Luigi Speranza -- Grice e Pascoli: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Perugia -- filosofia
umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo italiano. Perugia, Umbria. Fisio-logia.
Grice: “An excellent philosopher. He philosophised on the will, on the soul,
and on a functionalist approach.” Filosofo.
Lingua. Fratello di Leone P. Insegna a Roma e Perugia. Tiene dimostrazioni
anatomiche mediante dissezione di cadaveri, come il suo collega e concorrente
Andrea Vesalio. Intrattenne una vasta corrispondenza con intellettuali di tutta
Europa. Le sue opere filosofiche e scientifiche seguono i metodi di Descartes
et Malebranche. I suoi trattati di metafisica, medicina e matematica esibiscono
una filosofia coerente e metodico che dimostra la vitalità filosofica della
cultura italiana del periodo. Saggi: “Del moto che nei mobili si rifonde
per impulso esteriore”; “Nuovo metodo per introdursi ad imitazion de' geometri
con ordine, chiarezza, e brevità nelle più sottili questioni di filosofia
metafisiche, logiche, morali e fisiche” (Poletti, Andrea); “Del moto che nei
mobili si rifonde per impulso esteriore, Salvioni, Giovanni Maria); “Del moto
che ne i mobili si rifonde in virtù di loro elastica possanza” (Bernabò, Rocco);
“Delle febbri teorica e pratica secondo il nuovo sistema ove tutto si spega per
quanto e possible ad imitazione de gemetri”; “Il corpo umano o breve istoria
dove con nuovo metodo si descrivono in comendio tuti gl’organi suoi ed I loro
principali offij”; “De fibra mortice et morbosa nec non de experimentis ac
morbis”; “Nuovo metodo per introdursi ad imitazione de geometri con ordine,
chiarezza e brevita nelle piu sottil qestioni di filosofia logica, morale, e
fisica. Osservazione teoretiche e pratiche inviate per lettere”; “Sofilo Molossio,
pastore arcade PERUGINO e custode delg’ARMENTI AUTOMATICI in Arcadi gli difende
dallo scrutinio ne che fa nella sua critica Papi” (Roma); “Anatome literarum
sive palladis pervestigatio” (Roma); “SOFILO SENZA MASCHERA” (Roma); “Del moto
che nei corpi si diffonde PER IMPUSLO ESTERIORE, trattato fisico matematico ad
insegnare la possanza degli elementi quatro” (Roma); “Della natura dei NOSTRI
PENSIERI e della natura con cui si ESPRIMONO. Riflessioni METAFISICHE” (Roma);
“Del moto che nei mobile si rifonde in virtu di loro elastica possanza” (Roma);
“De homine sive de corpore humano vitam habente ratione tam prospera tam
afflictae valetudinis” (Roma); “Delle risposte ad acluni consulti sulla natura
di varie infermita e la maniera di ben curarle con una notizia della epidemina
insorta nel GHETTO GIUDEO di roma, e del congatio de’ buoi ne” (Roma); “Con una
breve notizia del mal contagioso dei buoi”; “Opuscoli anonimi in difesa di Alessandro
Pasocolo” – si credeno suoi soi. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Lalande, Dulac, Billy. Elogio. Bartelli, letto con
Lic. de' Superiori decimo lustro il secondo a n no già corre, da che le suoi
ceneri, filosofo perugino, sotto un'umi le sasso mute riposano in Roma, dalla Patria,ahi!
pur troppo neglette. Qui nacque, quà si educa, quì sparse per decennale tempo i
lumi della filosofia più sublime, insegnò ed esercitò qui Medicina. E celebratissimo
perfino oltre Italia; e tanta gloria egli accrebbe alla perugina Medica Scuola,
che forse questa per opera d'altrui a tanta rinoman za non 'mai pervenne :
nulladimeno sulla di lui tomba alcuna corona di patrio lauro non siposò, nè del
suo nome videsi ancor fregiato un'Elogio. Penso peraltro che Tu non debba di
ciò do lerti, ora che siedi puro ed impassibile sull' eter no seggio dei Buoni;
dacchè se vivente fosti il più fido seguace delle profonde dottrine del forte
animo di Cartesio, forse oggi di averne auta pur anco comune la sorte oltre la
tomba tu ti com . piaci Al vivere suo aprì Cartesio le luci nel bel suolo di
Francia, e sulle scoscese balze di Svezia le chiuse e sebbene tornassero,
dimandate le sue ceneri nelle Gallie, pure cento anni pas opra il sesto
decimo lustro Soprailsesto 0; sarono prima che di lui si leggesse un encomio.
Il nostro P. in Perugia nasce Roma les ue ossar accolse, nè furono queste
da'suoi concittadini manco desiderate; e solamente dopo ottantadue
anni, nella stessa sua patria, oggi al cun poco di lui si ragiona. Piacciavi, accademici
valorosi, che io ne parli almeno ad onore di questa sua terra natale, ed'a
gloria di quella medica fronda di cui venne meritissimamente il suo crine
ricinto', che quì splendeva allora più ver de e più onorata. Nè voglio credere
che siavi alcuno il quale reputi vana cosa questo mio dire; imperocchè, Lui
laudando, essendomi dato di e sporre dottrine non'tutte convenevoli a' tempi ne
quali si vive, ciò non torrà certamente che Egli non debba essere reputato grande
Filosofo e som mo Medico: essendo che se lafilosofia e la medicina, o da meglio
dire, se ogni umano sapere soggia cé par troppo a cangiamento coll'andare dei
se coli, è cosa costante che la verità e l'errore só no di tutte le menti
nostre retaggio ; sicchè tut ti i secoli e tutti gli uomini da non pochi lati
si avvicinano sempre fra loro. Col progrediredel secolo decimo settimole
scienze tutte di più chiara luce folgoreggianti,per la via progredivano del
possibile loro migliora mento :Sciolto lo spirito umano dagli opprimen .
Se questo Elogio di Alessandro Pascoli potrà servire a qualche riparo del lungo
silenzio in che ilsuo nome si stétte ; se a sprone di studiosa gioventù possa
per buona ventura tornare, se del lo estinto encomiato e di Voi., dotti Colleghi,
non tantoindegno riesca, al fine da me proposto lietamente mi stimerò pervenuto.
O ti legami del Peripato, erasi finalmente avveduto della sua nobiltà; e la
mente erasi accorta pote re da se stessa pensare . Sembrava che la natura tutta
fosse giunta a tale momento di crisi, dalla quale aspettare si dovevano grandi
cose e grandi uomini; e grandi cose e grandi uomini difatti si ebbero. Fra
questimolti, fiorirono Dracke, Copernico, Ticone, Keplero, GALILEI, Bacone, e
finalmente Cartesio, destinato dal cielo a compiere il bramato rinnovamento
negli studii moltiplici della natura. Appena ilgrande Filosofo dell'Aja di
chiarò al mondo intero non doversi alcuna cosa ritenere per vera, quando che
non venga dimo, strata per tale; appena disse'che la umana mente deve
tutto in dubbiezza riporre, finchè alla cer tezza non sia pervenuta;'e di
queste le fonda menta non che i caratteri stabilì ; lo studio ed il filosofare
degliuomini dialtropiù nobilesplendo re si rivestirono. La geometria,la logica,
lameta fisica, la fisica, e la medicina medesima in più stabile e più onoratá
sede allora si collocarono . Il secolo diCartesio segnòmai sempre una delle e
poche più luminose e memorande nella storia del l'umano intendimento,
imperocchè ogni1 dotto partecipò del beneficio influssodi questo tempo; ed il
nostro P. divenne Filosofo col divenire Cartesiano. Se non che non solo di
Filosofia ma di medicina altresì ai nobilissimi studj sentissi da natura
invitato; e cono scendo la forza del proprio genio, nol poterono. Comincia
con Cartesio dal dubitare e quindi giunse a persuadere sè stesso, tro e 6
distrarre da quelli ne i solerti padri di gesú che accorti iniziandolo nelle
regole del loro Istituto cercarono farne conquista.; nè il volere del padre il
quale all'officio del foro il destinava. Vide egli bene assai per tempo come a
corre merita mente il medico lauro, doveva alle filosofiche discipline tutto sè
dedicare. Perchè la filosofia di ogni umano sapere è fondamento primiero.
Accostumato come Cartesio a meditare più che a leggere, a pensare più che a
parlare, medita sul le opera di quell sommo e le studia intensamente, facendosi
propri i di lui principj, e tutta la filosoficacartesianatelasvolsee conobbe. Il
discorso sul metodo, le metafisiche meditazioni, le regole per la ricerca del
vero, il trattato sull’uomo di Cartesio sono a lui splendentissima face onde
dirigersi nel difficile sentiero della filosofia. Cosi lo studio di questa
precedette e quindi 'accompagna quello della medicina, non mai volendo egli
l'uno dall'altro separare. Tra noi, ai giorni nostri tristissimi, sembra essere
riserbato vedere non poca turba di gioventù male accorta gire in traccia di
medica scienza senza lo inestinguibile lume del più retto filosofare, senza la
conoscenza della natura, di sė medesimo, e perfino del proprio idioma nativo.
Vergogna s o m ima di que'paesi e di que'tempi che vogliopsi dire illuminati! E
per attribute diverse.Quin di dalla cognizione dell'Io personale passa a quella
pe ressenza perfetta che è Dio. Traicanoni della filosofia cartesiana erayi
quello di ritenere e gate si trovano le verità : donde poi le idee in
nate,dondela concatenazione diesse, la quale incominciando da dio scende
all'anima umana, quindi ai corpi, quindi ai bruti, quindi alle cose, tutte
della natura.E quifa duopo ricordare che mentre Cartesio col suo dubbio
universale prese la via delle speculazioni intellettuali a sta bilire i gradi
della verità, Bacone da Verulamio, coldubbio stesso fondamentale, prese la via
del le sensazioni, ed al fine desiderato pervenne in cammino più regolare e
meno incerto. Piega alquanto piùla sua mente al Cancelliere d'Inghilterra che
al pensatore dell'Aja. Ora chi potrebbe mai credere che dopo ise coli di Bacone
e Condillac sorgessero nuovamente, nelle dottrine delle idee, i secoli di
Cartesio e di Malebranche? Eppure oggi è cosi. Umana mente! Varsi esistenze
fuori di noi, erisultarel'uomo da un corpo e da uno spirito, sostanze
interamente fra loro per essenza e’che i sensi sieno ingannevoli guide alla
umana ra gione ; e che perciò l'anima nostra ha in se stes . sa e per se stessa
principj stabili, cui tutte le Ora tornando al nostro laudando diciamo che
parlò egli primamente della esistenza e durata d e glienti modali; poscia
diquelle sostanze che nelle loro idee inchiudono essenzialmente un qual
che modo di essere';e fondo le principali massi me della umana certezza sulla
esistenza de'corpi. Dalle essenziali proprietà degli enti corporei stu diò pur
egli l uomo sotto il duplice rapporto di sua materiale e spirituale sostanza; e
ragionando dell'anima, ne fissò la essenza sulla immateriali tá di lei, donde
le sue potenze intelletto é vo lontà . La credette immortale; e mentre Cartesio
ne tacque la dimostrazione, scrivendo in una sua lettera non essere necessario
di mostrare la immortalità dell'anima tostochè siasi provata la sua
spiritualenatura, non volle tacerla col pubblicare il discorso sulla
immortalità dell anima umana. Da troppa vanitàdinome; ed al desiderio di
piacere agli amici, motteggiando alcun poco, egli fu 'mósso a scrivere contro
Papi filosofo sabinese sostenendo a tutta possa, ma non con persuasione di
aninio, le dottrine del suo prediletto Cartesio sulla vita antomatica delle
bestie; volendosi però nascondere bizzarramente coll'intitolare il suo saggio
“Sofilo Molossio Pastore Arcade Perugino Custode degli’armenti automatici in Arcadia.”
Apparve preziosissimo a tutti questo saggio e se ne m e nò'romore in tutte le societá
dotte di Roma. Tali erano i sali attici in esso 'raccolti, i vivaci sar casmi, ileggiadri
concetti. Avvenne però che dopo sei annila suprema inquisizione con decreto
solenne condanna l'opera del Pastore Arcadico Sofilo Molossio. Ale 8
e e le sue ferme opinioni sull’animalitá delle bestie. Protestandosi in
mille modi vero seguace di PITAGORA, e vero devoto a tutto ciò che la umana
credenza prescrivesi. Fu questa la sola nube che per poco offuscasse l'ottima
fama di Pascoli nel corso della lunga etá sua, é questa fu del suo animo la
dispiacenza più viva. песа. Applicatevi dasenno a filosofare, poi che per tale via
depurate la mente umana da gl’errori che la offuscano, e sollevata dalle
passioni che la opprimono, si eleva cosi libera e tranquilla a tale grado di
serenità, dove gode veramente di se medesima Stabilito avendo lora fu che P.
accortosi dell'errore cui con dotto lo aveva una sua male accorta vanità di
spirito, ritrattò subito pubblicamente le sue opinioni; e nelSofilosenza Maschera
scuoprì il suo vero nome Erano pure a suoi tempi, quali oggi vivono, alcuni
falsi sapienti, che superbamente umili, abusando del comune adagio, id tantum
scio quod nihil scio, il più irragionevole scetticismo nelle coșe tutte
proclamavano, e di ogni credenza e di ogni filosofia si facevano dispregiatori
e nemici. Contra tale specie di stupidi pensatori si scaglia il nostro P.; e fa
conoscere come filosofare non altro è se non se rettamente pensare, essendo che
chi mal pensa conviene che male discorra, Sulle traccie di Platone, di CICERONE,
d’AQUINO, di Cartesio, ripete a tutti con se l’apprensione, al giudizio, al
discorso, al metodo; e a diligente disamina tutte prendendole, forma il suo saggio
di logica, seguendo ugualmente la prediletta sua cartesiana maniera. Espnse
quindi i precetti del ben' apprendere, del ben giudicare, del ben parlare, del
ben disporre. Prefere il metodo analitico che il pensiero è all’anima essenziale,
come alla materia è la estensione, parla delle operazioni del nostro
intelletto, le quali riduce all' per I studiare le cose, elo chiamò metodo di
risoluzione o di disciplina. Si servi del metodo sintetico per insegnare ad
altri, e lo disse metodo di composizione o di dottrina. Dopo che la scienza del
calcolo per la invenzione de' caratteri algebrici si fa più ordinata, e di più
estese applicazioni capace, lo studio delle matematiche divenne universale ad
ogni sapiente: e di quanta utilitá si renda allo sviluppo dell'umano intelletto
ed alla ricerca del vero, ognuno di leggeri il conosce . Studio si fatto non
poteva es sere dal nostro Pascoli trascurato, e sulle opere del Gottigues, dello
Scohetten, di BARTOLINO; dell'Ozanam, di FARDELLA, di Cartesio si forma
matematico. Scrive il saggio di logistica od arimmetica, nel quale prendendo a
trattarele quat tro operazioni fondamentali, non in cifre numeri che, ma in
algebriche, intitol il suo lavoro col nome di “Arimmetica nova o speciosa,” ed
applicando le stesse operazioni alla dottrina de'polinomii, la quale
perviensi a studiare le leggi del moto. A lui però non piace solamente seguire
le dottrine di questi sommi, ma cerca direnderle più facili epiù sicure. Lascia
di ragionaré del moto in astratto; e col tatto, colla vista, coi sensi, in
concreto lo esamina. Parla della natura, condizioni, proprietà, e leggi del
moto per impulso esteriore ed in virtù di elastica forza. Quindi si lancia col
pensiero, in alcuni moti possibili rispetto al vortice massimo del sole. Con
tale chiarezza di principi, con tale ordine d'idee egli ne seppe parlare che
meritò l'approfazione sincera ditutti i dotti e capace. Archimede, GALILEI, Gassendo,
Rohault, Cartesio hanno già insegnata la strada per la quale perviensi ed alle
equazioni, dette compimento alle sue fatiche sulla indole dei nostri pensieri.
Pose poi mano alla fisica, od a quella scienza vastissima, la quale avvicinando
al nostro pensiero le cose materiali che ne circondano, fà che lumana
intelligenza al più alto grado di sublimi tà siconduca L'uomo di fatti penetra con la sua scorta i
più nascosi secreti della natura; e con leipasseggiandolaterra e con lei
traversando glioceani,e su cieli passeggiando con lei,fache sopra tutto il
creato sovranamente s'innalzi. La prima verità che ci insegna la fisica è che
il m o to costituisce il fondamentale fenomeno de'corpi tutti. Ond'è che tutto è
movimento in natura,o tutto a movimento èdisposto, o tutto di movimento è. Il grande
matematico e fisico cremonese BIANCHINI glie ne dette la più solenne e pubblica
testimonianza Mi si dia materia e moto, dice Cartesio, ed io imprendo tosto a
crea re un mondo, il P. con maggiore umilta così diceva “ Materia e moto sono i
due prin n.cipali strumenti, donde con sua possanza si » vale Dio, dimomento
inmomento, aprodur 9. rac racoli, e miracoli di stupor infinito. Si ode oggi nelle
nostre scuole far menzione di un etere comune, di un imponderabile unico ed
universale, motore di tutti I fenomeni iquali hannoluo go "nei movimenti
della materia e degli animali. Le scuole Alemanne apreferenzadialtre risuo nano
di questa materia unica-eterea, capace a prendere diverse forme ed aspetti,
tutto pene trando investendo agitando il creato: La vide pure questa materia
motrice universale: ciò che dicono oggi con tanto entusiasmo, e for se con
troppa persuasione dinovità, Mesmer, Wohlfart, Sprengel ed altri sulfluido
elettro-magnetico universale; ciò che con tanto calore pro e con eguale
robustezza di argomenti dimo strato dal nostro Alessandro 1 e in natura, senza
miracolo, continuati min et clamano Lennosseck, Prokaska, ed Ennemoser
sulfluido biotico universale de corpi viventi, era stato già conosciuto non
meno chiaramente dilo ro, Finalmente volle ardimentoso inalzare i suoi sguardi
ai movimenti del sole e nel vastissimo campo dell'astronomia tentando
alcun passo quale ché suo opinamento volle manifestare. Si dichiara del sistema
astronomico di Copernico e di GALILEI oppositore fermissimo. Ma qui potrebbe
dataluno dimandarsi, se il facesse egli forse per tenere dietro alle massime proclamate
dalla romana corte nella quale viveva? Nò. Chè la saggia condotta dei prudenti
interpreti delle sacre corte ha assai già moderata la forza di quegl’anatemi
scagliati un secolo innanzi sulla tomba del riformatore di Thori, e sul capo
del pensatore pisano. Potevasi allora dalle pubbliche scuole o ne communi
discorsi dei dotti liberamente difendere (come ipotesi) ilmovimento terrestre e
la stazione solare, senza tema di contraire brutte macz chie nell anima, o a
spiacevoli incontri soggiace, re Ond'èchese con tutta la forza del suo'sapere alla
copernicana sentenza si oppose, ciò fece'con intima persuasione di mente, e non
per condiscendenza di basso cortigianismo. Nei e il solo che dalla credenza di
Copernico lungine stasse. Imperocchè fra i moltiche ridi re potrebbonsi, quel
grande onore d'Italia, quel l’astronomo profondissimo della dotta Bologna, MANFREDI,
basta per valente compagno del nostro Alessandro rammemorare. Vero si fu
peròche a fronte degl'ingegnosi sforzi di tanti uomini insigni, prosegui ilsuo
cammino la terra, è fermo il sole si stette. Qui terminarono le fi losofiche
laboriose occupazioni di lui, e conqueste sole poteva rendersi della Patria e
della nazione assai benemerito : ma fu pure medico P., è inedico di altissima riputazione.
