Luigi Speranza -- Grice e Livi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del consenso sociale – la
scuola di Prato -- filosofia toscana -- filosofia italiana – l’aporia: se
cristiano, non filosofo. Luigi Speranza (Prato). Filosofo italiano.
Prato, Toscana. Grice: “Livi is one of the few Italian philosophers who have
taken Moore’s ‘common-sense’ seriously!” – Grice: “The way Livi justifies
common-sense, not unlike Moore, is via a principle of ‘coherence’” Allievo di
Gilson, collabora con Fabro, Noce edAgazzi. Inizia la scuola filosofica del senso comune,
rappresentata dalla Common-Sense Association, che ha come organo ufficiale la
rivista "SENSVS COMMVNIS” – cf. Grice on Malcolm, Moore -- . Alethic
Logic". Tra i suoi numerosi discepoli o estimatori vi sono Renzi, autore
di importanti saggi di Storia della Metafisica, Bettetini, Arecchi,
Spatola, Covino ed Arzillo. Fondatore di
Vinci, membro associato della Accademia d’AQUINO, decano e professore emerito della
Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense. Firma con
Giovanni Paolo II alcune parti dell'enciclica Fides et ratio. «Senso
comune» è il termine utilizzato da Livi – apres Malcolm, Moore e Grice -- in
chiave anti-cartesiana per individuare le certezze naturali e incontrovertibili
possedute da ogni uomo. Non si tratta di una facoltà o di strutture cognitive a
priori, ma di un sistema organico di certezze universali e necessarie che
derivano dall'esperienza immediata e sono la condizione di possibilità di ogni
ulteriore certezza. – cf. Grice, “Common Sense” --. Grice, “Common Sense and
Ordinary Language,” “Common Sense and Scepticism” --. Ha per primo precisato quali siano queste certezze e
ha provato con il metodo della presupposizione che esse sono in effetti il
fondamento della conoscenza umana. Il senso comune comprende dunque l'evidenza
dell'esistenza del mondo come insieme di enti in movimento; l'evidenza dell'io,
come soggetto che si coglie nell'atto di conoscere il mondo; l'evidenza di
altri come propri simili; l'evidenza di una legge morale che regola i rapporti
di libertà e responsabilità tra i soggetti; l'evidenza di Dio come fondamento
razionale della realtà, prima causa e ultimo fine, conosciuto nella sua
esistenza indubitabile grazie a una inferenza immediata e spontanea, la quale
lascia però inattingibile il mistero della sua essenza, che è la Trascendenza
in senso proprio. Queste certezze sono a fondamento di un sistema di logica
aletica su base olistica. Tra gli studi recenti sul sistema della logica
aletica elaborato da lui vanno ricordati i saggi di AGAZZI, "Valori e
limiti del senso comune" (Angeli, Milano), Ottonello ("L.", in
"Profili", Marsilio, Venezia ), Vassallo ("La riabilitazione del
SENSO COMUNE", in "Memoria e progresso", Fede et Cultura,
Verona), di Arzillo, “Il fondamento del giudizio -- una proposta teoretica a
partire dalla filosofia del SENSO COMUNE (Vinci, Roma ); Renzi, La logica
aletica e la sua funzione critica -- analisi della proposta di L. (Vinci, Roma).
Hanno scritto su L. anche Andolfo, storico della filosofia antica, Sacchi,
Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e Possenti. Da Gilson, Fabro ed Agazzi
ha appreso ad affrontare i problemi essenziali della speculazione metafisica in
dialogo con grandi filosofi antichi (Platone, Aristotele, la Scesi, Agostino),
del Medioevo (Anselmo, Aquino, Scoto) e dell'età moderna (VICO, Kierkegaard,
Rosmini-Serbati). Convinto assertore del metodo realistico di interpretazione
dell'esperienza, ne ha difeso le ragioni utilizzando sistematicamente gli
strumenti dialettici offerti dai filosofi della scuola analitica. Suoi critici
più intransigenti sono stati, da una parte, l’idealista Severino, e dall'altra
il caposcuola del pensiero debole, Vattimo. Altri saggi: “Cistiano e filosofo
-- il problema (L'Aquila: Japadre);
“Cristiano e comunista” (Torre del Benaco: Colibrì); “Filosofia del SENSO
COMUNE -- Logica della scienza (Milano: Ares); “IL SENSO COMUNE tra
razionalismo e la scesi in VICO” (Milano: Massimo); “Lessico filosofico latino”
(Milano: Ares); “Il principio di coerenza – SENSO COMUNE e logica epistemica”
(Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano: Mondadori); “La filosofia in eta
antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico della filosofia, Roma:
Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità del pensiero
(Fondamenti di logica aletica) Roma: Laterano); “Razionalità della fede nella
Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica” (Roma:
Vinci); “La ricerca della verità -- Dal SENSO COMUNE alla dialettica” (Roma:
Vinci); L'epistemologia d’AQUINO e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni );
“SENSO COMUNE e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la filosofia e
perché se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della filosofia
in eta antica: aspetti sociali”, La filosofia antica e medioevale; moderna;
contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento, Roma: Alighieri); “Logica
della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma: Lateran); “SENSO
COMUNE e metafisica -- sullo statuto epistemologico della filosofia prima” (Roma:
Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma, Alighieri); “Premesse
razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula fidei”
(Roma: Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i criteri di
valutazione e la dottirna sociale della chiesa” (Roma: Vinci); Dizionario
critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio della
metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “IL SENSO COMUNE al
vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del SENSO COMUNE. Logica della
scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere
l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa"
(Roma: Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci); “La certezza della verità. Il
sistema della logica aletica e il procedimento della giustificazione
epistemica” (Roma: Vinci); “Dogma e pastorale. L'ermeneutica del Magistero, dal
Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, Roma:Vinci,. Le leggi del pensiero. Come
la verità viene al soggetto” (Roma: Vinci,. Teologia e Magistero” (Roma:
Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede
da un'equivoca "filosofia religiosa",
su Gli equivoci della teologia morale dopo l’amoris Laetitia” (Roma:
Vinci); “Aquino filosofo” in Piolanti,
AQUINO nella storia della filosofia” (Roma: Vaticana); “La filosofia di
Gilson", in Piolanti, Gilson, filosofo,
Roma: Vaticana, "L'unità
dell'ESPERIENZA nella gnoseologia in AQUINO", in Piolanti "Noetica,
critica e metafisica in chiave tomistica", Roma: Vaticana); “SENSO COMUNE
e unità delle scienze"[cf. Grice, Einhiet Wissenschaft] in Martinez "Unità e autonomia del
sapere: il dibattito", Rome: Armando, Ledda, In memoriam: Corrispondenza
Romana, antoniolivi.Vinci, su editriceleonardo
ISCA Commonsense Association ca-news; fidesetratio. Ilgiudiziocattolico. Antonio
Livi. Keywords: ‘il senso commune in Vico” – Grice develops a sceptical defence
in his early “Common sense and scepticism,” “mainly motivated by what he sees
as a ‘cavalier attitude’ to the sceptic by, of all people, Malcolm.” – Grice:
“I’m not sure Livi would agree with my idea, but I think he would – certainly
Vico took the sceptic challenge possibly most seriously than anyone and Livi is
an expert on Vico. Vico’s line of defense lies on the connection, conceptual he
thinks, between ‘common sense’ and ‘consenso’: therefore, Malcolm and I have to
reach a consensus that we are going to use ‘know’ for things like ‘I know that
s is p,’ say, there is cheese on the table, there is a mermaid on the table.
Etc. And that “if I’m not dreaming” may not always be a conversationally
appropriate defeater!” – Livi. Keywords:
consenso sociale, amoris laetitia, Letizia dell’amore -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Livio: la ragione conversazionale e la storia romana come
fonte della morale romana – etica togata -- Roma – filosofia veneta -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Padova, Veneto. Although famous as
one of the great Roman historians, he is also a philosopher, who popularises
the genre of the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo. DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI LIVIO di
MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. MACHIAVELLI A ZANOBI BUONDELMONTI E
COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o vi mando
un presente, il quale se non
corrisponde agl’obblighi clic io ho con voi,
è tale senza dubbio, quale ha potuto Machiavelli mandarvi maggiore.
Perchè in quello io ho espresso quanto io so, quanto io ho imparato per una
lunga pratica e continova lezione delle cose del mondo. E non porlendo
nè voi nè
altri disiderare da me
più, non
vi potete dolere
se io non vi
ho donato più.
Bene vi può
incrcsccre della povertà dello
ingegno mio, quando siano
queste mie narrazioni
povere ; e della fallacia del
giudizio, quando io in molte
parli, discorrendo, m'inganni. Il che
essendo, won so quale
di noi si abbia
ad esser meno
obbligato all’altro; o io a voi, che
mi avete forzalo
a scrivere quello ch’io mai
per me medesimo non
arci scritto; o voi
a me, quando scrivendo non
abbi soddisfatto. Pigliate,
adunque, questo in
quello modo che si
pigliano tulle le
cose degli amici:
dove si considera più sempre
la intenzione di chi manda,
che le qualità
della cosa che è mandata.
E crediate che in
questo io ho una
salis fazione, quando io
penso che, sebbene
io mi fussi
ingannato in molle sue
circostanze, in questa sola
so eh io non
ho preso errore,
di avere delti voi,
ai quali sopra
tutti gli altri questi
miei Discorsi indirizzi : sì perché, facendo
questo, ini pnre
aver mostro qualche gratitudine
de benefizii ricevuti : si perchè
e mi pare
esser uscito fuora dell’uso
comune di coloro che
scrivono, i quali sogliono sempre le
loro opere a qualche
principe indirizzare; e, accecati
dall’ambizione c
dall’avarizia, laudano quello
di tutte le virtuose
qualitadi, quando di
ogni vituperevole parte doverrebbono
biasimarlo. Onde io, per
non incorrere in questo
errore, ho eletti
non quelli che sono
Principi, ma quelli
che per le
infinite buone parti loro
meriterebbono di essere; nè quelli
che polrebbono di
gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli
che, non polendo,
vorrebbono farlo. Perchè gli
uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno
a stimare quelli che sono, non
quelli che possono esser
liberali; e così quelli
che sanno, non quelli
che, senza sapere, possono governare un
regno. E gli scrittori
laudano più Icronc Siracusano
quando egli era privato,
che Perse Macedone quando
egli era
re: perchè a Icronc
a esser principe non mancava
altro che il principato; quell’altro non
avera parte alcuna di re, altro
che il regno.
Godetevi, pertanto quel bene o
quel male che voi
medesimi avete voluto: e se
voi starete in questo
errore, che queste
mie oppinioni vi siano
grate, non mancherò di seguire
il resto della istoria,
secondo che nel principio
vi promisi. Valete Ancouaciiè, per la
invida natura degli uomini,
sia sempre stato
pericoloso il ritrovare modi
ed ordini nuovi,
quanto il cercare acque
e terre incognite, per essere
quelli più pronti
a biasimare che a laudare le
azioni d’ altri ; nondimeno,
spinto da quel
naturale desiderio che fu
sempre in me
di operare, senza
alcun rispetto, quelle cose
che io creda rechino
comune benefìzio a ciascuno,
ho deliberato entrare per
una via, la
quale, non essendo stata
per ancora da
alcuno pesta, se la mi arrecherà
fastidio e diffìcultù, mi potrebbe ancora
arrecare premio, mediante
quelli che umanamente di
queste mie fatiche
considerassero. E se T
ingegno povero, la
pocoesperienza delle cose
presenti, la debole notizia delle
antiche, faranno questo mio
conato difettivo e di
non moltautilità ; daranno almeno
la via ad
alcuno, che con più
virtù, più discorso
egiudizio, potrà a questa
mia intenzionesatisfare: il che se
non mi arrecheràlaude, non
mi dovrebbe partorire
biasimo. E quando io considero
quantoonore si attribuisca all’antichità,
c comemolte volte, lasciando andare moltialtri
esempi, un frammento
d’ una antica statua sia
stato comperato granprezzo,
per averlo appresso
di sè, onorarne la
sua casa, poterlo
fare imitareda coloro
che di quella
arte si dilettano; e come quelli
poi con ogni
industria si sforzano in
tutte le loro opererappresentarlo: e vcggendo,
dall’altrocanto, le virtuosissime
operazioni che leistorie
ci mostrano, che
sono state operate
da regni cda
repubbliche auliche,dai re,
capitani, cittadini, datori
di leggi,ed ultri
che si sono
per la loroatfaticati, esser
più presto ammirate
cheimitate; au/i in
tanto da ciascuno
inogni parte fuggite,
che di quella
anticavirtù non ci è
rimaso alcun seguo:posso
fare che insieme
non me nelavigli
e dolga; e tanto più,
quantoveggio nelle differenze
che intra iladini
civilmente nascono, o nelle
inalattie nelle quali
gli uomini incorrono,essersi sempre
ricorso a quelli giudiciio a quelli rimedi che dagli antichi
sonostati giudicati o ordinati. Perchè
le leggicivili non
sono altro che
sentenzio datedagli antichi
iurcconsulti, le quali,
ridotte in ordine, a’ presenti
nostri iureconsulti giudicare
insegnano; nè ancorala
medicina è altro che
cspcrienzia fattadagli antichi
medici, sopra la
quale fondano i medici presenti
li loro giudicii. Nondimeno, nello
ordinare le repubbliche, nel mantenere
gli Stati, nel
govcrnai e i regni, nell’
ordinare la milizia
edamministrar la guerra,
nel giudicare isudditi,
nello accrescere lo
imperio, nonsi trova
uè principi, nè
repubbliche, nècapitani, nè
cittadini che agli
esempidegli antichi ricorra.
Il che mi
persuadoche nasca non
tanto dalla debolezzanella quale
la presente educazione
hacondotto il mondo,
o da quel male
cheuno ambizioso ozio
ha fatto a molteprovincie c città
cristiane, quanto dalnou
avere vera cognizione
delle istorie,per non
trarne, leggendole, quel
senso,nè gustare di
loro quel sapore
che lehanno in
sè. Donde nasce
che infinitiche leggono,
pigliano piacere di
udirequella varietà delli
accidenti che in
essesi contengono, senza
pensare altrimeuted’
imitarle, giudicando la
imitazione nonsolo difficile
ma impossibile: come
se ilcielo, il
sole, gli elementi,
gli uominifossero variati
di moto, d’ordine
e dipotenza, da quello
eli’ egli erano anticamente. Volendo, pertanto,
trarre gli uomini
di questo errore,
ho giudicalo necessario scrivere sopra
tutti quelli libri di
L. che dalla malignità
deitempi non ci
sono stati interrotti,
quelloche io, secondo
le antiche e modern cose, giudicherò
esser necessario permaggiore
intelligenzia d'essi; acciocchécoloro che
questi miei discorsi
leggeranno, possino trarne quella
utilità perla quale
si debbe ricercare
la cognizione della istoria.
G benché questa impresa sia
difficile, nondimeno, aiutato
dacoloro che mi
hanno ad entrare,
sotto aquesto peso
confortato, credo portarloin
modo, che ad
un altro resterà
brevecammino a condurlo al
luogo destinato. I. Quali
siano stati universalmente i pr incipit’
di qualunque città,c quale
fosse quello di
ROMA. Coloro che leggeranno
qual principio fosse quello
della città di
ROMA, e da quali legislatori
e come ordinato, non si
maraviglieranno che tanta
virtù sisia per
più secoli mantenuta
in quella città; e che
dipoi ne sia
nato quello imperio, al
quale quella repubblica
aggiunse. E volendo
discorrere prima il nascimento
suo, dico che
tutte le cittàsono
edificate o dagli uomini
natii delluogo dove
le si edificano,
o dai forestieri. Il primo caso
occorre quandoagli abitatori
dispersi in molte
e piccole parli non par
vivere sicuri, nonpotendo
ciascuna per sè, e
per il
sitoe per il piccol
numero, resistere all’impeto di
chi le assaltasse;
e ad unirsi perloro
difensione, venendo il
nemico, nonsono a tempo;
o quando fossero, converrebbe loro lnsciare
abbandonati molti de’ loro ridotti,
e cosi verrebbero ad
esser sùbita preda dei
loro nemici: talmente che,
per fuggire questi
pericoli, mossi o da loro
medesimi, o da alcunoche
sia infra di
loro di maggior
autorità, si ristringono ad
abitar insieme in luogo
eletto da loro,
più comodo a vivere e più facile
a difendere. Di queste,infra
molle altre, sono
state Atene e Vincaia. La
prima, sotto l’autorità
di Teseo, fu per simili
cagioni dalli abitatoridispersi edificata;
l’altra, sendosi moltipopoli
ridotti in certe
isolette che eranonella punta del mare Adriatico, per
fuggire quelle guerre che
ogni dì, per
loavvenimento di nuovi
barbari, dopo ladeclinazione dello
imperio romano, nascevano in
ITALIA, cominciarono infra loro,
senza altro principe
particolareclic gli ordinassi,
a vivere sotto quelleleggi
che parvono loro
più atte a mantenerli. Il che
successe loro felicemente per il
lungo ozio che
il sito dette
loro, non avendo quel
mare uscita, e nonavendo
quelli popoli che
affliggevano ITALIA, navigi da
poterli infestare: talché ogni
picciolo principio li
potò fare venire a quella grandezza
nella quale sono. Il
secondo caso, quando
da genti forestiere è edificata una
città, nasce o dauomini
liberi, oche dipendano
da altri come sono
le colonie mandate
o da unarepubblica o da
un principe, per
Sgravare le . loro terre
d’abitatori, o per difesa di
quel paese che,
di nuovo acquistato, vogliono sicuramente
e senzaspesa mantenersi; delle
quali città IL POPOLO ROMANO ne edificò
assai, e pertutto l’imperio
suo: ovvero le
sono edificate da un
principe, non per
abitarvi,nia per sua
gloria; come la
città di Alessandria da
Alessandro. E per nonavere
queste cittadl la
loro origine libera,rade
volte occorre che
le facciano progressi grandi, e possinsi
intrai capi deiregni
numerare. Simile a queste
fu V edificazione di FIRENZE,
perchè (fi edificatada’ soldati di
SILLA, o, a caso,
dagli abitatori dei monti
di Fiesole, i quali,
confidatisi in quella lunga
pace che sotto
OTTAVIANO nacque nel mondo,
si ridusseroad abitare
nel piano sopra
Arno) si edificò sotto
l’imperio romano; nè
potette,ne’ principii suoi,
fare altri augumentiche
quelli che per
cortesia del principe li
erano concessi. Sono
liberi li edificatori delle cittadi,
quando alcuni popoli,o sotto un
principe o da per
sé, sonocostretti, o per
morbo o per fame o
perguerra, od abbandonare
il paese potrio,e cercarsi nuova
sede: questi tali, oegli
abitano le cittadi
elle e’ trovano neipaesi
eli’ egli acquistano, come
fece Moisè; o ne
edificano di nuovo,
come fe ENEA. In
questo caso è dove
si conosce la virtù
dello edificatore, e la
fortunadello edificato: la
quale è più o menomeravigliosa, secondo
che più o menoè virtuoso colui
che ne è stato
principio.La virtù del
quale si conosce
in duoimodi: il
primo è nella elezione
del sito;F altro nella
ordinazione delle leggi.
Eperchè gli uomini
operano o per necessità o per elezione;
e perchè si vede quivi
esser maggiore virtù
dove la elezione ha
meno autorità; è da
considerare se sarebbe meglio
eleggere, per laedificazione delle cittadi,
luoghi sterili,acciocché gli
uomini, costretti ad
indùstriarsi, meno occupati
dall’ozio, vivessino più
uniti, avendo, per
la povertàdel sito,
minore cagione di
discordie;come intervenne in
Raugia, e in moltealtre
cittadi in simili
luoghi edificate:la quale
elezione sarebbe senza
dubbiopiù savia e più
utile, quando gli
uo .mini fossero
contenti a vivere delloro,e non
volcssino cercare di
comandarealtrui. Pertanto, non
potendo gli uominiassicurarsi se
non con la
potenza, ènecessario fuggire
questa sterilità del pnese,
e porsi in luoghi
fertilissimi ;dove, potendo per
la ubertà del
sito ampliare, possa e difendersi
da chi l’ assaltasse, e opprimere qualunque
alla grandezza sua si
opponesse. G quanto a quell’ozio
che le arrecasse
il sito, si debbe
ordinare che a quelle
necessitadi le leggi la
costringhino che ’l
sito non la costringesse;
ed imitare quelli
che sono stati savi,
ed hanno abitato
in paesiamenissimi e fertilissimi, c alti
a pròdurre uomini oziosi
ed inabili ad
ogni virtuoso esercizio: chè,
per ovviare aquelli
danni i quali l’amenità
del paese,mediante l’ozio,
arebbero causati, hannoposto
una necessità di
esercizio a quelliche avevano
a essere soldati: di
qualitàche, per tale
ordine, vi sono
diventatimigliori soldati che
in quelli paesi
i qualinaturalmente sono stati
aspri e steriliIntra i quali
fu il regno
degli Egizi, chenon
ostante che il
paese sia amenissimo, tanto potette
quella necessità ordinata dalle leggi,
che vi nacquero
uomini eccellentissimi; e se li
nomi loronon fussino
dalla antichità spenti,
sivedrebbe come meriterebbero
più laudeche Alessandro
Magno, c molti altri
deiquali ancora* è la
memoria fresca. E chiavesse
considerato il regno
del Soldano,e l’ordine de’Mammaluchi. e di
quellaloro milizia, avanti
che da Sali,
GranTurco, fusse stata
spenta ; arebbe veduto ili quello
molti esercizi circa
i soldati, ed arebbe in
fatto conosciutoquanto essi
temevano quell’ozio a che la
benignità del paese
gli poteva condurre, se
non vi avessino
con leggi fortissime ovviato. Dico,
adunque, esserepiù prudente
elezione porsi in
luogofertile, quando quella
fertilità con leleggi
infra* debili termini
si restringe.Ad Alessandro
Magno, volendo edificareuna
città per sua
gloria, venne Dinoerate
architetto, e gli mostrò
come eila poteva
fare sopra il
monte Albo; ilquale
luogo, oltre allo
esser forte, potrebbe ridursi in
modo che a quellacittà
si darebbe forma
umana; il chesarebbe
cosa meravigliosa e raro,
e degna della sua grandezza:
e domandandolo Alessandro di quello
che quelli abitatori viverebbono, rispose,
non ci averepensato:
di che quello
si rise, e lasciatostare quel
monte, edificò Alessandria,dove gli
abitatori avessero a stare
volentieri per la grassezza
del paese, e perla
comodità del mare e
del Nilo. Chi
esaminerò, adunque, la edificazione
di Roma, se si
prenderà Enea per
suo primoprogenitore, sarà
di quelle citladi
edificate da’ forestieri ; se
Romolo, di quelleedificate dagli
uomini natii del
luogo;ed in qualunciic
modo, la Vedrà
avereprincipio libero, senza
depcndere da alcuno: vedrà
ancora, come di
sotto sidirà, a quante
necessitadi le leggi
fatteda Romolo, Numa,
e gli altri, la
costringessino; talmente
clic la fertilità
del sito,la comodità
del mare, le
spesse vittorie,la grandezza
dello imperio, non
la poterono per molti
secoli corrompere, e Ir»
» mantennero piena
di tante virtù,
djp^quante mai fusse
alcun’ altra
repubblicaornata. E perchè le
cose operate da
lejj, ^e che sono
da Tito Livio
celebrate, sonoseguite o per
pubblico o per privatoconsiglio, o dentro
o fuori della cittade,io
comincerò a discorrere sopra
quellecose occorse dentro,
e per consiglio pubblico, le
quali degne di
maggiore annotazione
giudicherò, aggiungendovi tutto quello
che da loro
dependessi: coni quali
Discorsi questo primo libro,
ovvero Questa prima
parte, si terminerà. Di
quante spezie sono
le *epnbbtiche, e di quale
fu la Repubblica Romana. Io voglio
porre da parte
il ragionare di quelle
cittadi clic hanno
avuto il loro principio sottoposto
ad altri; e parlerò di
quelle che hanno
avuto il principio 'ontano do ogni servitù
esterna, nia si ; j sono
subito governate per
loro arbitrio, o come repubbliche
o come principato: U quali hanno
avuto, come diversi
principi, diverse leggi ed
ordini. Perchè ad alcune,
o nel principio d’esse,
o dopo non molto tempo,
sono state date
da un solo le
leggi, e ad un
tratto; come quelle che furono
date da Licurgo
agli Spartani: alcune le
hanno avute a caso,
ed in più volte,
e secondo li accidenti,
come Roma. Talché, felice
si può chiamare quella repubblica,
la quale sortisce
uno uomo sì prudente,
che le dia
leggi ordinate in modo,
che senza avere
bisogno di correggerle, possa
vivere sicuramente sotto quelle.
E si vede che
Sparta le osservò più
che ottocento anni
senza corromperle, o senza alcuno
tumulto pericoloso: e, pel
contrario, tiene qualche grado
d’ infelicità quella
città, che, non si
sendo abbattuta ad
uno ordinatore prudente, è necessitata
da sè medesima riordinarsi: e di
queste ancora è più infelice quella
che è più discosto
dall’ordine; e quella è più discosto, con
suoi ordini è al
tutto fuori del
dritto cammino, che la
possi condurre al
perfetto e vero fine: perchè
quelle clic sonoiu
questo grado, è quasi
impossibile che per qualche
accidente si rassettino. Quel le altre che,
se le non
hanno V ordine perfetto, hanno
preso il principio
buono,e atto a diventare migliori,
possono perla occorrenza
delli accidenti diventareperfette. Ma
fia ben vero
questo, mai non si
ordineranno senza pericolo perchè li
assai uomini non si accordano mai
ad una legge
nuova che riguardi uno
nuovo ordine nella
cit tà, se non è
mostro loro da
una necessità che
bisogni farlo; e non potendo venire
questa necessità senza pericolo,
è facil cosa che quella
repubblica rovini, avanti
che la si sia
condotta a una perfezione
d’ordine. Di che ne
fa fede appieno
la repubblica di Firenze,
la quale fu
dalloaccidente d’ Arezzo,
nel 11, riordinata,
eda quel di
Prato, nel XII,
disordinata.Volendo,
adunque, discorrere quali
furono li ordini della
città di Roma,
equali accidenti alla
sua perfezione lacondussero)
dico, come alcuui
che hannoscritto delle
repubbliche, dicono essere in
quelle uno de' tre stati, chiamati daloro Principato,
d’Ottimati e Popolare; e
come coloro che
ordinano una città, debbono volgersi
ad uno di
questi, secondo pare loro
più a proposito. Alcuni altri,
e secondo la oppinione
di molti più savi,
hanno oppinione che
siano di sei ragioni
governi; delti quali
tre ne siano pessimi;
tre altri siano
buoni in loro medesimi,
ma sì focili
a corrompersi, che vengono ancora
essi ad essere perniziosi. Quelli
che sono buoni, sono
i soprascritti tre: quelli
clic sono rei, sono
tre altri, i quali
da questi tre dependono; c ciascuno
d’ essi è in
modo simile a quello che gli è propinquo,
che facilmente saltano dall’
uno all’ altro: perchè
il Principato facilmente
diventa tirannico; li Ottimati
con facilità diventano stato di
pochi; il Popolare senza diflìcultà in
licenzioso si converte.
Talmente che, se uno
ordinatore di repubblica ordina in una città uno di
quelli tre stati, ve
lo ordina per
poco tempo; perchè nessuno
rimedio può farvi,
a far che non sdruccioli
nel suo contrario, per la
similitudine che ha
in questo caso la
virtù ed il
vizio. Nacquono queste variazioni di
governi a caso intra li
uomini: perchè nel
principio del mondo, sendo
li abitatori rari,
vissono un tempo dispersi,
a similitudine delle bestie; dipoi, multiplicando
la generazione, si ragunorno
insieme, e, per
potersi meglio difendere, cominciorno
a riguardare fra loro quello
che fusse più
robusto c di maggiore cuore,
c fecionlo come capo, e lo
obedivano. Da questo nacque
la cognizione delle
cose oneste e buone, differenti
dalle perniziose e ree: perchè,
veggendo che se
uno noceva al
suo benefattore, ne
veniva odio e compassione intra
gli uomini, biasimando li
ingrati ed onorando
quelli che fusscro grati,
e pensando ancora che quelle
medesime ingiurie potevano
esser fatte a loro; per
fuggire simile male,
si riducevano a fare leggi,
ordinare punizioni a chi contea
facesse: donde venne la
cognizione della giustizia.
La qual cosa faceva
che avendo dipoi
ad eleggere un principe,
non andavano dietro al
più gagliardo, ma a
quello che fussi più
prudente c più giusto.
Ala come di poi si
cominciò a fare il
principe per successione, e non
pei* elezione, subito cominciorno li
eredi a degenerare dai loro
antichi; e lasciando 1’ opere
virtuose, pensavano che i principi
non avessero a fare altro
clic superare li
altri di sontuosità e di
lascivia c d’ ogni
altra' qualità deliziosa: in
modo che, cominciando il principe
ad essere odialo,
e per tale odio a
temere, e passando tosto dal
timore all’offese, ne
nasceva presto una tirannide.
Da questo nacquero appresso i principi»
delle rovine, c delle conspirazioni e congiure
contea i principi; non fatte
da coloro clic
fussero o timidi o deboli,
ma da coloro
che per genei'osità, grandezza
d’ animo, ricchezza e nobiltà, avanzavano
gli altri; i quali non
potevano sopportare la
inonesta vita di quel
principe. La moltitudine,
adunque, seguendo l’
autorità di questi
potenti, si armava contra
al principe, c quello
spento, ubbidiva loro
come a suoi liberatori. E quelli,
avendo in odio
il nome d’ uno
solo capo, constituivano
di loro medesimi un
governo; e nel piincipio,
avendo rispetto alla
passata tiratinide, si
governavano secondo le
leggi ordinate da loro,
posponendo ogni loro comodo
alla comune utilità; e le
cose private e le pubbliche
con somma diligenzia
governavano c conservavano. Venuta
dipoi questa amministrazione ai loro
figliuoli, i quali, non
conoscendo la variazione della
fortuna, non avendo mai
provato il male,
e non volendo stare contenti alla
civile equalità, ma
rivoltisi alla avarizia, alla
ambizione, alla usurpazione delle donne,
feciono clic d’ uno
governo d’ Ottimati
diventassi un governo di
pochi, senza avere rispetto ad alcuna civiltà: tal
che in breve
tempo intervenne loro come
al tiranno; perchè infastidita da’
loro governi la
moltitudine, si fe ministra
di qualunque disegnassi in
alcun modo offendere
quelli governatori; e cosi si
levò presto alcuno che,
con I’ aiuto
della moltitudine, li spense.
Ed essendo ancora
fresca la memoria del
principe e delle ingiurie ricevute da
quello, avendo disfatto
lo Stato de’ pochi
e non volendo rifare
quell del principe, si
volsero allo Stato
popolare; c quello
ordinarono in modo,
che nè i pochi potenti,
nè uno principe
vi avesse alcuna autorità.
E perchè tutti gli Stali
nel principio hanno
qualche reverenza, si mantenne
questo Stato popolare un
poco, ma non
molto, massime spenta che
fu quella generazione
che l’aveva ordinato; perchè
subito si venne alla
licenzia, dove non si temevano nè
li uomini privati
nè i pubblici; di qualità
che, vivendo ciascuno
a suo modo, si facevano
ogni di mille
ingiurie: talché, costretti per
necessità, o per suggestione
d’ alcuno buono uomo,
o per fuggire tale licenzia,
si ritorna di
nuovo al principato; e da
quello, di grado
in grado, si riviene
verso la licenzia,
nei modi e per le
cagioni dette. E questo
è il cerchio nel
quale girando tutte
le repubbliche si sono
governate, e si governano:
ina rade volte
ritornano nei governi medesimi;
perchè quasi nessuna repubblica può
essere di tanta
vita, che possa passare
molle volte per
queste mutazioni, c rimanere in
piede. Ma bene interviene
che, nel travagliare,
una repubblica, mancandoli sempre
consiglio e forze, diventa suddita
d'uno Stato propinquo, clic sia
meglio ordinato di lei:
ina dato
che questo non
fusse, sarebbe atta una
repubblica a rigirarsi infinito tempo in
questi governi. Dico,
adunque, che lutti i detti
modi sono pestiferi,
per la brevità della
vita che è ne’
tre buoni, e per la
malignità che è ne*
tre rei. Talché, avendo quelli
che prudentemente ordinano leggi
conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno
di questi modi
per se stesso, n’
elessero uno che
partieipasse di lutti,
giudicandolo più fermo
e più stabile; perchè l’uno
guarda l’altro, scudo in una medesima
città il Principato, li Ottimati
ed il Governo
Popolare. Infra quelli che
hanno per simili constituzioni meritato
più laude, è Licurgo; il
quale ordinò in
modo le sue leggi
in Sparta, che
dando le parti
sue ai He, agli
Ottimali e al Popolo,
fece uno Stato che
durò più che
ottocento anni, con somma
laude sua, e quiete
di quella città. Al
contrario intervenne a Solone,
il quale ordinò
le leggi in
Atene che per ordinarvi
solo lo Stato popolare lo
fece di sì
breve vita, che
avanti morisse vi vide
nata la tirannide
di Pisistrato: e benché
dipoi anni quaranta ne
fusscro cacciati gli
suoi eredi, c ritornasse Atene in
libertà, perchè la
riprese lo Stato popolare,
secondo gli ordini di
Solone; non lo
tenne più cliccento
anni, ancora che
per mantenerlo facesse molte
constituzioni, per le quali
si reprimeva la
iusolenzia grandi c la licenzia
dell’ universale, le quali
non furou da
Solonc considerate
nientedimeno, perchè la
non le mescolò con
la potenzia del
Principato e con quella dclli
Ottimali, visse Atene, spetto
di Sparla, brevissimo
tempo. Ria vegniamo a ROMA; la
quale nonostante che non
avesse uno Licurgo
che la ordinasse in
modo, ilei principio,
che la potesse vivere lungo
tempo libera, nondimeno furon tanti
gli accidenti che in
quella nacquero, per
la disunione che era
intra la Plebe
ed il Senato,
che quello che non
aveva fatto uno
ordinatore, lo fece il
caso. Perchè, se
ROMA non sortì la
prima fortuna, sortì
la seconda; perchè i primi
ordini se furono defettivi, nondimeno
non deviarono dalla diritta
via che li
potesse condurre alla perfezione. Perchè
ROMOLO e tutti gli
altri Re fecero molte
e buone leggi, conformi ancora al
vivere libero: ma
perchè il fine loro
fu fondare un
regno e non una repubblica,
quando quella città rimase libera, vi
mancavano molte cose che
era necessario ordinare
in favore della libertà,
le quali non
erano state da quelli
Re ordinate. E avvengachè quelli suoi
Re perdessero V imperio
per le cagioni e modi
discorsi; nondimeno quelli clic
li cacciarono, ordinandovi
subito duoi Consoli, che
stessino nel luogo del
Re, vennero a cacciare
di Roma il nome,
e non la potestà
regia: talché, essendo in
quella Repubblica i Consoli ed
il Senato, veniva
solo ad esser
mista di due qualità
delle tre soprascritte: cioè di
Principato e di Ottimali.
Restavali solo a dare
luogo al Governo
Popolare: onde, essendo diventatala
Nobiltà romana insolente per
le cagioni che di
sotto si
diranno, si levò
il Popolo contro di
quella; talché, per non perdere
il tutto, fu
costretta concedere al
Popolo la sua parte;
e, dall’altra parte,
il Senato e i Consoli restassino
con tantaautorità, che
potcssino tenere in
quella Repubblica il grado
loro. E cosi nacque la
creazione de’ Tribuni
della plebe; dopo la quale
creazione venne a essere
più stabilito lo stato
di quella Repubblica, avendovi tutte
le tre qualità
di governo la parte
sua. E tanto li
fu favorevole la fortuna,
che benché si
passasse dal governo de’ Re e delli
Ottimati al Popolo, per
quelli medesimi gradi
e per quelle medesime cagioni
che di sopra
si sono discorse: nondimeno non
si tolse mai, per
dare autorità alli
Ottimati, tutta l’autorità alle
qualità regie; nè
si diminuì l’autorità in
tutto alli Ottimati,
per darla al Popolo;
ina rimanendo mista, fece
una repubblica perfetta: alla quale perfezione venne
per la disunione
della Plebe e del Senato,
come nei duoi
prossimi seguenti capitoli largamente
si dimostrerà. III. Quali accidenti
facessino creare in Roma i
Tribuni della plebe ; il
che fece la
Repubblica più perfetta. Come dimostrano
lutti coloro che
ragionano del vivere civile,
e come ne è piena
di esempi ogni
istoria, è necessario a chi dispone
una repubblica, ed ordina
leggi in quella, presupporre
tuttigli uomini essere
cattivi, e clic li
abbinosempre od usure
la malignità dello
animo loro, qualunchc volta
ne abbino libera occasione: e quando
alcuna malignità sta occulta
un tempo, procede
da una occulta cagione,
ebe, per non
si essere veduta esperienza
del contrario, non si conosce;
ma la fa
poi scoprire il tempo,
il quale dicono
essere padre d’ogni verità.
Pareva clic fusse
in Roma intra la
Plebe cd il
Senato, cacciati I Tarquiili,
una unione grandissima;
e che i Nobili, avessino
deposta quella loro superbia, c russino
diventati d'animo popolare, c sopportabili da
qualuncbc, ancora ebe infimo. Stette nascoso
questo inganno, nè se
ne vide la
cagione, infino ebe i Tarquini
vissono; de’ quali temendo la
Nobiltà, ed avendo
paura che la Plebe
mal trattata non
si accostasse loro, si
portava umanamente con quella:
ma come prima
furono morti I Tarquini,
e die a’ Nobili fu
la paura fuggita, cominciarono
a sputare contro Olla Plebe
quel veleno che
si avevàno tenuto nel
petto, ed in
tutti i modi che potevano
la offendevano: la
qual cosa fa testimonianza a quello
che di sopra
ho detto, che gli
uomini non operano
mai nulla bene, se
non per necessità;
ma dove la elezione
abbonda, e che vi si
può usare licenzia,
si riempie subito
ogni cosa di confusione
e di disordine. Però
si dice che la
fame e la povertà
fu gli uomini industriosi, e le
leggi gli fanno buoni.
E dove una cosa
per sè medesima senza la
legge opera bene,
non è necessaria la legge;
ma quando quella
buona consuetudine manca, è subito
la legge necessaria. Però,
mancati i Tarqnini, che con
la paura di
loro tenevano laNobiltà
a freno, convenne pensare
a unonuovo ordine ehe
facessi quel medesimoeffetto che
facevano i Tarquini quandoerano
vivi. E però, dopo
molte confusioni, romori e pericoli
di scandali, chenacquero
intra la Plebe
c la Nobiltà, sivenne
per sicurtà della
Plebe alla creazionc
ile* Tribuni; e quelli
ordinaronocon laute preminenze
e tanta riputazione, che potcssino
essere sempre dipoi
mezzi intra la
Plebe e il Senato,
eovviare alla insolenzia
de’ Nobili. IV. Che la
disunione della Plebe c del
Senato romano fece
libera e polente quella
Repubblica. H0U njt fil ùi
òVvil tf,; il "iit* lo
non voglio mancare
di discorrere sopra questi
tumulti che furono
in Roma dalla morte
de’ Tarquini alla creazione de’
Tribuni; e di poi
alcune cose contro la
oppinionc di molti
clic dicono. Roma esser
stata una repubblica
tumultuaria, e piena di tanta
confusione, clicse la
buona fortuna c la
virtù militare non avesse
supplito a’ loro
difetti, sarebbe stata inferiore
ad ogni altra
repubblica. Io non posso
negare che la fortuna
e la milizia non
fussero cagioni dell’imperio romano;
ma e’ mi pare bene,
che costoro non
si avvegghino, clic dove è
buona milizia, conviene
clic sia buono ordine,
e rade volte anco
occorre clic non vi
sia buona fortuna.
Ma vegniamo all i altri particolari
di quella città. Io
dico clic coloro
clic dannano I tumulti
intra i Nobili c la
Plebe, mi pare clic
biasimino quelle cose
che furono prima cagione
di tenere libera
Roma ; c clic considerino più a’ romori
ed alle grida clic
di tali tumulti
nascevano, che a’ buoni effetti
clic quelli partorivano: e che non
considerino come ei sono
in ogni repubblica
duoi umori diversi, quello del
popolo, c quello dei grandi; c come tutte
le leggi che
si fanno in favore
delia libertà, nascono
dalla disunione loro, come
facilmente si può vedere
essere seguito in
Roma: perchè da’ Tarquini ai
Gracchi, che furono
più di trecento anni,
i tumulti di Roma
rade volte partorivano esilio,
radissime sangue. Nè si
possono, per tanto,
giudicare questi tumulti nocivi,
nè una repubblica divisa, che in tanto
tempo per le sue
differenze non mondò
in esilio più
che otto o dieci cittadini,
e ne ammazzò pochissimi, e non molti
ancora condennò in danari.
Nè si può
chiamare in alcun modo,
con ragione, una
repubblica inordinata, dove siano
tanti esempi di
virtù; perchè li buoni
esempi nascono dalla buona
educazione; la buona
educazione dalle buone leggi; e le
buone leggi da quelli
tumulti che molti
inconsideratamente dannano:
perchè chi esaminerò bene il
fine d’essi, non
troverà ch’egliabbino
partorito alcuno esilio
o violenza in disfavore del
comune bene, ma
leggi ed ordini in
benefizio della pubblica
libertà. E se alcuno dicesse: i modi erano straordinari, e quasi
efferati, vedere il Popolo
insieme gridare contro
il Senato, il Senato
contra il Popolo,
correre tumultuariamente per le
strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la Plebe
di Roma. le quali
tutte cose spaventano,
nonclic altro, chi
legge; dico come
ogni città debbe avere
i suoi modi, con
i quali il
popolo possa sfogare
l’ambizione sua, e massime quelle
ciltadi che uelle cose
importanti si vogliono
valere del popolo: intra
le quali la
città di Roma aveva
questo modo, che
quando quel Popolo voleva
ottenere una legge, o e’
faceva alcuna delle
predette cose, o e’ non
voleva dare il
nome per andare alla
guerra, tanto che a
placarlo bisognava in qualche
parte satisfargli. E i desiderò
de’ popoli liberi,
rade volle sono perniziosi
alla libertà, perchè
e’na seono o da essere
oppressi, o da suspizionc
di avere a essere
oppressi. E quando queste oppinioni
fussero false, e’
vi è il rimedio delle
concioni, che sorga
qualche uomo da bene,
che, orando, dimostri loro
come c’ s’
ingannano: e li popoli, come
dice Tullio CICERONE, benché
siano ignoranti, sono capaci
della verità, e facilmente cedono, quando
da uomo degno di
fede è detto loro
il vero. Debbesi, adunque, più
parcamente biasimare il governo
romano, e considerare che
tanti buoni effetti quanti
uscivano di quella repubblica, non
erano causati se
non da ottime cagioni.
E se i tumulti furono
cagione della creazione dei
Tribuni, meritano somma laude;
perchè, oltre al
dare la parte sua
all’ amministrazione popolare,
furono constituiti per
guardia della libertà romana,
come nel seguente
capitolo si mostrerà. V. Dove
più sccurnmentc si
ponga la guardia della
libertà, o nel Popolo o ne *
Grandi; c c/uali hanno maggior cagione
di tumultuare, o chi vuole acquistare
o chi vuole mantenere. Quelli clic
prudentemente hanno constituita
una repubblica, intra
le più necessarie cose
ordinate da loro,
è stato constituire una guardia
alla liberta: e secondo
che questa è bene
collocala,dura più o meno
quel vivere libero.
Eperché in ogni
repubblica sono uomingrandi
e popolari, si è dubitato
nellemani di quali
sia meglio collocata
dettaguardia. Ed appresso
i Lacedemoni, c,ne’ nostri
tempi, appresso de’
Viniziani,la è stata messa
nelle mani de’
Nobili;ma appresso de’ Romani
fu messa nellemani
della Plebe. Per
tanto, è necessario esaminare, quale
di queste repubbliche avesse migliore
elezione. E se siandassi
dietro alle ragioni,
ci è chedire da
ogni pajte: ma
se si esaminassiil
fine loro, si
piglierebbe la partede’
Nobili, per aver
avuta la libertà
diSparla c di Vinegia
più lunga vita
chequella di Roma.
E venendo alle ragioni, dico, pigliando
prima la parte
de’ Romani, come e’
si debbe mettere
in guardia coloro d’
una cosa, che
hanno menoappetito di
usurparla. E senza dubbio,se
si considera il
fine de’ nobili
e deiliignobili, si vedrà
in quelli desideriogrande di
dominare, cd in
questi solodesiderio di
non essere dominati;
e, perconseguente, maggiore volontà
di vivereliberi, potendo
meno sperare d’ usurparla
che non possono
li granili: talché, essendo i popolani
preposti a guardia d’ una libertà,
ò ragionevole neabbino più cura: e non
la putendo occupare loro, non
permettino clic altri
laoccupi. Dall’ altra
parte, chi difendel’ordine sparlano
e veneto, dice cliccoloro
che mettono la
guardia in inanode’
potenti, fanno due
opere buone:I’ una,
che satisfanno più
all’ ambizionedi coloro
che avendo più
parte nellarepubblica, per
avere questo bastone
inmano, hanno cagione
di contentarsi più;I’
altra, clic bevano
una qualità di
autorità dagli animi inquieti
della plebe,che è cagione
d’ infinite dissensioni escandali
in una repubblica,
e alta a ridurre la nobiltà
a qualche disperazione, che col
tempo faccia cattivi
eliciti.E ne danno per
esempio la medesimaRoma,
che per avere
i Tribuni dellaplebe questa
autorità nelle mani,
nonbastò loro aver
un Consolo plcbeio,
chegli vollono avere
ambedue. Da questo, c* voltano
la Censura, il
Pretore, e tuttili altri
gradi dell’imperio della
città:nè bastò loro
questo, chè, menati
dalmedesimo furore, cominciorno
poi, coltempo, a adorare
quelli uomini che
vedevano atti a battere la
Nobiltà; dondenacque la potenza
di Alarlo, e la
rovinadi Roma. E veramente,
chi discorressebene I’
una cosa c l’ altra,
potrebbestare dubbio, quale
da lui fusse
elettoper guardia tale
di libertà, non
sapendo quale qualità d’uomini sia
più nociva in una repubblica,
o quella ohedesidera acquistare
quello che non
ha,‘ o quella che desidera
mantenere V onore già acquistato.
Ed in fine,
chi sottilmente esaminerà tutto,
ne farà questa conclusione: o tu
ragioni d’ unarepubblica
che vogli fare
uno imperio,come Roma; o d’
una che li
basti mantenersi. Nel primo
caso, gli è necessario fare ogni
cosa come Roma;
nel secondo, può imitare
Yinegia e Spartaper quelle
cagioni, e come nel
seguente capitolo si dirà.
.Ma, per tornare
a discorrere quali uomini siano
in una repubblica piu nocivi,
o quelli clic desiderano d’acquistare, o quelli
clic temono di perdere
lo acquistato; dicodie,
scudo fatto Marco
Meiiennio dittatore, e Marco Fulvio
maestro de’ cavalli, tutti duoi
plebei, per ricercare
certecongiure clic si
erano falle in
Capovaconlro a Roma, fu
dato ancora loro
autorità dal Popolo di
poter ricercare chiin
Roma per ambizione
e modi straordinari
s’ingegnasse di venire
al consolato, ed agli
altri onori della
città. Eparendo alla
Nobiltà, che tale
autoritàfusse data al
Dittatore contro a lei,sparsero per
Roma, clic non i
nobilierano quelli che
cercavano gli onoriper
ambizione e modi straordinari,
magl’ ignobili, i quali,
non confidatisi nelsangue
e nella virtù loro,
cercavano pervie straordinarie
venire a quelli gradi;e particolarmente accusavano
il Dittatore. E tanto fu
potente questa accusa, che
Mencnnio, fatta una
conclone c dolutosi deite calunnie
dategli da* Nobilidepose
la dittatura, e sottomessesi aigiudizio
che di lui
fussi fatto dal
Po*polo; c dipoi, agitala
la causa sua,
nefu assoluto: dove
si disputò assai,
qualesia più ambizioso,
o quel che vuolemantenere o quel
che vuole acquistare;perchè facilmente
1* uno e V altro
appetito può essere cagione
di tumultigrandissimi. Pur
nondimeno, il più
dellevolte sono causali
da chi possiede,
perchè la paura del
perdere genera in
lorole medesime voglie
che sono in
quelliche desiderano acquistare;
perchè nonpare agli
uomini possedere sicuramente quello clic l’uomo
ha, se non
si acquista di nuovo
dell’ altro. E di
più vi è,che
possedendo molto, possono
con maggior potenzia c maggiore
moto fare alterazione. Ed ancora
vi è di più,
che li loro scorretti
e ambiziosi portamenti
accendono ne’ petti
di chi non
possiede voglia di possedere,
o per vendicarsi contro
di loro spogliandoli,
o per potere ancora loro
entrare in quella
ricchezza c in quelli onori
clic veggono essere male
usati dagli altri. Se
in 1 ionia si
poteva ordinare uno stalo
che togliesse via le
inimicizie intra il Popolo
ed il Senato. Noi
abbiamo discorsi di
sopra gli effetti che
facevano le controversie
intra il Popolo ed
il Senato. Ora,
sendo quelle seguitate in
fino al tempo
de’ Gracchi, dove furono cagione
della rovina del
vivere libero, potrebbe alcuno
desiderare che Roma avesse
fatti gli effetti
grandi che la fece,
senza che in
quella fussino tali inimicizie. Però
mi è parso cosa
degna di considerazione, vedere
se in Roma
si poteva ordinare uno
stato che togliesse
via dette controversie. Ed a
volere esaminare questo, è necessario
ricorrere a quelle
repubbliche le quali
senza tante inimicizie c tumulti sono
state lungamente libere,
e vedere quale stato
era il loro,
e se si poteva
introdurre in Roma.
In esempio tra lì
antichi ci è Sparta,
tra i moderni Yinegia, state
da me di
sopra uominate. Sparla fece
uno Re, con
unpicciolo Senato, che
la governasse. Vinegia
non ha diviso
il governo con i
nomi; ma, sotto una
appellazione, lutti quelli che
possono avere amministrazione si chiamano
Gentiluomini. Il quale modo
lo dette il
caso, più che
la prudenza di elùdette
loro le leggi:
perchè, sendosi ridotti in
su quegli scogli
dove è ora quella città,
per le cagioni
dette di sopra, molti
abitatori; come furon cresciuti in
tanto numero, che a
volere vivere insieme bisognasse
loro far leggi, ordinorono una
forma di governo;
c convenendo spesso insieme
ne’ consigli a deliberare
della città, quando
parve loro essere tanti
che fussero a sufficienza
ad un vivere politico,
chiusono la via a
tutti quelli altri che
vi venissino ad
abitare di nuovo, di
potere convenire ne’ loro governi: e,
col tempo, trovandosi
in quel luogo assai
abitatori fuori del
governo, per dare riputazione
a quelli clic governavano, gli
chiamarono Gentiluomini, e gli altri
Popolani. Potette questo modo
nascere e mantenersi senza
tumulto, perchè quando e’
nacque, qualunque allora abitava
in Vinegia fu
fatto del governo, di
modo che nessuno
si poteva dolere; quelli
che. dipoi vi
vennero ad abitare, trovando
lo Stato fermo
c terminato, non avevano
cagione nè comodità di
fare tumulto. La
cagione non y* era,
perchè non era
stato loro tolto cosa
alcuna: la comodità
non v’era, perché chi
reggeva gli teneva
in freno, c non gli
adoperava in cose
dove e’ potessino pigliare
autorità. Oltre di
questo, quelli che dipoi
vennono ad abitare Vinegia, non
sono stali molli,
c di tanto numero, che
vi sia disproporzione da chi
gli governa a loro
che sono governati; perchè il
numero de’ Gentiluomini o
egli è eguale a loro,
o egli è superiore: sicché,
per queste cagioni,
Vinegia potette ordinare
quello Stalo, e mantenerlo unito. Sparta,
come ho detto,
essendo governata da un
Re c da una stretto
Senato, potette mantenersi
così lungo tempo, perchè
essendo in Sparta pochi
abitatori, ed avendo
tolta la via n chi
vi venisse ad
abitare, ed avendo prese
le leggi di
Licurgo con reputazione, le quali
osservando, levavano via tutte
le cagioni de’
tumulti, poterono vivere uniti
lungo tempo: perchè Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più
cqualità di sustanze,
e meno equalità di
grado; perchè quivi
era una eguale povertà,
ed i plebei erano
manco ambiziosi, perchè i gradi
della città si distendevano in
pochi cittadini, ed
erano tenuti discosto dalla
plebe, uè gli
nobili col trattargli male
dettero mai loro
desiderio di avergli. Questo
nacque dai Re spartani,
i quali essendo collocati
in quel principato e posti
in mezzo diquella
nobiltà, non avevano
maggiore rimedio a tenere
fermo la loro
degnità,ehc tenere la
plebe difesa da
ogni ingiuria : il che
faceva che la
plebe nontemeva, c non
desiderava imperio; e
nonavendo imperio nè
temendo, era levatavia
la gara che
la potessi avere
con !unobiltà, c la
cagione de’ tumulti; e poterono vivere uniti
lungo tempo. Ma
duecose principali causarono
questa unione:T una esser
pochi gli abitatori
di Sparta,e per questo
poterono esser governatida
pochi; l’altra, che
non accettandoforestieri nella
loro repubblica, non
avevano occasione nè di
corrompersi, nè dicrescere
in tanto che
la fusse insopportabile a quelli pochi
che la governavano.Considerando, adunque,
tutte queste cose,si
vede come a’ legislatori di
Roma eranecessario fare
una delle due
cose, a volere che Roma
stessi quieta come
le sopraddette repubbliche: o non
adoperarela plebe in
guerra, corne i Viniziani;onon aprire
la via a’ forestieri, come
gliSpartani. E loro feceno
1’una e l’altra; il che
dette alla plebe
forza ed augumento,
ed infinite occasioni
di tumultuare. E se lo
stato romano veniva
adessere più quieto,
ne seguiva questo
inconveniente, ch’egli era anco
più debile,perchè gli si troncava
la via di
poterevenire a quella grandezza
dove ei pervenne: in
modo che volendo
Roma levare le cagioni
de’ tumulti, levava
ancole cagioni dello
ampliare. Ed in
tutte lecose umane
si vede questo,
chi le esaminerà bene: che
non si può
mai cancellare uno inconveniente, che
non nesurga un
altro. Per tanto,
se tu vuoifare
un popolo numeroso
ed armato perpotere
fare un grande
imperio, lo faidi
qualità che tu
non lo puoi
poi maneggiare a tuo modo:
se tu lo
mantienio piccolo o
disarmato per potere
maneggiarlo, se egli acquista
dominio, nonlo puoi
tenere, o diventa sì
vile, che tusei
preda di quaiunche
ti assalta. E però,in
ogni nostra deliberazione
si debbeconsiderare dove
sono meno inconvenienti, c pigliare
quello per migliorepartito: perchè
tutto netto, tutto
senzasospetto non si
trova mai. Poteva,
adunque, Roma a similitudine di
Sparta fareun Principe
a vita, fare un
Senato piccolo; ma non
poteva, come quella,
noncrescere il numero
de’ cittadini suoi,
volendo fare un grande
imperio; il chefaceva
che il Re a
vita ed
il picciol numero del
Senato, quanto alla unione, glisarebbe
giovato poco. Se
alcuno volesse,per tanto,
ordinare una repubblica
dinuovo, arebbe a esaminare
se volessech’ella ampliasse,
come Roma, di
dominio e di potenza, ovvero
ch’ella stessedentro a brevi
termini. Nel primo
caso,è necessario ordinarla come
Roma, edare luogo
a’ tumulti e alle dissensioniuniversali, il
meglio che si
può; perchèsenza gran
numero di uomini,
e benearmati, non mai
una repubblica potràcrescere, o se
la crescerà, mantenersi.Nel secondo
caso, la puoi
ordinare comeSparta c come
Yinegia: ma perchè
l’anipitale è il veleno
di simili repubbliche, tlebbc, in
tutti quelli modi
che si può,citi
le ordina proibire
loro lo acquistare;
perchè tali acquisti
fondati sopra una repubblica
debole, sono al
tutto la rovina sua.
