Luigi Speranza -- Grice e Michelstädter: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – il giovane divino -- l’implicatura
persuasiva di Platone – filosofia giudea – filosofia nel ventennio fascista –
filosofia italiana -- Luigi Speranza (Gorizia).
Filosofo italiano.
Grice: “It’s difficult to grasp Michelsteadter’s implicature: his study on
‘persuasion’ is brilliant – he was a close reader of Plato, and he uses
figurative language, as ‘il giovane divino.’ My favourite is his account of the
persuasive rhetoric of Cicero.” Grice: “Michelsteadter plays with the etymology
of persuasion, which is cognate with ‘suave,’ as it should – sweet talk, we
should say – which I could make into a maxim which would not be strictly
‘conversational’ unless under the category of modus – ‘be sweet’ –But the
sweetness applies in general to my framework: the emissor aims to be sweet if
he is going to try to influence the other, and will be influenced by a sweeter
co-emissor.” essential Italian philosopher. Ultimo di quattro
figli, da un'agiata famiglia. Il padre, Alberto, dirige l'ufficio goriziano
delle Assicurazioni Generali ed è presidente del Gabinetto di Lettura
goriziano. È un uomo colto, autore di scritti letterari e di conferenze,
rispettoso delle usanze tradizionali ma solo formalmente, per rispetto borghese
-- è, anzi, un laico, un tipico rappresentante della mentalità materialistica.
Il semitismo non sembra quindi incidere molto sulla sua formazione culturale,
che scoprire solo più tardi e con non poca meraviglia di avere un antenato
cabalista. Iscritto al severo Staatsgymnasium cittadino, fa propria la rigida
Bildung asburgica. Con le traduzioni dal greco e dal latino ha i primi approcci
colla filosofia. A iniziarlo sono Schubert-Soldern, solipsista gnoseologico,
secondo il quale tutto il sapere va ricondotto alla sfera del soggetto; e
l'amico Mreule che gli fa conoscere Il mondo come volontà e rappresentazione,
di cui resta traccia soprattutto ne La Persuasione e la Rettorica. Nella
soffitta di Paternolli, oltre a Schopenhauer, legge e discute, con gli amici
Nino e Rico, i tragici e i presocratici, Platone, il Vangelo e le Upanishad; e
poi ancora Petrarca, Leopardi, Tolstoj, e l'amatissimo Ibsen. Conclusde
gli studi ginnasiali e progetta di iscriversi a giurisprudenza; in seguito
abbandona l'idea e si iscrive alla facoltà di matematica a Vienna. Ma l'anima è
giàper dirla con Leopardi nel primo giovanil tumulto verso un altrove che non
riesce a riconoscere nella ferrea logica matematica. Si iscrive al corso di
Lettere dell'Istituto di Studi Superiori Fiorentino, città in cui vivrà per
quasi quattro anni e dove conoscerà, fra gli altri, Chiavacci, futuro curatore
delle sue Opere, ed Arangio-Ruiz, noto filosofo. Continua a ritrarre, fra
tratto espressionistico e schizzo caricaturale, la varia umanità in cui
s'imbatte, sia nei mesi di studio che nei periodi di vacanza al mare e in
montagna. Scrive moltissimo, in modo quasi ossessivo, dalle lettere ai
familiari (in particolare alla sorella Paula) alle recensioni di drammi
teatrali. Un evento luttuoso segna la sua vita: la morte, per suicidio, del fratello
Gino. Due anni prima si era suicidata anche una donna da lui amata, Nadia
Baraden. Mreule parte per l'Argentina. Questa partenza è segnata da un evento
significativo, una sorta di passaggio del testimone. Si fa consegnare da Rico
la pistola che porta sempre con sé. Completati gli esami, ritorna a
Gorizia e inizia la stesura della tesi di laurea, assegnatagli da Vitelli,
concernente i concetti di persuasione e di retorica in Platone e Aristotele. La
sua attività è febrile. Oltre alla Persuasione scrive anche la maggior parte
delle Poesie e alcuni dialoghi, tra cui spicca il Dialogo della salute. Il suo
isolamento diventa pressoché totale, mangia pochissimo e dorme per terra, come
un asceta. Vede solo la sorella e il cugino Emilio. Comunica al padre che dopo
la tesi non avrebbe fatto il professore, ma che appena laureato sarebbe andato
al mare, forse a Pirano o a Grado. Dopo un diverbio con la madre, impugna
la pistola lasciatagli da Mreule e si toglie la vita. Sul frontespizio della
tesi aveva disegnato una fiorentina, una lampada ad olio, e aggiunto in greco:
apesbésthen, «io mi spensi». Amici raccolsero i suoi saggi, ora alla
Biblioteca di Gorizia. Sepolto nel cimitero ebraico di Valdirose (Rožna
Dolina), oggi nel comune sloveno di Nova Gorica, a poche centinaia di metri dal
confine con l'Italia. La breve vita di M. scorrecome risulta
dall'Epistolarioall'insegna di una volontà di vivere continuamente illuminata
dal desiderio di un altrimenti e di un altrove metafisico che fa di lui un
impulsivo, un irrequieto esploratore di linguaggi e di mezzi espressivi, capace
di spaziare dalla pittura alla poesia passando per le ripide vette della
filosofia. Nell'apologo dell'aerostato incluso ne La Persuasione e la
Rettorica, l'essenza del pensiero occidentale, la rettorica, viene fatta risalire
da M. a un parricidio: quello di Aristotele nei confronti di Platone. Questi,
nella metafora costruita da M., escogita un mechánema, una macchina volante per
abbandonare il peso del mondo e giungere all'assoluto. Maestro e discepoli
riescono a librarsi negli alti spazi del cielo, ma restano a metà strada, fra
una mera contemplazione dell'essere e del tempo e la nostalgia della terra e
delle cure mondane. A riportarli sulla terra ci pensa allora un discepolo più
scaltro e intraprendente degli altri, Aristotele, il quale, tradendo il
maestro, fa scendere il mechánema restituendo così a tutti la gioia d'aver la terra
sicura sotto i piedi. Questa nostalgia del mondo intelligibile platonico fa
quindi di lui un discepolo di Schopenhauer, più che di Nietzsche. La
costituzione della metafisica è per lui una storia di rettorici tradimenti, la
vicenda di una verità dai grandi persuasi tanto proclamata agli uomini quanto
da questi disattesa e inascoltata. Quanto io dico è stato detto tante volte e
con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni
volta dopo che erano suonate quelle parole. Lo dissero ai Greci Parmenide,
Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti; lo disse
Socrate, ma ci fabbricarono su 4 sistemi... lo disse Cristo, e ci fabbricarono
su la Chiesa. La persuasione è la visione propria di chi ha compreso la
tragicità della finitezza e ad essa vuol tener fermo, senza ricorrere a quegli
«empiastri»i kallopísmata órphnes, gli «ornamenti dell'oscurità»che possano
lenire il dolore scatenato da tale consapevolezza. L'essere è finitezza che si
rivela solo nella dimensione tragica di una presenza abbacinante, ma gli uomini
rigettano questa tragica consapevolezza ottundendosi, pascalianamente, nel
divertissement. Persuaso è chi ha la vita in sé, chi non la cerca alienandosi
nelle cose o nei luoghi comuni della società perdendo l'irrinunciabile hic et
nunc del proprio esserci, ma riesce «a consistere nell'ultimo presente»,
abbandonando quelle illusioni di sicurezza e di conforto che avviluppano chi vive
abbagliato dalle illusioni create dal potere, dalla cultura, dalle dottrine
filosofiche, politiche, sociali, religiose. È questa «la via preparata» dalla
quale a tutti fa comodo non discostarsi troppo; è questo restare perennemente
attaccati alla vitala philopsychìaa far sì che la "rettorica" trionfi
sempre. La vita, soffocata dalla ricerca dei piaceri, della potenza, finanche
dalla presunzione filosofica di possedere la via e quindi la vita stessa, non
vive, perché in ogni istante ciascuno rimane avvolto dalle cure per ciò che non
è ancora o dal rimpianto per ciò che non è più, mancando sempre l'attimo
decisivo, quello che i greci chiamavano kairós, il tempo propizio. Perciò nella
vita facciamo esperienza della morte, di quella «morte nella vita» cantataquasi
una danse macabrenel Canto delle crisalidi: «Noi col filo / col filo della vita
/ nostra sorte / filammo a questa morte». Il pensiero di M. procede di
conseguenza, per liberare il potenziale di tragicità dell'esistenza, attraverso
violente contrapposizioni concettuali (persuasione-rettorica, vita-morte,
piacere-dolore), senza alcun tentativo di mediazione dialettica. M. respinge,
con un gesto iniziatico, l'idea di costruire una dottrina sistematica della
persuasione e della salute, in quanto «la via della persuasione non è corsa da
'omnibus', non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare,
ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore
l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e
non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa
indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato». La salvezza
individuale è possibile solo in una singolarità irripetibile, irriducibile,
concentrata in sé. Il solipsismo di M. è perciò radicale: non ci sono
vie, non ci sono cammini, c'è solo il viandante che nel deserto dell'esistenza
è «il primo e l'ultimo», crocefisso al legno della propria sufficienza e
schiacciato dalla croce di falsi bisogni. Poiché il mondo è negatività
assoluta, al pensiero non resta che negare questa stessa negatività rifiutando
i dati dell'immanenza: «Solo quando non chiederai più la conoscenza conoscerai,
poiché il tuo chiedere ottenebra la tua vita». Si tratta di una sentenza di
sapore quasi buddistico: non a caso Mreule enfatizzerà la figura dell'amico
descrivendolo come «il Buddha dell'occidente». Produzione artistica La
produzione poetica e quella pittorica di M. possono essere considerate un
prolungamento e un completamento di questo sentimento tragico e mistico. Come
nel verso poetico egli tenta di esprimere l'inesprimibile, di dire con parole
ciò che sfugge al sistema di segni codificato e perciò già da sempre istituito
retoricamente, così nel segno pittorico, nello schizzo rapido e scherzoso come
nel ritratto composto e meditato, traluce l'impossibilità di giungere a quella
che Parmenide chiamava la ben rotonda verità. Non siamo giocati solo dalle
parole, ma anche dalle immagini di una realtà fatta di colori e di forme che ci
sfuggono nella loro immediatezza e alterità, «come chi vuol veder sul muro
l'ombra del proprio profilo, in ciò appunto la distrugge». Anche l'arte e la
poesia, come la retorica filosofica, si rivelano infine per quello che sono:
fragili orpelli di cui si orna l'oscurità dell'essere e che ogni linguaggio
escogitato dall'uomo sarà sempre impotente a esprimere. Saggi: Saggi Chiavacci,
Sansoni, Firenze); “Scritti scolastici, Campailla, Gorizia, Opera grafica e
pittorica, S. Campailla, Gorizia, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Campailla,
Adelphi, Milano Poesie, Campailla, Adelphi, Milano, La Persuasione e la
Rettorica, Arangio-Ruiz, Formiggini, Genova, edizione critica Campailla,
Adelphi, Milano poi, con le Appendici critiche, ivi,). Epistolario, S. Campailla,
Adelphi, Milano nuova edizione riveduta e ampliata, ivi, Parmenide ed Eraclito. Empedocle, SE, Milano,
L'anima ignuda nell'isola dei beati. Scritti su Platone, Micheletti, Diabasis,
Reggio Emilia, Dialogo della salute. E
altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un
saggio introduttivo di G. Brianese, Mimesis, Milano, La melodia del
giovane divino, S. Campailla, Adelphi,
Milano La persuasione e la rettorica,
edizione critica, A. Comincini, Joker. M.-Winteler, Appunti per una biografia
di M.. M. si riferisce, nell'Epistolario, al bonno Isacco Samuele Reggio, confondendolo
con il padre di questo, Abram Vita Reggio Campailla, Il segreto di Nadia B.,
Marsilio,. Da articoli di cronaca americani dell'epoca, si apprende che il
suicidio avvenne con un colpo di pistola alla tempia destra. La persuasione e la rettorica La persuasione e la rettorica Poesie La persuasione e la rettorica Magris,
Un altro mare Il dialogo della salute, Biografie e studi critici Acciani
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Studio Tesi, Pordenone (Civiltà della memoria). Arbo Alessandro, Dizionario
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Un'altra società. M. e la cultura contemporanea, Campailla, Marsilio,
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tragico contemporaneo", Transeuropa, collana «Pronto intervento», Massa,.
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Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza. LA PERSUASIONE
E LA RETTORICA Della Persuasione La persuasione L’illusione della
persuasione Via alla persuasione Della rettorica La rettoric Un esempio
storico La costituzione della rettorica La rettorica nella vita Il
singolo nella società Gli organi assimilatori. I modi della significazione
sufficiente. Note alla triste istoria che viene narrata a Abbandono della
vita socratica Il Macrocosmo Il riflesso del sole La decadenza Il discepolo Proiezione
della mente d’Aristotele sui modi della significazione Della composizione della
Rettorica d’Aristotele La Rettorica d’Aristotele c il Fedro di
Platone Della dialettica e della rettorica IL DIALOGO DELLA
SALUTE POESIE II canto delle crisalidi. Dicembre.
Nostalgia. Marzo. Aprile. Giugno
. Risveglio. Alla sorella Paula. Onda per
onda batte sullo scoglio. Ognuno vede quanto l’altro falla.
Aon è la patria — il comodo giaciglio. Per ora a bordo — non
è lavorare. I figli del mare. A Seni a - Le cose ch’io
vidi nel fondo del mare Da le lontano nelle notti insonni. Ili - Non
sorridente sotto il sole estivo .Dato ho la vela al vento e in mezzo
all’onde V - Se mi trovo fra gli uomini talvolta Ti son vicino e tu
mi sei lontana .... VI — Parlarti? e pria che tolta per la vita
All’Isonzo. EPISTOLARIO SCELTO Alla Famiglia . .
. Gorizia-Venezia Venezia Ferrara
Bologna-Firenze Firenze
Firenze Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Alla Paula Firenze Alla Madre Firenze
Alla Famiglia Firenze Firenze Firenze Firenze Alla
Paula.Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Alla Paula Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Firenze Firenze
Firenze Firenze Al Padre Venezia Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Al Padre Firenze Alla
Paula Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre
Firenze Grado A Chiavacci Gorizia Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Alla Madre
Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Gorizia
A Chiavacci Gorizia Alla Famiglia Vicenza
Firenze Firenze Firenze Alla Madre Firenze Alla
Paula. » rie Firenze Alla Madre Firenze Alla Paula
Firenze A Chiavacci Firenze Gorizia Al Padre Firenze
Alla Famiglia. Firenze Al Padre Firenze Alla Famiglia Firenze A
Chiavacci Gorizia Gorizia Alla Madre Firenze Alla Paula Firenze Alla
Famiglia Firenze A Chiavacci. » Gorizia Gorizia A
Chiavacci Gorizia Firenze Alla Famiglia Firenze A
Mreule Bologna Alla Paula Firenze Alla Famiglia
Firenze A Patcrnolli Firenze Alla Paula Firenze
A Paternolli Firenze Alla Famiglia Firenze Alla
Paula .Firenze Alla Famiglia Firenze Alla Paula
.Firenze A Mreule Gorizia A Chiavacci S. Lucia
A Mreule S. Lucia A Marino Caliterna S. Lucia A
Mreule S. Lucia Allo zio Giovanni Luzzatto S. Lucia A
Marino Caliterna. igog Gorizia A Chiavacci
Gorizia A Paternolli .Gorizia Gorizia A Marino
Caliterna Gorizia A Mreule A Chiavacci .... Gorizia
Gorizia A un amico Gorizia A Mreule S. Valentin
Gorizia Gorizia A Paternolli Gorizia
igio Gorizia III. igio Gorizia igio
Gorizia igio Gorizia A Chiavacci Gorizia
A Paternolli Gorizia A MreuleGorizia Al Padre Gorizia A
Paternolli Vili, igio Pirano Pirano Gorizia
Gorizia A Paternolli A Emilio Alla Madre Al Sig. Gelati,
Segretario dell’Ist. Studi Sup. di Firenze SCRITTI VARI
A. APPUNTI - NOTE - CRITICHE LETTERARIE - DIALOGHI - BOZZETTI
Una messa. Da un notes. Da un notes. Commento
a un brano di Stirncr. Su Wenn wir Toten erwachen di
Ibsen Sull educazione del fanciullo (a proposito di una
conferenza di S. Sighele). 7 - Salvini c gli Spettri
.' Più che l'amore Tolstoi. La bora. Nota su Ortis Poesia
d’occasione. A Benedetto Croce. D* fuori la vita
rumoreggia. II (igog-io) Discorso al popolo. w
16 - H&r) xéxQnai ó v/J ~ Con cert’aria eroica. I utta la
natura non è che volontà dell’Uomo Bacio le mani ai rozzi
materialisti Voi vivete perché siete nati. Non sei né il
primo né l’ultimo »... L’individualità illusoria.
’ASiaipogla . Insulta novantanovc su cento. Aiace non dice a
Eurisace « tu non intendi » Quando si guasti il filo al mio coltello
Conoscere è dolce a chi conosce per vivere. La donna che ama.
Diritto di possesso. La rct lorica crede di fornir le chiavi
.Achille insensibile alle parlate. Sicurezza di fronte al freddo
Della vanità. L’individualità piccola vive con 1 ’insouciance
Anche le conoscenze credute speciali .... ! Huss a un
contadino. ’Evlxi](JE &iì/iòv éxdarov. Frammento
sull’amore. La ferma connessione dei tegoli ~ Tò gwóv
. La morte è detta solo in riguardo alla vita Prima forma della fine
del Dialogo della salute APPUNTI PER TRATTAZIONI SISTEMATICHE Ardan
va nella luna per un tratto di spirito. La catarsi
tragica. FI eoi aotpiaq xai evdaijuovlaq (In ogni punto della
vita...Aia tcov òia25 - Questione centrale. Aristotele vuol organizzare e
sistemare . Le virtù. La dialettica. Platone ha bisogno dello
Stato (negl dtxaioadvtjq Chi cerca il giusto. Giusto è chi
giudica sempre ogni cosa trasfe rendosi nella necessità causale di
questa. Chi è debole ha tutto lo stesso (xc.Montanara
ÒQfviii). Il prediletto punto d appoggio della dialettica
socratica. Premessa metodologica. .. vorrei comunicar la ribellione /
all'universo. Carlo M. Carlo M. è un pensatore che disarma e, per usare un suo
lemma, "coinvortica": disarma l'interprete, nel senso che lo coglie
alla sprovvista, immettendolo all'interno di una teoria di riferimenti e di
allusioni, così ben congegnata nel tessuto connettivo della Persuasione, da
scoraggiare ogni pretesa od ogni buon proposito di "esatta" acribia
filologica'. Allo stesso tempo, addentrandosi nella lettura, l'interprete non
solo rinuncia alla sua perizia di glossatore, alla sua pazienza di risolutore
di trame, ma si trova costretto a tralasciare ogni impegno asettico,
scientifico, oggettivo di compilazione. M., infatti, impone di non essere
neutrali, il suo pensiero è soprattutto, e consapevolmente, provocazione: chi
lo affronta, vi si scontra, ed è chiamato direttamente in causa, ne viene
ammonito innanzitutto come uomo. Questa violenza (e leggendo il nostro lavoro
s'intenderà tutto il peso di questo termine usato qui), cui il Goriziano
sottopone il suo lettore, e dunque anche noi, può indurre due e solo due
effetti: o suscita riluttanza e irritazione, più o meno ironica, più o meno
seria, oppure reclama una disperata devozione**. Comunque, non permette
accomodamenti o sufficienze o imparzialità. Noi apparteniamo alla schiera dei
devoti, e la nostra tesi ha in ciò molti dei suoi innumerevoli difetti, ma
anche - ce lo si lasci dire - tutti i suoi pregi. Se ci è lecito, a questi ne
aggiungiamo uno ulteriore, di natura metodologica, per quanto la cosa possa
sorprendere, vista la particolare curvatura che prenderà la nostra
impostazione: frequentando M., infatti, nelle nostre assidue riletture, ci
siamo alfine persuasi che il Goriziano richiede una personalissima metodologia,
ritagliata su misura, che egli stesso ci ha suggerito. M. aborre la filologia
fine a se stessa, dichiara a chiare lettere che non gl'interessa, che anzi lo
infastidisce, e a chiare lettere confessa piuttosto l'interesse per la viva
espressione dell'intelligenza e del pensiero, per opere da cui spremere "succo
vitale"?; com'egli stesso ammonisce (seppur di passaggio, in una nota), 1
Ci trova poenamente concordi la posizione del Piovani, secondo il quale «non
c'è scienza storica [e dunque anche filosofica] là dove il metodo filologico,
che è il metodo della storiografia, non è seguìto»: «onestà d'indagine, che è
pazienza e sacrificio, attenzione di analisi, che è amore dell'altro, dicono la
moralità della filologia, anzi dicono della filologia come moralità».
Puntualizza il filosofo, tuttavia, che quello filologico «ovviamente, è un
metodo che ogni ricercatore segue a suo modo, con maniere personali e
personalissime». Questa sottolineatura ci rinfranca e c'incoraggia in questa
rostra nostra difficile ermeneutica d'approccio a Carlo M., pensatore che - a
nostro giudizio - richiede, forse più che altri, una scepsi filologica ed un
taglio di ricerca molto peculiari, diremmo addirittura ad personam (ma cfr. nel
seguito della nostra analisi). [Le citazioni da Piovani sono tratte da P. Piovani,
Conoscenza storica e coscienza morale, ed. Morano, Napoli, 19722, pagg. 48-51
passim]. 2 Espressione-concetto di M.. Altre espressioni tipiche del pensatore
goriziano, riscontrabili in questa Premessa, verranno asteriscate [*]. 3
Indicativo, a tal proposito, questo stralcio di una lettera al padre Alberto,
scritta da Firenze il 31maggio 1908: 1 chi si avvicina al suo pensiero deve
«far forza alla propria erudizione» [PR 14], perché - aggiungiamo noi - la voce
della Persuasione non è apofantica e, come tale, è insofferente ad ogni
approccio razionalizzato o erudito o categorizzante o puramente storiografico. M.,
"profeta" di Persuasione, non può essere soltanto letto, né può
essere decisamente soltanto "studiato", ma semplicemente accostato,
in maniera inesorabile, e condiviso o combattuto. Diventare, come lui, «povero
pedone che misura coi suoi passi il terreno» [PR 4], diventare compagno di
viaggio, e con lui - durante il cammino - conversare, come i discepoli amati e
amanti amavano fare con Socrate. Oppure, divenire intralcio al viaggio e
cercare occasioni di sosta forzata. Così, se s'intende per filologia la puntigliosa
computazione del dettato, la sua scolastica e la sua patristica, la mera
analisi testuale, la collazione, l'idolatria della parola e dei suoi rimandi
eruditi, il gusto per la citazione affine e raffinata, allora La persuasione e
la rettorica non è un'opera filologica. Se invece per filologia s'intende,
com'era per Vico, il rispetto e l'amore della parola come espressione del
pensiero e della sensibilità umana, come risonanza intellettuale ma soprattutto
morale, come pretesto per far filosofia "civile", allora essa è anche
un'opera filologica. Parimenti, se s'intende per ricerca la compilazione
archivistica, l'interesse esclusivo per l'inedito, la serietà sterile e
compassata di chi affronta un'opera coi ferri del mestiere, tacendo la propria
umanità in favore dell'esattezza scientifica, allora la tesi di laurea del
Goriziano non è una tesi di ricerca. Se invece per ricerca s'intende l'ascolto
della voce interiore, lo scandaglio dell'umano, l'elezione degli autori che si
leggono come istigazione dirompente a rimeditare la propria contemporaneità e
la propria condizione, se insomma è ricerca di se stessi attraverso il testo
che ci è di fronte, laddove la voce dell'autore, seppur muta nel foglio, ci
parla nel profondo prendendo a prestito le nostre parole, allora il suo lavoro
è anche ricerca, e ricerca sofferta. Se infine s'intende per critica
l'individuazione e la risoluzione di problemi testuali fini a se stessi, la
ricognizione delle contraddizioni dell'autore, la destrutturazione e la
ricomposizione dell'opera al fine di svelarne soltanto i punti deboli o quelli
forti, nel raffronto con la tradizione, ancora una volta l'opera di M. non è
critica; lo è invece se la critica è un'operazione di pensiero, che non chiama
in causa il concetto, ma il giudizio, se porta ad un punto di discernimento e
di crisi il pensiero di entrambi (dell'interprete e dell'autore), laddove la
crisi segna non soltanto il vacillare delle «lo in queste 2 settimane ho
lavorato. La prima settimana in casa, la seconda in biblioteca dove stavo dalle
8 alla una o le 2 a far lo 'studioso' [virgolettato ironico di M.] a uso e
consumo dei forestieri che venivano a visitare la meravigliosa sala della
Laurenziana. Il semplice studio d'analisi d'una traduzione di Brunetto Latini
d'un'orazione di Cicerone m'impigliò nella questione del testo che Br. Latini
poteva aver avuto sott'occhio; dovetti occuparmi della storia dei manoscritti
di Cicerone, ed esaminare quanti ho potuto trovare qui anteriori a Br. Lat. per
confrontarli colla sua trad.[uzione]. Poi studiai pure i manoscritti fiorentini
della traduzione per correggere in parte l'edizione. Non sono lavori fatti per L'unica
cosa che mi interessò sono le osservazioni che ho potuto fare sull'eloquenza e
sulla "persuasione" in genere». [E 320-321] convinzioni e delle
convenzioni, ma anche un elemento di svolta, un nuovo inizio di sensibilità e
di riflessione. Queste distinzioni non cavillose ma sostanziali, che abbiamo
addotto per render ragione dell'atipicità del lavoro accademico di Carlo M.,
possono comodamente adottarsi anche per ciò che riguarda il nostro lavoro
accademico, il cui intento, o pretesa, non è far la pantomima o la fotocopia di
quello: in M., abbiamo trovato confermati convincimenti che, da sempre, sono
stati radicati in noi. In realtà, il Goriziano è un autore che - data la
stratificazione complessa del suo dettato e l'estrema eterogeneità dei suoi
referenti speculativi e letterari - si presta volentieri anche ad accostamenti
arditi e più o meno raffinati: la fantasia dell'interprete corre a briglia
sciolta e viene incoraggiata nel far aderire M. ad una propria, personalissima
Weltanschauung. Quasi sempre, il risultato che se ne ricava è quello di un
sostanziale tradimento della parola genuina del Goriziano, che diventa il
viatico - e spesso, il "megafono" - di convinzioni e "persuasioni"
esistenziali, speculative e politiche che in realtà, nella maggior parte dei
casi, appartengono esclusivamente all'interprete: basti pensare (e speriamo che
questi esempi-limite esauriscano la portata della questione) a come il nome di M.
ricorra, e sempre con pretesto corroborante alle proprie posizioni, in opere
tanto diverse quali possono essere quelle di un Massimo Cacciari (dove il
Goriziano diventa un'ulteriore epifania della Krisis), di un Aldo Capitini
(laddove la Persuasione diviene religiosità autentica e umana) e addirittura di
un Julius Evola (dove M. vien chiamato a testimonianza del valore metafisico
della "purità")‘. Il nostro accostamento, dunque, è stato
progressivo, talora blando, talora, e più spesso, esasperato: come dire,
volentieri il gioco ci ha preso la mano e, rileggendo quanto abbiamo scritto su
M., ci accorgiamo d'aver spesso confuso, anche noi, la nostra prospettiva con
la sua, o meglio, d'aver reso trasparente la nostra "persuasione"
attraverso la sua, utilizzando anche noi il suo dettato come viatico di una
ricerca ed urgenza esistenziale che, in primo luogo, ci appartiene. Un qualcosa
di analogo accadde del resto anche al Goriziano, tal che la sua tesi, nata come
uno studio scientifico sui concetti di persuasione e retorica in Platone ed
Aristotele (il cui nucleo originario si conserva nella sezione
"maledetta", come qualcuno l'ha definita, delle Appendici critiche),
si tradusse ben presto in un'apologia della Persuasione. La sua tesi
scientifica si era risolta in una ipotesi esistenziale, e M. non ebbe scrupoli
a ritenerla "ufficiale", a "sottoporla in commissione di
laurea", perché se è vero che una tesi di laurea è 4 Per una motivazione
che non ci vergogniamo di confessare esclusivamente politica (una salutare
posizione antidemocratica, una tantum), abbiamo ignorato del tutto l'odiosa
interpretazione evoliana; quella di Cacciari la abbiamo assorbita nel corso
della nostra trattazione, senza palesarla più di tanto; riguardo a Capitini,
invece, cui va tutta la nostra simpatia, ci riserveremo di approfondirla nelle
nostre Conclusioni. un'opera di ricerca, è altrettanto vero che la vera ricerca
è quella umana, socratica, soprattutto se poi - e qui facciamo riferimento alla
nostra - è una tesi di filosofia morale. Nel suo scritto accademico, M. si
disincagliò dalla "scientificità", per porsi in diretta sintonia con
la voce della Persuasione. Ma non fu assunzione di sregolatezza o di
a-criticismo, frutto esclusivo di un'operazione di gusto o di genio; bensì,
semplicemente, l'escussione di una strategia ermeneutica altra (ogni strategia
di scrittura comporta, del resto, una specifica strategia di lettura), una
tecnica d'interpretazione dialogica che collabora col testo e che trova nel
divino Platone * il suo teorico più convinto ed esemplare: leggere non
glossando, ma filosofando, e intender la filosofia non (soltanto) come scienza
del pensiero, ma come sapere a vantaggio dell'uomo’ [cfr. Eutidemo, 288e -
290d], e quindi etica e politica: pensiero che si svolge tra, e non sugli,
uomini, con le parole degli uomini, anche se il suo linguaggio è talora più
suggestivo che rigoroso. In tal senso, assumendo in pieno anche noi questo
profilo euristico, abbiamo tentato un "romanzo storico-filosofico"
della persuasione in M. e abbiamo accompagnato l'autore nella ricostruzione
eccentrica, ma fedelissima (fedele alla sua eccentricità), del suo pensiero.
Proprio a questa oculata scelta metodologica rispondono sia l'andamento
narrativo della nostra esposizione, e qualche confidenza che ci siam presi
durante il suo corso, sia l'accostamento del pensiero del Goriziano a pensieri
"alternativi" (il Buddismo, ad esempio), laddove l'accostamento non è
arbitrario, ma confortato da effettivi riscontri biografici e testuali; sia le
forzature cui sottoponiamo i testi dell'antichità classica filosofica e tragica
(forzature, ancora, non nostre, ma dello stesso M., filologo
"patologicamente" originale: ci siamo limitati a seguirlo e, in certi
punti, ad assecondarlo), sia infine il privilegiare testi ed autori in
apparenza estranei alla storiografia filosofica "ufficiale" (Ibsen e
Tolstoj, sopra tutti), solo perché è quasi esclusivamente su tali testi ed
autori che si innesta e si forgia l'immaginario persuaso di M.. Di contro,
abbiamo adottato anche noi un opportuno (o per noi tale) armamentario euristico
per avvicinare il Goriziano. Innanzitutto, l'orizzonte - morale, ma appunto
anche euristico - entro il quale si muove la nostra tesi è quello delineato
dalla ragion pratica kantiana, non solo qui assunta come la prospettiva etica,
per noi, più alta mai raggiunta dal pensiero in assoluto, ma anche -
nell'economia del nostro discorso - come valido modello per indagare e segnare
"i limiti e le possibilità" della condizione persuasa in M.. Il punto
più importante di contatto tra il cosiddetto imperativo iperbolico del
goriziano e l'imperativo categorico kantiano è da riscontrarsi, a nostro
avviso, nella forte esigenza - 5 Definizione, questa, tra l'altro cara ad uno
dei nostri maestri putativi, Nicola Abbagnano. 6 In questo, è possibile
accostarlo al Nietzsche de La nascita della tragedia e de La filosofia nell'età
tragica dei greci. necessaria, ma non sufficiente - di autonomia, che le
suddette posizioni presuppongono: il regno della Rettorica viene, di contro, a
palesarsi per antonomasia come regno della eteronomia, in tutte le
manifestazioni, dalle più subliminali alle più sublimi, dalla sua componente
prima e fisiologica (la deficienza *) alla sua realizzazione più completa (la
tecnica politica e panoptica del corpo, tanto per esprimerci con una
fraseologia foucaultiana). Alla luce di quanto detto, cercheremo di assimilare
il vir” persuaso alla volontà santa, così come descritta da Kant. Quando,
invece, la nostra analisi s'appunterà nella de-costruzione del dispositivo
rettorico, ci avvarremo proprio dell'aiuto di quella lezione di
"smascheramento" retorico (lezione profonda e pervicace, intelligente
ed irriverente), ch'è il grande lascito di Foucault, inteso da noi come apice della
cosiddetta "scuola del sospetto". La difficoltà del concetto di
Persuasione, difficoltà quindi prima di concettualizzazione che di
realizzazione, acquisterà - a nostro giudizio - nuova chiarezza e nuovo valore
in questo tentativo di approccio critico che, a quanto ci consta, appare
inedito nelle letteratura critica sul Goriziano. Gli ulteriori elementi
sinergici, di cui si terrà conto, sono quegli stessi retaggi esistenziali che M.
rielabora ed "attualizza", ritenendoli egli stesso le cifre più
essenziali di una vita sana*, ovvero il messaggio e la simbologia cristologica
e (nella sua variante laica, se ci è permesso di esprimerci così) il messaggio
e la simbologia socratica. Secondo un taglio, invece, chiaroscurale, si
evidenzieranno distanze/vicinanze con i mostri sacri della Rettorica, ovvero
Hegel e ancor più Aristotele. A tal proposito, si utilizzerà l'opera dello
Stagirita - paradossalmente? - come una delle chiavi più adatte per penetrare
l'assunto M.iano, e da essa si ricaverà la formula euristica di entelechia
etica per designare appunto l'atto autentico della Persuasione. Persuasione che
acquisterà, per quanto possibile, contorni ancor più definiti nel confronto con
la fede (si tenterà una correlazione tra il Persuaso e il "cavaliere della
fede", figura kierkegaardiana), tal che, ancora una volta, la Persuasione
apparirà coi crismi di una esperienza e di un esercizio l'è vero religioso, ma
di una religiosità "laica", che si slaccia dall'eteronomia del
rapporto con Dio, per vestirsi di una propria spiritualità umana tutta
particolare, democratica e libertaria, ovvero fondatrice di democrazia e di
libertà (in questo contesto si accennerà all'opera di Aldo Capitini, che
proprio in tal senso intese il monito M.iano). Insomma, l'approccio che
tenteremo al "concetto" di Persuasione mirerà anzitutto a far terra
bruciata intorno ad esso: giocoforza, l'avvio a tale approccio verrà inaugurato
in 7 Utilizzeremo, d'ora in poi, con preferenza questa dizione per indicare l'
"essere persuaso", sia per evidenti ragioni di brevità, sia
innanzitutto a ragione della forte valenza semantica- morale-storica che i
latini assegnavano a questo termine [cfr. almeno C. Nepote, De viris
illustribus]; vi contrapporremo homo per designare l' "uomo della
Rettorica" legato alla terra [homo > humus]; e soprattutto dominus,
colui che detiene i fili del potere all'interno della "comunella dei
malvagi" [per il significato di quest'ultima espressione, cfr. il
prosieguo del nostro lavoro]. media re, ovvero con riferimenti diretti agli
scritti ultimi del giovane filosofo goriziano e con iniziale preferenza per le
lettere e le poesie, rispetto alla stessa tesi di laurea, ch'è il suo lavoro
più conosciuto: ciò nella convinzione, nostra personale, che in quelli il
concetto di Persuasione abbia acquistato una dimensione, come dire, più
consapevole e vitale, urbanizzata e "politica" (insisteremo su questo
punto), quanto mai avesse nello scritto accademico, laddove ogni definizione a
riguardo - soprattutto nelle prime battute - si risolve volentieri in forme
ermetiche e tautologiche, talora francamente impenetrabili. Il tutto, nel
tentativo - che è paritempo pretesa - (autocitandoci) «di individuare il
nocciolo etico di quel suo [di M.] stesso pensiero, e di finalizzario ad una
sana eudemonia (quella che il Goriziano assimila alla vera 'salute') a
vantaggio del nostro tempo, cercando d'intravedere - non potendone
visualizzarne in modo corretto e 'coerente' la consistenza e la realtà - la
possibilità di quel porto di pace *, da lui stesso vagheggiato», convinti che
«la cifra autentica del suo pensiero sia riposta in un'esigenza davvero
semplice e umana: la ricerca, ch'è l'esigenza appunto, della felicità possibile
per l'uomo». In questa ricerca e in questa esigenza convergono
significativamente, per l'appunto, anche la prospettiva socratica, quella
cristiana e - non ultima - quella kantiana: e su una cattiva (in senso proprio
e lato) deflessione di tale ricerca e di tale esigenza si è fondato, e si fonda
tuttora, il mondo della Rettorica. Postille metodologiche. a) Nella stesura del
nostro lavoro, abbiamo preferito riprodurre la falsariga M.iana: strutturare il
discorso sulla Persuasione e sulla Rettorica in due grandi blocchi,
"monotematici", opportunamente articolati in paragrafi atti a
focalizzare i singoli progressi dell'analisi. Ovviamente, i due capitoli non
conducono esistenza autonoma, ma presuppongono una serie indefinita di rimandi
reciproci, evidenziati - nel nostro caso - dall'Intermezzo (ma non solo), ponte
di passaggio dall'uno all'altro e frapposto ad essi. b) Sempre seguendo
suggestioni M.iane, accordiamo grande valore alle epigrafi: queste abbonderanno
in riferimento a paragrafi di estrema importanza e complessità. L'epigrafe,
infatti, per M. riassume, e in certo modo "scolpisce", il senso e la
prospettiva di un discorso, e, allo stesso tempo, lo arricchiscono di
sottointesi atti a favorire una "complicità etico-ermeneutica" tra lo
scrittore e il lettore. c) Durante il nostro lavoro, indicheremo generalmente
(ovvero, a meno che non si avverta il bisogno di approfondire l'appunto) con le
seguenti sigle i testi di M. più citati, facendole seguire dal numero delle
pagine cui le citazioni fanno riferimento, e apponendo il tutto, in parentesi
quadre, a fianco del brano citato: 8 Paradossalmene, perché M. individua
proprio in Aristotele il suo nemico dichiarato [cfr. oltre]. - Opere, a cura di
G. Chiavacci, Firenze, Sansoni. 1958: 0; - La persuasione e la rettorica, con
Appendici critiche, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1995: PR; -
Epistolario, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1983: E; - Poesie, a cura
di S. Campailla, Milano, Piccola Biblioteca Adelphi, 19945: PP; - Il dialogo
della salute e altri dialoghi, a cura di S. Campailla, Milano, Piccola
Biblioteca Adelphi, 19952: D. Quest'espediente ha una doppia utilità
metodologica: 1) evitare un continuo e fastidioso affastellarsi di note e di
rimandi spiccioli a pie' di pagina, elemento di distrazione durante la lettura;
2) (e più importante) mostrare la ferrata logica di rimandi e di allusioni che
informa tutta l'opera di Carlo M., secondo l'intima consapevolezza, che è
propria al filosofo goriziano, del fatto che ciò che si sta comunicando è in
fondo un unico, anche se articolato, pensiero [cfr. nota 161]. d)
Trascriveremo, con spaziatura e formattazione di paragrafo e carattere diversi
da quelli comunemente assunti dalla nostra scrittura, periodi o espressioni di M.
o di altri autori, o che comunque non ci appartengono. e) Riguardo espressioni
e citazioni in greco, fatta eccezione per talune ricorrenti nel dettato di M.,
si preferirà la translitterazione latina (ad es. gui --- philia); le citazioni,
tratte da filosofi o scrittori non italiani, in linea generale si riporteranno
direttamente in traduzione. f) Infine, invitiamo - si licet - a non trascurare,
durante la lettura, le note a pie' di pagina, alcune particolarmente
strutturate e complesse: molte note, infatti, rappresentano vere e proprie
"appendici critiche" al paragrafo in questione, e articolano un
discorso tangenziale e approfondito di taluni aspetti del pensiero M.iano che,
di non minore importanza, tuttavia avrebbero appesantito, in prolissità, il
corpus del paragrafo stesso. Capitolo | La persuasione more geometrico
demonstrata. Persuadere: 1 - indurre qlc. in una convinzione o spingerlo a
compiere determinate azioni; 2 - ottenere approvazione, ispirare fiducia.
Definizioni (rettoriche) del dizionario Garzanti [...] guardar in faccia la
morte e sopportar con gli occhi aperti l'oscurità e scender nell'abisso della
propria insufficienza: venir a ferri corti colla propria vita.
"Definizione" di M., nel Dialogo. 1. Introduzione metabiografica. Mi
pardi non aver voce, così m'opprime questo triste incubo d'inerzia faticosa dal
quale non ho saputo ancora riscuotermi. Quella voce che viene dalla libera
vita, quella m'era necessaria per fare il mio lavoro come io lo volevo; m'ero
illuso di poterla avere: e mi son trovato invece a desiderar solo di non
parlare, a non aver nessun interesse per ciò che pur m'ero proposto di dire
quasi con entusiasmo. E d'altronde finir la tesi era la necessità per me per
uscir da questo abbominio, almeno per poter sperar d'uscirne, per aver almeno
una via. Ma scrivere senza convinzione parole vuote tanto per poter presentar
carta scritta, questo ancora m'era impossibile... E in questo triste giro mi
son dibattuto questi mesi malato nell'anima e impigrito nel corpo, a volte
giungendo a raccogliermi e a riaver in me vive e concrete le cose che
altrimenti mi danno solo un tormento oscuro; altre volte e per lo più vinto
dall'inerzia disperdendo le mie forze in questo e in quello che sembrava
distrarmi dalla noia e tanto più fortemente mi stringeva nella brutta necessità
[E 440-441], Queste parole - scritte da M. all'amico Enrico Mreule, quasi ad un
anno dalla partenza di quello per l'Argentina - rappresentano, nella loro
disperata sincerità, come un'epitome esistenziale dell'impasse (almeno per
poter sperar d'uscime, per aver almeno una via...) in cui grava il nostro
giovane autore, a pochi giorni oramai dalla sua morte. L'onere della tesi di
laurea, questo «mostro informe qui crescit eundo et quod crescit non it» [E
417], viene affrontato in ultimo con la pedanteria (anzi, ci vien d'usare un
ossimoro: con la dotta sciatteria°) di chi è già consapevole dell'inutilità,
travestita da illusione, di poter fare «con le parole guerra alle parole» [PR
134]'°; di chi - forte di questa consapevolezza - si presta tuttavia al gioco
della Rettorica, fatto di scadenze e note filologiche (fumo negli occhi per un
"messaggio" che tanto i professori non capiranno, ironizza altrove M.)'',
di vita consegnata alla carta, e per questo non più vita. Una consapevolezza,
infine, affidata in forma definitiva e paritempo programmatica alla famosa
prefazione all'opera maggiore: «o lo so che parlo perché parlo, ma che non
persuaderò 9 «L'interesse d'aver fatta una cosa non è l'interesse di farla» [E
441]. 10 Tratto dall'epigrafe alle Appendici critiche. 11 «Il mio lavoro
procede a lenti passi, anzi non c'è un progresso materialmente sensibile. Ma
non me ne impensierisco, perché ormai è questione di tempo e difficoltà grosse
non ne troverò più. - Tanto poi per quei professori è tutto buono; per loro è
come arabo, non hanno vie e criteri per dire se va bene o male; tutt'al più
potrebbero rifiutarlo e perciò è stato prudente aspettare fino a Ottobre, che
così potrò buttar loro negli occhi tutta la polvere necessaria e che andrò
raccogliendo in questo tempo. -» [E 392]. Antimo Negri, giustamente, fa notare
che «solo le Appendici, del resto esse stesse non fino in fondo, sembrano,
vertendo su autori classici, soprattutto Platone e Aristotele, obbedire alle
regole del gioco dello "studio scientifico" accademico» [A. Negri, Il
Lavoro e la città, Roma, Ed. Lavoro, 1996, pag. 45]. In un notevole passo della
sua tesi, M. destruttura i "meccanismi di potere" sottesi alla
dinamica succitata: «"[...]Tu devi far uno studio su Platone o sul
vangelo" gli [al giovane studioso] diranno "è perché cosi ti fai un
nome, ma guardati bene dall'agire secondo il vangelo. Devi esser oggettivo,
guardare da chi Cristo ha preso quelle parole o se omnino Cristo le abbia dette
e se non meglio le abbiano prese gli Evangelisti o dagli Arabi o dagli Ebrei o
dagli Eschimesi, chi lo sa... Naturalmente parole che valevano in riguardo
all'epoca, adesso la scienza sa come stanno le cose, e tu non te ne devi
incaricare. Quando tu hai messo insieme il tuo libro sul vangelo - allora puoi
andar a giuocare". [...] Così si conforta il giovane a perseguire nel suo
studio scientifico senza che si chieda che senso abbia, dicendogli: "tu
cooperi all'immortale edificio della futura armonia delle scienze e sarà un po'
anche merito tuo se gli uomini quando saranno grandi, un giorno sapranno
"». [PR 131; corsivi di M.]. Abbiamo preferito anticipare già qui
espressioni- conclusioni del Goriziano, al fine di proiettare da subito chi
legge nel vivo della polemica M.iana. nessuno: e questa è disonestà - ma la
retorica "mi costringe a forza a far ciò"? - o in altre parole
"è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la
risputi"» [PR 3]. Una citazione, questa, che è a la page, tra coloro che
affrontano il filosofo goriziano, anche se talora mal intesa o superficialmente
valutata. Tuttavia, a ben vedere, è già qui che si delinea, si dibatte, e
implode, il problema (l'aenigma) della persuasione e della rettorica. Ed è
questa (ci si perdoni quest'ulteriore incursione metodologica), anche, una
delle peculiarità che caratterizza il nostro M.: ovvero, il fatto che da
qualunque prospettiva si prenda la sua opera, qualunque suo scritto si abbia
sottomano, ci si trova già subito e prepotentemente proiettati nel cuore dello
scontro millennario, umano e storico, tra persuasione e retorica appunto. E'
altresì anticipato, in forma lata ma altrettanto perentoria, un assunto che
informa e struttura e, in un certo modo, pregiudica ogni assoluto tentativo di
discorso su "che cosa sia" la Persuasione: la Persuasione è dopo
tutto l'indicibile, l'impensabile: una "condizione" senza pensiero,
che non possiamo visualizzare e nemmeno interpretare concettualmente, né
tantomeno comunicare, secondo le leggi della logica della cosiddetta
"ragione occidentale". Ogni "parola sulla", ogni
"pensiero sulla" Persuasione, già solo per essere concepito, deve
prima essere elaborato, sottoposto ad artificio, manipolato, interpretato, per
separarlo dalla sua primigenia e consustanziale assurdità: ogni pensiero sulla
Persuasione si profilerebbe, così, già di per se stesso come Rettorica. Appare
chiaro, inoltre, ma non è male ribadirlo da subito, che il progetto originario
- di trattare, nella sua tesi di laurea, | concetti di persuasione e rettorica
in Platone ed Aristotele - si allarga e sviluppa, inevitabilmente per M., nella
considerazione dell'intera vita umana, culturale e sociale. Non solo. In
effetti, l'applicazione di questi due principi o categorie (per ora definiamoli
in questo modo) investe una dimensione ancora più ampia, assurgendo a cifra
dell'intero esistente. Ovvero, tutto il mondo, inteso sia come "totalità
dei fatti" (tutto ciò che accade) sia come "totalità delle cose"
(tanto per parafrasare Wittgenstein), risulta permeato, intriso, e quindi -
dalla prospettiva del Nostro - rimeditato alla luce di questi due principi.
Questo è un punto nodale. La persuasione e la rettorica, nell'accezione del
giovane filosofo, subiscono così non soltanto uno slittamento concettuale
rispetto alla concezione che di questi due principi, che di queste due parole,
il "senso comune" ha. La rettorica - ad esempio - non è più un'ars,
una téchne, con una sua patente di nascita, storicamente contestualizzata e con
un'applicazione "pratica": ovvero, non è larte del parlare e dello
scrivere in modo da convincere, o persuadere” un uditorio, non è una
professione di eloquenza e non denota 12 in greco nel testo 13 E' interessante
come la denotazione povera di questi due termini s'incontri in questa
definizione, tratta dal dizionario Garzanti, quasi a testimoniarne un
significativo appiattimento. altresì, per estensione, un atteggiamento o
comportamento che mira solo all'effetto esteriore e non è determinato da
un'autentica esigenza spirituale (la retorica del bel gesto, ad esempio). Tutti
questi aspetti non sono altro che i "modi" e gli "attributi"
in cui si manifesta la Rettorica originaria: ne sono la mera fenomenologia, e
anche la più povera. Le parole-chiavi di questo pensiero, dunque, sono da M.
essenzialmente intese «in un senso diverso da quello corrente, che rivela
influenze ebraiche, greche e proto-cristiane. Come osserva Mario Perniola,
persuadere si dice in greco peitho, e l'uso transitivo del verbo, persuadere
qualcuno, non appartiene al greco arcaico ma ne rappresenta una successiva
trasformazione. Dunque la prima accezione di persuasione era essere persuasi,
aver fiducia. Anche nella Bibbia dei Settanta [...] la radice greca peith-
traduce la radice ebraica bth-, usata nei libri sapienziali dell'Antico
Testamento per indicare la disposizione d'animo del giusto: la fiducia. Mentre
la fede, pistis, nel Nuovo Testamento implica il rinvio al futuro, l'attesa di
una salvezza a venire, la fiducia-persuasione è, nell'Antico, qualcosa di
presente, un possesso attuale. Il senso della persuasione M.iana è molto
simile»'*, come avremo modo di approfondire. Giusticato appare, dunque, il
nostro confessato imbarazzo nell'approntare la presente tesi, e ci figuriamo
l'espressione ironica di M., se potesse leggere le nostre pagine, e le altrui,
sulla sua opera e sul suo pensiero. Ma ancora una volta, la rettorica ci spinge
a far ciò: un dispositivo machiavellico così diabolicamente ben congegnato da
riuscire a rendere la voce della verità la propria pubblicità, ammantandola
casomai di simbolismo o conferendole una sistemazione ch'essa, invece,
disdegna; e da riuscire a rendere, altresì, i contestatori del sistema i propri
martiri, o - alla men peggio - «naturalisti inesperti», o meri facitori di bei
versi, di bei drammi e di belle musiche. E M. stesso un nichilista, un mistico,
un cristiano devoto, un ebreo autentico, un filosofo mancato, soltanto uno
scrittore, una promessa non mantenuta, un teorico dell'arte, un teorizzatore
del dominio, un filosofo del linguaggio, un imperfetto pessimista, un filosofo
col martello, un pensatore morale, un precursore dell'esistenzialismo, un
povero anonimo giovane goriziano suicida, l'ultimo allievo di Socrate, uno
spirito della vigilia; e l'elenco, credeteci, potrebbe stendersi all'infinito,
perché infiniti sono gli uomini ed, ergo, infiniti sono i modi di porsi della
rettorica. Il che vale a dire che il "sistema" (ed è questo il suo
raffinamento, come vedremo) è divenuto capace di tollerare, al proprio interno,
riassorbendole, anche le contraddizioni e le contestazioni più sottili e acute,
apparendo per molti aspetti davvero come un Moloch o un Leviatano invincibile.
14 Cfr. Michelis Angela, Carlo M.: il coraggio dell'impossibile, Roma, ed.
Città Nuova, 1997, pagg. 124-125 [la stessa autrice rimanda a M. Perniola, La
conquista del presente, in Mondo Operaio, n. 4, aprile 1987, pagg. 108-109].
Questa che ci accingiamo a scrivere, tuttavia, non vuole essere una riflessione
su M. e sulla sua opera e il suo tempo, non pretende cioè di coltivare
(soltanto) una critica filologica e filosofica del suo pensiero. La sua pretesa
è addirittura più grande: ovvero, quella di individuare il nocciolo etico di
quel suo stesso pensiero, e di finalizzarlo ad una sana eudemonia (quella che
il Goriziano assimila alla vera «salute») a vantaggio del nostro tempo,
cercando d'intravedere - non potendone visualizzarne in modo corretto e
"coerente" la consistenza e la realtà - la possibilità di quel «porto
di pace», da lui stesso vagheggiato. Per quanto possa sembrare riduttivo,
soprattutto in confronto alle vertiginose elucubrazioni che si sono tessute
intorno all'opera del nostro giovane autore, siamo infatti convinti che il
tratto autentico del suo pensiero sia riposto in un'esigenza davvero semplice e
umana (esigenza che non è soltanto letteraria o speculativa, ma che nasce
soprattutto da un'amara esperienza di vita, così com'è esperita da un giovane
intelligente e molto, molto sensibile): la ricerca, ch'è insieme l'esigenza, di
una felicità possibile per l'uomo. «Gli uomini non sono infelici perché
muoiono; muoiono perché sono infelici», afferma Michelstaeater, e questa
antimetabole non vuol essere una frase ad effetto giocata sul capovolgimento di
un luogo comune, bensì in essa è compendiata la grande utopia etica (ma quanto
utopica, poi?) che il Nostro ci propone. M., redivivo Socrate, si assume un
difficile compito esistenziale prima che speculativo (condividendolo col suo
"maestro" e con tutta la temperie greca), e lo affronta con tutta
l'esuberanza e la fiducia della sua giovane età, esuberanza e fiducia temprate
tuttavia dal rigore della sua mente eletta: quel compito è insegnare agli
uomini ad essere veramente felici. Glissando per ora considerazioni che
approfondiremo durante tutto il nostro discorso, possiamo anticipare già qui,
dunque, la pregnanza socratica ed, insieme, evangelica (nonché, aggiungiamo
noi, kantiana) di suddetta utopia. Detto in parole molto semplici: se
l'infelicità è frutto di "ignoranza esistenziale" (come c'insegna
Socrate, appunto, e - in certo modo - tutta la schiera di Persuasi che M.
annovera nella prefazione alla sua tesi), ebbene bisogna fugare le tenebre di
questa ignoranza (ovvero, di questa rettorica), bisogna «uscir della tranquilla
e serena minore età» [PR 131]'°, ed indagarla secondo una prospettiva
"archeologica" - ovvero, "eziologica" - che la conduca
appunto allo scoperto. M. scoprirà (come già notava a suo tempo il Piovani’) le
radici di 15 Sono le parole con le quali, significativamente, si conclude la
tesi di laurea. Ma cfr. il seguito del nostro lavoro. 16 Piovani Pietro, M.:
filosofia e persuasione, un inedito di P. Piovani a cura di Fulvio Tessitore,
Nuova Anologia, fasc. 2141, vol. 548°, gennaio- marzo 1982, p. 214. Piovani,
innanzitutto, ci avverte che «(...) occorre molta prudenza critica
nell'avvicinarsi a M. con la piena fiducia che il suo discorso abbia una
tratteggiata autonomia di linee ricostruibili al di là del loro frammentarismo
sostanziale."; quindi, poco dopo, quasi a proporci un possibile approccio
metdologicamente corretto: "A tal fine giova, secondo noi, individuare
come determinante il tema della deficienza». quella Rettorica nella stessa
struttura - fisiologica, prima che ontologica - dell'uomo, penalizzato da quel
«deficere» ch'è l'alfa e l'omega di ogni sofferenza, di ogni illusoria(«lusinghiera»,
«adulatrice») soddisfazione, e - insieme - di ogni possibilità di
riscattoautentico. Quella "deficienza" che la critica, unanimemente,
ascrive ad un retaggio schopenhaueriano del nostro autore, e che noi, invece,
preferiamo assimilare al concetto di privazione (steresis), contenuto nella
Fisica di Aristotele. Il che non vuol essere un cavillo ermeneutico, ma vuol
rendere chiara - da subito, senza indugi - quella ch'è la nostra prospettiva di
approccio a M.: siamo convinti, infatti, che l'aenigma della Persuasione (e di
tutte le ardue, tautologiche "definizioni" che ad essa il Goriziano
associa) si risolva in quella che potremo chiamare, con una formula che diamo
già qui per definitiva, entelechia etica, laddove per entelechia intendiamo
proprio ciò che intendeva lo Stagirita'”, ovvero l'atto finale o perfetto, cioè
la compiuta realizzazione di una potenza. Ebbene, a nostro parere, il dilemma
Persuasione-Rettorica si gioca appunto sul trinomio privazione-potenza-atto (e
ci sentiamo autorizzati a ciò da alcune "tracce" che M. stesso lascia
nei suoi scritti), tale che la Persuasione si evincerà come la piena, perfetta
attuazione, realizzazione dell'uomo, secondo la sua (vera) natura. Si converrà
che una tale impostazione ribalta, in modo deciso, ogni evenienza critica - per
quanto legittima, perché giustificata, in un certo senso, da talune
affermazioni "forti" dello stesso Goriziano - circa l'impossibilità
(per l'uomo) della Persuasione. In effetti, proprio M., se non nell'opera
maggiore, soprattutto nell'Epistolario e nelle Poesie? sconfessa - e ci
sentiamo di dire che lo fa con una certa gioia che sa di liberazione - quella
presunta impossibilità della Persuasione, individuando nell'amico Mreule
l'acme, cronologico ed etico, della Persuasione realizzata: l'atto di coraggio
del compagno Enrico dimostrò al giovane filosofo (e dimostra a noi) che la
Persuasione non ha soltanto una sua storia (né tantomeno soltanto una sua
storia letteraria e filosofica), ma anche una sua attualità viva e concreta,
che ci può essere accanto e ci può guidare '°, pur nella consapevolezza che una
cosa è conoscere la «via della Persuasione», altra cosa è avere la forza e il
coraggio di imboccarla. Volendo, il dramma del suicidio del giovane goriziano
si consuma tutto qui (ma lungi da noi ogni riduzionismo e ogni retorica a tal
proposito). 17 Cfr. almeno Metafisica, IX, 8, 1050a 23. 18 Nel confronto
(soprattutto) con le ultime lettere e poesie (intendiamo quelle del 1909-1910),
ci azzardiamo a considerare la tesi di laurea già "datata", per
quanto concerne la dimensione persuasa dell'uomo; o quantomeno, a considerare
le suddette lettere e poesie l' "urbanizzazione" più completa e più
efficace del messaggio della Persuasione stessa. Ragion per cui, ad esse va
tutta la nostra predilezione. 19 Sul valore e sul senso di questa
"guida" della Persuasione - che non ne pregiudica l'assunto autonomo,
cioè di esperienza che si realizza nello spazio di autonoma sacralità di ogni
uomo - si articola un difficile e intricato equilibrio (tra autonomia ed
eteronomia), sullo "scioglimento" del quale s'impernia tutto il
nostro lavoro. Già da quanto detto finora, appare chiaro che M. si presenta
subito come un autore "difficile": questa sua difficoltà deriva non
solo (com'è ovvio) dal carattere decisamente e consapevolmente
anti-sistematico, se non ermetico, del suo linguaggio e del suo
"messaggio"? - per quanto quello stesso messaggio contenga una sua
certa "banalità" (la "banalità del bene", per alcuni
sintomo di "pensiero adolescenziale" [sic]) paradossalmente non
accolta, inascoltata™ o, peggio, mal interpretata; non deriva soltanto dalla
vastità (davvero impressionante, per un giovane) dei suoi referenti culturali;
né soltanto dalla "irritabilità" cui può indurre chiunque ad esso si
avvicini (un'irritabilità che egli condivide appieno con la torpedine-Socrate);
bensì essa deriva, forse soprattutto, dalla collocazione "liminare"
della vita stessa e dello stesso pensiero del Goriziano: storicamente sospeso
in un'età per definizione di transizione e di decadenza (quella tra Ottocento e
Novecento), con tutte le inquietudini "millennaristiche" annesse e
connesse, ampiamente testimoniate, del resto, dalla cultura coeva’;
geograficamente (e dunque culturalmente, linguisticamente...) oscillante tra
Austria e Italia (e non solo; non si approfondirà mai abbastanza l'impronta
mitteleuropea di questo autore”), situazione - questa - complicata, e di molto,
dall'appartenenza ebraica dell'autore stesso (altro nodo abissale); attratto e
disperso in una molteplicità passionale di ispirazioni (il teatro, la musica,
la letteratura, la poesia, la pittura), sia per quanto concerne le
"fonti", sia per quanto concerne le sue stesse realizzazioni; calato
in una Weltanschauung tragica - filosofica e religiosa - di amplissimo respiro
storico-geografico, di cui si propone originalmente e appassionatamente di
riannodare le fila; dibattuto tra un lacerante bisogno di indipendenza (non
solo "culturale" e affettiva, ma anche economica) e un altrettanto
forte bisogno di rifugio nell'alcova della sua Gorizia e della sua famiglia. 20
Riguardo a ciò, solo per la chiarezza con cui è svolta l'argomentazione, riportiamo
l'equilibrata valutazione di G. Cavallero, nella prefazione alla sua tesi di
laurea, valutazione praticamente condivisa da tutta la critica: «Alla filosofia
del M. (caso singolare nella storia dei pensiero) va riconosciuta subito una
dote rara: quella di non porsi mai come tale, almeno nel significato ormai
consacrato del termine. Di diritto essa rientra piuttosto nella storia della
cultura che, non propriamente, in quella della filosofia o della letteratura
occidentale. La sua peculiare forma espressiva è strutturata in un originale
amalgama linguistico, da cui affiorano, armonizzati su di un antico ritmo
greco, stilemi biblicoplatonici, modi di prosare "vociano" oltre,
naturalmente, ad una congerie varia di altri influssi - tra i più disparati -
della cultura contemporanea. Questo complesso problema linguistico, lasciato
tuttora irrisolto dai numerosi critici del M. ad oltre sessant'anni [la tesi di
Cavallero è del 1972] dalla morte, ha così indirettamente favorito le più
arbitrarie interpretazioni della Persuasione, nel tentativo di ricondurla, di
volta in volta, al denominatore delle più svariate ideologie del Novecento
europeo». [G. Cavallero, Itinerario di M., Tesi di laurea, Anno accademico
1971-1972, presso Biblioteca di Gorizia, Fondo Carlo M., Prefazione p. VI. ] 21
«Eppure quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare
impossibile che il mondo abbia ancora continuato ogni volta dopo che erano
suonate quelle parole» [PR 3]. 22 Ma cfr., per quanto or ora diremo, il nostro profilo
biografico, più dettagliato, contenuto nel paragrafo 6 del Il capitolo (sulla
Rettorica): Il pretesto cronologico della proposta persuasa di M. 23 Lo studio
di L. Furlan, L'essere straniero di un intellettuale moderno, ed. Lint- lavoro
dettagliato, composito, anche se discutibile per certe sue conclusioni - si
propone di adempiere appieno a questo gravoso compito. Tutto questo risulta poi
complicato da una tempra caratteriale certamente particolare, diremmo per certi
aspetti umorale, tanto da rasentare a volte manifestazioni depressive- reattive
(in specie, ad esempio, nelle ultime lettere), altre volte lampi di
vitalistico, ottimistico entusiasmo. Delicato, suo malgrado, come un fiore di
serra (psicologicamente, beninteso non fisicamente), sarebbe forse più
opportuno dire che la severità, o meglio il forte rigore morale, che egli usò
con se stesso dovette applicarlo anche agli altri uomini, ricavandone sovente
sonore smentite: da ciò, negli ultimi anni della sua vita, una sorta di
involuzione caratteriale: un animo, col tempo, sempre più appartato e deluso,
che tuttavia non perde la sua essenziale forza, energia e consapevolezza. Alla
luce di tutto ciò, se volessimo compendiare, in una sorta di prosopopea, il
dramma esistenziale del nostro giovane autore (che è, in definitiva, quello di
un "aspirante alla Persuasione" che si trova invischiato giocoforza
nello strame rettorico), proporremmo - in alternativa alla chiave di lettura
legata alla ben nota "coscienza infelice" hegeliana, avanzata dal
Garin% - la figura di Qohélet, il saggio ebreo autore di quell'operetta biblica
(tanto cara al Goriziano) che vien chiamata Ecclesiaste. Nel corso della sua esistenza,
Qohélet ha vissuto sulla propria pelle - giungendo ad una consapevolezza tanto
profonda quanto disincantata - la sconcertante (per quanto "banale")
verità che «tutto è vanità», come recita l'inizio [1,2] e la fine [12,8] del
libro biblico, a confermare che tutta la riflessione in esso contenuta non è
altro che un dipanare la trama e l'ordito di quell'assunto unico, dominante e
paradossale. Orbene, Qohélet - per quanto saggio, di una saggezza che lo
discrimina rispetto all'umanità intera - è tuttavia e comunque, come tradisce
l'etimologia stessa del suo nome, "l'uomo che partecipa all'assemblea
(degli uomini)". Proprio come M.. Questo, insomma, il complesso intrico di
fattori che si trova costretto ad affrontare chiunque si avvicini al filosofo.
Lo stesso autore della Persuasione, quasi a pregustare questa difficoltà,
afferma che «ci sono degli uomini che sono dei mostri, che si sono liberati del
tutto dal loro tempo e dagli altri tempi e fanno la disperazione degli storici»
[O 810]. Difficoltà che, tuttavia, a 24 Ma, per dirlo in parole molto semplici,
se il dramma della "coscienza infelice" è quello di non poter identificarsi
con Coscienza Immutabile, ch'è Dio e l'Assoluto, l'infelicità di M. ha un
fondamento quantomeno opposto: propri quello di essere costretto
all'identificazione, con qualsivoglia "struttura" o
"identità". M. illustra questa inconciliabile dicotomia, ascrivendola
anzi ad una delle più pericolose e "lusingatrici" illusioni
dell'uomo, di ascendenza platonico-hegeliana, in un passo sotto questo punto di
vista memorabile: «Egli [l'uomo] vive di ciò che gli è dato, di cui non ha in
sé la ragione, ma nella sua conoscenza assoluta egli ha la Ragione; se il fine
delle sue affermazioni vitali è in ogni punto paura della morte, ma nel suo
Assoluto egli ha il Fine; se egli è in balia delle cose e non ha niente, e se
pur questo niente difende come valevole con ingiustizia verso tutte le altre
cose, ma nell'Assoluto egli ha la Libertà, il Possesso, la Giustizia. Così egli
porta intorno l'Assoluto per le vie della città. Egli non è più uno ma sono
due: c'è un corpo, o una materia, o un fenomeno o non so cosa, e c'è un'anima,
o una forma, o un'idea. E mentre il corpo vive nel basso mondo della materia,
nel tempo, nello spazio, nella necessità: schiavo; l'anima vive libera
nell'assoluto». [PR 54-55] o ov ben vedere, ci tocca fino ad un certo punto, se
è vero - come ribadiamo - che la presente tesi non vuol essere tanto un lavoro
di critica e storiografia filosofica, né vuol essere una meditazione su M.,
bensì riflessione attraverso M., ovvero vuol rintracciare (vuol recuperare) in
certo modo l'attualità della sua ingiunzione morale, e non al fine di espungere
«ciò che è morto» e di decantare «ciò che è vivo» del nostro autore (operazione
che, per noi, nasconde sempre presunzione ed ingratitudine), bensì di
riguadagnare una voce autentica - che nasce da un'esperienza esistenziale
altrettanto autentica - che possa aiutarci nella difficoltà del tempo presente,
diventando nostra ingiunzione, al di là di ogni categoria storica e filosofica
stabilita. Del resto, coerente alla sua formazione eminentemente
"letteraria", e non specificamente filosofica (gli autori da lui
citati, a rigore, sono più "profeti" che filosofi, ed è indicativo:
la verità non si esprime per sistemi, ma si veicola nelle forme originali ed
autentiche della creazione umana); e, soprattutto, consapevole che la verità
stessa è una «sorba amara e perfida», «povera e nuda», che si vive e non si
dice (com'egli afferma della Persuasione), lo stesso M. non intende pagare
«l'entrata in nessuna delle categorie stabilite» né fare da «precedente a
nessuna nuova categoria»; ma procede, a suo dire, nel rilevare il testimone
della verità, «né con dignità filosofica né con dignità artistica»?°. Il nostro
filosofo si pone, dunque, quale «povero pedone che misura coi suoi passi il
terreno»? e da subito fa professione di non-originalità””, laddove però questa
non-originalità non è pedissequa ripetizione scolastica di istanze e di
imperativi morali, non è il disdegno intellettuale (anch'esso
"borghese") di chi rifiuta per principio il mondo degli altri
(sentenziando «pereat mundus sed fiat iustitia») e gli contrappone una realtà
sua propria tanto edenica, quanto astratta e utopica: è, invece, il rinnovellarsi
e il ribadirsi di un appello all'esistenza vera ed originale, vissuto veramente
e profondamente sulla pelle di coloro che l'hanno professato: Parmenide,
Eraclito, Empedocle, Qohèlet, Cristo, Eschilo, Sofocle, Simonide, Socrate,
Petrarca su su fino a Leopardi, Ibsen e Beethoven. Il carattere
"viatorio" di queste espressioni ci rimanda a quella che ci pare
essere la chiave di volta della loro testimonianza: una testimonianza che
matura, si muove e soffre tra e con gli uomini, un'ingiunzione morale che decade
dal piedistallo del mal inteso imperativo categorico kantiano, divenendo - in
questa deformazione - astratto e universale (i due termini, da un punto di
vista esistenziale, si combinano), e rapprendendosi, In una lettera a Enrico,
in un contesto ironico, M. butta giù, en passant, un «si duo idem faciunt non
est idem» [E 423; ma il modo di dire ricorre anche altrove: cfr, ad es., PR
62]Questa notazione, evidentemente, meriterebbe molto di più che una semplice
nota. 25 Per quanto questo poi sia vero: si veda comunque come appaiano
scontate ed inopportune, alla luce di ciò, le accuse di coloro i quali tacciano
M. di scarso rigore filosofico: Gentile fra i primi. 26Per le espressioni
citate in questo contesto, rimando - ancora una volta - alla prefazione di C. M.,
La Persuasione..., op. cit. storicamente, nell' "uomo e nello Stato
hegeliano", avviluppato nella matassa del dovere, della responsabilità e
della sicurezza”; un'ingiunzione morale, infine, che si fa veramente
"urbana" e concreta, in una parola: etico-politica. Ovvero, M. cala -
incarna - lo sforzo etico-speculativo teso alla ricerca di soluzioni (scelte)
esistenziali, volte al vero vantaggio degli uomini? - o meglio, della sola
autentica scelta esistenziale, ch'è la Persuasione - nella magmatica,
pragmatica ed altrettanto paradossale quotidianità che ognuno vive. L'unica
valida alternativa - rispetto alla nostra decadenza - per una felicità
possibile per gli uomini, per una xya9wv gui (il corrispettivo speculare,
persuaso, della rettorica xowwwx xxxwv?9) veramente realizzabile. 27 Cfr. nota
21. 28 L'etica kantiana, nella sua interpretazione distorta, va a rappresentare
proprio la forma più moderna e palese e dinamica di "etica borghese della
sicurezza", ch'è il cavallo di battaglia della Rettorica. 29 Preferiamo
utilizzare sempre il plurale. 30 Per il senso di queste espressioni, rinviamo
al seguito del nostro lavoro. 2. Il demone Enrico. In un noto passo
dell'Apologia [31, D; ma cfr. anche Fedro 242 C, 551], il persuaso Socrate
afferma: «[...] questo che si manifesta in me fin da fanciullo è come una voce
che, allorché si manifesta, mi dissuade sempre dal fare quello che sono sul
punto di fare, e invece non mi incita mai a fare qualcosa»?! [corsivo nostro].
Poco prima, Socrate aveva definito quella voce «alcunché di divino». E' il
famoso, controverso, "demone" socratico”, una delle voci più antiche
ed autentiche della Persuasione, la cui caratteristica singolare è quella di
essere, piuttosto, una voce della dissuasione”. Compendia e glossa G.
Bastide®*, considerando tutti i passi in cui questa "figura" ritorna:
«nnanzitutto Socrate spiega il suo comportamento ricorrendo a un dio interiore,
ad un avvertimento intimo, ad una voce demoniaca che non l'abbandona mai. Poi,
tranne una o due eccezioni, questa voce interiore prende forma di divieto,
quando si tratta di distogliere Socrate da questo o quell'atto o da questo o
quel coinvolgimento preciso. Infine, il dio è una forza imperiosa che determina
in modo totale la vocazione spirituale di Socrate »”. In Teagete [129 E - 130
A], la potenza del demone socratico si "politicizza": «[...]la
potenza di questo demone è determinante, anche nei rapporti con coloro che mi
frequentano: a molti, infatti, è ostile ed essi non traggono profitto alcuno
dalla mia compagnia, tanto che anche a me non è possibile stare con loro; a
molti non impedisce di frequentarmi, ma, dalla mia vicinanza, non ricevono
vantaggio alcuno; quelli, invece, che la potenza del demone assiste, perché
godano della mia compagnia, sono coloro dei quali anche tu [Teagete36] ti sei
accorto; infatti ne ricevono un profitto immediato; ma anche tra questi, alcuni
godono di un 31 Le citazioni tratte dalle opere di Platone, qui e altrove, sono
riportate secondo la traduzione offerta in Platone, Tutti gli scritti, a cura
di G. Reale, Milano, Rusconi, 19912. 32 Cfr. la diapositiva C [Demone] nel
supporto iconografico. 33 Si tenga altresì presente ciò che Nietzsche afferma
nella Nascita della tragedia, sempre a proposito del demone socratico: «Una
chiave per comprendere la natura di Socrate ci viene offerta da quel
meraviglioso fenomeno che viene designato come "demone di Socrate".
In particolari situazioni in cui il suo portentoso intelletto vacillava, egli
ritrovava l'equilibrio in virtù di una voce divina, che si faceva udire in tali
momenti. Questa voce, quando viene, dissuade sempre. La saggezza istintiva si
mostra in questa natura interamente abnorme soltanto per contrastare qua e là,
ostacolandolo, il conoscere cosciente. Mentre in tutti gli uomini produttivi
l'istinto è proprio la forza creativo-affermativa, e la coscienza si rivela
critica e dissuadente, in Socrate l'istinto diventa critico, la coscienza si
trasforma in creatrice - una vera mostruosità per defectum!" [Nietzsche,
La Nascita della Tragedia; in Opere 1870/1881, Roma, Newton, 1993, pag. 153].
L'acrimonia con cui Nietzsche offende e offenderà Socrate è la stessa con cui M.
affronterà Aristotele; se il motivo propulsore di questa acrimonia è,
praticamente, identico (la critica alla pretesa del sapere, nella fattispecie
quello teoretico-scientifico-tecnico), i differenti bersagli critici sono - a
nostro parere - non solo mera testimonianza di una dissimile "inclinazione
di gusto" dei nostri due autori, ma tradiscono - e profondamente - anche
la diversità delle alternative possibili e plausibili ch'essi propongono alla
decadenza (l'oltre-uomo e il persuaso), come vedremo in seguito. 34 G, Bastide,
Le moment historique de Socrate, Parigi 1939, pag. 236; riferimento contenuto
in J . Brun, Socrate, Milano, Xenia 1995, pag. 71 35 Ma si tenga anche
presente, anzi soprattutto presente, l'istruttivo capitolo IX [La dimensione
del religioso in Socrate] del lavoro di G. Reale, Socrate. Alla scoperta della
sapienza umana, Milano, BUR 2001, pagg. 265-294, capitolo sottinteso al nostro
discorso. 36 E' ovviamente Socrate che parla. vantaggio sicuro e duraturo,
molti, al contrario, fin tanto che stanno con me, progrediscono in modo
soddisfacente, ma, una volta lontani, ridiventano come tutti gli altri»
[corsivi nostri]. Orbene, crediamo che, in questo passo esemplare, sia
contenuta una chiara parafrasi delle differenti e possibili modalità di
relazione che il Persuaso intrattiene con gli altri uomini: M.
"aggiorna" il topos affermando, in modo pregnante, che «ognuno deve
trovarsi la via da sé - e da sé batterla passo per passo - ché non ci sono né
carte né mezzi di trasporto; chi non sente di doverla, di saperla, di volerla
fare, non è buono a farla e invano spera l'aiuto altrui, invano altri vorrebbe
aiutarlo - la può batter colui che già è sano - e la salute è un dono di Dio.
-»° [D 93-94; corsivi nostri], che fa da eco a quella, più famosa, contenuta
nella tesi di laurea: «La via della persuasione non è corsa da
"omnibus", non ha segni, indicazioni che si possano comunicare,
studiare, ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio
dolore l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è
solo e non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che
questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato. | pochi
che l'hanno percorsa con onestà, si sono poi ritrovati allo stesso punto, e a
chi li intende appaiono per diverse vie sulla stessa via luminosa. La via della
salute non si vede che con gli occhi sani» [PR 62-63; corsivi nostri]. Ora,
ritornando al passo socratico del Teagete, approntiamone un'utile
schematizzazione. Socrate distingue: a) individui a cui il demone è ostile, e
che non traggono vantaggio dalla compagnia con Socrate; b) individui «che la
potenza del demone assiste» [parafrasi quasi M.: «a salute è un dono di Dio»],
e che traggono vantaggio dalla compagnia con Socrate: b,) quelli - e son
soltanto alcuni - che «godono di un vantaggio sicuro e duraturo»; bə) quelli -
e sono invece molti - che [PR 169]?°.
Nel penultimo passo, del resto, affiora (anche) la differente posizione, sempre
nella prospettiva persuasa, che M. ha consapevolezza di occupare rispetto
all'amico: mentre lo Mreule - agli occhi del Goriziano - ha raggiunto la
Persuasione e vi permane, egli invece è ancora sulla difficile e tormentata via
che porta alla Persuasione stessa. La «consistenza» di Enrico è indipendente,
in senso assoluto, come indipendente e assoluto è il monito persuasivo del suo
esempio; al contrario, M. avverte la necessità - per la propria consistenza -
che il suo amico «ancora lo pensi e si curi di lui». E' più del bisogno di una
tangibile comunione fraterna, è più del desiderio di essere nei pensieri
dell'amico; è l'esigenza, bensì, di fondare la propria consistenza di uomo, di
legittimare - attraverso quasi il giudizio del demone-Enrico - la propria
aspirazione alla permanenza?*: 40 In base al nostro schema, è il rapporto
delineato in bi. 41 E «il coraggio non vuol la prudenza ma l'atto» [PR 63]. 42
Ma riguardo la dialettica lontananza-vicinanza, cfr. la parte finale del
presente capitolo. 43 Ma - edè significativo - è lo stesso M. a condannare in
modo risoluto - in alcuni passaggi fondamentale della sua tesi e del Dialogo -
questo illusorio "meccanismo di reciproca compiacenza": «[...]
ognuno, se racconta la sua «Quella voce che viene dalla libera vita [quella
voce che Enrico aveva accolta e fatta sua], quella m'era necessaria per fare il
mio lavoro [la tesi] come io lo volevo; m'ero illuso di poterla avere [...]>
[E 441]. Mentre Enrico ha affrontato il mare e «s'è conquistato il suo posto di
lotta e di lavoro» [E 435], M. si trova ancora impelagato nelle pastoie della
Rettorica, sociale familiare culturale accademica. Il Nostro non nasconde una
punta di benevola invidia, e di dispetto per quegli oneri (alibi facilmente
smontabile, tuttavia) che lo costringono alla falsa permanenza, al soggiorno
"forzato" in Gorizia, al soggiorno forzato nella vita retorica: «La
lettera di Rico [...] mi mise il fuoco addosso per quanto penso a noi, che,
invidiandolo, siamo impediti nel volerlo raggiungere dalle cose stesse che c'impedirono
di partir con lui [... > [E 436; corsivo nostro]. E' altresì interessante
notare come, invece, dalla prospettiva stavolta di Enrico (testimoniata da C.