Se sono grandi i nomi dei restauratori della umana filosofia, non meno grandi
furono quelli di Silvio, di Lancisi di Baglivi, di Ramazzini, e di altri che le
medie che scienze ad alto grado di rinomanza condussero. P. vive nel tempo in cui la medicina seguiva
tuttora le insegne de'Jatro-chimici, dell'Elmonzio, e del Silvio; insegne che
stavano già per cangiarsi dal Santorio e dal Borelli,onde quelle trionfassero degl’átro-matematici
ed e meccanici. Nè si per verrá mai a spiegareun costante ed unico vessillo
sotto il quale si raccolgano in ogni tempo i cultori della medicina le che sia
proprio di lei in tutte le età che trascor. rono? Grande e funesto destino, a
molte scienze comune, alla medica comunissimo! Conosce in quali giorni vive;
quale del secolo suo fosse dominante lo spirito; e pieno di alto ingegno, nella
medica scienza si fè valente: Cartesio aveva per dodici interi anni
studiato'l'Anatomia a fine di ben conoscere l' uomo ; e il nostro P. per non
minore tempo applicò la sua m e n te allo studio profondo della struttura del
corpo umano. Annuncia sulle prime ai dotti un trattato riguardante i
cangiamenti che provengono agli organi corporei per cagione delle passioni:
pensiero veramente sublime sul quale però le speranze di ognuno restarono pur
troppo delase . Ai tempi del nostro Alessandro l'Anatomia non aveva ancora stretto
con altre naturali scienze quel sutile nesso di che oggi si onora; né quel filo
sofico linguaggio, nè quelle sottili applicazioni si trovavano in essa, siccome
in quella d'oggidi noi ammiriamo. Alle fatiche ed allementi sublimidi Scarpa,
di Soemmering, di Mechel, di Portal, e dell'immortale Bichat dobbiamo la
eccellenza cui oggi l'anatomico studio è pervenuto . Nè Vicq d’Azir, nè
Geoffroy di Saint Ilaire', nè Blecard, nè Gall vissero in quella età; pure
potevasi quel tempo chiamare il tempo delle scoperte anatomi miche. Erano già
nati gli scrutatori sommi"dell’uman corpo Arveo, Senae, Asellio, Willis, Nuck,
Malpighi, Ruischio, Lancisi ed altri. Vive e studia con Redi. Ciò basta.
Insieme per più tempo in Firenze si occuparono indefessamente di anatomiche
dissezioni e quel dotto scrittore toscano ha caro Alessandro quanti altri mai,
al grande Cosimo presentandolo quale soggetto degnissimo di tutta la
considerazione sovrana. La fabbrica del corpo umano dal nostro encomiato
descritta non presenta, è ver, peregrine cose. Ma l'ordine, la chiarezza, la concisione
rendettero il saggio suo utile al pubblico insegnament, pel quale oggetto egli
stesso si protesa averlo unicamente composto. Quando il gran Malebranche si
avvenne nel libro dell'uomo di Cartesio, ed ipcontrò in questo filosofo un
ge vio simile al suo, prese (dice l'elegantissimo Fontenelle) il grande partito
di rompere ogni commercio con le erudite facoltà, ed in seno del cartesianismo
tutto si abbandona. Legge il saggio medesimo di Cartesio, lo medita profondamente
e scrive egli pure sull'uomo. Mentre però l'uomo di Cartesio e di Malebranche
fu l'uomo del metafisico e del filosofo, l'uomo nelle mani del P. e l'uomo
dell'anatomico e del medico. Ha somma intelligenza nell'osservare i fenomeni
dellaumana vita, sicchè lemas sime del suo Cartesio con quelle modificate del
gran Cancelliere d'Inghilterra, formarono in lui quello spirito di filosofia
induttiva, il quale alla ricerca del vero nelle cose di fatto e perciò in
medicina, è l'unica sicura via. Scrivendo dell'Uomo prese Alessandro il giusto
partito di primamente designarne le parti, quindi ad esse dare vita ed azione,
poi de'mali a cui vanno soggette tenere ragionamento, e fi nalmente l'opportuno
metodo curativo de morbi con tutta la modestia del dire proporre. In tale modo
ilnostro encomiato presentò alpubblicoun tesoro di dottrina, che per molti e
molti annida ogni medica scuola Italiana fu allo insegnamento de
giovani:offertoe prescritto, riputatolo per il prezioso e completo deposito
della medica scienza. Le opinioni di Galeno e di Silvio erano quelle che fra i
cultori d'Igea in quel tempo tut tor dominavano, Stava per sorgere la setta del
più solidismo, ed Elmonzio, Cartesio, Silvio erano ancorai tre
grandi nomi proferiti dalla bocca di tutti; cosicchè fra i conciliatori e
moderatori di questi tre Principi delle mediche scuole si e mento etereo piú
sciolti gli umori, ed il moto fer mentativo di essi prodursi. Questo elemento
lá presiedere alla circolazione sanguigna, qua tutto il fonte del calore
animale sostenere perenne. Era quest etere per Alessandro la fondamentale sor
gente delle fermentazioni non naturali, donde le febri tutte nascevano che ove
accada condensa mento di esso, le maligne; ove soluzione, le benigne; ove
infine abbia luogo latente glandolare fermento, originarsi le intermittenti opinäva.
Poi te dottrine fisiche di questo etere universale espone, la sua azione sulla
vita degli organi, finalmente l'applicazione di esso alle dottrine di Scrodéro,
di Hoffmanno, di Etmullero, di Lemery, e degli altri molti di quella età . E
forse che non potremmo noi parlare lo stesso linguaggio, sostituendo al nome di
etere cartesiano quello di elettro-magnetico? Io i l dimando Abituato il nostro
P. fin dall'infanziaa piegare la sua mente al metodo geometrico e a disporre le
sue idee con quell'ordine e successio ne, utile al buon’acquisto di tutte le
cognizioni il nostro P.. Quindi è che nelle sue opere parlasi dello
spirito di Willis, del fuoco di GIRGENTI,del l'archeo di Wan -Helmonzio, del
primo elemento di Cartesio :e si dice farsi per virtù di questo ele pose + 17 +
4 Oltre al suo trattato dell'uomo, che abbraccia l'intero studio della
medicina, sono numerosissimi i suoi Consulti, le sue Lettere, i suoi Votiemessi
in oggetti di pubblica sanità.Incau se dificili di Foro canonico e civile, in
Canoniz zazioni di santi uomini diede Pareri e Giudizj, che guidarono le
Autorità competenti a retti es en sati decreti Avendo inoltre il P., saputo
unire a somma dottrina, urbanità di modi nel conversare, ed umiltà di
espressioni nel parlare e nello scrivere, non é a stupirsi se ai dotti d'Italia
ed oltremonte rispettabile e caro addiyenisse L'amicizia che seco lui ebbero un
Redi, un Magliabecchi, un Montemelini, un’Ottaviani, un Lesprotti, un
Zannettini, un Lambertini, un Segur, un Baglivi; da quali o dedicazioni di
opere, o non interrotte scentifiche corrispondenze, o laudi sincere egli
ottenne, siccome fecero pure un Bianchini, un Loy, un Marini, uno Sprengel, un'Aller
; ci ayvisano dovere riporre P. fra gli uomini grandi, che in filosofia ed in
mea umane, e preciso nel descrivere gli organi, chia ro nello esporre i fatti,
esatto nella diagnosi, cautissimo nella prognosi. E poi semplice quanto mai possa
dirsi nel metodo del medicare, e dichiarossi nemico di ogni farragine
farmaceutica, ripetendo sempre a se stesso e ad altri che a buon medico pochi
medicamenti bastano o 18 di pintore pochi colori. come a buon ; dicina
fiorirono fra il terminare del secolo decimo settimo e del decimo ottavo sul
cominciare, Il nostro P. legge in Roma anatomia e,edicina dalla più fiorente
alla più tarda etá sua, grandi opori godendo e distintissime cariche sem pre
occupando. I papi Clemente XI, Innocenzo XIII, Benedetto XIII, Clemente XII. lo
hanno a medico, Archiatro lo salutarono, Protomedico lo proclamarono, lo
scelsero Conclavista. Del supremo tribunale sanitario, della congregazione dei
sacri riti, fè parte onorata e principale, tanta era la dottrina che quella romana
corte in Lui venerava . Potrebbe forse da taluno di noi dimandarsi se il
Pascoliavesse meritatosigrandeecomune conside razione come Medico
pratico,quanta ne ebbe come teorico;imperocchè pur troppo è duopo riguardare la
medicina sotto ilduplice aspetto diScienza edi Arte. Difatti non rade volte
accade che amedico quanto ésser si voglia dottissimo, manchi quel tatto
pratico, quella squisitezza di medica vista, e, dicia molo pure,
quell'inesplicabile nesso di favorevoli 19 Dopo che per due lustri dalla
patria Univer sità degli Studj, e dalle private Accademie le fisi che,e mediche
scienzeinsegnò,Padova eRoma il chiedettero a gara, generosamente patria novella
offerendogli. Il Pontefice Clemente undecimo a se chiamatolo, fece si che a
Padova, cui era già sul punto di recarsi, Roma preferisse. E così Perugia lo
perdette per sempre e E quièben forza credere che P. vivendo dodici
lustri in Corte, in Roma, tra Grandi, tra Principi sempre; cui furono affidati
in téressantissimi negocj delle Principesche Famiglie Albani, Chigi, Rospigliosi,
Sora ed altre, fosse di grande ingegno, di profonda politica, di somma
costumatezza dotato; dacchè, una di queste do ti che manchi, a sorte sì grande
non si pergie ne, o per poco di questa si gode. Difatti sappia m o come tra le
tante virtù che lo adornarono, erano prime il decoroso contegno in che egli si
tenne, l'essere del suo buon nome forte difenditore, il incontri e di
buone venture, che tanto valgono al la propizia riuscita dell'esercizio
clinico, e su cui la opinione e la fidanza di ottimo e felice medico riposa.
Nel nostro Alessandro sembra che tutto si riunisse a renderlo valente nell'arte
come nella scienza rinomatissimo. Ed in vero pel lungo corso che visse all'aura
del Campidoglio, non fuvvi personaggio distintocui non prestasse medica mano o
medica consultazione. Oltre ai pontefi ci sopraenunciati, la regina di Polonia
ed i suoi figli, gli Elettori Bavaro, Sassone, e Coloniense, la Regina
d'Inghilterra, ed ogni altro Principe e Grande, (a quali sifortemente il vivere
più ca le ) lui ebbero a tutela de' propri giorni bene ed ilparlar pensar bene
di tutti, siche tutti rispettando ed amando, seppe da tutti rispetto riscuotere
ed amore. Cosi Roma e ammiratrice di un filosofo Perugino. Ed il suo nome
onorato più spesso colà che tra noi si pronuncia forse e si ripete.
Lontano dagl'incanti del bel sesso, ne fuggi perfino, in quanto il potè, la medica
cura. Che più? Con religiositá e fortezza di animo sostenne una completa
cecitá, senza che in se stesso foss'egli meno tranquillo, nè meno fosse da
altri dimandato e compianto. Che se al possedimento disua vasta dottrina, se al
buon successo dell'arte sua, se al corredo delle nobili doti dell'animo che in
P. fece ro si bella mostra di loro, si aggiunga la felicità de' tempi nei quali
visse, dovremo anche meno stupirci che potesse egli giungere al più alto grado
di celebrità e di onoranza . Io voglio dire la felicità dei tempi; ossia quell buon
tempo ai dotti propizio, in cui dessi sono veramente stimati, e nel quale i
Principi, ei Grandi concorrono agara (siccome oggi) informar li, tosto chè i principi
e i grandi bene conoscono che le scienze e le lettere sono veramente il sostegno
de’ troni, e delle nazioni delle cittá dei paesi il primo ed il più luminoso
decoro. Ed alla estimazione de' medici credo che non poco in ogni tempo
contribuisca la buona Fidanza de'popoli, colsaldo tenersi di quel velame che
agli occhi del volgo i misteri nasconde d'Igea; velame tanto utile che sia
serbato; imperocchè la remozione di esso chi ne abbisogna e cui serve
reciprocamente danneggia. Dopo si grandi fatiche, carico di meriti e di onori,
questa misera terra abbandona e perenne ricordanza dei posteriche cirima
ve dilui? Laviva fama delle suetante virtù, ladi lui valentia nell'arte del
medicare; e più ci restano i suoi numerosi volumi, depositarii immanchevoli del
vasto sapere nelle fisiche e nelle mediche facoltá. Saremmo noi co tanto
ingiusti per dimenticare i sudori dei dotti che ci precedettero, solamente
perchè il modo loro di filosofare non è più simi le a quello de'tempi nostri? E
vorremmo noi far ci riputare così creduli e così inorgogliti nel lusin garci
che alle dottrine ed alle massime nostre del la filosofia e della medicina,
tutti coloro che ci suc cederanno coi secoli pieghino riverenti la fronte e le
venture età inalterato rispettino ciò che ad esse faremo noi pervenire? Non
siavi chi lo cre da, o la storia dell'umano sapere ne disinganni, Ond' è che
degli esimj ingegni, dei benemeriti cittadini, degl'insigni scrittori,sebbene
lunga serie di anni da essi ci divida, serbare si debbe ricor
danzavivissima,afronte decangiamentiaquali può girein control'umano filosofare e
il medico opinamento. Si, dotti Accademici, apprezziamo mai sempre le fatiche utili
de' trapassati, se nei miti noi buoni esempli, se ne rispettino i nomi ; ed il
titolo a non meritarci d'ingrati, le loro tombe di verdicorone di lauro con più
frequenza e con più giustizia si onorino. Rivolgendosi al Busto marmoreo
dell'Encomiato, che innalzavasi nella Sala dell'accademia. Tutto ciò che vien
detto di Alessandro Pascoli in questo Elogio, come filosofo e medico, è tolto
dalla let tara ed analisi fatta delle molte sue opere, in diversi tem pi
pubblicate; il catalogo delle quali trovasi registrato nella Biografia dei Scrittori
Perugini delchiarissimo Cavaliere Gio. Battista Prof. Vermiglioli all'Articolo
P. Alessandro. Noi credemmo di non trascrivere ibra ni medesimi dell'Encomiato,
a conferma de' suoi detti e delle sue opinioni, e ciò per non aumentare la
stampa inu tilmente; sapendo che agli eruditi medici sarebbe ridire le cose
stesse le quali nelle opere di P. già bene conoscono, o potranno rilevare
quando lo vogliano . Quello poi che riguarda la di lui vita privata e so ciale
lo rilevammo dalla storia di sua famiglia, dalla Biografia sopracitata; nonchè
da quella degli illustri italia ni compilata dal chiarissimo Sig. Emilio de
Tipaldo, Venezia. Finalmente da non poche pregevoli notizie ms. lasciate da
Francesco Aurelio Ginanneschi, giovane di Alessandro P., ed ultimo che stet te
venti e più anni con lui, e perciò informatissimo della sua vita. Questo
ms trovasi presso di noi. Nacque da
Domenico P., e da Ippolita Mariottini. La famiglia dei P. fu originaria di
Ravenna, siccome ne scris se Celso, fratello del nostro Alessandro, nella
storia del la sua Casa. La prima di esse fu stampata in Roma, Zanobi, dedicata
a Paolucci, Segretario di Stato di Clemente XI. La seconda che contiene tutta la
di lui ritrattazione e pubblicata egualmente in Roma in 8° per il Buagni, dedicata a Banchieri assessore
del S. Officio. Ambedue queste operette interessanti la vita letteraria ed i
sentimenti morali del P. le abbiamo nella Biblioteca pubblica Scaff. Quando la
Regina d'Inghilterra in Roma lo chiama a medicarla, nell'atto di presentare il
polso, gli disse. É vero, Sig. Dottore, che voi non avete piacere di medicare
le donne? Alla quale dimanda egli risponde. É verissimo, ma non le regine. Muore
in Roma. confortato da tutti gli ajuti della Religione, Gl’ultimi18 circa dei quali
in una completa cecità Fù sepolto nella Chiesa di S. Silvestro a Monte Cavallo
de' RR.PP, Teatini- La Iscrizione sepolcrale umile, compostasi da se medesimo,
e che trovasi tuttora sopra l'avello, è la seguente. Hic Posuit Exuvias In Die
Irae Resumendas Alexander Pascoli Perusinus Verissimo. Non mi piace medicar le
donne, ma non le regine”,eforsedeglialtri,chesap di Antonio Blado); Trattato
della mutazione dell' altra Lettera si apprende che avea aria,in4. Roma per Alessandro
Gar. Pure scritto un trattato di Rettorica danoec.Di questo opuscolopro- eprincipalmente
sulla Invenzione dusse il suo giudizio il Bonciarioia dicui ne offer copia allo
stessoBon una letterainedita. Perchèi Digesti si allegano morie di sua famiglia
originaria di Ra iniscrittoperdueifedil paragra- venoa, epoistanziataio Perugia;
eda fo per due ss congiunti. queste memorie medesime passate quin 2. Del parto dell'Orsa
. piano e non siano appassionati. Da V. Conclusione del Tribuno della
scoli, ed. Ippolita Mariottini. Termi plebe, in 4. Roma per gl’Eredi di natii giovanili
suoi studii presso ipp. suo articolo, e dal Vincioli nell'opuscolo sullo stesso
argomento. I ràstampata velan anderò. Leco- Dizionario medico,che egli di e che
io farò non saranno da sco- morando in Firenze, studiò assidua »lare, e latine per
qualche mese, ma mente all’ospedale per fare osserva volgari, e contro tutta l'Accademia
zioni anatomiche, e per potere così fiorentina, massime sopra Boccaccio,
migliorare un suo Trattato sul cangia Gennajo da Domenico Pa. egli tolse a
seguire la medicina VI.Versiin Lode delleacquedi incuineotlenne le magistrali insegne
S.Galgano. Ci vengono ricordati dal. quando contava soli anni 21. Grisaldii o quelle
lettere rammentate al Posciasirecò in Firenze a meglio apprendere la scienza
salutare alla scuo e ciario. della Poesia,in CelsoPa. IIF. Questione di Giovanni
Osma. Romapergli Eredi rino Gigliotto Magistrato. anguste ma lucrose vie del
fo. PAPA scoli fratello di Alessandro, e di Leg IV. Risoluzioni di quattrodubbj.