Come intervenne a Sparta ed
a Yinegia: delle quali la
prima avendosi sottomessa quasi
tutta la Grecia, mostrò in su uno
minimo accidente il debole
fondamento suo; perchè, seguita la
ribellione di Tebe,
causata da Pelopitia,
ribellandosi V altre cittadi,
rovinò al tutto quella
repubblica. Similmente Yinegia, avendo
occupato gran parte d’Italia, e la
maggior parte non
con guerra ma con
danari e con astuzia, come
la ebbe a fare
prova delle forze sue,
perdette in una
giornata ogni cosa. Crederei bene,
che a fare una
repubblica che durasse lungo
tempo, fussi il miglior
modo ordinarla dentro
come Sparla o come Yinegia; porla in
luogo forte, e di tale
potenza, che nessuno
credesse poterla subito opprimere;
e dall’altra parte, non
fussi si grande,
che la fussi formidabile
a’ vicini: c così potrebbe
lungamente godersi il suo stato. Perchè, per
due cagioni si
fa guerra ad una
repubblica: Cuna per
diventarne signore, l’altra per
paura ch’ella non ti
occupi. Queste due
cagioni il sopraddetto modo quasi
in tutto toglie
via; perchè, se la è
difficile ad espugnarsi, come io
la presuppongo, sendo
bene ordinata alla difesa,
rade volte accadere, o non mai,
che uno possa
fare disegno d’ acquistarla. Se
la si starà
intra i termini suoi, e veggasi
per esperienza, che in
lei non sia
ambizione, non occorrerà mai
che uno per
paura di sè
gli faccia guerra: e tanto più
sarebbe questo, se e’
fusse in lei
constituzione o legge che le
proibisse l’ampliare. E senza
dubbio credo, clic polendosi
tenere la cosa
bilanciata in questo modo,
che e’ sarebbe il vero
vivere politico, e la
vera quiete di una
città. Ma scudo
tutte le cose
degli uomini in moto,
c non potendo stare salde,
conviene che le
saglino o clic le scendino; e a molte cose
che la ragione non
t' induce, t’ induce
lo necessità: talmente che,
avendo ordinata una
repubblica atta a mantenersi non
ampliando, e la necessità la
conducesse ad ampliare, si
verrebbe a torre via i
fondamenti suoi, ed a farla
rovinare più presto. Così,
dall’altra parte, quando
il Cielo le fusse
si benigno, che
la non avesse
a fare guerra, ne
nascerebbe che l’olio
la farebbe o effeminata o divisa;
le quali due cose
insieme, o ciascuna per
sè, sorebbono cagione della
sua rovina. Pertanto, non
si potendo, come
io credo, bilanciare questa
cosa, nò mantenere questa via
del mezzo a punto; bisogna, nello ordinare
la repubblica, pensare alla
parte più onorevole;
ed ordinaria in modo, che quando
pure la necessità la
inducesse ad ampliare,
ella potesse quello ch’ella
avesse occupato, conservare. E, per
tornare al primo
ragionamento, credo che sia
necessario seguire l'ordine romano,
e non quello dell’altre repubbliche; perchè
trovare un modo, mezzo
infra l’uno e l’altro,
non credosi possa:
e quelle inimicizie che
intra il popolo ed
il senato nascessino,
tollerarle, pigliandole per uno
inconveniente necessario a
pervenire alla romana
grandezza. Perchè, oltre all’ altre
ragioni allegate dove si
dimostra Y autorità tribun zia
essere stata necessaria
per la guardia della
libertà, si può
facilmente considerare il benefizio
che fa nelle
repubbliche l’autorità dello accusare,
la quale era intra
gli altri commessa
a’ Tribuni; come nel
seguente capitolo si
discorrerà. VII. Quanto siano necessarie in una repubblica
le accuse per
mantenere la libertà.A
coloro che in
una città sono
preposti per guardia della
sua libertà, non si
può dare autorità
più utile e necessaria, quanto è quella
di potere accasare
i cittadini ai popolo,
o a qualunque magistrato o
consiglio, quando che pcccassino in
alcuna cosa contea
allo stato libero. Questo
ordine fa duoi
effetti utilissimi ad una
repubblica. Il primo è che
i cittadini, per paura
di non essere accusati,
non tentano cose contro
allo Stato: e tentandole,
sono incontinente e senza rispetto
oppressi. 1/ altro è che
si dà via
onde sfogare a quelli
umori che crescono
nelle citladi, in qualunque
modo, contea a qualunque cittadino: e quando
questi umori non hanno
onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a’
modi straordinari, che fanno
rovinare in tutto
una repubblica. G non è cosa
che faccia tanto
stabile e ferma una
repubblica, quanto ordinare quella in
modo, che l’ alterazione di questi
umori che la
agitano, abbia una via
da sfogarsi ordinata
dalie leggi. Il che
si può per
molti esempi dimostrare, e massime per
quello che adduce Livio
di CORIOLANO, dove ei
dice, che essendo irritala
contro alla Plebe la
Nobiltà romana, per
parerle che l Plebe
avesse troppa autorità
mediante la creazione de’
Tribuni che la
difendevano; ed essendo Roma,
come avviene, venuta in
penuria grande di
vettovaglie, ed avendo il
Senato mandato per grani
in Sicilia; Coriolano,
nimico alla fazione popolare,
consigliò come egli era
venuto il tempo
da potere gastigare
la Plebe, e torte
quella autorità die ella
si aveva acquistata
c in pregiudizio della nobiltà
presa, tenendola affamata, c non
li distribuendo il
frumento; la qual sentenza
sendo venuta alii orecchi
del Popolo, venne
in tanta indegnazione contro
a Coriolano, che allo uscire
del Senato lo
arebbero tumultuariamente
morto, se gli
Tribuni non 1’ avessero
citato a comparire a difendere la causa
sua. Sopra il
quale accidente, si nota
quello che di
sopra si è detto, #quanto sia
utile e necessario che le
repubbliche, con le
leggi loro, diano onde
sfogarsi oli’ ira
clic concepc la universalità
contra a uno cittadino; perchè quando
questi modi ordinari
non vi siano, si
ricorre agli estraordinari; c senza dubbio
questi fanno molto
peggiori effetti che non
fanno quelli. Perchè, se
ordinariamente uno cittadino
è oppresso, ancora che
li fusse fatto
torto, ne seguita o poco
o nessuno disordine in la
repubblica: perchè la
esecuzione si fa senza
forze private, e senza forze
forestiere, che sono
quelle che rovinano il
vivere libero; ma
si fa con forze
ed ordini pubblici,
che hanno i termini
loro particolari, nè
trascendono a cosa che rovini
la repubblica. E quanto a corroborare questa
oppinione con gli esempi,
voglio che degli
antichi mi basti questo
di Coriolano; sopra
il quale ciascuno consideri,
quanto male saria resultato alla
repubblica romana, se tumultuariamente ci
fussi stato morto; perchè
ne nasceva offesa
ila privati a privati,
la quale offesa
genera paura; la paura
cerca difesa; per
la difesa si procacciano i partigiani;
dai partigiani nascono le
parti nelle cittadi;
dalle parti la rovina
di quelle. Ma
sendosi governata la cosa
mediante chi ne
aveva autorità, si vennero
a tór via tutti quelli
mali che ne
potevano nascere governandola con autorità
privata. Noi avemo visto
ne’ nostri tempi,
quale novità ha fatto
alla repubblica di
Firenze non potere la
moltitudine sfogare l’ nniino
suo ordinariamente contra
a un suo cittadino; come
accadde nel tempo
di VALORI, clic era
come principe della città: il
quale essendo giudicalo ambizioso da
molti, e uomo che volesse
con la sua
audacia e animosità
trascendere il vivere
civile; e non essendo nella
repubblica via a poterli
resistere se non con
una setta contraria alla sua; ne
nacque che non
avendo paura quello, se
non di modi
straordinari, si cominciò a fare
fautori che lo difendessino; dall’
altra parte, quelli
clic lo oppugnavano non
avendo via ordinaria a reprimerlo, pensarono
alle vie straordinarie:
intanto che si
venne alle armi. E dove,
quando per l’ordinario si fusse
potuto opporseli, sarebbe
la sua autorità spenta
con suo danno
solo; avendosi a spegnere per
lo straordinario, seguì con
danno non solamente suo, ma
di molti altri
nobili cittadini. Potrebbesi ancora
allegare, a fortificazione
della soprascritta conclusione, l’ accidente seguito
pur in Firenze
sopra SODERINI; il quale
al tutto segui per
non essere in
quella Repubblica alcuno modo
di accuse contra
alla ambizione de’ potenti cittadini:
perchè lo accusare un
potente a otto giudici in
una repubblica, non
basta: bisogna che i giudici siano
assai, perchè pochi sempre
fanno a modo de’
pochi. Tanfo che, se
tali modi vi
fussono stati, o icittadini
lo arebbono accusato,
vivendo egli male; e per
tal mezzo, senza
far venire l’ esercito spagnuolo,
arebbono sfogato l’animo loro:
o non vivendo male, non
arebbono avuto ardire
operarli contra, per paura
di non essere accusati essi: e cosi
sarebbe da ogni parte
cessato quello appetito
che fu cagione di
scandalo. Tanto che
si può concludere questo,
che qualunque volta si
vede che le
forze esterne siano
chiamate da una parte
d’ uomini che vivono in
una città, si
può credere nasca da’
cattivi ordini di
quella, per non esser
dentro a quello cerchio,
ordine da potere senza
modi islraordinari sfogare i maligni umori
che nascono nelli uomini:
a che si provvede
al tutto con ordinarvi
le accuse alii
assai giudici, e dare
riputazione a quelle. Li
quali modi furono in
Roma sì bene
ordinati, che in tante
dissensioni della Plebe
e del Senato, mai o il
Senato o la Plebe
o alcuno particolare cittadino
non disegnò valersi di
forze esterne; perche avendo
il rimedio in
casa, non erano necessitati andare
per quello fuori.
E benché gli esempi
soprascritti siano assai sufficienti a provarlo,
nondimeno ne voglio addurre
un altro, recitato
da L. nella sua
istoria: il quale riferisce come,
scudo stato in
Chiusi, città in quelli
tempi nobilissima in
TOSCANA, da uno Lucumone
violata una sorella di
Aruntc, c non potendo
Arunte vendicarsi per la
potenia del violatore, se
n'andò a trovare i Franciosi,
che allora regnavano in
quello luogo che
oggi si chiama Lombardia;
e quelli confortò a venire con
annata mano a Chiusi, mostrando loro
come con loro
utile lo potevano vendicare
della ingiuria ricevuta : che se
Arunte avesse veduto
potersi vendicare con i modi
della città, non arebbe
cerco le forre
barbare. Ma come queste
accuse sono utili
in una repubblica, così
sono inutili e dannose le
calunnie; come nel capitolo
seguente discorreremo. Vili. —
Quanto le accuse
sono utili alle repubbliche,
tanto sono perniziose
le calunnie.Non ostante
che la virtù
di Cnmmillo, poi ch’egli
ebbe libera Roma dalla
oppressione de’ Franciosi, avesse fatto
che tutti i cittadini
romani, parer loro tòrsi
reputazione o cedevano a quello;
nondimeno MAULIO Capitolino non
poteva sopportare chegli
fusse attribuito tanto
onore e tanta gloria; parendogli,
quanto alla salute di
Roma, per avere
salvato il Campidoglio, aver meritato
quanto CAMMILLO; c quanto all’
altre belliche laudi,
non essere inferiore a lui.
Di modo che,
carico d’ invidia, non
potendo quietarsi per la
gloria di quello,
c veggendo non potere seminare
discordia infra i Padri, si
volse alla Plebe,
seminando varie oppinioni sinistre
intra quelfb. E intra V altre cose
che diceva, era
come il tesoro
il quale si
era adunato insieme per
dare ai Franciosi,
e poi non dato loro,
era stato usurpalo
da privati cittadini; e
quando si riavesse,
si poteva convertirlo in
pubblica utilità, alleggerendo la Plebe
da’ tributi, o da qualche
privato debito. Queste
parole poterono assai nella
Plebe; talché cominciò avere concorso,
ed a fare u sua
posta tumulti assai
nella città: la qual
cosa dispiacendo al
Senato, e parendogli di momento
e pericolosa, creò uno Dittatore,
perchè ei riconoscesse questo caso,
e frenasse lo impeto
di MANLIO. Onde che
subito il Dittatore
lo fece citare, e eondussonsi
in pubblico all’incontro l’uno
dell’altro; il Dittatore in
mezzo de’ Nobili,
e MANLIO in mezzo della
Plebe. Fu domandato
Manlio che dovesse dire,
appresso a chi fusse questo
tesoro che ei
diceva, perchè ne era
cosi desideroso il
Senato d’ intenderlo come la
Plebe: a che MANLIO
non rispondeva
particularmenfe; ma, andando
fuggendo, diceva come
non era necessario dire
loro quello die e’ si
sapevano: tanto che il
Dittatore lo fece mettere
in carcere. È da
notare per questo testo,
quanto siano nelle
città libere, ed in
ogni altro modo
di vivere, detestabili le
calunnie; e come per
reprimerle, si debbe non
perdonare a ordine alcuno che vi faccia
a proposito. Nè può essere
migliore ordine a torle via,
che aprire assai
luoghi alle accuse; perchè quanto
le accuse giovano alle
repubbliche, tanto le
calunnie nuocono: e dall’ altra
parte è questa differenza, che le
calunnie non hanno
bisogno di testimone, nè
di alcuno altro particulare riscontro
a provarle, in modo che
ciascuno da ciascuno
può essere calunniato; ma
non può già
essere accusato, avendo le
accuse bisogno di
riscontri veri, e di circostanze,
che mostrino la verità
dell’ accusa. Accusatisi gli uomini
a’ magistrati, a’ popoli,
a’ consigli ; calunniatisi
per le piazze
è per le logge. Usasi
più questa calunnia
dove si usa meno
1’ accusa, c dove
le città sono meno
ordinate a riceverle* Però, uno
ordinatore d’ una
repubblica debbe ordinare che
si possa in
quella accusare ogni cittadino,
senza alcuna paura o senza
alcuno sospetto; e fatto
questo e bene osservato, debbe
punire aeremente i calunniatori: i quali
non si possono dolere
quando siano puniti, avendo i luoghi
aperti a udire le
accuse di colui che
gli avesse per
le logge calunniato. E dove
non è bene ordinata questa parte,
seguitano sempre disordini grandi: perchè le
calunnie irritano, c non castigano
i cittadini; e gli irritali pensano
di valersi, odiando
più presto, che temendo
le cose che
si dicono contea a loro.
Questa parte, come è detto,
era bene ordinata
in Roma; ed è stata
sempre male ordinala
nella nostra città di
FIRENZE. E come a Roma questo
ordine fece molto
bene, a FIRENZE questo disordine
fece molto male. E chi
legge le istorie
di questa città, vedrà
quante calunnie sono
state in ogni tempo
date a’ suoi
cittadini che si sono
adoperati nelle cose
importanti di quella. Dell’
uno dicevano, ch’egli
aveva rubati danari al
comune; dell’ altro,
che non aveva vinto
una impresa per
essere stato corrotto; e che
quell’ altro per sua
ambizione aveva fatto
il tale e tale
inconveniente. Del che
ne nasceva che da
ogni parte ne
surgeva odio: donde si
veniva alla divisione;
dalla di visione alle sètte;
dalle sètte alla
rovina. Che se fusse
stato in Firenze
ordine d’ accusare i cittadini,
c punire i calunniatori, non
seguivano infiniti scandali che
sono seguiti: perchè
quelli cittadini, o condennati o assoluti
che russino, non arebbono
potuto nuocere alla città;
e sarebbono stati accusati
meno assai clic non
ne erano calunniali,
non si potendo, come
ho detto, accusare come
calunniare ciascuno. Ed
intra l’ altre cose di
clic si è valuto
alcuno citadino per
ventre alla grandezza
sua, sono state queste
calunnie: le quali
venendo conira a’ cittadini
potenti che allo appetito
suo si opponevano,
facevano assai per quello;
perchè, pigliando la parte
del Popolo, e confirmandolo nella mala
oppiatone eh’ egli
aveva di loro, se
lo fece amico.
E benché se ne potesse
addurre assai esempi,
voglio essere contento solo
d’ uno. Era
lo esercito fiorentino a campo
a Lucca, coman dato da GUICCIARDINI (si veda), commissario di
quello. Vollono o i cattivi suoi governi,
o la cattiva sua
fortuna, che Ja espugnazione
di quella città non
seguisse. Pur, comunque
il caso stesse, ne
fu incolpato inesser
Giovanni, dicendo com’ egli
era stato corrotto da’
Lucchesi: la quale
calunnia sendo favorita da’
nimici suoi, condusse messer Giovanni
quasi in ultima
disperazione. E benché, per giustificarsi, ei si
volessi mettere nelle
mani del Capitano; nondimeno non
si potette mai giustificare, per
non essere modi
in quella repubblica da
poterlo fare. Di che
ne nacque assai
sdegno intra li amici
di messer Giovanni,
che erano la maggior
parte delli uomini
Grandi, ed infra coloro
che desideravano fare
novità in Firenze. La
qual cosa, e per queste
e per altre simili
cagioni, tanto crebbe, che
ne seguì la
rovina di quella repubblica. Era
dunque MANLIO Capitolino calunniatore, e non
accusatore*, ed i Romani mostrarono
in questo caso appunto,
come i calunniatori si
debbono punire. Perchè si
debbe fargli diventare accusatori; e quando
1’ accusa si
riscon tri vera, o
premiarli, o non punirli: ma
quando la non
si riscontri vera Uf»5
IX. Come egli è necessario
esser solo a volere ordinare
una repubblica di nuovo, o al
lutto fuori delti
antichi suoi ordini riformarla.
E’ porrà forse ad
alcuno, che io sia
troppo trascorso dentro
nella istoria romana, non
avendo fatto alcuna
menzione ancora degli ordinatori
di quella Repubblica, nè di
quelli ordini che o
alla religione o alla milizia
riguardassero. E però, non
volendo tenere più
sospesi gli animi di
coloro che sopra
questu parte volessino intendere
alcune cose; dico, come
molti per avventura
giudicheranno di cattivo esempio,
che uno fondatore d’
un vivere civile,
quale è ROMOLO,
abbia prima morto un
suo fratello, dipoi consentito alla
morte di Tito
TAZIO Sabino, eletto da lui
compagno nel regno; giudicando per
questo, che gli
suoi cittadini potessero con T
autorità del loro principe, per
ambizione e desiderio di comandare,
offendere quelli che
alla loro autorità si
opponessino. La quale
oppinionc sarebbe vera,
quando non si
considerasse che line l’avesse
indotto a fare lai OMICIDIO. E debbesi pigliare
questo per una regola
generale: clic non
mai o di rado
occorre che alcuna
repubblica o regno sia da
principio ordinato bene,
o al tutto di
nuovo fuori delti
ordini vecchi riformato, se
non è ordinato da
uno; anzi è necessario che
uno solo sia
quello clic dia il
modo, e dalla cui
mente dependa qualunque simile
ordinazione. Però, uno prudente
ordinatore d’ una repubblica,
e che abbia questo
animo di volere
giovare non a sé ma
al BENE COMUNE, non alla
sua propria successione
ma alla comune patria, debbe
ingegnarsi di avere l’autorità solo;
nè mai uno ingegno savio riprenderà alcuno
di alcuna azione istraordinaria, che
per ordinare un
regno o constituire una repubblica
usasse. Conviene bene, che,
accusandolo il fallo, lo
effetto lo scusi; e quando sia
buono, come quello di
ROMOLO, sempre lo
scuserà: perchè colui che è
violento per guastare, non
quello che è per
racconciare, si debbe riprendere.
Debbe bene in tanto
esser prudente e virtuoso,
che quella autorità che
si ha presa,
non la lasci ereditaria
ad un altro: perchè, essendo gli
uomini più proni
al male che al
bene, potrebbe il
suo successore usare ambiziosamente quello
che da lui
virtuosamente fusse stato usato.
Oltre di questo, se
uno è atto ad
ordinare, uoti è la cosa
ordinata per durare
molto, quando la rimanga
sopra le spalle
d’ uno; ma si
bene, quando la
rimane alla cura di
molti, e che a molti
stia il mantenerla. Perchè, cosi
come molti non
sono atti ad ordinare
una cosa, per non
conoscere il bene di
quella, causato dalle diverse
oppinioni che sono
fra loro; cosi conosciuto
che lo hanno,
non si accordano a lasciarlo.
E che ROMOLO fusse di
quelli che NELLA MORTE DEL FRATELLO e del compagno
meritasse scusa; e che quello
che fece, fusse
per IL BENE COMUNE, e non
per ambizione propria; lo
dimostra lo avere
quello subito ordinato uno
Senato, con il
quale si consigliasse, e secondo l’oppinione
del quale deliberasse. E chi
considera bene P autorità che ROMOLO
si riserbò, vedrà
non se ne essere
riserbata alcun’ altra
che comandare alli eserciti
quando si era deliberata la
guerra, e di ragunare
il Senato. Il che
si vide poi,
quando Roma divenne libera
per la cacciata
de’ Tarquini; dove
da’ Romani non
fu innovato alcun ordine
dello antico, se non
che in
luogo d’ uno
Re perpetuo, fussero
duoi Consoli annuali;
il che testifica, tutti gli
ordini primi di
quella città essere stati
più conformi ad uno
vivere civile e libero,
che ad uno
assoluto e tirannico.
Polrebbesi dare in corroborazione delle
cose sopraddette infiniti esempi;
come Licurgo, Solonc, ed
nitri fondatori di
regni e di repubbliche, i quali
poterono, per aversi attribuito un’
autorità, formare leggi
a proposito del bene
comune; ma gli
voglio lasciare indietro, come
cosa nota. Addurronne solamente
• uno, non si
celebre, ma da
considerarsi per coloro che
desiderassero essere di
buone leggi ordinatori: il
quale è, che
desiderando Agide re di
Sparta ridurre gli
Spartani intra quelli termini
che le leggi
di Mcurgo gli avessero
rinchiusi, parendoli che per
esserne in parte
deviati, la sua città
avesse perduto assai
di quella antica virtù,
e, per conseguente, di forze
e d’ imperio; fu ne' suoi
primi principii ammazzato dalli
Efori spartani, come uomo
che volesse occupare
la tirannide. .Ma succedendo
dopo lui . nel regno
Cleomene c nascendogli il
medesimo desiderio per gli
ricordi e scritti eh’ egli
aveva trovati di
Agide, dove si vedeva
quale era la
mente ed intenzione sua, conobbe
non potere fare
questo bene alla sua
patria se non
diventava solo di autorità;
parendogli, per 1*
arabizione degli uomini,
non potere fare utile
a molti contra alla
voglia di pochi:
e presa occasione conveniente,
fece ammazzare tutti gli
Efori, e qualunque altro gli
potesse contrastare; dipoi rinnovò in
tutto le leggi
di Licurgo. La quale
deliberazione era atta a
fare risuscitare Sparta, e dare
a Clcomcne quella reputazione che
ebbe Licurgo, se non
fussc stato la
potenza de’ Macedoni e la
debolezza delle altre
repubbliche greche. Perchè, essendo
dopo tale ordine assaltato
da’ Macedoni, e trovandosi per sè
stesso inferiore di
forze, c non avendo a chi
rifuggire, fu vinto; e restò
quel suo disegno,
quantunque giusto e
laudabile, imperfetto. Considerato adunque
tutte queste cose, conchiudo, come a
ordinare una repubblica è necessario essere
solo; c ROMOLO per LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa, e non
biasmo. Quanto sono laudabili
* fondatori d* una repubblica
o dJ uno regno, tanto
quelli dJ una
tirannide sono vituperabili.
Intra tutti gli
uomini laudati, sono i
laudatissimi quelli die
sono stati capi e ordinatori delle
religioni. Appresso dipoi, quelli
che hanno fondato
o repubbliche o regni. Dopo costoro,
sono celebri quelli che,
preposti alti esercìti,
hanno ampliato o il
regno loro, o quello
della patria. A questi
si aggiungono gli uomini
iilterati; e perchè questi
sono di più
ragioni, sono celebrati ciascuno d’ essi
secondo il grado
suo. A qualunque altro uomo,
il numero de’ quali
è infinito, si attribuisce
quut* che parte di
laude, la quale
gli arreca l’ arte e V esercizio
suo. Sono, per lo
contrario, infumi e detestabili
gli uomini destruttori delle
religioni, dissipatori de’ regni
e delie repubbliche, inimici
delle virtù, delle
lettere, e d'ogni altra arte
che arrechi utilità
ed onore alla umana
generazione; come sono
gli empii e violenti, gl*
ignoranti, gli oziosi, i vili, e i dappochi.
E nessuno sarà mai sì
pazzo o si savio,
si tristo o si buono,
che, propostogli la
elezione delle due qualità
d’ uomini, non
laudi quella che è da
laudare, e Biasini quella
che è da biasmare:
nientedimeno, dipoi, quasi tutti,
ingannati da un
falso bene e da una
falsa gloria, si
lasciano andare, o
voluntariamente o ignorantemente, ne’
gradi di
coloro che meritano
più biasimo che laude;
c potendo fare, con perpetuo
loro onore, o una
repubblica o un regno, si
volgono alla tirannide: nè
si avveggono per
questo partito quanta fama,
quanta gloria, quanto
onore, sicurtà, quiete, con
satisfazione d’animo,
e’fuggono; e in quanta
infamia, vituperio, biasimo, pericolo
e inquietudine incorrono. Ed è impossibile
che quelli che in
stato privato vivono
in una repubblica, o che
per fortuna o virtù ne
diventano principi, se
leggcssino l’ istorie, e
delle memorie delle
antiche cose facessino capitale,
che non volessero
quelli tali privati,
vivere nella loro patria
piuttosto Soipioni che
Cesari; e quelli che sono
principi, piuttosto
Agesilai, Timolconi e Dioni,
clic Nabidi, Falari e Dionisi: perchè vedrebbono
questi essere sommamente
vituperati, e quelli
eccessivamente laudati.
Vedrebbono ancora come
Timoleone e gli altri
non ebbero nella
patria loro meno autorità
che si avessiuo
Dionisio e Falari; ma vedrebbono
di lungo avervi avuto
più sicurtà. Nè
sia alcuno che si
inganni per la
gloria di Cesare,
sentendolo, massime,
celebrare dagli scrittori: perchè questi
che lo laudano,
sono corrotti dalla fortuna
sua, e spauriti dalla lunghezza dello
imperio, il quale
reggendosi sotto quel nome,
non permetteva che gli
scrittori parlassero liberamente
di lui. Ma
chi vuole conoscere quello che
gli scrittori liberi
ne direbbono, vegga
quello che dicono
di CATILINA. E tanto è più
detestabile GIULIO (si veda)
CESARE, quanto più è da
biasimare quello che ha
fatto, che quello
che ha voluto
fare un inule. Vegga
ancora con quante
laudi celebrano BRUTO (si
veda); talché, non
potendo biasimare quello
per la sua
potenza, e’ celebrano il nemico
suo. Consideri ancora quello
eh’ è diventato principe
in una repubblica, quante
laudi, poiché ROMA fu
diventata imperio, meritarono
più quelli imperadori che
vissero sotto le leggi
e come principi buoni,
che quelli che vissero
al contrario: e vedrà
come a Tito, Nerva, Traiano,
ADRIANO, Antonino e Marco, non
erano necessari i soldati pretoriani nè
la moltitudine delle legioni
a difenderli, perchè i costumi L loro, la
benivolenza del Popolo,
lo amore i del Senato
gli difendeva. Vedrà
ancora come a Caligola, Nerone,
Vitellio, ed a tanti
altri scellerati imperadori,
non bastarono gli eserciti
orientali ed occidenItili
a salvarli conira a quelli
nemici, che li loro
rei costumi, la
loro malvagia vita aveva
loro generati. E se
la istoria di costoro
fusse ben considerata,
sarebbe assai ammaestramento a qualunque
priucipe, a mostrargli la via della
gloria o del biasmo,
e della sicurtà o del
timore suo. Perchè, di
ventisei imperadori che furono
da Cesare a Massimiuo,
sedici ne furono ammazzati,
dicci morirono ordinariamente; c se di
quelli che furono morti
ve ne fu
alcuno buono, come Galba
e Pertinace, fu morto
da quella corruzione che
lo antecessore suo
aveva lasciata nc’ soldati. E se
tra quelli che morirono
ordinariamente ve ne
fu alcuno scellerato, nome Severo,
nacque da una sua
grandissima fortuna e virtù; le quali due
cose pochi uomini
accompagnano. Vedrà ancora, per
la lezione di questa
istoria, come si
può ordinare un regno
buono: perchè tutti
gl' imperadori che
succederono all* imperio
per eredità, eccetto Tito,
furono cattivi; quelli che
per adozione, furono tutti buoni,
come furono quei cinque
da Nervo a Marco:
e come P imperio cadde negli
eredi, ei ritornò nella
sua rovina. Pongasi,
adunque, innanzi un principe
i tempi da Nerva
a Marco, e conferiscagli con
quelli che erano stati
prima e che furono
poi; edipoi elegga
in quali volesse
essere nato,o a quali volesse
essere preposto. Perchè in
quelli governali da’ buoni,
vedràun principe sicuro
in mezzo de’ suoi
sicuri cittadini, ripieno di
pace e di giustizia il
mondo: vedrà il
Senato con lasua
autorità, i magistrati con i
suoi onori ; godersi i cittadini
ricchi le loro
ricchezze ; la nobiltà c la
virtù esaltata:vedrà ogni
quiete ed ogni
bene; e, dall’altra parte, ogni
rancore, ogni licenza,corruzione e ambizione
spenta: vedrà itempi
aurei, dove ciascuno
può tenere edifendere
quella oppinione che
vuole. Vedrà, in fine,
trionfare il mondo;
pienodi riverenza e di
gloria il principe,d’
amore e di sveurilà
i popoli. Se considererà,
dipoi, tritamente i tempi
deglialtri imperadori, gli
vedrà atroci per
leguerre, discordi per
le sedizioni, nellapace
e nella guerra crudeli:
tanti principi morti col
ferro, tante guerre
civili,tante esterne; P
Italia afflitta, e piena
dinuovi infortunii; rovinate e saccheggiatele città
di quella. Vedrà
Roma arsa, ilCampidoglio
da’ suoi cittadini disfatto,desolati gli
antichi templi, corrotte
lecerimonie, ripiene le
città di adulterii:vedrà il
mare pieno di
esilii, gli scoglipieni
di sangue. Vedrà
in Roma seguireinnumerabili crudeltadi; e la nobiltà,
le ricchezze, gli onori,
e sopra tutto ia
virtùessere imputata a peccato
capitale. Vedrà premiare li
accusatori, essere corrotti i sèrvi contro
al signore, i liberi contro al
padrone; e quelli a chi
fusscro mancati i nemici,
essere oppressi dagli amici.
E conoscerà allora benissimo quanti obblighi
Roma, Italia, e il mondo
abbia con Cesare.
E senza, dubbio, se e*
sarà nato d’uomo,
si sbigottirà I da ogni
imitazione dei tempi
cattivi, c accenderassi d’uno
immenso desiderio di seguire
i buoni. E veramente, cercando un
principe la gloria
del mondo, doverrebbe
desiderare di possedere
una città corrotta, non
per guastarla in
tutto come Cesare, ma
per riordinarla come
lloinolo. E veramente i cieli
non possono dare all i uomini
maggiore occasione di gloria,
nè li uomini
la possono maggiore desiderare. E se,
a volere ordinare bene una
città, si avesse
di necessità n dcporrc
il principato, meriterebbe
quello clic non la
ordinasse, per non
cadere di quel grado,
qualche scusa: ma
potendosi tenere il principato
ed ordinarla, non si
merita scusa alcuna.
E in somma, considerino quelli
a chi i cieli danno tale
occasione, come sono
loro proposte due vie:
1’ una che
gli fa vivere sicuri, e dopo
la morte gli
rende gloriosi ; I’ altra
gli fa vivere
in continove angustie, e dopo
la morte lasciare
di sè una sempiterna
infamia. Delta religione de*
Romani. Ancora che Roma
avesse il primo
suo ordinatore ROMOLO, e che
da quello abbia riconoscere come
figliuola il nascimento e la educazione
sua; nondimeno, giudicando i cieli
che gli ordini
di ROMOLO non bastavano
a tanto imperio, niessono nel
petto del Senato
romano di eleggere NUMA (si veda) Pompilio
per SUCCESSORE A ROMOLO, acciocché
quelle cose che da
lui fossero state
lasciate indietro, fossero da
Numa ordinate. II
quale trovando un popolo
ferocissimo, e volendolo ridurre nelle
ubbidienze civili con
le arti della pace,
si volse alla
religione, come oosa al
tutto necessaria a volere
mantenere una civiltà; e la costituì
in modo, che per
più secoli non
fu mai tanto
timore di Dio quanto
in quella Repubblica: ilche facilitò
qualunque impresa che
ilSenato o quelli grandi
uomini romanidisegnassero fare.
E ehi discorrerà infinite
azioni, e del popolo
di Roma lutto insieme, e di
molli de’ Romani di per sé, vedrà
come quelli cittadini
temevano più assai rompere
il giuramento che
le leggi; come coloro
clic stimavano più la potenza di
Dio, che quella
degli uomini: come si
vede manifestamente per
gli esempi di SCIPIONE
e di MANLIO TORQUATO. Perchè, dopo
la rotta che
Annibale aveva dato a’ Romani
a Canne, molti cittadini si
erano adunati insieme,
c sbigottiti e paurosi si
erano convenuti abbandonare l’ITALIA, e girsene
in Sicilia: il
che sentendo SCIPIONE, gli
andò a trovare, e col
ferro ignudo in
mano gli costrinse a giurare di
non abbandonare la
patria. LUCIO MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu dipoi
chiamato Torquato, era
stato accusato da MARCO POMPONIO, Tribuno della
plebe; ed innanzi che
venissi il di del
giudizio, Tito andò a
trovare Marco, e minacciando d’ ammazzarlo
se non giurava di
levare l’accusa al
padre, lo costrinse al
giuramento; e quello, per timore avendo
giurato, gli levò
t'accusa. E cosi quelli cittadini
i quali l'amore della patria
e le leggi di
quella non ritenevano in
ITALIA, vi furon
ritenuti da un giuramento
che furono forzati a pigliare; e quel
Tribuno pose da parte
l'odio che egli
aveva col padre, la
ingiuria che gli
aveva fatta il
figliuolo, c i’ onore suo,
per ubbidire al
giuramento preso: il che
non nacque da
altro, che da quella
religione che Numa aveva
introdotta in quella città.
E vedesi, chi considera
bene le istorie
romane, quanto serviva la
religione a comandare agli eserciti,
a riunire la plebe, a mantenere gli
uomini buoni, a fare vergognare li
tristi. Talché, se
si avesse a disputare a quale
principe Roma fusse più
obbligata, o a ROMOLO o a Numa, credo più
tosto Numa otterrebbe
il primo grado: perchè
dove è religione, facilmente si
possono introdurre l’armi; e dove sono
l’armi e non religione,
con diflìcultà si può introdurre quella.
E si vede che a ROMOLO
per ordinare il
Senato, e per fare altri
ordini civili e militari, non gli fu necessario
dell’ autorità di Dio; ma fu bene
necessario a Numa, il quale
simulò di avere
congresso con una Ninfa,
la quale lo
consigliava di quello ch’egli
avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva
perchè voleva mettere ordini
nuovi ed inusitati
in quella città, e dubitava
che la sua
autorità non bastasse. G veramente,
mai non fu alcuno
ordinatore di leggi
straordinarie in uno popolo,
che non ricorresse a Dio; perchè altrimenlc
non sarebbero accettate: perchè
sono molli beni
conosciuti da uno prudente,
i quali non hanno in
sè ragioni evidenti
da potergli persuadere ad
altri. Però gli
uomini savi, che vogliono
torre questa diflìcultà, ricorrono a Dio.
Cosi fece Licurgo,
cosi Solone, cosi molti
altri che hanno
avuto il medesimo fine
di loro. Ammirando, adunque, il
popolo romano la
bontà e la prudenza sua,
cedeva ad ogni
sua deliIterazione, Ben è
vero che
l’essere quelli tempi pieni
di religione, e quelli
uomini, con i quali egli
aveva a travagliare, grossi, gli
detlono facilità grande
a conseguire i disegni suoi, potendo
imprimere in loro facilmente
qualunche nuova forma. E senza
dubbio, ehi volesse
ne’presenti tempi fare
una repubblica, più
facilità troverebbe negli uomini
montanari, dove non è alcuna
civilità, che in quelli
che sono usi a
vivere nelle città, dove
la civilità è corrotta:
ed uno scultore trarrà più
facilmente una bella
statua d’ uno marmo
rozzo, che d’ uno
male abbozzato d’altrui. Considerato
adunque tutto, conchiudo che
la religione introdotta da
Piuma fu intra
le primecagioni della
felicità di quella
città: perchè quella causò
buoni ordini; i buoni ordini fanno
buona fortuna; e dalla buona fortuna
nacquero i felici successi delle imprese.
E come la osservanza
del culto divino è cagione
delia grandezza delle repubbliche,
cosi il dispregio
di quella è cagione della
rovina d’esse. Perchè, dove
manca il timore
di Dio, conviene che
o quel regno rovini,
o che sia sostenuto dal
timore d’ un
principe che supplisca a’ difetti
della religione. E perchè
i principi sono di
corta vita, conviene che
quel regno manchi
presto, secondo che manca
la virtù d’
esso. Donde nasce che i
regni i quali dependono solo dalla
virtù d’ uno uomo,
sono poco durabili, perchè
quella virtù manca
con la vita di
quello; e rade volte accade che
la sia rinfrescata
con la successione, come prudentemente
ALIGHIERI (si veda) dice: tt
Rade volte risurge
per li ramiL'umana
probitade: e questo vuoloQuel
che la dà,
perchè da lui
si chiami. „Non
è, adunque, la
salute di una
repubblica o d’uno regno avere
uno principe che prudentemente
governi mentre vive; ma
uno che l’ordini
in modo, clic,
morendo ancora, la si
mantenga. E benché agli uomini
rozzi più facilmente
si persuade uno ordine
o una oppinione nuova,
non è per questo
impossibile persuaderla
ancora agli uomini
civili, e che si presumono
non essere rozzi.
Al popolo di Firenze
non pare essere
nè ignorante nè rozzo:
nondimeno da frate
Girolamo Savonarola fu persuaso
che parlava con Dio.
lo non voglio
giudicare s’egli era vero o
no, perchè d’ un
tanto uomo se ne
debbe parlare con
reverenza : ma io dico
bene, che infiniti
lo credevano, senza avere
visto cosa nessuna istraordinaria da
farlo loro credere; perchè la
vita sua, la
dottrina, il soggetto che
prese, erano sufhzienti
a fargli prestare fede.
Non sia, pertanto, nessuno che si sbigottisca
di non potere conseguire quello
che è stato conseguito da
altri; perchè gli uomini,
come nella Prefazione nostra
si disse, nacquero, vissero e morirono
sempre con un
medesimo ordine. Di quanta importanza
sia tenere conto della
religione j e come la Italia per
esserne mancata mediante la
Chiesa romana y è rovinata.
Quelli principi, o quelle
repubbliche, le quali si
vogliono manienere incorrotte, hanno sopra
ogni altra cosa a
mantenere incorrotte le cerimonie
della religione, e tenerle sempre
nella loro venerazione; perchè
nissuno maggiore indizio si
puote avere della
rovina d’una provincia, che
vedere dispregiato il
culto divino. Questo è facile
a intendere, conosciuto che si è
in su
che sia fondata la
religione dove V uomo
è nato; perchè ogni religione
ha il fondamento
della vita sua in
su qualche principale
ordine suo. La vita
della religione gentile
era fondata sopra i responsi
delti oracoli e sopra la
setta delli aridi
e delli aruspici: tutte le
altre loro cerimonie, sacrifìcii, riti,
dependevano da questi; perchè loro
facilmente credevano che quello
Dio che ti
poteva predire il tuo
futuro bene o il
tuo futuro male,
te lo potessi ancora
concedere. Di qui nascevano
i tempii, di qui i
sacrifici!, di qui le
supplicazioni, ed ogni
altra cerimonia in venerarli:
perchè l’oracolo di Deio,
il tempio di
GIOVE Aminone, ed altri
celebri oracoli, tenevano
il mondo in ammirazione,
e devoto. Come costoro cominciarono dipoi
a parlare n modo de’ potenti,
e questa falsità si fu scoperta ne’
popoli, divennero gli
uomini increduli, ed atti a
perturbare ogni ordine
buono. Debbono, adunque,
i Principi d’uria repubblica o d’un
regno, i fondamenti della
religione che loro
tengono, mantenerli; e fatto questo,
sarà loro facil cosa a
mantenere la loro
repubblica religiosa, e, per
conseguente, buona ed unita.
C debbono, tutte le cose
che nascono in
favore di quella, come
che le giudicassino
false, favorirle ed accrescerle;
e tanto più Io
debbonofare, quanto più
prudenti sono, e quanto più
conoscitori delle cose
naturali. E perchè questo
modo c stato osservato dagli uomini
savi, ne è nata
l’oppinione dei miracoli, che
si celebrano nelle
religioni eziandio false: perchè
i prudenti gli aumentano, da
qualunche principio e’ si nascano;
e l’autorità loro dà poi
a quelli fede appresso
a qualunque. Di questi miracoli
ne fu a Roma
assai; e intra gli
altri fu, che
saccheggiando i soldati romani
la città de’ Veienti,
alcuni di loro entrarono
nel tempio di Giunone, ed
accostandosi alla immagine
di quella, e dicendole vis
venire Romani,parve od
alcuno vedere che la accennasse; ad alcun
altro, che ella
dicesse di si. Perchè,
sendo quelli uomini
ripieni di religione (il
che dimostra L.
perchè nell’entrare nel
tempio, vi entrarono senza
tumulto, tutti devoti e pieni di
reverenza), parve loro
udire quella risposta che
alla domanda loro per
avventura si avevano
presupposta: la quale oppiuione
e credulità, da Cammillo
e dagli altri principi
della città fu ni
tutto favorita ed
accresciuta. La quale religione se ne’
Principi della repubblica cristiana si
fusse mantenuta, secondo
che dal datore d’ essa
ne fu ordinato,
sarebbero gli stati e le
repubbliche cristiane più unite
e più felici assai
ch’elle non sono. Nè si può
fare altra maggiore conieltura della
declinazione d’essa, quanto è vedere
come quelli popoli
che sono più propinqui
alla Chiesa romana, capo
della religione nostra,
hanno meno religione. E chi
considerasse i fondamenti
suoi, e vedesse l’ uso
presente quanto è diverso da
quelli, giudicherebbe esser propinquo,
senza dubbio, o la
rovina o il flagello.
E perchè sono alcuni d’oppinione,
che ’l ben
essere delle cose d’ Italia
dipende dalla Chiesa di
Roma, voglio contro
ad essa discorrere quelle ragioni
che mi occorrono:e ne allegherò
due potentissime, le
quali, secondo me, non
hanno repugnanza. La, prima
è, che per
gli esempi rei
di quella i corte, questa
provincia ha perduto
oguI divozione ed ogni
religione: il clic
si i lira dietro infiniti
inconvenienti e infiniti
disordini; perchè, così
come religione si presuppone
ogni bene, dove ella
manca si presuppone
il contrario. Abbiamo, adunque,
con la Chiesa e con
i preti noi Italiani
questo primo obbligo, d’essere
diventati senza religione c cattivi: ma
ne abbiamo ancora un
maggiore, il quale
è cagione della rovina nostra.
Questo è die la
Chiesa ha tenuto e tiene
questa nostra provincia divisa. E veramente, alcuna
provincia non fu mai
unita o felice, se
la non viene tutta
alla obedienza d’ una repubblica o d’uno principe,
come è avvenuto alla Francia.
E la cagione che la
Italia non sia
in quel medesimo termine, nè
abbia aneli’ ella o
una repubblica o uno
principe che la governi,
è solamente la Chiesa; perchè, avendovi abitalo
e tenuto imperio temponile,
non è stata sì
potente nè dì tal
virtù, che l'abbia
potuto occupare il
restante d’Italia, e farsene principe;
e non è stata, dall’altra
parte, si debile, che,
per paura di non perder
il dominio delie cose
temporali, la non
abbi potuto convocare uno
potente che la
difenda contra a quello che
in Italia fusse diventato troppo
potente: come si è
veduto anticamente per assai
esperienze, quando mediante Carlo
Magno la ne
cacciò i Lombardi, eh’ era no
già quasi re di
tutta Italia; e quando
ne’ tempi nostri ella tolse
la potenza a’
Veneziani con l’aiuto di
Francia; dipoi ne
cacciò i Franciosi eoa
l’aiuto de’ Svizzeri. Non essendo,
dunque, stata la
Chiesa potente da potere
occupare l’ Italia, nè
avendo permesso che un
altro la occupi,
è stata cagione che la
non è potuta venire
sotto un capo; ma è
stata sotto più
principi e signori, da’
quali è nata tanta
disunione e tanta debolezza, che la
si
è condotta ad essere stata
preda, non solamelile
di barbari polenti,
ma di qualunque I*
assalta. Di clic
noi altri Italiani abbiamo obbligo
con la Chiesa,
c non con altri. E chi
ne volesse per
esperienza certa vedere più
pronta la verità,
bisognerebbe che fusse di
tanta potenza, che mandasse
ad abitare la
corte romana, con l’autorità che
l’ha in Italia,
in le terre de’ Svizzeri; i quali
oggi sono quelli
soli popoli che vivono,
e quanto alla religione e quanto agli
ordini militari, secondo
gli antichi: e vedrebbe che in
poco tempo furebbero più
disordine in quella
provincia i costumi tristi di
quella corte, che qualunchc
altro accidente clic
in qualunche tempo vi
potessi surgere. Come t
Romani si servirono della religione
per ordinare la città,
e per seguire le
loro imprese e fermare
i tumulti.Ei non mi
pare fuor di
proposito addurre alcuno esempio
dove i Romani si servirono
della religione per
riordinare la cillà, e per
seguire l’imprese loro;
e quantunque in L.
ne siano molti, nondimeno voglio
essere contento a questi. Avendo creato
il Popolo romano
i Tribuni, di potestà
consolare, e, fuorché uno,
tutti plebei; ed
essendo occorso quello anno
peste c fame, e venuti
certi prodigii; usorono
questa occasione i Nobili nella nuova
creazione de’ Tribuni, dicendo che
li Dii erano
adirati per aver Roma
male usata la
maestà del suo
imperio, e che non era
altro rimedio a placare
gli Dii, che
ridurre la elezione de’ Tribuni nel
luogo suo: di che nacque che
la Plebe, sbigottita
da questa religione, creò i Tribuni
tutti nobili. Vedesi ancora
nella espugnazione della
città de’ Ycienti, come i
capitani degli eserciti si
valevano della religione
per tenergli disposti ad
una impresa: ehè essendo
il lago Albano, quello
anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo
i soldati romani in fastiditi per la lunga ossidione,
e volendo tornarsene a Roma, trovarono
i Romani, come Apollo e certi
altri responsi dicevano che
quell* anno si
espugnerebbe la città de’ Veienti, che
si derivasse il
Ingo Albano: la qual
cosa fece ai
soldati sopportare i fastidi
della guerra e della
ossidione, presi da questa
speranza di espugnare la
terra; e stettono contenti a seguire
la impresa, tanto che
Cammillo fatto Dittatore espugnò detta
città, dopo dieci
anni che l’era stala
assediata. E cosi la
religione, usata bene, giovò
e per la espugnazione di quella
città, e per la
restituzione dei Tribuni nella
Nobiltà: chè senza detto
mezzo difficilmente si
sarebbe condotto e l’uno e l’altro.
Non voglio mancare di
addurre a questo proposito un
altro esempio. Erano
nati in Roma assai
tumulti per cagione
di Terentillo Tribuno, volendo
lui promulgare certa legge,
per le cagioni
che di sotto nel
suo luogo si
diranno; e tra i primi rimedi
che vi usò
la Nobiltà, fu la
religione: della quale
si servirono i duo
modi. Nel primo
fecero vedere i li bri Sibillini, e rispondere,
come alla città, mediante
la civile sedizione,
soprastavano quello anno pericoli
di non perdere la
libertà: la qual cosa,
ancora che fusse scoperta
da’ Tribuni, nondimeno messe tanto
terrore ne* petti
della plebe, che la
raffreddò nel seguirli.
L’altro modo fu, che
avendo uno APPIO ERDONIO, con
una moltitudine di sbanditi e di
servi, in numero
di quattromila uomini, occupato di
notte il Campidoglio, in tanto
che si poteva
temere, che se gli
Equi ed i Volsci,
perpetui nemici al nome
romano, ne fossero
venuti a Roma, la arebbono
espugnata; e non cessando i
Tribuni per questo
di insistere nella pertinacia
loro di promulgare
la legge Terentilla, dicendo
che quello in sulto era
fittizio c non vero:
uscì fuori del Senato
uno Publio Rubezio,
cittadino grave e di autorità,
con parole parte amorevoli, parte
minacciatiti, mostrandoli i
pericoli della città,
e la intempestiva domanda
loro; tanto che e’
constrinse la Plebe a giurare
di non si
partire dalla voglia del
Consolo: onde che la
Plebe obediente, per
forza ricuperò il Campidoglio.
Ma essendo in
tale espugnazione morto Publio
Valerio consolo, subito fu
rifatto consolo Tito
Quinzio; il quale per
non lasciare riposare
la Plebe, nè darle
spazio a ripensare alla legge Terentilla,
le comandò s’
uscissi di Roma per
andare contra a’
Volsci, dicendo che per
quel giuramento aveva
fatto di non abbandonare il
Consolo, era obbligata
a seguirlo: a che i Tribuni
si opponevano, dicendo come
quel giuramento s’era dato
al Consolo morto,
e non a lui. Nondimeno
L. mostra, come la
Plebe per paura
della religione volle più
presto obedire al
Consolo, che credere a’ Tribuni; dicendo
in favore della antica
religione queste parole:
Nondum htiDPj quce nunc
tenet sceculum, negligcntict
Dcùm venerai, nec interpretando sibi quisque
jasjurandum et legcs
aplas a La *faciebal. Per
la qual cosa
dubitando i Tribuni di non perdere
allora tutta la lor
degnila, si accordarono
col Consolo di stare
alla obedienza di
quello; e che per uno
anno non si
ragionasse della legge Terentilla,
ed i Consoli per
uno anno non potessero
trarre fuori la
Plebe alla guerra. E cosi
la religione fece al
Senato vincere quella
diffìcultà, che senza essa
mai non arebbe
vinto. I Romani interpretavano gli auspicii
secondo la necessità, con la
prudenza mostravano di
osservare la religione j
quando forzali non V osservavano; c se alcuno
(emwariamente la dispregiava, lo punivano. Non
solamente gli auguri!,
come di sopra si
è discorso, erano il
fondamento in buona parte
dell'antica religione de’ Gentili, ma
ancora erano quelli
che erano cagione del
bene essere della
Repubblica romana. Donde i Romani
ne uvevano più cura
che di alcuno
altro ordine di quella;
ed usavangli ne’ comizi consolari, nel
principiare le imprese, nel
trai* fuori gli
eserciti, nel fare
le giornate, ed in
ogni azione loro
importante, o civile o
militare; nè maisarebbono
iti ad una
espedizionc, che non avessino
persuaso ai soldati
che gli Dei promettevano loro
la vittoria. Ed
infra gli altri nuspicii,
avevano negli eserciti certi ordini
di aruspici, che e’
chiamavano Pollarii: e qualunque volta
eglino ordinavano di fare
la giornata col
nemico, volevano che i Pollarii
fucessino i loro auspicii; e beccando
i polli, combattevano con buono
augurio: non beccando, si
astenevano dalla zuffa.
