimenti  dalle  terre  nemiche, o mutare  il  campo;  standogli  a fronte  i nemici,  e, proibendone r uscita.  Risolverono  dunque  usar  la  violenza, e cacCiaronsi  avanti  per  la  battaglia  : ma  respinti  e feritivi largamente  si  richiusero  fra  le  loro  trincee,  delio inanimato  dal  buon  succedo  li  circondò  con  fosse  e steccali, su  la  fiducia  che  premuti  dalla  fame  gli  si  (>)  Lìtio  chiama  quèrcia  quella  che  i delta  fiisgìo  da  Dioiùgi..  2,5'J reoJerpbbero.  Giupta  in  i\oma  la  ao|ia  di  ciò.  Quinto FabÌ9  lasciatovi  comandaute,  scelse  il  fiore  ed  il  nerbo suoi  militari,, e li  spedi  per  soccortere  il  console, sotto  gli  ordini di -Tito  Quinzio  uome  cousoUre, e questore.  Mapdò, oopomeno  letiére  a rCsuaio  ra, e le  .altre  insegne  ornamento  un tempo  de\.  re.  Saputo^  che  Roma  .oIeggeval(>  diltàtore, non  solo  non ' si  rallegrò  di  up  4anio  onore,  ina  conr tuebandoseoe  disse, adiaufue  per  io  mio  occupdzioni perud',pw  e il  fi  allo  di  ifUest'  unno  e noi.tidti  rje avremo  grande  il', disàgio  ! Dopò  ciò  recatosi  a Roma ( 1^,  confortò  su  le  prime  i cittadini  con  discorso  al (•y'-Amio  li  Roma  agS  secu'mla  Caloof, ajS  fecondo  Vsernas, t 4^  sv.  Lfista.  •. ZJYw.v/(;/. /tZf  'popolò'  dà'enapierlo  di  beile  speranze!  Poi'^coavocAti mai  i giovani  dalia  Oittà'  e dalia  campagnì, soncenlrate le  truppe  ausiliarie, e nominalo  maestret  de’  cavalieri .Lucio  ' Tarquinio, 'ignobile  per  la  povertà  ma  nobilissimo in  arme,  Usci  coll’esercito  riuaiio  e gianto  >af questore  Tito  Quinzio  c6e  io  aspettava, prese  ' pur  le sue  schiere, e né  andò'  sul  nemico.  Appe'Oi#  ebbe  considerata la  natura  de' luoghi  ov’ erano  gli  accampamenti cOilooò  parte  dell'armatA  ntdie  aliuiié  onde  precladerc agli  ^quà  i sussidi  ed  i meri,  e' riieneodo 'seco  le  ah  re naHizie    avanzò  cOn  -ordiqe  de  'battaglia,  GleliO  phnto tion  si  sbietti, perocché    la  sua  gente  era  poca, 'Oè poco  il  cor  suo  nella  guerra,  e lo  seooti^  nel  sUo^  giagnerè, e ne  sorse  una  pugna  ostinata;  Era  decorso buon  tempo,  e li  Romani  oom'e  cresciuti ’fi'à'''  le  arme rinovavansi  Ognora  al  travaglio,  e  la  cévallérià  soccorrea |yron;a  ove  erano  ì iaHti'iti  pericolo.  Criccò  dunque Eopra0altone, si  ritirò  nel  suo  cantpo.  Quinzio  ' éllora 10  cifis^e  con  aho  steccato  e torri  frequenti, e'  quando seppe  a!6nc  che  penuriava' de’ vivevi,  lo  investi  con  assalii contigui  nel  stio  oéntfpo,' ordinando  a hSinucfó  che uscisse  dall^altVà  parte.  Esausti  gli  Equi  di  viveri, disperaii  di  un  soccorso,  -e  streiii  per  ogn’  intorno  Halr assedm, furouo  nécéssitéti  à prender  ibr&a    ' su[^ {tlichevbli, e spedire  a Qoìozìq  per  la  pace.  E colai replicò  che  la  daitebbe, 'e  lasccrebbe  agli  Equi  iSalva  la persona, se  deponessero  le  arme, é passassero  ad'  uno ad  uno  sotto  giogo:  traliersbbe  però' qual  nemico  Gracco 11  capo  tkUa  guerra,,  e gli  altri  consiglieri  delia  rivolu. £ qui  comandò  che  gli 'recassero  tali  '^ùoraiai  in  ferri. l turno  X.  a59 [/milìaVaiui  gli  Equi' a lutto;  quando' egli  ordioó,  che giacobè  aveano  senza  "esserne  oilest  previamettie, soggettilo e derubato  il  Tuscolo  città  coufederau  di  Ruma, essi  consegnassero  a lui  ' CorbioBe -,  città  loro  perchè  ne lutasse  altrettanto.  Prese  tali  -rrsposta  partirono  gli  oratori, e dopo  non  molto  tornarono  traendo  .con  st Gracoo  è i Compagni  incatenali.  Essi  poi  cedute  le  arme, e lasciate 'le  trincee  t ne  andarono  ^so  t(o  ^iogo,  come era  il  volere  del  diltaiort,. à traverso  .del.èaiupo  romano. Consegnarono  tiorbione, e ebn  restituire,i  prigionieri tuscolaai  ottennero  soUmeotè  che  ialiti  prima ne  uscissero  gli  uomini  iagfenai. Quinrio  ricevuta  ht"  città,  comaodd che.  le prede  pià -wgqardevoU  sr  trasportassero  in  Roma, .concedéndo  che  le  altre  si  dispensassero  tra’  soldati  venuti con  esso,  e tragir  altri  spediti  prima  con  Quinzio  il questore  ;,  e"  soggiungendo, che  a^  soldati  rinchiusi  mi console.  Miiiudo  avea  dato  ànjplissimó  lono, quando  li rivenaiet dajla morte.  Ciò  'fano, obbligando  Minucio.a dhnettérsi  djl  suo  grado,  si  ripiegò  verso  IVoma,  e'ne menò.  Uionfo  luminoio,  più.  che  tutti  .i  duci  meuatoIo avessero perche  in  sedici  giorni  de’ die  avea  preso  il còniaotfo, 'uvea  salvalo  l’  esercilò  anaico,  disfatto  i’ altro floridissilno  de’  nemici  ; saccheggiata  la  loto  città, messavi guarnigione,  e comku va • séco  In  catene  il  capo, e.  gli  altri  primarj  di’qneUa  gueira. . FaoeVa  soprattutto ùieravigliu  die  avtmdo  ricevuto  quel  magistrato  per  sci mési  non  sei  tenne  quuito  eonòedeva  la'>  legge  : • ma  coni vocata  la  plebe, e ragipjiatuJe  delie  cosr  operate  ; lo depose.  E pregandolo  il  Schato  che  prendesse  quanto vote  delleterre, degli  schiavi delle  prede  conquistate colle  armi, e pressandolo  che  vivificasse  la  tenaiti  sua con  ricchexaa  ginata,  ché  egli  possederebbe  'glónosrsaitna, come 'tratta  colle  proprie  iàticbe  dal  nemico',  ed=o(fe rendo'gli'  amici e pai'enli amplissimi  doni, e pregiando più  che  tutto'  adagiare  un  tal  uomo, egli  ' lodatane  la cortesia,  non  prese  nulla,  ma  si  ricondusse  nel  piodolo suo  campicello  „ ' ed  antepose  ad  nna  splendida  vita  la vita 'tua  travagliósa, nobiliubdosi  per  la  ^povertà,  più che  altri  .non.  sogliaho  per  l’ opulenta.  Dopo  non  molto Nanzio  f altro  console  vinse  in  battaglia  i vamente  le  armi  contro  de’ Romani,  e scorKroacchegjgiando  assdi  della  lòr  terra  tanto  che  quei  che'  veai vano  int.copia  fuggendo  dalle  campagne,  dicevano  tatto in  poter  loro, quanto  è tra  Fidene  e Cmstumera^  Anche gli  .Equi  sottomessi  ultimamente  sorsero^ im’ afira volta  alle  armi:  e recandosene  > tra  la  notte  i più  robusti a Corbìone, città  ceduta  da  essi  Panno  antecedente  ai Romani,  c sorpresavi, la  gnamigioDe  nel  sonno >;  ve  la uccisero,  salvo  podhi‘^  che"  per  .ventura  non  v’  erano.  Gli altri  marciarono  ju  gran  moltitudine  contro 'di  Ottona, Anno  di  Roma  397  'secondo  Catone,  399  seconda  Varronc,  a 4S5  Cristo.' . olimpiàde  otlan dr  Gitene  vinse cìni  de  Latini, e -presala  a prim’ impeto,  fecero  per  la rabbia  su  gli  alleati  de’ -domani, docebè  non  potevano su’  Romani  medesimi  ' uccisero  tutti  > puberi, eccetto quelli -ette  efan  fuggiti  udì’ invadersi  della' cillà-r  rende-, rono  prigionieri,  donne,  fanciulli,  vecchj,,  e raccoltovi in  fretta  quanto  poteano  trasportar  di  pregevole,' ripar tirono  prima'' che  v’accorressero  tutti.!  Latini.,11  Senato saputo  ciò  da’  Latini, e da’  militari  salvatisi  della  guarr. nigione, decretò  di 'iàr  uscir  le  milqsie  y e con  ùse  i due  consoli.  Ma  Verginio  e i colieghi, tribuni  già  da cinque  anni  davano  a ciò  ritardo, opponendosi  come negli  -anni  antecedenti  alla  scelta  militare,, che  faceasi pe’coqsojij.u  reclamando  che.  si  Sdisse  prima  la  guerra domestica,  -con  rimettere  al  popolo  l’esame  della. legge, che  davano    la  eguagliauaa  .dei  diritti  : e la  plebe ooadjuvava  t ttibaui  che  asiaf  malignavano, contro,  del Senato.  Imapto  temporeggiandosi, nè  comportando  i consoli,’ che  si  facesse  in  Senato  il  previo  decreto  su  la legge  e si  proponesse  al  popolo    volendo  i tribuni concedere  la  leva  e la  marcia  delle,  milizie,  an^i  facendosi accuse  inutili  e dice^e  vicendevoli  belle  concioni  e nella  curia,,  alSne  fu  ideato  da’ tribuni -uu  altro  disegno^ che  sorprese  l padri  e chetò >U  sedizione  attuale,^~ma fu causa  di  molto  ingrandimento  per  il  popolo:  ed  io sporrò  .come  il  popolo  se  lo  ebbe  questo  incremento. Essendo  manomesso  e predato  il. territorio de’  Romani  e de’  cOufederati, e spaziandovisi  i nemici come  per  una  solitudine  su  la  speranza  che  nou 'Uscirebbe oontr’  essi  esercito. alcuno  a causa  dcHe  sedizioni di  Róma,  i consoli  -adunarono il  Senato  per  consultare come  sy  pericolo  estcetno.  Tenutisi  raoUi  discórsi, liichestò  il  primo  dei  parer  suo  Lucio(^uiozio, il>  dit latore  dellVarìBO,  aotecedents, >ttomq,noo/^solo  -il  più grande  allora  fra  le  armi',; ina  creduto  ancora savissimo nel  govefoo',  propose  il  coniglio  d ^ale  poi  persuase più  che  tnttq'i  tribuni  e gli  altri,  che  si  dij^erine  in tempo  più  accóncio  t esame  allora  ‘non  riecessario della  legge,  è si  /accise  con  tutta  prontezza  la  guerra alfutJe’,  scorsa  ornai  /no,  su  la  etllà  r nè  si  perdesse imbeflemente  e Mtuperosasnente  il  comando  con  tanti stenti  acqmstato.  H che  se  il  popolo  non  -ià-s'  tmiceva;  si  armassero  patrizj  e clienti,  conguanti  altri vòleano  far  causa  con  essi  in  qaeil  aringo  ‘nobilissimo della  patria,  e ne  andassero  ardenti  al  nemico,pren^ dendo  per  duci  dell  andafpiento  i Numi 'protettori  di Roma.  Imperocché  ne  verrebbe  lune  'o  laUi^  buono e bel  fratto^  vuoi  dire  ò che  riporferebbefo  ima  vittoria la  più  gloriósa  fra  tutte  le  riportate  "dai  loro ptaggiori, o che  magfianimi'  niorirebbero  pe'  beni  che sìeguòno  la  vittoria.  'Annnnzìaira  c4e>  egli  stesso  ^n si  ricuserebbe  a tanto  .esperimento, ma  presento  vi pugnerebbe'  qeaniq  i più  coraggiosi',  e ‘che  rpempieno manchérebbevi  alcuno  seniori  che  amasse-.la  libertà e li  buon  nome. Così  piacitito  a tutti, Senza  che  alouna  vi ù -óppon%sc, i consoli  convocarduo  il  popolo.' Cbacorsi quanti  erano  in  Roma  come  per  ndieofa  di  nuov^  co se,  fattosi  innanzi  Cajo  Orazio,  l’uno  de^ consoli,  tentò volgere  spontaneamente  i plebei  anche  alia  guerra  pre sente.  Ma  perciocché  i tribuni  vi  'ripugnavano,  'ed  i LTUno  X., 263 plebei,!a> senti vn  coq  essi;  recatoseli  console  Un  altra volta  in  tneszo  disse : Beìia marlwigliasa  impr^a  ifi vero  é^la  vostra -o  f^ejrginìo  ck^.  abbiale  stacpatò  U popolo  dal  Senato  ! e cho.  dal^  canto  vostro  avesstmo già  perduto  quanto  abbiamo,  ereditato  dagli  .avi, e ffuanlo  .oUepiUo  co')Ttoftrì  sudori  Ma  noij  npn,  cederemo noi  questo,  senza  lordarsi  nemmeno  di  polvere) ma  impugnando  le  orini  con  .quanti  vprrap  salva  la patria  ne  andremo  al  cimento,  i^erantiti  su  la  bontà dell’impresa.  E se  àLui}' Dio  rimìui.  le  belle.,,  le' giustissime imprese')  se  la  sorte  che  da  tanto  ' tc/Apo  prò • spera  questa  cillà  -,  non  t ahbqndona  sqibnontereniò  il  nemico., Ma  se  alcun,  Dio  me  gravita. sopra  4 c’  ci  si  oppope  per, bt  salvezza . di  -Jiqma  ) certo  JC voler  nostro  x di  nostra  propensione  non  perirà-;  che Jortissimamente  per  la  pat/ia  moriremo.  'E  voi  li  belli, U generosi  capi  che  siete  di  ' Roma, guardata  pure colle  vostre  mogli  le  case,  abbandonando  e tradendo noi:,,  ma    te  noi  vinciamo  onoràta sarà  la  vostra vita,    sicura  se  perderemo.  Se  pur  non  siete  ‘animali (lidia  misera  speranza  che  inémici  dàpo.' rovinati i patrizj, preserveranno  voi  per  gratitudine, a coricederànuo  che  godiate  la  vostrd  patria,  la  libèrtà,  il comando, e tuUi  t befù  -^/ie  ora  v’  avete.  Sb,  questo appunto  a voi  copeederanao  cfue’ nemici  a'  quali  men / tre  vói  pensavate  pìà  'saviamehte  avete  levato  tardo iersìtorio,  distratte  ttgtle  c'ktà,  JaUine' schià^i  i >popoli, ed  irudzati  toni itrofei,  tanti  manUmérUi  di  nemicizfa, e sì  luminosi,  che  mai^per  età  non  perirahpo.  Ma perchè  io  mi  addoloro  còl  popolo  il  qtude  non  fu  mqi taUù’o  ài  voter  non  piit  tosto  o Vt^fginìo  con Voi  che  per  si  bella maniero,  io  dirigete  ? Noi'  certo necessitali  b.  non -pensar  bassamente  noi  deliberata abbiamo, e ninno  cel  vielirà, 'difarci  a combattere per  la  patria:  jna  voi  che  abbandonate,  voi  che ^ tradite il  comune,  voi  neavrete  condegna,  irreprensibil vendetta  dal  cielo:  nè' fuggirete ‘già  questa,  se  quella fuggite  degli  uomini.    crediate  già  che  io  ciò  dica pertatterrirvi  : 'ma  sappiate  che  quanti  siano  qui  lasciati per  guardia  dèlia  città,  se  mai  gf  inimici  prevalilo Ho  ^ ne  destineremo  come  a noi  si  conviene.'  Se od  alcuni^  ìfarbatì, ornai  tra  le  unghie  de'  nomici, venne  in  cuore  di  non  lasciare  ad  essi'  non  le  mogli, ~hon  i figli, non  le  cùlà,  ma  di  ardere  .gueste, e di uccidere 'quelli;  non  farànno  altrettanto  sé"  li  Èomani  de' quali  è proprio  il  dominare.?  ' Certo' degeneri non  saratmo  : ma  còmi  notando  da  vqi  > che'  nemicissimi Stata,s.  ogrii  amica\lor  cosa  distruggeranno. ^onsidarMe  ora  up'i  questo, ié>  considerandolo  ; fatevi -le adunatvte  e le  leggi.  ' ~ • Detto  tali  ^ose  e ‘molte  consimili,  presentò  li più  provetii  de  patrie]  che  piangevano.  A tale''s[>euaoolo molti  del  popolo  boa  contennero  nemmeno  essi  le  la gtime:  t destatasi  grande  commoxlone  per  gli  acmi  e per la  maestà  di  tali  uomini,  il  console  sopraÀandò  alquanto disse  : 'Impugneranno  questi  seniori  le  'armi  per  voi giovani nè' voi  ve  nè'  vèrgognelete, occultandovi' fin .sollotarm  é"  vi  terrete  lontani  da  questi  duci,  che padri  sempre, avete  nominati  ? 'Sciaguo^i  voi  ! nè degni  pure  di  èsser  detti cittadini  -di  questa  èittà  fonSala  "da  c'olbro  che  àveano  por  iole  fpaile  il  padre, aperto  loro    numi  lo  teatnpo  ^ra  le  armi  e le fiàmmè Catm  Yergioìo  temè  ciré  il  pòpolo  fosse  commosso dà)  quel  discorso  per  non  SDfhii{V  'dl  dover  mettersi  quella  guerra  coOlro  il  sub  dire,  fecési  avanti'  e soggiunse; Noi  non  vi  abbandoniamo'né.  Vt'  6-adiamo, Hè  mai  vi  .abbandoneremo  o padrii  come  per  addietro mai'^ foste  da  noi  derelitti  su,  et  impresa  niurtae  di  mettere custodi'  delia  libertà  te  leggi  a cui  tutti  ubbidiscano^ Che  se  ciò  vi  .sa  male  p,  Se  sdegriate concederle a' vostri  cittadini  questa  grazia,'  e'^  riputate  com’  essere la  mocte.  vostra  ammetlére il  popolo  nelC eguaglianzd; non'  pià  vi  darem  briga  su  dà, ma  vi  chiederemo  ' altro'  dono, avuto  il  quale  farse  noh  avrem  pià  bisognò di  nuova  legislazione:  se  nonché  ci  vien  paura che  non  ottérremo  nemttten  questo, sebbene  non  sia ponto  lesivo  dei  Senato, e sia  ^uUo  bmief  ceedonorevole al  popolo.  E replicando  il 'consoleche  se  rimetteanb  la istanza  vai  Senato, non  sarebbe  oegata  loro  cosa,  che discrcia  fosse-;  ed  invitandoio  a dire  ciocché  dimandasero, ' Verginio  abboccatosene  alquanto  ^co’-suoi  colleght rispose, che  lo  dirèbbe  al  Senato,  'fiopo  ciò  Ji  consoli adnnarooo  il  Senato, ed  egli  venutovi  ^ e divisatovi quanto  edmpetevasi  al  po>pólo,  chiede  che  si  duplicassero i magistrati  del  pòpolo,  ed  .ogni  anno  in  luogo  ;d>  ciò que  ài  nonaipaiserD  dieci',  tiibuni.  Alcuoi,  ca{>0  de’qaaii era  Laoio  QuipzioV  àatorevolissinto  Pilota, in  v Senato, pensavano  clie.ciò  pon.  offenderebbe  Ja  repubblica e ooDsigll nico  vi  si'dppose  Cajo  Claadio, figlio  di  Appio /dau dio, deir  avvertano  'perpetuo  a voleri  del  popolo, se non  erano  ^a  nórma  'delle,  leggi.  Egli  ereditati  i ' sentimenti del  padre,  impedì  quando. fu  console  che  si  concedesse ai'  tribpni  d.  inquisire  contro  de’  cavalieri,  calunniati di  congiure,  ed  ora  con  iuiligo  ragionamento  di^ mostrava, che  il  popolo  non  diverrebbe  più  moderato e più  docile  y ma  più  incansiderato  e più  grave.  lùiperocchù  appelli  che  sarebbero  ' dt  poi  giunti  'al  iribonaio noi  prenderebbero  gii'  per  questo  eoa. legame'  .che  li tenesse  ai  patti,  ma  beP. presto  tratter^bero  di  divìsioue di 'terre  4^   dl,e^[}ia|ità    drritir',,e  certdtei;ebbera  parlando e ..brigando  de  cqiUe  cose, estensive  'delia  potenta del  popolo,  eotne  dmpaqenti  1  onor  del  .Seoato^.-ìlfosse ntolti  tH^  tal  dire  graodemeote  i.  ma  Quinzio  a ritrasse ammaestrandoli voler  1’  otite  del  Sedato  che  i tribooS  si  moltipKcttseil, giacché  i molti  men  8’ at^rdan  dei  poclii  t esser  rocspediziooe>^  Toccò  a MìducÌo  Ja  gaem  co’  Sabfm  ad  Orazio  1  altra'  eoo  gli Eqaiye ben  lostb  marciarono ‘atubedi^e.  L Sabini  gtuuy dando  le  Idko  città.;  non  curarono  .'che' ì Romani  si menassero  >6  portasae.ro  quanto  .r’ era  pez  le  campagne. Gii  Equi  a|ledirono  'Ito’ armala' per  coalrxitarli;  ma -tutto ebe  pugnassero  nobilissimamente  / non  poterono  superarli, e si  ritirarono  ne^sitatt  oeile  loro^  città,  perduto il  castello  pel  quale  avaano  co/nbattùlo'.  Orazio  respinti i nemici, -iPatto  assai  danno  alle,  lor  itette.^  abbattè  le mura  di  Corbinne  r ne  rovesciò  da’  fondamenti'  le  mse, e -ricondusse  in  Roma  l  e(wreito. Sotto  Marco  Vaieriòy  e Spurio  Verìpoio  consoli delH  anno  segne'nte,  non  osci  dà’ confini  nato,  e • convoràlv.  il  Senato.  E condosslachè  un  littóre, comandatone,  rispinse  Taraldo  ; icilio  e i suoi  coUeghi degnatine  presero  e trassero 'il  littore  me  per  balzarlo ^la  ‘ rupe  I consoli  tuttoché  sen  tenesseró  's[^giatls$inù non  poteano.fiir  violenza,  e redimere  quel  prigioniero: e''^i  volsero  ptf  ajuto  agli  altri' tribuni-: 'Perooché  niuu pifò  sospendere  p proibire  gli  atti  di alcun  tribuno,  se non  quegli  che  tribuno,  sia  parimente  giaqchéji  tribuni s’ erano preoccupati già, da  molti  e potenti.  Unico  -contraddisse  .a.tal  dire Caju  Claudio, comprovandolo  molti  ; ma  -si  decretò  che il  silo  al -popolo    concedesse.  Dopo  ciò.  presenti  i pontefici,‘ gli  auguri,  e due  sagrificatori, fatti  secondo  il rito.sà^ifizj  e preghiere, e convocati  da’  consoli  i 00niizj  centurìati  si  'confermò  la  leg^e, e descritla  sQ  colonna^ metallica, e portata  ne|l’  Avventiòq  ' fu  collocata nel  tempio  di  Diana.  Poscia coqgregatisi  J plebei  tirarono a sorte  il  suolo  dove  fabbricare  e fabbricarono, occupando  ciascuno, lo  spa^o  che  poteva.  Unironsi  al-r. • i  r edifiso    qò^lcke  cak  due  o M'  pèrsone, e talvoiu piùancora,  prendendosi  uno  i pianterreni  .  e gl!  ahri i piani,'àupdnori.  E 'cosi  tl’.  armo  si  consumò  eoj^i^bbricare.  Riusoi  pesò  complicatò  e varìo e pieo  di grandi  avVenluee  l’  anno  seguente  (j)’,  nel  optale  eletti consoli  .T'ito' Ro™iliO  e Cafo  Veturio,  furono  riassunti al  Hribanale ‘Icilio  e i coUegbi.  {mperoccfaè  fu  di  nuoro suscitata  da’ tribuni  la  dril  sedizione  ebe  parea  venuta ihene;  e sorsero  guerre  dagli' esteri  : ma  queste  non 4^e  danneggiarla, ' giovaróno  non  poco  la  repubblica, non  toglierne  gl’  in^rlH  diSsidj  ; essendole’  consueto  e viceodevole  di  ' esaére  ’anaoime  tra  le  guerie,   ma  discor> diosa'  nella  pace,  distraiti  - di  ciò  quanti  salirano  al  con- solato prendevano  eoo  trat^rtOi  se  nascevaoo,Te  guerre cogli  esteri.  E ce  i ^oemìd  erim'  'cheti  ; essi  stèssi  finge- vano’ manoanze  pretesti   0' debi- ^litavasi  tra  lo  sedizioni.'  Animati  nel  modo  'stesso  i-'oOn soli 'di  quest’'am^,  deliberarono  cavar  1' esercito'  contro L taemìci spi  timore  che  i'  poveri  e gli  oziosi. qoaiìn- ctassero  a perturbare  - la  pacel  Or  essi-  ben  la  rutebde vano,'cbe  'vuoisi-  distrarre  la  mollitudioe  ndle  gtiè'rre cogli  esteri  i’hia  non  beò  intendevano  com’ eseguiscasi.' ' Quando  avrebbero  dovuto  flir  leve  moderate  ì Qotìae  ilo città  mal  affetta  ; si  diedero  a 'castigarvi  colla  forzà  tùtii i ’ranitenti  i senza  Cfonsazione  o dispensa,  iriando  ine- sorabili ^il  rigor  4elie.  leggi    gli  àVen>  e su  le  persone. 'ny  Anqo  di' Roma  agg  secoodo  Calooc, joi  seoondo  Varroue,  a 453  av.  Critto.. Presero  da  tal  proceder^   occasioae  di  bel  onovo  i tri buoi  di  concitare  la  plebe  ; e radonatala, vi  strepitarono per  più  cause,  come  ancora, perchè  aveano. .fatto  portar nella  carcere  molti  che  reclamavano  1’  ajuto  de’  iriboni: e dissero  che'  essi  che  soli  he  aveano  l’ autorità  dalle leggi, gli  assolveano  da  quel  rechi  [amento. ' Vedendo però  che  niente  ne  profittavano, anzi  ' che  laccasi  la coscrizione  piti  severamente, incominciarono ad  oppor visi  co’  fatti.  E resistendo  I conscM  .colla  forza  del  grado loro  ; sen  fecero  altercazioni  e scaramnCce.  La  tenea  pei consoli  la . gioventù  patrizia, ma  teneala  • pe’  tribuni  la turba  oziosa  e povera  : e quel  giorno  assai prevalsero  i LODSolif  su'  tribuni.  Ne'  giorni  appresso  versandosi  in>  città più  turba. dalle  campagne, i tribuni, vedutisi  òmai  con forze'  da  contrapporsi, convocarono  assai  spesso  il  popolò-, ^e  mostratigli'! ‘minbui  loro  malconèr  ' dalle  piaghe, prolestaropo  che  deporrebbero  il  magistrato  se non  erano  da  esso  gàraoliti.  Irritatasene  la  nioltitudiée  ; dt^'no  i coiv soli  a ' dar  conto  al  popolo  del  procedete'  loro.  Nóp  gli attesero  questi;  ed  andatine  i 'iribòni  alia  curia ove  il Senato  ^a^e va 'già  consultandoqe  lo.aupplicaroooi  a non trascurare  essi  tribuni,  offesi  -bruttisiihiàmrate, uè  il spopolo,  che  era  dell’  aita  loro  privato. -^E  qui ùàrracono quante  ne  aveano  sopportate  da’  consoli, e le  mapohinazioni  di  quesb  contr  essi  ond’  erano  svergognati'  non pure  flel  grado ) ma' nelle  penonc.  Laonde  chiedeaao che  ^.consoli  facessero  l  Una  delle  due, vuol dire, se negavano  di  aver  fatto . cesa  vietata  datie  leggi  controde’  tribuni   vemsserò  e giurando  Ift  negassero  all’ adoaaaza  ; se  di  giurare  non  sostenevano, venissero, c vi  rendessero,  conto  ; e le  tribù  entenziereLbero  su  loro. Si  difesero  i cousoli,. dando  a vedere  ebe  i tribuni erano  la  origine  de’, mali,  per  la  caparbieti, per  l’audacia di  profanare  Je  persone  de’ consoli,  prima  con  avere imposto  aisatelliti  jorp 'e  agli  edili  di  portare  in  carcere uonjini  rivesliti  di  ogni  potere,  e poi  con  tentar  di  assalirli col  raeazo  de'  plebei  più  temerarj  ; e qui  sponeano quanto  fosse  il^  divari  a dalla  tribunizia  alla, consolar  dignità, piena 'questa  di  regio  potere,  e nata  l’altra  solo per  protegger'  gli  ttppressi.  Tanto  esser  lungi  che  potes^ro  far  votare  la  moltitudine  contro  de' consoli,  che noi  póteauo  nemmeno  contro  il  minimo  de’  patriz|  senza un  decreto  espresso  del  Senato.  Pertanto  'minacciavano, se  i,  tribuni  faceano' votar  la  moltitudine  di  dàr.  rju’me a  patria).  Continuandosi  ‘ppr  tutto.il  giorno  i  pochi  contro  de) ' r • . Vedi  Ii  che  si  ripiegasse lo  sdegno  su’  lor  fautori, castigandoli  a norma  delle leggi.  Se  quel  giorno  i tribuni  trasportati  dall’ira  lanciavansi  a far  cosa  alcuda  contro  del  Senato,  p de consoli, niente  avrebbe  impedito  che  la  città  di  per    rovinasse. Tanto  eran  tutti  pronti  per  armarsi  e .combat Uni  t Ma  perché  sospeser  1’  afiàre, dando  ' a sé  tempo per  meglio  consigliartene;  serbarono  essi ' moderazione, e r fra  del  popolo  n'n  fu  mitigÀa.  Intimarono  pel  tc^'zo mercato  dopo  quel  giorno  una  assemblea  popolareove condannire;  i consoli  ad  una  emenda  in  mgeoto,  e sciolsero 1’  adunanza.  Approssimandoti  pe^ò  quel  -giórno  desisterono anche  da  lah  intrapreta  dicendo,  di  coneedecp ciò  alle istanze  di  uomini  i più  'venerandi  per  anni  e • per  grado.  Poi  congreg-indo  il  popolo;  dichiararono  die essi  rimettevano  le  offese  proprie, sul  desiderio  di  motti buoni,  a’ quali  nop  era  lecito  contraddire  : ma  che  le ingiuri^  fette  al  popolo  e punirebbero  queste, anzi  le toglierebbero.  Imperocché  diretumente  aggiùngerebbero tra  le  leggi  pnr  quella  su  la  divisiori  delle  terre differìlit  ornai  da  treni’  anni, e quella  su’  diritti  eguali r • N.    Kel  lesto  v^it  nuot’aiiante, forse  ot    per  dono,> nè  per  compera, nè  per  altro  legittimo  mezzo  che^ possa  dimòstrarvisi.  Se  ne  avessero  questi  dimandata parte  pià  grande, che  noi  dopo  • avere  come  noi  tra~ vagliato  neW  acquistarle  ; certo  non  sarebbe  stato  de gno  di  uomini, degno  di  cittadini  che  pochi  si  ap propiassero"  ciocché  era  di  tutti;  ma  pur  stata  una causa  vi  sarebbe  a tanta  ingordigia^  Ma  quando  non potendo  dimostrare  alcuna  opera  grande  e magnanima per  la  quale  si  tengono  ciocché  è nostro, non  sen vergognano 'né  lo  rilasjdano  y nemmeno  convintine  ; chi  potrà  comportarli? Or  su,  per  Dio,  se  io  nfetilo  in  ciò, venga  chiunque  di  questi  onorandissimi, venga, e dimostri  per  quali  splendide e belle  gesta  presuma pià  parte  di  me.  Forse  ha  guerreggiato  pià  anni,  in pià  battaglie, con  pià  ferite, con  pià  onore  di  po rotte  di  spoglie, di  prede, o di  cUtre  marcfm  da vincitore, per  le  quali  /’  inimico  se  ne  umilia, e la, patria  > magnificata  ne  sfol^ra  ? Dimostri  il  decima almeno  di  quanto  io  v ho  dimostrato.  Per, certo  i pià d’  essi  non  potrebbero  allegare  nemmen.  la  minima parte  delle  mie  gesta  : anzi  alcuni  di  loro  non  par.^ rebbero  di' avere  sofferto  nemmen  quanto  il  popoletlo pià  basso.  Grandi  essi  ne  detti, noi  sono  certo  nelle armi, pià  vagliano  contro  l' amico, che  a fronte dell'  inimico: non  pensano  essi  di  avere  una  patria a tutti  comune, ma  propria  di  loro, quasi  non  siano stati  per  noi  liberati  da’  tiranni, ma    tiranni  ab-^ biano  noi  preso  come  un  lòt  bene.  Questi  (perocché bacaselo  /e  ingiuriò  continue  pià  o men  ^andi  j eh tutti  sapete  ) sono  giunti  a tanta  in  scienza  ^ efu^.non soffrono  che  alcuno  di  noi  dica  libere  yoci,  o che solo  apra  la  bocca  su  la  patria.  E 'Sputió  Cassio, quello  che  ptimó^  parlò  su  la  le^e  agraria-,  quello che  illuitre  per  tre  eonsólati,  e per,  due  trionfi  gloriosi, e che  avea  dimostrato  tanta  solerzia  nel  comando nplitare  e civile, quanto  niun  altro  in  quei tempii  qùeH'  uomo  si  grande  lo  accusarono  i con•soU’j  come  intento  alla  tirannide,  lo  sopraffecero  con falsi  teslìmonj, e,  Jìnalniente^  precipitandolo  dalla rupe,, Io  uccisero',    per  altra  cagione  se  iwn  perché era  V amico  della  patria  e del  popolo.' E Cajo Genuzh)  tribuno'  vòstroche  riproduceva  dopo  undici anni  la  stessa  legge, e citM>a in  giudizio  i consoli deir  anno  antecedente  come  trascurati  'a  compiere  i v decreti  del  Senato  tu  la  partition  delle  terre, lo  lèvaron  di  mezzo  appunta  il  giorno  avanti,  il  giudizio con  occulte  maniere  i non  potendolo  colle  manifeste. Donde  tte  venne  .a  successori  grave  timore,  e niun più  st  mise  a quel  rischio  : e già  sono  trend  anni che  sopportiamo, quasi  perduta  il  nostro  potere  nella tirannide. Ma  lasciamo  il  resta.  I magistrati  vostri attuali, quelli  che  voi  avete  rendati  siseri  per  le^e ed  mvMabili, a quanti  mali  non  incorsero  per  voglia di  difendere  gli  oppressi  tra  7 popolo  ? Non  furono questi  ètpulsi  dal  Foro  a pugni  e calci,  e con ogni  altra  guisa  di  vilipendj  ? Vò  'siro  era  V affronto; e voi  vel  comportaste    cercaste  vendicarvene  con., i'^g darne  i voti  almeno, in  che  solo  vi  resta  la  libertà. e Ma  su  prendete  spirita  o miei  cpmpopoUiri.  Presene tino  i tribuni  la  legge  su  la  partizione  dellecampagne';  _e  voi  la  confermate  co’  voti  vostri, nè  soffrite pur  voce  chi  reclami.  Voi  non  abbisognate  o tribuni di  esortazione  a questi  opera  ; voi  posti  vi  ci siete, e benissimo  fate  a non  desisterne.  E se  la caparbietà',  se    insolenza  de’  giovani  vi' si  opponga, e rovesci  le  urne  in'' che  i voti  raccolgonsi, o./i  voti vi  levino,  o scondita  tal, altra  cosa  nel' dar  de  sofì fragi  ntastrate  -loro  quanta  ' il  potere  siasi  del  tri i bunato.  Che  se  non  è lecito  degradar^  i constai,  sot topOnete  ai. giudizio  i privati, de’  quali  si  vatgonó per  le  violenze  ; e fate  che  il  popolo'  voti  su  loro come  su  conculcatori  delie  leggi  sacre  y e distruttori del  dostro  magistrato.  Or  Jui  cosi  dicendo, ta  moltiludibe    fa  cóm> mossa  tanto  intimainente, e manifestò  tanta  ira  contro gU  oppositori,  che,  copie  ho  divisato  dai  princt[yio,  non vofesa  memmen  tollerarne  t discorsi.  Quaodo  sorgendo Icilio  tribuno  dii^e  : che  eran  pur  buoni 1  suggerimenti di  Siccio,  e lan^mcnte  lo  encomiò,  tuttavia  dimostrò cìie  non  era  cosa    giusta, nè  sociale  negar  la  parola a chi  vojeya  perorare  in  contrario, prìncipalmeote'  di> acutendosi  una  legge  colia  quale  far  prevalece  il  diritto alla  Ibraa varrebboosi  di  occasioni  consitnili, qpelK che  non  avevano  pensieri  eqni    ginstì  sul  popolo, a turbar  la  pUè  novamentp,  e'rimovetae  ciocché  le  gio /asse.  E ciò  detto  prescrivendo  ^ il. giorno  seguente  ai, contraddittori  della  legge, sciolse  1’  adunanza.  I consoli  a4umildjili  oiuiglio  privato  de^'pairìxj  più  energici  al lora  e più  floridi, dimostrarono  cbe  dovea  leg^ impedirsi  per  ogni  modo  prima' colie  parole,  è poi  colle opere,  se  il  popolo  non  lasciasse  persuadérsi.  AdunqH^ raccomandavano  a tutti  che  andassero  la  ma^a  al  poro ciascuno  quanto  più  poteva  con  amici  e cliènti:,  e quindi che  alcuni  ài  stessero  .ed  aspettassero  intorno  la  tributiti onde  parlasi  all’  adunanaa, ed  altri  in  più  crttcchj  tna>. versassero  il  Foro, per  intraccbiudere,  il  popolo,  é vietarne la  riunione.  Parve  questo  U partito  migliore, e prima  cbe  il  di  si  chiarisse, erano  molli  posò  del  Forò presi  gii  'da’  patriÉj. Vennero  dopo  ^ciò  li'  Iriboni  e li  consoli, quando  il  banditore  invitò  chiunque  voleva  dir  contro la  legger  Presemaronsi  perciò  molti  onesti  uomini, ma il  remore  e il  disordine  non  lasciai  ascoltarne  le  voci. Imperocché  qoal  déflli  astanti  esortava 'ed  animava  i di ^ cuori,  e quale  gli  urlava  e'rigettavali nè  la  lode'preyalèva  de’fautori,    lo  strepito  degli  avversar):  Sdegna ronsi   .protestarono  r consoli,  che  il  popolo  dava  prìn cipio  alla  vioTenza  col  non  volere  ascoltare: ma  replicarono i triboni  che  avendo essi  ascoltato  ben  per  cinque anni, non  laceano  cosa  da  odiarnéli, se  non  voileaoo  più  tollerare  trite  contraddizioni, e rant^de.  Còsi ne  andara  il  più  delia  giornata,  quando  il  popolo  chiese di  votare/  Allora  i giovani  patria)  credendo  che  più  non iCoise  da  sufferire, impedirono  il  popolo  che  si  raccogliesse in  tribù,  tolsero  a chi  li  portava  i vasi  de' voti, e battendo  e spiugendo, cacciarono  quanti  erano  a ciò deputati,    $en  parlivauo.  Alzarono  le  grida  i tribadi e géttaronsi  nel  _ méz^o  di  essi  : e questi  cederono  e là sciarono  die  ipvioiati  ' passassero  ovnnqne,  ina  passare ovnnque  nob  Isàdavano  il  popolo'xbe  li  seguitava, o quello  che  tumultuando  e disordinandosi  qua  e là  per lo  Foro  moveasi  verso  di  loro.  Cosi  divenne  inutile  al popolo  il  soccorso  de’ tribuni  : ed  i patrizj  ila.  vinsero, nè  lasciarono  che  si  ammettesse  la  legge.  Le  famiglie che  più  sembrarono  coadjuvare  i consoli  furono  le  tre de’  Posiumj, de’  Sempronj, de’  Clelj,  cospicuissime  tutte per  lo  splendor  de’ natali, e potenti  assai  per  amicizie; per  ricchezze, e riputazione, .come  insigni  per  le  imprese nella  guèrra.  Si  consente  che  da  questi -dipendè prìncipalmebte  che  la  legge  non  si  ammettesse. Nel  giorno,  appresso  i tribuni  prendendo  i l>le bei  più  rlguardevolT  discùssero  ciocché  fosse  da ‘fare:  e tutti  di  comun  voto  statuirono  di  non  citare  in  giudizio i cposoli, ma  i'  privati  che  erano  stati  loro!  minjstrij; la  punizione  de  qudi  ecciterebbe  come  Siccio'  avvertiva meno  diceria  contro  del  popolo.  