ne, dimorando in Roma scrisse le me di a suoi posteri, noi raccoglieremo le
3.4. Del Perseo, e del Pesco, e brevi notizie di Alessandro, e Leone. loro
natura. Roma per gli Eredidi Nacque Alessandro in Perugia nel Gigliotti, in Giovanni
Gigliotti. E'questo un' Gesuiti, che conoscendolo di bello in opuscolo con cuisicoufutano
leopi- gegno, desideravano a loro condurlo, e nionidi Plutarco, del Manuzio edel
terminate gli studii legali, perch è il Sigonio, I quali credettero che il Tri-
padre voleastrascinarlo miserameate buoo della plebe in Roma non fosse per le
ro taliana, esopra Boccaceio. Gioviin- buone speranze, nonostante che si
tenderne poche parole: Sostato tardo riducesse agli estremi. Ristabilitosi torn’a
rispondervi perchè m'ha ingomnò a prospera meale esercitare la sua brato tutto più
di un mese una com- professione, e colfavore del dotto Mae »posizioncella che ho
fatta per un stro, potè presentarsi al Gran Duca »mio patrone, la quale subito chesa-
Cosimo I. Aggiugne l'Eloy nel suo ladi Kedi, e mentre co Da una lettera inedita
di Lorenzo si sotto di lui attende alla clinica, al Bonciario sembra che egli sia
ccin- fuda mortale malattia sorpreso, ma gesse a scrivere anche sulla Lingua i-
il Redi medesimo ne concepì sempre e èverissimo, ma non le Regine. Fu
Rimpatriato nuovamente si posea anche medico straordinario dei Ponte studiare le
lingue greca e latina sot- fici Clemente XI. Innocenzio XIII. Be to il Canonico
Guidarelli, dicuiveg. Pedetto XIII. e Clemente XII. incom gasil'articolo, e le Matematiche
sot- pagnia di Leprotti, il qua to il Dottor Neri, mentre non lascia- le molto profitta
de'consigli del Pa vadi attendere anche alla Medicina scoli. Dove aessere medico
primario pratica, solto LodovicoViti; nè passò pontificio, ma per non imbarazzarsi
poi molto tempo, che ottennein pa gui la giubilazione. Veggasi la dedica
premessa alla sua opera de Hom inc . Marini Archiatri Pontificj Caraffa de
Gymn. Rom. Com, in stud. Med. Borhe. Valen. e nuovamente tra le disputazioni mediche
raccolte dall' Halleer, per le approvazioni da farsi ne'miracoli Ad altri onori
fu innalzato in Ro- operatia di ntercessione de’Servi del Si ma, imperciocchè ebbe
luogo frai gnorenella loro canonizzazione e, e si XII. Archiatri del Collegio de'
Medici dique’ prodigjdistese pure alcunedi e fra gli Arcadicon il nome di Sofiló
squisizioni. Professa la Medicina con Molossio.Varie istituzioni sanitarie lo
semplicità, e dioesiche il rinomatissi ebbero a medico in Roma, ove cura mo Cardinale
Alessandro Albani Camer la Regina di Polonia, ed il suo figliuo- lengo, lo ebbe
in tanta stima, che non sole conferire impiego a perugin, se non gli veniva
raccomandato lo, gl’eleltori di Baviera e di Colonia, llo fante Elettorale di
Sassonia e la Regina d'Inghilterra, la quale da P. che solea chiamare il Ca
nell'ultima malattia volle il P. merlengo perugino. E avuto in isti. e narra
Celso suo fratello, che nella ma anche dal celebre Haller che ne prima volta in
cui Alessandro le tocca parla nelle opera sue,edilSeguer ilpolzo, glidisse la Regina,
onève àlui dedica la sua Schedula
monito. ro P., che voi non avete pia- ria ec. PA mentodegli organi corpore i per
cacere dimedicar donne?»cuirispose: gione delle passioni . PA 171 triauna Cattedradi
FILOSOFIA, che ten- ri; non ostante però fu continuamente neperapni10., ragunando
poi sem- in grazia degli stessi Pontefici, ed i pre in casa sua una Accademia aperta
venne medico del Conclave dopo la di Letterati. Intanto e chiamato aleg- morte di
Benedetto XIII. ee quando fu gere in Padova, e mentre si dispone creato Clemente
XII. Va arecarsia quel dottissimo Studio, Inoltre aveaeserci Clemente XI. lo chiama
a leggere nell' tata in Roma anche la carica di Pro Archi-ginnasio romano. Coldreca.
to medico di quella Metropoli, e dello tosi incomio cid tosto ad insegnare, la
Stato Ecclesiastico e la Consul Notomia,
che per anni continui tasole a sempre ricercare i suoi voti vi professò;
ottenne poi alire catte- in qualunque bisogno di medica poli dre di teorica e pratica
con vistosi zia. Fu similmente varie volte occu stipendi, finchè neconse pato dalla
Congregazione de, Riti nellaCorte, rifiutò sempre questi ono PERVGINVS
VIXIT OB.V. tica Papi M e 1. Delle febbri
Teorica e Pratica dico e filosofo sabinese. Roma. secondo il nuovo sistema, ove
tuttosi per il Zanobj 8. spiega per quanto è possibile ad im Dopo il lungo
spazio di anni, mitazione de’ Geometriec. Perugia fu proibita quest'opera, el'Autore
X. Della natura dei nostri pensie; Osservazioni Teoriche e Pratiri, e della natura
concuisiespri che di Medicina inviate fonde in virtù di loro elastica possan.
Sofilo Molossio Pastore Arcade zaec. Roma presso Barnabò perugino, e custode degli
armenti automatici in Arcadia. Gli difende dal De homine sive de
corpore PA PA l pel Costantini 4. Sieguonoal- tocco da scrupolo pubblica ilN.VII.
cuni suoi discorsi in materie mediche. Anatome Literarumsive Pal. Muore
santamente in Roma di vallo con questa iscrizione nel suotu. anni edopoanni dicecità,e
mulo cheerasi composta per lui stesso. Le dolle opere che lasciò a' posteri
sono: lo scrutinio che nefa nellasua cri • II. Il Corpo umano o breve Istoria
dove con nuovo metodo si descrivono ladis pervestigatio ec. Romae In ultimo
vannoaggiun- per lo Buagni .Vedi il N. V. .M. HIC 0.POSVIT, EXVVIAS IN DIE IRAE
RESVMENDAS ALEXANDER P. typis Cajetani Zanobii8. in compendio tutti gli organi suoi,
furi prodotta per lo Salvioni in4. con cd i loro principali officj ec Perugia
pel Costantini in 4.Ven. qualche diversità nel titolo. VII. Sofilo senza maschera.
Roma te due Pistole del Baglivi a P.: De fibra motrice et morbosa, nec non
zioni di alcuni Servi di Dio.Roma de experimentis ac morbis ec. per Giornale de
Letterati Ven. E sepolto in S. Silvestro
di Monte Car Voti scritti per le Canoniza. Del moto che nei mobili siri. Nuovo
metodo per introdursi IX. Dei moto che nei corpi sidif ad imitazione de’ geometri
con ordi- fonde per impulso esteriore ne, chiarezza e brevità nelle più, Tratta
sotto fisico matematico ad insegnare la tili questioni di Fflosofia, Logica, Mo-
possanza degli clementi 4. Roma per rale, e Fisica.Ven. per Andrea Po- 'lo Salvioni
letti. in 4. vediil N.X. fig. (1) o lettere mono. Riflessioni metafisich ecc. Ro
agli eruditissimi Signori disuaprima Serve disecondapar vata Accademiaec.Ven. per
teall'opera data al N. I. Andrea Poletti 4.,ed ivi nuovamente
humano vitam habente ratione tampro- insegne; e continuando inessigiunse
spera et amafficta e valetudinis. Li- a cuoprire l'onore vole posto di Segre
bri tres. Romae in4. ex per Andr. Poletti (sò poscia a Ravenna, d'onde
alloscri. onori, che non versavansi allora con soil Barnabòcon varj discorsi. L'
tanta generosità, perchè al solo meri opera stessa fu ri-stampata in Venezia to
concedevansi. Scorsi pochi mesi di pel Poletti in 4. cuisiag. sua dimora in Firenze,
torna arive giunse una memoria di Seguerdiret de re la patria, da cuisirecò nuova.
ta a P. . mente in Roma sede degli studii lega XIV. Alcuni opuscoli anonimi in
li, verso de'quali Leonecra inclina. Difesadi Alessandro P., Sicretissimo, la quella
Metropoli diporta. dono suoi, esonoin risposta adal-si con tanta saggezza, che divenne
fa tri opuscoli del bresciano Cri- miliare del Duca d'Weda Ambasciado. stoforo Zannettini
già stato scolare del re del Re di Spagna alla Corte romu. Medesimo P.; ed in quelle
dispuna. Ma circostanze politiche, che oscu. tealtri molti opuscolisi videro. Ma
raro no la riputazione di quel poco assennato Ministro, anche ad egli fe delle sue
opere mediche si fe ce altra edizione in Venezia in due cero cambiare partitie
siavviò per volume. Oltregli una carriera diversa. Dopo di averevi Scritti che
a P. indirizzarono sitate alcune delle primarie città d'Ita, Baglivi, e Seguer glilia,
torno a rivedere la patria, e ad fu dedicata la seconda edizione delle una vastissima
suppellettile di cognizio Maschere sceniche del Ficoroni. CONVERSANDO gl’uomini
tra sè, ed avendo in conseguen [ROMA ETCRIS EMANUELE Donde è nico il] za necessità
di COMUNICARE a vicenda i pensieri, e le linguagio degl, a to Cà CO. Uomini
partico idee, che passano intimamente loro nell'ANIMO; nè potendo laze ciò
conseguire in questo mondo sensibile, se non che in virtù di qualche oggetto
atto a muovere i sensi, CONVENNERO DI COMUN CONSENSO ad unire in maniera i loro
pensieri e le loro idee, ancorche al tutto insensibili, a certi SEGNI SENSIBILI,
ed in particolare alle voci, che queste, stimolando per entro agl’orecchi gl’organi
dell'udito, destino con un a tale alte razione nell'ANIMO, di chiode, quei pensieri,
e quelle idee, che concordarono di ESPRIMERE per simili SEGNI, o voci, chiamate
comunemente termini. I termini dunque in logica non sono se non chele semplice voci
inventate dagl’uomini a piacere per esprimere con maniere sensibili le loro
idee insensibili. Di qui è, che nato è tra i popoli ogni linguaggi particolare.
Di cosi fatto linguaggio, e delle idee, che esso esprime, rispetto alle operazioni
dette dell'intelletto, cioè rispetto al raziocinio umano, nel corso del saggio
presente facciamo esatta menzione. Alessandro Pascoli. Keywords: fisiologia,
corpo, galileo, il fuco di Girgenti, Cicerone, Bianchini. Verissimo, non mi
piace medicar le donne, ma non le regine” spiegazione dell’entimema in termini
dell’intenzione dei communicatori – chi da il segno e chi lo receve – il segno
sensibili dell’idea della cosa. Equivoco se il termine e dunque la proposizione
rippresenta due idee. -- Luigi Speranza, “Grice e Pascoli” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Pascoli: decadenza
divina – l’implicatura conversazionale – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (San
Mauro). Filosofo italiano. San Mauro, Forli-Cesena, Emilia-Romagna. Considerato
il maggior filosofo decadente, nonostante la sua formazione principalmente
positivistica. Dal Fanciullino, articolo programmatico, emerge una
concezione intima e interiore del sentimento poetico, orientato alla
valorizzazione del particolare e del quotidiano, e al recupero di una
dimensione infantile e quasi primitiva. D'altra parte, solo il poeta può
esprimere la voce del "fanciullino" presente in ognuno: quest'idea
consente a Pascoli di rivendicare per sé il ruolo, per certi versi ormai
anacronistico, di "poeta vate", e di ribadire allo stesso tempo
l'utilità morale (specialmente consolatoria) e civile della poesia. Egli,
pur non partecipando attivamente ad alcun movimento letterario dell'epoca, né
mostrando particolare propensione verso la poesia europea contemporanea (al
contrario di D'Annunzio), manifesta nella propria produzione tendenze
prevalentemente spiritualistiche e idealistiche, tipiche della cultura di fine
secolo segnata dal progressivo esaurirsi del positivismo. Complessivamente la
sua opera appare percorsa da una tensione costante tra la vecchia tradizione
classicista ereditata da Carducci e le nuove tematiche decadenti. Risulta
infatti difficile comprendere il vero significato delle sue opere più
importanti, se si ignorano i dolorosi e tormentosi presupposti biografici e
psicologici che egli stesso ri-organizzò per tutta la vita, in modo ossessivo,
come sistema semantico di base del proprio mondo poetico e artistico. Nacque
in provincia di Forlì all'interno di una famiglia benestante, quarto dei dieci
figli due dei quali morti molto piccolo di Ruggero P., amministratore
della tenuta La Torre della famiglia dei principi Torlonia, e di Caterina
Vincenzi Alloccatelli. I suoi familiari lo chiamano affettuosamente Zvanì. Il
padre e assassinato con una fucilata, sul proprio calesse, mentre tornava a
casa da Cesena. Le ragioni del delitto, forse di natura politica o forse
dovute a contrasti di lavoro, non sono mai chiarite e i responsabili rimasero
ignoti. Nonostante tre processi celebrati e nonostante la famiglia ha forti
sospetti sull'identità dell'assassino, come traspare evidentemente ne “La
cavalla storna”. Il probabile mandante e infatti Pietro Cacciaguerra (al quale
fa riferimento, senza nominarlo, nella lirica Tra San Mauro e Savignano, possidente
ed esperto fattore da bestiame, che divenne successivamente agente per conto
del principe, co-adiuvando l'amministratore A. Petri, sub-entrato al padre dopo
il delitto. I due sicari, i cui nomi correvano di bocca in bocca in paese, sono
L. Pagliarani detto Bigéca, fervente repubblicano, e M.
Dellarocca, probabilmente fomentati dal presunto mandante. Sempre da lui venne
scritta una poesia in ricordo della notte dell'assassinio del padre, X agosto,
la notte di San Lorenzo, la stessa notte in cui morì il padre.
Sull'intricatissima vicenda del delitto Pascoli è stato pubblicato il saggio “Omicidio
Pascoli”. Il complotto frutto di ricerche negli archivi locali e che, oltre a
pubblicare documentazione inedita, formula l'ipotesi di uncomplotto perpetrato
ai danni dell'amministratore Pascoli. Il trauma lascia segni profondi nel
poeta. La famiglia comincia a perdere gradualmente il proprio stato economico e
successivamente a subire una serie impressionante di lutti, disgregandosi:
costretti a lasciare la tenuta, l'anno successivo morirono la sorella
Margherita di tifo, e la madre per un attacco cardiaco (di "crepacuore",
si disse), il fratello Luigi, colpito da
meningite, e il fratello maggiore Giacomo, di tifo. Da recenti studi anche il
fratello maggiore, che aveva tentato inutilmente di ricostituire il nucleo
familiare a Rimini, potrebbe essere stato assassinato, forse avvelenato.
Giacomo infatti nell'anno in cui morì ricopriva la carica di assessore comunale
e pare conoscesse personalmente coloro che avevano partecipato al complotto per
uccidere il padre, oltre al fatto che i giovani fratelli Pascoli (in
particolare Raffaele e Giovanni) si erano avvici tal punto alla verità sul
delitto da essere minacciati di morte. Le due sorelle Ida e Maria andarono
a studiare nel collegio del convento delle monache agostiniane, a Sogliano al
Rubicone, dove viveva Rita Vincenzi, sorella della madre Caterina e dove
rimasero dieci anni: nel 1882, uscite di convento, Ida e Maria chiesero aiuto
al fratello Giovanni, che dopo la laurea insegnava al liceo Duni di Matera,
chiedendogli di vivere con lui, facendo leva sul senso di dovere e di colpa di
Giovanni, il quale durante i 9 anni universitari non si era più occupato delle
sorelle. Nella biografia scritta dalla sorella Maria, Lungo la vita di Giovanni
Pascoli, il futuro poeta è presentato come un ragazzo solidoe vivace, il cui
carattere non è stato alterato dalle disgrazie; per anni, infatti, le sue
reazioni parvero essere volitive e tenaci, nell'impegno a terminare il liceo e
a cercare i mezzi per proseguire gli studi universitari, nonché nel puntiglio,
sempre frustrato, nel ricercare e perseguire l'assassino del padre. Questo
desiderio di giustizia non sarà mai voglia di vendetta, e Pascoli si pronuncerà
sempre contro la pena di morte e contro l'ergastolo, per motivi principalmente
umanitari. Dopo la morte del fratello Luigi avvenuta per meningite dovette
lasciare il collegio Raffaello dei padri Scolopi di Urbino. Si trasferì a
Rimini, per frequentare il liceo classico Giulio Cesare. Gunse a Rimini assieme
ai suoi cinque fratelli: Giacomo, Raffaele, Alessandro Giuseppe, Ida, Maria (6,
chiamata affettuosamente Mariù. L'appartamento, già scelto da Giacomo ed
arredato con lettini di ferro e di legno, e con mobili di casa nostra, era in
uno stabile interno di via San Simone, e si componeva del pianterreno e del
primo piano», scrive Mariù: «La vita che si conduceva a Rimini… era di una
economia che appena consentiva il puro necessario». Pascoli terminò infine gli
studi liceali a Cesena dopo aver frequentato il ginnasio ed il liceo al
prestigioso Liceo Dante di Firenze, ed aver fallito l'esame di licenza a causa
delle materie scientifiche. Grazie ad una borsa di studio di 600 lire (che
poi perse per aver partecipato ad una manifestazione studentesca) ssi iscrisse
all'Bologna, dove ebbe come docenti G. Carducci e G. Gandino, e diventò amico
del poeta e critico S.Ferrari. Conosciuto A. Costa e avvicinatosi al movimento
anarco-socialista, comincia, a tenere comizi a Forlì e a Cesena. Durante una
manifestazione socialista a Bologna, dopo l'attentato fallito dell'anarchico
lucano G. Passannante ai danni del re Umberto I, lesse pubblicamente un proprio
sonetto dal presunto titolo Ode a Passannante. L'ode venne subito dopo
strappata (probabilmente per timore di essere arrestato o forse pentito,
pensando all'assassinio del padre. Dessa si conoscono solamente gli ultimi due
versi tramandati oralmente. Colla berretta d'un cuoco, faremo una bandiera. La
paternità del componimento e oggetto di controversie. Sia la sorella Maria sia
lo studioso P. Bianconi negano che avesse scritto tale ode. Bianconi la define la
più celebre e citata delle poesie inesistenti della letteratura italiana. Benché
non vi sia alcuna prova tangibile sull'esistenza dell'opera, G. Lolli,
segretario della federazione socialista di Bologna e il suo amico, dichiara di
aver assistito alla lettura e attribue a lui la realizzazione della lirica. Arrestato
per aver partecipato ad una protesta contro la condanna di alcuni anarchici, i
quali erano stati a loro volta imprigionati per i disordini generati dalla
condanna di Passannante. Durante il loro processo urla. Se questi sono i
malfattori, evviva i malfattori! Dopo poco più di cento giorni, esclusa la
maggiore gravità del reato, con sentenza, la Corte d'Appello rinvia gli
imputati P. e U. Corradinidavanti al Tribunale. Il processo, in cui Pascoli era
difeso dall'avvocato Barbanti, ha luogo, chiamato a testimone anche Carducci
che invia una sua dichiarazione. Non ha capacità a delinquere in relazione ai
fatti denunciati. Viene assolto ma attraversa un periodo difficile. Medita il
suicidio ma il pensiero della madre defunta lo fa desistere, come dirà nella
poesia La voce. Alla fine riprende gli studi con impegno. Nonostante le
simpatie verso il movimento anarco-socialista, quando Umberto I venne ucciso da
un altro anarchico, G. Bresci, Pascoli rimase amareggiato dall'accaduto e
compose la poesia Al Re Umberto. Abbandona la militanza politica, mantenendo un
socialismo umanitario che incoraggiasse l'impegno verso i deboli e la concordia
universale tra gli uomini, argomento di alcune liriche: «Pace, fratelli!