Nondimeno, quando la ragione
mostrava loro una cosa
doversi fare, non
ostante che gli auspicii
fossero avversi, la
facevano in ogni modo;
ma rivoltavanla con termini
e modi tanto attamente,
che non paresse che
la fucessino con
dispregio dello religione:
il quale
termine fu usato
da Papirio consolo
in una zuffa clic
fece importantissima coi Sanniti,
dopo la quale
restorno in lutto deboli
ed afflitti. Perchè
sendo Papirio in su’
campi rincontro ai
Sanniti, e parendogli avere nella
zuffa la vittoria certa, e volendo
per questo fare
la giornata, comandò ai
Pollarii che fucessino i loro auspicii;
ma non beccando
i polli, e veggendo il principe
de’ Pollarii la gran disposizione
dello esercito di combattere, e la oppinione
che era nei
capitano cd in tutti
i soldati di vincere, per
non torre occasione
di bene operare a quello esercito,
riferi al Consolo
come gli auspicii procedevano
bene: talché Papirio ordinando le
squadre, ed essendo da
alcuni de' Pollarii detto
a certi soldati, i polli non
aver beccato, quelli lo
dissono a Spurio Papirio
nipote del Consolo; e quello
riferendolo al Consolo, rispose subito,
eh’ egli attendesse a fare l’oflìzto
suo bene, e che
quanto a lui ed allo
esercito gli auspicii
erano rolli; e se il
Pollarlo aveva detto
le bugie, ritornerebbono in
pregiudicio suo. E perchè lo
effetto corrispondesse al pronostico, comandò
ni legati clic constituìssino i Pollarii
nella primo fronte della
zuffa. Onde nacque
che, andando contra ai
nemici, sendo da
un soldato romano tratto
uno dardo, a caso
ammazzò il principe de’ Pollarii;
la qual cosa udita
il Console, disse
come ogni cosa procedeva
bene, e col favore
degli Dii; perchè lo
esercito con la
morte di quel bugiardo
si era purgato
da ogni colpa, e da
ogni ira che
quelli avessino preso contra
di lui. E cosi,
col sapere bene accomodare
t disegni suoi agli auspicii,
prese partito di
azzuffarsi, senza clic quello
esercito si avvedesse che
in alcuna parte
quello avesse negletti gli
ordini della loro
religione. Al contrario fece APPIO Pillerò in
Sicilia, nella prima guerra
punica: che volendo azzuffarsi con P
esercito cartaginese, fece fare
gli auspicii a’ Pollarii;
e referendogli quelli, come i
polli non beccavano, disse: veggiamo se
volessero bere; e gli fece
giUare in mare.
Donde che, azzuffandosi, perdette la
giornata: di che egli ne
fu a Roma condennato,
e Papirio onorato; non tanto
per aver V uno
vinto e P altro perduto, quanto
per aver 1’ uno
fatto contra agli
auspicii prudentemente e
l’altro temerariamente. Nè ad altro line
tendeva questo modo
dello aruspicare, che di
fare i soldati confidentemente ire alla
zuffa; dalla quale confidenza quasi sempre
uasce la vittoria.
La qual cosa fu non solamente
usala dai Romani, ma
dalli esterni: di che
mi pare di addurre
uno esempio nel
seguente capitolo. XV. Come i
Sanniti, per estremo rimedio alle
cose loro afflitte,
ricorsono alla religione. Avendo i Sanniti
avute più rotte
dai Romani, ed essendo
stati per ultimo
distrutti in Toscana,
e morti i loro eserciti e gli loro
capitani; ed essendo stali
vinti i loro compagni,
come Toscani, Franciosi ed
Umbri; ncc suis, nec
extcrnis viribus jam
slare polcrant: t amen bello
non abstinebantj adeo ne infeliciler quidem defensae libcrtatis
tcedcbalj et vinci > quarti non
tentare victorianij malebant. Onde deliberarono
far ultima prova:
e perché ei sapevano
che a voler vincere era
necessario indurre ostinazione
negli animi de’ soldati, c che
a indurla non v’ era miglior
mezzo che la
religione; pensarono di ripetere
uno antico loro
sacrifìcio, mediante Ovio Faccio,
loro sacerdote. Il quale
ordinarono in questa forma: che, fatto
il sacrificio solenne,
e fatto intra le
vittime morte e gli
altari accesi giurare lutti
i capi dello esercito, di
non abbandonare mai la zuffa,
citarono i soldati ad uno ad uno; ed
intra quelli altari, nel
mezzo di più
centurionicon le spade
nude in mano,
gli facevano prima giurare
che non ridirebbono cosa che
vedessino o sentissino; dipoi,con
parole esecrabili e versi
pieni di spavento, gli
facevano giurare e promettereagli Dii,
d’essere presti dove
gli imperadori gli
comandassino, c di non
si fuggire mai dalla
zuffa, e d’
ammazzarequalunque vedessino che si fuggisse:
laqual cosa non
osservata, tornasse soprail
capo della sua
famiglia e della sustirpe.
Ed essendo sbigottiti
alcuni diloro, non
volendo giurare, subito
da’ lorocenturioni erano morti;
talché gli altriche
succedevano poi, impauriti
dalla ferocità dello spettacolo,
giurarono tutti.E per fare
questo loro assembramentopiù magnifico,
sendo quarantamila uomini, ne
vestirono la metà
di pannibianchi, con
creste e pennacchi sopra
lecelate; e così ordinati si
posero pressoad Aquilonia.
Contra a costoro vennePapirio;
il quale, nel
confortare i suoisoldati, disse:
Non enim crislas
vulnerafacere, et pietà
alque aurata scuta
transirc ttomanum pileum.
E per debilitarela oppinione
clic avevano i suoi
soldatide’ nemici per i)
giuramento. preso, disseche quello
era per essere
loro a timore,non a fortezza;
perchè in quel
medesimo tempo avevano uvere
paura de’ cittadini, degli Dii, c
de’nemici. E venutial conflitto,
furono superati i Sanniti;perchè la
virtù romana, ed
il timoreconccputo per
le passate rotte,
superòqualunque ostinazione ei
potessino averepresa per
virtù della religione
e per ilgiuramento preso.
Nondimeno si vedecome
a lóro non parve
potere avere altro rifugio, nè
tentare altro rimedio
apoter pigliare speranza
di ricuperare laperduta
virtù. Il che
testifica appieno,quanta confidcnzia
si possa avere
mediante la religione bene
usata. E benchéquesta parte
piuttosto, per avventura,
sirichiederebbe esser posta
intra le coseestrinseche; nondimeno, dependendo
dauno ordine de’
più importanti dellaRepubblica di
Roma, mi è parso
dacommetterlo in questo
luogo, per nondividere
questa materia, cd
averci aritornare più
volte. Un popolo uso a
vìveresotto un principe,
se per qualche
accidente diventa libero, con
difficultàmantiene la libertà.Quanta difficultà
sia ad uno
popolouso a vivere sotto
un principe, preservare dipoi la
libertà, se per
alcuno accidente l’acquista, come
l’acquistò Roma dopo la
cacciala de’Tarquini; iodimostrano
infiniti esempi che
si leggononelle memorie
delle antiche istorie. E tale difficultà
è ragionevole; perchè quelpopolo
è non altrimenti che
uno animale bruto, il
quale, ancora che
di feroce natura e silvestre,
sia stato nudrito
sempre in carcere
ed in servitù,che
dipoi lasciato a sorte
in una campagna libero, non
essendo uso a pascersi, nè sappiendo
le latebre dove
siabbia a rifuggire, diventa
preda delprimo che
cerca rincatenarlo. Questo
medesimo interviene ad uno
popolo, il qualesetido
uso a vivere sotto
i governi d’altri, non snppiendo
ragionare nè delledifese
o offese pubbliche, non
cognoscendo i principi nè
essendo conosciutoila loro,
ritorna presto sotto
un giogo,il quale
il più delle
volte è più graveche
quello che per
poco innanzi si
avevalevato d’ in su
’1 collo: e trovasi in
queste difficullà, ancora che la materia
nonsia in tutto
corrotta; perchè in
unopopolo dove in
lutto è entrata la
corruzione, non può, non
che picciol tempo,ma
punto vivere libero,
come di sotto
sidiscorrerà: e però i ragionamenti nostri sono
di quelli popoli
dove la corruzione non sia
ampliata assai, c dove
siapiù del buono
che del guasto.
Aggiungesi alla soprascritta,
un’ altra difficultò;la
quale è, che
lo Stato che
diventa libero, si fa
partigiani nemici, e nonpartigiani amici.
Partigiani nemici glidiventano
tutti coloro che
dello Stalo tinodei
dìscorsi Tannico si prevalevano,
pascendosi dellericchezze del
principe; a’ quali sendotolta
la facoltà del
valersi, non possovivere
contenti, e sono forzati
ciascunodi tentare di
riassumere la tirannide,per
ritornare nell’ autorità loro.
Non siacquista, come
ho detto, partigiani
amici ; perchè il vivere
libero propone onorie premii, mediami
alcune oneste e de. terminate cagioni,
e fuori di quelle
nonpremia nè onora
alcuno; e quando unoha
quelli onori e quelli
utili che gli
paremeritare, non confessa
avere obbligo concoloro
che lo rimunerano.
Oltre a questo, quella comune
utilità che del
viverelibero si trae,
non è da alcuno,
mentreche ella si
possiede, conosciuta: la
qualeè di potere godere
liberamente le cosesue
senza alcuno sospetto,
non dubitaredell’onore delle
donne, di quel
de’ figliuoli, non temere di
sè; perchè nissuno
confesserà mai aver
obbligo conuno che
non 1’ offenda.
Però, come disopra
si dice, viene
ad avere lo
Statolibero c che «li
nuovo surge, partigianinon
partigiani amici. E vonemicilendo rimediare
a questi inconvenienti,c a
quegli disordini che le soprascrittediflìculta si
arrecherebbono seco, non
ciè più potente rimedio,
nè più valido,
nèpiù sano, nè
più necessario, che
ammazzare i figliuoli di Bruto:
i quali,come l’istoria mostra,
non furono indotti, insieme con
altri gioveni romani,n congiurare contra
alla patria per
altro, se non perchè
non si potevano
valere straordinariamente sotto i Consoli,come sotto
i Re; in modo
che la libertàdi
quel popolo pareva
che fusse diventata la
loro servitù. E chi
prende a governare una moltitudine,
o per via„ dilibertà o per
via di principato,
e non si assicura di
coloro che a quell’ ordine nuovo sono
nemici, fa uno
Stato di poca vita.
Vero è ch’io giudico
infelici quelli principi, che
per assicurare lo
Stato loro hanno a tenere
vie straordinarie, avendo per.
nemici la moltitudine:
perchè quello che ha
per nemici i pochi,
facilmente e senza molti scandali,
si assicura; ma chi
ha per nemico
1’ universale, non si
assicura mai; e quanta
più crudeltà usa, tanto
diventa più debole
il suo principalo.
Talché il maggior
rimedio che si abbia,
è cercare di farsi
il popolo amico. E benché questo
discorso sia disformo dal
soprascritto, parlando qui d’ un principe
e quivi d’ una repubblica; nondimeno, per non
avere a tornare più in
su questa materia,
ne voglio parlare
brevemente. Volendo,
pertanto, un principe guadagnarsi un
popolo che gli
fusse nemico, parlando di
quelli principi che sono
diventati della loro
patria tiranni; dico eh’ ci
debbe esaminare prima
quello che il popolo
desidera, e troverà sempre ch’ei
desidera due cose;
Y una vendicarsi contro a coloro
che sono cagione che
sia servo; l’altra
di riavere la sua
libertà. Al primo
desiderio il principe può
satisfare in tutto,
al secondo in parte.
Quanto al primo,
ce n’ è lo
csempio appunto. Clearco,
tiranno di Eraelea,
scudo in esilio,
occorse che, per controversia venuta
intra il popolo
e gli ottimati di Eraclea,
veggendosi gli ottimati inferiori, si
volsono a favorire Clearco, c congiuratisi seco
lo missono, contea alla
disposizione popolare, in Eraclea,
c toisono la libertà
al popolo. In modo
che, trovandosi Clearco
intra la insolenzia degli
ottimati, i quali non poteva
in alcun modo
nè contentare nè correggere, c la
rabbia de’ popolari,
che non potevano sopportare
lo avere perduta la
libertà, deliberò ad
un tratto liberarsi dal
fastidio de’ grondi, c guadagnarsi il popolo.
E presa sopra questo conveniente occasione,
tagliò a pezzi tutti gli
ottimali, con una
estrema satisfazione de’ popolari.
E così egli per
questa via satisfece ad
una delle voglie
che hanno i popoli, cioè
di vendicarsi. Ma quanto
all’altro popolare desiderio
di riavere la sua
libertà, non potendo
il principe satisfargli, debbe
esaminare quali cagioni sono
quelle che gli
fanno desiderare d’essere liberi;
e troverà che una piccola
parte di loro
desidera d’essere libera per
comandare; ma tutti
gli altri, che sono
infiniti, desiderano la
libertà per vivere securi.
Perchè in tutte le
repubbliche, in qualunque
modo ordinate, ai gradi
del comandare non
aggiungono mai quaranta o cinquanta
cittadini: e perchè questo è piccolo
numero, è facil cosa assicurarsene, o con levargli via* o
con far
lor parte di
tanti onori, che secondo
le condizioni loro
essi abbino in buona
parte a contentarsi. Quelli altri,
ai quali basta
vivere securi, si satisfanno
facilmente, facendo ordini e leggi, dove
insieme con la
potenza sua si comprenda
la sicurtà universale.
E quando uno principe
faccia questo, e che
il popolo vegga
che per accidente nessuno ei
non rompa tali
leggi, comincerà in
breve tempo a vivere
sccuro e contento. In
esempio ci è il
regno di Francia, il
quale non vive
securo per altro, che
per essersi quelli
Re obbligati ad infinite
leggi, nelle quali
si comprende la securtn
di tutti i suoi
popoli. E chi ordinò quello
Stato, volle che
quelli Re, dell’ arme e
del danaio facessino
a loro modo, ma
che d’ogni altra
cosa non ne potessino
altrimenti disporre che le
leggi si ordinassino.
Quello principe, adunque, o quella
repubblica che non si
assicura nel principio
dello stato suo, conviene
che si assicuri
nella prima occasione, come fecero
i Romani. Chi lascia passare quella,
si pente tardi
di non aver fatto
quello che doveva
fare. Sendo, pertanto, il
popolo romano ancora
non corrotto quando ci
recuperò la libertà, potette mantenerla,
morti i figliuoli di BRUTO e spenti i Tarquini,
con tutti quelli rimedi
ed ordini che
altra volta si sono
discorsi. Ma se
fussc stato quel popolo
corrotto, nè in
Roma nè altrove si
trovano rimedi validi
a mantenerla; come nel seguente
capitolo mostreremo. Uno popolo
coitoIIo, venuto in libertà, si può con
difficullà ( grandissima
mantenere libera. lo giudico
che gli era
necessario, o die i Re
si estinguessino in
Roma, o che Roma in
brevissimo tempo divenissi
debole, e di nessuno valore:
perchè, considerando a quanta corruzione
erano venuti quelli Re, se l'ussero
seguitati così due o tre
successioni, e che quella corruzione che
era in loro,
si fossi cominciata a distendere per
le membra; come le
membra fussino state
corrotte, era impossibile mai
più riformarla. Ma perdendo
il capo quando
il busto era intero,
poterono facilmente ridursi
a vivere liberi cd ordinati.
E debbesi presupporre per cosa
verissima, che una città
corrotta che vive
sotto un principe, ancora che
quel principe con
tutta la sua stirpe
si spenga, inai
non si può ridurre
libera; anzi conviene
che Putì principe spenga
l’ allro; e senza creazione d’un nuovo
signore non si
posa mai, se già
la bontà d’
uno, insieme con la
virtù, non la
tenessi libera; ma durerà tanto
quella libertà, quanto
durerà la vita di
quello: come intervenne
a Siracusa di Dione e di
Timoleone, la virtù de’
quali in diversi
tempi, mentre vissero, tenne libera
quella città; morti
clic furono, si ritornò
nell'antica tirannide. Ma non
si vede il
più forte esempio
che quello di Roma;
la quale cacciati
i Tarquini, potette subito
prendere e mantenere quella libertà:
ma morto Cesare, morto
Caligula, morto Nerone,
spenta tutta la stirpe
cesarea, non potette
inai, non solamente mantenere,
ma pure dare principio alla
libertà. Nè tanta
diversità di evento in una medesima
città nacqueda altro,
se non da
non essere ne’ tempi de’Tarquini il
popolo romano ancora corrotto; ed
in questi ultimi
tempi essere corrottissimo. Perchè
allora, a mantenerlo saldo e disposto
a fuggire i Re, bastò solo
furio giurare che
non eon sentirebbe mai
che a Roma alcuno
regnasse; e negli altri tempi,
non bastò T autorità e severità
di BRUTO, con
tutte le legioni orientali,
a tenerlo disposto a volere
mantenersi quella libertà
che esso, a similitudine del
primo BRUTO, gli aveva
rendutu. Il che
nacque da quella corruzione che
le parli mariane
avevano messa nel popolo;
delle quali essendo capo
Cesare potette accecare
quella moltitudine, eh* ella non
conobbe il giogo che
da sè medesima
si metteva in sul
collo. E benché questo
esempio di Roma sia
da preporre a qualunque
altro esempio, nondimeno voglio
a questo proposito addurre innanzi
popoli conosciuti ne*
nostri tempi. Pertanto dico,
che nessuno accidente, benché grave
e violento, potrebbe redurre mai
Milano o Napoli libere,
per essere quelle membra
tutte corrotte. H che
si vide dopo
la morte di VISCONTI; che volendosi
ridurre Milano alia libertà,
non potette e non
seppe mantenerla. Però,
fu felicità grande
quella di Koma, che questi Re
diventassero corrotti
presto, acciò ne
fussino cacciati, cd innanzi
che la loro
corruzione fosse passata nelle
viscere di quella
città: la quale incorruzione
fu cagione che
gl’ infiniti tumulti che furono
in Roma, avendo gli
uomini il fine
buono, non nocerouo, anzi giovarono
alla Repubblica. E si
può fare questa conclusione,
che dove la materia
non è corrotta, i tumulti
cd altri scandali non
nuòcono: dove la è
corrotta, le leggi
bene ordinate non
giovano, se già le non son
mosse da uno che
con una estrema
forza le facci
osservare, tanto che la
materia diventi buona. Il
che non so
se sie mai
intervenuto, o se fusse possibile
ch’egli intervenisse: perchè c’
si vede, come
poco di sopra dissi,
che una città
venuta in declinazione per
corruzione di materia, se
mai occorre che
la si levi,
occorre per la virtù
d’ uno uomo eh’ è
vivo allora, non per la virtù
dello universale clic sostengo
gli ordini buoni; c subito che quei
tale è morto, la si ritorna
nei suo pristino abito;
come intervenne a Tebe,
la quale per
la virtù di
Epaminonda, mentre lui visse,
potette tenere forma di
repubblica e di imperio; ma morto quello,
la si ritornò
ne’ primi disordini suoi. La
cagione è, che
non può essere un
uomo di tanta
vita, che ’l tempo
basti ad avvezzare
bene una città lungo
tempo male avvezza.
E se unod’ una
lunghissima vita, o due
successioni virtuose
conlinove non la
dispongono; come una manca
di loro, come di
sopra è detto, subito
rovina, se già con
molti pericoli c molto
sangue c’ non la
facesse rinascere. Perchè
tale corruzione e poca attitudine
olla vita libera, nasce
da una inequulità
che è in quella città:
e volendola ridurre equale,
è necessario usare
grandissimi estraordinari; i
quali pochi sanno
o vogliono usare, come in
altro luogo più
particolarmente si dirà.
XVIII. — In che
modo «ci.c; mi corrotte
si potesse mantenere
tino stalo liòerOj essendovi;
o non essendovi, ordinartelo.
Io credo
clic non sia
fuori di proposito, nè
disformo dal soprascritto
discorso, considerare se in
una città corrotta si
può mantenere lo
stato libero, scndovi; o
quando e’ non
vi fosse, se vi
si può ordinare.
Sopra la qual
cosa dico, come gli è
mollo difficile fare o
l’uno o l' altro: e benché
sia quasi impossibile darne regola,
perchè sarebbe necessario procedere
secondo i gradi della corruzione;
nondimnneo, essendo bene ragionare
d’ogni cosa, non
voglio lasciare questa indietro.
E presuppongo una città corrottissima, donde
verrò ad accrescere più
tale difficoltà; perché
non si trovano nè
leggi nè ordini
che bastino a frenare una
universale corruzione.
Perchè, così come
gli buoni costumf,
per mantenersi, hanno
bisogno delle leggi; cosi
le leggi, per
osservarsi, hanno bisogno de’
buoni costumi. Oltre di
questo, gli ordini
e le leggi fatte
in una repubblica nel
nascimento suo, quando erano
gli uomini buoni,
non sono dipoi più a
proposito, divenuti che
sono tristi. E se le
leggi secondo gli
accidenti in una città
variano, non variano
mai, 0 rade volte, gli
ordini suoi: il
che fa che le
nuove leggi non
bastano, perchè gli ordini,
che stanno saldi,
le corrompono. E per dare
ad intendere meglio questa
parte, dico come
in Roma era l’ordine
del governo, o vero
dello Stato; c le leggi
dipoi, che con i
magistrati frenavano i cittadini. L’ordine
dello Stato era l’ autorità
del Popolo, del
Senato, dei Tribuni, dei
Consoli, il modo di
chiedere e del creare
i magistrati, ed il modo
di fare le
leggi. Questi ordini poco
o nulla variarono nelii
accidenti. Variarono le leggi
che frenavano 1 cittadini; come
fu la legge
degli adulferi!, la
suntuaria, quella della
ambizione, e molte altre; secondo clic
di mano in mano i
cittadini diventavano corrotti. Ma
lenendo fermi gli
ordini dello Stato, che
nella corruzione non erano
più buoni, quelle
leggi che si
rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini
buoni; ma sarebbonn
bene giovate, se con
la innovazione delle
leggi si fussero rimutati
gli ordini. G che
sia il vero che
tali ordini nella
città corrotta non fossero
buoni, e’ si vede espresso
in due capi
principali. Quanto al creare
i magistrati e le leggi,
non dava il Popolo
romano il consolato,
e gli altri primi gradi
della città, se
non a quelli che
lo dimandavano. Questo
ordine fu nel principio
buono, perchè e’ non gli
domandavano se non
quelli cittadini che se
ne giudicavano degni, ed
averne la repulsa
era ignominioso; si che,
per esserne giudicati
degni, ciascuno operava bene.
Diventò questo modo, poi,
nella città corrotta
perniziosissiiuo; perchè non quelli
che avevano più virtù,
ma quelli che
avevano più potenza, domandavano
i magistrali; e gl’
impotenti, comecché virtuosi,
se ne astenevano di
domandargli per paura. Vcnnesi a questo
inconveniente, non ad un
tratto, ma per i
mezzi, come si
cade in tutti gli
altri iuconveiiienti: perchè
avendo i Romani domata
l’Affrica e l’Asia, e
ridotta quasi tutta
la Grecia a sua
ohidienza, erano divenuti
sicuri della libertà loro,
nè pareva loro
avere più nimici che
dovessero fare loro paura. Questa
securtà e questa debolezza
de’ nemici fece che
il Popolo romano,
nel dare il consolato,
non riguardava più
la virtù, ma la
grazia; tirando a quel grado quelli
che meglio sapevano
iutrattenere gli uomini, non
quelli che sapevano
meglio vincere i nemici: di
poi, da quelli che
avevano più grazia,
discesero a dargli a quelli che
avevano più potenza;talché i buoni,
per difetto di
tale ordine, ne rimasero
al tutto esclusi.
Poteva uno Tribuno, e qualunque
altro cittadino, proporre al
Popolo una legge;
sopra la quale ogni
cittadino poteva parlare, o in
favore o incontro, innanzi
che la si deliberasse.
Era questo ordine
buono, quando i cittadini erano
buoni; perche sempre fu bene,
che ciascuno clic intende
uno bene per
il pubblico, lo possa
proporre; ed è bene
che ciascuno sopra quello
possa dire l’oppinione
sua, acciocché il Popolo,
inteso ciascuno, possa poi
eleggere il meglio.
Ma diventati i cittadini cattivi,
diventò tale ordine pessimo, perchè
solo i potenti proponevano leggi, non
per la comune
libertà, ina perla potenza
loro;ccontra a quelle non poteva
parlare alcuno per paura
di quelli: talché il
Popolo veniva o ingannato o sforzato
a deliberare la sua rovina.
Ero necessario, pertanto,
a volere che Roma
nella corruzione si mantenesse
libera, che, cosi
come aveva nel processo
del vivere suo
fatte nuove leggi, l’avesse
fatti nuovi ordini:
per«thè altri ordini
e modi di vivere
si debbe ordinare in
un soggetto cattivo, che
in un buono; nè
può essere la
forma simile in una
materia al tutto
contraria. Ma perchè questi
ordini, o e’ si hanno a rinnovare
tutti ad un
tratto, scoperti che sono
non esser più
buoni, o a poco a poco, in
prima che si
conoschiuo per ciascuno; dico che
1* una e l’altra di
queste due cose è
quasi impossibile. Perchè, a volergli
rinnovare a poco a poco, conviene
che ne sia
cagione uno prudente, che
veggio questo inconveniente assai
discosto, e quando e’ nasce. Di
questi tali è facilissima
cosa che in una
città non ne
surga mai nessuno : e quando pure
ve ne surgesse, non
potrebbe persuadere mai
ad altrui quello che
egli proprio intendesse;
perchè gli uomini usi a
vivere in un
modo, non lo vogliono
variare; e tanto più non
veggiendo il male
in viso, ma
avendo ad essere loro
mostro per con
letture. Quando ad innovare
questi ordini ad un
(ratio, quando ciascuno
conosce clic non sono
buoni, dico che
questa inutilità, clic facilmente
si conosce, è diffìcile
a ricorreggerla: perchè a fare
questo, non basta usare
termini ordinari, essendo
i modi ordinari cattivi;
ma è necessario venire allo
istraordinario, come è alla violenza ed
all’ armi, e diventare innanzi
ad ogni cosa
principe di quella città,
e poterne disporre a suo
modo. E perchè il
riordinare una città
al vivere politico presuppone
uno uomo buono, ed
il diventare per
violenza principe di una
repubblica presuppone un
uomo cattivo; per questo
si troverà che
radis sime volte accaggia, che
uno uomo buono voglia
diventare principe per
vie cattive, ancoraché il
fine suo fusse
buono; e che uno reo
divenuto principe, voglia
operare bene, e che gli
caggia mai nell’animo usare quella
autorità bene, che
egli ha male acquistata.
Da tutte le
soprascritte cose nasce
la diffìcultà, o impossibilità, che è nelle
città corrotte, a mantenervi
una repubblica, o a crearvela
di nuovo. E quando
pure la vi si
avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più
verso lo stato
regio, che verso lo
stato popolare; acciocché quelli uomini
i quali dalle leggi,
per la loro insolenzia,
non possono essere corretti, lusserò
da una podestà
quasi regia in qualche
modo frenati. Ed a
volergli fare per altra
via diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa,
o al tutto impossibile;
come io dissi
di sopra che fece
Cleomene; il quale
se, per essere solo,
ammazzò gli Efori;
e se ROMOLO, per le
medesime cagioni, AMMAZZO IL
FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono
bene quella loro
autorità; nondimeno si debbe avvertire
che V uno e T altro
di costoro non
avevano il soggetto di
quella corruzione macchiato della quale
in questo capitolo
ragioniamo, e però poterono volere
e, volendo, colorire il
disegno loro. XIX. Dopo uno
eccellente principio si può
mantenere un principe debole ; ma dopo
un debole, non si
può con
un (diro debole
mantenere alcun regno.
Considerato la virtù
ed il modo
del procedere di ROMOLO, NUMA e
TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI, si vede
come Roma sortì una
FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E BELLICOSO,
1’altro quieto e religioso,
il terzo simile di
ferocia a Romolo, e più
amatore della guerra che
della pace. Perchè in
Roma era necessario
che surgesse ne’ primi
principii suoi un
ordinatore «lei vivere civile,
ina era bene
poi necessario che gli
altri Re ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO; ALTRIMENTI QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA
EFFEMINATA, e preda de’ suoi
vicini. Donde si può
notare, che uno
successore non di
tanta virtù quanto il
primo, può mantenere uno
Stato per la
virtù di colui
che PImretto innanzi,
e si può godere
te sue fatiche: ma s’
egli avviene o che
sia di lunga vita,
o che dopo lui
non surga un altro
che ripigli la
virtù di quel
primo, è necessitato quel regno
a rovinare. Cosi, per il
contrario, se due,
1* uno dopo P altro,
sono di gran
virtù, si vede
spess che fanno cose
grandissime, e che ne vanno
con la fama
in fino al
cielo. Davit, senza
dubbio, fu un
uomo per arme, per
dottrina, per giudizio
eccellentissimo; e fu tanta la
sua virtù, che,
avendo vinti ed abbattuti
tutti i suoi vicini,
lasciò a Salomone suo figliuolo
un regno pacifico: quale
egli si potette
con le arti «Iella
pace, e non della
guerra, conservare; e si potette
godere felicemente la virtù
di suo padre.
Ma non potette
già lasciarlo a Roboan suo
figliuolo; il quale non
essendo per virtù
simile allo avolo, nè
per fortuna simile
al padre, rimase con
fatica erede della
sesta parte del rt'guo.
Baisit, sultan de’ Turchi,
ancora die fusse più
amatore della pace
che della guerra, potette
godersi le fatiche di
Maumelto suo padre;
il quale avendo, come
Davit, battuti i suoi
vicini, gli lasciò un
regno fermo, e da
poterlo con F arte della
pace facilmente conservare. Ma se
il figliuolo suo
Salì, presente signore, fusse stalo
simile al padre,
c non all’avolo, quel regno
rovinava: ma e’ si vede costui
essere per superare
la gloria dell'avolo. Dico
pertanto con questi esempi, clic
dopo uno eccellente
principe si può mantenere
un principe debole; ma
dopo un debole
non si può
con un altro debole
mantenere alcun regno,
se già e’ non
fusse come quello
di Francia, che gli
ordini suoi antichi
lo mantenessero: e quelli principi
sono deboli, che non
stanno in su
la guerra. Couchiudo pertanto con
questo discorso, clic
LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che
la potette dare spazio
a Numa Pompilio di potere
molti anni con 1’ arte
della pace reggere Roma: ma
dopo lui successe Tulio, il
quale pei* la
sua ferocia riprese la
reputazione di ROMOLO:
dopo il quale venne
Anco, in modo
dalla natura dotato, che
poteva usare la
pace, e sopportare la guerra.
E prima si dirizzò a volere tenere
la via della
pace: ma subito conobbe
come i vicini, giudicandolo effeminato, lo
stimavano poco: talmente che
pensò che, a voler
mantenere Roma, bisognava volgersi
alla guerra, e somigliare Romolo,
e non Numa. Da questo
piglino esempio tutti
i principi che tengono stato,
che chi somiglierà Numa, lo
terrà o non terrà,
secondo ehe i tempi o la
fortuna gli girerà sotto:
ma chi somiglierà
Romolo, e lui come esso
armato di prudenza
e d’armi, lo terrà in
ogni modo, se
da una ostinata ed
eccessiva forza non
gli è tolto. K certamente si
può stimare, che se
Roma sortiva per
terzo suo Re
un uomo che non
sapesse con le
armi renderle la sua
reputazione, non arebbe
mai poi, o con grandissima
dilTìcultà, potuto pigliare
piede, nè fare
quelli effetti ch’ella fece.
E così, in mentre
eh’ ella visse sotto i Re,
la portò questi
pericoli di rovinare sotto un
Re o debole o tristo.
Due continove successioni
di principi virtuosi fanno
grandi effetti: c come le
repubbliche bene ordinate hanno di
necessità virtuose successioni: c però gli
acquisti ctl auQumcnli loro sono
grandi. Poi che Roma
ebbe cacciati i Re,
mancò di quelli pericoli
i quali di sopradetti
che la portava,
succedendo in lei uno
Re o debole o tristo.
Perchè la somma dello
imperio si ridusse
nc’ Consoli, i quali non
per eredità o per
inganni o per ambizione violenta,
ma per suffragi liberi
venivano a quello imperio, ed
erano sempre uomini
eccellentissimi: de’quali
godendosi Roma la
virtù e la fortuna di
tempo in tempo,
potette venire a quella sua
ultima grandezza in altrettanti unni,
che la era
stata sotto i Re.
Perchè si vede,
come due coutinove successioni di
principi virtuosi sono
suffìzienti ad acquistare
il mondo: come
furono Filippo di Macedonia
ed Alessandro Magno, il
clic tanto più
debbe fare una repubblica, avendo
il modo dello
eleggere non solamente due
successioni, ma infiniti principi
virtuosissimi, che sono l’uno
dell'altro successori: la
quale virtuosa successione fia
sempre in ogni
repubblica bene ordinata.
Quanto biasimo meriti
quel principe e quella repubblica
che manca d'armi proprie. Debbono i presenti
principi c le moderne repubbliche, le
quali circa le
difese ed offese mancano
di soldati propri, vergognarsi di
loro medesime j e pensare,
con lo esempio
di Tulio, tale difetto
essere non per
mancamento d’uomini alti alla
milizia, ma per
colpa loro, che non
hanno saputo fare i
loro uomini militari. Perchè
Tulio, scudo stata Roma
in pace quaranta
anni, non trovò, succedendo lui
nel regno, uomo
che fussc stato mai
alla guerra: nondimeno, disegnando lui fare
guerra, non pensò
di valersi nè di
Sanniti, nè di
Toscani, nè di altri
che fussero consueti
stare nell'armi; ma
deliberò, come uomo prudentissimo,
di valersi de’ suoi.
E fu tanta la sua
virtù, che in
un tratto il
suo governo gli potè
fare soldati eccellentissimi. Ed è più
vero che alcuna
altra verità, che se
dove sono uomini
non sono soldati, nasce
per difetto del
principe, e non per altro
difetto o di sito o
di natura: di che ce
n’*è uno esempio
freschissimo. Perchè ognuno sa,
come ne’ prossimi tempi il
re d’Inghilterra assaltò il
regno di Francia,
nè prese altri soldati
clic i popoli suoi; e per
essere stato quel regno
più clic trenta
anni senza far guerra,
non aveva nè
soldato nè capitano che
avesse mai militato: nondimeno, ei non dubitò
con quelli assaltare uno
regno pieno di
capitani e di buoni
eserciti, i quali erano
stati continovamcnte sotto l'armi
nelle guerre d’Italia. Tutto
nacque da essere
quel re prudente uomo,
e quel regno bene
ordinato; il quale nel
tempo della pace
non intermette gli ordini
della guerra. Pelopida
ed Epaminonda tebani,
poiché gli ebbero libera
Tebe, e trattola dalla
servitù dello imperio spartano;
trovandosi in una città
usa a servire, ed
in mezzo di popoli
effeminati; non dubitarono,
tanta era la
virtù loro ! di
ridurgli sotto Parrai, e con
quelli andare a trovare alla campagna
gli eserciti spartani,
e vincergli: e chi he scrive,
dice come questi due
in breve tempo
mostrarono, che non solamente
in bacedemonia nascevano gli
uomini di guerra,
ma in ogni altra
parte dove nascessino
uomini, pur che si
trovasse chi li
sapesse indirizzare alla milizia,
come si vede
che Tulio seppe indirizzare
i Romani. E VIRGILIO non potrebbe
meglio esprimere questa oppinione,
nè con altre
parole mostrare di aderirsi
a quella, dove dice: u ...
. Desidesque movebit Tullus in
arma viros. Quello che
sia da notare nel
caso dei tre
Orazi romani, e dei Tulio, re
di Roma, e Mezio,
re di Alba, convennero che
quel popolo fusse
signore dell’ altro, di cui i
soprascritti tre uomini vincessero.
Furono MORTI TUTTI I CURIAZI
albani, restò vivo
uno degli Orazi romani;
e per questo, restò
Mezio, re albaiio, con
il suo popolo,
suggello ai Romani. E tornando
quello ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando una sua
sorella, che era ad uno
de’ tre Curiazi morti maritata,
clic PIANGEVA LA MORTE DEL
MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello
Orazio per questo
fallo fu messo' in
giudizio, e dopo molte
dispute fu libero,
più per li
prìeglii del padre,
clic per li suoi
meriti. Dove sono
da notare Ire cose:
una, che mai
non si debbe con
parte delle sue
forze arrischiare tutta la sua fortuna; l’ altra, che
non mai in una
città bene ordinata
li devmeriti con
li ineriti si
ricompensano; la terza, che
non mai sono i
partiti savi, dove si
debba o possa dubitare
della inosservanza. Perchè, gl’
importa tanto a una città
lo essere serva,
che mai non si
doveva credere che
alcuno di quelli Re
o di quelli Popoli
stessero contenti che tre
loro cittadini gli
avessino sotto* messi; come si
vide che volle
fare Mezio: il
quale, benché subito
dopo la vittoria de’ Romani si
confessassi vinto, e promettessi
la obedienza a Tulio;
nondimeno nella prima espedizione
che egli ebbono a convenire
contra i Veienli, si vide
come ci cercò
d’ ingannarlo; come quello
che tardi s’era
avveduto della temerità del
partito preso da
lui. E perchè di questo
terzo notabile se
n’’è pnr luto assai,
parleremo solo degli
altri due ne’ seguenti duoi
capitoli. Che non si
debbe mettere a pericolo tutta
la fortuna e non tutte
le forze; c per questo j spesso il guardare
i passi è dannoso. Non fu
mai giudicato partito
savio mettere a pericolo tutta
la fortuna tua, e non
tutte le forze.
Questo si fu
in più modi. L’uno
è facendo come Tulio
e Mezio, quando e’
commissouo la fortuna tutta
della patria loro,
e la virtù di tanti
uomini quanti avea
l’uno e l’altro di costoro
negli eserciti suoi,
alla virtù e fortuna
di tre de’loro
cittadini, clic veniva ad
essere una minima
parte delle forze di
ciascuno di loro.
Nè si avvidono,
come per questo partito
tutta la fatica
che avevano durata i loro
antecessori nell’ ordinare la
repubblica, per farla
vivere lungamente libera e per
fare i suoi cittadini difensori della
loro libertà, era quasi
che suta vana,
stando nella potenza di
sì pochi a perderla.
La qual cosa da
quelli Re non
potè esser peggio
considerata. Cadesi ancora in
questo inconveniente quasi sempre
per coloro, che, venendo
il nemico, disegnano
di tenere i luoghi diffìcili,
e guardare i passi: perchè quasi
sempre questa deliberazione sarà dannosa,
se giù in
quello luogo diffìcile comodamente
tu non potessi
tenere tutte le forze
tue. In questo
casotuie partito è da
prendere; ma scndo
il luogo aspro, e non
vi potendo tenere tutte
le forze tue,
il partito è dannoso. Questo mi
fa giudicare cosi
lo esempio di coloro
che, essendo assaltati
da un nemico potente,
ed essendo il
paese loro circondato da’
monti e luoghi alpestri, noti hanno
mai tentato di
combattere il nemico in su’ passi
e in su’ monti,
ma sono iti ad
incontrarlo di là
da essi: o, quando
non hanno voluto
far questo, lo hanno
aspettato dentro a essi
monti, in luoghi benigni
e non alpestri. E la
cugioite ne è suta
la preallegata: perchè, non si
polendo condurre alla
guardia de’ luoghi alpestri molli
uomini, sì per non
vi potere vivere
lungo tempo, si per
essere i luoghi stretti
e capaci di pochi; non è
possibile sostenere un
nemico clic venga grosso
ad urtarti: ed al
nemico è facile il
venire grosso, perchè la
intenzione sua è passare,
e non fermarsi; ed a chi
l’ aspetta è impossibile aspettarlo grosso,
avendo ad alloggiarsi per più
tempo, non sapendo
quando il nemico voglia
passare in luoghi,
com’ io ho detto,
stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel
passo che tu
ti avevi presupposto tenere,
e nel quale i tuoi popoli
e lo esercito tuo
confidava, entra il più
delle volte ne’ popoli
e nel residuo delle genti
tue tanto terrore,
che senza potere esperimentare
la virtù di
esse, rimani perdente; c così
vieni ad avere perduta
tutta la tua
fortuna con parte delle
tue forze. Ciascuno
sa con quanta diftìcultà Annibaie
passasse r Alpi che dividono
la Lombardia dalia
Francia, e con quanta
difficoltà passasse quelle
che dividono la Lombardia
dalla Toscana: nondimeno i Romani
l’aspettarono prima in sul
Tesino, e dipoi uel
piano d’Arezzo; e vollon
più tosto, che
il loro esercito fusse consumato
dal nemico nelli luoghi
dove poteva vincere,
che condurlo su per
l’Alpi ad esser
destrutto dalla malignità del
sito. E chi leggerà sensatamente tutte
le istorie, troverà
pochissimi virtuosi capitani over
tentato di tenere simili
passi, e per le
ragioni dette, e perchè e'
non si possono
chiudere tutti; sendo i monti
come campagne, ed avendo
non solamente le vie
consuete e frequentate, ma
molte altre, le quali
se non sono
note a’ forestieri, sono note
a’ paesani; con l’aiuto de’quali sempre sarai
condotto in qualunque
luogo, contra alla voglia
di citi ti
si oppone. Di che
se ne può
addurre uno freschissimo esempio,
nel T 51 5 . Quando
Francesco re di
Francia disegnava passare
in Italia per
lu recuperatone dello Stalo
di Lombardia, il
maggiore fondamento clic facevano
coloro eli’ erano alla sua
impresa contrari, era
che gli Svizzeri lo
terrebbono a’ passi in su’
monti. E, come per
esperienza poi si
vide, quel loro fondamento restò
vano: perché, lasciato quel
re da parte
due o tre luoghi
guardati da loro, se
ne venne per
un’ altra via incognita; e fu prima
in Italia, e loro
appresso, che lo avessino
presentilo. Talché loro isbigottiti
si ritirarono in
Milano, e tutti i popoli
di Lombardia si
aderiron alle genti franciose;
sendo mancali di quella
oppinione avevano, che i
Franciosi dovessino essere tenuti
su’ monti. Le repubbliche bene
ordinate costituiscono
premii c pene aJ loro
cittadini; ne compensano
mai r uno con l*
altro. Erano stati I MERITI
D’ORAZIO GRANDISSIMI, avendo con la
sua virtù VINTI I CURIAZIl. Era stato
il fallo suo
atroce, avendo MORTO LA SORELLA:
nondimeno dispiacque tanto tale
omicidio ai Romani, che
io condussero a disputare
della vita, non ostante
che gli meriti
suoi fossero tanto grandi
c sì freschi. La
qual cosa a chi superficialmente la
considerasse, parrebbe uno esempio
d’ ingratitudine popolare:
nondimeno chi la
esaminerà meglio, e con migliore
considerazione ricercherà
quali debbono essere
gli ordini delle repubbliche,
biasimerà quel popolo più
tosto per averlo
assoluto, che per averlo
voluto condeunare. E la ragione
è questa, che nessuna
repubblica bene ordinata, non
mai cancellò i demeriti
con gli meriti
de’ suoi cittadini; ma avendo
ordinati i preraii ad una
buona opera e le
pene ad una
cattiva, ed avendo
premiato uno per
aver bene operato, se
quel medesimo opera dipoi
male, lo gastica,
senza avere riguardo alcuno alle
sue buone opere.
E quando questi ordini
sono bene osservati,
una città vive
libera molto tempo; altrimenti, sempre
rovinerà presto. Perchè, se
ad un cittadino
che abbia fatto qualche
egregia opera per
la città, si aggiugne,
oltre alla riputazione
che quella cosa gli
arreca, una audacia
e confidenza di potere,
senza temer pena, fare
qualche opera non
buona; diventerà in brievc tempo
tanto insolente, che si
risolverà ogni civilità.
È ben necessario, volendo clic
sia temuta la
pena per le triste
opere, osservare i premii per
le buone; come
si vede che
fece Roma. C benché una
repubblica sia povera, e possa dare
poco, debbe di
quel poco non astenersi;
perchè sempre ogni piccolo
dono, dato ad
alcuno per ricompenso di
bene ancora che
grande, sarà stimato, da
chi lo riceve,
onorevole e grandissimo. È notissima
la istoria di ORAZIO CODE e quella di
MUZIO SCEVOLA: come V uno sostenne
i nemici sopra un ponte,
tanto che si
tagliasse: l’altro si arse
la mano, avendo
errato, volendo ammazzare Porscna,
re delli Toscani.
A costoro per queste
due opere tanto
egregie, fu donato dal
pubblico due staiora di
terra per ciascuno.
È nota ancora la istoria
di MANLIO Capitolino.
A costui, per aver salvato
il Campidoglio da' Galli che
vi erano a campo,
fu dato da
quelli che insieme eon
lui vi erano
assediati dentro, una piccola
misura di farina,
il quale premio, secondo
la fortuna che
allora correva in Roma,
fu grande; e di qualità
che, mosso poi
Manlio, o da invidia o dalla sua
cattiva natura, a far nascere
sedizione in Roma,
e cercando guadagnarsi il popolo,
fu, senza rispetto alcuno de’ suoi
meriti, gittato precipite da
quello Campidoglio ch’egli
prima, cou tanta sua
gloria, aveva salvo. Chi
vuole riformare uno stalo
antico in una
città libera, ritenga almeno l’ombra
desmodi antichi. Colui che
desidera o clic vuole
riformare uno stato d’una
città, a volere elle sia
accetto, e poterlo con
satisfazione di ciascuno mantenere,
è necessitato a ritenere
l’ombra almanco de’ modi
antichi, acciò che a’ popoli
non paia avere mutato
ordine, ancora che
in fatto gli ordini
nuovi fussero al
tutto alieni dai passati;
perchè lo universale
degli uomini si pasce
così di quel
che pare, come di
quello che è;
anzi molte volte
si muovono più per
le cose che
paiono, che per quelle
clic sono. Per
questa cagione i Romani, conoscendo
nel principio del loro
vivere libero questa
necessità, avendo in cambio
d’ un Re creali duoi
Consoli, non vollono
ch’egli avessino più clic
dodici littori, per
non passare il
numero di quelli
che ministravano ai Re.
Olirà di questo,
facendosi in Roma uno
sacrifizio anniversario, il quale
non poteva esser
fatto se non dalla
persona del Re; e
volendo i Romani che quel
popolo non avesse
a desiderare per la assenzia
degli Re alcuna cosa
dell’ antiche j, creorono
un capo di detto
sacrifìcio, il quale
loro chiamorono Re
Sacrifìcolo, e lo sottomessono
al sommo Sacerdote:
talmentechè quel popolo per
questa via venne
a satisfarsi di quel sacrifizio,
e non avere mai
cagione, per mancamento di
esso, di desiderare la
tornata dei Re. E
questo si debbe osservare
da tutti coloro
che vogliono scancellare uno
antico vivere in una
città, e ridurla ad
uno vivere nuovo c libero. Perchè
alterando le cose
nuove le menti degli
uomini, ti debbi
ingegnare che quelle alterazioni
ritenghino più delr antico
sia possibile; e se i
magistrati variano e di numero
e d'autorità e di tempo dagli
antichi, che almeno
ritengliino il nome.
E questo, come ho
detto, debbe osservare colui
che vuole ordinare
una potenza assoluta,
o per via di repubblica
o di regno: ma
quello che vuol fare
una potestà assoluta,
quale dagli autori è chiamala
tirannide, debbe rinnovare ogni cosa,
come nel seguente
capitolo si dirò. Un principe
nuovo, in i ima città o provincia
presa da lui, 1 debbe
fare ogni cosa
nuova. Qualunque diventa principe
o d’ unacittà o d’uno
Stato, e tanto più
quando i fondamenti suoi lussino
deboli, c non si volga
o per via di
regno o di repubblica alla vita
civile; il mcgliore
rimedio che egli abbia
a tenere quel principato, è, sendo
egli nuovo principe, fare ogni
cosa di nuovo
in quello Stalo: come
è, nelle città
fare nuovi governi con
nuovi nomi, con
nuove autorità, con nuovi
uomini; fare i poveri
ricchi, fece Davil quando
ei diventò Re:
qui csuricnles implevil bonis,
et divites dimirti
inanes; edificare oltra di
questo nuove città, disfare
delie fatte, cambiare gli
abitatori da un
luogo ad un
altro; ed in somma,
non lasciare cosa
niuna intatta in quella
provincia, e che non vi
sia nè grado,
nè ordine, nè
stato, uè ricchezza, che
chi la tiene
non la riconosca da
te; c pigliare per
sua mira Filippo di
Macedonia, padre di
Alessandro, il quale con
questi modi, di
piccolo Re, diventò principe
di Grecia. E chi
scrive di lui,
dice che tramutava
gl uomini di provincia
in provincia, come i mandriani tramutano
le mandrie loro. Sono
questi modi crudelissimi,
e nemici d’ogni vivere, non
solamente cristiano, ma umano;
e debbegli qualunche uomo fuggire,
c volere piuttosto vivere
privato, che Re con
tanta rovina degli
uomini : nondimeno, colui che
non vuole pigliare quella
prima via del
bene, quando si voglia
mantenere, convien die entri
in questo male.
>la gli uomini pigliano certe
vie del mezzo,
clic sono dannosissime; perchè
non sanno essere nè
tutti buoni nè
tutti cattivi: come
ne seguente capitolo, per
esempio, si mostrerà. Sanno rarissime
volle gli uomini essere
al lutto tristi
o al fulto buoni. Papa Giulio
secondo, andando na Bologna
per cacciare di
quello Stato la casa
de’Bentivogli, la quale
aveva tenuto il principato
di quella città
cento anni, voleva ancora
trarre Giovampagoto Buglioni
di Perugia, della
quale era tiranno, come
quello che aveva
congiurato contro a tutti gli
tiranni che occupavano le
terre della Chiesa.
E pervenuto presso a Perugia con
questo animo e deliberazione nota a
ciascuno, non aspettò di entrare in
quella città con lo
esercito suo che
lo guardasse, mn %
entrò disarmato, non
ostante vi fusse dentro
Giovampagolo con genti
assai, quali per difesa
di sè aveva
ragunate. Sicché, portato da
quel furore con il
quale governava tutte
le cose, con la
semplice sua guardia
si rimesse nelle mani
del nemico; il quale
dipoi ne menò seco,
lasciando un governadore
in quella citta, che
rendesse ragione per
la Chiesa. Fu notala
dagli uomini prudenti che col
papa erano, la
temerità del papa e
la viltà
di Giovampagolo; uè potevano stimare donde
si venisse che
quello noti avesse, con
sua perpetua fama,
oppresso ad un tratto
il nemico suo, e
sè arricchito di preda,
sendo col papa
tutti li cardinali, con
tutte le lor
delizie. Nè si poteva
credere si fusse
astenuto o per bontà, o per
conscienza che lo
ritenesse; perchè in un
petto d’ un uomo
facinoroso, che si teneva
la sorella, che
aveva morti i cugini cd i
nepoti per regnare,
non poteva scendere alcuno
pietoso rispetto: ina si
conchiuse, che gli
uomini no sanno essere
onorevolmente tristi, o perfettamente buoni; e come
una tristizia ha in
sè grandezza, o è in
alcuna parte generosa, eglino
non vi sanno
entrare. Cosi Giovampagolo, il
quale non stimava essere incesto
e pubblico parricida, non seppe,
o, a dir meglio,
non ardì, avendon giusta occasione,
fare una impresa, dove
ciascuno avesse ammirato
l’animo suo, e avesse di
sè lasciato memoria eterna; sendo
il primo che
avesse dimostro ai prelati,
quanto sia da
stimar poco chi vive c
regna come loro;
ed avesse fatto una
cosa, la cui
grandezza avesse superato ogni
infamia, ogni pericolo, clic da
quella potesse depeudere. Per qual
cagione i Romani furono meno
ingrati agli loro cittadini che
gli Ateniesi. Qualunque legge
le cose fatte
dalle repubbliche, troverà in
tutte qualche spezie di ingratitudine contro
a’ suoi citladini;
ma ne troverà
meno in Roma che
in Atene> e per
avventura in qualunque altra repubblica.
E ricercando la cagione di
questo, parlando di
Roma c di Atene,
credo accadesse perchè
i Romani avevano meno cagione
di sospettare de’ suoi cittadini,
che gli Ateniesi. Perchè a Roma,
ragionando di lei
dalla cacciata dei Re
intino a Siila e Mario, non
fu mai tolta
la libertà da
alcuno .suo cittadino: in
modo che in
lei non era grande
cagione di sospettare
di loro, e, per
conseguente, di offendergli
inconsideratamente. intervenne
bene ad Atene il
contrario: perché, sendole
tolta la libertà da
Pisistrato nel suo
più florido tempo, e sotto
uno inganno di
bontà; come prima la
diventò poi libera,
ricordandosi delle ingiurie ricevute
e della passata servitù, diventò
acerrima vendicatrice non solamente
degli errori, ma delP
ombra degli errori
de' suoi cittadini. Di qui
nacque l’esilio e la
morte di tanti eccellenti
uomini; di qui
Pordine dello ostracismo,
ed ogni altra
violenza che contra i suoi
ottimati in vari tempi
da quella città
fu fatta. Ed è
verissimo quello che dicono
questi scrittori della civiltà:
che i popoli mordono più
fieramente poi ch’egli
hanno recuperala la libertà,
che poi che
l’hanno conservala. Chi considerrà
adunque, quanto è detto, non
biasimerà in questo Atene,
nè lauderà Roma;
ma ne accuserà solo
la necessità, per
la diversità degli accidenti
che in queste
città nacquero. Perchè si
vedrà, chi considererà
le cose sottilmente, che
se a Roma fusse siila
tolta la libertà
come a Atene, non sarebbe
stata Roma più
pia verso i suoi cittadini, che
si fusse quella.
Di che si può
fare verissima conieltura
per quello che occorse,
dopo la cacciata
dei Re, contra a Collatino
ed a Publio Valerio: de’ quali il
primo, ancora elicsi
trovasse a liberare Roma, E MANDATO IN ESILIO NON PER ALTRA CAGIONE CHE
PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro,
avendo sol «lato di
sè sospetto per
edificare una casa in
sul monte Celio,
fu ancora per essere
fatto esule. Talché
si può stimare, veduto quanto
Roma fu in
questi due sospettosa e severa,
che Farebbe usata la
ingratitudine come Atene,
se da’suoi cittadini, come
quella ne’ primi tempi ed
innanzi allo augumento
suo, fosse stata ingiuriata.
G per non avere a tornare più sopra questa
materia della ingratitudine, ne
dirò quello ne
occorrerà nel seguente capitolo. Quale sia
più ingrato, o un popolo j o un
principe. Egli mi pare,
a proposito della soprascritta materia, da
discorrere quale usi con
maggiori esempi questa
ingratitudine, 0 un popolo, o un
principe. E per disputare
meglio questa parte,
dico, come questo vizio
della ingratitudine nasce o dalla
avarizia, o dal sospetto. Perchè, quando
o un popolo o un
priacipe ha mandato
fuori un suo
capitano in una cspedizione
importante, dove quel capitano,
vincendola, ne abbia acquistata assai
gloria; quel principe o quel
popolo è tenuto allo
incontro a premiarlo: e se, in
cambio di premio,
o ei lo disonora o ei T
offende, mosso dalla avarizia, non
volendo, ritenuto da
questa cupidità, satisfarli; fa uno errore che
non ha scusa,
anzi si tira
dietro una infamia eterna.