Adunque  cominciarono dih'geotemcnte  a discutere,  quabti 'fossero  da  : processare, qpal  titolo  Ressero  al  giudizio   e qtialé.  ne  sarebbe, '.e quanta  la  pena.  1 più  buj  di  carattere  consigliava    che si  desse  a tutta  un  aria  di  graveùa  e di  terrore  f in opposito  i' più  miti  voleano  moderazione  e ^clemenza,  é Siccio  era,il'  capo  di  questi, e ve  li  persuase  ; io  djco colui  che  perorò  per  la  partizion  delie  terre  diuonti  del popolo.  Parve  loro  che  si  trascùraaserogli  àitri  patrizi, e si  menassero  al  popolo  i Clelj,  i Posiumj,  i Sempronj a subirne  le  pene 'delle  opere' fotte  : si  ! accusassero,’ .di aver  soverrbiato  .ed  rnipedUo  i tribuni  dal  forc'uliiiiutre la  deftsioQ 'della  legger  qaido    l^gt  facre  -dei  Senato-e del  popolo,hqn  tsoucedoM  ad;  alcuno, di  p/dl^i  ri chiuso  t ed  alfine  sen  venne  il  tempo  di  giudicare  coloro. I cooteli  ed  i, patria]  (rau  questi  i migliori)  a^^ sunti  per  consultatvisi -opinavano  che  si  dovesse  concedere a!  tribuni, la  punigione, affinché  i|upedki  Uoa causassero  male  tpaggiore  1 e lasciare  che  i ^plebei  furi-' Ixmdi  versassero  r ira  loro    le.soÀanxe  degli  accusati affiprhè  paesane  arendeita  quanta  ne  voleanp,  V iirq>Ucidnsero  pér  l’ avveAire prinoipalmente  ché  il  danno negli  averi  potrebbe  risarcirai  a chi  aosteuevalo.  Or  Unto appunto  àddivénne.  Imperocché  condannati  questi,  scnaaapptfrìre  in  giudizio,  il  popolo  Inasprito  se  ne^raddolci,ì tribuni  pensarono  che  fossè  rendalo,  loro  un  moderato eivil  potere  e sostegno:  ed  i'patrizj -restituirono  ai condannati le  lo'to  ^stanze  reiHmendole,  a prezzo  eguale da  chi  areale  dal  pubblico  comperate.  Con  tali  riparisidissiparono  i mali  imminenti  ^lla  repubblica.  Dopo  non  molto  riprodussero  i.  tribuni  il  discorso su  la  legg^y  àia  l’avviso  deliairmzioae  repeatina de’ucjidci  sul  Tusoolo  fu  causa  bastante  ad  im^edirneli. ^ceeiuccliè  precipitandosi  li  Tuscolani  in  folta  a, Roma 'dicendo  essere  giunta  una  artnaNi  grande  di  Equi, che  ava già  devaatatq  le  foro  campagne, e ohe  tra pochi  gieini  ne  espugnerebbero  fin  k ciwà  se  ben  tosto non  sibccorpeTauo  ; iK  Senato  decretò  ‘che  v’ andassero entrambi  U consolù  .ed  i consoli,  intimata  la  leva,  fchk tnarono  tutti  i dttsdini  alle  anni.  Ebbevi  anche  allora del  snsurro,  oppibnendovisi  i tribnni  alla  iscrizion  mili^ tare, né.  volendo  die  gl’  indocili  si  pòm'ssei'O  col  rigor delie  leggi:  ma  tutto  io  indarno.’ Imperocché -il  Senato, raccoltosi,  decretò  che  uscissero  alia  guerra  i ' patck)  coi loro  clienti  : che  quanti  voleano  avér  parie  nel  aalvaro la  patria,  avessero  ancor  parte  nelle  sante  cose  de’ numi, ma  che  niuna  più  ve  n’  avessero  quei  -che  lasciavano  i consoli.  Saputosi  il  decreto  del'Sen^o  nell’  adunanza del  popolo  mólti  si  misero  spontaneamente  all'  impresa. Vi  si  misero  i p{ù  ingenui  per  la  verecondia  'di  non soccorrere  toha  città  confederata,'  diauuta  wmpre  per r aderenza  sua  con  Roma  : tra  questi  fu  Siceio  1’  accusatore presso  del  popolo  degli  usurpatori  delle 'pobblidie terre, -il  quale  menava  seco -ottocento  uomini,  timi  co me  -lui  di  età  superiore, nè  piè  vincolati  dalla  legge  ^a combattere  ma  pieni  della  riverenza  del  valentuomo pe’  grandi  benefizj  ricevutine  aveano  ripntato  cosa  non degna  di  abbandonarlo,  mentre  rinsciva  egli  a fitr guerra.  Òr  questa  tra  la  milizia  d’  allora  fu  di  gran lunga  la'  migliore  per  la  perizia  iu  combattere, Come per  T'ardire  tra’ pericoli.  Seguitarono  anepr  altri  T eaercito vinti  dall’ aderenza  e dalle  istanze  de' seniori.  E il èri  pur k milizia 'pronta sempre  a tnui  {.pericoli  per amor  deUe  prede, che  si  fan  tra4e  arme..  Pertanto  in poco  tempo  ebbest  un  armata  numerosa, e .'fornita splendidissimameute.  .! nemici  udite  che  i Romani  marcercbbero  contre  ^ essi, ravviafóQO  terso  la"  patria r esercito  : ma  i consoli  avanzando,a  .gran  >freilao per  6eno,  e gl  investirono  improvvisi,  mentre  scendevano a tor  r acqua  ; e più  volte  a battaglia  li  provocarono.  -Or  attagiia  ; e cavò le  milizie  dalle  trincee#. e comparti  fcavslieriie  fanti  per coorti,  ciascuno  ne’luoghi'  Convenienti  ; alfine  chiamando Siede  gli  disse  : iVbi  combattiamo  da  quindi  o Succio, 1 nemicL  Tw mentre  noi  ed  efsi  ci  risparmiamo  apparecchiandocip  va  di  fianco  per quella  via  sul  monte ove  è il.eaatpo  nemico,  e v assalùci  quei  che  ilo guardano, affinchè  gli  altri  che  slan  contro’  noi  ne teman  la  perdita,  e tentando  soccQnjerlo  ci  volgari  le spalle  ; e cor/ie.  avviene  ^in  una  subita  ritirata, si  affi. foUirt  tutti  per  una  strada, e con  fUcilità  li.,  conquidiamo : o se  qui  si  rimangono  ; lo  perdano  il^  campo  ^ loro.  La  milizia  che  -lo  presidia,  per  quanto  seti  concepisce, già  non  è.  per    foige,  ma  pan  mettere  tutta la  fiducia  bliquamente  per  quella  slracbi, impossibile  a salirsi di,  rutscosòr  dei  nemici: ma  io  vi  condurrò  per  vie non, visibili  ad  essi;  e ben  mi  presagisco  trovarle  tali òhe  ci -guidino  sul  morite,  e sul  campo.  Inanimiìevi dunque  i e speràlCk  Ciò  detto  s  avviò  Wk  fa  selva, '> eorsooe  buoa  tratto,  a’ imbattè  con  un 'cHtadioo, parti tosi  non  so  d’  onde, e fattolo  arrestare  ;, sei  prese  a guida.  E colui  rigirandoli  gran  tempo  attorno  del  mon te, li  pose  al  fine  su  di  nn  colle  rimpetto  degli  aHog la  battaglia  ebb^  un fine  decisoli  Imperocché  -Siccio  co’  suoi,  non  Si  toifo  fu -presso  degli  alloggiamenti, trovalbne'' il  danto  verso  di sè  derelitto  dalla  iniliiia, intenta  tutta,  come  n spetta cólo  dal  canto  verio  del  combattimento  > vi  diede  faci lissimitmente assaltò, -e  sonrontpvvi  :. e prorompendo in  grida  ; corsele  come  dall’ alto  ^ addosso.  Sopraffatta quella  dal  mate  impensato  e concependo  che  venisse non  qne’  pochi  ma  l' altro  console  colle  > sue  schiere  si precipitò  fuori  delle  trincee,  per  la 'più.  gran  parte senz’arme.  Que’di  Siccio  ne'  uccisero 'qua    ne  presero, e signori  già  degli  alloggiamenti, ripiombarono  sa  gli altri  nel  piano.  Gli  Equi, conoscintadalla  foga  e dar damori  la  presa  degli  alloggiamenti,’  e veduti  dopo  non molti^.i  nemici  correre  loro  alle  spalle,  noo 'mostraùlno .già  cnof 'generóso, ma  dnordinadsi, ceecàrono  scanapo per  varj  sentieri.  Ma  iu  questi  appunto  fecesi  strage copiosa, non  avendo  i Romani  lasciato  d’  iusegnirli  a trucIdarvegU  fino  alla  notte.  Siccio  ne  era  l’uccisor più graude  Ira  Ilice  d’imprese  bellissime:  e quando  vide  le cose. nemiche  ornai  ridolte  al  suo  temiihe,  egli  già  fatta notte, tripudiando  e forte  magnificandosene  rimenò  la sua  coorte  agli  alloggiamenti  espuguati.  1 suoi  npn  sedo illesi  ed  inviolati  da’  mali  che  ne  temeyanó  „ ma 'empiutisi tutti  di  gloria  vivissima, lo  chiamavano  padre  y salvatore,  Dio,  ed  ogni  altro  bel  nome,    finivano  di felicitarlo  con  amplèssi  ed  -altre  esuberanze  di  'gioja. Intanto  r altra. milizia  romana  tornava  al  campo  tuo ‘ dall’  inseguire  i nemici. Era  già  la  mezza  notte, quando'  Sfecio  raminando  1’  odio  suo  'bontro  de’  (Gasoli  che,lo  oveano spedito  alia  morte  -,  si  pose  in  ' animo, dì  tor  loro  la gloria  4el  buon'  successo.  Rivelato  il  cor  suo  tra’  compagni, e sembratone  a tatti  benissimp, anzi  ammirandone Ognuno  i concetti  e F ardire,  .^li  prese  e fe’' prender  le  armi, e prima  uccise  guanti  trovò 't|tnvi nomini,  cavalli,  ed  altri  animali  degli  Equi,  e pòi  mise in  fiamme  i padiglioni, pieni  di  arme, di  vesti, di apparecchi  di  guerra, e di  robbe  moltissìmé, recàtevi dalla  [ureda  tascoiaua  : al  fine, dopo  svanita  ogni  cosa tra  r incendio,  parti  su  I’  alba  senza  altro  che  le  arme, e rientrò  con  marcia  rapidissima  in  Roma.  Osservativisi questi  appena, solleciti  tra  le  arme, tra  ’b  sangue, tra i cantici  della  vittoria, eccovi  grande  il  concorso, e la smania  di  visitarli, ed  intenderne  le  cose  .operate.,  Ed essi,  andatine  alForo,  ve  le  narrarono  ài  tribuni:  ed i tribuni,  intimata  un’adunanza;  comandarono  loro  che vi  favellassero.  Era  già  grandè  la  moltitudine  ; quando Siedo  recatolesi  iunanzi  narrò  la.  vittoria  \ e' le  maniere del  combatlimentp  j >e  come  il  campo  nemico  era  preso per  ie  ' forze  sae>e  degK  ottocento  suoi,  spediti  dal  console a morire,  e come  infine  le  altre  • milizie  combattute^ dai -consoli  ne  ifurono  ridotte  a fiìggjre,  Chiedea  per tanto  che  non  sapessero  grado, se  non  a luì  dèlia vittoria  dicendo  in' ultimo  : noi  veniamo  sMve  le  persone e le  arme, nè  pattiamo  coià  ninna  grande  o picciola  delle  involate  ài  'nemico.  Il'  popolo  -alf  udirli', impietosì,  lagrìmò, vedendo  la  età, considerando  la fortezza  de’  valentuomini, e crucciandosi, • e smabiandó so  chi  voluto  ne  aveva  privare  la  patria.'  Sorkène,  come era  l’intento  di  Siccio, l’odio  di  tutti  contro  de’ con soli.  Il  Senato  srésso'non  soffrì  ciò  di  buon  animo,  nè decretò  per  essi  il  trionfo'  o altro  pe’ fausti  cornettimenti.  H popolo  poi  veduto  if  tempo  della  scelta  dei magistrati, nominò 'Siedo  tribuno  ; conferendogli  la  dignità della  • qpale  erà'  1’  arbitro.  E tali  furono  le  cose più  rilevanti  operate  in  qòeiranno.  '•  1 XLVllI.  Spurio  Tarpeo, ed  A11I9  (i^  Térmipio  pr^ sero  il  consolato  per  l’  anno  seguente  (0).  Questi  carezzarono di  continuo  il  popolo  con  più  medi, ccène  col previo  decreto  del  Senato  su’ magistrati;  imperocché “ Si  coniulti  SigoDÌo  su  Livio.  Di    si  raccoglie  cìie  forse  dea Irggtt ti' jfterh.  \ ' Anna  di 'Roma  3ao.  secondo  Catone.. ^o  secoado  Varrone, e av'.  Cristo.,. ' (3)  Cioi  che  si  potessero  multare  i magistrati  arrogami  o clie trascendevano  i limili^dei  loro  poteri.  Vedi.g  5o^i  rjueito  libro. Nondimeno  vi  è chi  crede  che  vi  si  parli  del  senatusconialto  fallo emanare  dai  consoli  perchè  li  tribuni  potessctp  ìar  approvare  dal DlOillGT,  amo  Iti.  • '  ' ' nsoli  ultiini.  Intanto  prima  che  d  di  Sén Venisse 'di' quella  causa.^  facendo  l’uno  e^l’ altro  d^li accusati  calde  brighe  e raccomandaziodi,  essi,  come  già consoli, assai  speravano  su  del  $éQato  ; • e teneano  per leggero.,  il  pericolo, promettendo  i seniori  di  quel  ceto ed  i giovani  che  ilon  lascerebbero  far tal  giudizio.  Ma ì tribuni  prevependo  tutto  da  lontabo,  e non  valutando preghiere;  non  minacce,  non  pericoli  ; a{q>ena  giunsene il  tèmpo,' convocarono  .il  popolo.  Eransi  già  riversati da’  campi  in  città  poveri  e lavoranti  in  gran  numero  : or  .-questi  aggiunti  alla  moltitudine  interna  'empierono  il Foro,  e le  vie  che  vi  conduconp. popolo  il  progetto  sa  la  formasione  del.le  leggi, eguali  per  tatti  ; 'argomeaio  allora  di  controTeraie, -come  apparisce  dalle,  coa'e  precedenti/'’ -• (r)  Forae  Icilio  tribuno  dell’  anno  precedente.  ..r-XLIX.,  laQ^oUo.per  il  primo  il  gÌRdluo' tU' Romi lio, .Sieda  fattoti  (^vaati  .accurà  le>  violenze  di  lui  nel •DO  consolato  contro  de’  tribuni, e le  insidie  contro  di aè  e della  sua  coorte  nel  suo  capitanato.  E endo  egli  voluto  esimere'  da  quella  spedizione. Matxo  .Jciiio, coetaneo  ed  qmico'SUOf  figlio di'  uri  tale  dellfi  coorte^,  perchè  qifesti  non  ujttme.  ài un  tempo  col  ^adre    morire  ^ e che  avendo  ottenuto da  Aulo  V srginio, zio  suo, e luogotenente  afiqrq delle  nfilizie  di  recarsi' ai  consoli^  chiederne  quésta grazia  ; i coruiyli  ebbero  cuore  di  .coatraddirh, ed egli, fa  ridotto  al  conforto  nùsero  delle  lagrime  ^ non restar^do  à (iti  che  dèplorarela  calamità,  delf  amico  : che  t antico  pel  quale  pregqvaf  udito  ciò,  se_n  venni, 9 chiesto  di  parlate  protestò  choj  avea  pur  grandi  gli obblighi  agi  inteAiessori  suoi,  rna  che. mai  grad^ebbe anche  ottenutala  una  concessione  che  levavagli  d' esser pietoso  inverso  del  sangue  suo  : nè  nidi  si  Hmove/ubbe dal  padre  quanto  più  si  avyiava  a. morte,  certa  come tutti  sapeane  : anzi  ne  andrebbe  con  lui  pey  difenderlo fin  dove  potrebbe, e correrne,  la  sorte  medesima, Or  costui  ridicendo  tali  cose, niun  fu  " che  nou commiscrasse  la  sorte  di  tali  uomini  : ma  quando  poi chiamati, comparvero  per  attestarla, (cilio  ' padre, e figlio,  e oarrarono  cioochè  era. di  loro;  non  poterono i più  del  popolo  contenere  le  lagrime.  'Perorò,  se  ne difese  Ròmilk>,'non  ossequioso,  non  pi^érole-ai  tem pi  ; ma  fastoso, e,  grande  ne’  concetti  ' suoi, coÉàe  non si  avesse  a dar  cónto  del  consolato. Adunque  l’ira  ne crebbe de’ cittadini, e rendati  arbhri  di  sentenziame, deliberarono  ripercoterlo,' e condannarlo  co’voti  di'  tutte le  tribù  ;. talché  la'  condanna  fosse  una  ' multa  di  assi dieci  mila.  Siccio,  'sembrami,  risolvè  ciò  non  senza  nna .provi  denza  : ma  perchè  scadesse  il  favór  de'  patrizj  su costui,    facessero  broglio  nel  darsene  ih  voto,  considerando che  la  emenda  era   in  danari  e non  ‘altro  ; e perchè  li  plebei  fossero  più  pronti  a .pronunziarne  la pena,  non  dovendo  spogliare  l’àom  consolare  di  patria, nò  di  yita.  Condannato  Romilio  fu  dopo  pochi  giorni condannato  eziandio  Yeturio.'  Anche  la  multa  suafa pecuniarìa,  ma  suddupla  di  quella  del   consolato.  Adunque  non  \ più  governavano  misteriosamente, ma  Con  intento  manifesto  ai  vantaggi  del  popolo. E priipa  stabilirono  ne’comizj  benturiati  per  legge:  che tutti i magistrati  potessero  punire  quelli  i quedi  ecce devono  o disordinavano  i loro  poteri, perchè  per  addietro non  altri  che  i consoli  pòteano  far  questo.  Per   Qoi  di'cinqoa  mila  aui.  Ora  ciò  sembra  ragionevòle;  perchè esseodo  Romilio  oppositore  più  che  Velario  de’  tribooi, dovea sentirne  danno  maggiore.  Nondimeno  Livio  afTerma  che  Romilio  fa condannalo  per  dieci  mila  assi, e Velario  per  (piiadjci  mila  ; il  che ha -fallo,  interpreiare  la  voce  a/oUssi qui  dire  minatamente, a voi, che  vef.  sapete, quanto ho  sofferto  dal  pòpolo  non  per  mie  private  ingiustizie i ma  per  la  henevolenza  mia  verso  di  voi;  tuttavia ciò  ricordo  per  neceisità,  affinchè  vediate  che  io  parlo per  lo  migliore,,  non  per  adulare  il  popoìp, che  mi è eontrarioi    alcuno  si  meravigli, -je io  che  fui d altro  asviso  più  volte, e quando  fui  ^console  e prima,  ora  mutato  mi  sia  sttbitamenté  ;J    vogliate concepire  che  non  bene  consigliassi  allora,, o non bene  mi  ritratti  ah  presente.  Io  finché  vidi, o padri,, superiore  lo  .stato  de  nobili,  lo  favorii,  come  doveasi, non. curando  quello  dei  popolo.  Ma  poiché  fatto  savio da’  mali  miei,  vidi. a gran  costo  che  il  poter  vostrq  è minore  dei  vostri  voleri  ; e che  piegaridovi  alta  necessild  più  volle  avete  lasdèUo  manometter  dal  popolo quelli  che  vi  sostetievimA, rdiora  più,non  tenni  gh antichi  pensieri.  E ben  vorrei  che  rion  fossero  a me, nè  al  collega  mio  succedute  le  cose  per  le  tjtiali  voi tutti  su  noi'vi  condolete.  Ma  poiché  finite  sono,  tali nostre  vieef^e,  e possiamo  solo  curar'  t avvenire,  provvedendo 'che  ailri  non  soffran  Iq  stesso, v'i  esorto  ad uno.  xid  uno  I é tutti  insieme che  órdinialé  m bene, almeno  il  presente:  àmpcrocchò'JèUcissimamente  governasi una  repubBlica, la  qual  si  èontempera  alle sue  cose;  quegli  è il  consiglierò  migliòre  che  pòrge  il parer  suo  per  cònio  di  utile  pubblico^ -non  di  nirnidxte  private  o furóri;  e benissimo  lei.  porgerà  su'tempi di  poi  chi  pigha  esempio  delle  cose  JWhtre  dalle  passale. Noi.,  o padri,  quante  sfolte  si disputò, si  'donlése  tra'l  Senato  e tra ’l  popolò  ; tante  ne  àvemmo per  alcun  modo  lapeggio  con  morti,  v  esilj, con sfingi' (T  Uomini  insigni.  Or  quale  sciagura  maggiore per  una. repubblica  che  le  si  tolgano  i cittadini  migliori, ò senza  Una  cauia  ? Pertanto  io  vi  esorto  che questi  ve  ù risparmiate;    gettiate  i consoli  presenti a''màmfesti  pericoli, abbandonaisdoli  poi  tra  la  tempesta, al  pentimento.  Deh!  che  non  gettiate  ai ‘pericoli niim  altro  qualunque,  e sia  pur  egli  piccolissimo per  la  repubblica.  La  principale  fierò  delle  cose  che vi' raccomando, è che  mandiate  deputati,'qiusli  nelle grecite  città  d"  Italia, e quali  in  Alene  ; perchè  vi cerchìn  le  leg'gi  migliori, e più  confacevoli  a’ nostri costumi,  e Sce  le  fìpot'i.iio:  che  Ibrnnti  questi,  i consoli propongano  al  Senato, quali  debbansi  'scegliere per  legitlatori  con  Jfual  potere,, per  quanto  tempo, e cosp  altrettali  come  egli  le  crederà  spedienti  : finalmente che  lasciate  le  discordie  col  popolo, e di cofinetlervi  disgrafia  a disgrazia, principalmente  per una  legislazione, la  quale  ha  seoo, se  tiòn  altro   uM apparqto  'almeno  di  maestà. . Seooodarooo  i dpe  consoli  ài  parer  di  Rqntiliò con  più  ragioni  premediut^  e, molti  altri  xonsiglieri  lo secoodaronof;  tanto  cbè  la  plorftità'vi  ^ deprsj^.  E già già  se ne  slendeva  ài  decreto,  quando  Slocio'.il^  trtbimot quegli  cbe  zyevz  accusalo  iLomilio  sorse,  e fattone  ekn gio  copioso, ne  laudò  la  mutazione, e cbe  non  ayesse anteposto  Je  nimicizie  sue  all’  util  comune,-,ma  ^tto ingennào^entè  9ÌÒ.  eb’era  il  bene.  Peritai  meritp^  soggiunse, IO  gir  rendo  qvesC  ossequio, 0 ^ptesta  ricono^ saenza  : io  U>  assolvo  dalla  multa  impostagli' nel  giudizià, e dà  pra  in  poi,  me  ^ riconcilio  : perocché  ci ha  sopra^atlo  ftel  .bpne.  Egli  disse } e già  altri  tribuni presenti  acconsenlironò.  I^on  sostenne  RomiUodà,  prenderne quel  conlnccambio  ; ma  lodati  i .tribuni  protestò cbe  pagherebbe  la  multa,  essere  questa  sacra  ai  numi: e non  fare cosa    giusta    pia,  chi  spoglia  h numi di  quanto  si  dee  laro  per  legge  : e.  coti  £e$;9.  Steso  il decreto  dal  Senato, 'e  confermato  dal  popolo, ' furono eletti  a prendere  le  leggi  da  Greci  Spurio  Posiiunio, Setvio.  Sulpicio, ed  Aulo  MalHò .  Furono,  questi  a ' ., " ^ „   In  Lirio  si  legge  PuM Sulpicio  .in  laog'o  di  Servio  Salpido come  scrivesi  '.in  Dionigi.  Servio  Sulpicio  fu  eOosdle  l'anno  193,  ma Publio  non  si  trova  cbe  'mai  lo  fosso.  Tanto  Liiio  quanto  Dionigi numeraao  Aulo  Manlio  Ua  i depùiati,  cd.  Aulo  Maoliq  seooado pubbliche  spese  forn^  di  triremie > di  ogni  arredo  ; quanto  si  convenisse  ialia  maestà  ' dell' impéno  ; e cosi l’anno -spirò.  ' LUI.  Nella  olimpiade  ottantesima  seconda,  quando Lieo  Tessalo'  di  Larissa  vinse  allo  stadio, e Cherofiino era  l’arconte  di  Atene,  compiutosi  1’ anno,trecentimo dalla  fondasionb  di  Roma,  cretti  consoli  ' Publio  Orazio, e Sesto  Qaintilip  j, proruppe  nella ^città  up  morbo coptagioso, il  inaggioi%  di  quanti  ue  erano  ricordatL Vi  'perirono  quasi  tutti  i sèrvi, e circa  .Una  metà  di cittadini.  Non.  piò  i medici  avean  cuore  d(  curare  gl’ iniermi, non  i domestici, non  gli  amici  di  porgere  loro le  cose  necessarie  ; perocché  volendo 'assistere  gU  -altri còl  tatto  e col  commercio  ne  coutr^evan  i malu  Donde è che  piò  famiglie  si^  desolarono  per, deficiènza  di  assistenti. Non  era  la  minima  delle  sciagure  quella  so  la esportazion  decadaveri,  ^ certo  era  causa'.cliè  il  morbo non  venisse  meno  subitamente.  Su  le  prime  per  la  verecondia, e la  copia  de’  funebri  apparecchi  bruciavano o seppellivano  i -morti  : ma  poi  curando  poco  la  verecondia, o non  avendo  ciocché  bisognava, ne  gettavano molti  nelle  chiaviche, e più  ancora  nella  corrente  del fiume.  nd’  è che  spinti  ai  scogli  e alle  arene  delle rive, songeane  danno  gravissimo  ; perchè  spiccavasene Oiooipi  fu  contotq  r aono  s8o  i laddove  io  Livio  leguaai  .ia  quell’anno per  coufole  G.  Manlio.  S;  dunque  ì deputali  erano,  còm'a veri$imile,  tuui  uomini  co^olari, il  tèstodi  Dionigi  in  questi -luegbi  trovasi  più  eastigato  che  quello  di  LCvio.  t .-(t)  Aono  di  Roma  3oi  secondo  Catone,,  3o3.  secondo  Varrone, e 45  av.  Crisio.    "‘uBao  x;  '7 un odor  fetidissimo,  il  quf^e  col  corso  dé’ reali  causava subite  mutezioni  ai  corpi  anche  saqi.    l’acqua  portatq dal  dame  era  più  buona  da  beveme  si  per  1’  odor  tri sto,  ri  per  le  ree  digestioni  a designarvi  i consoli,  e designatili ', propoiTebbero'  io sieme  con  questi  ai  padri  la  scelta  de’  legislatori.  ^ Aocordativisi  i tribuni, essi  intimarono  -i comizj  prima assai  deir  usato, e destinaieno  consoli  Appio  Clandio, 0 Tito 'Genuzio.  Dopo  questo  .omettendo, quasi  già fòsser  di  altri,  .tutte -li  cure  {fùbliliche,  più  non  datano ascolto  ai  tribuni  ',  e solo  miravano  a sottrarsi  di briga nel  resto  delia  loro  raagistratnra.  Occorse  intanto  cbo Mencaio  l’ iroò  de’  consoli s’  ìnfernuMe  di  juna'  lunga malattia, e vi  fu  chi  disSe  che  il  languore  sopravvenutogli per  -l’ affanno  e per  1’  abbattimento,  la  rendeva  in sanabile.  E'  Séstio  sol  titolo  che  egli  non  "potea’  solo  per. . 1, a()9 aè  fiir  aiedle,' respingeva  4e  istanzt  de’ tribuni,^  e voleva che  si  vbigessero  a miO^i  niagislrati.  E questi  non  avendo altoo  lYiodó,  furono  astretti  in  privato,  e nelle  adunanze pufablicbe  dirigersi  ad  Appio, e suo  collega, quantun> qùe  non  avessero  ancora  preso  il  coniando.  Or  gli  ridussero alQue  questi  uomini,  empiendoli'  di  grande  spe> ranza  di  onori  e,  di  potere, se  prendessero  a” cuore  gli interessi  del'popdfo.  Imperocché -Appio  iu  invaso  dal1’  ambizione  di  avere  una  qualche  nuova  magistratura, di  fondare  leggi  di  cònCordia  e di  pace",  e di  far  che tulli  estimassero  'che  la  patria  sola comandava^u‘  citu dini.  Ornato  però  di  una' grande  magistratura  non  vi  à contenne;  ma  inebbriàtone  da’ poteri  sublimi,^^tr^orse ai  furori  di  perpetuarsela, e per  poco  non  giuose  alla tirannide  ; cqme  spbirò  ne’ suoi  tempi. Allora  dunque  cosi  pensaodota  con  cuore  -buono, '6no  a {lersuademe  il. collega  egl’ invitato  più' volte  dai tribupi  alle  adunanae, vi  'si  (^dusSe, e 'tenpevi  molti ed  umani  ragionamenti.  I quali  rigiravansi. ip  t^eslo che  piaceva  a hd  come  al  collega  suo',  prÌTtcipalmeiUe che  si  destinassér  le  leggi,  e si  chetassero. le discara die  civili  su  diritti  ; e diceano  ciò  ' palesissimàmeute  ; come  pure  che  ''essi  ',  perchè  non  entrati  al  comando, non  aveano  'facoltà  di  nominare  i cosUtutori' delle leggp  ‘ che  noH  si  opporrebbero  per  ' mòdo  'alcuno  a Menenio’  console  e suo  ^collega  se  dava  esecuzione  al decreto  delSenato,  anzi’ che  do  coadj'uverebbero  e ringràzierebbyo  ; che'  se  Menenio  e il  compiano  reylica  e protesta( Soggiungevano), che  trovandoci  noi designati  per  consoli  f Tton  ^uo  ' nominare  altre' magislrature    quali  prendano  podestà  pari' alla  consolare ; noi  dal  canto,  nostro  non  saremo  V ostacolo  della operazione  : perchè  sporttanoi  cederemo  la  nostra  soprastanza, se  cosi  • piace  in  Senato,  ai  nuovi  che  sceglieransi  in. ^ogo  de'  consoli.  Elocomiava  it  popolo'  la buona  volonlà  di  tali  .uomini  ; e spiolMÌ,  tutti  ia  /olla nella  curht, Sesto  ( non  poiendoviai  tcovare  Menenjo per  la  iufern^ità  ) costretto  a convocare  egli  solo  il  Senato, propose  la  deliberazione  su  le.  leggi.  Ben  si  disputò qninci  e quindi  copiosaiaeute da.  chi  lodava  l’essere coiuanihto  dalle  leggi, e da  chi  chiedeva  che  si  ritenessero le  costumanze  paterne:  ma  prevale  il, parere de’  consoli  designati  propostovi  da  Appio  Claudio, interrogatone per  il  pritpo  : vuol  dire  cAe  si  icegliessero dieci  i più  cospicui  tra  padri  : che  forrtandastero  su tutta  la  repubblica  per  un  anno  dal  giorno  deità  elezione'col  potere' che 'ci  aveatip  i consoli',  e primari re  : e che-.fiotànto  che  governavanp  i decemviri  .cessasse ogni  altra  .màgislralura:  che  qqesti  proponessero le  leggi  più  utili  alla  ivpubblica, scegliendone  le  migliori da  quelle  riportate  pe'  deputali  dalla  Grecia, e dalle  usante. della  patria;  che  le  leggi  scritte  da  decemviri, approvale  • che  fissero  dal  Senato  e ratificate dal  popolo,,  valessero  per  tutto  f avvenire;  e che  i magistrati  che  si  creerebbero  a norma  di  queste  leggi, discutesteror  a rtórma  appunto  di  esso  i,  conti  atti d'e' privali,  e pròvyedessero  al  pubblico. .,LYL.  Preso  questo  decreto  ne  anderonò  i tribuni al/ adunanza,  e letto  velo;  assai  vi  encomiarono  i padri, ed  Appio  che  lo  aveva  proposto.  Giunto  poscia  il  tempo :^ . ‘ 3oi de’  comizj, i iribun!  convocatovi  il  popolo, fecero  ve Dirvi  i censoU/ designiti  perchè  g[li  osservà^ro  le  promesse: e questi  presentatisi  ; deposero  il  consolato.  Non finiva  il  popolo  di  encomiarli  e lodarli:  fattosi  quindi a dare  il  voto  pe’  legislatori scelse  a tal  grado  -ipiestl due  per  i 'primi.  Imperocché,  ne’  comizj  per  centurie furono  eletti  legislatori  Appio  (gaudio,  e>Tito  Genuzio^ li  due' che  doveano  èsser  consoli  l’anno  seguente  :  Pu blio 'Sestiò.,  insqle ^ dell’ anno  corrente,  li  tre  Publio Postnmió, Cervio  Sulpicio, ed  -Aulo  Mallio  -,. r qusfli aveano  riportate  le  leggi  da’  Greci;  Romilio  il  console dell’  anno  antecedente    il  quale  condannato  peo  le accuse^  di'  Sfócio  dal  popolo, fu  poi  sentito  il  primo  a dir  senlèDEe  fautrici ^ cemVirato • f Dettesi  quinci  0 quindi  più  cose' vinse' finaltnente.il  partito  di  chi  consigliava  che    tenesse  ancorsi il decemvirato  su -là  repubblica;  peroccbè' compilata  in picciolo,t$mpo  la  legislazione  non  pareva  La  .tutto  ultiosata.,  e -pareva  ancora  ;che  bisognasse  un  magistrato assoluto  per  .obbligare, volessero  0 no, tutti, a quanta ne  èpa  già -stata  decretata.  Ma  ciò-,cbe  gl’. indusse  più che  tutto,  a preeleggere  i dieci. fu, rinlenlo  di  spegnereil  tribunato, ciocché  bramavano  sommanaenie.  ''Tali  fatono  i risaltati  delle  pùbbliche   cousuUaziom  : ma.  in privato  i primi  del  Senato  disegnavano  procurare  per sè  quel  magistrato  Sui  timore  che  intrqduceodovisi  uomini turbolenti  nen  cagionassero  grandi  sciagure.  Il  po polo  ricevè  con  diletto, e ratificò  Con  pieno  trasporto, dandone  -il  voto, le  sentenze  -dej  Senato.. I dieci  prefissero il  tempo  de’.comiàj-,  e li  più  provetti  e più  rispettabili de’  patrizi  ambirono  quel'  magistrato,  b  fptì molto  ebeomiato  da  tutti  JVppio, il  pruno  ^allora  del decemvirato,  ed  il  popoip  vo)ea  .couifermarvelo, -come se  niou  altro  meglip  di  lui -lo  remerebbe.  Egli fingea su  le  prime  di  escusarsene  e 'cbiodeva  ebe  Ip  esimessero  da  nn  incarico, pieno  di  travagli  e d  invidia  : ma poi  Btimolandovelo  tutti;  fecesi  a chiederlo  nottamenle  ; anzi  dolendosi  dei  migliori  ' de’ competitori, come  di animo  non  buono  verso  lui  per  4a  ' invidia  ; favori  gli amici  suoi  palesissimamente.  Egli  dunque  nc’comizj  per centurie  fu  crealo  per  la  seconda  volta  datore  di  leggi: e eoa  esso'lai  furono  creati' Quinto  Fabio  detto  Vibo^ lado, già 'per 'tre  volte  console;  edirreprensibile  6no a quel  tempo  in  ogni  bel  costume  : e ira  gli  altri  pa-^ trii)  diletti  ^uoi;  Mai‘co' Cornelio,  Marco  Sergio,  Lucio MinuCio, Tito  Antonio, e Manio  Rabulejo, .uomiut non  molto  chiari  : de’  plebei  poi  Quinto  Poetelio, Cesbne  Duellio, e Spurio  Oppio.  Aveaci  Appio  assunti por  questi  per  adulare  il  popolo  coi  dire  che',  1’  equità voleva, • he, stabilendosi  una  magistratura  uòica  su tutte  le  -còse  ; aves^ro  parie  in  essa  anche  i plebei. Applaudito  in  unte'  queste  cose,. e ‘parendone  il  migliore dei  re, e de’  soprastand  annuali  ; prese  la  magi.i stratura  per  l’ anno  che  seguiva.  Or  questo  e non  altro ' è quanto  si  operò  degno  di  ricordauza  nel  primo  decemvirato presso  de’  Romani. Presero  nell' anno  ^guente  -la  podestà  suprema i dieci  con  Appio  alle  idi di  maggio.  Allora  i mesi legolavausi  colla  Iona, e cadeva  in  quelle'  idi  appunto il  plenilooio.  Or  prima  legandosi  tra  sagrifizl, arcani alla  plebe, convennero  di  non  contrariarsi  mai  fra loro,  'di  ratificare  tutti  quanto  ciascuno  giùdicherebbe: di  ritenersi  la  magistratura  ih  vìta\    Jasciare  che altri  vi  sottentrasse  : di  aventi'  tutti  onore  e potere eguali  : di  ricorrere  di  rarii, e per  necessità  sola, ai. . 3o5 i>oti  del  Senato  e del  popòlo, e di  ultimare  per  lo più  le  cose  colC  autorità  propria.  Poi  jrenuto  il  gio;^o da  pigliare  il  comando, ( è questo  giorno  sacro  ai  Romani, e guardansi  tutti  di  ascoltare  o vedere  cose  non liete  ) ^ fatto  prima  sagrifìzio  agl’ Iddìi  secondo  il  rito, uscirono  ben  tosto  i.  dieci  su  la  mattina  con  tutti  i distintivi di  nn  regio  potere .  Come  il  popolo  vide, che  non  osservavano  più  |e  mauiere  popolari  e, modeste di  preminenza, e che  non  avvicendavan  fra  loro  come prima  i segni  del  comando  supremo;  assai  ne  decadde nell’  aspetto  e nell’animo.  Temè  le  scuri  messe  tra’ fasci portati  da  dodici  licori  dinanzi  a ciascuno,  i quali  facean  largo, dando  de’  colpi  come  prima  ai  tempo  dei re.  Era  stator  questo  costume  abolito  ben  tosto. dopo  la espulsione  dei    da  Publio  Valerio, uomo  popolare, quando  ne  succedette  al  comando.  E paréndo  essere stato  autóre  di  ottima  cosa;  tutti  i consoli  posteriore  fe> cero  come  lui,    più  misero  tra’  fasci  le  scuri,  se  non quando  marciavano,  all’ armata,  o per  altro  intento  uscivano da  Roma’.  Or  quando  portavano  guerra  agii  esteri, quando  visitavano  i sudditi,  assuiueans  le  scuri  ; .perchè r aspetto  terribile  di  esse-,. come  dirette  contro  de’  nemici e de’  servi, si  rendeva  mec  grave  pe’  cittadini. LX.  Veduto  ciò,  che  riputavasi  il  segnate  di  nn  regno, si  temè, come  ho  detto, moltissimo, credendosi pòduta  la  libertà, e creati  dieci  per  un  solo  monarca. Con.  tal  modo  sbalordirono  i dieci  la  moltitudine  : e Roma  Catone Varrous, e 448  ar.  CrJslo.  ' '1 PlOStGt, Itipu)  in.  '.  IO fermi, cbe  avrebbero  a dominare  per  1’  avvenire  col terrore  ; ciascuno  fecesi  Un  seguilo    ^oyanl  i più  leDterarj, e opporiuui  per  esso.  Ben  era  da  aspettare, o sperare  cbe  i più  de’  poveri  e sciaurati  si  dimostrassero fautori  della  tirannide  ; anteponendo  l’  utile  proprio  al pubblico  ; ma  non  era  da  aspettare, nè  da  sperare, e certo  egli  fu  meravigliosissimo^  che  molli  patrizj  potendo grandeggiare  per  'sestauze  e per, sangue  soffrissero  di opprimere  co’  decemviri  la  liberi^ della  patria.  ' Costoro datisi  a tutti  i piaceri, quanti  sottopongono  1’  uomo, comandavano  superbissitnamente  : e legislatori  insieme  e giudici, tcncano  per  niente  il  Senato  ed  il  popolo,  ed uccidevano  e spogliavano, conculcando  ogni  diritto.  E perchè  azioni  illegittime  e biasimevoli  sembrassero  noux indegne,  anzi  operale  per  giiislizia;  nomsi  accingevano a farle  se  non  previo  esame,  ed'uu  giudizio.  Erano gli  accusatori  inandaii  da fondatori  stessi  delta  tirannide, creali  i giudici  dal  ceto  de’ loro  amici;  laDlochè  solcano questi  in  coniraccaràbio  sentenziarne  per  compiacerli. Molte  cause  però',    di  poco  rilievo,  le  defìnivano  i dieci  per  sesiessi.  