e fate che le braccia ch'ora o poi tenderete ai più vicini, non sappiano la
lotta e la minaccia.» (I due fanciulli). Dopo la laurea con una tesi su
Alceo, P. intraprese la carriera di insegnante di latino e greco nei licei di
Matera e di Massa. Dopo le vicissitudini e i lutti, aveva finalmente ritrovato
la gioia di vivere e di credere nel futuro. Ecco cosa scrive all'indomani della
laurea da Argenta: "Il prossimo ottobre andrò professore, ma non so
ancora dove: forse lontano; ma che importa? Tutto il mondo è paese ed io ho
risoluto di trovar bella la vita e piacevole il mio destino". Su
richiesta delle sorelle Ida e Maria, nel convento di Sogliano, riformula il
proprio progetto di vita, sentendosi in colpa per avere abbandonato le sorelle
negli anni universitari. Ecco a tale proposito una lettera di Giovanni scritta
da Argenta, il quale, ripreso dalle sorelle per averle abbandonate, così
risponde: "Povere bambine! Sotto ogni parola di quella vostra
lettera così tenera, io leggevo un rimprovero per me, io intravedevo una
lagrima!." E ancora da Matera il poeta scrive. Amate voi me, che ero
lontano e parevo indifferente, mentre voi vivevate nell'ombra del chiostro. Amate
voi me, che sono accorso a voi soltanto quando escivate dal convento raggianti
di mite contentezza, m'amate almeno come le gentili compagne delle vostre gioie
e consolatrici dei vostri dolori? Iniziato
alla massoneria, presso la loggia "Rizzoli" di Bologna. Il testamento
massonico autografo del Pascoli, a forma di triangolo (il triangolo è un
simbolo massonico), è stato rinvenuto. Insegna a Livorno al Ginnasio-Liceo
"Guerrazzi e Niccolini", nel cui archivio si trovano ancora lettere e
appunti scritti di suo pugno. Inizia la collaborazione con la rivista Vita nuova,
su cui uscirono le prime poesie di Myricae, raccolta che continuò a rinnovarsi
in cinque edizioni. Con le sorelle Ida e Maria Vinse inoltre per ben tredici
volte la medaglia d'oro al Concorso di poesia latina di Amsterdam, col poemetto
Veianus e coi successivi Carmina. E chiamato a Roma per collaborare con il
Ministero della pubblica istruzione. Nella capitale fece la conoscenza di A. Bosis,
che lo invitò a collaborare alla rivista Convito (dove sarebbero infatti
apparsi alcuni tra i componimenti più tardi riuniti nel volume Poemi
conviviali), e di Annunzio, il quale lo stima, anche se il rapporto tra i due filosofi
e sempre complesso. G. Bernardo, a capo del Grande Oriente d'Italia,
esplicitamente dichiara l'appartenenza di P. e Carducci alla massoneria, per un
certo periodo nelle logge. Il nido di Castelvecchio «La nube nel giorno
più nera fu quella che vedo più rosa nell'ultima sera» (Giovanni Pascoli,
La mia sera, Canti di Castelvecchio) Divenuto professore universitario e
costretto dalla sua professione a lavorare in più città (Bologna, Messina e
Pisa), non si radicò mai in esse, preoccupandosi sempre di garantirsi una via
di fuga verso il proprio mondo di origine, quello agreste. Tuttavia il punto di
arrivo sarebbe stato sul versante appenninico opposto a quello da cui proveniva
la sua famiglia. Infatti si trasferì con la sorella Maria nella Media Valle del
Serchio nel piccolo borgo di Castelvecchio nel comune di Barga, in una casa che
divenne la sua residenza stabile quando (impegnando anche alcune medaglie
d'oro vinte al Concorso di poesia latina di Amsterdam) poté
acquistarla. Dopo il matrimonio della sorella Ida con il romagnolo Berti,
matrimonio che il poeta contempla e seguito i vivrà in seguito alcuni mesi di
grande sofferenza per l'indifferenza della sorella Ida nei suoi confronti e le
continue richieste economiche da parte di lei e del marito, vivendo la cosa
come una profonda ferita dopo vinte al Concorso di poesia latina di
Amsterdam poté acquistarla. Dopo il matrimonio della sorella Ida con S. Berti,
matrimonio che contempla e seguito vivrà in seguito alcuni mesi di grande
sofferenza per l'indifferenza della sorella Ida nei suoi confronti e le
continue richieste economiche da parte di lei e del marito, vivendo la cosa
come una profonda ferita dopo vinte al Concorso di poesia latina di
Amsterdam) poté acquistarla. Dopo il matrimonio della sorella Ida con il
romagnolo Sa. Berti, matrimonio che contempl e seguito P. vivrà in seguito
alcuni mesi di grande sofferenza per l'indifferenza della sorella Ida nei suoi
confronti e le continue richieste economiche da parte di lei e del marito,
vivendo la cosa come una profonda ferita dopo anni di sacrifici e dedizione
alle sorelle, a causa delle qualia causa delle quali ha di fatto più volte
rinunciato all'amore. A tale proposito, una vinte al Concorso di poesia latina
di Amsterdam) poté acquistarla. Dopo il matrimonio della sorella Ida con
il romagnolo S. Berti, matrimonio che il poeta aveva contemplato e seguito sin
vivrà in seguito alcuni mesi di grande sofferenza per l'indifferenza della
sorella Ida nei suoi confronti e le continue richieste economiche da parte di
lei e del marito, vivendo la cosa come una profonda ferita dopo mostra dedicata
agli "Amori di Zvanì" e allestita dalla Casa Pascoli nel, getta luce
sulle sue vicende amorose inedite, chiarendo finalmente il suo desiderio più
volte manifestato di crearsi una propria famiglia. Molti particolari della vita
personale, emersi dalle lettere private, furono taciuti dalla celebre
biografia scritta da M. P., poiché giudicati da lei sconvenienti o non
conosciuti. Il fidanzamento con la cugina Imelde Morri di Rimini,
all'indomani delle nozze di Ida, organizzato all'insaputa di Mariù, dimostra
infatti il suo reale intento. Di fronte alla disperazione di Mariù, che non
avrebbe mai accettato di sposarsi, né l'ingerenza di un'altra donna in casa
sua, ancora una volta rinuncerà al proposito di vita coniugale. Si può
affermare che la vita moderna della città non entrò mai, neppure come antitesi,
come contrapposizione polemica, nella sua poesia. In un certo senso, non uscì
mai dal suo mondo, che costituì, in tutta la sua produzione letteraria, l'unico
grande tema, una specie di microcosmo chiuso su sé stesso, come se ha bisogno
di difenderlo da un minaccioso disordine esterno, peraltro sempre innominato e
oscuro, privo di riferimenti e di identità, come lo era stato l'assassino di
suo padre. Sul tormentato rapporto con le sorelle il nido familiare che ben
presto divenne tutto il mondo della sua poesia. Scrive parole di estrema
chiarezza il poeta Mario Luzi. Di fatto si determina nei tre che la disgrazia
ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione
infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Si tratta in ogni
caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi,
anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente
e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno,
che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai
genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di
ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le
piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia,
escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli. In pratica
difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto.
Non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che
tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della
realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e
profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Media Valle del
Serchio dove può, oltre tutto, mimetizzarsi con la natura.» ([M. Luzi])
In particolare si fecero difficili i rapporti con Giuseppe, che mise più volte
in imbarazzo Giovanni a Bologna, ubriacandosi continuamente in pubblico nelle
osterie, e con il marito di Ida, il quale
dopo aver ricevuto in prestito dei soldi da lui, partì per l'America
lasciando in Italia la moglie e le tre figlie. Le trasformazioni politiche
e sociali che agitavano gli anni di fine secolo e preludevano alla catastrofe
bellica europea, gli gettarono progressivamente, già emotivamente provato
dall'ulteriore fallimento del suo tentativo di ricostruzione familiare, in una
condizione di insicurezza e pessimismo ancora più marcati, che lo conduceno in
una fase di depressione e nel baratro dell'alcolismo. Abusa di vino e cognac,
come riferisce anche nelle lettere. Le uniche consolazioni sono la poesia, e il
suo nido di Castelvecchio, dopo la perdita della fede trascendente, cercata e
avvertita comunque nel senso del mistero universale, in una sorta di
agnosticismo mistico, come testimonia una missiva a G. Semeria. Io penso molto
all'oscuro problema che resta. Oscuro. La fiaccola che lo rischiara è in mano
della nostra sorella grande morte. Oh! sarebbe pur dolce cosa il credere che di
là fosse abitato! Ma io sento che le religioni, compresa la più pura di tutte,
la cristiana, sono per così dire, Tolemaiche. Copernico, Galileo le hanno
scosse. Mentre insegnava latino e greco nelle varie università dove aveva
accettato l'incarico, pubblicò anche i volumi di analisi dantesca Minerva
oscura, Sotto il velame e la mirabile visione. Assunse la cattedra di
letteratura italiana a Bologna succedendo a Carducci. Qui ebbe allievi che
sarebbero stati poi celebri, tra cui A. Garzanti. Presenta al concorso indetto
dal Comune di Roma per celebrare il cinquantesimo dell'Unità d'Italia, il poema
latino “Inno a Roma” in cui riprendendo un tema già anticipato nell'ode Al corbezzolo
esalta Pallante come il primo morto per la causa nazionale e poi deposto su
rami di corbezzolo che con i fiori bianchi, le bacche rosse e le foglie verdi,
vengono visti come un'anticipazione della bandiera tricolore. Scoppiata
la guerra italo-turca, presso il teatro di Barga pronuncia il celebre discorso
a favore dell'imperialismo La grande Proletaria si è mossa: egli sostiene
infatti che la Libia sia parte dell'Italia irredenta, e l'impresa sia anche a
favore delle popolazioni sottomesse alla Turchia, oltre che positiva per i
contadini italiani, che avranno nuove terre. Si tratta, in sostanza, non di
nazionalismo vero e proprio, ma di un'evoluzione delle sue utopie socialiste e
patriottiche. Le sue condizioni di salute peggiorano. Il medico gli consiglia
di lasciare Castelvecchio e trasferirsi a Bologna, dove gli viene diagnosticata
la cirrosi epatica per l'abuso di alcool. Nelle memorie della sorella viene
invece affermato che fosse malato di epatite e tumore al fegato. Il certificato di morte riporta come causa un
tumore allo stomaco, ma è probabile fosse stato redatto dal medico su richiesta
di Mariù, che intendeva eliminare tutti gli aspetti che lei giudicava
sconvenienti dall'immagine del fratello, come la dipendenza da alcool, la
simpatia giovanile per Passannante e la sua affiliazione alla Massoneria. La
malattia lo porta infatti alla morte, un Sabato Santo vigilia di Pasqua, nella
sua casa di Bologna, in via dell'Osservanza n. 2. La vera causa del decesso fu
probabilmente la cirrosi epatica. Venne sepolto nella cappella annessa alla sua
dimora di Castelvecchio di Barga, dove sarà tumulata anche l'amata sorella
Maria, sua biografa, nominata erede universale nel testamento, nonché curatrice
delle opere postume. L'ultima dimora dove morì, a Bologna in via
dell'Osservanza n. 2. Sul cancello si può brevi parentesi politiche
della sua vita. Venne arrestato e assolto dopo tre mesi di carcere. L'ulteriore
senso di ingiustizia e la delusione lo riportarono nell'alveo d'ordine del
tutore Carducci e al compimento degli studi con una tesi su Alceo. A
margine degli studi veri e propri, comunque, conduce una vasta esplorazione della
filosofia ttraverso le riviste francesi specializzate come la Revue des deux
Mondes, che lo misero in contatto con l'avanguardia simbolista, e la lettura
dei testi scientifico-naturalistici di Michelet, Fabre e Maeterlinck. Tali testi filosofici
utilizzano la descrizione naturalistica la vita degli insetti soprattutto, per
quell'attrazione per il micro-cosmo così caratteristica del romanticismo
decadente in chiave filosofica. L’sservazione era aggiornata sulle più recenti
acquisizioni filosofiche dovute al perfezionamento del microscopio e della
sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente
attraverso uno stile lirico in cui domina il senso della meraviglia e della
fantasia. E un atteggiamento positivista romanticheggiante che tende a vedere
nella natura l'aspetto pre-cosciente del mondo umano. Coerentemente con
questi interessi, vi fu anche quello per la filosofia dell'inconscio di Hartmann
che apre quella linea di interpretazione della psicologia in senso
anti-meccanicistico che sfociò nella psicanalisi freudiana. È evidente in
queste letture come in quella successiva di J. Sully sulla psicologia
un'attrazione verso il mondo piccolo dei fenomeni naturali e psicologicamente
elementari che tanto fortemente caratterizza tutta la sua poesia. E non solo la
sua. La cultura filosofica ha coltivato un particolare culto per il mondo
dell'infanzia, dapprima, in un senso culturale più generico, poi, con un più
accentuato intendimento psicologico. I Romantici, sulla scia di VICO (si veda)
e di Rousseau, paragonano l'infanzia allo stato primordiale di natura dell'umanità,
inteso come una sorta di età dell'oro. Si comincia ad analizzare in modo
più realistico e scientifico la psicologia, portando l'attenzione del individuo
in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento. La filosofia produce
una quantità considerevole di saggi che costituirono la vera letteratura di
massa. Parliamo delle innumerevoli raccolte di fiabe dei fratelli Grimm di Andersen, di Ruskin, Wilde, Maeterlinck; o
come il capolavoro di Dodgson, Alice nel Paese delle Meraviglie (cf. Pinocchio,
Cuore). Oppure i libri di avventura adatti anche all'infanzia, come i romanzi
di Verne, Kipling, Twain, Salgari, London. Saggi sull'infanzia, dall'intento
moralistico ed educativo, come Senza famiglia di Malot, Il piccolo Lord di Burnett,
Piccole donne di Alcott e i celeberrimi “Cuore” di De Amicis e “Pinocchio” di
Collodi. Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la sua teoria della
poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del fanciullino,
ai riflessi di un vasto ambiente filosofico che e assolutamente maturo per
accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera
novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui sa cogliere un gusto diffuso
e un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all'Italia
manca dall'epoca di Leopardi. Per quanto riguarda il linguaggio, ricerca una
sorta di musicalità evocativa, accentuando l'elemento sonoro del verso, secondo
il modello dei poeti maledetti Verlaine e Mallarmé. La poesia come nido che
protegge dal mondo. La poesia ha natura irrazionale e con essa si può giungere
alla verità di ogni cosa. Il poeta deve essere un poeta-fanciullo che arriva a
questa verità mediante l'irrazionalità e l'intuizione. Rifiuta quindi la
ragione e, di conseguenza, rifiuta il positivismo, che e l'esaltazione della
ragione stessa e del progresso, approdando così al decadentismo. La poesia
diventa così analogica, cioè senza apparente connessione tra due o più realtà
che vengono rappresentate; ma in realtà una connessione, a volte anche un po'
forzata, è presente tra i concetti, e il poeta spesso e volentieri è costretto
a voli vertiginosi per mettere in comunicazione questi concetti. La poesia
irrazionale o analogica è una poesia di svelamento o di scoperta e non di
invenzione. I motivi principali di questa poesia devono essere "umili
cose": cose della vita quotidiana, cose modeste o familiari. A questo si
unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano continuamente
nel “nido”, riproponendo il passato di lutti e di dolori e inibendo al poeta
ogni rapporto con la realtà esterna, ogni vita di relazione, che viene sentita
come un tradimento nei confronti dei legami oscuri, viscerali del nido. Il
duomo, al cui suono della campana si fa riferimento ne L'ora di Barga Nella
vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché
costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo
agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la campagna appare
sempre più come il paradiso perduto dei valori morali e culturali, la città
diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della
degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale.
Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce
dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'Italia rispetto
all'evoluzione industriale delle grandi nazioni europee, sia come conseguenza
della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante
come erano Parigi per la Francia e Londra per l'Inghilterra. I luoghi poetici
della terra, del borgo, dell'umile popolo che ricorrono fino agli anni del
primo dopoguerra non fanno che ripetere il sogno di una piccola patria lontana,che
l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto.
Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se
i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori,
ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive. Scrive al pittore De Witt.
C'è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e
familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è
gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall'immutabile
destino». In questa contrapposizione tra l'esteriorità della vita sociale (e
cittadina) e l'interiorità dell'esistenza familiare e agreste si racchiude
l'idea dominanteaccanto a quella della mortedella poesia pascoliana. Dalla casa
di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio,
non usce più (psicologicamente parlando) fino alla morte. Pur continuando in un
intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, e accettando di
succedere a Carducci sulla cattedra dell'Bologna, egli ci ha lasciato del mondo
una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro",
rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.
Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse
trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo
per costringere le paure e i fantasmi dell'esistenza in un recinto ben
delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni
umane. A questo "recinto" poetico egli lavorò con straordinario
impegno creativo, costruendo una raccolta di versi e di forme che la
letteratura italiana non vedeva, per complessità e varietà, dai tempi di
Chiabrera. La ricercatezza quasi sofisticata, e artificiosa nella sua eleganza,
delle strutture metriche scelte da P. mescolanza di novenari, quinari e
quaternari nello stesso componimento, e così viaè stata interpretata come un
paziente e attento lavoro di organizzazione razionale della forma poetica
attorno a contenuti psicologici informi e incontrollabili che premevano
dall'inconscio. Insomma, esattamente il contrario di quanto i simbolisti
francesi e le altre avanguardie artistiche proclamano nei confronti della
spontaneità espressiva. Frontespizio di un'edizione del discorso
socialista e nazionalista di P. La Grande Proletaria si è mossa, in favore
della guerra di Libia. Anche se l'ultima fase della produzione pascoliana è
ricca di tematiche socio-politiche (Odi e inni, comprendenti gli inni Ad
Antonio Fratti, Al re Umberto, Al Duca degli Abruzzi e ai suoi compagni,
Andrée, nonché l'ode, aggiunta nella terza edizione, Chavez; Poemi italici;
Poemi del Risorgimento; nonché il celebre discorso La grande Proletaria si è
mossa, tenuto in occasione di una
manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c'è dubbio
che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che
comprendono le raccolte di Myricae e dei Canti di Castelvecchio, nei quali il
poeta trae spunto dall'ambiente a lui familiare come la Ferrovia Lucca-Aulla
("In viaggio"), nonché parte dei Poemetti. Il mondo di P. è tutto lì:
la natura come luogo dell'anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei
lutti privati. Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte,
senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un
delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D'altra parte queste
poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c'è visione che più campeggi o
sul bianco della gran nave o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che
quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c'è suono che più si
distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul
canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie. Crescano e
fioriscano intorno all'antica tomba della mia giovane madre queste myricae
(diciamo cesti o stipe) autunnali. Dalla Prefazione di P. ai Canti di
Castelvecchio. Il poeta e il fanciullino. Il poeta è poeta, non oratore o
predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo,
non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del Carducci, un
artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri,
un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il
poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo
col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra. Da Il fanciullino. Uno dei
tratti salienti per i quali è passato alla storia della letteratura è la
cosiddetta poetica del fanciullino, da lui stesso esplicitata nello scritto
omonimo apparso sulla rivista Il Marzocco. Influenzato dalla psicologia di J. Sully
e dalla filosofia dell'inconscio di Hartmann, dà una definizione assolutamente
compiutaalmeno secondo il suo punto di vistadella poesia (dichiarazione
poetica). Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra
il poeta e la sua anima di fanciullino, simbolo: dei margini di purezza e
candore, che sopravvivono nell'uomo adulto. Della poesia e delle
potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell'animo umano.