Pure si trovano
molti principi che ci
peccano. E Cornelio TACITO dice,
con questa sentenzia,
la cagione: Proclivius est
inj ur ite, quarti beneficio vicem cxsolvcre,
quia grafia oneri, ultio
in questu fiabe
tur. Ma quando ei
non lo premia,
o, a dir meglio,
l’offende, non mosso da
avarizia, ma da
sospetto; allora merita, e il
popolo e il principe, qualche
scusa. E di queste
ingratitudini usate per tal
cagione, se ne legge
assai: perchè quello capitano
il quale virtuosamente ha
acquistato uno imperio al
suo signore, superando
i nemici, e riempiendo sè di gloria
e gli suoi soldati di
ricchezze; di necessità,
e con i soldati suoi,
e con i nemici, e coi sudditi
propri di quel
principe acquista tanta reputazione,
che quella vittoria non
può sapere di
buono a quel signore che
lo ha mandato.
G perchè la natura degli
uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa
porre modo a ntssuna
sua fortuna, è impossibile che
quel sospetto che subito
nasce nel principe
dopo la vittoria di
quel suo capitano,
non sia da quel
medesimo accresciuto per
qualche suo modo o termine
usato insolentemente. Talché
il principe non
può peusare ad
altro che assicurarsene; e per fare
questo, pensa o di
farlo morire, o di
torgli la reputazione
che egli si ha
guadagnala nel suo
esercito e ne’ suoi popoli: e con
ogni industria mostrare che
quella vittoria è nata
non per la virtù
di quello, ma
per fortuna, o per viltà
dei nemici, o per
prudenza degli altri capitani
clic sono stati
seco in tale l’azione. Poiché
Vespasiano, sendo in
Giudea fu dichiarato dal
suo esercito imperadore; Antonio Primo,
che si trovava con
un altro esercito
in llliria, prese
le parti sue, e ne
venne in Italia
contea a Vitellio il
quale regnava a Roma,
e virluosissimamente ruppe due
eserciti Vitelliani, c occupò
Roma; talché Muziano,
mandato da Vespasiano,
trovò per la virtù
d’Antonio acquistato • il
tutto, e vinta ogni
di ffìcultà. 11 premio
che Autonio ne
riportò, fu che
Muziano gli tolse subito
la ubidienza dello
esercito, e a poco a poco io
ridusse in Roma senza
alcuna autorità: talché
Antonio ne andò a trovare
Vespasiano, il quale
era ancora in Asia;
dal quale fu
in modo ricevuto, che,
in breve tempo,
ridotto in nessun grado,
quasi disperato morì.
E di questi esempi
ne sono piene
le istorie. Ne’
nostri tempi, ciascuno
che al presente vive,
sa con quanta
industria e virtù Consalvo Ferrante,
militando nel regno di
Napoli contra a’ Franciosi
per Ferrando Re di
Ragona, conquistasse e vincesse
quel regno; e come,
per premio di vittoria,
ne riportò che
Ferrando si parti da
Ragona, e, venuto
a Napoli, in prima gli
levò la obedienza
delle genti d’ arme, c dipoi
gli tolse le
fortezze, ed appresso lo
menò seco in
Spagna; dove poco tempo
poi, inonorato, mori. È tanto, dunque,
naturale questo sospetto ne’ principi, che
non se ne
possono difendere; ed è impossibile
ch’egli usino gratitudine a quelli
che con vittoria hanno fatto
sotto le insegne
loro grandi acquisti. E da
quello che non si
difende un principe,
non è miracolo, nè cosa
degna di maggior
considerazione, s.e un popolo
non se ne
difende. Perchè, avendo una
città che vive
libera, duoi fini, V uno
lo acquistare, l’altro
il mantenersi libera;
conviene che nell’
una cosa e nell’ altra
per troppo amore
erri. Quanto agli errori
nello acquistare, se ne
dirà nel luogo
suo. Quanto agli
errori per mantenersi libera,
sono, intra gli altri,
questi: di offendere
quei cittadini elicla doverrebbe
premiare; aver sospetto di
quelli in cui
si doverrebbe confidare. E benché
questi modi in una
repubblica venuta alla
corruzione siano cagione di
grandi mali, c che
molle volte piuttosto la
viene alla tirannide, come intervenne
a Roma di Cesare,
che per forza si
tolse quello che la ingratitudine gli negava;
nondimeno in una repubblica non
corrotta sono cagione
di gran beni, e fanno
che la ne
vi\e libera più, mantenendosi
per paura ili punizione
gli uomini migliori,
e meno ambiziosi. Vero è che
infra tutti i popoli che
mai ebbero imperio,
per le cagioni di
sopra discorse, Roma
fu la meno ingrata: perchè della
sua ingratitudine si può
dire che non
ci sia altro
esempio che quello di
Scipione; perchè Coriolano
c Cammillo fumo fatti
esuli per ingiuria che
l’uno e l’altro aveva fatto
alla Plebe. Ma
all’ uno non
fu perdonato, per
aversi sempre riserbato contea al
Popolo l’animo nemico;
Paiteo non solamente
fu richiamato, ma per
tutto il tempo
della sua vita
adorato come principe.
Ma la ingratitudine usata a Scipione,
nacque da un
sospetto che i cittadini cominciorno
avere di lui, che
degli altri non
s’era avuto: il
quale nacque dalla grandezza
del nemico che Scipione
aveva vinto; dalla
reputazione che gli aveva
data la vittoria
di sì lunga e pericolosa guerra;
dalla celerità di essa; dai
favori che la
gioventù, la prudenza,
e le altre sue
memorabili virtuti gli acquistavano.
Le quali cose
furono tante, che, non
che altro, i magistrati
di Roma temevano della
sua autorità: la qual
cosa spiaceva agli
uomini savi, come cosa
inconsueta in Roma.
E parve tanto straordinario il
vivere suo, che CATONE PRISCO, riputato santo,
fu IL PRIMO a fargli contra; e a dire che
una città non si
poteva chiamare libera,
dove era un cittadino
che fusse temuto
dai magistrati. Talché, se
il popolo di
Roma 1 seguì in questo
caso L’OPINIONE DI CATONE,
merita quella scusa
che di sopra ho
detto meritare quelli
popoli e quelli principi che
per sospetto sono
ingrati. Conchiudendo adunque questo
discorso, dico, che usandosi
questo vizio della
ingratitudine o per avarizia o per
sospetto, si vedrà come i
popoli non mai
per T avarizia la usorno,
e per sospetto assai i manco
che i principi, avendo
meno cagione di sospettare:
come di sotto
si dirà. Quali modi debbo
usare un principe o una
repubblica per fuggire questo vizio
della ingratitudine: c quali quel
capitano o quel cittadino per
non essere oppresso
da quella. Un principe,
per fuggire questa
necessità di avere a vivere
con sospetto, o esser ingrato,
debbe personalmente andare nelle
espedizioni; come facevano nel
principio quelli imperadori
romani, come fu ne’ tempi
nostri il Turco,
c come hanno fatto e fanno
quelli che sono virtuosi. Perchè,
vincendo, la gloria
e lo acquisto è tutto loro;
e quando non vi sono,
sendo la gloria
d’altrui, non pare loro
potere usare quello
acquisto, s’ ei non spengono
in altrui quella
gloria che loro non
hanno saputo guadagnarsi,
e diventare ingrati ed
ingiusti: e senza dubbio, è
maggiore la loro
perdita, che il guadagno.
Ma quando, o per
negligenza o per poca prudenza,
e’ si rimangono a casa oziosi,
c mandano un capitano; io
non ho che
precetto dar loro altro,
che quello che
per lor medesimi si
sanno. .Ma dico
bene a quel capitano, giudicando io che
non
possa fuggire i morsi
della ingratitudine, che
faccia una delle due
cose: o subito dopo
la vittoria lasci lo
esercito c rimettasi nelle
mani del suo principe,
guardandosi da ogni atto
insolente o ambizioso; acciocché quello, spogliato
d’ogni sospetto, abbia cagione
o di premiarlo o di
non lo offendere: o,
quando questo non
gli paia di fare,
prenda animosamente la
parte contraria, e tenga tutti
quelli modi per li
quali creda che
quello acquisto sia suo
proprio e non del
principe suo, facendosi benivoli i soldati
ed i sudditi; e faccia nuove
amicizie coi vicini,
occupi con li suoi
uomini le fortezze,
corrompa i principi del suo
esercito, e di quelli che
non può corrompere
si. assicuri; e per questi
modi cerchi di
punire il suo signore
di quella ingratitudine che esso
gli userebbe. Altre
vie non ci sono:
ma, come di
sopra si disse, gli
uomini non sanno
essere nè al
tutto tristi, nè al tutto buoni:
e sempre interviene che, subito
dopo la vittoria, lasciare lo
esercito non vogliono,
portarsi modestamente non possono,
usare termini violenti e che
abbino in sè
Tonorevole, non sanno;
talché, stando ambigui, intra quella
loro dimora ed
ambiguità, sono oppressi. Quanto
ad una repubblica, volendo
fuggire questo vizi dello
ingrato, non si
può dare il medesimo
rimedio che al
principe; cioè che vadia,
e non mandi, nelle
cspedizioni sue, sendo necessitate
a mandare un suo cittadino. Conviene,
pertanto, che pei*rimedio
io le dia,
che la tenga
i medesimi modi che tenne
la repubblica romana, ad
esser meno ingrata
che l’altre: il che
nacque dai modi
del suo governo. Perchè, adoperandosi
tutta la città,
e gli nobili e gli ignobili,
nella guerra, surgeva sempre in
Roma in ogni
età tanti uomini virtuosi,
ed ornati di
varie vittorie, che il
popolo non avea
cagione di dubitare di
alcuno di loro,
sendo assai, c guardando P uuo
Patirò. E in tanto si
mantenevano interi, e respettivi
di non dare, ombra
di alcuna ambizione, uè
cagione al popolo,
come ambiziosi, d* offendergli; che venendo
alla dittatura, quello maggior
gloria ne riportava, che più
tosto la deponeva.
E cosi, non potendo simili
modi generare sospetto, non
generavano ingratitudine. In
modo che, una repubblica
che nott voglia avere
cagione d’essere ingrata,
si debbo governare come
Roma; c uno cittadino che voglia
fuggire quelli suoi
morsi, debbc osservare i termini
osservati dai cittadini romani. Che
» capitani romani per errore
commesso ?io« furono
mai istraordinariamcnlc
puniti; nè furono mai
ancora puniti quando,
per la ignoranza loro o
tristi partiti presi da
loro, ne fissino
seguiti danni alla repubblica. 1 Romani, non
solamente, come di
sopra avemo discorso, furono
manco ingrati die V altre
repubbliche, ma furono ancora
più pii e più
respctlivi nella punizione de’ loro capitani
degli eserciti, che alcune
altre. Perchè, se
il loro errore fussc
stato per malizia,
e’ lo gastigavano
umanamente; se gli
era per ignoranza, non
che lo punissino,
e’ lo premiavano ed onoravauo.
Questo modo del procedere
era bene considerato
da loro: perchè e' giudicavano che
fusse di tanta importanza
a quelli che governavano
gli eserciti loro,
lo avere l’animo libero ed
espedito, e senza altri
estrinsechi rispetti nel pigliare
i parliti, che non volevano
aggiugnere ad una
cosa per sè stessa
difficile e pericolosa, nuove difficultà c pericoli; pensando che
aggiugttendovcli, nessuno potesse
essere che operasse mai
virtuosamente. Verbigrazia, e’ mandavano
uno esercito in Grecia
contra a Filippo di
Macedonia, o in Italia
contra ad Annibale,
o contro a quelli popoli
che vinsono prima.
Era questo cupitano clic
era preposto a tale espedizione, angustiato
da tutte quelle cure
che si arrecavano
dietro quelle faccende, le
quali sono gravi
e importantissime. Ora, se a tali
cure si fus»sino
aggiunti più esempi
di Romani ch’eglino avessino
crucifissi o altrimenti
morti quelli che
avessino perdute le giornale,
egli era impossibile
che quello capitano intra
tanti sospetti potesse
deliberare strenuamente. Però, giudicando essi che a
questi tali fusse
assai pena la ignominia
dello avere perduto,
non gli vollono con
altra maggior pena
sbigottire. Uno esempio ci
è, quanto allo errore
commesso non per
ignoranza. Erono Sergio e Virginio
a campo a Veio, ciascuno preposti
ad una parte
dello esercito; de’ quali Sergio
era all’incontro donde potevano
venire i Toscani, c Virginio
dall’ altra parte.
Occorse che sendo assaltato
Sergio dai Falisci
e da altri popoli, sopportò
d’ essere rotto
c fugato prima che
mandare per aiuto
a Virginio. E dall’altra parte,
Virginio aspettando che si
umiliasse, volle piuttosto vedere, il
disonore della patria
sua, e la rovina di
quello esercito, clic
soccorrerlo. Caso veramente esemplare
e tristo, c da fare
non buona coniettura della Repubblica
romana, se 1’
uno c l’altro non fusscro
stati gasligali. Vero è
che, dove un’altra
repubblica gli a r ebbe puniti di
pena capitale, quella
gli punì in danari.
II che nacque
non perchè i peccali
loro non meritassino
maggior punizione, ma perchè
gli Romani voiiono
in questo caso,
per le ragioni
già dette, mantenere gli
antichi costumi loro. E quanto agii
errori per ignoranza,
non ci è il più
bello esempio che
quello di VARRRONE (si
veda): per la
temerità del quale
sendo rotti i Romani a Canne
da Annibaie, dove quella
Repubblica portò pericolo della sua
libertà; nondimeno, perchè
vi fu ignoranza e non
malizia, non solamente
non lo gastigorno
ma lo onororno,
e gli andò incontro
nella tornata sua in
Roma tutto l’Ordine
senatorio; e non lo potendo
ringraziare della zuffa, Io
ringraziarono eh’ egli
era tornato in Roma,
c non si era
disperato delle cose romane.
Quando Papirio Cursore
volevu fare morire Fabio,
per avere contea
al suo comandamento combattuto
coi Sanniti; intra le
altre ragioni che
dal patire di
Fabio erano assegnale
conira alla ostinazione del
Dittatore, era che
il Popolo romano in
alcuna perdita de’ suoi Capitani non
aveva fatto mai
quello che Papirio nella
vittoria voleva fare. Una
repubblica o uno principe non e
sia conira ad una
consuetudine antica della
città, è scandalosissimo. Egli è
sentenza degli antichi
scrittori, come gli uomini
sogliono affliggersi nel male
c stuccarsi nel benej
e come dul1’ una e
dall* altra di
queste due passioni nascono i medesimi
effetti. Perchè, qualunque volta è tolto
agli uomini il
combattere per necessità, combattono
per ambizione: la quale
è tanto potente ne’ petti
umani, che mai, a
qualunque grado si salgano,
gli abbandona. La
cagione è, perchè la
natura ha creati
gli uomini in modo,
che possono desiderare
ogni cosa, e non possono
conseguire ogni cosa:
talché, essendo sempre
maggiore il desiderio che
la potenza dello
acquistare, ne risulta la
mala contentezza di quello
che si possiede,
e la poca satisfazionc
di esso. Da
questo nasce il
variare della fortuna loro:
perchè desiderando gli uomini,
parte di avere
più, parte temendo di
non perdere lo
acquistato, si viene alle
inimicizie ed alla guerra; dalla quale
nasce la rovina
di quella provincia, e la
esaltazione di quel1’
altra. Questo discorso
ho fatto perchè alla
Plebe romana non
bastò assicurarsi de’ Nobili
per la creazione
de’ Tribuni, al quale
desiderio fu constretta
per necessità ; che lei
subito, ottenuto quello, cominciò a combattere
per ambizione, e volere con
la Nobiltà dividere
gli onori e le sustanze,
come cosa stimata
più dagli uomini. Da
questo nacque il
morbo che partorì la
contenzione della legge agraria, ed
in (ine fu
causa della distruzione della Repubblica
romana. E perchè le repubbliche
bene ordinate hanno a tenere ricco
il pubblico, e li
loro cittadini poveri;
convenne che fusse
nella città di Roma
difetto in questa
legge: la quale o non
fusse fatta nel
principio in modo che
la non si avesse ogni di a
ritrattare; o che la si differisse
tanto in farla, che
fusse scandotoso il
riguardarsi indietro; o
sendo ordinata bene da
prima, era stata
poi dall’ uso
corrotta; talché, in qualunque
modo si fusse, mai
non si parlò
di questa legge
in Roma, che quella
città non andasse
sottosopra. Aveva questa legge
duoi capi principali. Ter l’
uno si
disponeva clic non si
potesse possedere per
alcun cittadino più che
tanti iugeri di
terra; per V altro, che i
campi di
che si privavano i nimici, si
dividessino intra il popolo
romano. Veniva pertanto
a fare di duoi sorte
offese ai Nobili:
perchè quelli che possedevano
più beni non permetteva la
legge (quali erano
la maggior parte
de’ Nobili), ne
avevano ad esser privi; e dividendosi intra
la Plebe i beni de’
nimici, si toglieva
a quelli la via dello
arricchire. Sicché, venendo
ad essere queste offese
contra ad uomini potenti, e che
pareva loro, contrastandola, difendere il
pubblico; qualunque volta, com’ è detto,
si ricordava, andava sottosopra quella
città: ed i Nobili con pazienza
ed industria la
temporeggiavano, o con trac fuora
un esercito, o che a quel
Tribuno che la
proponeva si opponesse uno
altro Tribuno; o talvolta cederne parte;
ovvero mandare una
colonia in quel luogo
che si avesse
a distribuire: come intervenne
del contado di Anzio,
per il quale
surgendo questa disputa della
legge, si mandò
in quel luogo una
colonia traila di
Roma, alla quale si
consegnasse detto contado.
Dove L. usa un
termine notabile, dicendo clic
con ditTìcultà si
trovò in Roma eli i desse
il nome per
ire in detta colonia: tanto
era quella Plebe
più pronta a volere desiderare
le cose in
Homa, che a possederle in
Anzio ! Andò questo umore
di questa legge
così travagliandosi un tempo,
tanto che i Romani
cominciarono a condurre le loro
armi nelle estreme parti
di Italia, o fuori
di Italia; dopo al
qual tempo parve
che la restasse. Il
che nacque perchè
i campi che possedevano i nimici di
Roma essendo discosti dagli occhi
della Plebe, cd
in luogo dove non
gli era facile
il coltivargli, veniva meno
ad esserne desiderosa:
ed ancora i Romani erano
meno punitori tic’ loro nemici
in siinil modo;
e quando pure spogliavano alcuna
terra del suo contado,
vi distribuivano colonia.
Tanto che per tali
cagioni questa legge
stette come addormentata inOno
a’ Gracchi: da’ quali
essendo poi svegliata,
rovinò al tutto la
libertà romana; perchè
la trovò raddoppiata la
potenza de’ suoi avversari, e si
accese per questo
tante odio intra la
Plebe ed il
Senato, che si venne
all’ armi ed
al sangue, fuor
d’ogni modo e costume civile.
Talché, non potendo i pubblici magistrati
rimediarvi, nè sperando più
alcuna delle fazioni
in quelli, si ricorse
a’ rimedi privati, e ciascuna delle parti
pensò di farsi
uno capo che la
difendesse. Pervenne in
questo scandalo e disordine la
Plebe, e volse la sua
riputazione a Mario, tanto
che la lo fece
quattro volte Consolo;
ed in tanto continuò con
pochi intervalli il
suo consolato, che si
potette per sè
stesso far Consolo tre
altre volte. Contra
alla qual peste non
avendo la Nobiltà
alcuno rimedio, si volse
a favorir Siila; e fatto quello capo
della parte sua,
vennero alle guerre civili e dopo
molto sangue e variar
di fortuna, rimase
superiore la Nobiltà. Risuscitorono
poi questi umori a tempo
di Cesare c di
Pompeo; perchè, fattosi Cesare
capo della parte
di Mario, c Pompeo di
quella di Siila,
venendo alle mani rimase
supcriore GIULIO CESARE: IL QUALE
E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale, adunque, principio e fine
ebbe la legge
agraria. E benché noi mostrassimo
altrove, come le inimicizie
di Roma intra
il Senato c la Plebe
mantenessero libera Roma, per
nascerne da quelle
leggi in favore della
libertà; e per questo paia disforme
a tale conclusione il
fine di questa legge
agraria; dico come, per questo,
io non mi
rimuovo da tale
oppinionc: perchè egli è
tanta P ambizione de’ grandi,
che se per
varie vie ed in
vari modi la
non ò in una
città sbattuta, tosto riduce
quella città alla
rovina sua. In modo
che, se la
contenzione della legge agraria
penò trecento anni a
fare Roma serva, si
sarebbe condotta, per avventura, molto
più tosto iti
servitù, quando la Plebe,
e con questa legge
c con altri suoi
appetiti, non avesse
sempre frenato la ambizione
de’ Nobili. Vedasi per
questo ancora, quanto
gli uomini stimano più
la roba che
gli onori. Perchè la
Nobiltà romana sempre
negli onori eedè senza
scandali istraordinari alla Plebe;
ma come si
venne alla roba, fu
tanta la ostinazione
sua nel difenderla, che la
Plebe ricorse, per
Sfogare 1’ appetito suo, a
quelli istraordinari che di
sopra si discorrono.
Del quale disordine furono
motori i Gracchi; de’ quali
si dcbbe laudare
più la intenzione che la
prudenza. Perchè, a voler levar
via uno disordine
cresciuto in una repubblica, e per
questo fare una
legge che riguardi assai
indietro, è partito male considerato;
e, come di
sopra largamente si discorse,
non si fa
altro che accelerare quel
male a che quel
disordine ti conduce: ma temporeggiandolo, o il male
viene più tardo,
o per sè medesimo col
tempo, avanti che
venga al fine suo,
si spegne. Le repubbliche
deboli sono male risolute, e non si
sanno deliberare; c se le pigliano
mai alcuno partito j nasce più
da necessità che da
elezione. Essendo in Roma
una gravissima pestilenza, e parendo per
questo agli Volaci ed
agli Equi che
fusse venuto il tempo
di potere oppressar
Roma; fatti questi due
popoli uno grossissimo
esercito, assalirono gli Latini
e gli Ernici, e guastando il
loro paese, furono
constretti gli Latini c gli
Ernici farlo intendere a Roma, c pregare
che fussero difesi da' Romani:
ai quali, sendo
i Romani gravati dal morbo,
risposero che pigliassero partito
di difendersi da
loro medesimi e con le
loro armi, perchè essi
non li potevano
difendere. Dove si conosce
la generosità e prudenza
di quel Senato, e come
sempre in ogni
fortuna volle essere quello
che fusse principe delle deliberazioni
che avessero a pigliare
i suoi; nè si
vergognò mai deliberare una cosa
che fusse contraria al
suo modo di
vivere o ad altre
deliberazioni fatte da lui,
quando la necessità gliene comandava.
Questo dico perchè altre
volte il medesimo
Senato aveva vietato ai
detti popoli l’armarsi
e difendersi ; talché ad uno
Senato meno prudente di
questo, sarebbe parso
cadere del grado suo a
concedere loro tale difensione.
Ma quello sempre
giudicò le cose come
si debbono giudicare, e sempre prese
il meno reo
partilo per migliore; perchè
male gli sapeva
non potere difendere i suoi
sudditi; male gli sapeva
che si armassino
senza loro, per le
ragioni dette, e per
molte altre che si
intendono: nondimeno, conoscendo che si
sarebbono armati, per
necessità, a ogni modo, avendo
il nimico addosso;
prese la parte
onorevole, e volle che quello
clic gli avevano
a fare, lo facessino con
licenzia sua, acciocché avendo disubbidito
per necessità, non si
avvezzassino a disubbidire per
elezione. E benché questo paia
partito che da ciascuna
repubblica dovesse esser preso;
nientedimeno le repubbliche
deboli e male consigliate non
gli sanno pigliare, nè
si sanno onorare
di simili necessità. Aveva
il duca Valentino
presa Faenza, e fatto calare
Bologna agli accordi suoi.
Dipoi, volendosene tornare
a Roma per la
Toscana, mandò in
Firenze uno suo uomo a
domandare il passo per
sé e per il
suo esercito. Consultossi
in Firenze come
si avesse a governare questa cosa,
nè fu mai
consigliato per alcuno di
concedergliene. In che non
si seguì il
modo romano: perchè, sendo
il Duca armatissimo,
ed i Fiorentini in
modo disarmati che
non gli potevano vietare
il passare, era
molto piu onore loro,
che paresse che
passasse con permissione di
quelli, che a forza; perchè, dove
vi fu al
tutto il loro
vituperio, sarebbe stato in
parie minore quando I*
avessero governata altrimenti. Ma la
più cattiva parte
che abbino le repubbliche deboli,
è essere irresolute; in modo
che lutti i partili
che le pigliano, gli
pigliano per forza;
e se vieti loro fatto
alcuno bene, lo
fanno forzato, c non per
prudenza loro. Io
voglio dare di questo
duoi altri esempi,
occorsi ne* tempi nostri
nello stato della
nostra città, nel mille
cinquecento. Ripreso che il
re Luigi XII di Francia
ebbe Milauo, desideroso di
rendergli Pisa, per
aver cinquanta mila ducati
che gli erano
stati promessi da’ Fiorentini
dopo tale restituzione, mandò gli
suoi eserciti verso Pisa,
capitanati da monsignor
Beaumonte; benché francese,
nondiraanco uomo in cui i
Fiorentini assai confidavano. Condussesi questo
esercito e questo capitano intra
Cascina e Pisa, per andare
a combattere le mura;
dove dimorando alcuno
giorno per ordinarsi alla espugnazione,
vennero oratori Pisani a Beaumonte, e gli
offerirono di dare la
città allo esercito
francese con questi patti:
che, sotto la
fede del re, promettesse non
la mettere in
mano de’ Fiorentini, prima
che dopo quattro mesi.
Il qual partito
fu dai Fiorentini al
tutto rifiutato, in
modo che si
seguì nello andarvi a campo,
e partissene con vergogna. Nè
fu rifiutato il
partito per altra cagione,
che per diffidare
dellafede del re;
come quelli che
per debolezza di consiglio
si erano per
forza messi nelle mani
sue: e dall’altra parte, non
se ne fidavano,
nè vedevano quanto era
meglio che il
re potesse rendere loro
Pisa sendovi dentro,
e non la rendendo scoprire
P animo suo, che
non la avendo, poterla
loro promettere, e loro
essere forzati comperare
quelle promesse. Talché molto
più utilmente arebbono fatto
a consentire che Beaumonlc
V avesse, sotto qualunque
pròmessa, presa: come
se ne vide
la espcrienza dipoi,
die essendosi ribellato Arezzo,
venne a’ soccorsi
de* Fiorentini mandato dal
re di Francia
monsignor Imbalt con gente
francese; il qual giunto
propinquo ad Arezzo,
dopo poco tempo cominciò
a praticare accordo con gli
Aretini, i quali sotto
certa fede volevano dare
la terra, a similitudine de’ Pisani. Fu
rifiutato in Firenze tale
partito; il che veggendo
monsignor Imbalt, e
parendogli come i Fiorentini se ne
inlendessino poco, cominciò
a tenere le pratiche dello
accordo da se, senza
participazione de’ Commessaci: tanto che
e’ io conchiuse
a suo modo, e sotto
quello con le
sue genti se
ne entrò in Arezzo,
facendo intendere a’
Fiorentini come egli erano
matti, e non si intendevano delle
cose del mondo:
che se volevano Arezzo,
lo fucessino intendere al
re, il quale
lo poteva dar
loro molto meglio, avendo
le sue genti
in quella città, che
fuori. Non si
restava in Firenze
di lacerare e biasimare
detto Imbalt; nè si
restò mai, infino
a tanto che si conobbe
che se Beaumonte
fusse stato simile a Imbalt,
si sarebbe avuto Pisa
come Arezzo. E cosi,
per tornare a proposito, le
repubbliche irresolute non pigliano
mai partiti buoni,
se non per forza,
perchè la debolezza
loro non le lascia
mai deliberare dove è
alcuno dubbio; e se quel
dubbio non è cancellalo da una
violenza, che le
sospinga, stanno sempre mai sospese.
In diversi popoli si
veggono spesso i medesimi
accidenti. E’ si conosce
facilmente per chi
considera le cose presenti
e le antiche, come in
tutte le città
ed in tutti
i popoli sono quelli medesimi
desiderii e quelli medesimi umori,
e come vi furono
sempre : in modo che
gli è facil cosa a
chi esamina con diligenza
le cose passate, prevedere in
ogni repubblica le
future, c farvi quelli rimedi
che dagli antichi sono
stati usati; o non ne
trovando degli usati, pensarne
de’ nuovi, per la
similitudine degli
accidenti. Ma perchè queste
considerazioni sono neglette,
o non intese da
chi legge; o se le
sono intese, non sono
conosciute da chi
governa ; ne seguita che
sempre sono i medesimi
scandali in ogni
tempo. Avendo la città
di Firenze perduto parte dello
imperio suo, come
Pisa ed altre terre,
fu necessitata a fare
guerra* a coloro che le
occupavano. E perchè chi le
occupava era potente,
ne seguiva che si
spendeva assai nella
guerra, senza alcun frutto; dallo
spendere assai ne risultava
assai gravezze; dalle gravezze, infinite querele
del popolo; e perchè questa guerra
era amministrata da uno
magistrato di dieci
cittadini che si
chiamavano i Dieci della guerra,
1* universale cominciò a recarselo
in dispetto, come quello
che fusse cagione
della guerra e delle spese
di essa; e corniliciò
a persuadersi che tolto
via detto magistrato, fusse
tolto via la
guerra: tanto che avendosi
a rifare, non se gli
fecero gli scambi; e lasciatosi spirare, si
commisero le azioni
sue alla Signoria. La
qual deliberazione fu
tanto perniziosa, che
non solamente non
levò la guerra, come
lo universale si
persuadeva; ma tolto via
quelli uomini che
con prudenza la amministravano, ne
seguì tanto disordine, die,
oltre a Pisa, si
perde Arezzo e molti altri
luoghi: in modo che,
ravvedutosi il popolo
dello errore suo, e come
la cagione del
male era la febbre
e non il medico,
rifece il magistrato de’ Dieci.
Questo medesimo umore si
levò in Roma
conira al nome
de’ Consoli : perchè,
veggendo quello Popolo
nascere 1’ una guerra
dall' altra, e non
poter mai riposarsi; dove e'
dovevano pensare che la
nascesse dalla ambizione de’ vicini che
gli volevano opprimere; pensavano nascesse
dall’ ambizione dei Nobili,
che non potendo
dentro in Roma gastigar
la Plebe difesa
dalla potestà tribunizia, la volevano
condurre fuori di Roma
sotto i Consoli, per
opprimerla dove non aveva
aiuto alcuno. E pensarono per questo,
che fusse necessario
o levar via i Consoli,
o regolare in modo la
loro potestà, che
e* non avessino
autorità sopra il popolo,
nè fuori nè in
casa. 11
primo che tentò
questa legge, fu uno
Terentillo tribuno; il quale
proponeva che si dovessero
creare cinque uomini che
dovessino considerare la
potenza de* Consoli, e limitarla.
II che alterò assai
la Nobiltà, parendoli
che la maiestà dell’
imperio fusse al
tutto declinata, talché alla
Nobiltà non restasse più
alcuno grado in
quella Repubblica. Fu nondimeno
tanta la ostinazione
dei Tribuni, che il
nome consolare si
spense ; e furono in fine
contenti, dopo qualche altro
ordine, piuttosto creare Tribuni con
potestà consolare, che i
Consoli : tanto avevano più
in odio il
nome che le autorità
loro. E cosi seguitorno lungo tempo,
infino che conosciuto
io errore loro, còme i
Fiorentini ritornorno ai Dieci,
così loro ricreorno
i Consoli. La creazione
del DECEMVIRATO in Roma, e quello
che in essa è
da notare: dove si
considera, intra molte altre cose,
come si può
salvare per simile accidente,
o oppressore una repubblica. Volendo discorrere
particolarmente sopra gli accidenti
che nacquero in
Roma per la creazione
del decemvirato, non mi
pare soperchio narrare
prima tutto quello che
segui per simile
creazione, e dipoi disputare quelle
porti che sono in
esse azioni notabili: le
quali sono molte, e di
grande considerazione, cosi per
coloro che vogliono
mantenere una repubblica libera,
come per quelli
che disegnassino
sommetterla. Perchè in
tale discorso si vedranno
molti errori fatti dal
Senato e dalla Plebe
in disfavore della libertà;
e molli errori fatti
da APPIO, capo
del decemvirato; in
disfavore di quella tirannide
che egli si
aveva presupposto stabilire in
Roma. Dopo molte deputazioni c contenzioni
seguite intra il Popolo
e la Nobiltà per
fermare nuove leggi in
Roma, per le
quali e’ si stabilisse
più la
libertà di quello
stato; mandarono, d’ accordo,
Spurio Postumio con duoi
altri cittadini ad
Atene per gli
essenti di quelle leggi
che Solone dette
a quella città, acciocché
sopra quelle potessero fondare le
leggi romane. Andati e tornati costoro,
si venne alla
creazione degli uomini eh’
avessino ad esaminare e fermare de.tte
leggi; e ercorno dieci cittadini per
un anno, tra i
quali fu creato APPIO CLAUDIO, il primo filosofo romano, uomo sagace
ed inquieto. E perchè e'
potessimo senza alcuno rispetto creare
tali leggi, si
levarono di Roma tutti
gli altri magistrati, ed in
particolare i Tribuni e i Consoli, e levossi lo
appello al Popolo; in
modo che tale magistrato
veniva ad essere
al tulio principe di Roma. Appresso
ad APPIO si ridusse
tutta 1’ autorità
degli altri suoi compagni,
per gli favori
clic gli faceva la
Plebe: perché egli s’ era fatto
in modo popolare
con le dimostrazioni, che pareva
meraviglia eh’ egli
avesse preso sì presto
una nuova natura
c uno nuovo ingegno,
essendo stato tenuto innanzi a questo
tempo un crudele persecutore della
Plebe. Governaronsi questi
Dieci assai civilmente,
non tenendo più che
dodici littori, i quali andavano davanti
a quello ch’era infra loro
preposto. E bench’egli avessino 1’ autorità assoluta,
nondimeno avendosi a punire un
cittadino romano per
omicidio, lo citorno nel
conspelto del Popolo, e da
quello lo fecero
giudicare. Scrissero le loro
leggi in dicci
tavole, ed avanti che
le confirmassero, le
messono in pubblico,
acciocché ciascuno le potesse
leggere c disputarle; acciocché si
conoscesse se vi
era alcuno difetto, per
poterle binanti alla
confirmazionc loro emendare. Fece,
in su questo,
Appio nascere un rornorc
per Bomn, che se
a queste dieci tavole
se n’ aggiungcssiuo
due altre, si
darebbe a quelle la loro
perfezione; talché questa oppinionc dette occasione
al Popolo di
rifare i Dieci per uno
altro anno: a che
il Popolo si
accordò volentieri; si perchè i Consoli non si
rifacessino; sì perchè
speravano loro potere stare
senza Tribuni, sendo
loro giudici delle cause,
come di sopra
si disse. Preso, adunque,
partito di rifargli,
tutta la Nobiltà si
mosse a cercare questi
onori, ed intra i primi
era Appio; ed
usava tanta umanità verso
la Plebe nel
domandarla, che la cominciò
ad essere sospetta a suoi compagni: credebant cnim
liaud gratuitam in lanla
superbia comilatcmfore. E dubitando
di opporsegli apertamente, diliberarono farlo
con arte; e benché
e’ fusse minore
di tempo di
tutti, dettono a lui autorità
di proporre i futuri Dieci al
popolo, credendo eh*
egli osservasse i termini degli
altri di non proporre
sè medesimo, sendo
cosa inusitata e ignominiosa in
Roma, Me vero imprdimentum prò
occasione arripuit ; e
nominò sè intra
i primi, con meraviglia e dispiacere
di tutti i Nobili: nominò poi
nove altri al
suo proposito. La qual
nuova creazione fatta
per uu altro anno,
cominciò a mostrare al
Popolo cd alla Nobiltà
lo error suo.
Perchè subito Appio: finem
fedi ferenda aliena persona; e cominciò a mostrare la
innata sua superbia,
ed in pochi
dì riempiè di suoi
costumi i suoi compagni. E per Sbigottire
il Popolo ed
il Senato, in scambio
di dodici littori,
ne feciono cento
venti. Stette la
paura eguale qualche giorno; ma
cominciarono poi ad intrattenere
il Senato, e battere
la Plebe: e s’ alcuno battuto
dall* uno, appellava ali’ altro,
era peggio trattalo
nelP appeltagione che nella
prima causa. In modo
che la Plebe,
conosciuto lo errore suo,
cominciò piena di
afflizione a riguardare in viso i
Nobili; et inde
libcrtatis captare a urani,
linde servitutem tiinendoj in
cum s taluni rempublicam
adduxerant. E alla Nobiltà era
grata questa loro
afflizione, ut ipsij teedio
prcesenliunij Consules desiderar ent. Vennero
i di clic terminavano l’anno:
le due tavole
delle leggi erano fatte,
ma non pubblicate.
Da questo i Dicci presono
occasione di continovare
nel magistrato, c cominciorono a tenere con
violenza lo Stato,
e farsi satelliti della gioventù
nobile, alla quale davano
i beni di quelli
che loro condannavano. Quibus donis
Juventus coirumpebatur, et malebat
liccnliam suoni, i quatn omnium
liberlatcm. Nacque in
questo tempo, che i Sabini
ed i Volsci mossero guerra a’ Romani:
in su la
qual paura cominciarono i Dieci
a vedere la debolezza dello
Stato loro; perchè
senza il Senato non
potevano ordinare la
guerra, e ragunando il Senato
pareva loro perdere lo
Stato. Pure, necessitati,
presono questo ultimo partito:
e ragunali i Senatori
insieme, molti de’ Senatori parlorono contro
alla superbia de’Dieci, ed
in particolare Valerio
ed Orazio: e la autorità
loro si sarebbe
al tutto spenta, se
non che il
Senato, per invidia della
Plebe, non volle
mostrare l’autorità sua, pensando
che se i Dieci
deponevano il magistrato
voluntarii, che potesse essere che i
Tribuni della plebe non
si rifacessero. Dcliberossi
adunque la guerra; uscissi
fuori con due
eserciti guidati da parte
di detti Dieci;
APPIO rimase a governare la
città. Donde nacque che
si innamorò di
Virginia, e che volendola
torre per forza,
il padre VIRGINIO, PER LIBERARLA,
L’AMMAZZO: donde seguirono i tumulti
di Roma e degli eserciti; i quali ridottisi
insieme con il rimanente
della Plebe romana,
se ne andarono nel
Monte Sacro, dove
stettero tanto clic i Dieci
deposono il magistrato, e che furono
creali i Tribuni ed i
Consolide ridotta Roma nella
forma della antica sua
libertà. Notasi, adunque,
per questo testo, in
prima esser nato
in Roma questo
inconveniente di creare
questa tirannide, per quelle
medesime cagioni che nascono
la maggiore parte delie
tirannidi nelle città:
e questo è da troppo
desiderio del popolo
d* esser libero, e da troppo
desiderio de’ nobili di
comandare. E quando c’ non convengono a fare una
legge in favore
della libertà, ma gettasi
qualcuna delle parti a favorire uno,
allora è che subito
la tirannide surge. Convennono
il Popolo ed i Nobili
di Poma a creare
i Dieci, e crearli con
tanta autorità, per
desiderio che ciascuna delle
parti aveva, 1’
una di spegnere il
nome consolare, l’altra
il tribunizio. Creati che
furono, parendo alla Plebe
che Appio fusse
diventato popolare c battesse la
Nobiltà, si volse il
Popolo a favorirlo. E quando
un popolo si conduce
a far questo errore
di dare riputazione ad
uno perchè balta quelli
che egli ha
in odio, e che
quello uno sia savio,
sempre interverrà che
diventerà tiranno di quella
città. Perchè egli attenderà,
insieme con il
favore del popolo, a spegnere
la nobiltà; e non si volterà
inai alla oppressione
del popolo, se non
quando ei V arà
spenta; nel qual tempo
conosciutosi il popolo
essere servo, non abbi
dove rifuggire. Questo
modo hanno tenuto tutti
coloro che hanno
fondato tirannidi in le
repubbliche: c se questo modo
avesse tenuto APPIO,
quella sua tironnide arebbe
preso più vita,
e non sarebbe mancata
si presto. Ma ei
fece tutto il
contrario, nè si
potette governare più imprudentemente; cliè
per tenere la tirannide,
c’si fece inimico
di coloro che glie T
avevano data c che gliene
potevano mantenere, ed
amico di quelli che
non erano concorsi
a dargliene e che non gliene
arebbono potuta mantenere; e perdèssi
coloro che gli erano
amici, e cercò di
avere amici quelli che
non gli potevano
essere amici. Perchè, ancora che i
nobili desiderino tiranneggiare, quella parte
della nobiltà che si
truova fuori della
tirannide, è sempre inimica
al tiranno; nè
quello se la può
mai guadagnare tutta,
per l’ambizione grande e grande
avarizia che .è in
lei, non polendo
il tiranno avere
nè tante ricchezze nè
tanti onori, che a
tutta satisfaccia. E così Appio,
lasciando il Popolo ed
accostandosi a’ Nobili, fece
uno errore evidentissimo, e per
le ragioni dette di
sopra, e perchè a volere
con violenza tenere una
cosa, bisogna che sia
più potente chi
sforza, che chi è
sforzato. Donde nasce
che quelli tiranni che
hanno amico lo
universale ed mimici i grandi, sono
più sicuri; per
essere la loro violenza
sostenuta da maggior forze, che
quella di coloro
che hanno per inimico
il popolo ed
amica la nobiltà. Perchè con
quello favore bastano a conservarsi le
forze intrinseche; come bastorno
a Nabide tiranno di
Sparta, quando tutta Grecia
ed il popolo
romano lo assaltò: il quale
assicuratosi di pochi nobili,
avendo amico il
popolo, con quello si
difese; il che
non arebbe potuto
fare avendolo inimico. In
quello nitro grado per
aver pochi amici
dentro, non bastano le
forze intrinseche, ma
gli conviene cercare di
fuora. Ed hanno
ad essere di tre
sorti: 1’ una satelliti
forestieri, die li guardino
la persona; l’altra
armare il contado, che
faccia quell’ oflìzio
che arebbe a fare la
plebe; la terza
aderirsi co’ vicini potenti,
che li difendino*
Chi tiene questi modi e
gli osserva bene, ancora
ch’egli avesse per
inimico il popolo, potrebbe in
qualche modo salvarsi. Ma
APPIO non poteva far
questo di guadagnarsi il contado,
scudo una medesima cosa
il contado e Roma;
c quel che poteva fare,
non seppe: talmente
che rovinò nc’ primi
principii suoi. Fecero
il Senato ed il
Popolo in questa
creazione del decemvirato errori
grandissimi: perchè ancora
che di sopra
si dica, in
quel discorso che si
fa del Dittatore,
che quelli magistrati che si fanno
da per loro, non
quelli che fa
il popolo, sono nocivi
alla libertà; nondimeno
il popolo debbe, quando
egli ordina i magistrali, fargli in
modo che gli
abbino avere qualche rispetto a diventare
tristi. E dove e’ si debbe
proporre loro guardia
per mantenergli buoni, i Romani
lalevorono, facendolo solo magistrato
in Roma, ed annullando
tutti gli altri,
per la eccessiva voglia (come
di sopra dicemmo)
che il Senato aveva
di spegnere i Tribuni, e la Plebe
di spegnere i Consoli;
la quale gli accecò
in modo, che
concorsono in tale disordine.
Perchè gli uomini,
come diceva il re
Ferrando, spesso fanno
come certi minori uccelli
di rapina; ne’ quali è tanto
desiderio di conseguire la
loro preda, a che
la natura gli
incita, che non sentono
un altro maggior
uccello che sia loro
sopra, per ammazzargli. Conoscesi, adunque,
per questo discorso, come nel
principio proposi, lo errore
del Popolo romano,
volendo salvare la libertà; e gli errori
di APPIO, volendo occupare
la tirannide. Sahare
dalla Umilila alla superbia j dalla pietà
alta crudeltà senza debiti
mezzij è cosa imprudente ed
inutile. Oltre agli altri
termini male usati
da APPIO per mantenere
la tirannide, non fu
di poco momento
saltare troppo presto da
una qualità ad
un’altra. Perchè la astuzia
sua nello ingannare
la Plebe, simulando d’essere
uomo popolare, fu bene
usata; furono ancora
bene usati i termini
che tenue perchè
i Dieci si avessino a rifare;
fu ancora bene
usata quella audacia di
creare sè stesso
contra alla oppinione
della Nobiltà; fu bene
usato creare colleghi
a suo proposito: ma non
fu già bene
usato, come egli ebbe
fatto questo, secondo
che di sopra dico,
mutare in un
subito natura; e di amico,
mostrarsi nimico alla Plebe;
di umano, superbo;
di facile, difficile; e farlo
tanto presto, che
senza scusa veruna ogni
uomo avesse a conoscer
la fallacia dello
animo suo. Perchè chi
è paruto buono un
tempo, e vuole a suo proposito
diventar tristo, io
debbe fare per
gli debiti mezzi; ed
in modo condurvisi con
le occasioni, che
innanzi che la diversa
natura ti tolga
de’ favori vecchi, la te
ne ubbia dati
tanti degli nuovi, che
tu non venga
a diminuire la tua autorità:
altrimenti, trovandoti scoperto e senza amici,
rovini. Quanto gli uomini facilmente si
possono corrompere. Notasi ancora
in questa materia
del decemvirato, quanto facilmente
gli uomini si corrompono,
e fatinosi diventare di contraria
natura, ancora che
buoni e bene educati; considerando
quanto quella gioventù che
Appio si aveva eletta
intorno, cominciò ad
essere amica della tirannide
per uno poco
d’utilità che gliene conseguiva; e come Quinto Fabio,
uno del numero
de’ secondi Dieci, sendo uomo
oliimo, accecalo da un
poco di ambizione,
e persuas dulia malignità di
APPIO, mutò i suoi
buoni costumi in
pessimi, e diventò simile a lui.
Il che esaminato
bene, farà tanto più
pronti i legislatori delle repubbliche o de’ regni
a frenare gli appetiti umani,
c torre loro ogni
speranza di potere impune
errare. Quelli che combattono
per la gloria propria,
sono buoni e fedeli soldati. Considerasi ancora
per il soprascritto trattato, quanta
differenza è da uno esercito
contento e che combatte
per la gloria sua, a
quello che è male
disposto e che combatte per
la ambizione d’
altri. Perchè, dove gli
eserciti romani solevano sempre essere
vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri
sempre perderono. Da questo
essempio si può
conoscere parte delle cagioni
della inutilità de’ soldati mercenurii; i quali
non hanno altra
cagione clic li tenga
fermi, che un
poco di stipendio che
tu dai loro.
La qual cagione non è
nè può
essere bastante a fargli
fedeli, nè tanto
tuoi amici, che voglino
morire per le.
Perchè in quelli eserciti che
non è una affezione
verso di quello per
chi e’ combattono,
che gli facci diventare
suoi partigiani, non
mai vi potrà essere
tanta virtù che
basti a resistere ad
uno nimico un
poco virtuoso. G perchè questo
amore non può nascere,
nè questa gara,
da altro che da’ sudditi tuoi;
è necessario a volere tenere uno
stato, a volere mantenere una
repubblica o uno regno,
armarsi de’ sudditi suoi: come
si vede che
hanno fatto tutti quelli
che con gli
eserciti hanno fatti grandi
progressi. Avevano gli eserciti
romani sotto i Dieci
quella medesima virtù; ma
perchè in loro
non era quella medesima
disposizione, non facevano gli
usilati loro effetti.
Ma com prima il
magistrato de’ Dieci
fu spento, e che loro
come liberi cominciorno
amilitare, ritornò in
loro il medesimo animo; e per
conscguente, le loro
imprese avevano il loro
fine felice, secondo la
antica consuetudine loro. Una
moltitudine senza capo, è inutile:
e non si debbo
minacciare prima, c poi chiedere
l'autorità. Era la Plebe
romana per lo
accidente di Virginia ridotta
armata nel Monte Sacro.
Mandò il Senato
suoi ambasciadori a dimandare
con quale autorità egli
avevano abbandonati i loro
capitani, e ridottisi nel Monte.
E tanta era stimata l’autorità
del Senato, che
non avendo la Plebe
intra loro capi,
ninno si ardiva a rispondere.
E L. dice, ohe e’ non mancava
loro materia a rispondere, ma
mancava loro chi
facesse la risposta. La
qual cosa dimonstra
appunto la inutilità
d’ una moltitudine
senza capo. Il
qual disordinefu conosciuto da
Virginio, e per suo
ordine si creò venti
Tribuni militari, che fussero
loro capo a rispondere
e convenire col Senato. Ed avendo chiesto
che si mandasse loro
Valerio ed Orazio,
ai quali loro direbbono
la voglia loro,
non vi volsono andare
se prima i Dieci
non deponevano il magistrato:
ed arrivati sopra il
Monte dove era
la Plebe, fu domandato
loro da quella,
che volevano che si
creassero i Tribuni della
plebe, e che si avesse
ad appellare al
Popolo da ogni magistrato,
e che si dessino loro
tutti i Dieci, chè
gli volevano ardere vivi.
Laudarono Valerio cd
Orazio le prime loro
domande; biasimorono P
ultima come impia,
dicendo: Crude litatcm dannatisj
in crudclitaiem ruitis ; e consigliamogli che
dovessino lasciare il fare
menzione de’ Dieci, e ch’egli
attendessino a pigliare V autorità
e potestà loro: dipoi non
mancherebbe loro modo a satisfarsi.
Dove apertamente si conosce
quanta stultizia c poca
prudenza è domandare una cosa,
e dire prima: io voglio
far male con
essa; perchè non si
debbo mostrare l’animo suo,
ma vuoisi cercare
d’ottenere quel suo desiderio
in ogni modo.
Perchè e’ basta a dimandare
a uno le armi, senza
dire: io ti
voglio ammazzare con esse;
potendo poi che
tu bai l’arme
in mano, satisfare allo
appetito tuo. E cosa di
malo esempio | non osservare
una legge falla, c massime dallo
autore d'essa: e rinfre scare ogni
di nuove ingiurie
in una t città, è a chi
la governa dannosisi simo. Seguito lo
accordo, e ridotta Roma
in la antica sua
forma, Virginio citò
Appio innanzi al Popolo
a difendere la sua causa.
Quello comparse accompagnato da molti
Nobili. Virginio comandò
che fussc messo in
prigione. Cominciò Appio a gridare, ed
appellare al Popolo.
Virginio diceva che non
era degno di
avere quella nppellagionc che
egli aveva distrutta, ed
avere per difensore
quel Popolo che egli
aveva offeso. Appio
replicava, come e’ non
aveano a violare quella appellagionc
ch'egli avevano con tanto
desiderio ordinata. Pertanto
egli fu INCARCERATO ED AVANTI AL
DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E benché
la scellerata vita di
Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno
fu cosa poco
civile violare le leggi,
e tanto più quella
che era fatta allora.
Perchè io non
credo che sia cosa
di più cattivo
esempio in una repubblica,
che fare una
legge e non la
osservare; e tanto più,
quanto la non è osservata
da chi l’ ha
falla. Essendo Firenze stala
riordinala nel suo
stato con l'aiuto
di frate Girolamo Savonarola,
gli scritti del quale
mostrano la dottrina,
la prudenza, la virtù
dello animo suo; ed avendo intra
P altre conslituzioni per assicurare i cittadini,
fatto fare una legge,
che si potesse
appellare al popolo dalle
sentenze che, per
caso di Stato, gli
Otto c la Signoria
dessino; la qual legge
persuase più tempo,
e con difficoltà grandissima ottenne:
occorse che, poco dopo
la confirmazicne d’essa,
furono condcunati a morte dalla
Signoria per conto di
Stato cinque cittadini;
e volendo quelli appellare,
non furono lasciati, e non
fu osservata la
legge. Il che tolse
più riputazione a quel
frate, che nessun altro
accidente: perchè, se quella
appellagione era utile,
ei doveva farla osservare;
s’ ella non era
utile, non doveva farla
vincere. E tanto più fu
notato questo accidente,
quanto che il frate
in tante predicazioni
che fece poi clic
fu rotta questa
legge, non mai o dannò
chi P aveva rotta,
o lo scusò; come quello
che dannare non
voleva, come cosa che
gli tornava a proposito; e scusare non
la poteva. Il che avendo scoperto l’animo
suo ambizioso e paitigiano,
gii tolse riputazione,
e dettegli assai carico. Offende
ancora uno Stato assai,
rinfrescare ogni dì
nello animo de’ tuoi
cittadini nuovi umori,
per nuove ingiurie ebe a
questo e quello si fucciano: come intervenne
a Roma dopo il decemvirato.
Perché tutti i Dieci,
ed altri cittadini, in
diversi tempi furono accusati e condannati:
in modo che
gli era uno spavento
grandissimo in tutta la
Nobiltà, giudicando che e’
non si
avesse mai a porre fine a
simili condennagioni, fino a
tanto che tutta
la Nobiltà non fusse
distrutta. Ed arebbe
generato in quella città
grande inconveniente, se da
Marco Duellio tribuno
non vi fusse stato
provveduto; il qual
fece uno editto, che
per uno anno
non fusse lecito ad
alcuno citare o accusare
alcuno cittadino contano: il che
rassicurò tutta la Nobiltà.
Dove si vede
quanto sia dannoso ad
una repubblica o ad
un principe, tenere con
le continove pene
ed offese sospesi e paurosi
gli animi dei sudditi.
E senza dubbio, non
si può tenere il
più pernicioso ordine:
perchè gli uomini che
cominciano a dubitare di avere
a capitar male, in
ogni modo si assicurano
ne’ pericoli, e diventano più audaci,
e meno rispettivi a tentare
cose nuove. Però è necessario,
o non offendere mai alcuno,
o fare le offese
ad un tratto; e dipoi
rassicurare gli uomini, e dare loro
cagione di quietare
e fermare l’animo. Gli uomini salgono
da una ambizione ad unJ altra; c prima si cerca
non essere offeso t dipoi di offendere
altrui. Avendo il Popolo
romano ricuperala la libertà,
ritornato nel suo
primo grado, ed in
tanto maggiore, quanto
si erano fatte dimolte
leggi nuove In
corroborazione della sua potenza; pareva ragionevole che
Roma qualche volta
quictasse. Nondimeno, per
esperienza si vide il
contrario; perchè ogni
di vi surgeva nuovi
tumulti e nuove discordie.