Cosi  quelli  che  erano  per  essere  defraudali del  loro  diritto, non  trovando  altro  scampo, conducevansi  necessariamente  a renderseli  amici.  Ood’  è che  col  volgere  del  tempo  videsi  la  parte  corrotta  ed inferma  maggiore  della  innocente.  Imperocché  coloro che  v'  erano  concul^cati  da’  decemviri  sdegnavano  di  rimanervi, e si  ritiravano  nelle  campagne, Bspettandovi il  tempo  de  comizj, ^quasi  coloro  finito  1’  apno  fossèro per  deporre  il  comando, ed  eleggete  nuovi  ^nagislrali. Appio  intanto  £ i colleghi  ^crisscA)  le.  leggi  che  rimanevano  in  altre  due  tavole,  e le  aulroao  alle  prime.  In queste  eravt  traile  altre  lajegge,  che  non  concodeàsi a^atrizj  il  matrimonio  co’ plebei:  e ciò  non  per  altro, io t j , !•  OLGENDO  la  olimpiade  ottantesipia  ' terza  nella quale  Grisoue  Imero  vinse  allo  stadio  mentre  Filisco era  1 arconte  di  Atene, i Romani  annientarono  il  decemvirato il  quale  governava  già  da  tre  anni  la  repubblica. Ora,  io  tenterò  descrivere  dalle  origini  per  qual modo, quali  nomini, con  i|uali  cause  e pretesti, seguendo la  libertà, si  lanciassero  a schiantare  una  signoria che  ovea  già  profonde  le  radici  ; perciocché  ne reputo  la  cognizione  bella  e necessaria  principalmente al  Glosofo  die  contempla, ed  all’  uomo  dr  stato  che amministra, per  non  dire  a tutti.  E certo  .molti  non  si contentano  ^ conoscere  dalia  storia, solamente  come gli  Ateniesi  ed  i Lacedemoni  vinsero, per  esempio',  la ^ guerra  col  Persiano, aiTrontandosi  in  due  battaglie  navali ed  nna  campale  contro  un  barbaro  che  area  tre milioni  di  nomini, essi  che  'aveano  appena  cento  dieci mila  nomini  insieme  cogli  alleali;  ma  vogliono' por  co, noscere  dalla  storia  i luoghi  ove  occorsero, .ed  kiten dere  le  cagioni  per    quali  si  compiecono  le  meravigliose ed  incredibili  gesta, come  apprendere  quali  fossero i duci  delle  armate  greche  e persiane, nè  essere, per  cosi  dire, defraudati, di  cosa  niuna  fatta  ne’  combattimenti. Imperocché  dilettasi  la  mente  dell’ nomo  por, tata  quasi  per  mano  dai  racconti  alle  opere, e come  a vederle  dopo  ascoltatele;  E quando  gli  uomini  odono le  civili  vicende, non  appagansi  di  udire  la  somma  ed il  termine  degli  ’ affari, per  esempio.,  come  gli.  Ateniesi permettessero  el^e  gli  Spartani  demolissero  le  mura, conquassassero  le  navi  di  Atene, ponessero  guarnigionè nella  Iqr  cittadella  è vi  trasmutassero  il  governo  del  popolo in  quello  de’pochi^  senza  nemmeno  combattere  (.i); ma.  bentosto  dimandano  quali  erano  le  angustie  di 'quella città, onde  incorse  in  tali  orrori  è miserie, quali  e di chi  li  discorsi  che  ve  1’  acchetarono, e quanto  seguila tali  cose.  Dilettarsi  poi  della  contemplazione  totale  di quanto  concerne  gli  affari  è cQmifuq  a tutti,.  come  agli uomini,  pubblici, tra’  quali  colloco  àncora  i fUosofì, quelli  almeno  che  pongono  la  filosofìa  non  già  nelle   Occorsero  tali  fatti  oelf''aoao  Hltimo  detta  goeri'a  del  Pelopoaneso  ; conws  pu&  vedersi  io  Senofoute  nel  libro  secoado  lAasxnel  lib.  -i3  di  Di  odoro, t nel  LitandrQ  di  Plutarco.,  I parole, ma  nelf  esercizio  delle  opere  belle.  Cd  oltre questo  diletto,  ne  segue,  > no, e riducendd' quanti  ner  credevano  IntorTerablle  il giogo  ; a lasciare  colle  -mogli  e co’  figli  lo^  patria, ed alloggiarsi  nelle  città  vicine,  ricevutivi  da’Lallni  in  forza de'parentadi, e dagli  Eroici  per  essere  stati  di  fresco creati cittadini  da'  Romani.  DI  guisa   teaoo  traversarne  'le  opere  ; nè  vi  rimasero  nemmeno gli  asciiitl  al  Sentito  I qu^li  doveano  per  necessità  star pronti  pe’  decemviri  ; ma  l più  trasferendosi  con  quanto aveano  in  famiglia;  dimoravano,  abbandonate  lo  case, per  le  carrqiagne.  Non  dispiaceano  gli  allontanamenti de’  grandi  personaggi  agli  amatori  del  decemvirato  per più  cause,  e principalmente,  perchè  I più 'giovani  di questi  erano  divenuti  don  che  scellerati,  molto  insoleati, né  poteauo  tollerare.  1’  aspetto  di  qtielll, innanzi  dei quali  doveano  arrossirsi  della  loro  impudenza. III.  Derelitta  cosi  la  città  dal  fior  degli  uomiai  (^), e cadùlavi  ogni  libertà  ; gli  Equi  già  vinti  da'  Romani, cogliendo  la  Occasion  propizia  di  combatterli, di  con   Anuo  di  Roma  3o5  Mcondo  Caioua,  ìof  ascondo  Vartoae, c av.  Cristo. Digitized  by  Googie 3i2  delle  antichità’  romane traecambiarlt  delle  iogiorie  sostennlene, e riveodicarsi quanto  perduto  ci  aveano, apparecchiaronsi  all’ armi, e marciarono  con  grandi  eserciti  contro  di  lei',  malconcia pel  comando  de’  pochi    idonea  a tener  fronte, nè  a concordarsi, nè  a'  cura fecesi  innanzi  e disse  che  portavasi  a -Roma,  la  guerra,  da  due  parti, quinci  dagli  Equ^, e quindi  da’  Sabini  ; tenendovi  un discorso  ariifiziosissimo, indirilto  a far  votare  la  leva delle  milizie  e condurle  imipzntioeDtc  in  campagna, non  peùnetteodo  T Ifare  che   indagiasse.  Or  lui  cosi dicendo  insorse  Lucio  Valerio,  soprannominato  Polito, uomo  che  grande  tenessi  |>e' grandi  genitori:  certamente era  stalo  padre  di  lui    più,  importano, conte  sarebbe  il  buon  ordine  della  moltitudine,  e che la  cosa  stessa  apparisca  utile  a tutti, rimovendo dalla  città  la  ingiustizia  e la  soverchieria  che  vi  domina, e rendendo  l’  antica  forma  al  governo;  in  tal caso  sbattuti  quelli  che  ora  inorgogliano, e gettate le  armi,  verranno  a noi  tra  non  molto  per  saldarne le  ingiurie,  e trattare  la  pace  : e noi,  ciocché  i savj tutti  desiderano, potrein  finir  senza  le  armi, la guerra  con  essi.  Or  ciò  considerando,  poiché    grave tra  le  mura  è la  turbolenza  ; io  giudico  che  debbasi per  ora  sospendere  ogìti  cura  di  guerra,  e concedere a chi  vuole  di  proporre  mezzi  di  concordia, e buon ordine  interno.  Noi  chiamati  da  queste  magistrato non  abbiamo  potuto  già  prima  di  essere  addotti  a questa  guerra, consultare  su  lo  stato^  de’  nostri  pubblici affari,  e conoscere  se  scóncio  alcuno  ci  avesse. Ed  ora  assai  riprensibile  sarebbe  chi,  lasciata  la occasione, •cercasse  di  altro  discorrere  : e niuno  dir può  con  sicurezza  che  trascurato  questo  tempo,  come men  congruo,  un  altro  ne  avremo  pià  acconcio.  Anzi se  alcuno  vuol  concludere  V avvenire  dal  passato  ; trascorrerà  gran  tempo  senza  che  possiamo  qui  riunirci per  deliberare. IX.'  Io  prego  te, Appio, e voi  tutti  presidenti  di Honta, voi  che  dovete  provvedere  non  al  bene  vostro privato, ma  a quello  Ai  tutti, a non  corucciarvi, se io  parlo  secondo  la  verità, non  secondo  il  genio  vostro. Voi  dovete  por  mente, che  io  parlo, non  per malignare,  o vilipendere  il  vostro  magistrtUo;  ma  per additare, se  pur  vi  è, una  via  di  salvare, e dirigere la  repubblica, dopo  mostratine  i /lutti  da’  quali è sbattuta.  Quanti  han  cara  la  patria,  debbono  forse qui  tutti  discorrere  dell’  util  comune, ma  io  principalmente. Imperocché  io  debbo  per  la  onorificenza fattami  dar  principia  ad  opinare  : e saria  vergogna e stoltezza  grande,  se  io  che  sorgo  il  primo  non  dicessi le  cose  che  prime  son  da  correggere  : Appresso trovandomi  io  zio  paterno  di  Appio  il  capo  decemviro,  accade  che  più  di  tutti  mi  consolo,  o rattristomi secondo  che  bene  o non  bene  governano  la  repubblica. Aggiungi  che  ho  io  ricevuto  da’  maggiori  miei la  civil  consuetudine  di  curare  anzi  l'  utile  -pubblico che  il  mio, senza  guartlare  a privati  pericoli  ; nè  io, la  tradirò  io  questa  civil  consuetudine, nè  profanerò le  gesta  di  que'  valentuomini.  Orjt, che  il  governo presente  male  a .noi  si  conviene  anzi  che  incomoda, direi  quasi  tutti  ; siane  questo  l’  argomento  gravissimo, che  quanti  trattavano  le  cose  civili  ( nè  già  potete voi  soli  ignorarlo  ) ràiransi  ogni  giorno  da  Ho  3ai ma,  lasciando  le  paterne  case  deserte.  Qual  de' plebei più  rìguardevoli  trasferisce  la  propria  sede  colle  mogli  e co' figli  nelle  città  più  vicine, e quale  nelle campagne  più  lontane  da  Roma  : E molti  de'  patrizj nemmen  essi  in  città  se  ne  vivono,  ma  li  più  si  dimorano per  le  campagne.  Ma  che  giova  parlare  degli altri  j quando  appena  in  città  se  ne  stanno  alcuni pochi  senatori  uniti  a voi  per  amicizia  o per  sangue, e cercan  gli  altri  la  solitudine  più  che  la  patria?  E quando  voi  v'aveste  il  bisogno  di  adunche  il  Senato, tornarono  invitati  ad  uno  ad  uno  dalle  campagne que'  dessi  che  solcano  insieme  co'  magistrati  guardare la  patria,    mancare  mai  da  affare  niuno  della  repubblica. Or  tdie  pensate  voi  che  gli  uomini  ahbandonande  la  patria  fugano  i beni  o li  mali  ? certo che  i mali.  E t essere  abbandonata  da  plebei, derelitta da'  pevrizii  senza  incontri  di  guerra, di  pestilenze, e di  altri  disastri  mandati  dal  deh,, ella  è sciagitra  questa  non  seconda  a niuna  per  una  città, massimamente  per  Roma, la  quale  abbisogna  di molle  milizie, tutte  sue  ; se  vuoi  dominare  stabilmente su'  vicini. X.  Folete  udir  voi  le  cagioni  che  riducono  i popoli ad  abbandonare  i templi  e le  tombe  degli  avi, e lasciar  diserti  i poderi  e le  case  paterne' ^ e credere ogni  altra  terra  più  necessaria  della  patria  ? Certamente  tali  cose  non  avvengono^  senza  cagioni, ed  io  sporrovele  queste, non  occulterowele.  Molte Appio  sono  le  accuse  e di  molti  sul  vostro  magistrato  : vere  o false  che  siano, noi  cerco  per  ora  : certo  che  vi  si  fatino.  Ninno, se  non  del  vostro  seguito j trova  il  ben  suo  nell' orditi  presente.  I ^andi, figli  pur  essi  di  grandi, à quali  spettavano  i sacerdozj, le  magistrature, e gli  altri  onori  goduti  dai loro  padri, fremono  di  essere  da  voi  respinti  e tolti dalle  dignità  degli  antenati.  Quei  del  celo  di  mezzo che  cercati  la  calma  del  vivere, v imputano  lo  spoglio ingiusto  de  beni  loro, lamentano  il  disonore  che fate  alle  lor  mogli,  la  effrenatezza  verso  le  loro figliuole  nubili,  ed  altri  oltraggi  molti  e gravi:  e la parte  più.  bassa  del  popolo, non  più  arbitra  per  voi de'  voti  e delle  elezioni,  non  più  chiamata  alle  a4unanze, nè, partecipe  di  alcuna  civile  uguaglianza, ve ne  maledice  appunto  per  questo, e tirannico  chiama il  vostro  governo. XI.  Ora  come  voi  correggerete  questi  abusi,  come la  lingua, incolpati  che  ne  siete, accheterete  del  popolo ? questo  è ciò, che  rimanemi  a dire.  Facciane il  Senato  previamente  il  decreto  : fate  che  il  popolo deliberi,  se  torni  a lui  meglio  ripristinare  i consoli, i tribuni  e gli  altri  magistrali  della  patria, o continuare r ordin  presente  : se  tutti  i Romani  avran  caro il  comando  de'  pochi, e dinoteran  co’  lor  voti, che ve  lo  abbiate  voi  questo  comando  ; voi  terrete  un magistrato  legittimo, non  violento.  Ma  se  vorranno di  nuovo  i consoli,  di  nuovo  gli  altri  mostrati  ; voi sarete  decaduti  per  legge, nò  più  crediate  dominare, se  ìton  da  tiranni  su  gli  eguali, non  prendendo  gli ottimati  il  comando, se  non  da'  cittadini  spontanei. E nel  far  questo, o u4ppio, tu  dei  dar  principio, c tu  disciogliere  un  comando  da  te  stahilUo, utile  un tempo, ed  ora  noceyole.  E m’ odi  ciocché  ne  guadagni, se  mi  ti  arrendi,  se  ne  deponi  codesto  malveliuto  comando.  Se  li  tuoi  colleghi  a ciò  s’ indurranno'; ciascwi  dirà  che  buoni  fatti  su  /’  esempio  tuo  vi  si indussero  t laddove  se  questi  si  ostinano  a tenere  un dominio  illegittimo  ; sarai  tu  benedetto  che  volesti, altnen  solo, compiere  il  giusto  ; mentre  i contumaci saran  con  infamia  e danno  gravissimo  degracUtti.  Che se  mai  ( lo  che  potria  ben  essere  ) fermato  v'  aveste infra  voi  secreti  trattali  e parole, pigliandovi  i Dei per  mallevadori, fa  pur  conto  che  siasi  empietadv osservarli, e vera  pietà  vilipenderli, come  contrarf ai  cittadini, e alla  patria.  Imperocché  sogliono  i numi esser  presi  mallevadori  su  gli  accordi  buoni  e giusti; non  su  gV  ingiusti  e vergognosi. XII.  Che  se  tu  esiti  lasciare  il  comando  per  timor de'  nemici, sicché  non  ten  venga  pericolo, nè  sii stretto  a dar  conto  delle  opete  tue  ; certo  non  è ragionevole questo  timore.  Non  è sì  picciolo, non  sì sconoscente  il  Romano  da  ricordare  i tuoi  sbagli, c scortlarc  i tuoi  benefizj  : ma  contrapponendo  i beni presenti  ai  mali  passati  giudicherà  degni  questi  di perdono, c quelli  di  lode.  Potrai  tu  rappresentare al  popolo'  le  tante  belle  tue  gesta  innanzi  del  Decemvirato, ed  in  .vista  di  queste  ottenerne  ajuto  e salvezza, e difenderti  in  più  modi  dalle  accuse, come ad  esempio, che  non  eri  tu  che  abusavi, ma  un  altro senza  tua  saputa;  che  non  bastavi  a reprimerlo  come tuo  pari:  o che  eri  necessitato  a soffrire  per  areme altra  cosa  più  utile.  Ma  troppo  lungo  sarebbe  il  discorso, se  numerare  volessi  tutti  i modi  delle  difese. Coloro  che  non  han  discolpa  niuna  giusta, nè  plausibile, pur  confessando  il  delitto, e raccomandandosi, ammolliscono  il  cuor  degli  offesi, con  allegare il  poco  giudizio  degli  anni, la  pravità  de'  tompagnì, la  vastità  del  comando,  o la  sorte  che  travia  ne  calcoli loro  tutti  i mortali.  Or  tu  se  deponi  il  comando, tu  n avrai, lo  prometto, amnistia  generale  de’  mancamenti, e riconciliazione  col  popolo, decorosa  in mezzo  de'  mali. Ma  io  temo, che  il  pericolo  siati  pretesto non  vero  a non  lasciare  il  comando  ] essendo  a mille riuscito  di  rinunciar  la  tirannide, nè  scontrarne  alcun danno  da  cittadini.  Le  cagioni  non  dubbie  sono un  ambizione  vana  che  cerca  le  apparenze  di  una gloria  vera, una  propensione  pe'  rei  piaceri, quali  il vivere  concedegli  de’  tiranni.  Ma  se  pià  che  andar dietro  alte  immagini, e alle  ombre  degli  onori, e de’  piaceri, ne  vuoi  tu  ciò  che  è solido;  rendi  alla  patria la  tua  preminenza, ricevi  le  dignità  dagli  eguali tuoi, acquistati  la  emulazione  de’  posteri, e lascia loro  in  luogo  del  mortala  tuo  corpo, sempiterna  la fama.  Questi  sono  gli  onori  fondati  e veri, questi gt  indelebili  e cari    rincrescevoli  mai.  Pasci  V animo ti.'o  de’ beni  della  patria:  già  non  parrai  di  averglìt.^e  dato  la  menorna  parte,  liberandola  da  signoria ce'ti  dura.  Prendi  esempio  dagli  antenati, considera chs^  niun  d’ essi  mise  affetto  ad  un  potere  dispotico  ^ nè  fu  lo  schiavo  vilissimo  de  piaceri  del corpo  ; eppur  furono  onorati  in  vita, e morti  sono celebrati  da  posteri  ; giacché  tutti  fan  loro  testùnoniama, che  furon  custodi  fidissimi  delC  aristocrazia  ^ che  Roma  fondò, dopo  espulsi  i monarchi.  Non  dimenticare  i detti  ^ non  i fatti  tuoi  gloriosi;  perciocché belle  pur  furono  le  prime  tue  mosse  nella  repubblicUf e pur  grandi  per  la  speranza  ^ che  davano  della  tua virtù.  Deh  ! che  siano  consentanee  ancor  le  altre  tue opere.  Deh  ! ritorna  a quella  indole  tua  Jlppio  figliuolo : sii  nel  genio  del  governo  un  ottimate, non un  tiranno.  Fuggi  quelli, che  adulando, ti  parlano, quelli  pe'  quali, se’  lungi  dalle  utili  istituzioni, errante dal  diritto  sentiero,  già’  wotr  È rzRtstitiLE, CHS  AtTSt  SIA  DI  SSL  HVOrO  SXWDUTO  BDOIfO, DA CHI  già’  FSSSIXO  lo  RStfDk. Xiy.  Quante  volte  dir  ti  volli  tali  cose  da  solo  a solo  j per  instruirviti  dove  le  ignoravi, o per  ammonirtene, dove  vi  mancavi!    già  venni,  per  ciò  sola una  volta  in  tua  casa,  ma  i servi  tuoi,me  ne  rimandarono, e con  dire, che  non  avevi  tu  ozio  da  inti'attenerd  con  un  tuo  congiunto  ; ma  clu:  avevi  a fare cose  più  necessarie  ; seppur  v è cosa  più  necessaria della  pietà  verso  i suoi.  Forse,  i tuoi  servi, ciò  conoscendo y mi  vietarono  di  per    stessi  t entrata, e non  per  tuo  comando.  E ben  io  vorrei,  che  così  fosse. Certamente  questo  mi  ridusse  a parlarti  di  ciò.  che io  volea  nel  Senato, non  avendolo  mai  potuto  da solo  a solo.  Ma  .le  buone, e le  utili  cose  dovunque, 0 rippùj  y son  da  dire  tra  gli  uomini,  piuttosto  che 'JaG  sempre  tacerle.  E che  io  a le  rendessi  gli  ojfizj  dovuti alla  nostra  prosapia  ; ne  attesto  gl'  Iddj  de'  quali noi  dell’ Appio  sangue  veneriamo  i templi  e gli  altari con  sagrifiej  comuni:  ne  attesto  i genj  degli  antenati, a’  quali  porgiamo  del  paro  gli  onori  secondi, e li ringraziamenti, dopo  de’  numi  : e soprattiMo  attesto questa  terra,  la  qual  tiene  nelle  sue  viscere  il  padre, ed  il  fratello  mio, che  io  dedicava  a te  la  vita  e la voce  per  sit^erire  il  tuo  meglio.  Pertanto  desideroso di  rettificare, per  quanto  io  posso, gli  sbagli  tuoi  ti prego  a non  rimediare  male  con  male  } à non  perdere le  cose  tue  mentre  aspiri  ad  altre  pià  gratuli  ; e finalmente  a non  dominare  agli  eguali  e a maggiori, ed  essere  dominato  da' pià  vili,  c più  tristi.  Se  noti che,  volendoti  io  ra^nar  di  più  cose  e più  a lungo, non  so  ridurmici  : perocché  se  Dio  ti  rivuole  a buon senno;  sóprawanzano  le  cose  anzidetle:  ma  seti  abhandona  al  tuo  peggio, sarebbero  indarno, quante io  ne  aggiungessi.  Eccovi, o padri  coscritti, e capi tutti  di  Poma, il  mio  sentimento  per  dar  fine  alla guerra, ed  ordine  alla  repubblica  perturbata.'  Se altri  tien  cose  migliori  a ridirne  ; vincano  pure  te ottime. Cosi  disse  Claudio  ; assai  speranzandosene  i paIri, che  i Dieci  deporrebbero  il  loro  magistrato.  Non replicava  Appio  nulla  in  contrario  ; quando  fattosi  innanzi Marco  Cornelio  altro  Decemviro  disse  : Non  abbisognano, o Claudio,  i tuoi  consìgli:  su  Futile  nostro provvederemo  noi  da  noi  stessi;  perocché  tale appunto  ò'  la  nostra  olà,  da  non  disconoscere  ciò che  ne  giova, nè  scarsi  siamo  di  (uaici, età  consultar nel  bisogno.  Pertanto  dispensati  da  opera  intempestiva ; non  dare  o gran  veccJào  consigli, ove  non se  ne  richiedono.  Che  se  vuoi  di  cosa  alcuna  ammonire t o pià  propriamente, inveire  su  di  Appio  ; inveisci a tua  voglia  y ma  quando  se’  fuor  di  Senato. Quivi  entro  però  di  ciò, che  ten  pare  su  la  guerra t co’  Sabini, e con  gli  Equi, circa  la  quale  se’  chiesto del  parer  tuo  ; e cessa  da  vaniloqui  fuori  di  argomento.  Sorse  a lai  voci  Claudio  nuovamente  tutto  mesto, e pieno  gli  occhi  di  lagrime,  e disse:  Appio  o padri, Appio, presenti  voi, non  reputa  me, lo  suo zio, degno  nemmeno  di  risposta.  Egli  precludemi, quanto  è da  esso, il  Senato, come  già  la  sua  casa. Anzi  levami, a dirlo  più  veramente, dalla  città  ; perocché  non  io  potrei  rimirarvi  di  buon  occhio  un indegno  degli  antentUi, un  emulatore  de'  tiranni.  Io dunque  raccolti  i miei, e le  mie  cose, vammene  tra i Sabini, per  abitarvi  la  città  di  Jiegillo, dond’  è la oiigine  mia, e tenermivi  finché  questi  trionfano  nel sì  bel  magistrato, ma  quando  ( nè  dee  molto  tardare ) fta  di  questo  decemvirato, ciocché  ne  antivedo  ; allora  tra  voi  mi  renderò.  Ma  ciò  basà  su  me.  Quanto alla  guerra, e sue  cose, consigliavi  o padri, che non  diate  sentenza  niuna, finché  i nuovi  magistrati non  si  abbiano.  Cosi  dicendo, e svegliando  grandi  ap> plausi  nel  Senato  pel  maschio  e libero  suo  spirito;  sedette. E qi)i  rizzandosi  in  piede  Lucio  Quinzio  Cincinnato, Tito  Quinzio  Capitolino, Lucio  Lucrezio, e lutti  i primari  1 senatori, seguirono  il  parere  di Claudio. l Digilìzed  by  Google 3a8  DELLE  antichità’  romane XVI.  Comarbatine  i coilegbi  di  Appio;  risolverono di  non  più  chiamare, a dir  la  sua  mente, niodo  io vista  degli  anni,  e dell’autorità  sua  nel  consigliare;  ma solo  in  vista  delia  intrinsichezza, e dell’  aderenza  con esso  loro.  E qui  procedendo  in  mezzo,  Marco  Cornelio fe’  sorgere  Lucio,  Cornelio  il  fratello  suo,  uomo  operoso nè  infacondo  nella  ragione  politica, e già  compagno  di consolato  a Quinto  Fabio  Vibulano, mentre  Fabio  era.  • console  per -la  terza  volta.  Ora  costui  sorto  disse:  Egli  r è mirabile, o padri, che  uomini  di  tatua  età  quanta ne  kan  quelli  li  quali  hanno  prima  opinato, e li quali  cercano  primeggiar  nel  SeiuUo, portino  per gare  politiche,  un  odio  implacabile  ai  capi  dello  stato, quando  dovrebbero, quanto  è d'uopo  difenderli, animare  i giovani  a combattere  intrepidi  per  la  buona causa,  e tener  per  amici,  non,  per  nimici  i sostenitori del  pubblico  bene.  Ma  mollo  pià  mirabile  egli è,  che  trasferiscano    malvolenza  privata  alle  atse della  repubblica, e vogliano  anzi  perir  co’  nemici, che  con  tutti  gli  amici  salvarsi.  Eccesso  di  furore, e direi  accecamento  divino  egli  è questo;  eppure  cosi li  capi  si  comportano  del  nostro  Senato.  Sdegnati questi  che  nel  concoirere  al  decemvirato,  che  ora  accusano, furon  vinti  da  altri  che  apparvcr  pià  idonei, fan  loro  eterna,  irreconciliabile  guerra:  e sì  stolida, e sì  furiosa  ; da  ìovesciare  da  capo  a fondo  la  pàtria, per  calunniare  presso  voi  li  Decemviri.  Vedon essi  la  nostra  regione  in  preda  a nemici  : vedono che  ornai  giungono  a Roma, giacché  breve  è lo  spazio che  ne  li  separa  ; ed  in  luogo  di  esortare, e d’incitare  i giovani  a combattere  per  la  patria, e di soccorrerla  essi  stessi  con  tutta  la  diligenza,  e l’ ordorè, quanto  la  età  loro  ne  ammette  ; vogliono  che ora  voi  provvediate  ad  ordinare  il  governo, a creare nuovi  magistrati, e far  tutto  piuttosto-,  che  conquidere gC  inimici  : nè  san  vedere  che  danno  sentenze, anzi  che  tengono  desiderj  impossibili. XVII.  E certo, fate  cosi  ragione  : il  Senato  emani il  decreto  de'  comizj  : i Decemviri  lo  riferiscano  al popolo, destinando  il  giorno  del  terzo  mercato  dal giorno  presente  ) perocché  -,  e come  staà  mai  valido ciocché  si  vota  dal  popolo  j se  non  compiasi  a norma delle  leggi  ? Poi  quando  abbiano  le  tribà  dato  il voto, prendano  i nuovi  magistrati  la  repubblica, e propongano  a voi  la  guerra  perchè  ne  discutiate.  Se in  tempo    grande, quanto  ve  n ha  da  ora  ai  comizj, si  avanzino  intanto  i nemici,  e vengano  fino alle  mura;  noi  che  faremo,  o Claudio?  Diremo  loro:  atpettate  per  Dio, finché  ci  avrem  fatti  nuovi  magi a straM  ? Certo  Claudio  suggerìvaci  a non  decretare, a nè  riferire  mai  cosa  al  popolo, nè  scriver  le  leve, a se  prima  non  siasi  deciso  come  vogliamo  su'  magia strati.  Itene  dunque,  e quando  udirete  creati  ì cona soli, creati  i magistrati, e tutto  pronto  per  le  armi a tornate  allora  per  trattare  con  noi  della  pace  ; giacB cbè  voi  senza  essere  offesi  da  nei  d avete  i primi a oltraggiato  ; e d ricompenserete, secondo  la  giusti a zia, in  danaro  i danni  delle  vostre  incursioni  : non a però  vi  conteremo  le  stragi  degli  agricoltori, non  le a inginrie, e le  insolenze  sperimentate  da  femmine  in M guuc,    altro  male  insanabile  .  Ed  essi  li  nemici a tal  nostro  invito  useranno  moderazione, e lasciato che  la  repubblica  crei  li  nuovi  maestrali,  e faccia gli  apparecchi  di  guerra  ; tomeran  poi  portando  ùi luogo  delle  armi, suppliche  per  la  pace  ; ed  arren dendo  a voi    medesimi. Xyni.  O pur  stolti  coloro  d quali  van  pel  pensiero tali  delirj  ! e milènsi  noi  se  non  ci  corucciamo con  quei  che  li  propongono:  anzi  sosteniamo  di  udirli, quasi  consultino  su  nemici, non  su  la  patria  e su noi!  Che  non  leviamo  di  mezzo  i cianciatori    fatti? che  non  decretiamo  sul  punto, che  marcisi  a difendere il  territorio, il  quale  ci  si  devasta  ? che  non armiamo  quanti  vi  sono  idonei  de  cittadini  ? anzi, che  non  portiamo  le  armi  contro  le  città  loro  ; ma ce  ne  stiamo  qui  a bada,  ed  accusando  i Decemviri, ideando  nuovi  magistrati, e discutendo  forme  di  governo, lasciamo  quant'  è nelle  nostre  campagne,  come nella  pace, esposto  al  nemico  ? Che    ; che  infine, se  permetteremo  che  la  guerra  giunga  alle  mura, corriamo  noi  rischio  di  essere  schiavi, e che  ne  sia lì  orna  stessa  distrutta.  Non  sono  queste, o padri coscritti,  le  maniere  di  uomini  sani,  non  le  maniere di  una  social  provvidenza, la  quale  antepone  al  ben pubblico  gli  odj  privati  ; ma  le  maniere  piuttosto  tli una  contenzione  intempestiva, di  un  disamar  sconsigliato, di  una  invidia  sciaurata,  la  qual  non  lascia esser  savio  chi  ne  vieti  preso.  Tacciano  per  Dio  le controversie  ; che  tenterò  di  esporre  ciò  che  avete  a decretare  salutevole  per  la  patria, ed  espediente  per  1 101, come  terribile  pe’  nemici.  Stabilite  ora  la  guerra co  Sabini  f e cogli  Equi  : arrolate  diligentissinù  e prontissimi  le  milizie  da  guidare  contro  ambedue  : e quando  la  guerra  abbia  avuto  buon,  termine, quando siansi  in  città  ricondotte  le  milizie  ^ quando  sia  già rinata  la  pace  ; allora  volgetevi  ad  ordinare  il  governo, allora  chiedete  conto  dai  dieci  delle  operazipni  loro  nel  mostrato, allora  createvi  nuovi  magistrati, fondatevi  nuovi  tribunali  ; e quando  da  voi dipendono  queste  cariche  onoratene  i personaggi  che ne  son  degni  ; avvertendo, che  pud  tboppo  non  seb FONO  I TEMPI  Alts  COSE  MA  LE  COSE  AI  TEMPI. Spiegatosi  Cornelio  in  questa  sentenza  vi  aderirono, toltine  pochi,  anche  gli  altri  che  dopo  lui  ragionarono, altri  perchè  la  stimavano  necessaria, come  -convcnien' lissima  a'  fatti  presenti, ed  altri  perchè  piegavansi  e blandivano  i Dieci  per  timore  delia  loro  autorità, la quale  avea  costernato  non  picciofa  parte  de’  padri. XIX.  'Alfine  essendosi  opinato  dalla  più  parte,  e cora parendo  quelli  che  volcano  la  guerra  superiori  di  numero agli  altri  ; invitaron  tra  gli  ultimi  a dire  Lucio Valerio, quello  che  volea  fin  da  principio  proporre  la sentenza  sua, ma  se  fu  ritardato, come  già  scrissi.  Or costui  sorgendo  tenne  questo  ragionamento  : Fedele, o padri  j C inganno  dei  Dieci]  Non  permisero  questi che  a voi  favellassi, com'  io  volea, nel  principio, ed  ora  tra  gli  ultimi  mel  permettono  ! quando  pendano che  io  punto  non  giovi  la  repubblica,  sebbene io  segua  il  partito  di  Claudio, perchè  ben  pochi  vi si  appigliarono.  Che  se  io  mi  dichiaro  per  altro  consigilo, sia  quanto  si  vuole  bonissimo, ne  sarò  vanissimo difensore  ove  io  contraddica  gli  espósti  da loro.  Annoverar  si  possono  facilmente  quei  che  dopo me  sorgeranno  per  dire  : e quando  pure  consentano tutti  con  me,  che  può  mai  risultarmene, non  facendo essi  nemmen  picciola  parte  rimpetto  ai  fautori  di Cornelio  ? Ma  sebbene  io  ciò  veda  ; pur  non  dubito dire  il  mio  sentimento:  a voi  si  spetta,  quando  udito lo  avrete, di  volgervi  al  meglio.  Quanto  al  Decemvirato, e le  cure  sue  del  ben  pubblico^  concepite  che io  ven  dica  le  cose  tutte,  che  il  prestantissimo  Claudio ven  diceva  : e che  debbesi  far  nuovi  magistrati prima  che  votisi  per  la  guerra,  giacché  pur  questo chiedea  con  purissimo  'fine  quel  valentuomo.  Tentò Cornelio  mostrarvi  impossibili  i cos/.ui  su^erimenli, pretestando  il  gran  tempo  che  abbisognavi  per  le  civili r forme, quando  la  guerra  ne  ò sopra.  Egli  mise  in burla, cose  niente  burlevoli, e con  ciò  commosse, ed  ebbe  molti  di  voi:  ma  io,  fofò  vedervi,  che  non è impossibile, no, la  sentenza  di  Claudio  ; come niuno  di  quanti  la  derisero  osò  dirla  nocevole  : e vi mostrerò  come  salvisi  il  territorio,' e puniscasi  chi temerario  danneggialo  : come  ristabiliscasi  intanto  il comando,  che  era  qui  degli  ottimati;  e come  tutto  si compia, cooperandovi  i cittadini, senza  che  niuno tenti  il  contrario.    sarà  già  questa  una  mia  saviezza ; ma  io  non  vi  addurrò  se  non  gli  esempli  di cose  operate  da  voi;  imperocché  qual  luogo  hanno tnai  gli  argomenti  dove  la  sperienza  stessa  ne  ammaestra su  ciò  che  giova  ? Fi  ricorda  che  i popbli  stessi  che  ora  le  manti a/w, spedirono  ancora  milizie  in  un  tempo  stesso, già  è r mino  nono  o decimo^  su  le  terre  nostre  e de^ gli  alleati,  sotto  i consoli  Cajo  Nauzio,  e Lucio  A/i maio  F Foi  mandando  allora  molta  florida  gioventà contro  i due  popoli  ; f uno  de' consoli  ridotto  a triocerarsi  in  luoghi  disastrosi,  non  potè  far  nulla, anzi videsi  assediato  nel  >suo  campo  medesimo, e,  sul  rischio di  esservi  preso  per  la  penuria  de'  viveri.  Nauzio  poi  contrapposto  a'  Sabini,  impegnato  da  battaglie continue,  non  potea  nemmeno  accorrere  verso  i suoi che  pericolavano  : non  ignoravasi  che  se  periva  V esercito  contro  degli  Equi,  non  avrebbe  nemmeno  potuto resistere  V altro  contro  de’  Sabini, riunendosi insieme  i nemici.  E fra  tanti  pericoli  intorno  della città, mentre  nemmen  ci  avea  nelC  interno  suo  la concordia, qual  rimedio  voi  ritrovaste  ? Congregativi su  la  mezza  notte  in  Senato  ( lo. che  giovò  sicuramente ogni  cosa, e dirizzò  la  patria  che  rovinava ornai  miseramente  ), creaste  un  magistrato  solo, arbitro della  guerra  e della  pace,  sospendendo  tutti gli  altri  ; e prima  che  fosse  giorno, ebbesi  un  dittatore neir  ottimo  Lucio  Quinzio, sebbene  si  trovasse allora  non  in  città,  ma  in  campagna.  Foi  ben  sapete le  imprese  operate  dipoi  dal  valentuomo, come  apprestò forze  idonee, liberò  V armata  che  pericolava, e punì  gV  inimici,  pigliandone  fino  il  duce  prigioniero. E fatto  ciò  con  soli  quattordici  giorni, e riparlato quan^  altro  pur  v era  di  male  nella  repubblica, depose il  comando.  Così  niente  impedì,  volendolo  voi che  si  creasse  il  imovo  magistrato, solamente  in  un giorno  ; e così  dovete  > credo, imitarne  V esempio, e scegliere, poiché  altro  non  potete, un  dittatore, prima che  di  quivi  usciate.  Se  trapassiam  questo  tempo, i Dièci  non  pià  vi  aduneranno  per  consultazione  alcuna. E perchè  sia  il  dittatore  nominato  legittimamente eleggete  un  interré  nel  pià  idoneo  de  cittadini; come  solcasi  fare  quando  i re  mancavano, o li  con. soli, nò  si  aveano  affatto, come  ora  non  le  avete, legittime  autorità.  Spirato  che  fosse  per  questi  il tempo  del  comarulo  ; la  le^e  a sé  ne  richiamava  i poteri.  Or  questo  o padri,  che  è sì  fattibile  ed  utile, è ciò  che  vi  eswlo  di  fare.  La  opinion  di  Cornelio porta  la  dissoluzion  manifesta  del  comando  degli  ottimati ; imperocché  se  i Dieci  divengano  una  volta padroni  delle  arme  per  tale  occasione  di  guerra  ; temo  che.  valercnisene  contro  di  noi.  (^uei  che  non voglion  deporre  i fasci, depotranno  essi  mai  le  armi f Considerate  ciò  : "'guardatevi  da  tali  uomini  ; provvedete  contro  tutti  gC  inganni  ; poiché  vai  meglio provveder  che  pentirsi;  cotne  é cosa  pià savia  discredere gli  empj  ; che, credutili, accusarli. Piacque  il  dir  di  Valerio  ai  più  come  potè  rilevarsi dalle  voci  loro  e da  quelli  che  sorsero  dopo  di lui  ; perciocché  doveano  opinare  ancora  i giovani, e questi, eccetto  pochi, lenean  per  bonissitno,quel  consiglio. Cosi  quando  tutti  ebbero  opinato, e le  deliberazioni aver  dovevano  un  termine  ; Valerio  chiese  che i decemviri  proponessero  la  ritrattazion  dei  pareri, c che  di  nnovo  s invitassero  a dire  tutti  i senatori  ; c persuase  ciò  fàcilmente, volendo  molti  di  loro  cangiar eli  partito.  