Caratteristiche del fanciullino. Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e
arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo squillo come di
campanella". "Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai
nostri sensi ed alla nostra ragione". "Guarda tutte le cose con
stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causaeffetto, ma
intuisce. Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose. Riempie ogni oggetto
della propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione),
trasformandolo in simbolo. Una rondine. Gli uccelli e la natura, con precisione
del lessico zoologico e botanico ma anche con semplicità, sono stati spesso
cantati da P. Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice
della metrica poetica, ma: Possiede una sensibilità speciale, che gli
consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli oggetti
più comuni. Comunica verità latenti agli uomini -- è Adamo, che mette nome
atutto ciò che vede e sente (secondo il proprio personale modo di sentire, che
tuttavia ha portata universale). Deve saper combinare il talento della
fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire). Percepisce
l'essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica. La poesia, quindi, è
tale solo quando riesce a parlarecon la voce del fanciullo ed è vista come la
perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione
irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato,
almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. È una realtà
ontologica. Ha scarso rilievo la dimensione storica (trova suoi interlocutori
in Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo. La poesia vive
fuori dal tempo ed esiste in quanto tale. Nel fare poesia una realtà ontologica
(il poeta-microcosmo) si interroga suun'altra realtà ontologica (il
mondo-macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà
circostante senza cheil proprio punto di vista personale e preciso
interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso, tranne in
poche poesie, in cui esplicitamente parla della sua vicenda personale. È vero
che la vicenda autobiografica dell'autore caratterizza la sua poesia, ma con
connotazioni di portata universale: ad esempio la morte del padre viene
percepita come l'esempio principe della descrizione dell'universo, di
conseguenza gli elementi autenticamente autobiografici sono scarsi, in quanto
raffigura il male del mondo in generale. Tuttavia, nel passo XI del fanciullino,
dichiara che un vero poeta è, più che altro, il suo sentimento e la sua visione
che cerca di trasmettere agli altri. Per cui il poeta rrifiuta. Il classicismo,
che si qualifica per la centralità ed unicità del punto di vista del poeta, che
narra la sua opera ed esprime le proprie sensazioni. il Romanticismo, dove il
poeta fa di sé stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia. La poesia,
così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l'uomo e
il poeta. Pascoli fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse
inoltre la collana editoriale "Biblioteca dei Popoli". Il limite
della poesia del P. è costituito dall'ostentata pateticità e dall'eccessiva
ricerca dell'effetto commovente. D'altro canto, il merito maggiore attribuibile
al P. e quello di essere riuscito nell'impresa di far uscire la poesia italiana
dall'eccessiva aulicità e retoricità non solo di Carducci e di Leopardi, ma
anche del suo contemporaneo Annunzio. In altre parole, e in grado di creare
finalmente un legame diretto con la poesia d'Oltralpe e di respiro europeo. La
lingua pascoliana è profondamente innovativa. Essa perde il proprio
tradizionale supporto logico, procede per simboli e immagini, con brevi frasi,
musicali e suggestive. La poesia cosmica L'ammasso aperto delle
Pleiadi nella costellazione del Toro. Lo cita col nome dialettale di Chioccetta
ne Il gelsomino notturno. La visione dello spazio buio e stellato è uno dei
temi ricorrenti nella sua poesia Fanno parte di questa produzione pascoliana
liriche come Il bolide (Canti di Castelvecchio) e La vertigine (Nuovi
Poemetti). Il poeta scrive nei versi conclusivi de Il bolide: "E la terra
sentii nell'Universo. Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella. E mi vidi
quaggiù piccolo e sperso errare, tra le stelle, in una stella". Si tratta
di componimenti permeati di spiritualismo e di panteismo (La Vertigine). La
Terra è errante nel vuoto, non più qualcosa di certo; lo spazio aperto è la
vera dimora dell'uomo rapito come da un vento cosmico. Scrive il critico Getto:
" È questo il modo nuovo, autenticamente pascoliano, di avvertire la
realtà cosmica: al geocentrismo praticamente ancora operante nell'emozione
fantastica, nonostante la chiara nozione copernicana sul piano intellettuale,
del Leopardi, il Pascoli sostituisce una visione eliocentrica o addirittura
galassiocentrica: o meglio ancora, una visione in cui non si dà più un centro
di sorta, ma soltanto sussistono voragini misteriose di spazio, di buio e di
fuoco. Di qui quel sentimento di smarrita solitudine che nessuno ancora prima
del Pascoli aveva saputo consegnare alla poesia". La lingua pascoliana P.
disintegra la forma tradizionale del linguaggio poetico: con lui la poesia
italiana perde il suo tradizionale supporto logico, procede per simboli ed
immagini, con frasi brevi, musicali e suggestive. Il linguaggio è fonosimbolico
con un frequente uso di onomatopee, metafore, sinestesie, allitterazioni,
anafore, vocaboli delle lingue speciali (gerghi). La disintegrazione della
forma tradizionale comporta "il concepire per immagini isolate (il
frammentismo), il periodo di frasi brevi e a sobbalzi (senza indicazione di
passaggi intermedi, di modi di sutura), pacatamente musicali e suggestive; la
parola circondata di silenzio. Ha rotto la frontiera tra grammaticalità e
evocatività della lingua. E non solo ha infranto la frontiera tra
pregrammaticalità e semanticità, ma ha anche annullato "il confine tra
melodicità ed icasticità, cioè tra fluido corrente, continuità del discorso, e
immagini isolate autosufficienti. In una parola egli ha rotto la frontiera
fra determinato e indeterminato". Pascoli e il mondo degli animali In
un'epoca storica in cui il mondo degli animali rappresenta un'entità assai
ridotta nella vita degli uomini e dei loro sentimenti, quasi esclusivamente
relegato agli aspetti di utilizzo pratico e di supporto al lavoro, soprattutto
agricolo, P. riconosce la loro dignità e squarcia un'originale apertura
sull'esistenza delle specie animali e sul loro originale mondo di relazioni.
Come scrive Solfanelli, P. si avvede assai presto che il suo amore per la
natura gli permette di vivere le esperienze più appaganti, se non fondamentali,
della sua vita. Lui vede negli animali delle creature perfette da rispettare,
da amare e da accudire al pari degli esseri umani; infatti, si relaziona con
essi, ci parla di loro e, spesso, prega affinché possano avere un'anima per poterli
rivedere un giorno. Saggi: “Myricae” (Livorno, Giusti); “Lyra romana ad uso
delle scuole classiche” (Livorno, Giusti, -- antologia di scritti latini per la
scuola superiore – “Pensieri sull'arte poetica, ne Il Marzocco (meglio noto come Il fanciullino) Iugurtha.
Carmen Johannis Pascoli ex castro Sancti Mauri civis liburnensis et Bargaei in
certamine poetico Hoeufftiano magna laude ornatum, Amstelodami, Apud Io.
Mullerum, (poemetto latino) “Epos” (Livorno, Giusti); (antologia di autori
latini) Poemetti, Firenze, Paggi, “Minerva oscura. Prolegomeni: la costruzione
morale del poema di Dante” (Livorno, Giusti); “Intorno alla Minerva oscura” (Napoli,
Pierro); “Sull’imitare. Poesie e prose per la scuola italiana (Milano-Palermo,
Sandron). (antologia di poesie e prose per la scuola), “Sotto il velame. Saggio
di un'interpretazione generale del poema sacro” (Messina, Vincenzo Muglia); “Fior
da fiore. Prose e poesie scelte per le scuole secondarie inferiori”
Milano-Palermo, Sandron, (antologia di
prose e poesie italiane per le scuole medie); “La mirabile visione. Abbozzo d'una
storia della Divina Comedia” (Messina, Vincenzo Muglia); “Canti di
Castelvecchio, Bologna, Zanichelli); “Primi poemetti, Bologna, Zanichelli); “Poemi
conviviali, Bologna, Zanichelli, Odi e
Inni. Bologna, Zanichelli, Pensieri e discorsi. Bologna, Zanichelli, Nuovi
poemetti” (Bologna, Zanichelli); “Canzoni di re Enzio La canzone del Carroccio”
(Bologna, Zanichelli); “La canzone del Paradiso” (Bologna, Zanichelli); “La
canzone dell'Olifante” (Bologna, Zanichelli); “Poemi italici” (Bologna,
Zanichelli); “La grande proletaria si è mossa -- iscorso tenuto a Barga per i
nostri morti e feriti (La Tribuna); “Poesie varie, Bologna, Zanichelli); “Poemi
del Risorgimento, Bologna, Zanichelli); “Patria e umanità. Raccolta di scritti
e discorsi” (Bologna, Zanichelli); Carmina” (Bononiae, Zanichelli); (poesie
latine) Nell'anno Mille. Dramma” (Bologna, Zanichelli); (dramma incompiuto) Nell'anno
Mille. Sue notizie e schemi di altri drammi” (Bologna, Zanichelli); “Antico
sempre nuovo. Scritti vari di argomento latino” (Bologna, Zanichelli). “Myricae”
è la prima vera e propria raccolta delle sue poesie, nonché una delle più
amate. Il titolo riprende una citazione di Virgilio all'inizio della IV
Bucolica in cui il poeta latino proclama di innalzare il tono poetico poiché
"non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici" (non omnes
arbusta iuvant humilesque myricae). Pascoli invece propone
"quadretti" di vita campestre in cui vengono evidenziati particolari,
colori, luci, suoni i quali hanno natura ignota e misteriosa. Crebbe per il
numero delle poesie in esso raccolte. La sua prima edizione, raccoglie soltanto
22 poesie dedicate alle nozze di amici. La raccolta definitiva comprendeva 156
liriche del poeta. I componimenti sono dedicati al ciclo delle stagioni, al
lavoro dei campi e alla vita contadina. Le myricae, le umili tamerici,
diventano un simbolo delle tematiche del P. ed evocano riflessioni
profonde. La descrizione realistica cela un significato più ampio così
che, dal mondo contadino si arriva poi ad un significato universale. La
rappresentazione della vita nei campi e della condizione contadina è solo
all'apparenza il messaggio che il poeta vuole trasmettere con le sue opere. In
realtà questa frettolosa interpretazione della poetica pascoliana fa da
scenario a stati d'animo come inquietudini ed emozioni. Il significato delle
Myricae va quindi oltre l'apparenza. Compare la poesia Novembre, mentre nelle
successive compariranno anche altri componimenti come L'Assiuolo. P. ha
dedicato questa raccolta alla memoria di suo padre ("A Ruggero P., mio
padre"). La poesia-pensiero del profondo attinge all'inconscio e tocca
all'universale attraverso un mondo delle referenze condiviso da tutti. Anche
autore di poesie in lingua latina e con esse vinse per ben tredici volte il
Certamen Hoeufftianum, un prestigioso concorso di poesia latina che annualmente
si teneva ad Amsterdam. La produzione latina accompagnò il poeta per tutta la
sua vita: dai primi componimenti scritti sui banchi del collegio degli Scolopi
di Urbino, fino al poemetto Thallusa, la cui vittoria il poeta apprese solo sul
letto di morte. In particolare, l'anno
1892 fu insieme l'anno della sua prima premiazione con il poemetto “Veianus” e
l'anno della stesura definitiva delle Myricae. Tra la sua produzione latina, vi
è anche il carme alcaico Corda Fratres, inno della confraternita studentesca
meglio nota come Corda Fratres. Ama molto il latino, che può essere considerato
la sua lingua del cuore. Il poeta scriveva in latino, prendeva appunti in
latino, spesso pensava in latino, trasponendo poi espressioni latine in
italiano; la sorella Maria ricorda che dal suo letto di morte P. parlò in
latino, anche se la notizia è considerata dai più poco attendibile, dal momento
che la sorella non conosceva questa lingua. Per lungo tempo la produzione
latina pascoliana non ha ricevuto l'attenzione che merita, essendo stata
erroneamente considerata quale un semplice esercizio del poeta. In quegli anni
non era infatti l'unico a cimentarsi nella poesia latina (G. Giacoletti, un
insegnante nel collegio degli Scolopi di Urbino frequentato da lui, vinse
l'edizione del Certamen con un poemetto sulle locomotive a vapore. Ma lo fa in
maniera nuova e con risultati, poetici e linguistici, sorprendenti.
L'attenzione verso questi componimenti si accese con la raccolta curata da E. Pistelli
col saggio di A. Gandiglio. Esistono
delle traduzioni in lingua italiana delle sue poesie latine quali quella curata
da M. Valgimigli o le traduzioni di E. Mandruzzato. Tuttavia la produzione
latina ha un significato fondamentale, essendo coerente con la poetica del
Fanciullino, la cifra del pensiero pascoliano. In realtà, la poetica del
Fanciullino è la confluenza di due differenti poetiche: la poetica della
memoria e la poetica delle cose. Gran parte della poesia pascoliana nasce dalle
memorie, dolci e tristi, della sua infanzia. Ditelo voi, se la poesia non è
solo in ciò che fu e in ciò che sarà, in ciò che è morto e in ciò che è sogno!
E dite voi, se il sogno più bello non è sempre quello in cui rivive ciò che è
morto". Pascoli dunque intende fare rivivere ciò che è morto, attingendo non
solo al proprio ricordo personale, bensì travalica la propria esperienza,
descrivendo personaggi facenti parte anche dell'evo antico: infanzia e mondo
antico sono le età nelle quali l'uomo vive o è vissuto più vicino ad una sorta
di stato di natura. "Io sento nel cuore dolori antichissimi, pure ancor
pungenti. Dove e quando ho provato tanti martori? Sofferto tante ingiustizie?
Da quanti secoli vive al dolore l'anima mia? Ero io forse uno di quegli schiavi
che giravano la macina al buio, affamati, con la museruola?".
Contro la mortedelle lingue, degli uomini e delle epocheil poeta si appella
alla poesia: essa è la sola, la vera vittoria umana contro la morte.
"L'uomo alla morte deve disputare, contrastare, ritogliere quanto
può". Ma da ciò non consegue di necessità l'uso del latino. Qui
interviene l'altra e complementare poetica pascoliana: la poetica delle cose.
"Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l'arpa che un soffio
anima, è la lastra che un raggio dipinge. La poesia è nelle cose". Ma
questa aderenza alle cose ha una conseguenza linguistica di estrema importanza,
ogni cosa deve parlare quanto più è possibile con la propria voce: gli esseri
della natura con l'onomatopea, i contadini col vernacolo, gli emigranti con
l'italo-americano, Re Enzio col bolognese del Duecento; i Romani, naturalmente,
parleranno in latino. Dunque il bilinguismo di Pascoli in realtà è solo una
faccia del suo plurilinguismo. Bisogna tenere conto anche di un altro elemento:
il latino del Pascoli non è la lingua che abbiamo appreso a scuola. Questo è
forse il secondo motivo per il quale la produzione latina pascoliana è stata
per anni oggetto di scarso interesse: per poter leggere i suoi poemetti latini
è necessario essere esperti non solo del latino in generale, ma anche del
latino di Pascoli. Si è già fatto menzione del fatto che nello stesso periodo,
e anche prima di lui, altri autori avevano scritto in latino; scrivere in
latino per un moderno comporta due differenti e contrapposti rischi. L'autore
che si cimenti in questa impresa potrebbe, da una parte, incappare nell'errore
di esprimere una sensibilità moderna in una lingua classica, cadendo in un
latino maccheronico; oppure potrebbe semplicemente imitare gli autori classici,
senza apportare alcuna novità alla letteratura latina. Pascoli invece
reinventa il latino, lo plasma, piega la lingua perché possa esprimere una
sensibilità moderna, perché possa essere una lingua contemporanea. Se oggi noi
parlassimo ancora latino, forse parleremmo il latino di P. (cfr. A. Traina,
Saggio sul latino del Pascoli, Pàtron). Numerosi sono i componimenti, in genere
raggruppati in diverse raccolte secondo l'edizione del Gandiglio, tra le quali:
Poemata Christiana, Liber de Poetis, Res Romanae, Odi et Hymni. Due sembrano
essere i temi favoriti del poeta: Orazio, poeta della aurea mediocritas, che
Pascoli sentiva come suo alter ego, e le madri orbate, cioè private del loro
figlio (cfr. Thallusa, Pomponia Graecina, Rufius Crispinus). In quest'ultimo
caso il poeta sembra come ribaltare la sua esperienza personale di orfano,
privando invece le madri del loro ocellus ("occhietto", come Thallusa
chiama il bambino). I “Poemata Christiana” sono da considerarsi il suo
capolavoro in lingua latina. In essi Pascoli traccia, attraverso i vari
poemetti, tutti in esametri, la storia del Cristianesimo in Occidente: dal
ritorno a Roma del centurione che assistette alla morte di Cristo sul Golgota
(Centurio), alla penetrazione del Cristianesimo nella società romana, dapprima
attraverso gli strati sociali di condizione servile (Thallusa), poi attraverso
la nobiltà romana “(Pomponia Graecina”), fino al tramonto del paganesimo (“Fanum
Apollinis”). La sua biblioteca e il suo archivio sono conservati sia
nella Casa museo Pascoli a Castelvecchio Pascoli frazione di Barga, sia nella
Biblioteca statale di Lucca. A San Mauro la sua casa natale è sede di un museo
dedicato alla sua memoria e dichiarata Monumento nazionale. Gli vengono
dedicate importanti iniziative in tutta la Penisola. Viene coniata una moneta
celebrativa da due euro con l'effige del Poeta. Il delitto Ruggero Pascoli Omicidio
Pascoli. Il complotto (Mimesis) F.
Biondolillo, La poesia, Maria P., Autografo Memorie, Alice Cencetti, una biografia critica, Le Lettere, G.
Pascoli, L'avvento, in Pensieri e discorsi: «Che è? siamo malfattori anche noi?
Oh! no: noi non vorremmo vedere quelle catene, quella gabbia, quelle armi nude
intorno a quell'uomo; vorremmo non sapere ch'egli sarà chiuso, vivo, per anni e
anni e anni, per sempre, in un sepolcro; vorremmo non pensare ch'egli non
abbraccerà più la donna che fu sua, ch'egli non vedrà più, se non reso
irriconoscibile e ignominioso dall'orrida acconciatura dell'ergastolo, i figli
suoi... Ma egli ha ucciso, ha fatto degli orfani, che non vedranno più affatto
il loro padre, mai, mai, mai! E vero: punitelo! è giusto! Ma non si
potrebbe trovare il modo di punirlo con qualcosa di diverso da ciò ch'egli
commise?... Così esso assomiglia troppo alle sue vittime! Così andranno sopra
lui alcune delle lagrime che spettano alle sue vittime! Le sue vittime vogliono
tutta per loro la pietà che in parte s'è disviata in pro' di lui. Non essere
così ragionevole, o Giustizia. Perdona più che puoi. Più che posso? Ella dice
di non potere affatto. Se gli uomini, ella soggiunge, fossero a tal grado di
moralità da sentire veramente quell'orrore al delitto, che tu dici, si potrebbe
lasciare che il delitto fosse pena a sè stesso, senza bisogno di mannaie e catene,
di morte o mortificazione. Ma... Ma non vede dunque la giustizia che
quest'orrore al delitto gli uomini lo mostrano appunto già assai, quando
abominano, in palese o nel cuore, il delitto anche se è dato in pena d'altro
delitto, ossia nella forma in cui parrebbe più tollerabile?» La storia dell'I.I.S. Raffaello. Bulferetti, L'uomo,
il maestro, il poeta, Libreria Editrice Milanese, Piero Bianconi, P., Morcelliana, Giuseppe
Galzerano, Giovanni Passannante, Casalvelino Scalo, Ugoberto Alfassio Grimaldi,
Il re "buono", Feltrinelli, Per approfondire gli anni giovanili del
Poeta e l'impegno politico vedi: R. Boschetti, "Il giovane. Attraverso le
ombre della giovinezza", realizzato
in occasione della mostra omonima allestita presso il Museo Casa P. di San
Mauro P. Per approfondire gli anni di
ricostruzione del "nido" con le sorelle e scoprire nuovi elementi che
aggiornino la vecchia idea tramandata dalla sorella Mariù, in base alla quale
il principale desiderio del fratello era quello di ricostruire la famiglia con
le sorelle, senza alcuno slancio amoroso verso l'esterno, si veda: Rosita
Boschetti, Gori, U. Sereni "Vita immagini ritratti", Parma, Step. Il rinvenimento è opera di G. Ruggio,
Conservatore di casa P. a Castelvecchio, il documento fu acquistato dal Grande
Oriente d'Italia ad un'asta di manoscritti storici della casa Bloomsbury, e la
notizia fu resa nota al grande pubblico per la prima volta ne Il Corriere della
Sera, Filmato audio S. Ruotolo e G. Bernardo,
Massoneria, politica e mafia. L'ex-Gran Maestro: "Ecco i segreti che non
ho mai rivelato a nessuno", fanpage al minuto 2:28. Citazione: La loggia
P2 non è stata inventata da Gelli, ma risale alla seconda metà dell'Ottocento
in cui il Gran Maestro per dare una certa riservatezza a personaggi che erano i
vertici del Governo, i militari di altissimo livello, poeti come Carducci e P.