E perchè Tito Livio prudentissimamente rende la
ragione donde questo
nasceva, non mi pare
se non a proposito
riferire appunto le sue
parole, dove dice
che sempre o il Popolo
o la Nobiltà insuperbiva, quanto V altro
si umiliava; e stando la Plebe
quieta intra i termini
suoi, cominciarono i giovani nobili
ad ingiuriarla ; ed i Tribuni
vi potevano farepochi
rimedi, perchè ancora
loro erano violati. La
Nobiltà, dalP altra
parte, ancora che gli
paresse che la
sua gioventù fusse troppo
feroce, nondimeno aveva
a caro che avendosi
a trapassare il modo, lo
trapassassino i suoi, e non
la Plebe. E cosi il
desiderio di difendere
la libertà faceva che
ciascuno tanto si
prevaleva, eh’ egli oppressava
l’ altro. E V ordine di questi
accidenti è, che
mentre clic gli uomini
cercano di non
temere, cominciano a far temere
altrui; e quell ingiuria ch’egli
scacciano da loro,
la pongono sopra un
altro: come se
fussc necessario offendere, o essere
offeso. Vedesi, per
questo, in quale
modo, fra gli altri,
le repubbliche si
risolvono; e in che modo
gli uomini salgono
da una ambizione ad
un’ altra; e come quella sentenza salustiaua
posta in bocca
di Cesare, è verissima: quod omnia
mala exempla bonis mitiis
orla sunt. Cercano, come
di sopra è detto,
quelli cittadini clie ambiziosamente vivono
in una repubblica, la
prima cosa di
non potere essere offesi,
non solamente dai
privati, ma eziam da’
magistrali: cercano, per
potere fare questo,
amicizie; e quelle acquistano
per vie in
apparenza oneste, o con sovvenire
di danari, o con
difendergli da’ potenti: e
perchè questo pare virtuoso, s’ inganna
facilmente ciascuno, c per questo
non vi si
pone rimedio; intanto che
egli senza ostacolo
perseverando, diventa di qualità,
che i privati cittadini ne
hanno paura, ed i
magistrati gli hanno rispetto.
E quando egli è saJito
a questo grado, c non
si sia prima ovvialo
alla sua grandezza,
viene od essere in
termine, che volerlo
urtare è pericolosissimo, per
le ragioni che io
dissi di
sopra del pericolo
che è nello urtare uno
inconveniente che abbi
di già fatto augumento
in una città:
tanto che la cosa
si riduce in termine, che
bisogna o cercare di
spegnerlo con pericolo
di una subita rovina
j o lasciandolo fare, entrare in
una servitù manifesta,
se morte o qualche accidente non
te ne libera.
Perchè, venuto a’soprascrilti termini,
che i cittadini ed i magistrati
abbino paura ad
offender lui e gli amici
suoi, non dura
dipoi molta fatica a fare
che giudichino ed
offendino a suo modo.
Donde una repubblica intra gli
ordini suoi debbe
avere questo, di vegghiarc
che i suoi cittadini
sotto ombra di bene
non possino far
male; e di’ egli abbino
quella riputazione che giovi,
e non nuoca, alla
libertà: come nel suo
luogo da noi
sarà disputato. Gli
nomini j ancora clic si ingannino
ncJ generali j nei particolari non si
ingannano. Essendosi il Popolo
romano, come di sopra
si dice, recato
a noia il nome consolare, e volendo
che potessiao esser fatti
Consoli uomini plebei,
o che fusse limitata la
loro autorità; la Nobiltà,
per non deonestare l’ autorità
consolare nè con Tuna
nè con 1’
altra cosa, prese
una via di mezzo,
e fu contenta che
si creassino quattro
Tribuni con potestà
consolare, i quali potcssino
essere cosi plebei come
nobili. Fu contenta
a questo la Plebe, parendogli
spegnere il consolato, ed
avere in questo
sommo grado la
parte sua. Nacquene di
questo un caso
notabile: che venendosi alla
creazione di questi Tribuni,
e potendosi creare tutti plebei,
furono dal Popolo
romano creati tutti fiobiii.
Onde L. dice
queste parole: Quorum comitiorum
eoenlus docuit, alias
animo s in contcntione l ib erta ti
s et honoris, alios
secundum deposita certamina in
incorrupto judicio esse. Ed
esaminando donde possa
procedere questo, credo proceda
che gii uomini nelle
cose generali s’ ingannano assai, nelle
particolari non tanto.
Pareva generalmente alla Plebe
romana di meritare il
consolato, per avere
più parte in la città, per
portare più pericolo
nelle guerre, per esser
quella che con
le braccia sue manteneva
Roma libera, e la
faceva potente. E
parendogli, come è detto, questo suo
desiderio ragionevole, volse ottenere questa
autorità in ogni
modo. Ma come la
ebbe a fare giudizio
degli uomini suoi particolarmente, conobbe
la debolezza di quelli,
e giudicò che nessuno di
loro meritasse quello
che tutta insieme gli
pareva meritare. Talché
vergognatasi di loro, ricorse
a quelli che Io meritavano. Della
quale deliberazione
meravigliandosi meritamente L., dice
queste parole: /lane modestiam, aquila IcmquCj et
allitudinem animi, ubi moie
in uno inveneris, qua: lune
populi universi fuit ? In
corroborazione di questo, se
ne può addurre
un altro notabile essempio, seguito
in Capova da
poi che Annibaie ebbe
rotti i Romania Canne; per
la qual rotta
sendo tutta sollevata Italia, Capova
stava ancora per
tumultuare, per P odio eli’
era intra il
Popolo ed il Senato;
e trovandosi in quel
tempo nel supremo magistrato
Pacuvio Calano, e conoscendo il
pericolo che portava quella città
di tumultuare, disegnò
con suo grado riconciliare
la Plebe con la
Nobiltà; e fatto questo pensiero,
fece ragunare il Senato,
c narrò loro Podio che
M popolo aveva contra
di loro, ed i
pericoli che portavano
di essere ammazzati da
quello, e data la
città ad Annibaie, sendo le
cose de’ Romani
afflitte: dipoi soggiunse, che
se volevano lasciaregovernare questa
cosa a lui, farebbe
in modo che si
unirebbono insieme; ma gli voleva
serrare dentro al
palazzo, e co fare potestà
al popolo di
potergli gastigare, salvargli.
Cederono a questa sua oppinione
i Senatori, e quello chiamò
il Popolo a coocione, avendo
rinchiuso in palazzo il
Senato; e disse com’ egli
era venuto il tempo
di potere domare
la superbia della
Nobiltà, e vendicarsi delle ingiurie ricevute
da quella, avendogli rinchiusi tutti
sotto la sua
custodia: ma perchè credeva che
loro non volessino che
la loro città
rimanesse senza governo, era
necessario, volendo ammazzare i Senatori vecchi,
crearne de* nuovi. E per
tanto aveva messo
tutti gli nomi degli
Senatori in una
borsa, e comincierebbe a
trargli in loro
presenza j ed egli farebbe
i tratti di mano
in mano morire, come
prima loro avessino
trovato il successore. E cominciato
a trarne uno, fu al
nome di quello
levato un rumore grandissimo, chiamandolo
uomo superbo, crudele ed
arrogante: e chiedendo Paeuvio che facessino
lo scambio, si racchetò
tutta la conclone; c dopo alquanto spazio,
fu nominato uno
della plebe; al nome del
quale chi cominciò a fischiare, chi a
ridere, chi a dirne male
in uno modo,
e chi in un
altro: o così seguitando di
mano in mano,
tutti quelli che furono
nominati, gli giudicavano indegni del
grado senatorio. In modo
che Pacuvio, presa
sopra questo occasione, disse:
Poiché voi giudicate
che qucslu città stia
male senza Senato,
ed a fare gii scambi
a’ Senatori vecchi
non vi accordate, io
penso che sia
bene che voi vi
riconciliate insieme; perchè questa paura
in la quale
i Senatori sono stati, gli
arà fatti in
modo raumiliare, che quella
umanità che voi
cercavate altrove, troverete in
loro. Ed accordatisi a questo, ne
segui la unione
di questo ordine; e quello inganno
in che egli erano
si scoperse, come
e’ furono constretti venire a’
particolari. Ingannansi,
olirà di
questo, i popoli generalmente nel giudicare
le cose e gli
accidenti di esse j le
quali dipoi si
conoscono particolamento, si
avveggono di tale
inganno. Sendo stati i principi della città
cacciati da Firenze,
e non vi essendo alcuno
governo ordinato, ma piuttosto
una certa licenza
ambiziosa, ed andando le
cose pubbliche di
inale in peggio; molti popolari
veggiendo la rovina della
città, e non ne
intendendo altra cagione, ne
accusavano la ambizione di
qualche potente che
nutrisse i disordini, per poter
fare uno Stato
a suo proposito, c torre loro
la libertà: c stavano questi tali
per le logge
c per le piazze, dicendo male
di molti cittadini,
e minacciandoli che se mai si trovassero
de’ Signori, scoprirebbono
questo loro inganno, e gli gastigarebbono. Occorreva spesso che
de’ simili ne
ascendeva al supremo magistrato;
e come egli era salilo
in quel luogo,
e che e* vedeva
le i cose più
dappresso, conosceva i disordini donde nascevano,
ed i pericoli che soprastavano, e la
difficoltà del rimecitarvi.
C veduto come i tempi,
e no gli uomini, causavano
il disordine, diventava subito d’ un
altro animo, c di un’
altra fatta; perché la
cognizione delle cose particolari
gli toglieva via
quello inganno che nel
considerare generalmente si aveva
presupposto. Dimodoché, quelli che
lo avevano prima,
quando era privato, sentito parlare,
e vedutolo poi nel supremo
magistrato stare quieto,
credevano che nascesse, non
per più vera
cognizione delle cose, ma
perchè fusse stalo aggirato e corrotto
dai grandi. Ed
accadendo questo a molti uomini
c molte volte, ne nacque
tra loro un
proverbio, che diceva:
Costoro hanno uno
animo in piazza, cd
uno in palazzo.
Considerando, dunque, tutto quello
si è discorso, si vede
come e’ si
può fare tosto aprire
gli occhi a’
popoli, trovando modo, veggendo che
uno generale gl’
inganna, ch’egli abbino a descenderc
ai particolari; come fece Pacuvio
in Capova, ed
il Senato in
Roma. Credo ancora, che
si possa conchiudere,
che mai un uomo
prudente non debbe
fuggire il giudizio popolare
nelle eo9e particolari, circa le
distribuzioni de' gradi e delle dignità: perchè solo
in questo il
popolo non si inganna; e se
si inganna qualche volta, Ha sì raro,
che s’ inganneranno più volte
i pochi uomini che
avessino a fare simili
distribuzioni. Nè mi
pare superfluo mostrare nel
seguente capitolo, P ordine che
teneva il Senato
per isgannare il
popolo nelle distribuzioni
sue. Chi vuole che
uno magistrato non sia
dato ad un
vile o ad un tristo j lo
facci domandare o ad un
troppo vile e troppo
tristo, o ad uno troppo nobile
c troppo buono. Quando il
Senato dubitava che i
Tribuni con potestà consolare
non fussino fatti d’
uomini plebei, teneva
uno de’duoi modi: o egli
faceva domandare ai più
riputati uomini di
Roma;o veramente, per i debiti
mezzi, corrompeva qualche plebcio sordido
ed ignobilissimo, che
mescolati con i plebei che,
di miglior qualità, per
T ordinario lo domandavano, anche loro
lo domandassino. Questo
ultimo modo faceva che
la Plebe si
vergognava a darlo; quel
primo faceva che la
si vergognava a torlo,
li che tutto
torna a proposito del precedente
discorso, dove si mostra
che il popolo
se s’ inganna de’ generali,
de’particolari non s’inganna. Se
quelle città che
hanno avuto il principio
libcrOj come Romaj hanno
diffìcultà a trovare leggi
che le mantenghino ; quelle che
lo hanno immediate servo, ne
hanno quasi una impossibilità. Quanto sia
difficile, nello ordinare
una repubblica, provvedere
a tutte quelle leggi che
la mantenghino libera,
lo dimostra assai bene
il processo della
Repubblica romana: dove non
ostante che fussino ordinate
di molte leggi
da ROMOLO prima,
dipoi da Nuraa,
da Tulio Ostilio e Servio,
ed ultimamente dai dieci
cittadini creali a simile
opera; nondimeno sempre nel maneggiare
quella città si scoprivano
nuove necessità, ed era
necessario creare nuovi
ordini: come intervenne quando
crearono i Censori, i quali furono
uno di quelli
provvedimenti che aiutarono tenere
Roma libera, quel tempo
che la visse
in libertà. Perchè, diventati
arbitri de’ costumi di Roma,
furono cagione potissima
che i Romani diflerissino
più a corrompersi. Feciono bene
nel principio della
creazione di tal magistrato
uno errore, creando quello per
cinque anni; ma,
dipoi non molto tempo,
fu corretto dalla
prudenza di Mamereo dittatore,
il qual per nuova
legge ridusse detto
magistrato a diciolto mesi.
Il che i Censori
che vegghiavano, ebbono
tanto per male,
che privorno Mamcrco del
senato: la qual cosa
e dalla Plebe c dai
Padri fu assai biasimata. perchè
la istoria non
ino*stra che Mamerco
se ne potesse
difendere, conviene o che lo
istorico sia difettivo, o gli ordini
di Roma in
questa parte non buoni: perchè
non è bene che una
repubblica sia in
modo ordinata, ebe un
cittadino per promulgare
una legge conforme al
vivere libero, ne
possa essere senza alcuno
rimedio offeso. Ma tornando
al principio di
questo discorso, dico che
si dehbe, per
la creazione di questo
nuovo magistrato, considerare, che se quelle città
che hanno avuto
il principio loro libero,
e che per se
medesimo si è retto, come
Roma, hanno difHcultà grande
a trovar leggi buone per
mantenerle libere; non è meraviglia che quelle
città che hanno
avuto il principio loro
immediate servo, abbino, non
che dilfìcultà, ma
impossibilità ad. ordinarsi mai
in modo che
le possino vivere civilmente
e quietamente. Come si vede
che è intervenuto alla
città di Firenze; la
quale, per avere
avuto il principio suo
sottoposto allo imperio
romano, ed essendo
vivuta sempre sotto governo
d* altri, stette un
tempo soggetta, e senza pensare
a sè medesima: dipoi, venuta
la occasione di
respirare, cominciò a fare suoi
ordini; i quali sendo mescolati con
gli antichi, che
erano tristi, non poterono
essere buoni: e così è ita
maneggiandosi per dugento
anni che si lia
di vera memoria,
senza avere mai avuto
stato per il
quale ella possa veramente essere
chiamata repubblica. E
queste diflicultà che sono
state in lei, sono
state sempre in
tutte quelle città che
hanno avuto i principii
simili a lei. E benché molte
volte, per suffragi
pubblici e liberi, si sia
dato ampia autorità a pochi cittadini
di potere riformarla; non pertanto
mai l’ hanno ordinata
a comune utilità, ma
sempre a proposito della parte
loro: il che ha
fatto non ordine, ma
maggiore disordine in
quella città. E per venire
a qualche essempio
particolare, dico come
intra le altre
cose che si hanno
a considerare da uno
ordinatore d’ una
repubblica, è esaminare nelle mani
di quali uomini
ci ponga 1’ autorità
del sangue coutra
de’ suoi cittadini. Questo
era bene ordinato
in Roma, perchè e’
si poteva appellare
al Popolo ordinariamente: e
se pure
fussc occorsa cosa importante,
dove il differire la
esecuzione mediante la
appellagione fusse
pericoloso, avevano il
refugio del Dittatore, il
quale eseguiva immediate; al
qual rimedio non rifuggivano
mai, se non per
necessità. Ma Firenze,
c Y altre città nate nel
modo di lei,
sendo serve, avevano questa
autorità collocata in un
forestiero, il quale
mandato dal principe faceva tale
uffizio. Quando dipoi
vennono in libertà,
mantennero questa autorità in
un forestiero, il
quale chiamavano Capitano: il
che, per potere
essere facilmente corrotto da’
cittadini potenti, era cosa
perniciosissima. Ma dipoi,
murandosi per la mutazione
degli Stati questo ordine, creorno
otto cittadini che
facessino V uffizio di
quel Capitano. Il
quale ordine, di cattivo,
diventò pessimo, per le
cagioni che altre
volte sono dette: che
i pochi furono sempre
ministri dc’poehi, e de*
più potenti. Da
che si è guardata la
città di Vinegia;
la quale ha dieci
cittadini, che senza
appello possono punire ogni
cittadino. E perchè e* non
basterebbono a punire i potenti,
ancora die ne nvessino
autorità, vi hanno
constituito le Quarnntie:
c di più, hanno voluto
che il Consiglio
de’ Pregai, elicè il Consiglio
maggiore, possa gastigargli; In modo
che non vi
mancando lo accusatore, non vi
manca il giudice
a tener gli uomini potenti
a freno. Non è dunque meraviglia, reggendo
come in Roma, ordinata da
sè medesima e da
tanti uomini prudenti, surgevano
ogni di nuove cagioni
per le quali
si aveva a fare
nuovi ordini in
favore del viver
libero j se nelle altre
città che hanno più
disordinalo principio, vi
surgono tuli difficoltà, che
le non si
possino riordinar mai. L. — iVon
dcbbc uno consiglio
o uno magistrato potere
fermare le azioni della
città. tirano consoli in
Roma Tito Quinzio Cincinnato c Gneo
Giulio Mento, i quali sendo
disuniti, avevano ferme
tutte le azioni di
quella Repubblica. 11
che veggcndo il
Senato, gli confortava
a creare il Dittatore, per
fare quello che
per le discordie loro
non poteva fare. Ma i
Consoli discordando in ogni
altra cosa, solo in
questo erano d’accordo,
di non voler creare
il Dittatore. Tanto
che il Senato, non
avendo altro rimedio,
ricorse allo aiuto de’ Tribuni;
i quali, con l’autorità del Senato,
sforzarono i Consoli ad
ubbidire. Dove si ba a
notare, in prima, la
utilità del tribunato;
il quale non
era solo utile a frenare
l’ ambizione che i potenti
usavano contra alla
Plebe, ma quella ancora
ch’egli usavano infra
loro: 1’ altra, che
mai si debba
ordinare in una città,
che i pochi possino
tenere alcuna deliberazione di
quelle che ordinariamente sono necessarie
a mantenere la repubblica. Yerbigrazia,
se tu dai
una autorità nd uno
consiglio di fare
una distribuzione di onori
c di utile, o ad uno
magistrato di amministrare
una faccenda; conviene o imporgli
una necessità perchè ei l’
abbia a fare in
ogni modo; o ordinare, quando
non la voglia fare
egli, che la
possa e debba fare
un altro: altrimenti, questo
ordine sarebbe difettivo e pericoloso;
come si vedeva che
era in Roma,
se alla ostinazione
di quelli Consoli non
si poteva opporre P autorità de’ Tribuni.
Nella Repubblica veneziana il
Consiglio grande distribuisce gli onori
e gli utili. Occorreva
alle volte che P universalità, per
isdegno o per qualche
falsa suggestione, non
creava i successori ai magistrati
della città, ed a quelli
che fuori amministravano lo imperio
loro. Il che
era disordine grandissimo: perchè in
un tratto, e le
terre suddite e la città
propria mancavano de’ suoi legittimi
giudici; nè si
poteva ottenere cosa alcuna,
se quella universalità
di quel Consiglio
non si satisfaceva, o non s’ingannava.
Ed avrebbe ridotta questo
inconveniente quella città a mal
termine, se dagli
cittadini prudenti non vi
si fusse provveduto:
i quali, presa occasione conveniente,
fecero una legge, che
tutti i magistrati che
sono o fussino dentro
e fuori della città,
mai vacassero, se non
quando fussino fatti gli
scambi e i successori loro.
E cosi si tolse la
comodità a quel Consiglio
di potere, con pericolo
della repubblica, fermare le
azioni pubbliche. LI. Una
repubblica o uno principe debbe mostrare
di fare per
liberalità quello a che la
necessità lo consiringe. Gli uomini
prudenti si fanno
grado sempre delle cose,
in ogni loro
azione, ancora che la
necessità gli constringesse a farle in
ogni modo. Questa
prudenza fu usata bene
dal Senato romano,
quando ei deliberò che
si desse lo
stipendio del pubblico agli
uomini che militavano, essendo consueti
militare del loro
proprio. Ma veggendo il
Senato come in quel
modo non si
poteva fare lungamente guerra, e per
questo non potendo nè
assediare terre, uè
condurre gli eserciti discosto; e giudicando
essere necessario potere fare
1* uno e 1’
altro; deliberò che si dessino
detti stipendi; ina lo
feciono in modo,
che si fecero
grado di quello a che
la necessità gli
constringeva; e fu tanto accetto
alla Plebe questo presente, che
Roma andò «sottosopra per la
allegrezza, parendole uno
benefizio grande, quale mai
speravano di avere, e quale
mai per loro
medesimi arebbono cerco. E benché
i Tribuni s* ingegnassero di cancellare
questo grado, mostrando come
ella era cosa
che aggravava, non alleggeriva,
la Plebe, scodo necessario porre
i tributi per pagare questo
stipendio; nientedimeno non potevano fare
tanto che la
Plebe non lo avesse
accetto: il che
fu ancora augumentalo
dal Senato per
il modo che
distribuivano i tributi;
perchè i più gravi ed
i maggiori furono quelli
chVposono alla Nobiltà, e gli
primi che furono
pagati. LII. — A reprimere
la insolenza di uno
che surga in
una repubblica potente, non
vi c più securo
e meno scandaloso modo, che preoccuparli
quelle vie per le
quali e* viene
a quella potenza. Yedesi per
il soprascritto discorso, quanto credito
acquistasse la Nobiltà
con la Plebe per
le dimostrazioni fatte
in benefizio suo, sì del stipendio
ordinato, si ancora del
modo del porre
i tributi. Nel quale ordine
se la Nobiltà
si fosse mantenuta, si
sarebbe levato via
ogni tumulto in quella
città, e sarebbesi tolto ai
Tribuni quel credito
che egli avevano con
la Plebe, e, per conseguente,
quella autorità. E
veramente, non si
può in una repubblica,
e massime in quelle
che sono corrotte, con
miglior modo, meno scandaloso e più
facile, opporsi alla
ambizione di alcuno cittadino,
che preoccuparli quelle vie,
per le quali
si vede che esso
cammina per arrivare
al grado che disegna,
li qual modo
se fusse stalo usato
contra Cosimo de’ Medici,
sarebbe stato miglior partito
assai per gli
suoi avversari, che cacciarlo
da Firenze: perchè, se
quelli cittadini che
gareggiavano seco, avessino preso
lo stile suo
di favorire il popolo,
gli venivano senza
tumulto e senza violenza a trarre
di mano quelle arme
di che egli
si valeva più. SODERINI si aveva
fatto riputazione nella città
di Firenze con
questo solo, di favorire
l’universale: il che
nello universale gli dava
riputazione, come amatore della
libertà della città.
E veramente, a quelli
cittadini che portavano
invidia alla grandezza sua,
era molto più
facile ed era cosa
molto più onesta,
meno pericolosa, e meno dannosa
per la repubblica, preoccupargli quelle
vie con le quali
si faceva grande,
che volere contrapporsegli, acciocché
con la rovina
sua rovinasse tutto il
resto della repubblica: perchè, se
gli avessero levate
di mano quelle armi
con le quali
si faceva gagliardo (il
che potevano fare
facilmente), arebbono potuto in
lutti i consigli, e in tutte
le deliberazioni pubbliche,
opporsegli senza sospetto,
e senza rispetto alcuno. E se
alcuno replicasse, che
se i cittadini che
odiavano Piero, feciono
errore a non gli preoccupare
le vie con le
quali ei si
guadagnava riputazione nel popolo,
Piero ancora venne
a fare errore, a non preoccupare
quelle vie per le
quali quelli suoi
avversari lo facevano temere; di’ che
Piero merita scusa,
si perchè gli era
difficile il farlo,
sì perchè le non
erano oneste a lui: imperocché le vie
con le quali
era offeso, ciano il
favorire i Medici; con
li quali favori essi
io battevano, e alla
fine !o rovinorno. Non
poteva, pertanto, Piero onestamente pigliare
questa parte, per non
potere distruggere con
buona fama quella libertà
alla quale egli
era stato preposto a guardia: dipoi, non
potendo questi favori farsi
segreti e ad uno
tratto, erano per Piero
pericolosissimi; perchè
comunelle ei si
fusse scoperto amico de’ Medici, sarebbe
diventato sospetto ed odioso
al popolo; donde
ai nimici suoi nasceva
molto più comodità
di opprimerlo, che non
avevano prima. Debbono, pertanto, gli
uomini in ogni
partito considerare i
difetti ed i pericoli
di quello, e non gli
prendere, quando vi
sia più del pericoloso
che dell’ utile; nonostante che ne
fusse stata data
sentenza conforme alla deliberazion
loro. Perchè, facendo altrimenti, in
questo caso interverrebbe a quelli come
intervenne a Tullio; il
quale volendo torre
i favori a Marc’ Antonio,
gliene accrebbe. Perchè, sondo
Marc’ Antonio stato giudicalo
inimico del Senato, ed
avendo quello grande esercito insieme
adunato, in buona
parte, dei soldati che
avevano seguitato la
parte di Cesare; Tullio,
per torgli questi
soldati, confortò il Senato
a dare riputazione ad Ottaviano,
e mandarlo con lo esercito
e con i Consoli contra
a Marc' Antonio: allegando, che subito
che i soldati che seguitavano
Marc’ Antonio, scntissino
il nome di
Ottaviano nipote di Cesare,
e che si faceva
chiamar Cesare, lascerebbono quello,
c si aceosterebbono a costui; e
così restato Marc’
Antouio ignudo di favori,
sarebbe facile lo
opprimerlo. La qual cosa
riuscì tutta al
contrario; perchè Marc’
Antonio si guadagnò Ottaviano; e lasciato
Tullio ed il
Senato, si accostò a lui.
La qual cosa
fu al tutto la
destruzione della parte
degli Ottimati. 11 che
era facile a conietturare: nè si
doveva credere quel
che si persuase
Tullio, ma tener sempre
conto di quel
nome che con tanto
gloria aveva spenti
i nimici suoi, ed
acquistatosi il principato in
Roma; nè si
dovea credere mai
potere, o da suoi eredi
o da suoi fautori,
avere cosa che fusse
conforme al nome
libero. LUI. — Il popolo
molte volte desidera la
rovina sua j ingannato da una
falsa spezie di
bene: e come le grandi speranze e gagliarde
promesse facilmente lo muovono. Espugnata che
fu la città
de’ Veienti, entrò nel
Popolo romano una
oppinione, che fusse cosa
utile per la
città di Roma,
che la metà
de’ Romani andasse
ad abitare a Veio;
argomentando che, per essere
quella città ricca
di contado, piena di
edifizii e propinqua a Roma,
si poteva arricchire la
metà de’ cittadini romani, e non
turbare per la
propinquità del sito nessuna
azione civile. La qual
cosa parve al
Senato ed a’
più savi Romani tanto
inutile e tanto dannosa, che
liberamente dicevano, essere
piuttosto per patire
la morte, che
consentire ad una tale
deliberazione. In modo che,
venendo questa cosa
in disputa, si accese
tanto la Plebe
contra al Senato, che
si sarebbe venuto
alle armi cd al
sangue, se il
Senato non si
fusse fatto scudo di
alcuni vecchi e stimati
cittadini ; la riverenza dc’quali
frenò la Plebe, che
la non procede
più avanti con la
sua insolenza. Qui
si hanno a notare due
cose. La prima,
che ’l popolo
molte volte, ingannato da
una falsa immagine di
bene, desidera la
rovina sua; e se non gli è
fatto capace, come
quello sia male, e quale
sia il bene,
da alcuno in chi
esso abbia fede,
si pone in
le repubbliche infiniti pericoli
c danni. E quando la
sorte fu che
il popolo non abbi
fede in alcuno,
come qualche volta occorre, sendo
stato ingannato per lo
addietro o dalle cose o
dagli uomini; si viene
alla rovina di
necessità. Ed ALIGHIERI (si veda)
dice a questo proposito,
nel discorso suo che
fa De Monarchia > che il
popolo molte volte
grida viva la
sua morie j C muoia la sua
vita. Da questa
incredulità nasce, che qualche
volta in le
repubbliche i buoni partiti
non si pigliano: come di sopra
si disse de’
Veneziani, quando assaltati da
tanti inimici non
poterono prendere partito di
guadagnarsene alcuno con la
restituzione delle cose
tolte ad altri (per
le quali era
mosso loro la 'guerra,
e fatta la congiura
de’ principi loro contro),
avanti che la
rovina venisse. Pertanto, considerando
quello che è facile o quello
che è diffìcile persuadere ad
un popolo, si può fare
questa distinzione: o quel che tu hai a
persuadere rappresenta in prima
fronte guadagno, o perdita; o
veramente pare partito animoso,
o vile: e quando nelle cose
che si mettono
innanzi ai popolo, si
vede guadagno, ancora
che vi sia
nascosto sotto perdila; e quando
e* paia animoso, ancora che
vi sia nascosto
sotto la rovina della
repubblica, sempre sarà facile
persuaderlo alla moltitudine:
e così fia sempre
difficile persuadere quelli partiti dove
apparisce o viltà o perdita, ancoraché vi
fusse nascosto sotto
salute e guadagno. Questo che
io ho detto,
si conferma con infiniti
esempi, romani e forestieri,
moderni ed antichi.
Perchè da questo nacque
la malvagia opinione
che surse in Roma
di Fabio Massimo,
il quale non poteva
persuadere al Popolo
romano, che fusse utile
a quella Repubblica
procedere lentamente in
quella guerra, e sostenere senza
azzuffarsi V impeto di Annibaie;
perchè quel Popolo
giudicava questo partito vile,
c non vi vedeva
dentro quella utilità vi era;
nè Fabio
aveva ragioni bastanti a dimostrarla
loro: c tanto sono i
popoli accecati in
queste oppinioni gagliarde, che
benché il Popolo romano
avesse fatto quello
errore di dare autorità
al Maestro de’ cavalli
di Fabio di potersi
azzuffare, ancora che Fabio
non volesse; e che
per tale autorità il
campo romano fusse
per esser rotto, se
Fabio con la
sua prudenza non vi
rimediava; non gli
bastò questa esperienza, che fece
dipoi consolo VARRONE (si veda), non per
altri suoi meriti
che per avere, per
tutte le piazze
e tutti i luoghi pubblici di
Roma, promesso di
rompere Annibaie, qualunque volta
gliene fusse data autorità. Di
che ne nacque
la zuffa e rotta
di Canne, e presso
che la rovina di
Roma. Io voglio
addurre a questo proposito ancora
uno altro essempio
romano. Era stato Annibaie
in Italia otto o dieci
anni, aveva ripieno
di occhione de’ Romani
tutta questa provincia, quando venne
in Senato Marco
Centenio Penula, uomo vilissimo
(nondimanco aveva avuto qualche
grado nella milizia), ed
offersegli, che se
gli davano autorità di
potere fare esercito
di uomini volutitari
in qualunque luogo
volesse in Italia, ei
darebbe loro, in
brevissimo tempo, preso o morto
Annibaie. Al Senato
parve la domanda di
costui temeraria; nondimeno ei
pensando che s’ ella
se gli negasse, e nel
popolo si fusse
dipoi sapula la
sua chiesta, che
non ne nascesse qualche tumulto,
invidia e mal grado
contro all’ordine senatorio, gliene
concessono: volendo più tosto
mettere a pericolo tutti coloro
che lo seguitassino,
che fare surgere nuovi
sdegni nel Popolo;
sappiendo quanto simile
partito fusse per essere
accetto, e quanto fusse
difficile il dissuaderlo. Andò,
adunque, costui con una
moltitudine inordinata ed
incomposita a trovare Annibaie;
e non gli fu prima
giunto all* incontro,
che fu con tutti
quelli che lo
seguitavano rotto e morto. In
Grecia, nella città
di Atene, non potette
mai Nicia, uomo
gravissimo e prudentissimo,
persuadere a quel popolo, che
non fusse bene
andare ad assaltare Sicilia: talché,
presa quella deliberazione contra alla
voglia de’ savi, ne
seguì al tutto
la rovina di
Atene. Scipione quando fu
fatto consolo, e che desiderava la provincia di
Affrica, promettendo al tutto
la rovina di
Cartagine; a che non si
accordando il Senato per
la sentenza di
Fabio Massimo, minacciò di
proporla nel Popolo,
come quello clic conosceva
benissimo quanto simili deliberazioni
piaccino a’ popoli. Potrebbesi a questo
proposito dare esempi della
nostra città: come fu
quando messere Ercole Bentivogli,
governadore delle genti fiorentine,
insieme con Antonio Giacomini, poiché
ebbono rotto llartolommeo d’ Alviano a San
Vincenti, andarono a campo a Pisa; la
qual impresa fu deliberata
dal popolo in
su le promesse gagliarde
di messcr Ercole, ancora che
molti savi cittadini
la biasimassero: nondimeno non vi ebbero rimedio, spinti
da quella universale
volutila, la qual era
fondata in su
le promesse gagliarde del
governadore. Dico, adunque, come
non è la più
facile via a fare rovinare
una repubblica dove
il popolo abbia autorità,
che metterla' in imprese gagliarde: perchè, dove
il popolo sia di
alcuno momento, sempre
fieno accettale; nè vi
arà, chi sarà
d’ altra oppinione, alcuno
rimedio. Ma se
di questo nasce la
rovina della città,
ne nasce ancora, e più
spesso, la rovina
particolare de* cittadini che
sono preposti a simili
imprese: perchè, avendosi il
popolo presupposto la vittoria,
eomee’vienc la perdita, non
ne accusa nè
la fortuna, nè la
impotenza di chi
ha governato, ma la
tristizia e la ignoranza
sua; e quello il
più delle volte
o ammazza, o imprigiona, o confina:
come intervenne a infiniti
capitani Cartaginesi, ed a
molti Ateniesi. Nè giova
loro alcuna vittoria che
per lo addietro
avessino avuta, perchè tutto
la presente perdita
cancella: come intervenne ad
Antonio Giacomini nostro, il
quale non avendo
espugnata Pisa, come il
popolo aveva presupposto ed egli
promesso, venne in
tanta disgrazia popolare, che
non ostante infinite sue
buone opere passate,
visse più per umanità
di coloro che
ne avevano autorità, che
per alcun’ altra
cagione che nel popolo
lo difendesse. liv# — Quanta
autorità abbia uno uomo
grande a frenare una
moltitudine concitata. Il secondo
notabile sopra il
testo nel superiore capitolo
allegato, è, che
veruna cosa è tanto atta a
frenare una moltitudine concitata,
quanto è la riverenza di
qualche uomo grave
e di autorità, che se
le faccia incontro
j nè senza cagione dice
VIRGILIO (si veda): “Tutn
vietate graverà ac
meritis si forte
virum Conspexere, sileni, arrectisque
aur^®n^ci* Per tanto, quello
che è proposto a uno esercito, o quello
che si trova
in una città, dove
nascesse tumulto, debbe
rappresentarsi in su quello
con maggior grazia e piu
onorevolmente che può,
mettendosi intorno le insegne
di quel grado che
tiene, per farsi
più reverendo. Era, pochi
anni sono, Firenze
diviso in due fazioni,
Fratesche ed Arrabbiate,
che cosi si chiamavano;
e venendo ali’ arme, ed essendo
superati i Frateschi, intra
i quali era Pagolantonio Soderini,
assai in quelli tempi
riputato cittadino; cd
andandogli in quelli tumulti
il popolo armato
a casa per saccheggiarla; messer
Francesco suo fratello, allora
vescovo di Volterra,
ed oggi cardinale, si
trovava a sorte in
casa: il quale, subito
sentito il romore
e veduta la turba, messosi
i più onorevoli panni indosso,
e di sopra il
rocchetto episcopale, si fece
incontro a quelli armati, e con
la persona e con
le parole gli fermò; la
qual cosa fu
per tutta la città
per molti giorni
notata e celebrata. Conchiudo, adunque,
come e’ non è il più
fermo nè il
più necessario rimedio a frenare una
moltitudine concitata, che la
presenza d’ uno
uomo che per
presenza paia e sia reverendo.
Vedesi, adunque, per tornare
al preallegato testo, con
quanta ostinazione la
Plebe romana accettava quel partito d’
andare a Yeio, perchè Io
giudicava utile, nè
vi conosceva sotto
il danno vi
era ? e come nascendone assai tumulti,
ne sarebbero nati scandali,
se il Senato
con uomini gravi e pieni
di riverenza non
avesse frenato il loro
furore. lv. — Quanto facilmente
si conduellino le
cose in quella
città dove la moltitudine
non è corrotta: e che dove
è e qualità, non si può
fare principato / e dove la
non èj non si
può far
repubblica. Ancora clie di sopra si
sia discorso assai quello
sia da temere
o sperare delle città corrotte;
nondimeno non mi pare
fuori di proposito
considerare una
deliberazione del Senato
circa il voto ehe
Cammillo aveva fatto
di dare la decima
parte ad Apolline
della preda de’ Veienti: la
qual preda sendo
venuta nelle mani della
Plebe romana, nè
se ne potendo altrimenti
riveder conto, fece il
Senato uno editto,
che ciascuno dovesse
rappresentare al pubblico
la decima parte di
quello gli aveva
predalo. E benché tale deliberazione
non avesse luogo, avendo
dipoi il Senato
preso altro modo, c per
altra via satisfatto
ad Àpolliue in satisfazione
della Plebe; nondimeno si
vede per tali
deliberazioni quanto quel Senato
confidasse nella bontà di
quella, e come e’
giudicava che nessuno fusse
per non rappresentare
appunto tutto quello che
per tale editto gli
era comandato. E dall’
altra parte si vede,
come la Plebe
non pensò di
fraudare in alcuna parte
lo editto con il
dare meno che
non doveva, ma
di liberarsi da quello
con il mostrarne
aperte indignazioni. Questo essempio,
con molti altri che
di sopra si
sono addotti, mostrano quanta bontà
e quanta religione fusse in quel Popolo,
e quanto bene fusse da
sperare di lui. E
veramente, dove non è questa
bontà, non si può
sperare nulla di
bene; come non
si può sperare nelle
provincic che in
questitempi si veggono
corrotte: come è la Italia
sopra tutte le
altre; ed ancora
la Francia di tale
corruzione ritengono parte. E se
in quelle provincie
non si vede
tanti disordini quanti nascono in
Italia ogni di,
deriva non tanto dalla
bontà de' popoli,
la quale ìh buona
parte è mancata; quanto
dallo avere uno re
che gli mantiene
uniti, non solamente per
la virtù sua,
ma per l’ordine di
quelli regni, che
ancora non sono guasti.
Vedesi bene nella
provincia della Magna, questa
bontà e questa religione ancora
in quelli popoli
esser grande; la qual
fa che molte
repubbliche vi vivono libere,
ed in modo
osservano le loro leggi,
che nessuno di
fuori nè di dentro
ardisce occuparle. E che sia
vero che in
loro regni buona
parte di quella antica
bontà, io nc
voglio dare uno essempio
simile a questo detto di
sopra del Senato
e della Plebe romana. Usano
quelle repubbliche, quando gli
occorre loro bisogno
di avere a spendere
alcuna quantità di
danari per conto pubblico, che
quelli magistrati o consigli che ne
hanno autorità, ponghino
a tutti gli abitanti
della città uno
per cento, o dua, di
quello che ciascuno
ha di valsente. E fatta
tale deliberazione secondo 1’
ordine della terra,
si rappresenta ciascuno dinanzi
agli esecutori di tale
imposta; e, preso
prima il giuramento di
pagare la conveniente
somma, getta in una
cassa a ciò deputata
quello clic secondo la conscienza sua
gli pare dover pagare:
del qual pagamento
non è testimonio alcuno, se
non quello che paga.
Donde si può
conictturare, quanta bontà e quanta
religione sia ancora
in quelli uomini. E debbesi
stimare che ciascuno paghi
la vera somma:
perchè, quando la non si pagasse,
non pitterebbe la imposizione
quella quantità che loro
disegnassero secondo le
antiche che fussino usitate
riscuotersi; e non gitlando,
si conoscerebbe la
fraude; e conoscendosi,
arebbon preso altro
modo che questo. La
quale bontà è tanto
più da ammirare in
questi tempi, quanto ella
è più rara: anzi si
vede essere rimasa
sola in quella
provincia. Il che nasce
da due cose: Y una,
non avere avuti commerzi
grandi co’ vicini; perchè nè
quelli sono ili a
casa loro, nè essi
sono iti a casa
altrui; perchè sono stati
eontenli di quelli
beni, e vivere di quelli
cibi, vestire di
quelle lane che dà
il paese: d’onde
è stata tolta via la
cagione d’ogni conversazione, ed
il principio di ogni
corruttela; perchè non hanno
possuto pigliare i costumi
nè franciosi nè spagnuoli
nè italiani, le quali
nazioni tutte insieme
sono la corruttela del mondo.
L’ altra cagione è, che
quelle repubbliche dove
si è mantenuto il vivere
politico ed incorrotto, non sopportano
che alcuno loro
cittadino nè sia nè
viva ad uso
di gentiluomo: anzi mantengono
infra loro una pari
equalità, ed a quelli
signori e gentiluomini che sono
in quella provincia, sono inimicissimi; c se per
caso alcuni pervengono loro
nelle mani, come
priacipi di corruttela
e cagione di ogni
scandalo, gli ammazzano. E'
per chiarire questo nome
di gentiluomini quale
e’ sia. dico che
gentiluomini sono chiamali quelli che
ociosi vivono de’
proventi delle loro possessioni
abbondantemente, senza avere alcuna
cura o di coltivare, o di alcuna
altra necessaria fatica
a vivere. Questi tali
sono perniciosi in ogni
repubblica ed in
ogni provincia; ma più
perniciosi sono quelli
che, oltre alle predette
fortune, comandano a ca stella, ed hanno
sudditi che ubbidiscono a loro. Di
queste due sorti
di uomini ne sono
pieni il regno
di Napoli, terra di
Roma, la Romagna
e la Lombardia. Di qui
nasce che in
quelle provincie non è mai
stata alcuna repubblica,
nè alcuno vivere politico;
perchè tali generazioni di uomini
sono al tutto
nemici di ogni civiltà.
Ed a volere in
provincie fatte in simil
modo introdurre una repubblica,
non sarebbe possibile: ma
a volerle riordinare, se
alcuno ne fusse arbitro,
non arebbe altra
via che farvi un
regno. La ragione
è questa, che dove è tanto
la materia corrotta che
le leggi non
bastino a frenarla, vi bisogna
ordinare insieme con
quelle maggior forza; la quale
è una mano regia, che
con la potenza
assoluta ed eccessiva ponga
freno alla eccessiva
ambizione e corruttela de’ potenti.
Verificasi questa ragione cou
lo esempio di Toscana: dove si
vede in poco
spazio di terreno stale
longamente tre repubbliche, Firenze, Siena
e Lucca; e le altre città di
quella provincia essere
in modo serve, che,
con l’ animo e con T ordine, si
vede o che le
mantengono, o che le vorrebbono
mantenere la loro libertà.
Tutto è nato per
non essere in quella
provincia alcun signore
di castella, c nessuno o pochissimi
gentiluomini ; ma esservi tanta
equalità, che facilmente da
uno uomo prudente,
e che delle antiche civilità
avesse cognizione, vi si
introdurrebbe un viver
civile. Ma lo infortunio
suo è stato tanto
grande, che infino a questi
tempi non ha
sortito alcuno uomo che
lo abbia potuto o saputo fare.
Trassi adunque di
questo discorso questa conclusione:
che colui che vuole
fare dove sono
assai gentiluomini una repubblica,
non la può fare
se prima non
gli spegne tutti:
e che colui che
dove è assai equalità
vuole fare uno regno
o uno principato, non lo
potrà mai fare
se non trae
di quella «qualità molti
di animo ambizioso
ed inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, e non
in nome,, donando
loro castella e possessioni, c dando
loro favore di sustanze
e d’uomini; acciocché, posto
in mezzo di
loro, mediante quelli mantenga la
sua potenza; cd essi, mediante quello,
la loro ambizione;
e gli altri siano
constretti n sopportare quel giogo
che la forza,
e non altro mai, può
far sopportare loro.
Ed essendo per
questa via proporzione
da chi sforza a chi
è sforzato, stanno fermi gli
uomini ciascuno nello
ordine loro. E perchè il
fare d’una provincia
atta ad essere regno
una repubblica, c d’ una atta
ad essere repubblica
farne un regno, è materia da
uno uomo che
per cervello e per autorità
sia raro; sono stati
molti che Io
hanno voluto fare,
e pochi che lo abbino saputo
condurre. Perchè la grandezza
della cosa parte sbigottisce gli
uomini, parte in
modo gli ’mpedisce, che
ne’ primi principii mancano.
Credo che a questa
mia oppiatone, che dove
sono gentiluomini non si
possa ordinare repubblica,
parrà contraria la esperienza
della Repubblica veneziana, nella
quale non usano
avere alcuno grado se non coloro
che sono gentiluomini. A che
si risponde, come questo
essempio non ci
fa alcuna oppugnazione, perchè i gentiluomini in quella
Repubblica sono piu in nome
che in fatto; perchè
loro non hanno
grandi entrate di possessioni,
sendo le loro ricchezze grandi
fondate in sulla
mercanzia e cose mobili; e di
più, nessuno di loro
tiene castella, o ha
alcuna iurisdizione sopra
gli uomini: ma
quel nome di gentiluomo
in loro è nome
di degnila e di riputazione,
senza essere fondato sopra
alcuna di quelle
cose che fa che
nell’ altre città
si chiamano i gentiluomini. E come
le altre repubbliche hanno tutte
le loro divisioni
sotto vari nomi, così
Vinegia si divide
in gentiluomini e popolari; e
vogliono che quelli abbino,
ovvero possino avere,
tutti gli onori; quelli
altri ne sieno
al tutto esclusi. Il che non
fa disordine in
quella terra, per le
ragioni altra volta
dette. Gonstituisca,
adunque, una repubblica colui dove
è, o è fatta una
grande egualità; ed alP
incontro ordini un
principato dove è grande inequalità: altrimenti farà cosa
senza propprzione, e poco
durabile. Innanzi che segnino
i grandi accidenti in
una città o in
una provincia, vengono segni che
gli pròìioslicanOj o uomini
che gli predicono. Donde e* si nasca
io non so,
ina si vede pei*
gli antichi e per
gli moderni essempi, che
mai non venne
alcuno grave accidente in
una città o in
una provincia, che non
sia stato, o da
indovini o da revelazioni
o da prodigi, o da
altri segni celesti, predetto.
E per non mi
discostare da casa nei
provare questo, saciascuno
quanto da frate
Girolamo Savonarola fusse predetta
innanzi la venuta del
re Carlo Vili
di Francia in
Italia; e come, olirà di
questo, per tutta
Toscana si disse esser
sentite in aria e
vedute genti d’ arme, sopra
Arezzo, che si azzuffavano insieme.
Sa ciascuno olirà di
questo, come avanti
la morte di
Lorenzo de’ Medici vecchio
fu percosso il duomo
nella sua più
alta parte con una
saetta celeste, con
l'ovina grandissima di quello
edilìzio. Sa ciascuno
ancora,, come poco innanzi
che Soderini, quale era
stato fatto gonfaloniere
a vita dal popolo fiorentino,
fosse cacciato e privo
del suo grado,
fu il palazzo
medesimamente da un fulgore
percosso. Potrcbbesi, olirà
di questo, addurre
più essempi, i quali per
fuggire il tedio
lascerò. Narrerò solo
quello che L.,
innanzi alla venuta
de’ Franciosi in Roma: cioè,
come uno Marco Cedizio
plebeio, riferì al
Senato avere udito di
mezza notte, passando
per la Via Nuova,
una voce maggiore
che umana, la quale
lo ammoniva che
riferisse ai magistrati, come i
Franciosi venivano a Roma. La
cagione di questo
credo sia da essere
discorsa ed interpretata
da uomo che abbia
notizia delle cose
naturali e soprannaturali:
il che non
abbiamo noi. Pure, potrebbe
essere che, sendo questo
aere, come vuole
alcuno filosofo, pieno d’ intelligenze; le quali
per naturale virtù
prevedendo le cose
future, ed avendo compassione
agli uomini, acciò si
possino preparare alle
difese, gli avvertiscono con
simili segni. Pure,
comunelle si sia, si
vede cosi essere
la verità; e che sempre
dopo tali accidenti sopravvengono cose
istraordinarie e nuove alle provincie.
La plebe insieme
è gagliarda; di per se è
debole. Erano molti Romani,
scudo seguita per la
passata de* Franciosi
la rovina della lor
patria, andati ad
abitare a Yeio, contea alla
constituzione ed ordine
del Senato: il quale,
per rimediare a questo disordine, comandò
per i suoi editti pubblici che
ciascuno, infra certo
tempo e sotto certe pene,
tornasse ad abitare a Roma. De’quali
editti, da prima
per coloro contea a chi
e* venivano, si fu
fatto beffe; dipoi,
quando si appressò
il tempo dello ubbidire,
tutti ubbidirono. E Tito Livio
dice queste parole: Ex
fcrocibus universtSj singtili
metti suo obedienfes
fuere. E veramente, non
si può mostrare meglio
la natura d’ una
moltitudine in questa parte,
che si dimostri in
questo testo. Perchè
la moltitudine è audace
nel parlare molte
volte contra alle deliberazioni
del loro principe;
dipoi, come veggono la
pena in viso,
non si fidando Y uno
dell’ altro, corrono
ad ubbidire. Talché si
vede certo, che di
quel che
si dica uno
popolo circa la mala
o buona disposizion sua,
si debbe tenere non
gran conto, quando
tu sia ordinato in
modo da poterlo
mantenere, s’ egli è ben disposto;
s’ egli è mal disposto, da
poter provvedere che
non ti offenda. Questo
s’intende per quelle
male disposizioni che hanno
i popoli, nate da qualunque
altra cagione, che o
per avere perduto la
libertà, o il loro
principe stato amato da
loro, e che ancora
sia vivo; perchè le
male disposizioni che nascono
da queste cagioni,
sono sopra ogni cosa
formidabili, e che hanno bisogno
di grandi rimedi
a frenarle: 1' altre sue indisposizioni fieno
facili, quando ci non
abbia capi a chi
rifuggire. Perchè non ci è
cosa, dall’ un
canto, più formidabile che
una moltitudine sciolta e senza capo;
e, dall’ altra
parte, non è cosa
più debole: perchè, quantunque
ella abbi 1’ armi
in mano, fia
facile ridurla, purché tu
abbi ridotto da
potere fuggire il primo
impeto; perchè quando
gli animi sono un
poco raffreddi, e che
ciascuno vede di aversi
a tornare a casa sua, cominciano
a dubitare di loro
medesimi, e pensare alla salute
loro, o con fuggirsi o con
l’accordarsi. Però una moltitudine così
concitata, volendo fuggire questi pericoli,
ha subito a fare
infra sè medesima un
capo che la
corregga, tenghila unita e pensi
alla sua difesa ; come
fece la Plebe
romana, quando dopo la
morte di Virginia
si partì da Roma,
e per salvarsi feciono
infra loro venti Tribuni:
e non facendo questo,
interviene loro scmj)re
quel che dice
L. nelle soprascritte
parole, che tutti insieme
sono gagliardi; e quando
ciascuno poi comincia a pensare
al proprio pericolo, diventa
vile e debole. La moltitudine
è più savia e più costante
che un principe. Nessuna cosa
essere più vana e
più inconstante che la
moltitudine: cosi L.
nostro, come tutti
gli altri istorici affermano. Perchè
spesso occorre, nel narrare
le azioni degli
uomini, vedere la moltitudine
avere condannato alcuno a morte,
e quel medesimo di poi
pianto e sommamente desiderato:
come si vede avere
fatto il Popolo
romano di Manlio Capitolino,
il quale avendo
CONDENNATO A MORTE,
sommamente dipoi desiderava. E le parole
dell* autore son queste:
Populum brevi, posteaquam
ab co periculum nullum
eral, dcsidcrium rjus
tenuit. Ed altrove,
quando mostra gli accidenti
che nacquero in
Siracusa dopo la morte
di Girolamo nipote
di Ierone, dice:
Hcec natura mulliludinis
est : aut umiliter servii, aut
superbe domi • natur. Io
non so se
io mi prenderò
una provincia dura, e piena
di tanta difficoltà, che mi
convenga o abbandonarla con vergogna,
o seguirla con carico; volendo difendere
una cosa, la
quale, come ho detto,
da tutti gli
scrittori è accusata. Ma,
comunehc si sia,
io non giudico nè
giudicherò mai essere
difetto difendere alcune oppinioni
con le ragioni, senza volervi
usare o la autorità
o la forza. Dico adunque,
come di quello
difetto di che accusano
gli scrittori la moltitudine, se ne possono
accusare tutti gli uomini
particolarmente, e massime i
principi; perchè ciascuno
che non sia regolato
dalle leggi, farebbe
quelli medesimi errori che
la moltitudine sciolta. E questo si
può conoscere facilmente, perchè e’
sono c sono stati
assai principi, e de’ buoni e de’ savi
ne sono stati pochi;
io dico de’ principi
che hanno potuto rompere
quel freno che
gli può correggere; intra
i quali non sono
quegli re che nascevano
in Egitto, quando in
quella antichissima antichità
si governava quella provincia
con le leggi; nè
quelli che nascevano
in Sparta; nè quelli
che a’ nostri
tempi nascono in Francia:
il quale regno
è moderato più dalle leggi,
che alcuno altro
regno di che ne’ nostri
tempi si abbi
notizia. E questi re
che nascono sotto
tali constituzioni, non
sono da mettere
in quel numero, donde
si abbia a considerare la natura
di ciascuno uomo
per sè, e vedere
se egli è simile
alla moltitudine: perchè a rincontro
loro si debbe
porre una moltitudine medesimamente
regolata dalle leggi come
sono loro; e si
troverà in lei essere
quella medesima bontà
che noi veggiamo essere
in quelli, e vedrassi quella nè
superbamente dominare nè umilmente
servire: come era
il Popolo romano, il
quale mentre durò
la Repubblica incorrotta,
non servì mai
umilmente nè mai dominò
superbamente; anzi con li
suoi ordini e magistrati
tenne il grado suo
onorevolmente. E quando era necessario
insurgerc contra a uno potente, lo
faceva; come si
vede in Manlio, ne’
Dieci, ed in
altri che cercorno opprimerla: e quando era
necessario ubbidire a’ Dittatori
ed a’ Consoli per la
salute pubblica, lo
faceva. E se il
Popolo romano desiderava Manlio
Capitolino morto, non è meraviglia;
perchè e* desiderava le
sue virtù, le
quali erano state tali,
che la memoria
di esse recava compassione a ciascuno;
cd arebbono avuto forza
di fare quel
medesimo effetto in un
principe, perchè 1* è
sentenza di tutti li
scrittori, come la
virtù si lauda e si ammira ancora
negli inimici suoi: e se
Manlio, infra tanto
desiderio, fusse
risuscitato, il Popolo
di Roma arebbe dato
di lui il
medesimo giudizio, come ei
fece, tratto che
lo ebbe di
prigione, che poco di
poi lo condennò
a morte; nonostante die si
vegga di principi
tenuti savi, i quali hanno
fatto morire qualche persona,
e poi sommamente desideratala : come Alessandro,
Clito ed altri suoi
amici; ed Erode, Marianne.