Cornelio  che  avea  consigliato  che  si  desse  a decemviri  il  tornando  deHa  guerra, opponeasi  potentissimamente;  dicendo  esser  questo  un  affare  già  discusso, e portato  giurìdicamente  al  suo  fine  col  voto  di tutti  : pertanto  si  annoverassero  i voti    cosa  ninna  si rìnovasse.  Alternavansi  tali  detti  ostinatamente  a gran voce  da  ambe  le  parti,  essendone  scisso  il  Senato;  perocché tutti  quelli  che  voleano  riformato  il  disordiu  civile, favorivan  Valerio  ; ma  peroravano  per  Cornelio quanti  preferivano  il  peggio, e temeano  de’  perìcoli  da un  cambiamento.  I decemviri  presa  occasione  di  fare  a lor  modo  per  la  turbolenza  del  Senato, si  -attennero  al parer  di  Cornelio.  Ed  Appio, quell’  uno  di  essi, re. catosi  in  mezzo  disse  : JVoi  v abbiamo  qua  convocati o padri  perchè  deliberaste  su  la  guerra  cogli  Equi  e co’  Sabini, e per  questo  abbiam  /alto  che  interloquissero quanti  il  volevano  ^ chiamando  voi  tutti  dal primo  aia  ultimo, ciascuno  ordinatamente, al  suo tempo.  I tre  uomini • Claudio, Cornelio,  e Valerio  in fine, ne  diedero  tre  pareri  ; e voi  tutti, quanti  altri qui  restavate, li  ponderaste  : e ciascuno, udendolo tutti,  espose  il  partito  al  qual  si  appigliava  Tutto fu  a norma  delie  leggi  : ed  essendo  ai  pià  di  voi parato  che  Cornelio  abbia  presentata  la  sentenza  mi^ gliore  ; dichiariamo  che  questa  prepondefa  ; e scritta Ut  pubblicfdamo.  f^alerio  e ti' suoi  partitoni,  annullino se  vogliono, ma  quando  sian  consoli, i giudizj già  finiti  : ed  invalidino  le  sentenze  già  firmale  da tutti.  E'  cosi  dicendo, c comandando  che  io  scriba  legesse  3 decreto  del  Senato, col  quale  ordinava  che  i dieci  làcesser  la  leva  delle  milizie, e ammiuistrasser  la guerra  ; sciolse  1’  adunanza.  Quei  della  panie  decemvirale  ne  andavano dopo  ciò  superbi  e gonfi, come  vincitori, e come  riusciti con  esser  gli  arbitri  delie  arme, nell’  intento, che non  si  abolisse  il  loro  comando.  Per  contrario  quelli che  aveano  voluto  il  bene  della  repubblica  suvansi  timidi e mesti;  come  se  non  più  ne  sarebbero  gli  arbitri in  maneggio  ninno.  Dond’  è che  si  divisero  con  risoluzioni diverse  ; riducendosi  i meno  ' generosi  per  indcde a concedere  tutto  ai  vincitori, e consociarvisi  ; laddove i men  paventosi  teneansi  in  placida  vita  lontani  dalie pubbliche  cure  ; e li  più  eccelsi  di  spìrito  faceansi  ua seguito  proprio,  intenti  a difènder  sestessi,  e trasmutare il  governo.  Capi  di  queste  unioni  erano  Lucio  Valerio e Marco  Orazio, que’  dessi  appunto  che  intrepidi,  proposero i primi  al  Senato  di  ritogliersi  al  decemvirato  : e questi  custodivano  la  propria  casa  colle  armi, e sestessi con  valida  guardia  di  'clienti  e .di  servi  per  non patir  violenza, e non  mostrar  di  temerla  insidiosa  o palese.  Quelli  che  non  voleano  in  Roma  part^giar  coi più  forti, nè  brigarvisi  in  cure  pubbliche, nè  giudicavano intanto  ben  fatto  di  starvi  in  ozio  indolente  ; ne uscivano,. parendo  loro  cosa  non  facile  di  vincere  i dieci  colle  arme,  anzi  impossibile  di  abbatterne  la  grande potenza  ; ed  era  lor  condottiero  1’  insignissimo  uomo Ca)o  Claudio,  lo  zio  di  Appio  Clandio  capo  decemviro^ il  quale  adempiva  le  promesse  fatte  in  Senato  al  figlio del  fratello  quando  stimolavalo  a deporre  3 comando.   xr., 337 ne  T  Io  indusse .  Lui  seguivano  torbe  di  amici  e clienti;  ma,  datovi  da  esso  il  principio,  abbandonarono la  patria  ancor  altri  colle  mogli  e co’  Ggli, non  già  di nascosto  ed  in  pochi;  ma  a moltitudini  ed  in  pubblico. Altronde  i compagni  di  Appio  indispettiti  del  fatto  si misero  ad  impedirlo,  cbiudendo  le  porte,  e ritraendone alquanti  de’  profughi.  Ma  poi  venuti  in  paura, che  gli impediti  si  rivolgessero  alla  forza, e considerando  più rettamente  come  era  meglio  che  uscissero  che  rimanessero, nemici  loro,  a conturbarli;  spalancarono  le  porte, e lasciarono  andarne  quanti  mai  vollero;  incolpatili  però come  disertori, ne  invasero  le  case, i poderi, ed  ogni cosa  non  potata  portar  via  per  l’esilio,  apparentemente a conto  del  fisco, ma  in  sostanza  beneficandone  i loro fautori,  quasi  comperata  l’avessero.  Or  tali  imputazioni date  a’  primarj  esasperarono  più  ancora  i patrizj  e i plebei  contro  ai  decemviri.  Nondimeno  se  qiiesti  non aggiungevano  novi  errori  ai  già  detti;  parmi  che  avrebbero tenuto  ancora  lungo  tempo  il  comando.  Imperocché stavasi  ancora  in  città  la  sedizione,  mallevadrice  del poter  loro, cresciuta  da  tanto  tempo, e per  tante  cagioni : le  quali  facevano  esultare  a vicenda  gli  uni  pei mali  degli  altri  ; li  plebei  perchè  vedevano,  mancato  il cuor  ne’  patrizj, e nel  Senato  ogni  arbitrio  su  la  repubblica; e li  patrizj,  perchè  vedevano  il  popolo  ridotto in  tutto  senza  libertà  e senza  forze, fin  d’ allora  che  i dieci  gli  tolsero  l’autorità  de’ tribuni.  Ma  perciocché  tali decemviri    moderali  in  campo,    prudenti  ìu  Roma,   Vedi  S i5  di  questo  libro.  4 v ptONlGl  > ITI’, la iasistevaDO  con  assai  durezza  centra  l'uno  e Tallro  par ti(o,  lo  astrinsero  infine  a riunirsi,  e deporli  colle  arme stesse, avute  per  la  guerra.  Tali  poi  furono  gli  ulllmi delitti  pe’  quali  svergognato  il  popolo, ne  infuriò. Dopo  che  ebbero  stabilito  .in  Senato  il  de creio  per  la  guerra  ; descrissero  in  fretta  le  milizie, e divisele  in  tre  parti,  ne  serbarono  due  legioni  per  guar dia  deir  interno  della  città.  Piesedeva  a queste  due  Ap pio  Claudio  il  capo  decemviro  insieme  uon^  Spurio  Op pio.  Intanto  Quinto  Fabio, Quinto  Poeteiio  e Manio Rabuleio    andarono  con  tre  legiodi  contro  de' Sabini: partirono  con  altre  cinque  per  la  guerra  .contro  degli Equi  Marco  Cornelio, Lucio  Minucio, Marco  Sergio, Tito  Antonio, e Cesone  Duvilio  finalmente.  Militarono con  essi  le  truppe  latine, e di  altri  alleati, non  meno numerose  delle  romane.  Ma  con  tantb  milizie  urbane, con  tante  ausiliarie, niente  riuscì  loro  secondo  il  disegno. Imperocché  li  nem'tci  spregiandoli  come  nuove  re clute, si  accamparono  vicinissimi  a loro;  e ne  invadevano i viveri  che  erano  ad  èssi  portati, insidiando  le strade, e gli  assalivano  mentre  uscivano  ai  pascoli.  E se  mai  venivano  ordinati  alle  mani,  cavalieri  con  cavalieri, e fanti  con  fami;  riuscivano  da  per  tutto  vincitori i nemici  ; perocché  non  pochi  Romani  mandavano  alla peggio  ogni  cosa, indocili  al  capitano, come  restii  per combattere.  Quelli  che  erano  tra’  Sabini, renduti  sav) da  mali  minori,  deliberarono  da  seslessi  di  abbandonare il  campo:  e levandosene  circa  la  mezza  notte  ripassarono con  una  ritirata, simile  ad  una  fuga,  dal  territorio  nemico nel  proprio;  fino  a Crustumero,  città  nou  lontana Digitized  by  Google tiBno  jfi.  339 da  Roma.  Gli  altri  che.  teneano  il  campo  nell’  Algido della  regione  degli  Equi,  ne  riceverono  ancor  essi  non poebe^  percosse.  Ma  ostinandosi  incontro  a’ pericoli,  quasi a riaversi'  dalie  perdite, incorsero  in  danni  lagrimevoli. Imperocché  spintisi  i nemici  su  loro, cacciarono  quelli che  erano  in  guardia  degli  steccati;  e salite  le  trincee, occuparono  il  campo, e vi  uccisero  i pochi  che  resistevano, uccidendone  anche  più  nell’  inseguirli.  Quelli che  scamparono  colla  fhga,  feriti  in  gran  parte,  e quasi tutti  privi  di  arme,  ripararonsi  al  Tuscolo.  Del  resto tende, giumenti, danari, schiavi  e tutti  gli  altri  apparecchi furono  preda  ai  nemici.  Saputasene  in  Roipa  la nuova  i nemici  del  decemvirato, quelli  ancora  che  ne occultavano  1 odio,  si  dichiararono,  esultando  su  la  rea condotta  de’  capitani.  E già  grande  era  Ja  moltitudine presso  di  Orazio  e di  Valerio,  capi, come  fu  detto, de'  crocchi  aristocratici. XXIV.  Appio  e Spurio  somministrarono  a quelli  che comandavano  in  campo  arme, danari, grano, ed  ogni bisogno,  pigliandone  superbissimamente  da’  privati  e dai pubblico:  e reclutando  dalle  tribù  tutti  gl’idonei  a combattere ; gl’'  inviarono  loro  in  supplemento  de’  morti, e delle  schiere.  Invigilarono  diligentissimi  su  Roma, presidiandovi i luoghi  più  acconci;  talché  il  seguito  di  Valerio non  fosse  occulto  nel  sommoversi.  Commisero  per vie  sécretissime  ai  capi  dell’esercito  di  sterminare  i loro contrari, in  occulto  se  riguardevoli, ma  palesemente  se ignobili,  sempre  però  con  qualche  pretesta,  perchè  paressero giustamente  levati.  Altri  mandati  da  essi  a foraggiare, altri  a proteggere  i trasporti  de’  viveri  ; ed altri  ad  altre  belliche  incombenEe  lisciti  dagli  alloggiamenti, non  furono  mai  più  vedùti  in  alcun  luogo.  Ma li  più  ignobili  accusati _ di  aver  dato  princi'pio  alla  fuga, o portato  secreto  notizie  ài  nemico, o non  mantenuto r ordine,  erano  in  pubblico  trucidati  per  ispavento  comune. Così  le  milizie  erano  in  due  modi  disfatte  : le fautrici  del  -decemvirato  pe’  cimenti  col  nemico, e pei capitani  le  altre  che  ridesideravano  jl  governo  degli ottimati. Appio  co’ suoi  commetteva  in  città  delitti  consimili e non  pochi  : la  plebe  tenne  picciolo  conto  di alcuni  estinti  quantunque  fossero  molti  di  numel-o  : ma la  morte  barbara, ingiusta  di  uno  de’  plebei  più  cospicui, celeberrimo  per  le  belle  virtù  sue  nel  combattere, operata  nell’ accampamento  ov’ erano  i tre  capitani,  decise quanti  vi  erano  alla  ribellione.  Sicciu  fu  I’  ucciso, quegli  che  avea  combattuto  le  cento  v^nti  battaglie, raccogliendone  sempre' il  premio  de’ prodi, quegli  che disobbligato  già  per  gli  anni  dal  > guerreggiàre, si  diè spontaneo  per  'la  guerra,con  gli  Equi  menandovi  per r amor  che  gli  avcano, altri  ottocento,  già  liberi  ancor essi  a norma  delle  leggi  da’  servigj  militari  : quegli  che spedito  dall’  uno  de’  consoli  contro  le.  trincee  nemiche a rovina  come  parea  manifesta;  pur  le  invase,  e preparò pienissima  la  vittoria  pe’  consoli.  Or  quest’  uomo, cercando Appio  co’ suoi  di  levarsel  d’intorno,  perchè  avea molto  parlato  in  città  contro  i duci  del  campo  come codardi  e imperiti  io  trassero  a discorsi  amichevoli, lo  invitarono  a deliberare  con  essi  intorno  le  cose  del campo,  e dire  come  fossero  da  emendare  gli  errori de’  capitani  i e Io  indussero  infine  ad  andare  in  forma di  legato  all’  armata  di  Crustumero.  È tra’  Romani  il legalo  onoratissima  e santa  rappresentanza, con  l’ autorità de’ comandanti,  e con  la  riverenza  e la  inviolabilità de’  sacerdoti.  Lo  accolsero  al  giunger  suo  con  benevolenza i duci, e lo  stimolarono  affinchè  stesse  e comandasse con  essi  ; anticipandogli  de’  doni, e promettendogliene ancora.  L’uom  d'arme,  tutto  ingenuo  in  seslesso, deluso  dai  scellerati,  come  lui  che  non  capiva  i presti gj delle  parole, e quanto  erano  ingannevoli  ; suggerì  loro le  cose  che  utili  riputava,  e soprattutto  che  trasferissero il  campo  dal  territorio  proprio  a quello  de’  nemici  ; additando  i mali  che  ivi  soffrivano, c rilevando  i beni che  da  tale  passaggio  nascerebbero. Fingeano  que’duci  udirne  con  diletto  gli  ammpnimenti  : Adunque  che  non  ti.  fai  tu  duce,  gli  dissero, di  questo  transito, preeleggendone  il  sito  opportuno, tu  si  perito  do'  f ioghi  por  le  tante  tufi  spedizioni ? Noi  ti  daremo  schiera  eletta  di  uomini, espediti  per  armamento  leggiero.  Avrai  tu  cavallo come  alT  età  tua  si  com’iene, ed  armatura  degita. dei tuoi  pari.  Tenne  Siccio  l’invito,  e chiese  cento  uomini scelti.  Quegli,  essendo  ancor  notte,  spediscono  lui  senza indugio, c con  lui  cento  i più  baldanzosi  de’  loto  fautori, istrutti, e mossi  ad  ucciderlo  con  lusinga  ahiplissima  di  ricompense.  Or  questi  giunti,  ornai  ben, lungi dal  campo, in  luogo  montuoso, angusto,  e difficile  di ascenderlo  a cavallo, se  non  di  passo, ordinaronsi, datone  il  segno, in  maniera  da  serrarsi  in  folla  su  lui. Un  tale, sostenitore  e servo  di  Siccio, valoroso  tra  le 34 a,  arme, indovinando  il  cor  loro, diedene  cenho  al  padrone. Il  quale  vedutosi  in  tanto  disagio  di  sito  da  noa potervi  nemmen  slanciar  con  forza  il  cavallo',  ne  salta, e postosi  coir  unico  sostenitore  suo  in  una  balza  per non  esservi  circondato, aspetta  che  ve  lo  assalgano.  Or tutti  ( ed  erano  molti  ) assalendovelo  ; ne  uccide  intorno a quindici,  feritone  il doppio  : e parca, se  lo  assaliva da  presso, che  avrebbe, combattendo, straziato  ancor gli  altri.  Ma  questi,  conceputolo  per  invincibile,  e come non  era    prenderlo  a corpo  a corpo  ; non  vennero in  tal  modo  alle  mani:  ma  tenendosi  lontani  da  lui;  lo fulminarono  con  dardi, sassi, e legni.  Ed  altri  avanzandosi di  fianco  in  &ul  motttc,  e riuscendogli  a tergo, rotolavano  dall’  alto  macigni  stragrandi  : talché  per  la moltitudine  de’  dardi  lanciatigli  conira, e per  la  enormità de’  sassi  che  cade.mu  romorosi  dall’  alto, lo  oppressero in 'fine:  e questo  fu  il  termine  incontrato  da Siccio. Tornaitono  gli  uccisori  co’  feriti  nel  campo, e vi  pubblicarono  che  una  insidia  ióiprovvisa  di  nenrici avea  spento  Siccio, e gli  altri, che  assalirono  i primi, e che  essi  he  erano  a stento  scampati,  ricevutine  molle ferite.  Pareano  questi  dir  vero  ; non  però  si  giaeque occulta  la  loro  per6dia  : ma  sebbene  avvenisse  1’  eccidio in  luoghi  deserti  e senza  testiinonj  ; i fati  stessi  e la giustìzia  che  invigila  le  cose  umane,  lo  diedero  a conoscere per  segni  indubitati -.  Imperocché  quei  del campo  riputando  1’  uom  forte  degno  di  pubblica  sepol  A quella  icotenza  somiglia  quella  lauto  vera  di  Arioslo  can.  6 e tanto  poco  tenuta  in  peotieio  dagli  nomini. tara. e di  onori  distinti  rispetto  degli  altri,  per  più  cause, e'  principalmente  pel  carattere  suo  di  legato,  e per cbè  libero  già  da’  servigj  militari, eravisi  cimentata  di nuovo  per  util  comune;  decisero  di  unirsi  dal  complesso di  tre  legioni  e di  uscjre  cosi  per  investigarne  il  cadavere, onde  riportarselo  con  pieno  decoro  e sicurezza. Concederono  questo  i capitani  per  non  dare  sospetto alcuno  delle  insidie  : e prese  le  arme  uscirono  intenti all’^opcra  bella  e degna.  Giunti  al  sito  e vistovi  non selve, non  valli, non  luoghi  consueti  per  le  insidie, ma  una  balta  tuttar  nuda  ed  aperta,.ed  angusta  a passarla; sospettaron  bentosto  ciocch’era.  Avvicinatisi  quindi ai  cadaveri  % mirato  Siccio  e gli  altri  derelitti,  ma  senza essere  spqgliati;  si  meravigliarono  che-i  nemici,  vincendo, non  avessero  levate  loro  non  le  vesti, nè  le  anni. E specolando  ihtoroo  ogni  cosa, nè  trovando  vcstigia di  cavalli  o di  uomini  se  non  le  impresse  nel  sentiero; tennero  per  impossibile  che  i nemici  fossero  su  loro venuti  improvvisi, quasi  uccelli.,  o uomini  discesi  dal cielo.  Ma,  più  che  questi  e simili  indi^,  il  non  trovarsi ivi  cadaveri,  di  avversar)  fu. loro  argomento  evidentissimo, che  gli  amici  ne  erano  stati  gii  uccisori  e non  i nemici.  Imperocché  non  parea  loro  che  Siccio, e quel Miscr  chi  maV  oprando  si  confida, Che  ngnor  star  debba  il  maleficio  occulto  ; Che  quando  ogn’  altro  taccia  intorno  grida V aria  e la  terra  ittetsa  in  che-d  tepultq^ . E Dio  fa  spesso  che  'I  peccato  guida Il  peccator,  poi  cV alcun  di  gli  ha  indultoChe" si  medesmo, seni'  altrui  richiesta JnavOedutamstnle  mastifesla.  ^44  nF.LT,E  sosteuitore  suo,  e gli  altri, che  seco  perìroofi,  sarebbero morti  inulti, specialmente  se  venuta  si  fosse,  quanto  si può, (la  vicino  alle  mani.  Rac(:olsero.  ciò  ancora  dalle ferite  : perocché  Siccio, come  quel  suo,  sostenitore, ne avea  molte  per  colpi  di  sassi  o di  strali  e di  spade  ; laddove  gli  uccisi  da  loro  avean  colpi  di  spade  si,  non di  sassi, o di  strali  e di  saette.  Adunque  .ne  sorse  indignazione, e claipore, e lutto.  Alfine  compianta  la disgrazia  ; raccolsero  e portarono  il  cadavere  ai  campo  : e là  gridarono  altamente  contro  de’  capuani, esigendo allora  allora  secondo  la  legge  militare  la  morte  degli uccisori  ; o che  sen  fidasse  almeno  il  giudizio  ; e già molti  erano  pèr,farvisi  accusatori.  Ma  conciossiaché  non davano  loro  udienza,  e nascondeano  gli  uccisori,  e^ne differivano  il  giudizio, con  dire  che  in  Roma  darebr bero  a chi  la  volea  la  podestà  di  accusarli  ; ben  vtdesi che  la  trama  era  de’  (ùpitani.  Adunque  portarono  (xm  magnifica  pompa  Siccio  al  sepolcro,  alzandogli  una  pira meravigliosa,  e tributandogli  secondo  il  loro  potere  altre primizie  che  la  legge  concede  negli  onori  estremi  dei valentuomini.  Alienaronsi  allora  tutti  dal  decemvirato; e pensarono  come  liberarsene.  Cosi  l’ esercito  presso Chistumero  r Fideue  era  nimico  a’  suoi  capi  per  la morte  di  Siccio  legato. L'  esercito  acc;impato  nell’  Algido  della  regione degli  Equi, e la  molutudiiie  in  Roma  crasi  per tali  cagioni  esacerbata  tutta  con  essi.  Lucio  Verginio  un plebeo,  non  secondo  a niuuo  nella  milizia,  starasi  capo di  una  centuria  nelle  cinque  legioni,  belligeranti  con  gli Equi.  Avea  costui  per  avventura  una  figlia  vaghissima fra  ratte  le  donzelle  romane.  Ella  portava  il  nome  del padre,  ed  avealasi  pattuita  in  isposa  Lucio  Icilio,  uomo tribunizio,  qome  6glio    di  quell’ Icilio  che  primo  fe’ stabilire, e primo  assunse  T autorità  di  tribuno.  Appio Claudio  il  capo  decemviro  vista  la  verginella  che  leggeva in  una  scuola  ( stavansi  allora  le  scuole  pe’  giovinetti intorno  del  Foro)  bentosto  ne  fu  preso  dalla. bellezza ; anzi  vinto  dalla  passione  era  così  tòlto  a sestes-^ so, che  non  potea  non  passare  più  volte  intorno  della scuola.  Or  non  potendo  torlasi  sposa  come  già  sacra  ad altri, anzi  perchè  egli  avea  pur  moglie, e perchè  non istavagli  bene  donna  plebea  di  lignaggio  contro  il  suo grado  e la  legge  scrìtta  da  lui  nelle  dodCci  tavole  ; su le  prime  tentò  corrompere  co’ danari  la  giovinetta.  Egli mandava  ad  pra  ad  ora  delle  donne  con  doni  e promesse maggiori' alle  nudrici  di  essa,  orfana  già  della madre  ^ avea  però  comandate  le  donne  che  tentavano le  nudrici  a non  dire  chi  fosse  l’amante  della  fanciulla, ma  solo  eh’  egli  erg  un  tale  che  potea, volendo, -beneficare e nuocere.  Non  potendo  però^  guadagnarle, anzi vrt.duta  la  donzella  guardata  più  che  prima, si  mise, caldissimo  che  ne  era  d’  amore, a camminare  altra  via con  meno  ancora  di  sénno.  Fattosi  chiamare  Marco Claudio, r uno  de’  suoi  clienti, uomo  ardito  e pronto ad  ogni  servigio, gli  additò  la  Gamma  sua  : e prescrit(t)  Forse  nipote’,  perchfc  dalla  islitusione  del  tribonato  all' anso prescote  decorsero  45  aooi.  Pertanto  Lucio  Icilio  di  cui  qui  ai  ragiona o era  nipote  ni, Icilio  Ruga,  o coOTÌen  dire  che  di  molto  eccedesse gli  anni  di  Virginia  destinatagli  sposa  ; seppure  non  voglia dirsi  che  Icilio  Ruga  generasse  beo  tardi  quel  figlio.  > togli  cioccliè  volea  che  facesse,  e dicesse  ; lo  spedi  con allato  uomini  impudentissimi.  Costui  recatosi  alla  stuoia, vi  tolse  la  vergine, b volea  recarsela  palesemente  pel Ford.  Impedito  però  dai  clamori  e dal  grande  oucorso,  di  recarsela  dove  avea  stabilito;  venne  al  magistrato. Sedessi  allora  nel  tribunale  Appio'  solo,  rendendo  risposte e r&gioni  a chi  ne  chiedeva.  Or  volendo  colui dire, sòrsene  rumore  e sdegno  tra  circostanti, i quali tutti  reclamavano, perché  si  aspettasse  6nchè  venissero i parenti  della  fanciulla  ; ed  Appio  ordinò  che  in  tal modo  appunto  si  facesse.  Passato  appena  picciolo  tempo; ecco  presentarsi 'Publio  Numitore  nomo  insigne  tra i plebei,  zio  materno  di  lei,  con, seguito  di  molti  amici e parenti;  e dopo  non  molto  ecco  giungere  con  numero poderoso  di  giovani  plebei  Lucio  Icilio,  quegli  che  per le  promesse  dèi  padre  aver  dovea  la  donzella  in  isposa. E questi, tutto  sospeso  ed  ansio  nel  respiro, avanzandosi al  tribunale, addimandò  chi  osato  avesse  toccare la  giovine' cittadina, g (die  mai  ne  pretendesse. Fattosi  intanto  silenzio.  Marco  Claudio,  quegli appunto  che  avessi  preso  la  donzella,  così  ragion:^; O j^ppio  Claudio, niente  ho  io  fatto  di  temerario, niente  di  violento  contro  la  fanciulla. Signore, come io  tono  di  lei, secondo  le  leggi  me  la  conduco.  Or odi  comi  ella  siasi  la  mia.  Ho  io  una  tal  serva  paterna che  ministrami  già  da  tempo  lunghissimo.  Or questa, familiare  che  ne  era, usava  di  andare  alla mo"liè  di  f^érginio;  e la  moglie  di  Ferginio  persuase lei  gravida  a concederle, quando  che  fosse, il  frutto del  suo  ventre.  La  donna, partoiita  una  figlia, ( ed era  questa ) serlà  le  promesse  ; e àiedela  a Numitoria,  con  fingere  presso  noi  che  uscita  fosse  la  di  lei prole  già  morta.  Numitorià  tuttoché  madre  non  fosse di  fanciulli  o fanciulle,  la  pigliò,  la  fé'  sua,  la  nudrì, senza  che  io  sapessi  nel  principio  la  vicenda.'  Or la  so  per  indizj  di  molti  e buoni  testimonj  : io  ho fatto  t esame  di  quella  serva, e ricorro  alla  legge comune  per  tutti  ha  quale  vuole   che  sia  la  prole  non  di  chi  la  impostura  per  sua, ma  di  chi  1’  ha  gene rata  ; e che  libera  sia  se  nata  di  libera, e serva, se  nata  di  serva, de’  padroni  stessi  delle  madri  u. Su questa  legge  esigo  di  riportarmi  la  figlia  della  mia serva, pronto  a subirne  il  giudizio:  Che  se  alcuno  la reclama  per  sua,  dia  certi  mallevadori  di  riprodurla  in giudizio  : ma  se  anzi  vuole  chi^  ora  qui  sen  tratti  la causa  io  lo  secondo, voglioso  c^e  si  espedisca  anzi che  si  procrastini, e che  io  mi  assicuri  con  mallevadoii  la  vergine.  Scelgano  qual  più  vogliono  di  questi partiti. Claudio  cosi  disse  aggiungendo  vive  preghiere di  non  essere  considerato  meno  de’‘suoi  competitori  per  amici, e torlasi  a forza quando  glie  la  ripresent'avano  per  la  sentenza.  E perchè 11  giudizio  fosse  con  buona  forma, sul  pretesto  che  il padre  di  lèi  non  erasi  presentato  ; diè  lettere  a cavalieri fedelissimi, e li  spedi  nel  campo  ad  Antonio, cdroandante  della  legione  ov’ era  Verglnio,  con  ordine  che ritenesse  quest’  uomo  cautissima  mente, talché  udite  le vicende  della  figlia, da  fui  non  s’  involasse.  Ma  Io  prejr vennero, attinenti  che  erano  alla  donzella, il  figlio  di Numitorio,  cd  il  fratello  d’ Icilio, spediti  avanti,  sul nascere  appena  della  sommossa.  Giovani  pieni  di  coraggio fornirono  prima  il  vaggio  sferzando  i cavalli  ed  abbaudonando  loro  le  redini  j e _ narrarono  a Vergitiio l’evento.  E Verginio,  ^cimane  ad  ^Antonio  la  cagione vera, e fintogli  di  aver  udita  la  morte  di  un  suo  pa rente  di'  cui  doveasi  fare  il  trasporto, e la  sepoltura secondo  la  legge, ebbe  il  congedo.  E presso  1'  ora  in cbe  accendonii  i lumi  ; se  ne  andò  con  que’  giovini, ma  per  altra  via, temendo, come  avvenne, di  essere inseguito  da  quei  del  campo  e della  città;  perocché Antonio,  ricevuta  la  lettera  circa  la  prima  vigilia,  spedi contr  esso  una  banda  di  cavalieri,  mentre  un’altra  spe dita  da  Roma  guardò  per'  tutta  la  notte  la  strada  che vi  conduceva  dal  campo.  Ma  non  si  tosto  un  tale  ridisse ad  Appio  che  Yerginio  era  l’unto  contro  la  espettazione;  egli,  uscito  di' senno, ne  andò  con  gran  seguilo al  tribunale, e fece  che  a lui  si  chiamassero  i congiunti della  donzella.  Venuti' questi, Claudio  ripetè  lo stesso  discorso, e dimandò  cbe  Appio  senza  indugio decidesse  l’affare;  dicendo  esser  pronto  chi  lo  esponeva, e chi  lo  attestava, fin  la  serva, madre  vera  della  fanciulla. Simulava  in  tutti  questi  atti. che  assai  si  sdegnerebbe, se  esso  per  essere  cliente  di  lui  non  ottenea come  prima  la  giustizia  egualmente  che  gli  altri  ; e dimandava che  ajutasse  chi  dicea  cose  più  vere,  non  chi più  lamentevoli. Il  padre  della  donzella  e gli  altri  patenti escludcano  la  supposizione  del  parto  con  molti  argomenti giusti  e veri, per  esempio  che  non  ebbe  cagion plausibile  di  farla  la  sorella  di  Numitorio  c moglie  di Verginio  maritatasi  vergine  ad  utl  giovine  la  quale  partorì tra  non  molto  : appresso  perchè  sebbene  voluto avesse  iotradere  in  sua  casa  un  6glio  altrui  ; v’  avrebbe intruso  non  il  figlio  di,  una  donna  schiava, ma  quello di  una  ingenua,  amica  o parente  sua,  onde  ritener  fedelmente e stabilmente  ciocché  TÌce'’eaiée  : ed  arbitra  in tutto  di  Scersela  Come  volea,  scelta  s’  avrebbe  la  prole non  femipea,  ma > vivile}  imperocché  la  donna  che  partorisce, vinta  dall' aderenza  pe’ 6gli  che  partorisce,  ama e nudre  ciocché  la ‘natura  le  porge:  laddove,  la  donna che  imposturasi  un  6g)fO  sei' cerca  del > sesso  migliore, non  del  più  ignobile.  Contro  lui  poi  che  dava  .l’ indizio,'e .contro  i molti  tesu'monjedibili  da  Claudio  come degni  di  fede. allegavano  cagioni  tratte  dal  verisimile  : vuol  dire  che  Numitoria  non  avrebbe  operalo  imai  palesemente e presenti  molti  ingenui  tekùmònj  tur  fatto  che abbisognava  di  silenzio, e che -pbtea' fornirsi  col  ministero di un  solo  ; e c|ò  perché  la  prole  edncatà  non fosse  col  tempo  ritolta  dai  padroni  delia  madre.  Agginngeano  che  la  dilazione  non  picoiola'  era  segno  evidente che  il  calunniatore  non  prolTeriva  niente  di  vero: perocché  colui  che  dié  l’ indiziò  'della  supposlzioue  e gli  altri  che  la  cooteslano  -l’avrebbero  molto  'iuoansi svelata,  non  tenuta  Segretissima  per  quindi^,  anni.  Frattanto redarguivano  le  pròve  degli  accusatori,  come  non vere  'né  credibili,  e chiedeano  che  si  paragoudssero colle  altre  loro,  nominando  molte  doqpe  non  ignobili le  quali  dicevano  aver  veduta  Numitoria  gravida  cOn pienezza  di  utero.  Olirà  queste  ne  additavano  altre  che in  fom  del  parentado  venute  pel  parto  o per  la  pimrpera  aveano  mirato  k prole, ed  iuasievano  perché  s’ iuViomci  terrogassero.  Era poi  di siderando  queste  e simili  cose,  e fra  lóro  discorrendole, ne  piangevano.  Appjo  altronde, come  non  cauto,  per matura, e corrotto  dalia  grandezto  del  potere, invanito di  sestcsso, e caldo  ' di  amore  nelle  viscere, non  ohe attendere  al  parlare  dei  difensori, e commoversi  alle lagrime  della  vergine, adiravasi  per  la  compassione  che di -lèi' Sentivano  >i  circostanti  (Juasi  di  compassitme  egli fosse  più  degno,  e patisse  mali  più  grandi,  ridotto  prigioniero    quella  bellezza.  Da  tali  cause  infuriato  ardi fin  di  'fare' impudenti  discorsi  (pe’ quali,  coloro  che  già ne  sospettavano,'  foron  -chiari, 'che  sua  era  1 impostura contro  la  donzella  ) > e compiere  infine  la  barbara  c tirannica azione. Àncora  parlavano, quando  egli  iuUqoò  sUeniiio  ; e. feoesi.  jbtanlò  la  moilitudine  che  era nel  Foro, ^ntenendo  lo  adegno  si  spinge  innanzi  per desiderio  d’ intendere  ciocché  direbbe  ; ed  esso  volgeo'. dosi  qua  c là  per  numerare  col  guardo  i crocchi  degli amici  co quali  avea  p|:ima  occupato  il  Foro  cosi  favellò: O Verginio  j o voi  qui  presenti  con, esso  f fiqn  io sento  ora  la  prima  voltd  un  tal  fatto, ma lo  sentii prima  ancora  di  giutfgere  a questo  magistrato.  Or udite  ; Come  ' lo  sentàsL  11 padre  di  questo  Marco Claudio  ornai. spiratido  la  fitfl  y pregavnmi  die  io prendessi  la  tutela  del  figlio  lascialo  da  lui  piccélo  ; giqcchò  essi  fin.  dagli  antichi  loro  son . clienti  della ìiostra  famiglifc.  Or  mentre  io  rn  era  il  tutore  di  esso udii  della  donzella  e .come  Numitoria  sala  suppone; prendendola  dalla  sert>à  di  Claudio:  ed  esaminatala; trovai  che  appupto  cosi  pava  •' dettai  c, giudico  esser  Claudio  padrone della  serva. Udito  ciò, quanti  ivi  erano  fiomlni  iniegrì, sostenitori  di  que’  che  dicevano  il  giusto, levarono  le mani  al  cielo, con  “"un  grido  misto  d’  indignazione, e di  pianto  : per  1’  opposlto  i partigiani  de’  Decemviri, mandavano  voci  atte  ' a confortarli  ed  animarli.  Irritatasi però  l’adubanza,  e riempiuta  di  ogni  guisa  di  afTetti, e discorri  ; Appio  intimo  silenzio, e disse  : O tutbolenti, o inutìii  a tutto  nella  guerra  e nella  pace  !•  se non  cessale  di  sonunover  la' patria, e di  controporvici  ; farete  alfin  senno  per  forza.  Non  pensate, jche abbiamo  noi  messo  un  presidio  nel  Campidoglio, e nella  fortezza  soltanto  contro  i nemici  di  fuori, e che  lascèremb  poi  fare  quei  iT  entro, i quali  sconciano ih  Roma,  ogni  cosa.  'Prendete  consiglio  migliore  ^ thè  non  avete  o. voi  tutti  a quali  non  spetta  C affare ; andatene  per  le  cose  vostre  in  buon  ora.  £ tu Claudio  recati  ria  pel  toro  ' la  donzella  : non  temere ; giacche  i dodici  miei  Colle  scuri  ti  saran  guardia. A ul  dire  gli  altri  ululando,  battendosi  la  froòte, nè  potendo  raffrenare  le  lagrime,  partirono  dal  Foro; e Claudio  succò  via  la  donzella,  che  stringeva,  che baciava  il  padre  suo, e con  voci  affettuosissime  lo  invocava. Fra  tanti  mali, Yerginio  si  mise  in  pensiero un’  azione, amara, addolorevole  ad  un  padre, ma  degna di  ud  nomo  liberò,  -di  un  Uomo  generoso.  Egli intercedette  di  salutare  ancora  una  volta  la  6glia, e di parlare  a lei  le  cose, che  volea  da  solo  a solo  ; prima che  dal  Foro  la  involassero.  Condiscesone  dal  capitano, e ritiratisene  alquanto  i satelliti, abbraccia  la  figlia  che sviene, che  abbandonasi  ; e cosi  la  sostiene, richiamandola,  baciandola',  rasciugandola  dalle  lagnile,  che  la inondavano.  Poi^  trattala  seco  un  poco, non  si  tosto  fu presso  la  officina  di  un  niacellajo,  rapiscene  di  su  dal banco  la  coltella,  ed  immersela  nelle  viscere  della  figlia gridando:  Figlia  (i  mando  Ubera  e casta ai  nostri sotterra:  per  colpa  del  tìrarmo  già  ntm  potevi  tu  viva serbare  questi  pregi.. SóHevatisi  intanto  de' clamóri  ; tenendo  in  pugno  il  ferro  insanguinato,  egli  stesso  grondante del  sangue, sebitaato  su  lui, nell’  uccidere  della figlia, corse  furibondo, peó  la  città, reclamandovi  la libertà  ; de  cittadini.  Passate  a fona  le  porte,  àìcese  il cavallo, ebe  tenessi  per  Ini'  preparatp, e rivelò  nel campo, riaccompagnatovi    Icilio, e da'  Knmitórlo, i giovanetti  ebe  ne  1  cavarono.  Teneano  loc' dietro  anche altri  plebei  non  pochi, Jn  numero  quasi  di  ^attro. cento.  j ' ;Appio  al  caso  della  ^giovinetta,. levatosi  da sedere,  si  slanciò  cpme  per  inseguire  Verginio, dicendo, e facendo  cose  non  degne  : ma  eiroondandolo, e pressandolo gli, amici  a non  traviare, si  ritirò, pieno  di rabbia  su  tutti  : quando  ornai  -presso  della  sua  casa  udì da  taluni  de'  suoi  fautori, che  Icilio  il  .suocero, e Nut raitore  lo  zio, ridottici  con  altri  amici, e congiunti intorno  al  cadavere,  gridavano  conteaIni  an  colpe  no> te,  e non  note  concitando  tutti  a rendersene  liberi  una volta.  