Si disse: «evitiamo che questi personaggi svolgano la loro attività massonica
nelle logge, almeno per evitare un fastidio»
Vi fu professore straordinario di grammatica greca e latina,Vi insegnò
letteratura latina come Professore. Fu nominato professore di grammatica greca
e latina. Le date sulle docenze
universitarie sono prese da Perugi, "Nota biografica", in P., Opere,
tomo I, Milano-Napoli: Ricciardi, Rosita Boschetti, P. innamorato: la vita
sentimentale del poeta di San Mauro: catalogo, San Mauro Pascoli, Comune,. Cfr. sempre Boschetti, op. cit, pag. 28. Scrive
da Matera a Raffaele la lista delle sue spese. 65 lire al mese per mangiare, 25
per dormire, 7 alla serva, 2 al casino (necessità), 15 in libri (più che
necessità)». Fondazione P.: la vita, Ruggio, P. Tutto il racconto della vita
tormentata di un grande poeta Vittorino
Andreoli, I segreti di casa Pascoli, recensione qui Testo dell'"Inno a Roma" Testo di "Al corbezzolo" Fondazione P.: la vita, Maria Pascoli, Lungo la vita di P.
Pascoli: il lutto, il triangolo, il classico e il decadentista. Andreoli, op.
cit Maria Pascoli, Lungo la vita (Milano,
Mondadori); Getto, poeta astrale, in "Studi per il centenario della
nascita di P.". Commissione per i testi di lingua, Bologna, Fondazione Giovanni
Pascoli Nuovi poemetti, Schiaffini, Disintegratore della forma poetica
tradizionale, in "Omaggio a P.",
G. Contini, Il linguaggio di Pascoli, in "Studi pascoliani",
Lega, Faenza, Maria Cristina Solfanelli, Gli animali da cortile, Chieti, Tabula
fati,. Vegliante. Alberto Fraccacreta, Le ninfe di Vegliante,
su Succedeoggi. Santo, Cammei Pascoliani: analisi, illustrazione, esegèsi dei
carmi latini e greci minori di P., Giacoletti, De lebetis materie et forma
eiusque tutela in machinis vaporis vi agentibus carmen didascalicum,
Amstelodami: C. G. Van Der Post, Ioannis Pascoli carmina; collegit Maria soror;
edidit H. Pistelli; exornavit A. De Karolis, Bononiae: Zanichelli, Ioannis
Pascoli Carminibus; mandatu Maria sororis recognitis; appendicem criticam
addidit Adolphus Gandiglio, Bononiae: sumptu Zanichelli); Poesie latine; Manara
Valgimigli, Milano: A. Mondadori, Giovanni Pascoli, Poemi cristiani;
introduzione e commento di Alfonso Traina; traduzione di Enzo Mandruzzato,
Milano: Biblioteca universale Rizzoli, Carte pascoliane della Biblioteca
Statale di Lucca, su//pascoli.archivi.beniculturali/. Museo di Casa Pascoli, su
polomusealeemiliaromagna. beniculturali. Regio Decreto Legge, Gazzetta
Ufficiale del Regno d'Italia, Franceschi, Giovanni Pascoli: cento anni fa
moriva il massimo autore latino dell'età moderna, in Il Sole 24 ORE, Gargano,
Poeti viventi italiani: G"Vita Nuova", Gargano, Saggi di ermeneutica.
Del Simbolo (Sul "Vischio" di P.), in "Il Marzocco" Gargano,
Poesia italiana contemporanea, in "Il Marzocco", G.S. Gargano, I
"Canti di Castelvecchio", in "Il Marzocco", G.S. Gargano, I
"Canti di Castelvecchio", in "Il Marzocco", G.S. Gargano, I
"Canti di Castelvecchio", in "Il Marzocco", Emilio Cecchi,
La poesia, Napoli, Ricciardi, Croce, Studio critico, Bari, Laterza, G.
Debenedetti, Statura di poeta, in
Omaggio a Giovanni Pascoli nel centenario della nascita, Milano,
Mondadori, Walter Binni, P. e il decadentismo, in Omaggio a Giovanni Pascoli nel centenario
della nascita, Mondadori, Piromalli, La poesia di P., Pisa, Nistri Lischi, Gianfranco
Contini, Il linguaggio di Pascoli, in Studi pascoliani, Faenza, Lega (poi in Id., Varianti e altra linguistica,
Torino, Einaudi, Maria Pascoli, Lungo la
vita di Giovanni Pascoli, Milano, Mondadori); Giuseppe Fatini, Il D'Annunzio e P.
e altri amici, Pisa, Nistri Lischi, Giannangeli, Le fonti spaziali del Pascoli,
in "Dimensioni", Ottaviano Giannangeli, La metrica pascoliana, in
"Dimensioni", Luigi Baldacci, "Introduzione", in G. Pascoli,
Poesie, Milano, Garzanti); Giannangeli, Pascoli e lo spazio, Bologna, Cappelli,
Maura Del Serra, Firenze, La Nuova Italia ("Strumenti", Debenedetti, P.:
la rivoluzione inconsapevole, Milano, Garzanti, 1Gianni Oliva, I nobili
spiriti. Pascoli, D'Annunzio e le riviste dell'estetismo fiorentino, Bergamo,
Minerva Italica, Fabrizio Frigerio, Un esorcismo pascoliano. Forma e funzione
dell'onomatopeia e dell'allitterazione ne "L'uccellino del freddo",
in "Bloc notes", Bellinzona, Vicario, La presenza di VIRGILIO in
Carducci e P., in Il richiamo di Virgilio nella poesia italiana, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, E. Sanguineti, Poesia e poetica/ Atti del
Convegno di studi pascoliani/ San Mauro, 1-Comune di San Mauro P./ Comitato per
le onoranze a Giovanni Pascoli, Rimini, Maggioli, Pavarini, Pascoli e il
silenzio meridiano (Dall'argine), in "Lingua e stile", Stefano
Pavarini, Pascoli tra voce e silenzio: Alba festiva, in "Filologia e
Critica", Maura Del Serra, Voce Pascoli, in Il Novecento, Milano, Vallardi, Benedetto,
Frammenti su "Digitale purpurea" nei "Primi poemetti" di
Pascoli", in Poesia e critica del Novecento, Napoli, Liguori, Ruggio, Pascoli:
tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta, Milano, Simonelli, Franco
Lanza, scritti editi ed inediti, Bologna, Boni, Marina Marcolini, Pascoli
prosatore: indagini critiche su "Pensieri e discorsi", Modena,
Mucchi, Maria Santini, Candida Soror: tutto il racconto della vita di Mariù
Pascoli la più adorata sorella del poeta della Cavalla storna, Milano,
Simonelli, Le Petit Enfant trad. dall'italiano, introd. e annotato da
Levergeois (prima edizione francese del Fanciullino in Francia), Parigi, Maule,
"L'Absolu Singulier", Mazzanti, I segreti del "nido". Le
carte di Giovanni e Maria Pascoli a Castelvecchio, in Castagnola, Archivi
letterari del '900, Firenze, Cesati, Martelli, Pascoli, tra rima e sciolto,
Firenze, Società Editrice Fiorentina, Pietro
Montorfani e Federica Alziati, Giovanni Pascoli, Bologna, Massimiliano
Boni, Massimo Rossi, Giovanni Pascoli
traduttore dei poeti latini, in "Critica Letteraria", Mario
Buonofiglio, Lampi e cortocircuiti. Il linguaggio binario ne "Il
lampo" di Giovanni Pascoli, in "Il Segnale", ora disponibile in Academia Andrea Galgano, Di
là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido, Roma, Aracne editrice,
Colella, "Conducendo i sogni, echi e fantasmi d'opere canore".
Pascoli, Dandolo e l'onirismo 'conviviale', in "Rivista Pascoliana", Vegliante,
L'impensé la poésieChoix de poèmes, Sesto
San Giovanni, Mimésis,. Accademia
Pascoliana; Ruggero Pascoli Decadentismo Digitale purpurea Giosuè Carducci
Gabriele D'Annunzio Severino Ferrari Luigi d'Isengard Augusto Vicinelli
Socialismo utopico Thallusa. Treccani Dizionario biografico degli italiani -- italiana di Giovanni Pascoli, su Catalogo
Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. nello specchio delle sue carte. Fondazione
Giovanni Pascoli. Giuseppe Bonghi. testi
con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza Manara Valgimigli,
Poesie latine, Mondadori, Casa Pascoli. "Poemi
conviviali". CROCE, P. STUDIO
CRITICO BARI LATERZA TIPOGRAFI EDITORI L1BRAI PROPRIETÀ LETTERARIA. AVVERTENZA.
La buona accoglienza fatta alla ristampa
in volume separato del saggio su Carducci
ci muove a
ristampare nella stessa
forma il saggio
che su P. Croce raccole nella sua Letteratura della
nuova Italia. Abbiamo
fatto seguire ad
esso la risposta
che Croce fa
ai suoi critici,
e due saggi nei
quali egli ritorna
sul suo vecchio
giudizio per ribadirlo
e particolareggiarlo. In
appendice è un cenno
e un saggio
delle discussioni sollevate
di recente su P., a
proposito di questi
scritti del Croce. Leggo
alcune delle più
celebrate poesie di P.,
e ne provo
una strana impressione. Mi piacciono?
mi spiacciono? SI,
no: non so.
Non mi smarrisco
per questo, e
non me la
prendo né con
la insufficienza mia né con
quella del poeta.
So bene che
il giudizio dell'arte,
benché si fondi sulla
ingenua impressione, non
si esaurisce nelle
cosiddette prime impressioni,
e che Ruggero
Bonghi fraintese quando
scambiò e criticò
Tuna per le
altre, la logica
della fan- tasia per
la illogica del
capriccio. E so
bene che artisti
assai energici disorientano,
alla prima, il
lettore: s'impegna come
una lotta tra
l'anima conquis tatrice e
un'altra che non
vuole — eppur
vuole, — lasciarsi
conquistare: lotta di
amori estetici, arieggiante
quasi quella dei
sessi che corre
attraverso tutto il
mondo animale e
che testé il
De Gourmont ci ha descritta
in un suo libro
popolare. Dunque, non
mi smarrisco, mi
rimetto all'opera, rileggo
e rileggo ancora.
Ma, per quanto
rilegga, per quanto
torni a quella
lettura dopo lunghe
pause, la strana
perplessità si rinnova.
Odi et amo:
come mai? Nescio:
sed fieri sentio
et excrucior. Non
è poeta grande
colui che ha
concepito / due
cugini? I due
bambini giocano tra
loro, e si
amano: quando si
vedono, corrono, anzi
volano l'uno verso
l'altro, con tale
impeto di gioiosità
infantile abbracciandosi, che
i loro ber-
retti cascano e
i capelli biondi
mescolano i riccioli. Ma
quei giuochi, quegli
amori sono spezzati: l'uno dei
due, il maschietto,
muore: appassi come
rosa che in
boccio appassisce nell'orto.
E l'altra resta
legata a lui:
è «la piccola
sposa del piccolo
morto ». La
bambina cresce: si
cresce rapidamente in
quegli anni: si
fa giovinetta, già
quasi donna. Ma
l'altro no: si
è fermato: colà
dove l'hanno deposto,
non si cresce.
Sembra che, quando
rivede la sua
cuginetta, che si
svolge e fiorisce
col misterioso irrefrenabile
impulso della vita
e del sesso,
egli le stia
innanzi tra mera-
vigliato, smarrito e umiliato:
col capo non
giunge al seno
tuo nuovo, che
ignora. Quella l'ama
sempre: sempre le
par di udir
intorno a sé «
la fretta dei
taciti piedi». Ma
il morto non
le sorride: la
giovinetta fiorente non
è più, per
lui, la compagna
di una volta;
sente che gli
è sfuggita, che
non gli appartiene
più: piangendo l'antica
sventura, tentenna il suo capo
di bimbo. Movimenti
ed immagini di
grande bellezza, cer-
tamente. Ma, per un
altro verso, già
nel metro adottato,
la terzina di
novenari, si avverte
qual- cosa non saprei
se di ba llato
o di ansimante,
che stona con
la calma sospirosa
e dolorosa del
piccolo idillio triste.
La struttura generale
è spiacevolmente simmetrica:
divisa in tre
parti, che paiono
le tre proposizioni
di un sillogismo.
Il principio è
un ex-abrupto, non
libero di enfasi
o di teatralità:
S'amavano i bimbi
cugini; l'immagine, che
segue, è leziosa:
pareva l'incontro di
loro l'incontro di
due lucherini. L'insistenza
è soverchia, e
anche di effetti
tor- bidi. È stupendamente
detto: Tu, piccola
sposa, crescesti; man
mano intrecciavi i
capelli, man mano
allungavi le vesti.
E il crescere
veduto realisticamente, ma
soffuso di gentilezza:
non ci vorrebbe
altro. Ma no:
il metro continua
per suo conto:
Crescevi sott'occhi che
negano ancora; ed
i petali snelli
cadevano: il fiore
già lega: fatica
di paragoni, che
ottenebra e non
potenzia l'immagine già
perfettamente determinata. E
il metro continua
ancora, come un
cavallo che, nonostante
gli abbiate fatto
sentire il morso,
vi trasporta per
un altro tratto
di via, che
non si doveva
percorrere: Ma l'altro
non crebbe. Dal
mite suo cuore,
ora, senza perchè,
fioriscono le margherite
e i non
ti scordare di
me; dove quel
senza perchè mi
sembra davvero senza
perchè; e la
fiorita sulla tomba
è roba vieta,
resa più vieta
ancora dalla romanticheria
di quei «
non ti scordare
di me »,
che cascano mollemente
formando la chiusa
del paragrafetto. Ahi!
lo specchio tersissimo
si è appannato:
il capolavoro è rimasto
a mezzo, come
rosa che in
boccio appassisce nell'orto.
Valentino è un
altro bambino. Solo
un occhio di
poeta può scoprire
e far valere
un'immagine tanto graziosa.
È un contadinello
tutto vestito di
nuovo, ma a
piedi scalzi: la
madre, che lo
ha visto tremar
di freddo durante
il gennaio, ha
messo da parte
a soldo a
soldo un piccolo
gruzzolo; e il
gruzzolo è bastato
per comprare il
panno della veste
e non già
anche per la
spesa delle scarpe:
il grande sforzo
di quella veste lo
ha esaurito: Costa
: che mamma
già tutto ci
spese, quel tintinnante
salvadanaio: ora esso
è vuoto, e
cantò più d'un
mese, per riempirlo,
tutto il pollaio.
Un solo aggettivo
ben collocato è
atto a sugge-
rire una serie d'immagini:
quasi si vede
la povera donna, che
scuote e fa
«tintinnare» il rozzo
salvadanaio di creta,
per accertarsi del
tesoretto che vi
ha accumulato con
tanto stento: é
tu, magro contadinello,
restasti a mezzo,
così, con le
penne, ma nudi
i piedi come
un uccello... La
figura si raggentilisce
in questo sorriso,
fatto d'intenerimento: il
contadinello è magro,
diventa leggiero, si
associa naturalmente all'immagine
dell'uccello. Come un
uccello, egli non
prova impaccio né
sente il ridicolo
del suo abbigliamento a mezzo:
come l'uccello venuto
dal mare, che
tra il ciliegio
salta, e non
sa ch'oltre il
beccare, il cantare,
l'amare, ci sia
qualch'altra felicità. Capolavoro?
Neppur qui. Io
ho riferito versi
e strofe singole,
trascegliendo nel piccolo
com- ponimento. Ma, se
ve l'avessi letto
intero, ve ne
avrei dato forse
un concetto assai
minore. Lascio stare
il lungo ricamo
che P. fa
sul particolare dei piedini
nudi. Piedini nudi, dice
tutto; ma P.,
invece, non senza
giuoco di parole:
solo ai piedini
provati dal rovo
porti la pelle
dei tuoi piedini. E
non si contenta:
porti le scarpe
che mamma ti
fece, che non
mutasti mai da
quel dì, che
non costarono un
picciolo... Insopportabile è,
che faccia poi
un simile ricamo
anche al pollaio,
che aveva cosi
bene e sobriamente evocato: e
le galline cantavano:
Un cocco! ecco
ecco un cocco
un cocco per
te! Il delicato
poeta si è
messo a rifare
il verso ai
polli! E si
resta con quel
grido fastidioso negli
orecchi, che pur
non fa dimenticare
del tutto il
«tintinnante salvadanaio». Non
meno originale, ossia
poetico, è il
Sogno della vergine.
Anche la donna
che non ha
avuto figli, la
vergine, è una
madre, madre in
potenza: esistono non
solo i figli
che sono nati,
ma i «
tigli non nati»,
bella immagine che P.
ha, a quanto
credo, creata lui,
e che ritorna
in molti suoi
versi. La vergine
dorme, e la
madre che è in lei
sogna in quel
sonno: il sangue,
che scorre per le sue
membra, le si
trasmuta e addolcisce
come in latte:
Stupisce le placide
vene quel flutto
soave e straniero,
quel rivolo labile,
lene, d'ignota sorgente,
che sembra che
inondi di blando
mistero le pie
sigillate sue membra. La
vaga aspirazione si
concreta in un
piccolo essere: il
sogno s'intensifica: accanto,
ella sente un
alito, un piccolo
vagito: Un figlio!
che posa sul
letto suo vergine!
e cerca assetato
le fonti del
vergine petto !
E com'è materno
quel sogno! Il
bambino non sorride,
trionfante di vita:
il bambino ha
bisogno della difesa
di sua madre,
che tanto più lo sogna
e l'ama quanto
più le par
di doverlo difendere:
egli «piange il
suo tacito pianto
>. Tacito: è
un pianto veduto
nel sogno. Ma
come, d'altro canto,
è lungo quel
componimento, la cui sostanza
poetica sta tutta
nelle poche immagini
ora ricordate! È
diviso in cinque
parti: vi si
descrive in principio
la vergine dormente e
il lume che
vacilla nell'ombra della
stanza: quasi che
tale messa in
iscena possa pre-
parare in alcun modo
la poesia, la
quale comincia solo
con l'immagine del
sangue che si
fa latte. Il
Pascoli non se ne sta
alla espressione delle
«pie membra sigillate»:
spiega: le gracili
membra non sanno
lo schianto, non
sanno l'amplesso... e la spiegazione
ridondante, in materia
così sca- brosa, era
da evitare. Neppure
sta pago ad
escla- mare, all'improvviso sorgere
del bambino che
brancola cercando avidamente
il seno della
madre: 0 fiore
d'un intimo riso
dell'anima! che è
forse già un
comento piuttosto eloquente
che poetico; ma
coraenta il comento
e dà in
argutezze o agudezas: o
fiore non nato
da seme, e
sbocciato improvviso !
Tu fiore non
retto da stelo,
tu luce non
nata da fuoco,
tu simile a
stella del cielo,
del cielo dell'anima... Il
bambino è allontanato
dal fianco materno
e riposto fantasticamente in
una culla. E
la culla assume
una grande importanza,
tanto che le
si rifa il verso come
altra volta al
pollaio: Si dondola
dondola dondola senza
rumore la culla
nel mezzo al
silenzio profondo; il
che è inopportuno,
ma chiaro. E a P.
non par chiaro,
e aggiunge un
paragone: cosi come
tacita al vento,
nel tacito lume
di luna, si
dondola un cirro
d'argento. E vi
ha, nel resto
del componimento, esortazioni
al bimbo perchè
sorrida un istante;
e vi si
narra il sorgere
dell'alba e lo
svanire del sogno
: narrazione per lo
meno altrettanto esuberante,
quanto prima la
descrizione della stanza
e della lampada
da notte. Il
padre del Pascoli
fu assassinato, una
sera, sulla via
campestre, mentre tornava
alla sua casa.