Ma quello che lo
istorico nostro dice
della natura della moltitudine,
non dice di quella
che è regolata dalle
leggi, come era la
romana; ma della
sciolta, come era la
siracusana: la quale
fece quelli errori che
fanno gli uomini
infuriati e sciolti, come
fece Alessandro magno,
ed Erode, ne’ casi detti.
Però non è più
da incolpare la natura
della moltitudine che de’ principi, perchè
tutti egualmente errano, quando tutti
senza rispetto possono errare. Di
che, oltre a quello
che ho detto, ci
sono assai essempi,
ed intra gli imperadori
romani, ed intra
gli altri tiranni e, principi;
dove si vede tanta
incostanza e tanta variazione
di vita, quanta mai
non si trovasse
in alcuna moltitudine. Conchiudo,
adunque, contea olla comune
oppimene, la qual dice
come i popoli, quando
sono principi, sono
vari, mutabili, ingrati;
affermando che in loro
non sono altrimente questi peccati
che si siano
ne’ principi particolari. Ed
accusando alcuni i popoli ed
i principi insieme, potrebbe
dire il vero; ma
traendone i principi, s’inganna; perchè un
popolo che comanda
e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato
non altrimenti che
un principe, o meglio
che un principe,
eziandio stimato savio: e dall’altra
parte, un priucipe sciolto dalle
leggi, sarà ingrato,
vario ed imprudente più
che uno popolo.
E che la variazione del
procedere loro nasce non
dalla natura diversa,
perchè in tutti è ad
un modo: e se
vi è vantaggio di bene,
è nei popolo; ma
dallo avere più o meno
rispetto alle leggi,
dentro alle quali l’uno
e l’altro vive. E chi
considerrà il Popolo
romano, lo vedrà
essere stato per quattrocento
anni iuimico del nome
regio, ed amatore
della gloria e del
bene comune della
sua patria: vedrà tanti
essempi usati da
lui, clic testiiuoniauo
1’ una cosa e
V altra. £ se alcuno mi
allegasse la ingratitudine
eh7 egli usò centra
a Scipione, rispondo quello
die di sopra lungamente
si discorse in
questa materia, dove
si mostrò i popoli
essere meno iugraii
de’ principi. Ma quanto alla
prudenza ed alla
stabilità, dico, come uno
popolo è più prudente,
più stabile e di miglior
giudicio che un
principe. E uon senza cagione
si assomiglia la voce
d7 un popolo
a quella di Dio; perchè
si vede una
oppinioue universale fare effetti
meravigliosi ne’ pronostichi
suoi: talché pare
che per occulta virtù
e’ prevegga il suo
male ed il suo
bene. Quanto al
giudicare le cose,
si vede rarissime volte,
quando egli ode due
concionanti che tendino
in diverse parti, quando
e’ sono di egual
virtù, che non pigli
*ia oppinione migliore,
e che non sia capace
di quella verità
ch’egli ode. £ se nelle
cose gagliarde, o che
paiano utili, come di
sopra si dice, egli
erra; molte volte erra
ancora uri principe
nelle sue proprie passioni,
le quali sono
molle più che quelle
de’ popoli. Yedesi
ancora, nelle sue elezioni
ai magistrati, fare
di lunga migliore elezione
che uno principe; nè
mai si persuaderà
ad un popolo, che
sia bene tirare
alla degnila uno uomo
infame e di corrotti
costumi: il che facilmente
e per mille vie
si persuade ad un
principe. Yedesi un
popolo cominciare ad avere
in orrore una
cosa, e molti secoli stare
in quella oppinione: il
che non si
vede in uno
principe. E dell’ una e
dell’ altra di
queste due cose voglio
mi basti per
testimone il Popolo romano: il
quale, in tante
centinaia d’anni, in tante
elezioni di Consoli
e di Tribuni, non fece
quattro elezioni di che
quello si avesse
a pentire. Ed ebbe,
come ho detto, tanto
in odio il
nome regio, che nessuno
obbligo di alcuno
suo cittadino, che tentasse
quel nome, potette fargli fuggire
le debite pene.
Yedesi, oltra di questo,
le città dove i
popoli sono principi, fare in brevissimo
tempo augumenti eccessivi, e molto
maggiori che quelle che
sempre sono state
sotto un principe ! come
fece Roma dopo
la cacciata de’ re, ed Atene
da poi che la
si liberò da
Pisistrato. 11 che
non può nascere da
altro, se non
che sono migliori governi quelli
de* popoli che
quelli de* principi. Nè
voglio che si
opponga a questa mia
oppinione tutto quello
che lo istorico nostro
ne dice nel
preallcgato testo, ed in
qualunque altro; perchè,
se si discorreranno tutti
i disordini de’popoli, tutti
i disordini de* principi,
tutte le glorie de’popoli,
tutte quelle de’ principi, si vedrà
il popolo di
bontà e di gloria essere
di lunga supcriore.
E se i principi sono
superiori a* popoli
nello ordinare leggi, formare
vite civili, ordinare statuti
ed ordini nuovi; i popoli sono
tanto superiori nel
mantenere le cose ordinate,
eh’ egli aggiungono senza dubbio
alla gloria di
coloro che l’ordinano. Ed
in somma, per
epilegare questa materia,
dico come hanno durato
assai gli stati
de’ principi, hanno durato assai
gli stati delle
repubbliche, e l’uno e l’ altro
ha avuto bisogno
d’essere regolato dalle leggi: perchè
un principe che può
fare ciò che
vuole, è pazzo; un popolo
che può fare
ciò che vuole, non
è savio. Se, adunque,
si ragionerà d' un principe
obbligato alle leggi,
ed’ un popolo
incatenalo da quelle,
si vedrà più virtù
nel popolo che
nel principe: se si
ragionerà dell’ uno e dell’altro sciolto, si
vedrà • meno errori
nel popolo che nei
principe; e quelli minori, ed
aranno maggiori rimedi.
Perchè ad un popolo
licenzioso e tumultuario, gli può
da un uomo
buono esser parlato, e facilmente può
essere ridotto nella
via buona: ad un principe
cattivo non è alcuno che
possa parlare, nè
vi è altro rimedio che
il ferro. Da
che si può
far coniettura della importanza
della malattia dell’uno e dell’altro:
chè se a curare la
malattia del popolo
bastano le parole, ed a
quella del principe
bisogna il ferro, non
sarà mai alcuno
che non giudichi, che
dove bisogna maggior
cura, siano maggiori errori.
Quando un popolo è bene
sciolto, non si
temono le pazzie che
quello fa, nè
si ha paura
del mal presente, ma di quello
che ne può
nascere, potendo nascere infra
tanta confusione un tiranno.
Ma ne’ principi tristi interviene il
contrario: che si
teme il male presente,
e nel futuro si
spera; persuadendosi gli uomini
che la sua
cattiva vita possa far
surgere una libertà. Sì
che vedete la
differenza dell’ uno e
dell’ altro, la
quale è quanto dalle
cose che sono, a quelle
che hanno ad
essere. Le crudeltà della
moltitudine sono contra
a chi ei temono
clic occupi il ben
comune: quelle d’ un
principe sono contro a chi
ci temono che
occupi il bene proprio.
Ma la oppiti
ione contro ai
popoli nasce perchè de’
popoli ciascuno dice male
senza paura e liberamente, ancora mentre
che regnano: de’
principi si parla sempre
con mille paure
e mille rispetti. Nè mi
pare fuor di
proposito, poiché questa materia
mi vi tira,
disputare nel seguente capitolo
di quali confederazioni altri si
possa più fidare,
o di quelle falle
con una repubblica,
o di quelle fatte con
ui> principe. Di quali
confederazioni, o lega,
altri si può
più fidare; o di quella fatta
con una repubblica, o di quella fatta
con uno principe. Perchè ciascuno
dì occorre che P
uno principe con l’altro,
o V una repubblica con l’altra,
fanno lega ed
amicizia insieme ; ed ancora
similmente si contrae confederazione ed
accordo intra una
repubblica ed uno
principe mi pare
di esaminare qual fede è
più stabile, e di quale
si debba tenere
più conto, o di quella
d’ una repubblica,
o di quella d’ uno principe,
lo, esaminando tutto, credo
che in molti
casi e’ siano simili. ed
in alcuni vi sia qualche
disformità. Credo per tanto,
che gli accordi
fatti per forza non
ti saranno nè
da un principe nè
da una repubblica
osservali; credo che quando
la paura dello
stato venga, l'uno e l'altro,
per non lo
perdere, ti romperà la
fede, e ti userà
ingratiludine. Demetrio, quel
che fu chiamato espugnatore delle
cittadi, aveva fatto
agli Ateniesi infiniti benefici!: occorse dipoi, che
sendo rotto da’ suoi
inimici, e rifuggendosi in Atene,
come in città
amica ed a lui obbligata,
non fu ricevuto
da quella: il che gli
dolse assai più
che non aveva fatto
la perdita delle
genti e dello esercito
suo. Pompeio, rotto
che fu da Cesare
in Tessaglia, si
rifuggì in Egitto a Tolomeo,
il quale era
per lo addietro da
lui stato rimesso
nel regno; e fu da
lui morto. Le
quali cose si
vede che ebbero le
medesime cagioni; nondimeno
fu più umanità
usata e meno •ingiuria
dalla repubblica, che
dal principe. Dove è,
pertanto, la paura,
si troverà in
fallo la medesima
fede. E se si troverà
o una repubblica o uno
principe, che per osservarti
la fede aspetti di
rovinare, può nascere
questo ancora da simili
cagioni. E quanto al
principe, può molto bene
occorrere che egli
sia amico d’ un
principe potente, che se
bene non
ha occasione allora
di difenderlo, ei può
sperare che col
tempo e* lo restituisca nel
principato suo; o veramente che, avendolo
seguito come partigiano, ei non
creda trovare nè
fede nè accordi con
il nimico di
quello. Di questa sorte
sono stati quelli
principi del reame di
Napoli che hanno
seguite le parti franciose.
E quanto alle repubbliche, fu di
questa sorte Sagunto
in Ispagna, che aspettò
la rovina per
seguire le parti romane;
e di questa Firenze, per
seguire nel 4512
le parti franciose. E credo,
computata ogni cosa, che
in questi casi,
dove è il pericolo urgente, si
troverà qualche stabilità
più nelle repubbliche, che
ne’ principi. Perche,
sebbene le repubbliche
avessino quel medesimo animo
e quella medesima voglia che
un principe, lo
avere il moto loro
tardo, farà che le porranno
sempre più a risolversi
che il principe,
e per questo porranno
più a rompere la fede
di lui. Romponsi
le confederazioni per lo
utile. In questo
le repubbliche sono di
lunga più osservanti
degli accordi, che i principi.
E potrebbesi addurre
essempi, dove uno
miuinio utile ha fatto
rompere la fede
ad uno principe, e dove una
grande utilità non ha
fatto rompere la
fede ad una
repubblica: come fu quello
partito che propose
Temistocle agli Ateniesi, a’ quali
nella conclone disse che
aveva uno consiglio
da fare alla loro
patria grande utilità; ma non lo
poteva dire per
non lo scoprire, perchè scoprendolo
si toglieva la occasione
del farlo. Onde
il popolo di
Atene elesse Aristide, al
quale si comunicasse la cosa,
e secondo dipoi che
paresse a lui se
ne deliberasse: al
quale Temistode mostrò
come I* armata
di tutta Grecia, ancora che
stesse sotto la
fede loro, era in
lato che facilmente
si poteva guadagnare o distruggere; il
che faceva gli Ateniesi
al tutto arbitri
di quella provincia. Donde Aristide
riferì ai popolo, il
partito di Temistocle
essere utilissimo, ma disonestissimo: per la
qual cosa il popolo
al tutto lo
ricusò. II che
non arebbe fatto Filippo
Macedone, e gli altri principi che
più utile hanno
cerco e più guadagnato con
il rompere la
fede, che con verun
altro modo. Quanto
a rompere i patti per
qualche cagione di inosservanza, di
questo io non
parlo come di cosa
ordinaria; ma parlo
dì quelli che si
rompono per cagioni
istrasordinarie: dove io
credo, per le
cose (lette, che il
popolo facci minori
errori che il principe,
e per questo si
possa Fidar più di
lui che del
principe. Come il consolato
e qualungue altro magistrato
in Roma si
(lava senza rispetto di
età. E’ si vede
per V ordine della
istoria, come la Repubblica
romana, poiché ’i consolato
venne nella Plebe,
concesse quello ai suoi
cittadini senza rispetto
di età o di sangue;
ancora cbe il
rispetto della età mai
non fusse in
Roma, ma sempre si
andò a trovare la
virtù, o in giovane o in
vecchio cbe la
fusse. Il che si
vede per il
testimone di Valerio
Corvino, che fu fatto
Consolo nell! Ventitré anni: e Valerio
detto, parlando ai
suoi soldati, disse come
il consolato crai
prcetnium virfulisj, non
sanguinis. La qual cosa
se fu bene
considerata, o no, sarebbe da
disputare assai. E quanto
al sangue, fu concesso
questo per necessità; e quella necessità che
fu in Roma,
sarebbe in ogni città
che volesse fare
gli effetti che
fece Roma, come altra
volta si è detto:
per i! chè e’
non si può
dare agli uomini
disagio senza premio, nè
si può torre
la SPERANZA di conseguire il
premio senza pericolo. E però
a buona ora convenne che
la Plebe avesse
speranza di avere il
consolato; e di questa SPERANZA
si nutrì un tempo
senza averlo. Dipoi
non bastò la speranza,
che e’ convenne che si
venisse allo effetto.
Ma la città
che non adopera la
sua plebe ad
alcuna cosa gloriosa, la
può trattare a suo
modo, come altrove si
disputò: ma quella
elle vuole fare quel
che fe Roma,
non ha a fare
questa distinzione. E dato
che così sia, quella
del tempo non
ha replica; anzi è necessaria: perchè nello
eleggere uno giovane in uno grado
che abbi bisogno d’ una prudenza
di vecchio, conviene, avendovelo ad
eleggere la moltitudine, che a quel
grado lo facci
pervenire qualche sua nobilissima
azione. E quando un giovane
è di tanta virtù, che
si sia fatto
in qualche cosa
notabile conoscere; sarebbe
cosa dannosissima che la
città non se
«e potesse valere
allora, e che la avesse
ad aspettare che fusse
invecchiato con lui
quel vigore deir animo,
quella prontezza, della
quale in quella età
la patria sua
si poteva valere : come
si valse Roma
di Valerio Corvino, di
Scipione, di Pompeio
e di molti altri che
trionfarono giovanissimi.
Laudano sempre gli
uomini, ma noti sempre
ragionevolmente, gli antichi
tempi, e gli presenti accusano:
ed in modo sono
delle cose passate
partigiani, che non solamente
celebrano quelle etadi che
da loro sono
state, per la
memoria che ne hanno
lasciata gli scrittori,
conosciute ; ma quelle ancora
che, sendo già vecchi,
si ricordano nella
loro giovanezza avere vedute.
E quando questa loro oppinionc
sia falsa, come
il più delle volte
è, mi persuado
varie essere le cagioni
che a questo inganno
gli conducono. E la prima
credo sia, che
delle cose antiche non
s’intenda al tutto
lu verità; e che di
quelle il più
delle vollesi nasconda
quelle cose che
recherebbono a quelli tempi
infamia; e quelle altre che
possono partorire loro
gloria, si remlino magnifiche
ed amplissime. Però che i
più degli scrittori
in modo * alla
fortuna de’ vincitori
ubbidiscono, che per fare
le loro vittorie
gloriose, non solamente accrescono
quello che da loro
è virtuosamente operato, ma
ancora le azioni de’
nimici in modo
illustrano, che qualunque nasce
dipoi in qualunque delle
due provincie, o nella vittoriosa o nella
vinta, ha cagione
di maravigliarsi di quelli
uomini e di quelli tempi,
ed è forzato sommamente
laudargli ed amargli. Olirà
di questo, odiando gli
uomini le cose o
per timore o per invidia,
vengono ad essere spente
due potentissime cagioni
delP odio nelle cose
passate, non ti
potendo quelle offendere, e non
ti dando cagione d’
invidiarle. Ma al
contrario interviene di quelle
cose che si
maneggiano e veggono; le
quali, pei* la
intera cognizione di esse,
non ti essendo
in alcuna parte nascoste*
e conoscendo in quelle insieme
con il bene
molte altre cose che
ti dispiacciono, sei
forzato giudicarle alle antiche
molto inferiori, ancora
che in verità
le presenti molto
più di quelle di
gloria e di fama
meritassero: ragionando non delie
cose pertinenti alle arti,
le quali hanno
tanta chiarezza in sè,
che i tempi possono torre
o dar loro poco
più gloria che per
loro medesime si
meritino; ma parlando di quelle
pertinenti alla vita e
costumi degli uomini,
delle quali non se
ne veggono sì
chiari testimoni. Replico, pertanto, essere
vera quella consuetudine del laudare
e biasimare soprascritta ;
ma non
essere già sempre vero
che si erri
nel farlo. Perchè
qualche volta è necessario che
giudichino la verità; perchè essendo
le cose umane sempre
in molo, o le
salgono, o lescendono. E vedesi
una città o una
provincia essere ordinata al
vivere politico da qualche
uomo eccellente; ed,
un tempo, per la
virtù di quello
ordinatore, andare sempre in
augumento verso il meglio.
Chi nasce allora
in tale stato, ed
ei laudi più
li antichi tempi
che i moderni, s’ inganna; ed è causato
il suo inganno da
quelle cose che
di sopra si sono
dette. Ma coloro
che nascono dipoi, in
quella città o provincia,
che gli è venuto
il tempo che
la scende verso
la parte più rea,
allora non s’
ingannano. E pensando io come
queste cose procedino,
giudico il mondo
sempre essere stalo ad un medesimo
modo, ed in
quello esser stato tanto
di buono quanto
di tristo; ma variare questo
tristo e questo buono di
provincia in provincia: come si
vede per quello
si ha notizia
di quelli regni antichi
che variavano dall’uno all’altro per la variazione
de’ costumi; ma il mondo
restava quel medesimo. Solo vi
era questa differenza, che dove
quello aveva prima
collocata la sua virtù
in Assiria, la
collocò in Media, dipoi
in Persia, tanto
che la ne venne
in Italia ed a
Roma: e se dopo 10
imperio romano non è
seguito imperio che sia
durato, nè dove
il mondo abbia ritenuta
la sua virtù
insieme; si vede nondimeno
essere sparsa in di
molte nazioni dove
si viveva virtuosamente; come era il
regno de’ Franchi, 11
regno de’ Turchi, quel
del Soldano; ed oggi i
popoli della Magna; e prima quella setta
Saracina che fece
tante gran cose, ed
occupò tanto mondo,
poiché la distrusse lo
imperio romano orientale. In
tutte queste provincie,
adunque, poiché i Romani rovinorono,
ed in tutte queste
sètte è stata quella
virtù, ed è ancora
in alcuna parte
di esse, che si
desidera, e che con
vera laude si
lauda. E chi nasce in
quelle, e lauda i tempi passati più
che i presenti, si
potrebbe ingannare; ma chi
nasce in Italia
ed in Grecia, e non
sia divenuto o in
Italia oltramontano o in Grecia
turco, ha ragione di
biasimare i tempi suoi,
e laudare gli altri: perchè in
quelli vi sono assai
cose, che gli
fanno meravigliosi; in questi
non è cosa alcuna
che gli ricomperi da
ogni estrema miseria,
infamia e vituperio: dove non è
osservanza di religione, non
di leggi, non
di milizia; ma sono
maculati d’ ogni ragione bruttura. E tanto
sono questi vizi
più detestabili, quanto ei
sono più in
coloro che seggono prò
tribunali, comandano a
ciascuno, e vogliono essere
adorati. .Ha tornando al
ragionamento nostro, dico che
se il giudicio
degli uomini è corrotto
in giudicare quale
sia migliore, o il secolo
presente o l’antico, in
quelle cose dove per
l’antichità ei non
ha possuto avere
perfetta cognizione come
egli ha de’ suoi
tempi; non doverrebbe corrompersi ne’ vecchi
nel giudicare i lempi
della gioventù e vecchiezza
loro, avendo quelli e questi
egualmente conosciuti e
visti. La qual
cosa sarebbe vera,
se gli uomini per
tutti i tempi della
lor vita l'ussero del
medesimo giudizio, ed avessero
quelli medesimi appetiti: ma variando quelli,
ancora che i tempi
nou variino, non possono
parere agli uomini quelli
medesimi, avendo altri
appetiti, altri diletti, altre
considerazioni nella vecchiezza, che
nella gioventù. Perchè, mancando gli
uomini quando li
invecchiano di forze, e crescendo
di giudizio e di prudenza;
è necessario che quelle cose
che in gioventù
parevano loro sopportabili e buone, ineschino
poi invecchiando
insopportabili e cattive; e dove
quelli ne doverrebbono
accusare il giudicio
loro, ne accusano
i tempi. Sendo. ultra di questo,
gli appetiti umani
insaziabili, perchè hanno dalla
natura di potere e voler
desiderare ogni cosa, e dalla
fortuna di potere
conseguirne poche; ne risulta
continuamente una mala contentezza nelle
menti umane, ed un
fastidio delle cose
che si posseggono:
il che fa biasimare
i presenti tempi, laudare i passati,
e desiderare i futuri;
ancora che a fare
questo non fussino mossi
da alcuna ragionevole
cagione. Non so, adunque,
se io meriterò
d’ essere numerato tra quelli
che si ingannano, se
in questi mia
discorsi io lauderò troppo i tempi
degli antichi Romani,
e biasimerò i nostri. E veramente,
se la virtù che
allora regnava, ed
il vizio che ora
regna, non fussino
più chiari che il
sole, andrei col
parlare più rattenuto, dubitando non
incorrere in quello inganno di
che io accuso
alcuni. Ma essendo la
cosa si manifesta
che ciascuno la vede,
sarò animoso in
dire manifestamente quello che
intenderò di quelli e di
questi tempi; acciocché
gli animi de’ giovani
che questi mia
scritti leggeranno, possino fuggire
questi, e prepararsi ad imitar
quegli, qualunque volta la
fortuna ne dessi
loro occasione. Perchè gli
è offizio di uomo
buono, quel bene che
per la malignità
de’ tempi e della
fortuna tu non
hai potuto operare. insegnarlo nd
altri, acciocché sendone molti
capaci, alcuno di
quelli, più amato dal
Cielo, possa operarlo.
Ed avendo ne’ discorsi
del superior libro
parlato delle deliberazioni fatte
da* Romani pertinenti al
di dentro della
città, in questo parleremo di
quelle, che ’\
Popolo romano fece pertinenti
allo augumento dello imperio
suo. Quale fu più
cagione dello imperio che
acquistarono i Romani, o la virtùj
o la fortuna. Molti hanno
avuta oppinione, intra
i quali è Plutarco, gravissimo
scrittore, che ’1 Popolo
romano nello acquistare lo
imperio fusse più
favorito dalla fortuna che
dalla virtù. Ed
intra le altre ragioni
che ne adduce,
dice che per
confessione di quel popolo
si dimostra, quello avere
riconosciute dalla fortuna tutte
le sue vittorie,
avendo quello edificati più
templi alla Fortuna,
che ad alcun altro
Dio. E pare che a
questa oppinione si accosti
Livio; perchè rade volte
è che facci parlare
ad alcuno Romano, dove
ei racconti della
virtù, che non vi
aggiunga la fortuna.
La qual cosa io
non voglio confessare
in alcun modo, nè
credo ancora si
possa sostenere. Perchè, se non si è
trovato mai repubblica che
abbi fatti i progressi
che Roma, è nato che
non si è trovata
mai repubblica che sia
stata ordinata a potere acquistare come
Roma. Perchè la virtù
degli eserciti gli
feciono acquistare Io imperio;
e l’ordine del procedere, ed
il modo suo
proprio, e trovato dal suo
primo legislatore, gli
fece mantenere lo acquistato:
come di sotto largamente in
più discorsi si
narrerà. Dicono costoro, che
non avere mai
accozzate due potentissime
guerre in uno medesimo
tempo, fu fortuna
e non virtù del Popolo
romano; perchè e’ non ebbero
guerra con i Latini,
se non quando egli
ebbero non tanto
battuti i Sanniti, quanto che la guerra
fu da* Romani fatta
in difensione di
quelli; non combatterono con i Toscani,
se prima non ebbero
soggiogati i Latini, ed
enervati con le spesse
rotte quasi in
tutto i Sanniti: che se
due di queste
potenze intere si fussero,
quando erano fresche, accozzate insieme,
senza dubbio si può
facilmente conietturare che
ne sarebbe seguito la
rovina della romana
Repubblica. Ma, comunelle questa
cosa nascesse, mai non
intervenne che eglino
avessino due potentissime guerre
in un medesimo tempo:
anzi parve sempre, o nel
nascere dell’ una, l’altra
si spegnesse; o nel spegnersi
dell’ una, l’altra nascesse. 11
che si può
facilmente vedere per T ordine
delle guerre fatte
da loro: perchè, lasciando
stare quelle che feciono
prima che Roma
fusse presa dai Franciosi,
si vede che,
mentre che combatterno con
gli Equi e con
i Volsci, mai, mentre
questi popoli furono potenti, non
si levarono contro
di lor uitre genti.
Domi costoro, nacque
la guerra contea ai
Sanniti; e benché innanzi che
finisse tal guerra
i popoli latini si ribellassero
da’ Romani, nondimeno quando tale
ribellione segui, i Sanniti
erano in lega
con Roma, e con il
loro esercito aiutorono
i Romani domare la insolenza
latina. I quali domi, risurse
la guerra di
Sannio. Battute per molte
rotte date a’
Sanniti le loro
forze, nacque la guerra
de’ Toscani; la qual composta, si
rilevarono di nuovo
i Sanniti per la passata
di Pirro in ITALIA.
Il quale
come fu ribattuto,
e rimandato in Grecia, appiccarono
la prima guerra con
i Cartaginesi: nè {ìrima
fu tal guerra finita, che
tutti i Franciosi, e di
là e di qua dall’ Alpi,
congiurarono conti a i Romani;
tanto che intra
Popolonia e Pisa, dove è
oggi la
torre a San Vincenti, furono con
massima strage superati. Finita questa
guerra, per ispazio di
venti anni ebbero
guerra di non molta
importanza; perchè non
eombatterono con altri
che con i Liguri,
c con quel rimanente de’
Franciosi che era in
Lombardia. E così stettero
tanto che nacque la
seconda guerra cartaginese, la qual
per sedici anni
tenne occupata Italia. Finita
questa con massima
gloria, nacque la guerra
macedonica; la quale tìnita, venne
quella d’ Antioco e d’ Asia. Dopo la
qual vittoria, non
restò in tutto il
mondo nè principe
nè repubblica che, di
per sè, o tutti
insieme, si potessero opporre alle
forze romane. Ma
innanzi a quella ultima vittoria,
chi considerrà l’ ordine di
queste guerre, ed
il modo del . procedere
loro, vedrà dentro
mescolate con la fortuna
una virtù e prudenza
grandissima. Talché, chi
esaminasse la cagione di
tale fortuna, la
ritroverebbe facilmente: perchè
gli è cosa certissima, che
come un principe
e un popolo viene in
tanta riputazione, che ciascuno
principe e popolo vicino
abbia di per sè
paura ad assaltarlo,
e ne tema, sempre interverrà
che ciascuno d essi
mai lo assalterà,
se non necessitato ; in modo
che e’ sarà
quasi come nella elezione
di quel polente,
far guerra con quale
di quelli suoi
vicini gli parrà, e gii
altri con la
sua industria quietare. I quali,
parte rispetto alla
potenza suo, parte ingannati
da quei modi che
egli terrà per
nddormentargli, si quietano facilmente;
e gli altri potenti che
sono discosto, e che
non hanno coinmerzio seco,
curano la cosa
come cosa longinqua, e che
non appartenga loro. Nel
quale errore stanno
tanto che questo incendio
venga loro presso: il quale venuto,
non hanno rimedio
a spegnerlo se non con
le forze proprie;
le quali dipoi non
bastano, sendo colui diventato potentissimo.
Io voglio lasciare andare, come i
Sanniti stettero a vedere vincere dal
Popolo romano i Yolsci
e gli Equi; e per
non essere troppo
prolisso, mi farò da’
Cartaginesi: i quali erano
di gran potenza
c di grande estimazione quando i Romani
combattevano con i Sanniti e con
i Toscani; perchè tii già tenevano
tutta 1’ Affrica,
tenevano ia Stintigna e la
Sicilia, avevano dominio in
parte della Spagna.
La quale polenza
loro, insieme con V
esser discosto ne’ confini dal
Popolo romano, fece
che non pensarono mai di assaltare
quello, nè di soccorrere
i Sanniti e Toscani: anzi fecero
come si fa
nelle cose che crescono,
più tosto in
lor favore collegandosi con quelli,
e cercando l’amicizia loro. Nè
si avviddono prima
del1’ errore fatto,
che i Romani, domi
tutti i popoli mezzi infra
loro ed i Cartaginesi, cominciarono a combattere
insieme dello imperio di
Sicilia e di Spagna. Intervenne questo
medesimo a’ Franciosi che
a’ Cartaginesi, e cosi a Filippo
re de’ Macedoni, e ad Antioco;
e ciascuno di loro credea,
mentre che il
Popolo romano era occupato
con l’altro, che quell’
altro lo superasse,
ed essere a tempo,
o con pace o con
guerra, difendersi da lui.
In modo che
io credo che la
fortuna che ebbono
in questa parte i Romani, 1’
arebbono tutti quelli
principl che procedessero
come i Romani, c fussero
di quella medesima
virtù che loro. Sarebbeci
da mostrare a questo proposito il
modo tenuto dal
Popolo romano nello entrare
nelle provincie d’ altri,
se nei nostro
trattato de’ principati
non ne avessimo
parlato a lungo; perchè in
quello questa materia
è diffusamente disputata.
Dirò solo questo
brevemente, come sempre s’ingegnarono avere nelle
provincie nuove qualche
amico che fusse scala
o porta a salirvi o entrarvi,
o mezzo a tenerla: come si vede
che per. il
mezzo de’ Capovani entrarono in
Sannio, de’ Camertini in
Toscana, de’ Mamertini in
Sicilia, de’ Saguntini
in Spagna, di
Massinissa iti Affrica, degli
Eloli in Grecia,
di Eumene ed altri
principi in Asia,
de’ Massiliensi e deili Edui in
Francia. E così non
mancarono mai di simili
appoggi, per potere facilitare le
imprese loro, e nello acquistare le
provincie e nel tenerle.
Il che quelli popoli
che osserveranno, vedranno avere meno
bisogno della fortuna, che
quelli che ne
saranno non buoni osservatori.
E perchè ciascuno possa meglio
conoscere, quanto potè
più la virtù che
la fortuna loro
ad acquistare quello imperio; noi
discorreremo nel seguente capitolo
di che qualità
furono quelli popoli con i
quali egli ebbero a combattere, e quanto
erano ostinati a difendere la
loro libertà. 11. — Con
quali popoli i Romani
ebbero a combattere, e come
ostinatamente quelli
difendevano la loro
libertà. Nessuna cosa fece
più faticoso a’Romani superare i popoli
d’intorno, c parte delle
provincie discosto, quanto
lo amore che in
quelli tempi molti
popoli avevano alla libertà;
la quale tanto
ostinatamente difendevano,
che mai se non
da una
eccessiva virtù sarebbono
stati * soggiogati. Perchè, per
molti essempi si conosce
a quali pericoli si
mettessino per mantenere o ricuperare
quella; quali vendette e’
facessino contra a coloro che
V avessino loro occupata.
Conoscesi ancora nelle
lezioni delle istorie, quali danni
i popoli e le città
riccvino per la servitù.
E dove in questi
tempi ci è solo una
provincia la quale
si possa dire che
abbia in sè
città libere, ne*
tempi antichi in tutte
le provincie erano
assai popoli liberissimi. Vedesi
come in quelli tempi
de’ quali noi
parliamo al presente, in
Italia, dall’ Alpi
che dividono ora la
Toscana dalla Lombardia,
insino alla punta d’Italia,
erano molti popoli
liberi; com’erano i Toscani, i Romani,
i Sanniti, e molti altri popoli
che in quel
resto d’ Italia abitavano. Nè si ragiona
mai che vi fusse
alcuno re, fuora
di quelli che regnarono
in Roma, e Porsena
re di Toscaua; la
stirpe del quale
come si estinguesse, non
ne parla la
istoria. Ma si vede
bene, come in
quelli tempi che i
. Romani andarono a campo
a Veio, la Toscana era
libera: e tanto si godea della
sua libertà, e tanto
odiava il nome del
principe, che avendo
fatto i Veienti per loro
difensione un re
in Veio, e domandando
aiuto a' Toscani contra
ai Romani; quelli, dopo molte
consulte fatte, deliberarono di
non dare aiuto
a’Veienti, infino a tanto che
vivessino sotto ’1 re;
giudicando non esser
bene difendere la patria
di coloro che V
avevano di già sottomessa ad
altrui. E facil cosa è
conoscere donde nasca ne’
popoli questa affezione del
vivere libero; perchè
si vede per esperienza,
le cittadi non
avere mai ampliato nè
di domiuio nè
di ricchezza, se non
mentre sono state
in libertà. E veramente
meravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza
venne Atene per ispazio
di cento anni,
poiché la si liberò
dalla tirannide di
Pisistrato. Ma sopra tutto
meravigliosissima cosa è a considerare, a quanta
grandezza venne Roma, poiché
la si liberò
da’ suoi Re. La
cagione è facile ad
intendere; perchè non
il bene particolare,
ma il bene comune
è quello che fa
grandi le città. E senza dubbio,
questo bene comune
non è osservato se non
nelle repubbliche; perchè lutto
quello che fa a
proposito suo, si eseguisce;
e quantunque e’ torni in danno
di questo o di
quello privato, e’ sono
tanti quelli per
chi detto bene fa,
che lo possono
tirare innanzi contra alla
disposizione di quelli
pochi che ne fussino
oppressi. Al contrario
interviene quando vi è uno
principe; dove il più
delle volte quello
che fa per
lui, offende la città;
e quello che fa
per la città, offende lui.
Dimodoché, subito che
nasce una tirannide sopra
un viver libero,
il manco male che
ne resulti a quelle
città, è non andare più
innanzi, nè crescere più
in potenza o in
ricchezze; ma il più delle
volte, anzi sempre,
interviene loro, che le
tornano indietro. E se
la sorte facesse che vi surgesse
un tiranno virtuoso, il
quale, per animo e per
virtù d’ arme ampliasse
il dominio suo,
non ne risulterebbe alcuna
utilità a quella repubblica, ma a
lui proprio: perchè e’
non può onorare
nessuno di quelli cittadini che
siano valenti c buoni,
che egli tiranneggia, non
volendo avere ad avere
sospetto di loro.
Non può ancora le
città che egli
acquista, sottometterle o
farle tributarie a quella
città di che egli
è tiranno: perchè il
farla potente non fa
per lui; ma
per lui fa
tenere lo Stato disgiunto,
e che ciascuna terra
e ciascuna provincia riconosca
lui. Talché di suoi
acquisti, solo egli ne profitta,
e non la sua
patria. E chi volesse
confermare questa oppinione con
infinite altre ragioni, legga
Senofonte nel suo
trattato che fa De
Tirannide. Non è meraviglia adunque, che
gli antichi popoli con
tanto odio perseguitassino i tiranni, ed
nmassiiio il vivere
libero, e che il nome
della libertà fusse
tanto stimato da loro:
come intervenne quando
Girolamo nipote di lerone
siracusano fu morto in
Siracusa, che venendo
le novelle della sua
morte in nel
suo esercito, che non
era molto lontano
da Siracusa, cominciò
prima a tumultuare, e pigliare
1’ armi contro
agli ucciditori di quello;
ma come ei
sentì che in
Siracusa si gridava libertà,
allettato da quel nome,
si quietò tutto,
pose giti V ira contra
a’ tirannicidi, e pensò
come iti quella città
si potesse ordinare
un viver libero. Non è
meraviglia ancora, che i
popoli faccino vendette
istraordinaric contra a
quelli che gli
hanno occupata la libertà.
Di che ci
sono stali assai esempi,
de’ quali ne intendo
referire solo uno, seguilo
in Coreica, città
di Grecia, ne’ tempi della
guerra peloponnesiaca; «love sendo
divisa quella provincia
in due fazioni, delle
quali 1’ una
seguitava gli Ateniesi, V altra
gli Spartani, ne
nasceva che di molte
città, che erano
infra loro divise, T una
parte seguiva F amicizia di
Sparta, l’altra di
Atene: ed essendo occorso clic
nella detta città
prcvalessino i nobili, e togliessino
la libertà al popolo,
i popolari per mezzo
degli Ateniesi ripresero le
forze, e posto le mani
addosso a tutta la
nobiltà, gli rinchiusero in una
prigione capace di
tutti loro; donde gli
traevano ad otto o
dieci per volta, sotto
titolo di mandargli
in esilio iti diverse
parli, e quelli con
molti crudeli essempi facevauo
morire. Di che sendosi
quelli che restavano
accorti, deliberarono, in quanto
era a loro possibile, fuggire quella
morte ignominiosa; ed armatisi
di quello potevano,
combattendo con quelli vi
volevano entrare, la entrata
della prigione difendevano;
di modo che il
popolo, a questo romore fatto
concorso, scoperse la
parte superiore di quel
luogo, e quelli con
quelle rovine sufìbeorno. Seguirono
ancora in delta provincia
molti altri simili
casi orrendi e notabili:
talché si vede
esser vero, che con
maggiore impeto si
vendica una libertà che
ti è suta tolta,
che quella che li è
voluta torre. Pensando dunque donde
possa nascere, che
in quelli tempi antichi,
i popoli fussero più
amatori della libertà che in questi;
credo nasca da quella
medesima cagione che fa
ora gli uomini
manco forti: la quale credo
sia la diversità
della educazione nostra dalla
antica, fondata nella
diversità della religione nostra
dalla antica. Perchè avendoci
la nostra religione mostra la
verità e la vera
via, ci fa stimare
meno l’onore del
mondo: onde i Gentili stimandolo
assai, ed avendo posto
in quello il
sommo bene, erano nelle
azioni loro più
feroci. Il che si
può considerare da
molte loro constituzioni, cominciandosi
dalla magnificenza de’ sacrificii
loro, alla umilila de’
nostri; dove è qualche pompa
più dilicata che magnifica,
ma nessuna azione feroce
o gagliarda. Quivi non
mancava la pompa nè
la magnificenza delle
cerimonie, ma vi si
aggiungeva 1* azione del
sacrificio pieno di
sangue e di ferocia, ammazzandovisi moltitudine
di animali: il quale
aspetto sendo terribile,
rendeva gli uomini simili
a lui. La religione
antica, oltre di questo,
non beatificava se non
gli uomini pieni
di mondana gloria: come
erano capitani di
eserciti, e principi di repubbliche.
La nostra religione ha
glorificato più gli
uomini umili e contemplativi, che
gli attivi. Ha
dipoi posto il sommo
bene nella umilila,
abiezione, nello dispregio delle
cose umane: quell’ altra
lo poneva nella
grandezza dello animo, nella
fortezza del corpo,
ed in tutte le
altre cose atte a
fare gli
uomini fortissimi. E se la
religione nostra richiede che
abbi in te
fortezza, vuole che tu
sia atto a patire
più che a fare una
cosa forte. Questo
modo di vivere, adunque, pare
che abbi rendutoil
mondo debole, e datolo in
preda agli uomini scellerati; i quali
sicuramente lo possono maneggiare, veggendo
come la università degli uomini,
per andare in
paradiso, pensa più a sopportare
le sue battiture, che a
vendicarle. E benché paia che
si sia effeminato
il mondo, e disarmato il cielo,
nasce più senza
dubbio dalla viltà degli
uomini, che hanno
interpretato la nostra religione
secondo l’ ozio, e non
secondo la virtù.
Perchè, se considerassino come
la permette la esultazione e la
difesa della patria,
vedrebbono come la
vuole che noi
l’amiaino ed onoriamo,
e prepariamoci ad esser tali
che noi la
possiamo difendere. Fanno adunque
queste educazioni, e si false
interpretazioni, che nel
mondo non si vede
tante repubbliche quante
si vedeva aulicamente; nè,
per conscguente, si vede
ne’ popoli tanto
amore alla libertà quanto allora: ancora che
io creda piuttosto essere cagione
di questo, che lo
imperio romano con
le sue arme e
sua grandezza spense tutte
le repubbliche e lutti
i viveri civili E benché
poi tal imperio si
sia risoluto, non si sono
potute le città ancora
rimettere insieme nè
riordinare alla vita civile,
se non in
pochissimi luoghi di quello
imperio. Pure, comunelle si
fusse, i Romani in
ogni minima parte del
mondo trovarono una congiura
di repubbliche armatissime,
ed ostinatissime atia difesa
della libertà loro. Il
che mostra che
'1 Popolo romano
senza una rara ed
estrema virtù mai
non le arebbe potute
superare. E per darne esseinpio di
qualche membro, voglio
mi basti lo essempio
de’ Sanniti: i quali pare cosa
mirabile, e Tito Livio
lo confessa, che fussero
sì potenti, e 1’
arme loro si valide,
che potessero infino
al tempo di Papirio
Cursore consolo, figliuolo del
primo Papirio, resistere
a’ Romani (che fu
uno spazio di
XLVI anni), dopo tante
rotte, rovine di
terre, e tante stragi ricevute nel
paese loro; massime
veduto ora quel paese
dove erano tante
cittadi e tanti uomini, esser
quasi che disabitato : ed allora
vi era tanto
ordine, e tanta forza,
eh’ egli era
insuperabile, se da una
virtù romana non
fusse stato assaltato. E facil
cosa è considerare donde nasceva
quello ordine, c donde
proceda questo disordine; perchè
tutto viene dal viver
libero allora, ed
ora dal viver
servo. Perchè tutte le
terre e le provincie
che vivono libere in
ogni parte, come
di sopra dissi, fanno
i progressi grandissimi.
Perchè quivi si
vede maggiori popoli, per
essere i matrimoni più
liberi, e più desiderabili dagli
uomini: perchè ciascuno
procrea volentieri quelli
figliuoli che crede potere
nutrire, non dubitando che
il patrimonio gli
sia tolto; thè eT
conosce non solamente che
nascono liberi e non schiavi,
ma che possono
mediante la virtù loro
diventare principi. Veggonvisi
le ricchezze multiplicare
in maggiore numero, e quelle
che vengono dalla cultura, e quelle
che vengono dalle
arti. Perchè ciascuno volentieri
multiplica in quella cosa,
e cerca di acquistare
quei beni, che crede
acquistati potersi godere. Onde
ne nasce che
gli uomini a gara
pensano ai privati ed a’
pubblici comodi; e l’ uno
e l’altro viene meravigliosamente a crescere.
II contrario di
tutte queste cosesegue
in quelli paesi
che vivono scivi; c tanto più
mancano del consueto
bene, quanto è più dura
la servitù. E di
tutte" le servitù dure,
quella è durissima che li
sottomette ad una
repubblica: E una, perchè la è più
durabile, e manco si può
sperare d’ uscirne;
Y altra, perchè il
fine della repubblica è enervare
ed indebolire. per accrescere
il corpo suo,
tutti gli altri corpi.
11 che non
la un principe che
ti sottometta, quando
quel principe non sia
qualche principe barbaro, destruttore de’
paesi, e dissipatore di tutte
le civilità degli
uomini, come sono i principi
orientali. Ma s’ egli
ha in sè ordini
umani ed ordinari,
il più delle volte
ama le città
sue soggette egualmente, ed a
loro lascia T arti
tutte, e quasi lutti gli
ordini antichi. Talché, se
le non possono
crescere come libere, elle
non rovinano anche
come serve; intendendosi della servitù
in quale vengono le
città servendo ad
un forestiero, perchè di
quella d’ uno loro
cittadino ne parlai di
sopra. Chi considerrù,
adunque, tutto quello che
si è detto, non si
meraviglierà della potenza
che i Sanniti avevano sendo
liberi, e della debolezza in
che e’ vennero poi
servendo: e L. ne
fa fede in
più luoghi, e massime nella guerra
d’ Annibaie, dove ei mostra
che essendo i Sanniti
oppressi da una legione
d’ uomini che
era in Nola, mandorono oratori
ad Annibale, a pregarlo che gli
soccorresse; i quali nel parlar
loro dissono, che
avevano per cento anni
combattuto con i Romani
con i propri loro soldati
e propri loro capitani, e molte volte
avevano sostenuto duoi eserciti
consolari e duoi consoli;
e che allora a tanta
bassezza erano venuti, che
non si potevano
a pena difendere da una
piccola legione romana
che era. Roma divenne
grande città rovinando le
città circonvicine, e ricevendo i
forestieri facilmente aJ
suoi onori. Crescit inlerea
Roma Albce ruinis. Quelli che
disegnano che una
città faccia grande imperio,
si debbono con
ogni industria ingegnare di
farla piena di abitatori; perchè senza
questa abbondanza di uomini,
mai non riuscirà
di fare grande una
città. Questo si
fa in duoi modi;
per amore, e per
forza. Per amore, tenendo
le vie aperte
e secure a’ forestieri
che disegnassero venire ad
abitare in quella,
acciocché ciascuno vi abiti
volentieri: per forza, disfacendo le
città vicine, e mandando
gli abitatori di quelle
ad abitare nella
tua città. Il che
fu tanto osservato
in Roma, che nel
tempo del sesto
Re in Roma abitavano ottantamila
uomini da portare armi.
Perchè i Romani vollono
fare ad uso del
buono cultivatore; il
quale, perche una
pianta ingrossi, e possa
pròdurre e maturare i fruiti
suoi, gli taglia i primi rami
che la mette,
acciocché, rimasa quella virtù
nel piede di
quella pianta, possino col
tempo nascervi più verdi
e più fruttiferi. E che
questo modo tenuto per
ampliare e fare imperio, fusse necessario
e buono, lo dimostra Io
essempio di Sparta
e di Atene: le quali essendo
due repubbliche armatissime, ed ordinate
di ottime leggi,
nondimeno non si condussono
alla grandezza dello imperio
romano; e Roma pareva più
tumultuaria, e non tanto bene
ordinata quanto quelle.
Di che non se
ne può addurre
altra cagione, che la
preallegata: perchè Roma,
per avere ingrossato per
quelle due vie il
corpo della sua
città, potette di già
mettere in arme
dugentottantamila uomini; e
Sparta ed Atene
non passarono mai ventimila
per ciascuna. Il
che nacque, non da
essere il sito
di Roma più benigno
che quello di
coloro, ma solamente
da diverso modo
di procedere. Perché Licurgo,
fondatore della repubblica spartana, considerando nessuna cosa
potere più facilmente
risolvere le sue leggi
che la commistione
di nuovi abitatori, fece
ogni cosa perchè
i forestieri non avessino a conversarvi: ed, oltre
al non gli
ricevere ne’ matrimoni, alla civiltà,
ed alle altre
conversazioni che fanno convenire
gli uomini insieme, ordinò che
in quella sua
repubblica si spendesse monete
di cuoio, per
tor via a ciascuno il
desiderio di venirvi
per portarvi mercanzie, o portarvi
alcuna arte; di qualità
che quella città
non potette mai ingrossare
di abitatori. E perchè
tutte le azioni
nostre imitano la natura,
non è possibile nè
naturale che uno pedale
sottile sostenga un
ramo grosso. Però una
repubblica piccola non può
occupare città nè
regni che siano più
validi nè più
grossi di lei; e
se pure gli occupa,
gP interviene come a
quello albero che avesse
più. grosso il ramo che
’l piede," che
sostenendolo con fatica, ogni
piccolo vento lo
fiacca: come si vede
che intervenne a Sparla,
la quale avendo occupate
tutte le città
di Grecia, non prima
se gli ribellò
Tebe, che tutte P altre
cittadi se gli
ribellarono, e rimase i! pedale
solo senza rami.
Il che non potette
intervenire a Roma, avendo il
piè si grosso,
che qualunque ramo poteva
facilmente sostenere. Questo
modo adunque di procedere,
insieme con gli altri
che di sotto
si diranno, fece Roma
grande e potentissima. Il
che dimostra L. in
due parole, quando disse:
Crcscit intcrea Roma
Albce ruinis. Le repubbliche
hanno tentili tre modi
circa lo ampliare. Chi
ha osservato le
antiche istorie, Iruova come
le repubbliche hanno
tre modi circa lo
ampliare. L* uno è
stato quello che osservorono
i Toscani antichi, di essere
una lega di
più repubbliche insieme,
dove non sia
alcuna che avanzi l’ altra
nè di autorità
nè di grado; e nello acquistare,
farsi 1’ altre città compagne, in
simil modo come
in questo tempo fanno
i Svizzeri, e come nei tempi
antichi feciono in
Grecia gli Achei e gli
Etoli. E perchè gli
Romani feciono assai guerra
con i Toscani, per
mostrar meglio la qualità
di questo primo
modo, ini distenderò in
dare notizia di
loro particolarmente. In Italia,
innanzi allo imperio romano,
furono i Toscani per mare
e per terra potentissimi:
e benché delle cose loro
non ce ne
sia particolare istoria, pure
c’è qualche poco di
memoria, e qualche segno
della grandezza loro;
e si sa come
e* mandarono una colonia
in su ’l
mare di sopra,
la quale chiamarono Adria,
che fu si
nobile, che la dette
nome a quel mare
che ancora i Latini chiamano
Adriatico. Intendesi ancora,
come le loro
arme furono ubbidite dal
Tevere per infìno
ai piè dell’ Alpi,
che ora cingono
il grosso di Italia;
non ostante che
dugento anni innanzi che i
Romani crescessino in molte
forze, detti Toscani
perderono lo imperio di
quel paese che
oggi si chiama la
Lombardia; la quale
provincia fu occupata da’ Franciosi: i quali mossi
o da necessità, o dalla
dolcezza dei frutti, e massime del
viuo, vennono in
Italia sotto Bellovcso loro
duce; e rotti e cacciati i provinciali, si
posono in quel luogo,
dove edificarono di
molte cittadi, e quella provincia
chiamarono Gallia, dal nome
che tenevano allora; la
quale tennono fino che
da’ Romani fussero domi.
Vivevano, adunque, i Toscani
con quella equalità, e
procedevano nello ampliare in quel primo
modo che di sopra
si dice: e furono
dodici città, tra le
quali era Chiusi,
Yeio, Fiesole, Arezzo, Volterra, e simili:
i quali per via di
lega governavano lo
imperio loro; nè poterono
uscir d’Italia con
gli acquisti ; e di quella
ancora rimase intatta gran
parte, per le
cagioni che di
sotto si diranno. V altro
modo è farsi compagni j
non tanto però
che non ti
rimanga il grado del
comandare, la sedia dello
imperio ed il
titolo delle imprese: il
quale modo fu
osservato da’ Romani. 11
terzo modo è farsi
immediate sudditi, e non compagni;
come fecero gli Spartani
e gli Ateniesi. De'
quali tre modi, questo
ultimo è al tutto
inutile; come c’ si
vide che fu nelle sopraddette due repubbliche:
le quali non
rovinarono per altro, se
non per avere
acquistato quel dominio che le non
potevano tenere. Perchè, pigliar
cura di avere
a governare città con
violenza, massime quelle che
tassino consuete a viver
libere, è una cosa diffìcile
e faticosa. E se tu
non sei armato
e grosso d’ armi, non
le puoi nè
comandare nè reggere. Ed
a voler esser così
fatto, è necessario farsi compagni
che ti aiutino
ingrossare la tua città
di popolo. E perchè queste due
città non feciono
nè1’ uno nè
I’ altro, il
modo del procedere loro fu
inutile. E perché Roma,
la quale è nello esempio
del secondo modo,
fece l’uno e T altro; però
salse a tanta eccessiva potenza. E perchè
la è stata sola a vivere
cosi, è stata ancora
sola a diventar tanto potente: perchè, avendosi ella
fatti di molti
compagni per tutta Italia,
i quali in di
molte cose con
eguali leggi vivevano seco;
e dall’ altro canto» come di
sopra è detto, sendosi
riservato sempre la sedia
dello imperio ed il
titolo del comandare;
questi suoi compagni venivano, che
non se ne
avvedevano, con le fatiche
e con il sangue loro
a soggiogar sè stessi.