Magris, nella bella e suo malgrado dissacrante biografia romanzata che gli
dedica‘*), le posizioni risultino addirittura ribaltate: se Enrico «tanto per
cominciare, è andato via per non fare il militare» [Magris 15], di contro - per
lui - è M. ad essere «un santo» [ib. 83]; insieme con Buddha (vedremo
successivamente il rilievo di questa affermazione), che lo è per l'Oriente,
Carlo per Enrico è il «grande risvegliato» [ib. 94]: solo Carlo può essere
sicuro [ib. 45]. Non si tratta soltanto, qui, di una reciproca attestazione di
stima profonda e sincera; è una testimonianza - questa - che tradisce il fatto
che la delineazione dell' "essere persuasi" era ancora in fieri,
chiara ed evidente, certo, nella intima consapevolezza dei due, ma ancora insufficientemente
attingibile nella concretezza della vita reale o anche della pura elaborazione
concettuale. Riteniamo opportuno, allora, soffermarci sul gesto assoluto di
Enrico Mreule. Così, il 28 novembre 1909 - in gran segreto, la famiglia
completamente ignara di tutto - questa sorta di Neal Cassady carsico, giovane,
bello, geniale, disperato, "maledetto"* - s'imbarcava a Trieste per
l'Argentina, sulla Columbia; accanto a motivi di ordine eminentemente
"pratico", a spingerlo era la decisione di dare una possibilità di
nuovo inizio alla propria vita, di rescindere ogni legame con la passata, di
fondare - non solo con le parole, ma con i fatti - un proprio mondo autonomo e
libero, una propria «consistenza indipendente ». Perché (avrebbe detto non
molti anni dopo un altro giovane "maledetto", Paul Nizan‘9) «a
libertà è un potere reale». Si trattava di mettere in pratica, di esercitare
vita sciagurata e i fatti dolorosi di cui porta la colpa e le conseguenze,
trova nella compiacenza dei compagni integra almeno l'illusione della sua
individualità. -», «[...] la dolce illusione d'esser qualcuno»; in questo
meccanismo, gli uomini retorici «considerano i loro simili come specchi
compiacenti, - che raddoppino la vita. Ma il nulla che non si raddoppia...» [D
55-56] 44 C. Magris, Un altro mare, Garzanti, 1998. 45 Cfr. la diapositiva B
[Ritratto di Enrico Mreule (2)] nel supporto iconografico. 46 Paul Nizan: Aden
Arabia (con saggio-prefa zione di J.P. Sartre), Mondadori, 1996. Sarebbe
suggestivo mettere a confronto gli esiti, nonché le motivazioni e le
"ideologie" sottese alla "compulsione del viaggio" che
spinse questi due questo potere. Dunque, un gesto improvviso, ma non
improvvisato, evidentemente; azzardato, se vogliamo, ma non gratuito; frutto concreto
di una decisa e persuasa visione del mondo e della propria esistenza; risultato
coerente, ancora, dei discorsi e degli "ammaestramenti", riguardo le
proprie convinzioni, che il giovane Mreule elargiva ai suoi altrettanto giovani
amici. Un gesto che acquista ancor più valore, e lo stesso M. ne è consapevole,
di fronte al puro astratto gesto di ribellione e di fuga (se non
"fisica", almeno intellettuale) che il Goriziano insieme persegue e,
sotto sotto, paventa. L'inquietudine (complicata dalla giovane età),
l'infelicità, derivante dall'intuizione amara dell'impasse retorica, è la
stessa; ma Enrico è riuscito a rimettere in gioco se stesso e la propria
esistenza, è riuscito a passare dalla mera rivendicazione verbale all'atto,
dalla potenza all'entelechia. In Enrico Mreule, la parola persuasa - come
risuonava nei discorsi (nei simposi) "in soffitta" dei tre giovani -
si è tradotta, senza tradirsi, in attualità pura, assoluta, permanente, eterna;
la parola si è fatta carne e sangue, si è esposta al rischio
dell'imprevedibilità, alla possibilità aperta e pericolosa che ogni scelta
autentica implica e prepara. Alla stregua di Cristo, Enrico è il Verbo (della
Persuasione) Incarnato. E' in lui, cioè, che la Persuasione scende dal
piedistallo dell'astrattezza, dell'utopia, dell'atopia, della letterarietà e
del passato, per farsi vivo, concreto, persuaso presente. Perché la «salute»
non è soltanto un'idea, la sua sede non è l'iperuranio separato dal mondo della
vita sublunare: la salute - ancora "sostanza seconda" nelle stesse
pagine che M. le dedica nel lavoro accademico - assurge a "sostanza
prima" - e quindi veramente reale - nel synolon dell'essere persuaso, che
è Enrico. Un esempio, quello dell'amico, infine, che disattende e confuta, come
detto, quelle affermazioni, frequenti ancora nella tesi, per le quali la
Persuasione era attestata come una possibilità... impossibile: lo Mreule è
l'esempio vivente, così, che la Persuasione non è un luogo ideale, inattuale ed
inattuabile; che non è una mera idea regolativa nella prospettiva non solo etica,
ma ontologica; che non è un "mito", (soltanto) una stella polare che
indichi e guidi il nostro cammino; che non appartiene, ancora, soltanto ad
eletti del mondo delle arti e del passato filosofico, letterario ed artistico;
che non è, infine, una condizione edenica, improponibile nel mondo della
Rettorica. Al contrario, nello Mreule, la Persuasione irrompe come l'eternità
nel tempo, squarcia la verbosità delle concettualizzazioni, lega il passato e
il futuro nella decisione (nella scelta) dell'eterno presente, si indica come
possibilità sempre aperta - per quanto latente - all'uomo, ad ogni uomo che
mostri il coraggio di accoglierla e di farla sua. giovani intellettuali -
Mreule e Nizan (divisi da poco più di un ventennio) - a cercare in un lontano altrove
scampo alla congerie rettorica. 47 La famosa soffitta del P aternolli, di cui
abbiamo anche un bozzetto autografato di M.. Scrive M. ad Enrico: «Col tuo atto
e con questo fatto già in parte avvenuto, quasi con argomenti sopportando solo
la mole degli argomenti teorici, coi quali tu nelle nostre conversazioni ci
aprivi la via alla giusta valutazione delle cose, hai compiuto per noi l'unico
beneficio che si possa fare da un amico agli amici» [E 421]; e ancor più
esplicitamente «[...] come le tue parole si son fatte azione! lo mi nutro
invece ancora di parole e mi faccio vergogna» [E 442; il corsivo è dello stesso
M., a sottolineare l'importanza dell'espressione]; fino a rendere testimonianza
e omaggio al vero persuaso Enrico, nella bellissima lettera datata 29 giugno
1910: Ti vedo sempre cosi come t'ho visto l'ultima volta a Trieste, determinato
in tutte le tue possibilità, vivo così, che nessuna cosa della vita, mi sembra,
possa trovarti insufficiente, ma che anzi tutta attraverso tutti i perigli
debba volgersi a te spontaneamente. Perché tu non chiedi niente. E come non
t'accorgi del tempo perché nell'atto in ogni attimo sei intero, così in ogni
tua parola si ha l'imagine [sic] concreta della tua vita [E 440; i corsivi sono
nostri] In questo denso passo, affidato significativamente ad una lettera (e
dunque ad un testo privato), tuttavia la Persuasione trova una delle sue
espressioni più limpide e convincenti, in assoluto. Visto il particolare
andamento di questo capitolo, e alla luce di quanto detto finora, riteniamo
opportuno analizzare il succitato brano abbastanza a fondo, allo scopo di
rintracciare alcuni notevoli punti fermi che ci consentano di anticipare, per
maggiore chiarezza di visione, importanti conclusioni riguardo l'idea che ci
siam fatti dell' "essere persuasi". Innanzitutto, ancora una volta
ribadiamo questa considerazione: Enrico Mreule è exemplum storico della salute:
egli è «determinato in tutte le [sue] possibilità». Soffermiamoci
sull'attributo "determinato" e sul sostantivo
"possibilità", entrambi pregni di straordinarie significanze
etico-filosofiche. Qui, "possibilità" - a differenza di quanto tanto
"esistenzialismo negativo" ci ha insegnato (da Kierkegaard, ad
Heidegger a Jaspers a Sartre) - ha una forte valenza positiva: se per i
suddetti la possibilità esistenziale si risolve, in fondo (chi in più, chi in
meno), in impossibilità, nello scacco di quell'«essere che progetta di essere
Dio», nell'improponibilità della scelta esistenziale ed autentica, che
determina angoscia e disperazione; in M. sta ad indicare, invece, il
dispiegarsi delle energie vigorose e positive, originarie ed originali,
autentiche ed incorrotte dell'uomo stesso. Qui, piuttosto, il termine e il
comprensivo "possibilità" trova il suo affine nella "potenzialità",
nella già richiamata dynamis, in tutta la sua portata di «preformazione e
predeterminazione [rispetto all'atto]», «modo d'essere diminuito o preparatorio
all'atto »*°: la possibilità esistenziale autentica trova il suo telos
nell'entelechia etica. Le parole di Enrico si son fatte azione, la sua dynamis
appunto si è dispiegata e realizzata, giungendo alla sua
"perfezione". Non può non emergere la forte componente 48 Ovviamente
utilizziamo come sinonimi Persuasione e Salute, sentendoci autorizzati a tale
uso dall'uso stesso che ne fa M..dinamica che permea tale condizione
esistenziale. Difatti, l' "essere persuaso" non è un monòlito, per
quanto il suo sia un permanere nella Persuasione; ma il permanere - dice
Michelstedter - non è uno stare: «non c'è sosta per chi porta un peso su
un'erta, ma quando lo deponga dovrà andarlo a riprender sotto ove sarà
ripiombato: ogni sosta è una perdita; tanto sosti e tanta strada devi rifare»
[PR 35; corsivo nostro]. E poco più avanti, raccoglie e ripropone il monito
contenuto nell'E/ettra di Sofocle (monito che, a nostro parere, è l'elemento
veramente drammatico della tragedia sofoclea e della vita stessa del
Goriziano): «non è più il caso di indugiare, ma di agire» [ib.; in greco nel
testo]. Ancora più avanti, le parole di M. in proposito si fanno adamantine,
raccogliendo le estreme conseguenze di quanto finora affermato: «il diritto di
vivere non si paga con un lavoro finito, ma con un'infinita attività» [PR 41;
corsivo nostro]. E' svelato, così, l'alone misterioso che avvolge la premessa
del giovane studioso: «Nell'eBroc BoA potenza e l'atto sono la stessa cosa!,
poiché l'Atto trascendente, "l'eternità raccolta e intera", la
persuasione, nega il tempo e la volontà in ogni tempo deficiente» [PR 12]. Come
per quest'altro capoverso, che è forse la "definizione" più completa
- presente nella tesi -dell'essere persuaso, pur nella sua sinteticità: «Colui
che è per sé stesso (ever) non ha bisogno d'altra cosa che sia per lui (evot
«vtov) nel futuro, ma possiede tutto in sé» [PR 9]. La determinazione che il
vir mostra nella gestione delle proprie possibilità è - insieme, dunque -
risolutezza e consapevolezza. Il vir è "risoluto", sciolto (come
c'insegna l'etimologia) dai lacci della Rettorica, e in questo è veramente
libero e assoluto; è altresì consapevole delle sue potenzialità volte alla
realizzazione della vita vera. Per gli Stoici, la chiusura della mano nel pugno
rappresentava la "comprensione": immagine felice: il virha in pugno
tutte le proprie possibilità e comprende la possibilità di dispiegarle in modo
pieno e compiuto. Nel punto appena successivo del passo che stiamo esaminando
(«[...]nessuna cosa della vita, mi sembra, possa trovarti insufficiente, ma che
anzi tutta attraverso tutti i perigli debba volgersi a te spontaneamente [...
]}»), M. ritorna su uno dei fulcri inossidabili della sua posizione
teoretica-etica-ontologica, cui abbiamo già accennato: l'insufficienza; c'è da
rilevare, qui, il ribaltamento, anzi la vera e propria "rivoluzione
copernicana" che viene ad operarsi tra il 49 cfr. Aristotele, Metafisica,
X, 8, 1049 b4 50 Vita che non è vita. Tuttavia, come chiosa puntualmente
Campailla, «non nel senso in genere dispregiativo che è proprio dell'aggettivo
greco, ma in quello di "vita che è fuori della vita", "vita
impossibile": la vita, insomma, della Persuasione», 51 Qui, M. sembra
parafrasare proprio Aristotele. Troviamo, altresì, molto interessante notare
l'analogia, sotto questo punto di vista, tra il Persuaso e il dio (sparse nel
capitolo specifico sulla Persuasione, nel lavoro accademico), che nella
fattispecie - a nostro parere - corrisponde al dio aristotelico, così come
tratteggiato nei libri VIII e XII della Metafisica (un'opera che Carlo tenne
sicuramente presente, oggetto di studio e di riflessione continui): il dio di
Aristotele non ha in sé nulla in potenza, è Atto e Forma puri, è un essere
perfetto, il quale non manca di nulla, non ha nulla da realizzare (se possiamo
esprimerci così), e in esso tutto è pienamente attuato; da qui, la sua
"immobilità" e la sua eternità. Esso - proprio come il Persuaso - non
protende verso alcunché, avendo già in se stesso la sua completezza e la sua
perfezione. Questo dio è in pace con se stesso. vir e il mondo delle cose:
nessuna «cosa della vita» trova insufficiente il vir, perché egli «non chiede
niente », perché ha sciolto i lacci della dipendenza. L' "autarchia"
dell'essere persuaso è diretta espressione e conseguenza della sua
consapevolezza: egli non chiede niente perché è consapevole che la vita, che la
Rettorica niente può veramente dargli, e che ogni elargizione che dal mondo
retorico proviene è, parimenti, ottriata, falsa, illusoria, inadeguata. Questa
posizione, in tutta la sua profondità, è limpida nella coscienza di M.: «Ma chi
vuole la vita veramente, rifiuta di vivere in rapporto a quelle cose che fanno
la vana gioia e il vano dolore degli altri - e non accontentandosi d'alcun
possesso illusorio chiede il vero possesso, così che in lui prende forma e si
rivela il muto e oscuro dolorare di tutte le cose» [O 705]; «[...] se c'è via
che possa in qualche modo liberarci dalla nebbia, è quella che insegna a non
chiedere ciò che non può esser dato» [D 73]; «...]- non c'è niente da
aspettare, niente da temere - né dagli uomini né dalle cose. Questa è la via. -
» [D 81, ribadito pari pari in D 85; corsivo di M.] et similia. L'autarchia del
vir non è tuttavia l'egoistico ripiegamento su se stesso dell'Unico di
Stirner”, frutto della disperazione del nulla che si dispiega in violenta
autoaffermazione di dominio solipsitico; essa è piuttosto - se vogliamo - affine?
(ma con i dovuti distinguo) all'ideale del saggio stoico, affine quantomeno
nella matrice etica che presuppone e prepara quell'esito: ovvero,
l'accettazione del dolore e della morte e l'indifferenza rispetto ai più comuni
beni della vita (salute, ricchezza, bellezza...) e ai loro contrari”*. Secondo
gli Stoici, "vivere secondo natura" significa, da un lato, mantenersi
in accordo con gli eventi, accettandone il carattere di necessità-provvidenza;
dall'altro, favorire la propria natura realizzando e conservando il proprio
essere razionale. Orbene, detergendo tale prospettiva dalle connotazioni di
necessità, provvidenza e razionalità (o almeno non ritenendole esclusive), essa
viene a convergere proprio con la dimensione persuasa del vir. Di poi, il
"bastare a se stesso" non si risolve in una posizione ascetica (come
da 52 «il triste filosofo dell'anarchia», lo definisce M.. 53 Un'affinità cui
ci autorizza lo stesso M.; cfr. Dialogo tra Napoleone e Diogene, in D 101-110.
54 «Poiché in quanto virtus essa è disposizione a una cosa (possibilità), in
quanto tua virtus è bisogno di questa cosa (anche in rapplorto] alle virtutes
negative degli stoici che sono neglative] inrigluardo] ai bisogni ma positive
riguardo alla vita, cioè esser felici senza quei bisogni: gli stoici avevano
d'accorgersi che esistevano anche senza quei bisogni, essi esistevano e
cred[evano] d'essere solo in quanto negavano l'una cosa e l'altra e affermavano
così in rapporto a queste cose della vita la loro individualità. Dunque gli
Stoici hanno possibilità di vivere senza bisogni ma bisogno di viver come tali.
- Si ergo virtus se ipsa contenta est - homo virtuosus plane adnihilatus est...
in quanto tua virtus - è bisogno d'esplicarla, di viverla nel tempo, tutta. E
come l'esplicarla non è mai in un punto, così tu non puoi possederti in nessun
punto» [ib. 107; è Diogene che parla a Napoleone; i corsivi sono di M.].
Invitiamo a leggere questo passo anche alla luce di quanto detto sulla dinamica
potenza-atto nell'ottica persuasa. 55 La virtù stoica, ancora, così come la
Persuasione è tale da non ammettere gradi intermedi (essa è o non è), come
descrive efficacemente Cicerone: «Come infatti chi è sommerso nell'acqua,
sebbene poco distante dalla superficie, sì da poterne quasi emergere, non può
respirare affatto più che se fosse nella profondità [...] così chi si sia
avanzato alquanto verso l'abito della virtù non è affatto meno in miseria di
chi non vi si sia avanzato per nulla» [De finibus, III, 48]. L'ideale di saggio
stoico, quindi, anche qui si mostra come valido strumento euristico per
indagare il carattere peculiare della Persuasione: ma, come visto, le differenze
sono importanti almeno quanto le somiglianze. In effetti, il tentativo
chetaluni è stato rimproverato); tutt'altro: il vir non si allontana
sdegnosamente dal mondo, ma si fonda il mondo: l'entelechia etica è un atto di
fondazione, è la possibilità di un nuovo, autentico inizio, e in ciò consiste
la sua vera libertà. Libertà, dunque, che non è solo apatheia, non è solo
"libertà da", ma anche soprattutto "libertà di": libertà di
permanere nell'esistenza persuasa e di fondare il mondo della propria
autenticità: il vir «deve creare sé e il mondo, che prima di lui non esiste »
[PR 34]. Ci piace, allora, richiamare le parole del già citato Paul Nizan, che
descrive in modo prezioso e vibrante tale condizione: «La libertà è un potere
reale e una reale volontà di essere se stessi: è capacità di costruire,
inventare, agire, soddisfare tutte le possibilità umane il cui dispendio dà
gioia» [Nizan 82] (vedremo tra non molto questo peculiare legame tra attività e
gioia, che ritorna anche nel Goriziano). Poco più avanti, è lo stesso scrittore
francese che segna con nitidezza e con un certo sdegno i distinguo tra questa
reale libertà e saggezza da quella dei saggi "stoici"; la libertà che
egli auspica e pretende non è quella dei «...] saggi che paralizzano a una a
una le parti dell'umanità e chiamano saggezza questa mutilazione. E' certo il
tempo di non essere più stoici, non avrete più un cielo dove recuperare
iltempo» [ib. 83]. Nel concludere questo paragrafo, proponiamo un lungo brano,
tratto dal romanzo / cosacchi, di un (allora; siamo nel 1863-64) giovane autore
russo, Lev N. Tolstoj, un autore che il nostro M. amò a dismisura, traendone
profitto e sostanza morale. Questo romanzo è, indubbiamente, un'opera
giovanile, eppure - pur nell'acerbità a suo modo perfetta - già contiene in
nuce lo slancio etico-esistenziale appassionato, ed i motivi ad esso connessi,
che informeranno tutta l'opera del grande scrittore, e che confluiranno nella
speculazione del Goriziano, assorbiti in modo originale, ma fedele. Il brano
che proponiamo è cruciale sia nell'economia del romanzo, sia nella vita del suo
protagonista, il giovane nobile Olenin, il quale - pieno di entusiasmo e
spinto, da un'oscura sensazione di estraneità al mondo a cui appartiene per
nascita, alla ricerca della felicità [Olenin- M.-Mreule] - intraprende un lungo
viaggio che da Mosca lo porta in un lontano villaggio del Caucaso (inutile dire
che ogni tentativo di Olenin di adattarsi alla nuova realtà, soprattutto per
quanto riguarda i "rapporti umani", sarà destinato allo scacco).
Ebbene, questo brano contiene - in modo davvero disarmante, a nostro parere -
parecchi punti di contatto (non solo "ideologico", ma addirittura
espressivo) con talune pagine M.iane; esso, inoltre, riassume in maniera
opportuna tutto il discorso da noi fin qui tenuto e, in maniera altrettanto
opportuna, soprattutto nell'interrogativo che lo conclude, ci offre il destro
per proseguire questo nostro difficile cammino ermeneutico. stiamo facendo - e
in questo campo è giocoforza procedere per tentativi - è quello di setacciare
il concetto di Persuasione: circoscriverlo, per quanto possibile, per meglio
individuarne vigore e valore. «Egli [Olenin] si sentiva fresco e a suo agio; non
pensava a nulla, non desiderava nulla. E a un tratto fu assalito da un così
strano senso di felicità senza motivo e di amore per ogni cosa che, seguendo
una vecchia abitudine infantile, si mise a farsi il segno della croce e a
ringraziare non so chi. Gli venne a un tratto in mente con particolare
chiarezza che lui, Dmitri Olenin, un essere così diverso da tutti gli altri, se
ne stava ora disteso solo, Dio sa dove, in un luogo dove viveva un cervo, un
vecchio cervo e bello, che forse non aveva mai visto un uomo, e in un posto
dove nessun uomo mai s'era posto a sedere, né aveva avuto quel suo pensiero.
"Sono seduto, e attorno a me stanno degli alberi giovani e vecchi, uno di
essi è tutto avvolto dai tralci della vite selvatica; vicino a me brulicano i
fagiani, inseguendosi l'un l'altro, e fiutano forse i loro fratelli
uccisi". Egli tastò i suoi fagiani, li esaminò e asciugò la mano lorda di
sangue ancor tiepido nella sopravveste circassa. Forse li fiutano anche gli
sciacalli e coi musi scontenti vanno a cacciarsi altrove; vicino a me, volando
tra le foglie, che sembrano loro isole immense, stanno nell'aria e ronzano le
zanzare: una, due, tre, quattro, cento, mille, un milione di zanzare, e tutte
ronzano attorno a me per qualche ragione e dicono qualche cosa, e ciascuna di
esse è un Dmitri Olenin, distinto da tutti gli altri come sono io stesso".
E s'immaginò chiaramente quello che pensano e dicono ronzando le zanzare.
"Qui, qui, ragazzi! Ecco chi si può mangiare", dicono ronzando e lo
ricoprono tutto. E gli si fece evidente che egli non era punto un nobile russo,
un membro della società moscovita, amico e parente del tale e del tal altro, ma
semplicemente una zanzara, o un fagiano o un cervo, come quelli che ora
vivevano attorno a lui. "Come loro e come zio J eroska, vivrò e morirò.
Egli dice la verità: soltanto l'erba mi crescerà sopra". "Ma che
importa se l'erba mi crescerà sopra?", continuava a pensare, bisogna
tuttavia vivere, bisogna essere felici; perché io una cosa sola desidero: la
felicità. Qualunque cosa io sia: una bestia come tutte, sulla quale crescerà
poi l'erba, e niente più, o una cornice in cui si è inserita una particella
dell'unica Divinità, è pur tuttavia necessario vivere nel modo migliore. Ma
come dunque bisogna vivere per essere felice, e perché prima non ero
felice?", E prese a ricordare la sua vita passata; e gli venne schifo di
se stesso. Apparve a se medesimo come un esigente egoista, mentre, in realtà,
per sé non aveva bisogno di nulla. E continuava a guardare attorno a sé: la
verzura trasparente, il sole che declinava e il cielo sereno, e si sentiva
felice come dianzi. "Perché sono felice e a che scopo vivevo prima?",
pensò. Quanto ero esigente, quante cose escogitavo, e non mi son procurato
altro che vergogna e dolore! Ed ecco che non ho bisogno di nulla per essere
felice!" E a un tratto gli parve che gli si fosse dischiuso un nuovo
mondo. "La felicità, ecco quello che è", disse a se stesso: la
felicità consiste nel vivere per gli altri. E questo è chiaro. Nell'uomo è
stato posto il bisogno della felicità; esso quindi è legittimo. Appagandolo in
modo egoistico, cioè cercando per sé la ricchezza, la gloria, le comodità della
vita, l'amore, può accadere che le circostanze si combinino in modo che
appagare questi desideri sia impossibile. Di conseguenza, questi desideri sono
illegittimi, ma non è illegittimo il bisogno di felicità. Quali desideri però
possono essere sempre appagati indipendentemente dalle circostanze esteriori?
Quali? L'amore, l'abnegazione!". E tanto fu contento e tanto si agitò,
scoprendo questa verità, che a lui pareva nuova, che balzò in piedi e si mise
con impazienza a cercare per chi potesse al più presto sacrificarsi, a chi far
del bene, chi amare. "A me infatti non occorre nulla", seguitava a
pensare, "perché dunque non viver per gli altri? "»5°. 56 Tolstoj, |
cosacchi (a cura di G. Faccioli), BUR, 1952, pagg. 98-99-100. 3. Il porto della
pace. Essendo [Gesù] poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed
ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta
dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo:
"Salvaci, Signore, siamo perduti!". Ed egli disse loro: «Perché avete
paura, uomini di poca fede?». Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si
fece una grande bonaccia. | presenti furono presi da stupore e dicevano:
"Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono? ". Questo
passo è tratto dal Vangelo secondo Matteo”, Vangelo - questo in particolare,
tra i quattro - che dovette colpire particolarmente M.®, per la forza e la
nitidezza - e insomma per la "fisicità"°° - etiche e storiche, con le
quali viene delineata la figura del 57 Si tratta di Mt. 8, 23-27; ma cfr. anche
Mc 4, 35-41 e Lc 8, 22-25. 58 In una lettera del maggio 1909 alla sorella
Paula: «Se sapessi scriver note e se tu le comprendessi ti scriverei il tema
dell'andante della IX sinfonia; sarebbe più eloquente di me per dire quello che
voglio dire; oppure - non ridere! - leggi il Vangelo di S. Matteo», [E 383].
Del resto, pochi giorni dopo, in una lettera allo Mreule, M. confessa che «in
questo tempo, invece di far la tesi ho imparato a conoscer Cristo e Beethoven -
e le altre cose mi si sono impallidite» [E 398; corsivo nostro]; nella lettura
del Vangelo, egli «ci trova con gioia la grandezza e la profondità che si aspettava
- tanto superiore alle filosofie e alla scienza moderne» [adattato da E 381] 59
Il Cristo di M. possiede connotati straordinariamente umani: è questo, infatti,
«un Cristo monofisita che possiede soltanto la natura umana [...]. Un Cristo
monofisita e pelagiano, che non conosce pertanto il peccato originale e il
mistero del Riscatto e vive in un cosmo tragico senza possibilità finali di
composizione» [cfr. S. Campailla, Carlo M. tra esistenzialismo ateo e
esistenzialismo religioso, "Iniziativa Isontina", gennaio-aprile
1974, 60, Pag. 23]. E anche interessante notare come proprio il Cristo di S.
Matteo abbia influenzato (ma sarebbe meglio dire: inquietato) sensibilità che
poco o nulla hanno a che fare col cattolicesimo: ci riferiamo, tra gli altri,
oltre che a M., a Tolstoj [per cui vd. oltre], (perché no?) a Nietzsche, nonché
a Pasolini, che proprio sulla falsariga del Vangelo di Matteo scrisse una delle
sue sceneggiature più belle ed importanti, da cui ricavò un film. Vale la pena
riportare uno stralcio di una giovanile poesia pasoliniana - La domenica uliva
- dove lo scrittore-regista, tormentato come sempre, liricizza questo suo
particolare rapporto col Cristo: «Piove un fuoco scuro nel mio petto: non è
sole e non è luce. Giorni dolci è chiari volano via, io sono di carne, carne di
fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, Cristo mi chiama, ma senza
luce» [lirica contenuta in Pasolini, II Vangelo secondo Matteo - Edipo Re -
Medea, a cura di M. Morandini, Garzanti 19982, pagg. 280-286]. Sempre per meglio
rifinire la suggestione cristologica in M., riteniamo opportuno riportare anche
questa critica, ma attenta, esatta valutazione di Dilthey, che ben ci sembra
enucleare la forza dirompente che scaturisce dalla figura etica del Cristo di
san Matteo: «Indubbiamente i logia contenuti nel vangelo di Matteo sono quanto
di più originario ci è pervenuto di Cristo, e contengono solo una potente e
illimitata profonda coscienza etica, in cui il mondo trascendente si riflette,
per così dire, come le stelle in un fiume. Il nucleo di questa coscienza
costituisce il vero e proprio legame del sentimento etico attivo della vita,
cioè della dottrina del regno di Dio, con il riconoscimento che nella
connessione di questa vita dolore, bassezza, sacrificio producono tanto la
perfezione quanto l'elevazione del Sé nello spiegamento della forza» [W.
Dilthey, Sistema di etica, a cura di G. Ciriello, Napoli, Guida editori, 1993,
pag. 126; corsivi nostri]. E' altrettanto interessante quanto il filosofo
tedesco aveva affermato poco prima, ascrivendo a Ibsen e Tolstoj (tra gli altri)
un tentativo «antiquato» [ib. pag. 122] di riferirsi al messaggio cristiano,
contribuendo - col loro «individualismo» [ib.], o anzi «animalismo» [ib. pag.
121] - all' «inefficacia» [ib. pag. 122] contemporanea del cristianesimo.
Questo, in effetti, secondo Dilthey, «agisce su singole anime semplici, che
oppongono la loro esperienza interna alla tendenza della scienza moderna. Non
vi è ancora nessuno che abbia compreso la verità cristiana in maniera così
nuova e profonda, da permettere che essa possa determinare seriamente l'epoca.
Anche in questo campo vi sono soltanto tentativi e inizi» [ib.; corsivi
nostri]. Questo giudizio, equilibrato e corretto, per quanto polemico, copre di
riflesso anche M., se è vero che il Goriziano privilegiò proprio Ibsen e
Tolstoj come epifanie concrete di persuasione. Tuttavia, M. ci sembra
comprendere e approfondire (e cercheremo di dimostrarlo nel corso del nostro
lavoro) in «maniera nuova e profonda» il monito persuaso di Cristo e
arrovellarsi nel tentativo di valorizzarlo come un'euristica etica atta a
«determinare seriamente l'epoca» in cui visse. Certo, anche l'impresa M.iana
appartiene alla congerie dei «tentativi ed inizi», e la sua ricerca
esistenziale conobbe una cocente sconfitta. E' altrettanto vero, però, che
Carlo Cristo, uno dei Persuasi della storia dell'umanità, anzi - per il
Goriziano - il Persuaso per eccellenza. Ciò che ci colpisce del passo
evangelico è innanzitutto l'efficacissimo contrasto tra l'infuriare della
tempesta e la serenità (la "pace") del Cristo: mentre la barca è
pericolosamente sballottata dalle onde, rischiando di ribaltarsi, Gesù dorme.
In mezzo alla tempesta, Cristo è nel porto della pace, ha in sé (è) il porto
della pace. Quella serenità non Gli proviene dalla Verità di essere Figlio di
Dio, per il qual motivo niente di questo nostro mondo potrà toccarLo o
nuocerGli; non Gli proviene da un'indifferenza per le cose terrene (parlando
del Cristo, sarebbe davvero un controsenso); Gli proviene, bensì, dalla
consapevolezza di avere un destino da compiere (il sacrificio sulla Croce) e
che nulla può impedire il compiersi di questo destino. E' la pura
consapevolezza dell'essere persuasi, che permette di conquistare quel
"porto", quella «permanenza in un punto», anche nella furia del mare
(il miracolo che ne succederà, l'aver calmato le acque e i venti, appare
davvero accessorio, rispetto a quel riposo). L'infuriare della tempesta, di
contro, si riflette nel baratro di paura che infuria nell'intimo dei discepoli
che L'hanno accompagnato, e il loro tormento è un ulteriore, efficace scarto
contraddittorio se paragonato al riposo di Gesù. Gesù li aveva invitati a
passare all'altra riva®, all' "oltre" della riva, ad «imbarcarsi sul
mare di questo mondo »5': l'invito era piaciuto, ma tra l'invito e la meta
c'era un tragitto; la folla lasciata sulla riva non restò rassegnata a veder
partire la brigata: si inoltrò nel mare, turbò le onde, agitò una tempesta
mortale, e Gesù - quello stesso nocchiero che, rivolgendo loro l'invito aveva
messo loro in cuore il desiderio di partire - salito con essi sulla barca si
addormenta, ed essi sembriamo davvero abbandonati. Uno sconforto pesa sul cuore
dei discepoli e forse il pentimento di essersi incautamente affidati a uno che
non li soccorrerà nel bisogno, ad uno che non garantirà loro la sicurezza.
Allora, quando tutte le risorse dell'arte e tutte le speranze sembrano crollare
di fronte alle minacce della tempesta, quando l'uomo dispera di sé stesso, non
fidando più delle sue forze mortali, allora comincia a chiedere, sperando,
l'aiuto del Figlio di Dio e in virtù di tale speranza egli sveglia
imperiosamente il Signore che dorme: «Come, Tu dormi? non Ti importa niente che
moriamo ?». Non c'è giaculatoria più efficace M. caldeggiò una «posizione del
tutto nuova dell'etica», un'etica che doveva «agire sui grandi problemi della
società [per lui, della Rettorica] a partire prevalentemente dai suoi
principi», qual è appunto l'auspicio di Dilthey [ib. 122]. Concludiamo questa
importante noi - importante innanzitutto perché contiene in nuce la valenza
della "strategia persuasa", così com'essa ci appare - con un inciso:
non abbiamo fatto riferimento alla Vita di Gesù di Hegel, perché essa ci sembra
più che altro forgiata sulla lezione evangelica giovannea, con tutte le
profondissime, e sottintese, differenze che questa diversa prospettiva
comporta. 60 Mt, 8, 18; ma anche Lc 8, 22 e 9, 57-60 61 Invitiamo, altresì, a
confrontare quest'apologo evangelico con l' "esempio storico"
dell'aerostato di Platone [PR 66-73]: entrambi tentativi di allontanarsi dalla
solida terra (l'uno attraverso il mare, l'altro attraverso il cielo), ma con
motivazioni, prospettive, significati, ma soprattutto esiti diversi. di questa
per scuotere Dio dal suo letargo e comandargli di venire in nostro soccorso:
abbiamo lasciato tutto e Ti abbiamo seguito, Tu sei nostro padre, nostro amico
e Maestro, non Ti importa nulla che noi moriamo? Perché ci hai messo in mare e
posti nella barca se i nostri piedi stavano più sicuri piantati sulla solida
riva? L'ammonimento che il Cristo - una volta ridestatosi - rivolge ai suoi
discepoli («Perché avete paura, uomini di poca fede?»)?° riecheggia, spogliato
ovviamente della sua componente "religiosa", in tutta l'opera di M.,
rivolto agli uomini rettorici: potremmo anzi dire che quell'opera rappresenta -
nella sua interezza - il tentativo sofferto, ma a suo modo compiuto, di offrire
una risposta etica a quella lacerante domanda. Il timore vanifica la Croce. Il
monito ad aver fede - e a dipanare quel timore - si traduce, nell'autore della
Persuasione, nel monito che «[...] non fai niente, non sai niente, non dici
niente, fosse anche la via dove credi di trovarti la via del più saggio uomo
sulla terra. Che se a lui t'affidi e lo incarichi di ciò che pesa a te, resti
invalido sempre. [corsivi nostri] Le sue parole in cui ti fingi un valore
assoluto sono perte un arbitrio che tanto ne comprendi quanto ne puoi prendere.
- Non c'è cosa fatta, non c'è via preparata, non c'è modo o lavoro finito pel
quale tu possa giungere alla vita, non ci sono parole che ti possano dare la
vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a
nessuna via: la lingua non c'è ma devi crearla, devi crear il modo, devi crear
ogni cosa: per aver tua la tua vita» [PR 61]. Quella fede a cui Cristo richiama
non è, dunque, per il giovane filosofo, un invito a "credere in Lui",
bensì piuttosto - detto con espressione semplice - un invito ad "aver fede
in noi", nelle nostre possibilità, nelle nostre proprie responsabilità
sulla via della Persuasione. M. infatti prosegue, proprio in riferimento al
Cristo e ai suoi credenti: «- | primi Cristiani facevano il segno del pesce e
si credevano salvi; avessero fatto più pesci e sarebbero stati salvi davvero,
ché in ciò avrebbero riconosciuto che Cristo ha salvato sé stesso poiché dalla
sua vita mortale ha saputo creare il dio: l'individuo; ma che nessuno è salvato
da lui che non segua la sua vita: ma seguire non è imitare, mettersi col 62 E'
ancora interessante, a questo proposito (anche al fine d'individuare assonanze-dissonanze
con la nostra lettura), riportare le considerazioni "tropologiche" di
S. Agostino (contenute nel suo Commento al Vangelo di San Giovanni) su questo
stesso episodio [cfr. omelia 49]: «Lo dice l'Apostolo: Per mezzo della fede, Cristo
abita nei vostri cuori (Ef 3, 17). La presenza di Cristo nel tuo cuore è legata
alla fede che tu hai in lui. Questo è il significato del fatto che egli dormiva
nella barca: essendo i discepoli in pericolo, ormai sul punto di naufragare,
gli si avvicinarono e lo svegliarono. Cristo si levò, comandò ai venti e ai
flutti, e si fece gran bonaccia (cf. Mt 8, 24-26). E' quello che avviene dentro
di te: mentre navighi, mentre attraversi il mare tempestoso e pericoloso di
questa vita, i venti penetrano dentro di te; soffiano i venti, si levano i
flutti e agitano la barca. Quali venti? Hai ricevuto un insulto e ti sei
adirato; l'insulto è il vento, l'ira è il flutto; sei in pericolo perché stai
per reagire, stai per rendere ingiuria per ingiuria e la barca sta per naufragare.
Sveglia Cristo che dorme, E' per questo che sei agitato e stai per ricambiare
male per male, perché Cristo nella barca dorme. Il sonno di Cristo nel tuo
cuore vuol dire il torpore della fede. Se svegli Cristo, se cioè la ua fede si
riscuote, che ti dice Cristo che si è svegliato nel tuo cuore? Ti dice: lo mi
son sentito dire indemoniato (Gv 7, 20), e ho pregato per loro. Il Signore
ascolta e tace; il servo ascolta e si indigna? Ma, tu vuoi farti giustizia. E
che, mi son forse fatto giustizia io? Quando la fede ti parla così, è come se
si impartissero comandi ai venti e ai flutti: e viene la calma. Risvegliare
Cristo che dorme nella barca è, dunque, scuotere la fede; allo stesso modo
Cristo frema nel cuore dell'uomo oppresso da una grande mole e abitudine di
peccato, nel cuore dell'uomo che trasgredisce anche il santo Vangelo; Cristo
frema, cioè l'uomo rimproveri se stesso. Ascolta ancora: Cristo ha pianto,
l'uomo pianga se stesso. Per qual motivo infatti Cristo ha pianto se non perché
l'uomo impari a piangere? Per qual motivo fremette e da se medesimo si turbò se
non perché la fede dell'uomo, giustamente scontento di se stesso, impari a
fremere condannando le proprie cattive azioni, affinché la forza della
penitenza vinca l'abitudine al peccato?». proprio qualunque valore nei modi
nelle parole della via della persuasione, colla speranza d'aver in quello la
verità. Si duo idem faciunt non estidem» [PR 61-62]. La condizione inautentica,
eteronoma e dunque non libera (come spiega M. in un capoverso che sembra
parafrasare proprio il senso del brano evangelico proposto), è propria di
coloro ai quali «fragili imbarcazioni in mezzo all'uragano, la grande nave»
appare ingannevolmente «come un porto sicuro» [PR 42], mentre di converso «[...]
ognuno è il primo e l'ultimo, e non trova niente che sia fatto prima di lui, né
gli giova confidar che sarà fatto dopo di lui, egli deve prender su di sé la
responsabilità della sua vita, come l'abbia a vivere per giungere alla vita,
che su altri non può ricadere [questi ultimi due corsivi sono nostri]; deve
aver egli stesso in sé la sicurezza della sua vita, che altri non gli può dare;
deve creare sé ed il mondo, che prima di lui non esiste: deve esser padrone e
non schiavo nella sua casa» [PR 36]. La grande nave. Non può non venire in
mente un passo del Fedone [85 C-D-E] - divenuto cruciale per i più attenti
studiosi di Platone - in cui Simmia, uno degli interlocutori privilegiati di
Socrate nel dialogo, esprimendo le sue perplessità a proposito di talune
"dimostrazioni" socratiche sull'immortalità e la reincarnazione delle
anime, ci suggerisce un aut-aut che è allo stesso tempo metodologico ed
esistenziale: «attraversare con una zattera [quella del ragionamento umano], a
proprio rischio, il mare della vita» o «fare il tragitto più sicuramente e meno
pericolosamente su più solida barca, cioè affidandosi a una divina rivelazione
[logos theios}»®. Il dilemma - di cui conosciamo la risposta socratica e,
indirettamente, quella agostiniana - si risolve in M., come abbiamo anticipato,
in una posizione netta di autonomia del vir, e ci rende conto anche della
collocazione (estremamente personale ed originale) che il giovane studioso
assume nei confronti di quelli che pur sono i principali riferimenti speculativi
ed etici della sua formazione: Cristo e Socrate si richiamano fin quasi a
confondersi, superando barriere storiche e religiose, nell'individuazione di un
63 Le espressioni che utilizza M. richiamano ancora, ma in via negativa e in
modo davvero singolare, analoghe considerazioni che riscontriamo di nuovo in
Agostino, sempre nel suo Commento al Vangelo di Giovanni [cfr. omelia 2]: «[i
discepoli, i.e. gli uomini] non vollero aggrapparsi all'umiltà di Cristo, cioè
a quella nave che poteva condurli sicuri al porto intravisto. La croce apparve
ai loro occhi spregevole. Devi attraversare il mare e disprezzi la nave?
Superba sapienza! Irridi al Cristo crocifisso, ed è lui che hai visto da lontano:
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio. Ma perché è stato
crocifisso? Perché ti era necessario il legno della sua umiltà. Infatti ti eri
gonfiato di superbia, ed eri stato cacciato lontano dalla patria; la via era
stata interrotta dai flutti di questo secolo, e non c'è altro modo di compiere
la traversata e raggiungere la patria che nel lasciarti portare dal legno.
Ingrato! Irridi a colui che è venuto per riportarti di là. Egli stesso si è
fatto via, una via attraverso il mare. E' per questo che ha voluto camminare
sul mare (cf. Mt 14, 25), per mostrarti che la via è attraverso il mare. Ma tu,
che non puoi camminare sul mare come lui, lasciati trasportare da questo
vascello, lasciati portare dal legno: credi nel Crocifisso e potrai arrivare».
64 Da notare, ancora, il ricorso ad una terminologia peculiarmente evangelica.
Ci si perdonerà, tra l'altro, la riproposizione fedele di interi passi del
Goriziano; ci sentiamo, tuttavia, autorizzati a far ciò dall'importanza che
essi assumono nell'economia del nostro discorso e dal fatto che essi stessi
rappresentano, a nostro giudizio, passaggi fondamentali (anche per la loro
chiarezza, che non necessita scolii, caso quasi raro nella scrittura di M.)
nella determinazione/enucleazione di quell'esigenza di autonomia che leggiamo
come cifra essenziale della Persuasione, e che ci offrirà l'aggancio per
rivisitarla sotto la prospettiva dell'etica kantiana, per una sinergia feconda
di sviluppi. 65 Cfr. la diapositiva D [Barca] nel supporto iconografico.comune
assunto morale: /a forza autentica degli uomini come unica bussola nel
paradossale viaggio. Sullo sfondo, il mare. Dunque, il mare come luogo
privilegiato del vir. Ma perché proprio il mare? Qual è il senso di questa
complessa simbologia o presunta mitologia? Ed è davvero e soltanto una
simbologia/mitologia atta a rendere la condizione persuasa? Anticipiamo la
nostra risposta negativa. Certo, il topos del mare ha anche un fascino ed una
suggestione prettamente letteraria e filosofica. Non dimentichiamoci che le
immagini del mare e dei flutti ricorrono nelle opere di alcuni filosofi del
primo e del secondo Ottocento, per esprimere, metaforicamente, la natura reale,
libera e vitale del mondo: con tale immagine, questi filosofi segnalavano la
propria opposizione alla dimensione necessaria, ordinata e razionale, puramente
teoretica del mondo ("il mare dell'essere") descritto da Hegel e
richiamavano la riflessione filosofica alla realtà concreta, alla possibilità,
alla libertà. Di contro, l'immagine del mare è una significativa costante che
lega, ad esempio, direttamente o indirettamente, molte delle "eroine
fuggitive" del teatro ibseniano (altra componente di ispirazione prima per
i nostri giovani intellettuali della "soffitta del Paternolli", come
sappiamo) nell'aspirazione ad una svolta autentica della propria vita: la Dina
dei Pilastri della società, la Nora di Casa di bambola, la Bolette della Donna
del mare, la Asta del Piccolo Eyolf, la Frida di John Gabriel Borkman. Una
particolare suggestione, a tal proposito, emana proprio il dramma La donna del
mare, uno dei capolavori ibseniani più ermetici e, a suo modo, inquietanti,
dove l'ambientazione prevalentemente in luogo aperto e il «luminoso lirismo»
[M.P. Muscarello]?” che caratterizza molte scene e molti dialoghi stride con la
complessa simbologia sottesa a tutta l'opera: quel contrasto vive soprattutto
nella figura combattuta (tanto per usare un eufemismo) di Ellida,
nell'enigmatica presenza-assenza dello "straniero del mare",
nell'attrazione paritempo magica e terribile di cui è causa il mare stesso.
Ellida soffre fino in fondo l'ambiguità di questo torbido rapporto
d'attrazione: da una parte si reca spesso, durante le sue giornate, a contemplare
quel mare e si bagna nelle sue acque quasi per ritemprare la proprie forze
vitali; dall'altra, avverte tutta la potenza e la forza misteriosa ed
ammaliatrice del suo richiamo, che si incarna nello Straniero e nella promessa
matrimoniale che, un giorno, li legò. Quel legame ha ancora, per Ellida, nella
sua vita tutta borghese, un sapore e una speranza di autenticità e di vita:
eppure, ella avverte una sua propria incompiutezza, una condizione
d'insofferente eteronomia in quel legame, che allo 66 L.A. Feuerbach - solo per
citare uno tra i tanti - nei suoi Principi della filosofia dell'avvenire
definisce l'uomo «come un ente reale, vivente, che, in quanto tale, è calato
nelle onde vivificanti e refrigeranti del gran mare del mondo». 67 Utet,
Dizionario dei Capolavori, 1987, vol. I, pag. 485. stesso tempo ne falsa la
portata vitale: ella non aveva potuto scegliere liberamente, neanche allora,
come confessa all'esterrefatto marito Wangler. Ellida, dunque, si propone una
condizione di assoluta autonomia di scelta: dev'essere libera da ogni vincolo
sociale ed affettivo, da ogni istigazione o subordinazione emotiva, per poter
valutare con neutralità (e quindi con giustizia) le alternative’: divenire
finalmente «sirena del mare» o «acclimatarsi»®° alla vita di terra. La sorpresa
- ammettiamolo, che un po' ci delude - è che Ellida decide per la vita di
terra: Ellida fon una scherzosa espressione di gravità): «Vede, professore...
Ricorda l'oggetto della nostra conversazione di ieri? Una volta diventati
creature terrestri... non si riesce a riprendere la via del mare». Ballested:
«Lo stesso è successo alla mia sirena! Con una differenza però! La sirena può
morire mentre gli uomini sanno acclo... accla... acclimatarsi, signora
Wangel!». Ellida: «Possono farlo se sono liberi». [Ibsen 64] Il dramma di M. è
che egli non riesce ad "acclimatarsi" al mondo rettorico: nel suo
anelare il mare c'è come un respiro nostalgico, c'è quasi la volontà di un
ritorno a casa: noi siamo fondamentalmente esseri marini, e l'aver abitato la
terra è un tradimento della nostra condizione primigenia. E' ciò che afferma,
tra il serio e il faceto, proprio Ellida”° (che condivide col Nostro quella
nostalgia), e lo si evince ancor più chiaramente, e più a proposito,
dall'epopea di Itti e Senia, le due creature del mare che popolano l'ultima
produzione poetica M.iana. E' triste il destino di Itti e Senia, che nel
doloroso risveglio si ritrovano a vivere la morte dei mortali, provenienti -
essi, invece - «dalla pace del mare lontano», catapultati - ora, invece - nel
mondo della «falsa permanenza», nel gioco retorico della vita quotidiana, nelle
sue espressioni più comuni, e anche più apprezzate: il mondo della famiglia, le
passioni, i sentimenti, il linguaggio e, in ultimo, l'illusione in alto grado
sublime, l'amore. 68 Ellida: «Voglio essere libera quando gli sarò di fronte.
Non voglio che pesi tra noi il fatto che sono la moglie di un altro; non voglio
trincerarmi dietro il pretesto che non m'è possibile scegliere. Se così fosse,
che valore avrebbe una mia decisione?» [Ibsen, La donna del Mare, in Ibsen,
Tutto il teatro, Newton, IV vol. pag. 511. 69 E' la "battuta"
ricorrente (ed emblematica) di un altro personaggio, il sedicente pittore
Ballested, alla quale vengono consegnati il congedo e il compendio del dramma.
70 Bolette (con un sospiro): «Noi dobbiamo contentarci della terra ferma».
Amholm: «Dopo tutto, è la nostra sede naturale». Ellida: «Non sono d'accordo.
lo ritengo che se gli uomini si fossero abituati a vivere sul mare, o
addirittura nel mare, adesso saremmo più perfetti di come siamo. Più buoni e
più felici».Arnholm (scherzando): «Ora però quel che è stato è stato. Abbiamo
preso la decisione sbagliata e siamo animali terrestri anziché felici creature
marine, Mi sembra sia troppo tardi per poter riparare quello sbaglio». Ellida:
«Sta dicendo una crudele verità. lo penso che tutta l'umanità lo intuisca e ne
provi un segreto rammarico. Creda a me: questo, proprio questo è il motivo più
segreto della tristezza degli uomini». Arnholm: «Per esser sinceri, cara
signora, non m'era sembrato che gli uomini fossero così tristi come dice lei.
Direi, anzi, che prendono la vita sin troppo alla leggera... a volte anche
allegramente... ». Ellida: «Invece non è così, purtroppo! La gioia di cui parla
lei è la stessa che ci danno alcune serate estive, quando si ha appena il presentimento
della notte e del buio. E' questo presentimento che appanna tutta la gioia
dell'umanità, come una nuvola passeggera che lascia la sua ombra in permanenza
sul fiordo [...]» [Ibsen 36]. Ebbero padre ed ebbero madre e fratelli ed amici
e parenti e conobbero i dolci sentimenti la pietà e gli affetti e il pudore e
conobbero le pa role che conviene venerare Itti e Senia i figli del mare E
credettero d'amare. [PP 79-80] M. - ebreo che rinnega la "terra
promessa", filosofo che rinnega il "regno dell'aria"
(l'aerostato platonico è la vana speculazione ebbra di sé, e altrettanto vuota)
- elegge a dimora persuasa un «terzo regno»”, quello appunto del mare: egli si
sente un «perduto figlio del mare» (è inevitabile sottolineare l'iterazione
davvero ossessiva con cui il significante "mare" ricorre nelle ultime
liriche, con tutte le implicazioni e le sfumature di senso ch'esso assume in un
contesto simile); eppure trova la forza di consolare la sua Senia, in un
intreccio di poesia, saggezza, speculazione, amore, che prova disperatamente a
scongiurare il pericolo (l'angoscia) della morte e della vita ed esprime, nel
finale, la speranza di «giungere al nostro mare», di giungere a quel porto, che
non è il porto della sicurezza degli uomini, ma paradossalmente proprio «la
furia del mare». Il ritorno al mare, col suo richiamo, è infatti vicino: il
mare si staglia in tutta la sua forza vitale, il frutto di una conquista
sofferta che alla fine conduce alla pace: si staglia, oltre le sponde che lo
serrano, oltre le «case ammucchiate/dalle trepide cure avare», oltre il
«commercio degli uomini» che il poeta-filosofo disprezza e combatte”: Altra
voce dal profondo ho sentito risonare altra luce e più giocondo ho veduto un
altro mare. Vedo il mar senza confini senza sponde faticate' vedo l'onde
illuminate che carena non varcò. Vedo il sole che non cala lento e stanco a
sera in mare ma la luce sfolgorare vedo sopra il vasto mar. Senia, il porto non
è la terra dove a ogni brivido del mare corre pavido a riparare la stanca vita
il pescator. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più
forte, quando libera ride la morte 71 cfr, S. Campailla: Il terzo regno,
introduzione alle PP. 72 Ovviamente, M. non è un misantropo. Il
"commercio" ch'egli combatte è in modo esclusivo, quello rettorico. a
chi libero la sfidò» [PP 81-82] Ma il ritorno al mare non è il risultato
conseguente e gratuito di una scoperta: esso comporta una perdita di innocenza
e un duro esercizio di persuasione: "No, la morte non è abbandono"
disse Itti con voce più forte ma è il coraggio della morte onde la luce
sorgerà. Il coraggio di sopportare tutto il peso del dolore, il coraggio di
navigare verso il nostro libero mare, il coraggio di non sostare nella cura
dell'avvenire, il coraggio di non languire per godere le cose care. Nel tuo
occhio sotto la pena arde ancora la fiamma selvaggia, abbandona la triste
spiaggia e nel mare sarai la sirena. Se t'affidi senza timore ben più forte saprò
navigare, se non copri la faccia al dolore giungeremo al nostro mare. Senia, il
porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride
la morte a chi libero la sfidò» [PP 83-84] Questo stralcio di lirica, non a
caso emblematica per tutta la critica M.iana, è il luogo dove la dimensione
persuasa si definisce in tutta la sua possibile esattezza e si scioglie
definitivamente da ogni difficoltà o ambiguità interpretativa: l'assunto,
consegnato a quello ch'è un vero e proprio "pentalogo", è davvero
chiarissimo: la persuasione è coraggio, il coraggio di una vita libera ed
autonoma, in una parola assoluta. Una vita che non fugge la vita, il suo dolore
e le sue contraddizioni insensate (l'insensatezza per eccellenza: la morte), ma
che vi s'immerge con un agonismo feroce e mai domo, perché, insieme,
consapevole e senza compromessi o deroghe. La Persuasione, infatti, come avremo
modo di vedere meglio in seguito, ma come può già qui apparire abbastanza
chiaro, non è una categoria astratta e monolitica, che si oppone alla Rettorica
n una mitica gigantomachia, così come il Bene al Male nell'immaginario comune e
religioso, o la Verità alla Menzogna nella speculazione filosofica e morale: la
Persuasione si puntualizza, si concretizza, in una rete di "rapporti di
forza" agonistici disseminati in un vasto orizzonte che va dalla famiglia
alle istituzioni, dall'interiorità dell'uomo alla sua esteriorità,
dall'esistenza privata alla vita pubblica, dalla solitudine al contatto con gli
altri: in una sola espressione, è interamente calata nella congerie politica e
quotidiana. E' un «Venire a ferri corti» con un avversario così apparentemente
invincibile (Davide contro Golia) e così vicino, che è possibile avvertirne il
fiato sul collo, una continua incombente minaccia, la forza di una presa
terribile che non molla mai. Di fronte alle istanze di dominio dell'apparato
(del dispositivo) rettorico, che avvolge gli uomini nelle lusinghiere maglie
della eteronomia, il vir oppone un'identica, strenua, determinazione di
autonomia, al costo del sacrificio di sé stesso, che è un sacrificio libero, e
non vincolato o ingannato, come quello che ci chiede la Persuasione Inadeguata.
Non bisogna credere, dunque, che la Rettorica sia un universale che subirebbe,
nel tempo, una progressiva realizzazione o delle variazioni quantitative o
delle risultanze più o meno gravi, delle occultazioni più o meno rilevanti,
atte esse stesse al suo scopo di dominio. Essa, come sistema, non è un
universale che si specificherebbe nel tempo storico e nello spazio geografico:
non è insomma lo Spirito o l'idea hegeliana, bensì non è mai altro che un
rapporto attuale tra uomini, che si concreta in una tensione infinita, dinamica
e fisica di poteri, di «relazioni sufficienti». AI "campo" dei poteri
(laddove il campo è l'insieme di quelle dinamiche e di quelle forze) si
contrappone il campo delle possibilità: /a libertà è appunto lo spazio aperto
di tali possibilità, in cui l'esistenza si slancia nelle sue aspirazioni e
realizza i suoi progetti. La consapevolezza della Rettorica nel mondo, infatti,
non deve chiudere l'uomo nell'amarezza e nel disfattismo di una scepsi e di una
prassi nichilistiche, bensì deve richiamarlo alla sua responsabilità di
"potere" e di "essere", deve aprirgli e trasmettergli la
fiducia nelle proprie capacità umane, nella propria possibile apertura alla
Persuasione. E' questo il messaggio di M., che abbiamo fatto nostro. Ebbene,
non c'è immagine migliore che rappresentare poeticamente questa lotta e questa
conquista come la «furia del mare». A tal proposito, scrive efficacemente P.
Amato”: «Per rendere la persuasione un'alternativa vivibile non solo nella
scrittura, M. indica all'uomo persuaso il suo luogo: il mare. Nella catastrofe
- nel pericolo dell'attimo irripetibile - dobbiamo liberare l'a gire,
rifiutando l'angoscia senza scampo del deserto. Il mare è lo spazio del
persuaso. Il mare è l'ou-topia, il suo mai luogo privo di confini dove sempre
si è stranieri, presenti solo a se stessi, è il luogo dove sentirsi, ovunque -
come mai - nella propria casa. Il mare - prima delle due guerre mondiali - è la
terra senza leggi, dove padroni non sono gli stati, piuttosto i pirati, dove
ogni individuo può affermarsi e non cedere, non più osservato dalla violenza di
un'organizzazione che lo trascende. È il territorio del persuaso ormai libero
dal se stesso sofferente, unico amministratore della vita donatagli. Per lui
ogni azione è la risolutiva, l'ultima, ogni gesto può essere quello estremo.
[...] Il mare è il luogo della libertà che M. sogna per la sua vita dispensata
dall'agire soffocante che la società pretende ». 73 cfr. P. Amato, L'attimo
persuaso, filosofia e letteratura in Carlo M., in Studi Goriziani n. 89-90,
pag. 190. Appare dunque chiaro che, con M., ci troviamo di fronte - più che ad
una simbologia - ad una vera e propria "fenomenologia esistenziale"
del mare”. AI di là del riferimento evangelico, un qualcosa di simile, forse,
possiamo riscontrarlo soltanto nella dottrina buddista. Ora, nel proporre i
passi che seguono (quasi nella loro interezza, datane l'importanza), non
intendiamo certo forzare l'ispirazione o l'influenza che la lettura buddista ha
esercitato sulla formazione del pensiero M.iano, specificamente in riguardo al
pensiero dell' "ultimo" M.”°. Né vogliamo assumerlo come dato
acquisito. Del resto, in base alla documentazione in nostro possesso (e dai
pochissimi accenni che si riscontrano nelle opere del Nostro), non saremmo in
grado di sincerare se quella lettura (e quindi, quell'influenza) fu diretta
ovvero mutuata da fonti di seconda mano”. Resta il fatto, tuttavia, che molte
espressioni (e non solo nel loro senso meramente letterale, ci pare)
riscontrabili nei testi seguenti (e in special modo, quelle che abbiamo
evidenziato in corsivo), possono rinvenirsi - ovviamente riadattate
all'atmosfera della speculazione M.iana - quasi pari pari in passaggi
fondamentali dell'autore goriziano: invitiamo, anzi, ad un suggestivo
raffronto. Troviamo altresì significativa la continua serie di rimandi che
l'autore intreccia tra la "dottrina della Persuasione" e il mare
appunto, parallelismo ch'è lo stesso adottato dai due saggi buddisti. Dunque,
in un passo del Milindapahna”, il Reverendo Nagasena afferma che il Nirvana «ha
alcune qualità in comune con cose a noi note»: quattro ne ha in comune proprio
con il mare: «Come il mare si libera dai cadaveri, œsì il Nirvana si libera
dalle cose cattive. Come il mare è vasto, immenso, non colmato dai fiumi: così
il Nirvàna è vasto, immenso, non colmato dagli esseri. Come il mare è la sede
di esseri grandi e portentosi; così il Nirvana è la sede di esseri grandi e
portentosi, quali sono i santi, che hanno raggiunto l'estinzione. Come il mare
è, per così dire, tutto fiorito con i fiori delle sue onde, varie, possenti,
innumerevoli: cosi il Nirvana è tutto fiorito con i fiori della purità, della
conoscenza, della redenzione, varii, possenti, innumerevoli» [corsivo nostro].
Ma forse ancora più interessante quest'altro riferimento, tratto stavolta da
Anguttara”, e che s'intitola - manco a dirlo - La dottrina è come il mare: 74
Una riprova di ciò può fornirci la testimonianza della aspirazione ultima del
Goriziano - che può far anche sorridere, ma che è evidentemente frutto di una
forte esigenza personale e "filosofica" insieme - di fare il
marinaio, una volta terminata la tesi cui stava lavorando. 75 Cfr. la
diapositiva F [Autoritratto del 1908] nel supporto iconografico. 76 Sappiamo,
ad esempio, che M. si avvicinò al Buddismo per intercessione di Enrico Mreule.
Ma cfr. il profilo biografico nel par. 6 del nostro capitolo sulla Rettorica.
77 Parabole Buddhiste, a cura di Burlingame, Roma-Bari, Laterza, 1995, pag.
158. 78 Ib, pagg. 137-138. Così come il mare si abbassa gradatamente, s'inclina
gradatamente, si affonda gradatamente: così appunto la Dottrina si apprende
gradatamente, si comprende gradatamente, si pratica gradatamente. Questa è la
prima mirabile proprietà, che la Dottrina ha comune col mare. Cosi come il mare
è chiuso nel suo bacino, senza sorpassare i limiti: così appunto i seguaci
della Dottrina sono fermati dalle sue regole, senza trasgredirne i limiti.
Questa è la seconda proprietà. Cosi come il mare non soffre un cadavere, ma lo
respinge sulla spiaggia, sulla terra, cosi l'Ordine della Dottrina non soffre
un monaco, che venga meno ai suoi voti, e lo respinge via da sé. Questa è la
terza proprietà. Così come i grandi fiumi, la Ganga, la Yamuna, I 'Aciravati,
la Mahi, raggiungendo il mare, perdono il nome e la forma e si fondono in esso:
così appunto le quattro caste, i guerrieri, i sacerdoti, i borghesi, i servi,
quando rinunziano alla casa per la mendicità, ed entrano nella Dottrina e
nell'Ordine del Compiuto, perdono i loro nomi e le loro distinzioni e diventano
figli dell'asceta Sakya. Questa è la quarta proprietà. Cosi come tutti | fiumi
della terra fluiscono nel mare e le acque dell'aria cadono in esso, senza che
il mare aumenti o diminuisca: così appunto molti asceti raggiungono nella
Dottrina il Nirvana, senza che questo aumenti o diminuisca. Questa è la quinta
proprietà. Cosi come il mare ha un solo sapore, il sapore del sale: così
appunto la Dottrina ha un solo sapore, il sapore della redenzione. Questa è la
sesta proprietà. Così come il mare contiene molte gemme: cosi appunto la
Dottrina contiene molte gemme, quali le quattro contemplazioni, le quattro
esercitazioni, le quattro potenze, i cinque poteri, i sette risvegli, il santo
ottuplice sentiero. Questa è la settima proprietà. Cosi come il mare è la sede
di grandi esseri: cosi appunto la Dottrina è la sede di grandi esseri, quali
colui che è entrato nella corrente, colui che raggiunge il frutto della
conversione, colui che rinasce solo una volta ancora e il santo che ha
raggiunto la santità. Questa è l'ottava proprietà. Queste sono le otto mirabili
proprietà, che la Dottrina ha comuni col mare. [tutti i corsivi sono nostri] La
bellezza di quest'ultimo passo è coinvolgente, e le stesse affermazioni di M.
ci sembrano acquistarne nuova luce, soprattutto se spogliamo la metafora e le
conferiamo concretezza umana: ci sembra, anche, che aiuti a discriminare la
proposta M.iana da quelle varianti titanisiche e vitalisiche che pericolosamente le si
avvicinano, tradendone lo spirito originario. Verrebbe la tentazione, ad
esempio, di assimilare il tuffo di Itti in A Senia ad un più celebre tuffo,
quello di Esterina, in Falsetto”, di Montale, poeta di cui certa critica, forse
non a torto, si affanna a trovare consonanze col Nostro. Esterina, minacciata
dalla «grigiorosea nube» dei suoi vent'anni e dalla «dubbia dimane», pur appare
impavida, addirittura sorridente: con «un crollar di spalle» liquida ogni
minaccia, del tempo e della vita (abbattendo addirittura i «fortilizi» del
destino), e si tuffa nel mare, il suo «divino amico» che l'accoglie come una
sirena: Esterina è il simbolo della vita che si realizza, della giovinezza che
prorompe e tutto travolge, scrigno di una forza tanto esuberante quanto
spontanea e naturale, a cui naturalmente sorridono quella vita e quella
felicità tanto agognata da chi appartiene alla «razza/ di chi rimane a
terra»5°. Tornando alla felice battuta di Ballested, Montale si sente
consapevolmente, e colpevolmente, acclimatato: per lui, l'alternativa alla
Rettorica, al «male di vivere», sono la «statua», la 79 Montale, Falsetto, in
Ossi di seppia, raccolta contenuta nell'ed. Mondadori Grandi Classici (Milano,
1990) Tutte le poesie (a cura di G. Zampa), pagg. 14-15. 80 «Esterina è
creatura che attinge una divina, pagana felicità nell'immedesimazione stessa
con la natura, nell'adesione totale e irriflessa alla vita e alla realtà»
[Guglielmino]. «nuvola» o il «falco»8', simboli di uno stanco, inappagabile
stoicismo, come appare nella sua lirica più famosa”. In Falsetto, invece, si
affaccia questa Esterina, alter-ego desiderato e perduto, non attingibile nella
sua freschezza, nella sua scorciatoia verso la felicità, attraverso quella
«maglia rotta nella rete» dell'esistenza ch'ella ha trovato, ha anzi
indovinato, e attraversato con una ingenuità spensierata, vigorosa e
disarmante. Ma quanto Esterina è diversa da tti! Rimanendo nella metafora
poetica, se ella con una scrollata di spalle si lascia tutto indietro, il mondo
e la vita, Itti - novello Atlante - si carica sulle spalle quel mondo e quella
vita. Non c'è traccia di spensieratezza in Itti, verrebbe da dire che quasi non
c'è traccia di giovinezza, tanto è consumata la sua adesione all'esistenza,
tanto è profonda la disperata consapevolezza che lo caratterizza: egli si tuffa
(anzi, si rituffa «con più forte lena») nel mare a dare or la patria all' esule
sirena, la patria a me stesso e all'uomo abbattuto svelare la via del suo regno
perduto,ché ogni uom manifeste le tenebre arcane conosca e vicine le cose
lontane. [PP 85] Di una siffatta dolorosa conoscenza («quel che già vidi nel
fondo del mare/ i baratri oscuri, le luci lontane e grovigli d'alghe e creature
strane»), Itti vuol far dono esclusivo alla sua sirena («Senia, a te sola lo
voglio narrare»). La gioia e la naturalezza di Esterina appaiono un miraggio:
eppure Itti rassicura: [...]se freddo e ruvido io ti sembri, ma tu lo sai: è
per vieppiù andare, è per nutrir più vivida la fiamma, perché un giorno
risplenda nella notte, perché possiamo un giorno fiammeggiar liberi e uniti al
porto della pace. [PP 86] 81 Facciamo notare che la figura del falco ritorna in
M. (ma con tutta un'altra simbologia e significato) e, come osserva giustamente
Campailla, sempre più frequente: il critico chiama a testimone una lettera di
Carlo a Mreule (quella del 14 aprile 1909) e, ancor più, un esplicito passo
della tesi di laurea, dove il Goriziano asserisce che il vir, come appunto il
falco e a differenza delle cornacchie, «mantiene in ogni punto l'equilibrio
della sua persona». Per Campailla, l'immagine michelstedteriana del falco sta a
significare «la libera affermazione della volontà». [cfr. S. Campailla,
Pensiero e poesia di Carlo M., Patron, 1973, pagg. 68-69] 82 Alludiamo appunto
al Male di vivere [in Ossi di Seppia, cit., pag. 35]. Commentano giustamente
Barberi Squarotti - J acomuzzi: «AI male, alla sofferenza senza ragione, cieca,
presente sempre nella natura, alla condizione negativa delle cose e
dell'esistenza che si rivela nei fenomeni più usuali, non si può opporre, per
Montale, che una posizione stoica, di indifferenza, di insensibilità, di
rifiuto a lasciarsi coinvolgere nel lamento, nella pena, nella partecipazione
sentimentale: essere statua, pietra, roccia di fronte al dolore o nuvola o
falco alti nell'aria, del tutto staccati dalla terra e dal suo male». [cfr.
Barberi Squarotti - J acomuzzi, La poesia italiana contemporanea, D'Anna,
Messina-Firenze, 1963, pag. 257] 83 Cfr. la diapositiva L [Carlo da vecchio]
nel supporto iconografico. La senilità è scongiurata: ritorna la gioia e il
sogno propri della florida giovinezza, ritorna quella naturalezza, ancor più
vigorosa e sublime, perché non ingenuo e impavido punto di partenza, ma
coraggioso, consapevole, sofferto punto di approdo. La naturalezza è
recuperata, ma come termine di un faticoso lavoro di ricerca esistenziale, che
non disdegna di "sporcarsi" col mondo: giunti al «porto della pace»,
la persuasione proseguirà ultro, e altrettanto spontaneamente le cose si
volgeranno al vir®*. Il porto della pace, ch'è la furia stessa del mare, è il
frutto dell'esperienza del dolore e della consapevolezza, di una consapevolezza
che si conquista attraverso - direbbe l'autore della Bhagavadgita - lo «Yoga
dell'azione»: «attraverso l'attività verso la pace», è appunto il motto del
Goriziano: la Persuasione conduce al riposo, il riposo di Gesù sulla barca nel
mare in tempesta. E proprio ritornando, ad anello, all'episodio evangelico che ha
introdotto questo capitolo, vogliamo trarre le provvisorie conclusioni di
quest'ulteriore tappa del nostro lavoro, altro tassello di quell'intricato
mosaico ch'è M.. Ci avvaloriamo, così, della notazione dell'ottimo Campailla,
il quale ci avverte che il riferimento al brano evangelico su riportato si
complica di un doppio registro di rimandi, non solo testuali: «l'ideale M.iano
del "persuaso" espresso nella conclusione di "Onda per
onda" con un'immagine giovannea ("di sé stessa in un punto faccia
fiamma") conferma nel lavoro poetico il suo spessore religioso nelle due
figure di Itti, il Pesce ( ’IySuc) e Senia (eva): il rinnovato simbolo
cristiano del "Salvatore di se stesso" in un'epoca di diffuso
quovadismo, e la "Straniera"»®®. Di queste considerazioni,
condividiamo tutto: suggeriamo, tuttavia, di non lasciarsi fuorviare dallo
«spessore religioso» che il Campailla finisce con l'attribuire al senso delle
parole di M.; come lo stesso critico chiarisce altrove, e come si evincerà nel
seguito del nostro lavoro, questa non è un'attribuzione o un'illazione ad
un'eteronomia che 84 Abbiamo già trovato l'avverbio ultro in una lettera
scritta allo Mreule a proposito del "nuovo comportamento" del
Paternolli; l'avverbio ritorna altrove, nella sua dizione latina e nella sua
traduzione, con una cadenza se non frequente, però significativa: cfr. D 90
«[...] ma la via è nel nulla chiedere giusto per sé e tutto dare ultro [... J»;
in un'altra lettera, anch'essa già riportata, M. scrive, riguardo sempre
Enrico, che «[...] nessuna cosa della vita, mi sembra, possa trovarti
insufficiente, ma che anzi tutta attraverso tutti i perigli debba volgersi a te
spontaneamente [... J». Sarà un caso, ma il termine ricorre ossessivamente anche
nella Donna del mare ibseniana: Wangel [allo Straniero che è giunto alla loro
casa per riscuotere il pegno d'amore di Ellida]: «E allora che vuole? Pensa di
portarmela via con la forza? Contro la sua volontà?» Lo Straniero: «No, questo
no. Non servirebbe a niente. Se vorrà venire con me, deve farlo
spontaneamente». Ellida (trasalendo): «Spontaneamente... » [sl Ellida (fra sé):
«Spontaneamente...» [[Ibsen, La donna del Mare, cit. pag. 39 e, per es., anche
pag. 40 e oltre] E questa eco accompagna la protagonista, in pratica, fino alla
fine del dramma. 85 cfr. S. Campailla: Il terzo regno, cit., pag. 22. 86
Campailla, aggiunge, in una nota istruttiva, che «per la situazione figurativa
si pensi ai meravigliosi mosaici della basilica paleocristiana di Aquileia, sicuramente
non ignota a M., dove in vaste allegorie Cristo è rappresentato come il mare, e
i cristiani come i figli del mare» [ib.]. pregiudicherebbe, anzi pregiudica in
toto, la "purezza" dell'atto e dell'essere persuaso, così come lo
stiamo portando a definizione. Cristo è esempio di salvezza, ma non è la
salvezza: la salvezza è in noi, noi siamo la salvezza a noi stessi. noi,
attraverso la lotta, verso la pace, verso il riposo. Riposo che non è un
abbandonarsi al «riposo in Dio», come invece affiora, in modo estasiato ed
esasperato, in questa pur bella pagina di Edith Stein, che assumiamo ad
emblematica - in questo contesto - più come termine di opposizione, che di
confronto, con l'assunto del Goriziano, e che riportiamo in larga parte,
convinti che, alla luce di quanto detto, una lettura franca e critica del passo
possa valere più di qualsiasi commento: Esiste uno stato di riposo in Dio, di
totale sospensione di ogni attività della mente, nel quale non si possono più
tracciare piani, né prendere decisioni, e nemmeno far nulla, ma in cui,
consegnato tutto il proprio avvenire alla volontà divina, ci si abbandona al
proprio destino. Questo stato un poco io l'ho provato, in seguito a
un'esperienza che, oltrepassando le mie forze, consumò totalmente le mie
energie spirituali e mi tolse ogni possibilità di azione. Paragonato
all'arresto di attività per mancanza di slancio vitale, il riposo in Dio è
qualcosa di completamente nuovo e irriducibile. Prima, era il silenzio della
morte. Al suo posto subentra un senso di intima sicurezza, di liberazione da
tutto ciò che è preoccupazione, obbligo, responsabilità riguardo all'agire. E
mentre mi abbandono a questo sentimento, a poco a poco una vita nuova comincia
a colmarmi e - senza alcuna tensione della mia volontà - a spingermi verso
nuove realizzazioni. Questo afflusso vitale sembra sgorgare da un'attività e da
una forza che non è la mia e che, senza fare alla mia alcuna violenza, diventa
attiva in me. Il solo presupposto necessario a una tale rinascita spirituale
sembra essere quella capacità passiva di accoglienza che si trova al fondo
della struttura della persona [tutti i corsivi sono nostri”. 87 Come ci scrive
Fr. Egidio Ridolfo s.j. (curatore della rivista Il Gesù Nuovo di Napoli), con
cui siamo entrati in contatto e che ci ha fatto conoscere ilbrano di cui sopra,
esso «fa parte del saggio Causalità psichica, che è stato pubblicato negli
Annali di Edmund Husserl nel 1922, ma che è anteriore alla conversione [della
Stein]. Non abbiamo questo testo, quindi non posso specificare la citazione delle
pagine». 4. La Persuasione more geometrico demonstrata. 4a) La felicità
difficile. 4b) La differente prospettiva: la premessa maggiore del sillogisma M.iano.
4c) L'uomo bandito da Dio e il filo d'Arianna della Persuasione come Armonia:
la lezione di Empedocle. 4d) La Persuasione "al bivio": l'incontro di
Parmenide e Cristo. 4a) La felicità difficile. "La morte non mi avrà
vivo", diceva. E rideva, lo scemo del paese, battendosi i pugni in viso.
Giorgio Caproni Nell'approccio che abbiamo tentato finora, la Persuasione ci si
è rivelata in tutta la sua portata reale: non tanto come una dottrina, un
ammaestramento, quanto piuttosto come un'esistenza, una testimonianza, che si
conquista strenuamente il suo diritto di parola e di realizzazione nel mondo
degli uomini: persuasi lo si è soltanto nel concreto esercizio della
Persuasione, esercizio che ci costituisce a sua volta come persuasi, in una
tautologia non del pensiero, ma della vita, e dunque non vana o eristica, ma
veritiera e concreta. La «consistenza» dell'essere persuasi, dunque, la sua
"autarchia", si è dispiegata come forte esigenza di autonomia, che
non è ripiegamento autosufficiente, non è esplosione (vitalistica, più che
vitale) di forze "anarchiche", violente - ovvero, spinte al dominio -
e sedicenti superiori, ovvero volte alla conquista di un non meglio precisato
oltre dell'uomo (chi si dichiara al di sopra degli uomini spesso vi si ritrova
al di sotto...). La consistenza, dunque, anche e soprattutto come coesistenza,
come rivela l'etimologia identica dei due termini. E il suo dispiegarsi
(abbiamo accennato) dà gioia, una gioia difficile da comprendersi secondo i
comuni parametri del buon senso, che confonde la felicità con l'appagamento del
bisogno, la realizzazione con la conquista di una dignitosa posizione sociale.
Anche Kant provò a destreggiarsi con questo concetto difficile di felicità (o
concetto di felicità difficile), nel tentativo di espungerne ogni pericolosa
concessione all'istanza eteronoma, ogni elemento spurio che ne contraddicesse o
pregiudicasse l'autenticità. Questo riferimento all'autore delle Critiche non è
un rilievo marginale, ma si incastona perfettamente - diremmo in modo conseguente
- nel nostro tentativo di un'esatta definizione del concetto felicità e di
autonomia, all'interno dell'ottica persuasa. Infatti, forse senza neanche che
l'autore se ne rendesse ben conto fino in fondo8*, quel concetto rappresenta -
a nostro giudizio - il movente segreto e il perno intorno al quale 88 In
effetti, Kant sembra affrontare malvolentieri, almeno nella suddetta critica
(ma questa è evidentemente solo una nostra impressione), un discorso sulla
felicità, condizione ch'egli ritiene sempre in certo modo "sospetta"
di eteronomia e che, di conseguenza, "subordina", se possiamo dir
così, al dovere, al rispetto, in una parola alla virtù (troviamo significativo,
altresì, che Kant consegni tale discorso praticamente soltanto alle pagine che
aprono il capitolo Il Della ruota tutta la sua Critica della Ragion Pratica. Il
filosofo tedesco parla, più precisamente, di «contentezza di sé»
[Selbstzufriedenheit], la quale «nel suo significato proprio, denota sempre
soltanto un compiacimento negativo della propria esistenza, per cui si è
coscienti di non aver bisogno di nulla»®®. Questa contentezza di sé è il
"brivido" dell'intelletto di fronte al mistero della libertà;
prosegue, infatti, Kant: «a libertà, e la coscienza di essa come di una
capacità di seguire con intenzione preponderante la legge morale, è
indipendenza dalle inclinazioni, per lo meno in quanto motivi determinanti
(anche se non in quanto influenti) del nostro appetito; e, avendone io
coscienza nell'osservare le mie massime morali, essa è l'unica fonte di una
contentezza immutabile, ad essa necessariamente connessa, la quale non riposa
su alcun sentimento particolare. Tale contentezza si può chiamare intellettuale
». Poco più avanti, la prospettiva kantiana si fa scoperta e definitiva: «...]
un compiacimento negativo per il proprio stato [...]è contentezza della propria
persona. In questa guisa (e cioè indirettamente) la libertà stessa diviene
capace di un godimento che non si può chiamare felicità, perché non dipende
dalla positiva presenza di un sentimento e neppure, parlando esattamente,
beatitudine Beligkeit], perché non implica una indipendenza completa da
inclinazioni e bisogni; ma che, tuttavia, è simile a quest'ultima, in quanto,
cioè, per lo meno la determinazione della propria volontà può mantenersi libera
dal loro influsso, e quindi, almeno per la sua origine, è analoga
all'autosufficienza che si può attribuire soltanto all'Essere supremo». La vera
felicità, dunque, sembra essere appannaggio esclusivo di Dio, o comunque di una
volontà santa: quella, per intenderci, in cui si realizza la «perfetta
adeguatezza [vollige Angemessenheit] dell'intenzione alla legge morale».