Colui  spedì  per  la  rabbia  che  ne'  ebbe,  alcuni de’  littori, -con  ordine  d’  imprigionare  i maledici, e di levare  dal  Foro  il  cadavere;  opera,  insana  in  v?ro,  sconvenientissima  al  tempo.  Imperocché  mentre  doveacarezzar  la  moltitudine  incollerita  giusUmente,  e-jóedere in  principio  al  tempo, e poi  rdifendersi, pregare, beneficare onde’  riconciliarsela  ; egli  'corso  Alla  violenza, ridusse  tutti. a disperarsi.  Pertanto  non  permisero  che gl’  inviati  levassero  la  estinta, o'  portassero  alcuno  nella carcere  : ma  gridando, ed  animandosi  gli  uni  gli  altri  ; cacciarono  dai  Foro  coll’impeto,  e oolle  percosse  i mi'nistri  della  violenza.  Talché  Appio,  ciò  udendo,  fu  costretto dì  recarsi  con  molte  partigiani  e clienti  nel  F oro, e comandare  'che  battessero, e sbandissero, chi  v  era, ne’ capi  delle  vie.  Orazio  e Valerio,  duci  come  ho  detto degli  altri  a riprendere  la  libeiné, sentito  il  disegno dell’ uscir  di  colpi,  menarono' con    molti  bravi  giovani, e si'  misero  dinanzi  k estinta.  E qpando  ebbero più  \icini  {'compagni  di ‘Appio,  prima  inveirono,  (jnanto poterono, su  loro  cOn  -clamori  .ed  ingiurie  ; é quindi, pareggiando  ai  detti  le  opere, ferirono  e rovesciaronoquanti  osarono  lanciarsi  su  lOro.  Appio  mal  .sofferendo  l’ostacolo  impreveduto, nè  trovando  come  trattare  tali  nomini  \ risolvette di  correre  Una  viaria  più  rOvinOk.  Impéròccbè  portatosi al  tempio  di  Vulcano  ; invitavi  a parlamento  la ' plebe,  quasi' benevola  ancora  verso  di  esso:  e prendevi ad  accasare  la  inginslizia,  t la  dnsojenza  di  tali  uomini, lusingandosi  per  l’ autorità  sua  .tribunizia, e per  le  vane speranze, ebe  la  moltitudine  gli  concedesse  di  precipitarli dalTa'  rupe..  Afa  i compagni  di  Valerio  occupata l’altra  parte  del  Forò,  e postovi  il  cadavere  della  vergine visibilissimo  a .tutti, ''convocarono  un  altra  adu.'nahza;  facendovi  vivissime  aCcusé  di  Appio  e de’ suoi. Occorse,  com’era  vcrisimile’,  che’aUÌt'andovene  altri 'la Digilized  by  Google LIBRO  XI. . 359 riverenza  per  ^questi  ' nomioi,,  altri  la  commiserazioae vereo  la  dctazella  soggiaciuta  a vicènde  dure,,e  più,  che dure  per  la  sv>a  bellezza  infelice,  ed, altri  H.  desiderio stesso  della  forma  .precedente  df  governo, vi  si  rioni più  gente  che  intorno  di  Appio  : tanto  che  non  rima-c seto  presso  questo  'se  non  pochi, appunto  i partigianir ira'qtuli  cc  ne^avéa  pur  alèoni, che  per  molte  cagìoivi   mal  più  si  acconcravano  eoi  Decemvirato,,  contèntissimi di  rivolgersi agli avversar), sé  il  partito  loro  si  fortiGeasse.  Appio  vedendosi  derelitto  ^ -fo  cpstretio  i mutar COtasigHo,'e  ' ritnrarsi  dèi  Fpro^cioecll&'  moitissiUo  gii giovò.  Imperocché  prèso  a cólpi'dalia  moltitadioe  pagata le  avrebbe  le  giustissime  pene.  Dopò  .ciò  Valerio . acquistata  preponderanza,  quanta 'ne  volle,  si  sfogò  perorando contro  ai 'Decemvirato, e decise  in  favor  suo perGno  i dubbiosi.  Molto. più'  poi  conjpccia'rono  la  moU titudiiie  contro  ai  Dètèiòviri  i parenti  della  vergine, recando -al  Foro  .il  feretro, -e  T altro  lagubre  apparato, maguiGco  quanto  potevano, è facendo  ..la  traslazione  del cadavere  per  le  .vie  più  illustri,  di  Roma, onde  fóssevi più  rimiralo;  imperocché  còrreabu  fuori  di  casa  matrone e donzelle  per  piangere  la  sciagura  e qual  d’esse  gettava su  la  bava  Gori^e  ghirlande',  e qual  veli  e. nastri . e fiV;gi  pel  capo  di  .una  vergine,  e quale,  in  Gne.te anella  de’  Vecisi  capelli  : iiratlantor  molti  uomini  •nobilita vano 'la  liinèbre  pómpa  con' doni  convenienti,  presi  grsìtnitamente’  o con  pfeézró  dalie  prossime  olBcIce.  Tanto che  divulgaiissima  era  per' la  citrii  la  lagrimevole  cerimònia, éd  avea  tulli  acceso  il  desiderio  di -spègnerti  la' lirannlde.  Ma  qnei  chè  la  difeudeano  f isirntii  che 1 ' ; ‘ ".jd  ny erano  di  arme, davano  grande  spavento  ; laddove  Va^ lerio  W SUOI  non  volea  finire  col  sangue  de’  duadim la  disputa.  ". Tale  era  in  Roma  la  turbolenza.  Intanto  Verginio  che  avea^  come  ho  detto  ^ itccisa  di  sua  mano  la figlia  spronando.' a briglia  sciolta  il  .cavallo i giunse  agli alloggiamenti  presse  l'  Algido  su  l’ imbruttir  della  sera, tutto  lordo  -di  sangue, e. colla  ooltelitt, in  pugno, appunto. com’  era  fuggito  da  Roma.  Vedi^tolo, i soldati che  stavansi  a guardia  innanzr  del  campo  ^ non  sapeano indovinare  ciocché . avessè  patito^  e lo  accompagnarono per  intenderne  1  alto.'  e terribile  caso.  E colui  tuttavia camminava  piàngendo,  e significando a quanti  gli  erano intorno  di  .seguitarlo.  Uscivano  fin  di  mezzo  alJf  cena da’  padiglioni, presso  i quali  passava, soldati  Jn  folla  y con  faci  e làmpade,  pieni  di  mestizia  e tumulto,  e fa cendogli  corona^  lo  accompagn#ano.  Alfine  giunto  in un  luogo  spaziose  del  campo.,'  e salita  una  eminenza ov’ essere  da  tutti  veduto,  nar^ò.  le  disavventure  sue, dandone  per  testimou)  quanti  erano  con  esso, venati  da Roma.  E quando  infine  videne  molti  addolorati  e piangenti-; fecesi  allora  a supplicarli  e scongiurarli  di  non permettere  che  restassero,. egli  invendicato,  ^ concaicataria  patria.  E lui  coti  dicendo,  ecco. in  tuttigrande la  voglia  di. udirlo  e viva  1. istigazione  perchè  parlasse. Adunque  tamtx  più  animoso 'inveì  su’ Decemviri, mostrando di  quanti,  aveano  essi  tolte  le  sostanze,  di  quanti flagellato  il  corpo,  e quanti  ne  aveano  ridotti  senza colpa  niuna  a lasciare  la  patria  ^ e numerando  insieme le  ingiurie  verso  le  matrone, i ratti  delle  donzelle. nubili,  i '.disoBoramenti  de’ liberi > garzoncelli,  e, le,  tante altre  ingiustizie  e tirannidi.  E così,  disse,  ci  calpestano  (Questi, senza  che  ne  aibiano  il  poterti  non  dulia legge, non  dal  Senato, non  dal  popolo.  Imperocché spirato  è /’  anno  dflla  loro  magistratura  ; e spirato  ; doveano  in  altre  mani>  trasmetterla'.' violentissimi  però la  ritengono  ; spregiando  in  noi, quasi  in  femmine, la  paura  grande  e'  la  codardia.  Ognun  • di  voi  qui ricordi  quanti^  mali  ha  da  loro  sofferti,  o veduto  sofferirsi  dagli  e^i.  Che  se  alcuni  qui  blanditi  da  essi mai  con' piaceri  o favori, non  temete  il  Decemvirato, ne  apprendete  che  eguali  mali  siano  per.,  venire  un giorno  su  voi,  sappiate  che  non  vi  è fede  pe  tiranni, sitppicUe  che  non  donano  t'  potenti  per  benevolenza, e sapendo  queste  e simili,  cose, Uorreggetévene  : ed unanimi  tutti  Iterate  da  tù'onni  la  patria, quella dove  sono  i templi  de\ vostri  Dii,  dove  le  tombe  dei vo.stri  maggiori,  ! quali  voi  riverite  appresso  gV  Iddj, dove  li  veóchi  genitori  che  .dimandano  il  premio  dei travasi  e delle  tante  cure  per  voi ^ dove  le  mogli, vostre  legittime  ^ dove  le  figlie  nubili,  alle  quali  deesi non  tenue  Id  Vigilanza:  dove  infine \i  vostri  figli  maschi, che  aspettano  da  voi  cose  degne  dèlia  natura loro^  e de’  progenitóri.  Taccia  le  vostre  case,  i vostri poderi, i vostri   danari  acquistati  con  tome  fatiche dagli  antenati  e >da^  voi  :, delle,  quali  cose  tutte  pià non  pofrtle  essere  i certi, padroni  'finché  i Dieci  qui tiranneggianox  ' .Già  non  è da  savj,. non  da  valenùtompii  cer care  colla  fortezza  le  cose  altrui  ^ nè  curare  poi  che per  viltà  si  rovinin.  le  proprie  far  co  gli  Equi  ^ co’  Fblsci, co’  Sabini, a ' con  tutti  intorbo  i vicini guerre  diuturne   indefesse  per  la  indipendenza  e pel principato, nè  vbter  poi  nemmeno  prendere  le  armi per  la vostra  sicurezza  e la  libertà  cantra  uomini  illegittimi che  fi  comandano.  Che  nòn  ripigliate  lo  spirito' delia  patria  ? Che  non  tornano  in  voi  li  sensi degni  degli'  antenati?  cU  quelli  che  per  V oltra^ìo  di una  femmina  solà  profanata  da  un  de  •Tarquìnj  ed ucàisasi  da  sestessa  per  le^  vergogna, 'tanto  rie  incollerirono e infierirono, e tanto  comune  tipqtaron  la ingiuria';  che  sbandirono  di  Roma  non  il  solo  Tqrquinio,maJ  re-:    piti  soffersero^  die  magistrato alciùfó  vi  comandasse  in  vita,  e senza  doverne  far conto  : di  quelli  che  ne  fecero  altisiunto  giuramento fitto  con  imprecazione  su  paetèri'  se  noi'  compievano  ? Of  essi  non  avran  sopportata  la  incuria  di  un  sol giovinastro  su  di  una  libera donna'  soltanto  ; e voi vi  state  Comportando  una  tirannide  di  tante  teste, •ehé’ scorre  ad  ogti  ingiustizia  e libidine  ^ è scorrerawi anche  pià  se  pià  tra  vói  la  tenete  ? Non  laebbi  io sole  una.  figlia  vaghissima, che  jippìò-accirigevasi palesemente  a violentare  e lordare  : le  avete  anche molti  infra  voi‘'rhogli  o ; figlie  e figli  avvenenti:  Or chi  difhn'dele  mai  che  ' ' alcuno  de'  Dièci  nón  fàccia loro  come  /dppio  ? Vi  raccertano  forse  gt  Iddf  che so  lasciate  impunita  la  insolenza  ' a me  fatta,  no/i  si avanzi  questa  fin  su  molti  di  voi;  e che  ^ nmor  ti~ tannò, giunto  alla  mia  figlia, ivi  si  'rimanga  e si plachi  rispetto  degli  altri  fanciulli  e faiKÌiille?  Quanto stolula, quanto  atfena  cosa  è dire  che  mai  tali  idee si  -effettuerànno  ! Illimitate  sono  de'  tiranni  le  passioni, perchè  superiori  alle  leggi,  e al^  timore.  Su dunque  fate  le  mie  vendette, prepardte  la  sicurezza vostra,  per  non  subire  egual  male, rompete  o miseri una  volta  la^  cótena:  riguardate  ‘con  intenti  sguardi la  libertà  : ~E  per  qual  altra  occasione  mai  fremerete pià  che  per  queéta;  quando  ne  si  tolgon  le  figlie  prètestandooele  per  ischiave, e quando  via  ne  si  porlan le  spose"  co’  littori?  E se'ora  che  siete  tutti  cinti  di arme  la  trascurate  la  occasione e:  quando  mài  \ quando  il  geniadi  libertà  ripiglierete?  -, Ma  iotaato  cKe  egli  parlava  molti  gli  promctteanò,  gridando,  la  vendetta:  e chiamati  a nomr  i dnci delle  schiere  gl’  invitaronó  a por  mano  aff  impresa  ; molli  ancora, se  ne  avéano  riéeTuto  alcun  danno, faceansi coraggiosi  innanzi,  e lo  rivelavano'.  'Udito  ciò  li cinque,  capi  come  ho  detto  delle  legioni,  temendo  che la  moltitudine  facesse  qualche  soròmossa ' Cóntro  di  essi corsero tutti  'al  pretorio  e vi  consultarono  con  gli  amici, se  poteanO  chetarne  il  tumulto  cinti  dalle  arme  de  par  ' tigiani.  non  si  tosto  intesero  che  i soldati  eransi  .tri tirati  'nelle  tende, che  caduto  e cessato  era  il  tumulto, senza  sapere  intanto  che  il  piò  de’cènturioni  aveva  congiuralo occultissimamente  d’ insórgere  e liberare  la  patria ; destinarono, appena  fosse  giorno, imprigionare Verginió  che  istigava  la^  moltitudine, e raccolto  l’ esercitò condurlo  ed  acc^parlo  tra’  nemici,. e desolarvi  H meglio  elei  lor  lerritorj  ; nè  più'  lasciare  chè  ognuno investigasse  Curioso  ciocché  facevasi  in  Roma, ma  tutti   perocché, chiamato  Vergioio  ai  pretorio, i ceatnriooi non  permisero  che  v’  andasse  pel  sospetto  che  vi  peri colasse:  e scoperto  com’era  ne’ratpi  'il  proposito  di  portare l’armata  tra’ nemici.  Io  riprovavano,  dicendo:  Meramente ci  avete  prima  comandato  benissimo,  perchè ora  isperanzili  vi  seguitiamo  f Duci  voi  di  'tanta  milizia, quanta  ninna  ntai  ne  portò  da  Roma  f e dagli alleati  non  sapeste    vincere, nè  danneggiare  i nemiti.  Voi  dimostrandovici  odi, imperiti, colf  accamparci male, e col  desolare, quasi  asversarj, le  terre nostre, ci  rendes^  poveri, e bisognosi  delle  cose  le quali  noi  conqOistayamo  col  prev/dere  in  bailaglia, quando  i nostri  capitani  \ eran  migliori  che  voi.  Ora  il nordico  inalza  contro  noi  li  trofei i il  nemico  si. porta le  cose  nostre;  saccheggiandoci  tende ^ schiavi y ottm, danari.Verginio  per  la  rabbia, e perché  non  più temea  que’  capitani  .inveiva  più  libero  conti  di  essi, 'chiamandoli  corruttori  e distruttori  delia  patria,  ed  animando i centurioni  a tor  le  insegne,,  e ricondursi  in Roma  colle  milizie.  Molti  non  ardivano  ancora  movere le  insegne, che  sono  inviolabili  ; né  riputavano  cosa onesta  e.  sicura  abbandonare  i loro  capitani  ' e ^i  comandanti ; perocché  il  giuramento  militare, die  i Romani avvalorano  più  che  tutti,,    che  il  soldato  siegua i suoi  comandanù, dovunque  Io  guidino  : e la  legge concede  a questi  di.  uccidere, nemmen  giudicandoli . gl’ indocili  e li  disertori.  Verginio,  vedendoli  tenuti  ancora  da  tal  riverenza, mostrò  ' loro  che  La  le^e  stessa avea  sciolto  quel  giuramento  : giacché  dea  ehi  cómanda  gli  eserciti, esser  scelto  a norma  delle  leggi  ; e r autorità  de’  decemviri  era  tutt^  contro  le  leggi, trapassalo  t anno  per  cui  fu  destinata  ; far  poi  gli ordini  di  chi  comanda  contro  le  leggi  non  è ubbidienza, nè  pietà,  ma  demenza  e furore.  Or  ciò  adendo, giudicarono  udire  il  vero  : e suscitatisi  a vicenda  ; e quasi  dato  lor  cuore’ dagl’  Iddi!;  tolser  le  insegne,  e ne  andarono.'  In  mezzo  d’  indoli  tanto  varie, nè  tutte conoscitrici  del  meglio,  si  rimasero,  co’ decemviri,  com’è verisimile,  centurioni  e soldati',  minori  però  molto, non  eguali  di  numero  agli  altri.  Quelli  clie  partirono dal  campo, viaggiando  tutto  il  giorno, giunsero  al  far della  sera  in  città, seuzaqhè  alcuno  ve  li  annunziasse  ; nè  poco  la  costernarono, credula  cbe  giugnesse  il  ne> mica.  Adunque  tutto  tri  divenne  clamore, moto, disordine ; ' ma  non    a lungo, da  nascerne  òiale  : perocché quelli  passando  pe’capi  strada,  vi  gridavano  che eran  gli  amici,  e venivano  in  bene  della  pàtrio:  e conformarono le  Opere  ai  detti, non  offendendovi  alcuno. Recatisi  ali' Aventino,' colle  il  piò  acconcio  entro  Roma per  accamparvisi,  allogaronsi  presso  il  tempio  di  Diana. Nel  giorno  seguente  fortificato  il  campo,  e destinati  dieci tribuni  miljtàri, de' quali  era  capo' Marco  Oppio,  sul comune, si  tennero  in  calma. Dopo  non  molto  giunsero  in  sussidio  loro con  molta  milizia  dal  campo  di  Fidene  i centuribni  migliori delle  tre'  legioni, alienatisi  da’  comandanti  fin  di allora  che  fecero  trucidare, come  ho  detto, Siedo  il  legato  ; .e  timidi  non  pertanto  di  cominciare  i primi  la ribellione  in  vista . delle  cinque  legioni  delK  Algido, quasi  fossero  amiclie  ai  Decemviri.  Ora  però  saputane la  insurrezione;  acceuarotjo  di  tatto  buon  grado  il  favor della  sorte  :>  anche  di  queste  milizie  eran  capi  dieci  tribuni eletti  in  mezzo  alla  marcia, ma  Sesto  Manlio  ne era  il  più  ragguardevole.  Congiuatisi  tutti, e deposte le  arme,  incaricarono  i venti  tribuni  a poter. dire  e fare quanto  dovessi  pel  comune.  .Elessero  di  questi  venti come  capi  consiglieri  i due  più  rispettabili,.  Marco  Oppio, e Sesto  Manlio.  E questi  .formata  un  coùsigUo  dei centurióni  maneggiavano  tutto,cpn,.  essi.  .Non  essendo ancor  c^arl  al  popolo  i (prò  disegni, Appio  .consaperóle  a ses tesso  di  essere  la  cagione  di  quella  turbolenza, e de’ìUali  che  ne  verrebbero,  tenòvasi  in  casa,  non 'ehe ardisse  far  pubblici  atti.  Sbigottì  su  le  prime  anche Spurio  Oppio, costituito, come  lui, su  la  città, quasi fossero  ben  tosto  per  assalirlo  nemici,  e fossato  appunto per  questo  venutL  Quando  però  vide  che‘'uon  fàceano innovazioni]  rallentando  le  paure  ^ convocò  li  Senatori nell.^  curia, intimatili  ad  uno  ad  ano  per  le  case.  E ' standovi  questi  ancora  adunati:  ecco  giungere  i cpmandanii  dall’ armata  di  Fidane,  irritati  che  la  milizia  avesse abbandonato  T uno  e.T  altro'  campo, -.ed.  insistere  col Senato  perché  ne  prendesse  degna  vendetta.  Ora  dovendo ciascuno  dare  il  sno  voto  su  questo.  Ludo  Cornelio disse, porlqre  il  dovere,che  tornussero  i spillali 'ttcl  giorno  stesso  daW  Avenlitto  lot' campi,  ed  eseguissero gli  ordini  des  comandanti.  Con  ciò  non  sa'rebhero  tenuti  rei  di  quanto  s'  era  fatto, so  noti  gli autori  sali, della  ribellione  ; à qvudi  imporrebbe  la pena' il  duce  ^medesimo  : ma  se  non  ubbidwanq  ; il Senato  delibererebbe  su  loro,,  camq  su  disertori  dei posti, affidati  ad  essi  da'  capitani, e come  su  violatori  del  giuramento  ipiUtare.  Lucio  .Valerio  gli  contrae riava  ....  Ma    conviene  che  no  facclaosi  af&tto' parole delle leggi  romane  ehe  troviamo  nello  dodici  tavole, essendo  tanto  venerande  e più  insigni  delia  grecai  legislazione ; nè  conviene  che  sen  facciano  oltre  il  dovere, prolungando  la  storia  delle  leggi  medesime. Tolto  il  decemvirato  ebbero  i primi  ne’oomizj cenluriati  la  dignità  consolare,  dal  popolò  come  ho ‘detto Lucio  Valerio  Potilo,  -e  Marco  Orazio  Barbato,  uomini popolari  per  indole,  come  per  educazione  ereditari'. Fidi  alla  promessa  che  avcan  fatta  al  popolo quando  lo  indussero  a,  deporre  le  armi, di  maneggiare sempre  il  governò  in  suo  bene  ; stabilirono  ne’  coraizj centuriati,  mal  grado  i palrizj  che  vergognavansi  di  reclamarvi, oltre  le  leggi  che  non  rileva  qdi  scrivere, anche  quella  coUa  quale  ordinavasi, che  i decreti  faixi dal  popolo  ne  comizj  per  tribù  valessero  conìé  i decreti emanati  ne'  comizj  ceniuriati  per  ogni  classe  di cittadini  ;  sotto  pena  t in  caso 'di  convinzione, per chiunque^  abrogasse  o trasgredisse  questa  legge,  della Qdì  miaca  1’ aliimo  SYÌluppo  de  fatti  co  quali  fa  tolta  la eppreaaione  Decemvirale.  -Perdita  non  ignobile  ; traltSadoYiti  di  uno de  graudi  oambiameati  di  stato. dalla  fondaiiooe  di  Aoma,3o6  secondo Catone^  Quest  anuo  è tralasciato  nella  cronologia  di  Varroue e però/ le  dne  cronologie  differiscono  dopo  questo  per  un  anno  solo, non  per  due  com^  per  I  addietro.  morie  e della  confisca  de'heni.  Questa  risoluzione  levò le  controversie  tra’  plebei  e tra'  patrizj, i quali  ricusavano di  ubbidire  ai  d^eti  latti  dai  primi, e riguardavano i decreti  emanati  ne’comizj  per 'tribù  come  leggi singolari  di 'esse  non  'come  universali  di'  Roma  intera: laddove  ciocché  fosse  stabilito  ne’comizj  per  centurie  lo riputavano  ordinato  a sestessi  come  a tutti  i cittadini. Fu  gié  détto  innanzi  che  ne’ comiz)  per  tribù  li  poveri e li  plebei  prevaleano  su’ patrizj, come  i patrizj/ quantunque assai  minori  di  numero, prevalevano  su’^plebei ne’  comizj  per  centurie. Stabilita  da’  consoli  questa  legge  con  altre leggi, fautrici  ’anch’  esse, 'come  ho  detto, del  popolo  ; ben  tosto  i tribuni  credendo  vénnto  il  tempo  di  vendicami di  Appio  e de’ colleghi  di' esso,  pensarono  d’  intimar loro  il  giudizio  >e  chiam'arveli  non  tutti  insieme perchè  gli  uni  non  giovassero  gli  altri  ; ma  l’ uno  dopo l’altro,  su  la  idea  di  convioceryeli  più  facilmente.  Ora considerandu  su  chi  prima  incominciassero  più  a proposito, deliberarono  mettere  in  istato  di  accusa  Appio, il  più  esoso  al  pqpolo  per  le  oppressioni, e per  le  indegnità recenti  contrò  la  vergine.  Parea  (oro  che  assicuratisi ''di  questo, disporrebbono'  facilmente  pur  degli altri;  laddove  se  cominoiassero  dai  men  furti,  parea  loro che  l’ira  de’ cilladtni, calda  oe’ primi  gludizj  s’indebolirebbe, come  spesso  accadde,  per  giudicare  in  ultimo i rei  più  segnalati.  Deliberato  ciò, sopravvegliarono  i rei,  ordinando  a Verginìo  di  accusare  Appio',  senza,  ' t  |i)  Cioè  gli  aliti  DeceniTiri  aùìaebè  non  soccorceMcto  Appio.  LIBRO  XI.  369 nemmeno  decidere  colle  sorti  chi  Io  accusasse.  Appio dunque  accusato  da  Yerginio  nell’ adunanza  fu  citato  al giudizio  del  popolo, e chiese  tempo  per  giustificarvisi. £ siccome  non  si  ammisero  per  v lui  mélievadorì  ;  fu tratto  in  carcere  per  custodii^elo  finché  di  lui  si  giudicasse. Ma  prima  ' chu  giùngesse  il  di  prescritto  pel giudizio  mori  nella  carcere, per  opera  come  molfi  sospettano de’  tribuni  : ma  secondo  che  divulgarono  altri, che  li  discolpano, egli,  appiccò    medesimo. Dopo  lui fu  tradotio  al  popolo  Spurio  Oppio  da  Publio  Numitorio  altro  tribuno  : ma',  dategli,  le  difese, vi  fu  condannata a pienissimi  voti  : e portato  in  carcere  fini  nel giorno  stesso  la  vita.  Gli  altri  decemviri  pfima  di  essere necessitati  al  giudizio,  condannarono  sestessi  all’  esilio. 1 questori  incorporarono  all’eràrto  i beni  degli  uccisi  e degli  esuli.  Fu  nommeno  citato  Marco  Claudio  quegli che  si  accinse  a tor  via  come  schiava  la  donzella  da Icilio  lo  sposo  : ma  preiéstando  i comandi  di  Appio  fu scampato  da  morte  ^ e 'gettato' in  esilio  perpetuo.  Gli altri' ministri  ^elle  ingrastizie 'dèi  decemviri  non  .subi-' irono  giudizio  pubblico  ma  diedesi  a tutti  la  impunità. Suggerì  pari  economìa  Marco  Duilh'o  il  tribuno  per essere  ornai  turbati  i cittadini,  e.  timorosi  di -essere  finalinente  anch’  essi  giudicati. XLyiI.  Chetate  le  turbolenze  interne',  raccolto  il Senato,  decretatio  che  esca  immantinente  T armata  con tro, a’ nemici.  Ratificato  dal  popolo  il  decreto  del  Senato, Valerio  l’uno  de’ cònsoli, marciò  eoa  metà  delle schiere  contro  gli  Equi  e li  Yolsci  i quali  miliuvano ' PtOSIGt, itmo  III. insieme.  (Consapevole  però  thè  gli  Equi, imbaldanzili pe’ vantaggiprecedenti,  elevavansi  fino  a sprecar  grandemente la  milizia  romana, cercò  renderli  ancora  più temerari  e vani  con'^are  di    vista  ingannevole,   pra  de’  Romani  r -ma  dimostrando  r cavalieri  un  ardor sommo  ottenne  una  segnalata  vittoria, nccisivi  molti nemici, imprigionativene  pii^  ancora, e preso'  i loro alloggiamenti  dereKtti.  IvÙ trovò  •molte  provvigioni  da guerra,  e tutta  la  preda  già  tolta,  dal  terchoi^'dé’'Romani  : anzi' detenuti  molti  de’ suoi  che  liberò;  non. essendosi alTretlati  i Sabini  pel  disprezzo  che  aveano  del nemico  a riporre  in  sictirb  4anti  loro  vantaggi.  'Adunque diede  a’  soldati  la  roba  nemica, preelcggeudone  ciocché era  da  offerire  agl’  Iddii  1 ' ma  ‘ rendette  te  prede  a chi n^era  stato  spogliato. Fatto  ciò  ricondusse  1’  eserdto  in  Roms  ove giunse)contemporaneamente  anche . Valerio  : ambedue sentivansi  grandi  per    vittoria, e'  se  ue  auguravano luminosi  trioufi.  Non  però  uiccedette  cobi’  essi  ne  sperayano  .imperocché  Raccoltosi  il  Senato'  per  essi  'dtieefae  stavansi  coli’  esercito  sul  campo  -Marzo, ed  esaminatine'le  gesta, non  accordò  loro  il  sagrifizio  per  1 vittoria  : essendo  oontrarìati  da  molti., e da  alcuni  manifestamente, soprattutto  da  Cajo  Claudio, zio come scrissi  di  Appio,  vuol  dire  del  fondatore  dei  decemviri, e tolto  non  ha  guari  di  mezzo  .da’  tribuni.  Cajo  ricordava le  leggi  colle  quali  ajrean  essi  ‘ diminuita  rautorilà del  Senato, e ricordava  le  altre  maniere  da  essi  tenute perpetuamente  ' nel  gorernare  : ricordava  ‘ le  morti  o le conCfohe'de’beni  dc’decemviri,  traditi  da  esu  ài  tribuni contro  i patti  ed  i giuramenti  essendosi  in  mezEO  alle vittime  convendta  tra’  patrizi  e tra’  plebei  la  dimenti canza,  e la  impunità  su  tutto  il  passato.  Protestava  cbe Appia  non  era  caduto  morto  innanzi  al  giudizio  di  sua mano, ma  per  malizia  de’  tribuni  : aflìncbè  nell’  essere giudicato  non  ottenesse    difese, nè  misericordia  : co me  polea  ben  ottenerle, se  potatalo  in  giudizio  metteva ÌDuanzi  al  guardo  la  nobiltà  della  sua  gente,  e le  molle beoefìcenze  di  essa  verso  la  repubblica  ; se  reclamava  i giuramenti  e' la  buona  ^fedesu  la  quale  gli  uomini  riposano) e rendonsi  a far  pace;  se veniva,  co’ suoi  figli co’  parenti.,  jn  àbito  di  umiliazione  ; in  somma  con  -gli altri  modi  pe’  quali  uo  popolo  si  disacerba, s’ intenerisce, e perdona. '{fra  tali  rimproveri  dati  loro  da  Cajo Claudio, e da  altri  presenti, fu  coucluso, che  si  contentassero i'  due,  di  non  pagarne  le  pene:  del  resto  non essere  nemmeno  in  picciobssima  parte  d^gui  del  trionfo, o,di  concessioni  non  dissìmili. L.  Valerio  ed  il  coUega  esclusi  ^al  trionfo,'  lenendosene ofTcsìssimi, e sdegnandosene  ; convocano  il  popolo, e vi  accusano  vivamente  il  Settato.  .Peroravano per  loro  i tribuni^  e proposero  e ne  ottennero  dal  popolo il  trionfo:  ed  essi  ..primi  di  tutti  i Romani  pro> dussero  tal  cot^uetudine.  Dopo  ciò  rinacquero  ‘i  dissid), e le  incolpazioni  tra’  patrizj  f e tra’  plebei.  Li  tribuni raccendeano  questi  ogni  giorno  concionandoti.  Irriuyali soprattutto  il  sospetto  cbe  li  tribuui  cercavano  di  corroborare con  romori  incerti, e di  amfdìare  con  divinazioni varie,  come  se  li  patriz)  fossero  per'  )tnnienUre  le leggi  stabilite  dai  consoli,  Valerio  e suo  collega:  c quel lupetto  ornai  tanto  prevaleva  che  degenerava  la  fede. E tati  sona  gli  eventi  di  qnel  consolalo. LI.  Nell’ anno  appresso  foron  consoli  Laro  Erminio,  e Tito  Verginio .  Snccederon  loro  Marco  Geganio..>(a). LH.    rispondondo  essi,  ma  sdegnandosene;  Scatùo fecesi  di  nuovo  innanzi  e disse  : ecco  o cittadini  che si  concede  dai  litiganti  medesimi  che  essi  pretumonb, parte  che  a lor  non  compete f della  noslrà  campagna', or  voi  considerando  ciò  decidete  ciò  che  é giusto  e congruo  co'  giuramenti.  Scattio  cosi  diceva  : ma  i consoli ardevano  dalia  vergogna  in  riflettere, che  il  giudi aio  prenderebbe  un  ' termine. nè  giusto, uè  onorato, se’ il  popolo  il  quale  qiai  non  aveast  attribuito  ' la  campagnar disputata,  ora,  elettone  giudice,  se  T attribuisse, con toglierla  ai  litigami.  Adunque  ad  iscansare  èiò  si  tennero dai  consoli"  e dai  capi  del  Senato  molli  e molti discorsi  ; ma  ihvauo.  Impetocchè  quelli'  che  aveano  pi  Ando  di  Roma  3o7  fecondo  Catone,,  3o3  fecondo  Varrone, e 445  v.  Ctifio. .-(a)  E C.  Giulio  secondo  che  si  ricava    Livio.  Net  consolato di  Erminio  e  venissero persuasi  in  contrario, annullerebbero  alcuna  delle  rìsokizioni  proprie. LV.'  In  vista  di  .tali  minacce  .adunati  gli  Ottimati  Ji piu  anziani  e principali  da'  consoli  a consiglio  privato, ponderavano  ciocché ''fosse  da  fare.  Cajo  Claudio  come U men  popdiarc, ed  erede  degli  antenati  in  tal  genio di  procedere,  inculcava  ostinatissimo,  che  non  si  cedessero al  popolo    i consolati, nè  altro  magistrate qualunque;  e che  senza  riguardo  di  persona. privata  o pubblica  si  frenasse  colle  armi, se.  non  l'eodeasi  per  le parole,  chiunque  tentasse  il  contrario.  (mpero.cché  chiunque tentava  sommovere  le  patrie  costumanze  o disciogliere la  forma  primitiva  del  governo  era  non  cittadino ma  nimico.  Per  1’  opposito  Tito  Quinzio  non  voleva  che si  reprintessero  gli  avversari  colla  violenza, .né  si  venisse alle  armi  ed  al  sangue  civile  colla  plebe:  tanto  più  diceva che.  -noi  abbiamo  contrarj  i tribuni, che  i nostri padri  dichiararono  sacri  ed  inviolabili;' facendo  igenj  e gl'  fddj  mallevadori  dell’  accordo  con  imprecatone  gravissima delia  rovina  loro  e'  de’  figli, se  da  indi  in  poi lo  avessero  mai  violato  anche  in  parte. LVI.  Accosta vansi. a questo  partito . ancor  gli  altri chiamati  a'  congresso, quando.  Claudio  pigliando  la  parola disse  : Non  ignoio  quaji  Jòndamento  pongasi  di mali,  per  tulli  noi,,  se^-concediamo  che  il  popolo  facciasi a volare  su  questa  legge':  ma  non  avendo  cosa pià  farmi,    come  resistere  a voi;  che  tanti  siete  ; ahbattdonomi ' ai  vostri  consigli.  Ben  è giusto  cJte LIBHOXI.. 377 ognun  dica  Ciò  che  sente  deU  util  comune:  ma  poi siegua  ciò  che  i più  ne  conchiudono.  Jar,  eome  esortasi in  c^fan  che  aggravano, nè  si  vogliono, vi  esorterei che  non  cedeste    ora    poscia  il  consolato  a ninno, se  non  ai  patrtzj, i quali  è giusta  è pia  cosa  che  lo abbiano  : ma  qustndo  come  cd  presente, siete  alla  ncessità  ridotti  di  far  partecipi  anche  gli  altri  cittadini del  grado  e del  potere  più  grande  ; vi  dico  che  assu^ miate  i tribuni  militari  in  luogo  de'  consoli, defineieione  un  numero  { otto  -o  sèi  forse,  chè  tanti  credo bastarne  ) riel  quale  i patrizj  e i plebei  si  pareggino. Così  Jrscendo    renderete  il  córuolato  magistratura  di uomini  indegni  ed  abbietti  •,    parrete  per  voi  f ohe hricare  un  comando  ingiusto, coll  escluderne  affatto i plebei.  Ed  approvando  tatti, senza  reòlamt>  niuno  un lai  voto}  udite  soggiunse, .ciocché  restami  a dire  a voi consoli.  Prefisso  il  giorno  in  cui^  stabiliate  quel  previo decreto  ^ e ciò  che  daf  Senato  si  giudica, lasciale  che parlino  su  Ha  legge  chi  la  difende  e chi  C accusa.  Fi~ mia  la  disputa, quando  fio  t ora  d’  irttendeme  i voti, non.  vogliate  da  me  cominciare, non  da,  codesto  Quirtr zio, nè'  da  altro  seniore  ma  dsU  popolafissimo  senatore Lucio  Valerio;  interrogando  appresso  Orazio, se punto  vuol  dire,  Bicercate  così  le  .loro  .sentènze, ordinale che  noi  seniori  diciamo.  Jq  sporrò  liberissirrtamente  il  parer  mio  'contrqrio  ai  tribuni,•  e fa  questo [ utile  della  repubblica.  .Questo  Tito  Genuzio, se  il volete,  dia  la  proposta  su  tribuni  militari.  Parrà  questo il  partilo  più  congruo  e meno  sospetto  se  progettisi o Marco  Genuzio dal  tuo  fratello.  I(  consiglio  senal brò  giusto, e parlironsi'  dU  oiAigresso.  T^merbuo  i tri buui  la  secretissima  aduuanza,  come  intenta  a gran  danno de’  plebei, perché  fatta  in  casa, _ non  in  pubblico, e senz' .ammettervi  alcuno  de’ capi 'del  popolo.  Adunque raccogliendo  anch’  essi  un  consiglio  di  uomini, amantis simi della  plebe  ^ idewono  ript|ri  e guardie  contro  le iusidìe  che  aspeitavansi  da’  patrizj.. LVIL  Giunto  il  tempo  preacritlo  per  fare 'il  previo decreto, i consoli  convocato  il  Senato, ed  esortatolo grandemente  al  buon  ordine  ed  alla  concordia;  invitarono, prima  di  ogn’  altro  j a parlare  i tribuni  deUik.  plebe,  i quali  propónevano  la  legge.  Fe^i  avanti  Cajo  Canule)o, un  di  loro  ; ma  egli  non  che  dimostrarla, bon  mentovò nemmeno  la  giustizia  e la  utilità  della  legge.  Diceva  c/te si  stupiva  de  consoli  che  avendo  fra  loro  ponderato  ù deciso  ' ciocché  jsra  da  fare, ora  quasi  pi  abbisognasi sero  consigli  e decisioni, metteansì  a proporlo  ai  Pa dri, e 'davano facoltà  di  cBingaxyi  con  simulakione non  cbnvèniente    alt  età  loro, r\è  alla  ' grandezza del  comando.  Diceva  che  irttroducevan  t esempio  di tristissime'  pratiche, quando  umvansi  in  casa  et  congressi recondite,  jtè  vi  chiamavano  tutti  i Senatori, ma i soli  favorevolissimi  loro.  E qui  soggiungeva  che  poco faceva^li  meraviglia  che  fossero  esclusi  da^quel  coa1 sigho  edtri  sonatori;,  ma  ^grandissima  gliene  ftcevache 'avessero  tenuti  indegni  da  invitarveli  Marco  Grazia, e Lucio  L aierio, qaell(  che  avetìno. tolto  il  Decemvirotò,  ambedue  uomini  consplari  %nè  idonei' -men  di chiunque  a deliberare  su  la  repubblica:  lui  non  poter, concludere  appunto  In  cauta  .di  tal  procedere  ; indovinco  iie  però  quest'  unica:  valé^  a direi  cfie  essendo  essi per  allegare  -disegni' ingiusti  trovinosi  alla  piche,  non vollero,  convocarvf  persone  di  essa  amantissime, per ' chè  sdegnate  arti  popolaresche  ; numerando  fin  da  principio,  tutti  i |>ericoli  venuti  su  Roma  per  colpa  di  quelli  phe  volevano conU'ario  governo;  rilevando  come  l’odio  versola plebe  crasi  renduto  dannoso  a quanti  lo  ebbero;  e lodando amplìssimamente  il  popolo  .come,  autor  principale delia  libertà  e del  comando  delia  repubblica;  alfine  ragionate queste  e simili  cose, concluse  non  poter  e^ser libera  quella  città  dalla  quale  tolgasi  /’  eguaglianza  z e quindi  sembrare  a lui  giusta,  la  legge  laqual  vuole che  concorrano  al  consolalo/  tutti  i Boinani  purché  siano irreprensibili  ne  costumi  e degni  per  le  opere  di  lai tanto  onore  : non  essere  però,  quello  il  tempo  opportuno da  trattare  legge  siffatta  in  tanta  turbolenza  di guerra  per  la  repubblica.  