Perchè, come cominciorono a uscire
con gli eserciti di
Italia, e ridurre i regni
in provincie, e farsi
soggetti coloro che
per esser consueti a vivere
sotto i Re, non si
curavano d* esser
soggetti; ed avendo governadori romani,
ed essendo stati vinti
da eserciti con
ii titolo romano; non
riconoscevano per superiore
altro che Roma. Di
modo che quelli
compagni di Roma
che erano in
Italia, si trovarono in
un tratto cinti
da’ sudditi romani, cd
oppressi da una
grossissima città come era
Roma; e quando e’ si avviddono
dello inganno sotto
i! quale erano vissuti,
non furono a tempo
a rimediarvi: tanta autorità
aveva presa Roma con
le provincie esterne,
e tanta forza si trovava
in seno, avendo
la sua città grossissima
ed armatissima. E benché quelli suoi
compagni, per vendicarsi delle ingiurie,
gli congiurassino contea, furono in
poco tempo perditori
della guerra, peggiorando le
loro condizioni; perchè di
compagni, diventarono ancora loro
sudditi. Questo modo
di procedere, come è detto,
è stato solo osservato da’
Romani: nè può
tenere altro modo una
repubblica che voglia
ampliare; perchè la esperienza
non te ne ha
mostro nessuno più
certo o più vero. 11
modo preallegato delle
leghe, come viverono i Toscani,
gii Achei e gli
Etoli, e come oggi
vivono i Svizzeri, è dopo
a quello de’ Romani
il miglior modo; perchè
non si potendo con
quello ampliare assai,
ne seguitano duoi beni:
l’ uno, che
facilmente non ti tiri
guerra addosso; l’altro,
che quel tanto che
tu pigli, lo
tieni facilmente. La cagione
del non potere
ampliare, è lo essere
una repubblica disgiunta,
e posta in varie
sedi: il che
fa che difficilmente possono consultare
e deliberare. Fa ancora che
non sono desiderosi
di dominare: perchè essendo
molte comunità a* participarc
di quel dominio,
non istimano tanto tale
acquisto, quanto fa una
repubblica sola, che
spera di goderselo tutto. Governansi,
oltra di questo, per
concilio, c conviene che
siano più tardi ad
ogni deliberazione, che quelli
che abitano dentro
ad un medesimo cerchio. Vedesi
ancora per esperienza, che simile
modo di procedere
ha un termine fisso,
il quale non
ci è esempio che mostri
che si sia
trapassato: e questo è di
aggiugnere a dodici o quattordici
comunità; dipoi non cercare di
andare più avanti: percliè sendo giunti
al grado che
par loro potersi
difendere da ciascuno, non
cercano maggiore dominio; sì perchè
la necessità non gli
stringe di avere
piò potenza; si per
non conoscere utile
negli acquisti, per le
cagioni dette di
sopra. Perchè gli arebbono
a fare una delle
due cose; o seguitare di
farsi compagni, e questa
moltitudine farebbe confusione; o gli arebbono
a farsi sudditi: e perchè e’ veggono
in questo difficultà,
e non molto utile
nel tenergli, non lo
stimano. Pertanto, quando e’
sono venuti a tanto numero
che paia loro
vivere sicuri, si voltano
a due cose: P una
a ricevere raccomandati, e pigliare
protezioni ; c per questi mezzi
trarre da ogni parte
danari, i quali facilmente intra loro
si possono distribuire:
1* altra è militare per
altrui, e pigliar stipendio da
questo e da quello
principe che per sue
imprese gli soldo; come
si vede che fanno
oggi i Svizzeri, e come si
legge che facevano
i preallegati. Di che il* è
testimone Tito Livio,
dove dice che, venendo
a parlamento Filippo re di
Macedonia con Tito
Quinzio Flamminio, e ragionando
d'accordo alla presenza d’
un pretore degli
Etoli; in venendo a parole detto
pretore con Filippo, gli
fu da quello
rimproverato la avarizia e la
infidelità, dicendo che
gli Etoli non si
vergognavano militare con uno,
e poi mandare loro
uomini ancora al servigio
del nimico; talché molte volte
intra dnoi contrari
eserciti si vedevano le
insegne di Etolia.
Conoscesi, pertanto, come questo
modo di procedere per
leghe, è stato sempre
simile, ed ha fatto
simili effetti. Vedesi
ancora, che quel modo
di fare sudditi
è stato sempre debole, ed
avere fatto piccoli profitti; e quando
pure egli hanno
passato il modo, essere
rovinati tosto. E se questo
modo di fare
sudditi è inutile nelle repubbliche
armate, in quelle
che sono disarmate è inutilissimo: come
sono state ne’ nostri
tempi le repubbliche
di Italia. Conoseesi, pertanto,
essere vero modo quello
che tennono i Romani
5 il quale è tanto più
mirabile, quanto e’ non
ee il’
era innanzi a Roma
essempio, e dopo Roma non è
stalo alcuno elio
gli abbi imitati. E quanto
alle leghe, si trovano
solo i Svizzeri e la
lega di Svevia
che gli imita.
E, come nel
fine di questa materia
si dirà, tanti
ordini osservati da Roma,
così pertinenti alle cose
di dentro come a
quelle di fuora, non
sono ne* presenti
nostri tempi non solamente
imitati, ma non
n’è tenuto alcuno conto; giudicandoli alcuni
non veri, alcuni impossibili,
alcuni non a proposito
ed inutili: tanto che
standoci con questa ignoranza,
siamo preda di qualunque
ha voluto correre
questa provincia. E quando la
imitazione de’ Romani paresse difficile,
non doverrebhe parere cosi
quella degli antichi
Toscani, massime a’ presenti
Toscani. Perchè, se quelli non poterono, per
le cagioni dette, fare
uno imperio simile
a quel di Roma, poterono acquistare
in Italia quella
potenza che quel modo
del procedere concesse loro. 11
che fu per
un gran tempo securo,
con somma gloria
d’ imperio e d’arme, e massima
laude di costumi
e di religione. La
qual potenza e gloria fu
prima diminuita da’
Franciosi, dipoi spenta da’ Romani;
e fu tanto spenta, che,
ancora che duemila
anni fa la
potenza de’ Toscani fusse
grande, al presente non
ce n’ è quasi
memoria. La qual cosa
mi ha fatto
pensare donde nasca questa
oblivione delle cose:
come nel seguente capitolo
si discorrerà. Che la
variazione delle sèlle e delle
lingue insieme con l'accidente de' diluvi
o delle pesti j spegno
la memoria delle
cose. A quelli FILOSOFI che
hanno voluto che’l mondo
sia stato eterno,
credo che si potesse
reificare, che se
tanta antichità fusse vera,
e’ sarebbe ragionevole che ci
fusse memoria di
più che cinque mila
anni; quando e’
non si vedesse
come queste memorie de*
tempi per diverse cagioni si
spengano: delle quali parte
vengono dagli nomini,
parte dal cielo. Quelle
che vengono dagli
uomini, sono LE VARIAZIONI DELLE
SETTE E DELLE LINGUE. Perchè quando surge
una setta nuova, cioè
una religione nuova,
il primo studio suo
è, per darsi
reputazione, estinguere la vecchia;
e quando egli occorre che
gli ordinatori delia
nuova setta siano di lingua diversa,
la spengono facilmente. La
qual cosa si
conosce considerando i modi che
ha tenuti la religione
cristiana contra alla
SETTA GENTILE; la quale
ha cancellati tutti
gli ordini, tutte le
ceremonie di quella,
e spenta ogni memoria
di quella antica teologia. Vero è
che non
gli è riuscito spegnere in
tutto la notizia
delle cose fatte dagli
uomini eccellenti di
quella: il die è nato
per AVERE QUELLA MANTENUTA LA
LINGUA LATINA; il che fecero forzatamente, avendo
a scrivere questa legge nuova
con essa. Perchè,
se V avessino potuta scrivere
con nuova lingua, considerato le
altre persecuzioni gli
feciono, non ci
sarebbe ricordo alcuno delle
cose passate. E chi
legge i modi tenuti da san Gregorio
e dagli altri capi della
religione cristiana, vedrà
con quanta ostinazione e’
perseguitarono tutte le memorie
antiche, ardendo P opere
de* poeti e delli
istorici, minando le immagini,
e guastando ogni altra cosa che
rendesse alcun segno
della antichità. Talché, se a
questa persecuzione egli avessino
aggiunto una nuova
lingua, si sarebbe veduto
in brevissimo tempo ogni
cosa dimenticare. È da
credere, pertanto, che quello
che ha voluto
fare la religione cristiana
contra alla setta gentile, la
gentile abbi fatto
contra u quella che
era innanzi a lei.
E perchè queste sètte in
cinque o in seimila
anni variarono due o tre
volle, si perdè
in memoria delle cose
fatte innanzi a quel tempo.
E se pure ne
resta alcun segno, si
considera come cosa
favolosa, e non è prestato loro
fede: come interviene alla istoria
di Diodoro Siculo,
che benché e’ renda
ragione di quaranta
o cinquanta mila anni, nondimeno
è riputata, come io credo
che sia, cosa
mendace. Quanto alle cause
che vengono dal
cielo, sono quelle che
spengono la umana generazione, e riducono
a pochi gli abitatori di
parte del mondo.
E questo viene o per peste o
per fame
o per una inondazione d*
acque: e la più importante è questa ultima,
sì perchè la è
più universale, sì
perchè quelli che si
salvano sono uomini
tutti montanari e rozzi,
i quali non avendo
notizia di alcuna antichità, non
la possono lasciare a’
posteri. E se infra
loro si salvasse alcuno che
ne avesse notizia,
per farsi riputazione e nome,
la nasconde, e la perverte
a suo modo; talché ne
resta solo a* successori
quanto ei ne
ha voluto scrivere, e non
altro. E che queste inondazioni, pesti
e fami venghino, non credo
sia da dubitarne;
sì perchè ne sono
piene tutte le
istorie, sì perchè
si vede questo effetto
della oblivione delle cose,
sì perchè e’
pare ragionevole che sia:
perchè la natura,
come ne’ corpi semplici, quando
vi è ragunato assai materia
superflua, muove per sè medesima molte volte,
e fa una purgazione, la quale
è salute di quel
corpo; così interviene in questo
corpo misto della umana
generazione, che quando
tutte le provincie sono
ripiene di abitatori,
in modo che non
possono vivere, nè
possono andare altrove, per
esser occupati e pieni tutti
i luoghi; e quando la
astuzia e malignità umana è venuta
dove la può venire,
conviene di necessità
che il mondo si
purghi per uno
de’ tre modi ; acciocché gli
uomini essendo divenuti pochi e battuti,
vivano più comodamente, e diventino migliori.
Era adunque, come di
sopra è detto, già tu
Toscana potente, piena
di religione e di
virtù; aveva i suoi costumi
e la sua LINGUA PATRIA: il
che tutto è stato
spento dalla potenza romana.
Talché, come si è detto,
di lei ne
rimane solo la
memoria del nome. Come i Romani
procedevano nel fare la
guerra. Avendo discorso come i
Romani procedevano nello ampliare,
discorreremo ora come e’
procedevano nel fare
la guerra; ed in ogni
loro azione si
vedrà con quanta prudenza
ei diviarono dal modo
universale degli altri,
per facilitarsi la via a
venire a una suprema grandezza. La
intenzione di chi fa
guerra per elezione,
o vero per ambizione, è acquistare e mantenere
lo acquistato; e procedere in
modo con esso, che
I’ arricchisca c non
impoverisca il paese e la
patria sua. È necessario
dunquc, e nello acquistare
e nel mantenere, pensare
di non spendere;
anzi far ogni cosa
con utilità del
pubblico suo. Chi vuol
fare tutte queste
cose, conviene che tenga
lo stile e modo
romano: il quale fu
in prima di
fare le guerre, come
dicono i Franciosi, corte
e grosse; perchè, venendo in
campagna con eserciti grossi,
tutte le guerre
eh’ egli ebbono co’
Latini, Sanniti e Toscani
le espedirono in brevissimo
tempo. E se si noteranno
tutte quelle che
feciono dal principio di
Roma infino alla
ossidione de’ Yeienti, tutte
si vedranno espedite, quale in
sei, quale in
dieci, quale inventi
di. Perchè l’uso
loro era questo: subito che
era scoperta la
guerra, egli uscivano fuori
con gli eserciti
all’incontro del nimico, e subito
facevano la giornata. La
quale vinta, i nimici,
perchè non fussc guasto
loro il contado affatto, venivano
alle condizioni; ed i
Romani gli condennavano
in terreni: i quali
terreni gli convertivano
in privati comodi, o gli
consegnavano ad una
colonia; la quale posta
in su le
frontiere di coloro, veniva
ad esser guardia de’
confini romani, con utile
di essi coloni,
che avevano quelli campi,
e con utile del pubblico
di Roma, che
senza spesa teneva quella
guardia. Nè poteva
questo modo esser più
seeuro, o più forte,
o piu utile: perchè
mentre che i nimici non
erano in su i
campi, quella guardia bastava: come e’ fussino
usciti fuori grossi per
opprimere quella colonia, ancora i Romani
uscivano fuori grossi, e venivano a giornata
con quelli; e fatta e vinta la
giornata, imponendo loro
più gravi condizioni, si
tornavano in casa. Così
venivano ad acquistare
di mano in mano
riputazione sopra di
loro, e forze in
sè medesimi. E questo
modo vennono tenendo infino
che mutorno modo di
procedere in guerra:
il che fu dopo
la ossidione de’
Veienti; dove, pei*potere fare
guerra lungamente, gli
ordinarono di pagare i soldati,
che prima, per
non essere necessario,
essendo le guerre brevi,
non gli pagavano.
E benché i Rotflani dessino
il soldo, e che per
virtù di questo
ei potessino fare
le guerre più lunghe,
e per farle più
discosto la necessità gli
tenesse più in su’
campi; nondimeno non variarono mai
dal primo ordine
di finirle presto, secondo il
luogo ed il
tempo; nè variarono mai
dal mandare le
colonie. Perchè nel primo
ordine gli tenne,
circa il fare le
guerre brevi, olirà
il loro naturale uso,
T ambizione de’ Consoli; i quali avendo
a stare un anno,
e di quello anno sei
mesi alle stanze,
volevano finire la guerra
per trionfare. Nel mandare
le colonie, gli
tenne 1’utile e la
comodità grande che
ne risultava. Variarono bene
alquanto circa le
prede, delie quali non
erano cosi liberali
come erano stati prima ; sì
perchè e non
pareva loro tanto necessario,
avendo i soldati lo stipendio;
sì perchè essendo
le prede maggiori, disegnavano
d* ingrassaie di
quelle in modo
il pubblico, che non
lussino constretti a fare
le imprese con tributi
della città. li quale
ordine in poco tempo
fece il loro
erario ricchissimo. Questi duoi
modi, adunque, e circa
il distribuire la
preda, e circa il mandar
le colonie, feciono
che Roma arricchiva della guerra
j dove gli altri principi e repubbliche
non savie ne impoveriscono. E ridusse
la cosa in
termine, che ad un
Consolo non pareva poter
trionfare, se non
portava col suo trionfo
assai oro ed
argento, e d’ ogni altra sorte
preda, nello erario.
Cosi i Romani con i
soprascritti termini, e coti il
finire le guerre
presto, sendo contenti con
lunghezza straccare i nemici, e con rotte
e con le scorrerie
e con accordi a loro avvantaggi,
diventarono sempre più ricchi
e più potenti. Quanto terreno
i Romani davano per colono. Quanto terreno
i Romani distribuiisino per
colono, credo sia
molto diffìcile trovarne la
verità. Perchè io
credo ne dessino più o
manco, secondo i luoghi dove
e mandavano le
colonie. E giudicasi che ad
ogni modo ed
in ogni luogo la
distribuzione fusse parca: prima,
per poter mandare più
uomini, sendo quelli diputati per
guardia di quel
paese; dipoi perchè vivendo
loro poveri a caso, non
era ragionevole che
volessino che I loro
uomini abbondassino troppo
fuora. E Tito Livio
dice, come preso
Veio e’ vi mandorno
una colonia, e distribuirono a ciascuno tre
iugeri e sette once di
terra; che sono
al modo nostro. Perchè, oltre
alle cose soprascritte, e giudicavano
che non lo assai
terreno, ma il
bene coltivato bastasse. È necessario bene,
che tutta la colonia
abbi campi pubblici
dove ciascuno possa pascere
il suo bestiame,
e selve dove prendere
del legname per
ardere ; senza le quali
cose non può
una colonia ordinarsi. La cagione
perchè i popoli si partono
da luoghi patriij cd inondano
il paese altrui. Poiché di
sopra si è ragionato
del modo nel procedere
della guerra osservato da’
Romani, c come i Toscani
furono assaltati da* Franciosi; non mi
pare alieno dalla materia
discorrere, come e’ si
fanno di
due generazioni guerre.
L’una è fatta per ambizione
de* principi o delle repubbliche, che
cercano di propagare lo
imperio; come furono
le guerre che fece
Alessandro Magno, e quelle
che feciono i Romani,
e quelle che fanno
ciascuno di, 1* una
potenza con F altra.
Le quali guerre sono
pericolose, ma non cacciano
al tutto gli
abitatori d* una
provincia; perchè e’ basta
al vincitore solo la
ubbidienza de’ popoli,
e il più delle volte
gli lascia vivere
con le loro
leggi, e sempre con le
loro case, e ne’
loro beni. L’altra generazione
di guerra è, quando
un popolo intero
con tutte le sue
famiglie si beva
d’ uno luogo,
necessitato o dalla fame o dalla
guerra, e va a cercare
nuova sede e nuova
provincia; non per comandarla,
come quelli di sopra,
ma per possederla
tutta particolarmente, e
cacciarne o ammazzare gli abitatori
antichi di quella.
Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E di queste
guerre ragiona Salustio
nel fine dell’ Iugurtiuo,
quando dice che
vinto lugurta, si senti
il moto de’
Franciosi che venivano in
Italia: dove e’ dice
che ’l Popolo romano
con tutte le
altre genti combattè solamente
per chi dovesse
comandare, ma con i Franciosi
si combattè sempre per
la salute di
ciascuno. Perchè ad un
principe o una repubblica spegnere solo
coloro che comandano; ma a queste popolazioni
conviene spegnere ciascuno, perchè
vogliono vivere di
quello che altri viveva.
I Romani ebbero tre di
queste guerre pericolosissime. La
prima fu quella quando
Roma fu presa,
la quale fu occupata
da quei Franciosi
che avevano tolto, come
di sopra si
disse, la Lombardia a’ Toscani,
e fattone loro sedia; della
quale L. ne
allega due cagioni: la
prima, come di
sopra si disse, che
furono allettati dalla
dolcezza delle frutte, c del
vino di Italia,
delle quali mancavano in
Francia; la seconda che,
essendo quel regno
francioso moltiplicato in tanto
di uomini, che
non vi si potevano
più nutrire, giudicarono i principi di
quelli luoghi, che
fusse necessario che una
parte di loro
andasse a cercare nuova terra;
e fatta tale deliberazione, elcssono per
capitani di quelli che si avevano
a partire, Belloveso e Sicoveso,
duoi re de’
Franciosi: de’ quali Belloveso
venne in Italia,
e Si» coveso passò in
Ispagna. Dalla passata del
quale Belloveso, nacque
la occupazione di Lombardia,
c quindi la guerra che
prima i Franciosi fecero
a Roma. Dopo questa, fu
quella che fecero
dopo la prima guerra
cartaginese, quando tra Piombino
e Pisa ammazzarono più
che dugentomila Franciosi.
La terza è quando i Todeschi e Cimbri
vennero in Italia: i quali avendo
vinti più eserciti
romani, furono vinti da
Mario. Vinsero adunque i Romani queste tre
guerre pericolosissime. Ne era
necessario minore virtù
a vincerle; perchè si
vede poi, come
la virtù romana mancò,
e che quelle arme perderono il
loro antico valore,
fu quello imperio distrutto
da simili popoli: i quali furono Goti,
Vandali c simili, che
occuparono tutto lo imperio
occidentale. Escono tali popoli
de* paesi loro,
rome di sopra si
disse, cacciati dalla
necessitò: e la necessitò nasce
o dalla fame, o da una
guerra ed oppressione
clic ne’ paesi propri è loro
fatta; talché e’ sono
constretti cercare nuove
terre. E questi tali,
o e’ sono grande
numero; ed allora con
violenza entrano ne' paesi
altrui, ammazzano gli
abitatori, posseggono i loro beni,
fanno uno nuovo
regno, mutano il nome
della provincia: come fece
Moisè, e quelli popoli
che occuparono lo imperio
romano. Perchè questi nomi
nuovi che sono
nella Italia e nelle altre
provincie, non nascono
da altro che da
essere state nomate
così da’ nuovi occupatoci: come è la
Lombardia, che si chiamava
Gallia Cisalpina: la
Francia si chiamava Gallia Transalpina, ed ora
è nominata da’ Franchi,
chè cosi si
chiamavano quelli popoli che
la occuparono: la Schiavoniu
si chiamava Illiria,
l’Ungheria Pannonia;
l’Inghilterra Britannia: c molte
altre provincie che
hanno mutato nome, le
quali sarebbe tedioso raccontare. Moisè
ancora chiamò Giudea quella
parte di Soria
occupata da lui. E perchè
io ho detto
di sopra, che
qualche volta tali popoli
sono cacciati della propria
sede per guerra,
donde sono constretti cercare
nuove terre; ne
voglio addurre lo essempio
de’ Maurusii, popoli anticamente
in Soria: i quali, sentendo
venire i popoli ebraici,
e giudicando non poter loro
resistere, pensarono essere meglio
salvare loro medesimi,
t* lasciare il paese
proprio, che per
volere salvare quello, perdere
ancora loro; e levatisi
con loro famiglie,
se ne andarono in
Affrica, dove posero
la loro sedia, cacciando via
quelli abitatori che in
quelli luoghi trovarono. G così quelli
che non avevano potuto
difendere il loro paese,
poterono occupare quello
d’ altrui. E Procopio, che
scrive la guerra
che fece Bellisario co’ Vandali
occupatori della Affrica, riferisce
aver letto lettere
scritte in certe colonne
ne’ luoghi dove
questi Maurusii abitavano, le
quali dicevano: S os Maurusii, qui
fugimus a facie Jesu latronis
filii flava. Dove
apparisce In cagione della
partita loro di
Soria. Sono, pertanto, questi
popoli formidolosissimi,
sendo cacciati da una ultima
necessità; e s’ egli non
riscontrano buone armi,
non saranno mai sostenuti.
Ula quando quelli che
sono constretti abbandonare
la loro patria non
sono molti, non
sono sì pericolosi come quelli
popoli di chi
si è ragionato; perchè
non possono usare tanta
violenza, ma conviene
loro con arte occupare
qualche luogo, e,
occupatolo, mantenervisi per via
di amici e di confederali: come si
vede che fece
ENEA, Didone, i Massiliesi e simili; i quali lutti, per
consentimento de’ vicini,
dove e’ posorno, poterono
mantenervisi. Escono i popoli
grossi, e sono usciti
quasi tutti de’ paesi
di Scizia; luoghi freddi
e poveri: dove, per essere
assai uomini, cd il
paese di qualità
da non gli
potere nutrire, sono forzati
uscire, avendo molte cose
che gli cacciano,
e nessuna che gli ritenga.
E se da cinquecento
anni in qua, non
è occorso che alcuni
di questi popoli abbino
inondato alcuno paese,
è nato per più cagioni. La
prima, la grande evacuazione che
fece quel paese
nella declinazione dello imperio;
donde uscirono più di
trenta popolazioni. La
seconda è che la Magna
e 1’Ungheria, donde ancora uscivano
di queste genti,
hanno ora il loro
paese bonificato in
modo, che vi possono
vivere agiatamente; talché non
sono necessitati di
mutare luogo. Dall’ altra
parte, sendo loro
uomini bellicosissimi, sono come
uno bastione a tenere
che gli Sciti,
i quali con loro
confinano, non presumino di
potere vincergli o
passargli. E spesse volte
occorrono movimenti
grandissimi da’ Tartari, che sono
dipoi dagli Ungheri
e da quelli di Polonia
sostenuti; e spesso si
gloriano, che se non
fussino 1’ arme
loro, la Italia e la
Chiesa arebbe molle
volle sentito il peso
degli eserciti tartari.
E questo voglio basti quanto
a’ prefati popoli. Quali
cagioni comunemente faccino nascere
le guerre intra
i polenti. La cagione che
fece nascere guerra intra
i Romani ed i Sanniti,
che erano stati in
lega gran tempo,
è una cagione comune che
nasce infra tutti
i principati potenti. La qual
cagione o la viene a caso,
o la è fatta nascere
da colui che desidera
muovere la guerra.
Quella che nacque intra
i Romani ed i Sanniti,
fu a caso; perchè la
intenzione de’ Sanniti non fu,
muovendo guerra a’Sidicini,
e dipoi a’ Campani,
muoverla ai Romani. .\Ia
sendo i Campani oppressati,
e ricorrendo a Roma fuora della
oppinione de’ Romani e de’
Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani
ai Romani, come
cosa loro difendergli, e pigliare
quella guerra che a loro
parve non potere
con loro onore fuggire.
Perchè e’pareva benea’Romani
ragionevole non potere
difendere i Campani come amici,
eontra ai Sanuiti
amici, ma pareva
ben loro vergogna non
gli difendere come
sudditi, ovvero raccomandali; giudicando,
quando e’ non avessino
presa tal difesa,
torre la via a tutti
quelli che disegnassino
venire sotto la potestà
loro. Ed avendo Roma per
fine lo imperio
e la gloria, e non
la quiete, non
poteva ricusare questa impresa. Questa
medesima cagione dette principio
alla prima guerra
conira a’ Cartaginesi, per
la difensione che i
Romani presono de*
Messinesi in Sicilia: la
quale fu ancora
a caso. Ma non fu già
a caso di poi la
seconda guerra che nacque
infra loro; perchè
Annibaie capitano
Cartaginese assaltò i Saguntini amici de’
Romani in Ispagna,
non per offendere quelli,
ma per muovere
l’arme romane, ed avere
occasione di combatterli, c passare in
Italia. Questo modo nello
appiccare nuove guerre
è stato sempre consueto intra
i potenti, e che si hanno
e della fede, e d’altro,
qualche rispetto. Perchè, se
io voglio fare guerra
con uno principe,
ed infra noi siano
fermi capitoli per
un gran tempo oservati, con
altra giustificazione e con altro
colore assalterò io
un suo amico che
lui proprio 5 sappiendo
massime, che nello assaltare
lo amico, o ci
si risentirà, ed io
arò V intento mio
di fargli guerra; o non si
risentendo, si scuoprirà
la debolezza o la
infidelità sua di non
difendere un suo
raccomandato. E l’ una e I'altra
di queste due
cose è per torgli riputazione,
e per fare più
facili i disegni miei. Debbesi
notare, adunque, e per la
dedizione de' Campani, circa
il muovere guerra, quanto
di sopra si è
detto; e di più,
qual rimedio abbia
una città che non
si possa per
sè stessa difendere, e voglisi difendere
in ogni modo da
quel clic l'assalta:
il quale è darsi Uberamente a quello
che tu disegni
che ti difenda; come
feciono i Capovani ai Romani,
ed i Fiorentini al
ré Roberto di Napoli: il
quale non gli
volendo difendere come amici,
gli difese poi
come sudditi contra alle
forze di Castruceio da
Lucca, die gli
opprimeva. I danari non sono
il nervo della guerra j secondo che è
la comune oppi ninne. Perchè
ciascuno può cominciare
una guerra a sua posta,
ma non finirla,
debbe uno principe, avanti
che prenda una
impresa, misurare le forze
sue, e secondo quelle governarsi.
Ma debbe avere
tanta prudenza, che delle
sue forze ei non
s’inganni; ed ogni
volta s’ingannerà, quando le
misuri o dai danari,
o dal sito, o dalla benivoienza
degli uomini, mancando dall’
altra parte d’
arme proprie. Perchè le
cose predette ti
accrescono bene le forze,
ma le non
te ne danno; e per sè
medesime sono nulla; e non
giovano alcuna cosa
senza l’arme fedeli. Perchè i danari
assai, non ti
bastano senza quelle; non
ti giova la
fortezza de! paese; e la
fede ‘e benivoienza degli uomini
non dura, perchè
questi non ti possono
essere fedeli, non gli
potendo difendere. Ogni
monte, ogni lago, ogni
luogo inaccessibile diventa
piano, dove i forti difensori
mancano. I danari ancora non
solo non ti
difendono, ina ti fanno
predare più presto.
Nè può essere più
falsa quella comune
oppinione che dice che i
danari sono il
nervo della guerra. La
quale sentenza è detta
da Quinto Curzio nella guerra
che fu intra A'ntipatro macedone
c il re spartano: dove narra,
che per difetto
di danari il re
di Sparta fu
necessitato azzuffarsi, e fu rotto;
che se ei
differiva la zuffa pochi
giorni, veniva la
nuova in Grecia della
morte di Alessandro,
donde e sarebbe rimaso vincitore
senza combattere. Ma mancandogli
i danari, e dubitando che lo
esercito suo per
difetto di quelli non
Io abbandonasse, fu
constretto tentare la fortuna
della zuffa: talché
Quinto Curzio per questa
cagione afferma, i danari essere il
nervo della guerra.
La qual sentenza è allegata
ogni giorno, v da’
principi non tanto
prudenti che basti, seguitata. Perchè,
fondatisi sopra quella, credono
che basti loro a
difendersi avere tesori assai,
e non pensano che se’1
tesoro bastasse a vincere,
che Dario arebbe vinto
Alessandro, i Greci nrebbon
vinti i Romani; ne’ nostri
tempi il duca Carlo
arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni
sono, il Papa
ed i Fiorentini insieme non
arebbono avuta difficultà
in vincere Francesco
Maria, nipote di papa
Giulio II, nella
guerra di Urbino. Ma
tutti i soprannominali furono vinti
da coloro che
non il danaro, ma
i buoni soldati stimano
essere il nervo della
guerra. Intra le
altre cose che Creso
re di Lidia
mostrò a Solone ateniese, fu
un tesoro innumerabile; c domandando quel che
gli pareva della
potenza sua, gli rispose
Solone, che per quello
non lo giudicava
più potente; perchè la
guerra si faceva
col ferro e non con
P oro, e che poteva
venire uno che avesse
piu ferro di
lui, e torgliene. Olir’ a questo, quando,
dopo la morte
di Alessandro Magno, una
moltitudine di Franciosi passò
in Grecia, e poi
in Asia; e mandando i Franciosi
oratori al re di
Macedonia per trattare
certo accordo; quel re,
per mostrare la
potenza sua e per
{sbigottirli, mostrò loro
oro ed argento assai: donde
quelli Franciosi che di
già avevano come
ferma la pace,
la j uppono; tanto desiderio in
loro crebbe di torgli
quell’oro: e cosi fu
quel re spogliato per
quella cosa che
egli aveva per sua
difesa accumulata. 1 Yeniziani, pochi anni
sono, avendo ancora
lo erario loro pieno
di tesoro, perderono
tutto lo Stato, senza
potere essere difesi
da quello. Dico pertanto,
non l’ oro, come grida
la comune oppinione,
essere il nervo della
guerra, ma i buoni
soldati : perchè 1’ oro
non è suflìzienle a trovare i buoni soldati,
ma i buoni soldati
son ben sutlìzienti a trovare
l’ oro. Ai Romani, s’egli avessero
voluto fare la
guerra più con i danari
che con ii
ferro, non sarebbe bastato
avere tutto il tesoro del
mondo, considerato le
grandi imprese che fcciono,
e le difficoltà che
vi ebbono dentro. Ma
facendo le loro
guerre con il ferro,
non patirono mai
carestia dell' oro; perchè
da quelli cheli
temevano era portato Toro
infino ne’ campi. E se quel
re spartano per
carestia di danari ebbe
a tentare la fortuna
della /uffa, intervenne a lui
quello, per conto
de’danari, che molte
volte è intervenuto per altre
cagioni; perchè si è
veduto che, mancando ad
uno esercito le
vettovaglie, ed essendo necessitati
o a morire di fame o azzuffarsi,
si piglia il
partito sempre di azzuffarsi,
per essere più
ono*revole, e dove la
fortuna ti può
in qualche modo favorire.
Ancora è intervenuto molte volte,
che veggendo uno capitano
al suo esercito
nimico venire soccorso, gli
conviene o azzuffarsi con quello
e tentare la fortuna
della zuffa; o aspettando eh’
egli ingrossi, avere
a combattere in ogni
modo, con mille
suoi disavvantaggi. Ancora si è
visto (come intervenne ad
Asdrubale quando nella Marca
fu assaltato da
Claudio Verone, insieme con l’altro consolo romano), che un capitano
che è necessitato o a fuggirsi o a combattere, come
sempre elegge il combattere; parendogli in
questo partito, ancora che
dubbiosissimo, potere
vincere; ed in
quello altro, avere
a perdere in ogni modo.
Sono, adunque, molte necessitati che
fanno a uno capitano
fuor della sua intenzione
pigliare partito di azzuffarsi; intra
le quali qualche
volta può essere la
carestia de’ danari: nè
per questo si debbono
i danari giudicare essere il
nervo della guerra,
più che le altre
cose che inducono
gli uomini n simile
necessità. Non è,
adunque, replicandolo di nuovo.
1’ oro il
nervo della guerra; ma i
buoni soldati. Son
bene necessari i danari in
secondo luogo, ina è una
necessità che i soldati
buoni per sè medesimi
la vincono; perchè
è inipossibile che a’
buoni soldati manchino i danari, come
che i denari pei*
loro medesimi truovino i buoni
soldati. Mostra questo che
noi diciamo essere
vero, ogni istoria in
mille luoghi; non
ostante che Pericle consigliasse
gli Ateniesi a fare
guerra con tutto
il Peloponneso, mostrando che
e* potevano vincere
quella guerra con la
industria e con la
forza del danaio. E benché
in tale guerra
gli Ateniesi prosperassino qualche
volta, in ultimo la
perderono; e valsoti più
il consiglio e gli buoni
soldati di Sparta,
che la industria ed
il danaio di
Atene. Ma L. è di
questa oppinione più
vero testimone che alcuno
altro, dove discorrendo se Alessandro
Magno fusse venuto in
Italia, s’ egli avesse
vinto i Romani, mostra esser
tre cose necessarie
nella guerra; assai soldati e buoni,
capitani prudenti, e buona fortuna: dove
esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessino in
queste cose, fa
dipoi la sua conclusione
senza ricordare mai i
danari. Doverono i Capovani,
quando furono ricfiiesti da’
Sidicini che prendessino
l’arme per loro
contea ai Sanniti, misurare la
potenza loro dai
danari, c non dai
soldati: perchè, preso
ch’egli ebbero partito di
aiutarli, dopo due
rotte furono constretti farsi
tributari de’ Romani, se
si vollono salvare. Non
è partito prudente fare amicizia
con un principe
che abbia più oppinionc
che forze. Volendo L.
mostrare lo errore de’
Sidicini a fidarsi dello
aiuto de’ Campani, e lo
errore de’ Campani
a credere potergli difendere,
non lo potrebbe dire
con più vive
parole, dicendo: Campani magie
nomen in auxilium Sidicinorunij quam
vires ad prcesidium atlulcrunl. Dove
si debbe notare,
che le leghe si
fanno co’ principi che
non abbino o comodità di
aiutarti per la
distanzia del sito, o forze
di farlo per
suo disordine o altra sua
cagione, arrecano più fama che aiuto
a coloro ehe se ne
fidano: come intervenne
ne’ dì nostri a* Fiorentini,
quando il papa ed il
re di Napoli
gli assaltarono; che essendo
amici del re
di Francia, trassono di
quella amicizia magis
nomcn, r/nam praesidium:
come interverrebbe ancora a quel
principe, che confidatosi di Massimiliano
imperatore, facesse qualche impresa; perchè
questa è una di quelle
amicizie che arrecherebbe
a chi la facesse magis
nomcn 9 quam prassi ditinij come
si dice in
questo testo, che arrecò
quella de’ Capovani ai
Sidicini. Errarono, adunque, in
questa parte i Capovani,
per parere loro
avere più forze che
non avevano. E così
fa la poca prudenza
delti uomini qualche
volta, che non sappiendo
nè potendo difendere sè
medesimi, vogliono prendere imprese di
difendere altrui: come fecero ancoro
i Tarentini, i quali, sendo gli eserciti
romani allo Incontro
dello esercito de’ Sanniti,
mandorono ambasciadori al Consolo
romano, a fargli intendere come ci
volevano pace intra
quelli duoi popoli, e come
erano per fare
guerra centra a quello che
dalla pace si
discostasse*, talché il Consolo,
ridendosi di questa proposta,
alla presenza di detti
ambasciadori fece sonare
a battaglia, ed al suo
esercito comandò che andasse
a trovare il nimico,
mostrando ai Tarentini con
1’ opera, e non
con le parole, di
che risposta essi
erano degni. Ed avendo
nel presente capitolo ragionato dei
parliti che pigliano
i principi al contrario per
la difesa d’
altrui, voglio nel seguente
parlare di quelli
che si pigliano per
la difesa propria.
Scegli è meglio, temendo di essere
assaltalo > inferire, o aspettare la
guerra. lo lio sentito
da uomini assai
pratichi nelle cose della
guerra qualche volta disputare, se
sono duoi principi
quasi di eguali forze,
se quello più
gagliardo abbi bandito la
guerra contra a quello altro, quale
sia miglior partito
per Poltro; o aspettare il
nimico dentro ai
confini suoi, o andarlo a trovare
in casa, ed assaltare
lui: e ne fio
sentito addurre ragioni da
ogni parte. E chi
difende lo andare assaltare
altrui, nc allega il
consiglio che Creso
dette a Ciro, quando arrivato
in su* confini
de’ Massageli per
fare lor guerra,
la lor regina Tarniri gli
mandò a dire, che eleggesse quale de'
duoi partiti volesse;
o entrare nel regno
suo, dovè essa
Ip aspetterebbe; o volesse che
ella venisse a trovar lui. E
venuta la cosa
in disputazionc, Creso,
contra alla oppinione degli altri,
disse che si
andasse a trovar lei;
allegando che se
egli la vincesse discosto al
suo regno, che non
gli torrebbe il regno,
perchè ella arebbe tempo
a rifarsi; pia se
la vincesse dentro a’ suoi confini,
potrebbe seguirla in su
la fuga, e non
le dando spazio
a rifarsi, torli io
Stato. Allegane ancora
il consiglio che dette
Annibaie ad Antioco, quando quel
re disegnava fare
guerra ai Romani: dove
ei mostrò come i
Romani non si potevano
vincere se non in
Italia, perchè quivi
altri si poteva valere
delle arme e delle
ricchezze e degli amici
loro; chi gli combatteva fuora d’ Italia,
e lasciava loro la
Italia libera, lasciava loro
quella fonte, che mai
li mancava vita a
somministrare forze dove bisogna; e conchiuse che ai
Romani si poteva
prima torre Roma che
lo imperio; prima
la Italia che le
altre provincie. Allega
ancora Agatocle. che non
potendo sostenere la
guerra di casa, assaltò
i Cartaginesi clic glieuc facevano, e gli
ridusse a domandare pace. Allega
SCIPIONE, che per
levare la guerra d’
Italia, assaltò la
Affrica. Chi parla al contrario
dice, che chi
vuole fare capitare male
uno nimico, lo
discosti da casa. Allegane
gli Ateniesi, che mentre
che feciono la
guerra comoda alla casa
loro, restarono superiori; e come si discostarono, ed
andarono con gli eserciti
in Sicilia, perderono la
libertà. Allega le
favole poetiche, dove si
mostra che Anteo,
re di Libia,
assaltato da Ercole Egizio,
fu insuperabile mentre che
Io aspettò dentro
a* confini del suo
regno; ma come
e’ se ne discosto per
astuzia di Ercole,
perdè lo Stalo e la
vita. Onde è dato
luogo alla favola di
Anteo, che sendo
in terra ripigliava le
forze da sua
madre, che era
la Terra; e che Ercole
avvedutosi di questo, lo
levò in alto,
e discostollo dalla terra. Allegane ancora
i giudizi moderni. Ciascuno sa
come Ferrando re
di .Napoli fu ne’
suoi tempi tenuto
uno savissimo principe: e venendo
la fama, duoi
anni avanti la sua
morte, come il
re di Francia Carlo
Vili voleva venire
ad assaltarlo, avendo fatte
assai preparazioni, ammalò; e venendo
a morte, intra gli altri
ricordi che lasciò
ad Alfonso suo figliuolo, fu che egli
aspettasse il nimico dentro
al regno; e per
cose del mondo non
traesse forze fuori
dello Stato suo, ma
lo aspettasse dentro
aisuoi confini tutto
intero; il che
non fuosservato da
quello; ma mandato
uno esercito in Romagna,
senza combattere perdè quello
c lo Stato. Le
ragioni che, oltre alle
cose dette, da
ogni parte si adducono,
sono: che chi assalta
viene con maggiore animo
che chi aspetta,
il che fa più
confidente lo esercito;
toglie, oltra di questo,
molte comodità al
nimico di potersi valere
delle sue cose, non
si potendo valere
di quei sudditi che
sieno saccheggiati; e per
avere il nimico in
casa, è constretto il
signore avere più rispetto
a trarre da loro
danari ed affaticargli:
sicché e’ viene
a seccare quella fonte,
come dice Annibaie, che
fa che colui
può sostenere la guerra.
Oltre di questo,
i suoi soldati, per trovarsi
ne* paesi d’
altrui, sono più necessitati a combattere;
e quella nccessila fa virtù, come
più volte abbiamo detto. Dall’
altra parte si
dice; come aspettando il nimico,
si aspetta con
assai vantaggio, perchè senza
disagio alcuno tu puoi
dare a quello molti
disagi di vettovaglia, e d’
ogni altra cosa che
abbia bisogno uno
esercito: puoi meglio
impedirli i disegni suoi,
per la notizia del
paese cheta hai
più di lui: puoi
con più forze
incontrarlo, per poterle facilmente tutte
unire, ma non
potere già tutte discostarle
da casa: puoi sendo
rotto rifarti facilmente;
sì perchè del tuo
esercito se ne
salverà assai, per avere
i rifugi propinqui; si
perchè il supplemento non ha a venire
discosto: tanto che tu
vieni arrischiare tutte le
forze, e non tutta
la fortuna; e discostandoti,
arrischi tutta la
fortuna, e non tutte
le forze. Ed
alcuni sono stati che
per indebolire meglio
il suo nimico, Io
lasciano entrare parecchie
giornate in su il
paese loro, e pigliare
assai terre; acciò che
lasciando i presidii in tutte,
indebolisca il suo
esercito, e possiulo dipoi
combattere più facilmente. Ma, per
dire ora io
quello che io ne
intendo, io credo
che si abbia
a fare questa distinzione: o io
ho il mio
paese armato, come i Romani,
o come hanno i Svizzeri; o io
l’ho disarmato, come avevano
i Cartaginesi, o come Y hanno
i re di Francia
e gli Italiani. In
questo caso, si debbe
tenere il nimico
discosto a casa; perchè scudo
la tua virtù
nel danaio e non negli
uomini, qualunque volta ti è
impedita la via
di quello, tu sei
spacciato; nè cosa
veruna te lo
impedisce quanto la guerra
di casa. In
essempi ci sono i
Cartaginesi; i quali mentre che
ebbero la casa
loro libera, poterono con le rendite
fare guerra con i Romani;
e quando la avevano
assaltata, non potevano resistere
ad Agatoeie. I Fiorentini non
avevano rimedio ulcuuo con Castruccio signore di
Lucca, perchè ci faceva
loro la guerra
in casa; tanto che
gli ebbero a darsi,
per essere difesi, al
re Roberto di
Napoli. Ma morto Castruccio, quelli
medesimi Fiorentini ebbero animo
di assaltare il
duca di Milano in
casa, ed operare
di torgli il regno:
tanta virtù monstrarono
nelle guerre louginque, e tanta
viltà nelle propinque. Ma
quando i regni sono
armati, come era armata
Roma e come sono i Svizzeri,
sono più difficili
a vincere quanto più ti
appressi loro: perchè questi
corpi possono unire
più forze a resistere
ad uno impeto,
che non possono ad
assaltare altrui. Nè
mi muove in questo
caso I’ autorità
di Annibaie, perchè la
passione e Y utile suo
gli faceva cosi dire
ad Antioco. Perchè,
se i Romani avessino
avute in tanto
spazio di tempo quelle
tre rotte in
Francia* ch’egli ebbero in Italia
da Annibaie, senza dubbio
erano spacciati: perchè non
si sarebbono valuti
de’ .residui degli eserciti, come
si valsono in Italia;
non arebbono avuto
a rifarsi quelle comodità; nè
potevano con quelle
forze resistere ai nimico,
che poterono. Non si
trova che, per
assaltare una provincia, loro mandassino
mai fuora eserciti clic passassino
cinquantamila persone; ma per
difendere la casa
ne misono in arme
conira ai Franciosi,
dopo la prima guerra
punica, diciotto centinaia
di migliaia. Nè arebbono
potuto poi romper quelli
in Lombardia, come
gli ruppono in Toscana;
perchè contro a tanto
numero di ninnici
non arebbono potuto condurre tante
forze sì discosto,
nè combattergli con quella
comodità. I Cimbri ruppono uno
esercito romano in
la Magna, nè vi
ebbono i Romani rimedio. Ma
come egli arrivorono
in Italia, e che poterono mettere
tutte le loro
forze insieme, gli spacciarono.
I Svizzeri è facile
vincergli fuori di
casa, dove e’ non possono mandare
più che un
trenta o quarantamila uomini;
ma vincergli in casa,
dove e’ ne possono raccozzare
centomila, è difficilissimo.
Conchiuggo adunque di nuovo,
che quel principe
che ha i suoi popoli
armati ed ordinali
alla guerra, aspetti sempre
in casa una guerra
potente e pericolosa, e non
la vadia a rincontrare: ma
quello che ha i suoi
sudditi disarmati, ed
il paese inusitato della
guerra, se la
discosti sempre da casa
il più che
può. E così r uno e l*
altro, ciascuno nel
suo grado, si difenderà
meglio. Che si viene
di bassa a gran
fortuna più con
la fraude, che con
la forza. Io stimo
essere cosa verissima,
che rado, o non mai,
intervenga che gli uomini
di piccola fortuna
venghino a gradi grandi,
senza la forza
e senza la fraude; purché
quel grado al
quale altri è pervenuto, non
ti sia o donalo,
o lasciato per eredità.
Xè credo si
truovi mai che la
forza sola basti,
ma si troverà bene
che la fraude
sola basterà: còme chiaro
vedrà colui che
leggerà la vita di
Filippo di Macedonia,
quella di Agatocle siciliano,
e di molti altri
simili, che d’ infima ovvero
di bassa fortuna, sono
pervenuti o a regno o ad
imperi grandissimi. Mostra Senofonte,
nella sua vita di
Ciro, questa necessità
delio ingannare; consideralo che la prima
ispedizione che fa
fare a Ciro contea
il re di Armenia,
è piena di fraude,
e come con inganno, e non
con forza, gli
fa occupare il suo
regno; e non conchiude altro per
tale azione, se
non che ad un
principe che voglia
fare gran cose,
è necessario imparare a ingannare.
Fagli, olirà di questo,
ingannare Ciassare, re de’
.Medi, suo zio
materno, in più
modi; senza la quale
fraude mostra che
Ciro non poteva pervenire
a quella grandezza che venne.
Nè credo che
si truovi mai alcuno
constiluito in bassa
fortuna, pervenuto a grande imperio
solo con la forza
aperta ed ingenuamente,
ma sì bene solo
con la fraude: come
fece Giovanni Galeazzo per tor
lo Stato e lo imperio
di Lombardia a messer
Bernabò suo zio. E quei
che sono necessitati
fare i principi ne’ principi!
degli augumenti loro, sono
ancora necessitate a fare
le repubbliche, infimo che
le sieno diventate potenti, e che
basti la forza
sola. E perchè Roma tenne
in ogni parte,
o per sorte o per
elezione, tutti i modi necessari a venire
a grandezza, non mancò ancora
di questo. Nè
potè usare, nel principio,
il maggiore inganno,
che pigliare il modo
di sopra discorso
da noi, di farsi
compagni; perchè sotto
questo nome se
li fece servi:
come furono i Latini, ed
altri popoli all’
intorno. Perchè prima si
valse dell* arme
loro in domare i popoli
convicini, e pigliare la riputazione
dello Stato: dipoi,
domatogli, venne in tanto
augumento, che la poteva
battere ciascuno. Ed i
Latini non si avviddono
mai di essere
al tutto servi, se
non poi che
viddono dare due
rotte ni Sanniti, e costrettigli ad
accordo. La (piale vittoria,
come ella accrebbe
gran riputazione ai Romani
eoi principi longinqui,
clic mediante quella
sentirono il nome romano
e non l’armi; così
generò invidia e sospetto in
quelli che vedevano e sentivano
l’armi, intra i quali
furono i Latini. E tanto
potè questa invidia e questo
timore, che non solo
i Latini, ma le
colonie che essi
avevano in Lazio, insieme
con i Campani, stati poco
innanti difesi, congiurarono contra al
nome romano. E mossono
questa guerra i Latini nel
modo che si
dice di sopra, che
si muovono la
maggior parte delle guerre,
assaltando non i Romani, ma
difendendo i Sidicini contra ai
Sanniti; a’ quali i Sanniti
facevano guerra con licenza
de’ Romani. E che
sia vero che i Latini
si movessino per
avere conosciuto questo inganno,
lo dimostra L. nello
bocca di Annio
Setiuo pretore latino, il
quale nel consiglio
loro disse queste parole: Nam,
si ctìam mine sub
umbra feederis cequi
servilutem pati possumus ctc. Yedesi
pertanto i Romani ne’ primi augumenti
loro non essere mancati eziam
della fraude; la
quale fu sempre necessaria
ad usare a coloro che
di piccoli principii
vogliono a sublimi gradi salire: la
quale è meno vituperabile quanto è più
coperta, come fu questa
de’ Romani. Ingannatisi molte
volle gli uomini j credendo con
la umilila vincere la
superbia. Vedesi molle volte
come la umilila
non solamente* non giova, ma
nuoce, massimamente usandola con
gli uomini insolenti, che, o per
invidia o per altra cagione, hanno
concetto odio teco.
Di che ne fa
fede lo istorico
nostro in questa cagione di
guerra intra i Romani ed
i Latini. Perchè, dolendosi
i Sanniti con i Romani, che i
Latini gli avevano assaltati, i Romani
non vollono proibire ai
Latini tal guerra,
desiderando non gli irritare:
il che non solamente
non gli irritò, ma
gli fece diventare
più animosi contro a loro,
e si scopersono più presto
inimici. Di che
ne fanno fede
le parole usate da!
prefato Annio pretore latino nel
medesimo concilio, dove
dice: Tentaslis patientiam negando
mililem: (jais dubitai cxarsisse
eos ? Pcrtulerunt (amen hunc dolorem.
Excrcitus nos parare adversus Snmnilcs
feederatos suos audierunl, ncc
mnverunt se ab
urbe. I
Inde hcec illis tanta
modestia j, ni si a
eonscienlia virium, et n os trarum, et suarum? Conoscesi,
pertanto, chiarissimo per questo
testo, quanto la pazienza de’ Romani accrebbe l’arroganza de’ Latini.
E però, mai uno
principe debbe volere mancare
del grado suo, e
non debbe mai
lasciare alcuna cosa
d’accordo, volendola
lasciare onorevolmente, se non
quando e’ la
può, o e’ si
crede che la possa
tenere: perchè gli è meglio quasi sempre,
sendosi condotta la cosa
in termine che
tu non la
possa lasciare nel modo
detto, lasciarsela torre con
le forze, che
con la paura
delle forze. Perchè se
tu la lasci
con In paura, lo
fai per levarli
la guerra, ed
il più delle volte
non te la
lievi: perche colui a chi
tu arai con
una viltà scoperta concesso quella,
non starà saldo,
rao ti vorrà torre
delle altre cose,
e si accenderà più contra
di te, stimandoti
meno; e dall'altra parte, in
tuo favore troverai i difensori più
freddi, parendo loro che
tu sia o debole,
o vile: ma se tu,
subito scoperta la
voglia dello avversario, prepari le
forze, ancoraché le
siano inferiori a lui. quello
ti comincia a stimare; stimanti più
gli altri principi allo
intorno; ed a tale
viene voglia di aiutarti,
sendo in su P
arme, che abbandonandoti non ti
aiuterebbe mai. Questo si
intende quando tu
abbia uno inimico; ma
quando ne avessi
più, rendere delle cose
che tu possedessi
ad al •euno
di loro per
riguadagnarselo, ancoraché
fusse di
già scoperta la guerra,
e per smembrarlo dagli
altri confederati tuoi
inimici, fia sempre
partito prudente. Gli Stati
deboli sempre fieno ambigui
nel risolversi : e sempre le deliberazioni
lente sono nocive. in
questa medesima materia,
ed in questi medesimi
principi! di guerra
intra i Latini ed i Romani,
si può notare come
in ogni consulta
è bene venire allo individuo di
quello die si
ha a deliberare, e non stare
sempre in ambiguo, nè
in su lo
incerto della cosa.
Il che si vede
manifesto nella consulta
che feciono i Latini,
quando c’pensavano alienarsi da’
Romani. Perchè avendo
presentito questo cattivo umore
che ne’ popoli latini
era entrato, i Romani,
per eertificarsi della
cosa, c per vedere
se potevano senza mettere
mano all’arme riguadagnarsi quelli popoli,
fecero loro intendere, come
e’ mandassero a Roma otto
cittadini, perchè avevano
a consullare con loro.
I Latini, inteso questo
ed avendo conscienza di
molte cose fatte centra
alla voglia de’
Romani, fcciono consiglio per
ordinare chi dovesse
ire a Roma, e dargli commissione
di quello ch’egli avesse a dire. E stando
nel consiglio in questa
disputa, ANNIO loro
pretore disse queste parole:
Ad sumiuam veruni nostrarum
pertinerc arbitrar, ut
vogilctis magis, quid agendum
nobis, quam quid loqucndum
sii. Facile crii, cxphcatis consiliis j accommodarc rebus nerba.
Sono, senza dubbio,
queste parole verissime, e debbono
essere da ogni principe
e da ogni repubblica
gustate: perchè nella ambiguità
e nella incertit udine di
quello che altri
voglia fare, non si
sanno accomodare le
parole; ma fermo una
volta 1’ animo,
e deliberalo quello sia da
eseguire, è facil cosa
trovarvi le parole, lo ho notato
questa parte più volentieri,
quanto io ho
molte volte conosciuto tale
ambiguità avere nociuto alle
pubbliche azioni, con
danno i* con vergogna
della repubblica nostra. E sempre mai
avverrà, che ne*
partiti ilubbii, e dove bisogni
animo a deliberargli, sarà questa
ambiguità, quando abbino ad
esser consigliati e deliberati da uomini
deboli. Non sono
meno nocive ancora le
deliberazioni lente e tarde, che
ambigue; massime quelle che si
hanno a deliberare in
favore di alcuno amico: perchè con
la lentezza loro
non si aiuta persona,
e nuocesi a sè mede simo. Queste deliberazioni
così fatte procedono o da debolezza
di animo e ili forze,
o da malignità di
coloro che hanno a deliberare; i quali,
mossi dalla passimi propria di
volere rovinare lo
Stato o adempire qualche suo
desiderio, non lasciano seguire
la deliberazione, ma la
impediscono e la attraversano.