Nell'individuo santo, questa perfetta adeguatezza avviene per una sorta di
«nclinazione spontanea» (e si ricordi il valore che abbiamo accordato al
concetto di spontaneità in M.) alla «totale purezza delle intenzioni del
volere»; di contro, «il gradino morale su cui si trova l'uomo» è quello di una
virtù ch'è piuttosto (bellissima espressione) «un'intenzione morale in lotta»
[moralische Gesinnung im Kampfe]. Appare ovvio, dunque, che, per definizione,
la santità è una condizione irrealizzabile nell'uomo: essa si profila piuttosto
come concetto-limite, o idea regolativa, e comunque esula dal mondo fenomenico,
dal mondo «dei costumi». dialettica della ragion pura nella determinazione del
concetto di sommo bene, dedicate in particolare alla posizione ed alla
risoluzione dell'antinomia della ragione pratica, vertente sul sommo bene). Se,
infatti, la virtù è «il meritar di essere felici», tuttavia essa virtù «come
condizione, è sempre il bene supremo, non avendo altre condizioni al di sopra
di sé», mentre«la felicità è sempre qualcosa che, a chi lo possiede, riesce
gradito, però non è buono per sé solo assolutamente e sotto tutti i rispetti,
ma presuppone sempre, come condizione [una condizione che Kant si ostina a
sottolineare in modo continuo e vigoroso in tutto il corso della trattazione],
il comportamento morale conforme alla legge». Poco più avanti, si spinge a
dire, nella foga polemica contro l'eudemonia classica (nelle forme dell'edonismo
o dell'atarassia, soprattutto), che quelli di virtù e felicità sono due
concetti «radicalmente eterogenei». E' ovvio che bisognerebbe, a questo punto,
procedere con metodo analitico, e individuare e correggere tutte le ambigue
oscillazioni di senso che, nel discorso kantiano, assume il termine felicità
[Gluckseligkeit]. Per le presenti citazioni, e per le altre contenute nel corpo
del paragrafo, in riferimento a Kant e non "annotate", rimandiamo a
Kant, Critica della ragione pratica, (a cura di V. Mathieu), Rusconi, 1993,
pagg. 228-245, passim, ovvero - dell'opera - il corrispondente a Parte |, Libro
Il, Capitolo Il, Pargg. ill: Della dialettica della ragion pura nella
determinazione del concetto di sommo bene).E' lo stesso destino di esilio cui
sembra condannata la Persuasione, che ci si mostra anch'essa come una
condizione innanzitutto inafferrabile, quindi irrealizzabile, per l'uomo. E
quella stessa gioia, tratto distintivo della condizione non-rettorica, appare
sempre più come una chimera azzardata, come un complicato esercizio della
ragione, nella sua aspirazione di libertà. Non può non colpire, di fatto (ed è
questa la più ferrata, nonché la più scontata smentita), come la Persuasione
sia sempre destinata allo scacco, quasi fosse perseguitata dalla malasorte. La
schiera di Persuasi, che M. elegge; questa schiera di individui
«eroico-cosmici» (per dirla con Hegel), questa genealogia della Persuasione
(per dirla con la Bibbia), questa «ghirlanda di reincarnazioni», quasi, in cui
si realizza BA Persuasione (per dirla infine con Arya Sura, l'autore degli
vataka), sembra portare con sé, insita nei propri atti, il segno di una colpa
che la condanna ad una sconfitta (la sua voce non viene accolta o compresa), o
peggio a una pulsione di morte, per giunta autoinferta, col sacrificio o col
suicidio. Questi individui hanno in sé il demone, eppure sembrano lontani dalla
felicità: il loro sembra non essere un "demone propizio". Socrate
accettò il verdetto di morte, in coerenza col suo dettato; Cristo accettò la
Croce, nel suo sacrificio di redenzione; Enrico Mreule non riuscirà a
sopportare l'enorme ingiunzione morale che gli assegnò l'amico, e la sua vita
si risolse infine in un fallimento”; M. stesso si uccise... Del resto, «gli
uomini si stancano su questa via [la via che conduce alla Persuasione], si
sentono mancare nella solitudine: la voce del dolore è troppo forte » [PR 53].
La piena attualità della propria autentica natura, che abbiamo designato come
entelechia etica, a conti fatti o conduce all'annichilimento, oppure è esposta
al forfait. è in gioco la "sostenibilità" della Persuasione.
Possibile che gli uomini si stanchino della vera felicità e si accontentino
della falsa felicità che la Rettorica propina loro, come falsa sicurezza e
falso appagamento? 90 Si tenga presente l'etimologia di felicità,
nell'accezione greca di "eudemonia", ovvero - appunto -
"eu" (bene) e "dàimon - onos" ("demone, sorte"),
ovvero "che ha un demone propizio", quindi "felice,
fortunato". Per la questione del dèmone, nella fattispecie in Socrate ed
in Enrico Mreule, si ricordi quanto detto supra. 91 Claudio Magris,
intervistato sul Corriere del Ticino, riguardo la stesura e il significato del
suo romanzo Un altro mare, così riassume - in modo davvero efficace - la
dialettica Carlo-Enrico sulla via della persuasione: Intervistatore: «La
personalità di M. "bruciata" dal suicidio rappresenta in un certo
qual modo il fallimento esistenziale di Enrico?», Magris: «Il suicidio di M. è
un problema fondamentale. Certo, sul suicidio in sé non si può dire nulla mai,
perché, per capire veramente cosa è successo nel cuore e nella mente di uno che
si uccide, bisognerebbe averlo accompagnato fino al passo estremo. Si può dire
che i due amici, senza volerlo, si giocano uno scherzo terribile. Da una parte
Carlo mostra a Enrico un assoluto, senza il quale Enrico non potrà vivere ma
che non riuscirà a raggiungere. Così, in un certo modo, Carlo arricchisce ma
anche distrugge la vita di Enrico. Inoltre, forse, il suicidio di Carlo lo
lascia solo, toglie a Enrico il sole della sua esistenza. Dall'altra parte,
Carlo forse aveva capito che la persuasione che egli insegue, ossia il possesso
vero e presente della vita, non può essere teorizzata o predicata (come non si
può teorizzare la felicità), ma può essere solo vissuta, e per questo aveva
visto in qualche modo in Enrico il suo vero erede, una specie di san Giovanni,
colui che doveva realizzare nella vita la persuasione. Ed Enrico, col suo
struggente fallimento, dà un colpo mortale a tutto questo». [Sul Corriere del
Ticino del 5 maggio 1998, pag. 49]. Questa impossibilità della persuasione è da
noi fortemente contestata. Kant aveva escluso la realizzazione di una volontà
santa tra gli uomini: M., di contro, individua i protagonisti di questa volontà
santa, che da "statica", noumenica, diviene storica e politica:
Socrate, Cristo e via dicendo sono la realizzazione terrena di quella volontà,
di quella Persuasione; essi rappresentano l'eccezione che smentisce la regola:
quel postulato che, appunto, sancirebbe il carattere esclusivamente divino
della santità. Eppure, la Persuasione, quand'anche realizzata, sembra tingersi
di toni lugubri, di una gioia "masochista", di una condotta
schizofrenica che la divide tra una gioia che è dolore e un dolore che è gioia:
scrive M., in un noto passo del Dialogo della salute che «finché la morte
togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga - se nulla abbiamo. -
Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo-» [D 39]. Eppure,
sotto lo sguardo della Rettorica, il vir sembra davvero passare come do scemo
del paese» del frammento di Caproni: lo scemo che - ridendo e «battendosi i
pugni in viso» - gridava: «a morte non mi avrà vivo». 4b) La differente
prospettiva: la premessa maggiore. I... J foschia d'oro, l'occidente illumina
la finestra. L'assiduo manoscritto aspetta già carico di infinito. Qualcuno
costruisce Dio nella penombra. Un uomo genera Dio. E'un ebreo dai tristi occhi
e dalla pelle citrina; lo porta il tempo come porta il fiume una foglia
nell'acqua che declina. Non importa. Il mago insiste e scolpisce Dio con
geometria delicata; dalla sua malattia dal suo nulla, continua ad erigere Dio
con la parola. Il più prodigo amore gli fu concesso, l'amore che non aspetta di
essere amato. [Borges, B.Spinoza Dalla raccolta La moneta de Hierro, 1976.)
Eppure, a dispetto della sua complessità, M. sembra liquidare il discorso sul
concetto di Persuasione in quel breve capitolo, fatto davvero di pochissime
pagine”, che inaugura, dopo la prefazione, il suo lavoro e che si intitola,
appunto, in modo perentorio La persuasione. Una sorta di epitome, dove ogni
parola - in uno sforzo di sintesi che rasenta l'esoterico - assume un peso ed
una portata grandiosi. Tutto ciò che segue - l'affastellarsi di analisi
"scientifiche", "ontologiche" o personali sulla Rettorica,
l'annoverare gli equivoci ed i pericoli di una falsa Persuasione [«Persuasione
Inadeguata »], la critica al sistema in se stesso come «comunella di malvagi»
sempre e comunque... - sembra essere, di quel denso capitolo, uno scolio
complesso. E' un procedimento, e una capacità di (ardua) sintesi, che - forse,
non a caso - possiamo riscontrare in un altro ebreo eretico, che si cimentò in
una "geometria" dell'etica: Spinoza. 92 Nella citata edizione maior
adelphiana della tesi sono quattro: da pag. 7 a pag. 10, incluse. Avvisiamo che
sono queste le pagine da cui traiamo i "virgolettati" relativi alle
espressioni autoctone di M.. Ci dispensiamo, così, dal riferirli ogni volta.
L'autore dell'Ethica esordisce, parlando di Dio: «Per causa di sé intendo ciò
la cui essenza implica l'esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere
concepita se non come esistente»°°. Dio non ha bisogno di null'altro, che non
di sé stesso, per esistere: a suo modo, questa è un'ammissione - permettendoci
di renderla con termini M.iani - di una condizione persuasa di Dio. E M., nella
sua definizione di persuasione (la "premessa maggiore" ch'egli ci
fornisce) - definizione che spicca, sottolineata dalla citazione petrarchesca -
sembra rispondere con una eco: «Colui che è per sé stesso (pever) non ha
bisogno d'altra cosa che sia per lui (evo vtov) nel futuro, ma possiede tutto
in sé». Dunque, il vira suo modo è egli stesso causa suit Nel presupposto,
entrambi i pensatori, come dire, si muovono nell'ambito dell'ortodossia: negli
esiti, cadono entrambi in una comune eresia fondamentalmente antiebraica: per
Spinoza, si tratterà di sconfessarne la Trascendenza: la causalità di Dio si
dispiegherà in causalità immanente al mondo, realizzandosi in quel noto
"panteismo" che il pensatore di Amsterdam svolgerà con grande rigore
(anche "geometrico") e consapevolezza durante tutta la sua vita; per M.
si tratterà di sconfessarne non solo la trascendenza (l'uomo, come persuaso, è
il dio), ma soprattutto il monoteismo: sosterrà quello che potremmo chiamare un
"politeismo della Persuasione", essendo ogni vir dio a se stesso,
causa sui, singola (e singolare) natura naturata della Persuasione. Il
confronto tra i due pensatori potrebbe trovare sbocchi inauditi (ci siamo
limitati alle frasi iniziali delle loro opere); tuttavia ci troviamo costretti
a troncare di netto una simile tangenziale al nostro discorso, innanzitutto
perché potrebbe essere (data la vastità del raffronto) argomento di un'altra
tesi, e poi per non compromettere la fluidità del nostro ragionamento. Che
verte, ricordiamolo, sul concetto di Persuasione, così come affrontato da M.
nel breve, fondamentale capitolo cui abbiamo accennato. Il concetto di
Persuasione: ben detto. Mai come qui, infatti, l'uso del termine
"concetto" non si presenta inadeguato. | viri sono scomparsi
dall'orizzonte, nella loro pluralità: la Persuasione perde la sua composizione
politica, si staglia come un' "entità" perfetta, come la
perfettissima sfera di Parmenide, come una monade che abbia chiuso porte e
finestre, come l'aleph del noto racconto di Borges. Il Persuaso si disincarna: diviene
simbolo senza antropologia o antropomorfismo, segno di una condizione che
accomuna l'uomo ad ogni altro essere del mondo sublunare: non a caso, quasi un
terzo dell'intero capitolo è occupato da un esempio tratto dall'osservazione
fisica: il peso, ch'è tale perché la forza di gravità lo spinge verso una
ricerca inappagata 93cf, Spinoza, Etica (a cura di E. Giancotti), Editori
Riuniti, 1993, pag. 87. 9% Ci si permetta un rilievo passeggero: questo
"bastare a sé stesso" è una connotazione che, in modo singolare,
attraversa - come presupposto di estrema qualificazione - gli esiti più alti
della speculazione filosofica e religiosa umana di tutti i tempi e di tutti i
popoli: il dio degli Ebrei, il Buddha, il dio di Aristotele, il dio di Tommaso,
la monade di Leibniz, il dio di Spinoza, la volontà santa di Kante via dicendo
sono tutte "entità" che "bastano a se stesse". del suo
"luogo naturale" («la fame del più basso»), la cui vita corrisponde
proprio in quella discesa, perché - una volta raggiunto il punto della sua
soddisfazione - in quel punto la sua vita «cesserebbe d'esser vita», perché «
in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso». Dunque: «Il peso non
può mai esser persuaso»®9. La Rettorica si rivela quale condizione condivisa da
ogni ente terreno, costretto dalla forza di gravità che lo lega necessariamente
alla terra; di contro, la Persuasione non è una aspirazione o prerogativa
esclusivamente umana: anche il peso vuol conquistarla. La forza di gravità si
delinea come la più patente espressione fisica della Rettorica, e ci testimonia
come la Rettorica stessa non sia soltanto una "costruzione" umana, ma
al contrario appartenga alla matrice bio-fisica o bio-fisiologica, prima che
ontologica, dell'intero universo. Nel capitolo che stiamo esaminando, dunque,
si può avvertire quel cambio di prospettiva che annunciammo nell'esordio della
nostra analisi: a differenza che nelle lettere e nelle poesie, dove si respira
il pullulare della vita persuasa, nel lavoro accademico il Goriziano è più
attento a quella che potremmo definire (con qualche concessione agli
heideggeriani) un' "ermeneutica esistenziale della Persuasione". O,
più esattamente, si propone di ricavare quell'apriori della Persuasione, che ne
fondi /a possibilità e i limiti di realizzazione nel mondo fenomenico. E' una
prospettiva più povera dal punto di vista esistenziale, rispetto a quella delle
lettere e delle poesie, perché più astratta, e dunque più aliena dai nostri
interessi, e da quelli dello stesso M., evidentemente. Eppure, una prospettiva
più imponente dal punto di vista speculativo, che s'impone nella sua necessità
di analisi, se è vero che ogni Weltanschauung, come visione o
"intuizione" del mondo, presuppone di necessità un fondamento ontologico,
un'immagine concettuale, in cui si rapprenda visivamente il senso di quel
mondo. Sotto questo rispetto, M. appartiene ancora al declino di quella
"storia dell'essere" denunciato dal filosofo di Baden. In M., nella
sua tesi, l'Essere si pone come Persuasione, ed è a partire da questa posizione
che si sviluppa, nel corso del suo studio, l'analitica esistenziale, ovvero la
diagnostica e la prognostica, apparentemente aliena qui da ogni considerazione
95 Ma cfr. anche la nostra integrazione sul "peso che dipende" e la
diapositiva G ĮI peso al gancio] nel supporto iconografico. % Questo stralcio
heideggeriano può sancire ed illuminare il senso di questi nostri ultimi
passaggi: «La comprensione dell'essere, definita così, in pochi tratti, si
mantiene sul piano senza scosse e senza pericoli della più pura evidenza. E
tuttavia, se la comprensione dell'essere non avesse luogo, l'uomo non sarebbe
mai in grado di essere l'ente che è, anche qualora fosse dotato delle più
straordinarie facoltà. L'uomo è un ente che si trova in mezzo all'ente, e vi si
trova in modo tale, per cui l'ente che egli non è e l'ente che egli stesso è
gli sono sempre già manifestati. A questo modo d'essere dell'uomo diamo il nome
di esistenza. L'esistenza è possibile solo sul fondamento della comprensione
dell'essere. Nel rapportarsi all'ente che egli non è, l'uomo si trova già
davanti l'ente come ciò che lo sostiene, ciò cui si trova assegnato, ciò che,
con tutta la sua cultura e la sua tecnica, egli non potrà mai, in fondo,
signoreggiare. Assegnato all'ente diverso da lui, l'uomo non è in fondo,
padrone nemmeno dell'ente che egli stesso è» [M. Heidegger, Kant e il problema
della metafisica, introduzione di V. Verra, Laterza, Bar-Roma, 1989, pagg. 195-196].
morale, della società umana, nei suoi singoli e nel suo complesso, come
condizione depotenziata di quello stato edenico annunciato come proprio di
«colui che è per sé stesso». Così, dell'energia autentica del vir, in queste
pagine, sopravvive solo un opaco barlume, nel tentativo di concettualizzazione,
nel titanico sforzo del pensiero, che si districa nel novero di citazioni di
cui il breve capitolo in esame è infarcito: citazioni che - almeno
nell'intenzione - non appesantiscono, ma che si dispongono quali ausiliari
"puntelli di persuasione", nello sforzo di delucidare il senso del
peve”. Essi tracciano un confine intorno alla Persuasione stessa: ci muoviamo
in un mondo i cui due poli sono rappresentati, rispettivamente, dalla grecità
(dalla Grecia di Empedocle e di Platone, e chi fra essi) e la dimensione
biblica (l'Ecclesiaste, S. Luca, S. Matteo): è dalla sinergia di questi due
poli che, evidentemente, si forgerà e si dovrà evincere il concetto di
Persuasione. 4c) L'uomo bandito da Dio e il filo d'Arianna della Persuasione
come Armonia: la lezione di Empedocle. Anch'io sono uno di questi, esule dal
dio e vagante per aver dato fiducia alla furente Contesa. Empedocle, fr. 31 B
115, 13-1498 Ahimé, o infelice stirpe dei mortali, o sventurata, da quali
contese e gemiti nasceste. Empedocle, fr. B 124 Piansi e mi lamentai, vedendo
un luogo a cui non ero abituato. Empedocle, fr. B 118 Un'epigrafe informa e
precisa il senso e la direzione di tutta un'opera, riassume e anticipa il
pensiero dell'autore, dà limprimatur. La Persuasione e la Rettorica si apre®°
con una citazione di Empedocle, una citazione da rivalutare, anche in
riferimento alla sua amenità: M. chiama subito in causa un personaggio la cui
vita e il cui pensiero sono avvolti da un'aura rarefatta di leggenda, un
filosofo che si muove in una dimensione di inappartenenza a categorie ben
definite (addirittura, più che gli stessi altri presocratici), in un'apparente
contraddizione tra il fisico e lo scienziato e il medico, e il sacerdote e il
poeta 97 Campailla fa notare che «M. ricorre al greco per sviluppare la
contrapposizione tra la forma transitiva di pever (aspettare qualcuno o
qualcosa) e quella intransitiva (stare, permanere, consistere)» [nota 7 alla
Persuasione, PR 309] 98 La presente citazione, e le altre che seguono nel
paragrafo e nel prosieguo della nostra tesi, relative ad Empedocle ed agli
altri presocratici, sono adottate secondo la traduzione presente in |
Presocratici. Testimonianze e frammenti (a cura di G. Giannantoni), 2 voll.,
ed. Laterza (4a), 1990. 99 La famosa Prefazione, presente nelle stesura A della
tesi (ovvero, quella primitiva, completamente autografa), risulta poi omessa in
quella che Campailla chiama redazione C, quella destinata alla lettura del
relatore e della commissione dei professori, e che, dunque, «rappresenterebbe
la volontà ultima dell'autore». [cfr. nota introduttiva alla Persuasione, PR
304; in particolare, si rimanda proprio alle pagg. 303-304 per un opportuno
approfondimento della questione], e il profeta taumaturgo e il dio. Evidentemente,
il filosofo goriziano, con questa personalità ibrida, ravvisa una certa
affinità di atmosfere e di metodologia non proprio ortodosse. Dunque,
inoltriamoci nel sottobosco empedocleo che si dirama in queste e altre pagine
del nostro autore. Innanzitutto, una premessa scontata, ma opportuna: M. anche
con Empedocle, come con tutti gli autori ch'egli utilizza per supportare le
proprie analisi, affila le armi di una propria, personalissima filologia, di
un'interpretazione che "pecca" di estrema originalità °: ci troviamo
al di fuori di una certa canonica, e sbrigativa, storiografia filosofica
(inaugurata da Aristotele, che definì Empedocle, tra gli altri, un «naturalista
inesperto »'°'), storiografia che comodamente classifica l'agrigentino in
posizione intermedia e mediatrice tra l'essere parmenideo e il divenire
eracliteo (al contrario, come sappiamo, M. assegna a pari merito, sia ad
Empedocle che a Parmenide ed Eraclito, la conquista della "palma"
della Persuasione). Ma analizziamo il frammento empedocleo: L'impeto dell'etere
invero li spinge nel mare il mare li rigetta sul suolo terrestre, la terra nei
raggi del sole infaticabile!92, che a sua volta li getta nei vortici
dell'etere: ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. | versi
sono attestati da Plutarco!, Il quale commenta: «Empedocle dice che le anime
pagano la pena dei loro errori e dei loro peccati [segue il frammento], finché
così punite e purificate non raggiungono nuovamente il loro posto e il loro
ordine naturale»..'°4 Ci preme innanzitutto far notare (quand'anche fosse solo
una nostra impressione: la critica non ne fa parola) la sfumatura che
avvertiamo nella scelta fatta da M. di questo frammento: nella
"diaspora" delle anime, che espiano una terribile hybris alla ricerca
inesausta del «loro posto e del loro ordine naturale», ci sembra adombrarsi
quell'ulissismo giudaico (che possiamo integrare a proposito delle nostre
analisi sul mare), ci sembra affiorare quell'inquietudine ancestrale di
colpa-espiazione, che appartiene alla 100 Emanuele Severino, ad es., che allo
studio di Parmenide ha dedicato tutta la sua vita, bolla l'interpretazione
michelstedteriana del filosofo eleate come un "colossale equivoco":
ma ravvisa proprio in quell'equivoco uno dei picchi di feconda originalità del
Nostro. Ci trova d'accordo. 101 Cfr. la già cit. Prefazione. Per il giudizio di
Aristotele, cfr. Fisica, 191a - 25: «[...] quelli che primamente filosofarono,
indagando sulla verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per così dire,
verso una via sbagliata, spinti dalla loro inesperienza» [tad. A. Russo, in
Aristotele, Fisica, 3° vol. delle Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza,
2001 (VI ed.), pag. 21]. 102 Sono i vv. 9-12 del frammento B 115 [i versi della
nostra epigrafe sono immediatamente successivi]. Come nota anche il Campailla,
nell'edizione del Diels si legge waedovtoc (splendente), anziché axauavtoc
(infaticabile). Abbiamo utilizzato la traduzione contenuta in | P resocratici,
cit., pag. 411 [cfr. la nostra nota 9], sostituendo però opportunamente i due
termini, 103 De Iside, 361 c matrice profondamente ebraica di M., per quanto
egli stesso cercasse con forza di separarsene'. Il popolo ebreo, nella sua
tormentata storia, questo condivide con le anime di Empedocle: «ogni elemento
li accoglie da un altro, ma tutti li odiano». Ma ovviamente, questa condizione
di esilio eterno, così specifico per l' "ebreo errante", si amplifica
subito a cifra dell'intera condizione umana: lo nota a suo tempo già Plutarco,
il quale in un'altra sua opera afferma: «Empedocle [...] mostra che non
soltanto egli stesso ma tutti noi siamo qui come emigrati, stranieri ed
esuli... Va in esilio [scil. l'anima] ed è errabonda spinta dal volere e dalle
leggi degli dei».'°9 Eppure, queste anime espiano un delitto di cui non hanno
in fondo colpa, essendo vittime addirittura innocenti di un polemos che le
trascende: quello, universale e perenne, tra l'Amicizia [Phila] e la Contesa
[Neikos], le due forze divine che, a questo punto, data la curvatura della
nostra interpretazione, ci arrischiamo d'assimilare alla Persuasione e alla
Rettorica, così come delineate - nella loro impersonalità e quasi-trascendenza
- nella tesi 104 contenuto in | Presocratici, cit., pag. 440 105 In più passi
di lettere, M. mostra insofferenza nei confronti della coeva gioventù ebraica,
che pullulava a Gorizia (città da tempo immemorabile, data la sua vocazione
commerciale, sede di una nutrita comunità ebrea [ma, per ciò, cfr., tra gli
altri, A. Arbo, Carlo M., ed. EST, pagg. 4-5 e oltre): anzi, i coetanei ebrei
diventano bersaglio di feroce ironia, quella medesima ironia che il giovane
filosofo ostenta nei confronti dello stesso apparato religioso ebraico,
soprattutto nelle sue forme più esteriori, retrive e "teopompe". Si
prenda ad es. la lettera del 29 febbraio 1908 alla famiglia: «Molto piacere mi
fece il furto delle corone - era un principio di dissolvimento quale si doveva
alla memoria di zio Samuel [probabilmente, Samuele Luzzato]. Rabbia mi fa la
reazione degli altri che fanno subito la sottoscrizione - porci - neocattolici!
- faranno di nuovo Hanukà [la "festa dei Tabernacoli", nella
religione ebraica, appunto] per purificar i tempio? E se la prendono con te
questi imbecilli perché non dai il sacro obolo; ma che cosa pretendono? -». [E
295; le esplicazioni in parentesi quadre, riportate all'interno del brano,
anche del seguente, appartengono al Campailla, leggermente ritoccate da noi] AI
contrario, il Goriziano si mostra interessato al misticismo cabalistico (si
legga con attenzione il passo che riportiamo, dato che, tra i tanti
importantissimi rilievi, in esso si scorgerà anche l'embrione della filogenesi
speculativa del Nostro): «A proposito di misticismo ho in mente una cosa
graziosa. Tu sai [M. si sta rivolgendo a "Gaetanino" Chiavacci] che
la ragione dell'antisemitismo filosofico (Schopenhauer e Nietzsche) è il
razionalismo della religione ebraica (pensa al Pentateuco e a Spinoza!!!) e la
mancanza dell'elemento mistico nelle menti ebraiche (Nietzsche dice ‘elemento
dionisiaco'; quello che è distrutto da Socrate; osserva le parallele: da
Socrate attraverso Platone al misticismo neo-platonico - da l'ebraismo a
Cristo). - Ora io sono convinto [...] che l'appunto è giusto [...]; tanto più
mi meraviglia l'esistenza di un'intera letteratura cabbalistica [sic, anche
oltre], e una diadoché di taumaturghi che finisce [...] col mio bisnonno, il
rabbino Reggio, detto il Santo [è Isacco Samuele Reggio, uno dei fondatori del
Collegio Rabbinico Italiano; nota di Campailla]. lo voglio sapere qualcosa di
più preciso su quella letteratura cabbalistica, specialmente sulle sue origini,
poi voglio farmi consegnare dall'archivio i resoconti protocollati di tutte le
sedute in cui quel mio bisnonno compì atti solenni di purificazione con mezzi
cabbalistici [... ]; peccato siano scritti in ebraico, ci dovrò faticare per
capirli bene [... |» [lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E 267-268; le
parentesi tonde e i corsivi all'interno del brano sono di M.]. Notiamo, en
passant, che Michelstedter (parafrasando Canetti) dell'ebraismo non ha
"salvato" la lingua («... peccato siano scritti in ebraico...»); che
l'accusa di "razionalismo" ch'egli rivolge al Pentateuco e a Spinoza
noi l'abbiam fatta ricadere anche su lui medesimo; e infine il significativo
accenno all' «elemento dionisiaco» nicciano, su cui avremo modo di tornare
largamente nelle integrazioni sulle varianti deboli della Persuasione. Per
tutto questo, ci rammarica aver relegato in una nota un aspetto così importante
e complesso della formazione M.iana, spinti da una certa selezione
argomentativa (se si volessero approfondire tutti gli aspetti di quella
formazione si stilerebbe una tesi mastodontica). Un'ultima cosa: per la
cronaca, la famiglia di Carlo apparteneva al ceppo occidentale prevalente nella
comunità goriziana, quello ashkenazita [cfr. A. Arbo, Carlo M., cit. pag. 5].
106 Plutarch. de exil. 17 pag. 607, come recita l'edizione | P resocratici,
cit., pag. 410, in cui è contenuto il riferimento. accademica del Goriziano
[cfr. supra]. E, sotto questo rispetto, le analogie sono davvero sorprendenti
ed istruttive. Vediamole. | due princìpi empedoclei si contendono il mondo, in
una lotta infinita che si realizza in una successione alterna di fasi diverse,
col ritorno periodico di ciascuna: quando predomina la Philìa, tutte le cose
(anzi, le loro radici: il fuoco, la terra, l'aria e l'acqua; in se stesse
immutabili, l'una inconfondibile con l'altra, irriducibile all'altra) sono
ricondotte all'unità, allo Sfero, l'universo omogeneo, il dio [cfr. fr. B 31]:
«d'ogni parte» uguale a se stesso. [fr. B 29; da notare l'affinità di
linguaggio col Goriziano] [... ]nei compatti recessi di Armonia sta saldo lo
Sfero circolare, che gode della solitudine che tutto l'avvolge. [fr. B 27]
Quando invece predomina l'Odio, si ha la disgregazione assoluta, la disarmonia
e il conflitto, il «vortice». «Nell'Odio [tutte le cose, le loro radici] sono
tutte diverse di forma e separate» [B 21, v.7]: all'inizio del prevalere della
Contesa sull'Armonia, «alla terra spuntarono molte tempie senza collo, e prive
di braccia erravano braccia nude, e occhi solitari vagavano senza fronte».
Questa "anarchia" delle membra, che suscitò parecchie ilarità anche
tra i contemporanei di Empedocle, vien quasi riprodotta da M., in forma
aneddotica, nel bizzarro dialogo tra l'io e il piede [PR 160-163]. Ma altre
simili situazioni si riscontrano in pagine, altrettanto importanti, del lavoro
accademico [almeno PR 16] e del Dialogo della salute. In particolare in
quest'ultimo: Rico: Ora la bocca non lavora più per il corpo ma lavora per sé,
l'occhio non considera più le cose vicine e distanti a difesa del corpo ma si
dà alla pazza gioia per il proprio gusto, così l'orecchio, così il tatto, le
membra a lor volta rifiutano la fatica, e ognuna per quanto sa e può ricerca e
moltiplica quelle cose che le facevano piacere prima nel servizio del corpo -
ora che hanno fatto sciopero - e ognuna le ricerca per sé. - [D 49]. Nella
situazione contemporanea, caratterizzata dal predominio assoluto della
Rettorica/Contesa, «la mala cupidine della vita [...] ha fatto perdere ogni
consistenza» a quel «nucleo di disposizioni organizzate» ch'è il nostro corpo:
«il corpo se consiste per la coesione delle molecole, perduta la solidità si
versa liquido sulla superficie del suolo e fitra in ogni fessura [...]. Noi
diciamo del gaudente che è un uomo senza solidità; i nostri padri dicevano che
liquescit voluptate » [D 50-51; corsivi di M.]. In questa condizione, «la fame
insaziata perdura pur sempre: e la sua legge è il godimento: e ancora le
singole parti si disgregano nei loro elementi chimici più piccoli più piccoli
[sic]: che ognuno vuol vivere per sé. L'individualità si dissolve infinitamente:
e infinitamente fugge il piacere. -» [ib.]. «Ma avviene uno strano fatto:
quella dolcezza che c'era prima non c'è più poiché apparteneva al corpo e alla
sua continuazione: ognuna delle parti prova delle amare delusioni che
minacciano di guastarle la festa » [ib.]; e «chi ha perduto il sapore delle
cose è malato » [D 46]. Eppure, in questa confusione disordinata, il «dio
pudico» del piacere assicura una certa consistenza: Rico: lo credo che egli [il
dio] abbia a mano ogni disposizione del corpo e tutta la varietà delle cose. E
benevolo al corpo, egli metta nelle cose che gli sono utili una luce, e la
faccia brillare fin quando la cosa è utile - e poi la spenga così che la cosa
resti oscura all'animale che ne è sazio. [D 42-43] Questo «dio sapiente spegne
la luce quando l'abuso toglierebbe l'uso», assicura una sorta di omeostasi
all'organismo, ne scongiura la dispersione, lo fa continuare a vivere come
individualità: da questo principio di equilibrio (accenno di Armonia), che ci
assicura una consistenza per quanto falsa ed illusoria, si spiega il filo
d'Arianna che può condurci alla vera consistenza, quella della Persuasione,
Armonia eccellente. Il meccanismo sarà, almeno nelle modalità, il medesimo:
«togliere l'uso» delle cose attraverso il piacere, vanificare la forza
rettorica del desiderio, perché «più il vano chiede e più bisognoso si rende»
[D 58]. AI contrario, il vero piacere giungerà al Persuaso «dalla sicurezza
interna della pace» [D 66], quando le cose più non «ci avranno» [cfr. D 38-39].
Questo filo di Arianna, che abbiamo ipotizzato nel Dialogo, si fa decisamente
manifesto nelle parole di M. nel suo piccolo ma densissimo saggio sul
Prediletto punto d'appoggio della dialettica socratica del 1910, anno della sua
morte, e dunque espressione ultima del suo pensiero.” Riportiamo per intero il
passo, data la sua estrema importanza, a questo punto: L'unica via di chi
permane è la sua forza. La sua forza di non esser schiavo nel futuro, di tener
raccolta nel presente la propria vita. Socrate non può che appellarsi a quello
che ognuno può aver sperimentato della propria forza, o che almeno conosce indubitatamente
necessario, della quale a ognuno son noti gli effetti, e della cui mancanza a
ognuno noti i danni. Ed è quella che in rapporto al giro finito dei bisogni
elementari, concreti e vicini al nostro corpo, si manifesta cminarli e tenerli
nascosti, ognuno col criterio della salute del tutto. La forza colla quale uno
insegna alla sua bocca a starsi contenta a quello che è conveniente al bisogno
del corpo, e a non correre nel tempo sempre nuove cose mangiando, perciò che la
gola ribelle le finga l'ultima felicità sempre via nel prossimo boccone. Per
questa forza che la maggioranza degli uomini ha, il loro corpo è un corpo. E
quello e questo vicini a ognuno!®, «'Enucleando' il senso e i modi di questa
vita elementare, Socrate ha modo di portar vicina la vita lontana [...}>:
«egli dà valore alla salute dei bisogni elementari solo come analogia del
bisogno della persuasione »'°9 [significativo corsivo di M.]. Alla luce di
quanto detto, troviamo incredibile come anche la critica più attenta -
alludiamo soprattutto al Campailla e alla Raschini - non abbia sviluppato a
sufficienza questa "dritta" che il filosofo goriziano ci consegna in
questo importante scritto; noi siamo invece d'altro107 La redazione cui si fa
riferimento nella nostra analisi e nelle nostre citazioni è quella contenuta
nell'edizione curata da Gian Andrea Franchi, per i tipi dell'Agalev, 1988;
ovvero, le pagg. 95-100. 108 Ib. pag. 97, come quella appena successiva. 109
Ib, pagg. 97-98-99 passim. avviso, e cerchiamo di trarne coerente sviluppo,
approfondendo ancora il parallelismo con Empedocle. Dunque, c'è analogia tra il
bisogno elementare e il bisogno della Persuasione: è come se, in tempi magri,
un'immagine sbiadita della Persuasione sopravvivesse nella forza che sottende
all'equilibrio omeostatico (chimico-fisiologico) del nostro corpo. Ancora
Plutarco, che si sta rivelando anche agli esegeti moderni come uno dei più
validi interpreti di Empedocle, ammette che i due principi cosmici dell'Armonia
e della Contesa si riflettono in certo modo, secondo il filosofo agrigentino,
in ciascuno di noi: «ciascuno di noi, nascendo, è preso e guidato da due
destini e demoni [... ]10: cosicché, accogliendo la nostra nascita i semi di
ciascuna di queste affezioni e per ciò stesso avendo molteplici anomalie l'uomo
assennato si augura bensì le cose migliori, ma si aspetta le altre, e di
entrambe si serve evitando l'eccesso»!!!. Certo, evitando l'eccesso. Perché un
eccesso di Armonia è foriera di morte almeno quanto un eccesso di Contesa. Nota
Aristotele: «...] la Contesa è causa della corruzione non meno che della realtà
delle cose; similmente neppure l'Amicizia è la causa della realtà delle altre
cose, poiché le distrugge raccogliendole nell'uno»'!7. L'Armonia porta vita,
attraverso un processo prima di "distinzione", quindi di "ri-
compattazione" degli elementi dalla dispersione discorde; ma porta morte,
perché un suo eccesso fa ricadere a sua volta gli elementi in un'omogeneità
letale''° ch'è propria dello Sfero (proseguendo nel parallelismo, la
Persuasione conduce alla vera consistenza, alla vera vita; ma, a sua volta,
raggiunto il suo apogeo, il suo appagamento, coincide con la morte, perché - in
quel punto - la vita perde "il suo esser vita", che coincide proprio
col conatus, con la deficienza). Di contro, la Contesa conduce alla morte,
perché distrugge la consistenza assicurata dall'Armonia; ma porta anche vita,
dato che promuove la distinzione degli elementi (delle radici)
dall'indistinzione dello Sfero, del dio (la Rettorica, al suo apogeo, per M. fa
/iquefare il nostro corpo, nella dispersione puntuale del piacere; eppure essa
assicura la vita, che consiste nel retto conatus verso la Persuasione: come
detto, c'è analogia tra il bisogno elementare e il bisogno della Persuasione).
10 "{...]la dea Ctonia e la dea Solare dall'acuto sguardo a Discorde
sanguinosa e l'Armoniosa dal grave sguardo, a Bella, la Brutta, la Veloce e la
Lenta a Vera Amabile e l'Oscura dai neri capelli" [fr. 122] 11 Plutarch.
de trang. an. 15 pag. 474 B, come recita l'edizione | Presocratici, cit., pag.
413, in cui è contenuto il riferimento. 12 L'appunto è volto criticamente all'
"incoerenza" di Empedocle, ma non per questo motivo c'interessa.
Inoltre, perché a nostro parere più consona all'atmosfera del nostro discorso,
preferiamo questa traduzione di Metafisica B 4 1000b 10 sgg., contenuta in |
Presocratici, cit, pag. 344, alla corrispondente traduzione di G. Reale,
nell'edizione della Metafisica da lui curata per i tipi della Rusconi [1993,
pag. 113], che è pure l'edizione che teniamo presente nella nostra tesi. 113
Letale, perché compromette il principium individuationis. Quindi, sia per il
filosofo goriziano che per quello agrigentino Duplice è la genesi dei mortali,
duplice è la morte: l'una è generata e distrutta dalle unioni di tutte le cose,
l'altra, prodottasi, si dissipa quando di nuovo esse si separano. [fr. B 17,
vv. 3-5] Entrambi, quando parlano di vita e di morte, si rendono ben conto che
« è giusto chiamarle [così], ma anche io parlo secondo il costume» [fr. 9, v. 5].
Per entrambi si tratta di definire esattamente il senso opportuno delle parole,
e di adagiarsi solo per comodità sul loro senso comune. Per entrambi, ancora,
si tratta di tracciare un difficile equilibrio (l'equilibrio del falco) tra le
due facce bifronti dell'Armonia e della Contesa, della Persuasione e della
Rettorica: per entrambi, nel «retto discorso» [fr. 131, v. 4] sono unificate e
armonizzate nell'unità, ad opera dell'Amicizia, le cose divise dalla
Contesa." Il difficile equilibrio si gioca tra Phila e Neikos, ed in
questo equilibrio consiste il principium individuationis che concretizza la
sostanza informe nell'attualità dell'individuo, altrimenti irrealizzabile
nell'incongruenza discorde o nell'omogeneità armonica «avvolta dalla
solitudine». Empedocle, tuttavia, avverte per quest'ultima condizione una sorta
di nostalgia (e si rammenti la nostalgia di Itti per il mare): come visto,
l'uomo per lui è come un esule cacciato da un mondo perfettamente armonico ed
omogeneo (alla stregua di un'età dell'oro), e deve perciò rassegnarsi a vivere
nella realtà dei fenomeni che nascono e muoiono: similmente, nell'individuo
rettorico (anch'esso «bandito da dio») sopravvive una non ben definita
aspirazione per una condizione edenica di completezza, che non si rassegna, ma
che si svia in un desiderio inautentico di appagamento, sbiadito ricordo di
quella completezza, come l'amore è sbiadito ricordo della condizione androgina
nel noto dialogo platonico. Empedocle, inoltre, condivide con Eraclito e
Parmenide (e M. con tutt'e tre) la polemica contro il sapere comune e
superficiale, che disdegna la verità dello Sero, si accontenta delle multiformi
apparenze delle cose e non perviene ai fondamenti dell'Autentico: gli uomini
(che si mettono in «posizione conoscitiva», direbbe il Goriziano) sono come
bambini cui sfugge il significato ultimo delle cose. Ed una delle espressioni
più alte di questo Autentico è la consapevolezza, che dovrebbe essere una delle
fondamentali conquiste umane, di una consustanzialità che attraversa, senza
soluzione di continuità, tutti gli enti: proprio l'identità delle cause che
regolano le trasformazioni naturali fa dell'universo un'unica comunità dove
tutti gli enti, viventi e no, coesistono allo stesso titolo, e dove tutti gli
enti partecipano sia degli aspetti divini o eterni (le radici, Amicizia e
Contesa) sia degli aspetti (apparentemente) transeunti (i fenomeni): 114 Cfr.
Ippolito, ref. VII 31 pag. 261, come recita l'edizione | P resocratici, cit,
pag. 415, in cui è contenuto il riferimento. similmente, nella prospettiva che
abbiamo adottato, M. - nella sua tesi - allarga la sua dicotomia
Persuasione-Rettorica a tutto il mondo delle cose che esistono: il sasso,
l'idrogeno e il cloro'', etc., vivono in una condizione rettorica ed aspirano
ad una condizione persuasa non meno che l'uomo. Ora, avviandoci alla
conclusione di questo complesso confronto, assicuriamo che, ovviamente, non c'è
in noi l'intenzione di adagiare la prospettiva M.iana su una matrice di ingenuo
"naturalismo dinamico": tuttavia, ribadiamo che questa è altresì una
sfaccettatura non secondaria, per quanto interpolata, della sua Weltanschauung,
almeno stando al suo lavoro accademico (già meno nel Dialogo, praticamente
assente nelle Poesie e nelle lettere). E con Empedocle egli ha più che punti di
contatto: ha punti di incontro. Nei presupposti: il filosofo d'Agrigento, al
pari del Goriziano, è ben conscio che le cose che si appresta a dire «non sono
vedute né udite dagli uomini né abbracciate con la mente» [fr. 1, vv. 6-8; si
tenga a mente l'esordio della Persuasione]. E punti d'incontro non meno, anzi
soprattutto, nell'aspirazione finale: ch'è quella, in Empedocle, di uomini che
tra gli immortali abitando e mangiando delle angosce umane non [saranno] più
partecipi, [bensì] indistruttibili [fr. 147]; di uomini «digiuni di colpa »
[fr. 144], che aborriranno infine «l'intollerabile Ananke» [cfr. fr. 116] e che
infine abiteranno di nuovo un mondo in cui: [... ]erano tutti mansueti e
benigni nei confronti degli uomini fiere ed uccelli, e la benevolenza brillava
[fr. 130] Ovvero, tradotto in linguaggio M.iano, di uomini che abbiano
raggiunto la vera consistenza, assisi allo stesso banchetto al pari degli
immortali [gli uomini che si danno da sé la salvezza = gli dèi], in un mondo in
cui il rapporto tra gli enti sia quello di un reciproco donarsi, spontaneamente
(e si ricordi il valore dell'u/tro). Volendo davvero concludere, un appunto che
giunge /ast but not least è singolare come, a fronte di tutto questo, in
Empedocle sia individuata, già dai suoi contemporanei, la nascita, anche se non
ufficiale, della téchne retorica: suo allievo sarebbe stato addirittura uno dei
sofisti più ferrati e temuti, Gorgia. Allo stesso modo, nota già da subito M.,
la lezione persuasa di Socrate produrrà cattivi discepoli: Platone e
soprattutto Aristotele. Ma la questione del "cattivo apostolato" -
strano e triste destino della Persuasione - sarà affrontata in modo più
opportuno e approfondito nel paragrafo dedicato all' «educazione corruttrice»
nella nostra analisi del sistema rettorico. 4d) La Persuasione "al
bivio": l'incontro di Parmenide e Cristo. La dottrina assomiglia a due
strade. Una attraversa un grande fuoco, l'altra attraversa un grande gelo. Come
comportarsi? Si scelga la via di mezzo se si vuole sopravvivere. Proverbio
cinese. La Persuasione, negli uomini''5, è una verità, una testimonianza
trasversale: attraversa la storia dell'umanità, rapprendendosi in individui non
incasellabili in specifiche categorie storiografiche, la cui discriminante non
è il tempo, la collocazione geografica o il credo religioso e filosofico e
politico. La Persuasione, pur nella sua saldezza e nell'espressione cristallina
e insieme inafferrabile del suo contenuto, pur nell'attimo ineffabile che la
"17 Il vir è sostanzia, percorre il tempo e il mondo degli uomini, ad esso
"si adatta Qohelet: vive, o sopravvive, nella comunità rettorica in un
drammatico (ma il dramma è l'agire, c'insegna l'etimologia greca) stato di emulsione!',
mentre aspira alla comunità vera, alla agathon philia. Quest'ultima si realizza
con la rottura dei labili, ovvero falsamente saldi e sicuri, legami della
Rettorica, nella costruzione di legami nuovi, più profondi ed autentici: il vir
è venuto infatti a «separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la
nuora dalla suocera» [Matteo 10, 35]!!°. Il suo "adattamento",
dunque, non è compromesso: la Persuasione è intransigente, severa, anche se
talora più con se stessa, che con gli altri uomini. Essa dice al suo vir (il
vir dice a se stesso): «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie
con me disperde» [Matteo 12, 30]. Non ammette repliche, non ammette cedimenti o
dialettiche. Non concede appelli o ripensamenti. Il Persuaso non tentenna: è
forte come la roccia, risoluto come un dio. La sua forza non è violenza, il suo
coraggio non è temerarietà: il suo messaggio è di amore, ma il suo amore non è
rassegnazione o condiscendenza al male; il suo amore conosce lo sdegno, è
capace di ira, perché è sentimento dirompente, è un sentimento che spezza: il
115 Cfr. PR 13-14; l'idrogeno e il cloro "si suicidano" nell'acido
cloridrico, scorgendo nella valenza l'immagine (inautentica) della loro
reciproca persuasione. 116 La specificazione, a questo punto, è d'obbligo:
infatti finora, nel capitolo, abbiamo inteso la Persuasione (e la Rettorica)
come matrice strutturale dell'intero universo: in questo paragrafo, il discorso
s'incentra nuovamente sugli uomini, ovvero, sul problema dell'uomo, nella
misura in cui l'uomo è (o quantomeno, dovrebbe essere) quell'ente che - dato il
suo orizzonte di consapevolezza e comprensione - si "apre" già sempre
(o meglio, dovrebbe guadagnarsi già sempre), per una via privilegiata,
l'accesso all' "essere persuaso". 17 Ma sul senso di questo
adattamento, che non consente malleabilità ma che invoca la
"durezza", cfr. la nostra integrazione sulla "variante
flessibile" (leopardiana) della Persuasione. 18 Un termine
"tecnico", mutuato dall'ambito chimico-fisico, ci aiuta a rendere più
chiaro il concetto: come è noto, ‘emulsione indica la mescolanza di due liquidi
non solubili tra loro, uno dei quali è disperso nell'altro sottoforma di
minutissime gocce [definizione del diz. Garzanti] 19 Nel'affrontare questo punto,
assumiamo ad esempio assoluto di Persuasione il Cristo, il vir per antonomasia,
secondo le conclusioni dello stesso M.. Per le citazioni che seguono,
privilegiamo la fonte del Vangelo di Matteo, data l'importanza che tale Vangelo
assunse, come visto, nell' "îÎmmaginario persuaso" del Goriziano. vir
scaccia i mercanti dal tempio, perché il tempio è divenuto una «spelonca di
ladri» [Matteo 21,13]. Egli dimostra zelo per il tempio, per la propria casa:
quello zelo lo divora [Giovanni 2,17]. «Ma egli parlava del tempio del suo
corpo» [Giovanni 2,21]. Il vir si mantiene puro per il sacrificio di se stesso,
perché il sacrificio acquisti più forza e significato. Fino a quel momento, la
sua è «un'intenzione morale in lotta». Infatti, il suo grido, seppur non di
vendetta, è tuttavia un appello alla lotta, a non cedere: «Non crediate che io
sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma
una spada» [Matteo 10, 34], dice il vir. Il Cristo - il Persuaso'” - dunque, ci
pone dinanzi ad una perentoria dicotomia esistenziale: una ed una sola è la via
della Persuasione; tutto il resto appartiene alla Rettorica. Tertium non datur.
La soluzione che ci suggerisce il proverbio cinese di cui sopra (di «Scegliere
la via di mezzo se si vuole sopravvivere») non è messa in minimo conto: è
valutata come situazione di compromesso, di malafede. C'è una sorta di ostinata
coerenza che accompagna la Persuasione, dall'inizio alla fine della sua
testimonianza. Ora, è proprio su questa comune terra di confine che M.
allestisce l'originale incontro di Cristo con Parmenide: in modo significativo,
il vertice (o uno dei vertici) della genuina speculazione greca si sposa col
vertice della più grande testimonianza della Persuasione in assoluto, nella
comune forza e perentorietà del loro autaut'’’. E' solo il caso di accennare
che, anche qui, come sempre, siamo in presenza di una "lettura
forzata" condotta dal Goriziano sul filosofo di Elea: per la sua
comprensione, noi siamo costretti a seguire questa eterodossia. L'impressione
che ne ricaviamo è che M. "corregga" (se ci è lecito esprimerci così)
l'assunto parmenideo in direzione cristiana, anzi cristologica, ovvero
etico-esistenziale; e che, viceversa, corrobori l'ipostasi cristologica con
apporti del "metodo" parmenideo, ovvero assicurando a quell'ipostasi
una "piattaforma" logico-ontologica. Il testo parmenideo (dunque
particolarmente caro a M., come testimoniano le citazioni che ne trae, non solo
numerose, ma anche cruciali) esordisce con la narrazione di un viaggio compiuto
attraverso la «via del dio»: ogni contorno fisico sfuma però subito
nell'allegoria: l'Eleate è scortato dalle figlie del Sole e condotto al
cospetto della dea Giustizia, l'Immutabile Legge del cosmo, la verità che si
svela. E' proprio la Giustizia che, «benevolmente », rivolge la parola a
Parmenide: O giovane, [...] 120 Cfr. la diapositiva E [Volto di Cristo e
Schizzi di alberi] nel supporto iconografico. 121 Per una sorta di automatismo
mentale, si tende ad associare l'aut-aut M.iano all'omologo conio
kierkegaardiano: ma è solo una questione, come dire, "sinonimica":
l'aut-aut del filosofo danese non è indicativo di una scelta (essendo la vera
scelta quella della fede), non è neanche, a ben vedere, un "o-o": a
rigore è un "né-né": né vita estetica, né vita etica. In Kierkegaard,
tertium datur. Il terzo termine è, appunto, la vita nella fede. salute a te!
Non è un potere maligno quello che ti ha condotto per questa via (perché in
verità è fuori del cammino degli uomini) ma un divino comando e la giustizia.
Bisogni che tu impari a conoscere ogni cosa sia l'animo inconcusso della ben
rotonda Verità [alethéie] sia le opinioni [dóxai] dei mortali, nelle quali non
risiede legittima credibilità. [B 1 v 24 e vv. 26-30]. Dunque, in modo rigoroso,
ci sono due e solo due "vie", ovvero possibilità, aperte
all'esistenza e al pensiero; il filosofo "venerando e terribile" le
presenta come rivelazione di una dea, da ritenersi quindi espressione
adamantina e necessaria della verità: l'una consistente nel pensare ciò «che è
[estin] e che non è possibile che non sia», l'altra consistente nel pensare ciò
«che non è [ouk estin] e che è necessario che non sia»; e appena dopo aggiunge,
sempre per bocca della dea, che la prima via è quella conforme a verità, della
quale dunque si deve essere persuasi [«è il sentiero della Persuasione»],
mentre la seconda è impercorribile, perché «il non essere» [to me eon] non può
essere né pensato né detto [cfr. frammento B 2 passim]. Quest'ultima è
«impensabile e inesprimibile (infatti non è la via vera)», «l'altra invece
esiste ed è la via reale» [cfr. frammento B 8 vv. 21-22]. Ora, quello che
c'interessa non è tanto indagare l'ontologia rigorosa che segue simili
affermazioni: ovvero, le caratteristiche del "ciò che è" (l'eternità,
la finitezza come perfezione, l'omogeneità, il vincolo cui è costretto dalla
Necessità...) sussunte nella nota immagine della Sfera; anche se sarebbe
istruttivo individuare - ma non è neanche molto difficile farlo - certune
ispirazioni che il filosofo goriziano mutua dall'essere parmenideo per la
definizione del suo "solido" peve’. Quel che ci interessa, piuttosto,
è vedere il legame che viene ad intrecciarsi tra Persuasione e Verità, nel
senso genuinamente greco del termine, tradito nella traduzione posteriore (ad
esempio, già in Cicerone). Heidegger (e forse prima di lui Ortega y Gasset
nelle Meditaciones del Quijote) ci ha insegnato che, in proposito, bisogna far
ricorso ancora una volta all'etimologia per giungere al cuore della questione:
infatti, il termine greco sembra derivare da /anthano che vuol dire
"coprire". Da /anthano proviene Lete, che è il fiume della
dimenticanza, il fiume che copre. Alètheia, con l'alpha privativo, è il
contrario di ciò che si copre: il "non-nascondimento", il
"dis-velamento"'8. Ma in cosa consiste quel "velamento",
che cos'è quell'oblio? Per M. - ed è qui il senso della lettura forzata ch'egli
fa di Parmenide - esso coincide col mondo della Rettorica. La seconda parte
della sua tesi di laurea - la pars destruens - è interamente dedicata appunto
alla "de-costruzione" dell'inganno rettorico, allo smascheramento del
suo dispositivo: la Persuasione si porrà, in quelle pagine, innanzitutto come
"dissuasione" 122 Da confrontare, ad esempio, le affinità tra
espressioni che connotano il dio-Persuaso di M. e i sémata dell'Essere di
Parmenide nel frammento B 7 vv. 7-10 soprattutto. 123 In questo senso, è anche
possibile che, ad un orecchio greco, oltre che al "nascondimento", la
verità si opponesse all' "oblio": così, si spiegherebbe il legame
della Verità con il carattere rivelativo della memoria Imnemosyne], tipico del
pensiero arcaico greco, faro principe d'illuminazione per il Nostro. (il valore
dell'alpha privativo), come verità negativa, o meglio, che si evince dalla
negazione dialettica e puntuale della Rettorica, negazione giocata nel concreto
della vita e del mondo‘. Eppure, l'interpretazione M.iana di Parmenide non è,
poi, del tutto gratuita o fuori luogo: a ben vedere, lo stesso Eleate autorizza
lo slittamento del discorso in prospettiva etica: in lui, l'opposizione tra
"essere" e "non essere" (ovvero tra ragione e sensibilità)
è così radicale che su di essa egli fonda la distinzione tra due tipi di uomini
- appunto, quelli che seguono la ragione e quelli che si fermano ai sensi: il
frammento B 6 ne è prova palese; gli uomini rettorici - ci dice M. -
assomigliano molto da vicino alla «gente dalla doppia testa» stigmatizzata da
Parmenide: uomini che [... ] vengono trascinati insieme sordi e ciechi,
istupiditi, gente che non sa decidersi, da cui l'essere e il non essere sono
ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il
cammino. [B 6, vv. 7-10 J15. Lo slittamento di cui sopra viene sostanziato con
l'opportuno innesto della lezione evangelica: la dicotomia essere/non-essere si
svincola dalla strettoia ontologica per ampliarsi nell'apertura etica, secondo
la testimonianza del Cristo: le due vie annunciate da Parmenide divengono
esclusivamente, o prima di tutto, alternative esistenziali: l'accesso ad esse
si avrà attraverso le due porte indicate dal vir: 124 Questo aspetto è stato
colto solo in parte da buona parte della critica, e qualora lo sia stato, è
stato a nostro parere non esattamente interpretato: Maria Adelaide Raschini,
che rappresenta l'approccio della critica cattolica al Nostro, ne desume ad
esempio una sorta di «antropologia teologica negativa» (o addirittura «teologia
antropologica», per cui vd. oltre) bic, in M. A. M., La disperata devozione,
ed. Cappelli, 1988, pag. 138], facendo del Goriziano un redivivo
Pseudo-Dionigi. L'appunto, dicevamo, per noi non è corretto: M., come stiamo
tentando di dimostrare nella nostra analisi, non appronta una
"definizione" per viam negationis della Persuasione: tutt'altro, ed è
qui proprio la sua (e la nostra) difficoltà. E' altrettanto vero, comunque, che
la "monadologia persuasa" del filosofo goriziano acquista più senso e
più nitidezza nello scontro, nell'agonismo con la Rettorica, perché si cala dal
piano astratto a quello esistenziale. E' bene ribadire, anche se in nota,
questa nostra posizione, e proprio in contrasto con le conclusioni della
studiosa su citata: la Raschini, infatti, coerentemente alla sua impostazione,
compendia e sottolinea che «l'uomo della persuasione si afferma del tutto
negativamente, attraverso la pura negazione di tutto ciò che è finito.
Rifiutato il mondo, nessuna categoria mondana gli vale più, vuole per sé la
dimensione teologica; tuttavia, avendo respinto, di questa, il contenuto di
verità, la dimensione teologica si trasforma per lui nell'atto assoluto del
negare: teologia antropologica costruita per negazioni, nella quale l'esigenza
mistico-panteistica viene soddisfatta dal puro e assoluto atto del negare».
[ib. pag. 125; corsivi dell'autrice]. Come si può vedere, ci troviamo agli
antipodi: per noi, il momento della negazione in M. non è assoluto, ma
funzionale (ovvero, condizione mediatrice, e non conclusiva) all'affermazione
positiva dell'ipostasi persuasa; un'ipostasi che non nega, pregiudizialmente,
ogni "finito", ogni "categoria mondana" in toto, ma solo quelle
attinenti alla falsità ed al dominio rettorici: in questo non c'è alcuna
aspirazione teologica, ultramondana, o peggio anti-mondana, come sembra
trasparire dai giudizi della studiosa cattolica; tutt'altro: se il vir nega il
mondo rettorico (la precisazione è sempre d'obbligo), lo fa in funzione di
un'apocatastasi del mondo umano stesso in una società "globale"
(diremmo oggi) persuasa, di cui l'amore e l'armonia riusciranno ad essere le
sole leggi. E' questa la potenza, e l'utopia positiva e "programmatica",
del messaggio M.iano, come stiamo affermando - sempre, e con insistenza - nel
corso del nostro lavoro. 125 Versi importanti che il Goriziano, non a caso,
pone ad epigrafe del Il capitolo del suo lavoro accademico: L'illusione della
Persuasione [PR 11]. Chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto... Entrate per
la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla
perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è
la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che
la trovano [Gesù, nel Vangelo di Matteo 7,1-14]. L'inclusione degli uomini
nella agathon philia, nella ekklesìa persuasa, avverrà attraverso l'accesso non
privilegiato della «porta stretta», il che vuol dire che comporterà una tempra
ed un sacrificio "sovraumani", cioè al limite delle possibilità
dell'uomo: l'uomo nuovo dovrà rinunciare alla sua condizione sicura, dovrà
rimettere in discussione ed esporre al rischio la propria "stabilità"
quotidiana, per aprirsi alla dimensione autentica, all' "attimo
carismatico" della Persuasione. Come vir, l'uomo nuovo vive la sua vita in
profonda relazione con la Persuasione, già immerso nell’eternità che trascende
il tempo nell'attimo della «vita che non si nega», eppure accetta contemporaneamente
di indugiare nel tempo del mondo, nella storia, nella carne, per condividere la
vita degli uomini, per soffrire e "risorgere" con loro, per essere
testimonianza. Nel momento in cui il Persuaso si emancipa dalla sua condizione
umana (rettorica), egli realizza la sua condizione umana autentica, la sua
entelechia come uomo: la Persuasione è, a dispetto di quanto si sia disposti a
credere, la condizione totale dell'uomo, la realizzazione completa e assoluta
delle sue possibilità in atto. «Non ti meravigliare se t'ho detto: dovete
nascere di nuovo. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di
dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» [Gv 3,7-8]. Il
fatto paradossale è che per conquistare questa sua autenticità in atto,
espressione piena ed estrema delle proprie potenzialità, l'uomo deve
attraversare il golgota che conduce sulla, o che coincide nella, via della
Persuasione '?9. Già solo da questo punto di vista, dunque, già solo nel suo
accostamento a Parmenide, la proposta di M. dovrebbe essere costantemente
ammirata come esempio di un pensiero così rigoroso e coraggioso da non fermarsi
neanche di fronte alle affermazioni più "assurde" e contrarie
all'esperienza, neanche di fronte al confronto con i "grandi". In
effetti, l'apporto parmenideo, nella prospettiva del Nostro, non si fermerà
alla considerazione di una possibilità esistenziale vera, e non filistea, o
rettorica; le intuizioni del filosofo di Elea, svolte con lucida logica
deduttiva a partire dal paradosso dell'Essere che soltanto ha diritto di
essere, coinvolgeranno anche la componente linguistica e
"scientifica" che pregiudica un corretto accesso alla Verità: per
Parmenide il linguaggio e la scienza (entrambi strumenti della doxa) degli
uomini «dalla doppia testa» ne 126 L'eccessivo ricorso al dettato
neotestamentario e il tono "ispirato" di certe nostre espressioni
rischierebbero di denunciare un appiattimento della Persuasione sull'esperienza
cristiana: per scongiurare un simile equivoco, e per ristabilire un certo equilibrio,
riteniamo opportuno ricordare che per M. il vir mantiene una sua forte,
assoluta valenza autonoma, non riconducibile affatto alla testimonianza del
Cristo come figlio di Dio: certo, utilizzare la vita e la parola di Gesù, ci
aiuta - a mo' di scorciatoia e secondo indicazioni dello stesso filosofo - a
diradare la complessità della dimensione persuasa; ma si tenga sempre a mente
il ribaltamento di prospettiva (laica, o - azzardiamo - ebraica) con cui egli
si pone di fronte alla sua preferita prosopopea del vir: per dirla in parole
davvero semplici, il Cristo - quel Cristo "monofisita" che ricordava
Campailla - è soltanto uno della schiera dei Persuasi. E, non per nulla,
condivide la sua condizione con un Parmenide o un Empedocle, giusto per
accennare ai filosofi appena trattati.rappresentano la via artefatta e
deleteria, «il sentiero della notte», la scorciatoia che pretende di assegnare
valore alle cose e agli uomini con la vana sostanza dei nomi, delle
convenzionali parole poste dagli uomini stessi, immagini di concetti, e dunque
copia di copia. La scorciatoia che prende in prestito la genuina aspirazione
della Persuasione: quella di vedere le cose, benché lontane, [...] col pensiero
saldamente presenti [cfr. fr. B 4, v.1] e la vanifica, perché la risolve in un
presente che non è l'attimo del vir, ma l'hic et nunc della storia, dove le
cose - sottratte con la violenza al loro "luogo naturale", alla loro
condizione persuasa - sopravvivono nelle ipostasi rettoriche di ma falsa
consistenza, nelle maglie di relazioni logiche e linguistiche che garantiscono
solo una corrotta permanenza, un'illusione di permanenza e autonomia. Le cose,
e gli stessi uomini, divengono - direbbe Heidegger - semplice-presenza, oggetti
a portata di mano [vorhanden]. Una situazione di hybris, determinata da una
sacrilega immissione della temporalità e della alterità nella perfezione
sferica dell'Essere, hybris per la quale l'essere [è distaccato] dalla sua
connessione con l'essere [cfr. fr. B 4, v. 2] che per Parmenide è peggio di una
bestemmia. M. svilupperà con fedeltà e coerenza queste indicazioni dell'Eleate:
anche per lui il linguaggio e la scienza (col suo braccio armato, la tecnica)
rappresenteranno le estreme conseguenze del feticismo rettorico per la falsa
permanenza della "cosa" e del "fatto", in un'oggettività
che esercita violenza, perché strumentale e appunto "tecnica". La
loro [i.e. degli uomini rettorici] memoria è fatta di [...] cumuli di
disposizioni che aspettano le forme consuete per riconoscerle; ed essi
riferendovisi con parole non le comunicano, non le esprimono ma le significano
agli altri così da bastare agli usi della vita. Come uno muove una leva o preme
un bottone d'un meccanismo per aver date reazioni, che le conosce per le loro
manifestazioni, per ciò che d'indispensabile gli offrono, ma non sa come
procedono, ma non le sa creare - egli vi si riferisce soltanto con quel segno
convenuto. Così fa l'uomo nella società: il segno convenuto egli lo trova nella
tastiera preparata come una nota sul piano. E i segni convenuti si congiungono
in modi convenuti, in complessi fatti. Sul piano egli suona non la sua melodia
- ma le frasi prescritte dagli altri. - [PR 112; corsivi di M.] Ma la vera
funzione organica della società è l'officina dei valori assoluti, la fornitrice
dei 'luoghi speciali' e ‘comuni’: la scienza. Che con l' 'oggettività' che
implica la rinuncia totale dell'individualità, prende i valori dei sensi, o i
dati statistici dei bisogni materiali come ultimi valori, e fornisce alla
società col suggello della saggezza assoluta ciò che per la sua vita le è
utile: macchine, e teorie d'ogni genere e per ogni uso - d'acciaio, di carta,
di parole. [PR 125; corsivi di M.] Ma approfondiremo la questione a tempo
debito, nel capitolo dedicato alla Rettorica. Qui, quel che ci preme
evidenziare è che è proprio il suddetto nesso vicinanza-lontananza [quello del
frammento B 4] a contessere la trama e l'ordito del lavoro accademico del
Goriziano: quel nesso sembra davvero assurgere a pietra limite del corretto
rapporto delvir con se stesso e con il mondo e il filosofo individua in esso il
perno intorno al quale ruota tutta la sua visione persuasa. L'homo, infatti,
sfalsa la giusta prospettiva tra vicinanza e lontananza del/dal vero, alla
stregua di un binocolo rovesciato: ritiene di allontanare la morte, che sempre
gli è vicina; ritiene di avvicinare le cose, di averle a portata di mano, dando
loro una valenza, una strumentalità che invece è lontana dal loro giusto
valore. La prospettiva distorta dell'ilusoria persuasione ci crea un presente
che è un gigante coi piedi di argilla, dato che si frantuma sotto l'incessante,
sempre incombente premere della deficienza, la quale ci differisce puntualmente
il riposo della (falsa) persuasione, finta nell'appagamento del desiderio di
continuare la vita. Perché non possediamo mai la nostra vita, l'aspettiamo dal
futuro, la cerchiamo dalle cose che ci sono care perché ‘contengono per noi il
futuro', per essere anche in futuro vuoti in ogni presente e volgerci ancora
avidamente alle cose care per soddisfar la fame insaziabile e mancare sempre di
tutto. [D 39] L'uomo rettorico, così facendo, ovvero [...] mancando di sé
stesso nel presente egli si vuole nel futuro - questo egli non può che per la
via delle singole determinazioni organizzate a farlo continuar a voler così
anche nel futuro. Egli si gira per la via dei singoli bisogni e sfugge sempre a
sé stesso. Egli non può possedere sé stesso, aver la ragione di sé, quanto è
necessitato ad attribuir valore alla propria persona determinata nelle cose, e
alle cose delle quali abbisogna per continuare. Ché da queste è via via
distratto nel tempo. - Il suo avvenire alla vita mortale: il suo nascere è nella
altrui volontà; il pernio [sic]intorno cui si gira gli è dato, e date gli sono
le cose ch'ei dice sue. [PR 20] Questa condizione differita il dominus se la fa
scivolare addosso, mentre essa coglie drammaticamente di sorpresa l'homo. La
tecnica retorica preferita dal dominus è la preterizione, perché egli simula
una persuasione che non ha, una lontananza che non ha attinto: in questo, egli
dimostra di avere una «previsione più organizzata a una più vasta vita», ed è
in ciò la sua forza; la debolezza dell'homo è invece nella sua disperata,
vulnerabile, contingente "inesperienza" esistenziale. Ragion per cui,
l'homo si adatterà a strumento passivo di violenza, mentre il dominus si
arrogherà il ruolo di strumento attivo. L'homo, l'«uomo ammaestrato », «è
ridotto a non uscir dal punto colla sua realtà, il suo modo diretto è il segno
d'una data vicina relazione: simile all'uomo che sogna [...] s'avvicina alle
cose lontane per vedere» [PR 113]. Ma egli viene a trovarsi «come il tiratore
inesperto accanto al cacciatore [nella metafora, il dominus]»: [...] è il
debole che vuole affermarsi là dove il forte s'afferma. Ché questi ha la
vicinanza dell'animale lontano nella sua mano e nel suo occhio sicuro; quello
vede l'animale in una lontananza che come non è finita pel suo occhio è
xrtopocperla sua mano: egli ha negli occhi un'incertezza di punti, nella
mano... l'arma. Nella coscienza più vasta la stessa cosa è più reale, poiché
riflette quella vita più vasta. Questa lha di più poiché nella sua affermazione
ci sono i modi della previsione più organizzata a una più vasta vita,
sufficiente a eliminare maggior vastità di contingenze, che ha certa, finita,
vicina nell'attimo una maggior lontananza. [PR 20-21] La stessa filosofia, o
ideologia (nell'accezione davvero larga del termine), sembra offrire il destro
al dominus, escogitare il pretesto di dominio, lo autorizza sostanziandolo di
sapere. La filosofia è la versione umanistica della scienza, è la sua
giustificazione "ideale": questa ci avvicina (falsamente) le cose
attraverso l'esperimento, ci fornisce l'illusione di possederle entro i dettami
razionali della formula; quella ci avvicina (altrettanto falsamente) le cose
"sublimandone" il valore in concetto, il concetto in idea, l'idea in
parola. In questo senso, per M., Platone (il Platone oramai sganciato da
Socrate, il Platone del Fedro, della Repubblica e delle Leggi) è davvero il
padre di tutti i domini, per giunta scalzato da uno ancor più forte,
Aristotele. Quanto il Goriziano scrive a proposito ha una sua innegabile forza
di contestazione e di "smascheramento": Ma la necessità per gli
uomini è appunto il muoversi: non bianco, non nero [come suggerisce l'aut-aut
parmenideo della Persuasione], ma grigio: sono e non sono, conoscono e non
conoscono: il pensiero diviene [la temporalità e la differenza irrompono e
trasgrediscono l'omousia dell'essere]. | dati per sé non sono niente, dicono
gli uomini: noi dobbiamo ora prenderli, considerarli sub specie aeterni,
contemplarli, e pensando andare verso la conoscenza. Il valore, la realtà è la
via: la macchina che muove i concetti: l'attività filosofica [PR 60-61]. Nella
Appendici critiche, l'attacco diviene ad personam, ovvero condotto - volendo
continuare l'espressione del Goriziano - contro il deus ex machina dell'attività
filosofica: Ma Platone ha bisogno d'aver dagli altri il segno della propria
persona, vuol esser per loro il sapiente sufficiente a ogni cosa, e, se non può
dare vicine le cose lontane, ma le cose vicine dice e le chiama lontane -
perché esse pur siano accette alla corta vista del comune degli uomini, e
insieme conservino il nome di cose lontane: di sapienza assoluta. E perciò i
nomi che questa sapienza costituiscono, e che rifulsero di tutta la loro luce
nella bocca del vero Socrate e del vero Parmenide, devono ora per la loro
stessa bocca scendere nel fango a dar bella apparenza all'oscurità [PR 176].
1277 commesso da Platone. Sarà il vira Sarà il vir a riscattare il «parricidio»
di Parmenide ristabilire il giusto equilibrio con le cose, a "riaggiustare"
la prospettiva dialettica di vicinanza-lontananza, a reintegrare l'omousia,
operando quella che già definimmo la sua personalissima "rivoluzione
copernicana" nei rapporti con le «altrui vite» delle cose e degli uomini.
Le cose saranno davvero vicine al vir, vicina la stessa morte, nella loro
accezione autentica, nel loro valore in atto: il Persuaso ridona valore al
mondo, sospende la «relazione sufficiente» con le cose e le sostituisce un
rapporto di comunione in atto, che si realizzerà in un reciproco donarsi ultro:
le cose, potremmo dire, si "ammansiscono"; avendo riconquistato il
luogo naturale che loro compete, acquisteranno nuovo, vero "sapore".
Esse «non ci avranno» più, noi non c'illuderemo più di averle, l'avere stesso
sarà bandito, perché espressione di coartazione: gli uomini e le cose
coopereranno al senso persuaso del nuovo mondo, e la legge sarà quella che gli
uomini, anche oggi, chiamano 127 Cfr. Sofista, 241 d3. C. Mazzarelli - curatore
del dialogo in Platone, tutte le opere, cit. - fa notare che «la ferita mortale
al Parmenidismo è inferta dallo straniero di Elea, uno dei figli spirituali di
Parmenide». Notiamo noi che Platone si è riservato il pudore di non metterla in
bocca a se stesso o a Socrate. («illudendosi d'averli») amore, o armonia. E così
l'essere, per riprendere le espressioni di Parmenide e di Empedocle, si
«ricucirà» all'essere, «il simile col simile», «con legami d'amore
connettendoli Afrodite » [Empedocle, fr. 87]'”. Scrive M.: Ma (ancora una volta
e mille volte!) soltanto se questa vastità di vita viva tutta attualmente,
saranno vicine le cose lontane. Soltanto se essa chieda nel presente la
persuasione, essa potrà reagire in ogni presente con una sapienza così
squisita, ed enunciando il sapore che le cose hanno per lei, costituire la
presenza d'un mondo che poi gli uomini dicano sapere o arte o sogno o profezia
o pazzia a piacer loro [PR 169]. Così, «l'uomo libero gode dell'altrui vita -
poiché tutte [le cose, le vite] egli vede e conosce e ama non per quanto gli
siano utili ma per loro stesse» [D 90]. Il Persuaso avrà «la gioia
dell'esistenza in mezzo a 128 Non a caso abbiamo indugiato sull'analisi di
Empedocle e Parmenide, secondo l'ottica del filosofo goriziano (ci dispenseremo
dall'accordare analoga attenzione ad Eraclito, dato che egli sostanzialmente
condivide con gli altri due, da questo punto di vista, il senso fondamentale
del suo messaggio, che M. fa proprio). Molta critica, infatti, si ostina a
semplificare l'assunto del giovane tesista su posizioni schopenhaueriane o
leopardiane: le pagine di M. si presenterebbero come una parafrasi, per quanto
originale, di motivi analoghi riscontrabili nell'autore del Mondo come volontà
e rappresentazione e del poeta-filosofo recanatese (soprattutto per quanto
riguarda i Pensieri e lo Zibaldone). Ora, non vogliamo certamente negare
l'evidente influenza di queste due ispirazioni (M. lesse di sicuro Schopenhauer
e rilesse e annotò più volte i Canti di Leopardi), come non vogliamo negare il
ripetersi dei motivi conduttori tra i tre autori: la deficienza con la Volontà
(a partire dall'esempio del peso che troverebbe un esempio "siamese"
nel Mondo); la polemica antirettorica con la polemica antilluministica e
antiborghese di Leopardi nelle Operette o nella Ginestra, tanto per far
citazioni ovvie; le medesime riflessioni sulla natura illusoria de piacere,
così tipicamente umana; la conseguente (analoga) concezione della vita come
«pendolo che oscilla tra dolore e noia»; una certa, affine, disperazione
esistenziale in concreto (soprattutto col giovane Leopardi); e via dicendo. E'
de tutto palese che M. provi "simpatia" per questi due filosofi;
altrettanto palesi ne sono i motivi. Tuttavia, per noi, la questione è più
complessa. Cerchiamo di spiegarci: l'orizzonte entro il quale si muove la
riflessione di M. è innanzitutto l'orizzonte greco: la sua riflessione nasce
dalla lettura e dalla intensa meditazione degli autori tragici e presocratici,
e anche di Platone e di Aristotele. M. non solo scrive, ma pensa grecamente. |
punto di partenza è la grecità: in Leopardi e Schopenhauer (nel loro
"pessimismo") egli avrebbe trovato piuttosto un confortante e
corroborante riscontro contemporaneo di una verità che appartiene agli albori
della civiltà tragica, verità consegnata già alle beffarde e ammutolenti parole
del Sileno: «Stirpe misera e caduca, figlia del caso e della pena, perché mi
costringi a dirti ciò che è per te il meno profittevole a udire? Ciò che è per
te la cosa migliore di tutte, ti è affatto irraggiungibile: non essere nato,
non essere, essere niente. Ma, dopo questa, la cosa migliore per te è morir
subito». Ora, il senso del nostro appunto è il seguente: M. non parte dalle
riflessioni di Schopenhauer e di Leopardi, ma arriva ad esse attraverso la sua
consapevolezza greca (ovvero, tragica), si riscopre in esse - si incontra con
esse - sul comune terreno della grecità. E la grecità, nel nostro autore, come
nel Nietzsche della Nascita della tragedia, non è un referente culturale e
storiografico, non è un passato lontano e irrecuperabile: è un modus vivendi
sempre attuale e sempre attingibile. Il Greco, come il Cristo, è l'Uomo par
eccellence, il vir; il popolo greco non è (soltanto) il progenitore, ma
l'auspicabile rendez-vous dell'umanità occidentale, dell'umanità tutta:
Nietzsche conclude il suo capolavoro giovanile con parole di straordinaria
bellezza: « Beato popolo degli Elleni! Come deve essere grande tra voi Dioniso,
se il Dio di Delo reputa necessari tali incantesimi per guarirvi dalla vostra
follia ditirambica!' [...] - Ma un vecchio ateniese, guardando col sublime
occhio di Eschilo colui che così parlasse, potrebbe ribattere: 'Aggiungi però
anche questo tu, singolare straniero: quanto dovette soffrire questo popolo per
diventar così bello! Ora però seguimi alla tragedia e sacrifica con me nel
tempio delle due divinità' » [Nietzsche, Nascita della Tragedia, in Opere,
cit., pag. 187]. L'occhio di Eschilo diviene lo sguardo di M.: attraverso
quello sguardo il Goriziano valutò il mondo, ed accolse chiunque lo
accompagnasse sulla via della Persuasione. Anche Leopardi e Schopenhauer. 129
Facciamo notare che, secondo M.r, il ristabilimento della corretta prospettiva
lontananza-vicinanza è a suo modo anticipata, ma solo in modo molto vago e
inguenuo (come dire: solo per analogia), nell'esperienza artistica: «Una
facoltà potente di sogno è quella dell'artista che vede le cose lontane come
levicine, e perciò le può dare così ch'esse tutte le cose. Gli sono care non
solo le cose vicine e come possano soddisfare un bisogno ma tutte - egli sa
godere della luce del sole» [D 89-90]. Se l'uomo rettorico è «malato », perché
«ha perduto il sapore d'ogni cosa» [D 46], la salus del vir - la sua salute, la
sua... salvezza - al contrario, consisterà nel riassaporare una nuova dolcezza.