Pertanto  consigliava,  ai  tribuni di  permettere  che  si  réclutassèro  i soldati,  e che reclutati  uscissero:  ai  consoli  poi  di  pubblicare,  appe-j \ Digitized  by  Coogle V',  i.iBHó  xr.'  '  38 1 na  detto  buon  alla  guerra  il  previa  decreto  su  la legge:  e si  scrivessero  e si  corueruissero  fin  et  alloratali  cose  da  ambe  ’ie, parti.  Ta^è  fu  la  senteuza  di  Vail  secoudo  da' consoli:  non ^ però  ne  fu  pari  1  affetto  io tutti  gli  astanti.  Imperocché  quelli,  che  voleaoo  preclusa la  legge,  ne  udirono  f!Ot>  piacere  la  dilazione, non'peré con  piacere  ne  adirono  éhe  essa  dovesse  decretarsi  dopo la  guerra:  air  opposito  quelli  che  volevano  che    accattasse la  legge  dal  Senato  iotesero  con  trasporlo  che giusta  si  dichiarava  : ma  con  isdegno  intesero  che  se  ne ritardasse  il  decreto.  j > LX.  filato  taraulto  ('oom' è verisimile, perchè  questa sentenza  non  soddisfaceva  in  tutto  ad  ainhe  le  parti, il console  fattosi  innanzi  interrogò  per  il  terzo  Cajo  Claudio il  quale  sembrava  ostinatissimo  e/  potentinimo  fra  tutti i primari  della  fazione  opposta  alla  |>lebe.  Costui  tenne un  dùtcorso  premeditato  contro  del  popolo-,  rilevando  di luì  tutte  le  cose  che  gPien  parevano  contrarie  a begli usi  della  patria,  fra  lo  scopo  principale  ove  tendeva  il dir  suo,  che  i consoli  non  pcoponessero  al  Senato  l’^esar me  di  quella  legge    allora'    mai, ooine  diretta  a distruggere  il  comando  degli  Ottimati,  e confondere  ogni buon  ordine.  Cresciuto  a tal  dire  il  tumulto, sorse  invitato il  quarto, Genuzio, fratello  dell  a^tro  console.-Costui  j discorse  breveménce  le  circostanze  della  città, e come  la  cótnplicav^^no  all  uno  o all’  altro  disastro, o di  far  prosperare  ^i  nemici  per  la  discordia  e 1  ambiziojie de’  citudinij  e, di  dare  mal  termine  alla  guerra  interna e domestica  .|>er  espedirsi  dajl’  altra  che  le  era  portata di  fuori,  disse,  che  essendo' due  i maiì'  ed  essendo  necessità d’  inwyrreme, loro  mal  grado,' l’^udo  o Y altro, credeva  coufacevole  ai  Padri  lasciar  che  il  popolo  urtasse alcune  istituzioni  proprie,  anzi  che  rendere  la  patria  Io scherno  di  forestieri'  e nemici^  E cosi  dicendo"  propose la  sentenza  approvata  nel  congresso  di  ^elli  che  si  erano in  casa  riuniti, sentenza  come  io  dichiarai  suggerita  da Claudio, che  si  eleggessero  ift  luogo  de'  consoli  i tribuni militari, tre  de’  patrizj, e tre  dd  plebei, tutti con' potestà  superiore  : chè  quando  -^nìrebbefo  questi il  lor  tempo,  e si  dovrebbero  creare  i nuovi  magistrati ; allora  unitisi  di  bel  nuovo  il  SerUUo  ed  il  popolo decidessero  quali  più  voleano  riassumesre  al  cornando  li tribuni  militari  o li  consoli  : che  per  valido  si  tenesse quello  che  il  voto  comune  destinerebbe:  e che  pari decreto  si  rinovpsse  ogni  anno., ' ' LXI.  Eu  la  opinion  di  Genuzto  acclamata  da  tutti: e gli  altri  che  sorsero  a sentenziar  dopo  lui  -la  tennero, quasi  tutti, per  b migliore.  ' Se  ne  stese  dunque  da' consoli  il  decreto, ed  i tribuni  della  plebe, pigliatolo, oe  andarono, tripudiando,  al' Foro.  E convocatovi  il popolò,  vi  lodarono  amplissimamente  il  Senato^  e vi  di nunziaronoV  cbe  doncorresse  pure  a’  magistrati  .‘insieme co'  patrizj  chiunque  il  volea  de  plebei.  '.Se  non ohe  il desiderio  senza  cagione, Speciàlmemc'  nel  popolo  ^ è per sé"  dori  vano,  e cori  pronto  ' a dar  luogo  arcOnirario  ; ohe  quelli  i quali  facevano  ogni  prova  per  essere  a parte  ' del  magistrato, risoluti  se  non  concedeasi  ciò  da’ patrlz}, di  abbandonare  la  patria  come  1'  avevano  abbandonata altra  volta, o dì  usurparselo  colle  armi, ottenutane  appena  la  pertnissione, rattemperacono  sestessi, e rivolsero altrove  i loro  favori.  E quantunque  molti  de’  plebei  aspirassero al  militar  tribunato,  e" facessero  per  giungervi insistenze  caldissime  ; non  riputarbno  alcuno  degno  del grande  onore.Cosi  quando  vennesì  al  voti  nominarono al  militar  tribunato  tra’  patria)  che  yi  còneorrevano, Aulo Sèmpronio  Atratino^  Lucio  Attilio  Longo,  e Tito  delio Sieelo.  Questi  assunsero  i piWi  qu^  grado  in  luogo del  consolare  nell’  anno  terzo  della  olimpiade  ottantesima quarta  essendo  Di61o  arconte  in  Atene  :  ma ritenutolo  settantatrè' giorni  lo  deposerq  secondò  gli  usi della  patria’ spontan^atOébte  ;•  perché  alquanti  segni  celesti vietavano  loro  il  maneggio  de’  pubblici  affari.  ' Levatisi questi  dal  comando;  il  Senatosi  raccolse,  e nominò gr;ìn(errè.  U quali  prefìssero  il  tempo  de’  comizj e proposero;  da  risolvere  al  popolo  se  voleat  rieleggere li  tribuni  o li  008011 1 il  popolo  decise  attenersi  agl)  nsi primitivi;  ed  essi  contderono  che  chiunque  il  volea  de palrizj  concorresse  al  consolato."  Adunque  si  elessero  di' nuovo  i' consoli’ dell’  ordin  patriuo, e fuf'onò'  Lucio Papirio  Mugiliano, e Lucio  Sempronio  Atratino, fratello di  uti  de  tribuni  che  s’  eran  dimessi.  Dond  è che  furono in  -fiLoma  tu  un  anno  stesso  due  magistrature  supreme. Non  però  comparisce  1’  una  e l’ altra  magistratut^  in  tutù gli  annali  Romani  : ma  in  alcuni  trova'nsi  i 'soli  tribuni,   Aodo  di  Roma  3ii  $ècon{lo  Catone,  3ia  secondo  Varronc, e 44  ^v.  Ccisle.  Tilo  Livio  dice  cbv  i tribuni  militari  entrarono maghtraii  sul  termidare  dall  anno  3io, e perciò  toccarono  anche l’inno  3 11.  ÌD  altri  i consoli  soli, osservandosi  in  non  molti  T .una e r altra.  Noi  ci  atteniamo  agli  ultimi    senza  ragione, affidandoci  alla  testimonianza  de'  libri  sacri  'recònditi. Sotto,  questi  consoli  nou  occorse  altra  cosa  civile  o militare degna  di  ricordanza;  fecesi  però  trattato  di  amicizia e di  alleanza  colla  cidi  degli  Ardeali, peroccliè spedirono  ambasciadori, pe  qliali, lasciate  le  querimonie intorno  la  campagna, dimandarono  di  essere  gli  amici e gli  alleati  de’  Romani.  I consoli  ratificarono  questo trattato. LXIII.  11  popolo  confermò  co'  suoi  voti  che  si  cf'eas s^  i consoli  anche  per  1’ anqo  seguente  ; e nel.  plenilunio di  Dicembre  presero  il  consolato  Marco.  Geganio Macerinó  per  la  secotula  volta, e Tito  Quinzio  Capitolino per  la  quinta .  Questi  rimostrarono   mentre  i più  inutili  e più  svergognati  eran  fuori  ài  ogni registro,  e cangiavano  luogo  con  luogo  affine  di  viverci come  loro  piaceva., i.   Addo  di  Roma  3ia  se'coado  Catone,  3i3  seeuado,  Yatione, 41  ar.  Cristo. U tomai    AUcartiosso  scrìsse  le  Antichità  Romane dalie  orìgini  di  Roma  fino  alla  prima  guerra Punica  in  venti  libri  estesissimamente, e di  questi, poi  diede  un  compendio  in  cinque  libri  come  fu  già detto  nella  prefazione  al  tomo  primo.  De'  venti  libri perirono  qualche  parte  deW  undecimo, e tutti  i nove ultimi, salvo  alcuni  frammenti  pubblicati  più  volle e ridotti  in  fine  secondo  P ordine  de'  tempi  in  ciò che  narrano.  ’ Avendo  io  trasportato  nel  nostro  idioma  gli  undici primi  libri,  e li  frammenti  già  noti  de'  rimónéitti,  fu tutto  dato  in  luce  U anno  ii5ia  per  Fìncenm  Poggioli, editore  in  Roma  della  Collana  Greca  tradotta in  Italiano.  Quattro  anni  appresso  però, cioè  nel 1816,  apparve  in  Milano  una  stampa  Grecolatina della  quale  il  titolo  latino  è:  DiONTsii  Halicarnassei RomaDarum  AntiquitaUim  pars  hactenus  desiderata  nunc denique  ope  codicum  Ambrostanorum  ab  Angelo  MaJO Ambrosiani  Coliegii  doctore, quantam  licuit, restitala. Quella  stampa  comprende  gli  antichi  frammenti  dei nove  libri  smarriti,  e parti  riguardevoli  derivate  dal compendio,  collocate  prima  c dopo  di  essi  frammenti Digitized  by  Google 388 per  ordinare  un  tutto  il  quale  dia  compenso  e lume di  ciò  che  erano  i nove  libri  perduti  di  Dionigi. Jn  questo  letterario  ordinamento  ci  si    ciò  che si  è trovato, e non  sopra.  Del  resto  la  versione  latina è precisa, corrispondente, elegante, buona, anzi  molto  : te  note  opportune, nè  vi  si  desidera  diligenza : e ciò  basti  su  quell’  opera. Considerando  come  i frammenti  veri  de’  nove  libri presentati  di  nuovo  in  quella  stampa  erano  già  volgarizzati, C editore  in  Roma  della  Collana  Greca tradotta,  cercò  più  volte  di  avere  anche  il  volgare  di que’  supplementi  raccolti  come  si  potè  dalla  Epitome o Compendio  di  Dionigi:  ed  uUirnumente  vi  aggiunse pur  le  sue  premure  il  nuovo  editore  in  Milano  della Collana' Greca, presa  la  occasione  dal  valersi  egli ancora  della  mia  traduzione.  Su  tali  istanze  ho  consegnato il  volgare  di  que’  Supplementi  ordinato  coi vecchi  frammenti  appunto  come  si  ha  nel  testo  Grecolatino.  E ciò  è quanto  basta  a dar  luce  alla  giunta seguente. i • £jglI  avendo  radtinato  Intorno  a sé  uomini  di ogni  reo  genio,  li  nudrìva,  quasi  fiere,  contro  la  patria.   Suppiementi.  Cos\  li  chiamo  per  dittiogaerli  dai  Frammenti. Qnetti  tono  parti  vere^  dei  libp  perduti  f gli  altri  tono  parti  deriTite  dal  compendio  de’ Tenti  libri  delie  anpchilà  di  Dionigi  troraio in  Milano  ueil’ Ambr>a°a  io  due  dodici,  l'nno  intitolato:  Di  Dionigi di  jilicarnatto  Archeologo  Romano  t l’altro:  Dionigi  di  Alitarna$$o  Archeologo  dplle  cote  Romane.  E chiaro  che  questo  titolo i dato  da  altri.  Li  supplementi  avran  sempre  doe  TÌrgole  in  principio ed  in  fine  dei  paragrafi  per  dùtiognerli  dai  frammenti., DELLE  antichità’  ROMANE Tuttavia  se  ascoltava  me, se  confofmavast  alle  leggi, egli  faceva  un  gran  colpo  per  la  difesa, dando  segno non  piccolo  di  non  aver  cospirato.  Ma  sbattuto  dalla sua  cosdenza  si  ridusse  dove  quelli  si  riducono,  i quali siegnono  scellerati  disegni  contro  dei  loro  più  congiunti; deliberò  di  non  presentarsi  al  giudizio  ; e respinse  a colpi  di  mannaja  li  cavalieri  spediti  su  lui    ....  li suolo -della  sua  casa  i Romani  Io  chiamano  equimelio: conciossiacbè  equo  è detto  da  loro, ciò  cbc  non  ha prominenze.  Cosi  il  luogo  soprannominato  Mclio  in principio  fu  di  poi  detto  Equimelio  alterandosi  i dne nómi  in  un  solo    . II.   Guerreggiando  i Tirreni, i Fidenati, e li  Vejenti  co’  Romani  (3j,  Laro  Tolumuio  re  de’  Tirreni segnalandovisi  spaventosamente  ; un  tribuno  romano, Aulo  Cornelio  cognominato  Cosso,  spronò  il  cavallo  su lui.  F attisi  a combattere  già  moveano  ai  colpi  le  aste  ; quando  Tolumnio  feri  nel  petto  il  cavallo  dell’  emulo, talché  il  cavallo  ne  infuria  e lo  atterra.  Ma  Cornelio internando  I’  asta  per  lo  scudo  e 1’  usbergo  nel  fianco di  Tolumnio  rovesciò  pur  lui  da  cavallo.  Ben  sorgea questi  ancora, quando  fu  colto  nell'  anguinaja.  Con  ciò Cosso  Io  ucdsc  e lo  ' spogliò, non  solo  respingendo quanti  accorrevano  fanti  e cavalieri, ma  disanimando  e t.   Qosla  h parte  òel  discorso  di  Cineinnato  sa  Spn^o  Melio Deciso  come  reo  di  ambita  lirannido. La  occisione  di  Spurio  Melio  co4) corre  con  l’anno  3r5.  II libro  XI  di  Dionigi  non  eccede  1  anno  Sia.  Pertanto  cib  ebe  manca a dar  conliuna  la  storia  delle  Àniichiià  Romane  con  quella  del  Cocapendio  b la  serie  dei  fatti  dell’  anno  3i2  e dell!  due  sdenti. impaurando  quanti  erano  alle  mani  neN'  uno  e nell  altro cornò. Essendo  consoli'  ntiovamenie  Aulo  Gjmelio Cosso,  e Tito  Qtrinzio    ; penuriò  la  terra  per  gran siccità;  mancando  non  che  le  pio^e,  fin  le  acque  nelle sorgenti.  Donde  nniversaie  fa  lo  scapito 'di  pecore,  di giumenti, di  bovi  : e moitè  -fra  gli  uomini  le.  malattie, quella  principalmente  che  scabbia  à detta,  assai  molesta per  lo  rosore  nella  cute, c più  Rtolesta  ancora  se  inniceravasi  : infermità  miserabile  in  vero, e cagione  sollecitissima di  rovina  . IV.  ....   Mal  sembrava  a’  primarj  del  Senato  addimesticare il  popolo  alla  pace  e prolungargliene  la  calma, sul  riflesso  che  per  la  pace  si  schiudono  in  città, vizj, piaceri, e sedizioni, e solean  queste  prorompere ad  ogni  occasione, difficili    interrotte, appena  si  logliean  le  guerre  di  fuori  ....  E meglio  superar  1  initnico  beneficando, che  punendo  : imperocché  di    sie gue  se  ' hon  altro, almeno  la  speranza  loro  più  dolce sopra  de’  Numi V. . . a Appena  conobbe  che  i nemid  Io  assalivano alle  spalle, chioso  com’  era  per  ogn’  intorno  da, essif  disperò  di  retrocedere.  Egli  tenea  grave  sul  cuore che  nel  pericolo  comune, essi  pochi  contro  de'  molti, essi  gravati  dalie  arme  conira  milizie  leggere  perirebbero turpissimamente  senza  dar  segno  di  opera  generosa. Adunque  vista  un’ allora  conveniente    lontana  destinò di  occuparla   VI.   Agrippa  Menenio,  e Publio  Lucrezio  e Servio Nauzio  tra  gli  ODorì  di  tribuai  militari  scopersero  and insurrezione  di  servi  destinata  coaUx>'di  Roma.  Disegnavano i congiurati  dar  fuoco  tra  la  notte  in  un tempo  a più  case  in  più  luoghi,  e quando  vedeano  gli altri  intenti  a reprima.  1  incendio, allora  invaderne  il Campidoglio,  ed  altre  parti  munite,  e quindi  provocare ad  esser  liberi  lutti  gii  altri  Servi,  e.  con  essi  ucciderne i padrom',  onde  averae  le  mogli  e li,  beni.  Manifestatasi la  prauca, i capi  di  essa  furono  presi, battuti, e crociassi : e que’  due  servi  che  la  manifestarono,  ottennero essi  la  libertà  veramente, e miUe    dramme  a testa dal  pubblico  erario  a. Adoperavasi  il  tribuno  romano  a compiere  la guerra  iu  pochi  giorni,  come  lui  che  credea  facilissimo, e quasi  posto  nelle  sue  mani, sottomettere  còn  una batuglia  i nemici.  Per  contrario.Jl  comandante  nemico apprendendo  la  perizia  de’  Romani  tra  le  armi, e. la costanza  ne’  pericoli, non  avea  cara  una  battaglia  in campo  aperto  con  pari  circostanze;  ma  Uaeva  la  guerra tra  le  arti  e 1  inganno, aspettandone  chq  gli  si  presentasse un  vantaggio. .. . ferito  e morto  venuto appena  .,, Vili.   In  quest’anno  fu  l’ inverno  rigidissimo,  in Roma  (4), tanto  che  dove  la  neve  caduta  era  meno,   .tnno  di  Roma Il  mille  mauca  oel  lesto.  È presso  a pòco  il  nomerò  pbe  dee supplirai  consideralo  ciò  che  se  ne  ha  presso  di  Livio  lib.  4,  o.  aS. (3)  Questo  racconto  consente  per  qualche  modo  con  ciò  che narra  Livio  net  capo  4^  del  libro  quarto, intorno  la  disfalla  dei Romani  contro  degli  Equi. ivi  era  alta  li  sette  piedi .  Vi  perirono  alquanti  uomini, e molte  greggi,  ed  altro  bestiame  non  poco,  sopraffatto dal  gelo  o dalla  fame  per  mancanza  de’pasccdi. Le  arbori  firuuifere  inusitate  alle  grandi  nevi  o perirono in  tutto,  o seccate  ne’ tempo  in  tali  regioni  alquanto  più boreali  del  mezzo, seguendo  il  circolo  parallelo  il  qual viene  per  1’  Ellesponto  sopra  di  Atene.  Allora,  per  la prima  ed  unica  volta  1’  ambiente  di  questa  regione  si allontanò  dalla  sua  temperatura  fa). I romani  fecero  le  feste  dette  letxistermi  nelr idioma,  dei  luog.o.  Or  furono  ammoniti  a tanto  pe’  libri Sibillini:  giacché  gli  astrinse  a consultarne  l’ oracolo nn  morbo  pestilenziale  mandato  loro  da'  Nomi, nè  sanabile'per  cura  umana.  Adunque  acconciarono,  come voiea  r oracolo  tre  ietti, T uno  ad  Apollo  e Latona, r altro  ad  Ercole  e Diana, ed  il  terzo  a Vulcano  e Nettuno.  Fot  per,s?'tte  giorni  fecero  pubblici  sagrifizj, come  pur  fecero,  ciascuno  secondo  le  forze  sue,  private offerté  ai  Numi, e conviti  sontuosi  ed  accoglienze  di forestieri.  ^, I I '   Livio  raeconu  I.,  c.  i3  cb  il  Tevere  non  pelea  navigard. (3)  Questo  fraocbiaaiUko  tcnvere  et desiderare  le  cautele  dell’aatore  dei  veoli . libri  delle  Aulichità  Aooiaae.  Le  muiasioai  anche rarieeime  dcll'elmosfera  ooa  perché  non  sono  scriue  pel  tempo  paalaio, può  concludersi  che  non  avvenissero  mai  piò. (3j  Livio  parla  di  ul  festa  nel  lib.  t, 0.  i3, la  dice  occorsa Pìsone  il  censore  fa  negli  annaK  suoi  quest’ag> giunta  : cioè, che  sebbene  fossero  sciolti  tutti  i servi  ^ tenuti  io  ferri  dai  padroni, sebbene  Roma  si  empisse di  forestieri, ' e sebbene  ’si  tenessero    e notte  spalan cate  le  case,  penetrandovi  chi  volea,-senz ostacolo  ; pur ninno  si  dolse  che  avessene  furio, nè  oltraggio  ; quan tnnque  i giorni  festivi  sogliano  per  'le  brìachesze  dar largo  il  campo  a disordini  ed  ingiustizie. Stando  i Romani  all’  assedio  di  Vejo    sul nascere  delia  canicola  quando  gli  stagni  diminuisconsi  e tutti  li  fiumi  all’  infuori  ' dell’  Egizio  {filo  (a), il . lago de’ monti  Albani,  distante  non  meno  di  quindici  miglia da  Roma,  presso  al  quale  fu  già  la  città  madre  de’Ro ' mani, crebbe  senza  piogge, senza  nevi, e senz’  altre apparenti  cagioni, per  le  sole  inteMe  sue  fonti'  a tal dismisura, che  'inondò  buon  tratto  delle  adiacenze  con molte  case  di  agricokorì.  E finalmente  aprendosi  a forza, il  passo  tra monti  si  versò  con  terribile  sbocco  ne’  campi sottoposti,  ' Della  estate  contagiosa,  la  qual  s^cedcltc  all' inverao  rigidissimo descritto  diantì.   Addo  di  Roma  356. (a)  Aie  infuori  delV  Egitto  Nilo Questa  cceetione, &t  conoscere, parmi,  che  l’autore'del  compendio  non  i Dionigi.  Imperocché egli  nato  in  Alicamasso  città  dell’  Asia, e già  spettante  al  regno di  Persia, come  tatto  il  corso  dell'  Eufrate, non  poterà, e certo  non  dorerà  ignorare  in  tanta  naturai  tua  diligenia  che  P Eufrate anch  esso  nel  luglio  assai'  cresce  e trabbocca, come  si  legge in  Arriano  iibro  ni,  par.  ao,  greco  per  esso,  e scrittore  delle  gesta di  Alessandro.  Lo  stesso  Arriano  scrire  nel  lib.  r,  paragr.7  secondo la  nostra  tradusione,  che  anche  i fiumi  Indiani  nell’estate  ingrossano fuor  di  modo  e neU’inrerno  scemano. Vedalo  ciò  li  Romaai, da  princìpio, (jQast 10  sdegno  del  cielo  minacciasse  Roma,  decretarono  pia care  con  sagrifizj  i Nomi  ed  i Genj  del  luogo, consaltandovene  pur  gl’  indovini, se  ne  eressero  mai  co$a da  significare:  .Se  non  che    il  Iago  ripigliava  l'ordine SQO,    gTinterpetri  sapean  dirne  a proposito,  ma  sng~ gerirono  che  si  mandasse  per  intenderne  P oracolo  in Delfo. Intanto  un  di  Vejo  perito,  per  Ipmc  avutone da’ maggiori,  dell' arte  divinatoria  di'  qne luoghi,  sfavasi per  avventura  in  gnardiè'deNe  mura/  Era  cosini  noto ad  un  centurione  romano.  E • quél  centurione  venato una  volta  presso  le  mura  lo  salutò  come  usava  ; aggiugnendogli  di  commiserare  Ini  come  tutti  i suoi  pe’mali imminenti  nella  espugnazione  dellai  cittè.'Per  l’opposito 11  Tirreno,  il  qual  già  sapeva  In  inóndàziooe  del  lago Albano,  e sapeva  gli  antichi  oracoli  intorno  di  questa, replicò, sorridendo, guanto  é bene  conoscere  t ot'tvnt're.  Voi  per  non  conoscerne  sostenete  una  guerra senza  fine, e travagli  irriuscibili, disegnandovi  la distruzione  di  Vejo.  Se  alcuno  vi  rivelasse  portare  il destino  di  questa  città  che  allora  sia  presa, quandó U lago  Albano  impoverendo  nelle  acque  sue, non più  si  mescoli  al  mare,  cessereste  di  tenere  voi  nella fatica,  e noi  tra  le  molestie.  Assai  ne  impensierì  ciò udendo  il  romano, e parti. Nel  giorno  appresso  il  romano, comunicatone il  disegno  co’  tribuni',  rivenne  allo  stesso  luogo, ma  senza  le  armi, onde  il  Tirreno  non  sospettasse  affatto d’ insidie.  Ripigliò  I’  usato  saluto, e poi  disse  innanzi  tutto  l’ incertezza  la  quale  agitava  il  campo  de! Romani, e cose  altrettali  da  rallegrarne, com’  egli  credeva, il  Tirreno.  Poi  chiedealo  spositore  di  alquanti segni  e portenti  occorsi  di  recente  ai  tribuni.  Gnidiscese  colui  ' niente  sospettando  d’ inganni.  E fatto  ritirare gli  altri  i quali  erano  con 'lui  si  mise  egli  solo  col  .centurione : £ questi  U passo  a passo  lo  allontanò  dalle mura  con  discorsi  diretti  a deluderlo  ; Or  come  fu presso  alle  muniuoni  romane. lo  abbracciò  con  ambe  le mani, e sei  portò  negli  alloggiamenti  . Quivi  i tribuni  or  lusihgando  or  minacciando lo  ridussero  a dire  quanto  celava  sul  lago  Albano, e poi  lo  mandarono  al  Senato.  Non  parvene  u tutti  i padri in  un  modo  : e chi  tenea  costui  per  pno  scaltro  ^ per  un  impostore,  per  uno  che  mente  su  gli  oracoli de’  Numi,  e chi  dicea  lui  parlare  a punto  il  vero  . XVI.  « Fluttuando  fra  tali  incertezze  H Senato,  ecco i deputati  al  Nome  in  Delfo  riportarne    le  divine risposte,  concordi  a quelle,  date  già  dal  Tirreno:  vncd dire  che  gli  Dei  e li  Genj  li  quali  aveano  in  sorte  la città  di  Vejo  promettevano  mantenervi  costante  la  prosperità trasmessavi  dagli  antenati  finché  le  acque  sorgenti del  lago  Albano  ne  Uaboocassero  e corressero  al mare  : Ma  quando  quelle  acque, .mutata  la  fonte  e il corso  antico, deviassero  altrpve, nè  più  si  mescolassero al  mare,  allora  pur  Vejo  ne  andrebbe  sossopra.  Parve che  potesse  pianto  ottenersi  da’.  Romàni, se  scavando delle  fosse  intorno  al  lago  V  incanalavano  l’ acque  le quali  sboccavano,  dirìgendole  in  campi  lontani  dal  mare.  G>DOsc!ato  ciò  li  Romaai  bentosto  misero  gli  operaj  su r intento  ,Rendutine  i Vejenti  consapevoli  per  nn  pri gioniero,  deliberarono  spedire  a chi  li  assediava,  a fine di  toglier  la  guerra  innanzi  ch^  la  città  soccombesse:  e scelsero  de’ seniori  per  deputati.  Rigettata  dal  Senato  la pace, lasciavano  questi, taciuirni, la  curia  : quando  il più  Cospicuo  fra  loro  e più  famoso  nel  divinare, fermatosene alla  porta  e girato  lo  sguardo  su  tutti  senatori disse:  bel  decreto  v avete  voi  fatto  o Romani! e degno  di  voi  U quali  cercate  dominare  per  tutto intorbo, quando  ricusate  aver  suddita  una  città  nè piccola    ignobile  la  qual  depone  le  armi  e si  rende, e destinata  abbatterla  da’  fondamenti  senza  tememe^t  ira  de'^Numiy    la  vendetta  degli  uomini. Or  ne  verrà  per  questo  su  voi  la  giustizia  punitriea de’  Numi  con  pari  vicenda  ; Voi  che  spogliate  li  Vejenti di  patria, voi, tra  non  molto  perderete  la  vostra. Prendendosi dopo  breve  tempo  Yejo, taluni  de’  cittadini  ne  andarono,  e stettero  da  valebtnomini  contro  a’  nemici, e ne  uccisero  e furono  uccisù: altri  diedero  a sé  stessi  la  morte:  ma  quanti  per  co dardia, e bassezza  di  spirito  risguardavano  ogni  altro successo  come  più  mite  della  morte, abbandonarono  le armi  e sè  stessi  al  inncitore  .   Anche  Cicerone  nel  lib.  r,  c.  44  èe  Natura  Deoram  fa  menxione  di  quella  ambasceria, e dell'annunxio  del  castigo,  succeduto, ^oni’  egli  scrive, sei  auui  dopo  la  presa  di  Vejo,  col  piombare  dei Galli  su  Roma.   GatniUo  sotto  la  dittatitra  del  quale  Ve)o  fu presa, stando  co’  Romani  pili  insigni  su  luogo  elevato donde  tutta  quella  città  si  scopriva,  prknieramente  fèliqitava    stesso^della'  Iiella  avventura  con  che  gli  era accaduto  di  espugnare  e senza  gran  costo  una  città grande  e prosperosa, la  quale  erà  parte, uè  gii  la più  ignobile  'della  Etmria, allora  fiorentissima, e potentissvna  tra'  popoli  dell’  Italia, e la  quale  avea  disputato |1  principato  ai  Romani  con  guerre  moltiplicate  per dieci  generazioni    con  cimentarsi  alfine  a tutti  i mali tra  r assedio  non  interrotto  di  nove,  anni. Di  poi  ponsiderando  per  qual  lievissimo  billico  trascende  la  sorte  umana, e come  nino  bene  tien fermezza, alzò  le  mani, sopplichevole  ' a Giove  e agK altri  Nomi,  perchè  tanta  felicilà  non  chiamasse  l’invidia su  lui  principalmente, nè  su  la  patria  : e se  per  Contrario pubblici  disastri  pendeano  su  Roma,  o privati  sa lui,  almen  fossero  questi  i più  lievi  e più  tollerabili. Non  minore  di  Roma  per  gli  cdificj, godea Vejo  terreni   ampj, d’  assai  frutto, dove  piani, e dove montuosi  in  aere  purissimo  e salutevolissimo,  senza  paludi vicine, dalle  quali  sorgono  aliti  gravi  ed  ingrati, e senza  ninn  fiume  il  qual  dia  troppe  fredde  le.  aure del  mattino:    scarse  vi  son  Tacque,    condotti) Ciok  per  circa  irecento  anni  asjegaaado  treni' anni  ad  ogni generaaione;  Imptroccbè  Vejo  cominciò  tali  tae  gaerre  con  Romolo: poco  prima  della  aua  morte,  e loocomM Livio  ed  aliti  dicono  durato  quello  asi^io  dieci  anni  : vuol diro  nove  furono  gli  anni'  interi  ciocché  scrive  I’  autore  dell’  Epi tome, ma  non  intero  fu  1’  ultimo. (3)  Dionigi  nel  paragr.  i5  del  libro  iz  scrive  che  non  lungi  da levi  altronde, ma  vi  scatnrtacono  copiose  • nommeoo, ohe  bouissime  a beverne  a.  Dicono,  che  quando  Enea 'figlio  di  Anchise e di  Venere  approdò  nell' Italia  volesse, far  sagrìfizio  ad un.  tale  de’  Numi  ; e che  fatte  già  le  preghiere, stando ornai  per  operare  su  la  vittima  apparecchiata, mirasse venir  da  lontano  tm  greco,  Ulisse  forse  quando  fu  per r oracolo  di  Avemo, o Diomede  quando  si  recò  per soccorso  di  Danno.  E dicono  che  disgustato  Enea  dell’incontro,  tenesse  come  inaugurata  la  vista  dell’ inimico tra  le  sante  cose,  e che  volendo  respingerla  si  bendasse e volgesse  altrove  ; finché  dopo  la  sparizione  di  colui lavatesi  di  nuovo  le ^ mani  fece  il  sagrìfizio:  e siccome vi  si  rendè  fàusta  ogni  cosa, e^U  ne  fu  dilettato  per .'nodo  da  custodihie  di  poi  nelle  sante  cose  la  cerimonia; conservandola  per  ciò  li  posteri  di  Ini  quasi  legge dei  sacro  ministero, In  conformità  de’  patrii  riti, fatta  la  supplica Camillo  ancora  si  trasse  in  sul  capo  il  manto, e volea  rivoltarsi.  Ma  travoltoglisi  ciò  che  avea  di  sotto  a piedi, nè  potendosene  rattenere, ne  andò  supino  a terra.  Or  questo  rovescio, indizio  che  egli  di  necessità cadrebbe  per  una  miseranda  caduta, questo  rovescio fàcilissimo  da  intenderlo  senza  calcoli  e divinazioni,  anVejo  è il  fiume  Cremerà,  e che  da  questo  fiume  fu  denomioaio Cremerà  il  caetello  edificato  da  Romani  contro  di  Vejo.  Qui  ai •crÌT  che  non  vi  è niun  fiume  il  ^oalc  dia  troppo  fredde  le  aure del  mattino  : che  anche  senza  fiume  vi  abbondano  le  acque.  Questo esservi  e non  esservi  un  fiume  et concepire  che  lo  scritture  del  com'.^ pendio  non  è Dionigi.] che  da’  meoo  periti, questo  egli noi  pensò  degno  da guardarsene  e da  espiarsene  f ma  lo  ridusse  tale  da. consolarsene  come  se  li  Numi  avessero ‘esaudito  le  pre glie  pii\  illustri  a' quali  esso  era  maestro  di. lettere,  li \   ' • t  Narrano  che  Dionigi  divise  il  suo  campcndie  in  cinque  libri. Ambedue  li  codici  trovati  del  compendio  delle  aiilicbilà  non  hanno 0 non  ritenpoiio  indiaio  ninno  della  distinsiooa  in  libii.  BfOHlGI,  urna  III.  j,S cavò  fuori  delie  porte  come  per  passeggiare  dinanzi  le mura, e far  loro  visibile  il  campo  romano.  Poi  sionla nandoli  poco  a poco  dalla  città, li  ridusse  presso  le guardie  Romane:^  queste  accorsero;  ed  egli  cedè    stesso, e gii  altri.  Menato  a Camillo  disse, che  da  gran  tempo egli  volea  rendere  la  città  de’  Romani  : ma  non  avendo in  sua  balla    la  fortezza, nè  le  porte, nè  le  armi, si argomentò  di  mettere  nelle  mani  di  lui  li  6gli  ^e’dtta^ dini  primarj, consideràndo  cbe  necessiterebbe  li  padri, solleciti  di  salvarli, a dar  la  città  quanto  prima  ai  Romani. E cosi  diceva,  immaginandosene  maravigliòsi  pre^ mj  pel  tradimento,  a II.   Camillo, dati  da  custodire. il  maestro  e (i  fanciulli, scrisse  al  Senato  il  successo,  chiedendone  cièche fosse  da  fare.  Lasciatogli  dal  Senato  di  lÀrne  il  lueglio che  a lui  ne  paresse, egli  cavò  dagli  alloggiamenti'  il maestro  e li  fanciulli,  e fece  alzare il  suo  tribunale  non lungi  dalle  porte, presentandosi  immensa  la  folla  su  le mura, e dalle  porte.  Quindi  primieramente  distinse  ai Falisci  quanto  il  maestro  fosse  stato  ardito  di  olTeuderli. Appresso  ordinò  che  i servi  gli  traesscr  la  veste, e lo canninasser  ben  bene  colle  sferzate  ; e quando  tal  pena gli  parve  bastare  ^ .allóra  ‘diè  delle' verghe  ai  fanciulli, e fece  che  sèi  menassero  innanzi  alla  città,  legato  colle mani  al  t&rgo,  battendolo  e malmenandolo  per  ogni  maniera. I Falisci  ricuperalo  i fanciulli,  e punito  il  maestro in  proporzione  del  suo  malfare, sottomisero  la  patria  a Camillo. Lo  stesso  Camillo  nella  spedizione  su  Vejo   lece  volo  a Giunone^ 'Dea  sovrana  del  luogo,  di  collocarle se  prendea  Yejo, la  statua  iu  Roma',  istitoendoveue insiemé  cpito  magnidco.  Pertanto  dopo  espugnalo  Vejo, man^ò  de’  cavalieri  più  rìguardevoli  a prendere  dalla  sua sede  it  simulacro.  Appena  gl’  inviati  vennero  al  tempio, r uno  (K  loro  sia.  p^erilmeitte  e per  beflTarsene, sia  per fame  l’augurio,  addimandò  la  Dea  se  voleva  tra^mn grarsi  a Roma, e colèi  soggronsè  volere  con  chiarissima voce  della  statua  ; e due  volte  lo  aggiunse.  Impérocchè non  potendo  que’  giovani  peiiuadersi  che  la  statua  fosse quella  che  vea  parlato, replicarono  la  dimanda, e ne adirono  un  altra  volta  la  voce  stessa .   IV.  'Tra  il  comando  de’  consoli  dopo  Camillo  proruppe in  Roma  un  morbo  contagioso, apparecchiato  dal non  piovere  e dall'  anura  estrema.  Afflitti  con  4:iò  git' albereti  e li  senànati  porsero  frutti  pochi,  e nocevoli'  agli uomini, e pascoli  scarsi  e malsani  ai  bestiami.  Odd’  è che il  male  consuase  pecore  e giumenti  senta  numero non  sedo  per. • quantunque  non  ignorassero che  U multa  eccedèVa  non  poco  gli  averi  di  ]ui: ma  ciò  vollero  perchè  messo  ' in  fcavcere  scapitasse  nella riputazione  chi  tanta  ne  avea  per  'hobitissiole  guerre, amministrate  per^  eecellenia.  Li ‘congiunti  e li  clienti  accozzarono e diedero  la  son^ma richiesta  afBnchè  egli non  soggiacesse  a vilipendj  ; ma  H valentnonio  riputando intollerabile  la  ingiuria.,  abbandonò  (a  patriq. Nel  giungere  alle  porte  fra  gli  astanti  • addo lorati  e piangenti  per  la  perdita  che  farebboho,  bagnò di  largo  pianto  anch'esso  il  senAbiante, -e  lamentò  la  infamia in  che  era  mesio  dicendo  : > ^  Adunque  disperando  i barbari  prendere la  fortezza  per  inganno  o di  furto-,  si  diedero  a trattare del  prezzo, cui  dato, i Romani  riavessero  la  cittù. Dopò  giurati  gli  accordi;  i Romani  portarono r oro, e Vckiticinqae  talenti  era  la  somiina'.la  quale'  doveano  ricevere  i Galli.  Disposta  la  bilancia  ècco  il  Gàllp imporvi  un  peso  maggiore  deKgiusto:  se  ne  querelarono i Romani  : ma.  il  nemicò tanto  fu  alieno  dal  rettificarlo, che  lo  aopmccaricò  delia  sua  spada,  levatosela  dal  cinta E chiedendo  il  questore  che  volea  mai  significate  quel fatto  ; rispose, ^ubt    vinti.  