Perchè i buoni cittadini,
ancora che vegghino
una foga popolare voltarsi
alla parte perniciosa, mai impediranno
il deliberare, massime di
quelle cose che
non aspettano tempo. Morto
che fu Girolamo
liranno in Siracusa,
essendo la guerra grande
intra i Cartaginesi ed i
Romani, vennono i Siracusani in
disputa se dovevano seguire V amicizia
romana o la cartaginese. E tanto
era lo ardore
delle parti, che la
cosa stava ambigua,
uè se ne prendeva
alcuno partito; insino
a tanto che Apollonide,
uno de’ primi
in Siracusa, con una
sua orazione piena di prudenza,
mostrò come non
era da biasmare chi
teneva E oppinione ili
aderirsi ai Romani, nè
quelli che volevano seguire la
parte cartaginese; ma era
bene da
detestare quella ambiguità
e tardità di pigliare
il partito, perchè
vedeva al tutto in
tale ambiguità la
rovina della repubblica; ma
preso che si fusse
il partito, qualunque
e’ si fosse,
si poteva sperare qualche
bene. Nè potrebbe mostrare più L. che si
faccia in questa
parte, il danno
che si tira dietro
lo stare sospeso.
Dimostralo ancora in questo
caso de’ Latini: perchè, sendo i Latini
ricerchi da loro gli
stessine neutrali, e che
il re venendo in
Italia gli avesse
a mantenere nello Stato e ricevere
in proiezione: e dette
tempo un mese
alla città a ratificarlo. Fu differita
tale ratificazione da chi
per poca prudenza
favoriva le cose di
Lodovico: intantoehè, il
re già sendo in
su la vittoria,
e volendo poi i Fiorentini ratificare, non fu
la ratificazione accettata;
come quello che
conobbe i Fiorentini essere venuti
forzati, e non voluntari nella
amicizia sua. Il
che costò alla città
di Firenze assai
danari, e fu per perdere
lo Stato: come poi
altra volta per simile
causa li intervenne.
E tanto più fu
dannabile quel partito,
perchè non si servi
ancora il duca
Lodovico; il quale
se avesse vinto,
arebbe mostri molti più
segni di inimicizia
conira ai Fiorentini, che
non fece il
re. E benché del
male che nasce
alle repubbliche di questa
debolezza se ne
sia di sopra in
uno altro capitolo
discorso; nondimeno, avendone di
nuovo occasione per un
nuovo accidente, ho
voluto replicarne',
parendomi, massime, materia che
debba esser dalie
repubbliche simili alla nostra
notala. Quanto i soldati ne’
nostri tempi si disformino
dalli anttcht ordini. ha
più importante giornata
che fu mai fatta
in alcuna guerra
con alcuna nazione dal
Popolo romano, fu
questa che ei fece
con i popoli latini,
nel consolato di Torquato
e di Decio. Perchè
ogni ragione vuole, che
cosi come i Latini
per averla perduta diventarono
servi, così sarebbono stati
servi i Romani, quando non
la avessino vinta.
E di questa oppinone è L.; perchè
in ogni parte fa
gli eserciti pari
di ordine, di virtù,
di ostinazione c di
numero: solo vi fa differenza,
che i capi dello
esercito romano furono più
virtuosi che quelli dello
esercito latino. Yedesi
ancora come nel maneggio
di questa giornata
nacquero duoi accidenti non
prima nati, e che dipoi
hanno rari esempi:
che de’ duoi Consoli, per
tenere fermi gli
animi de’ soldati, ed ubbidienti
al comandamento loro, e diliberati
al combattere, 1’ uno
ammazzò sè stesso,
e I’ altro il figliuolo.
La parità, che L.
dice essere in questi
eserciti, era che,
per avere militato gran
tempo insieme, erano pari
di lingua, d’
ordine e d’arme: perchè nello
ordinare la zuffa
tenevano uno modo medesimo
$ e gli ordini ed i
capi degli ordini avevano
medesimi nomi. Era dunque
necessario, sondo di
pari forze e di pari
virtù, che nascesse
qualche cosa istraordinaria,
che fermasse e facesse
più ostinati gli
animi dell’ uno che
dell’altro: nella quale
ostinazione consiste, come altre
volte si è detto,
la vittoria; perchè, mentre
che la dura ne’
petti di quelli
che combattono, mai non
danno volta gli
eserciti. E perchè la durasse
più ne’ petti
de’ Romani che de’
Latini, parte la
sorte, parte la
virtù de’ Consoli fece
nascere, che Torquato ebbe
ad ammazzare il
figliuolo, e Decio sè stesso.
Mostra Tito Livio,
nel mostrare questa purililà
di forze, tutto l’ ordine che
tenevano i Romani nelli eserciti e nelle
zuffe. Il quale
esplicando egli largamente, non
replicherò altrimenti; ma solo
discorrerò quello che io
vi giudico notabile,
e quello che per
essere negletto da tutti
i capitani di questi tempi,
ha fatto negli
eserciti e nelle zuffe di
molti disordini. Dico,
adunque, che per il
testo di Livio
si raccoglie, come lo
esercito romano aveva
tre divisioni principali, le
quali toscanamente si possono
chiamare tre schiere;
e nominavano la prima astati,
la seconda principi, la
terza triarii: e ciascuna
di queste aveva i suoi
cavalli. Nello ordinare una
zuffa, ei mettevano
gli astatiinnanzi; nel secondo
luogo, per diritto, dietro alle
spalle di quelli,
ponevano i principi; nel terzo,
pure nel mede»imo filo, collocavano
i triadi. I cavalli di tulli
questi ordini gli
ponevano a destra ed a sinistra
di queste tre
battaglie; le schiere de’
quali cavalli, dalla
forma loro e dal luogo,
si chiamavano alce, perchè parevano come
due alie di
quel corpo. Ordinavano la
prima schiera delli
astati, che era nella
fronte, serrata in
modo insieme che la
potesse spignere e sostenere il nimico. La
seconda schiera de’ principi,
perchè non era la prima a combattere, ma bene
le conveniva soccorrere alla prima
quando fusse battuta o urtata, non
la facevano stretta,
ma mantenevano i suoi ordini
radi, e di qualità che la potesse
ricevere in sè senza
disordinarsi la prima,
qualunque volta, spinta dal
nimico, fusse necessitata ritirarsi. La
terza schiera de*
triadi aveva ancora gli
ordini più radi
che la seconda, per
potere ricevere in
sè, bisognando, le due
prime schiere de’
principi e degli astati. Collocate,
dunque, queste schiere in questa forma,
appiccavano la zuffa: e se
gli astati erano sforzati o vinti, si
ritiravano nella radila degli
ordini de’ principi; e tuttiinsieme uniti,
fatto di due
schiere un J corpo, rappiccavano
la zuffa: se
questi ancora erano ributtati
e sforzati, si ritiravano tutti nella
radila degli ordini de*
trioni; e tutte tre
le schiere diventate un
corpo, rinnovavano la
zuffa: dove essendo superati,
per non avere più
da rifarsi, perdevano
la giornata. E perchè ogni
volta che questa
ultima schiera de’ triarii
si adoperava, lo
esercito era in pericolo,
ne nacque quel
proverbio: Res redacta est ad triarios; che ad uso
toscano vuol dire:
Noi abbiamo messo I’
ultima posta. I capitani
dei nostri tempi, come
egli hanno abbandonato tutti gli
altri ordini, e della
antica disciplina ei non
ne osservano parte
alcuna, cosi hanno abbandonata
questa parte, la quale
non è di poca
importanza: perchè chi si
ordina da potersi nelle
giornate rifare tre
volte, ha ad avere
tre volte inimica
la fortuna a volere perdere, ed
ha ad avere
per riscontro una virtù
che sia atta
tre volte a vincerlo.
Ma chi non
sta se non
in su M primo
urto, come stanno
oggi gli eserciti cristiani, può
facilmente perdere; perchè ogni
disordine, ogni mezzana virtù
gli può torre
la vittoria. Quello che
fa agli eserciti
nostri mancare di potersi
rifare tre volte,
è lo avere perduto il
modo di ricevere
I* una schiera uelP
altra. Il che
nasce perchè al
presente sf ordinano le
giornate con uno di
questi duoi disordini:
o ei mettono le loro
schiere a spalle P una
delP altra, e fanno la
loro battaglia larga
per traverso, e sottile per
diritto; il che la
fa più
debole, per aver
poco dal petto alle
schiene. E quando pure,
per farla più forte,
ei riducono le
schiere per il verso
de’ Romani, se la
prima fronte è rotta,
non avendo ordine
di essere ricevuta dalla seconda,
s’ ingarbugliano insieme
tutte, e rompono sè
medesime: perché se quella
dinanzi è spinta, ella urta
la seconda; se
la seconda si
vuol far innanzi, ella è
impedita dalla prima: donde
che urlando la
prima la seconda, e la
seconda la terza,
ne nasce tanta confusione, che
spesso uno minimo
accidente rovina uno esercito.
Gli eserciti spagnuoli e franciosi
nella zuffa di
Ravenna, dove mori monsignor
de Pois, capitano delle
genti di Prandi
(la quale fu, secondo
i nostri tempi, assai
bene combattuta giornata) s’
ordinarono con uno de’ soprascritti modi;
cioè clic l’uno e 1’altro esercito venne
con tutte le sue
genti ordinate a spalle: in
modo che non venivano’
avere nè 1’uno
nè 1’altro se non
una fronte, ed
erano assai più per
il traverso cìie
per il diritto.
E questo avviene loro sempre
dove egli hanno la
campagna grande, come
gli avevano a Ravenna:
perché, conoscendo il
disordine che fanno nel
ritirarsi, mettendosi per un
filo, lo fuggouo
quando e’ possono col
fare la fronte
larga, coni’ t detto; ma
quando il paese
gli ristringe, si stanno
nel disordine soprascritto, senza pensare
il rimedio. Con
questo medesimo disordine cavalcano
per il paese inimico,
o se e’ predano,
o se e’ fanno altro
maneggio di guerra. Ed a santo Regolo
in quel di
Pisa, ed altrove, dove
i Fiorentini furono rotti da' Pisani ne’ tempi
della guerra che fu
tra i Fiorentini e quella
città, per la sua
ribellione dopo la
passata di Carlo
re di Francia in
Italia, non nacque
tal rovina d’ altronde, clic
dalla cavalleria amica; la
quale sendo davanti
e ributtata da’ nimici, percosse
nella fanteria fiorentina, e quella
ruppe: donde tutto il restante
delle genti dierono
volta: e messcr Ciriaco dal
Borgo, capo antico delle
fanterie fiorentine, ha
affermato alla presenza mia
molte volle, non
essere mai stato rotto
se non dalla
cavalleria degli amici. 1 Svizzeri,
che sono i maestri
delle moderne guerre,
quando ei militano coi
Franciosi, sopra tulle
le cose hanno cura
di mettersi in
lato, che la cavalleria amica,
se fusse ributtata, non gli
urti. E benché queste
cose paiano facili ad
intendere, e facilissime a
farsi; nondimeno non
si è trovato ancora alcuuo
de’ nostri contemporanei
capitani, che gli antichi
ordini imiti, e gli moderni
corregga. E benché gli
abbino ancora loro tripartito
lo esercito, chiamando 1’una
parte antiguardo, l’altra battaglia e l’altra
retroguardo; non se ne
servono ad altro
che a comandargli nelli alloggiamenti: ma nello
adoperargli, rade volte è,
come di sopra
è detto, che a tutti
questi corpi non
faccino correre una medesima
fortuna. E perchè molti,
per scusare la
ignoranza loro, allegano che
la violenza delle
artiglierie non patisce che
in questi tempi si
usino molti ordini
degli antichi, voglio disputare nel
seguente capitolo questa materia, ed
esaminare se le
artiglierie impediscono che non
si possa usare l’ antica
virtù. Quanto si debbino
sii inave dagli eserciti
ne' presenti tempi le
artiglierie; e se quella
oppiatone che se ne
ha in universale j è vera. Considerando io,
oltre alle cose
soprascritte, quante zuffe campali
(chiamate ne’ nostri tempi, con
vocabolo francioso,
giornate, e dagl’ Italiani
fatti d’arme) furono fatte
dai Romani in
diversi tempi; mi è venuto in
considerazione la oppinione universale
di molti, che vuole
che se in
quelli tempi fussino state
le artiglierie, non
sarebbe stato lecito a’
Romani, nè sì
facile, pigliare le provincie;
farsi tributari i popoli, come e’
feciono; nè arebbono in
alcuno modo fatti si
gagliardi acquisti. Dicono aiTcora, che
mediante questi instrumenti de’ fuochi,
gli uomini non
possono usare nè mostrare
la virtù loro,
come e’ potevano anticamente. E soggiungono
una terza cosa: che si
viene con piu
diflìeultà alle giornale
che non si
veniva allora, nè vi
si può tenere
dentro quegli ordini di
quelli tempi; talché la guerra
si ridurrà col
tempo in su le
artiglierie. E giudicando non
fuora di proposito disputare
se tali oppiuioui sono vere,
e quanto le artiglierie
abbino cresciuto o diminuito di
forze agli eserciti, e se
le tolgano o danno
occasione ai buoni capitani
di operare virtuosamente ; comiucerò a parlare
quanto alla prima loro
oppinione: che gli eserciti antichi romani
non arebbono fatto gli
acquisti che feciono,
se le artiglierie lussino state.
Sopra che, rispondendo, dico: come
e’si fa guerra
o per difendersi, o per offendere;
donde si ha
prima ad esaminare a quale
di questi duoi modi
di guerra le
faccino più utile,
o più danno. E benché
sia che dire
fla ogni parte, nondimeno
io credo che senza
comparazione faccino più
danno a chi si difende,
che a chi offende.
La ragione che io ne dico
è, che quel
che si difende, o egli
è dentro a una terra, o egli
è in su’ campi
dentro ad uno
steccato. S’egli è dentro ad
una terra, o questa
terra è piccola, come
sono la maggior parte
delle fortezze, o la è
grande: nel primo
caso, chi si
difende è al tutto perduto,
perchè P impeto delle artiglierie è tale,
che non trova
muro, ancoraché grossissimo, che
in pochi giorni ei
non abbatta; e se
chi è dentro non ha
buoni spazi da
ritirarsi c con fossi e con
ripari, si perde;
nè può sostenere 1’impeto del
nimico che volesse dipoi
entrare per la
rottura del muro, nè
a questo gli giova
artiglieria che avesse: perchè
questa è una massima, che
dove gli uomini
in frotta e con
impeto possono andare, le
artiglierie non gli sostengono.
Però i furori oltramontani nella difesa
delle terre non sono
sostenuti: sou bene sostenuti
gli assalti italiani, i quali
non in frolla,
ma spicciolati si conducono
alle battaglie, le quali
loro, per nome
mollo proprio, chiamano scaramuccio. E qucsli che vanno
con questo disordine
e questa freddezza ad una
rottura d’ un
muro dove sia artiglierie,
vanno ad una
manifesta morte, c conira a loro
le artiglierie vogliono: ma
quelli clic in
frotta condensati, e che runo
spinge l’altro, vengono ad
una rottura, se non sono sostenuti o da
fossi o da ripari,
entrano in ogni luogo,
c le artiglierie non gli
tengono; e se ne
muore qualcuno, non possono
essere tanti che
gl’ impedischino la
vittoria. Questo esser
vero, si è conosciuto in
molte espugnazioni fatte dagli
oltramontani in Italia,
e massime in quella di
Brescia: perchè, sendosi quella
terra ribellata da’
Franciosi, e tenendosi
ancora per il re di
Francia la fortezza, avevano
i Veneziani, per sostenere V impeto che
ila quella potesse venire nella
terra, munita tutta
la strada di artiglierie
che dalla fortezza
alla città scendeva, e postane
a fronte e ne’ fianchi, ed
in ogni altro
luogo opportuno. Delle quali
monsignor di Fois
non fece alcuno conto; anzi
quello con il suo
squadrone, disceso a piede,
passando per il mezzo
di quelle, occupò
la città, nè per
quelle si sentì
eli’ egli avesse
ricevuto alcuno memorabile danno. Talché, chi si
difende in una
terra piccola, conte è detto, c trovisi
le mura in
terra, e non abbia
spazio di ritirarsi
con r ripari e con fossi,
ed abbiasi a fidare
in su le artiglierie,
si perde subito.
Se tu difendi tuta
terra gronde, e che
tu abbia comodità di
ritirarti, sono nondiinanco
senza comparazione più
utili le artiglierie a chi
è di fuori, che a
chi è dentro. Prima, perchè
a volere che una artiglieria nuoca
a quelli che sono
di fuora, tu sei
necessitato levarti con essa
dal piano della
terra; perchè, stando in
sul piano, ogni
poco di argine
e di riparo che il
nimico faccia, rimane
sicuro, e tu non gli
puoi nuocere. Tanto che
avendoti ad alzare,
e tirarti sul corridoio delle mura,
o in qualunque modo levarti
da terra, tu
ti tiri dietro
due difficoltà: la prima,
che non puoi
condurvi artiglieria della grossezza
e della potenza che può
trarre colui di
fuora, non si potendo
ne’ piccoli spazi
maneggiare le cose grandi ; I’
altra, che quando bene
tu ve la
potessi condurre, tu non
puoi fare quelli
ripari fedeli e sicuri, per
salvare detta artiglieria,
che possono fare quelli
di fuora, essendo
in su terreno,
ed avendo quelle
comodità e quello spazio
che loro medesimi
vogliono: talmentechè, gli è impossibile
a chi difende una terra,
tenere le artiglierie ne’ luoghi
alti, quando quelli
che soli di fuora
abbino assai artiglierie
e polenti; e se egli hanno
a venire con essa
ne’luoghi bassi, ella diventa
in buona parte inutile, come è
detto. Talché la
difesa della città si
ha a ridurre a difenderla con le
braccia, come anticamente
si faceva, e con la
artiglieria minuta: di che se
si trae un
poco di utilità
rispetto a quella
artiglieria minuta, se
ne cava incomodità che
contrappesa alia comodità della artiglieria; perchè, rispetto a quella,. si riducono
le mura delle
terre, basse e quasi sotterrate
ne’ fossi: talché, com’e’ si
viene alle battaglie
di mano, o per essere
battute le mura o
per essere ripieni
i fossi, ha chi è
dentro molti più disavvantaggi
che non aveva allora,
E però, come di
sopra si disse, giovano
questi instrumenti molto più
a chi campeggia le
terre, che a chi è campeggiato. Quanto
alla terza cosa, di
ridursi in uno
campo dentro ad uno
steccato per non
fare giornata, se non
a tua comodità o vantaggio;
dico che in questa
parte tu non hai più
rimedio ordinariamente a
difenderti di non
combattere, che si avessino
gli antichi; e qualche
volta, per conto
delle artiglierie, hai maggiore
disavvantaggio. Per chè, se il
nimico ti giunge
addosso, ed abbia un
poco di vantaggio
del paese, come può
facilmente intervenire; e truovìsi
più alto di
te; oche nello
arrivare alio tu non
abbi ancora fatti
i gini, e copertoli bene
con que luto, e senza
che tu abbi
alcun ti disalloggia, e sei
forzato usci fortezze tue, e
venire alla zuffa intervenne agli
Spagnuoli nel nata di
Ravenna i quali essent nili
tra il fiume
del Ronco ed gine,
per non lo
avere tirato U che
bastasse, e per avere
i Frai poco il vantaggio
del terreno, constretti dalle
artiglierie usci fortezze loro,
e venire alla zi dato,
come il più
delle volte de sere,
che il luogo
che tu avess con
il campo fusse
più eminenti altri all’incontro,
e che gli ar; sino
buoni e sicuri, tale
che, r il sito e
1’ altre
tue preparazio miro non
ardisse di assaltarti; in questo
caso a quelli modi c
cainente si veniva,
quando uno il suo
esercito in lato
da non pi sere
offeso: i quali sono,
co paese, pigliare o campeggiare
le terre tue amiche,
impedirti le vettovaglie; tanto che
tu sarai forzato
da qualche necessità a disalloggiare, e venire
a giornata ; dove le artiglierie,
come di sotto si
dirà, non operano
molto. Considerato, adunque, di quali ragioni
guerre feciono i Romani, e reggendo
come ei feciono quasi
tutte le lor
guerre per offendere altrui, e non
per difender loro;
si vedrà, quando sieno
vere le cose
dette di sopra, come
quelli arebbono avuto
più vantaggio, e piu presto
arebbono fatto i loro acquisti,
se le fussino
state in quelli tempi.
Quanto alla seconda
cosa, che gli uomini
non possono mostrare la
virtù loro, come
ei potevano anticamente, mediante la
artiglieria; dico eh’ egli è vero,
che dove gli
uomini spicciolati si hanno
a mostrare, eh’ e’ portano
più pericoli che
allora, quandoavessino a scalare
una terra, o fare
simili assalti, dove gli
uomini non ristretti insieme, ma
di per sè
1’ uno dall’
altro avessiuo a comparire. E vero die
gli capitoni e capi
degli stanno sottoposti più
al perii! morte che
allora, potendo esser con
le artiglierie in
ogni lu giova loro
lo essere nelle
ultii «Ire, e muniti di
uomini fortissi dimeno si
vede che l’uno
c P questi duoi pericoli
fanno ra danni istraordinari: perchè munite bene
non si scalano,
i con assalti deboli
ad assaltarh volerle espugnare,
si riduce la una
ossidionc, come anticamen ceva. Ed
in quelle clic
pure pe si espugnano,
non sono molto i pericoli che
allora: perchè n cavano
anche in quel
tempo a fendeva le
terre, cose da
trarre se non erano
si furiose, facevam all’ ammazzare gli
uomini, *il s fello.
Quanto alla morte
de’ci de’ condottieri, ce
ne sono, in v
tro anni
che sono state
le guerre simi tempi
in Italia, meno
esempi, che non era
in dieci anni
di tempo appresso agii
antichi. Perchè, dal
conte Lodovico della Mirandola,
che morì a Ferrara quando i Veniziani pochi
anni sono assaltarono quello Stato,
ed il Duca
di Nemors, che muore
alla Ciriguuola, in fuori;
non è occorso che
d’artiglierie ne sia morto
alcuno; percdiè monsignor di
Pois a Ravenna mori
di ferro, e non di
fuoco. Tanto che,
se gli uomini
non dimostrano
particolarmente la loro
virtù, nasce non dalle
artiglierie, ma dai
cattivi ordini, e dalla debolezza
degli eserciti; i quali, mancando
di virtù nel tutto,
non la possono
dimostrare nella parte. Quanto
alla terza cosa
detta da costoro, che
non si possa
venire alle mani, fc
che la guerra
si condurrà tutta in
su P artiglierie, dico
questa oppinione essere al
tutto falsa; e così
ila sempre tenuta da
coloro che secondo
P antica virtù vorranno adoperare
gli eserciti loro. Perchè,
chi vuole fare
uno esercito buono, gli
conviene, con eserpiù
apertamente questo errore, mare
più i cavalli che
le fantei uno altro
essempio romano. E Romani
a campo a Sora, ed i
usciti fuori della
terra una tu cavalli
per assaltare il
campo, fece all’ incontro
il Maestro de romano
con la sua
cavalleria, e di petto,
la sorte dette
che nel scontro i capi
dell’ uno e dell’ alticito morirono;
e restali gli alti*governo,
e durando nondimeno I i Romani
per superare più
fac lo inimico, scesono
a piede, e cc sono i cavalieri
nimici, se si voi
fendere, a fare il
simile: e co questo, i Romani
ne riportarom toria. Non
può esser questo
eì maggiore in dimostrare
quanto virtù nelle fantericche
ne’ cavag che se nelle
altre fazioni i Con cevano
discendere i cavalieri i era
per soccorrere alle
fanterie i tivano, e che
avevano bisogno ili
aiuto; ma in questo
luogo e’ discesono,
non per soccorrere alle
fanterie nè per
eombattere con uomini
a piè de’ nimici,
ma combattendo a cavallo co’ cavalli,
giudicareno, non potendo
superargli a cavallo, potere scendendo
più facilmente vincergli. Io
voglio adunque conchiudere,
che una fanteria
ordinata non possa senza
grandissima diffìcultà esser
superata, se non
da una altra
fanteria. Crasso e Marc’ Antonio
romani corsone per il
dominio de’ Parti
molte giornate con pochissimi
cavalli ed assai
fanteria, ed all’ incontro
avevano innumerabili cavalli de’
Parti. Crasso vi
rimase con parte dello
esercito morto. Marc’
Antonio virtuosamente si salvò.
Nondimanco, in queste afflizioni
romane si vede
quanto le fanterie prevalevano
ai cavalli: perchè essendo in
un paese largo,
dove i monti son
radi, ed i fiumi
radissimi, le marine longinque,
e discosto da ogni
comodità; nondimanco Marc’
Antonio, al giudicio de’
Parti medesimi, mente si
salvò; nè mai
ebbe tutta la cavalleria
pnrtica te ordini dello
esercito suo. Se rimase,
chi leggerà bene
le s vedrà come
e’ vi fu
piuttosto che forzato: nè
mai, in tutti sordini, i Parti
ardirono di uri sempre
andando costeggiando
pedendogli le vettovaglie,
prò gli e non gli
osservando, lo et od
una estrema miseria.
Io avere a durare più
fatica in p quanto
la virtù delle
fanterie lente ebe quella
de’ cavalli, fussino assai moderni
essenv rendono testimonianza pieniss è veduto novemila
Svizzeri i da noi
di sopra allegata,
and frontale diecimila cavalli
ed fanti, e vincergli: perchè
i cf li potevano offendere:
i fanti, ] gente in
buona parte guascoi ordinata, stimavano
poco. Yi ventiseimila Svizzeri
andare a trovare sopra Milano
Francesco re di
Francia, che aveva seco
ventimila cavalli, quarantamila
fanti e cento carra
d’artiglieria ; e se non vinsono
la giornata come a Novara,
combatterono due giorni virtuosamente; e dipoi,
rotti che furono, la
metà di loro
si salvarono. Presunse Marco Regolo
Attilio, non solo
con la fanteria sua
sostenere i cavalli, ma
gli elefanti; e se il
disegno non gli
riuscì, non fu però
che la virtù
della sua fanteria non
fusse tanta, che
ei non confidasse tanto in
lei che credesse
superare quella difficoltà. Replico,
pertanto, che a voler superare
i fanti ordinati, è necessario
opporre loro fanti
meglio ordinati di quelli:
altrimenti, si va
ad una perdita manifesta.
Ne’ tempi di Filippo Visconti, duca
di Milano, scesouo
ili Lombardia circa sedicimila
Svizzeri: donde il Duca
avendo per capitano
allora il Carmignuola, lo
manda con circa mille
cavalli e pochi fanti
allo incontro loro. Costui
non sappiendo 1* 01
combatter loro, ne anda ad inc
nari o di amici
ei non può
tenere lungamente tale esercito,
è matto al tuttose
non tenta la
fortuna innanzi che
taleesercito si abbia
a risolvere:
perchèaspettando, ei perde
al certo; tentando, potrebbe vincere.
Un’altra cosa ci
èancora da stimare
assai: la quale è,che
si debbe, eziandio
perdendo, volereacquistar gloria;
e più gloria si
ha adesser vinto
per forza, che
per altro inconveniente che t’abbia
fatto perdere.Sì che
Annibaie doveva essere
constretto«la queste necessità.
E dì Scipione, quando Anuibaferita
la giornata, e nonstalo
l’animo andarlo a tghi
forti, non pativa,
pevinto Siface, e acquistateAffrica, che
vi poteva stacomodità
come in Italia,terveniva ad
Annibaie, qV incontro di
Fabio; nèciosi, che erano
all’ inctzio. Tanto
meno ancoragiornata colui
che con l’il
paese altrui; perchè,trare nel
paese del niiviene
quando il nimico
scontro, azzuffarsi seco;
er la più
corta, e per vincere ogni
di (Tic ulta
nè dar tempo
al marchese a diliberarsi, ad un tratto
mossele sue genti
per quella via,
cd al marchese significa gli
mandasse le chiavi
diquel passo. Talché
il marchese, occupato da
questa subita diliberazione, glimandò
le chiavi: le quali
mai gli arebbemandate se
Pois più lepidamente
si fusscgovernato, essendo
quel marchese in
legaeoi papa e coi
Viniziani, ed avendo
uusuo figliuolo nelle
mani del papa;
lequali cose gli
davano molte oneste
scusea negarle. Ma assaltato
dal subito partito, per
le cagioni che
di sopra si
dicono, le concesse. Cosi
feciono i Toscanieoi Sanniti,
avendo per la
presenza dell’esercito di
Sannio preso quelle
armeche gli avevano
negato per altri
tempipigliare. Qual sia miglior
partitonelle giornale, o
sostenere lf impetode*
nimicij c sostenuto urtargli; ovvero dapprima con furia
assaltargli. Erano Decio e Fabio,
consoli romani,con due
eserciti all’ incontro
degli eserciti dei Sanniti
e dei Toscani; e venendoalla
zuffa ed alla
giornata insieme, è danotare
in tal fazione,
quale di due
diversi modi di procedere
tenuti dai dueConsoli
sia migliore. Perchè
Decio conogni impeto
e cor ogni suo
sforzo assalta il nimico;
Fabio solamente lo
sostenne, giudicando V
assalto lento essere più
utile, riserbando l' impeto
suonell’ ultimo, quando
il nimico avesseperduto
il primo ardore
del combattere, e come noi
diciamo, la sua
foga. Dove si vede,
per il successo
della eosa, che a Fabio
riuscì molto meglio
il disegno che a Decio: il
quale si straccònei
primi impeti; in modo
che, vedendo la
banda sua piuttosto
in volta diealtrimenti, per
acquistare con la
mortequella gloria alla
quale con la
vittorianon aveva potuto
aggiungere, ad imitazione del padre
sacrificò sè stesso
perle romane legioni.
La qual cosa
intesada Fabio, per
non acquistare manco
onore vivendo, che s’avesse
il suo collegaacquistato morendo,
spinse innanzi tuttequelle
forze che s’
aveva a tale necessitàriservate; donde ne
riportò una felicissima vittoria. Di
qui si vede
che ’l mododel
procedere di Fubio
è più sicuro e più imitabile. Donde nasce
che una famìglia iìi
una città tiene
un tempo imedesimi
costumi. E’ pare clic
non solamente 1’una città dall’altra abbi certi modi ed
institutidiversi, e procrei uomini o più duri opiù effeminati. Ma nella
medesima città si vede tal differenza esser nelle fumiglie l’una dall’altra. H che si riscontraessere vero in ogni città,
e nella città di Roma se ne leggono
assai essempi:perché e’
si vede i Manlii
essere statiduri ed
ostinati, i Pubi icoli uomini
benigni ed amatori del
popolo, gli Appiiambiziosi e ni
mici della Plebe:
e cosimolte altre famiglie
avere avute ciascunale
qualità sue spartite
dall’ altre. La
qualcosa non può
nascere solamente dal
sangue, perchè e’ conviene eh’ ei
varii mediante la diversità
dei matrimoni; maè necessario venga dalla
diversa educazione che ha una famiglia
dall’ altra.Perchè gl’
importa assai che
un giovanetto dai teneri
anni cominci a sentirdire
bene o male di
una cosa; perchèconviene che
di necessità ne
faccia impressione, e da quella
poi regoli il
mododel procedere in
tutti i tempi della
vitasua. E se questo
non fosse, sarebbe
impossibile che tutti gli
Appii avessinoavuta la
medesima voglia, c Rissino
statiagitati dalle medesime
passioni, comenota L.
in molti di
loro: e perultimo, essendo
uno di loro
fatto Censore, ed avendo
il suo collega
alla finede* diciotto
mesi, come ne
disponeva lalegge, deposto
il magistrato, Àppio
nonlo volle deporre,
dicendo che lo
potevatenere cinque anni
secondo la primalegge
ordinata dai Censori. E
benchésopra questo se
ne facessero assai
concioni, e se ne generassino
assai tumulti, non pertanto
ci' fu mai
rimedio che volesse deporlo, conira
alla volontà delPopolo
e della maggior parte
del Senato. E chi leggerà
P orazione che gli
fececontro Publio Sempronio
tribuno dellaplebe, vi
noterà tutte l’ insolenze
oppiane,e tulle le bontà
ed umanità usale
da infiniti cittadini per
ubbidire alle leggi
edagli auspicii della
loro patria. Che un buon cittadino per amore della patria debbo
dimenticare l’ingiurie’ private.Era
Manlio consolo con
l’esercito conira ai Sanniti*
ed essendo stato
in unazuffa ferito,
e per questo portando
legenti sue pericolo,
giudicò il Senato
esser necessario mandarvi Papirio
Cursore dittatore, per sopplire
ai difetti del Consolo.
Ed essendo necessario
che ’lDittatore fusse
nominato da Fabio,
ilquale era con
gli eserciti in
Toscana; edubitando, per
essergli nimico, che nonvolesse
nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori
a pregarlo, che,posti da
parte gli privati
odii, dovesseper benefìzio
pubblico nominarlo. Il
cheFabio fece, mosso
dalla carità della
patria; ancora che col
tacere e con molti altri
modi facesse segno che
talenominazione gli premesse.
Dal qualedebbono pigliare
essempio tutti quelli,che
cercano d’essere tenuti
buoni cittadini. Quando
si vede fareuno
errore grande ad
un nimico,si debbe
credere che vi
sia sono inganno.Essendo rintaso
Fulvio Legato nelloesercito
che i Romani avevano
in Toscana, per esser
ito il Consolo
per alcune cerimonie a Roma;
i Toscani, pervedere se
potevano avere quello
allatratta, posono un
aguato propinquo aicampi
romani, e mandarono alcuni
soldati con veste di
pastori con assai
armento, e gli feciono venire
alla vista dello esercito
romano: i quali così
travestiti si accostarono allo
steccato delcampo; onde
il Legato meravigliandosidi questa
loro presunzione, non
gli patendo ragionevole, tenne
modo ch’egliscoperse la
fraude; e cosi restò il diigno de
Toscani rotto. Qui si può comoramente
notare, che un
capitano dieserciti non
debbe prestar fede
ad unoerrore che
evidentemente si vegga
fareal nimico: perchè
sempre vi sarà
sottofronde, non sendo
ragionevole che gliuomini
siano tanto incauti.
Ma spesso ildisiderio
del vincere acceca
gli animi degli uomini,
che non veggono
altro chequello pare
facci per loro.
I Franciosi avendo vinti i Romani
ad Allia, e venendo a Roma, e trovando
le porte aperte e senza guardia,
stettero tutto quel
giorno e la notte senza
entrarvi, temendo di fraude,
e non potendo credere
clic fusse tanta viltà
c tanto poco consiglio
ne’ petti romani, che
gli nbbandonassino la patria.
Quando nel 4508
s’andò per gli Fiorentini a Risa
a campo, Alfonso del Mutolo,
cittadino pisano, si
trovava prigione dei Fiorentini,
e promise che s’egli era
libero, darebbe una
porta di Pisa all’esercito fiorentino.
Fu costui libero. Di poi, per
praticare la cosa,
venne molte volte a parlare
coi mandati dc’commissari; e veniva
non di nascosto,
ma scoperto, ed accompagnato
da’ Pisani; i quali lasciava
da parte, quando
parlava eoi Fiorentini.
Talmentechè si poteva conietturare il
suo animo doppio; perchè non era
ragionevole, se la
pratica fussc stata fedele,
eh’ egli 1’
avesse trattata sì alla
scoperta. .Ma il
disiderio che s’aveva d’
aver Pisa, accecò
in modo i Fiorentini,
che condottisi con l’
ordine suo alla porta
a Lucca, vi lasciarono più loro capi
ed altre genti con
disonore loro, per il
tradimento doppio che fece
detto Alfonso. Una repubblica,
a volerla mantenere libera, ha
ciascuno di bisogno di
nuovi provvedimenti; e per
guali meriti Quinto
Fabio fu chiamato Massimo. E di
necessità, come altre
volte s’ è letto,
che ciascuno dì
in una città
grande 'taschino' accidenti che
abbino bisogno elei medico; e secondo che
gli importano più, conviene
trovare il medico
più savio. E se in
alcune città nacquero
mai simili accidenti, nacquero
in t\oma e strani ed
insperati; come fu
quello quando e’parve
cha tutte le
donne romane avessino congiurato contra
ai loro maritid’
ammazzargli: tante se
ne trovò clicgli
avevano avvelenati, e tante eh’ avevano preparato il veleno per
avvelenargli. Come fu ancora
quella congiura de’baccanali,
clic si scopri
nel tempo dellaguerra
macedonica, dove erano
già inviluppati molti migliaia
d’ uomini e didonne;
e se la non si scopriva,
sarebbestata pericolosa per
quella città; o seppure i
Romani non fussino
stati consueti a gasligare le
muititudiui degli uomini erranti: perchè,
quando e’ non
sivedesse per altri
infiniti segni la
grandezza di quella Repubblica,
e la potenza delle esecuzioni sue,
si vede per la qualità della pena che la impone a chi erra.
Nè dubita far morire per via di
giustizia una legione
intera per volta, ed
una città tutta;
e di confinare ottoo
diecimila uomini con
condizioni straordinarie, da non
essere osservate da
unsolo, non che
da tanti: come
intervennea quelli soldati che infelicement combatteno a Canne,
i quali confina in Sicilia,
e impose loro che non alkergassino in
terre, e che mangiassino ritti. Ma di tutte 1’altre esecuzioni era terribile il decimare gl’eserciti, dove a
scorte da tutto uno esercito è morto d’ogni dieci uno. Nè si poteva, a gasligare una multitudine, trovare più
spaventevole punizione di questa. Perchè quando una moltitudine
erra, dove non sia 1’autore certo, tutti non si possono gastigare, per esser
troppi; punirne parte e parte lasciare impuniti, si farebbe torto a quelli che si punissino, e gl’impuniti arebbono animo di errare
un’altra volta. Ma ammazzare la decima parte a sorte, quando tutti la meritano,
o, 1'è punito si duole della sorte; ehi
non è punito, ha paura che un’altra
volta non tocchi alui, e guardasi di errare. Sono punite, adunque, le venefiche
e le baccanali secondo che meritano i peccali loro. K. benché questi morbi in
una repubblica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perchè sempre quasi
s’ha tempo a correggerli: ma non s’ha già tempo in quelli che riguardano lo
stato, i quali se non sono da un
prudente corretti, rovinano la
città. Eranoin Roma,
per la liberalità
che i Romani usavano di
donare la civilità
a’ forestieri, nate tante genti
nuove, che le
comincia avere tanta parte
ne’ suffragi, che’l governo comincia
a variare, epartivasi da
quelle cose e da
quelli uomini dove era
consueto andare. Di che
accorgendosi Quinto Fabio
che è Censore, messe tutte
queste genti nuoveda
chi dipendeva questo disordine
sotto quattro Tribù,
acciocché non potessino,
ridotte in si
piccioli spazi,corrompere tutta
Roma. È questa cosa ben conosciuta da Fabio, e postovi
senza alterazione conveniente
rimedio; il quale è
tanto accetto a quella
civilità, che merita
d’esser chiamato Masssirno Machiavelli a Zanobi
Buondelmonti e Cosimo Rucellai
salute. Quali siano stati universalmente
i principii di qualunque città, e
quale è quello di
Roma Di quanto spezie
sono le repubbliche,e di quale
fu la Repubblica
Romana. Quali accidenti facessino
creare inRoma i Tribuni
della plebe; il che
fece la Repubblica più perfetta che la disunione della Plebe e del Senato romano fece
libera e potente quella Repubblica. Dove più
securamente si ponga
laguardia della libertà,
o nel Popolo one’ Grandi;
e quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi
vuole acquistare o chi vuole
mantenere. Se in Roma
si poteva ordinare
uno sstato che togliesse
via le inimicizie intra il
popolo ed il senato Quanto siano
necessarie in una
Repubblica le accuse per
mantenere lalibertà Quanto lo
accuse sono utili
allerepubbliche, tanto sono
perniziose le calunnie. Come egli è
necessario esser soloavolere
ordinare una repubblica
dinuovo, oal tutto
fuori delli antichi suoi
ordini riformarla Quanto sono
laudabili i fondatori d’una repubblica
o d’uno regno, tanto quelli
d’ una tirannide sono
vituperabili Della religione de’
Romani. Di quanta importanza
sia teneroconto della
religione, e come la
Italia per esserne mancata
mediante la Chiesa romana, è rovinata Come i Romani si
servirono dellareligione per
ordinare la città,
e per seguire le loro
imprese e fermare i tumulti. I Romani interpretavano gli
auspicii secondo la
necessità, o con la prudenza
mostravano di osservare
la religione, quando forzati non
1’osservavano; e se alcuno temerariamentela dispregiava,
lo punivano 100dio alle
cose loro afflitte,
ricorsonoalla religione Un popolo
USO a vivere sotto
unprincipe, se per
qualche accidente diventa libero, con
difficultà mantienela libertà. Uno
popolo corrotto, venuto
in libertà, si può
con dit'ticnltà grandissima mantenere libero
In che modo
nelle città corrotte si potesse
mantenere uno Stato
libero, essendovi; o non essendovi,
ordinarvelo Dopo uno eccellente
principe si puòmantenere
un principe debole;
madopo un debole,
non si può
con un altro debole mantenere
alcun regno. Due continove successioni
di principi virtuosi fanno
grandi effettivecome le
repubbliche bene ordinatehanno
di necessità virtuose
successioni: e però gli acquisti ed augumenti loro sono grandi Quanto
biasimo meriti quel principe e quella repubblica che manca d’armi proprie
Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani, e dei tre Curiazi albani che non si debbe
mettere a pericolo tutta la fortuna
e non tutte le forze;
e per questo, spesso
il guardare i passi è dannoso
Le repubbliche bene
ordinatecostituiscono premii e pene
a’loro cittadini, nè compensano
mai l’uno con l’altro Chi
mole riformare nno
Stato antico in una
città libera, ritenga
almeno l’ombra desmodi antichi
Un principe nnoro,
in nna cittào provincia presa
da Ini, debbo
faro ogni cosa nnova Sanno
rarissime volte gli
nomini essere al tutto
tristi o al tatto buoni.
IniPer qual cagione
i Romani furono meno ingrati
agli loro cittadini che
gl’ateniesi Quale sia più
ingrato, o un popolo, o un
principe Quali modi debbe
usare un prìncipe o nna repubblica
per fuggirò questo vizio
della ingratitudine; e qnali quel
capitano o quel cittadino
per non essere oppresso da
quella Che i capitani romani per errore commesso non furono
mai istraordinariamente puniti;
nè furono inai
ancora puniti quando, per
la ignoranza loro o tristi partiti presi da
loro ne fussino seguiti
danni alla repubblica,
lfil Una repubblica o nno
principe non dobbe differire a
beneficare gli uomini nelle
sue necessitati. Quando
uno inconveniente è cresciuto
o in uno Stato
o contra ad uno Stato,
è più salutifero partito
temporeggiarlo che urtarlo.
L'autorità dittatoria fece
tene, e non danno, alla
repubblica romana: o come lo
autorità che i cittadini
si toPgono, non
quelle che sono
loro dai suffragi liberi
date, sono alla
vita civile perniciose La
cagione perchè in
Roma la creazione del
decemvirato fu nociva alla
libertà di quella
repubblica, non ostante che
fosse creato per
suffragi pubblichi e liberi
Non debbono i cittadini
che hanno avuti i maggiori
onori, sdegnarside' minoriQuali
scandali partorì in
Roma la legge agraria:
e come fare una legge
in una repubblica
che risguardi assai indietro,
e sia contra ad
unaconsuetudine antica della
città, èscandolosissimo Le repubbliche
deboli sonomale risolute,
e non si sanno
deliberare; e se le pigliano
mai alcuno partito, nasce più
da necessità che
daelezione In diversi
popoli si veggonospesso
i medesimi accidenti. La creazione
del decemvirato in Roma,
e quello che in
essa è da notare:
dove si considera,
intra moltealtre cose,
come si può
salvare persimile accidente,
o oppressare una repubblica
Saltare dalla urailità
alla superbia, dalla pietà
alla crudeltà, senza
debiti mezzi, è cosa imprudente
ed inutile. Quanto gli
uomini facilmente si possono
corrompere. Quelli che combattono per la gloria propria, sono
buoni e fedeli soldati
Una moltitudine senza
capo èinutile: e non
si debbe minacciare prima, e poi
chiedere P autorità È cosa
di malo esempio
non osservare una legge
fatta, e massimedallo autore
d'essa: e rinfrescare ogni dì
nuove ingiurie in
una città, è a chi
la governa dannosissimo Gli uomini
salgono da un'
ambizione ad un'altra; e prima
si cercanon essere
offeso, dipoi di
offendere altrui Gli uomini, ancora
che si ingannino ne’ generali, nei
particolari non si ingannano
Chi vuolo che
uno magistrato non sia
dato ad un
vile o ad un
tristo, lo facci domandare
o ad un troppo vile e
troppo tristo, o ad
uno troppo nobile e troppo
buono Se quelle città
che hanno avuto il
principio libero, come
Roma, hanno difficoltà a trovare
leggi che le
mantenghino; quelle che
lo hanno immediate servo, ne
hanno quasi una impossibilita. Non debbo
uno consiglio o uno
magistrato potere fermare le
azioni della città. Una
repubblica o uno principe
debbo mostrare di fare
per liberalità quello a che
la necessità lo
constringe A reprimere la
insolenza di uno che
sorga in una
repubblica potente, non vi è piu securo
e meno scandoloso modo,
che preoccuparli quelle
vie per lo quali
o’vieno a quella potenza.
Il popolo molte
volto desidera la rovina
sua, ingannato da una
falsa spezie di bene: e come
le grandi speranze e gagliardo promesse
facilmente lo muovono.
Quanta autorità abbia
uno uomo grande a frenare
una moltitudine Quanto facilmente
si conduchino le cose
in quella città
dove la moltitudine non è corrotta:
e che dove è eqnalità,
non si può
faro principato;e dove la
non è, non si può
far repubblica. Innanzi che
seguino i grandi accidenti in
una città o in
una provincia, vengono
segui che gli
pronosticano, o Domini che gli
predicono. La plebe insieme
è gagliarda; diper se è
debole La moltitudine è più
savia e piùcostante che
un principe altri si
può più fidare; o di
quellafatta con una
repubblica, o di quellafatta
con nno principe Come il consolato o qualunque altro magistrato in
Roma si dava
senzarispetto di età Quale
fu più cagione
dello imperioche acquistorono
i Romani, o la virtù,o la
fortuna Con quali popoli
i Romani ebbero acombattere, e
come ostinatamente quelli difendevano
la loro libertà. Roma
divenne grande città
rovinando le città circonvicine,
e ricevendo i forestieri
facilmente a' suoionori Le
repubbliche hanno tenuti
tre modicirca lo
ampliare lingue, insieme con
l’accidente de1 diluvio delle
pesti, spegno la
memoria dello cose. Come i Romani
procedevano nel farela
guerra Quanto terreno i Romani
davanoper colono La cagione
perchè i popoli si
partono da’ luoghi patrii, ed
inondano ilpaose altrui Quali
cagioni comunemente faccino.
I danari non sono il nervo
dellaguerra, secondo elio è
la comune oppinone Non
è partito prudento fare
amicizia con un principe
che abbia piùoppinione
che forze assaltato, inferire,
o aspettare laguerra Che si
viene (li bassa
a gran fortuna più con
la fraude, che con
laforza t Ingannansi molte volto
gli uomini,credendo con
la nmilità vincere
la superbia Gli
stati deboli sempre
fieno ambigui nel risolversi:
e sempre le deliberazioni lente sono
nocive Quanto i soldati ne’
nostri tempi si disformino
dalli antichi ordini. Quanto si
debbino stimare daglieserciti
ne’ presenti tempi
le artiglierie; e se quella
oppinione che se
neha in universale,
è vera Come per I’
autorità de’Romani,e per lo
essempio della antica
milizia, si debbe stimare
più le fanterieche
i cavagli . Che gli acquisti
nelle repubbliche non bene
ordinate e che secondola
romana virtù non
procedono, sonoa rovina, non a
esaltazione di esse. Quale
pericolo porti quel
principeo quella repubblica che si vale
dellamilizia ausiliare a mercenaria Il primo Pretore
che i Romani mandarono in
alcun luogo, fu a
Capova, dopo quattrocento
anni che cominciarono a far guerra Quanto
siano false molte
volte leoppinioni degli
uomini nel giudicarele
cose grandi Quanto i Romani
nel giudicarei sudditi per
alcuno accidente che
necessitasse tal giudizio, fuggivano
lavia del mezzo Le
fortezze generalmente sonomolto
più dannose che
utili Che Io assaltare una città disunita, per occuparla
mediante la sua disunione, è partito
contrario. Il vilipendio e l’improperio genera odio contra
a coloro che l’usano, senza alcuna
loro utilità Ai principi
e repubbliche prudenti debbe bastare
vincere; perchè ilpiù delle
volte, quando non
basti, siperde Quanto
sia pericoloso ad una
repubblica o ad uno
principe non vendicare una
ingiuria fatta contra
alpubblico o contra al
privato La fortuna accieca
gl’animi degl’uomini, quando
la non vuole
chequelli si opponghino
a’ disegni suoi Le repubbliche e gli principi
veramente potenti non comperano
l'amicizie con danari, ma
con la virtù
econ la riputazione
delle forzo. Quanto sia
pericoloso credere agli sbanditi In quanti
modi i Romani occupano le
terre Come i Romani davano
agliloro capitani degli
eserciti le commissioni libere A volere che
una setta o una
repubblica viva lungamente, è necessarioritirarla spesso
verso il suo
principio. Come gli è
cosa sapientissima simulare in
tempo la pazzia. Come
egli è necessario, a volermantenere una
libertà acquistata dinuovo,
ammazzare i figliuoli di
Bruto PagNon vive
sicuro un principe
in un principato, mentre
vivono coloro chene sono
stati spogliati Quello che
fa perdere uno
regno aduno re
che sia ereditario
di quello. Delle congiure Donde nasce
che le mutazioni
dallalibertà alla servitù,
e dalla servitùalla libertà,
alcuna n1 è senza sangue, alcuna n’è piena chi vuole alterare una
repubblica, debbo considerare il
soggetto diquella Come conviene
variare coi tempi, volendo sempre
aver buona fortuna
. Che uu capitano
non può fuggire
lagiornata, quando
1’avversario la vuolfare
in ogni modo Che
chi ha a fare
con assai, ancora che
sia inferiore, purché
possasostenere i primi impeti,
vince. Come un capitano
prudente debboimporre ogni
necessità di combattereai
suoi soldati, e a quelli
delli minicitorla gol. Più confidare,
o innuo buono capitano
che abbia l’esercp° debole,
o in uno buono
esercito che abbia il
capitano debole. Le invenzioni
nuove che appariscono nel mezzo
della zuffa, e le
vocinuove che si
odono, quali effetti
faccino Come uno e
non molti siano
preposti ad uno esercito,
o come i piùcomandatori offendono Che
la vera virtù
si va ne' tempidifficili a trovare;
e ne tempi facilinon gli
uomini virtuosi, ma
quelliche per ricchezze
o per parentado prevagliono,
hanno più graziaChe
non si offenda
uno, e poiquel medesimo
si mandi in
amministrazione e governo d’
importanza. Nessuna cosa è più
degna d' uncapitano, che
presentire i partiti delnimico. Se a
reggere una moltitudine
èpiù necessario lo
ossequio che la
pena. Uno essempio d'umanità
appresso ai Falisci potette
più d' ogni forza romana Donde nasce che Annibale con
diverso modo di procedere da Scipione,
fa quelli medesimi effetti
in Italia che quello in
Ispagna. Come la durezza
di Manlio Torquato e l’umanità di Valerio
Corvino acquistò a ciascuno la
medesima gloria. Per quale cagione Cammillo fnsse cacciato di Roma. La
prolungazione degl’imperi fa serva
Roma. Della povertà di Cincinnato, e dimolti
cittadini romani. Come per
cagione di femmine si rovina uno Stato. Come
e' si ha a
nnire una città divisa;
e come quella oppinione
non è vera, che a tenere le
città bisogna tenerle disunite. Che si debbe por
mente alle opere de’
cittadini, perchè molte
volte sotto un’opera pia si
nasconde un principio di tirannide. Che gli peccati dei popoli nascono
dai principi. Ad uno cittadino
che voglia nella sua
repubblica far di sua
autorità alcuna opera buona,
è necessario prima spegnere
l’invidia: e come, venendo il
nimico, s’ha a ordinare la
difesa d’una città Le
repubbliche forti o gli
uomini eccellenti ritengono in
ogni fortuna il medesimo
animo e la loro
medesima dignità. Quali modi hanno
tenuti alcuni a turbare una
paco. Egli è necessario, a voler
vincere una giornata, fare l’esercito conattente
ed infra loro,
e con il capittano. Quale fama o voce o oppinione fa che il
popolo comincia a favorire un
cittadino: e se ei distribuisce I magistrati
con maggior prudenza
che un principe. Quali
pericoli si portino nel
farsi capo a consigliare una cosa; e quanto ella ha più dello straordinario, maggiori pericoli vi
si corrono. La cagione perchè
i Franciosi sono stati e sono
ancora giudicati nelle zuffe
da principio più
che uomini, e dipoi meno che
femmine. Se le piccolo
battaglie innanzi alla giornata
sono necessarie, e come si
debbo fare a conoscere
un nimico nuovo, volendo fuggire
quelle. Come debbe esser fatto un
capitano nel quale 1’esercito
suo possa confidare Che un
capitano debbe esser conoscitore dei
siti Come usare la fraudo
nel maneggiare la guerra
è cosa gloriosa. Che la patria si
debbe difendere o con ignominia o con
gloria; ed in qualunque
modo è ben difesa Che
le promesse fatte
per forza non si
debbono osservare Clie gli
uomini che nascono
in una provincia, osservano
per tutti I tempi
quasi quella medesima
natura E’ si ottiene
con l'impeto e con 1’audacia molte
volte quello che con modi
ordinari non si
otterrebbe mai. Qual sia miglior
partito nelle giornate, o sostenere l'impeto de' nimici, e sostenuto urtargli;
ovvero dapprima con furia
assaltargli Donde nasce
che una famiglia
in una città tiene
un tempo i medesimi costumi Che un buon cittadino per
amore della patria debbe dimenticare l’ingiurie private. Quando si vede fare uno errore, grande ad un nimico, si debbe credere die vi sia sotto
inganno. Una repubblica, a volerla
mantenere libera, ha ciascuno
di bisogno di nuovi
provvedimenti; e per quali meriti
Quinto Fabio è
chiamato Massimo. Tito Livio.
Keywords: filosofia romana, Romolo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livio” –
The SwmmingPool Library, Villa Speranza. For H. P. G. Grice’s Gruppo di
Gioco. Tito Livio.
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