Perché la Persuasione, come rivela la sua variante etimologica latina, la più
bella e forse la più vera, è uno stato di dolcezza. Tuttavia, quella dolcezza
appare (apparve a Cristo, apparve a M., appare ad ogni vir) un miraggio, essa
stessa una condizione differita. Oggi la Rettorica domina, e il suo dominio è
sempre più forte e serrato, è sempre più nascosto e plausibile. Siamo ancora in
un periodo di esodo. La "pasqua" della liberazione è rimandata. Il
mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo
non può odiare voi, ma odia me perché io testimonio di lui, che le sue opere
sono malvagie. Salite voi a questa festa, io non vi salgo ancora, perché il mio
tempo non è ancora compiuto. [Giov. 7, 6-8] Nel capitolo sulla Rettorica,
analizzeremo le radici di questo odio e l'incompiutezza di questo nostro tempo,
così come apparvero allo "sguardo eschileo"'*' del Goriziano.
appaiono nella loro reciproca relazione di vicine e di lontane» [PR 113]. Ma,
appunto, quello artistico è un sogno non meno illusorio e fallace del
"sogno" rettorico. 130 Persuasione > per + suav(itattem: condurre
(attra)verso la dolcezza. Già Aristotele, però, intese quella dolcezza come
escamotage retorico, come dolcezza di parole, per attrarre a sé l'uditorio, per
lusingarlo, ed assicurare una posizione vincente all'oratore. Siamo nel cuore
della Retorica aristotelica, per l'analisi della quale rimandiamo al seguito
del nostro lavoro. 131 Cfr. quanto da noi detto supra, in nota 120. Intermezzo.
Notò che essi collegavano le questioni scientifiche con quelle che riguardavano
l'anima, e a momenti pareva che toccassero il punto essenziale, cioè quello che
a lui pareva tale, ma subito se ne allontanavano e s'immergevano nel campo
delle distinzioni sottili, delle riserve, delle allusioni, delle citazioni, dei
richiami alle autorità, e allora gli riusciva a stento di capire il senso del
loro discorso. Considerazioni di Levin, in Anna Karenina La Persuasione non
soggiace ad alcun atto apprensivo, sfugge ad ogni concettualizzazione: è alla
disperata ricerca di una propria, peculiare, semantica, di un «linguaggio
rappresentativo» [Piovani] che ne dipani il velo di Maia. Condividiamo con M.
questa difficoltà, e con M. siamo giocoforza spinti ad una serie di riferimenti
prismatici ed aleatori, che chiamano in causa autori e dottrine, espressioni
artistiche e risonanze filosofiche, anche "alternative", che corrono
il pericolo di franare in pastiche, o quantomeno di mostrarsi quali fili
sospesi ed equivoci, difficilmente riassettabili in un nodo stretto e sicuro.
La cosa sconcertante è che questa situazione di stallo ha insita una sua
ineluttabilità. Socrate medesimo, uno dei vertici assoluti della Persuasione,
in fondo, non trovava risposta al suo ti estì, sciogliendola in un'aporia
esistenziale che trovava esclusivamente nella sacra finitudine dell'uomo la
propria soluzione. Allo stesso modo che per Socrate, tentare d'evincere dalla
scrittura magmatica di M. la definizione "esatta" della valenza del
suo essere persuasi varrebbe press'a poco quanto chiedere ad un credente di
rendere ragione della propria fede. Montale avrebbe risposto: «Non chiederci la
parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
/ lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato
». Eppure, proprio il riferimento alla fede (riferimento da assumere però con
molta cautela, ché può dar adito a pericolosi equivoci) può contribuire a sostenere,
almeno un poco, e seppure in un chiaroscuro di affinità e divergenze, lo
scandaglio ermeneutico che stiamo tentando; sotto questo rispetto, ci
appelliamo alla testimonianza di uno dei cristiani veramente onesti che siano
mai vissuti, Soren Kierkegaard!'*?. In effetti, non sarebbe difficile
riscontrare suggestivi punti di contatto tra il «cavaliere della fede» e il vir
innanzitutto, i due filosofi condividono la polemica contro l'«individuo
sognato da 132 E' assodato che M. non conobbe l'opera di Kierkegaard, anche in
virtù della tardiva diffusione e fortuna che essa ebbe in Italia (e non solo),
data la difficoltà della lingua. Non è improbabile, tuttavia, che il giovane
studioso abbia assimilat elementi o atmosfere kierkegaardiane attraverso la
mediazione e il filtro dell'opera teatrale di Ibsen. [Ma cfr. anche S.
Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pagg. 30-31] Inoltre, si noterà, nel
seguito della nostra trattazione, in particolare nel capitlo riguardante la
Rettorica come specifiche "categorie" kierkegaardiane - l'angoscia,
la disperazione, la scelta, il salto e via dicendo - risulteranno efficaci
strumenti euristici nell'affrontare il complesso discorso della Rettorica
connaturata all'uomo. 133. imbastita in un noto Hegel» - tanto per intenderci,
quello della gustosa scenetta a tavola passaggio della Persuasione [PR 89-91]:
borghese che (notiamo en passant), forte della sua logica ferrea della
sicurezza e dello stato («la botte di ferro», dice il Goriziano), riesce a controbattere
punto per punto, da consumato sofista, le obiezioni, che M. gli propina
cercando invano di farne vacillare la speciosa logica rettorica (invincibile se
affrontata sul suo stesso campo d'azione). Ora, è risaputo l'astio del filosofo
danese contro il sistema hegeliano, tanto che non è opportuno neanche
soffermarcisi; analogamente, M. diagnostica la «copertura
ideologico-teoretica»'°* della società rettorico-borghese proprio nella
hegeliana dottrina dello Stato etico, che trova il suo corrispondente nella
copertura ideologico-giuridica, rappresentata dal Codice austriaco'*. Contro la
pretesa razionale, necessaria e totalizzante di Hegel, che risolveva
l'individuo nei vari momenti dello spirito oggettivo (l'eticità, la vita
politica, lo Stato), Kierkegaard fa valere la dialettica (che non è dialettica)
del paradosso, del singolo, dell'autaut che sfocia nello scandalo della fede;
similmente, all'«individuo cacanico»'°, M. oppone le ragioni del vir,
altrettanto "scandalose", agli occhi della comune ragione. Entrambi -
il cavaliere della fede e il vir - cercano la gioia della propria realizzazione
esistenziale, gioia che, ancora entrambi, sperimentano come paradosso, perché
l'assurdo è che «a felicità eterna di un uomo sia commensurabile con una
decisione presa nel tempo», come scrive Kierkegaard in un bel passaggio del suo
Diario. Costui, analogamente a M.,ascrive la possibilità di attingere quella
gioia ad un atto di coraggio, anche se per lui - ed è qui il discrimine
essenziale - quel coraggio è piuttosto il «coraggio della fede»: «Occorre [...]
un coraggio umile e paradossale per poter ora affermare tutta la realtà
temporale in virtù dell'assurdo e questo è il coraggio della fede», come
asserisce in Timore e tremore. Frase sottoscrivibile da M., anche se l'accenno
pregnante alla fede si mutuerebbe, senza ombra di dubbio, nell'asserzione di
autonomia persuasa, creando un piano parallelo e inconciliabile di valutazione
dell'esistenza umana, seppur accomunato dalla forte esigenza "realizzativa"
del singolo o del vir che sia. 133 Cfr. la diapositiva N [La botte di ferro]
nel supporto iconografico. 134 Cfr. A. Negri, Il lavoro..., cit, pag. 26 135 In
pagine importanti della sua tesi di laurea, nella sezione dedicata alla
Rettorica nella vita, il giovane filosofo fa esplicito riferimento, in nota,
alla Philosophie der Geschichte di Hegel, di cui - ci avvisa - non tradurrà le
citazioni, poiché dispera «di poter riprodurre in italiano il loro ineffabile
callopismatismo » [PR 92-93]; poche pagine più avanti [cfr. 99], un altro
riferimento esplicito, stavolta al codice austriaco, che sancisce/garantisce
(ma il condizionale sarebbe d'obbligo) che «ogni uomo ha per natura diritti già
da sé stessi evidenti alla ragione». Il riferimento è, ovviamente, polemico, di
una polemica che si sostanzia anche e soprattutto nel richiamo reciproco, e non
nascosto, tra il codice e i passi hegeliani appunto citati nelle pagine appena
precedenti. [ma per un'analisi più approfondita, cfr. il nostro capitolo sulla
Rettorica] 136 Cfr. A. Negri, Il lavoro..., cit., pag. 16. 68 Ancora, il
cavaliere della fede (Abramo) soffre l'incomprensione della massa, perché vive
un rapporto speciale con l'Assoluto: appare come un assassino, mentre invece -
a suo dire - egli compie soltanto un sacrificio che gli viene richiesto da Dio.
Il suo è, dunque, un dramma di incomunicabilità, che condivide - ma solo
apparentemente - col vir: infatti, per entrambi, l'istanza realizzativa si
risolve in una ricerca solitaria, l'uno di Dio, l'altro della condizione
persuasa. Tuttavia: analogia di presupposti, ma differenza totale di esiti: al
dialogo "monogamico" che apre il singolo a Dio (gli fa dare a Dio del
"Tu") ma che gli preclude l'orizzonte "politico" («il
segreto della vita è che ciascuno deve cucire la sua propria camicia», recita
una massima kierkegaardiana), l'individuo persuaso - all'apice del suo percorso
difficile sulla via della Persuasione, ch'è l'entelechia etica - preferisce la
relazione plurale. Il che è come dire che lorizzonte etico e politico, la cui
liceità vien prima messa in discussione e quindi definitivamente annichilita
dall'atto di fede, è invece il presupposto essenziale dell'agire persuaso:
l'eteronomia dell'assurdo comando divino di uccidere Isacco viene condannato
dal vir sia in quanto eteronomo, sia in quanto (e soprattutto) lesivo della
dignità, prima che della persona, dell'altro. Certo, quando Kierkegaard scrive
"morale" vuol far intendere l'universale (il Generale) hegeliano:
eppure, il sacrificio dell'altro non ha attenuanti, per quanto l'amore che ci
lega a quell'altro possa superare noi stessi, e quindi valorizzare in maniera
estrema quel sacrificio. Insomma, a fronte della visione
"veterotestamentaria" che ancora avvolge l'assunto kierkegaardiano, e
che lega il credente ad un Dio-che-mette-alla-prova e pretende assoluta
dedizione (il sacrificio di Isacco) in un rapporto di insostenibile
disperazione, M. aggiorna la propria prospettiva - rendendola ancora più
personale - in direzione neotestamentaria, di un (Dio)Cristo incarnato che non
chiede l'altrui sacrificio, ma sacrifica se stesso, in un progetto di
redenzione e perdono. Lo stato di grazia divina raggiunta da Abramo, allora,
perde di senso a confronto dello stato di "grazia umana" di cui il
vir è scrigno e portavoce. O, quantomeno, si pone su un altro livello di senso:
di qui la cautela annunciata. Incomunicabilità, dunque. E' questa vicendevole
«impenetrabilità degli spiriti», come la chiamava Croce, questa impossibilità
di completa osmosi o "simpatia" razionale ed emotiva che sembra
compromettere ogni possibile ricerca (in senso ampio) condivisa, ogni
comunicazione autentica ed integrale con gli altri a riguardo delle proprie
esperienze fondanti: un'impenetrabilità che potrebbe facilmente degenerare in
un'anarchia pericolosa del pensiero e delle verità, ma che allo stesso tempo ci
protegge, non ci rende completamente esposti all'altro, e dunque vulnerabili.
Una comoda corazza rettorica, così avvolgente, così sicura, così esclusivamente
nostra. Il Persuaso avverte il bisogno di svincolarsi da quell'ingannevole
egida, di tentare un punto di incontro, di recuperare un orizzonte
condivisibile, di senso e di esistenza, perchsolo nella comunione con gli altri
si realizza la vera felicità, e non nelle zone di franchigia della Rettorica.
La posta in gioco è immensa: la scommessa è la trasposizione "urbana"
e umana della scommessa di Pascal, e addirittura più avvincente, perché più
pericolosa, essendo in gioco non la felicità in un'altra vita, presunta o vera
che sia, bensì la felicità nel mondo che abitiamo e nell'esistenza che
conduciamo, ché solo essa, qui e ora, ci appartiene '?”. La schiera dei
Persuasi è tale perché ha attinto questa verità: la loro forza è nell'aver
mosso il primo passo verso quell'incontro con gli altri, fondando quel loro
atto nel sacrificio di sé, che è più un donarsi che un sacrificarsi, un atto
gratuito - presupposto ineludibile - che non pretende di essere
contraccambiato, perché conosce e perdona la debolezza e la miseria degli
uomini, e pur accorda loro la fiducia, la persuasione appunto: «l'attività che
non chiede è il beneficio, che fa non per avere, ma facendo dà» [PR 42]. Scrive
bene Eugenio Garin", a questo proposito: «Il consistere [ovvero, la
Persuasione] è veramente il salto oltre il mondo della violenza,
dell'asservimento, verso la vita vissuta non contro, ma con gli altri e con le
cose». 137 Forse questa allusione, velatamente critica, al pari non rende
giustizia alla portata autentica del tentativo di P ascal: che è proprio quello
di conquistare profondità e felicità all'esistenza umana, nel mondo, seppur
fondandola nell' "azzardo" trascendente (cfr. il famoso pensiero 377,
su quell'essere "nobile" ch'è l'uomo, "canna che pensa" [P
ascal, Pensieri a cura di P. Serini, Mondadori], e lo si integri appunto con
l'argomento della "scelta di Dio" [cfr. pensiero 164 "Infinito,
nulla", ib. pagg. 123 - 129]). «170. Obiezione. Coloro che sperano nella
loro salvezza sono per quest'aspetto felici, ma, in cambio, soffrono per la
paura dell'inferno. Risposta. Chi ha maggior motivo di temere l'inferno: chi
ignora se ci sia un inferno e vive nella certezza della dannazione, se c'è,
oppure chi vive nella sicura convinzione che c'è un inferno e, se questo
esiste, nella speranza di salvarsi? » [ib. pagg. 130-131] Diversamente, la
Rettorica della fede (nelle posizioni e nelle istituzioni che ha assunto) ha
sempre e volentieri strumentalizzato l'argomento della "scommessa"
come alibi di una promessa o di una dannazione eterna; alibi volto - in questo
gioco angoscioso - a svalutare la componente "terrena" ed autonoma
del credente, e funzionale ad una migliore "gestibilità" dello
stesso, in coerenza con la propria logica di dominio delle coscienze e
soprattutto dei corpi. 138 E, Garin, Intellettuali italiani del XX secolo,
Roma, Ed. Riuniti, 1974, pag. 98. 139 Due spettri si aggirano nella critica M.iana,
e rispondono ai nomi di Giorgio Brianese ed Emanue Severino; quest'ultimo
elogia la tesi del primo come «lo studio migliore oggi esistente in Italia
sulla filosofia di Carl M.». Brianese, in un passaggio tanto preliminare quanto
fondamentale della sua tesi, scrive: «M. pensa una sola cosa: l'autenticità
dell'esistenza, che egli connota come esistenza "persuasa"; oltre la
quale è la "rettorica", la valenza inautentica dell'esistere, la
quale va smascherata come una situazione che bisogna oltrepassare.
Nell'oltrepassamento della rettorica va rintracciato l'unico dovere al quale
l'uomo è indubbiamente chiamato. E tuttavia M. resta, suo malgrado, prigioniero
di quella che egli crede sia l'inoltrepassabile polarità di persuasione e
rettorica. Prigionia che discende, primariamente, dal permanere tanto della
persuasione come della rettorica all'interno della logica del dominio e della
violenza. Con l'unica differenza che la rettorica è inesa da M. come quella
modalità depotenziata della volontà che non sa conseguire quello che vuole (sì
che il suo possesso è, dal punto di vista della persuasione, una mera illusione
di possesso), mentre la persuasione è quell'atto della volontà che mette in
opera il massimo del dominio concreto (anche se va chiarito sin d'ora che,
nell'atto stesso in cui tenta questa realizzazione, la persuasione attua pure
l'annientamento dell'esistenza). Anche se, esplicitamente, la persuasione
intende porsi come toglimento radicale della rettorica, tuttavia l'atto
decisivo del persuaso non esce dalla logica volontaristica che caratterizza la
rettorica (perché è l'atto con il quale il persuaso vuole il dominio più
vasto); e dunque anche la sopraffazione non può che ripresentarsi come figura
del dominio, della separazione, della violenza, la sua differenza con la
rettorica consistendo unicamente in questo: che essa ottiene ciò che quella
meramente si illude di o D La morte di Cristo e di Socrate vale, così, più di
mille risposte all'interrogativo "che cos'è" il bene. Itti,
l'ipostasi autobiografica di M.'‘°, che si rituffa nel mare, è lo schiavo
platonico che torna nella caverna, sapendo di rischiare il linciaggio, eppure
desideroso, più di ogni altra cosa, di comunicare la verità ai suoi sfortunati
compagni e condividere con loro la gioia di quella conquista, foriera di
liberazione. Il dramma, allora, della fiducia disattesa? Nient'affatto: la
sofferenza è nel cammino di rinuncia di sé che porta all'atto del donarsi, non
nell'atto stesso, o ad esso posteriore: il Persuaso, giunto all'apogeo della
sua consapevolezza, non si aspetta alcuna risposta dagli uomini, non si attende
adesioni, né apprezzamento: è una possibilità che non pone neanche in conto. La
sua gioia non è conseguente al sacrificio, è nel sacrificio: una gioia
paradossale e insensata ad uno spettatore retorico, pago e cinico, e che
invece, nell'ottica persuasa, rappresenta la discesa dall'Iperuranio di
quell'idea di bene, vero e bello che si fa carne e sangue, consiste, permane in
eterno presente, in un attimo che trascende il tempo, nelle persone che la
vivono fino in fondo. Gli dei, e le idee, finalmente, scendono e vivono tra gli
uomini. Attraverso l'attività verso la pace. L'«acerbità» di M., dunque, non è
la mancata refrattarietà filosofica che lamenta il Piovani''; se proprio di
acerbità della Persuasione si deve parlare nel ottenere. Il persuaso, non meno
del rettorico (ed anzi: molto di più di lui) permane saldamente nell'ambito
della volontà di potenza, proprio perché "persuaso" è colui che si
propone la messa in atto della maggior violenza al fine di ottenere il massimo
del dominio: il dominio della totalità. Ed è tuttavia, il persuaso, un
trionfatore che non si avvede dell'essenziale incongruenza esistente tra ciò
che ci si propone di ottenere (il dominio del tutto) e i mezzi messi in opera
per il conseguimento del voluto (il raggiungimento di una unità-identità del
tutto che blocca definitivamente la pretesa stessa del dominio). Donde
l'inevitabile dello scacco e il suicidio». [G. Brianese, L'arco e il destino.
Interpretazione di M.., Abano Terme, Fravisci editore, 1985, pagg. 10-11; |
corsivi sono dell'autore del brano, che ce li ha assecondati] Il nostro
dissenso, rispetto tali conclusioni, è totale: il critico e il suo mentore,
evidentemente, confondono il vir col superuomo nicciano, e addirittura
nell'accezione più becera, quella della vulgata nazionalsocialista. Per una
lettura opposta, e a questo punto salutare, del messaggio M.iano consigliamo il
bellissimo testo di Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa (ora
disponibile nell'ed. Cappelli, 1990). Ma consigliamo anche di cfr. il nostro
appunto sulla "variante" nicciana e le conclusioni alla nostra tesi.
140 cfr, S, Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pag. 85. 141 «Il fatto è che
il ‘caso M.', nella dimensione in cui è veramente tale, non riguarda tanto la
cronaca di una vita interrotta o di una fortuna critica mancata, quanto una
storia da cui ogni storiografia rifugge: la storia dell'acerbo come tale. Per
ogni storia, l'acerbo è il momento germinale di una maturazione che si annuncia
e si attua. Di fronte a vite eccezionali, che si realizzano nell'acerbità
scegliendola o accettandola come unico spazio temporale, bruciando nella
brevità l'interezza vitale, la storia è disorientata. Da un lato deve
registrare una maturità precoce, dall'altro deve costatare i limiti
insuperabili, biologici, psicologici, intellettuali, di quell'acerbità
culturale e biografica. La filosofia di M. è stata poco ‘storicizzata' proprio
per questo: la storia dell'acerbo è poco storicizzabile. [...] Ma non bisogna
farsi troppe illusioni: l'acerbità rimarrà un ostacolo spesso invincibile alla
coerente storicizzazione e continuerà ad invitare, con seduzione tentatrice, a
un'esegesi che trovi sistematica coerenza unitaria anche dove essa non può
esserci» [P. Piovani, M.: filosofia e persuasione, cit., pp. 212-213].
L'autorevole giudizio del Piovani, condivisibile o meno nella sua sostanza, ma
che ammette concessioni anche a dispetto della matrice filosofica che lo fonda,
si riflette purtroppo (ovviamente volgarizzato) nella cattiva "Storia
della fortuna" M.iana. Volendo, solo a facile riprova, dare una scorsa ai
famigerati manuali scolastici, si potrebbe notare come il giovane goriziano
risulti malamente emarginato sia dalla storia ufficiale della filosofia -
evidentemente perché ritenuto "acerbo" come filosofo, e come tale
delegato ai colleghi di lettere - sia dalla storia ufficiale della letteratura
- Goriziano, essa consiste piuttosto nel fatto che egli si lascia prendere
dallo sconforto, da un'amara perplessità che lo combatte e lo sfianca'*: il
Persuaso, di contro, non si sconforta, anzi conforta (il verbo da riflessivo si
traduce in transitivo), oltre e dopo tutto, sempre e comunque. Quell'equilibrio
di falco [PR 68], che è una delle immagini più belle e ardite del vir, M. lo
presentì, lo intravvide, talora gli fu tanto vicino da sfiorarlo, ma alla fine
non seppe attingerlo, o almeno non seppe assumerlo fino in fondo, in tutte le
sue lancinanti e complicate conseguenze! . Quell'equilibrio di falco, ancora,
che è possibile rendere - anche noi un escamotage matematico, come per il
giovane tesista - con un'immagine tratta dalla chimica fisica: quella di
equilibrio dinamico, un equilibrio che si realizza nel trapassare nascosto (non
evidente all'occhio umano), ma reale, di una sostanza entro i confini
dell'altra, e viceversa. E' l'impercettibile, ma costante, trapassare della
vita nella morte e della morte nella vita, come recita il celebre Canto delle
crisalidi [PP 54-55], un'amena litania dai labili contorni orfici'‘*, quasi a
richiamare quell'identico equilibrio dinamico, e perciò tragico nel suo
evidentemente perché ritenuto "acerbo" come scrittore, e come tale
delegato ai colleghi di filosofia. Un rimbalzo di competenze davvero
esilarante. 142 Un esempio per tutti: M. immagina (auspica?) un ritorno di Gesù
tra gli uomini: eppure, si dimostra convinto che, al punto in cui è giunta la
Rettorica, «se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce ma il ben peggiore
calvario d'un'indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta
sufficiente e borghese e sapiente - e avrebbe la soddisfazione di essere un bel
caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi -» [PR 126, in nota]. 143
Ci siamo già ripromessi di non esprimere, per una sorta di rispetto e di affetto,
e per una palese difficoltà oggettiva, alcuna valutazione sul suicidio di M..
Campailla fa altrettanto; ma come lui, se proprio dobbiamo cedere alla
tentazione di esprimere un giudizio, al di là delle interpretazioni
psicoanalitiche o metafisiche che di quel suicidio si sono date, e che ne
impoveriscono sicuramente la portata, ci sentiamo di condividere le conclusioni
del Ranke, il quale ascriveva quell'atto «"non ad un compimento, ma ad un
cedimento" rispetto alla sua [di M.] posizione teorica, ormai vittoriosa
di quell'estrema "rettorica della morte" riconosciuta nel suicidio»
[cfr. S. Campailla, Pensiero e poesia..., cit, pagg. 136-137], Detto per
inciso, «l'avvincene lettura dello studioso tedesco, innestando con energia la
meditazione di M. sul ceppo comune della filosofia dell'esistenza [...], traeva
forza singolare per procurare alla figura del Goriziano quella cittadinanza
internazionale il cui tributo tarda ancora e che tuttavia sembra spettargli di
diritto». [ib.; la lettura cui fa riferimento Campailla è contenuta in J.
Ranke, Il pensiero di Carlo M.. Un contributo allo studio dell'esistenzialismo
italiano, in Giornale critico della filosofia italiana, XLI, 1962, IV, pagg.
518-519] 144 Piero Pieri appronta una bella e dotta analisi di questo testo
cruciale nel capitolo "Il canto delle crisalidi: il ‘pensiero poetante' e
le crucialità dell'ipertesto" [cfr. P. Pieri La scienza del tragico.
Saggio su Carlo M.. Cappelli, Bologna 1989]. L'approccio del critico, che
condividiamo appieno, «intende sottolineare la posizione tematica del testo,
rispetto alle prove del pensiero maturo (La Persuasione e il Dialogo della
salute) e rispetto ad una lirica del 1910 (Risveglio)»: nella lirica, «'la
morte nella vita' e 'la vita nella morte' indicano uno stadio binario
dell'esserci dentro il quale l'uomo vive una preagonica condizione, irrisolta e
malinconicamente rassegnata; uno 'stadio binario' che "mostra i segni di
una condizione generale spossessata di una identità sicura che non sia quella
arida ed elementare della vita depressa dalla inerte polarizzazione della morte
che filtra nella vita, ma non l'affranca, e della vita che si avvolge nel manto
della morte senza che ciò porti al martirio o alla illuminazione » [come
invece, aggiungiamo, avverrà nelle opere e nella vita dell' "ultimo" M.].
«Nel testo appare invece preponderante il concetto indeterminato della vita il
cui palpito di morte non produce tuttavia istanze liberatorie», continua Pieri,
tale che «[...] l'uomo-crisalide indica lo stadio bilicato dell'esistenza non
più larva, ma neppure farfalla di persuasione ». E conclude richiamando
l'immagine "speculare" dell' "uomo-insetto" ontenuta in
Risveglio [PP 69-70] e istituendo una suggestiva comparazione con testi
similari di D'Annunzio, Tennyson, Coleridge, dai quali - presumibilmente - il
sintagma "la morte nella vita" ha avuto la genitura agonismo, che
sussiste tra apollineo e dionisiaco nella visione nicciana della Nascita della
Tragedia. Ma la crisalide nicciana eromperà in una metamorfosi dell' "uomo
nuovo", l'oltreuomo, figlio di una «superfetazione» del dionisiaco;
tentativo di recuperare quel dionisiaco inutilmente perseguito, perché oramai
irrimediabilmente contaminato e dunque privo della forza e della genuinità
(della "bontà') originarie“. Di contro, l'individuo persuaso romperà il
bozzolo della Rettorica, in un'effusione di vita autentica che, a quelle
analoghe, ma deliranti, tessute dal filosofo tedesco, assomiglia evidentemente
(e neanche troppo) solo per la terminologia. Se l'oltreuomo nicciano si brucia
nella rottura di un equilibrio, trtasbordando nel polo dionisiaco, il vir
aspira - come sua completezza - al restaurarsi di un nuovo equilibrio, tra sé e
il mondo. Detto questo, si tratta ora di contemperare una certa sregolatezza
espositiva con una sana iniezione di metodo, in un'amena oscillazione tra i due
livelli che condividiamo volentieri col nostro autore. Due conclusioni
provvisorie: gli esiti possibili del Persuaso autarchico e del vir politico. Il
momento di passaggio tra le due ipostasi. Cominciamo allora col tirare dei
bilanci, anche se provvisori, e cerchiamo d'approntare delle definizioni
icastiche di Persuasione. L'operazione, che può apparire azzardata e che in
certo modo sconfessa quanto pronunciato finora riguardo l'ineffabilità della
Persuasione stessa, ci permetterà di uscire dal vizioso e irritante diallele
persuaso: e le conclusioni stesse si prestano a nuove aperture. Abbiamo marcato
stretto, durante la nostra indagine, il vir, abbiamo preferito accostare la
condizione persuasa partendo dagli esiti ultimi della sua fenomenologia:
nell'epistolario e nelle poesie di M. abbiamo, dapprima, scoperto la
Persuasione nella sua già ri-stabilita armonia con il mondo, nella sua
realizzazione "politica" in Enrico Mreule; una realizzazione, come ci
è parso, non del tutto pacifica, non senza rischio, eppure compiuta: la monade
persuasa che vive la relazione con le "altrui vite" (degli uomini e
delle cose), e viceversa - in un reciproco, spontaneo, donarsi. Con un passo
indietro, poi, abbiamo cercato d'individuare l'apriori di tale condizione:
considerando le prime pagine de La Persuasione e la Rettorica, abbiamo
concentrato la nostra attenzione piuttosto sulla Persuasione prima della sua
Incarnazione, more ispiratrice. Ci piace soprattutto il riferimento a La
ballata del vecchio marinaio di Coleridge, laddove l'ossimoro morte-vita si
innesta sul motivo del mare. 145 Rivolgiamo, contro Nietzsche, ribaltandola,
l'accusa ch'egli stesso rivolge a Socrate, l' «individuo specificamente non
mistico, in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata così
eccessivamente quanto lo è la sapienza istintiva del mistico» [cfr. Nietzsche,
La nascita della tragedia, in Opere Complete, vol. I, ed. Newton, a cura di F.
J esi, pag. 153]. Per un approfondimento della questione, rimandiamo - ancora
una volta - all'integrazione sulla variante nicciana della Persuasione.
geometrico demonstrata. Ovvero, potremmo dire che abbiamo tracciato dapprima un
"nuovo testamento" della Persuasione (il vir come Cristo) e quindi un
"vecchio testamento": il Persuaso come nel tetragramma YHVH, «lo Sono
colui che E'» - nella ‘consistenza’ - o meglio «lo Sono Colui che fa essere»,
«lo Sarò colui che Sarò»!#9. Abbiamo visto, altresì, che alla scandalosa
domanda della Rettorica - «Che cos'è la Persuasione?» - la Persuasione risponde
come Dio alla domanda di Mosè: «Eiè asher Eiè». L'Identità, la tautologia della
Persuasione. Il Nome della Persuasione. Il Nome, l'Identità: il nome è
identità: nell'ebraismo il nome identifica tutte le caratteristiche di un
individuo o di un oggetto: la storia dell'uomo nella Bibbia comincia con Adamo
che dà i nomi a tutte le cose che lo circondano. Ma l'identità deve uscire
dalla sua solitudine, deve calarsi nell'esistenza degli uomini: deve legarsi,
in un certo modo, alla libertà. Il vir nuovo Adamo, darà nuovi nomi alle cose,
ovvero reciderà i legami della «valenza» (il falso valore che le cose e gli
uomini detengono nel falso, reciproco legame dell'eteronomia) e riscoprirà -
per sé e per esse - un nuovo "valore", una nuova dolcezza: le
valuterà per ciò che esse stesse veramente sono, le rispetterà ricollocandole
nel loro luogo naturale: un'armonia di rispetto e comunione si ristabilisce nel
mondo, durante e per mezzo di questo rinominare le cose. L'esodo può condurre
ad una festa. Non a caso, ci sembra a questo punto, il libro della Torah, che
si occupa della "identità" legata alla libertà, non si chiama Esodo,
ma appunto Shemot, Nomi. a) Il Persuaso come «id, in quo plenitudo inhabitat
corporaliter» (risvolto autarchico: la Persuasione acerba). Chi vede J ehovah,
muore! Agnes, nel Brand, citando le Scritture Scrive M. che la Persuasione non
può essere vissuta: essa è «impossibile», è l'Impossibile (c'è chi direbbe il
Mistico), di un'impossibilità che l'uomo condivide con «la vita inorganica
delle cose». Solo il dio è persuaso («ev ouvveyeg il persuaso: il dio»). E, di
contro, «se non è il dio, è il sasso», ovvero l'alternativa esclusiva alla
Persuasione è nient'altro che la Rettorica, e nella prospettiva
"inadeguata" c'è consustanzialità tra sasso e uomo, entrambi
«infinitesimale coscienza della relazione infinitesimale ». Già in questi
accenni fugaci, precedentemente riferiti, M. scolpisce un assunto che abbiamo
ritenuto assiomatico nell'economia della nostra linea interpretativa: il regno
della Rettorica coincide con tutto il regno del reale, del sublunare: esso
coincide col manifestarsi di ogni realtà, e pertiene ad ogni realtà, animata ed
inanimata, consapevole 146 | Maestri ci fanno notare che in ebraico non esiste
il presente del verbo 'essere' perché solo Dio è nel presente. Per M. il vero,
unico presente è quello della Persuasione: gli uomini rettorici vivono
sfilacciandosi nel futuro, o nel passato. ed inconsapevole, razionale ed
irrazionale (con la differenza - come vedremo - che nell'uomo la Rettorica si
complica e si rinvigorisce, diviene "sapida" col "sale della
ragione"). In modo identico, ogni ente sublunare aspira alla Persuasione.
La Persuasione, dal canto suo, è possesso presente e stabile e assoluto della
propria vita; ma «se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se
niente l'aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d'esser vita»:
«la vita sarebbe una, immobile, informe, se potesse consistere in un punto». La
vita stessa della Persuasione sarebbe, dunque, non-vita, «xfioc Biog», vita che
non è vita. Se la vita è mancanza («deficienza») e insieme volontà di
compensare tale mancanza; se questa volontà «è in ogni punto volontà di cose
determinate», e come tale si proietta nel tempo (nel futuro), poiché «la
soddisfazione della determinata deficienza dà modo al complesso delle
determinazioni di deficere ancora»; se la vita è tutto questo, appare chiaro
come la Persuasione («una, immobile, informe ») in questo senso non è vita.
Alla luce di tutto ciò, proponiamo di definire la Persuasione, o meglio il "Persuaso",
come «id, in quo plenitudo inhabitat corporaliter». Adottiamo questa
circonlocuzione latina, mutuandola, e opportunamente flettendola, da Rabano
Mauro a proposito del «caelum caeli»: «Caelum autem iuxta allegoriam aliquando
ipsum Dominum salvatorem significat, ut est illud Caelum caeli domino (Ps. 113,
16), quia Sanctus sanctorum et Deus deorum; ita et iam caelum caeli recte ipse
dicitur, in quo plenitudo divinitatis inhabitat»; e soprattutto, da Agostino:
«Videte, ne quis vos decipiat per philosophiam et inanum seductionem secundum
traditionem hominum, secundum elementa huius mundi et non secundum Christum,
quia in ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter», [Confessioni
111, 4]; e Ambrogio e altri. Da notare che gli autori suddetti utilizzano tale
espressione per tentare una perifrasi di Cristo (e per M., per l'appunto,
Cristo è un Persuaso). Analizziamo il senso dell'espressione: - id, in quo:
preferiamo utilizzare il neutro, perché, secondo la nostra ipotesi di lavoro,
la Persuasione "non è maschile né femminile" [neu+uter, nessuno dei
due], ovvero non è prerogativa esclusiva dell'essere umano, ma appartiene ad
ogni ente sublunare; - plenitudo: il termine oscilla tra "pienezza" e
(nel senso della Vulgata) "perfezione" [temporis, potestatis vel
divinitatis: temporis atque potestatis, la "plenitudo" secondo le
coordinate del tempo e dello spazio, vel divinitatis]; - inhabitat. intensivo
di "habito", a sua volta frequentativo di "habeo": rende
bene, a nostro avviso, la "permanenza pregnante", l' "eterno
presente" che è nel (che è il) Persuaso, tutt'altro che il semplice
presente, ch'è l'attimo esistentivo del nunc. Ora, il risvolto politico (che
poi risvolto politico non è) del Persuaso autarchico ci sembra essere
costituito dall'ibseniano Brand, la traduzione drammaturgica del
"cavaliere della fede" kierkegaardiano (di cui sopra). Ibsen descrive
la vita del suo personaggio come un inferno, seppur la sua aspirazione è la
salvezza. In ciò ci appare chiara la posizione polemica dello scrittore
norvegese di fronte a questo esito estremo (alla turris eburnea) della
Persuasione "autarchica", anche se - in fondo - egli ricopre la sua
creatura di un'aura di sacro, perplesso rispetto (come non associargli, in
questo senso, un'altra figura emblematica, l'insigne sinologo Peter Kien,
dell'Auto da fè di Canetti?). Brand significa "incendio", e «far di
se stesso fiamma» è, per M., l'imperativo poetico dell'agire persuaso. Il fuoco
della predicazione, ma anche il senso di un destino (il nome e l'identità).
Brand è un pastore di anime, una persona che intende riformare l'umanità
attraverso un rigore religioso totale e una volontà inflessibile, che applica a
se stesso e agli altri; è un uomo di fede estrema, di una religiosità tutta
sua, in cui la compassione e il perdono cedono il passo per raggiungere una
meta prefissata: redimere il mondo alla luce del monito manicheo «o tutto o nulla»
(è il monito della Persuasione): «La vittoria suprema sta nel perdere ogni
cosa. La sconfitta, la perdita di tutto, è la vera grande vittoria. Solo ciò
che si perde, si possederà in etemo»'*; o ancora: «Quanto durerà la lotta,
volete sapere? Ebbene: tutta la vita! Fin quando avrete sacrificato tutto, fin
tanto che avrete rotto ogni compromesso... E quanto costa la lotta? Tutto:
tutti quanti i beni della festa, del dì di festa... E i vantaggi? Purezza di
spirito, fermezza di fede, un'anima sublime! Una corona di spine sulla vostra
fronte: questo è il vostro premio!» [B 76]. Brand è pronto a sacrificare allo
spietato Dio biblico che si è raffigurato tutto ciò che ha di più caro, anche i
sentimenti più semplici e più naturali: il suo unico figlio (quasi a ripetere
l'orrendo sacrificio di Isacco), la moglie, la madre. Il pastore sa a cosa va
incontro, ne è consapevole: ma è altresì convinto che mancare la propria
missione significherebbe una viltà o un atto di diserzione davanti al proprio,
irrinunciabile dovere. Per lui tutto, tutto il resto non è che feticismo ed
idolatria. Dopo la morte della moglie, Brand decide di innalzare un nuovo
tempio, più grande e più degno, a Dio. Ma quando infine la chiesa è stata
costruita e sta per essere consacrata, egli getta via la chiave, perché sente
che quella non è la vera casa di Dio e che lui stesso non può accettare il
compromesso di sottomettersi all'autorità della Chiesa di Stato. Alla guida di
tutto il popolo, il pastore allora si avvia verso la montagna e verso la Chiesa
di Ghiaccio situata tra le nevi eterne, promettendo, a chi vorrà seguirlo, di
condurlo sulla vera via del cielo. La folla dapprima lo segue, con entusiasmo
ed esaltazione; poi, spaventata dai disagi cui va incontro, lo abbandona e lo
lapida quale falso profeta. Egli rimane così, solo ed indomito, impassibile
anche di fronte alla visione celeste della moglie che lo invita a recedere
dalla sua durezza e ad accettare la più umana via del compromesso. Nell'ultima
scena, tuttavia, di ambigua interpretazione e piena di chiaroscuri, prima di
essere travolto da una valanga, il pastore si chiede, riuscendo finalmente a
piangere dopo tanta rigidezza, se non abbia sbagliato tutto. E una voce, che
sovrasta il fragore della valanga, inneggia al Deus Charitatis e denuncia il
fallimento della sua vita. Il fallimento della Persuasione autarchica. Ora, a
nostro parere, la Persuasione e la Rettorica deve moltissimo al Brand: del
resto, la sorella di M., Paula, insiste sull'enorme impressione che il dramma
fece sul nostro autore’. 147 Cfr. Ibsen, Brand, in Ibsen, Tutto il teatro,
cit., IV vol. pag 61. Le citazioni tratte dall'opera saranno segnalate, nel
corpo del testo, con la notazione B cui segue il numero di pagina relativa. 148
E' quanto ci rivela Paula M. Winteler in un passo importante dei suoi Appunti
per una biografia di Carlo M., contenuti in appendice al volume di Campailla
Pensiero e poesia..., cit, ovvero alle pagg. 147-164. Riteniamo opportuno
riportare per intero lo stralcio in questione [pagg. 161-162, corsivi
dell'autrice], anche per rendere un'idea di quanto "brandiano" stesse
rischiando di diventare lo stesso Goriziano: «Non leggeva più molto [la
Winteler sta parlando dell'ultima fase della vita del fratello]: rilesse in
quell'anno Ibsen che conosceva già e di cui era sempre più appassionato. Di
tutti i drammi quello che l'aveva fatto più pensare era Brand e nel suo volume
ci sono nel margine delle pagine molti commenti. A poco a poco, come
semplificava il suo genere di vita, il suo modo di sentire, [Carlo] si limitava
nei bisogni, nel nutrimento che era diventato sempre più sobrio, così si
liberava da tutta l'inverniciatura venuta dal di fuori, da tutta la scienza
infusa, da tutte le influenze ataviche, era come se si stesse riformando da sé
un'altra volta. Così pure andava man mano eliminando dal suo repertorio gli autori
riducendoli a pochi scelti. In una delle sue carte che si trovò sul suo tavolo
fra gli appunti della tesi c'era scritto a matita: Bibliografia oppure: Dio ama
gli analfabeti: 'Invece di leggere suonate o fatevi suonare della musica di
Beethoven, perché gli orecchi non vi potrebbero far altro miglior servizio. -
Gli occhi non sono fatti per legger libri. Ma se li volete ad ogni costo
abbassare a questo servizio, leggete: Parmenide, Eraclito, Empedocle, Simonide,
Socrate (nei primi dialoghi di Platone), Eschilo e Sofocle. - L'Ecclesiaste, e
i Vangeli di Matteo, Marco e Luca - Lucrezio - De rerum natura -, i Trionfi del
Petrarca e i Canti di Leopardi, Le avventure di Pinocchio del Collodi - i
drammi di Enrico Ibsen. E non leggete mai altro, soprattutto nessun Tedesco, se
avete cara la vostra salute, ché quelli sono contagiosi in vista (come i
giornali, le riviste, i libri di scienze)”. Questo passo è importante, tra le
altre cose, perché ci indica (insieme con la prefazione alla tesi) la
"bibliografia ideale" con cui è possibile tentare l'accosto a M.
(interessante il riferimento al Finocchio di Collodi). E perché ci testimonia,
in certo modo, il disfattismo che pare attanagliare l' "ultimo"
Michlestaedter, che pare far sue le parole del suo amato Brand: «Sono stanco:
si combatte, si combatte, e sempre senza speranza» [B 67]. A parte questo, M.
stesso esprime, più volte e a chiare lettere, il suo enorme debito di
riconoscenza nei confronti di Ibsen: in una lettera alla madre, dell'aprile
1908, ad esempio scrive: «[...] ho letto quasi tutto Ibsen. Quello è un uomo,
perdio! m'ha fatto pensare e mi fa pensare ancora. Certo dopo Sofocle, è
l'artista che più m'è penetrato e m'ha assorbito. E' un grand'uomo [... J»;
altrove scrive che il Norvegese lo «fa fremere e vibrare come una corda al
minimo soffio». Infine, in un importante articolo per Il corriere friulano
[contenuto in O pagg. 652-654 passim], scritto per celebrare l'ottantesimo
compleanno di Tolstoj, M. costruisce un intenso ed originale parallelo tra
Ibsen e lo scrittore russo: «Ibsen vuole dall'uomo che egli sappia rompere la
cerchia di menzogna che lo stringe, che sappia volere la sua verità,che sappia
farla trionfare; egli deve combattere la menzogna che è in lui ed educare la
volontà alla lotta. Il processo psicologico può isolversi così con pochi
individui rappresentativi o simbolici quali li vediamo negli ultimi drammi
ibseniani. Tolstoi non chiede all'uomo la lotta, ma la devozione; egli deve saper
resistere alle seduzioni della società che egli giudica basata sul falso e
sulla prepotenza; egli deve uscirne e abbandonarne del tutto il sistema di
vita; la sua maggiore attività egli non la deve spendere a preparare se stesso
a far trionfare sugli altri le proprie idee e a trasformare la macchina
sociale, ma deve devolverla a riparare i mali che la società produce sulle
classi povere facendo del bene, aiutando, consigliando. - E' quindi necessaria
la rappresentazione viva della società nel suo complesso». Questi due autori
«non s'accontentarono di esprimere le sensazioni superficiali della loro anima,
ma ne scrutarono le profondità per cavarne la nota più alta. - Entrambi presero
pel petto questa società soffocata dalle menzogne e le Infatti, le parole di
Brand risuonano con tutta la loro forza nelle parole di M.: pur non intendendo
istruire parallelismi "alla lettera", ci sembra opportuno, a tal
proposito, richiamare alla memoria talune affermazioni "forti" di
Brand: «Il mio canto festivo tace; bisogna scender dal cavallo alato; ma io
vedo una meta più alta, che non sia una giostra di cavalieri, - un duro lavoro
quotidiano, il dovere di una vita attiva, verrà nobilitata con un'opera santa»
[B 30]. Oppure: «Dove non c'è forza non c'è missione. [...] Se non puoi essere
ciò che devi, sii almeno ciò che puoi [...}» [B 24]; «se darai tutto, tranne la
vita, sappi che non avrai dato nulla» [B 23]. O ancora: «Quali sono i peggiori,
i più ribelli? Chi si svia più lontano dalla pace?.. Lo spirito leggero
incoronato di fronde che danza sull'orlo del precipizio... lo spirito fiacco
che segue la strana monotona perché così vuole l'usanza... lo spirito selvaggio
che possiede tanto vigore da far apparire bello ciò che ha tutte le apparenze
del male? Lottiamo, lottiamo senza tregua contro questi tre nemici tra loro
alleati. lo vedo con chiarezza la mia missione; brilla come un raggio di sole
attraverso uno spiraglio socchiuso» [B 17]; o infine: «No, sono sano e forte,
come il pino e il ginepro dei monti; ma è la razza malata di questi tempi che
ha bisogno di essere curata. Voi volete amoreggiare, scherzare, ridere, volete
credere un poco, ma non vedete... volete caricare tutto il peso del fardello su
di uno, che vi è detto sia venuto per prendere su di sé la grande espiazione.
Per voi prese la corona di spine, e perciò vi è permesso danzare... danzate...
ma dove la danza conduca è un'altra cosa, amico mio!»; «abbiamo perduto ogni
traccia del nostro sentiero»; «E' la ‘volontà' che conta! La volontà o redime o
uccide, la volontà, intera, disseminata dappertutto, nella vita facile e nella
vita dura» [B 13, 8, 30]. Già nel dramma di Ibsen, dunque, M. trovava tracciata
la linea discriminante tra il Persuaso e il Rettorico, e - soprattutto-
ritrovava la rigorosa e paradossale etica che segnava quella discriminante
(anche, ad esempio, nelle antitetiche figure del falco e dell'avvoltoio, che
presenziano già in Ibsen all'autentico e all'inautentico!'‘). Ma se anche Brand
parla di amore, di sacrificio, si tratta tuttavia di un amore e di un
sacrificio eteronomi, perché vincolati alla terribile ingiunzione di Dio,
destinati ad esiti altrettanto terribili: nell'attuare il suo personale piano
di redenzione, il pastore di anime sacrifica i suoi cari, attraverso la
parvenza del sacrificio di se stesso. Brand non rispetta la gridarono in
faccia: verità! verità!» [e, secondo M., ciò in modo diametralmente opposto di
quanto facessero invece i maestri del Decadentismo, Oscar Wilde e D'Annunzio,
sopra tutti]. 149 Cfr. ad esempio: Gerd: «[...] l'avvoltoio non entra là dentro
[scil. nella chiesa]; si posa sul Picco Nero e là sta, la brutta bestia, come
una banderuola... [... |» [B17]; vita delle persone che gli sono accanto. Le
sue intenzioni, invero, sono sincere, coerenti alla sua fede: egli lotta
sinceramente per la salvezza. Ma la sincerità e la coerenza si volgono in
distruzione e fallimento, perché il suo amore non è l'amore caritatevole, come
gli rivela la voce di Dio, nel finale: il suo amore è severo, esclude e
castiga. Il vero amore è perdono e conciliazione; vuole casomai il sacrificio
di se stessi, non mai dell'altro uomo. Il Persuaso deve aprirsi agli altri, non
può vivere nell'esclusività della sua Persuasione, tanto
"masochista", quanto "sadica". II suo consistere dev'essere
un coesistere. Nello stesso dramma ibseniano, in una delle scene più intense ed
enigmatiche (siamo nell'Atto II), l' "Uomo delle Apparizioni" si
rivolge a Brand con parole come di rimprovero, volte a richiamarlo alla
comunità: L'Uomo: «Mille parole non valgono la traccia dell'azione. Noi ti
cerchiamo in nome della comunità; lo vediamo, ci manca proprio un uomo». Brand
(agitato): «Cosa volete da me?» L'Uomo: «Sii il nostro prete» [B 23]. L'Uomo
delle Apparizioni è la persuasione matura che parla alla persuasione acerba, il
demone che chiama alla "conversione politica" e alla realizzazione
del Verbo nella comunione con le altrui vite, che è la vera Persuasione.
L'acerbità della persuasione permea il lavoro accademico di M.. Egli stesso ne
fu a suo modo consapevole, come visto. Chi ha ingoiato una sorba amara convien
che la risputi, scrive, sin dall'inizio. Il giovane filosofo non vide l'ora di
terminare la sua tesi (l'ultimo compito rettorico che gli era rimasto), per far
le sue parole azione, per donarsi definitivamente al mare. b) La Persuasione
come francescanesimo laico (risvolto politico: la Persuasione matura). Il loco
della Persuasione, «il qualunque punto dove uno è, purché vi permanga», diviene
alfine il luogo politico del mondo, rappresenta il risultato di una vera e
propria rivoluzione copernicana del rapporto dell'uomo con le altrui vite. Se
prima l'homo gravitava, necessariamente, intorno alle cose, laddove quella
necessità era dettata dalla (strutturale) deficienza, incompletezza fin già (se
non soprattutto) del suo stesso organismo; ora invece, sono le cose, è il mondo
a gravitare intorno al vir, al Persuaso, a donarsi a lui ultro, senza che
quello «nulla chieda secondo la voce del suo bisogno». Tutto questo l'abbiamo
già ripetuto più volte. Ora, il vir domina il mondo. Ma questo suo dominio non
implica in sé violenza, non vuol essere sopraffazione. E' il dominio, per
renderlo con un'immagine, dello Brand: «[...] Vedere, Iddio vuol trarvi dal
fango; un popolo che vive [...] attinge dalle avversità forza e potenza;
l'occhio smorto acquista vista di falco, e vede lontano e vede bene, la fiacca
volontà si riscuote e vede certa la vittoria dopo la lotta [...]» [B 19].
sguardo che dalla vetta domina la vallata, e si compiace e gode dello
spettacolo, sentendosi esso stesso parte di quel miracolo, di quel tutto. E lo
protegge ™. Dopo la rottura delle catene del "peccato" rettorico, nel
vir si eventualizza il ristabilimento della condizione edenica, descritta nei
primi passi della Genesi: il mondo è creato per l'uomo e a lui offerto, come
dono: Adamo dà nome alle cose, ostentando la sua fraterna supremazia, ridonando
alle cose ed agli animali il loro giusto valore: e quelli a lui si
sottomettono, ultro, secondo il comando del Signore, secondo lo scopo per il
quale essi furono creati. Il vir si riappropria del mondo, scioglie i vincoli
dell'alienazione, riconferma il suo primato e il mandato "divino"
della Persuasione, scacciando per sempre il dio luciferino della puopuyix,
giungendo altresì al vero Piacere, ch'è la Pace. L'uomo finalmente libero - dal
bisogno, dalla deficienza, dalle cose; l'uomo che é riuscito nella dolorosa e
faticosa pratica - ch'è la via alla Persuasione - a ribaltare a proprio favore
il rapporto di dipendenza con il mondo; ebbene, quest'uomo - ricordando il già
citato passo del Dialogo della Salute - «ha la gioia dell'esistenza in mezzo a
tutte le cose. Gli sono care non solo le cose vicine e come possano soddisfare
un bisogno, ma tutte - egli sa godere della luce del sole». Anche la morte gli
è cara, il «[...]il coraggio della morte / onde la luce risorgerà».. Non può
non tornare in mente, a questo proposito, il meraviglioso Cantico delle
creature di San Francesco, il suo lodare il Signore per tutte le creature della
terra, e anche «per sora nostra morte corporale»'!. Per quanto la distanza tra
la posizione M.iana e quella francescana sia dettata dalla diversa prospettiva
esistenziale (quella di uno strano ebraismo laico, per l'uno; quella di una
prisca religiosità cristiana, per l'altro), il messaggio ci pare aprirsi un
senso d'identica, intima convinzione: la comunione col mondo, l'accettazione -
non rassegnata, ma coraggiosa, e in questo suo coraggio, serena - della nostra
condizione umana, nella sua perfezione assoluta, per l'uno intesa
nell'adeguamento (solitario, intimo, drammatico, ma alla fine gioioso) al
pentalogo della Persuasione, per l'altro intesa 150 Lo spunto per quanto or ora
affermato ci viene da una lettera ad Enrico Mreule dell'aprile 1909 [E
359-360]. M. sta raccontando all'amico di aver intrapreso la lettura della
Metafisica di Aristotele, con «la pazienza d'andargli a corpo, di seguirlo di
citazione in citazione » fin che non giunse «al capitolo I° e 2° del Ill libro,
dove assistetti al mirabile capitombolo della povera bestia». Rispetto ad
Aristotele, M. confessa di sentirsi come «[...] un falco che difendesse la
purezza dei sassi e dell'aria sulla cima del S. Valentin contro un volo di
cornacchie [aristoteliche, evidentemente)». 151 La suggestione
"francescana" dovette provenire a M. da Tolstoj, soprattutto a
riguardo - come vedremo - delle ultime opere dello scrittore russo, ovvero La
sonata a Kreutzer [che leggiamo nell'ed. BUR, 2000, a cura di E. Bazzarelli] e
Resurrezione [ed. Newton, 1995, a cura di E. Affinati]. Come si ricorderà,
ipotizzammo anche un'ispirazione da | cosacchi. Similmente a Tolstoj, M.
"riscrive" il Vangelo (sulla falsariga di quello di Matteo)
censurandovi tutti i dati sovrannaturali, sopprimendovi l'avvenimento
ontologico della redenzione, e specialmente eliminando la realtà della divinità
trascendente d Cristo e della sua resurrezione. Per il Goriziano, come detto,
Cristo è il vir. E proprio questa riscrittura permise al nostro giovane
filosofo d'individuare il nucleo etico-laico del messaggio evangelico: farsi
salvatori dinell'adeguamento (anche qui solitario, intimo, drammatico, ma alla
fine gioioso) alla volontà di Dio. E la dicotomia fra gli empi e i giusti (ai
quali «la morte secunda no'I farrà male»), che si delinea nella seconda parte
del Cantico, si ripropone pari nella laica dicotomia, altrettanto insanabile,
fra gli homines rettorici e i viri persuasi: per entrambi i casi, la
discriminante in fondo è la stessa, e coincide sostanzialmente - con la
trasgressione dell'ordine universale, di una cattiva prospettiva di
vicinanza-lontananza con le cose e con gli altri 5°. Francesco (come rivela
anche il suo nome: ancora: nome e identità), come il vir, è "franco",
libero, assoluto: si è liberato dai lacci mondani, si è sottomesso di buon
cuore al giogo della croce: tuttavia rimane per lui il vincolo più potente,
quello del Dominus divino, che si riflette nel «messor lo frate sole» e che
permea tutta la vita e la speranza del santo, in una fede forte, vincente,
quanto semplice (cfr. l'ultima parte del cantico, quella più drammatica e
"manichea"). In questo senso, la condizione di Francesco è
decisamente eteronoma, e solo per un'analogia topica (di condizioni, e non di
esiti estremi) può essere avvicinata a quella del vir. Eppure, la "vita
nuova", il senso di comunione fraterna col mondo, la presenza di una
dimensione esistenziale votata alla consapevolezza della verità, dell'armonia e
dell'amore - seppur nelle due diverse prospettive - ci suggeriscono, ci
costringono quasi, a pensare la dimensione persuasa quale quella di un /aico
francescanesimo. Il momento del passaggio: la forma retorica
dell'anti-Rettorica: tecnica persuasa della retorica, ovvero tattica persuasa.
L'atipicità della tesi di laurea di Carlo M. traspare già da una semplice
lettura del testo. Ma qual è il vero senso, la vera ragione di questa
atipicità? In cosa essa consiste? Soltanto nella "stravaganza"
filosofico-narrativa del suo autore? O forse nell'enorme ingiunzione morale
ch'egli affida ad un mero scritto accademico? La questione si presenta
complessa e feconda, soprattutto se analizziamo la dispositio e l'actio che il
Goriziano adotta nel prometeico tentativo di un'esaustiva esposizione del
proprio pensiero.se stessi, «eliminare la violenza alle radici», aprire il
mondo ad una rinnovata armonia. In questi senso, la linea ideale, che
tracceremo, è per l'appunto Tolsto-M.-Capitini. 152 E' indicativo quanto ci
tramandano gli apologhi popolari dei Fioretti: Francesco parlava alla natura,
riuscì ad ammansire e a convertire il ferocissimo lupo. Come spesso avviene,
l'ingenuità popolare anche qui coglie nel segno, disperando di sciogliere nella
semplicità del racconto la profondità della verità francescana: ovvero, la
comunione con quanto ci circonda e la possibilità di rivolgerci alle cose con
un linguaggio che non è più il tecnicismo retorico del dominio, bensì una
persuasione che conduce alla mansuetudine, all'armonia, alla dolcezza, che non
ha bisogno per esprimersi, a ben vedere, neanche più delle parole. «La parola
eloquente è il premio di chi cerca la persuasione, di chi ha il coraggio del
dolore per non averla - chi nella parola finge già finita la persuasione e del
cercar parole si fa una persona per chiedere i premi delle vie degli uomini -
obbedisce alla sua prAopuvyta: è un vile o un retore a piacere», scrive M.. Si
pone dunque la necessità di un'aerea digressione sugli aspetti
"formali" della sua opera: ciò non esula dalla sostanza morale del
nostroapproccio, poiché l'etica non si realizza soltanto nell'atto, ma anche
nel linguaggio, preparazione all'atto, esso stesso atto, atto linguistico.
L'indagine non è inappropriata, e il suo risultato ne varrà da riprova. Il
valore persuasivo della parola, dunque. La ricerca di Aristotele ci ha
insegnato che la scienza e la filosofia coincidono nella "formalizzazione"
del loro linguaggio, nella sua struttura sillogistica, razionale. Il linguaggio
riproduce, per lo Stagirita, la razionalità dell'Essere: l'essere, l'è vero, si
dice in molti modi, ma i suoi modi sono sempre razionali. Che vuol dire, ciò?
Che cos'è la razionalità per Aristotele? Problema inaudito '®. La nostra
ipotesi di lavoro, semplice e funzionale, asseconda quella di Carlo M.: secondo
il Goriziano, la razionalità aristotelica coincideva con ciò che Aristotele
vedeva, la sua theoria trovava senso compiuto nella vista, anzi nella pura
visione: Ma il punto teoretico è l'atto del mio guardare, e può girare dove
anche io voglia fra la varietà delle cose: sempre sarà in lui l'entelecheia
delle cose guardate, poiché il mio guardare è attribuzione di fine: la stessa
permanenza del movimento nel tempo, poiché il mio guardare commosso con le cose
è attribuzione di stabilità; altro fine, altra natura, altra forma, altra
ragione, e in altro riguardo supposta la materia inconoscibile [PR 208]. Il
retore si muove su punti controversi non per tutti, ma per quelli ai quali
parla. Il vero è detto per Aristotele secondo l'attualità fenomenica [c.n.], e
l'attualità fenomenica nel campo del retore più vicina, così che il più delle
volte è noto a tutti che il retore dimostra contro questa stessa attualità. Ma
non per questo egli è disprezzato e con nuovo nome quasi a insulto chiamato, ma
anzi tenuto in gran stima e col nome di retore ad onore significato appunto in
quanto egli lo sappia fare né per alcuno scrupolo si trattenga dal farlo [PR
268]. La conclusione errata di un sillogismo, dunque, sarebbe tale non per un
principio logico, ma per un errore, come dire, di prospettiva ottica; lo
sguardo razionale è l'occhio dello scienziato Aristotele o di Aristotele
scienziato: lo sforzo del pensiero è di riprodurre nella vista intellettuale,
nella sua "intelligenza", l'atto del vedere garantito dall'organo di
senso (l'attualità visiva - fenomenica - coincide con quella intellettiva -
noumenica), purificandolo. Il sogno del filosofo Aristotele (che coincideva con
quello del suo maestro, Platone) era poter scorgere l'Essere nella sua
"nudità" ontologica (l'idea come vista nuda, pura, dell'Essere). Il
sogno dell'Aristotele scienziato era quello di compilare l'enciclopedia delle
153 Quanto ci apprestiamo a dire si propone, consapevolmente, su un livello di
lettura e d'interpretazione dell'opera aristotelica - nella fattispecie la
Metafisica [che abbiamo letta nell'ed. Rusconi, 1993, a cura di G. Reale],
l'Etica Nicomachea [Rusconi, 1993, a cura di C. Mazzarelli], la Retorica
[Mondadori, 1996, a cura di M. Donati] e la Politica [Laterza, 1993, a cura di
R, Laurenti) - "viziato" dalla prospettiva M.iana. Tuttavia chiediamo
di accettare quanto segue almeno in vista della sua funzionalità all'analisi
che stiamo conducendo. Per tal motivo, non surroghiamo il nostro discorso con
pedisseque corrispondenze "alla lettera" degli p 4v pe, > Commenta M., in calce alla sua
figura: «Questo [qualcosa è - qualcosa è per me - mi è possibile la speranza -
sono sufficiente] è il cerchio senza uscita? dell'individualità illusoria, che
afferma una persona, un fine, una ragione: la persuasione inadeguata, in ciò
ch'è adeguata solo al mondo ch'essa si finge» [PR 19]. Le parole del Goriziano,
in apparenza involute, trovano comunque ampia "dimostrazione" nel
corso della sua tesi. Anzi, non è difficile ricavare il filo di un argomentare
lineare e lucido, che palesa una logica ferrea di concatenazioni assiomatiche,
che possiamo definire decisamente spinoziana, senza timore di sbagliarci: se la
Persuasione, la Salute, è il «possesso presente della [propria] vita» [36]!9',
ossia (in forma negativa) se essa «non vive in chi non vive solo di sé stesso»
[9], l'uomo al contrario si rivela, già nella sua conformazione fisiologica,
come segnato dalla deficienza. Questa è senza dubbio il corrispettivo del Wille
schopenhaueriano: la vita è a tutti gli effetti volontà di vivere e la volontà
«è in ogni punto volontà di cose determinate» [12]: ne consegue che l'uomo è
«schiavo della contingenza di questa correlazione» [31]. In questo senso, la
correlazione tradisce una sua "puntualità", perché «noi isoliamo una
sola determinazione della volontà [per volta» [13] e ogni determinazione è
«attribuzione [puntuale] di valore: coscienza » [12]. 60 Aggiungiamo noi: anche
senza fine e senza inizio: Nietzsche, grecamente, avrebbe detto l'«eterno
ritorno». 61 Nei periodi che seguiranno, accompagniamo M. nella sua
dimostrazione: preferiamo aderire molto al testo, per non pregiudicare
l'amenità delle sue espressioni, anche se ricomponiamo l'argomentare in una
successione più, come dire, didascalica, ricostruendo la logica che in
apparenza smarrisce nell'enfasi della scrittura. | numeri assoluti, in
parentesi quadre, si riferiscono alle pagine della Persuasione da cui sono
tratte le citazioni. Il riferimento alle altre opere seguirà l'espediente
utilizzato nel resto del nostro lavoro. Espediente che, mai come ora, rivelerà
anche la sua importanza metodologica, lasciando trasparire come l'opera del
Goriziano si strutturi tutta secondo una stretta logica di rimandi interni,
fatta di ripetizioni e richiami di concetti, che non è il mero saltabeccare
della retorica della metabasi che punta all'attenzione del lettore, ma risponde
all'intima consapevolezza del fatto che ciò che si sta comunicando è in fondo
un unico, anche se articolato, pensiero. E' altresì vero, tuttavia, che «...]la
volontà non sopporta la noia, e da questa attesa inerte della vicinanza si
muove, allargandosi la coscienza dalla determinazione puntuale attraverso
l'infinita varietà delle forme: le determinazioni si collegano così a
complessi, da procurarsi previdenti ogni volta la vicinanza per la quale via
via ogni determinazione s'affermi e non resti morta, ma per la forza del
complesso si continui per poter altra volta affermarsi. [...] [Così] la
soddisfazione della determinata deficienza dà modo al complesso delle
determinazioni di deficere ancora [...]: nel complesso di quella determinazione
c'è come criterio la previsione delle altre: il complesso delle determinazioni
non è un caos ma un organismo» [16]. Detto in altre parole, «Ia [...] volontà
di essere è così volta a continuare, in ciò che nell'affermarsi presente essa
crea la prossima vicinanza per l'affermarsi d'un'altra determinazione: in
ognuna c'è la previsione delle altre». [17]. Da una parte, dunque, l'organismo
umano si profila come un «complesso delle determinazioni» [16]; dall'altra, in
modo speculare, «i valore [del] mondo [appare come] il correlativo della sua
valenza» [20] - ossia «la stessa cosa è il mio vivere e il mondo che io vivo»
[20], dato che «nessuna cosa è per sé, ma in riguardo a una coscienza» [13]: e,
amplificando questo dato, la stessa «vita [si rivela quale] un'infinita
correlatività di coscienze». Questa correlatività - che abbiamo scoperto
puntuale nella sua manifestazione più immediata, complessa in quella mediata -
si delinea «sempre ugualmente intera e infinita nell'attualità che corre nel
tempo; il passato e il futuro sono in lei, l'avvenire e il non avvenire sono
indifferenti» [14-15]. E' proprio in seno a questa correlatività che si
struttura, poi, la piopuyix, «amore alla vita, viltà» [17], owero la Rettorica,
la «determinazione» della vita, la «persuasione inadeguata » [19]. Se infatti
la persuasione è l' agathon (postulato socratico-platonico), il bene, la
Salute, e gli uomini ad essa naturalmente tendono (anch'esso postulato
socratico-platonico, formalizzato da Aristotele'9) - è il nostro stesso
deficere che aspira alla sua più completa soddisfazione - è altrettanto vero
che, dati i presupposti "volontaristici", essa risulta inattingibile,
poiché, qualora fosse conquistata, la vita «cesserebbe d'esser vita» [8], cioè
la volontà cesserebbe d'esser volontà, il che è già una contraddizionein
termini: infatti, la persuasione implica il possesso presente, attuale, mentre
la volontà è «volontà di se stesso nel futuro» [20], è «distratta nel tempo »
(e così l'uomo). La vita nega, in modo paradossale, se stessa: l'uomo sembra,
senza soluzione, essere votato al dolore ed alla sofferenza e la sua condizione
risulta insostenibile: «il principio della deficienza [viene a costituirsi]
come principio sostanziale» [146]. E' proprio in questo punto, dunque, che
s'inserisce l'azione quotidiana, ostinata, del «dio pudico»'9° della popuyia,
che in modo nascosto (in ciò è la sua pudicizia), ma efficace (in 162 cfr.
Etica nicomachea |, 1, 1094, a3 163 È il piacere un dio pudico, fugge da chi
l'invocò; ai piaceri egli è nemico, fugge da chi lo cercò. ciò sta la sua
divinità), tesse la trama di una consistenza altrimenti compromessa. Il dio
della priopuyia è un lare (un «dio famigliare» [21]) che ci è accanto come un
malefico angelo luciferino («la luce è il piacere» [17]), che ci accompagna in
ogni nostra attività, la veicola, la custodisce. Il lare crea il "velo di
Maya" attraverso l'adulazione del «tu sei» [18]: presiede all'integrità
del nostro organismo (ovvero, scongiura l'anarchia delle membra, strutturando
ogni puntuale determinazione in una rete di correlazioni organiche, spegnendo
da luce quando l'abuso toglierebbe l'uso»'** [16]) e spaccia la mera continuità
dell'organismo stesso per la permanenza persuasa: «il saggio dio lo [l'uomo,
l'animale] conduce attraverso l'oscurità delle cose con la sua scia luminosa
perché egli possa continuare e non esser persuaso mai» [16-17]. L'uomo, in
questo abbaglio, in questo "stordimento", irretito nel gioco del dio
[21], si finge un mondo posticcio [19], credendo che le «sue cose che lo
attorniano e aspettano il suo futuro, sono l'unica realtà assoluta
indiscutibile» [18], ossia per lui «a realtà è [...] le cose che attendono il
suo futuro»; e, ciò facendo, scambia la Persuasione per l'«attualità della sua
affermazione» [18]. L'illusione raggiunge il suo ultimo scopo: «ciò che vive si
persuade esser vita la qualunque vita che vive» [19], «l'esser vivi si fa
un'abitudine » [28], l'uomo «si dice contento e sufficiente e soddisfatto di
sé» [24-25]: «d'uomo si gira sul pernio che dal dio gli è dato [...] e cura la
propria continuazione senza preoccuparsene, perché il piacere preoccupa il
futuro per lui» [18]. La voce del dolore - il «sordo continuo misurato dolore
che stilla sotto a tutte le cose» [23], la voce «che dice: tu non sei» [27] - è
apparentemente messa a tacere. L'uomo si bea della nuova, insperata sicurezza,
guidato dal piacere [17]: «nel sapore [della momentanea, puntuale affermazione
si risolve] la presenza di tutta la sua persona. Questo sapore accompagna ogni
atto della sua vita organica [e, come vedremo, sociale]» [18]. L'uomo insomma
«non vede [integriamo noi: non vuole vedere] l'opera che il dio ha fatto» [17].
Tuttavia l'illusione della permanenza - ch'è la Persuasione inadeguata - non
tarda a rivelarsi per quella che appunto è: illusione. "«[...] L'uomo, pur
mentre gioisce dell'affermazione, sente che questa persona non è sua, ch'egli
non la possiede» [21], sospetta che «la sua potenza nelle cose in ogni punto è
[sempre e comunque] limitata alla limitata previsione». «[...] AI disotto della
superficialità del suo sapere egli sente il fluire di ciò che è fuori della sua
potenza e che trascende la sua coscienza »: così, ilÈ il piacere l'Iddio pudico
ch'ama quello che non lo sa: se lo cerchi se' già mendico, t'ha già vinto
l'oscurità. - Sono la prima e l'ultima delle quattro quartine del famoso peana,
che M. intona al dio della grAdopuyia in D 43. 164 Cfr. il paragrafo 4c del |
capitolo. «suo piacere è contaminato» [21] irrimediabilmente e suo malgrado,
perché da sorda voce dell'oscuro dolore non però tace, e più volte essa domina
sola e terribile nel pavido cuore degli uomini» [22]. Nella prospettiva della
persuasione inadeguata, la voce del Tragico si rivela (si fa fenomenologia)
attraverso la paura della morte: difatti, se «il senso delle cose, il sapore
del mondo è solo pel continuare», se «esser nati non è che voler continuare »,
ciò allora vuol dire che «gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro
persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte »
[32]. La voce del dolore, dunque, fa breccia nella trama dell'illusione: «quando
per ragioni che non stanno in loro, il lembo della trama si solleva, anche gli
uomini conoscono le spaventevoli soste» [23], ovvero «quando la trama
dell'illusione s'affina, si disorganizza, si squarcia, gli uomini, fatti
impotenti, si sentono in balìa di ciò che è fuori della loro potenza, di ciò
che non sanno [...]; si trovano a voler fuggire la morte senza aver più la via
consueta che finge cose finite da fuggire, cose finite cercando». [22] La
persuasione inadeguata ha un colpo di coda: se nei bambini il dolore
esistenziale è più forte - perché ancora incontaminati dalla finzione del dio
luciferino - e se in loro la rivelazione del Tragico prende la forma dei
piccoli terrori e delle piccole superstizioni da esorcizzare (la paura del
baubau, ad esempio) [22-23], negli uomini esso fa capolino nelle forme delle
nevrosi e dei grandi dispiaceri della quotidianità: il Tragico ha le sue
manifestazioni "esistentive" (existenziell, direbbe Heidegger) nel
rimorso, nella malinconia, nella noia, nell'ira, nel dolore, nella paura, nella
«gioia "troppo" forte» [25-26]: in questi sentimenti, l' [A.
Piromalli, in Sotto il segno di M., ed Periferia, Cosenza, 1994, pag. 22; ci
appoggiamo all'analisi e alle parole di Piromalli anche per quanto stiamo per
dire]. La retorica di Aristotele rappresenta, così, l'apice estremo della
degenerazione cui Platone conduce l'originaria, autentica, dialettica
socratica. Socrate si chiedeva, ad esempio, se la giustizia fosse un bene,
Platone che cosa fosse la giustizia. Entrambi (dunque, tutto sommato, anche
Platone) conservano una relazione col «valore individuale» dell'oggetto.
L'approccio di Aristotele diviene invece «una raccolta di fenomeni», «delle
questioni particolari giudiziarie o politiche e la ricerca dei trucchi
rettorici» conduce Aristotele a perdere di vista il vero ed a «teorizzare sui
discorsi che dimostrano» in modo che «lo scopo e la potenza di chi analizza e
teorizza i discorsi è sovrapposta allo scopo e la potenza dell'oratore».
«Questo - scrive ancora M. - è l'errore di ogni metodistica, che caratterizza
utta la filosofia aristotelica, o meglio ogni forma aristotelica della
filosofia sotto qualunque nome, in qualsiasi tempo o paese, ed è di fronte alla
Persuasione la Rettorica» [per le citazioni virgolettate di questo periodo cfr.
Appendici critiche, PR 151- 263-278-282]. Di conseguenza, arguisce M., la
Rettorica non è per Aristotele - proprio in quanto «metodica», «metodologismo
classificatorio» - solo una téchne specifica, ma una sorta di criterio che
informa tutte le scienze e tutta la conoscenza. Potremmo azzardare che essa,
come la virtù, diviene un habitus. —_ La valenza politica della retorica
aristotelica viene evidenziata molto bene da Roland Barthes: il quale - in un
volumetto esemplare sulla Retorica antica (trad. it. Bompiani, 1998) - trova
molto «allettante mettere in rapporto questa retorica di massa [quella appunto
aristotelica, di massa poiché verte su un "verisimile" che
nient'altro è, secondo lo studioso, se non «quel che il pubblico crede
possibile»] con la politica di Aristotele; era, com'è noto, una politica del
giusto mezzo, favorevole ad una democrazia equilibrata, incentrata sulle classi
medie e incaricata di ridurre gli antagonismi tra i ricchi ed i poveri, tra la
maggioranza e la minoranza; donde una retorica del buon senso, volontariamente
sottomessa alla 'psicologia' del pubblico» [pagg. 21-22; corsivo nostro], Tutto
questo non è in contraddizione con quanto abbiamo affermato nel corso del
nostro lavoro: è vero, la "costituzione della Rettorica" - almeno
nella sua accezione comune e quotidiana - ha un inizio storico, e ha un autore
storico; eppure Aristotele non ha "inventato" la Rettorica; le ha
dato soltanto una patente di legittimità, se vogliamo dirla così, ontologica e
(soprattutto) pratica. 184 Etica Nicomachea 1103b 1-5 passim. microcosmo umano:
come nell'anima la condizione ottima è quella d'un equilibrio tra la parte
appetitiva (epithymetikon), irascibile (thymoeidés) e razionale (/loghistikon),
nello Stato ideale (lo Stato giusto) - laddove i tre aspetti dell'anima si
incarnano nelle tre classi sociali dei "produttori", dei
"guardiani" e dei "governanti-filosofi" - il singolo svolge
la sua funzione nell'armonia del tutto, "temperando" il proprio
egoismo privato. La virtù civile per eccellenza sarà proprio la sophrosyne,
ovvero quella saggezza che permette di stare "entro i limiti", cioè
di lasciarsi guidare docilmente dai sapienti'®. Lo Stato - nato dalla necessità
che gli uomini hanno di soddisfare i propri bisogni vitali - diviene insomma la
condizione (insieme etica e logica) dell'individuo, «secondo una relazione di
reciprocità in cui individuo e Stato, virtù e legge, anima e classi sociali
vengono a coincidere» [Francesco Adorno]. Per quanto Platone allegorizzi il
destino di appartenenza dell'individuo ad una determinata "classe
sociale" attraverso il famoso mito di Er - secondo il quale quel destino è
in effetti frutto di una scelta libera e responsabile dell'anima prima
dell'incarnazione '°8; per quanto - almeno nei presupposti e negli intenti - la
superiorità di una classe rispetto alle altre non significhi supremazia ed
oppressione, ma risponde semplicemente alle esigenze di una suddivisione di
compiti e di funzioni necessaria in ogni vita organizzata (nella quale
gl'interessi dell'individuo debbono essere subordinati ai superiori interessi
della collettività); nonostante tutto ciò, Platone - in apparente
contraddizione, ma in effetti seguendo un'estrema logica di coerenza -
struttura la sua utopia politica secondo le linee di un rigoroso, oculato,
analitico progetto educativo '®. Dalla moltiplicazione dei bisogni nasce dunque
la differenziazione dei ruoli, secondo le attitudini di ciascuno: l'educazione
confermerà (nel senso del confirmare latino) quell'attitudine. Ma M., come suo
solito, adotta il suo drastico smascheramento e individua proprio nella
formazione dello Stato platonico il paradigma ontogenetico di qualsivoglia
sistema sociale rettorico: [... ] accettato come base della città della
giustizia il fatto della convenzione dei violenti che è a base d'ogni città -
[è nostro compito] fingere nuovamente con presunzione di giustizia tutte le
forme della vita che gli uomini chiedono a chi voglia far loro da maestro.
Accettata come vita libera quella che è fatta dei bisogni elementari, fondiamo
nella città la libertà d'esser schiavi; accettato come giusto il principio
della violenza che afferma la necessità del continuare, è giusta a ogni bisogno
la sua affermazione. E se troviamo [un qualche espediente]perché ogni bisogno
giunga alla sua 185 Cfr. il II libro della Repubblica e anche 441c-445e (IV
libro), dove la questione viene ricapitolata in modo sintetico e definitivo;
sono questi, più o meno, anche i passaggi del testo (e altri affini nella
sostanza) che tiene docchio M. nella sua analisi davvero spietata dello Stato
platonico, cui dedica l'intera, complessa, splendida Appendice II, quasi
un'opera a sé stante. 186 cfr. id. libro X 614a ss. . La divinità è fuori
causa: Aitia eloménou, theos anaîtios. 187 cfr. id. libro Ill 386a - 417b; IV
419a - 427b 105 giusta affermazione senza scapito della giusta affermazione
degli altrui bisogni, abbiamo fondato la città giusta. Che gli uomini siano
ognuno schiavo della propria miseria e per questa sottomesso ai modi a lui
oscuri della comune convenienza, ognuno inteso al proprio utile e per sua
natura nemico e ingiusto a ogni utile altrui, ognuno nell'oscurità del suo
travaglio ignaro di tutto nella vita fuorché del suo bisogno, non importa; egli
sarà saggio e giusto e libero, avrà la persona della libertà, della giustizia,
della saggezza, poiché egli sarà detto secondo la città libera e giusta e
saggia. - La città isola le singole necessità [... e] così costituisce la
produzione della vita elementare: l'agricoltura, le arti, i mestieri, il
trasporto; costituisce gli organi dello scambio: il piccoloegrandecommercio;
costituisce tutte le altre forme della vita; costituisce la necessità della
guerra; e del difender la giustizia di quelle necessità con la violenza finge
persona sufficiente ai puAxxec [sono appunto i "guardiani"
platonici]; dell'affermare, sorvegliare, correggere la giusta affermazione di
quelle necessità finge persona sufficiente ai capi dello stato [PR 147] !88. Se
l'educazione di Socrate era dunque «creatrice di uomini» [PR 150], il suo
discepolo infedele si mostra piuttosto attento a formare cittadini: [...]