La mattina di
quel giorno d'inenarrabile strazio
e terrore, l'ultima
volta che i
suoi lo videro
vivo, è ricordata
in ogni minimo
particolare: con quel
perduto dolore dell'animo
che dice: potevamo non
lasciarlo andar via,
quel mattino, e
sarebbe ancora tra
noi! — E
la memoria scopre,
o l'illu- sione fa
immaginare, particolari quasi
profetici. Il padre
stava per salire
sulla carrozza, circon-
dato dai suoi, dalla
moglie, dai figliuoli
grandi e piccini,
usciti sulla strada
a salutarlo. Ma,
nel- l'appressarsi ch'egli
fece al suo
cavallo: la più
piccina a lui
toccò la mazza.
Gli prese il
bastone, come per
tirarlo indietro, e
ruppe in pianto.
Non voleva ch'egli
andasse via: non
voleva, così, irragionevolmente, come
bimba che era;
ed egli dovette
ingannarla, per acchetarla:
farle credere che
rientrava in casa,
ed uscire da
un'altra porta. Quella
manina di bimba
è indimenticabile. Si
sfiora quasi la
genia- lità propria dell'artista,
che coglie con
un sol tratto
un mondo di
sentimenti. Ma si
sfiora sol- tanto, e
si perde daccapo.
Che cosa diventa
quel tocco affettuoso
e spaventato di
debole manina presaga?
E un poco
presa egli sentì,
ma poco poco
la canna, come
in un vignuolo,
come v'avesse cominciato
il nodo un
vilucchino od una
passiflora... Diventa Io-Studio
di una presidi
manojnfantile. Al quale
segue lo studio
della mano: Sì:
era presa in
una mano molle,
manina ancora nuova,
così nuova che
tutto ancora non
chiudeva a modo.
Andiamo innanzi: i
bambini attorniano il
padre, chiamando com'è
lor uso: Egli
poneva il piede
sul montante; e
in un gruppo
le tortori tubarono,
e si senti:
Papà! Papà! Papà!
Quell'episodio commovente è
accentuato in tal
modo, e cosi
materialmente, nelle sue
minuzie, che ogni
commozione sfuma. Tanto
che io mi
distraggo, e mi
par d'avere udito
altra volta un
simile vocìo bambinesco,
ma in un'arte
più alle- gra; sì,
per l'appunto, in
un'opera buffa napoletana, emesso da
un gruppo di
bambini che at-
tornia il papà che
li ha condotti
a una fiera.
Solo che i
bambini dell'opera buffa
cantano bene, per-
chè si tratta di
opera buffa; e
quelli di P., nell'angoscioso ricordo,
stonano. E poi,
se altro non
fosse, basterebbe anche
qui, a turbare
tutta l'ispirazione, il
metro ado- prato:
un metro quasi
epico, lasse di
dieci endecasillabi con
assonanze. — Lo
stesso sbaglio fondamentale
è nell'altro episodio
della medesima tragedia
domestica: La cavalla
storna, svolto ^jiel
metro di un'antica
romanza. Eppuxe. c'è
l'ab- bozzo, o il_nòcciolo,
di una grande
poesia! La madre,
rimasta priva del
marito vilmente am-
mazzato da uno sconosciuto,
ha sempre fisso
il pensiero in
quel caso d'orrore.
Chi, e perchè,
gliel'ha ucciso? Nessuno
era presente; ma
l'ucciso aveva con sé
la sua cavalla
prediletta, una cavallina
storna, che riportò
verso casa il
corpo sanguinante del
suo padrone. Quella
cavallina è sempre là,
nella scuderia: ha
visto, sa, un
mi- racolo potrebbe farla
parlare. E la donna,
con quel pensiero
in capo e
con quegli atti
quasi da folle
che accompagnano il
dolore, va a
notte silente nella
scuderia, e si
pone accanto alla
ca- vallina, e le
parla e piange
e supplica: e
vuole aiutarla a
significare ciò che
sa. Pronuncia un
nome, il nome
che ella sospetta:
lo pronuncia solennemente:
«alzò nel gran
silenzio un dito:...
disse un nome...
». Ed ecco
s'ode subito, alto,
un nitrito di
conferma! — La
poesia si trascina
non senza fastidio
con la solita
descrizione iniziale, con
l'allocuzione verbosa della
madre, ripartita in
quattro parti e
pause. Ma l'ansia
della povera dolente
è resa con
tratti di grande
efficacia. Sotto quell'ansia,
sotto quell'implorante confidenza,
la cavallina si
umanizza, diventa una
persona di casa,
cara tra i
suoi cari, partecipe
della comune sventura:
la scarna lunga
testa era daccanto
al dolce viso
di mia madre
in pianto: quadro
d'infinita commozione. E
la donna incalza
nella sua preghiera,
presa dalla brama
furiosa di sapere,
di veder chiaro:
stava attenta la
lunga testa fiera...
Essa l'abbraccia come
si fa a
un figliuolo nel
'-momento che è
stato vinto dalla
parola affettuosa e sta
per confessarsi: mia
madre l'abbracciò sulla
criniera. La madre muore
anch'essa, e la
voce della morta P.
la risente come
di chi chiami
il suo nome,
il suo nome
nel diminutivo fami-
liare e dialettale, per
parlargli di cose
ed affetti domestici.
Non è difficile
intendere che quel
di- minutivo familiare e
dialettale non può
essere ripetuto, nell'alta
commozione lirica, cosi
come par di
sentirlo nella realtà.
Perchè ciò che
deve entrare nella
lirica è il
valore sentimentale di
quell'invocazione, il suo
accento intimo e
familiare, che la riproduzione
fonica delle sillabe
contraffa e non
rende. Il Pascoli
ha un inizio
spontaneo, commosso e
vivo: C'è una
voce nella mia
vita, che avverto
nel punto che
muore: voce stanca,
voce smarrita, col
tremito del batticuore:
voce d'una accorsa
anelante, che al
povero petto s'afferra
per dir tante
cose e poi
tante, ma piena
ha la bocca
di terra. È
questa veramente l'immagine
della madre nel
suo gesto d'abbandono
al petto fidato
del Aglio, per
isfogare ciò che
le preme sul
cuore: della madre,
così come riappare
attraverso la morte
e il cimitero,
deturpata dalla morte,
bagnata di pianto.
Ma il Pascoli
riattacca: tante tante
cose che vuole
ch'io sappia, ricordi,
sì... sì... Ma
di tante e
tante parole non
sento che un
soffio... Zvani..Giovannino >,
in dialetto romagnolo.
E codesta è una profanazione,
che non accrescerò
col mio comento:
come l'accresce per
suo conto l'autore,
che aggiunge altre
sei parti, della
me- desima lunghezza della
prima che ho
trascritta, e tutte
sei finiscono con
quel nome, con
quel Zvani. Il
soffio della voce
della morta si
è vol- garizzato in
un ritornello! Pure,
il ritornello, così
malamente scelto, non
soffoca del tutto
il suono di
quella voce di
morta: voce stanca,
voce smarrita, col
tremito del batticuore... Ai
suoi morti è
dedicato ancora TI
giorno (\,p,i morti,
cosi pesantemente sceneggiato
e dram- matizzato, in
cui ciascuno dei
morti parla a
sua volta compiangendo
e lodando sé
stesso. Vi sono
accenti commossi: il
padre, ammazzato a
tradimento, dice: 0 figli,
figli! vi vedessi
io mai! io
vorrei dirvi, che
in quel solo
istante per un'intera
eternità v'amai. Ma,
pronunziate appena quelle
parole, par che
ne resti come
affascinato, e le
volta e rivolta
in varia forma:
In quel minuto
avanti che morissi
portai la mano
al capo sanguinante,
e tutti, o
figli miei, vi
benedissi. Io gettai
un grido in
quel minuto, e
poi, mi pianse
il cuore: come
pianse e pianse
e quel grido
e quel pianto
era per voi.
Oh le parole
mute ed infinite
che dissi! con
qual mai strappo
si franse la
vita viva delle
vostre vite... affinando, dunque,
quel grido perfino
in un bistic-
cio e, in un'allitterazione. Il
ciocco è un'altra
delle ispirazioni profonde
di P., che pur
lascia mal soddisfatti,
guar- dando alla composizione
e al complesso
della poesia. La prima
parte è stata
biasimata pei tanti
oscuri vocaboli del
contado lucchese che
l'autore vi ha
introdotti, e che
hanno resa necessaria
nelle nuove edizioni
l'aggiunta di un
glossarietto. Ma non
sarebbe poi gran
male se fossimo
costretti a studiare
qualche centinaio di
vocaboli per giuri
gere all'intendimento di
un'opera bella. Coraggio,
pigri lettori! ben
altre fatiche di
preparazioni godimenti artistici
sogliono richiedere. Senonchè
quella taccia, come
accade, ne nasconde
un'altra, che è
la vera, concernente
rejccesaiva_preoccu- pazione dell'autore
per inezie di
costumi e di
relati vj_ej^rjssioni,
inconciliabile col motivo
fonda- mentale, della, poesia,
che si svolge
nella seconda parte,
in cui l'anima
si eleva nella
contempla- zione del cielo
stellato. E anche
questa seconda parte,
che ha tratti
assai felici, offende
per le immagini
incongrue o troppo
dilatate, e per
le ripetizioni stucchevoli.
Così gli astri,
che girano pel
cielo, suggeriscono a P.
un sottile pa-
ragone con le zanzare
e coi moscerini,
che girano intorno
a una lanterna
accesa, penzolante dalla
mano di un
bambino che ha
perduto una monetina in
una landa immensa
e la va
cercando e singhiozza
nel buio. Al
supremo momento lirico
si giunge, quando
alla mente del
contemplatore si affaccia
il pensiero della
morte avvenire delle
le, cose tutte,
la fine dell'uni
verso; e nel
suo cuore sorge
una deserta angoscia
pel morire non
già dell'individuo, ma
della vita stessa:
per l'individuo che muore
senza che altri
faccia splendere accanto
a lui, riaccesa,
la fiaccola della
vita: Anima nostra!
fanciulletto mesto! nostro
buono malato fanciulletto,
che non t'addormi
s'altri non è
desto! ' felice,
se vicina al
bianco letto s'indugia
la tua madre
che conduce la
tua manina dalla
fronte al petto
: contenta almeno,
se per te
traluce l'uscio da
canto, e tu
senti il respiro
uguale della madre
tua che cuce. Il
sentimento di questa
inquietezza e di
questo quietarsi puerile
è compiutamente espresso.
Che si possa
continuare ancora, indefinitamente, nell'enumerazione o nella
gradazione ascendente e
discendente di tutti
i segni di
vita che valgono
a rasserenare un
fanciullo nella sua
paura della solitudine
e a farlo
addormentare tranquillo, nessuno dubita: ma
la lirica non
è enumerazione. P. non
sembra di questo
parere, e pro-
segue: il respiro
o il sospiro
: anche il
sospiro : o
almeno che tu
oda uno in
faccende per casa,
o almeno per
le strade a
giro ; o
veda almeno un
lume che s'accende
da lungi e
senta un suono
di campane, che
lento ascende e
che dal cielo
pende. Si fermerà a
quest'ultimo verso, del
quale evi- dentemente, cantandolo, si
è compiaciuto? Tacera
contento di quest'ultima
dolcezza che lo
sazia? Non ancora:
ha ripreso il
\&* fettazione, sono
caso assai frequente;
e rari sono
invece coloro la
cui opera complessiva
si pre- senta con
carattere di perfezione
e di sceltezza,-*/** perchè
hanno lavorato solo
nei momenti di
piena interna armonia, o
hanno esercitato tale
vigi- lanza sopra sé
stessi da tener
celate o da
sopprimere le cose loro
imperfette. I più
affidano la cernita
al tempo galantuomo
e alla critica.
E la critica
suggerisce a questo
propositojiue procedimenti, che
più volte i
lettori mi hanno
visto adoperare in
queste pagine. Il
primo è di
tentare una divisione
nel tempo, e
il secondo di
tentarla (per cosi
esprimermi) nello spazio.
Vi sono, infatti,
artisti che da
una torbida e
divagante produzione
giovanile giungono, nella
maturità, al possesso di
sé medesimi; o
che a una
produzione geniale fanno
seguire l'imitazione di
sé medesimi, e,
volendo, validius inflare
sese, come la
rana di Fedro,
rupto iacent corpore;
e, in tali
casi, si possono
distinguere, con limiti
cronologici, le loro
varie personalità. Ma
ve ne ha
altri i quali,
durante tutta la
lor vita, alter-
nano le varie personalità,
e, per esempio,
nel periodo stesso
che cantano commosse
poesie d'amore, ne
compongono altre falsamente
eroi- che e politiche.
Essi posseggono due
strumenti, l'uno sinfono
e l'altro asinfono,
per dirlo nobilmente in
greco, o l'uno
accordato e l'altro
scordato, per dirlo umilmente
in volgare, e
suonano ora sull'uno
ora sull'altro; e,
forse, di quello
scordato, su cui
si travagliano e sudano, si
vantano assai più che
non di quello
accordato e docile
alle loro dita.
Per costoro la
divisione si deve
condurre secondo i
motivi d'arte, gli
spontanei e gli artificiosi,
che muovono la
loro pro- duzione.
Al Pascoli si
è cercato di
applicare ora l'uno
ora l'altro procedimento;
e, per cominciare
dal primo, si
è detto, e
si è scritto
anche, che chi
voglia avere innanzi
a sé P. vero,
P. poeta, deve lasciare
in disparte la
sua produzione degli ultimi
anni, e risalire
a quella più
vecchia, ai Poemetti,
alle Myricae, quali
comparvero in pubblico nel
modesto volumino. E
poiché, si sa,
le opinioni variano,
si è anche
manifestato il parere
inverso, che P. vero
non bisogni cercarlo
nelle poesie giovanili, ma
nelle ispirazioni della
piena maturità, culminanti
nei Poemi conviviali
e negli Inni.
Ed io mi
provo a seguire
l'una e l'altra
indicazione; e, dapprima, risalgo
ai Poemetti e
alle Myricae. Rileggo
la Senignja, che
è tra i
più pregiati e
pregevoli dei poemetti:
prima parte di
un «poema georgico
», come è
stato chiamato. Accostarsi
a quei versi
e respirare l'aria
della campagna, aspirarne
gli effluvi, vedere
il casolare, i campi,
le opere domestiche
e rurali dei
contadini, udirne i
discorsi infiorati di
proverbi e di
sentenze, sentire dappertutto
il profumo agreste
delle cose e
delle anime; è
un'impressione immediata. Il poemetto
s'inizia con un
risveglio mattinale in una
casa di contadini:
una delle fanciulle
apre l'imposta, i
rumori della vita
ricominciano e vi
sono orecchi che
li raccolgono: la
cappellaccia manda dal
cielo il suo
garrito, la gallina
raspa sul ciglio
di un fosso,
il cane di
guardia s'alza, scuote
la brina scodinzolando, con
uno sbadiglio: si
odono per la
campagna i pennati
che squillano sul
raarrello. La fanciulla
si accosta al
davanzale, monda le
piante, coglie una
spiga d'amorino; e
poi, a quel
davanzale stesso, comincia a
ravviarsi i capelli,
come contadina, alla
grande aria, in
faccia al sole:
or luce or
ombra si sentia
sul viso; che
il sol montando
per il cielo
a scale, appariva
e spariva all'improvviso. Così
è descritta l'intera
giornata. Il fruscio
stridulo delle granate passa
e ripassa per
la casa, che
ha ormai tutte
le imposte spalancate:
si ri- governa la
cucina, dove le
stoviglie paiono rissare tra
loro nel silenzio
del mattino. Più
tardi, si apparecchia
il desinare per
gli uomini che
lavorano nei campi:
sul tagiier pulito
lo staccio balzellò
rumoreggiando. Il bianco
fiore ella ammucchiò
: col dito
aperse il mucchio,
e vi gettava
il sale e
tiepid'acqua dal paiolo
avito. Poi ch'ebbe
intriso, rimenò l'uguale
pasta e poi
la parti: staccò
dal muro il
matterello, strinse il
grembiale; e le
spianate assottigliò col
duro legno, rotondo,
a una a
una; e presto
sì le portava
al focolare oscuro.
Via via la
madre le ponea
nel testo, sopra
gli accesi tutoli;
e su quello
le rigirava con
un lento gesto
: né cessava
il rullìo del
matterello. Tutti i
gesti, tutti gli
oggetti, tutte le
colloca- zioni spaziali, sono
individuati con nitidezza
non facilmente superabile.
— E si
assiste così anche
alla cottura degli
erbaggi all'olio: Ora
la madre ne
la teglia un
muto rivolo d'olio
infuse, e di
vivace aglio uno
spicchio vi tritò
minuto. Pose la
teglia su l'ardente
brace, col facile
olio, e solo
intenta ad esso
un poco d'ora
l'esplorò sagace. L'olio
cantò con murmure
sommesso; un acre
odore vaporò per
tutto. Fumavano le
calde erbe da
presso, nel tondo,
ch'ella inebriò del
flutto stridulo, aulente;
e poi nel
canovaccio nitido e
grosso avviluppava il
tutto. E Rosa
in tanto sospendea
lo staccio, poneva
i pani sopra
un bianco lino,
stringea le cocche,
e v'infilava il
braccio. Tornò Viola
e furono in
cammino. La scena
ci sta innanzi
agli occhi come
in un quadro:
è larverà vita
campestre. Sì: ma
e l'in- tonazione, cioè il
significato estetico, cioè
l'anima, di queste
descrizioni e dell'intero
poemetto? P. non compone
egloghe più o
meno alle- goriche, come
nel medioevo e nel Rinascimento;
non vuol rinfrescare
le sensazioni erotiche
im- mergendole nella vita
della campagna; non
si accosta ai
contadini per curiosarne
le goffaggini, come
nelle nostre vecchie
poesie rusticane, dalla
Nencia del magnifico
Lorenzo giù giù
fino ai Cecchi
da Varlungo degli
epigoni e tardi
imita- tori del Seicento.
Se non m'inganno,
il suo pre-
cedente ideale è piuttosto
in quel rifacimento
dell'intonazione omerica, che
già gli studiosi di
Omero nella Germania
della fine del
secolo decimottavo tentarono,
e che consigliò
a Volfango Goethe
lo Hermann und
Dorothee. L'intonazione omerica
si sente non
solo in certi
collocamenti di epiteti
(il primo verso
dice: «Allorché Rosa
dalle bianche braccia»:
leucolena, dunque, come
Hera), e in
certe ripetizioni e
minuterie, ma in
tutto l'andamento. Il
metro non è
l'esametro, ma la
terzina, col serrarsi
deciso dell'ultimo verso
di coda, alla
fine delle brevi
riprese: / t.
A monte a mare ella
guardò : guardato
ch'ebbe, ella disse
(udiva sui marrelli
a quando a
quando battere il
pennato) : aria
a scalelli, acqua
a pozzatelli. Domani
voglio il mio
marrello in mano:
che chi con
l'acqua semina, raccoglie
poi col paniere;
e cuoce fare
in vano più
che non fare.
Incalciniamo, o moglie.