E poi  che  il  peso  ivi  posto, ampliato  com’  era-,  non  si  pareggiava, anzi  mancava un  terzo'  di  tanto, i Romani  si  ritirarono  chiesto  tempo da  raccoglier  l’ intero.  Sosteneano  tanta  insolenza  ignari delle  cose  operate  ] come  al>biàm  detto, in  campo  dpe  il  'corpo  ad  un  tempo  e lo  spirito;  converseodola oibei  Uòndi  nasposto^ma  palesemente.  Addolorato  Arante per  lo  distacco  della  donzella  non  più  reggeva  alia  ingiuria-, cbe  ne  avea  da ambedue  : né  potendo  pigliarne Vendetta  si  mise' ad -ùn  viaggio  sótto  .vista  di  liegoziare. Udì  con  trasporto  il  giovine  lo  andare, dandogli  ciò  che era  l^sogao  ai  goadàgiii,'  e T altro  poftò,  nelle  Gallie  molli earri  eoa  Q^i  di  vinoV  di  olio  ^ e 'tnollr.'ata  ceste >di fichi,  a ' r ‘. a I Galli  di  quel  di' non  conoseeano  il  vino delle,  vili,    1’  olio-,  quale  fi'a-uoi  1q  danno  ie  olive: ma.teneano  vin  d’orab,  festnefatato  in  acqqà, ó fogliame. tetro  all  odore, usando  per  olio  ^assi  vecebj  di porco, ingrati  a odorarne  e gustarné/>  CoiQe  provarono frutti  non  prima  gustati  ne  presero  dilatto  masaviglioso, iuierrogaodo  il  forestiere, dove  e come  ciascuno  di  questi si  generasse,  n -'t  E. colai  replica,  the.'iimpìa  e buona  è la terra  che  li  produci, è questa  posseduta  da  uomini, pochi  di  numero:    punto. migliori  delle  Jìemraine  in far  guen'a.  Suggeriva;,chc'non  ricevessero  più 'tali  cose dagli  altri  ad  on  péezzq,  ma  cacciassero  i possessori  antichi, e se  le  appropriassero.  (Mossi  da  quel  dire  ven mi.  Ma  i 'GaRii  ne  misero  in  fuga  la  molhtudine, ed occuparono  tutta  Róma, salvo  il  Campidoglio. v Con  c'ò  gran  eommrrcio  praesdente.  Cioachè  non  ti  accorda  con la  DoTÌlà  deacriiia  .dei  prodotti  recati  da  Aruoti  nelle  Gallif.  Won a facile  a connidemi  ube  una  natione  ai  ecciti  e commo^a  a tfatmtgrare  pa’ racpooti    un  aTTeuttrriero.  Livio  tcrive  Iv  5.  i4> .Eoa  ( Gallt  ) ^lu  oppufinavtrunt  CUuiunì. non  fuh$t  qui  primi  alpet trantUrint^  latù  óonstat.  0uel  .aarii  eo/iitat  impoHa  Alt  lai  nidiaione  era  comune  in  Roma  a'iAreno  Ira!  leueraii  'oi  t,empi  di  Livio, che  sod  (joelli  di  Augatcn,,  .nel  cui  regno^^  anche  Dionigi  vino,  io Roma  luogo  tempo.  Panai  duiiqae  da  coocluderbe  che  lo  scritto  ai risente  di  alquanto  nosiooi  te  'quali  .uoo  erano  del  diligentissimo  aatore  della  aiilicbità  : ciot  questo tjompoodio  k di  t>n  greco  il  quale non  essendo  £>rao  vivulo  nell  Italia, S compendiando  Dionigi, 'vi lasciava  conoscere  la  vena  dell  ingrfpio  ano  non  ai  para  quanto  quella di  Dionigi.]  \, • rodar(7ao,  nel  lesto  edeltan,  donde  celtico e poi  ceillca,,, Digitized  by  Googlc 4i3  delle  Antichità.’  romane dopo  V incendio  generò  dal  ceppo  un  tirgnlto, come  dì Un  cubito, volendo  gli  Dei  manifestare  ^e  ben  presto la'  città, ricreando  se  stessa,  darebbe  germi  novi  in  vece degli  antichi. Anche  in ‘Roma  il  picciolo  tempio  di  Marte  in cima  alPalatino,  'i  Romani  pensano' chò  debbasi  operare ben  alirimen)Ì  debbasi  a’  vecchj benefìzi  sagrificare  la  coliéra  per  gli  oltraggi  recenti. Cerltmenle  della  Romana  grandezza  ben.  fu  meraviglioso. quel  ^axto,  che  non  malmenarono,  pia  lasciarono ille^  tjttti  i Tuscolani  ‘^u^ntuòque  colpevoli  f tna più  meraviglioso  ancora  fu  quanto  eòncedesouo  ad  essi dopo  il  perdono.  Imperocché  fattisi  % provvedere  che non  .saccedesse  più  nòlla  di  Simile.,  nella  loro  città, né più  ci  avessero  alcuni  comodità  di  far  cose  nuove, non conclusero  già  di  mettervi  guarnigione  nella  fortezza, nè Questo  e li  tre  seguenti  paragrafi  sono  fratOmeaii  dei  venti  libri delle  autichltà  Romane  acUtte  da  bioaigt  e àul''  dal  Gomptndjo  ; aono  picciolo  parti  dèli’  opera  vara' e noi  parti  derivata  altronde per  supplirla,  il  tasto  grec  e-la  tradaàioqe  latina  ai  ara  atampata più  volte.  Li  framosenti  ai  dislingtsuao  dal  non  avere  l  virgole  nè in  principio    in  fin^  dei  paragrafi.   lasciarono  contro  il  sangue loco  eccessi  ùi  oltraggi  che  i barbari  più  empj  potessero sopraggiungervi. . ^ 'i' . 'XI.tE  potrei  allegare’  altri  errori' infìnhi  'di  quelle repubbliche  ; ma'  li  tralascio;  giaocbè  spiaeemi  ; fino l’aver  menzionato  gli  ànzidetti.  Imperocché  vorrei  che la  nazione  Greca. si  distinguesse '‘dà . quelle  de’  barbari non  col  nome  solo. e col  dialetto;  ma  per  la.inlelligeoza eia  scelta  delle  utili  costumanze;  c sopratthtto  che  infra loro  noit  si  desolassero  con  ingiurie  più  che  disumane. E   ad  esercitare i lor  corpi  o faticare  nelle  armìv  ne  ausavano  di  continuo, e vi  grondavano  dal  sudore,  costretti  a desisterne innanzi  P awiSo  de’ capitani. Udito  ciò  f ' Camillo  dittatore  de’  RomaOi, adunò  le  sue  milizie, e condonò  • tra  loro,. assai  vivifi(ndole  ad  imprèndere:  0 ‘Romani  ^ e^i  disse,  nói abbiamo  assai  più  cùU  it  nemici  benfatte  le  arme, le corazze  y gli  elmi,  gli  stivali,  gli  teuài  saldi,  coi  tiuaU guardiamo  tutto  il  corpo, le  spade'  d due  tagli, ed in  luogo  dell  asta,  saette  iP  irreparaòH  colpo.  Le  armi colle  qutdi  ci  copriamo  son  tali'da  ndn>  fdcilitare  su noi  le  ferite:  laddove  quelle  con    quedi  nodiamo  'ci abilitano  per  ogn  impresa.  B poi  ruiao  è il  càpo  dei nemici,  nudo  il  petto  ed  i lati, 'nudo  il,fem&re  è la gamba  mfino  piedi.  Altro  noti  hanno  die  li. munisca se  nonf  lò'  scudo  : nè  adiro   tanto  picchiar  degli scudi, e guani  altro  ostentano  di  barbara  e stolido  a bravar  t inimico, guai  vantaggio  daranno  ad  essi  i guali  assalgono  senza  regola, .a-,  guai  mai  terrore  a chi  con  tanta  re^la  sta  tra  i pericoli? Considerando  tali  cose:  voi  tutti  guanti  ne foste  nella  prima  guerra  cpì  Galli  e guanti  non  vi foste, non  ‘diserrate.'  o voi  ohe  vi  foste  C arUica  virtù, col  temere, e;  vai  che  non  virfbste  non  siate  da meno  che  gli  altri  net  jegntdarvi  co' fatti .  Andate   La  prima  gnarra  ocoqrae  l’ aooo    I  acMiida  ueii’bravi  giovani  : dimostratevi  degni  de'  padri  valorosi, correte  intrepidamente  al  nemico  ; Sarà  con  voi  la  ' mano  degC  Iddìi  per  tentarvi  à punire  • quanto  volete, questiimpìacabili.  Io  vi  son  duce,  al  qucde  tanto  teslificate  buon  senno  e Jbrlunà.  Da  ora  in  poi  saréte felici,  sia  che  riporterete  alla  patria  la  iwbilo  corona della  vostra  virtù, sia  che  qui  finendo  la  vita  lascorete  a’  teneri' figli]  e ai  vecxhj  padri  per  un  fragile corpo  una  splendida  fama  immortale.^  Ma  già  non  è più  da  tenervi,  Ecco  t irUaùco  sen  viene  ; ofidaie, presentatevi  in  schiera  . Era ‘'il  combattere  de’ Barbari  ansi  brutab: e maniaco  senza  le  cure  e la  scienza  delle  e vi ascese.  Accorsa  la  molUtudine  'urbana  allo  spettacolo, egli  primieramente  fece  voti  alBncbè  11  ^umi  avvèrsaaero  l’ oracolo, e facessero  nascere  molti, eguali  a lui di  valore  bella  patria.  Dopo  ciò  lasciate  le  redini  e ' dato  di  sprone  cavallò  precipitò  nella  voraginet  Sopra lui  furono  gittate  in  quell’  abisso  nioltè.  vittime, nìolti frutti,  molte  ricchezze,  molte  preziose  Vesti  ^ 'molti oggetti  di  arti  di  ogni  maniera,  e senza  più  la  terra  si ricongiunse  Il  Gallo  area  corpo  straordinario,  il quale  molto  eccedeva  la  proporzione  comnne  ....  Licinio Stolone  stato  dieci  volte  tribuno, quegli  il  ‘‘quale fu  capo  alla  fstitnzlone  delle  leggi, per  la  'quale  dieci anni  fu  sedizione,  alfine'  vinto  iu  giudizio  e condannato ad  una  multa  in  danaro  ())  disse:  che  non  vi  è bestia alcuna  pià  callivà  del  popolo,  il  qutde  non  nsparmia nemmeno  chi  lo  sostenta  . Assediando  Marcio  console  que’di  Piperno, ridotti  senz’  altra  speranza  spedirono  a lui.  E Marcio, indicatemi, disse, come  solete  voi  trattare  li  servi  li quali    voi  si  ribellano  ? tome  si  dee, soggiunse  il legato  più  anziano, punir  chi  desidera  ricupenve  la r   Sie  mai  ri  fu  questa  Toragiae, ciò  che  può  beo  essere,  ta ricoopuDtione  di  lai  mode  ò tutta  (àvolosa.  Livio  assai  propiiio  a tali  raceopti  aon  lafiiTorisce.  liberti  ncUiva.  DlIetUtosL  Marcio  del  franco  parlare, e se  nei, dicea, se  noi  ci  lasciassimo  piegare  a'  lispar^ miarvi  ogni  cruccio,  quali  pegni  ne  darete  voi  di  non farla  mai  più  da  nemici  ? q V anziano  tipigUava.  Sta in  te  o Marcio  e ne'  tuoi  Romani'  sperimetttm-lo.  So con  la  patria  Uberi  torniamo, vi  ci  terremo  • pen sèmpre  costanti  amici  : ma  tali  mai  vi  saremo, 'se  ci astringerete  a servire.  Marcio  ne  ammirò  li  magnanimi M‘q^i, e sciolse  1’  assedio  .. L  IV^EMTAE  i GaQi  guerreggiavano  Roma,  un  priil' cipe  di  questi  sfidò  qm^lunque  de’ Romani  a venire  con esso  al  paragone  dello  armi,.  Un  Marco  Valerio  tribuno proveniente  da  Valerio  PopUcola’  il  quale  insieme con  altri  ' Uberò  la  città  dai  tiranni, si  fece  innansi  pel combattimento.  Venuti 'alle  mani,'  un  ooryo  .si.  mise  in su. r elmo  di  Valerio,  sgrid^do  e guardando  terribilmente il  barbaro  f e se  mai  lo.  vedeva  portare  de’ colpi sul  romano  / gli  si  avventava  ora  colie  unghie  alle   Addo  di  Roma  45.  j. ' ; guance  lacerando, ed  ora  col  rostro  agli'  Occhi, pungendo. Tanto  che  il  Gallo  ne  andava  fuori  di  se, non potendo  trovare  come  ribatter  1'  emolo, nè  come  'guardarsi dal  corvo  !  ' ' II.   Ma  traendosi  la  zuffa  in  lungo,  il'  Gallo  fu  col ft;rro  sU  T altro  per  internarglielo  coll'  impeto  nel  seno. Corsogli  il  corvo  agli  occhi  Onde  forarglieli,  colui  alzò Io  scudo  a respingerlo  : e tenendolo  alzato, il  Romano che  ne  seguiva  1e  mosse, menò  da  basso  la  spada, e lo  uccise,  Camillo    il  comandante  lo  insigni  .con aurea  corona  soprapnominaudolo  Corvino^  dall’  uccello compagno  di  lui  nel  combattimento  ; perocchò  li  Romani chiamano  corvi',  gli  oicoelll  che  noi  coracas  chiamiamo. E costui  da  quel  fatto  ebbe  1’  elmo  ornato di un  corvo.  In  guisa  che  qùanti  fecero  statue  o pitture di  lui, lutti  gli  acconciarono  sul  capo  quell’  uccello. Devastavano  le  campagne  ricche  di  ogni  bene... nomini  sfìaiti  dalla  g^uerra  • e simili  ai  cadaveri, se  non quanto  respiravano . .. Essendo  calda  ancora  la  penero come  dicono  dell  ucciso  ...  Fu  vittin  miseranda  delr inimicO’Uomo  il  quale  saziava  la  iuvidia  sua  poi  sangue civile . .. Dispensò  tra’  soldati  parte  de’  vantaggi nè  questa  la  più  piccola,'  ma  tale  da  sommergéK  frà le  ricchezze  la  inopia  dt  ciascùtlo . .. diedero  il 'guasto ài  seminati’ già  colmi  per  h ' raccolta tnalmetiando  il meglio  dellB^ terre  fruttifere  :  ' i  I • f I ' t,   Queste  Cemitlo  il, quale  apparisce  ora  aalHaaao'4e&  Roma i Uli  tìglio  del^ftmoso  Furio  Csmiflo  morto  i6  ano,!  adòiciro.  .Aucb'esso  viute  S fugò  con  ifna  iniigue  battaglia  i Galli,  tuttavia  molesti ai  Romani.  Livio  lib.  7.  aS.  aC.  'Ma  percl^è  spesso  e molto  danneggiavano  i Campani  come  iorp' amici .  Pertanto  -il  Senato  ro manò  su  le  istanze  e lamenti  replicati  dé’ Campani  .con tro  de  Napoletani  spédi  a questi  ordinando  che  non più  nòcessero  ai  sudditi  della  repubblica  ; ma  ne  avessero e rendessero  ciò  ch’  era  ^usto  -:  e nascendo  coih(roversìe  fra  loro,  le  dJscutesserò  co’gindizj  non'cqlle armi, ' secQudo  le  convenzioni  che  ne  farcbbono  : del resto  mantenessero  la  pace  con  lutti  ìnlornó  i popoli, non  corseggiassero  il  mare  Tirreno    tentassero  eséi per      .cooperassero  con  altri  imprese  disdicevoli ai  Greci.  Soprattutto  istmi,  gli  .ambasciadori  che  ’ cercassero, Se  venivano  il  destro, di  alienare  co’  bei  modi verso  de’  potenti  la  loro  città  dai  Sanniti, e renderla amica  di  Roma.  ',. y.  Ti-òvavansi  di  quel  tempo  (a)  in  Napoli  come ambasciadori  di  Tatanto  uomini  rispettabili, e, po’  ligami  del. sangue,  ospiti  antichi  di  que’ cittadini:  ma  por altri,vi  si  trovavano  inviativi  da’ Nolani, cooSuanti  dei Napoletani,  e tutti  dediti'  ai  Greci,  i quali  vi  brigavano in  contrario  onde  non  copcórdassero  co’  Ifomani  nè co'  sudditi  di  essi)    lasciassero'  l' amicizia  verso  dei Sanniti.  'Che  .se  r Romani  set  pigliassero  a pretesto di  guerra  { rton  temessero, nè  invilissero, come  in^ su^rabile  rie  fosse  la  forza  ; ma,  perseverassero, e combattessero  come  i jbraoi  Grecf.,  confidando sù  le    Manca  il  principio  dj  questo  raccolto:  puj>  coninliar^i  Livio nel  lib.  8, c.  aa.  Questo 'pangrafo  e tutto  il  resto  del  libto 'sono Frammenti  veri  dei  libri  perduti  delle  aatichità  di  Dionigi.] schiere  proprie  ^ e su  le  ausiìiane^  che  verrehhono  dai Sanniti.  Riceverebbero  se  ne  abbisognavano, pià delle  loro,  le  forte, navali  dà' TaretUim, le  quali eran  tanUs  e. si,  buone. Adunato  il.  Sanato,  e tenutivi  molti  dlsconi  dai legati   loro  fautori, vi  si  divisero  i senbmenti  : ma  li piu  autorevoli  parfianO  tenerla  ' pe’  Romani.  Non  fecesi per  quel  giorno  decréto  alcuno, ma  riserbato  per,  altra sessìonè  l’esame  intorno  ai  legati;  recaronsi  a Napoli  in folla'  i primarj  de’  Sanniti.  Or  quésti   Conciliandosi  con ossequióse  manio:e  i capi  del  comune-,  pregarono  il Senato  a far  si  che  decidesse  il  popolo  dell’,  utile  pub blico.  Quindi  recandosene  all’  adunanza, vi  ricordarono i loro  benefizj, poi  vi  fecero  le  mille  accuse  di  Roma come  di  una  ingannevole  e perfida  : e finalntente  promiserole  meraviglie  ai  Napoletani  se  deliberavann  per la  guerra:  vale  a dire  che  mauderèbbero  loro. milizie, quante  ne  bisognassero  ‘ per  difender  le  ptura, come Tarmata  e 4utta  la  ciurma  per  le  na#I.  Davano  insieme a vedere  che  subirebbero  tutte’  le  speso  guerra  non solo  pe’  soldati  proprj, m  pe’  loro.;  che  respinto  T .esercito  romano  ricupererebbero,Cuma, occupata  dai Campani,  erano  già  due  generazioni  {i),  .cén  esdnderM gli  abitanti  : che  renderebbero  la  patria  ai  Cumani, accolti, quando  U perderono, dai  Napoletani, e fatti partecipi  di  ogni  lor  bene:  che  'darebbero  ai  Napoletani un  trat^  assai  grande  del  territorio  che  tenevasi  dai Catppihi., -, ' r ', vn.  Ih  mezzo  a .tal  dire,  la  parte  calcolatrice  dei Ntpoletani, la  quale  vedea  da'  .lontano  i mali  xhe  ver rri>bero  colle  battaglie,  su  la  città, dimandava  che  ai conservasse  la  ^ace:  ma' la  parte  amante  di  :cose  nuove ^Ja  quale  cercava  insieme  un.  mezsp .  arricchire  nelle ttsbolenze  lanciavasi  verso  le  guerra:  'Pertanto,  elevafonsi a vicenda  e -voci  e mani  ; procedendo  la  contesa  fino al  tiro  delsàss).  Alfine  prevalendo  il. partito  men  buono, gli.  oratori  di  Roma  dovettero  tornarsene  senza  Tintento. Dond’^è  che  il"  Senato  romano  .decreti^  'd’ inviare  un eseacito  contro  de’ Napoletani.  ., ' .Vln.  1 Romani  all’  udire  5^10  i Sanniti  apprestavano un  esercito,  vi  spedirono  prima  Rmbasciadori..  E di essi  quelli  eh’ erano  scelti  dell’ ordine ..  senatorio  venuti ai  consiglieri  de’ Sanniti  dissero:  Voi  fatfi  ÌQgiustamonte o Sanniti  violando  i p'attati  cha  ovate  con  noi  con^ cordato.  Amici  vi  eijt^nete  di  nome, nemici  che  ne siete  di  fattL  Vìnti,  voi  da  Romani  in  tanti  condtat timenti,  sciolti  per  le  istanze  vostre  caldissime  dalla • f. . ' guerra  j oiténuta  la  pace  come  la  volevate'  ^ e desiderosi poi  di  essere  gli  amici  e gli  alleati  di  Roma; giuraste,  alfine,  di  avere  amici  e nemici  quelli  appvinto che  per  tali  riconosceva  la  nostra  repubblica. ^ IX.  Ed  ora  immemori  di  tutto  questo, e fin  posti in  non  cale  i, giuramenti, avete  abbandonato  noi nella  jguerra  co'  Latini  e ci>i  Volsci,,cpn  que’  pòpoli io  dioOf  che  sono  divenuti  nemici  nostri  appunto  per voi, perchè  avevamo  noi  ricusqtò  di  unirci  con  essi net  dare  a wi  guerra.  JE  nelt  anno. J precedente  voi avete 'istigato  con  tutta  la  premura  e f ardore, anzi. voi. avete  necessitato  i Napoletani  che  temevano  farlo, a prendere. contro  noi  la  guerra^  e voi  ne  supplite'le  spese  : voi  la  loro  città  ven  tenete.  Ed  ora tutti  intenti  ad  apparecchiarvi  raccogliete  d'  ogn  intorno milizie,>  coh  pretesto, come  pare, innocente, ma:  in  realtà  con  disegno  di  guidarle  contro' i nostri cotoni.  Ed  a tanta  ingiustizia  invitate  i .Fdndiani  e i Formiqni' ed  altri,  i (fuaii  abbiamo  no,i  pOr^^iato ne'  diritti  ai  nostri  cittadini. X.‘  Or  'voi  profanando  così  scopertamente  9 turpemente i trattati  'di  amicizia  e di  alleanza  ; il  Senato ed  il  popolo  romano^  deliberarono  di  spedirvi  ambasciadori, e iperitnentai'vi  colle  parole, innanzi  di procedere  ai'  fatti.  E queste  sono  le  cose  che  ami tutto  vi  dimandiamo,  queste  quelle,  ottenute  le  quali, crederemo  soddisfatti  i nostri  risentimertti  : Chiediamo primieramente  che  ritiriate,  le  truppe 'inviate  in  soccorso ai  Napoletani:,^  e poi  che  non  mandiate  milizie condro  i nostri'  coloni, nè  provochiate affatto  i sudditi nostri  a voglie  ambiziose.  Che  se  dite  che  tali cose  non  piacciono  a tutti  fra  voi, ma che  le  fitnno alcuni  solamente  contro  il  ‘votò  comune;  cónsegHàteci dunque  voi  questi  perchè  ne  giudichiamo, 0 cen  terremo contenti:  ma  se  non  gli  avremo  noi  tjuesti  nelle mani  j né  prenderemo  in  ) testimonia  i Numi, ed  i Genj  invocati  da  voi  -nel  giurare  i trattati  ; e pSrciò siam  qua  venuti  co  Eeciali. Dòpo  H parlar  del  romano  consaìlatisl  infra  loro quei  capi  de’  Sanniti  diedero  questa  risposta  : Non  è già  colpa  del  comune  che  i nostri  sussidj  giungessero  a poi  tardi  per  Ut  guerra  'cóntro  i Latini,  Imperocché si  era  appunto  decretato  che  questi  a voi  s’ inviassero : ma  i capitani  assai  ' s’  irtdugiOrono  nell  àpprestarveli  ; come  voi  troppo  vi  acceleraste  a dar  la battaglia  ] e coti  giunsero  quelli  tre  o Quattro  giorni dopo  il  bisogno.'' Jiispetto'  a Napoli  poi -dove  sono alquanti,  de 'nostri, tanto  siamo  lantàni  dcUt  oltraggiarvi soccorrendola  in  qualche  fnodo  mentre  perico ' la-;  che  noi  pensiamo  di 'essere'  piuttosto  gli  oltraggiati e gravemente  da  voi.  Foi,  tutto  che  non  òjfesi, v'  adoperale  a soggiogare  questa  città, confederata ed  amica  nostra  non  già  da  poco, né  d^  allora  che con  voi  ci  concordammo, ma  da  due  generaeioni en>antS, e per  grandi  e copiosi  ben^tij  ricevutine. XII.  .Tuttavia  non  é la  comun  dei  Sanniti  che  offendavi nepimeno  in  questo  ; imperocché  di  propria voglia  ìóccorpono  Napoli, come  udiamo, alcuni  nostri, ospiti  ed  amici  loro, o stipendiati, per  la  indi^nta’fbrse  del  vivere.    abbiam  poi  bisogno  di staccare  da  voi'  li  sudditi  yostri  ; imperocché  senza que’  di  Fondi, ^ e. li  Formiesi, noi, necessitati  alla guerra, bastiamo  a noi stessi.  -Apparecchiamo  un esercitonon  per  levare:  a^ yostri  colorii  le  còse  loro  ; ma  per  difendere  le  nostre  propriamente.  A vicenda noi  dimandiamo  da  voi  j se -volete  far  la  giustizia, che  partiate  da  Fregelli, città  da  " noi  conquistata tanto  priiHa  col  mezzo  delle  armi,  che  è mezzo  dirittissimo di  possedere  ; e voi  sera  alcun  titolo  ve t avete, già  sono  due anni, ' appropriata.  ' Or  tali Digilized  by  Google 428  DELLE  Antichità^,  romane cose  ci  si  concedano  > nè  crederemo  di, essere  stati oltraggiati. Allora  subentrando 'al  discorso  il  Pedale  Romano, ripigliò  : Niente  impedisce  che  violando  voi così  manifestamente  i trattati  di  pacOy  i Bomani  passino alle  armi  : nè  già  ponete  lepnerUarvi  di  essi, ma  de'  non sani  vostri  consigli.  Ornai  da  loro  si  è /atto  qtuuUo  doveàsi  per  .le  leggi  rsacre  e civili  della patria, o di  pio  verso  i Numi, o di  giusto  verso  i mortali.  Gli  Dei  che  per  sorte  soprawegliano  alla guerra,  giudicheranno  tfuale  de  due  popoli  osservasse i tràttati.  £/  qpi  recatosi  in  atto  di  partire, e tiratosi al  capo  il  lembo  onde  cingevasi  gli  omeri, .alzò  come era  il  costume  j le  mani'  al  cielo, orando  don.  imprecazione gl'  Iddii  : che  se  Roma  ingiuriata  da  Sarmio, non  potendo  riaversi  dalla,  ingiuria  cotle  jrsfrole  e co'  tribunali  ^ procedeva  finabnerite  alle  operé, U dessero  per  la  mente  ctmsigU  bùqni,.  e.  condotta,  propizia per  la  guerra.  Afa  se  in  opposito  Rorna  ìràscurando  i legami  santi  delV  amicizia,' accattava  pretesti non  giusti  onde  romperla, -.non  la  dirigessero 0 ne  consigli  o ftelle  opere. XIV.  Levatisi  gli  uni  e gli  altri  dal  .colloquio  ; e dichiarate alle  loro  città  le  CMe  disputatevi  ; dascuno  dei due  popoli  pensò  molto  diversamente  su  Tabro.  I Sanniti come  £an  essi  quando  iqtprendon  la  guerra, tendano per  lent^  assai  |e  operazioni  de’ Romani;  laddove 1 Romani  immaginavano  rannata  di  Sannio. ornai  prossima a. piombare  ^u  i  Fregèllaui’,  loro  còloni.  Donde ne  avvenne  a ciascuno  ciocché  erane  consentaneo:  Imperocché  li  primi,  apparecchiandosi  e indugiandosi  rovinarono la  opportunità  ’d^  imprendere  : per  T opposito i Romani  tenendo  tutto  pronto, udita  appena  la  risponsóli.  E prima  che  i nemici  ne  udissero la  marcia;  tanto  le  milizie  reclutate V, ‘non.  di:etidere in  teiTa, ma  .dalla  terra  elevarsi.  Imperocché  nell’  e^ero stan  le  sorgenti  del  fuoco  divino. a Ciò  che  si  dimo^ra  pel  fuora  .nostro  sia  che lo  abbiam 'da.  Prometeo, sia  che  da  Vulcano.  Impe^ rocché  quando  è sciolto  da’  vincoli  pe’  quali  è necessiuto  a  rimanere  fra  noi, corre  subitamente  per  1’  aria verso  1’altro  fuoco, suo  connaturale,  ed  Q quale  doge d’interno' tutta  la  natura  del  mondo^  Cosi  donque  l’al.   l6 e Livio  più  dislesamente. Il  tratto  aegnenic  sembra  parte  della  ri^tosia  di  Poaaio  airinviato  de’ Romani.  neUe  guerre  han perduto  i jìgti,  quanti  i fraleìli, e quanti  gli  amici?  Ne’>  quali  tutti  come  pensi  che  dee traboccatne  la  bile  se  alcuno  ' gf  impedisca  placare ^ue'  morti  eoa  tante  vite  di  nemici  le  quali  sole  son credute  un  ossequio  in  verso  gU  estinti  ì, V.  '  Ma  supponiamo  che  •persuasi,  o forzali^  o per qualunque  maniera  vinti  mi  si  arrendano, e contxdano che  questi  continuino  tìi  vita,  or  ti  pare,  che  sian  per cqnce'dere'che  ritengano  insieme  ogni  lor  cesa,  q sema pur  neo  di  vergogna'  se  ne  vadano  quando,  a tbr  pia ce, 'quasi  eroi. qui  apparsi  per  felicitàrne  ? O non piuttosto  sopravvenendomi  j quasi  fiere,  mi  sbranerebbero appena  tentassi  dit  questo?  O non  vedi  come  i cani  da  caccia  quando  è presa  la  fiera  la  qual  chiusa dà  essi  va  nella  rete, circondano  il  ceuciatort, chiedendo parte  della  preda  ? e se  non  ottengono  bttntosto il  sangue  o le  viscere, non  yédi  come  lo  sieguonó, e pressano,  e malmenano,  nè.  respinti  sèn  pdrtono, nè percossi  ? Faticarono  tuUo'il  di  cotnbaltendd,  ma^i che  le  ombre  tobero  di  rafhgurare  gii  amici  e i nemici, tornarono  a proprj  alloggiamenti. Appio  Gaudio  non so  per  qual  mancanza  intorno  de  sagrifizj  perdé  la  vista, e ne  fu  denominato ->^f£'eco  ; 'perocché  li' Romani cosi  chiamano  chi  non  vede  . le  scritluce'  custodite tra  1 murs  , formate  con  lettere/  accuratissime, odo'rifere  per  lo  misto  in  che  sono,  presentano  tal  iloridez (t)  È diifieite  iotarpetrare  dove  miri  iitesio  rottame. Fn  detto che  alle  nti  Freoettine. .,•  i 4^3 u. ^. I RonUuii  ckUmaQO  calende'  le  ncòmeaie . come   none  dtiamano  la'  mezza  IbQa, ed  idi  il  pleoiluaio. Era. la  falange  nel  rnsAZO  disgiunta  ié.  mal piena  : cori  quelli  che  ivi  erano  disposti  id  òontrario, le  furono  sopra,  e ne 'respinsero  i>coDÒfc|auenli  l’'iaosa,  guàra  aitàccò  tutto  il  fiore  dc^  cita Uomini  sacerdoti, onorati  Co’  sacri -minirieii'. Quest’  uomo  pien  di  trasporti  senza  consiglro,  insolen> tissimo, deliberando  e ctmcentrando  in    tutti  i poteri per  la  guerra  E poi  tu  ardisci  di  accusare  ia sorte,  turche  la  usavi  pessimarnente,  postola  su  barca già  rovesciata  ? Così  eri  stolto  ? \, .^jilcuni  i membri abbisognano  di  cura,  e tali  altri  cicalritzcmdosene . VQt    Ma  vo’ ricordare  ancora  un’ arion' dvile -de gna  degli  noom)  di  tutti  i mortali, dalla  iquale  sia  chiaro ai  .Greci  quanto  Roma ' allora  abborrisse  soellerati, e come  fosse  inesorabile  contro  chi  viola  i diritti  comuni della  natura.  |Ca jo  Letorìo  soprannominato  Mergo, uomo illtutre  pe’^  natali,, còme  >non  ignobile  per  le'  belliche imprese  ; dichiarato  trìbW>'  militare  nefia 'guetta  -Sannitica^  Ittsiqgò  per  un  tempo  un  giovinetto^  sub  camerata, vago  più  eh’  altri  di  aspetto, perchè  rendere  si volesse  agli  amorosi  diletti  di lui.  Ma  perchè  noi guadagnava  cb’'donl, uè  còlle  gentili  maniere,  ornai  più non  bastando  a sesiesM, cpr§e  alla  violen^.  Divulgatosene il  disordine  tra  le  miliziè,,  i tribuni  • della  plebe y  ; V  ' Qoaoto  SigoJa  questo  .libro, er^etlaato.  it  paragrafo  lO'A lutto  frammenti.  • ripuUQ^Io  oltraggiò  comune  della  {repubblica, me  die dero  .accusa  .pubblica  al  reo-,  cpudannatone  quindi  dal .popolò  a Qiorte  eoo  voti  pieqi.  Peroécbè  non  tollerò questo  ebe  uomini  di  grado,nell',;fsercilo  profanassero con  ingiurie ‘ùmpìabili  e contrarie  ali^  -natura  Tirile, ' persone -iagentté,  mentre  esse  per  la  libertà’ co  njballe-; vano  i  .Se  non  che  non  molto  prima -di  questo  fece^ttn’ opera  ‘ aaeor  piò  tp^evigliosa  per  T ingiuria  recata  ad  un altra  persona,  quantunque  servile.  Il  (àglio  di  PubKo,io dico  t di  uno  di  que’  tribuni  milUari  che  umiliarono  ai Sanniti  l’ esercito  e n&  andarono,  sotto  giogo, fa  costiletto,  come  lasciato  iir  grave  pénuria,  a ter -danari ad  usura  pe’ funerali  del  padre,^qtfasi  ch%  sarebbene quanto  prima  rilegato  da’  parenti.'  Ma  deinsò  nelle  sue speranze,  e scadutone  il  termine {vfa  présir'egU  Stesso pel: debito,  giovinetto  èòm’  era.  e vaghissimo  nc’  sem(t)  Valtrìo  Masshiro  pirla  di    a(  capo' primo  Le  deecrjsione  qui  ecala  b l' una' de’ tram  meati  de’ libri  perdoti-di  Oiop^i.,II'£|ito  fi  narra  pur  aél  compendio  in.  tal  modo: Ua  tal  Romano^,  Cajo  Leutrio, intUleva  cpn  un  giovine, suo  eumerata,  ond’ avir  tUo  diletto  da  lui  y vago  della  persona.  'Ma  non essendo  il  giovane  goodagnalq  nb  per  doni  v né  pér  eavetse, alta Jiite  divalgato  il  disordine  dell’uomo,  i tribuni  lo  condannaranò. ‘-'IXdnigi, ’Oòm'Vne'^reaiaieoii, leone  per  ciseostinta  gravissima del  fitto  la  vipleoia, usala  in  noe  dg  Letorio  : -Se  cglf  compendiava sè  atess >Ta  le  carni  ^acci&ct^  appena-^  si'riseajtooo  e ' commoTOusi  ifid  tanto  eh. gli  piriti. nalnrali  di  esse  yio lentano  i p.ori, e $i  dissipa'no.  Questa  •>, pur  la  cagione de’  terremolwià  Roma.  Conciossiaché  tutta  vuota  di  setto per  grandi  e contiqùatl  canali  pe’  quali  conducesi  T afana tien  m'ohe  sflatatoje^  per  le  quali  sen.esca.il  vento  rior.hiusovit  ma.  quando  il  vento 'rimastovi  prigiohiero  ' sia troppo  e veemente^  questo^  somioove'  Roriù  e rompene il  suolo,  a •' Si^ consenta  in  generata  ani  liplo  rfi  qi|eSto, giATÌnetto  : ma  si discorda  autonome,  su  la  famìglia',  e sul  ten^)0.  Valerio' Massimo nel  lihA  ^ lo  chiama  fity  Vetório  figlto  noa  di  Pubblio  ma  di  quel Tito  Veturio  che  net  aifq  consolato  fu  dato  ai  Saooiti  (lal.  cfattaio obbrobrioso  coocluso  con  essi.  7(10  Livio  chiama  it  giovine  Cajo Publicio,  ed  assegna  il  fauo  all’  anqo  .'4^7  di  lioma  aolto  i oontoli C.  Poeleliu  fc  Lucjo  Pepino,  vispi  4irùclusa  la  pace  co’  Romani, soprastettero  breve'  tempo i Saiteiti,  e poi,,  stimolati    un  antiéa  ingiuria,  mar ' ciaróno  coll'  armata  tra  i Lucani,'  loro  cónfinauti.  Questi affidati  da  principio  'alle  forze  proprie  sosienner  la  guér ra  : mapòi  vinti  in  tutte  le  battaglie,  pelòta  gran parte  del  territorio, e già  prossimi   perdere^  anche  il resto, si  videro  necessitali  ad  implorare  rajuto di  Roma J£  quantunque'  consapevoli  a sestessi  di  aver  tradito  i patti  cdnclusi  Uria  volta  con  lei  di  antiòizia  e di  alleanzaf  non disperSròne  ch^  concorderebbe  di  nuovo,  se  le inviassero  in  ostaggio  insibme  òon  gli  oratori 'i  giovinetti più  rignardèvoti  di  tutta  la  repubblica  loro.  Qr  questo  appunto  ne  seguitò.  Perciocché  Venutivi gli  oratori^  e supplicandovi  ca^dissimamente ; il Senato  deliberò  diricever  gli  ostaggi  e render^  ai -Lo cani  r amicizia;  ed  il  popolo    comprovòla  sentenza. Firmati  gii  accordi  con gl'  inviati  de'Lh'cani, il  Senato elesse  i più  provetti  per  anni  è per  onori  ^ e li  diresse ambasciadori  al  consiglio' generale  dèi  Sanniti;  affinchè dichiarassero 'ad  èssi  che  ‘i  Luoùni  erano  git  amici, e gli  alleati  .di  Bontà, e gli  esortassero  a render  lóro le  terre  usurpatene, nè  più  tramarli  ostilmente  : già non  permetterebbe  la  repubblica' che  alleati  suoi  che a ' lei  ricorret'àna, rinutnessero  esclusi, dal  proprio, territorio.  ...  • tata  levar  tutu  levando,  i oaneli.  Pìi(  volentieri  diremo  che  le  mosee de' venti  ttnterranei  seno  éfletlo  4ie'unemoti  ausi  che  la priout eafione.  I Sanniti  gli  mnbasciadcwi  incollerìrono  e replicarono  primicramentò  ; che  i trattati  di  pace  non erano  Jdtt}  'Con  accordo  'che  essi  -non  mossero  per. amico;  o, nemicò  se  /ton  ^quello  che  -assegnassero  • loro per  tale  i Romani  i Appresso, che  i Romàni  ~s'  avjevano  renàuto  amici  i Lficani  non  già  in  antico,  ma  di recerite  quand'  erano  questi  già  inoolli nella  ~^guerra co' ^Sanniti  ; oh  A è che  non  avevano titolo  nè,  giusto nè  decoroso  per romperla  co'  Sanniti  Risposero  i Rotofiixì'.'che.  coloro  i quaU  avevano  promesso  di  soggiacere, ottenendo  appuntò  con  ciò la  pace,  dovevano obbedire  in  tutto,  a chi  presedeva.;  '.e  minacciavano  in caso  contrario  di  portare  sa  essi  la  guerra.  I 3aimiù ripuianjlo  intollerabile  |a  ptresunaione  di  Roma  intimaroflo  agli  ambasciadori  cht  partiasero  su.  T istante  ; e dentarono che  sL  apparecchiasse  spianto  bisognava  per  la guerra  di  tutta .1  fazione,  e di  ogni  citti^^  Pèrtanto' la  ; cigìon  manifesta,    ingloriosa  a" raccontarla,.  della  guerra  Sanuiliea, fu  .la  voglia  di  socQ>rrere  i Lucani  caccòmmuidatisi  a Roma quasi  fosse già  pubblico  e^  vecchio  costume   di  essa  ^difendere  gli oppressi, che  la  invocavano:  ma  la  oagion  recondiu.,  e che  più  \li  sospinse  a romper  la  pace, era  la  potenza Saimitica,  divenuta  già  grande,  e la  qnal$' crescerebhene ancora,  se  domati  i.l,ucani  ed  i confinanti  di  questi  si volgessero  ad  essi  anche  le  barbare  genti  .che  stayansf appresso.  Cosi  tornati  appena  gli  ambasciadori  la  pace fu  rotta, e sì  àfrolarono  due  armate. XV.  Postumio  già  console, venuta  1  oca  di  esserlo  iivatneiue, teniasi  grande  per  to  splendor  de’nataii, come  pel  gemino  consdato  Doleasene  sa  ie  prime il  collega  di  Ini  quasi  escluso'  daU’  essergli  Uguale,  e più volle  ne  fece 'in  Senato  rimostranxa.  Alfine  qUah  plebeo venuto  in  luce  da  poco,  riconosoendosegli' mìAore  per gli  antenati,  per  gli  amici,  e per  àltre  eccellènze,  .n'mi liossegli, e gli  concedette  di  per  si  stesso  il  comandò della  guerra  Sanuitica.  