Platone non ha da fare uomini, egli ha da fare agricoltori, calzolai, fabbri,
mercanti, banchieri, guerrieri, politici, che compiano ognuno la sua funzione
necessaria ai singoli bisogni della città, perché questa pur si continui.
Platone ha bisogno che ognuno s'adatti alla sufficienza di quell'astrazione di
vita che egli a ognunoha macchinato [PR 151]. La "giustizia"
platonica si rivela, dunque, per quella che è: "Ma intanto la città è
costituita, e colla città sono costituite la giustizia, la saggezza, il
coraggio, la padronanza di sé. La città è saggia per la saggezza dei suoi
moderatori. La città è coraggiosa pel coraggio dei suoi puiarnec. E i guàxxes
sono coraggiosi se vestono la persona della legge così che, la salvezza di
quella come la loro essendo, da nessuna cosa possano esser trattenuti che non
la difendano fino alla morte. - [...] E se ognuno di loro si sappia costringere
a quel determinato ufficio e all'obbedienza alle leggi costituite, ognuno sarà
padrone (!!) di sé stesso, e la città anch'essa sarà padrona di sé, in cui
l'idea del bene, per consiglio dei saggi moderatori e per virtù dei difensori e
per l'ossequio del popolo, si imporrà alle necessità della vita così ch'esse
abbiano armoniosamente a cospirare alla continuazione del tutto [PR 156-157;
corsivi ed esclamativi di M.]. Nel far ciò, completa M., Platone - diversamente
da quanto ci tramandi la storiografia filosofica e da quanto Platone stesso
affermi - non si discosta molto dall'orizzonte di dominio e di violenza
perpetrato dai sofisti, anzi: «Altro che i sofisti! Se i sofisti erano
ladruncoli, ma Platone - absit iniuria verbo - è il ladro in guanti gialli, che
ha il suo sistema per rubare non più, come quelli facevano, questo o quello a
caso, dicendo a ognuno: 'io sono un ladro'; ma con metodo e seriamente, per
poter rubare tutto, e dicendo agli uomini: 'io son quello che ti salva per
sempre dai ladri. Infatti è il modo più sicuro. Infatti, legittimando i
compromessi dell'umana debolezza, egli toglie [...] all'uomo ogni possibilità
di sentirsi in quella insufficiente, ogni bisogno d'affrancarsi da quella -»
[PR 190; corsivi di M.]. 188 || periodo è preso della sezione II (Il
Macrocosmo) della Il Appendice critica, dedicata nello specifico a Platone, in
qualità di «note alla triste istoria» dell'aerostato; come appare chiaro, ci
stiamo appoggiando alle polemiche citazioni di M. (sottintendendole), tratte
appunto dalla Repubblica, per puntellare anche il nostro discorso. Queste
parole, che si impongono per lucidità e forza al lettore, bastano a se
stesse'®. Rimane solo da rilevare che la ri-proposizione di una simile istanza
totalitaria di dominio e di violenza (stavolta sublimata nella rete necessaria
e compiacente - «callopismatica» dice 189 In effetti, La critica di M. può, ad
orecchio, richiamare Popper. Il primo volume del capolavoro di quest'ultimo, La
società aperta e i suoi nemici [che noi leggiamo nella traduzione proposta
dall'ed. Armando, 1973], infatti, è in pratica interamente dedicato a una
critica acerrima contro il platonismo politico (il titolo la dice lunga:
Platone totalitario). Volendo davvero ridurre all'osso l'argomentazione
popperiana, possiamo dire che tutto il pensiero politico di Platone, secondo il
filosofo austriaco, può essere ricondotto a un progetto totalitario di
restaurazione della società chiusa (ovvero, della società tribale, che
interpreta se stessa come naturale, sacra e immutabile, ed è collettivista,
gerarchica, organica, fondata sulle relazioni faccia a faccia). A questo scopo,
Platone si varrebbe di strumenti euristici,concettuali e politici, che
s'innestano l'uno con l'altro e che riassumiamo così: essenzialismo
metodologico (la teoria delle idee); collettivismo (come visto, gli individui
hanno valore solo come parti della totalità più ampia ch'è lo stato); teoria
organica o biologica dello stato (cfr. quanto detto sopra); tecnocrazia (il
governo va affidato ai competenti); "storicismo" (sotto questo
termine Popper accomuna tutte le dottrine che s'illudono di enunciare le leggi
dello sviluppo storico nel suo insieme). [Com'è noto, a Platone Popper
contrappone la propria prospettiva - che definisce "umanitaria" - di
"società aperta", modellata/articolata secondo i criteri degli Stati
di diritto e delle democrazie dei paesi occidentali, le cui istituzioni
sarebbero (preferiamo utilizzare il condizionale) modificabili/riformabili
secondo il metodo della libera discussione]. Ma più che alle risapute
affermazioni di Popper, siamo interessati ad una pagina, lasciata nella forma
di intuizione, di Althusser; pagina evidentemente meno conosciuta, ma che si
avvicina più di Popper al discorso di M.. Althusser inserisce quest'appunto su
Platone in un discorso generale sull'ideologia e ovviamente legge la Repubblica
(e ne smonta il progetto educativo) alla luce del "sapere scientifico
liberatore" - ovvero "rivoluzionario" - marxista-leninista,
com'egli stesso confessa. E questo segna la sua profonda differenza col
Goriziano. Eppure, quanto scrive Althusser converge in modo indiscutibile e
impressionante con le valutazioni di M. (anche se, come detto, l'accostamento è
soltanto "topico"): entrambi individuano nell'educazione il
nocciolo/presupposto rettorico della struttura statale. Scrive il filosofo
francese, col suo caratteristico stile senza reticenze: «Questo [ovvero che
«gli individui concreti 'agiscono', e che è l'ideologia che li fa agire'»],
Platone lo sapeva già. Egli aveva previsto che occorrevano dei poliziotti (i
'Guardiani') per sorvegliare e reprimere gli schiavi e gli 'artigiani. Ma
sapeva che non si può mai mettere un 'poliz iotto' nella testa di ogni schiavo
o artigiano, e nemmeno mettere un poliziotto personale al culo di ogni
individuo (altrimenti occorrerebbe anche un secondo poliziotto per sorvegliare
il primo e così di seguito... e alla fine non ci sarebbero altri che poliziotti
nella società, senza nessun produttore, e di che cosa vivrebbero allora gli
stessi poliziotti?). Platone sapeva che occorreva insegnare al ‘popolo",
sin dall'infanzia, le 'belle menzogne' che lo ‘fanno agire' da solo, e insegnare
al ‘popolo' queste Belle Menzogne in maniera che esso ci creda, al fine di
‘agire’. [l'insistere di Althusser sulle 'belle menzogne! ordite
dall'educazione platonica è il punto di maggiore convergenza con le
riflessionidel Goriziano, ma cfr. la citazione in seguito]. Platone non era
certo un ‘rivoluzionario’, benché intellettuale... egli era un sacrosanto
reazionario. Ma aveva abbastanza esperienza politica per non raccontare storie
e credere che, in una società di classe, la semplice repressione può assicurare
da sola la riproduzione dei rapporti di produzione. Egli sapeva già (senza
averne il concetto) che sono le Belle Menzogne, cioè l'ideologia, che assicura
per eccellenza la riproduzione dei rapporti di produzione. | nostri moderni
‘dirigenti’ ‘anarchici rivoluzionari" non lo sanno. Essi farebbero bene a
leggere Platone, senza lasciarsi intimidire dall' ‘autorità del sapere' che vi
troveranno, poiché, benché puramente ideologici, possono trovarvi, diciamo,
'insegnamenti' di base sul funzionamento di una società di classe» [L.
Althusser, Lo stato e i suoi apparati, trad. it. Editori Riuniti, 1997, pag.
182], M., più di mezzo secolo prima, aveva scritto (e si tenga presente quanto
or ora citeremo, dato che proprio qui si trova il perno dell'argomentazione
critica-filosofica del Goriziano, non solo in riferimento a Platone, bensì a
tutto l'apparato rettorico): «[Nello Stato platonico] la violenza cacciata per
la porta è già rientrata per ogni fessura [..., infatti] perché ogni singolo a
uno di questi scopi bcil. gli scopi sufficienti alla vita, astrazioni dei
bisogni materiali] di indirizzar la sua vita e pei begli occhi della felicità e
della giustizia astratta accetti di tenervela sempre diritta - bisogna che
ognuno al suo posto sia colla violenza ammaestrato» [corsivo nostro].M. - dello
Spirito) il Goriziano la riscontrò, a distanza di millenni, nella Filosofia
dello Spirito di Hegel'°° [PR 92-93]. L'ou-topia platonica, trovava purtroppo -
attraverso Hegel - la sua reificazione concreta e storica nel codice
morale-penale austriaco [cfr. soprattutto PR 99-101]. Col filosofo tedesco
l'umanità realizzata (ovvero, l'umanità politica) consisteva - proprio come
insegnava Platone - nella spontanea consonanza fra quel che vuole l'individuo e
quel ch'è richiesto dalla famiglia, dalla società civile e dallo stato. Per
Hegel, questo è lo stato normale - fisiologico - della vita pratica, che può
riscontrarsi nei periodi di equilibrio e di "sanità" dei popoli
(Hegel credeva d'individuarlo, realizzato in tutta la sua pienezza e fulgore,
nella grecità classica: basterebbe, in questo senso, analizzare il diverso
rapporto del Tedesco e del Goriziano proprio nei confronti della grecità per
scorgere l'enorme divario che li allontana). Il «momento etico», nella
dialettica dello Spirito Oggettivo, supera l'astrattismo morale, che si
arrovellava nell'antagonismo fra intenzione individuale e legge. Lo spirito
oggettivo - in cui 190 In particolare, aggiungiamo noi, nei Lineamenti di
filosofia del diritto. In effetti, M. trae le sue citazioni dalla Enciclopedia
delle scienze filosofiche, dalle pagine in cui Hegel parla dello Spirito
Oggettivo, il moment della realizzazione della volontà dello spirito libero,
nella fattispecie il momento del concreto attuarsi della storicità sociale
attraverso la famiglia, la società civile e lo stato. Come si sa, Hegel
approfondì e delucidò tali presupposti nei Lineamenti; riteniamo allora
opportuno richiamarne almeno alcuni paragrafi (tra l'altro famosi) per
integrare le polemiche citazioni M.iane con i luoghi dove più evidente si
mostra la cosiddetta "statolatria" del filosofo di Stoccarda: $ 257.
Lo stato è la realtà dell'idea etica, - lo spirito etico, inteso come la
volontà sostanziale, manifesta, evidente a se stessa, che pensa e sa sé e porta
a compimento ciò che sa e in quanto lo sa. Nel costume lo stato ha la sua
esistenza immediata, e nell'autocoscienza dell'individuo, nel sapere e
nell'attività del medesimo, la sua esistenza mediata, casi come l'autocoscienza
attraverso la disposizione d'animo ha nello stato, come in sua essenza, in fine
e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale. [...] § 258. Lo
stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch'esso ha
nell'autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale
in sé e per sé.Questa unità sostanziale è assoluto immobile fine in se stesso,
nel quale la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo scopo
finale ha il supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è
d'esser membri dello stato. [...] $ 260. Lo stato è la realtà della libertà
concreta; ma la libertà concreta consiste nel fatto che l'individualità
personale e i di lei particolari interessi tanto hanno il loro completo
sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della
famiglia e della società civile), quanto che essi, o trapassano per se stessi
nell'interesse dell'universale, o con sapere e volontà riconoscono il medesimo
e anzi come loro proprio spirito sostanziale e sono attivi per il medesimo come
per loro scopo finale, così che né l'universale valga e venga portato a
compimento senza il particolare interesse, sapere e volere, né gli individui
vivano come persone private meramente per l'ultimo, e non in pari tempo
vogliano nell'universale e per l'universale e abbiano un'attività cosciente di
questo fine. Il principio degli stati moderni ha questa enorme forza e
profondità, di lasciare il principio della soggettività compiersi fino
all'estremo autonomo della particolarità personale, e in pari tempo di
ricondurre esso nell'unità sostanziale e così di mantener questa in esso
medesimo. $ 261. Di fronte alle sfere del diritto privato e del benessere
privato, della famiglia e della società civile, lo stato è da un lato una
necessità esteriore e la loro superiore potenza, alla cui natura le loro leggi,
così come i loro interessi sono subordinati e da cui sono dipendenti; ma
dall'altro lato esso è il loro fine immanente ed ha la sua forza nell'unità del
suo universale fine ultimo e del particolare interesse degli individui, nel
fatto ch'essi in tanto hanno doveri di fronte ad esso, in quanto hanno in pari
tempo diritti [...] § 265. Queste istituzioni costituiscono la costituzione,
cioè la razionalità sviluppata e realizzata, nell'ambito del particolare, e
sono perciò la base stabile dello stato, casi come della fiducia e della
disposizione d'animo degli individui per il medesimo, e i pilastri della
libertà pubblica, poiché in esse la libertà particolare è realizzata e
razionale, quindi in esse stesse sussiste in sé l'unione della libertà e della
necessità. [Siamo nella parte terza - L'eticità; Terza sezione - Lo stato; le
citazioni sono desunte dalla trad. it. dei Lineamenti peri tipi della Laterza,
2000, a cura di G. Marini, e corrispondono, rispettivamente, alle pagg. 195,
201 e 204; i corsivi sono di Hegel]. finalità individuale e finalità collettiva
coincidono - si realizza pienamente nello Stato, «a sostanza etica consapevole
di sé». La sua essenza è costituita da quello stesso amore che sta a fondamento
della famiglia, innalzato però a «universalità saputa», a consapevolezza cioè
del proprio valore universale. In questo senso, lo Stato non conosce altri
poteri al di sopra di sé. Ovvero, tradotto il tutto in termini M.iani, i
rapporti sufficienti che l'uomo intrattiene con la propria vita) e con le
altrui vite assurgono all'ordito - ovvero si camuffano - di rapporti razionali
e dunque razionalmente necessari, e la Rettorica sociale (statale) prende vita,
e acquista diritto e giustificazione del proprio esistere, nella forma pudica e
"benevola" dell'Astuzia della Ragione [List der Vernunft], la parca
che tesse nel segreto le ragioni e le finalità degli uomini. 4. La Rettorica
come tecnica della violenza e violenza della tecnica. Non c'è maggior potenza
di quella che si fa una forza della propria debolezza. Carlo M. La Rettorica,
dunque, è es-propriazione: in ciò consiste la sua violenza. L'unico modo per
sconfiggere la Rettorica sarebbe - afferma M., nelle ultime, sconcertanti
pagine della sua tesi - scongiurare appunto ogni educazione: questa, in
sintesi, la pretesa davvero rivoluzionaria (e quanto veramente rivoluzionaria
rispetto a tante altre sedicenti tali) del Goriziano: «togliere la violenza
dalle radici» è il suo motto, nella forma del conosci te stesso: Reagisci al
bisogno d'affermare l'individualità illusoria, abbi l'onestà di negare la tua
stessa violenza, il coraggio di vivere tutto il dolore della tua insufficienza
in ogni punto [PR 45-46]. Utopia, è vero. Perché la Rettorica si impone, è
onnipresente, è tutto ciò che accade: e lo è in modo irrimediabile. Perché,
oltre che una sua forza, ha una sua intelligenza (conosce paure e debolezze
degli uomini, degli esseri, e le sfrutta), una sua estrema capacità di
adattamento. La sua storia universale è anzi la storia del suo adattamento: il
dispositivo rettorico - quasi entità a sé stante, quasi entità pensante - ha
inteso la grande forza del "segreto", la strategia vincente della "dissimulazione":
ha inteso che «sarebbe povero nelle sue risorse, economo nei suoi procedimenti,
monotono nelle tattiche che usa, incapace d'invenzione ed in un certo senso
condannato a ripetersi sempre» * '°": avendo nient'altro «che la potenza
del 'no', del divieto, dell'ingiunzione, della coartazione, esso «sarebbe
essenzialmente anti-energia» *: «tutti i modi di dominio, di sottomissione, di
assoggettamento si ridurrebbero in fin dei conti all'effetto di obbedienza » *
«C'è una ragione generale e tattica che sembra autoevidente: il potere [nella
nostra prospettiva: il dispositivo rettorico, ma nel taglio ermeneutico che
stiamo dando è lo stesso] è tollerabile a condizione di dissimulare una parte
importante di sé. La sua riuscita è proporzionale alla quantità di meccanismi
che riesce a nascondere. Il potere sarebbe accettato se fosse interamente
cinico? Il segreto non è per lui un abuso; è indispensabile al suo
funzionamento » *. Il sistema della violenza, alle proprie manifestazioni
esterne, ai risultati di azioni cogenti di istituzioni deputate al
"sorvegliare e punire" (che tuttavia sopravvivono, propaganda della
ventilata sicurezza), al suo porsi come "stato di diritto",
preferisce le forme dell'interiorità (le forme della morale farisaica che si
oggettivano, nei codicilli del diritto morale-penale), preferisce assumere le
ammalianti sembianze di giustizia sociale e di razionalità sociale: si è fatto
carne e sangue forgiando i tipi del "soggetto" in filosofia, dello
"scienziato" nella conoscenza e in ultimo - figura in cui le prime
due si compendiano - del "cittadino 191 Cfr. la nostra nota 167.
modello" nella società cosiddetta civile, come denuncia il Goriziano, in
pagine davvero forti e risentite. Sono queste le forme, insomma, in cui -
secondo M. - la violenza rettorica si è sublimata (nel senso davvero freudiano
del termine), sono questi i meccanismi attraverso i quali l'ideologia si è
fatta idealità, e il Leviatano si è fatto società ideale e addirittura
vagheggiata. Ironia del dispositivo rettorico: «ci fa credere che ne va della
nostra liberazione » *. Ma seguiamo più da vicino il dettato del nostro giovane
filosofo, riprendendo opportunamente la dimostrazione del "teorema-M."
là dove l'abbiamo interrotta nel paragrafo precedente, amplificandola qui
proprio al contesto sociale'””. Abbiamo lasciato l'uomo nella condizione
sospesa tra l'illusione della permanenza e la consapevolezza, che nella trama
dell'illusione s'insinua, della effettiva condizione tragica della propria
esistenza: l'uomo «sente d'esser già morto da tempo e pur vive e teme di
morire» [24]: perché «chi teme la morte è già morto» [33]. A questa condizione
insostenibile, il dio luciferino della yopoyw trova - o pretende di trovare -
un più collaudato ed efficace «schermo [o empiastro] al dolore» [34 e 58]: il
dispositivo sociale, appunto. L'uomo chiede «ad altri appoggio alla sua vita»
[34], «dà e chiede, entra nel giro delle relazioni» [43]. Se prima il compromesso
della consistenza si consumava, come dire, nella percezione
"onanista" del proprio corpo, ora gli uomini - con maggior insistenza
- «chiedono di esser per qualcuno e per qualcosa persona sufficiente con la
loro qualunque attività, perché la relazione si possa ripetere nel futuro;
perché il correlato sia per loro sicuro nel futuro» [53]: «egli [l'uomo] si
vuol ‘costruire una persona' con l'affermazione della persona assoluta che egli
non ha: è l'inadeguata affermazioned'individualità: la rettorica» [57]. Ma nel
volgersi «a ricercare quelle posizioni dove il senso attuale della sua persona
lo aveva altra volta adulato colla voce del piacere: ' tu sei' [ovvero,
appunto, nella rettorica sociale], [..., egli] già è fuori del giro sano della
sua potenza» [64], in modo definitivo e irrimediabile. Insomma, gli uomini
decidono di «adattarsi ragionevolmente» [89] l'uno all'altro: cosa davvero
singolare, ammette M., la contraddizione che si viene a creare: nella società
«tutti hanno ragione» quando invece «nessuno ha la ragione» [39, ma anche 54]
della propria esistenza. Difatti, e qui le parole del nostro filosofo sono
chiarissime, nello stipulare la «cambiale della società » [102] gli uomini si
comportano «non però, come ci aspetteremmo, vittime della loro debolezza - in
balia del caso, ma 'sufficienti' e sicuri come divinità » [95]. E' dunque il
punto più alto dell'illusione del dio del piacere, il punto in cui la sua
"arte tessile" assurge a livelli di "regale" maestria'”.
192 Cfr. nota 161. 193 Le nostre espressioni vengono ispirate da un passo del
Politico di Platone, che ci restituisce la valenza della sua rettorica politica
in forma pressoché conclusiva. La nostra citazione, dunque, si allinea a quelle
(davvero numerose) di Michelstadter, e inende compendiarle, condividendone il
contesto polemico:Nella stipulazione del "contratto sociale" gli
uomini «si son fatti una forza della loro debolezza, poiché in questa comune
debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca convenzione»
[95, ma anche D 66]: essi, cioè, hanno trovato definitivamente «il modo di
poter continuare con sicurezza ad aver fame in tutto il futuro» [94]. Così, da
una parte, la società «largisce loro sine cura tutto quanto gli è necessario»
[adattato da 96]; dall'altra, essi fingono di ignorare che «a loro
degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso,
la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico - la spada
della giustizia» [95]. Questo perché, in effetti, la sicurezza - per quanto
graditi siano i suoi servigi e privilegi - si paga comunque con un grandissimo
scotto: essa «è facile ma è tanto più dura: la società ha modi ben determinati,
essa lega, limita, minaccia: la sua forza diffusa è concreta in quel capolavoro
di persuasione che è il codice penale. La cura di questa sicurezza asservisce
l'uomo in ogni atto » [100-101]. E dunque, l'uomo da un lato si trova costretto
ad accettare la propria «libertà d'esser schiavo » («cercando la sicurezza
nell'adattamento a un codice di diritti e doveri») [94], e così pratica
violenza contro se stesso; dall'altro, «impone al resto della materia [alle
cose] la stessa forma» [96] che a lui risulta utile («violenza sulla natura:
lavoro» [97]) e, cosa ancor più grave, «subordina il suo simile alla propria
sicurezza » [97] («violenza verso l'uomo: proprietà » [97]). Questo meccanismo,
leggermente complicato nell'esposizione ma semplice nel suo funzionamento, ha
la forza di un potentissimo abbrivo: date queste premesse, la Rettorica ha
facile gioco nel «coinvorticare» («come la corrente d'un fiume ingrossato »)
[59] tutta la congerie umana e tutti gli aspetti dell'esistenza del singolo
individuo, riuscendo a contaminare ogni sana e onesta persuasione in
"disonestà". Il procedimento si reduplica e si estende, possiamo
dire, per inerzia di moto e per sineddoche di comportamento (la Rettorica, come
la Fama virgiliana, eundo crescit), seguendo una parabola che M. spiega e
sintetizza, mirabilmente, nel suo Dialogo: [...] la preoccupazione della vita
spingerà pur sempre gli uomini a curare e a cercare le posizioni dove videro
vivere altrui, dove forse anche parve a loro stessi per qualche tempo vivere.
Nasce per questa preoccupazione, dalla vita sana del corpo, la degenerazione
sensuale e la rettorica dei piaceri; dalla diritta attività d'un uomo che ha
una sua missione da compiere, l'ambizione della potenza - e la rettorica
dell'autorità; dall'opera d'un uomo che aveva qualche cosa da dire - la posa
dei creatori e la rettorica artistica; dalle parole degli uomini che mostrarono
agli altri la retta via - la presunzione dei pensatori - e la rettorica
filosofica con la sua sorella minore: la rettorica scientifica [D 64]. La prima
cambiale per l'uomo è il suo corpo, poi viene la camicia con la quale è nato -
e la camicia è contesta di posizione, diritti acquisiti, affetti acquisiti come
i diritti, non solo, ma anche di ciò che il socialmente povero «Ecco tutta la
funzione regale di tessitura: non lasciare mai che entri in azione una
separazione fra il carattere temperato e il carattere energico, che devono
invece essere orditi insieme, in una comunità di intenti e di opinioni, in una
condivisione di onori e di gloria, e in una sorta di giuramento comune, per
farne un tessuto armonioso e, come si dice, ben serrato, e confidare a questi
due elementi le magistrature della città [...] Ecco pronta la buona stoffa
prodotta dall'ordito dell'azione politica, allorché, partendo dai caratteri
umani di energia e di temperanza, la scienza regale assembla e unisce le loro
due vie per mezzo della concordia e dell'amicizia, e realizzando così il più
magnifico e il più eccellente di tutti i tessuti, vi avvolge, in ciascuna
città, tutto il popolo, schiavi e uomini liberi, serrandoli insieme nella sua
trama e assicurando alla città, senza pericolo di insuccesso, tutta la
prosperità di cui può godere quando è ben governata» (Politico, 310e -
311c).trova già nell'atmosfera: le vie, i modi, tutto il lavoro accumulato dai
secoli e di cui i posteri godono i frutti nella vicendevole sicurezza e nella
sicurezza di fronte alla natura [D 67-68]. Questa sicurezza dissimula e copre
con un velo di «prudente ipocrisia» [D 68] una reale situazione di conflitto,
quella sociale, dove in realtà l'homo è homini lupus, dato che «invidia
ambiziosa, prepotenza e timor degli uomini» («le virtù consacrate» della
rettorica sociale) [D 68] la fanno da padrona. Tuttavia, come nella singola
individualità la voce del dolore si fenomenologizza nelle nevrosi quotidiane o
esplode nelle situazioni-limite della perplessità esistenziale, nel contesto
sociale essa prende fiato attraverso la rabbia dei popoli: «la rabbia è il
Leitmotiv della vita sociale», il «cigolio continuo della macchina sociale»;
attraverso di essi, gli uomini sfogano la loro «impazienza e l'insopportabile
senso della dipendenza » [D 69, ma anche PR 120-121]. Ma quali sono gli
strumenti attraverso i quali la Rettorica assicura la «sicurezza fatta di
reciproca convenzione», ovvero, quali sono le reificazioni del /avorio di
(falsa) persuasione ch'è proprio della Rettorica? Possiamo utilmente
schematizzare le indicazioni del Goriziano (del resto, ne abbiamo parlato a
sufficienza nel paragrafo su Parmenide): a) il denaro, «concentrato di
lavoro»'*, destinato a diventare «del tutto nominale, un'astrazione, quando le
ruote saranno così ben congegnate che ognuna entrerà nei denti dell'altra senza
bisogno di trasmissione» [118]'®; 194 In questa definizione del denaro si può
scorgere, netta, l'influenza della lettura di testi di Marx, a M. non alieni.
Un importante appunto autografo, riportato dal Cerruti [cfr. in appendice alla
sua monografia cit. alle pagg. 167- 168], mostra ad esempio che M. lesse,
annotò e schematizzò, in brevi linee e concetti-chiave, Il capitale. Questo non
deve far pensare, secondo noi, a velleità rivoluzionarie-proletarie (nel senso
marxiano del termine) nel nostro giovane filosofo - che comunque pur scrisse,
in gioventù, un Discorso al popolo -; o addirittura ad un inserimento della sua
Persuasione "contestatrice" all'interno di una temperie marxista,
come da alcuni pur è stato tentato. In realtà, M. ci si mostra lontano da ogni
engagement politico, e questa sua posizione la valutiamo più che come sintomo
di un' "ignoranza" o indifferenza politica, come conseguenza di una
ben ponderata presa di posizione. Evidentemente, il gioco politico (nella
fattispecie, quello dei partiti) dovette apparire al Goriziano come una delle
forme più lampanti e più "scanzonate" del compromesso rettorico:
all'interno della "comunella di malvagi" esiste solo un apparente
fronteggiarsi, su posizioni solo in apparenza contrarie, che mirano
esclusivamente al potere (oggi si chiamerebbe partitocrazia). La politica del
tempo gli si doveva rivelare come conferma di ciò; vale la pena, allora,
riportare l'unico appunto politico (nel senso gretto del termine) che abbiamo
ris contrato nella nostra lettura dei suoi testi, anche a testimonianza della
lucidità della sua analisi in proposito: «[...] Il socialismo [M. sta parlando
delle manipolazioni che la Rettorica ha prodotto a scapito dei
"sinceri" moniti della Persuasione] - mantenendo le forme, il nome,
gli schemi delle argomentazioni, tutto il frasario di Marx - ha ridotta la sua
negazione della società borghese a un elemento di riforma nella società
borghese, volto a scopi più o meno particolari e materiali: più o meno mite, a
seconda che più o meno i capi del partito avevano bisogno della società
borghese e, approfittando della forza che loro concedeva il partito, ambivano a
un posto in quella. Così che in Francia il socialismo è giunto al governo, in
Germania ha creato una classe benestante più borghese dei borghesi, in Itali...
dell'Italia è pietoso tacere. -» [PR 124-125 in nota; corsivi dell'autore],
Possiamo con comodità riassumere la questione, e segnare i distinguo, dicendo
che, a differenza di Marx, M. non approntò una critica/analisi della Rettorica
a partire da strutture economiche, bensì a partire da strutture ontologiche (la
deficienza). b) il linguaggio, che «arriverà al limite della persuasività »
[118], tale che «gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera» [119]
"°° e il linguaggio giungerà alla sua «cristallizzazione» [112]
definitiva”; niente paura, tuttavia: seppure un giorno «gli uomini non
riusciranno ad intendersi certo giungeranno [comunque...] ad intendersela »
[88]/®8; c) la scienza, esasperazione della pretesa conoscitiva, «officina dei
valori assoluti» [125], il baluardo dell'oggettività, che ri-formula a suo
arbitrio la consistenza dell'esistere ricavando «dalla contemporaneità o dal
susseguirsi d'una data serie di relazioni una presunzione di causalità» [84;
corsivo nostro]; in questo rivelandosi lo strumento preferito della yiaopuyia
[84]. 95 Si pensi alle transazioni "virtuali" che oggi avvengono
mediante bancomat e carte di credito, o anche attraverso internet. %6 Si pensi
alle... tastiere dei nostri PC che permettono di chattare (come si dice in
gergo) attraverso internet. 97 «[...] Date parole sulle quali gli uomini senza
conoscerle s'appoggiano per gli usi della vita e senza conoscerle come ricevute
le danno» [87, corsivi di M.]. 98 Come visto più volte, per M. lo strumento del
linguaggio nasce innanzitutto da un bisogno di "consistenza"; vale a
dire che la "solidità" della parola, e soprattutto dei luoghi comuni
e dei "te cnicismi", serve da una parte a creare sostanza (illusoria)
alla propria deficienza attraverso il rapporto con gli altri (nel circuito
linguistico) [La utilità, quella originaria], dall'altra ad economizzare la
transazione rettorica, se possiamo esprimerci così [2a utilità, quella
definitivamente artefatta]. Questa situazione di "stordimento" (in
riferimento soprattutto alla prima utilità), il vano tentativo di stornare la
voce del dolore/deficere attraverso il frinire "innaturale" del
linguaggio, denunciata più volte da M., e con insistenza, viene allegorizzata
in questa breve, bellissima favola di Rilke, che ci piace riportare, convinti
che se il Goriziano l'avesse letta l'avrebbe di sicuro, a sua volta, citata (si
leggano con attenzione soprattutto gli ultimi capoversi):«C'erano due creature,
un uomo e una donna, che si amavano. Amarsi vuol dire non accettare nulla, da
nessuna parte, dimenticare tutto e volere ricevere tutto da una sola persona,
quello che già si possedeva ed il resto: e questo è quanto desideravano reciprocamente
le due creature. Ma nel tempo, nei giorni, nel flusso di tutto quello che va e
viene, spesso, prima ancora di avere stabilito un rapporto, un simile modo di
amare non può essere mandato ad effetto: gli avvenimenti incalzano da ogni lato
ed il caso apre loro ogni porta. Per questo i due risolsero di passare dal
tempo alla solitudine lontano dal suono delle ore e dai rumori della città. Si
costruirono dunque una casa dentro un giardino; e la casa aveva due porte, una
sul lato destro e una sul lato sinistro. La porta di destra era la porta
dell'uomo, e di qui doveva entrare tutto quanto era dell'uomo. Ma quella di
sinistra era la porta della donna; e sotto questo arco doveva passare tutto
quello che apparteneva alla donna. Così avvenne. Chi primo si destava il
mattino scendeva ad aprire la sua porta, e fino a tarda ora della notte
entravano molte cose, anche se la casa non era posta lungo una strada. Per chi
sappia come riceverli, arrivano fino in casa paesaggio luce e una brezza dalle
spalle cariche di odore e molte altre cose ancora. Ma anche giorni trascorsi,
figure, destini, entravano per quelle due porte, e a tutti era riservata la
stessa accoglienza, tanto semplice che ognuno credeva di avere sempre abitato
in quella casa solitaria. Così procedettero le cose per un lungo periodo di
tempo, e le due creature erano molto felici. La porta di sinistra veniva aperta
un poco più spesso, ma per quella di destra entravano ospiti più vari. Dinanzi
a questa, un mattino era ad attendere la Morte. L'uomo, non appena la ebbe
veduta, chiuse in fretta la porta e la tenne ben serrata per tutto il giorno.
Poco dopo la Morte apparve dinanzi all'ingresso di sinistra. La donna chiuse
tremando la porta elasbarrò con un robusto chiavis tello. Essi non si dissero
nulla dell'accaduto; ma aprirono più di rado le due porte e cercarono di
accomodarsi con quanto avevano in casa. La loro vita divenne così molto più
povera di prima. Le loro riserve si fecero scarse, sorsero le prime
preoccupazioni. Cominciarono a dormire male; e durante una di quelle lunghe
notti insonni, entrambi udirono improvvisamente uno strano rumore, quasi uno
scalpicciare e un picchiare insieme. Veniva di là dal muro di casa, a eguale
distanza dalle due porte, ed era come se qualcuno cominciasse a scalzare pietre
per aprire una nuova porta al centro di quel muro. Nel terrore improvviso che
li colse, i due si comportarono come se non udissero nulla di strano;
cominciarono a parlare, a ridere in modo innaturale; e quando si furono
stancati, il rumore alla parete era cessato. Da quella notte in avanti le due
porte rimangono definitivamente chiuse. | due vivono come prigionieri; sono
malati, soffrono di strane fantasie. Il rumore si ripete di tempo in tempo.
Allora essi ridono con le labbra, ma i loro cuori sono sul punto di mancare
dallo spavento. Ed entrambi sanno che il rumore diventa sempre più forte e
distinto, e debbono parlare e ridere sempre più forte con le loro voci sempre
più fioche». [cfr. R. M. Rilke, Le storie del buon Dio, trad. it., Milano,
Rizzoli, 1978, pp. 119-122].La società, soprattutto attraverso la scienza, non
soltanto assicura "oggettività esistenziale" ma scongiura agli uomini
ogni «tovog - ogni pericolo che esiga tutta la fatica intelligente e tenace per
esser superato » [105] (ma, in effetti, i due "pregi"
s'identificano). Nel far questo, essa si autopromuove, come si dice oggi, a
"scienza con fini operativi", ovvero a tecnica. La vita si
tecnicizza, il che wol dire, secondo M. (il quale non fa differenza fra tecnica
e tecnologia), che la vita si de-potenzia'’. La tecnica, cioè, viene a 199 La
critica di ispirazione heideggeriana può, a buon ragione, individuare
soprattutto in questo punto uno dei più espliciti "precorrimenti" di M.
rispetto al filosofo tedesco. Tuttavia, a prescindere da una certa, effettiva
consonanza di diagnosi che pare accomunarli, ribadiamo quello che, a nostro
parere, è l'irriducibile "cavillo" che li contraddistingue e che
rende vana, per noi, ogni operazione di accostamento: per Heidegger, l'oblio
dell'Essere e il richiamo all'esistenza autentica (come riappropriazione
dell'orizzonte ontologico del Dasein) si giocano sul piano appunto
dell'ontologia; per M. la Rettorica ha una natalità fisiologica, se possiamo
esprimerci così, e il richiamo all'esistenza autentica si consuma sul piano del
socratismo, ovvero di una forte istanza etica (etica che, come si sa,Heidegger
ci tenne ad escludere dalla sua "analitica esistenziale"). E'
comunque indicativo come, seppur partendo da differenti presupposti, i due
filosofi si fanno interpreti di una comune "perplessità" del pensiero
di fronte ai risvolti "violenti", neanche tanto nascosti, che la
tecnica porta con sé. Evidentemente, la traduzione politica del dominio tecnico
veniva presentita come pericolo in un'età incerta per eccellenza, che - volendo
- M. apre e Heidegger chiuderà, con gli esiti contraddittorii che tutti
conosciamo. E' altrettanto ovvio che M. non fu il primo ad individuare, e a
denunciare, l'essenza tecnica, diciamo il "tecnocratismo", del suo
tempo: a partire dalla rivoluzione industriale, almeno, la polemica -
moralistica e/o scientifica (intendiamo, per quest'ultimo punto, marxista) -
contro la riduzione dell'uomo a ingranaggio era addirittura un fatto alla moda.
E prima di M., già un Carlyle, ad esempio, ci dava un ottimo resoconto di
prospettiva: «Se ci si chiedesse di caratterizzare questa età, che è la nostra,
con qualche epiteto unico, saremmo tentati di chiamarla non Età Eroica,
Religiosa, Filosofica o Morale, ma l'Età Meccanica, sopra ogni altra. E' l'Età
del Macchinismo in tutti i significati della parola, esterno e interno; l'Età
che con tutto il suo potere indiviso, fa progredire, insegna e pratica la
grande arte di adattare i mezzi allo scopo. Nulla si fa ora direttamente, o a
mano; tutto colla regola e colla combinazione calcolata. [...] Da ogni parte
l'artigiano vivente è cacciato dalla sua officina per lasciare il posto ad un
altro più rapido ed inanimato. La spola sfugge alle dita del tessitore e cade
in dita di ferro che la maneggiano con maggiore velocità. [...] Per tutti gli
scopi terrestri e per alcuni scopi non terrestri ci sono macchine e aiuti
meccanici; per tritare i nostri cavoli, per immergerci in un sonno magnetico.
[...] Che meravigliosi incrementi furono cosi portati e sono ancora apportati
alla potenza fisica dell'umanità; quanto meglio nutriti, vestiti, alloggiati, e
sotto i rapporti esteriori, quanto meglio accomodati sono ora, o potrebbero
essere, gli uomini con una certa misura di fatica; ecco una riflessione
piacevole che si impone ad ognuno. Quali cambiamenti, inoltre stia apportando
nel sistema sociale questo accrescimento di potenza; come sia sempre più
cresciuta la ricchezza e nello stesso tempo si sia sempre più accumulata in
masse, alterando stranamente le vecchie relazioni e aumentando la distanza fra
il ricco e il povero, sarà un problema per gli economisti politici. [...] Ma
lasciando per ora queste materie, osserviamo come il genio meccanico del nostro
empo si sia esteso in campi affatto estranei. Non è soltanto l'esteriore e il
fisico che sono retti dal meccanismo, ma anche l'interiore e lo spirituale.
Anche qui nulla segue il suo corso spontaneo, nulla è lasciato in balia degli
antichi metodi naturali [...}». A tal proposito, troviamo interessante
riscontrare anche un'indiscutibile analogia descrittiva all'interno della
comune polemica (di Carlyle e di M.) contro l'età del Macchinismo: entrambi
fanno riferimento a esempi concreti, minimi, 'tecnici"; entrambi
denunciano una meccanizzazione non solo dell'aspetto "esteriore e
fisico", ma anche dell' "interiore e spirituale". E'anche
interessante valutare l'alternativa che Carlyle propone all'età della tecnica;
poco dopo il passo citato, egli scrive:«Il Filosofo di quest'epoca non è un
Socrate, un Platone, [...] che inculca agli uomini la necessità e il valore
infinito della bontà morale, e questa grande verità, che la nostra felicità
dipende dallo spirito che è in noi e non dalle circostanze che sono fuori di
noi; ma uno Smith, [...] un Bentham, che inculcano precisamente il contrario, -
cioè che la nostra felicità dipende intieramente dalle circostanze esteriori; e
che anche la forza e la dignità dello spirito che è in noi sono esse pure la
creazione e la conseguenza di quelle circostanze. Se le leggi e il governo
fossero bene ordinati, tutto andrebbe bene per noi; il resto si accomoderebbe a
suo piacere!», Un resoconto che M. avrebbe controfirmato (a meno che da esso
non sia stab anche ispirato, ma sinceramente non ce la sentiamo di avanzare
l'ipotesi). Quest'ultima citazione da Carlyle non vuole certo appiattire
l'originalità della proposta persuasa di M., né il suo riferimento alla lezione
genuina del socratismo come sostanza etica della Persuasione (ci mancherebbe
altro); vuol soltanto far intendere come la ricerca esistenziale dicoincidere
con la razionalizzazione estrema della relazione sufficiente poiché essa, in
sostanza, s'impegna - potremmo dire, in base al nostro assunto interpretativo -
a sufficere homines [cfr. supra], meccanizzandone quella che la Arendt
chiamava, in senso pregnante, vita activa. In base a questa diagnosi, che M.
snocciola non tanto a livello teoretico 200, il Goriziano conclude che «ogni
quanto piuttosto indugiando su esempi di vita concreta progresso della tecnica
istupidice per quella parte [ch'essa intende sufficere] il corpo dell'uomo»
[104]: «le vesti, la casa, la produzione artificiale del calore rendono inutile
la facoltà di reazione dell'organismo», tale che «l'individuo per sé non è più
una forza pericolosa in mezzo agli animali». Siamo convinti che queste
affermazioni di M., che corrono il rischio di esser lette come un grossolano
parossismo anti-tecnologico, trovino il motivo della loro esagerazione
soprattutto in una velata polemica "ideologica" individuabile tra le
righe: esse, cioè, ci appaiono non solo come ammissioni, ma anche come
contestazioni, se si tien conto (e invitiamo a farlo) delle contemporanee
tecno-apologie del futurismo, altrettanto parossistiche?°'. Inoltre, le
conclusioni del Goriziano confortano anche la nostra linea interpretativa, che
legge "foucaultianamente" la Rettorica, nella sua espressione più
pura, come tecnica politica del corpo: difatti, proprio attraverso la tecnica,
secondo M. essa sollecita un processo (diremmo, danwiniano) di atrofia
progressiva delle potenzialità organiche dell'individuo, condizione sufficiente
all'asservimento totale (e in questo contesto, invitiamo anche a tener conto
delle "ragioni" della servitù secondo Aristotele, nelle prime pagine
della Politica). M., oltre che essere frutto di un impegno, di una esigenza e
di una sofferenza personali, evidentemente s'inseriva anche all'interno di una
temperie culturale - che accomunava le voci più alte non solo del socialismo e
del radicalismo, ma anche del liberalismo, dell'anarchismo e addirittura del
fronte reazionario - che auspicava all'unisono un ritorno dell'uomo alle
autentiche radici della sua umanità. [Per le citazioni dei passi di T. Carlyle,
cfr. dell'autore: Segni dei tempi, contenuto in Ideologie nella rivoluzione
industriale,a cura di F. Papi, Zanichelli, 1976, pagg. 121-124 passim] 200 O
meglio, lascia al lettore la facoltà di evincere il livello teoretico dai
riferimenti "empirici". Per gli esempi polemici adottati da M. cfr.
ib. pagg. 106-107. Ma cfr. anche la nostra nota precedente. 201 Anzi, la
posizione di M. (tecnologia come atrofia dell'organo per delega della funzione,
se possiamo dir così) pare offrirsi come il ribaltamento speculare di quella
futurista (tecnologia come potenziamento dell'organo per ausilio nella
funzione). E, in questo senso, c'è forse anche un intento ironico nel
sottolineare l'effetto d' "evirazione" che la tecnica produce.
L'esaltazione del meccanismo e della velocità, già esplicita nel Manifesto del
1909 (l'anno in cui M. cominciò a scrivere la sua tesi), diviene in Marinetti
addirittura utopia di un nuovo uomo meccanico e "moltiplicato": «Il
giorno in cui sarà possibile all'uomo di esteriorizzare la sua volontà in modo
che essa si prolunghi fuori di lui come un immenso braccio invisibile il Sogno
e il Desiderio, che oggi sono vane parole, regneranno sovrani sullo Spazio e
sul tempo domati. Il tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità
onnipresente, sarà naturalmente crudele, onnisciente e combattivo. Sarà dotato
di organi inaspettati: organi adattati alle esigenze di un ambiente fattodiurti
continui. Possiamo prevedere fin d'ora uno sviluppo a guisa di prua della
sporgenza esterna dello sterno, che sarà tanto più considerevole, inquantoché
l'uomo futuro diventerà un sempre migliore aviatore».La tecnica dunque è il
punto più alto e più subdolo della violenza verso l'uomo e verso la natura
[97-98], poiché l'organizzazione tecnica della vita - ossia l'orizzonte tecnico
di dominio - presuppone e valuta tutti gli enti del mondo sublunare alla
stregua di risorse- corpi a disposizione, momenti-corpi di un ingranaggio,
materiali-corpi impiegati/impiegabili secondo piani prestabiliti?°?, Il danaro,
il linguaggio, la scienza, e la sua escrescenza tecnica, rappresentano così la
cementazione dell'intreccio delle relazioni sufficienti, e - garantendosi
fondamenta così salde - la Rettorica ha facile gioco nell'edificare il suo
sistema sociale, la sua geniale architettura di dominio. «Questa camicia di
forza o camicia rettorica - scrive M. - è contesta di tutte le cose nate dalla
vita sociale: 1°, i mestieri; 2°, il commercio; 3°, il diritto; 4°, la morale;
5°, la convenienza; 6°, la scienza; 7°, la storia» [120]. Ed ha per giunta una
sua deontologia, un suo pentalogo”° a uso e consumo della sua violenza: 1 non
impegnarti con tutta la tua persona 2 distingui tra teoria e pratica 3 prendi
la persona della sufficienza che t'è data 4 misura i doveri coi diritti 5
informati a ciò che è convenuto [108] In definitiva, la genialità della Rettorica
è nel far calzare ai propri "sudditi", coi modi della lusinga, una
convenienza che più che un abito sociale è divenuta una vera e propria nuova
pelle [156; vedremo più avanti come ci riesca]; tal che essi, beati per
l'azione dell'oppiaceo rettorico, «galleggiano alla superficie della società
come un ago asciutto alla superficie dell'acqua per l'equilibrio delle forze
delle forze molecolari» [120; corsivo di M.], senza sforzo e, soprattutto, cosa
più grave, senza responsabilità [108]. Gli uomini si adattano volentieri ad
essere partes materiales dell'organismo sociale [148, ma anche 114], scambiano
la Salute per la felicità e | benessere, che la Rettorica propina loro nelle
sembianze dell'«armoniosa soddisfazione delle singole necessità» [154] e
dell'«ottimismo sociale» [117]. La Rettorica sociale è il paese dei balocchi” e
l'uomo, come Pinocchio, «non è un E così via. E' altresì interessante notare
che Marinetti, pochi capoversi prima, aveva dileggiato i Lavoratori del Mare di
Victor Hugo come opera emblema di «un leitmotiv dominante tedioso e sciupato
[quello della «divina Bellezza- Donna»]», opera invece adorata da M.. [per le
citazioni da Marinetti, cfr. dell'autore L'uomo moltiplicato e il Regno della
Macchina, contenuto in Filippo Tommaso Marinetti e il Futurismo, Oscar
Mondadori, 2000, a cura di Luciano de Maria, pagg. 38-42]. 202 Per Heidegger,
l'essenza della tecnica - il punto estremo dell' "oblio dell'Essere"
- si rivela come Gestell, "impianto", ossia unione di tutti i modi
dell'impiegare. Gli heideggeriani, giocando sull'etimologia, fanno notare che
Gestell vuol dire anche "scaffale", dove il Ge (che traduce il cum
latino), sta per il modo della raccolta. E che il Ge lo ritroviamo nel Gefahr,
nel "pericolo" della tecnica come orizzonte planetario in cui il
"pensiero calcolante" oblitera definitivamente l'essenza dell'Essere.
203 Si confronti col già citato Pentalogo della persuasione; per cui cfr. anche
oltre, in relazione ad un altro pentalogo, quello tolstoiano. Mittwisser,
ovverdwc, conscius, ma complice in buona fede» [108] del lucignolo dio della
popoya, nel disporre e nel gioire del suo "svago" e delle sue
comodità. 204 Leggiamo in questo senso la simpatia di M. per l'opera di Collodi
(come ricordato in precedenza, secondo la testimonianza della sorella Paula) e
abbiamo inserito apposta qui il riferimento, anche per esigenze di variatio.
118 5. L'insoluto scontro universale di Rettorica e Persuasione. Le proposte di
M. per un definitivo affermarsi della Persuasione. Lo scontro coni fatti. Di
fronte alla Rettorica, in un assetto dunque non monolitico, ma dinamico,
plurale, sta la forza della Persuasione, la forza della resistenza, l'autonomia
"politica" (autonomia, ma politica) del vir: quest'ultimo, come
dicemmo, vive in uno stato di emulsione. «Questi punti di resistenza sono
presenti dappertutto nella trama del potere. Non c'è [...] rispetto al potere
un luogo del grande Rifiuto - anima della rivolta, focolaio di tutte le
ribellioni, legge pura del rivoluzionario. Ma delle resistenze che sono degli
esempi di specie: possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge,
solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al
compromesso, interessate o sacrificali»* “°°. La forza del vir sta nel
distinguersi in questo coacervo di opposizioni più o meno consapevoli, più o
meno sincere, più o meno innervate nella (o esposte alla) malafede:
l'opposizione alla Rettorica rischia a sua volta di farsi rettorica, talora è
lo stesso dispositivo che maschera se stesso nelle forme della sua
opposizione”. 205 Cfr. nostra nota 167. 206 Troviamo interessante, a tal
proposito, il tentativo già di Quintiliano di confutare questo carattere
ancipite della retorica: ovviamente, lo scrittore latino fa riferimento alla
retorica intesa nella sua fenomenologia più povera, ovvero come "arte del
dire"; eppure, già qui, Quintiliano si mostra consapevole della potenza
del dispositivo, tale da riuscire a rovesciare una posizione nel suo contrario;
si mostra altresì persuaso che una retorica che rinnega se stessa è piuttosto
un'eristica; e che, di converso, il vero retore segue una morale (quella del
credibile, del verosimile) che non può essere confutata, perché mira al bene
della comunità. C'è una lunga tradizione latina dietro alle parole del
pedagogista, che risale almeno a Catone: l'oratore è il vir bonus dicendi
peritus. Tuttavia, l'autore del brano, verso la fine, quasi sconfessa se
stesso: la retorica si scopre come mero strumento di dominio (seppure volto al
bene della comunità), strumento eminentemente politico che, in un certo
momento, si dissocia volentieri da quella stessa moralità che dovrebbe invece
permearla e che lo scrittore appassionatamente pur le ascrive. E' altresì interessante,
secondo noi, valutare le arti "gemelle" che Quintiliano associa alla
retorica nel corso della sua confutazione: la scherma, il pilotaggio, la
strategia condividono - con la stessa "arte del dire" - il medesimo
sfondo polemico, la medesima finalità di sconfiggere l'avversario. Ovvero, il
meccanismo retorico ad un certo punto si astrae dal suo luogo di origine e
diviene elemento strutturale e caratterizzante di tutto l'agire umano. Dunque,
anche la confutazione di Quintiliano finisce col ritorcersi contro se stessa.
[Del testo, abbiamo evidenziato in corsivo i passaggi che riteniamo cruciali].
«Assai spesso si fa quest'altra cavillosa accusa alla retorica, che la
discussione abbia luogo da una parte e dall'altra; ne segue che, mentre
nessun'arte è opposta a sé stessa, per la retorica avviene il contrario; mentre
nessun'arte distrugge quello che ha fatto, ciò tocca alla retorica; parimenti,
essa insegna o quanto è da dire o quanto non è da dire, quindi essa non è arte
o in quanto insegna quel che non si deve dire o in quanto, dopo aver insegnato
quel che si deve dire, insegna pure il contrario. Evidentemente queste
considerazioni riguardano solo quella retorica che è aliena dalla moralità
dell'oratore e dal concetto stesso di virtù: del resto, dove la causa è
ingiusta, ivi non ha luogo la retorica, per cui è quasi inverosimile che sia un
buon oratore, cioè un uomo onesto, a difendere l'una e l'altra parte in causa.
Tuttavia, essendo nell'ordine naturale delle cose che due giuste cause dividano
in campi opposti due saggi, dal momento che essi pensano di dover venire a
scontrarsi tra loro, se la ragione cosi comanderà, risponderò a tali argomenti
e certamente in modo da dimostrare che tali idee sono state vanamente
escogitate anche contro quanti concedono il titolo di oratore pure alle persone
dai cattivi costumi. Intanto la retorica non è in contrasto con se stessa:
perché si mette a confronto una causa con un'altra causa, non la retorica con
sestessa. E se tra loro contendono due oratori che hanno imparato la stessa
cosa, sarà sempre arte quella che è stata insegnata sia all'uno che all'altro;
d'altro canto, ciò si verifica nella scherma, perché sovente gladiatori
allenati dallo stesso maestro vengono messi l'uno di fronte all'altro; nel
pilotaggio, perché nelle battaglie navali un pilota fronteggia l'altro; nella
strategia, perché un generale combatte contro l'altro. Allo stesso modo la
retorica non sovverte quel che ha creato. Infatti, l'oratore non distrugge le
argomentazioni da lui proposte e neppure fa questo la retorica, perché tra
quanti pongono come finalità di quest'arte il persuadere o tra due galantuomini
che, come ho detto, qualche caso abbia posto di fronte, oggetto della ricerca è
ciò che più si avvicina alla verità: e se una cosa è più attendibile di
un'altra, essa non sarà opposta a quella che pure apparve attendibile. In
sostanza, come non c'è Di contro, la Persuasione deve trovare una sua coerenza,
una sua consapevolezza, una sua "bontà gratuita", che la distolga
dalla tentazione di invischiarsi anch'essa nella trama di potere, o di essere
inglobata (e dunque di divenire inoffensiva) in una delle tante "sacche di
tolleranza" che la Rettorica ha a sua disposizione. La voce della
Persuasione (soprattutto attraverso l'insegnamento socratico, che ne
rappresenta la trasposizione umana più fedele) [... ]risveglia nell'uomo la
richiesta del bene attuale e lo affranca dal pericolo di dar valori a nomi così
da esser per questi tratto a adattarsi all'irrazionalità di una qualsiasi vita
sufficiente; lo libera dalla vana attesa d'un futuro che porti ciò di cui nel
presente non abbia in sé la potenza, lo libera dalla soggezione dell'ambiente
in ciò che gli nega il possesso di quanto dalle cose e dagli uomini gli possa
esser dato diverso da lui, additandogli come unico possesso da seguire la
propria anima [PR 150]. Ecco perché, a nostro parere, la forza rivoluzionaria
di M. non può essere assimilata alla contestazione, filosofica e politica,
della scuola di Francoforte (strascico dell'istanza marxista), come pure
qualche critico" ha proposto. Certo, vien quasi naturale conchiudere
l'analisi M.iana sul dispositivo rettorico nelle parole programmatiche che un
Marcuse appone al suo capolavoro: «Una confortevole, levigata, ragionevole,
democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata »°°8,
Altrettanto spontaneo nascerebbe l'accostamento tra gli uomini rettorici e i
«salauds» di Sartre (o i «fieri benpensanti», ma per il Francese è lo stesso),
«quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili», credendo
(o fingendo di credere) a quell'edificio ordinato di valori, diritti, abitudini
che si sono costruiti per dare un ruolo, un senso a sé e alle cose, occultando
l'abisso della gratuità e assurdità del mondo e dell'esistenza?°’. opposizione
tra ciò che è bianco e ciò che è più bianco, tra ciò che è dolce e ciò che è più
dolce, così opposizione non c'è tra quanto è credibile e quanto è più
credibile. La retorica non insegna mai quello che non dev'essere detto, né il
contrario di quello che dev'essere detto, ma quel che in ciascun processo
dev'essere detto. E non sempre, anche se molto spesso, la verità va difesa a
tutti i costi, perché in certi casi l'interesse generale impone la difesa di
ciò che è falso» [Quintiliano, Institutio oratoria, II, 17, 30-36, trad. P.
Pecchiura]. 207 Ad esempio, il Cerruti: ma l'opinione è divenuta oramai quasi
un luogo comune. Il critico, comunque, fa un rilievo che possiamo accettare, e
preporre anche alla nostra analisi: M. quando attacca il "sistema
rettorico" - o la Rettorica fatta sistema, com'egli dice - rivolge invero
le sue critiche ad un paradigma assoluto di "comunella di malvagi"
(ogni comunella è, sempre e dovunque, malvagia); tuttavia la sua spietata
disanima ha buon gioco nel prender di mira l'epifania storica di quella
comunella a lui contemporanea, cioè la società borghese di fine ottocento -
inizio novecento, come risultante ultima, almeno in ordine di tempo, della
degenerazione "politica" dell'uomo (e ciò, nota il Cerruti, si
esplicita soprattutto nel Discorso al popolo; ma cfr. la sua monografia su
Carlo M., Mursia - Civiltà Letteraria del Novecento, 1987 2ed, pag. 48] 208
Cfr. Marcuse, L'uomo a una dimensione, Einaudi, 1999, pag. 15. 209 Cfr. J
.P.Sartre, La Nausea, Einaudi, 1989 nella fattispecie le pagg. 165-178.
L'ipocrita rettorica dei salauds trova il proprio corrispettivo, amabile e
ingenuo, nell'ostinazione di Anny nel creare «momenti perftti», sforzi tanto
minuziosi quanto vani per ricomporre il mondo intorno a lei. Per Sartre,
l'esistenza che si svela (la vera esistenza) è appunto la Nausea, una pozza
tiepida di terribile consapevolezza del putridume che intride l'aria, la luce,
i gesti della gente. Se M. avesse potuto leggere Sartre, avrebbe chiamato
certamente anch'egli Nausea la disgustosa "condizione onirica" che
attanaglia l'uomo nelle situazioni limite della propria esistenza [per cui cfr.
supra]. Ma nondimeno l'avrebbe combattuta. Eppure, la distanza tra le due
posizioni - quella di M. e quella francofortese- sartriana - non è solo di
prospettiva storica, ma innanzitutto di prospettiva etica’: un Adorno, un
Marcuse, un Horkheimer, un Sartre (il loro stesso progenitore: Marx) si muovono
ancora nella rete dei poteri, traggono ancora ispirazione dalla spirale di
violenza: la trasformazione ch'essi prospettano, la contestazione di cui essi
si fanno portavoci mira, l'è vero, ad essere destabilizzante, a minare dalle
fondamenta le forme costituite della Rettorica (ovvero, com'essi la chiamano,
dell'amministrazione”'') ; eppure la loro contestazione alla violenza avviene
attraverso la violenza per l'instaurazione di una nuova violenza, ch'è la
stessa Rettorica con nome solo mutato: i giacobini della rivoluzione si
affannano a riscrivere una nuova "enciclopedia" della mappa del
potere, contraddittoria ma non contraria a quella che già esiste. Se proprio
vogliamo trovare un riferimento, più o meno attuale, alla soluzione M.iana,
potremmo casomai chiamare in causa l'utopia di un Bloch. Ma anche qui il
paragone non tiene. Perché M. si pone su un piano decisamente
"altro": la sua Persuasione non consiste in una riorganizzazione del
potere, neanche nelle parvenze di una sua "castrazione". La
Persuasione del Goriziano mira piuttosto a scardinare ogni sufficiente relazione,
ovvero - lo ripetiamo ancora una volta - a svellere la violenza dalle sue
radici, in maniera definitiva. L'atto di accusa contro le "scuse"
della Rettorica è in lui totale, esasperato, e in questo potrebbe dirsi
utopico: eppure contiene una sincerità che non ci sentiamo di attribuire ai
teorici della violenza contro la violenza. Il nostro giovane filosofo avviò una
disperata ricerca di "punti di appoggio" a questa sua proposta di
Persuasione, e - come visto - la individuò in un /eitmotiv che legava esperienze
storiche e culturali eterogenee, da Sofocle, Socrate, Cristo, Buddha, a Ibsen a
Beethoven e Leopardi: voci - quasi confuse (intendiamo: eccentriche, molto
diverse tra loro) - che il tesista riassettò, compilando una propria,
personalissima storia dell'umanità persuasa decisamente alternativa ad ogni
ufficiale, pacifica, compassata storia della razionalità occidentale (che è poi
la storia del potere occidentale). Quei punti di appoggio dovevano corroborare
una sua intima persuasione, ovvero dovevano garantirle (anche) una dignitosa
piattaforma speculativa, che ne scongiurasse il pericolo di essere mal intesa
(come ancor oggi purtroppo avviene) quale mera, epidermica, gratuita pulsione
eversiva e contestatrice rispetto a quanto la circondava. 210 Come giustamente
lamenta il Campailla. Scrive molto bene lo studioso: «[da un simile
accostamento] vien fuori un travisamento del pensiero di M.; il quale ha
lottato non per avviare una rivoluzione sociale, ma per ricostruire il valore
etico dell'esistere sul non senso dell'essere» [cfr. Campailla, Pensiero e
Poesia..., cit, pagg. 142-143; corsivi nostri]. 211 Facciamo notare che M. vede
negli «impiegati [... ] le anime 'implicate' per eccellenza» [PR 110],Una
storia della Persuasione, infine, che sembra scandirsi, anzi che effettivamente
s'identifica, con una storia del Tragico. La Persuasione, dallo scontro «a
ferri corti con la vita», esce perdente. Certo, è così, ribadisce M.: è un
fatto innegabile, un esito che "le accade" comunque, suo malgrado.
Come è ‘anche vero che la Rettorica ha assorbito, metabolizzato le
testimonianze persuase e le ha fatte diventare le proprie testimonianze,
esplicito ribaltamento effettuato con malafede: la Rettorica «mangia e beve e
prolifica in nome di Buddha, in nome di Cristo» [adattato da PR 123];
ripetiamo: «Ironia del dispositivo: ci fa credere che ne va della nostra
liberazione». Eppure la voce della Persuasione, seppur agonizzante, resiste con
tenacia, sorvola anche ogni sua strumentalizzazione, s'insinua nelle falle del
"divertimento" rettorico, approfitta dei suoi cedimenti (ogni
pletorica ha i suoi punti deboli, per quanto minimi): la sua voce di
disincanto, per taluni irritabile, "sgomita" insomma per arrivare
fino a noi, ad inquietarci. E a volte ci riesce, neanche questo si può negare.
E' la "profezia" di Socrate, l'anatema del Persuaso rivolto contro i
suoi accusatori ed assassini: [... ]lo dico, o cittadini che mi avete ucciso,
che una vendetta ricadrà su di voi, subito dopo la mia morte, assai più grave
di quella onde vi siete vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto
questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere conto della
vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predìco. Non
più io solo, ma molti saranno a domandarvene conto: tutti coloro che fino ad
oggi trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto più ostinati
quanto più sono giovani; e tanto più voi ve ne sdegnerete. Ché se pensate,
uccidendo uomini, di impedire a qualcuno che vi faccia onta del vostro vivere
non retto, voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi da
costoro; e non è affatto possibile né bello; bensì c'è un altro modo bellissimo
e facilissimo, non togliere altrui la parola, ma piuttosto adoperarsi per
essere sempre più virtuosi e migliori?!?.6 Il pretesto cronologico della
proposta persuasa di M.. La violenza a lui contemporanea. Se tento di trovare
una formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima guerra
mondiale, il tempo in cui son cresciuto, credo di essere il più conciso
possibile dicendo: fu l'età d'oro della sicurezza. Nella nostra monarchia
austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva
il garante supremo di tale continuità. | diritti da lui concessi ai cittadini
erano garantiti dal parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente eletta,
e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti. La nostra moneta, la corona
austriaca, circolava in pezzi d'oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno
sapeva quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel
che era proibito: tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi
possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo
corrispondente; il funzionario, l'ufficiale potevano con certezza cercare nel
calendario l'anno dell'avanzamento o quello della pensione. Ogni famiglia aveva
un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l'affitto e il vitto,
per le vacanze o per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola
riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa
la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende
passavano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in
culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il
primo obolo per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino. Tutto
nel vasto impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il
sovrano vegliardo, ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere)
che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell'ordine
prestabilito. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni
atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della
ragione. Questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l'ideale comune
di milioni e milioni. La vita pareva degna di esser vissuta soltanto con tale
sicurezza e si faceva sempre più ampia la cerchia dei desiderosi di partecipare
a quel bene prezioso. Dapprima furon solo i possidenti a compiacersi del
privilegio, ma a poco a poco accorsero le masse; il secolo della sicurezza
divenne anche l'età d'oro per tutte le forme di assicurazione. Si assicurava la
casa contro l'incendio e il furto, la campagna contro la grandine e i
temporali, il proprio corpo contro gli infortuni e le malattie, si acquistavano
pensioni per la vecchiaia e si offriva alle neonate una polizza per la dote
futura. Alla fine si organizzarono anche gli operai, conquistandosi paghe
regolate e le casse malattia, mentre i domestici si preparavano coi risparmi
un'assicurazione sulla vecchiaia e pagavano in anticipo un obolo per i propri
funerali. Solo chi poteva guardare l'avvenire senza preoccupazioni, godeva il
presente in tutta tranquillità. In questa commovente fiducia, di poter chiudere
anche l'ultima falla all'irrompere della sorte, c'era, malgrado l'apparente
austerità e modestia nel concepire la vita, una presunzione pericolosa.
L'Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via
diritta ed infallibile verso 'il migliore dei mondi possibili' Guardava con
dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come
fossero state tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente
illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime
violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un
'progresso' ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell'età la forza di una
religione; si credeva in quel progresso già più che nella Bibbia ed il suo
vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli della
scienza e della tecnica. In realtà, sulla fine di questo secolo di pace
l'ascesa generale si fece sempre più rapida e molteplice. Nelle strade
splendevano di notte al posto delle tremolanti lanterne le lampade elettriche,
i negozi portavano dalle vie centrali sino alla periferia il loro splendore
seducente; già in grazia del telefono si poteva comunicare da lontano, già si
poteva correre nei carri senza cavalli con velocità impensate, già l'uomo si
lanciava nell'aria attuando il sogno di Icaro. Le comodità della vita passarono
dalle dimore signorili a quelle borghesi; non si dovette più attingere l'acqua
dal pozzo o dal ballatoio, non più accendere con pena il fornello. Si
diffondeva l'igiene, spariva la sporcizia. Gli uomini diventavano più belli,
più sani, più forti da quando lo sport ne irrobustiva il corpo e sempre più
raramente si vedevano deformi, gozzuti, mutilati: tutti questi miracoli erano
stati compiuti dalla scienza, arcangelo del progresso. Anche nel campo sociale
si andava avanti; di anno in anno venivano concessi nuovi diritti
all'individuo, la giustizia veniva amministrata con maggiore senso umanitario e
persino il problema dei problemi, la povertà delle masse, non appariva più
insuperabile. Il diritto di voto venne concesso ad una cerchia sempre più vasta
e con ciò anche la possibilità di difendere legalmente i propri interessi;
sociologi e professori andavano a gara nello sforzo di rendere più sana e
persino più felice l'esistenza del proletariato... Come stupirsi che il secolo
si compiacesse dell'opera propria e vedesse in ogni nuovo decennio solo un
gradino verso un decennio migliore? Non si 212 Apologia 39 c-d [qui nella bella
traduzione di G. Reale].temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli
europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri
padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza
conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le
divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito
per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace
e la sicurezza, i beni supremi. [...]?!3. Abbiamo trascritto per intero le
pagine con cui Stephan Zweig apre la sua splendida autobiografia (ma il termine
le va stretto), perché sono un ritratto fedele e commosso - una riconoscente
biografia - dell'Austria Felix che rappresentò l'humus vitale, politico,
culturale, sociale in cui visse il celebre scrittore ebreo, e in cui visse anche
il nostro Goriziano. Gorizia, infatti, al tempo di M., era ancora austriaca
(passò all'Italia, come si sa, solo alla fine del primo conflitto mondiale):
rappresentava, del mastodontico impero, una delle estreme propaggini (la sua
provincia) e di quello stesso impero, come per ogni provincia avviene, riproduceva
- nel suo piccolo benessere?'* - lo splendore, ma anche le contraddizioni,
complicate dalla sua collocazione liminare. "Città giardino",
"Nizza d'Austria", luogo privilegiato per le vacanze della nobiltà
asburgica, attratta dal clima mite (l'Adriatico dista non molti chilometri),
dalla dolce vita cittadina, dagli ottimi vini già allora rinomati, da
un'architettonica aristocratica e gradevole che ancora oggi la caratterizza.
Questa sua geografia di confine inevitabilmente si rifletteva (e ancor oggi si
riflette) in una multiforme, in sempre fermento, geografia culturale: un
ibridismo, eclettico e non meramente sincretico, che si giovava delle
fecondanti suggestioni d'incontro tra la cultura italiana, slava e germanica, e
che da esse ricavava una sua pur autonoma, originale risultante. A buon
diritto, Gorizia acquisiva dignitosa posizione tra le compagini di quel
multiforme mondo per cui è stato coniato il termine Mitteleuropa, termine che
da geografico è giocoforza slittato ad indicare una particolare connotazione,
appartenenza culturale, anzi addirittura una categoria esistenziale. I M. erano
una delle famiglie più stimate della piccolo-media borghesia benestante della
città: e un ulteriore elemento esasperava la loro posizione sociale: erano
ebrei. Alberto M., il padre di Carlo, era in effetti il ritratto vivente
dell'ebreo assimilato: cercava quasi di velare quella sua discendenza, dandosi
da fare alacremente per ottenere il consenso e il decoro sociale. Era un
instancabile lavoratore: aveva messo su un negozio di cambiavalute, che si era
da subito rivelato redditizio; nei ritagli di tempo, si dedicava alla
letteratura: «Fu un autodidatta - ricorda la figlia Paula, nei già citati
Appuntf "° - Era quasi un bibliomane. Comperava libri, soprattutto d'occasione,
e presto si formò una grande biblioteca di 213 S, Zweig, Il mondo di ieri,
Oscar Mondadori, 1994, pagg. 9-11 214 | volti soddisfatti di una borghesia in
ascesa ci sono tramandati dai ritratti del pittore autoctono Giuseppe Tominz.
opere eterogenee che a noi bambini quasi incuteva rispetto. [...] La nostra
casa fu il centro di riunioni intellettuali e anche di allegri convegni
famigliari». Di animo buono e pronto allo spirito, tuttavia «era conservativo
per le usanze tradizionali ebraiche, ma non era osservante dei riti né
possedeva uno spirito religioso. Anzi era il tipico rappresentante della
mentalità materialistica dell'Ottocento». Politicamente è un liberale, attivo
sostenitore della causa irredentista. Raggiunta una certa sicurezza economica,
Alberto può "permettersi" anche un quarto figlio: il nostro Carlo
Raimondo M. (il doppio nome è già un compromesso di italianità ed ebraicità,
così tipico del padre) nasce il 3 giugno 1887. Abbiamo indugiato sul ritratto
della figura paterna del filosofo goriziano non per incoraggiare una lettura
psicoanalitica, ma perché - semplicemente - Alberto M., com'era di sua natura,
insistette sempre nel veicolare la formazione del figlio (forse più che per gli
altri tre, nell'ordine Gino, Elda e Paola: Carlo era quartogenito): una
presenza costante, schiva ma opprimente, che alla dimostrazione diretta dell'affetto
e del consiglio preferiva la stesura di veri e propri sermoni scritti: il più
famoso tra essi è quello che appunto si ricorda come Sermone paterno,
consegnato a Carlo all'atto della sua partenza per Firenze”'°. Alberto riponeva
nell'ultimo figlio quella speranza disattesa dal primo, Gino, partito a cercar
fortuna in America (dove invece troverà la morte), non in grado di soddisfare
le paterne velleità culturali. Il nostro Carlo, da parte sua, vide il padre
sempre come una figura, seppur lontana nel senso "fisico"
dell'affetto, comunque degna di ogni rispetto, elogio, e soprattutto
riconoscenza: una figura enigmatica (in un bozzetto lo 215 Sono gli Appunti per
una biografia di Carlo M., contenuti in appendice al volume di Campailla
Pensiero e poesia..., cit, alle pagine 147-164. Gli stralci che riprendiamo
dalla biografia, nel corso del nostro discorso, s'intendano passim. 216 Vale la
pena riportare alcuni passaggi nodali del Sermone, per render conto della
pressione cui la "rettorica familiare" sottoponeva il nostro giovane
e per fornire testimonianza indiretta della patina moralistica (impregnata di
"senso del dovere") che doveva aver informato tutta la sua educazione
in famiglia. Invitiamo anche il lettore ad un raffronto col Sentir e meditar
(presente nel Carme in morte di Carlo Imbonati, vv. 207-215) di manzoniana
memoria, che a nostro parere presenta considerevoli punti di contatto con
quanto segue. «Mio caro Carlo questo ritratto non ti dà l'imagine del papà
"bello" e scherzoso, è il papà serio, | 'hai detto tu; del resto il
papà è serio anche quando scherza ed è poi giusto che oggi io mi ti presenti
con fisonomia pensosa, perché vengo a farti gli ammonimenti della vigilia della
partenza. [...] Hai fatto qui i tuoi studi con onore ed ora vai in un ambiente
gajo ed artistico a nutrirti la mente di discipline piacevoli e utili. Ma spero
che la tua coscienza t'avvertirà sempre che non vai a godere soltanto, che hai
doveri da compiere. - La coscienza deve aver sempre la parola e dev'essere
sempre ascoltata in ogni nostro passo - ogni nostra azione dev'essere retta dal
criterio che prima d'ogni altra cosa dobbiamo compiere il nostro dovere. - Il
dovere è il faro [...] Guardati Carlo da ogni eccesso, ricordati che nella
misura sta il segreto d'ogni benessere, d'ogni buona riuscita.- Misura nei
godimenti e nello studio, negli attaccamenti e nelle predilezione oggettive e
soggettive.- Il senso della misura rende tutto efficace, spreme da tutto il
giusto diletto e l'utilità, l'eccesso sforma e guasta tutto, ritorce a male le
cose migliori.- [...] Pensa sempre, Carlo, specialmente nei momenti di
perplessità nella tua condotta al papà e alla mamma: Cosa mi direbbero essi?
interrogati e tu conosci il nostro cuore e i nostri principi troverai il giusto
responso. [...] Pensa sempre che una tua mancanza all'onore anche inorpellata
da sociali mitiganti, sarebbe la condanna di morte di tuo padre che non ammette
scuse per quelle prevaricazioni, che ha fatto base della propria esistenza
l'onore, sua legge suprema l'onesto lavoro, sua religione il dovere». [il testo
del Sermone paterno è contenuto nei Dialoghi intorno a M., Gorizia, Biblioteca
Statale Isontina, 1988, pagg. 10-13; le nostre citazioni sono passim],
raffigura alla stregua di una Sfinge!), cui voler bene, perché - M. ne era
consapevole - anch'egli evidentemente nascondeva una sua certa, sincera
Persuasione che non riusciva però a palesare. Col tempo, il sermone paterno
dovette apparire al giovane filosofo una delle espressioni più eclatanti della
Rettorica familiare, ma egli non ne fece mai parola al padre, per non ferirlo:
per lo stesso motivo, lodava le mediocri prove letterarie di quello con
affettuosa, filiale ipocrisia. Ma, tutto sommato, l'infanzia del nostro
filosofo trascorre in maniera più che serena: l'armonia e il benessere che
regna in famiglia è il riflesso fedele dell'«elogio della sicurezza felice» di
Zweig. Carlo - ci rivela ancora Paula M. - «nei primi anni [tra i quattro
figli] era il più mite, dolce, ubbidiente. Si ribellava [...] soltanto ad una
sola cosa: a chieder scusa di una disubbidienza o di un fallo commesso, anche
se sapeva di aver avuto torto [...}». Da piccolo, piuttosto pauroso e
introverso e "speculativo" (a tre anni, a commento di un fatto
luttuoso, dice alla sorella «Ma sai, anche tu, anche io, tutti un giorno
dovremo morire»), riuscì col tempo a superare quegl' "inceppi":
fonda, allora, con la sorella un Periculum club, la sua esuberanza Ad esse ben
presto si associa la sua passione assoluta: i ballo. Divenuto davvero
estroverso, è l'idolo di coetanei e colleghi: considera tutti i suoi amici con
lo stesso affetto e considerazione, non privilegia nessuno: si perdonano volentieri
a vicenda ogni tipo di monellerie, le più e le meno gravi. Pieno anche di sana
autoironia, porta ovunque vada una fresca ventata di gioia e giovinezza (ad una
festa si traveste da donna, facendo furore): gli piace corteggiare le ragazze,
ma non è importuno o maleducato, anzi le tratta tutte con grande rispetto. Gli
piace vestir bene, ma non è oltremisura vezzoso, o affettato. Comincia altresì
a disegnare (anzi, si scopre un vero genio nella ritrattistica caricaturale?'*)
e ad interessarsi di musica. Il suo si rivela un carattere buono, comprensivo,
portato alla pietà: è celebre l'episodio con un cane randagio (episodio che
Carlo avrebbe in seguito raccontato in greco e lo Mreule tradotto in latino),
sfamato e curato dal giovane: alle lamentele dei genitori, per quell'estranea
presenza in casa, M. risponde con una notte "randagia" passata
all'addiaccio. A scuola, e la cosa può un po' stupirci, tutto procede senza
infamia e senza lode: studia volentieri, ma non con esagerata diligenza (le sue
materie preferite sono, manco a dirlo, disegno, italiano e matematica) e si
segnala piuttosto per motivi disciplinari (dannazione dei professori le
schermaglie col compagno di banco Ruggero Bressan)"®; quindi, 217 Cfr. la
diapositiva | [Ritratto del padre-sfinge] nel supporto iconografico. 218 Cfr. M.
caricaturista, nelle nostre Integrazioni. 219 E' d'uopo, a questo punto, a
compendio di quanto finora detto, riportare la testimonianza di un collega
ginnasiale più giovane, nientepopodimeno che il futuro poeta Biagio Marin.
L'episodio ricordato dal Marin [che noi leggiamo riprodotto in Cerruti, Carlo M.,
cit., pagg. 7-8] è piuttosto famoso nella cerchia degli estimatori del
Goriziano e ci testimonia di come già allora un ancor giovanissimo Carlo
apparisse ai suoi colleghi, come dire, circonfuso di un alone di soprattutto
per assecondare le aspirazioni paterne, si mostra propenso ad iscriversi alla
severa università di Vienna. Effettivamente vi si iscrisse, alla facoltà di
matematica e fisica, «ma poi spinto dal suo amore per l'arte [e per l'ambiente
italiano e la lingua] pregò il babbo di lasciarlo andare almeno un anno a
Firenze, che non conosceva, ma poi vi rimase per tutto il corso degli studi».
Come si immaginerà, per Alberto M. fu una mezza delusione, che non mancherà di
far pesare al figlio. Ma che cosa era successo, nel frattempo? Come mai, forse
la prima volta (eccezion fatta per poche, irrilevanti schermaglie), il giovane
goriziano si assunse, tutt'ad un tratto, il rischio di una scelta così
decisiva, definitiva, così... autonoma? L'inflessibile mente del padre non
poteva comprenderla fino in fondo (seppur comunque la rispettasse): più
disponibile e comprensiva et madre Emma, come sempre. Che cosa era successo,
quindi? In effetti, M. già da tempo conduceva - in parallelo alla canonica
educazione scolastica - una propria Bildung culturale e umana: ad esempio,
«s'interessò moltissimo per la letteratura ussa e lesse quasi sempre in
traduzioni tedesche Tolstoi, Puskin, DostojJewsky, ecc...». Ma soprattutto un
evento doveva aver scosso il giovane, un incontro evidentemente non
occasionale, ma fatale - diremmo "congiunturale" - nella storia della
Persuasione: l'incontro appunto con Enrico Mreule, con il dèmone Enrico. «Si
avvicinarono, mi pare - scrive ancora Paula M. - nell'ultimo anno di scuola.
Mreule era una natura chiusa, aveva avuto un'infanzia triste, si trovava male
in famiglia, s'era isolato e aveva già da giovinetto tendenze filosofiche
precoci. Fu lui a far conoscere a Carlo Schopenhauer e a iniziarlo alla ricerca
dei valori della vita. Con Mreule e con un altro compagno, Nino Paternolli, si
trovava spesso in una grande soffitta in casa di quest'ultimo, dovepassavano
delle lunghe sere a discutere problemi seri». L'incontro cruciale con Enrico,
dunque, rivela a M. un'impressione che già lui stesso, per profondità e
riflessione innate, fiutava nell'aria («sotto la cenere ardeva il fuoco», sana
Persuasione, E' quasi superfluo dire che dalle parole del poeta (non poteva
essere diversamente) ci viene consegnato uno dei più bei ritratti del giovane M..
«Ero in quarta ginnasiale quando lui era in ottava. Tutti lo conoscevano. Come
avviene sempre, noi più giovani guardavamo a quelli degli ultimi corsi con
rispetto. Non parliamo poi di quelli dell'ottava. Tra essi il più notato, per
la sua bellezza, per la sua eleganza, e soprattutto per un cappello grigio che
portava tondo alla spagnola, a tese pari, era Carlo M.. Era uno dei
"bravi" un "erninentista" come si diceva allora. Accanto a
lui, i suoi amici Rico Mreule e Nino Paternolli, e uno, che poi non ho più
visto, bello alto, che credo si chiamasse Simsig. Un giorno, deve essere stato
di maggio, perché faceva già caldo, ero alla fontana nel cortile di tramontana,
durante la pausa delle dieci. Ed ecco, sopravviene il gruppo degli splendidi
amici. lo, che avevo appena accostata la bocca alla cannella, mi ritirai per
far posto ai signori dell' "ottava". E Carlo, che era il primo,
vedendo nei miei occhi e nel mio gesto quel rispetto che mi aveva fatto
dimenticare la mia sete, mi sorrise con quel suo sorriso bianchissimo tra le
belle labbra violacee, e mi disse: "bevi". Ma io non volli bere sotto
i suoi occhi così vivi e neri, quasi fossi preso da pudore, e, "bevi prima
tu", gli dissi. Allora si tolse il cappello grigio orlato, che era il
tocco in lui più originale e me lo porse dicendomi: "allora tienmi per
favore il cappello". E si mise sotto la cannella con la bocca ridente e i
capelli, che aveva lunghi e neri e riccioluti, gli fecero nimbo intorno
pallido, nobilissimo. Vedendomi, come aveva smesso di bere, allocchito, mi
diede un buffetto e mi disse: "ora tocca a te, bevi"»ammonisce
Paula): l'età della sicurezza celava, al di sotto della sua patina dorata,
un'oscura, sottile malattia: una decadenza. Questa lancinante consapevolezza,
questa verità presentita ma fin allora "rimossa", squarcia in modo
così violento al giovane l'alcova che premurosamente la famiglia gli aveva
costruito intorno, che a un certo punto M. comincia addirittura a somatizzare
il morbo del suo tempo. Il suo corpo si rivela più debole e cedevole di quanto
mai avesse sospettato: soffre continui mal di stomaco, ogni volta che cerca di
ripetere le sfuriate della prima giovinezza, incappa in una slogatura, in una
frattura, in una rovinosa caduta. Il celebre passo di una lettera, scritta alla
sorella in un momento diparticolare sconforto, può darci conto dell'angoscia
del nostro filosofo: [... ] soffro perché mi sento vile, debole, perché vedo che
non so dominar le cose e le persone come non so dominar le idee che
m'attraversano il capo vaghe indistinte, come non so dominar le mie passioni;
che mi manca l'equilibrio morale, e non ho quindi quell'impulso poderoso che fa
andar qualcuno sicuro a testa alta attraverso la vita, che mi manca
l'equilibrio intellettuale, per cui il pensiero va diritto al suo scopo; perché
m'accorgo di vivere quasi n un sogno dove tutto è incompleto ed oscuro, e
quando voglio rendermi conto, fissare ciò che mi aleggia intorno, tutto sfugge
dalle mani, e provo la pena come quando nei sogni si prova il senso
dell'impotenza di tutti gli organi, e mi sembra che ci sia sempre un fitto velo
fra me e la realtà; e mi convinco sempre più che non sono che un degenerato. Lo
so che tu griderai all'esagerazione, forse anche m'accuserai d'affettazione, e
di posa e che so io. Ma t'assicuro, non poso e sono con tutti sempre allegro, e
nemmeno ciò per partito preso ma perché naturalmente al contatto con gli altri
quella superficie di infantilità che ho sempre avuto e che avrò sempre si
vivifica, e assorbe, o sembra assorbire tutto il resto. E non esagero,
purtroppo. Un po' è individuale, un po' è la malattia dell'epoca per quanto
riguarda l'equilibrio morale, perché ci troviamo appunto in un'epoca di
transazione della società. Quando tutti i legami sembrano sciogliersi, e
l'ingranaggio degli interessi si disperde, e le vie dell'esistenza non sono più
nettamente tracciate in ogni ambiente verso un punto culminante, ma tutte si
confondono, e scompaiono, e sta all'iniziativa individuale crearsi fra il chaos
universale la via luminosa [...][E 158; corsivi nostri]. | sudditi sereni e
sicuri dell'Austria Felix, gli uomini "cacanici", si rivelavano, alla
men peggio, «uomini senza qualità», come avrebbe scritto Musil di lì a poco: la
stessa paternalistica egida dell'impero presentava una doppia faccia da Sileno
rovesciato, nascondendo la più potente, ma anche la più decrepita (allora),
macchina della Rettorica statale. Ovviamente, si trattava del male di tutto
un'epoca, che s'illudeva di vivere un periodo di pace, che anzi si imponeva
un'estemporanea garanzia di pace bellica tessendo un accomodante ordito di
sicurezza, legittimata dalle "rassicurazioni" dell'idealismo
hegeliano. Gli spiriti più attenti erano all'erta. Gli scrittori russi, con
leggero anticipo, avevano già vissuto e denunciato una situazione molto simile:
la Rettorica zarista era da tempo sull'orlo del baratro, e stava cedendo il
passo ad una nuova, non ancora precisata, Rettorica. In questo manifesto
(apparente) vuoto di potere, l'inquietudine segnava profonde ferite.
Dostoevskij, col caratteristico cipiglio polemico, parlava dal suo
personalissimo "sottosuolo", descriveva le più alte aspirazioni umane
come "umiliate e offese" fino all' "idiozia",
esasperava/semplificava la strategia del potere nella dialettica
"delitto-castigo"; Tolstoi conduceva (soprattutto) la sua soggettiva
polemica contro la menzogna e il sopruso che si maschera da ipocrisia, e
cercava risposte positive in unnuovo "umanesimo evangelico"; Goncarov
tacciava lo spirito russo di "oblomovismo", senza riuscire del tutto
ad evitarne il fascino; Saltykov-Scedrin accompagnava la nobiltà russa al più
basso livello di cupo, allucinante disfacimento, economico ma soprattutto
morale-esistenziale, come l'antesignano Gogol. Checov si adoperava nell'elevare
i motivi contingenti del ristagno spirituale a emblemi universali. Ma anche
nella "nostra" Europa, già si erano preannunciati i sintomi della
malattia post- hegeliana: Stirner già da tempo aveva ripudiato tutto e tutti;
Schopenhauer aveva trovato rifugio nel suo narcotico Nirvana; il
"folle" Nietzsche profetizzava la palingenesi universale e indicava
la sua Germania come la possibilità di una nuova Grecia, di un nuovo inizio, drammaticamente
esaudito. Il "veggente" Rimbaud, e con lui la schiera dei
"maledetti", sanciva nei suoi versi disturbanti e conturbanti tutto
il proprio livore per l'Europa. Freud proponeva interpretazioni oniriche al
disagio della civiltà, che dispiegava nella dicotomia cosmico-umana di Amore e
Morte, e invitava la malattia a confessarsi. Confessioni tormentate di Gide,
che accusava se stesso della malattia di tutta un'età. Oscar Wilde, da parte
sua, pareva avvoltolarsi compiaciuto tra le lenzuola della decadenza, causticamente
stigmatizzata - ma anche qui, non senza una certa compiacenza - da Huysmans.
D'Annunzio si faceva araldo di una rivolta tanto magniloquente quanto effimera
e povera di contenuti, tradendo senza pudore l'insegnamento giacobino del suo
mentore, Carduccf?°, divenuto anch'egli, nel frattempo, accomodante. Pascoli
(tanto per restare in Italia) trovava conforto nel suo ego e auspicava
l'avvento di un socialismo altrettanto "fanciullesco". Una voce
considerata purtroppo minore, Federigo Tozzi, suggeriva di chiudere gli occhi.
Gl' "idealisti" Croce e Gentile, ognuno a suo modo, invitavano al
contrario a tenerli ben aperti, ma a correggerne la miopia e la presbiopia
attraverso la lente (astigmatica) dello Spirito. Ma ci vorrebbero pagine e
pagine ad elencare tutti, e non è il caso: ci siamo limitati a libere
associazioni che si sono generate nella nostra mente. Fatto sta, che la voce
della denuncia e casomai della rivolta (il disincanto) non riesce a coagularsi,
suo malgrado non riesce neanche a chiarificarsi, disperdendosi nei mille rivoli
delle avanguardie e delle sperimentazioni (letterarie, ma anche pittoriche e
musicali: già, non dimentichiamoci almeno della pittura cruda e filosofica di
Klimt, Kokoschka, Schiele”: e della musica rivoluzionaria di Schoenberg) o
nelle voci isolate delle riviste (soprattutto in Italia)”. 220 Ammiratissimo da
M.. 221 Ma si tenga conto anche dei riferimenti fatti dal Monai,
nell'integrazione su M. caricaturista. 222 Vien da chiedersi come si ponesse M.
di fronte a tale fermento, tenendo conto a maggior ragione dei suoi studi
proprio a Firenze, ch'era, allora, davvero la capitale culturale d'Italia. In
linea generale, la critica letteraria tende ad inserire il Goriziano
all'interno dell'area (a dir la verità, molto sfumata) del frammentismo
vociano. Ma in effetti - come puntualizza Pierandrea Amato, nel suo bel saggio
che già abbiamo avuto modo di citare - «M. è 'spontaneamente' escluso da
Firenze; [...] la [sua] solitudine [...] è incondizionata"; ciò a
differenza di In modo speculare, rispetto a quanto detto sopra, la filosofia
filo-hegeliana e la scienza positivistica-darwiniana "pompavano" -
anche se su opposti versanti - continue, quotidiane iniezioni di fiducia ad una
borghesia che cavalcava il miracolo economico dell'industria al suo massimo
rigoglio: una borghesia che si dilettava tanto in dettagliate analisi
economiche quanto nella lettura dei romanzi di Verne; tanto in cervellotiche
soluzioni politiche di compromesso (l' "Italietta" giolittiana ne è
il più fulgido esempio) quanto nei salotti a lodare il cuore di De Amicis, a
biasmare l'impertinenza di Mann coi suoi Buddenbrook o a commentare lo strano
suicidio di un giovane maledetto, tale Otto Weininger; tanto in spericolati
investimenti quanto in oculati dietrofront assicurativi (ironia della sorte:
l'epoca della sicurezza vede il pullulare delle Assicurazioni Generali, quasi
inconsapevole presentimento dell'imminente catastrofe). Una borghesia, ancora
(stavolta generalmente medio-piccola), che si dava da fare nell'arginare certe
velleità socialiste- comuniste, collaborando alla creazione dei preziosi
alleati sindacali, oppure - laddove non riusciva - sfrenando la propria
piccineria in violenze gratuite e pseudo-intellettualistiche (leggi: futurismo,
ad esempio). Una cordata borghese-imprenditoriale, infine, che trovava nei
governi avallo, protezione, incitamento. quanto avviene per "altri giovani
intellettuali (Ara e Magris parlano di una vera e propria ‘pattuglia triestina'
che nei primi anni del secolo studia a Firenze: Slataper, Carlo e Giani
Stuparich, Spaini, Devescovi, Marin e altri) [che] trovano a Firenze e nelle
sue 'imprese' una seconda patria». Il critico sottolinea anche l'estraneità di M.
nei confronti dei coevi, roboanti e battaglieri, programmi delle Riviste (nella
fattispecie, fa riferimento al Leonardo) e azzarda che «tutta l'opera M.iana
potrebbe essere letta [...] anche come il rifiuto dell'impegno violento» che
promettevano appunto quelle riviste. Il critico riporta infine l'episodio
(apparentemente periferico) di un'estemporanea relazione epistolare tra il
Goriziano e Benedetto Croce, che allora già era nel pieno della sua carismatica
egemonia culturale. L'episodio - testimonianza lampante dell' «inserimento
frustrato di M. nella cultura italiana» - si riferisce alla proposta
(«irriverente, probabilmente solo ingenua») del nostro giovane filosofo di
attendere alla traduzione del capolavoro di Schopenhauer per i tipi della
Laterza, la cui sezione di filosofia moderna era diretta proprio da Croce.
Quest'ultimo «mi rispose subito - scrive M. alla famiglia - che Schop[enhauer]
pel momento non rientrava nei suoi progetti- ma che prendeva nota del mio nome
e ‘avrebbe occasione di scrivermi in seguito per traduzioni dal tedesco'»
[l'episodio infatti viene ricordato in E 262-263; le citazioni da Pierandrea
Amato fanno riferimento alle pagg. 168-169-170 passim del suo Attimo persuaso,
cit.]. L'ingenuità di M. stava proprio nel porgere una simile proposta di
collaborazione all'araldo dell'hegelismo italiano. Col tempo, dovette rendersi
conto che le parole in apparenza "attendiste" del Croce nascondevano
in realtà un netto rifiuto. Anche in seguito a questa presa di coscienza,
nonché evidentemente in seguito ad una lettura più attenta e critica dell'opera
crociana, M., in un appunto famoso, riversò tutto il suo sarcastico livore e
segnò in maniera netta tutta la sua sdegnosa distanza dal modo di "far
filosofia" del pensatore italiano. Riteniamo utile riportare il breve
appunto nella sua interezza, anche perché, indirettamente, ci rende
testimonianza della consapevole "asistematicità" del nostro filosofo
goriziano e, insieme, del suo porsi polemico nei confront della filosofia
"ufficiale" del suo tempo: «A B. C. [Benedetto Croce, e così anche
per il seguito] non per insultarlo e non per combatterlo, ma per dirgli la mia
ammirazione. Ammirazione per ogni onesta fatica. 'Ho un'ammirazione per questo
giovane - diceva un vecchio commerciante, di un giovane poeta - ho un
‘ammirazione per lui: ché se io fossi come lui cretino e ignorante non saprei
né leggere né scrivere, e lui fa tragedie'. Così io che sono un vecchio uomo
incallito nel lavoro ho un'ammirazione per Benedetto Croce, ché se io avessi
come lui una mente acuta e astratta, di filosofia non me ne sarei mai curato e
avrei fatto il giureconsulto - lui fa sistemi [corsivi nostri]. Ma i sistemi
non si fanno, e B. C. dopo aver assorbito tutti i libri di filosofia si spreme
e dice: Vedete quest'acqua di indicibile colore è il prodotto di tutte le altre
acque, se ne mancasse una non potrebbe essere quale è; di qui di mio c'è
soltanto l'aggiunta del mio proprio umore, e la mia angoscia è la sete degli
umori che mancano e che ci verranno soltanto dagli stracci del futuro. Così io
mi spremo disperatamente perché è dovere di ogni straccio di filosofo di
spremersi fino all 'ultima goccia dell'acqua propria e altrui, perché altri poi
assorba e risprema con l'aggiunta del suo umore, e altri ancora assorba e
sprema, e riassorbendone rispremendo vivrà l'umanità E' questo, grosso modo, il
quadro - storico, politico, culturale, morale - in cui viene ad inserirsi la
singolare, a suo modo astorica, "intempestiva", valutazione e
proposta di M.. AI Goriziano bastò guardarsi intorno con occhi nuovi per
valutare sempre più e più a fondo lo scheletro rettorico che sosteneva la polpa
dell'«esistenza soddisfatta di sé», e per intuire che la ventilata sicurezza
non era altro che una «gaia apocalisse», per dirla con Broch: ovviamente, a
cadere per prime - sotto gli strali del disincanto - furono le costruzioni
rettoriche ch'egli toccava con mano, quelle nelle quali era immediatamente
inserito, le strutture che lui stesso viveva: la famiglia, la vita cittadina (e
solo per riflesso quella nazionale), l'istituzione accademica. Nelle letture
che nel frattempo conduceva trovava casomai un riscontro di quanto già
avvertisse "a pelle". Scrive la preziosa Paula: «Presto [... ]
l'ambiente di cui si era fatto tante illusioni lo deluse, specialmente quello
universitario. Meno alcuni professori ai quali era affezionato, fra cui Villari
e Vitelli, gli altri lo urtavano per la loro rettorica e la loro vanità
[testimonianze esplicite, al limite del blasfemo, fioccano in molte lettere di
quegli anni]. Gli davano ai nervi quelle aule zeppe di uditori del bel mondo di
Firenze che assistevano alle lezioni per posa, per darsi delle arie». Parziale
conforto a queste amare disillusioni sono le nuove amicizie che stringe tuttavia
in quell'ambiente: il Chiavacci (che poi curerà la sua opera postuma),
Arangio-Ruiz e Giannotto Bastianelli, musicista "wagneriano"
(anch'egli tormentato e destinato al suicidio), che M. riuscirà a convertire a
Beethoven, in serate per lui indimenticabili di "musica persuasa". Ma
totale conferma delle stesse amare disillusioni M. doveva trovare (appunto) non
solo nella lettura rivelatrice di Ibsen, ma anche in quella
"compulsiva" di Tolstoj. Molti si sono meravigliati del fatto che il
Goriziano di costui ammirasse soprattutto La sonata a Kreutzer o Resurrezione,
macchinosi e quasi pedanti rispetto ai più appassionati, e appassionanti, Anna
Karenina o Guerra e pace. La ragione, per noi, invece è semplice e istruttiva: M.
dovette apprezzare la "geometria" che la polarità
Persuasione-Rettorica acquistava nei due ultimi capolavori dello scrittore
russo: lì l'ingiunzione e la critica di Tolstoj alla Rettorica si faceva
scoperta, analitica, "scientifica", e in uno stile risentito, scarno
e didascalico (così lontano da quello avvolgente del più giovane Tolstoj) che
sacrificava del tutto l'intreccio romanzato, lo rendeva addirittura
pretestuoso: anche Tolstoj pervenne, a suo modo, ad una chiarezza di Persuasione
more geometrico demonstrata. Basterebbe dare una rapida scorsa alle parole di
quel folle, ma lucido, uxoricida che è Pozdnysev: parole che, dietro la
parvenza della più meschina misoginia, palesano una nei secoli all'infinito, il
prodotto non sarà mai quello, ma sarà sempre perfetto e non risciacquatura come
dicono i maligni ma quasi - spirito assoluto» [O 661-662]. valutazione attenta
e perspicace della Rettorica dell'amore. O basterebbe fermarsi già alla prima
pagina di Resurrezione: Allegri erano tutti: piante, e uccelli, e insetti, e
bambini. Ma gli uomini - gli uomini grandi, gli uomini adulti °° non smettevano
d'ingannare e di tormentare se stessi e gli altri. Credevano, gli uomini, che
la cosa più sacra e più importante non fosse quella mattinata di primavera, non
fosse quella bellezza del mondo, concessa per il bene di tutte le creature,
giacché era una bellezza che disponeva alla pace, all'accordo e all'amore: ma
fosse, la cosa più sacra e più importante, ciò che essi stessi avevano
escogitato per poter dominare gli uni sugli altri per poter leggere in pratica
la seconda parte della tesi di laurea del Goriziano anche (saremmo tentati di
dire: soprattutto) come uno scolio (complesso, filosofico) a questa profonda,
sincera intuizione "francescana" del mondo. O infine, basterebbe
accompagnare il principe Nechljudov attraverso i contorti meandri della
Rettorica della giustizia, fino al ribaltamento (persuaso) di essa in vera e
propria pratica della violenza e dell'ingiustizia; ovvero, accompagnarlo nella
ri-scoperta della genuina lezione evangelica (Nechljudov-Tolstoj, alla fine del
romanzo, ri-legge e ri- compone - alla luce della propria esperienza - la
morale persuasa di S. Matteo); basterebbe ciò, dicevamo, per capire l'enorme
portata dell'anti-dispositivo che M. riceveva dalle mani dello scrittore
russo”. 223 Questa sottolineatura tolstojana della differenza tra l'individuo
bambino e l'individuo adulto non è una semplice sfumatura, come può apparire ad
una lettura superficiale: ci sembra che M. colga in pieno l'allusione: nel
corso della sua tesi di laurea (volendo limitarci a questa) egli dimostra a
chiare lettere la sua preferenza per l'animo femminile e per i bambini. Da una
parte, «le donne sono senza rettorica», afferma, tendendo in evidente conto non
solo le figure femminili che si stagliano nei drammi di Sofocle e Ibsen o di
Tolstoj appunto, ma soprattutto le donne ch'ebbe modo di conoscere durante la
sua vita: in primis la madre Emma e la sorella Paula, quindi la sfortunata
Nadia Baraden - donna russa che riceveva da Carlo lezioni di italiano e che si
uccise prima che quel "rapporto professionale" sbocciasse in amore;
la scrittrice Iolanda de Blasi - che visse un intenso, quanto effimero,
rapporto d'amore col Nostro, ostacolato, manco a dirlo, dalla famiglia; e Argia
Cassini, l'ultima, avvolgente fiamma di Michlestaedter: Argia, traslitterato in
greco, era per Carlo l'incarnazione fisica del vagheggiato «porto della pace»).
Dall'altra parte, il Goriziano si schiera a difesa della fanciullezza: i
bambini, «quasi vite in provvisorio», come lui li chiama. Anzi, le ultimissime
pagine della tesi M.iana - e il loro progetto educativo [ma vd. quanto diremo
oltre] - sono dedicate proprio ai bambini, ovvero al tentativo di scongiurarne
l'entrata nella congerie rettorica, che ne mina - in modo definitivo e
irrimediabile - l'innocenza e ne frustra, altrettanto, il dono di ingenua,
sincera persuasione, ch'essi hanno per loro stessa natura. 224 In Tolstoj, M.
doveva trovare comprovata anche la Rettorica sociale della morte, ad esempio
nella Morte di Ivan Il'ic, una delle opere più allucinanti e
"cattive" dello scrittore russo. Di quelle pagine, pur nella sincera
espressione del profondo dolore per la scomparsa (suicidio?) del fratello Gino,
molto vediamo trapelare in una lettera che il Goriziano scrive all'amico
Chiavacci, in cui annuncia la luttuosa notizia e dà una amara e dettagliata
descrizione della condizione "esposta", indifesa della propria
famiglia agli attacchi della ipocrita retorica sociale della
"condoglianza": «Noi non ricordiamo di lui [Gino] né un gesto
ingeneroso né una sola malattia. Era fatto per la vita e la viveva con gioia.
Mai il sarcasmo della vita non mi s'è fatto sentire materialmente, in un caso
concreto, con maggior forza. - Tiriamo innanzi. Qui intanto siamo soffocati
dalla marea della condoglianza volgare delle infinite persone che conosciamo, e
che in iscritto e a voce si credono in dovere di debitarci le stesse convenzionalità.
In casa una corrente continua di visite, e il gridio ininterrotto delle stesse
frasi. - E i miei ogni giorno come cavalli stanchi riprendono il cammino, e
parlano e si ripetono e si commuovono. lo soffro anche per questo. Sento
l'umiliazione della nostra famiglia mutilata come d'una piaga aperta - e penso
che mentre le piaghe si fa sciano, il 'lutto' non serve che a étaler il dolore
a tutto il mondo. Penso alla nostra casa chiusa per solito agli indifferenti,
raccolta, gelosa della sua intimità - e invasa ora da tutta la volgarità perché
una forza indipendente da noi ha aperto la porta. E tutti i corvi vengono
all'odore della morte; tutti si precipitano Come Tolstoj, attraverso Tolstoj, M.
preferì da subito il Vangelo "monofisita" di Matteo, come uno dei più
autentici luoghi di Persuasione. Come Resurrezione, anche La Persuasione e la
Rettorica termina con un progetto educativo. E il "pentalogo" stilato
(rielaborato) da Nechljudov-Tolstoj trova infine esatta corrispondenza in
quello della Persuasione M.iana?°°. perché siamo colpiti, indeboliti; il nostro
dolore, la parte più intima di noi esposta in strada, profanata dagli occhi
curiosi e dalla simpatia della sensiblerie dei deboli. - Ed io non posso
addolorare di più i miei, non posso voler liberarmi - e di tante altre cose non
posso liberarmi ora meno che mai [... J» [E 353]. Questo stralcio di lettera ha
una sua importanza non soltanto contingente. Essa ci testimonia, innanzitutto,
del rovinoso velocizzarsi della sfortuna che perseguita il nostro autore: gli
eventi precipitano: alle disillusioni che emergono per l'estrema sensibilità
del suo animo, ai dispiaceri che hanno puntualmente costellato la sua vita (non
ultima la partenza di Enrico, per quanto salutata con orgoglio), si associa
l'evento ferale, per lui più drammatico di quanto M. stesso non voglia
manifestare, e il definitivo crollo dell'alcova familiare, già da tempo
vacillante. Il «sarcasmo della vita» è davvero spietato, e coglie
all'improvviso i suoi elementi più validi e più forti, inspiegabilmente. Questa
constatazione fa nascere nel giovane filosofo collera e indignazione, che
riversa acidamente, ancora una volta, sull'istituto retorico. Qui viene
enunciato, in forma "ufficiosa", anche l'anatema definitivo rivolto
contro la macchina sociale, la cui doppia faccia viene smascherata anche nelle
sue manifestazioni di compassione e di solidarietà al dolore, e dunque, in
apparenza, più fraterne e "umane". Qui si avverte il punto di crisi
di quella "paranoia rettorica" che, secondo noi, attanagliò M. già
dal momento della "scoperta persuasa" e che si esacerbò soprattutto
nei suoi ultimi mesi di vita. Una Rettorica qui definita forza oramai
«indipendente», cioè totalmente svincolata dallo stesso controllo umano, e
vestita di abiti corvini che sfoggia (ironia della sorte) soprattutto in
occasioni di dolore. Una Rettorica sanguisuga, famelica, dotata di occhi che
profanano, che approfitta dei punti deboli dell'uomo, allettata dall'odore
della morte, che è il suo stesso odore, simile col simile. M., per ora, non
«può volersi liberare» e deve accettare il gioco del dolore e del dovere (la
stesura della tesi) per non aggravare l'atmosfera pesante ed affranta della
famiglia. Accetta quest'ultima retorica per amore. Ma non vi leggiamo (non
vogliamo leggervi) rassegnazione. Certo, c'è la consapevolezza di un doppio
dolore, di una infelicità reduplicata dalla stessa consapevolezza della
Persuasione: «Noi viviamo oscuri, mal delineati, confusi, doppiamente infelici;
gli altri vivono una vita luminosa anche nel dolore, e non hanno mai il senso
ch'essi personalmente sono nel mondo cosi sportivamente, o lo hanno soltanto
quando anche tutto il mondo è ormai per loro una cosa sportiva» scrive Carlo al
Chiavacci, in una delle lettere successive [E 401], e non può non leggersi
l'aspirazione stanca ad una felicità che, per un triste destino, sfugge sempre
di mano: la Persuasione pare quasi una maledizione che si tira addosso solo
malanni: dov'è quella gioia che essa prometteva? Non sono più felici coloro che
vivono «sportivamente» la propria vita, luminosi anche nel dolore? Ma è solo il
nero che riflette, e alla vita che nasconde la morte bisogna opporre
un'esistenza che tende alla vera vita. E allora, ad un anno esatto dalla morte
del fratello, M. gli rende l'ultimo omaggio disegnando di sua mano la pietra
tombale e realizzando «con le mie mani quello che gli altri dicevano di non
saper fare»: «Per tre giorni lavorai da un fabbro per scolpire due maniglie di
ferro, che fuse in ghisa sarebbero state deboli. E allora mentre il lavoro
procedeva bene, e mi gettavo stanco alla sera sul mio letto, mi pareva d'esser
ricco di non so che ricchezza, mi pareva di fare qualcosa, di lavorare per mio
fratello come se dovessi vincer la morte». «Vincer la morte» diviene
l'imperativo esistenziale che traduce l'aspirazione di «togliere la violenza
dalle radici»: bisogna fare [il corsivo sopra è dello stesso Goriziano]
qualcosa, re-agire; M. riscopre il piacere del contatto con le cose, come
Serafino Gubbio nel noto romanzo di Pirandello; il piacere della fatica,
dell'impegno, della poiesi bistrattata sin dai tempi di Platone e Aristotele.
Fare è anche poesia, e la Persuasione è anche fare. Pur se non è possibile
eliminare l'atroce dubbio che, sempre e comunque, ci si trova ad aver «lavorato
per la morte», sensazione di sconforto che riduce ad uno stato di «vuoto,
miseria e impotenza». [per queste ultime citazioni, da noi adattate, cfr. la
lettera di M. ad Enrico Mreule, 14 febbraio 1910, E 432] 225 La perfetta
consonanza (addirittura numerica!) dei "comandamenti" tolstojani e M.iani
è un rilievo che è sfuggito purtroppo alla critica (o almeno, nei contributi
critici che abbiamo visionato non se ne fa parola). La lettura di Tolstoj è, a
nostro parere, un inestimabile supporto ermeneutico per tentare di
"capire" M., e ci teniamo a sponsorizzarla. Ora, per dar sostanza al
nostro discorso, iportiamo di seguito il pentalogo di Tolstoj e riproponiamo
quello della Persuasione per poter apprezzare, in modo sinottico, quanto della
lezione di Tolstoj fosse trapelato nel dettato ultimo del filosofo goriziano e
trasposto sul piano "filosofico" (questo senza voler porre in minimo
dubbio l'originalità del Nostro). Ancora, la prospettiva tolstojana (come si
ricaverà dalla lettura), il suo insistere sugli uomini, conferma in modo definitivo,
seppure ce ne fosse a questo punto bisogno, la correttezza della nostra
valutazione "politica" della proposta persuasa. «Con la speranza di
trovare lì nel Vangelo una conferma a questo suo pensiero, Nechljudov si mise a
leggerlo dal principio. Leggendo il discorso della montagna, che sempre lo
aveva commosso, adesso per la prima volta vi scorse non già dei be semplici,
chiari precetti ben eseguibili ne lissimi pensieri astratti, che in massima
parte esprimessero esigenze eccessive e impossibili da eseguire, ma a pratica,
precetti che, se fossero stati eseguiti, come era pienamente possibile,
avrebbero dato una sistemazione assolutamente nuova alla società umana, tale
che in questa non solo si sarebbe d istrutta da sé tutta quella violenza che aveva
tanto indignato Nechljudov, bene accessibile all'uomo: il regno di Dio sulla
terra [corsivi nostri]. Tali precetti erano cinque. primo precetto (Matteo, v,
21-26) l'uomo non solo non deve uccidere, ma non adirarsi contro il fratello,
non a, un raca, e, se viene a lite con qualcuno, deve rappacificarsi con lui
prima Secondo i deve cons di fare l'off Secondo i piacere de Secondo i Secondo
i colpiscono iderare nessuno un essere da nu erta all'altare, cioè prima di
pregare. secondo precetto (Matteo, v, 27-32), l'uomo non solo non deve cedere
al nessuno rifiutare ciò che si possa volere da lui. Secondo i amare, aiu
quinto precetto (Matteo, v, 43-48), l'uomo non solo non deve odiare i suo tare,
servire. ma si sarebbe raggiunto il più alto a sensualità, ma deve rifuggire
dal la bellezza della donna, e deve - una volta che s'è unito con una donna -
non tradirla mai. terzo precetto (Matteo, v, 33-37), l'uomo non deve promettere
nulla con giuramento. quarto precetto (Matteo, v, 38-42), l'uomo non solo non
deve vendicarsi su una guancia, deve presentare l'altra, deve perdonare le
offese e sopportarle con rassegnazione, e a occhio per occhio, ma quando lo i
nemici, né combatterli, ma li deve Nechljudov aveva fissato lo sguardo sulla
luce della lampada, e così rimaneva assorto. A contrasto di tutto il mostruoso
disordine della nostra vita, che aveva ben presente, si prospettò con chiarezza
che cosa questa vita avrebbe potuto essere, se gli uomini fossero stati educati
secondo quei principi [corsivi nostri]: e un'esultanza come da gran tempo non
provava gl ‘invase l'anima». M. fa da contrappunto e munisce i precetti
tolstojani di una salda connessione filosofico-esistenziale: "No, la mo
rte non è abbandono" disse Itti con voce più forte [1] ma è il coraggio
della morte onde la luce sorgerà. [2] Il corag gio di sopportare tutto il peso
del dolore, [3] il corag gio di navigare verso il nostro libero mare, [4] il
corag nella cura [5] il corag gio di non sostare dell'avvenire, gio di non
languireper godere le cose care. La persuasione poetica si cesella,
puntualmente, nelle "definizioni" assolute che troviamo nella tesi di
laurea: [1] Il dolore parla. [PR 46] [2] Il dolore è gioia [49] [3] Dare non è
per aver dato ma per dare (Souvax !) [42] [4] Non può fare chi non è, non può
dare chi non ha, non può beneficare chi non sa il bene [42] [5] Dare è fare
l'impossibile: dare è avere. [43] 7. Come la violenza perpetua se stessa (I).
Dall'atomo alla molecola sociale. Regalasi gattini in cerca di padrone.
Annuncio esposto nella bacheca degli studenti della facoltà di filosofia, Università
Federico II, Napoli Come abbiamo visto in abbondanza, l'organismo
"atomico", il «complesso delle determinazioni», si esprime e si
realizza anzitutto come appetito (volontà determinata, o conatus, se vogliamo
utilizzare il termine spinoziano), cioè nel desiderio di possedere la natura,
ovvero di fare del mondo un polo di sfruttamento esistentivo: il mondo è
insomma il ricettacolo in cui l'organismo atomico reperisce gli elementi atti
alla soddisfazione dei propri bisogni, elementari e/o complessi (questa, in soldoni,
la «violenza contro la natura»). L'appetito segna una diversificazione tra i
vari organismi appetenti: tra gli individui, alcuni si conquistano una
posizione di dominio, altri accettano giocoforza la subordinazione, in un
meccanismo in cui ciascuno comunque pretende di essere riconosciuto dall'altro
come a lui superiore, come unico, assoluto usufruttuario del mondo.
Nell'impossibilità dell'assolutezza, gli uni e gli altri depongono volentieri
le armi e si adagiano su una comoda convivenza. Questo rapporto (chiamiamolo
per ora "dialettico", ma cfr. oltre), che lega le "coscienze
empiriche" nel conflitto per la supremazia, presenta indiscutibili
affinità con la «otta per il riconoscimento», così come viene
postulata/descritta nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel (la famosa
dialettica servo-padrone). Questo rilievo, avanzato con intelligenza dal Garin,
è stato applaudito da tutta la critica. Ora, noi non vogliamo certo metterlo in
discussione, come non vogliamo mettere in dubbio le letture hegeliane che M.
fece. Tuttavia, ci sia concesso almeno d non esserne del tutto convinti: siamo
invece convinti che le analisi di M. partano piuttosto, ancora una volta, dalle
pagine di Aristotele, in particolare dalle prime pagine della Politica. Lo
Stagirita scrive: [per la formazione della società o dello Stato] è necessario
in primo luogo che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere
separati l'uno dall'altro, per es. la femmina e il maschio in vista della
riproduzione [..]e chi per natura comanda e chi è comandato al fine della
conservazione. In realtà, l'essere che può prevedere con l'intelligenza è capo
per natura, mentre quello che può col corpo faticare, è soggetto e quindi per
natura schiavo: perciò padrone e schiavo hanno gli stessi interessi.226 Proprio
come per Aristotele, per M. colui che, in tale lotta, non teme di perdere la
propria vita, si impone su colui che, invece, ha paura della morte”: di
conseguenza il primo diviene dominus e il secondo servo (homo, secondo il
nostro [i corsivi sono dello stesso M.: abbiamo altresì ribaltato
consapevolmente la disposizione dei precetti del Goriziano, che nell'ordine
appaiono 3-4-5-1-2, per dar più filo al nostro discorso] 226 Aristotele,
Politica, 1252a 25-30 [che noi leggiamo nella trad. it. dell'ed. Laterza, 2000];
i corsivi sono nostri, funzionali a quanto ci apprestiamo a dire. 227 Ma cfr.
quanto noi detto nella parte finale del paragrafo 4d del nostro | capitolo,
paragrafo che s'intitola La Persuasione al bivio. pediente ermeneutico). La
temerarietà del padrone non è il coraggio esistenziale del Persuaso, non è fine
consapevole ed adeguato, che sfocia nell'autentica epoché della morte, frutto
della consapevolezza della malattia mortale: il dominus ha una superiorità che
potremmo a buon ragione cefinire, anche qui, darwiniana: a comandare sono gli
individui più adatti, ovvero più forti e più risoluti e più intelligenti, come
dice Aristotele gli «esseri che possono prevedere con l'intelligenza» o - come
parafrasa M. - gli esseri che possiedono una «previsione più organizzata a una
più vasta vita » [PR 29]7”. Il padrone non lavora la terra, non è artifex, ma
costringe il servo a lavorare in sua vece e per il suo guadagno: «Il padrone si
serve dello schiavo attraverso la di lui forma: attraverso la potenza di
lavoro», scrive il Goriziano. Di contro, lo schiavo accetta le «catene dure ma
sicure» del padrone. Il padrone ha delegato allo schiavo il «violentamento
della natura», tenendo per sé - anzi utilizzando per sé - il «violentamento
dell'uomo». Di per sé, così, la condizione servile dello schiavo «non è
assoluta, ma relativa al suo bisogno di vivere». Tra servo e padrone, dunque,
s'instaura un vero e proprio, benché primitivo (atomico), patto sociale,
fondato - e non si perda di vista questo fondamento - su un principio biologico
simbiotico e "compensativo" (lo chiamiamo principio di economia
sociale): entrambi violenti, entrambi "carenti", entrambi ansiosi di
«conquistarsi il futuro» (ovvero, entrambi rettorici), essi pongono una
convenienza simbiotica che - in definitiva, come in una perfetta equazione
matematica - annulla (semplifica) le relative "potenze" e
"debolezze", tende a superare la primitiva diseguaglianza
fisiologica, pervenendo ad uno status quo per il quale «uniti: sono entrambi
sicuri - staccati: muoiono entrambi». Suddetta simbiosi si fonda, in
definitiva, e si struttura, sulla malafede e sul ricatto, perpetrati da
entrambi, ma da entrambi edulcorati nella reciproca convenienza: se tu non
lavori - dice il padrone - non ti do «il mezzo di vivere»: così morirai; se non
mi assicuri «I mezzo di vivere» - replica lo schiavo - io non lavoro, e non
ricaverò per te «la sicurezza di fronte alla natura»: così morirai. In tutto
questo, ci sembra che M. parafrasi ancora Aristotele, che a sua volta scrive:
Il padrone non è tale in quanto acquista gli schiavi, ma in quanto si serve
degli schiavi. Tale conoscenza non ha niente di grande né di straordinario:
quel che lo schiavo deve [per natura] saper fare, lui [sempre per natura]deve
saperlo comandare. [...] Agli uni giova l'esser schiavi, agli altri l'esser
padroni e gli uni devono obbedire, gli altri esercitare quella forma di
autorità a cui da natura sono stati disposti e quindi essere effettivamente padroni.[...
] Per ciò esiste un interesse, un'amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel
caso che hanno meritato di essere tali da natura ?°° 228 Le citazioni che
seguono nel nostro discorso, tratte dal Goriziano, sono ricavate dalle pagine
della sua tesi che appunto indugiano sulla dialettica servo-padrone, ovvero le
pagg. 96-105 soprattutto; ragion per cui, in nostri richiami s'intendano
proprio da lì ricavati passim, salvo diverse indicazioni. 229 Aristotele,
Politica, cit, 1255b passim; i corsivi sono nostri; abbiamo altresì invertito
taluni passaggi per render più didascalica l'esposizione. Tuttavia questa
dialettica, negativa ancorché conciliata (ma che non è la conciliazione
hegeliana nello Spirito), del servo e del padrone "supera" il suo fondamento
negativo nella stipulazione del patto sociale molecolare?°°: l'entalpia”', che
tale dialettica assicura, e che 230 Le analisi di M. sulle motivazioni che
inducono gli uomini a fondare la società nascono in un contesto politico che
potremmo, a questo punto, senza sbagliarci, definire
"contrattualistico" (ma trovano importanti agganci - come stiamo or
ora dimostrando - anche nella Politica aristotelica): a differenza dei teorici
del contrattualismo, tuttavia - decisamente più "pragmatici" - il
filosofo goriziano adduce, come visto, una causa "ontologica" al
fatto che gli uomini stringano il "patto sociale" (o, come lui la
definisce, la «cambiale sociale»): il deficere troverebbe cioè una sua
compensazione nella creazione di relazioni sufficienti tra gli uomini, in un
principio di realizzazione/permanenza sociale che surrogherebbe l'innata
impermanenza dell'individuo. L'individuo sociale insomma, nello stringere il
patto, si vede garantite quella sicurezza e quel benessere - quella stabilità -
che l'individuo "naturale" non possiede. Ovviamente, M. - se del
contrattualismo mostra indirettamente di accettare le analisi di filogenesi
sociale (il meccanismo praticamente è lo stesso: compensare il deficere) -
tuttavia non aderisce alle sue conclusioni, soprattutto nella sua curvatura
liberale (Locke o Stuart Mill, ad esempio): il Goriziano, come dire, per
principio valuta l'organismo sociale - qualunque forma esso assuma, e per
qualunque motivazione esso la assuma - come regno dell'eteronomia e della
violenza. Anzi, leggendo tra le righe, mostra di attaccare con maggior
virulenza proprio le società sedicenti liberali o liberal-democratiche, perché
esse (a differenza di un regime dispotico conclamato) occultano la matrice
profondamente antilibertaria che le connota, aggiungendo al danno la beffa
dell'ipocrisia e del paternalismo. Pur consapevoli dell'eterogeneità delle
proposte contrattualistiche (sia nelle prospettive di analisi che nelle
individuazioni o giustificazioni degli esiti, a seconda dei periodi storici o
delle appartenenze geografiche e politiche che le hanno fomentate), tuttavia
riportiamo alcune righe di due "classici", per renderci conto -
mediante un raffronto anche veloce - di dove la critica di M. effettivamente
attecchisca. Con questo, ovviamente, non vogliamo dire che il filosofo
goriziano avesse costruito la sua critica sociale a partire dalla meditazione
dei testi che proponiamo, anche se mostra di aver letto il Saggio sulla libertà
di Stuart Mill [PR 93]; la critica di M. nasce infatti essenzialmente da una
diagnosi dello status quo - valutato attraverso lo "spettro" della
Persuasione - status quo che però era anche, appunto, la risultante della lunga
tradizione liberale, che assume nei brani che seguono la forma più esplicita e,
in pratica, conclusiva. «Se l'uomo nello stato di natura è [...] libero [...]-
scrive Locke - se è padrone assoluto della propria persona e dei propri beni,
pari al più grande fra tutti e a nessuno soggetto, perché mai rinuncia alla sua
libertà? Perché cede il suo imperio e si assoggetta al dominio e al controllo
d'un altro potere? La risposta ovvia è che, per quanto nello stato di natura
egli possieda il diritto connesso con quello stato, la fruizione di esso è
assai incerta e continuamente esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti
essendo re alla stessa stregua di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per
lo più poco rispettosi dell'equità e della giustizia, il godimento della
proprietà in questo stato è per lui assai incerto, molto insicuro. Ciò lo
induce a desiderare di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è
piena di rischi e di continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli desidera
e ambisce unirsi a una società che già altri abbiano costituito o abbiano in
mente di costituire per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e
beni, cioè con quello che definisco con il termine generale di proprietà. [...]
Al primo potere - quello cioè di fare tutto ciò che ritiene opportuno per la
conservazione di sé e di tutto il resto dell'umanità - egli abdica lasciando
che sia regolato da leggi fatte dalla società, secondo che lo richieda la
conservazione sua e degli altri membri di quella società: leggi dellasocietà
che in molte cose limitano la libertà ch'egli possiede per legge di natura.
Inoltre egli abdica completamente al potere punitivo [il secondo potere, per
Locke] e consacra la sua forza naturale (che in precedenza poteva usare
nell'esecuzione della legge di natura, per autorità propria, come gli sembrava
opportuno) al potere esecutivo della società, a seconda che lo esiga la legge
di questa. Trovandosi ora in un nuovo stato, in cui gode di molti vantaggi
provenienti dal lavoro, dall'assistenza e dalla società degli altri membri
della comunità, oltre che della protezione che gli deriva dalla forza
complessiva della comunità stessa, egli deve rinunciare anche alla propria
naturale libertà di provvedere a se stesso, nella misura in cui lo richiedono
il bene, la prosperità e la sicurezza della società. E questo non è solo necessario,
ma anche giusto, perché gli altri membri della società fanno
altrettanto.[corsivo nostro] Entrando in società gli uomini rinunciano
all'eguaglianza, alla libertà e al potere esecutivo di cui godevano nello stato
di natura, affidandolo alla società perché il legislativo ne disponga come
richiede il bene della società stessa. Ma poiché ciascuno fa questo con
l'intenzione di meglio salvaguardare la propria libertà e proprietà (ché non è
mai pensabile che una creatura razionale muti condizione nell'intento di star
peggio), è lecito aspettarsi che il potere della società, o il legislativo
costituito, non oltrepassi mai i limiti del bene comune, ma sia tenuto ad
assicurare la proprietà di ciascuno prendendo misure contro i tre difetti sopra
menzionati, che avevano reso lo stato di natura tanto incerto e difficile. [...
] E è la condizione necessaria e sufficiente per la sicurezza reciproca, si
istituzionalizza nel fenomeno sociale (lo chiamiamo principio di entalpia
sociale). Tale istituzionalizzazione è un escamotage funzionale: è il banale,
ma evidentemente valido, motivo che recita un adagio: l'unione rende forti.
Dice M.: «La piccola volontà non può difendere quello che ha preso colla sua
violenza - e ne affida la difesa alla violenza sociale». Ora, la piccola
volontà [potremmo anche dire: l'io empirico] è sia quella del padrone che
quella del servo. Entrambi accettano «la cambiale dela società», sopportando
anche una spersonalizzazione/atrofia del proprio potere («egli è sotto tutela -
non ha voce») e un (apparente) livellamento "democratico", nel nome
della «sicurezza comune». Per raggiungere altresì questo obbiettivo, è
necessario che la violenza contro la natura e contro l'uomo sublimi nella
"violenza sociale". Dunque, la cifra esistenziale della Rettorica
rimane sempre e comunque la violenza. In questo senso, ci sentiamo di dire che
l'appunto del Garin - il suo riferimento alla famosa figura hegeliana - più che
illuminante rischia di rivelarsi addirittura fuorviante. Hegel parladi
autocoscienze”””, M. - più modestamente - di organismi. tutto ciò non
dev'essere ispirato ad altro fine che la pace, la sicurezza e il pubblico bene
del popolo» [J ohn Locke, Due trattati sul governo, Torino, Utet, 1948 (volume
II, $8123-131 passim)]. «Il diritto di una persona - scrive invece Mill - è la
tutela che questa può pretendere dalla società o in forza della legge, o in
forza dell'educazione e dell'opinione [corsivi nostri]. Se essa possiede ciò
che consideriamo una ragione sufficiente per avere, per un qualsiasi motivo,
una garanzia da parte della società, vi ha diritto: se vogliamo dimostrare che
qualcosa non le appartiene per diritto, pensiamo che ciò sia fatto non appena
si ammette che la società dovrebbe abbandonarla alla sua sorte o ai suoi soli
sforzi, senza prendere alcuna misura per proteggerla. [...] Avere un diritto
significa, allora, avere qualcosa il cui possesso va difeso dalla società. Se
mi chiedessero, poi, perché la società dovrebbe difendere questo interesse, non
potrei addurre nessun altro motivo se non quello della utilità generale. Se
questa espressione non sembra convogliare un sentimento adeguato della forza
dell'obbligazione né spiegare la peculiare energia di tale sentimento, è perché
nella composizione del sentimento entra non solo un elemento razionale, ma
anche uno animale, la sete della vendetta; la quale deriva la sua intensità,
come pure la sua giustificazione morale, da quel tipo di utilità
straordinariamente importante e incisiva che è in gioco. L'interesse coinvolto
è quello della sicurezza che è, per ogni individuo, di vitale importanza. Tutti
gli altri benefici terreni possono essere necessari a una persona e non a
un'altra. A molti di essi, si può allegramente rinunciare o sostituirli con
qualcos'altro. Ma della sicurezza nessun essere umano può fare a meno; da essa
dipende la nostra immunità dal male e l'intero valore di ogni bene, al di là
delle contingenze. [corsivi nostri] [...] Questa necessità [...] non può essere
soddisfatta a meno che lo strumento per provvedervi non sia mantenuto in
continuo esercizio» [J ohn Stuart Mill, Utilitarismo, Cappelli, 1981, capitolo
V passim]. Leggendo questi passi e mettendoli a confronto con quanto abbiamo
riferito riguardo la critica sociale approntata da M., si potrà evincere senza
difficoltà il carattere decisamente antiliberale che quella critica viene ad
assumere, volendo valutarla secondo "normali" parametri politici di
riferimento. 231 L'entalpia è una funzione di stato di un sistema ed esprime la
quantità di energia che esso può scambiare con l'ambiente. Ad esempio, in una
reazione chimica, l'entalpia scambiata dal sistema consiste nel calore
assorbito o rilasciato nel corso della reazione. Nella nostra metafora, servo e
padrone si scambiano, a vicenda, "energia" esistenziale. 232 Nota M.
che «quasi per ironia l'impulso a questo movimento del principio della
debolezza [tal che esso assurge alla cambiale sociale] è dato dai più forti;
[...] l'iniziativa è sempre del più forte: e la "lega dei deboli' s'è
fatta proprio a spese dei più forti: che per sola volontà di sominio o per
amore ebbero sempre per campo naturale alla loro sovrabbondanza di vita, per
dominarli o per amarli [nota l'accostamento, fatto con apparente sufficienza,
di dominio e amore], i loro simili» [PR 122]. Per il filosofo goriziano non c'è
alcun sviluppo dello Spirito da giustificare e la diversificazione dominus-homo
ha piuttosto una connotazione, come afferma Aristotele, già stabilita per
natura [cfr. supra]; inoltre, tra le due "posizioni" non si verifica
alcun vero conflitto, ma l'una e l'altra preferiscono vivere (sopravvivere)
nella consapevolezza della propria condizione di reciproca dipendenza (usata
come tacito ricatto), cercando di trarne la condizione più vantaggiosa
possibile in un'oculata e compiacente simbiosi. Infine, il superamento (se di
superamento si può parlare) dell'empirica condizione signorile-servile - quando
quel ricatto comincia a vacillare - non avviene per processo dialettico, ma
come dire, per processo "sinottico", cioè attraverso una mera
amplificazione a livello sociale (molecolare) del rapporto puntuale (atomico)
di dipendenza. La costruzione sociale è anch'essa, dunque, non frutto di un
conflitto, ma risultato di un compromesso nel quale le due figure
immediatamente si rifugiano, quando la loro condizione da stabile rischia di
divenire precaria; e questo superamento non segna un progresso nella storia
della coscienza di entrambi: tutt'altro: segna anzi un vero e proprio regresso,
nel senso che nello stipulare la cambiale sociale la deficienza non si svelle,
ma si innesta in una profondità ancor più radicata e più ignorata, ch'è appunto
la Rettorica sociale. A questo punto, per M., la società diviene davvero il
Leviatano: essa padrona, gli uomini (quelli che prima eran servi e padroni)
novelli servi («gli uomini hanno trovato nella società un padrone migliore dei
singoli padroni»): e tra i due nuovi poli si instaura una dialettica
altrettanto nuova e altrettanto irrisolta, che mantiene tutte le deviate
caratteristiche della prima, la sua malafede e la sua convenienza simbiotica:
se tu rispetti le mie leggi - 233 Come sappiamo, la storia di queste
autocoscienze, così come scandita da Hegel nella Fenomenologia, non è un
processo pacifico e lineare, ma affronta una sofferta e faticosa maieutica
pratica che trova nel conflitto tra il sé e l'altro- da-sé la molla dialettica
che, passaggio dopo passaggio, assurge alla pienezza onnicomprensiva @llo
Spirito. L'autocoscienza sorge nell'avvertimento del limite e si manifesta e
sviluppa anzitutto nel desiderio soggettivo di superare l'ostacolo che le si
pone incontro. Ma quest'ostacolo non è soltanto il mondo delle cose: è
soprattutto l'altra autocoscienza, che limita e minaccia e lotta a sua volta
per la propria sopravvivenza. E' qui che s'inserisce la dialettica
servo-signore Herr und Knecht), come momento "storico" di esordio del
conflitto delle autocoscienze diverse e indipendenti: conflitto che si delinea
come mortale, ma che si risolve col subordinarsi dell'una autocoscienza
all'altra: infatti, chi riesce a sopraffare l'altro, ostentando di non temere
la morte, lo rende schiavo e lo piega al proprio progetto di affermazione. Ma,
a sua volta, nel lavorare per l'altro, per il dominus, il servo vive un
rapporto più autentico con la realtà, acquistando progressiva consapevolezza
del proprio potere condizionante e quindi (arguirebbe Marx) una capacità
maggiore di emancipazione. Così, il rapporto finisce col capovolgersi (la
libertà e la potenza del signore si scopre mediata dall'operare del servo, che
a sua volta scopre la potenza "immediata" del proprio lavoro) e
attraverso questa lotta tra l'autonomia e la dipendenza s'ottiene un risultato
concreto nello sviluppo dello S pirito: il sorgere cioè del sentimento della
libertà nell'autoriconoscersi (l'autocoscienza nasce infatti proprio quando il
soggetto riconosce - erkennt - qualcosa di sé nell'oggetto, o comunque
nell'altro-da-sé). «[Il servo è] per il signore l'oggetto costituente la verità
della certezza di se stesso. E chiaro però che tale oggetto non corrisponde al
suo concetto; è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo
compimento, gli è divenuta tutt'altra cosa che una coscienza indipendente; non
una tale coscienza è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è
dunque certo dell'esser per sé come verità, anzi, la sua verità è piuttosto la
coscienza inessenziale e l'inessenziale operare di essa medesima. La verità
della coscienza indipendente è di conseguenza la coscienza servile. Questa
dapprima appare bensì fuori di sé e non come la verità dell'autocoscienza. Ma
come la signoria mostrava che la propria essenza è l'inverso di ciò che la
signoria stessa vuol essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà
piuttosto il contrario di ciò che essa è immediatamente; essa andrà in se
stessa come coscienza riconcentrata in sé e si poggerà nell'indipendenza vera»
[Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, 1967, vol. I, pag. 161].
ingiunge il Leviatano - io ti assicuro la vita: altrimenti morirai; se non ci
assicuri la vita - replicano i servi - noi non rispetteremo le tue leggi: e tu
morirai. La società come necessità e "banalità" della sicurezza: ma
se «a sicurezza è facile», essa - lo abbiamo visto - «è tanto più dura». E
allora, nella violenza istituzionalizzata, «nella società organizzata ognuno
violenta l'altro attraverso l'onnipotenza dell'organizzazione, ognuno è materia
e forma, schiavo e padrone ad un tempo per ciò che la comune convenienza a
tutti comuni diritti conceda ed imponga comuni doveri» [tutti i corsivi sono
nostri]. Insomma, padroni e schiavi finiscono con l'essere entrambi vittime di
un dominio che si congegna in sistema o in "amministrazione"
tacitamente, doverosamente accettati; strutture che - seppur fabbricate dalle
mani stesse dell'uomo - ora lo superano e si svincolano dal suo controllo: anzi
- di converso - sono le dette costruzioni ad esercitare stavolta il controllo
diretto. Ciò vuol dire che ciascuno (padrone o servo, non conta), all'interno
del sistema stesso, si trova preconfezionato il proprio ruolo, il proprio
destino: a lui non resta che la scelta del modo di viverlo; ma questa stessa
scelta - individuale o sociale - obbedisce a sua volta alla logica del potere e
del dominio e quindi, in definitiva, alla logica della violenza. 8 Come la
violenza perpetua se stessa (II). L'educazione corruttrice secondo M.. Il
ribaltamento operato dalla Persuasione. Ora: quali sono gli strumenti
attraverso i quali la Rettorica indottrina gli uomini all' "accettazione
felice" della scelta fasulla ed inadeguata?°*? Quali meccanismi
mefistofelici essa pone in atto? In che modo riesce ad inculcare il senso del
dovere, garanzia necessaria e sufficiente alla sopravvivenza della società
rettorica ed ipocritamente "giusta"? In che modo, insomma, essa
riesce a farsi (come si dice oggi) egemonia? O, infine, volendo usare le stesse
parole del Nostro, «per qual via la natura ha tessuto e tesse contro a sé tale
trama? E come si tiene questa e si riafferma sempre via in ogni figlio
dell'uomo che, forte o debole nasca e di quella difesa bisognoso, pur sempre
nasce ignaro del suo artifizio?» [121]; ovvero, ancor più chiaramente: in che
modo si costituisce [122] e si diffonde [127] l'«adulazione» (xoXaxew) sociale?
Come sostiene giustamente il Campailla, nell'introduzione all'edizione minor?
della Persuasione e la Rettorica, «il mito della Persuasione [e noi
aggiungiamo: il problema della Rettorica], coerentemente, culmina in un
problema pedagogico». E proprio qui si apre la sezione più interessante ed
"inattuale" della tesi del Goriziano . La risposta al complesso di
interrogativi appena posti è a questo punto semplice e consequenziale: è
l'«educazione corruttrice» (Svoradaywyia) [127] lo strumento raffinato
attraverso il quale la società, la comunella dei malvagi, si arroga e si
assicura la sopravvivenza”. Ma in realtà, alla luce di quanto detto, e leggendo
attentamente le 234 Qui viene presa in esame la sezione conclusiva della tesi
di laurea di M. - corrispondente alle pagg. 121- 131 incluse, in particolare da
pag. 127 in poi - che s'intitola Gli organi assimilatori: per un accenno
introduttivo alla questione, cfr. anche il nostro paragrafo Il momento del
passaggio, contenuto nell'Intermezzo. 235 || concetto - fa notare Campailla - è
platonico, e invita a cfr. Gorgia, 463 b, c e passim. 236 Edizione curata nella
Piccola Biblioteca Adelphi, 1994 6a. Il riferimento che riportiamo è a pag. 25;
il corsivo è nostro. 237 Possiamo dire che, dal punto di vista ideologico,
l'asse Platone-Hegel è il riferimento più immediato della polemica pedagogica M.iana.
Come abbiamo visto, le analisi di M. sul problema educativo avevano luogo
d'origine nella riflessione sulla pedagogia platonica, funzionale alla
"statolatria" della Repubblica. Ancora una volta, la prospettiva
platonica si "aggiornava" in Hegel, il quale scriveva ad esempio
nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia (e la citazione vuol essere
riassuntiva della posizione hegeliana): «[...] Solo nello Stato l'uomo ha
esistenza razionale. Ogni educazione tende a che l'individuo non rimanga
qualcosa di soggettivo, ma divent oggettivo a se stesso nello Stato. [...]
Tutto ciò che l'uomo è egli lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua
essenza». [Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it, La Nuova
Italia, Firenze, 1975, vol. I, pag. 105] In coerenza con le linee guida del suo
panlogismo dialettico e storicistico, Hegel dunque vedeva nella formazione
[Bildung] dell'uomo il "movimento consapevole, il divenire del suo essere per
sé», e, cioè, «l'estraneazione del proprio immediato se stesso» istintivo e
irrazionale mediante il quale il singolo - ripercorrendo le tappe dello
sviluppo storico dell'umanità - si libera da ciò che ha in sé di individuale
per oggettivarsi, com'è noto, nelle istituzioni etiche della famiglia, pagine
che M. dedica alla questione”, appare chiaro come l'espressione «educazione
corruttrice» sia, per lui, a tutti gli effetti, tautol/ogica. Ogni modalità e
pretesa educativa, infatti, in ogni luogo e in ogni tempo, presenta la stessa
"radice" viziata e corrotta: come abbiamo visto, l'ex-ducere, per il
Goriziano, esprime sempre un atto di forzatura, anzi propriamente di violenza:
un "trarre fuori" delegato ad un agente esterno (i maestri, i
pedagoghi...°°°), un trarre fuori che è soprattutto un sottrarre l'uomo a sé
stesso al fine di uno scopo supposto ultimo e massimamente utile, qual è quello
della conformazione al cosiddetto benessere sociale (quella che il Nostro
chiama «eciproca convenienza » sociale). Nel far ciò, arriva a scrivere il
giovane filosofo, la società rende alle sue giovani "promesse" un
servizio ch'è analogo a quello che «l'uomo fa ai vitelli, agli agnelli, ai
polli, ai puledri, per farsene più buone macchine da lavoro o più buoni
produttori di came» [128, in nota; corsivo nostro]. E i risultati di tale
operazione sono, sempre e comunque, quelli di produrre «un degno braccio
irresponsabile della società» [130; corsivo nostro]: un giudice, un maestro o,
addirittura, un boia [130; il significativo accostamento M.iano delle tre
figure sociali, senza soluzione di continuità, è violentemente polemico]. In
questo senso, l'educazione si manifesta come la traduzione più coerente e più
funzionale della tecnica [per cui cfr. supra], lo strumento più opportuno ed
efficace per oliare gl'ingranaggi del meccanismo/dispositivo rettorico. In
ultima analisi, leggiamo tra le righe, la diagnosi critica di M. non prende di
mira solo o esclusivamente il sistema educativo borghese a lui coevo (e, nello
specifico, la scuola borghese, deputata principe a quell'educazione): quello
stesso sistema educativo e quella stessa scuola non sono altro che le forme e
le formule perfette e ultime (ma solo nell'ordine del tempo) in cui
l'organizzazione "conformatrice" della Rettorica stessa si è
strutturata, in vista e a garanzia del suo perpetuarsi. Il problema non è
neanche di puntare il dito verso un tipo di educazione o di organizzazione
scolastica errata o quantomeno della società e appunto dello Stato; anzi lo
stesso Stato «non esiste per i cittadini: si potrebbe dire che esso è il fine e
quelli sono i suoi strumenti» [ibidem], Sostanzialmente, la posizione hegeliana
avrebbe trovato un originale sviluppo in Gentile [cfr. almeno il suo Sommario
di pedagogia (1913-14)], che tra l'altro fu ministro fascista dell'educazione e
autore della riforma scolastica del 1923. Facciamo quest'appunto, perché
Gentile - come scrive Campailla - "nel gioco delle parti, rappresentava
idealmente il megapresidente di quella commissioni di professori" che
doveva esaminare la tesi di laurea del Nostro; e proprio a Gentile toccò, nel
1922, "sulla ‘Critica’, il compito di formulare il giudizio ufficiale di
una cultura" riguardo M. [cfr. l'introduzione di Campailla alla
Persuasione..., cit., pag. XI]. 238 Pagine in cui la sua critica si fa davvero
profonda, serrata e piena di feroce e amara ironia; ben poche pagine, verrebbe
da notare, rispetto all'importanza ed alla complessità del problema, che
investe le radici stesse del perpetuarsi della Rettorica, come sua prerogativa
necessaria e sufficiente; ma, d'altronde, lo stesso M. avvisa che ciò che
"fa l'educazione disonesta della società coi giovani uomini, è vicino,
credo, e manifesto ad ogni occhio" [128-129, in nota]; tal che, il
nocciolo è sempre lo stesso: è l'occhio che si rifiuta di vedere... 239 | più
importanti rappresentanti-chiave (i latini direbbero i principes) del consorzio
umano. perfezionabile: vogliamo dire che non è questione se l'educazione sia
affidata ad un cattivo o ad un buon maestro, ad una cattiva o ad una buona
scuola, ad un cattivo o ad un buon metodo: si rammentino gli
"insuccessi" di Socrate e di Cristo, a tal proposito, se li si
vogliano intendere come meri precursori di una scuola o di un'istituzione. Non
è questione, dunque, di proporre un modello educativo alternativo e più
pertinente. Questo perché la Persuasione non può avere maestri, scuole e
proseliti: qualora li avesse, essa stessa giocoforza si mutuerebbe in
Rettorica. Attraverso la Svoreidaywyta, l'individuo vien
de-responsabilizzato””” e condotto, motu proprio, ad abdicare alla propria
umanità autentica. L'educazione ha il fine di preparare il singolo alle
esigenze della vita sociale, in modo che egli sappia inserirsi e vivere nel
meccanismo rettorico, senza traumi e senza velleità di contestazione: formare
coscienze, consapevoli di tutte le idealità familiari e sociali, capaci di
perpetuare lo svolgimento e di garantire la sicurezza stabile del dispositivo,
la sua cultura e le sue tradizioni, seppur talora sotto le mentite spoglie del
progressismo. Con un'espressione riassuntiva, potremmo dire che la società
rettorica garantisce e protegge sé stessa attraverso le forme e le formule
della Rettorica sociale. Appare chiaro, sotto questa prospettiva, che è errata
in assoluto ogni pretesa vicinanza o anche una semplice analogia topica (vista
la distanza temporale e geografica) tra le riflessioni di M. e gli assunti di
quella che vien detta "pedagogia del dissenso", " 241, Nella
"della liberazione", o le posizioni dei movimenti cosiddetti di
"descolarizzazione pratica, l'è vero, le linee dell'analisi e delle
critiche sembrano convergere, sotto certi rispetti (inerenti, comunque,
soltanto alla pars destruens del discorso): entrambi le posizioni (quella M.iana
e quella rivoluzionaria) ritengono che scopo dell'educazione - come comunemente
s'intende - non sia quello di far evolvere un individuo verso la propria
realizzazione al fine di renderlo felice, ma purtroppo far sì che l'individuo
si adatti a quel tanto di infelicità che gli è imposto da un sistema dato e
considerato immutabile (0, come dice Marcuse, l'educazione tenderebbe a fare in
modo che l’uomo viva liberamente la propria mancanza di libertà). Tuttavia, le
posizioni di fondo sono divergenti, anzi si pongono su due piani decisamente
diversi. 240 Si ricordi che, per M., la condizione "naturale"
dell'individuo sociale è quella in cui l'individuo risulta privato del suo
«senso di responsabilità» [108, corsivo del Goriziano; ma cfr. anche quanto
detto a tal proposito nel nostro paragrafo sulla Rettorica come tecnica della
violenza e violenza della tecnica]. 241 Intendiamo quella pedagogia
"rivoluzionaria" o "radicale" rappresentata negli USA da
Ivan Illich e da Paulo Freire (mentre in Italia è stata rappresentata da
Marcello Bernardi), che elegge a suoi padri putativi Godwin (in Inghilterra),
Francisco Ferrer (in Spagna) e, guarda caso, il nostro Tolstoj e che prende le
mosse, o comunque viene allo scoperto, durante i movimenti sessantottini di
protesta studentesca. «Descolarizzare la società» è il celeberrimo motto di Illich.
Quelle "nuove" pedagogie, si muovono, infatti, comunque nell'ambito
della necessità di un'educazione, prendendo di mira soltanto le modalità, i
modelli ed i metodi di quell'educazione. Il loro problema reale è: l'educando
deve adattarsi e conformarsi all'identità sociale, rappresentata ad esempio dal
maestro, o invece, come persona viva deve essere educato ad adoperare, un
giorno, la sua originale vitalità per migliorare la società (ci immaginiamo
come avrebbe reagito M.)? Quelle nuove pedagogie, insomma, appuntano la loro
critica solo su di un dato, effettivo, sistema educativo (quello borghese e
sedicente "liberale"), perché lo ritengono "statico" e
quindi nocivo alla società stessa, cui l'educazione rimane sempre e comunque
"funzionale". Per questo, si affaticano nell'approntare un metodo
educativo che elimini ogni costrizione o dipendenza apparente (prescrizioni,
regolamenti, orari), che ridefinisca quell'insieme di atteggiamenti e di comportamenti
che aiutano un individuo ad essere se stesso, a realizzare pienamente la
propria personalità, a 'progredire secondo le proprie linee evolutive",
come si suol dire. Per dirla in breve, quelle pedagogie non eliminano
l'eteronomia, ovvero non obliterano la figura dell'educatore (ritenuta sempre
necessaria), ma si limitano ad evidenziare la difficoltà e la delicatezza del
rapporto interpersonale educatore-educando, lo riformulano e lo re-inquadrano
assimilandolo sostanzialmente all'amore della famiglia e/o della città; rischiando,
così, di pervenire, e in effetti pervenendo - nell'ottica del Goriziano, non
esplicita in questo senso, ma consequenziale, a questo punto - ad un'operazione
ancora più subdola e pericolosa: propinare e formare il "culto della
comunità" attraverso la maschera del paternalismo più becero. Questa
autorità (quella del genitore, quella del maestro, quella della Rettorica)
rimane sempre tale, anzi si rinforza, perché si mimetizza sotto le mentite
spoglie dell'amore e della cura dell'altro («il verxog avrà preso l'apparenza
della puua» [118]): essa non s'impone più dall'esterno o dall'alto, ma conduce
il discepolo (anzi, meglio, il bambino, o il giovane) ad attuare se stesso
secondo (presunta) verità; comanda come se consigliasse o supplicasse;
influisce e penetra nelle anime senza apparentemente lederne l'autonomia...
Come si vede, nell'ottica del disincanto che la lettura di M. ci suggerisce, la
violenza permane tal qual è, anzi addirittura si amplifica e diviene più
efficace, perché si fa subliminale e si edulcora, e in questo suo edulcorarsi
riesce a rendersi perfino ben accetta. Alla luce di tutto ciò, appare allora
cristallino quanto il Goriziano scrive (e vale davvero la pena trascriverlo):
La peggior violenza si esercita così sui bambini sotto la maschera dell'affetto
e dell'educazione civile. Poiché con la promessa di premi e la minaccia di
castighi che speculano sulla loro debolezza, e con le carezze e i timori che
alla loro debolezza danno vita, lontani dalla libera vita del corpo, si
stringono alle forme necessarie in una famiglia civile: le quali come nemiche
alla loro natura si devono appunto imporre con la violenza e con la corruzione.
Più ancora, la stessa fede, la stessa volontà del bene è sfruttata per l'utile
della società. La grande aspettazione d'un valore è via via adulata con la
finzione d'un valore nella persona sociale, che gli si tien sempre davanti agli
occhi come quella che egli debba, imitando, in se stesso educare. Tu sarai un
bravo ragazzo, come quelli che vedi là andare alla scuola, sarai come un
grande'. Gli si forma il mito di questo raro scolaro grande, e ogni cosa
appartenente allo studio, alla scuola acquista un dolce sapore: l'andare a
scuola, la borsa per i libri ecc. E si forma la gerarchia dei valori in
rapporto alla superiorità della classe: 'Se sarai bravo, il prossimo anno, non
scriverai più sulla lavagna, ma su un quaderno! e con l'inchiostro". Tutti
approfittano di quest'anima in provvisorio che sogna 'il tempo quando sarà
grande', per violentarla, 'incamiciarla', ammanettarla, metterla in via assieme
agli altri a occupare quel dato posto e respirar quella data aria sulla gran
via polverosa della civiltà. [129] E in modo ancor più esplicito e sarcastico:
Fin dai primi doveri che gli si impongono, tutto lo sforzo tende a renderlo
indifferente a quello che fa, perché pur lo faccia secondo le regole, con tutta
oggettività. 'Da una parte il dovere, dall'altra il piacere'. 'Se studierai
bene, poi ti darò un dolce; altrimenti non ti permetterò di giuocare' .E il
bambino è costretto a mettersi in capo quei dati segni della scrittura, quelle
date notizie della storia, per poi avere il premio dolce al suo corpo. - 'Hai
studiato: adesso puoi giuocare!". E il bambino s'abitua a considerar lo
studio come un lavoro necessario per viver contenti, se anche in sé sia del
tutto indifferente alla sua vita: ai dolci, al giuoco ecc. Così gli si
impongono le determinate parole, i determinati luoghi comuni, i determinati
giudizi, tutti i kallwpismata della convenienza e della scienza, che per lui
saranno sempre privi di significato in sé ed avranno sempre soltanto tutti quel
costante senso: è necessario per poter avere il dolce, per poter giuocare in
pace: la sufficienza e il calcolo. Quando al dolce e al gioco si sostituisca il
guadagno, "la possibilità di vivere" - "la carriera",
"la via fatta", "le professioni" - lo studio o la qualsiasi
occupazione conserveranno il senso che il primo dovere aveva: indifferente,
oscuro, ma necessario per poter giocare poi, cioè per poter vivere ai miei
gusti, per mangiare, bere e dormire e prolificare [130; in queste ultime righe,
tutto il corsivo è nostro]. Tutto l'apparato rettorico viene spazzato via con
un colpo di spugna, viene anzi ridicolizzato (s'immiserisce in caricatura) da
queste considerazioni sprezzanti che non concedono alcun appello. La
demolizione dell'illusoria permanenza, da semplice breccia che era, assume dimensioni
a dir poco apocalittiche, coinvolgendo tutti gli aspetti della nostra gratuita,
artefatta esistenza, dalle espressioni più banali e quotidiane a quelle più
meschine e smaliziate. Lo smascheramento si è mutato in condanna esplicita,
perentoria, battagliera, irriverente, colpendo nel cuore il dio della
prAopuyix, braccandolo negli anfratti più reconditi, smitizzandone l'ostentata
onnipotenza. Ad un orecchio distratto, le parole di M. potrebbero suonare come
l'ennesima, stancante riproposizione di un impertinente nichilismo. Tutt'altro,
ci pare. Il nichilismo è il travestimento carnascialesco della Rettorica, il
tiro mancino più azzeccato e beffardo e più a la page. La forza di M. non è
soltanto nel disincanto: il disincanto è un momento di passaggio, obbligato, ma
di passaggio; la forza della Persuasione risiede soprattutto nella speranza di
un nuovo inizio: lo spegnersi dell'illusione luciferina del piacere non ci
immerge nelle tenebre ma ci apre lo spiraglio di una nuova luce, di una
recuperabile Salute. Per quanto tutto ciò che ci attornia sembri comprovare una
resa incondizionata, forse non è ancora tutto compromesso, ci suggerisce il
nostro filosofo. Abbiamo ancora una possibilità di riscatto, un perno autentico
intorno al quale tentare di ricostruire ciò che abbiamo perduto. E'
dall'insegnamento socratico che bisogna ricominciare, è il nosce te ipsum -
secondo il Goriziano - il punto di riferimento di ogni corretta ri-valutazione
dell'umano, il «prediletto punto di appoggio», il veicolo autentico e genuino
della Persuasione, la garanzia pertinace dell'autonomia del vir : Questa
educazione (ed è l'unica) [la precisazione parentetica ha valore risolutorio]
dà all'uomo le gambe per camminare, e gli occhi per vedere: non gli dà vie
fatte, non gli fa veder date cose. - questa fa l'uomo sicuro e indipendente da
qualunque offrirsi di cose e non può temere che l'una o l'altra vita
sufficiente lo vinca [PR 150; corsivi di M.]. Solo attraverso la voce di
Socrate” si formerà il vero uomo, il vir persuaso, l'eroe tragico, l'uomo
d'azione, che ha fatto del dolore il punto di partenza della propria gioia, e
che ha aperto quella gioia al mondo, creando i presupposti di un nuovo rispetto
tra gli enti e di un nuovo principio di responsabilità e di amore. Le parole di
M. sono, ancora una volta, devastanti nella loro bellezza, definitive pur nella
loro programmaticità (le sottolineamo tutte in corsivo, visto che esse
compendiano e confermano il senso della nostra interpretazione): L'uomo
d'azione, l'eroe è come uno zampillo d'acque che erompe dalla terra, s'innalza
verso il cielo, riscende a ristorare il suolo. (...) L'eroe è uno slancio della
volontà verso l'essere, la libertà, 'dio" nelle cose, con le cose, per le
cose; nella vita e non fuori della vita; bisogna esser nella vita per uscirne -
e l'unica via è l'universalizzazione della vita, lo slancio verso il principio
della vita in un amore eguale per tutte le cose viventi: libertà e amore:
quanto più l'uomo è libero tanto più sente sé identico all'universo: nell'amore
verso l'intima ragione accomuna sé e l'universo; sente sé (nel proprio divenire
verso l'essenza) la ragione dell'universo, ama sé in tutte le cose e tutte le
cose in sé; in quanto ama e cerca quell'unica universale essenza. L'eroe vive
in questa ultima fede e afferma se stesso trascinando il mondo verso la vera
vita: il regno dei cieli è in te. (...) L'eroe presuppone negli uomini la
medesima essenza, la stessa volontà che è in lui, rispetta sé negli altri. Cioè
suppone negli altri la ‘direzione verso l'assoluto, verso dio": nega e
afferma per sé e per gli altri in nome di questa smisurata speranza. Respinge
la vita terrestre, ma vive, nel pensiero de 'la vita'24, Sta dunque a noi -
che, seppur "storditi", avvertiamo comunque il riflusso della voce
socratica - farne «attività infinita» o destinarla al bivacco dell'utopia,
ostinandoci a bazzicare nelle rilassate menzogne della nostra «tranquilla e
serena minore età» °, perché - direbbe Kant - in fondo «è così comodo essere
minorenni!» °°, 242 L'eristica potrebbe obiettare che l'eteronomia, cacciata
dalla porta, è rientrata per la finestra: in fin dei conti, anche M. elegge un
suo educatore, in Socrate. Ma l'appunto è inesatto. L'educazione socratica,
infatti, ha il suo valore proprio nel negare... il proprio valore (ilsapere di
non sapere, tanto per usare un comodo luogo comune), ovvero nell'indicare
all'individuo la strada della propria autonomia, disattendendo ad ogni sua
stessa pretesa educativa (e qui è il fulcro del paradossale
"messaggio" di Socrate, che si riflette nella paradossalità della
Persuasione). In questo senso, nel richiamare l'individuo alla "reminiscenza"
dell'autentico "demoniaco", più che un'educazione, quella socratica è
una provocazione. 243 La figura dell'eroe tragico, come qui è tratteggiata,
appare negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg. 798-799. 244 Sono le parole con
cui si conclude la versione "ufficiale" (prescindendo dalle Appendici
critiche) de La persuasione e la rettorica. Confessiamo che sono state proprio
queste parole, che suggellano il messaggio di persuasione M.iano, ad
incoraggiare il nostro approccio ermeneutico attraverso la prospettiva
dell'etica kantiana, casomai non esplicita, ma sempre presente durante la
stesura del nostro lavoro. Perché «uscire dalla minore età» è l'augurio e il
monito programmatico (a tutto il suo pensiero) che Kant pone a principio di uno
dei saggi che riteniamo tra i più belli e sardonici: Risposta alla domanda: che
cos'è l'iluminismo? [cfr. anche nota successiva]. E la coincidenza non c'è
sembrata solo una contingente questione d'assonanza. 245 Cfr. Kant, : Risposta
alla domanda: che cos'è l'illuminismo?, contenuto in Scritti politici e
filosofia della storia e del diritto, UTET, 1965, pag. 141. Capitolo
integrativo. A - Le varianti deboli della Persuasione. A1- La variante
nichilistica di Schopenhauer. A2- La variante Nietzsche, il "terzo
Dioniso". A3 - Leopardi: la variante "flessibile" alla
Persuasione. A4 - Kierkegaard: la variante "relazionale" della
Persuasione. B - Variazioni sul tema M.iano del "peso che di-pende".