Diede  grande  invidia  aPostumio un  tal  fatto,  come  nato  dalla  media  arroganza  sua';  ma poi  glien  ' diede  un  altN, ancona  più  indegno  di  un duce  -Romano.  linperoccbè  separali  due  mila'  difi  esercito suo  li  ridusse  nelle  campagne  sue  proprie'  senza  i fèrri con  ordine  l'nsieme  ebe  potassero  "un  qùerceto,  leneudoK  gran  tempo  in  òpere  ài  mercenari  e dà  schiavi. E superbo  tanto  ^ prima  di  Uscire  |Kr  la  s|>èdizione,  apparve,  più  InioUeraUle  ancora  nel  compierla; dando  al  Senato  ed  al  popolo  catise  giustissime  òndè r abborrissero.  E ceno,  • avendo.  i|  Senato  definitó'che Fabio  il  console dell’  àttnò  precedente,  il  quale  area  vinto i Sanniti  cbiamali'  ’FeHtri'  si rimanesse  nei  campo .con  aniorità  proconsolare  per  guefreg^are  con la  parte stessa  de' Sanniti,  ^gli.oon  ieiterrs(ia'  gl'  intimò  di  par tirne, come  spettasse  e lui  sólo  còmaudarvi.Spedirono i FUdtì'a  ^chiederlo  ebe  non  impedisse  al  proconsole di  stTtre,    ripugnaste 'ài  loro  decreti;  ed  'agli  non  diede se  nOn.  òrgegboae  e  tiranne  rlsposfe,  dicèndó:cAe  finAocbe  Litio  fa  mauaionè  di  quelli  SaoaÌM  : nondimeau  Clatetio  li  tralatoia  Della  ina  Italia  antica. .-  beticippe  IvaocdeaiOBe-ìùteyVÓgÀido  l’oracolo, dove  portaste  il  destino   che  egli  cc/’^stiei  '‘prendessero tede,    ascoltò  chè  dovessero  Aavìgare-AllMuiia,  divi   Caprifico,  fico  ilvcstfe.  La  voce  greca  tigoifica  ca'pro e prs$o  .glcuui  popoli  caprifico.  Quindi  P ambiguiii  d’iulerprcUrc la  voce  per  capro  o capritico. ahbìtàre  dove  approdati  rimanessero  un 'giorno  ed  una notte.  Approdata  la  flotta  intorno  di  Gallipoli 'in  un  tal campo  de^T^renlinì,  dilelliito'Leacippo  della  aalbra  del luogo, operò  coi  Tarenlini  .afllnchè  gli  isonCedessero  di stanisi  ii  giorno  e la  notte.  ^ Cosi  passatine  più  giorni  ; voleano  ' i ^Tarentini  che  ne  partissero  ì -ma  colui  noti ditd^  lor  mente,  dicendo  che  secondò  ^li  accordi  uvea iU  loì^  quel  tUoigo  pel  giorno  e per  la  notte",  e però sino  a Umto^che  fosse  o furio  o f altra  non  se  ne  partirebbe.'I  Taréalini  vistisi,  nell’ inganno,' coQsentirono  che rimanessero.   > > ' 'V.  u I Looresi  popolando  Zefirio, Ina  punta d’  Itali;  ne  flirtino  soprannominati'  Epizeflrii. Stav tniropo.  che  rimanesse  nel  hiogo  in  che  era, sostenendone la  ^ecn.  che  ne  derivava  ..  furono  dissipati tra  selve  e valli  e ripidezze,  s Vi.   Un  TarentiOo,  uomo  empio,  e deditO/-à  tatti i piaderf  p  la  incpntinenztr  e prostituzione'  della  Sua bellezza  fln'da  ^ovinetto  / ne' iu  nominato  Taide . .. . Fatta  ià' scelta  dal  popolò  erano'' partiti . Vilissimi e petulaaUssìml  tra  cinadini. Fu  Postumio  spedito  ambàsciadore  ai  Tarentinr  : ma'  facendovr  rimostranza  ; questi  non-T  iitte> sero, nò  ' pigliaronp  il  contegno  de’  saVf  i quali -òòmuliino su    patria  che  pericola  : anzi, se  nieoiotavitno  mai  che cóldi  non  parlava  accuratissimo  il  greco  'Idioola, ve! Siraboàs  pel  libro  settodà  questo 'Sdetiaid  racconto  per  la origine  di  Melapoalo.^ ‘ r   Cosi  detto  perebà  risolte  al  vento  Ztflro  ciot  di  Ponente. Questo  e li  tre  paragrafi  srgoenti  tono  frammenti. deridevano, ed  elevando  1i;m  le  mani  o la  voce, se  ne irritavano,  e barbaro  lo  chiamarono;  jtantt>  che  1q  espulsero infine  .dal  teatro .  E già  costui  m ne  andava co’ suoi,  quandd  per  istrada  si  avvenne  con  essi,.  Filopide, un  accattone  di  Tasanto  il  ' quale  sopran-j nomina  vasi  Colila  dalF  uso  che  avea, ‘continyo  di  bria> carsi.  Caldo  del  vino,  ancora  del  di  precedente, come ebbe  vicini  i Romani, si  tirò  su  la  veste  : e scompóstosi in  atto  indegnissimo  da  vederlo, sbrufTè  sul  manto sacro  de’  Legati  ciocché  non.  pttò  nominarsi  ' nemmeno con  decenza.,, Vili.  Scoppiatene  da  tutto  '3  teatro  le  .visa',  e sbattendoglisi  per  fino le  mani  da'  più  protervi, EoStumio riguardandolo  disse  : accettiamo  o tvtissimo  uomo  / augurio  : giacché  ci  date  fin  le  cose  che  nòn  chiedi/ama. Poi  rivoltosi  alla  moltitndine, mostratovi  contaminato  il suo  manto, e sentitevi  uuiversaliN  aucora  'e  più,  grandi  le risa,  anzi  le  voci  nemmeno, di  àlcUni  che'sen  compiacevano, e lodavansi,  della  contutUelid  : -ridete  f disse, finché  V é dato  ; ridete,  pure  o "Tarenùni  ; ehè  assai ne  sospirerete  dii  j>oi.  Fremendo  alquanti 'alla  minaccia iò  ; replicava, perchè  pià  Jremiale  vi  aggungo  ; che assai  laverete  col  sangue  :quesUi, mia  Cosi  spregiati dai  'prijvati  e(kl  pubblico,  e tosi •pcoaunziatp  quasi come  un  vaticinio  divino, su  loro  / sciolsero,d  legati  dal porto    Taranto. Giunti  questi  sotto  Emilio  fiarbula  magisti^to   Aono  di  Roma al  Altri alla  idea-dj  acoattonesoatitaiacono  quella  di  od  aomo brflardo  t garrulo, ellione  de’ Lucani  e de  Bruzj  ‘j  e finch’  era'  indomita la' nazione' grande  le  bellicosa  de  Sanniti, e 1  altra 'de  questi  son  fatti  a\dar  buoni auguri, a chi  cerca  mantenne  i beni  pri>prii.  Ma.  chi cerca  r altra!,  spii  queiU  augnrf  da  uccelli  di  pronto  e rapido  impeto  per  lontauT  Via^.  Ginciossiaché  questi uccelli  sieguooo  e pcocacciansi  ciò  che  nbn  hanno  : ma gli  altri  guardano  e''cnstodiscòno  ciò    saltité  .Pormi  saviezza mandar’ lettere  di  minàcce  aC sudditi:  ma  vi&t pendere  come  uomini  da  pocoro  da  nullaUomini  dei quali  non  siansi  considerate  le  milizie  -nò  conosciuto il  valore, questo  è indizio  di  forsennato, o di  chi non  sa  ciò  che  è senno.  3Ia  noi  sogliamo  punire  i nemici  co  folti, non,,  colle  parole.    fàteiamo  te giudice  de’  nostri  richiami  co’  Tapentùti, oo’  Sanniti, e con  altri:    prendiam  te  garantedà  far  valere  ciò che  tu . giudichi.  Decideremo  colle  armi  nostre  la  disputa pigliandone  la  pena  che  ne  vohemo. Su  tali 'notizie. apparecchiati  come  nimico  ^ noa  come  giudice nostro. Vagli  poi  considerare  quali  ’ garanti  ne darai  per  te  da  soddisfare  le  ingiurie  >che  tu  ci  fai  : non  ricevere  a carico  tuo  che nè^  farentim. né  sdtri nemici  opprimeranno  i diritti.  Se  luti  deliberato  di intprendere  per  ogni  rqdnierà  la. guerra' contro  di  nói, tieni  certo  che^ti  succederà    Se  di  ^ 'necessità  succede a chi  vuole  combattere  innanzi  di,  aver  ponderalo con’ chi  siaper  .combatterò.  'Abbi 'tutto  in  pensiero, e poi  se  cosa  ti  bisogna  da  noi,  aìlo'ntànale minacce, pon  già.  quella  tua  regia  fierezza  V vieni  al Senato, informalo,,  persuadilo  uè' vedrai  -mtuteanS non 'il  tjlirilto,  e non  £ equità  a.  V i'9 • JLìevino  console  ramano  ,  preso  un  esploratore li  Puro  (e  prendorfe  alle  sue.  milizie  le  armi  e schie>r rarsì  : poi  mostratone  a lui  lo  spettacolo  gl’  impose  di riferirne  a cbv  lo  mandava,  tutta  la  verità  : e che  oltre le  cose  vedute  dicesse  che  Levino  il  console  de’Komani lo  ammoniva  a -non  inviare  occultamente ‘altri  per  osservare : venisse  egli  'e  vede^  palesissipiameate,  e spe rimenlasse  ciò  che-gian  Tarmi  romane  . Addo  (li  Roma. 474n/ÓJV/C/.  lówà  Ua  tal  Oblaco,  loprannominato.VuUinlo,  dace de'Fereatani,  al  vedere  che  Pirro  non  avea  posto  certo, ma  presentavasi  rapido  dòvuoqnc.  .tra’  soldati, diresse r attenzione. a.' lui  solo  : e dove'  che,ne  andasse  il  re cavalcando, ivi  piegava  anch’  esso  il  proprio  cavallo. ' Osservando  'ciò  Leonnato  di  Macedonia  figlio  di  Leofante, .l’nno  de  compagni  del  re,  se  ne  empi  di  sospetto, e scoprendolo  a Pirro  disse  fvMarortaro(^o.  Dopo  quell’  incontro  il  monarca afEne   fidisstihó  e valorosissimo  fra’  coin|>kgni  la  da mide  sua  di  porpora  e di  Oro  usata  da  Ibi.  nel  combattere, c l’armatura,  migliore  delle  altre  per  la  materia e pei  'tavqro, ed  Segii  prese  la  clamide  bruna, e 1’  usbergo  e la  causia  colla  quale, Megacle  difendeva  il capo  dagli  ardori.  E questo  fu  cagione, sembra, a lui dj  salute  a. ‘V.  Dopo  (Jbe  Pirro  signore  degli  Epiroti  aveva portato  r esercito  contro  ai  Romani, deliberarono spe dirgl’ambasdadoH pel riscatto  de'^rigiouieri, sia che colui volesse restituirii'cambiandoli, sia che tassando un prezzo per  ciascuuo di essi. Pertanto dichiararono ambasciadori CAJO FABRIZIO (vedasi), il quale gii console, addietro da tre anni, vinte  i Sanniti, i Lucani, i Bruzj con  strepitose  battaglie, e disciolse  1’  assedio  ‘di  Turi, e Quinto  Etnilio  il  quale  éelTega  un  tempo  di  Fabrizio fece  la  guerht  co’ Tircehi,  è Pdbiio  Cornelio  il  quale gii  console  addiètrct  da  quattré'  atini  atuccò  ^utti  i Galli  chiamati  Scnoni,  nenvcilsfmi'de’^omani, 'e  'mitene a 61  di  spada  tutù  gli  adulti.' VI.  Venuti  quésti  a Pirro, e -discorsogli  qninto concerneva  il  subjelto, come  la  sorte  non  Imttoposta a calcoli, corno  repentini  sOno  i  eangiamenti  fra  le  armi, e .come  niun  può' di  leggieri  antivederne  il  futbro; proposera  alui  che  sceglieste    rendere  i -prigionieri a p-szzo  o permuta.  ( ' 001101  rispose  : jirduo  cimento  è il  vostror  o Romani,. che  ricusate can^iungervi  meco  di  aiaicieia, e richied/ete  i vostri prigionieri  da  usarli  in  altre' battaglie  in  mio.dannoi Voi  se  desiderate  il  bene.,  se  intenti  siete  tdX  utile comune  a noi  due  ; pacificatevi  con  me, e ee’  miei confederati,  e ripigliatevi  gratuitamente  1 vostri  prigionieri, alleati,, 0 cittadini  che  sieno.  In  altra  moda non  soffrirò  che  vi  abbiate  un'  altra  volta tanti,  Je ^ tanto  valorosi.  Corì  disse  presenti  i tre  'legéti, ma  poi prendendo  Pabrizio  in  disparte  soggiunse:, Vili.  Odo  o Fabrizio  che  tu  se  prestantissimo  nel guidare  una  guerra,  che  se’  giusto,  e sobbrio  e pieno d’^ogni  virtù,  dell’  uomo  privato, ma  che  intanto  sei povero  di  sostanze,  e depresso  in  ciò  solò  dalfis  sorte ; onde  noli  vivi    eoa  più  agio  cher. gV  infimi  senatóri. Ora  io  volendo  sollevarti  anche  in  ciò,  ti  afferò tanta  quantità  di  argento  e di  oro  da  superarne il  più  facoltoso  tra’  Romìmi.  Imperocché  io  reputo liberalità  bellissima., e degna  di  citi  presiede, beneficare i valentuomini  i qiysli. per, la  povertà  non vivono  con  dignità  de’  lor^  genj  bennati,  equesti  io reputo  doni,  questi  monunten{i  luminosi  per /una  re-: già  potenza.  ', IX.  Or  tu  vedendo  '0  Fabrizio  il, voler  mio,  lascia ógni verecondia,  vieni,a  parte  de’  miei  beni  ; e concepisci che  mi  farai  piacer  grande, . . e.  che  sarai presso  me  riverito  come  un  amico, o un,  congiunto, o certo  coni  uno  degli  ospiti  più  onorevoli.    già per  questo  mi  dovrai  tu  p/eslare  l’ opera  tha  in  cose  '  xvnì.  4'^^ non  giuste,  o non  degne,  md  in  coj&  onde  tu  ne  sia piti  stimabile  e grande  ancora  nella  tua  patria.  E primieramente  pròvecherai  spianto  puoi  perchè  faccia la  pace  'cotesto  tu&  Senato, fin  qui  duro, e privo  di niodprati  contigli.  Dirai  che  ia  venni  in  danno'  di Roma  promettendo  soccorrere  i Tarentini  ed  altri d'  Italia  : che  ora  non  sarebbe  giusto,, né  decoroso che  gli  cdibandonassi  io  presente  qui  coll'  esercito',  e vincitore  già.,di  tuia'  battaglia:  che  nondimeno  affari imperiosi  e molti  avvenutimi  poscia  -mi  richiamano alla  reggia.  Ed  io  qui  ne  do, sii  tu  solo  o am  gli  altri compagni, le  assicurazioni  più.  ferme, c&è  io  son intento  a tornarmene  se  ì Romani  mi  si  concordano per  la  pace  : talché  puoi  dirlo  pur  francamente  ai tuoi  cittadini  se  alcuni  mai  ve  ne  ‘fossero  d quali mal  suona,  il  mme  di  un,re,  come  quello  di  un fi4o, ne’  trattati,  e-témessero  di  me  similmente  perchè taluni  monarchi  si. videro,  sorpassare  i giuramenti,  e tradire  gli  accordi..  Fatta  la  Magro  ò il  nfio  poderetto:  eppure  amando  io di  lavorarvi  ed  appiicàndomene  prudenzialmente  ->  i frutti  t somministramb  tutto  il  bisognevole;  riè  la  natura ci  viohnUf  a cercare  pià  che  il  bisogiievole. "Soave  m’  è f alimento  cui  la  fame  còridiscemi,  dolce la  • bevanda  Cui  la  seté  procurasi, e molle  il  sonno cui  la  stanchezza  precede.  '&ijfèientissima  rrì  è la vèste  Che  mi  difènde  dal  fredda, come  acconcissimo, il  -vose  meri  prezioso  fra  quanti  datino  P uso  medesimo. Noti  saria  ^unquè  giusto  accusare  la  sorte,  la quale  mi  pòrge  quanto  basta  alla  natura,  e la  quale se  'non  dovami  H'  abbondanza, non  tri'  impresse  netntnèno  desiderf  superflui. Io  non  hb  mètri' è vero  dasoccorrere  ritisi debbe;~'ma  nemmeno  diedemi''Dio.  su  le  ricchezze quella' cognizione. certa  j 'o  divinatoria  per  la  quale gioitasi  chi  he'  abbisogna, come  nemmeno  diedemi tante -altre  cose.  Partecipo  ciocché  ho  colla  patria  e gliamici;  porgo  loro  còme  comuni  le  cose  mie, beneficando  come  posso  chi  ne  abbisogtia, nà  'quindi io  credo  mancare.  K quesfe  sono  quelle  manierp  mie che  tu  giudichi,  prestantissime, e else  sei  pronto  di comperale  a sì  gran  prezzo. Che  se  poi  la  ^ gran  possidenza  sia  degna che  procqrisi  po/t  tante  premure, e gare  appunto  per benefitare  chi  ne  abbisogna   e se  questa  rende  più Jelici  i pià  ricchi  come  sembra  a voi  re  j qaoii  vie saran  le  migliori,  da  pi'ocurarsela,  quellè  per  le  quali vuoi  tu  'che  io  me  l'  abbia  ingloriosamente, o quelle per  le  quali  io  V avrei  prima  ottenuta  con  decoro  ? Certamente  gli  affari  di  stato  mi  diedero  tante  volte per  addietro  > mezzi  da  arricchirne  principalmente quando  già  da  tre  anni  fui  • consolo, spedito  colf esercito  cantra, K potendo  di^  tali  acquifU  applicarmene quanto.iovoleva  ; non  veppi  toccarne  I 0 trascurai per  amor  della  gloria  uua  ricbhezza  anche  giusta  ; come,  fece  falcfio  Poplicola,' e,come  pur  fecero,  altri moltissimi  pc’  quali  Roma  tante  'ne  è grandiosa,  Ma da  te  quali  doni  mi  si,  apparecchìanà  ? Non  canshierei  forse  il  meglio  col  peggio  ? Sal'ebbe  quella prima  maiiiera  di  possedimento  stata_uiùin  colla  sod. disj azione  del  cuore,  con  un  apparalo  di  giustizia,  e decoro;  ma  da  codesta  tua  Ujopfia  tatto  ciò  manca. Imperocché  qpAttVO  uquo^accstta  dall’  nomò  k cotta  ca  knseTiro  csb-gu  gravita iNTOthro  riw cuk  SOL  oottrairifA  i k NAseoaDASf  purb . la  etATORÀ  DBL  PRESTITO  .co' tfÙMI  SPSCIOSf, DI  DONLf  Dt favori  ; DI  BiOfBFfCBmBE.',, o XIX.  Or  su  poni  che  io  uscendo  da  me  prenda C oro  che  mi  offerì,  e ciò  divulghisi  tra’  Homani.  I magistrati  irreformabiU, quelli . che  noi  chiamiamo censori, a’  quali  spetta  esaminare  U' vivete  de'  ife> mani  e castigar  ehi  devia  -dalle  cóasuetadini  della patria, quelli  mi  citino  e m’  astringano  a dar  conto de’  doni  ricevuti, al  cospetto  del  pubblico  e,  dicano  : ;,xt.   Noi    ti  abbiamo  inviato  o.  Fabticio  con due  consoUpi  al  monarca  per  trattare  il  riscatto  dei prigionieri.  Tu  rivieni  dalla  spedizione  ‘ feoza  li  prigio/tieri, e sene’  altro  bene  por,  la  eittà  : Bitorni  col mà, e m solo^  e npn.  i tuoi  compagni,,  delle  regie .( se  non  da  ciò  die  tu  ne  tradisci  al  -nemico, sì  che  egli  coi  tùo  mezzo  soggioghi  per    /’/talia, e tu  col  mezzo  di  lid  tòlga  alla  patria  la  libertà ? Così  fan  tutti  gli  nomini  di  una  v^tà  simulata," e non  vera,  quando  si  sono  avanzati  al. grande e forte  degli  affari  .  . > .,  w Che^fe  non  -tuadorno  ddla  dignità  senatoria,-e  non  da  nemici,  cnom^per  tradire  e far  tiranneggiare la  patria  avessi  accettato que  doni,  ma soltanto  come  privato  da'-un  re  cotfederato,  e senza ombra  di  male  pel  comune,  dì,  non. saresti  da  punire anche  per  questo  che  depravi  li  giovani, insinuando nella  loro  vita  il  genio  per  la ricphezza,  per le  delizie, • e per  Its  sontuosità  dd  monarchi-^quando abbisognavi  condnenza  estrema  a preservar -la  repubblica? Svergogni,  li  tuoi  maggiori  de'  qu^i  niuno  deviò dagli  usi  della  patria    mutò  la  povertà  decorosa con  turpi  ricchezze  : Si  tennero  tutti'  nel  tenue patrimonio,  che  fu  riceyesti,'ma  poi  “riputasti  minore di  tC  n'  ., K '   u Anzi  tu  ' dissipi  la  gloria  a te  risultata pe’  fatti  anteèedenli, la  qiiaL  possedevi  di  uom  temperante, e superiore  ai  bassi  desìderj.  Ti  diletterai di'  esser  fatto  malvagio  di  proho, quando  dovevi  anche cessare  dall'  esSer  inalvagió, se  eri  mai  tale? 'O  sarai  da  ora  in -poi  messo  a parte  mai  più  degli onori  dovuti  ai  buoni  ? anzi  levati  piuttosto  dalia città,  o dal  Foro  almeno.  E se  ciò  dicendo  mi  casi. sasserp  dai  Senato, e mi  riducessero.  disonnati, qual  cosa  ftqtrei  replicare, o.  quid  Jar  giustamente in  contrario  ? E, dopo  ciò  qital  vita  vivrei  io  mai, caduto  in  tanta, infamia t‘~e  versatola  in  tutti  i iniei posteri  ? n •,, Quanto  a te  poi  come darò  segno  mai più  di  giovarti, se  tra  miei  perdo  la  influenza  e Ut riputazione, per  le  qatdi  ora  cerchi,  di  afJezionap~miti  ? Quando  non  potessi  più  nuUa  nella  patria, non  mi  rimarrebbe  che  uscirne  cottr  tutta  la  Jìtmiglia, condannandomi  da  me  stesso  ad  un  obbrobrioso  esilio.' Ma  dove  mi  starei  da indi  in  poi, qual  ' luogo  mi ricetterebbe   ridotto^'  ^eom’  è conseguenza, senza  la libertà  del  parlare  ?>  Forse  il  tue  regno?  VivaGiovo se  mi  apprestassi  tutta  la  règia  tua  prosperità,,  non mi  daresti  tanto  bene  quanto'    ne  togli',. levatami la  libertà,  preziosissima  innanzi,n. .  u Còihe  potrei  tener  vita  tanto  divérta  ^ tardi  ammaestrato  a servire?  Se  cJù è nato  ne’ regni e nelle  tirannidi  quàhdo  abbia  cuor  generoso, ama la  libertà, stì/nando  ogni  -benè  meno  difessa  ; come chi  è cresciuto  ùt  città  libbra  e consueta  dominare^ su  gli  altri, passerà  volentieri  di  bpie  in -mole, di libero  in  suddito  per  imbandire  laàte  ogni  giorno  le mense,  pie  .aver  gran  seguito  intórno  di  servi,  e pigliar  diletto  senza  rifeèya  eoa''  femmine  e donzelli formosi  quasi  'la  ùmana  felicità  sia  riposta  in questo  0 non  già  nella  virtù  ?-n.  u'Ma  sùm  pure  questo  e cose  altrettali  degnissime \di  esser  cercate, or  quando  l’  uso  ne  sarà   / tnai  lieto  se  non  sono  mai  stabili  ? Se  a voi'  sta concedere  tali  amabili  còse.;  voi  le  ritogliete  uguale mente,quando  vi  piace.  Lascio  di  ridire  le  gelosie, le  calunnie, la.  vita  sempre in  pericolo, sempre  in timore, e tutti  gli  altri  sconci, non  degni  del  wx lentuomo, quanti  ne  porta  lo  sfar  presso  ai  moìiarchi.  Già  non  colpirà  tanta  stoltezza  Fabrizio  da  abbandonare la  famosissima  Roma  per  vivere  nelC  Epiro;  o da  ridurlo  chk  merUre  può  far  da  capo  nella città  dominante, voglia  essere  dominato  da  un  solo, pien  di  sestesso,  e .còhsueto  di 'udire  dagli  altri  soltanto ciò  che  diletHa. Già  non  potrei  levare  il  grandioso  nei pensieri t nè  impiccolirmiti, anche  volendo,  sicché  tu non  debba  sospettare  niun  danno.  E rimanendomi come  la' natura  e-'glt  usi  della'  patria  mi  han  fatto, ti  parfè  grave,  e quasi  tirare,  da. ogni  pòrte  il  comando verso  di  me.  Generalmente  debbo  avvertirti ctie  non  vagli  ricevere  nel  tuo  regno,  nè. Fabràio,  nè altri, sia  maggiore  sia  .'pòri  tuo  nella  virtà,. ni  affatto chiunque  sia'crescitUò  iti,  città  Ubère  con  sensi più  grandi  deiiP  nomo  privato.  Già  non  è sicura ai. principi    cara  la  dimestichezza  con  uomini,  di mente  eccelsa.  • Mà. su: V utile  tuo  vagli  tu  da  te,  discernere ciò  eli  è da  fare:.-quaoto  a prigionieri  nostri scéndi  ai  miti  consigli,  lasciane  aitdare. Appena Fabrizio  (ìae,  maraviglialo della  magnanimità  sua,  lo  prese ‘per  la  (lesira  dibendo: Già  non  mi  vlen  maraviglia  che  la  vostra  città  sia tanto  celebrala, • la  cresciuta  a tanta  signoria, dap.  4^1 poiché  dia  nudre  tali  valentuomini. Ben  avrei  caro che  non  fosse  stata  fra  noi  briga  ninna  fin  dalle origini,  fifa  poiché  vi  fu,  poiché  taluno  de'  numi  volle che  noi  misurassimo  a vicenda  le  nostre  forze  e iL valore, ^ misuratolo  ci  riconciliassimo  ; son  pronto. E cominciando  io  la  benignità  la  quale  dimandate, restituisco  'in  dono,  e non  a prezzo  i suoi  prigionieri a Roma  « X^ECto,  un.  Campano,  lasciàtd  da  Fabrizio console  romano  per  capo  ddia  gbarnìgione  di  Regio  (t), invaghito  dei  beni  di  questa, finse  venutagli  lettera  da un  ospite  suo  nella  .quale  si  annunziava  che  il  re  Pirro manderebbe  cinque  mila  soldati  a Reggio  per  invaderla, promettendogli  li  cittadini, di  aprir  loro  le  porle.  Su tale  pretesto  uccise  cinque  di  Reggio,  e poi  comparti le  maritate  e le  nòbili  tnt  suoi  militari,   vi  si  fa tiranno.  Alfine  caduto  nudato  degli  Occhi  mandò cercando   in  Messina  Dessicrate  medico   prestaatissimo secondo  che  udiva.  ...>,.  r Pirro  recitò  li  versi  che  Omero  mise,  in  bocca di  Ettore  verso  Achille,'qnast  detti  da’  Romani  versò di  Pirro; ., Ma  te  tale  e Xaot’  nomo  io  gHi  non  voglio, Cól  guardo  seguitandoti, di.'forto,  ^ Ma  palese  ferir^  se  mi  riesca  i ' •  Poi'  soggitmgendo  che  egli  seguiva  forse  nn  tristo  $u> bjetto  di  guerra  contro  Greci, buonissimi  e giustissimi, ma  rimanevaci  un  solo e bel  termine  ; che  li  rendesse 4 amici  di  nemici, con'  principio  magnifico  di  benevolenza. Quindi  fattisi  veaire'  li  prigionieri  de’  Romani, diede  a tutti  vesti  convenienti"  ad  uomini  liberi, e le spese del  viaggio,  Con  esortargli  infine  a ricordarsi  quale egli  foése  staio inverso  'di  essi,'  a manifestarlo  agh  altri, e cooperare  con  (utlb  1’  impegno  ‘ a .rendergli  amiche  le patrie  loro, quando  vi  giungessero,  .'i . Certamenté r oro  de’  principi' ticn  forza  insuperabile,    fu  dagli uomini  trovato  -fin  qui  riparo  contro  di  arme  siffatta. CKnia  da  Crotone  uomo  soperchiatore  privò  di libertà  le  cittadi,  'cOn  dar  fritnehigia  ad  esuli  e schiavi numerosi' de’ 'luoghi  intorno  (a).  Fondata    tirannide Quel  di  Reggio '«ve  vano  cercalo  il  presidio  Romano,  temendo tanto  de  Cariagipeai  quanto  di  Pirrol  Dacib  uccise  li  cinque  qni  significali in  un  convito.  Ma  li  soldati  ne  uccisero  assai  più  per  le  case, come    racc'bgjlie'  da  Dione. Questo  paragraie, e l(  tegajeuti  lino  al  duodeoimo  sono  frammenti. col  mezEO  di  questi  uccise  o bandi  li  Grotoniati  più rìguardevòli.  Anassilao  oocopò  la  fortezza  di  Keggio, e  ritennela  per  tutta  la  vita,  lasciandola  appresso  al  figlio suo  Leofrone  (i'.  Dopo  questi  anche  altri  facendosi'  a dominar  le  città  vi  sconvolsero  ogni  cosa^ V.  Ma  il  dispotismo, ultimo  a nascere  e massimo  adopprimere  le  città  d’ Italia, fu  quello  di  Dionigi, tiranno della  Sicilia.  Imperocché  passato  nella  Italia  in  soccorso de’  Locresi  che  vel  chiamavano  a danno  di  que’  di  Reggio, che  erano  loro  nemici, ebbe  incontro  eserciti  Italiani numerosissimi; ma  postovisi  in  battaglia  uccise moltissimi, e presevi  a forza  due  città.  Poi  tornato  un’ altra  volta  in  Italia  svelse  dalle  loro  sedi  gl’  Ipponiesi traendoli  nella  Sicilia  : invase  Crotone  e Reggio  e vi tiranneggiò  per  dodici  anni  fiqché  queste  città  sopraffatte dal  timore  di  lui  si  diedero  ai  barbariv  Ma  poi  premuti pur  da’  barbari  come  nemici, si  rimisero  nelle  numi  del tiranno.  E fluttuando,  come  le.  acque  dqli’  Euripo, si volgevano  senza  requie  qua  e là  fortuitamente, levandosi da  chiunque  li  malmenasse. Scese  PiiTo  di  bel  nuovo  nell’  Italia,  non  riuscendogli. nella  Sicilia  le  cose  come  le  ideava, perchè il  governo  di  Ini  sembrò  dispotico  anzi che 'regio  alle città  principali.  E per -vero  dire,  iutrodoftp  questo  in Siracusa  da  Sosistrato  che  allora  vi  presedeva, e^da Toinone  capitano  della  fortezza,  e ricevnto  da  essi r erario, e presso  che  dngento  navi  rostrate, e sotto  Ciurlino  uel  lil>.  a fa  mcniione  di   più zelante  per  pubblica  ^confessione  e più  attivo  nel  dar mano  a Pirro  pèrcbé  scendesse  nell’  isola  e vi  regnasse, giacché  si  eca  .costui  recate  colla.  fidUar^er  incontrarlo^ e gli  av^a  renduta  l’ isoletta, da  Idi,  presidiata  in  Siracusa..  Ma  tentando  sorprèndere  ugualmente  Sosistrato fu  ddosò.;  perocché  costui  previde  le  insidie, * e fùggì. ' r ' ' i *’,  ^irapnsiT'pcr  quatuo  rileviamo  da  Lucio  l^loro  era  coma  aoa ciùà  composta  da  tre  cittàio  delle  quali  ngoiina  /ra  ciroonJata  di  mora.  Vedi  le  uote  lib.'  a, c.  nella  faoSlra  tlraduxKltoe  ^i  quello'  icritìera. Poi  coniinciaiKlo  a scouyolgeoi  le  cose  di  Itti  ; Carta> gine  credette  avere  il  buon  tempo  da  riprender  nell’isola i luoghi  perdniivt,  e' ti  spedi  sollecita  un’ arinata.. IX.  Evagora  figlioolo  di  Teodoro, ^alacro  ' figliuolo di  Mieapdro, e Dinarco  figliuolo'di  Nicia, tristi, infàmi sopra  tutti  gli  amici  di  Pirro,*  emoli  com’  erano  in  dar consigli, alieni  da’  Dumi  e dal  culto, vedendo  il  monarca in  disagio,  cercar  vie  da  conseguire  danari, glie ne  proposero  una  indegnissitna^  i^e  era  quella  di  aprire i tèsoli  sacri  di  Prosèrpina .  Imperocché  nella  città stessa  eravene  un  tempio  aaitvo, il  quale  serbava  oro in  copia, intatto  da  tempo  antichissimo, e dove  altro ven'  era  invisibile  a tutti,  come  posto  occnltistimamente sotterra.  Sedotto  ^da  tali  adulatori,  e riputando' la  neces* sità  superiore  a'  tutto,  si  valse  de’  consiglieri  medesimi per  lo  spaglio  sacrilego.  Quindi  tutto  riconfortato  imbaroò  con  altre  ricckecze  Toro  venutogli'! dal  tempio, spendendolo  a.  Taranto. Ma  la  provvidenza  giusta  degl’  Iddj  maoifcslò  T efficacia sua.  Perocché  ariose  dai  porto  pròcéderono  in principio  le  nari' col  fi^re  A t/n.  venm  terra  ; ma poi  cambiatosi  questo  iu  altro  coo^rìo  ii^pestà  per tutta  la  notte, e quali  ne  affondò,. quali  ' ne  miruse  al golfo  di  Sicilia  ; e spinse  ai  fidi,  di  liocrs  quelle  ov’  èrano portati  i doni', già  votivi  ne’  tempj, e P oro  'amJtnas&atooe  : e qui  disfacendosene  i legni  foce  perire  i nocchieri  naufoaghi  pel  riflusso  deUe  onde, e sparse )’  oro  sacra  su  la  spiaggia  appunto  più  prossima  a Ix>cri. Donde  costernato  rese  il  mouaroa  alla  Dea  tulli  gli  ornamenti  e i tesori, quasi  per  allontanare  con collera.   4G7 ciò'  (a Stollo  ! che  non  vede  t/ùali  tormenti Tf«  ìncorrerì: 'chè  facili  non  tono,. Thnla  a mutarti  le  celesti  menti, Come' Ai  détto  da  Omero.  Dappoiché  stese  la  mano lemerliria  su  1’  oro  sacro,  onde  valersene  in  guerra,  la Dea  lo  iniìitQÒ  nè*  Consigli   per  esempio'  e 'documento de’  posteri.  t E per  questo  appunto  ' io  vlcrto  colle  armi  da’  Ro  praticati  don  éagli  uomini,  ma  dàlie capre  per  lo  selvoso  e scosceso  in  che  sorto  : cd  erano, per  andare  senza  ordine  alcùno  spossandosi  dalla  sete  e Odissea  111-,, ):^micllUà  Romane  di  Dionigi. Tulio  il  resto  t auppliio  col  compendio  formala  su  li  medesimi verni  libri.  parecchio.  Conciossiachè  ivi  crescono  in  copia  abeti  altissimi e pioppi, e la  pingue  picea, e il  pioppo  e il pino  > e r ampio  fàggio, e il  frassino, fecondati  dàlie acque  che  vi  trascorrono  ^ ed  ogni  altra  sorta  di  alberi, la  qual  densa  ne’  rami  tiene  continua  1’  ombra  su  la montagna  1).   s \ VI.  a Eh  questa  sélva  gir  alberi  prossimi  al  mare  e ai  fiutni  tagliati  interi  dal  ceppo  e recati  ai  porti  ricini forniscono  a tuttà  T Italia  materiali^ per  navi  e case:  gU alberi^  lontani  dal  mare  e da’  fiumi, ridotti  in  pezzi, e riportati  su  le  spalle  dagli  uomini somministrano  remi V "  (a)  Stra'bufu  nel  lilwo  V-I  di«  che  questa  selva  eré  lunga  tcllccento  stadj. e pertiche,  e mezzi  di  ogni  arme,  e rasi  domestici:  fi* naimcnie  la  parte  di  piante  più  grande, e più  oleosa vien  preparata  a dar  le  resine, e scn  fornia  la  resina chiamata.  Bruzia-.,  la  più  odorata, -e  la  piu  soave  infra quante  io  ^ne  conosca.  Or  dagli  affitti  di  unto  Roma  ne ha  ciascon  anno  cospicue  rendite.  Io  Reggio,  iecesi  un’  altra  sommossa 'dal  presidio lasciatovi  di  Romani  e di  confederati  : seguitatidone da' ciò  stragi  ed esilii  noti  pochi.  Per  tanto  Gajo  Gemicio  r altro  de’ consoli  usci  coll’  esercito  a punir  quei ribelli.  Presa  la  città  colle  ardii  rendette  ai  citudini  prò* fughi  gli  averi  loro,  edarresuto  il  presidio  lo  condusse prigioniero  in  Roma.  Or  su  questi  tanta  fu' Pira,  c tanto  il  dispeuo.-Dcl  Senato  e uel  popolo  chenon  vi fu  I pietà  di  partiti  : nm  da  tutte  le  tribù    senlenziau su  tutti  la  pena  di  morte  come  presciivono  le  leggi  su tali  malfattori. Vili,  a Stabilita  la  sentenza  di  morte  furono  pianUti de’  tronchi nel  foro  e condottivi  e legati  trecento  a corpo nudo  i quali  aveanq  già  i cubiti  avvinti  dietro  le spalle:  e poi  battuti,  e poi  decapitati  con  le  scuri.  Dopo ì primi  vi  furono  puniti  altri  trecento,  e quindi  altrettanti ancora  4 findiè  in  t'uttO  furono  quaMro  m'da  dn(i)  La  Irgiooe  Campaoa  con  Decio  capitano  occupi  Ecgg'o  l'anno 4/4  Roma  poco  ifopo  la  venuta  di  Pirro  nM’  ftalia, occorsa appunto  in  quell’  ann^.  La  legione  ribelle  fu  punita  l’anno  4^^ sotto  il  contole  Genucioi  Livio  dice  clic  la  pena  fu dicci  anni  dopo  il  delitto, é ebe  li  póniti  in  Roma  furono  quattro rada.  Nel  testo  ai  parla  della  ribellione  come  aeconda.  Non  k chiaro se  la  indicata  io  questo  luogo  eia  detta  seconda  in  rispetto  a quella di  Dcciu, o di  altra  antecedente. quecento.  Non  ebbero  questi  sepoltura, ma  tirati  dal Foro  in  luogo  aperto  dinanzi  la  città  vi  si  abbandonarono, pascolo  di  uccelli  e di  cat^i.   IX. . « La  turba  mendica  non  tenea  cura  delPo* nesto    del  giusto.  Però  sedotta  dal  Sannite  (i)  si  raccolse in  un  corpo, e su  le  prime  vivea  por  lo più  pei monti  nelle  campagne.  Ma  poi  cbe  fu cresciuta  in  numero ornai  da  tener  fronte  occupi  una  città  forte, dalla quale  prendea  le  mosse  a depredare  le  terre  ihtomo. ÌÀ  consoli, cavarono  la  milizia,  contro  di  questi.  Ricuperata senza  gran  briga  la  città  batterono  ed  uccisero gli  autori  della  ribellione, véndendone^  gli  altri  all’  incanto. Era  già  1’  anno  avanti  stata  venduta  la  terra  e g^i altriacquisti fatti  colle'  armi  e l’argento  risultatone  dal prezzo  èra  stato  comparilo  ai  cittadini.  n fi)  Ano  di  Roma  4^Qui  81  attude  «Ila  guerra  concitata  da  LoUio  Sannite  il  quale  fuggito da  Roma  dove  era  ostaggio,  raccolse  gente,  prese  un  luogo munito  della  sua  regione,  e vi  padrone'ggiava,  e. predata. Dionigi  nel  lib.  1.  9 dice  di  tessere  la  storia  sua  fioo  al  principio della  prima  guerra  Punica. Tanto  che  il  eoiApendio  ha  prossima  corrispondensa  alla  storia  delle aSA*itA  «Usa  in  venta  libri. Marco Mastrofini. Mastrofini. Keywords: implicature, Delle cose romane di Floro, l’antichita romane di Dionigio, le cose memorabilia di Ampelio, il sistema verbale della lingua Latina – del verbo latino, aspetto verbale – la filosofia del verbo – tempus, azione, la concettualizazione dell’evento e l’azione nel verbo latino --, categorie sintattiche e morfologiche e semantiche e prammatiche dell’aspetto verbale nella lingua Latina. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mastrofini” – The Swimming-Pool Library.

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