C - La critica alla Rettorica come caricatura della Rettorica. A - Le varianti
deboli della Persuasione. Intendiamo quali "varianti deboli" della
Persuasione taluni esiti filosofici che hanno conosciuto, rispetto alla
proposta M.iana, maggior fortuna nella storia del pensiero occidentale, pur
condividendo, con quella proposta, presupposti e finalità, ovvero - per dirla
con estrema sintesi - la mechané tragica per sopravvivere al Tragico (in questo
senso le diciamo varianti). Esiti (l'egoismo di Stirner, il titanismo di
Foscolo e Leopardi, il dionisismo di Nietzsche, il volontarismo di
Schopenhauer, il "cristianesimo" di Kierkegaard e via dicendo) cui
molto spesso la critica si è appoggiata nel tentativo di risolvere la
complicata sciarada della Persuasione, incasellandola nel rapporto a soluzioni
già note e definite, ma in questo modo giocoforza equivocando e/o svalutando la
pregnanza e l'originalità profonde della sua portata. Soluzioni, ancora, che M.
effettivamente tenne in conto, e che anzi costituirono (quale più quale meno)
l'humus fertile della sua formazione culturale e soprattutto umana: ma esiti,
infine, che M. stesso ad un certo punto superò (nell'accezione, ci vien da
dire, hegeliana), ritenendoli parziali o comunque non sufficientemente
"persuasi" (e in questo senso le varianti le diciamo debolì). Non
sufficientemente persuasi significa, come oramai si capirà, non garanti di
quella autonomia e di quell'orizzonte politico che invece costituiscono per noi
i tratti distintivi e forti della Persuasione M.iana. Focalizzeremo la nostra
analisi soprattutto sulle varianti schopenhaueriana, nicciana, leopardiana e
kierkegaardiana, dato che - vista la loro portata - esse si impongono su altre
satellitari, nel senso che ad esse possono comodamente riferirsi. In realtà,
riguardo Kierkegaard, la questione è già stata ampiamente trattata nel corso
del nostro lavoro, anche se per via indiretta, soprattutto nell'accostamento al
Brand, trasposizione drammaturgica (come dicemmo) del cavaliere della fede;
riguardo Leopardi, uno dei Persuasi per eccellenza secondo M., ci soffermeremo
soltanto sulla lieve (ma in ordine di quantità e non di qualità)
"sfumatura" che a nostro parere li distingue nelle soluzioni della
mechané; per quanto concerne Schopenhauer, invece, ci limiteremo a sottolineare
le affinità-differenze del Wille con la deficienza e il valore della
Persuasione anche come decisa risposta alternativa al Nirvana, o comunque
all'ideale ascetico; infine, la nostra analisi indugerà piuttosto su Nietzsche,
dato che l'ermeneutica filonicciana rappresenta, secondo il nostro giudizio,
l'equivoco più problematico e pericoloso della Persuasione, anche se,
purtroppo, il più accreditato. Nel tracciare la sinossi di questi autori con M.,
ovviamente si procederà con andamento sintetico piuttosto che analitico, ovvero
sorvolando elementi critici oramai 149 assodati e casomai soffermandoci su
spunti che, in apparenza tangenziali o cavillosi, possono rivelarsi cruciali
nell'economia del nostro discorso. Questa nostra metodologia
"antagonista", infine, vuol far emergere, nel raffronto
chiaroscurale, una evidenza della Persuasione chiara e distinta, chiara perché
appunto distinta. E vuol ribadire il fatto che la riflessione di M., seppur
originalissima, fermentò comunque nella sinergia di riflessioni affini alla
sua°*°: il Goriziano, cioè, cercò continue conferme alla sua ipotesi di
Persuasione (e di riflesso, alla sua analisi sulla Rettorica), spaziando tra le
esperienze più complesse e "alternative", volte a garantirle anche un
saldo impiantito speculativo. Apparirà chiaro, dunque, come tra M. e i quattro
pensatori di cui sopra si venga a stabilire un vincolo che può apparire di
filiazione, ma che in effetti è di "assonanza" (si respira, come
dire, aria di famiglia): ossia apparirà sintomatico come la
"consapevolezza del disincanto" acquisti, a certi livelli, una quasi
perfetta corrispettività di intenti e di diagnosi e di espressioni talora anche
(addirittura) terminologica. Laddove, però, le differenze si rivelano
importanti almeno quanto le somiglianze. Questo, a nostro parere, getta luce
definitiva sul rapporto che il giovane filosofo instaura con i "suoi"
autori: è come se da essi - volendo usare una perifrasi aritmetica - traesse il
"minimo comune multiplo" o il "massimo comun divisore", e
lo rielaborasse nel saldo tessuto connettivo della sua Persuasione. Persuasione
che, in un balzo, oltrepassa anche gli esiti dei suoi riferimenti privilegiati,
e ciò davvero senza la pur minima ossequiosità; Persuasione che, infine, e non
solo per l'ameno che la contraddistingue, può a buon diritto figurare accanto a
quelli nel firmamento della storia della filosofia persuasa di tutti i tempi,
seppur figlia "soltanto" dell'ibrida provincia italo-austriaca. 246
Sullo sfondo, non dimentichiamolo, l'orizzonte greco, presupposto di tale
sinergia, già ampiamente trattato.A1- La variante nichilistica di Schopenhauer.
Come accennato più volte, alla lettura di Schopenhauer - all'unanimità
riconosciuto come uno dei vertici speculativi di ispirazione per M. - il nostro
giovane filosofo fu introdotto dall'amico Enrico Mreule”", e
presumibilmente attraverso Schopenhauer (si pensi alle suggestioni nirvaniche
di intere pagine del Mondo) si avvicinò anche alla riflessione, se non proprio
alla pratica, del Buddismo”. Eppure, il "filosofo della volontà" è il
grande assente dagli scritti michelstedteriani: gli accenni che lo riguardano
in modo diretto sono davvero scarsi, ammontano a quattro o cinque - egualmente
distribuiti tra la tesi, l'epistolario e due saggi raccolti nelle Opere
complete - e, nella maggior parte dei casi, ci sentiamo di dire, davvero di
poco conto, accessorii?”. 247 Cfr. almeno il nostro capitolo II, nella
fattispecie il paragrafo sul Pretesto cronologico della proposta persuasa di M..
248 Cfr. il nostro capitolo |, nella fattispecie il paragrafo sul Porto della
pace. 249 Schopenhauer aveva individuato nella Volontà [Wille] il nome proprio
del noumeno kantiano, vale a dire la radice strutturale di ogni realtà: un
impulso cieco, inarrestabile, irrazionale, che non ha altro fine se non
perpetuare sé stesso e che, in questo autoprodursi, informa il mondo (si
"oggettiva" nel mondo) segnandolo di dolore e male. Essa è «la
sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto» (cfr. almeno
Mondo I, $ 21). «Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere è il
mondo, in tutta la molteplicità delle sue parti e figure. L'essere, e il modo
dell'essere, nel tutto come in ciascuna parte, è costituito solo dalla Volontà.
Essa è libera, essa è onnipotente. In ogni cosa appare la Volontà, quale essa
medesima in sé e fuori del tempo si determina. Il mondo non è che lo specchio
di questo volere; ed ogni limitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondo
contiene, appartengono all'espressione di ciò che la volontà vuole: sono quali
sono, perché essa così vuole» [ib. § 631. Secondo il "filosofo del
pessimismo", la Volontà stessa trova nell'uomo un insperato, inconsapevole
alleato: essa, sempre più chiaramente oggettivandosi, agisce, prima come forza
meramente impulsiva, poi come forza istintiva, infine, proprio nell'uomo, come
conoscenza. Nell'uomo, nella conoscenza, la Volontà diviene forma organizzata,
assume la falsa consistenza del "quadruplice principio di ragione sufficiente"
(necessità logica, fisica, matematica, morale). Ora, ad avviso di Schopenhauer,
ci si può liberare dal dolore e dalla noia e sottrarsi alla catena infinita dei
bisogni - tutte manifestazioni in cui appunto la Volontà si oggettiva nell'uomo
- attraverso l'arte e l'ascesi. Un grado "intermedio" di liberazione
è la compassione, che nasce quando l'uomo ha saputo superare ogni distinzione
fra la propria e l'altrui persona, considerando il destino dell'altro uomo come
uguale al proprio e sentendo come proprio l'altrui dolore. La morale ha come
virtù la giustizia (che è un freno all'egoismo e quindi è una virtù negativa:
"non fare il male") e la carità (virtù positiva: "allevia il
male"). Tuttavia, se con la pietà si vince l'egoismo, comunque non ci si
libera totalmente della vita e dunque della volontà. Difatti, per Schopenhauer
il comportamento che nega in modo assoluto l'individualità e la volontà
dell'uomo è piuttosto quello ascetico. Nell'ascesi la Volontà cancella ogni
affermazione di sé negando tutte le forme "positive" di vita e
trasformandosi in quella che il filosofo chiama appunto la nolontà (ossia il
riflesso speculare - ma opposto, negativo - della Volontà). L'ascesi si profila
come un insieme di pratiche che mortificano la volontà, che fanno capire come essa
sia causa reale di sofferenza e sia essenza stessa del mondo: la noluntas è la
perfetta castità, la povertà volontaria, la rassegnazione ed il sacrificio
[cfr. almeno $$ 70-71]. Quello ascetico si configura come lo stato di chi ha
annullato in se medesimo ogni pulsione vitale, di chi si è distaccato
dall'ordine degli eventi mondani e dai piaceri della vita e accetta serenamente
la morte come liberazione dai lacci della volontà e delle sue illusioni. La
completa soppressione dell'impulso vitale produce, per Schopenhauer,
l'annullamento totale del mondo: pervenuto alla perfezione della noluntas,
l'uomo scopre che il traguardo della propria autonegazione gli dona la
contemplazione del nulla (cfr. almeno ib. $ 71, ma vd. anche nel prosieguo del
confronto). Ma è proprio nella formazione di questo "nulla
mortificante" artefatto che, secondo noi, M. costruisce la propria critica
e segna il suo distacco da Schopenhauer. [le citazioni qui riportate da Il
mondo come volontà e rappresentazione, e quelle che si riscontreranno nel corso
del confronto, sono tratte dalla trad. it. proposta dall'ed. Laterza, 1968, a
cura di C. Vasoli. Delle citazioni ci siamo limitati a riportare i paragrafi da
cui esse son prese]. 250 Alle citazioni che incontreremo nel corpo del
confronto, si aggiungano queste altre tre, e il quadro è completo:
Schopenhauer, del resto, non rientra nell'eletta schiera dei persuasi: non è
inserito neanche nell'elenco dei «perfetti pessimisti» (che coincide in pratica
con quello dei persuasi), nel noto frammento contenuto negli Scritti Vari.
Questo silenzio e queste assenze sono a dir poco imbarazzanti, e molta critica
tende a sua volta a sottacerli, dato che, diversamente, crediamo noi, verrebbe
a cadere uno dei più importanti pretesti per incasellare M. all'interno di una
tradizione di riferimenti già stabilita. E' altrettanto vero, comunque, che da
molte pagine della tesi di laurea e del Dialogo trapela netta la voce del
Wille, soprattutto quando il Goriziano svolge la sua analisi sul deficere
fisiologico-ontologico che struttura il mondo sublunare”; com'è vero che, «con
buona probabilità, [ritrae il volto di] Schopenhauer un disegno di M.
pubblicato da VI. Arangio-Ruiz252, [al di sotto del quale disegno] è
significativamente riportata la formula 'AT ENEPIEIAX® EX APTIAN'
[dall'attività verso la pace] in cui il Goriziano ha più volte sintetizzato i
compiti della [sua] ricerca filosofica»“°°. E, ancora, è forse proprio lo
stesso ritratto che s'intravvede sullo sfondo, tra i libri sulle scaffalature,
nel famoso autografo Disegno della soffitta di casa Paternolli (il «ritratto
della mia vita», com'egli lo chiama allegandolo ad una lettera al Chiavacci),
la soffitta dove M. letteralmente si segregò per ultimare la tesi, trascorrendo
(come scrive) una «vita che non è vita», ma con la consapevolezza, comunque,
che lì nasceva «una grande opera». Quasi che l'immagine del filosofo tedesco,
come l'icona di un santo, vegliasse e "supervisionasse" il lavoro del
Goriziano, dunque. Del resto, Schopenhauer suggerisce a M. anche il luogo
privilegiato attraverso il quale, come filo d'Arianna, individuare la
possibilità di un'armonia persuasa da estendere alla totalità delle cose
viventi: il filosofo tedesco aveva visto, cioè, proprio nel corpo - che pur ad
una considerazione superficiale si dà come mera rappresentazione tra le
rappresentazioni - l'espressione più adamantina e perfetta dell'oggettivazione
del Wille, e quindi la condizione della conoscenza della Volontà stessa, lo
strumento euristico che permette di oltrepassare il "velo di Maia"
interposto tra noi e la vera essenza del «E' scritto in qualche parte (credo in
Schopenhauer) che chi potesse guardare internamente in un vaso di terra non vi
vedrebbe che un oscuro tendere al basso e un'oscura forza di coesione» [PR
162]; «Tu sai che la ragione dell'antisemitismo filosofico (Schopenhauer e
Nietzsche) è il razionalismo della religione e della letteratura ebraica (pensa
al Pentateuco e a Spinoza!) e la mancanza dell'elemento mistico nelle menti
ebraiche [...]» (la già citata lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E
267, che richiameremo anche in riferimento a Nietzsche); «Schopenhauer dice che
ogni dialettica è in fondo un'eristica. Quella dialettica non è un'eristica
dove l'uomo si comporta verso l'altro come verso di sé - dov'è presupposta in
tutti e due un'eguale realtà, sicché tutti e due arrivano a purgare singoli
concetti dalla relatività, giungendo ad affermare così l'assolutezza della loro
comune fede» [O 711-712]. 251 Ma riguardo a ciò, ovvero alla re-interpretazione
del Wille, cfr. quanto diremo oltre. 252 In Convegno, luglio 1922, pag. 357.
253 Sono le parole di S. C ampailla, in Pensiero e poesia..., cit., pag. 25, in
nota. 254 La lettera cui il disegno e le parole citate fanno riferimento è
quella del 25 aprile 1910. mondo. Similmente, M. individua un'analogia tra il
bisogno elementare del nostro corpo e il bisogno della Persuasione: come
ricorderete, dicemmo che «è come se [...] un'immagine sbiadita della
Persuasione sopravvivesse nella forza che sottende all'equilibrio omeostatico
(chimico e soprattutto fisiologico) del nostro corpo» °°. Ciò nonostante, il
silenzio del Goriziano riguardo Schopenhauer è, secondo noi, non privo
d'importanza, è anzi indicativo della curvatura autonoma che ben presto prese
la sua ricerca esistenziale. A tal proposito, ci sembra utile riportare l'unico
passaggio che abbiamo designato come significativo: (Schopenhauer, in fin dei
conti] non si occupa di far vedere la necessità dell'errore stesso implicito
nel principio generale della vita che fece vivere chi aveva negato ogni ragione
di vivere. Infatti così accadde proprio a lui che visse tutta una lunga vita a
fare professione di pessimismo. Tanto che poi le sue negazioni gli divennero
sistema e che morì accarezzando anche lui [s'intende, tra le righe, (soprattutto)
come Hegel] una certa forma di 'assoluto' [O 839-840]. Come appare chiaro, M.
denuncia che nella pratica della vita il filosofo tedesco arrivò a sconfessare
se stesso, o che comunque fece assurgere il suo pessimismo a sistema, la qual
cosa è una contraddizione in termini. Appare altrettanto chiaro che, in questo
senso, Schopenhauer diviene addirittura l'avversario privilegiato, seppur
indiretto, di molte pagine M.iane incentrate sulla critica dell'«imperfetto
pessimismo», cioè di quel pessimismo che viene infine a coincidere con «un
punto alto dell'ottimismo vitale»"99. Il meccanismo, che in effetti
ricorre in più passaggi della sua opera, viene descritto con limpidezza in un
capoverso del Dialogo: Il suo non è pessimismo, cioè conoscenza del non-valore,
e conseguente indifferenza, ma ottimismo. Cioè fede in un valore (la felicità
nella morte) sconosciuto, per solo stimolo del suo bisogno presente [D 78]. Qui,
in verità, M. sta fustigando coloro i quali, "forti" del loro
pessimismo, credono di realizzarne con coerenza i presupposti nichilisti
uccidendosi. Mentre invece Schopenhauer, come sappiamo, considerò il suicidio
come «un atto di forte affermazione della volontà stessa» in quanto il suicida
«vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate»
(Mondo, $ 69), per cui anziché negare veramente la volontà egli nega piuttosto
la vita; e in questo M. lo segue fedelmente (ed è importante, e deve far
riflettere, una simile presa di posizione da parte di un suicida?”). 255 Cfr.
ci sia concessa questa autocitazione dal paragrafo su Empedocle, nel nostro
Capitolo V, per rendere più scorrevole il discorso. 256 in Scritti Vari, cit.,
pag. 825. 251 Cfr. le analisi contenute ad esempio in D 75-78. Tuttavia, pur se
non morte, cos'altro è la noluntas se non una forma di
"mortificazione", di consapevole eutanasia? La pace del Nirvana? si
propone come esperienza del nulla, un nulla relativo al mondo, cioè, in
definitiva, una negazione del mondo. Certo, anche la Persuasione presuppone una
spoliazione progressiva delle "valenze inadeguate" che il vir
intrattiene col mondo: ma il risultato non è un divorzio del Persuaso da ciò
che lo circonda, non è una sua mortificazione, bensì - e lo abbiamo più volte
ripetuto - un recupero del mondo nell'apprezzamento di una rinnovata dolcezza.
Per semplificare la questione, possiamo ammettere che talune affermazioni del
Goriziano tradiscono, in effetti, già nell'argomentazione, una discendenza
molto chiara dal dettato schopenhaueriano (ad es., passaggi importanti come il
seguente: «Vita è volontà di vita, volontà è deficienza, deficienza è dolore,
ogni vita è dolore»°°°): e proprio seguendo la falsariga del Tedesco (e con
profonde affinità anche con Leopardi) per M. la vita - e non solo quella
rettorica - oscilla decisamente tra dolore, piacere effimero e noia.
L'argomentazione è addirittura sillogistica, come sappiamo: ogni essere
vivente, oggettivazione puntuale/empirica del Wille/deficere, è afflitto dal
bisogno e dal desiderio, da una brama che pone in lotta le forme viventi tra
loro. Unica alternativa, dopo i brevi e occasionali istanti dell'appagamento
(natura negativa del piacere), è la noia. 258 «Davanti a noi - scrive
Schopenhauer - non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro
codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch'essa nient'altro che
la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere è
il nostro mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un'altra
manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non
questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla
nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il
mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla piena conoscenza di sé, se
medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro, che
attendono di vedere svanire ancor solamente l'ultima traccia della volontà col
corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell'ncessante, agitato impulso; in
luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in
luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond'è formato il sogno di vita
d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta
la ragione, quell'assoluta quiete dell'animo pari alla calma del mare, quel
profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia [...] La conoscenza sola è
rimasta, la volontà è svanita. E noi guardiamo con profonda e dolorosa
nostalgia a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per
contrasto, la miseria e la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola,
che ci possa durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto
essere insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno della
volontà, al mondo; e dall'altro vediamo con la soppressione della volontà
dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal
guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi [...] dobbiamo
discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo
termine in fondo a ogni virtù santità e di cui noi abbiamo paura, come della
tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il
nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come
sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo
piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa
della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il
nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa
e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue
vie lattee, è il nulla » [Mondo $ 71 passim]. 259 In Scritti Vari, cit, pag.
705. 260 «Qualsiasi soddisfacimento - scrive Schopenhaurer - o ciò che in
genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre
negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé
entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l'appagamento d'un desiderio.
Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione preliminare d'ogni
piacere. Ma con l'appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere.
Quindi l'appagamento o la gioia non può essere altro se non la liberazione da
un dolore, da un bisogno: e con ciò s'intende non solo ogni vero, Dolore,
piacere e noia sono le passioni, potremmo dire con Cartesio, «semplici e
primitive», da cui si diramano passioni più particolari; di queste, il
Goriziano fornisce una vera e propria casistica eziologica ed ontologica, che
può ricordare altre simili presenti, ad esempio, nell'Ethica di Spinoza:
l'impotenza, il rimorso, la malinconia, la paura, l'ira, la «gioia 'troppo'
forte»™®' . Ontologica perché esse tutte, primitive e derivate, in effetti
poggiano sulla passione fondamentale, quella esistenziale per eccellenza,
quella insomma che gli esistenzialisti (ma già Kierkegaard) chiameranno
Angoscia [Angs{ ovvero, secondo il giovane tesista, la condizione per la quale
l'uomo «sente d'esser già morto da tempo e pur vive e teme di morire»”®?:
l'angoscia testimonia «dappertutto lo stesso dolore della vita che non si sazia
e crede di saziarsi, reso perspicuo per la qualunque contingenza dell'una
coscienza col fluire delle altre coscienze». E' l'angoscia, la malattia
mortale, la passione "motrice" che, nella pratica, induce gli uomini
a stringere la "cambiale" della società, per una sorta
dicompensazione/conservazione del proprio impulso vitale, altrimenti annichilito.
Tuttavia, se tale analisi ha una radice palesemente schopenhaueriana, il nostro
filosofo già da subito reinterpreta/sussume il Wille all'interno di
un'originalissima «ontologia della privazione che concepisce la vita secondo i
termini di una deficienza originaria »?9°, ovvero «la volontà per M. non è un
oscuro impulso fondato in se stesso [come appunto in Schopenhauer], ma una
‘deficienza’, una mancanza, la maniera d'essere dell'esistenza finita, della
falsamente infinita ‘vita» 9. E i nostri approfondimenti in proposito
dovrebbero rendere questa differenza oramai scontata. La Persuasione, di
contro, non sarà un riparo egoistico nella turris eburnea dell'autosufficienza
nichilista (così come appare nella noluntas), ma una consapevolezza viva e
politica del Tragico, volta a creare una nuova solidarietà tra tutti gli enti
del mondo sublunare, al di là di ogni pregiudiziale cesura metafisica?®. Il
Persuaso, infine, è il vero pessimista perché sa farsi ragione della «brutalità
della vita», e ciò facendo - scrive M. - «vive con la chiara coscienza dei
valori e delle possibilità: non spera dalle cose più di quanto possano dare,
non teme più di quanto sia da temere». Ancora una volta, il pessimismo persuaso
coincide con la consapevolezza del Persuaso, ovvero con la consapevolezza
aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui importunità disturbi la nostra
calma, e perfino la mortale noia, che a noi rende un peso l'esistenza». [cfr.
Mondo, § 58] 261 Per l'analisi delle quali, cfr. - del nostro Il capitolo - il
paragrafo sul Cerchio della violenza. 262 Per queste considerazioni, e quelle
che seguono immediatamente, cfr. ibidem. 263 Cfr. G. Pulina, L'imperfetto
pessimista - Saggio sul pensiero di Carlo M., ed. Lalli, pag. 61. 264 Cfr. A.
Michelis, Carlo M., cit., pag. 71. 265 P er i riferimenti e le citazioni che
seguono immediatamente, cfr. almeno, del nostro capitolo II, il paragrafo sulle
Radici della violenza. In effetti, che tra l'uomo e gli altri enti non ci fosse
alcuna cesura metafisica è un lascito anch'esso schopenhaueriano (tutto è
Volontà). dell'impermanenza esistenziale”, e quindi con la gioia che da questa
consapevolezza scaturisce. Ne vien fuori una figura di eroe tragico che nulla
ha a che vedere con l'asceta schopenhaeuriano, o col superuomo nicciano (che
più che tragico, apparirà grottesco?9”). Un eroe tragico che, come abbiamo
concluso”, è uomo d'azione, uno zampillo d'acqueche erompe dalla terra,
s'innalza verso il cielo, ma riscende a ristorare il suolo: vive in uno slancio
che è nella vita e non fuori della vita: lo slancio verso il principio della
vita in un amore eguale per tutte le cose viventi. L'eroe vive in questa ultima
fede e afferma se stesso trascinando il mondo verso la vera vita; e poiché
presuppone negli uomini la medesima essenza, la stessa volontà che è in lui,
rispetta sé negli altri, creando un vincolo di libertà e di amore??? 266 Come
la chiamerebbero anche i maestri orientali; e la coincidenza terminologica che
non può essere soltanto un caso. 267 Ma cfr. quanto diremo fa poco in proposito
della variante Nietzsche, 268 || riferimento è alla parte conclusiva del nostro
capitolo Il. Di quelle conclusioni riprendiamo, in parafrasi, nelle parole che
appena seguono, i punti salienti della descrizione dell'eroe tragico così come
tratteggiata dal Goriziano, come detto, negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg.
798-799. 269 In questo modo, M. recupera e rivaluta anche l'orizzonte
importante della compassione, che Schopenhauer aveva inteso soltanto come uno
dei momenti - inadeguato e transitorio - per assurgere alla contemplazione
nullificante del Nirvana [per cui cfr. supra]. A2- La variante Nietzsche, il
"terzo Dioniso". C'è un pessimismo della forza? Nietzsche, Tentativo
di autocritica Confessiamo che affrontare la variante nicciana della
Persuasione ci mette un po' a disagio. Nietzsche è un autore che attrae
inevitabilmente nel vortice del suo pensiero e della sua "follia"
ogni tentativo di accostamento; anche il nostro, per quanto contingente e
irrisorio, cioè votato a tracciare esclusivamente eventuali affinità o meno col
dettato M.iano. Proprio il fatto che quest'accostamento nostro malgrado
"ci si imponga" pur parlando di M. (che è per noi, negli esiti, un
altro mondo rispetto al filosofo tedesco) testimonia, nel suo piccolo, di come
la potenza e il fascino "ambiguo" di Nietzsche faccia valere tutta la
sua autorità; ossia di come si sia iniettato a livello genetico nell'orizzonte
pensante della sua posterità al punto che, a tutt'oggi, ogni nuova ricerca
filosofica, ogni nuova proposta etica, insomma ogni "progresso" della
speculazione deve fare innanzitutto i conti col suo nichilismo, eletto
all'unanimità a spartiacque, e deve innanzitutto difendersi dall'accusa
terribile di essere un valore, la più immediata che le viene rivolta contro, al
pari di un'offesa. Ribaltando la prospettiva (ma il senso permane identico),
ogni affermazione di forza genuina, ogni progetto di nuova umanità, ogni
rinnovato accenno "persuasivo" viene inteso come partorito, per
germinazione più o meno consapevole, in seno alla transvalutazione, come se
nella debacle di cui siamo gli omertosi testimoni Nietzsche fosse l'unico
garante di sincerità, l'unico punto di riferimento, l'unico abbrivo di pensiero
che prometta onestà. Così, anche la Persuasione M.iana è passata al vaglio del
"pensiero danzante", e a tal proposito il travaglio ermeneutico dei
suoi esegeti filonicciani è stato alacre: si è visto, cioè, nel vir un
figlioccio o un fratellastro minore dell'Ubermensch, nella sua aspirazione "autarchica"
(ovvero, autonoma) una volontà di potenza più ingenua ma non meno violenta: una
sorta di carbonio impoverito. M. sarebbe la traduzione provinciale del
nichilismo cosmico-europeo: egli starebbe a Nietzsche come il grimaldello al
martello. Ci viene voglia di liquidare il discorso con due battute: [1] la
Persuasione è effettivamente e fieramente un valore; [2] definire nicciano M.
sarebbe come chiamare nicciano Socrate (è Socrate, infatti, il riferimento
dichiarato del Goriziano), il che paleserebbe la vanità e la risibilità
dell'accostamento. Tuttavia, per non prestare il fianco ad inevitabili
contrappelli, preferiamo - come sempre - parlare di M. (e qui della sua
presunta filiazione da Nietzsche) attraverso le sue stesse parole.
Innanzitutto, è da dire che chi cercasse riferimenti espliciti al filosofo
tedesco nelle opere del Goriziano, come nel caso di Schopenhauer, rimarrebbe
deluso. Si contano a stento sulle dita di una mano, e Nietzsche risulta
praticamente ignorato ne La persuasione e lrettorica. Difatti, M. menziona
Nietzsche cinque o sei volte - in maniera incidentale e mai in un contesto
"pacifico" - solo nelle lettere e in qualche appunto
"minore" contenuto nelle Opere complete a cura del Chiavacci. Ma
procediamo con ordine, partendo da un elemento in apparenza occasionale. Una
sera del gennaio 1907, M. va a teatro (una delle sue attività preferite) ad
assistere ad una pièce allora in voga: Più che l'amore, di Gabriele D'Annunzio.
Il Goriziano, com'era solito fare, in una lettera alla famiglia descrive
puntualmente le impressioni che ne ricavò [E 167-168]: Questa sera andai a
sentire Più che l'Amore. - Il concetto è prettamente Dannunziano, o meglio
Nietzschiano: L'uomo superiore nel suo immediato congiungimento d'amore,
d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita, al di fuori della
società, al di fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di
schiacciare senza riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società
gli mette fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale. - A me pare che
non solo si esplichi ciò (come i giornali dissero sempre) nell'uccisione del
baro ma anche e più, nel calpestare che Corrado Brando [il protagonista del
dramma] fa e dell'amore di Maria e dell'amicizia di Virginio. Anzi unicamente
in questo consiste l'azione, nell'altro soltanto l'antefatto e il mezzo per
poter esprimere tutti i concetti che l'autore magnificamente fa esporre
continuamente a Corrado, e ci spiegano l'azione la quale azione invece è di
fatto soltanto, non di parole. Più che l'amore agita Corrado la passione per la
natura africana, in nome di questa egli spezza il cuore di Virginio e di Maria.
Non èvero dunque che il lavoro manchi d'azione. Anzi è azione psicologica
serrata continua. La forza individuale di Corrado non cozza meschinamente
contro l'impossibilità di aver 3000 o 4000 lire ma contro i legami sociali,
contro i legami della coscienza, sopratutto contro i legami del cuore che dalla
società nascono, quei legami che sono i più forti di tutti. Quindi la
situazione è corrispondente esattamente a quelle del D'Annunzio stesso di
fronte alla sua famiglia nelle Laudi quando prende quasi commiato da lei,
corrispondente a tutta l'Attività sua poetica e pratica, corrispondente alla
situazione attuale della società (come si diceva quella sera). - Ma perché
questa azione spicchi è necessario drammaticamente l'ambiente sociale con tutte
le sue leggi, i suoi affetti, i suoi pregiudizi, o un suo rappresentante
convinto inesorabile, che non possa nemmeno intendere altre idee, oppure infine
un resto di questo mondo nell'animo dell'eroe, a produrre la lotta, la crisi,
la catastrofe. Invece l'autore piega tutti i presenti sotto il fascino di
Corrado: Virginio malintende e tentenna, Maria lo segue con entusiasmo, il
servo negro si farebbe in pezzi per lui. Quindi l'azione resta avviluppata, affidata
quasi all'immaginazione del pubblico, che, se sente, deve intendere lo schianto
dell'animo dei due altri, deve capire come la società calerà la sua mano
pesante sul capo di Corrado: il fato. E l'autore per aiutar l'immaginazione
appoggia tutta l'azione al fatto dell'uccisione che produce la catastrofe
dell'intervento della polizia. - In conclusione credo che abbia tutti gli
elementi ma che non sia affatto un dramma. E però un gioiello, una cosa
splendida per concetto ed immagini. - Questo stralcio, che può leggersi anche
come un piccolo e acuto saggio di critica teatrale, c'introduce proprio nel
cuore della nostra questione. Cerchiamo di de-costruirlo. E' nota la
deformazione dannunziana del mito del superuomo, reinterpretato in chiave
estetizzante e decadente: l'intuizione nicciana si volgarizzava, in tutti i
sensi, nell'ambigua figura di Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere,
alter ego dello stesso D'Annunzio, personaggio insieme raffinato e gelido,
aristocratico e spregiatore di quel «grigio diluvio democratico moderno che
tante belle cose e rare sommerge miseramente» (l'ispirazione nicciana doveva
intensificarsi nei cosiddetti romanzi del giglio, fiore simbolo appunto del
superuomo, della passione che si purifica). Fu soprattutto attraverso questa
distorta prospettiva (sin dai primi anni novanta dell'Ottocento, quindi) che il
pensiero di Nietzsche 158 fece il suo ingresso e la sua fortuna in Italia,
andando ad affascinare una gioventù ancora scapigliata e destando voluttuoso, e
dunque ipocrita, scandalonella borghesia giolittiana. L'intelligente M.,
tuttavia, mostra di non leggere Nietzsche attraverso D'Annunzio (qual era
l'abbaglio del suo tempo e a quanto presumono i critici M.iani di oggi), bensì
D'Annunzio attraverso Nietzsche: «il concetto è prettamente Dannunziano, o
meglio Nietzschiano», dice, e confessa indirettamente, in questo rilievo
correttivo, di aver avuto tra le mani le opere del filosofo tedesco e di poter
valutare criticamente i distinguo. Distinguo che, in questa sede, non
interessano: interessa piuttosto individuare in cosa consistesse quel «concetto
prettamente nietzschiano» che M. menziona. Ovvero, qual era l'impressione
ch'egli aveva desunto dalla lettura di Nietzsche? Le parole del Goriziano sono
chiare: «L'uomo superiore nel suo Immediato congiungimento d'amore,
d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita [la «fedeltà alla
terra», il «SÌ alla vita», dice Zarathustra], al di fuori della società, al di
fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di schiacciare senza
riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società gli mette fra il
suo amore e il conseguimento del suo ideale». L'impressione si metallizza in
una serie di nette opposizioni: individuo (uomo superiore) - società;
aspirazione alla realizzazione/autenticità (forze vive della vita) - sua
castrazione/inautenticità (concetti morali, barriere); dinamismo (forze vive
della vita) - stabilità sociale. In effetti, sembra già enuclearsi la dicotomia
Persuasione-Rettorica?”°. Ma prestiamo attenzione a un punto essenziale: in che
modo si realizzano le aspirazioni dell'uomo superiore, ossia in che modo esso
reagisce all'impasse sociale e riesce a «conseguire il suo ideale»? Il suo
aderire alla natura, alle forze della vita è «immediato», «entusiastico»: c'è
una sorta di processo di accumulazione energetica in questa immediatezza,
un'integrazione di "vitamine esistenziali": si galvanizzano forze
pericolose per il labile equilibrio salutare (l'armonia vitale). Questa
continua tensione, scrive Nietzsche, «sarebbe fatale per nature troppo delicate
[ma] fa parte degli stimolanti della grande salute». In un appunto tralasciato,
relativo alla Volontà di potenza, il 270 Come s'evince dall'indiretta accusa di
estetismo "psicologizzante" che M. rivolge a D'Annunzio. L'appunt è
anche qui in apparenza estemporaneo, cioè si offre come un mero rilievo di
critica teatrale (la vera "azione", il ver "dramma" della
pièce), mentre a ben vedere M. mostra già di presentire quelle che sarebbero
state le ragio motrici dello scontro Persuasione-Rettorica nella sua visione
matura. Perché l'azione drammatica decolli, dice Goriziano, «è necessario
drammaticamentel'ambientesocialecon tutte le sue leggi, i suoi affetti, i suoi
pregiudizi, o u suo rappresentante convinto inesorabile, che non possa nemmeno
intendere altre idee, oppure infine un resto di quest mondo nell'animo
dell'eroe, a produrre la lotta, la crisi, la catastrofe». Spostando, per
analogia, il rillevo nel "teatro del vita", il gioco è fatto. Di
contro, D'Annunzio «piega tutti i presenti sotto il fascino di Corrado»: questo
sposta, ed elude, consapevolezza dello scontro effettivo e del suo effetto
tragico, che dovrebbe corrispondere allo smacco sociale. E' una critica
embrionale, qui ancora inconsapevole, anche ai presumibili risvolti sociali e
politici di un'operazione simile: chiunque indugi a effondere il carisma
dell'uomo superiore falsa la portata tragica del conflitto impersonale-universale,
rischiando di risolverlo (e dunque di ridimensionarlo) a livello esclusivamente
personale-individuale. Giocando col riferimento di M. a Corrado, possiamo dire
che Nietzsche, in questo senso, «piega tutti i presenti sotto il fascino di
Zarathustra», ossia di se stesso. o 5-29 6 DD 15filosofo affina il suo
concetto: «Salute e malattia: si vada cauti nel giudicare! Pietra di paragone
resta l'efflorescenza del corpo, l'elasticità, il coraggio e la giocondità
dello spirito; ma, naturalmente, anche quanto di malato esso può prendere su di
sé e superare - rendere sano» [il corsivo è di Nietzsche]. La grande salute è,
possiamo dire, una questione di "entropia"?! del superuomo. Come si
sa, l'aspetto forse più importante dell'entropia è quello per cui noi,
studiando appunto le variazioni entropiche di un dato sistema (nel nostro caso,
del superuomo), possiamo "predirne il futuro", siamo in grado cioè di
capire quali sono gli stati verso cui il sistema può evolvere e quali sono
invece quelli che gli sono preclusi. La fisica, infatti, ci insegna che
l'energia si conserva, è costante, ma altresì che essa evolve, assumendo forme
non tutte ugualmente pregiate: l'energia può infatti dissiparsi (e la
trasformazione è irreversibile) oppure essere opportunamente imbrigliata, e
realizzarsi in lavoro (energia utile, trasformazione almeno parzialmente
reversibile). Come evolve allora l'energia del superuomo, qui incarnato in
Corrado Brando? Il superuomo - scrive M. - «ha diritto di schiacciare senza
riguardo». La sua energia, cioè, esplode in violenza. Sottolinea il Goriziano:
«A me pare che non solo si esplichi ciò [...] nell'uccisione del baro ma anche
e più, nel calpestare che Corrado Brando fa e dell'amore di Maria e
dell'amicizia di Virginio». E' questo un tratto tipicamente M.iano: la violenza
(del superuomo) non si esplica solo nel "fatto" brutale (qui,
dell'omicidio), ma ancor più nel rescindere, nel tradire, nel calpestare i
sentimenti umani più veri e più belli: l'amore e l'amicizia; ovvero, la
violenza non è soltanto sopraffazione: è anche - soprattutto - contraffazione,
mancanza di rispetto per la dignità dell'uomo che ci è accanto, preclusione
dell'orizzonte politico del confronto e della relazione umana nell'imposizione
rutilante della propria "egoità", attraverso un progressivo,
disonesto avvelenamento (Rettorica, appunto, avrebbe detto pochissimi anni dopo
M.). La Rettorica nasce dunque da una dissipazione di energia esistenziale, e
si profila, conseguentemente, come un processo irreversibile. Lasciamo per ora
in sospeso questo punto; teniamolo tuttavia bene a mente. E così, M. lesse
Nietzsche. Il Cerruti, convinto di una parabola evolutiva del pensiero M.iano,
appronta una schematizzazione utile, per quanto giocoforza farraginosa,
fotografando i «momenti dell'esperienza ideologico-esistenziale» del nostro
giovane filosofo: in essa, portando a testimonianza soprattutto la primissima
parte dell'Epistolario (laddove effettivamente il tono espressivo e la
sensibilità emotiva rasentano posizioni dannunziane e nicciane), il critico
dimostra che M., almeno nella sua prima giovinezza, aderì al culto del
superuomo e alla sua "morale eroica". Nel suo schema, questo periodo
di eroico furore corrisponderebbe agli anni immediatamente precedenti il 1906
(dunque, 1905 incluso), anni in cui «oltre i diversi stimoli di una cultura
eclettica e ancora in certa misura scolastica, [il Goriziano si collocherebbe
appunto] entro una temperie logico-sentimentale di ascendenza nietzschiana, o
meglio [...] nietzsche-dannunziana». L'analisi del Cerruti, puntuale ed argomentata,
alla fine riesce anche convincente: evidentemente, pensiamo noi, M. dovette
ritrovare in quei due autori, a quel tempo, gli unici o almeno i massimi punti
di riferimento per una germinale polemica anti-rettorica che già agitava la sua
intelligenza e la sua sensibilità.””? Questa sinergia si può arricchire,
secondo noi, di un ulteriore innesto””?: se si tiene a mente l'analisi
demolitrice dell'apparato rettorico fornita da M., si può scoprire che, almeno
nelle linee essenziali, essa deve in realtà molto al giovane Nietzsche, che
scriveva, non molti anni prima del Nostro, cose altrettanto
"inaudite" nel libello Su verità e menzogna in senso extramorale’”.
In esso, il filosofo tedesco indagava col medesimo cipiglio le costruzioni del
filisteismo intellettuale e sociale e, soprattutto, traeva conclusioni analoghe
di disincanto: rispetto al male, al dionisiaco, all'assurdo della vita (non
solo umana, ma universale) l'intelletto - «strumento ausiliario alle più
infelici, alle più fragili, alle più transitorie delle creature» - «come mezzo
per la conservazione dell'individuo, sviluppa le sue forze più importanti nella
simulazione». La "patetica" (nel senso del pathos in Nietzsche)
verità dell'uomo non è, piuttosto, nient'altro che «un esercito mobile di
metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane,
che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e
che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti:
le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che
illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza ». 271
L'entropia, in fisica, è la misura del grado di casualità e di disordine di un
sistema, ovvero della sua energia. 2712 Riferimenti che M. abbandonerà
altrettanto presto, come visto. Lo stesso Cerruti, nella sua schematizzazione,
alle convinzioni del 1905 fa subentrare due anni di «ricerca e crisi» (il
1906-1907), anni che non a caso preluderanno alla scoperta di Ibsen e Tolstoj
da parte del Nostro (nel 1908). In questo periodo di travaglio intellettuale,
Michelstedter si presenta «secondo una prospettiva interiore se non
contraddittoria, certo complessa. Nietzsche-dannunziano per un verso, inteso a
superare inquietudini e dubbi in un incontro profondo e rigenerante con le
forze vive della natura; ma preoccupato al tempo stesso di risolvere quei dubbi
e quelle inquietudini sulla base di un rigoroso esercizio intellettuale, di
un'analisi disincantata e penetrante della propria condizione; tutt'altro che
chiuso infine sia pure ancora entro certi limiti, nei riguardi del mondo
contemporaneo, anzi già consapevole di talune obiettive difficoltà di
quest'ultimo». Nel 1908, infine, «l'incontro con Ibsen e Tolstoi» segnerà «il
superamento della morale eroica». [Per queste analisi del Cerruti, che abbiamo
riassunte, rimandiamo alle pagg. 7-56 della sua monografia Carl M., Mursia
(Civiltà Letteraria del Novecento), 1987 2ed.; in particolare, le nostre
citazioni sono tratte dal pagg. 12-24-33] 273 Innesto ch'è una nostra
supposizione, non avvalorata, ma neanche smentita, da effettivi riscontri
testuali. Tuttavia, data la profonda affinità che dimostreremo, crediamo che
l'innesto sia semplicemente sottaciuto. (©) 274 Sia detto per inciso, è questo
uno scritto che noi consideriamo già cruciale (ovvero, frutto di un pensiero
già compiuto) e rispetto al quale, a nostro parere, tutta la riflessione
successiva del Tedesco si pone come complessa e sofferta postilla, da quella
più immediata e "ponderata" della Nascita della tragedia e della
Filosofia nell'età tragica dei greci su su fino alle forme più esasperate dello
Zarathustra e della Volontà di potenza. Leggiamo lo scritto nicciano nella
traduzione dell'ed. Newton, Nietzsche, Opere, cit., pagg. 93-101 (a cura di S.
Givone). Le nostre citazioni si intendano passim. Ma perché gli uomini si
ostinano «attraverso questa incoscienza»? "semplicemente" perché -
spiega Nietzsche - «l'uomo vuole anche esistere, sia per bisogno sia per noia,
socialmente e come in gregge», e per far ciò «stipula un patto di pace e si
adopera per cancellare dal suo mondo almeno il più brutale bellum omnium contra
omnes. Questo patto di pace porta qualcosa con sé, che è come il primo passo
verso il raggiungimento di quell'enigmatico impulso alla verità. A questo punto
cioè viene fissato ciò che da allora in poi dovrà essere la 'verità', il che
significa che si è trovata una connotazione vincolante e uniformemente valida
delle cose e che la norma linguistica istituisce anche le prime regole della
verità ». L'assoluta aderenza - ci sentiamo di dire - delle parole nicciane col
dettato "maturo" M.iano è a dir poco imbarazzante: anche per M. la
ratio umana è relatio, e si risolve in una «costruzione di ragnatele, così
leggera da lasciarsi trasportare dalle onde e così salda da non essere soffiata
via dal vento» [corsivo nostro], come scrive Nietzsche (l'immagine della
ragnatela ritorna significativamente anche in Schopenhauer e Leopardi). Anzi, M.
è addirittura più drastico: come detto, la relatio per lui non è soltanto
conoscitiva, ma strutturale, coinvolge cioè tutti i rapporti di interazione con
le altrui vitespressione di violenza, perché termine ultimo di quel "moto
violento" cui l'uomo sottopone il mondo [cfr quanto affermato sul luogo
naturale e sul moto violento nel nostro cap. I]. Ancora, similmente che in
Nietzsche, la relatio trova la sua espressione più palese e nello stesso tempo
la sua giustificazione e realizzazione più completa nella comunità sociale:
alibi "politico" della menzogna comune per l'uno, comunella di
malvagi per l'altro; per entrambi, sovrastruttura di un bisogno di tutela, di
sicurezza reciproca, che si concreta in un patto di pace come dice ironicamente
Nietzsche o - in modo più forte M. - nella stipulazione di una cambiale
(assicurativa) sociale. Per entrambi, inoltre, la (presunta) "verità"
si costruisce un saldo impiantito (sottile come una ragnatela, l'è vero, ma
«resistente al vento», tant'è intricata e ben tessuta) nel linguaggio, nella
scienza-tecnica e nella filosofia: a tal proposito, come visto, le analisi del
filosofo goriziano arrivano ad eguagliare, per acrimonia e per forza di
"smascheramento", quelle del filosofo tedesco. Per entrambi, infine -
ma era presentimento anche di Schopenhauer e di Leopardi -, la Rettorica si
manifesta, soprattutto negli uomini, così come inganno, ma come inganno a ben
vedere indifferente, e in certo senso addirittura involontario, vale a dire
necessitato dalla stessa matrice bio-fisiologia, prima che ontologica, della
Rettorica stessa: l'insensato procedere della natura (non più madre, ma neanche
matrigna, direbbe Leopardi), del Wille, del dionisiaco, della Rettorica,
appunto perché insensato, nella sua forma più nuda e cruda, è... «extramorale».
Ma torniamo alle conclusioni della critica professionale. Campailla dà in
pratica per assodato che M. lesse, tra le altre opere (di sicuro almeno lo
Zarathustra””°) anche La nascita della tragedia”: la cosa a questo punto non ci
stupisce, anzi ci appare ovvio che il capolavoro di un allora giovane geniale
originale filologo quale fu Nietzsche capitasse tra le mani di un altrettanto
geniale ed eterodosso ermeneuta della grecità, qual era M.?”. Anzi, se c'è
davvero un importante punto d'incontro tra i due pensatori, noi presumiamo che
esso si consumi soprattutto qui, nel loro amore per il mondo greco, nella
riscoperta di un equilibrio, di un'armonia che si realizzò nella tragedia
classica, breve ma intenso bagliore di autenticità agli albori della nostra
storia occidentale, che poi andò incontro al declino che tutti conosciamo.
Corollario di quell'incontro (ma non secondo per importanza) la
considerazionedellafigura di Cristo: per M. Cristo è il vir per Nietzsche
l'unico vero, onesto cristiano morì sulla croce: voleva dire, secondo noi,
l'unico vero uomo?”?. Come dicemmo”?, i due pensatori aspirarono a riprodurre,
ognuno a suo modo, quell'armonia, ritenendola foriera di autenticità: per il
giovane Nietzsche era l'equilibrio dinamico di Apollo e Dioniso, l'elemento
"letargico" che "gioca" con l' "impulso 275 Campailla
fa notare che, a chiosa di un passo centrale della Hedda Gabler di Ibsen, M.
scrisse queste parole: «Stirb zur rechten Zeit», una chiosa che altro non è che
una citazione testuale dal paragrafo Della libera morte dello Zarathustra. Il
critico utilizza il rilievo a prova del sostrato nicciano che sottende alla
lirica | figli del mare (che abbiamo già analizzato), il cui refrain a suo
parere riproduce l'esaltazione della morte fatta da Zarathustra nel succitato
paragrafo, e addirittura chiama quel riferimento a testimoniare «la componente
nietzschiana della prima formazione culturale di M., sulla cui concretezza
storica critici di valore hanno espresso la loro perplessità » [l'analisi e il
giudizio dello studioso, che abbiamo semplicemente parafrasati, si trovano a
pag. 23 dell'Introduzione alle PP], 276 Cfr. Campailla, Due lettere inedite di
VI. Arangio-Ruiz a M., in Giornale critico della filosofia italiana, anno LIV,
gennaio-marzo 1975. 277 Un punto a favore del Goriziano è il fatto che
praticasse correntemente, tra le altre, la lingua tedesca, potendo così rezzare
in immediato il testo, senza alcun filtro di traslitterazione. 218 Cfr.
Nietzsche, L'Anticristo (in Opere complete, cit.), 39, pag. 795. Per Nietzsche,
Gesù fu un «santo anarchico», un «lieto messaggero», che decise, in prima
persona, di «contraddire l'ordine dominante». Tutto questo «lo portò sulla croce»:
Egli dunque «morì per colpa sua» e non «per colpa altrui»: Cristo [e si noti
l'affinità con la posizione M.iana] «morì come visse, come aveva insegnato -
non per 'redimere gli uomini', ma per indicare come si deve vivere. La pratica
della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo contegno
dinanzi ai giudici, agli sgherri, agli accusatori e a ogni specie di calunnia e
di scherno - il suo contegno sulla croce». «Le parole rivolte al ladrone sulla
croce» racchiudono il senso dell'intero Vangelo (che è per Nietzsche «non
difendersi, non andare in collera, non attribuire responsabilità», amare perfino
il malvagio) [ib., 27 e soprattutto 35, pagg. 792-793 passim; tutti i corsivi
sono del filosofo]. Ora, il riscontro di affinità (come ad esempio queste
appena accennate, e quelle che seguiranno) tra i due nostri filosofi non
contraddice il nostro assunto di fondo di una totale disparità di esiti:
ripetiamo: non vogliamo mettere in dubbio influenze e suggestioni che
certamente M. trasse dalla lettura delle opere del pensatore tedesco
(soprattutto in relazione allo smascheramento rettorico); quel che ci preme
piuttosto sottolineare è come non si debba concepire la Persuasione sulla
falsariga della "nuova umanità" nicciana, rispetto alla quale M.
stesso prende posizioni anche dirette di distacco [ma cfr. oltre]. E' bene
dunque ribadire che la matrice profonda e unica della Persuasione non è il
superomismo, bensì il socratismo. 279 Cfr. il nostro Intermezzo. 163 n280
primaverile e che si realizzava nelle forme perfette dell'arte e nelle compite
costumanze dell'umanità greca; per M. il trasfondersi di vita e morte nella
crisalide umana”. Entrambi i pensatori attraversarono il Tragico, e tradussero
la loro sincera, sofferta testimonianza nella formulazione di un progetto
etico. Abbiamo altresì già segnato gli esiti di tali progetti: in Nietzsche,
dicemmo, l'equilibrio era destinato a
bruciarsi nell'esasperazione, nella "superfetazione" della
volontà dionisiaca (si dovrebbe citare a questo punto tutto lo Zarathustra e
tutta la Volontà di potenza, almeno); nel pensatore 280 Ricordiamo che nella
già citata lettera al Chiavacci del 22 dicembre 1907, M. fa riferimento
esplicito all'«elementodionisiaco» [sic], assimilandolo all'«elemento mistico»
che - per il Goriziano - mancherebbe nella «razionalistica» religione ebraica:
proprio questa assenza, dice M., spiegherebbe «la ragione dell'antisemitismo
filosofico» (Schopenhauer e Nietzsche, annota in parentesi). E' forse l'unico
caso in cui M. cita il Tedesco per nome, e per ben due volte nel giro di poche
righe, in un contesto - e questo è indicativo - aspramente polemico. In
effetti, la datazione della lettera la fa cadere proprio nel mezzo degli anni
di «ricerca e crisi», come li chiama il Cerruti [riguardo a ciò, cfr. supra].
281 Com'è noto, la dialettica apollineo-dionisiaco intesse tutta La nascita
della tragedia, in modo ampio e poetico; tuttavia, ha il suo luogo natale in
uno scritto giovanile, La visione dionisiaca del mondo, uno di quei saggi che
poi andranno a confluire nel capolavoro. Privilegiamo, in questa sede, proprio
quel saggio, perché in esso - anche in virtù della sua brevità - la suddetta
dialettica ci appare più focalizzata e meno ridondante [lo leggiamo nella
traduzione contenuta in Nietzsche, Opere, cit., pagg. 60-73; segnaliamo con
numeri in parentesi quadre eventuali riferimenti delle citazioni]. La visione
dionisiaca del mondo contiene l'intuizione che accompagnerà il filosofo in
tutta la sua speculazione: Nietzsche, cioè, scopre nel principio di equilibrio
dinamico tra Apollo e Dioniso la cifra che spiegherebbe la "possibile
vita" dei Greci, altrimenti compromessa dalla dolorosa consapevolezza del
Tragico, l'inquietante verità del Sileno. «Qui - dice Nietzsche - si tocca il
limite più pericoloso che la volontà ellenica con il suo principio fondamentale
apollineo- ottimistico abbia concesso di toccare. Qui essa operò con la sua
naturale forza guaritrice, per piegare nuovamente quella disposizione negativa:
suo strumento è l'opera d'arte tragica e la concezione tragica. La sua
intenzione non poteva in alcun modo essere quella di temperare o di reprimere
lo stato dionisiaco: soggiogarlo direttamente era impossibile, e anche se non
lo fosse stato, restava pur sempre una cosa pericolosa, dal momento che se
quell'elemento fosse stato trattenuto nella sua espansione si sarebbe aperto
altrove una via e sarebbe penetrato in tutti i vasi sanguigni della vita. Per
prima cosa si trattava di trasformare quei pensieri di disgusto sull'assurdo e
l'orrore dell'esistenza in rappresentazioni con le quali convivere: esse sono
il sublime in quanto imprigionamento artistico dell'orrore e il comico in
quanto liberazione artistica dalla nausea dell'assurdo. Questi due elementi
intrecciati insieme si riuniscono in un'opera d'arte che imita l'ebbrezza e
gioca con essa» [67, i corsivi sono nostri]. Dunque, Nietzsche individua nel
gioco l'unica ipotesi euristica plausibile per esprimere la relazione tra le
due divinità: entrambi potenti - potenze contrarie che si equivalgono e si
annullano - preferiscono alla insidia reciproca (che mai porterebbe frutto e
vittoria definitiva) una “ludica convivenza" che spinge addirittura
all'identificazione, laddove Dioniso viene a porsi come il lato oscuro, terribile
e segreto di Apollo, ed Apollo (per usare un tecnicismo informatico) come
l'interfaccia di Dioniso. Per dirla con le stesse parole di Nietzsche, fra le
due divinità viene a crearsi un "vincolo di fratellanza" (realizzato
concretamente nella tragedia), tale he «Dioniso parla la lingua di Apollo, ma
infine Apollo parla la lingua di Dioniso» [cfr. La nascita della tragedia, in
Opere, cit., pag. 178; corsivo nostro]. M., da parte sua, riproduce un simile
equilibrio nel già citato Canto delle crisalidi, attraverso la tensione
esistenziale di vita e morte che intride l'essere dell'uomo: un oscuro peana
che siamo tentati di decifrare proprio ricorrendo alle "categorie"
nicciane di apollineo e dionisiaco, con tutti i più profondi significati
ch'esse coprono. Ma, a parte questo, è l'elemento del gioco che ci interessa,
perché in Nietzsche si rivelerà fondante: la componente ludica è forse il
tratto più caratteristico del suo pensiero, ed anche il più terribile: perché
l'equilibrio del gioco (per quanto questo sia "nobile" e
"difficile") è per definizione precario, e perché il gioco non è solo
capacità della coscienza dell'homo ludens di darsi delle regole e vivere in
esse (nel suo "spazio sacro"), il che sarebbe la situazione ottimale,
ma più volentieri - e l'accezione comune del termine lo conferma - è
un'attività in cui "non ci si prende sul serio". Apollo e Dioniso
giocano nell'orizzonte tragico greco, segnando appunto lo spazio del sacro;
nell'orizzonte tragico nicciano, invece, Dioniso rinuncerà al suo
"compagno di giochi", le sue regole diventeranno di esclusione, e
pretenderà di poter giocare da solo, ossia, fuor di metafora, di poter
sostenere da solo il peso dell'assurdo. E' questo ciò che noi intendiamo per
"superfetazione" del dionisiaco [ma cfr. quanto diremo tra poco].
tedesco l'equilibrio collassa e si esaspera nell'opposizione senza continuità:
al male estremo della Rettorica (superfetazione dell'elemento apollineo, il
"socratismo", la menzogna, il "cristianesimo", l'Europa, si
oppone l'estremo rimedio del pensiero negatore, del dionisiaco travolgente e
beffeggiante, che assume su di sé anche il passato e dice: non così fu, ma così
volli che fosse, anzi «così voglio! così vorrò». Ma c'è un'infinita tristezza
che cova sotto l'ilarità paradossale del profeta del nulla, una coscienza
infelice che caldeggia la scissione, il superamento, il ribaltamento ma che
soffre, al tempo stesso, la frattura, il distacco che quella negazione
comporta; e che si lenisce la ferita ripetendosi che tutto, dall'avvicendarsi
dei mondi e degli universi ai singoli gesti dei singoli uomini, non è altro che
il gioco di un fanciullo eracliteo che è dis-umano e sconveniente fingere di
ignorare™®. Su opposto versante, M. avrebbe trovato l'espediente per preservare
l'equilibrio del vir col mondo e con le altrui vite nel tornio della
Persuasione: un equilibrio difficile, ma saldo, faticato ma gioioso, perché
riscopre il mondo nella sua bellezza, l'umanità nella sua dolcezza persuasa,
l'esistenza non come un "gioco innocente" che necessita (amor fati) e
che quindi de-responsabilizza”*, ma come un'attività infinita e impegnata, che
si realizza con e tra gli uomini. Da un lato, Nietzsche stringe il mondo in un
abbraccio troppo forte: è come un amante goffo e patologicamente premuroso che
finisce per soffocare la sua compagna per un eccesso di amore, e ne viene
lasciato; l'amore intenso, allora, nell'abbandono, ci vuol poco a mutarsi in
gelosa e passionale violenza, come la fede intensa in fanatismo. L'
"ultimo" Nietzsche stilla il suo odio e il suo disprezzo, anche se
parla di amore, proprio 282 Dice Zarathustra: «In verità, amici miei, io vado
tra gli uomini come tra frammenti e membra di uomini! Questo è spaventoso per
il mio occhio: trovare gli uomini spezzettati e sparsi come su un campo di
battaglia o in un macello. E se il mio occhio fugge dall'oggi a un tempo trova
sempre lo stesso: frammenti e membra e atroci casi, ma niente uomini!». [cfr.
il capitolo Della redenzione di Così parlò Zarathustra (in Opere complete,
cit.), pag. 305. Si ricordi, a questo proposito, come M. abbia descritto la
Rettorica, nella sua accezione estrema, come un' "anarchia delle
membra", anche su suggerimento di Empedocle [cfr. il nostro paragrafo
corrispondente, nel | capitolo]. L'Armonia empedoclea, la Persuasione M.iana,
la volontà affermatrice (la "felicità del circolo") di Nietzsche si
offrono come tre proposte diverse, anche se in certo modo affini, per far
fronte alla dis-integrazione dell'umano: affermazioni di vita che si realizzano
nello strenuo tentativo di conferire senso a tutto ciò che altrimenti si
presenterebbe come frammentario ed enigmatico. 283 Cfr. ancora il capitolo
Della redenzione di Così parlò Zarathustra, stavolta soprattutto pag. 306. 284
«[... ] l'Uomo non può essere considerato responsabile per nulla, né per il suo
essere né per i suoi motivi né per le sue azioni né per i suoi effetti. Si è
con ciò arrivati a riconoscere che la storia dei sentimenti morali è la storia
di un errore, dell'errore della responsabilità - che, come tale, poggia su quello
della libertà del volere. [...] Giudicare equivale ad essere ingiusti».
[Nietzsche, Umano, troppo umano (in Opere complete, cit.), II, 39, pag. 541]
«Che nessuno sia reso più responsabile, che non sia consentito ricondurre a una
causa prima la natura dell'essere, che il mondo non sia un'unità né come
sensorium né come 'spirito': solo questa è la grande liberazione - solo così si
ripristina l'innocenza del divenire» [Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (in
Opere complete, cit.), | quattro grandi errori, 8, pag. 727; i corsivi sono del
filosofo]. Sull'intuizione dell'eterno ritorno, propinata all'uomo da un dèmone
beffardo, cfr. il famoso aforisma 341 della Gaia scienza. come farebbe un
amante rifiutato: io sono un uomo-fanciullo ed è il Mondo degli uomini a non
apprezzare la mia bellezza: per ciò, merita il mio disprezzo, o anche solo il
mio disinteresse, e la mia gioia è nella mia autarchia e nella mia creazione di
nuova bellezza?®®. L'Ubermensch, una volta privato della memoria di sé e della
permanenza dell'essere, appare come l'eterno fanciullo che cerca l'ebbrezza
adolescente dell'Io sono nella propria autoaffermazione, dentro l'istante che
gli restituirebbe l'eterno del destino, e dunque (direbbe M.) la permanenza:
l'uomo nuovo è tale perché vive (o crede di vivere) senza risentimento, bensì
sospeso tragicamente all'assenza di significato del tutto ed imprigionato in
una libertà che, in fondo, gli permetterebbe soltanto di accettare il proprio
destino di nulla; egli dunque dovrebbe essere un eroe tragico, la cui unica
"dignità" risiederebbe nell'accettazione del flusso degli eventi,
misurati da un atto di disperata fedeltà alla terra?89, Un destino che egli,
con un testa-coda, pur si ostina a non subire e ad intendere piuttosto come
istituzione di nuovi valori: e allora se l'uomo è colui che misura, dice
Nietzsche con Protagora, egli è tale perché è innanzitutto un creatore, e in
questo agisce come volontà di potenza. Nel far ciò, direbbe ancora M.?®, egli
si finge una persuasione che non ha, tesse relazioni sufficienti, in cui
irretisce le altrui vite in un atto di creazione, ch'è poi un atto di
ri-organizzazione intorno al perno della propria falsa consistenza; ovvero,
integriamo noi, dà libero sfogo al suo urgente bisogno di liturgie
rassicuranti, ma anche escludenti (secondo la nostra interpretazione, una
comunità di "eterni fanciulli" sarebbe un sistema energetico di punti
di forza, laddove "cariche dello stesso segno" si porrebbero alla
massima distanza possibile). Il Dioniso dell'armonia panica si muta in un
«terzo Dioniso» la cui parola d'ordine (o di disordine) è il dominio?88, 285
Cfr. il pensiero Per l'anno nuovo [276] nel IV libro della Gaia scienza (in
Opere complete, cit.), pag. 145. «[...] Oggi chiunque si permette di esprimere
il suo desiderio e il suo pensiero più caro: orbene, anch'io voglio dire ciò
che oggi desidero da me stesso e qual è stato il primo pensiero che,
quest'anno, mi ha sfiorato il cuore; quale pensiero sarà motivo, pegno e
dolcezza della mia vita a venire! Voglio imparare sempre più a vedere la
bellezza nella necessità delle cose: così diverrò uno di coloro che rendono
belle le cose. Amor fati: questo sia, d'ora innanzi, il mio amore! Non voglio
condurre nessuna guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio
accusare neppure gli accusatori. La mia unica negazione sia distogliere lo
sguardo! E, complessivamente e grossolanamente: voglio arrivare ad essere uno
che dice soltanto di sì! » [corsivi di Nietzsche]. 286 Tale posizione della
volontà di potenza si sostituisce nelle intenzioni di Nietzsche - alla figura
della perfezione, incarnata nel saggio filosofo o nel santo cristiano. 287
Stiamo utilizzando la terminologia M.iana per "smontare" il
superuomo, espediente per far apparire al lettore questo "smontaggio"
(operazione che ovviamente M. non fece) alla luce della posizione persuasa. 288
L'espressione ci viene ispirata da quanto Nietzsche stesso asserisce nella
Nascita della tragedia, uno dei suoi scritti che preferiamo. Richiamare quei
passaggi del testo non solo significherà rendere dovuto omaggio al
"primo" Nietzsche, lì vero poeta e vero filosofo, ma ci aiuterà anche
a discernere la parabola involutiva cui, a nosto giudizio, il pensatore andò
incontro. Nel Dioniso dei cori bacchici greci, Nietzsche vide l'incarnazione
del «vangelo dell'universale armonia» [espressione di Nietzsche, ma corsivo
nostro; cfr. quanto detto sopra in considerazione della "nuova
armonia" vagheggiata dal filosofo Di contro, come abbiamo più volte visto,
il Goriziano ristabilisce la misura dell'amore tra gli esseri nella gratuità
del reciproco donarsi: l'equilibrio dell'armonia che la Persuasione forgia e
protegge non è i compromesso della "compravendita" morale (do ut des,
do ut facias, facio ut des, facio ut facias), ma non è neanche la sdegnosa,
"egregia" solitudine zarathustriana, pur mascherata da amore panico
per la "terrestrità": l'equilibrio persuaso è piuttosto un rapporto
di fiducia e gratitudine senza pretesa di risposta, che fonda la comunità
autentica, la philia (do quia do, scilicet relinquo: ci viene in mente la
parola evangelica: «Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis: non quomodo
mundus dat ego do vobis. Non turbetur cor vestrum neque formidet» [Giovanni 14,
27, nella Vulgata]). tedesco], dove «ognuno si sente non solo riunito, riconciliato,
fuso con il suo prossimo, ma una sola cosa con esso, come se il velo di Maia
fosse stato strappato e soltanto brandelli sventolassero ancora di fronte alla
misteriosa unità originaria». Infatti, «con l'incanto del dionisiaco non solo
si rinsalda il legame fra uomo e uomo: anche la natura estraniata, nemica o
soggiogata, celebra nuovamente la sua festa di conciliazione con il proprio
figlio perduto, l'uomo. Liberamente offre la terra i suoi doni e pacificamente
si avvicinano i feroci animali delle rocce e dei deserti. Con fiori e ghirlande
è coperto il carro di Dioniso: sotto il suo giogo avanzano la pantera e la
tigre. Si trasformi l'inno alla ‘gioia' di Beethoven [il preferito anche da M.]
in un quadro e non ci si attardi nell'immaginazione quando a milioni si
prosterneranno rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al
dionisiaco. Ora lo schiavo è libero, ora si infrangono tutte le rigide, maligne
delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la ‘moda sfacciata' hanno posto
fra gli uomini. [...] Cantando e danzando, l'uomo si mostra come membro di una
superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di
volarsene in cielo danzando. Nei suoi gesti parla l'incantesimo. Come ora gli
animali parlano e la terra dà latte e miele, così anche in lui risuona qualcosa
di soprannaturale: egli si sente come dio e cammina così estasiato e sollevato,
come insogno vide camminare gli dèi. L'uomo non è più un artista, è divenuto
opera d'arte: la potenza artistica dell'intera natura, con il massimo
appagamento estatico dell'unità originaria, si rivela qui fra i brividi
dell'ebbrezza». Nietzsche parla di armonia, di riconciliazione, di liberazione,
di incantesimo vitale che lega l'uomo alla terra, a tutti gli esseri che la
vivono, in una nuova solidarietà, e rende l'uomo simile a un dio. E' questo il
grande dono di Dioniso. Poche pagine dopo, tuttavia, Nietzsche smaschera
l'ebbrezza di Dioniso (operazione, del resto, ampiamente preparata) e scopre,
con perplessità ma anche con profondità tragica, che quell'ebbrezza
"equilibrava" una persuasione di morte, e nel far ciò - ovvero nel
garantire la propria stessa sopravvivenza - abbisognava dell' "apporto"
di Apollo, del principium individuationis: «l'unico Dioniso veramente reale -
scrive il filosofo - appare in una molteplicità di figure, nella maschera di un
eroe che lotta, preso, per così dire, nella rete della volontà individuale.
Così ora il dio che appare nel parlare ed agire assomiglia ad un individuo che
erra, lotta e soffre: e che egli appaia in generale con questa epica
determinatezza e chiarezza è effetto dell'interprete di sogni Apollo[...]». Ma
se l'individuazione "salva" Dioniso, tuttavia gli è fonte di dolore,
perché ne tarpa l'impulso vitale: «In verità però quell'eroe è il Dioniso
sofferente dei misteri, quel dio che prova su di sé i dolori
dell'individuazione, e di cui meravigliosi miti narrano come da fanciullo fosse
fatto a pezzi dai Titani e come poi, in questo stato, fosse venerato come
Zagreus: con ciò è significato che questo smembramento, la vera e propria
sofferenza dionisiaca, sia come una trasformazione in aria, acqua, terra e
fuoco, e che dunque dobbiamo considerare lo stato d'individuazione come la fonte
e la causa prima di ogni soffrire, come qualcosa in sé riprovevole». Dioniso
appare dunque come una divinità smembrata, scissa in due: «Dal sorriso di
questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In
quell'esistenza, come dio smembrato, Dioniso ha la doppia natura di un demone
crudele e selvaggio e di un dominatore mite e clemente. La speranza degli
epopti andava però ad un una rinascita di Dioniso, che ora noi pieni di
presentimento dobbiamo intendere come la fine dell'individuazione: per la
venuta di questo terzo Dioniso risuonava l'ardente canto di giubilo degli
epopti». Queste considerazioni autografe sono per noi di capitale importanza
non solo nell'economia di una corretta valutazione della Nascita della
tragedia, ma anche dell'intero pensiero nicciano: sono parole inconfutabilmente
programmatiche: Nietzsche assume su di sé il compito di preparare «la venuta di
questo terzo Dioniso», che nell'intenzione doveva risanare lo
"smembramento": ma l'epopta diviene egli stesso il dio. Un nuovo dio,
un terzo dio, che ricorda le trasformazioni dei personaggi di Tolkien quando
calzano il famoso anello: pèrdono, cioè, per rimanere alle parole del filosofo
tedesco, la "mitezza" e la "clemenza", per rendersi solo ed
esclusivamente "dominatori". L'involuzione di Nietzsche consiste, per
noi, proprio in questo: aver prefigurato l'avvento di un nuovo Dioniso che sta
al suo progenitore (e alla sua intenzione) come un'escrescenza tumorale sta ad
un sano tessuto epidermico. Viene da chiedersi quali fossero i motivi di questa
"metastasi", ma una simile analisi non può essere svolta in questa
sede. [per le citazioni, che si intendano passim, cfr. Nietzsche, Nascita della
tragedia (in Opere complete, cit.), vol. |, soprattutto pagg. 121 e 143]. La
critica agiografica si affatica a scagionare Nietzsche da ogni responsabilità
storica, asserendo che «Quanto all'idea del superuomo, inteso come il giusto
trionfatore di una massa di deboli o schiavi, va senza dubbio corretta:
Nietzsche non fu l'estensore d'un vangelo della violenza, ma intese porre le
condizioni di sviluppo d'una civiltà e di un'idea dell'uomo radicalmente
rinnovate!» Del resto, chi si azzardasse a giudicare (detto in senso
spregiativo) il pensiero del Tedesco, incapperebbe facilmente nella sua
trappola dei valori un pensiero che si autoproclama «al di là del bene e del
male» si sottrae consapevolmente e sdegnosamente (e con astuzia) ad ogni
valutazione. Ma ci sarà pure un motivo per il quale la «grande salute » si sia
tradotta in "sanità razziale", oppure (e ci si perdoni
l'accostamento) per il quale l'est- etica del disincanto abbia trovato la sua
trasposizione più consequenziale in una pièce teatrale dannunziana in cui si
respira solo aria di morte. L'esperienza c'insegna che il retaggio di un
pensiero (di uno qualsiasi, non solo de/ Pensiero) non è consegnato soltanto
alle parole che lo sottendono, ma anche alla storia della sua fortuna (o
sfortuna), per quanto ci si industri in edizioni critiche o si contestino
palesi deformazioni”. Le ipotesi allora sono due: o, come si dice volgarmente,
in quel pensiero c'è "nascosto del marcio", oppure la malafede dei
fruitori è così radicata da riuscire a rovesciare e render funzionali al
proprio usufrutto anche le proposte migliori e più sincere. M., del resto, ci
ha rivelato questa eccezionale capacità di "assorbimento" della
Rettorica: in tal senso, il Nietzsche nazionalsocialista condividerebbe la
"sfortuna" di Cristo e di Socrate e, volendo, dello stesso M.. Ancora
due ipotesi, allora, ma in pratica equivalenti alle prime: o la voce della
Persuasione è viziata da una sua intrinseca impossibilità fondativa di
"fedele" realizzazione (è troppo complessa per essere compresa,
l'equilibrio dell'autonomia si svolge sul filo di un rasoio et cetera) o è
altrettanto viziata da un'ambiguità che non riesce a scrollarsi di dosso, tal
che la sua ingiunzione perentoria di autenticità finisce con l'esprimersi
soltanto attraverso l'imposizione e l'equivoco della forza. E qui l'interrogativo,
data la sua natura complessa, è destinato a rimanere tale. Ma barattare le
accuse è un'attività futile: ciò che conta ed inquieta è il dominio presente
della Rettorica, e in quest'ottica si deve meditare non solo sul perché del suo
dominio, ma anche, se non soprattutto, sul poiché dei suoi effetti. Dunque, pur
non volendo inficiare la sincerità nicciana con l'ingratitudine del sospetto,
ciò nondimeno non possiamo tacere che, proprio in Nietzsche, quell'ambiguità
s'evince più solida che in altri: la danza di Zarathustra, che voleva farsi
simbolo di un'armonia alternativa al caos mascherato del filisteismo, si
scopriva "tarantolata" già nel suo stesso autore, precursore di un
nuovo caos, i cui sbiaditi epigoni (per fortuna sbiaditi) scorrazzano tuttora
nelle aule dove si pensa, forti della "debolezza" del loro pensiero.
A tal proposito, c'è da ammettere che l'estrema sensibilità e intelligenza
fecero davvero di M. uno straordinario sismografo di ciò che era già in
fermento e che sarebbe maturato, in un futuro a lui non lontanissimo, sulla
scena ideologica e politica europea; ossia, lo resero acuto e (purtroppo)
facile profeta?’ quando scrisse di «n germanico Zarathustra, che fu anche
bestialmente fulvo», fautore di un pensiero «mistico filosoficamente e
disonesto artisticamente», padre putativo di tutte quelle «bestie più o meno
fulve che da allora cominciarono a infestare il mondo» [O 665]. Ma, come si sa,
la voce della Persuasione condivide la maledizione di Cassandra. 289 La
spietata eristica potrebbe ribaltarci contro, e forse non a torto, questa
nostra obiezione: anche la Persuasione M.iana è andata ad
"incrementare"... la purità di Evola. 290 Acuto profeta anche
Nietzsche, la cui lungimiranza a questo punto ci si rivela però in tutta la sua
portata beffarda: «L'aspetto dell'attuale Europeo mi dà molte speranze: va
formandosi un'audace razza dominatrice [...] Le stesse condizioni che
favoriscono l'animale gregario provocano anche la formazione
dell'animale-capo». A3 - Leopardi: la variante "flessibile" alla
Persuasione. Portare a radura il sottobosco leopardiano in M. sarebbe tentativo
improbo anche per uno scoliaste armato di tutta la perizia e la pazienza
possibili” . Il Leopardi poeta, e soprattutto il Leopardi pensatore (il
pensatore attraverso il poeta), è, per il Goriziano, come una seconda pelle.
Compulsarne le opere alla ricerca di rimandi al Recanatese sarebbe un po' come
riscrivere la Persuasione e i Pensieri, ad esempio. E a differenza che per
altri riferimenti (Nietzsche, lo stesso Schopenhauer), non si può individuare
un momento in cui M. fu "leopardiano" stricto sensu: la voce del
poeta attraversò sempre l'esistenza del nostro giovane filosofo, e i Canti,
come mostra l'edizione ritrovata tra i libri posseduti dal Goriziano, erano una
delle sue ri-letture più frequenti e più gradite. E più annotate e meditate. In
effetti, si andrebbe incontro a molte sorprese, ne siamo convinti, se si
leggessero La Persuasione e la Rettorica, le Poesie, o il Dialogo della Salute
alla luce delle meditazioni del Recanatese: si potrebbe scoprire, ad esempio, come
la tesi di laurea fosse anche un vero e proprio commento "aggiornato"
della Ginestra (così almeno essa ci appare), o come l'aspirazione alla
condizione persuasa dovesse molto alla "vaghezza" dell'Infinito, o di
come l'ispirazione poetica (al di là della forma) fosse fedelmente leopardiana
nel farsi veicolo di "vaga" meditazione, casomai in M. solo un po'
più trasparente. Ci vien da dire che, in Leopardi, M. trovava innanzitutto la
variante parallela, poetica (ma altrettanto rigorosa) della certezza
"cartesiana" del dolore e dell'inganno, che aveva assimilato in forma
di salda filosofia dai Greci e Schopenhauer; ma riconosceva anche un coetaneo
che, come lui, s'era arrovellato nello sviscerare l'assurdo della vita e nello
scarnificare se stesso, alla ricerca di un'alternativa possibile al Tragico:
l'affinità di una giovinezza eroica e titanica che vorrebbe «comunicar la
ribellione / all'universo» [PP 35], senza alcun compiacimento estetizzante.
Dunque, non ci trova per nulla d'accordo certa critica che, puntando su
un'acribia spropositata, conclude che, nei fatti, il gesto persuaso si affermi
negando «sostanzialmente» il gesto poetico leopardiano”°?. Tutt'altro.
Bisognerebbe innanzitutto ridiscutere il valore di poesia, e non soltanto nei
nostri due autori (ma comunque, non ne è questa la sede); o più semplicemente
saper leggere oltre le parole. Del resto, sbirciando le poesie di M., non è
raro che si aprano squarci leopardiani: 291 Operazione, tuttavia, egregiamente
tentata da S. Campailla, in Postille leopardiane in M., contenute in Scrittori
Giuliani, Pàtron Editore, Bologna 1980. Lettura, questa, obbligata, nel nostro
contesto, e non solo perché riporta con precisione la presenza dei prelievi
leopardiani nel nostro filosofo. 292 Cfr. ad es. Davide Rondoni, "Neutralizzare"
Leopardi. Intorno ai rapporti tra M. e il poeta del Canto notturno, in Testo,
rivista di "studi di teoria e storia della letteratura e della
critica", XIII, 23 (gennaio-giugno 1992), pagg. 26-39. "mi parve
dolce cosa naufragare nel seno ondoso che col ciel confina, né temuta ho la
morte... "293 solo per fare un riferimento ovvio. Di contro, se si
leggesse, ad esempio, questo pensiero che si trova nello Zibaldone: Tutto è
male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è male;
ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male;
il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento
naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al
male. Non v'è altro bene che il non essere... non gli uomini solamente, ma il
genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano
solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri
esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i
globi, i sistemi, i mondi [nn. 4174-4177]. e si provasse, alla stregua di un
semplice gioco enigmistico, a sostituire il termine "male"
dell'appunto col termine "Rettorica", già si scoprirebbe la punta
dell'iceberg. Lo stesso Dialogo della salute, prima di essere un'etica
peripatetica, è - con tutta evidenza - un'operetta morale. Con una citazione
tratta dalla Palinodia al marchese Gino Capponi si apre poi l'ultima parte
della Persuasione (La Rettorica nella vita), ch'è la più spietata e definitiva
nel bacchettare una Rettorica altrettanto «superba e scocca» quale quella presa
di mira a suo tempo dal Leopardi. «Tutti i progressi della civiltà sono
regressi dell'individuo», vi asserisce - tra l'altro - M., e questa «è una
frase che potrebbe essere del Leopardi»?* (eppoi, non si dimentichi che
quest'ultimo occupa un posto di tutto rispetto nella schiera dei Persuasi).
Eppure... eppure, a nostro giudizio, l'accordo comune su una considerazione del
mondo come dominato dalla Rettorica (o dal male, ch'è lo stesso) non è il vero
- o il solo - punto di contatto tra i due poeti-filosofi. Sarebbe piuttosto
semplicistico ridurne la portata a questo rilievo. Del resto, il pessimismo ha
parole e pensiero comuni in tutti i pessimisti di tutti i tempi, dai più ai
meno raffinati. Tralasciamo, allora, eventuali "omografie", e
partiamo, piuttosto, da una giusta osservazione del Campailla, che fa
autorevole resoconto della questione, e dà il "la" al nostro
escamotage interpretativo. Scrive lo studioso: "[L'influenza del Leopardi]
va considerata come la più ricca di sollecitazioni nella produzione poetica del
Nostro. Infatti, è difficile scoprire reminiscenze dai Canti leopardiani, si
deve subito riconoscere che esse non hanno un valore di per sé, sono disciolte
in un'atmosfera sentimentale diversa, divengono le voci di un dramma
irriducibile ad altri che a se stesso. C'è da dire, se mai, che il Leopardi
assimilato da M. non è il poeta idillico che riesce a trasformare il dolore in
bellezza nella contemplazione del mistero dell'universo o nell'operazione
magica del ricordo delle proprie deluse speranze; è invece il giovane che si
affaccia alla vita imperioso e reclama un rendiconto. E, per energia
sentimentale, per costruzione sintattica, 293 Versi di A Senia, in C. M.,
Poesie, cit. pag. 89. 2945, Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pag. 143;
per ritmo della frase, il Leopardi eroico e agonistico dell'ultimo periodo. Ma
di là da ogni possibile richiamo testuale, l'eredità che M. ha raccolto dal
Leopardi va considerata in un senso più alto: nel drammatico intendimento della
poesia come sfogo e liberazione delle proprie pene interiori, presa di
coscienza dello stato esistenziale, determinazione sovrumana a non barare con
le cose. Il M. ha sentito nel Leopardi una lezione di vita, un impegno con la
vita. Nella nostra tradizione letteraria che così spesso si è rifatta e si rifà
al Leopardi per ricavarne un magistero formale, quello di M. si rivela uno dei
tentativi più incondizionati di riprendere e di svolgere la parola del grande
Recanatese nello spirito in cui essa è stata pronunciata. Ma nella tensione ad
essere se stesso M. si è trovato naturalmente oltre Leopardi: si avverte in lui
una eccedenza di volontà, una originaria disposizione tragica che è la zona più
inaccessibile della sua poesia [e non solo della sua poesia, aggiungiamo noi}.
Permettendoci d'integrare b correttissima valutazione del critico, diremmo che
più che «un'eccedenza di volontà» noi riscontriamo, in M., un'eccedenza di
determinazione (anche se difficile da mantenere). Sciogliamo la complessità di
ciò che vogliamo dire in un semplice riscontro testuale (è questo il senso del
nostro escamotage interpretativo), risparmiandoci una riscrittura di cosa sia la
Persuasione in M. e di cosa essa sia in Leopardi e lasciando implicite le
conseguenze. Così Leopardi conclude la sua Ginestra [vv. 297-317]: E tu, lenta
ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu
presto alla crudel possanza soccomberai del sotteraneo foco, che ritornando al
loco già noto, stenderà l'avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto
il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino
allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non
eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, nè sul deserto, dove e la sede
e i natali non per voler ma per fortuna avesti; ma più saggia, ma tanto meno
inferma dell'uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te
fatte immortali. Da parte sua, nella lettera datata 25 aprile 1910, M. così
scrive a Gaetano Chiavacci, rassicurandolo: Di che ti preoccupi? di che temi?
Nessuno ci potrà mai togliere niente. La vita non vale che noi ce ne
affliggiamo. Ma andiamo sempre avanti, e cerchiamo noi d'esser sufficienti a
tutto; non c'è cosa che sia troppo grave, non c'è posizione che sia
insostenibile. Dove gli altri gemono, e transigono, noi godremo e resteremo
duri e sempre uguali così da poterci sempre stringer la mano come io ora te la
stringo [E 438. Il significativo corsivo è di M.]. 295 S, Campailla, Pensiero e
poesia..., cit., pagg. 53-54-55 [corsivi nostri]. La consapevolezza
dell'ineluttabilità è ovviamente comune a entrambi: la necessità cieca, il
non-senso dell'esistenza, l'innocenza tragica degli uomini... cose note. Ma Leopardi,
in quello che vien considerato da tutti il suo "testamento poetico ed
esistenziale", addita alfine nella ginestra un ideale di
"stoicismo" che non è rassegnazione né presunzione, ma comunque una
"flessibilità" al Tragico, seppur eroica. La Ginestra è /enta, si
piega - come si dice - ma non si spezza. M., invece, invoca la durezza: il
Persuaso è duro, preferisce spezzarsi piuttosto che anche solo piegarsi. Il
fiore del deserto accoglie la morte, china sotto il fascio mortale il suo capo
innocente e non renitente, si copre di eroica umiltà, «al cielo / di dolcissimo
odor [mandando] un profumo / che il deserto consola» [vv. 35-37]. Il Persuaso,
libero, sfida la morte nella «furia del nembo più forte / quando libera ride la
morte / a chi libero la sfidò» [Sono i versi conclusivi (ma in realtà è un
refrain) de | figli del mare, PP 84]. La ribellione alla vita, o meglio la
ribellione della vita, per M. è ancora possibile. A4 - Kierkegaard: la variante
"relazionale" della Persuasione. AI pensatore danese abbiamo
largamente accennato, e sottinteso, nel corso del nostro lavoro. Abbiamo cioè
detto che, per ragioni fossero solo puramente storiografiche, M. non ebbe la
possibilità di avere sottomano i testi kierkegaardiani, inaccessibili per la
lingua (il che rese tardiva una loro traduzione e diffusione in italiano o in
tedesco), oltreché ostacolati dall'ancora imperante hegelismo. Ma sottolineammo
che, seppur per via indiretta, M. respirò comunque la temperie kierkegaardiana
desumendola dalla lettura dei capolavori di Ibsen (la nostra analisi si
concentrò soprattutto sul Brand, un'opera tra le preferite dal Goriziano): del
resto, proprio attraverso Ibsen, si consumò virtualmente anche l'incontro - mai
storicamente avvenuto (cosa strana, visto che studiarono entrambi a Firenze e
che entrambi provenivano dalle regioni carsiche) - con Scipio Slataper, il cui
/bsen è certamente l'opera più bella e profonda dopo quella autobiografica’. Alludemmo,
infine, al crescente "brandismo" di M., che trascorse i suoi ultimi
giorni in un ritiro praticamente ascetico, o comunque di intenso e raccolto
lavoro interiore; brandismo, nei fatti, che contraddirebbe la nostra
interpretazione politica del vir persuaso: ma altresì sappiamo di quanto M.
fosse in attesa di "prendere il largo" (tanto per riesumare
l'allegoria marina) nell'infinita vita, e allora leggiamo quel ritiro non tanto
come una condizione definitiva e rassegnata, quanto come un momento necessario
per raccogliere le forze, temprarle e padroneggiarle, in vista del progetto di
persuasione. Sul versante più prettamente speculativo, invece, abbiamo
individuato nel cavaliere della fede la "figura" ultima e preferita
in cui l'autore di Timore e Tremore compendiò il suo pensiero e la sua sincera
persuasione religiosa. E abbiamo visto come quest'ultima fosse la pietra di
paragone più opportuna per rendere, nell'immaginario comune, una dimensione
così "astrusa" quale quella di Persuasione. Abbiamo allora suggerito
come l'utilizzo di "categorie" e terminologie di ascendenza
kierkegaardiana (alto, scacco, singolo, paradosso, malattia mortale, angoscia e
così via) ritornassero utili - anche alla luce del loro recupero
esistenzialista - per cercare di rapprendere concettualmente taluni aspetti in
apparenza frammentari della Persuasione. Abbiamo, infine, creato un parallelo
tra il cavaliere della fede e il vir persuaso, focalizzando elementi di
tangenza (la "dialettica" del paradosso, svolta nella fattispecie in
senso antihegeliano; il coraggio dell'atto esistenziale; la solitudine a cui
quell'atto sembra destinarli e il sacrificio che imponeva ad entrambi), ma
anche marcando differenze altrettanto sostanziali (e allora il paradosso del
vir ci è parso funzionale alla sua liberazione persuasa, mentre quello del
cavaliere ci si è rivelato come la condizione 296 Detto per inciso, l'affinità
tra M. e Slataper, che qui assurge a cifra del "mitteleuropeismo" del
Goriziano, si può leggere anche attraverso l'affinità di approccio ch'essi
usarono nei confronti del drammaturgo norvegese. 174 definitiva del rapporto
con Dio; coerentemente, abbiamo rilevato il recupero della dimensione politica
della persuasione, assente nella pratica esistenziale della fede, che si
risolve in un rapporto "monogamico" con l'Eterno; infine, abbiamo
considerato il vir nel sacrificio di se stesso in senso immediato e il sacrificio
di Abramo come sacrificio di se stesso attraverso l'altro, e dunque mediato).
Sintetizzammo il tutto ammettendo che la persuasione kierkegaardiana si muoveva
ancora in un orizzonte veterotestamentario, mentre quella M.iana riviveva la
suggestione neotestamentaria(correggendola in senso "monofisita")
eleggendo il Cristo di S. Matteo ad emblema assoluto della "virilità"
persuasa. Infine, alla luce di tutto questo, già lasciammo trapelare - e
proprio nell'analisi del Brand - le nostre conclusioni, individuando l'elemento
che, a nostro giudizio, scongiurava in assoluto ogni plausibile accostamento,
pur nella fugace affinità: in una parola, cioè, l'uomo di fede ci apparve come
implicato, in modo irreparabile, in un rapporto di dipendenza, in
un'eteronomia, che non è certo quella della dimensione mondana, ma che comunque
- modo fiero e consapevole, tra l'altro - è una relazione sufficiente, e dunque
l'esatto contrario dell'aspirazione persuasa. Insistiamo su questo punto, e ci
limitiamo ad integrarlo servendoci delle stesse parole di Kierkegaard, il quale
- spogliatosi dei suoi pseudonimi romanzati per calzare quello rigoroso ed
edificante dell'Anti-Climacus, e abbandonata la veste poetica cui affidava la
sua riflessione - così lo affronta e lo delucida nel suo breve scritto La
malattia mortale?”, in periodi di densissima risonanza concettuale: La
disperazione è una malattia nello spirito, nell'io, e così può essere triplice:
disperatamente non essere consapevole di avere un io (disperazione in senso
improprio); disperatamente non voler essere se stesso; disperatamente voler
essere se stesso. - l - L'uomo è spirito. Ma che cos'è lo spirito? Lo spirito è
l'io. Ma che cos'è l'io? E un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure
è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso;
l'io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se
stesso. L'uomo è una sintesi dell'infinito e del finito, del temporale e
dell'eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi. Una sintesi è un
rapporto fra due elementi. Visto così l'uomo non è ancora un io. Nel rapporto
fra due elementi, il rapporto è il terzo come unità negativa; cioè i due si
mettono in rapporto col rapporto; e nel rapporto sono loro che si mettono in
rapporto col rapporto; un rapporto, in questo senso, è, sotto la determinazione
dell'anima, il rapporto fra anima e corpo. Se invece il rapporto si mette in
rapporto con se stesso, allora questo rapporto è il terzo positivo, e questo è
l'io. Un tale rapporto che si mette in rapporto con se stesso, un io, o deve
esser posto da sé o dev'esser stato posto da un altro. Se il rapporto che si
mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è
certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua volta un
rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Un
tale rapporto derivato, posto, è l'io dell'uomo, rapporto che si mette in
rapporto con se stesso e, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in
rapporto con un altro. Da ciò risulta che possono nascere due forme di
disperazione in senso proprio. Se l'io dell'uomo si fosse posto da sé, si
potrebbe parlare soltanto di una forma, quella di non voler essere se stesso, di
volersi liberare da se stesso, ma non si potrebbe parlare 297 La nostra
citazione fa riferimento alla trad. it. dello scritto proposta dall'ed. Newton,
1995, a cura di Remo Cantoni, pagg. 20-21; abbiamo sottolineato in corsivo i
passaggi per noi più significativi. della disperazione di voler essere se
stesso. Questa formula è infatti l'espressione del fatto che l'io, da sé, non
può giungere all'equilibrio e alla quiete, né rimanere in tale stato, ma
soltanto se, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con ciò
che ha posto il rapporto intero [questa impossibilità sancita da Kierkegaard
viene invece sconfessata da M.: il vir, da sé, può giungere all'equilibrio e
alla quiete senza porre il proprio rapporto con se stesso nel rapporto con
l'altro: l'autonomia]. Anzi, quella seconda forma di disperazione
(disperatamente voler essere se stesso) non significa affatto soltanto un
genere speciale di disperazione, ma al contrario, ogni forma di disperazione
può, in ultima analisi, risolversi in essa o esserne derivata. Se un uomo in
disperazione osserva come egli pensa la sua disperazione, senza parlarne
insensatamente come di qualcosa che gli capita [...] e ora a tutta forza cerca
di togliere di mezzo la disperazione da se stesso e soltanto a se stesso:
allora è ancora dentro alla disperazione, e con tutti i suoi sforzi presunti
non riesce che ad inoltrarsi di più in una disperazione più profonda. Il
rapporto falso della disperazione non è un semplice rapporto falso, ma un
rapporto falso in un rapporto che si mette in rapporto con se stesso, essendo
stato posto da un altro; quindi il rapporto falso in quel rapporto che è per se
stesso, si riflette nello stesso tempo infinitamente nel rapporto con la
potenza che l'ha posto. Infatti, la formula che descrive lo stato dell'io
quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in
rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l'io si fonda, trasparente,
nella potenza che l'ha posto [ed è questa, appunto, la Persuasione di
Kierkegaard]. AI di là dell'ostentata cavillosità del dettato kierkegaardiano,
il concetto è semplice: la disperazione - la malattia mortale - nasce quando
l'individuo sfasa la prospettiva del rapporto, obliterando la radice che lo
autentica («la potenza che lo ha posto», ovvero Dio) e pretendendo di
autofondarlo nel circuito della propria esistenza (la hybris): ovvero, l'uomo
sostanzia di se stesso la carenza relazionale - il Goriziano la direbbe
deficienza - che lo fonda in Dio. La disperazione è una malattia mortale perché
provoca la morte spirituale dell'uomo e la malattia mortale è disperazione
perché l'uomo non potrà mai sperare di liberarsi da essa, vista l'eternità del
suo essere spirituale. Rispetto a M., ci troviamo in una posizione antagonista
che possiamo così risolvere: per costui, rapportarsi ad una "potenza
altra" significa tradire l'autonomia della Persuasione; per Kierkegaard,
pretendere di fondare in se stessi un'autonomia che non possediamo significa
tradire l'autenticità del rapporto esistenziale che ci vincola a Dio. Come si
vede, le due posizioni - da un punto di vista puramente razionale - si pongono
come inattaccabili, e solo la persuasione del singolo può dar credito, e verità,
all'una o all'altra. In questo senso, entrambe le persuasioni si danno come
possibilità esistenziali: il fatto che questa possibilità esista non è per il
filosofo danese espressione di libertà, bensì di arbitrio, ed espone l'uomo
alla tragica evenienza del peccato, sempre presente, il che è appunto la
malattia mortale. L'unica libertà (e si noti il paradosso) è quella che ci /ega
a Dio. Per M., invece, ogni relazione sufficiente, per quanto alti siano i suoi
"agganci", è comunque una violazione del uevet, nel quale, al
contrario, «consiste» la vera libertà. B - Variazioni sul tema M.iano del
"peso che di-pende". La gravità va essenzialmente distinta
dall'attrazione. L'attrazione è, in generale, soltanto la rimozione
dell'esteriorità reciproca e dà luogo a mera continuità. La gravità, per
contro, è la riduzione della particolarità, tanto scomposta quanto continua,
all'unità come relazione a sé negativa, cioè alla singolarità, a un'unica
soggettività (soggettività, tuttavia, ancora del tutto astratta). Hegel,
Enciclopedia. Lui è il pittore stesso, che volteggia nell'aria; in una torsione
impossibile, volge le labbra alla sua donna, per baciarla e ringraziarla del
dono dei fiori che lei sta per fargli, perché è il suo compleanno; la donna
accetta il bacio con uno sguardo mezzo sorpreso (l'occhio leggermente
sbarrato), ma le labbra accennano ad un sorriso, o stanno semplicemente per
aderire a quelle dello sposo. Anche la donna sembra esser lì lì per spiccare il
volo; il suo piede destro (o il sinistro?) appare puntato a terra, come per
darsi la spinta di uno slancio, mentre l'altro è già leggermente sollevato,
come fotografato nell'atto di una piccola corsa. Il pittore, nell'assenza di
gravità, sembra a sua agio: il suo corpo è agile, allungato: la colonna
vertebrale deve essere particolarmente elastica, vista la torsione: il suo
corpo si è felicemente adattato alla nuova condizione: le braccia aderiscono
con forza ai fianchi, vi si confondono, anzi forse sono addirittura assenti. Il
lembo del bavero pare una piccola ala che spunta, potremmo giurarci. L'artista
deve sentirsi libero, nella sua fluttuazione, non deve avere impacci.
Tutt'intorno una prospettiva piatta, senza volume, destrutturata, schiacciata
dalla gravità alle pareti ed al pavimento, riscattata soltanto dalla
gradevolezza riposante dei colori: l'unico volume è dato dalla torsione del
bacio. La visione è particolarmente estatica. Stiamo parlando del quadro II
compleanno di Chagall, del 1919°°: Chagall, un artista ossessionato dalla legge
di gravità, che ci vincola alla terra; al suo tentativo di liberazione, in
questo quadro e in molti altri, egli sacrifica volentieri tutti i dati
dell'anatomia e i principi della logica quotidiana: nelle sue tele la testa di
un personaggio si stacca dalle spalle, e fluttua libera finalmente del corpo;
un passante, che si staglia sullo sfondo di un paesaggio, occupa più posto
degli alberi e delle case d'intorno; un asino suona il violino; se necessario,
questo strumento e la pendola saranno provvisti di ali; si cammina sui tetti...
Chagall, un ebreo che ha sfidato la legge di gravità, un ebreo che si è
ribellato ai vincoli della Terra Promessa. Un eretico. La critica rettorica ha
inglobato il dissenso ed ha etichettato il tentativo di Chagall come
"leggerezza surrealista" (che condivide con Masson, Mirò, Picasso e
Calder), come per Ibsen aveva parlato di "simbolismo". Più o meno
dieci anni prima, un altro ebreo eterodosso, proprio il nostro M., così
descrive la condizione "sospesa", "aporetica", del suo
amato Socrate: 298 Cfr. la diapositiva P nel supporto iconografico. Nel suo
amore per la libertà, Socrate si sdegnava d'esser soggetto alla legge della
gravità. E pensava che il bene stesse nell'indipendenza dalla gravità. Poiché è
questa - pensava - che ci impedisce dal sollevarci fino al sole. - Essere
indipendenti dalla gravità vuol dire non aver peso: e Socrate non si concedette
riposo finché non ebbe eliminato da sé ogni peso. - Ma consunta insieme la
speranza della libertà e la schiavitù - lo spirito indipendente e la gravità -
la necessità della terra e la volontà del sole - né volò al sole - né restò
sulla terra; - E né schiavo; né felice né misero; - ma di lui con le mie parole
non ho più che dire [PR Socrate sdegna la gravità: il suo discepolo più
diretto, agli occhi del filosofo goriziano, tenta invano di far suo quello
sdegno, di conservarne la lezione genuina, costruendo una macchina volante” che
gli permetterà di sganciarsi dal suolo. Ma Platone scimmiotta Socrate. «La
'leggerezza'» prese a dire Platone contemplando il mirabile spettacolo delle
cose, che al suo sguardo più forte erano chiare come se fossero state vicine
«la 'leggerezza' contiene tutte le cose; non come sono col loro peso nel mondo
basso, ma senza peso; e come il peso appartiene al corpo, alla leggerezza
appartiene, ‘lincorporeo'; e se al corpo appartiene l'estensione, la forma, il
colore, tutto ciò in cui gli uomini in terra sono implicati, alla leggerezza
appartiene l'inestenso [sic], l'informe, l'incolore, lo spirituale. Colla sola
contemplazione della leggerezza, noi che abbiamo la leggerezza, vediamo e
possediamo tutte le cose non come appariscono [sic] in terra ma come sono nel
regno del sole» [PR 68]. Una macchina per sfidare la gravità: l'uomo perde
fiducia nelle proprie forze di Persuasione, e si affida alla scienza,
ammantandola di filosofia. Giusto cinquant'anni dopo le pagine del nostro
scrittore-filosofo, e più di duemila anni dopo il finto esempio storico, Hannah
Arendt apre uno dei suoi capolavori - Vita Activa (è del 1959) - commentando un
fatto astronomico stavolta realmente accaduto: «nel 1957 un oggetto fabbricato
dall'uomo fu lanciato nell'universo, e per qualche settimana girò intorno alla
terra seguendo le stesse leggi di gravitazione che determinano il movimento dei
corpi celesti - del sole, della luna e delle stelle»? La posizione della Arendt
- non davanti all'evento in sé (salutato, volendo, anche con orgoglio, perché
ulteriore conquista dell'intelligenza umana), bensì davanti alle reazioni
dell'opinione pubblica - trasuda perplessità: Questo avvenimento, che non era
inferiore per importanza a nessun altro, nemmeno alla scissione dell'atomo,
sarebbe stato salutato con assoluta gioia se non si fosse verificato in
circostanze militari e politiche particolarmente spiacevoli. Ma, per un
fenomeno piuttosto curioso, la gioia non fu il sentimento dominante, né fu
l'orgoglio o la consapevolezza della tremenda dimensione della potenza e della
sovranità umana a colmare il cuore degli uomini che ormai, sollevando lo
sguardo dalla terra verso i cieli, potevano scorgervi una loro creatura. La
reazione immediata, espressa sotto l'impulso del momento, fu di sollievo per
'il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre'. E
questa strana affermazione, lungi dall'essere la trovata accidentale di qualche
reporter americano, involontariamente riecheggiava la 299 È l'incipit del
famoso "esempio storico" M.iano. 300 Si tratta, ovviamente, di un
apologo inventato da M., com'egli stesso del resto giustifica nelle Note alla
triste storia, contenute nella seconda delle Appendici critiche [PR 143 sgg.].
301 cfr. il Prologo di Vita Activa, La condizione umana, Tascabili Bompiani,
2000 (VIII ed), pagg. 1-6; questo, e gli altri riferimenti della Arendt, sono
tratti tutti dal prologo, e dunque s'intendano passim. straordinaria epigrafe
che, più di vent'anni prima, era stata scolpita sul monumento funebre di un
grande scienziato russo: "l'umanità non rimarrà per sempre legata alla
terra". La Arendt commenta: La banalità dell'affermazione [quella
riportata dai giornali; cfr. supra] non dovrebbe farci trascurare il suo
carattere straordinario; infatti benché i cristiani abbiano parlato della terra
come di una valle di lacrime e i filosofi abbiano considerato il corpo come
prigione della mente o dell'anima, nessuno nella storia dell'umanità ha mai
concepito la terra come una prigione per i corpi degli uomini, o manifestato
realmente la brama di andare letteralmente fin sulla luna. Sarebbe questo
l'esito dell'emancipazione e della secolarizzazione dell'età moderna, iniziate
con l'abbandono, non necessariamente di Dio, ma di un dio che era il Padre
celeste: il ripudio sempre più fatidico di una Terra che era la Madre di tutte
le creature viventi sotto il cielo? La risposta, per banalizzare, è: spero di
no, ma credo purtroppo di sì. Ora, se la Arendt avesse potuto leggere M., e
Socrate-Platone (e anche Ibsen) attraverso gli occhi di M., se avesse tenuto
conto delle "estasi" di Chagall, avrebbe certamente corretto la prima
parte del suo intervento («[... nessuno nella storia dell'umanità ha mai
concepito la terra come una prigione per i corpi degli uomini [...}»). Eppure,
siamo convinti, la sua posizione di fondo non sarebbe per nulla mutata. Il
fatto è che, rispetto alle posizioni forti e polemiche di M. e di Chagall,
l'autrice di Vita Activa occupa una posizione, come dire, "ingenua"
(ma può darsi benissimo il contrario): anch'ella ebrea, mostra piuttosto
fedeltà alla terra, «a vera quintessenza della condizione umana»: «la natura
terrestre, per quanto ne sappiamo, è l'unica nell'universo che possa provvedere
gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza
artificio». Questa gratitudine nei confronti della Terra (la Terra
"naturale", beninteso, e non quella "artificiale" della
scienza e della tecnica) è anzi il presupposto della sua grande ipotesi
d'apocatastasi politica, che conosciamo. Per la Arendt, il mondo della
Rettorica (della "cattiva" politica, del male) avviene solo nella
comunità degli uomini: per M. (e per Chagall), invece, la Rettorica innerva la
struttura stessa del reale fisico, prima che politico, e l'attrazione
gravitazionale ne è la forma più lampante. L'assunto del nostro giovane
filosofo è drastico: la forza di gravità è il segno esplicito di una dipendenza
(il peso che "di-pende"), e ogni di-pendenza, nella sua ottica, viene
associata automaticamente a violazione della libertà (per lui assoluta), a
violenza. L'autarchia del Persuaso non può tollerare che la prima, e più forte,
dipendenza (e dunque la più evidente violazione della propria libertà) sia
insita addirittura, e in modo ineluttabile, nel suo stesso organismo: il
Persuaso deve liberarsi di tutto, anche della gravità: il liberarsi, per lui, è
innanzitutto un /ibrarsi La predilezione, come sappiamo, è per il terzo regno,
quello del mare, dove ogni gravità pare assente, dove la forza delle onde può
essere anche sconfitta dalla potenza delle proprie braccia: mentre neanche il
salto del più ardito pensiero può superare il "gancio" della gravità
terrena. La Arendt, al contrario, ha superato questa "pregiudiziale
naturalistica" presente nell'autore della Persuasione: a suo modo, anche M.
supererà se stesso (il se stesso della tesi) nella sua opera ultima, laddove -
anche per lui - la Persuasione e la Rettorica se la giocheranno ad armi pari
sul terreno della politica, nel senso che già abbiamo più volte ripetuto. Tutto
sommato, dunque, nonostante questa diversità, le proposte di M. e della Arendt
si muovono entrambe sul terreno della Persuasione. Bisognerebbe valutare la
"sostenibilità" di entrambe, ma non è questo che ora ci interessa:
l'esistenza è un impegno quotidiano che solo fino a un certo punto ha bisogno
di un appiglio o di un'ispirazione eteronoma, per quanto
"persuasivamente" fondata (è questa, ricordiamolo, l'opinione dello
stesso M.). Ora, anche nel rispetto dell'economia del nostro discorso,
c'interessa piuttosto valutare la barricata rettorica di fronte a simili
proposte, di fronte alla pericolosa insorgenza umana di liberarsi dalle maglie
della gravità. Lo faremo in modo "stravagante", ma pilotato. Partiamo
da un annuncio pubblicitario: Il è il metodo creato dalla dr. X per migliorare
l'allineamento del corpo umano nello spazio e in relazione alla forza di
gravità. Si attua in un ciclo di 10 sedute di manipolazione del tessuto connettivo
e di educazione a un movimento fluido e corretto. Questo efficace lavoro
permette di sentirsi più elastici, sciolti e leggeri in breve tempo. Gli
effetti sono durevoli. Chiunque vuole "sentire" di più il proprio
corpo, viverne meglio le emozioni, o ritardarne i processi di invecchiamento
[... ] può trarre grande giovamento da questa tecnica. L'ideatore del metodo
*** si propone di migliorare l'allineamento del corpo umano nello spazio e in
relazione alla forza di gravità: Ballested saluterebbe volentieri questo invito
ad un felice e comodo "acclimatarsi"°°, Il metodo per giunta promette
effetti durevoli. Ora, al di là della facezia, invitiamo a concentrare tutta la
serietà e l'attenzione su almeno due passaggi-chiave del messaggio promozionale:
la cura «si attua in un ciclo di 10 sedute di manipolazione del tessuto
connettivo e di educazione a un movimento fluido e corretto. Questo efficace
lavoro permette di sentirsi più elastici, sciolti e leggeri in breve tempo».
Entra in gioco la Rettorica allo stato puro, secondo la curvatura foucaultiana
che le stiamo conferendo: il dominio del corpo, nella sua "fisicità",
attraverso la "manipolazione" (termine davvero infelice, anche per
uno spot) e l' "educazione al movimento"; dunque, una considerazione
sportiva del corpo®°, volta al suo miglioramento: la Rettorica abbisogna di
corpi sani; la sua salus non è Salute ovvero Salvezza (come l'intende il vir),
ma valetudo, benessere". Una congerie di corpi robusti e sani, per giunta
controllati, è infatti il presupposto sufficiente di una sana e forte comunità
rettorica. Secondo punto: subentra il cavallo di battaglia della Rettorica: la
paura della morte, ovvero, qui, della sua fase immediatamente precedente:
l'invecchiamento. Il pubblicitario 302 Ballested è il già citab personaggio
della Donna del mare di Ibsen; cfr. il nostro paragrafo Il porto della pace.,
nel capitolo |. 303 «Lo sport è la rettorica della vita fisica», scrive M. in
una nota, PR 107. 304 Sull'oscillazione ambigua del termine nella traduzione
s'impernia tutto il Dialogo della salute. adesca il consumatore giocando sulla
promessa speciosa che la cura è in grado di ritardare i processi di
invecchiamento. M., nella sua tesi, e non solo, scrisse pagine e pagine per
spiegarci che l' "equivoco" sulla morte è la ragione decisiva che
spinge gli homines, ma anche i domini, a sottomettersi vicendevolmente al
Dominus per eccellenza, il Leviatano sociale. L'analisi del filosofo goriziano
è tutta volta a scongiurare quell'equivoco, a tratteggiare il concetto di una
morte che può essere sfidata dal vire addirittura accettata, come accadimento
che non annichila, bensì potenzia, in prospettiva, la nostra dynamis. Quello che
abbiamo or ora fornito è un esempio molto particolare, esasperato, di
«Rettorica applicata alla vita», come la chiamava il Nostro. Ad esso ne
aggiungiamo un altro, tratto stavolta da un articolo scientifico?°° dei nostri
giorni, che tratta - manco a dirlo - di un'ipotetica vita in un ipotetico mondo
a gravità zero (= assenza di gravità), ad esempio un altro pianeta. L'autore
dell'articolo argomenta che, in simili condizioni, la specie umana, potrebbe
orientarsi, attraverso graduali aggiustamenti «secondo le leggi naturali
dell'evoluzione verso un nuovo tipo di uomo, l'Uomo Cosmico». Tutte variazioni
ipotizzabili, naturalmente: dalla statura (maggiore del comune, perché in
assenza di gravità la colonna vertebrale perde le sue curvature fisiologiche
diventando rettilinea), al torace (più corto, poiché il diaframma si solleverà
in seguito all'alleggerimento dei visceri addominali), dal cuore (più piccolo
per ipotrofia muscolare) agli arti inferiori (più sottili, proprio per la
dislocazione dei liquidi verso le parti superiori del corpo) e al cervello che,
fortunatamente, secondo le ipotetiche previsioni, «verosimilmente continuerà ad
aumentare di volume, come è avvenuto nell'evoluzione del genere umano,
stimolato dalla necessità di un'informazione mentale sempre più copiosa e
intelligente e da una maggiore irrorazione, e quindi nutrizione, in assenza di
gravità». Ora, al di là della vaghezza mondana che l'articolo si ripromette, e
al di là del sempre esplicito riferimento alla corporeità, vi si potrebbe riscontrare
un altro noto (e qui ben nascosto) dispositivo retorico, quello che i sofisti
chiamavano anfibologia. L'articolo, dietro il pretesto di suscitare curiosità,
ci fornisce un quadro del nuovo "Uomo Cosmico" che finisce con lo
scoraggiare il lettore: la vita in gravità zero sarebbe possibile, ma solo a
condizione che la nostra struttura umana, la nostra bellezza umana, venisse
"storpiata": sarebbe un luogo popolato da mostri (e si confronti,
invece, questo ipotetico storpiamento scientifico con l'armonia raggiunta da
Chagall nelle sue "figure fluttuanti"). E' quella che M. chiama la
«falsa adulazione», qui rovesciata: l'articolo, cioè, invita indirettamente i
lettori a mantenere le loro belle sembianze umane, garantite e protette dalla
legge di gravità. La Rettorica richiama gli uomini al vincolo della gravità,
necessaria alla perpetuazione del dominio (l'Uomo Cosmico rischierebbe di
essere pericolosamente 305 Purtroppo ne abbiamo perso la fonte, ma il nostro
appunto, a suo tempo, fu abbastanza fedele. forte, e la sua vita oltremodo
allungata: rischi che la Rettorica non può permettersi di correre: forza e
longevità sì, ma sempre "manipolabile"). Ora, abbiamo volutamente
presentato esempi al limite della "fantascieza", e volutamente
abbiamo condotto un'analisi altamente prevenuta, ostentando un metodo d'approccio
viziato oltremisura dal "sospetto": una sorta di eccesso di zelo
dell'ottica persuasa, che rischia di degenerare in una vera e propria mania di
vittimismo di una persecuzione, sempre operante, perpetrata dalla Rettorica.
Ora, siamo convinti che una simile "paranoia rettorica" dovette
aggredire M. nei suoi ultimi giorni di vita, attecchendo per giunta su un
fisico stremato dai dolori personali e stressato dal lavoro di compilazione
della tesi. Con questo, non vogliamo alludere a nulla, riguardo al suicidio del
giovane goriziano (benché lo stesso Campailla sembra sbilanciarsi, ma solo
appena, in proposito). Lo assumiamo semplicemente come un fatto. Concludiamo
questo paragrafo richiamando alla memoria, come all'inizio, un altro quadro
celebre: nei suoi Orologi mollf°®, Salvator Dalì sembra denunciare (o
sublimare?), in modo bizzarro ma efficace, il risultato vincente della
Rettorica, come forza di gravità? (l'opera è del 1931; anni bui): gli orologi,
attratti da una vigorosa forza centripeta, cedono mollemente verso il suolo:
una mosca (retorica?) insozza quello in primo piano; una comunità (persuasa?)
di formiche sembra preservare/proteggere quello in primissimo piano. Il
messaggio appare chiaro: anche il tempo si curva dinanzi alla forza di gravità,
vi si sottomette e vi si allea, a meno che.... Sembra un'amenità. Eppure era
ciò che, grosso modo, il genio ebraico di Einstein aveva postulato, pochi anni
prima, nella sua ipotesi di curvatura dello spazio-tempo. 306 Ovvero, La
persistenza della memoria, detto anche Il tempo che si scioglie. Cfr. la diapositiva
Q nel supporto iconografico. 307 La nostra interpretazione è del tutto
funzionale al discorso e, del resto, le opere di Dalì si prestano agli azzardi
più innominabili. Anche se, per la cronaca, il pittore, proprio riguardo a
questo quadro, fu estremamente chiaro: il soggetto gli proveniva
dall'ossessione per tutto ciò che è molle.C - La critica alla Rettorica come
caricatura della Rettorica. A partire da un'intuizione che ha avuto già a suo
tempo il Campailla, e che noi condividiamo in pieno (ovvero che non si può
leggere l'opera di M. scrittore- filosofo separatamente da quella di M.
"ritrattista"), la critica specializzata nel settore si è adoperata
per trovare punti di riferimento "europei" all'opera del Goriziano.
Il bilancio di tale lavoro (volto comunque a reclamare anche una decisa
originalità M.iana rispetto alla contemporaneità o alla più prossima posterità)
è stato egregiamente redatto da Fulvio Monai (a nostro parere, il non plus
ultra in questo contesto), di cui riportiamo alcune valutazioni essenziali,
cercando anche noi - in questo modo - di caldeggiare un simile approccio.
Nell'ambito figurativo i pittori dell'angoscia come Munch, Van Gogh, Ensor,
Gauguin avevano creato le premesse per la nascita dell'Espressionismo che a una
prima realizzazione formale giunse tuttavia soltanto con il gruppo della Brücke
(Il Ponte), fondato nel 1905 a Dresda da Kirchner, Heckel e SchmidtRottluff, e
avviato, sulla spinta di un programma di spontaneismo e di immediatezza
espressiva, a estrinsecare per immagini, al di là di ogni schema preordinato,
le inquietudini interiori. Ebbene, in quel momento, M., che dall'angolo visuale
fiorentino non aveva potuto nemmeno supporre i prodromi della nuova esperienza
artistica, anche se nutrito di cultura tedesca, aveva già fissato sulla carta i
segni di un'umanità demitizzata, i cui connotati volevano corrispondere a una
realtà interna più che alle apparenze sensibili. [...] Quando M. schizzava a
lapis la Processione d'ombre nel 1903, a sedici anni (anticipando largamente i
disegni di Klee eseguiti nel 1911), nulla poteva sapere dei fermenti che
avrebbero portato alla figurazione espressionista. Non poteva nemmeno aver
conosciuto, quando l'informazione sull'arte a Gorizia era ancora precaria se
non assente, né la tipologia umana di Tolouse Lautrec, né la visione
precorritrice degli artisti che avevano fatto tesoro della lezione di Cezanne e
Van Gogh. Non ci sono comunque prove [...] che possano documentare un qualsiasi
contatto, del resto cronologicamente insostenibile, con il mondo figurativo che
si agitava nell'Europa centrale osteggiato dalla cultura officiale [...]
Indubbiamente Processione di ombre è una testimonianza stupefacente di un
espressionismo ante-litteram: una sfilata di personaggi tratte ggiati
sommariamente, figure emblematiche la cui deformità impietosa riflette le
ipocrisie e le storture della società conformista. La matita che delinea
realisticamente il profilo del Castello di Gorizia, simbolo del potere, non
indugia sui dettagli delle figure umane ma, guidata da un'intuizione
psicologica sorprendente per un sedicenne, si limita a suggerirne le forme
controluce. Processione d'ombre resta dunque opera di un giovanissimo che, per
virtù di un'acuta intelligenza, stava respirando un'aria comune a tutti gli
ingegni più vivi senza ancora rendersene conto, con le percezioni discendenti
da una sofferta coscienza del male del tempo, in inconsapevole sintonia con
artisti che egli non aveva mai conosciuto. Dopo questa prova [... ], altri
disegni confermeranno negli anni successivi la sua ricerca dell'uomo, il suo
bisogno di agire direttamente sulla persona, interpretandone le contraddizioni,
le debolezze, il ridicolo, con segno che non è caricaturale nel senso corrente
della parola, inteso cioè a cogliere gli aspetti più scoperti del soggetto per
metterne a nudo l'immagine apparente o i sentimenti più manifesti. La sua
matita scava e blocca il volto nell'attimo in cui la mente ne fissa i connotati
che meglio corrispondono alla realtà più intima e tramuta la figura in maschera
che sollecita pena e amarezza più che ilarità. [...] Solitario come filosofo e
come pittore, M. avrebbe comunque continuato ad alimentare la segreta vocazione
fino a quando, con il disegno di una lampada dalle fiammelle ormai spente,
avrebbe riassunto sul primo foglio della Persuasione e la rettorica il senso
della propria parabola terrena. [Si può altresì rilevare] la sua estraneità a
qualsiasi movimento intellettuale e filosofico. Si può affermare analogamente
che non appartenne consapevolmente ad alcun movimento artistico del suo
tempol... ] Come pittore M. rientra dunque nella sfera dell'espressionismo, di
cui preavverte le tensioni. Ed espressionista rimane fino in fondo, anche
dipingendo, prima di morire, l'olio dedicato alla madre e intitolato nel retro
E sotto avverso ciel luce più chiara. In questo senso è stata concordemente
valutata nefgli] ultim[i] decenni] l'opera grafica e pittorica di M., e si è
convenuto che essa non può essere ignorata, costituendo uno degli aspetti
fondamentali per capire la genesi della Persuasione e la rettorica, e l'autore
stesso, come uomo, nella sua totalità. [...] [Dunque], un rapporto molto
stretto lega la ricerca grafica di M. alla sua filosofia... Lo schizzo, il
disegno immediato, l'aforisma figurativo si può considerare una traduzione
visiva della via alla persuasione... La linea, secondo una grammatica
preespressionista, si spezza in segmenti, si anima in curve ed evoluzioni, si
condensa con insistenze e ripetizioni in alcuni passaggi per poi sfumarsi e
annullarsi in altri. Esiste una concordanza di giudizi sul fatto che soltanto
un'esigenza interiore indusse M. a farsi testimone di situazioni umane con
l'immediatezza di chi ha in animo non di edulcorare la realtà o di darne una
versione umoristica ma di penetrame i significati, uscendo dalla sfera della
rappresentazione per entrare in quella cruda e disincantata dell'osservazione
dei fatti, al di là di qualsiasi calcolo e senza il desiderio, comune ai
protagonisti dell'arte, di farsi portatore di nuovi linguaggi. Insistere nella
ricerca di modelli, di influenze precise per giustificare formalmente il mondo
grafico e pittorico di M. equivarrebbe a sminuire - pur considerando i
rarefatti indici di un'attività non dominante - la portata del suo messaggio,
la sua originalità. Più giusto è constatare che quanto possediamo è sufficiente
a dichiarare le sue innate doti di disegnatore estraneo alla cultura figurativa
imperante nei primi anni del Novecento in Italia, e a rivelare nello stesso
tempo con incisiva evidenza le spinte che, sempre più incalzanti, determinarono
la sua ricerca esistenziale®°8, A tutto ciò, aggiungiamo soltanto due nostre
vaghe considerazioni: innanzitutto, in M. ci sembra davvero riproporsi quella
che Nietzsche connotava come capacità «pentatletica» dell'artista
"persuaso" (che lo rendeva davvero «omo integrale»), nella
fattispecie con riferimento agli autori tragici della classicità (ma anche al
loro "pubblico"), come il filosofo tedesco aveva scritto in un
passaggio fondamentale della sua prima conferenza pubblica sulla tragedia
[quella sul dramma musicale greco]: Nietzsche auspicava (e credeva di
intravvederne i prodromi nell'opera wagneriana) una ri- proposizione di tale
"integrità" nella nuova gioventù tedesca’. Anche sotto questo
rispetto, dunque, M. ci sembra pare fedele all'orizzonte greco che struttura
lasua speculazione e, perché no?, anche tutta la sua vita. Seconda
considerazione (che approfondisce quanto già profilato dal Monai): è
significativo, per noi, che M. s'impegnasse soprattutto nell'affinmare la sua
pratica di "caricaturista": com'è noto, il pregio della caricatura è
quello di scarnificare il soggetto che ad essa si presta, esagerandone (e
distorcendone) i tratti caratteristici: l'effetto che si vuol provocare è di
natura comica o grottesca. Il pittore-filosofo goriziano, evidentemente, intuì
la profonda valenza dissacrante che un simile strumento gli metteva a
disposizione: poter meglio individuare o evidenziare i "difetti"
della Rettorica e utilizzare il pretesto umoristico per porli, in modo
impietoso, all'attenzione di tutti: riconosco qualcosa come
"caratteristico" e lo "carico" distinguendolo dal resto
(che rimane meno percepibile). 308 Estratto dal saggio M. anticipatore in arte
dell'espressionismo, di Fulvio Monai (pubblicato in Dialoghi intorno a M., a
cura di Sergio Campailla, Gorizia, Biblioteca Statale Isontina, 1987), che qui
riportiamo per gentile autorizzazione concessaci dalla redazione di www.M..it e
del Comune di Gorizia. 309 Cfr. almeno le sue Cinque prefazioni per cinque
libri non scritti, in particolare le Riflessioni sul futuro delle nostre
scuole. 310 In questo senso, la caricatura, sotto la forma soprattutto della
satira (letteraria) politica e sociale, ha una lunga tradizione nell'
"aceto italico", almeno a partire da Lucilio. A parallele, analoghe e
praticamente contemporanee conclusioni - il suo saggio sull'Umorismo è del 1908
- era giunto anche Pirandello: nel saggio, lo scrittore agrigentino segnalava
nella pratica umoristica uno degli strumenti privilegiati che consentivano di
introdurre nell'arte, e dunque attraverso l'arte, la problematica
dell'esistenza e la critica sociale: l'umorismo si serve del comico -
avvertimento del contrario - per assurgere a riflessione, al sentimento del
contrario, ovvero, associando le immagini in contrasto*'', sottolinea
espressionisticamente gli aspetti disarmonici, deformanti e paradossali
dell'esistenza, come lo scrittore effettivamente fece nei romanzi e
(soprattutto) nelle novelle8"?, Per fortuna, l'interesse per l'opera
grafico-pittorica di M. è venuta crescendo col tempo (anche se fatica ad
oltrepassare l'orizzonte della provincia goriziana e triestina), come
testimoniano le sempre più numerose esposizioni del suo catalogo. 311 cfr. L.
Pirandello, Saggi, Poesie e scritti varii, Mondadori, 1977, pag. 127
soprattutto 312 Non a caso, alcuni critici (il Salinari e il Piromalli, sopra
tutti) hanno letto l'opera di M. anche attraverso il confronto con la
produzione e la "filosofia" di Pirandello, entrambi massimi
rappresentanti della crisi spirituale apertasi all'inizio del secolo scorso.
Auctoritas, non veritas facit legem. Thomas Hobbes Parte migliore è quella che
cerca il meglio; cercare con persuasione il meglio è l'unico primato; e quando
si vorrebbe ostacolare ciò, si fa, sotto tanti aspetti, del materialismo, e,
prima o poi, si è sconfitti dalla forza dell'anima. Capitini «Mi manca una
concezione salda e universale della vita [...] Oggi io non vedo alcuna
possibilità di trovare un nuovo principio, né di rispettare i vecchi principi.
Cerco dunque questa idea, da cui dipende tutto il resto, senza poterla
trovare», scriveva Flaubert all'amico George Sand, poco più di un secolo e
mezzo fa. Questa urgenza di verità e di valori la facciamo nostra, in un'epoca
in cui - e lo affermiamo al di là di ogni moralismo enfatico ed infame da
parvenu - il rapporto degli uomini col mondo e con i propri simili ci appare
quanto mai irrisolto e problematico, e sembrano venir meno l'orientamento, i
motivi, le ragioni stesse delle scelte etiche. La nostra tesi, benché sia
strano, è nata ed è stata scritta in tempo di guerra, e ciò non ha potuto non
influire sulla veemenza e sulla perentorietà di certe nostre affermazioni,
convinzioni, presupposti. Il fascino che il pensiero M.iano, misconosciuto, ha
esercitato su di noi si spiega, allora, soprattutto nella sua premura etica,
nel suo "massimalismo etico": solo un'etica forte come quella di M. -
per quanto, per i più, "ingenua" - può misurarsi oggi con la potenza
devastatrice del male. La straordinaria energia che ogni uomo nasconde conosce
le espressioni più sublimi e divine, ma anche le degenerazioni più abiette e
nefaste: si tratta di convogliare quell'energia a vantaggio dell'uomo, ovvero
sulla via della Persuasione. Questa è l'epitome del monito persuaso. La voce
della Persuasione è la voce socratica, la voce che coinvolge, la voce per
eccellenza. La voce che invita alla «infinita vita», che chiama all'autonomia
ed all'autenticità del nostro essere uomini, che non si presta alla risonanza
disinteressata o scolastica o intellettuale, ma che ingiunge un impegno
militante ad ogni animo sensibile. Qui, ovviamente, entra in gioco e in crisi
il significato stesso di filosofia, e quindi di esistenza, e il coinvolgimento
personale e responsabile di ogni posizione. La "lezione" di M. è,
infatti, un invito alla responsabilità pura, e dev'essere accolto come tale in
un'epoca in cui il totalitarismo non è esplicito, ma sornione, non punisce, ma
sorveglia, 313 Nel contesto di queste Conclusioni, utilizzeremo una specifica
bibliografia minima: 1 - Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa,
con prefazione di Norberto Bobbio, Biblioteca Cappelli (ristampa anastatica
della seconda edizione, pubblicata nel 1947 dall'E ditore Laterza, Bari), 1990;
2 - Martin Buber, La regalità di Dio, Marietti, 1989; 3 - E. Lévinas, L'aldilà
del versetto, a cura di G. Lissa, Saggi Guida, 1986; 4 - Antimo Negri. Il
lavoro e la città. Un saggio su Carlo M.. Roma, Lavoro, 1996. (I grandi piccoli
11). Le citazioni dal testo di Capitini saranno segnalate da una C con numero
di pagina cui si riferiscono [C ...]; quelle da Buber da una B [B ...]; quelle
da Lévinas da una L [L ...]; quelle da Negri da una N [N ...], non opera
soltanto attraverso l'aperta coartazione, ma s'innesta a presupposto tacito
comune, servendosi di una sopraffina ikebana di prevenzione, volta a
scongiurare quello che gli agenti assicurativi chiamano, come per un gioco di
ironia, moral hazard?"*. In un'epoca in cui il totalitarismo, a volte,
addirittura soffre il proprio mascheramento, ed esplode (stricto sensu) nelle
tensioni belliche del "nuovo ordine mondiale". La sua violenza, oggi,
è un "mal sottile" che avvelena. La Rettorica è un processo di
avvelenamento, scrive M., il che vuol dire non soltanto che è un veleno, ma che
è una continua somministrazione di veleno. Il pensiero di Carlo M., con tutta
la sua giovanile esuberanza, si pone allora come antagonista, come
disinfestazione: si arroga un effetto depurante, si autopromuove ad antidoto al
veleno, e (forse) in questo pecca di presunzione e corre il rischio, anch'esso,
di prestarsi a traduzioni violente ed autoritarie. Ma ci si mostra come faro
quando addita nell'autonomia e nella politica (termini solo in apparenza
contraddittori, termini da assumere piuttosto nella loro straordinaria
bellezza) l'unica istanza regolatrice di ogni persuasione concreta, «a ferri
corti con la vita», l'unica alternativa all'acclimatamento rettorico, al
compromesso eteronomo, all'abulia o alla disperata (per alcuni, vile)
risoluzione del suicidio. Di una persuasione, infine, che non si pone come
compito quello di passare «dalla teoria alla pratica» (uno dei più ostentati
imperativi sociali), ma di far le proprie parole azione, di sollecitare la
propria dynamis umana all'entelechia che, in modo autentico, la realizza. Come
scrisse Aldo Capitini, «dobbiamo essere musica e non statua. Questo sembra un
sogno, un qualche cosa di poetico; e credo invece che sia prova di realismo. Vi
sono forze potenti da fronteggiare, e solo un'opposizione dal profondo e
appassionata può vincerle»3'° [C 31]. 314 Lett. "rischio morale".
Maggior rischio che un evento assicurato si verifichi per effetto della minore
attenzione posta nel prevenirlo da parte di chi ha stipulato l'assicurazione
[def. dizionario Garzanti. Chi ha letto quanto da noi argomentato in
precedenza, apprezzerà la puntualità di questa definizione. 315 Come scrive
Norberto Bobbio, compagno e grande estimatore di Capitini, «chiunque abbia una
certa familiarità con gli scritti di Capitini sa che uno dei termini-chiave del
suo linguaggio personalissimo è "persuasione", che sta per
"credenza" o per "fede" (il bel capitolo autobiografico con
cui ha inizio il libro Religione aperta è intitolato La mia persuasione
religiosa), onde "persuaso", parola da lui usatissima equivale a "credente".
Egli stesso ne riconosce la derivazione da M.: «... del quale mettevo in
rilievo, anche in una conferenza che tenni a Firenze, la
"persuasione" (un termine che ho assunto, preferendo
"persuaso" a "credente", persuaso nel senso di
"autopersuaso", quasi di "pervaso"), l'antiretorica, quel
tipo di esistenzialismo, che poteva divenire supremo impegno pratico [...]:
insomma mi pareva esatto considerarlo come la premessa di una tensione
etico-religiosa». [Bobbio trae questa citazione dall'opera di Capitini
Antifascismo tra | giovani; la testimonianza di Bobbio su Capitini la si trova
in N. Bobbio, Maestri e compagni, Firenze, Passigli, 1984, nel capitolo a lui
dedicato], Dunque, lo sfondo di Capitini è religioso, la sua è una credenza e
una fede; tuttavia la sua religiosità, "antiistituzionale", ci pare
non identificarsi esclusivamente con la dimensione divina, ma coincidere
piuttosto con la sacra umanità (il sacro dell'umanità) che ogni individuo porta
dentro di sé: dunque, se «la religione è consapevolezza della liberazione
spirituale, del superamento della finitezza mediante la vita spirituale» [C
110], anche noi ci sentiamo di condividere questa religiosità. M. ripropone la
visione antica del mondo nel momento di più intensa crisi della sua visione
moderna, e chiama in causa soprattutto due testimonianze inattuali di
Persuasione, nella Persuasione "confondendole": Socrate e Cristo. Il
Socrate di M. - ma oramai è chiaro - non ha alcuna paternità del /ogos, se per
logos s'intende una facoltà, ch'è pretesa, di ordinare il nostro rapporto
"scientifico" con la realtà e di promuoverne un'arbitraria fondazione
di valori. In un'espressione, un atteggiamento di dominio che non riesca a
pensare il mondo se non come rapporto di forze e come fruizione senza mistero.
In senso analogo, la verità cristiana viene apprezzata non come pura verità
filosofica o settaria, ma rivissuta quale verità di esistenza e di salvezza
assolute. Nella dimensione persuasa, cui queste due rinnovate prospettive
collaborano, il vero, il giusto e il bello condividono un rapporto sponsale
(l'agathon di socratica e platonica memoria), al cui interno è un non senso
l'imposizione. Un assunto, questo, che M. tende disperatamente a dissuggellare
dall'ambito della propria coscienza individuale, cercando di puntare su di esso
non solo per un impegno morale singolo, ma per una "rivoluzione"
sociale ch'è innanzitutto una rivoluzione etica collettiva. Il vir è
completamente titolare dell’azione etica, e in questo è scrigno d'infinito,
perché infinite sono le possibilità di realizzare il bene: la sua esistenza è
un "grande miracolo", che riflette in sé tutta l'ineffabile portata
della Persuasione, una dignità e una libertà di sapore, diremmo,
rinascimentale. L'Europa (il mondo) deve guardare alla Bibbia ed alla grecità,
dunque. Una persuasione di Lévinas, che anche M. avrebbe sottoscritto. Anzi,
come visto, la speculazione del Goriziano oscilla proprio, ed in maniera
consapevole e in certo modo sistematica, tra questi due poli. Tuttavia, nella
riconsiderazione ch'egli fece del pensiero biblico, si segna, secondo noi, una
nuova possibilità del pensiero ebraico, che mantiene dell'ebraismo la valenza
etica, la tenacia e la determinazione che quello ha mostrato nella sua storia
millennaria, ma altresì le rinnova, senza cadere, a nostro giudizio,
nell'apostasia dei conversos o dei marranos. Da una parte, infatti, l'identità
ebraica di M. - per quanto inconsapevole, sottaciuta o addirittura rimossa
dallo stesso - è fuori discussione: l'appartenenza ebraica è una questione
cromosomica, volendo parafrasare Martin Buber. Dall'altra, M., ebreo,
dell'Antico Testamento predilesse soprattutto l'Ecclesiaste, e pur vide in
Cristo l'eccellenza del vir persuaso, ritagliandone una figura terrena e
sofferta che nulla ha a che vedere col Cristo figlio di Dio: M., ebreo, pure
accettò il messaggio di In effetti, Capitini appare quale uno dei
nichelstaedteriani più "coerenti", e il fatto che il suo capolavoro,
gli Elementi, fosse uno dei luoghi di spiritualità intorno al quale si condensò
molto antifascismo, è una delle prove più evidenti e più belle di una
Persuasione che passa dalla parola all'atto, che si fa storia ed opposizione
anti-rettorica. liberazione terrena del Cristo, «la circoncisione del cuore, in
ispirito, non in lettera» [S. Paolo, Rom. 2,29], il «battesimo del fuoco» [Lc.
3,16] nella Persuasione?"9. Il pensiero M.iano, insomma, è anche un
pensiero ebraico, semplicemente perché M. fu un ebreo. E, per quanto detto, fu
un pensiero ebraico sui generis, rivoluzionario, inaudito, e purtroppo
dimenticato. Il pensiero ebraico si pone, per principio, come inattuale, come
Talmud, interpretazione incessante ed appassionata della Torah, della Legge, la
«salvaguardia più sicura e la memoria più fedele dell'etica di Israele» [L 77].
L'ermeneutica della Torah si assume il compito di individuare e proteggere
l'<«energia misteriosa che scaturisce da [gesti] antiquati» [L 77], e
d'imbrigliarla in direzione etica. Questa etica è accoglienza di una
«incitazione divina» [L 102]: «anche Dio incita, anche Dio seduce, come se
anche Dio avesse la sua retorica». L'ascolto, dunque, la pedagogia dell'ascolto
come essenza dell'ebraismo: vi si forgia un'etica che scaturisce da
un'interazione responsabile di uomini: una redenzione, un «faccia-a-faccia
degli uomini [...] che mostrano il loro volto e cercano il volto del loro
prossimo» [L 93], in una «tensione del santo verso il più santo» [L 91], in una
«permanenza dell'umano [...] assicurata dalla solidarietà che si costituisce
intorno a un'opera comune; dallo stesso compito svolto senza che i
collaboratori si conoscano o si incontrino» [L 93], perché «Ia totalità del
vero è realizzata dall'apporto di molteplici persone» [L 218]. Un'etica,
inoltre, che non teme, e anzi accoglie, il confronto con le culture altre,
perché «Malgrado tutte le critiche rivolte contro l'assimilazione, noi
usufruiamo dei lumi che essa ci ha apportato, affascinati dai vasti orizzonti
che questi ci hanno aperto » [L 288]. Tuttavia, «a dialettica del regno che
educò il popolo di Israele» - scrive Buber - coincide con la «storia del
dialogo fra la divinità che domanda e l'umanità che nega la risposta ma che
tenta anche di rispondere, il dialogo che ha per oggetto un eschaton». [B 56].
La risposta dell'essere umano, a questo domandare che s'impone più che altro
come un comandare, non può essere se non l'obbedienza. Buber non lo nasconde,
anzi fonda proprio su questa impari dialettica la radice dell'istanza etica e
ogni possibile dignità dell'uomo, «costituita dalla originaria possibilità di
questo comandamento e dall' 'obbedienza' intesa come risposta umana ad esso:
una risposta balbettante, riluttante, risorgente, ma pur sempre la risposta del
fragile essere umano» [B 136]. «Nel 'monoteismo' - scrive ancora Buber -
l'unicità non è [...] quella di un 'esemplare’, bensì quella del Tu nella
relazione io- 316 Ancora una volta, è importante - in questo contesto -
ricordare l'interesse esclusivo di M. per il vangelo di Matteo. Questo vangelo
è il «più completo, ordinato e dottrinale dei primi tre e rispecchia più e
meglio degli altri la primitiva catechesi apostolica, motivo per cui fu il più
utilizzato nei primi tempi della Chiesa, per l'istruzione sia dei catecumeni
che degli adulti. Esso fu scritto per gli Ebrei, per provare ad essi che Gesù
Cristo è il Messia promesso. Infatti fin - dal principio, con la genealogia,
così importante per gli Ebrei, Mt intende dare non soltanto la realtà ebraica e
davidica di Gesù, ma inserire lui, la sua storia e la sua opera nel complesso
della storia della salvezza, che forma l'ossatura di tutto l'AT. Così, nel
discorso posto come a base del nuovo Regno fondato da Gesù, egli è proposto
come il nuovo Mosè che sul monte promulga la nuova legge; e in tutto il corso
del Vangelo è dato il massimo valore all'AT, considerato come profetico e
pedagogo al nuovo Regno» [F. Pasquero, Introduzione al vangelo di S. Matteo,
ed. Paoline, Milano, 1987]. tu, che non conosca sospensioni nell'ambito della
vita vissuta» [B 123]. Il Tu divino è una continua presenza nel rapporto io-tu,
sia nel rapporto stesso che nella singolarità dei contraenti: «la fede in Dio
di Israele è contraddistinta in definitiva dal fatto che il rapporto di fede
esige per essenza di valere per tutta la vita e di agire in tutta la vita» [ma
cfr. l'intero capitolo JHWH il melekh, pagg. 106- 120]. E' qui che M. segna il
suo distacco e il suo superamento: egli, ebreo, combatte in assoluto ogni
adescamento eteronomo, e intuisce che l'etica è Persuasione, ovvero - e in modo
esclusivo - autonomia responsabile e responsabilità autonoma, conquista che
avviene nell'immediato dell'uomo senza alcun tramite, se non la considerazione
dell'altro come specchio di sofferenza, come omousia del Tragico, e non come
riflesso del volto di Dio o comunque di entità superiori e costituite. M.
conclude la prima Appendice critica alla sua tesi di laurea con un enfatico
«Evviva l'imperativo» [PR 142]. Quest'appendice, apparentemente svolta su
questioni di linguistica logico-formale (i modi verbali), s'impernia su un
assunto etico-filosofico che compendia le convinzioni M.iane su un linguaggio,
quello degli uomini, ch'è la traduzione più concreta ed esaustiva dei «modi di
relazione sufficiente» [PR 135]: infatti, «ogni parola detta è la voce della
sufficienza - quando uno parla, afferma la propria individualità illusoria come
assoluta», ovvero «ogni cosa detta ha un Soggetto che si finge assoluto» [id.,
corsivo di M.; in base alle analisi approntate nel corso del nostro lavoro, il
significato di queste affermazioni dovrebb'essere oramai pacifico]. Alla luce
di questo assioma, M. de-struttura i modi del linguaggio: quello diretto,
quello congiunto e infine quello correlativo. Fino a che giunge al modo
imperativo, «che non è modo» [PR 141]. Perché quello imperativo non è un modo?
E perché il giovane filosofo lo predilige? Perché esso non sottende una
"relazione sufficiente", «non è realtà intesa, ma vita; è
l'intenzione che vive essa stessa attualmente, e non finge attualità in ogni
modo finita e sufficiente» [PR 141, c. Mich.]: insomma, il Soggetto «non fa
parole, ma vive» [PR 142, c. Mich.]. Ma in che modo il Persuaso vive?
Innanzitutto, si parta da questa importante sfumatura: per M., l'imperativo non
è il modo dell'ingiunzione, del comando, della coercizione, non è neanche
«imperativo di Dio» [B 58]°'”, ma quello della libertà, della realizzazione
concreta della libertà, ovvero è un atto di liberazione. Il Soggetto,
innanzitutto, si libera da se stesso, dalla falsa consistenza che lo intride.
Ma l'imperativo non è neanche un modo impersonale: esso è piuttosto un modo che
coinvolge, che chiama in causa una relazione, una responsabilità, che evidenzia
la sostanza di un tu cui esso si rivolge. Delucidando il senso e l'abisso di
tale responsabilità, si giunge nel cuore dell'essenza persuasa. E' la
Persuasione che mette in gioco la responsabilità, e non viceversa. Non è Dio
che ci destina in un orizzonte responsabile, non è YHWH che c'ingiunge o ci
dona il senso di responsabilità, che ci forma alla responsabilità. Per Lévinas,
ad esempio, la responsabilità umana è «una responsabilità che precede la
libertà, una responsabilità che precede l'intenzionalità» [L 210]: poche righe
dopo, il filosofo ebreo- francese esplicita il senso delle sue parole: «si deve
comprendere piuttosto questa anteriorità della responsabilità rispetto alla
libertà come l'autorità stessa dell'Assoluto [c. n.], ‘troppo grande' per la
misura o la finitezza della presenza, della manifestazione, dell'ordine e
dell'essere» [L 210]; «l'uomo esercita la sua padronanza e la sua
responsabilità come mediatore tra Elohim e i mondi, assicurando la presenza o
l'assenza di Elohim dal concatenamento degli esseri» [L 246-247]. Nell'orizzonte
della Persuasione, al contrario, la responsabilità non è la premessa teologica
al rapporto io-tu, non è il vincolo condizionante preparato da qualsivoglia
Torah, Assoluto o «ileità» [L 211], ma la messa-in-atto di questo rapporto nel
momento in cui esso avviene, sul terreno dell'autonomia senza presupposti,
nella condizione di una consistenza che trova 318. Ovvero nel fondamento
esclusivamente nella propria finitezza, nella propria solitudine momento in cui
la consapevolezza del Tragico assurge alla sua espressione massima, e si
converte da consapevolezza in attualità poietica. La stessa «responsabilità
della responsabilità» [L 158-159] non è una delega etica che un essere
superiore affida agli uomini, lasciandoli liberi o meno di rispondere (la presenza
o l'assenza di Elohim), ma un atto di autofondazione di libertà, in cui libertà
e responsabilità vengono a coincidere; non riflesso di una Legge, ma essa
stessa legge di se stessa. Il vir attraversa la morte, convive con la malattia
mortale ed estende la mortalità a termine di confronto con le altrui vite:
ristabilendo un corretto rapporto con l'essere-per-la-morte dell'uomo,
correggendo la prospettiva lontananza-vicinanza dalla morte, la Persuasione
rende manifesto l'essere-nella-morte dell'homo (la vita che vuole se stessa e
crede d'esser vita, l'horror vacui che diviene propellente del conatus essendi,
il deficere preso a pretesto del proprio sufficere) e nobilita
l'essere-con-la-morte del Persuaso. Di fronte al Tragico, e non di fronte a
YHWH, si fonda la solidarietà e la democrazia di un destino, per il quale tutti
sono miei pari nella morte. Vedendo nell'altro se stesso come mortale, il vir
elegge l'altro in un orizzonte di compassione, e quindi di rispetto: in questo
specchiarsi nell'innocenza tragica dell'altro, il Persuaso abdica alla propria
consistenza, avvertendo già la sua stessa affermazione individuale come
violenza "attuale" agìta ai danni dell'altro. 317 «[...] né la storia
biblica ha altro senso se non quello per cui l'imperativo della natura può
cedere all'imperativo di Dio e così elevarsi, la pura passione alla santità
pura, la creazione al regno» [B 58]. 318 Nella dimensione persuasa, dunque,
espressioni quali «dipendenza senza eteronomia» [L 162], «trascendenza che si
fa etica» [L 208], «decisione umana che interviene in un dominio che oltrepassa
l'uomo» [L 181], o ancora «timore libero: riconoscenza sotto forma
d'obbedienza, ma obbedienza senza servitù etc. etc.» [L 173], o infine la summa
- «idea di un potere senza abuso di potere» [L 266], non hanno alcun senso.La
persuasione, dunque, si pone come eccesso d'amore, come olocausto d'amore, che
sacrifica l'io attuale al tu, e fa del tu non soltanto il termine privilegiato
del rapporto, ma il luogo in cui «brucia come fiamma» il rapporto stesso. Il
sacrificio è l'annullamento del sé per la salvaguardia del tu: l'agire del
Persuaso (Sovva!) è l'accollarsi di un surplus di responsabilità verso il tu.
Per recuperare l'umanità del tu c'è bisogno di un'eccedenza d'umanità nel
Persuaso, tal che il Persuaso - alla stregua dell'Essere plotiniano - trabocchi
di essere e doni, sacrifichi la sua eccedenza in vista della Persuasione del
tu, ch'egli non prepara o sollecita, ma salvaguarda e protegge. In questo atto
di amore puro e assoluto della Persuasione, l'unico rimprovero che le si può
muovere contro è l'essersi arrogata una pretesa di salvazione che nessuno le ha
chiesto. Ma cosa è l'amore, il donare, se non dare anche quando nessuno
chiede? Uno, tra i motivi occasionali
che ci hanno spinto a scrivere una tesi su Carlo M., è stato la lettura di un
libello (in senso proprio e lato), che porta la firma di Antimo Negri, dal
titolo accattivante: // lavoro e la città. Il piccolo studio si propone come
«un saggio su Carlo Michelstaedter» (così recita il sottotitolo) e, in effetti,
la prima metà di esso sorvola l'opera del Goriziano, fissandone punti
fondamentali e azzeccando spunti intelligenti. Ad un certo punto, però - e
siamo al capitolo E' veramente ‘vita che non è vita', quella civile? -
l'analisi del critico prende una svolta inaspettata di sferzante polemica.
Partendo dalla convinzione (del resto per noi condivisibile e sensata) che
«nella società, è giocoforza responsabilizzarsi come uomini civili e lavoratori
divisi» [N 74], per il Negri prospettare ai lavoratori "distinti" e
agli uomini "civili" una vita altra da quella ch'essi conducono è
soltanto grossolana retorica, una presa in giro, una «promessa del diavolo» [N
75], pericolosa e assolutizzante, metafisica e irriguardosa. L'avversario da
ardere al rogo, nel contesto del saggio, è proprio Michelstaedter: [...] se gli
'autori' hanno veramente detto ciò che egli 'ripete' [il riferimento è alla
prefazione della tesi di laurea], Michelstaedter non fa altro che accomunarli
nel destino del fallimento del loro messaggio ‘persuasivo'. La ragione di
questo fallimento? Sta nel fatto che gli uomini, la maggioranza degli uomini,
nonostante ogni 'riduzione' della loro individualità, nonostante il loro
risolversi in persone sociali", nel mondo della sicurezza' borghese, nel mondo
del lavoro diviso o nel 'regno della rettorica', finiscono col credere più a
Platone che a Socrate, più a Hegel che a Schopenhauer, eccetera. Solo perché
disponibili a farsi 'giusti' per naturale desiderio di sicurezza? Solo perché
hanno paura della morte? Forse, anche perché hanno il coraggio di vivere, lungo
le 'sanguinate vie della storia', la ‘piccola vita' delle ‘individualità
ridotte', in obbedienza alle ragioni della civiltà del lavoro e della tecnica.
Anche il pescatore stanco de | figli del mare ha questo coraggio; e gli si deve
rispetto, perché è anche un uomo ‘temprato all'oggettività' nel senso
hegeliano, un uomo 'giusto' nel senso platonico. Rispetto non gli porta di
fatto, Michelstaedter. In realtà, la lettura del filosofo del lavoro è
altamente prevenuta, e questo gli obnubila il senso della Persuasione
michelstaedteriana. Ne è prova quanto scrive in seguito, indirizzando le sue
frecciate a «quanti filosofeggiando si atteggiano a flebili ‘pastori
dell'essere» [N 192 61], ossia «agli scopritori e ai riscopritori più o meno
nichilisteggianti di Michelstaedter» [N 71] (e anche qui ci trova concordi). Ma
per lui, già in partenza, quello di Michelstaedter è «il desiderio di un libero
volo oltre il mondo in cui vivono le 'anime implicate» [N 70], e, in quanto
tale, «è desiderio di morte»: «Michelstaedter tende a 'persuadere' ad un
'in-curia' o ‘non-curanza' della stessa società» [adattato da N 81], ed egli,
in questo, si rivelerebbe davvero «maestro di Svoradayoyia» [N 81], ma un
maestro così malefico, sottile e coerente da giungere persino ad uccidersi per
far valere tutta la cattiveria delle sue proposte; tal che il suo suicidio fa]
è un «gesto necessario della sua ‘pedagogia', che preferisce l' ‘essere’ al
'vivere', la ‘vita autentica' alla ‘vita inautentica' [[]» e visto che [b] «c'è
pure un egoismo nel darsi volontariamente la morte [!], senza curarsi di quanto
si può fare per gli altri anche o soprattutto come ‘individualità ridotte*».
Ciò di cui il Negri priva i suoi lavoratori distinti e i suoi soggetti civili è
quello che Ernst Bloch chiamava principio speranza: il che sarebbe anche la
cosa meno grave. Infatti, egli dimentica altresì che dietro tali figure
sociali, inserite negli ingranaggi della città giusta, ci sono degli uomini, e
che le conquiste - e la dignità che ne deriva - sono innanzitutto conquiste di
consapevolezza umana, prima che acquisizioni prettamente sociali o giuridiche o
politiche. Egli scrive: Il nostro posto è nella città, nel mondo del lavoro.
Non c'è ideologia 'antilavoristica' che tenga: il nostro compito resta quello
di fare più giusta la città, più umano il mondo del lavoro, non di uscirne
fuori, di abbandonarlo [N 81-82]. Parole che rivelano un grande, e
giustificato, "pragmatismo", e ciò detto senza alcuna allusione
spregiativa. Il fatto è che Michelstaedter, scrivendo della Persuasione, si
pone su uno scalino indietro (o avanti, dipende dai punti di vista) quando
appunta il suo interesse piuttosto sulla dimensione dell'umano che precede la
sovrastruttura della giustizia cittadina e della socialità del lavoro.
Sinceramente, non vediamo in ciò alcuna «ideologia antilavoristica», né una
presa di posizione, come dire, gratuita e tignosa contro la "vita
empirica" degli uomini. Il merito di Michelstaedter è stato quello d'aver
individuato, al di là o al di sotto dell'alacrità sociale, un peccato umano tra
i più puniti anche da Dante: l'accidia spirituale. Di contro, il più grande
demerito dell'invincibile illusione sociale della rettorica - propinata
attraverso lo strumento ipnagogico della Svoradaywyix - è quello di obliterare
l'umanità degli uomini e d'incoraggiarne appunto l'accidia: tal che quando
Michelstaedter parla di «possesso presente della propria vita» non intende un
allontanarsi dalla congerie sociale, o semplicemente un disdegnarla (il che
sarebbe, oltre tutto, impossibile, vista la politicità che contraddistingue gli
uomini), ma un vivere la nostra esistenza, anche sociale, alla luce di una
nuova consapevolezza, di tipo socratico, che precede la stessa "coscienza
civile": ovvero, nella consapevolezza che in ogni uomo c'è un fondo di
Persuasione - un «centro religioso», direbbe Capitini - che dev'essere
recuperato e 193 salvaguardato, una plenitudo ed un'aeternitas che non è
astorica o ultramondana o antimondana, ma che rivela una dignità che
chiameremmo ontologica, se non avessimo timore di equivocare adottando un
termine abusato. La vita degli uomini, prima di essere vita di relazione in cui
ognuno dà e ognuno chiede (il cosiddetto mutualismo), è una interminabili vitae
tota simul et perfecta possessio?”9, tanto per prendere in prestito le parole
di S. Tommaso, e in questo l'uomo è assimilabile addirittura a Dio. In suddetta
convinzione michelstaedteriana - che è una bestemmia in bocca ad un ebreo, e
che forse segna il traguardo di presunzione di un pensiero che, al di là della
religiosità che lo sottende, si pone, per via di principio, come pensiero
"laico" - si palesa tutto l'amore e il rispetto di cui il Goriziano
investe gli uomini, il mondo e la vita stessa. Il Persuaso non vuol essere un
"persuasor di morte", un apolide o un paria, e se lo è, è l'ingiusta
conseguenza cui l'emarginazione rettorica lo destina; ed anche allora, il vir
non è un asceta che si rinchiude, beato, nella sua sdegnosa autosufficienza, o
un moralista che, da uno scranno, discetta sull'inettitudine o sulla
"senilità" degli uomini che, ignari del loro non- essere, si
affaccendano nel mondo. Il vir è Qohelet, partecipa comunque all'assemblea
degli uomini, «àncora la [sua] vita nella concreta molteplicità del prossimo»
[C 66]. La sua «anima ignuda» [PR 10] non è un abito di santità ch'egli indossa
per distinguere la propria nobiltà di spirito, ma il risultato di una
spoliazione dei travestimenti rettorici entro cui siamo «incamiciati», un
raggiungere la nudità del nostro essere sfrondando gli orpelli del sufficere, e
non un'angelolatria; e, ancora, l'«isola dei beati» [PR 10] non è un mondo
marziano o iperuranico, ma la città veramente giusta, la Gerusalemme dei
liberati, la agathon philia: «Paradiso non è l'assenza della finitezza, ma il
vincerla, con impeto di spirito sereno» [C 64]. Infine, l'esperienza della
Persuasione non è un'esperienza elitaria od escludente, visto che non ci sono
libri, ricettari o raccomandazioni che ci facilitano sulla via della
Persuasione: essa, per principio, si pone come democratica, e l'unica
condizione ch'essa ingiunge (se si può dir così) è che sta ad ogni singolo
individuo assumersi la responsabilità di imboccarla, prendere su di sé il
compito della propria realizzazione, avere il coraggio di costruire la propria
dignità di uomo: e quale migliore artifex di colui il quale è l'artefice unico
della propria umanità? «La persuasione religiosa suscita un sentimento e
un'iniziativa assoluta, e un fermento da rinnovare perennemente, e proprio
movendo da sé stessi, anche se soli» [C 113]: «libertà deve essere
continuamente liberazione » [C 108]. La consapevolezza del Tragico, in cui
"consiste" la Persuasione e la sua libertà, dunque, non mortifica
l'attività degli uomini, ma le conferisce un senso e una dignità addirittura
sovraumane, perché non accetta la vita così com'è, o come ci è data, ma
testimonia la "caparbietà" degli uomini, la loro eccedenza di vita,
anche nella consapevolezza di esseri- 319 Tommaso, Summae Theologiae, prima
pars quaestio X, De Dei aeternitate in sex articulos divisa, articulus |.
per-la-morte: e la stessa relazione dare-chiedere ne viene promossa a donare,
in un orizzonte di rispetto e di amore che coinvolge tutti gli enti mondani,
senza alcuna cesura metafisica o etica. E allora, non si incorra nell'equivoco
di scambiare la Persuasione per semplice determinazione, per mera disposizione
di volontà, per arbitrio di proprie convinzioni imposte alla comunità degli
uomini, per malevola, pertinace coerenza d'intenzioni eccentriche o malsane:
diversamente, si potrebbero a buon ragione dire persuasi un Hitler o un
Callicle. La dimensione persuasa non è una dimensione anarchica, dove ognuno
dice o fa ciò che vuole, convinto di realizzare una propria, singolare, gretta
persuasione: essa ha l'unico suo limite e l'unica sua legge (che non è sintomo
di eteronomia, perché autonoma assunzione di responsabilità) nel confine
segnato dalla libertà e dal diritto dell'altra persona: la Persuasione «è
stretta sulla base della non menzogna che è il riconoscimento in altri della
stessa volontà operante vicino alla mia finitezza, superamento della
separazione, atto di fede che attua la vicinanza, la trasparenza» [C 111]. La
Persuasione è trasparenza etica. Che un simile "programma" di umanità
sia destinato al fallimento - o sia guardato con ironia, o sia tacciato di
melliflua retorica, che condisce una "adolescenziale" illusione - non
è una prova schiacciante da ribaltare sardonicamente contro il suo autore, ma
un ulteriore elemento di meditazione sulle dilaganti potenzialità oniriche e
violente - ovvero di una violenza occulta o scoperta, a seconda dei casi - del
dispositivo e dell'armamentario rettorico, che da sempre ci affligge. Carlo
Raimondo Michelstaedter. Carlo Michelstaedter. Michelstaedter. Keywords:
l’implicatura di Platone. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Michelstaedter: retorica e persuasione," per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Michelstaedter” – The Swimming-Pool Library.
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