L'intonazione omerica, trasportata
alla vita umile
e alle umili
cose, ha del
gioco letterario; come
si può notare
finanche nella meravigliosa
ope- ricciuola del
Goethe. Ma presso
P. vi si
mescola altresì qualcosa
ora di fine
e squisito: (l'aratro
andava, ne l'ombrìa,
pian piano: qualche
stella vedea l'opera
lenta... una campana
si sentiva sonare
dal paese: non
più che un'ombra
pallida e lontana);
e ora di
affettato, come nel
racconto che il
cac- ciatore fa della
fiaba della cinciallegra,
soldato di guardia degli
uccelli; o nella
preghiera del- l'Angelus:
Tu che nascesti
Dio dal piccolo
Ave, da la
sorrisa paroletta alata:
(disse la voce
tremolando grave) tu
che ne l'aia
bianca e soleggiata
eri e non
eri, seme che
vi avesse sperso
il villano da
la corba alzata;
ma poi l'uomo
ti vide e
ti soppresse, t'uccise
l'uomo, o piccoletto
grano; tu facesti
la spiga e
poi la messe
e poi la
vita... o in
quest'altro suono di
campane: Era nel
cielo un pallido
tinnito: Dondola dondola
dondola/ A nanna
a nanna a nanna! —
Il giorno era
finito. Ed il
fuoco accendeva ogni
capanna, e i
bimbi sazi ricevea
la cuna, col
sussurrare de la
ninna nanna. E
le campane, A
nanna a nanna!
l'una; l'altra Dondola
dondola! tra il
volo de' pipistrelli
per la costa
bruna. A nanna
il bimbo, e
dondoli il paiuolo
! Il poemetto
parrebbe legato da
un filo sottile,
una storia d'amore:
Rosa ed Enrico il
cacciatore s'innamorano. Un
amore che prova
pudore a mostrarsi:
appena accennato nel
pensiero di Rosa,
che non può
pigliar sonno e,
quando s'addormenta, sogna: Pensava:
i licci de
la tela, il
grano de la
sementa, il cacciatore;
e Rosa lo
ricercava; dove mai?
lontano. In una
reggia. E risognò...
Che cosa? Similmente,
nella seconda parte
intitolata l'Ac- cestire, è
significato l'amore del
giovinotto: E la
sua strada seguitò
pian piano, e
ripensava dentro sé:
che cosa? ch'era
gennaio... ch'accestiva il
grano, ch'era già
tardi... ch'eri bella,
o Rosa! È
un episodio nel
quadro; ma, come
si è notato,
non è l'afflato
animatore del tutto.
Cosi anche questo
poemetto ci lascia
perplessi: è nitidissimo
alla prima specie,
e tuttavia non
lo comprendiamo bene. Ora
ha dell'esercitazione letteraria,
ora della lirica
tormentata: il tono
ora ci sembra
quasi scherzoso, esagerato
di proposito nelle
mi- nuzie come a
prova di bravura,
ora grave e
so- lenne. È di
un poeta? è
di un virtuoso?
Dove finisce il
poeta? dove comincia
il virtuoso? Se
dalla Sementa risalgo
ancora più su,
alle prime Myricae,
trovo, tra l'altro,
un intero ciclo
di piccoli componimenti
di dieci versi
ciascuno: L'ultima passeggiata,
che si può
dire la prima
idea del poemetto
ora esaminato. La
figura di fanciulla,
che vi è
accennata, « la
reginella dalle bianche
braccia », è
una sorella di
Rosa, anzi è
Rosa medesima. Sono
quadretti minuscoli: l'ara-
tura, la massaia con
le sue galline,
la via ferrata e
il telegrafo che
percorrono le campagne
recando l'impressione della
rumorosa vita lontana, le
comari che ciarlano
in capannello, l'osteria campestre sull'ora
del mezzodì, il
partir delle rondini,
l'apparecchio e cottura
del pane di
cru- schello, la ragazza
che aiuta la
madre nelle faccende
domestiche e fa
da piccola madre
ai mi- nori fratelli
e tiene le
chiavi del cassone
della biancheria odorata
di lavanda, e
vede accumu- larsi colà
dentro il corredo
che fa presentire
prossime le nozze.
E sono quadretti
perfettamente intonati: non
v'ha niente di
ciò che stride
o appare incerto
nei poemetti. Arano:
Nel campo dove
roggio sul filare
qualche pampano brilla,
e dalle fratte
sembra la nebbia
mattinai fumare, arano
: a lente
grida, uno le
lente vacche spinge,
altri semina: un
ribatte le porche
con sua marra
paziente: che il
passero saputo in
cor già gode
e il tutto
spia dai rami
irti del moro
; e il
pettirosso: nelle siepi
s'ode il suo
sottil tintinno come
d'oro. Le comari
in capannello: Cigola
il lungo e
tremulo cancello e
la via sbarra:
ritte allo steccato
cianciano le comari
in capannello : parlan
d'uno, eh' è un
altro scrivo /scrivo, del
vin, che costa
un occhio, e ce
n'è stato; del
governo; di questo
mal cattivo; del
piccino; del grande
ch'è sui venti;
del maiale, che
mangia e non
ingrassa — Nero
avanti a quegli
occhi indifferenti il
traino con fragore
di tuon passa.
Di poesie come
queste sono ricche
le prime My-
ricae, e ce
n'e anche nella
serie di quelle
altre che ne
continuano la maniera,
aggiunte nelle posteriori
edizioni. Un'impressione di
campagna, mentre soffia
il vento freddo
e agita un
piccolo bucato di bimbo,
messo ad asciugare
presso un tugurio:
Come tetra la
sizza, che combatte
gli alberi brulli
e fa schioccar
le rame secche,
e sottile fischia
tra le fratte!
Sur una fratta
(o forse è
un biancor d'ale?)
un corredino ride
in quel marame:
fascie, bavagli, un
piccolo guanciale. Ad
ogni soffio del
rovaio che romba,
le fascie si
disvincolano lente, e
da un tugurio
triste come tomba
giunge una dolce
nenia paziente. Una
fanciulla cuce il suo abito
di sposa; a
un tratto leva
la testa e
ride: Erano in
fiore i lilla
e l'ulivelle; ella
cuciva l'abito di
sposa ; né
l'aria ancora apria
bocci di stelle,
né s'era chiusa
foglia di mimosa:
quand'ella rise: rise,
o rondinelle nere,
improvvisa: ma con
chi? di cosa?
rise così con
gli angioli: con
quelle nuvole d'oro,
nuvole di rosa.
In queste poesiole,
nemmeno le onomatopee
di voci d'uccelli
e di altri
suoni e rumori
offendono j3iù. Perchè, a
mio parere, hanno
avuto torto i
critici quando per
quelle onomatopee hanno
aperto contro il
Pascoli uno speciale
processo: le cosiddette onomatopee
sono legittime o
illegittime secondo i
casi; e quando
P. le adopera
fuori luogo (ed^èu-JL-dir
vero, il caso
pijij[requen.te), l'error suo
è una delle
tante forme di
quella tendenza all'insistere
eccessivo, alla minuteria,
alla riproduzione materiale,
ossia di quell'affettazione e
disposizione asinfonica che
è in lui.
Ma quando, nelle
prime Myricae, scrive
per la prima
volta l'ormai famigerato
scilp dei passeri
e viti videvitt
delle rondini, io
non trovo luogo
a scandalo, perchè
in quel caso
il Pascoli mantiene
un'intonazione bassa e
pacata; nota l'impressione
immediata della cosa,
e aggiunge un'osservazione quasi
riflessiva: Scilp: i
passeri neri sullo
spalto corrono molleggiando.
Il terren sollo
rade la rondine
e vanisce in
alto: vitt, videvitt.
Per gli uni
il casolare, l'aia,
il pagliaio con
l'aereo stollo; ma
per l'altra il
suo cielo ed
il suo mare.
Questa, se gli
olmi ingiallano la
frasca, cerca i
palmizi di Gerusalemme:
quelli allor che
la foglia ultima
casca, restano ad
aspettar le prime
gemme. E non
può scandalizzare il
rosignolo, che ripete
l'aristofaneo nò xió,
topoid XiX(£; o
bisogna aver dimenticato
che la poesiola
di P., da
cui è tolto
il particolare tante
volte citato come
esempio di stravaganza,
è un apologo
scherzoso : il
rosignolo è allegoria
del poeta, le
ranocchie del grosso
pubblico. Comincia, infatti,
cosi: Dava moglie
la Rana al
suo figliuolo. Or
con la pace
vostra, o raganelle,
il suon lo
chiese ad un
cantor del brolo...
In tale apologo,
in siffatta intonazione,
la cercata reminiscenza
aristofanesca sta perfettamente
a posto e
conferisce grazia. Il
risultato medesimo si
ha ove si
confrontino altri poemetti, quelli
di contenuto filosofico
e morale, con
le Myricae di
simile contenuto. Il
Libro vuol far
sentire l'ansiosa e
vana ricerca del
vero, che l'uomo
persegue: un libro
(l'im- magine deve essere
stata attinta a
un noto luogo
del Wilhelm Meister,
circa i drammi
dello Shakespeare), un libro,
aperto sul leggio
nell'altana, e le
cui pagine sono
rimescolate dal vento,
sug- gerisce la presenza
di un uomo
invisibile che frughi
e frughi e
non trovi la
parola che cerca.
" Ma l'impressione
solenne, che si
vorrebbeotte- • nere^è
impedita dalla realtà
determinata di quel
libro, sul leggìo
dfquercia, roso dal
tarlo, di quel
rumore di fogli
voltati a venti
a trenta a
cento, con mano
impaziente, « avanti
indietro, indietro avanti
»; e dalla
freddezza allegorica onde
il volume così determinato
si trasfigura, in
fine, nel «libro
del mistero »,
sfogliato «sotto le
stelle». Nei Due
fanciulli, malamente si
lega alla sce-
netta dei due fanciulli,
che litigano e
si graffiano e
che la madre
manda a letto,
ed essi nel
buio si cercano
e si rappaciano
e dormono abbrac-
ciati, l'ultima parte,
che dà l'interpetrazione allegorica
della scenetta ed
esorta gli uomini
alla concordia: il
quadretto idillico impiccolisce
l'ammonizione solenne,
questa appesantisce il
quadretto. Ma i
versi gnomici delle
Myricae sono, nella
loro tenuità, incensurabili. Li
ravviva, an- che nella
loro tristezza, un
lieve sorriso. Il
cane: Noi, mentre
il mondo va
per la sua
strada, noi ci
rodiamo, e in
cuor doppio è
l'affanno, sì, che
pur vada, e
si, che lento
vada. Tal, quando passa
il grave carro
avanti del casolare,
che il rozzon
normanno stampa il
suplo con zoccoli
sonanti, sbuca il
can dalla fratta,
come il vento;
10 precorre, l' insegue;
uggiola, abbaia. 11
carro è dilungato
lento lento, e
il cane torna
sternutando all'aia. Parrebbe
dunque che dicano
bene coloro che
soltanto in P.
delle prime Myricae
ritrovano un poeta armonico
e compiuto. Ma
si os- servi: che
cosa sono quelle
poesie? Sono pensieri
sparsi, schizzi, bozzettini:
un albo di
pittore, che può
essere di molto
pregio, ma che
rappresenta, piuttosto che
l'opera d'arte, gli
elementi di essa.
Le Myricae sembrano
spesso pochi tratti
segnati a lapis
da un pittore
che vada in
giro per la
campagna : Lungo
la strada vedi
sulla siepe ridere
a mazzi le
vermiglie bacche: nei
campi arati tornano
al presepe tarde
le vacche. Vien
per la strada
un povero che
il lento passo
tra foglie stridule
trascina: nei campi
intona una fanciulla
al vento: —
Fiore di spina!...
E lo schizzo
ha la sua
attrattiva, ed anche
la sua compiutezza:
quasi una compiutezza
dell'in- compiutezza. Sono anch'io
dell'avviso che nelle
prime Myricae soltanto
il Pascoli abbia
la calma dell'artista.
Ma bisogna essere
pienamente con- sapevoli di
ciò che così
si afferma, e
che è, né
più né meno,
questo: che il
meglio dell'arte di
P. è nella
sua riduzione a
frammenti, nel suo sciogliersi
negli elementi costitutivi.
Di frammenti stupendi sono
conteste anche le
poesie che abbiamo
ricordate e criticate
come deficienti di
fusione e di
armonia: solo che
nel contesto artificioso perdono la
loro naturale virtù.
E già nelle
prime Myricae l'arte
di P., non
appena tenta maggiori
voli, scopre il
suo solito difetto.
In alcune saffiche,
ma specialmente poi
nei sonetti, egli
è ancora sotto
il freno e
la disciplina del
suo grande maestro
Carducci, sicché, tolta la
costrizione di quel
modello, non ha
scritto più sonetti.
Ha continuato invece
le odicine tra
l'agreste e l'oraziano,
tra la campagna
e la letteratura,
che formarono il
ciclo Alberi e
fiori, al quale
alcune nuove sono
state aggiunte fin
nell'ultimo volume di
Odi e inni.
In qualche altro
breve componimento, c'è
un'ispirazione er.ojifa: come
nel Crepuscolo, in
cui egli celebra
il doppio momento
del giorno, l'alba
e il tramonto, quando la
bella si snoda
dalle sue braccia
«e con man
vela le ridenti
ciglia», o l'accoglie
nelle braccia, « e il
dolce nido come
suol pispi- glia ».
La « reginella
dalle bianche braccia
» non è
guardata con occhio
indifferente, come la
Rosa degli anni
più tardi. C'è
nei versi a
lei dedicati, in
mezzo alle reminiscenze
dell'omerica Nau- sicaa,
un calor di
sentimento, che fa
di quelle tre
poesiole alcune delle
migliori pagine delle
Myricae. Felici i
vecchi tuoi; felici
ancora i tuoi fratelli ;
e più, quando
a te piaccia,
chi sua ti
porti nella sua
dimora, o reginella
dalle bianche braccia! Il
poeta si raffigura
non senza trepidazione
le prossime nozze:
Quella sera i
tuoi vecchi... quella
notte i tuoi
vecchi un dolor
pio soffocheranno contro
le lenzuola. Per
un momento sogna
di esser lui
lo sposo felice:
Al camino, ove
scoppia la mortella
tra la stipa,
o ch'io sogno
o veglio teco:
mangio teco radicchio
e pimpinella. Al
soffiar delle raffiche
sonanti l'aulente fieno
sul forcon m'arreco
e visito i
miei dolci ruminanti:
poi salgo e teco o
vano sogno!... Vano
sogno: lo scolaro
è costretto a
tornare al suo
latino e al
suo calepino. Ma
io sento in
questa lirica amorosa
l'eco dell'Idillio maremmano
del Carducci, e più ancora della
poesia di Severino
Ferrari; la quale
giustamente è stata
più volte ricordata
negli ultimi anni,
a proposito di
P. A ogni
[Su Ferrari, si veda
il volume secondo
della Letteratura della nuova
Italia. Lo stato d'animo
dei due poeti
(le prime Myricae
e la prima
ampia raccolta dei
Versi di Ferrari furono pubblicate)
era, per molti
rispetti ed anche per
molte circostanze estrinseche,
simile. Gli autori
infatti si dimostrano
scolari del Carducci
nella predilezione per le
forme della poesia
trecentesca e popolare,
in certe movenze
di stile, in
quel piglio robusto
e semplice in-
sieme, che fece già
lodare la poesia
carducciana come la
più « parlata
> di tutte
le nostre. Erano,
inoltre, quasi compaesani,
con le medesime
fonti materiali d'ispirazione: i
paesaggi, i costumi,
le consuetudini di
vita, cui alludono
nei loro versi,
sono gli stessi
nel poeta di
San Pietro a
Capofiume e in
modo, P. non
ha più ripreso^
codesti motivi: anzi, dalle'posteriori edizioni
delle Myricae la
lirica Crepuscolo è
stata_espunta. Ed egual-
mente ne è stato
espunto un sonetto,
in cui il
poeta prendeva atteggiamento
e nome di
ribelle di fronte
a un principe;
come non ha
mai rac- colto i
versi rivoluzionari, pei
quali era noto
tra i suoi
condiscepoli di Bologna
e dei quali
conosco alcuni, che
credo inediti e
che cominciano: Soffriamo!
nei giorni che il popolo
langue è insulto
il sorriso, la
gioia è viltà!
Sol rida chi
ha posto le mani nel
sangue, e il
fato che accenna
non teme o non sa.
Prometeo sull'alto del
Caucaso aspetta, aspetta
un hel giorno
che presto verrà;
un giorno del
quale sii l'alba,
o Vendetta! un
giorno il cui
sole sii tu,
Libertà!... quello di
San Mauro, nel
campagnuolo dell'estremo bolo-
gnese e in quello
della confinante estrema
Romagna: en- trambi sbalzati come
insegnanti nelle più
lontane regioni d'Italia,
e portanti nel
cuore l'uno il
piccolo borgo «dove
non è che
un argine, cinque
olmi e quattro
case*, e l'altro
«sempre un villaggio,
sempre una campagna»,
il paese do-
minato dalla « azzurra
vision di San
Marino. E furono,
infine, coetanei, condiscepoli
ed amici, e
si scambiavano versi,
e l'uno ricordò
l'altro nelle proprie
poesie. Per la
comunione d'anime che
si forma tra
giovani fervidi di
disegni e di
speranze, alcuni atteggiamenti
artistici doverono passare
dall' uno all'altro; né
è detto che
il « succubo
» fosse sempre
P., quando già
nel Mago il
Ferrari celebrava l'amico
come l'ar- tista «dalla
lima d'oro», dalle
«fresche armonie, dai
baldi voli »,
e simboleggiava l'arte
di lui nel
canto di un
lieto coro di
« giovani capinere
e usignuoli ».
Accade quindi che,
alcune volte, leggendo
il Ferrari, par di leggere
P. della prima
maniera. Cosi in
certe impressioni di
campagna: «C'è un
zufolar sì tremulo
che viene Di
fondo ai fossi...
»; in certe
Ma da questo
Pascoli amoroso e
ribelle, da questo
P. preistorico, tornando
allo storico, \
dicevamo, dunque, che
nelle prime Myricae,
e soprattutto nella
serie che le
seguì, già si
vede ì com'egli
si sforzi ad
una poesia più
complessa e personale
ed intensa, e
come dia subito
in disarmonie. Il
buon piovano, che
passa pei campi
salutando e benedicendo. tutti, è
una figura che
ha tocchi esagerati.
Benedice anche il
falco, anche il
falchetto (nero in
mezzo al ciel
turchino), anche il
corvo, anche il
becchino, poverino, che
lassù nel cimitero
raspa raspa il
giorno intero. visioni
di opere agricole:
«Anco per poco
ondeggerete, o chiome
De la canapa
verde...»; in certi
interni di case
rustiche e di cucine
: « Là
splendeva co '1
giorno nei decenti
Costumi la virtù
della massaia... »;
e finanche nella
descri- zione della vita
degli uccelli, nei
pensieri dei rosignuoli
o negli amori
delle capinere: «Come
un argenteo tinn
di campanello. D'altra
parte, in P. si
risentono accenti del
Ferrari: « Cantano
a gara intorno
a lei stornelli
Le fiorenti ragazze
occhipensose; « Siedon
fanciulle ad arcolai
ronzanti...». Ma la poesia
del Ferrari, se
mostra una cerchia
di pensieri e
di sentimenti più
ristretta di quella
del Pascoli ed
è alquanto inferiore
a questa per
maturità di forma,
è poi fortemente
dominata dal sentimento
d'amore, che manca
quasi affatto nel
Pascoli: Se corso
d'acqua o ben
fiorito ramo 6
strepito di venti
o di bell'ale
chieda l'onor del
breve madrigale, non
l'ottiene però se
una gioconda forma
di donna a
la romita scena
non dia '1
senso d'amor ond'ella
è piena.L'affettazione è
già nel Morticino:
Andiamoci a mimmi,
lontano lontano... Din
don... oh ma
dimmi: ^on vedi
ch'ho in mano
il cercine novo,
le scarpe d'avvio? e
nel Rosicchiolo (la
madre morta ha
accanto un pezzo
di pane, serbato
pel figlio), tutto
rotto e ansante
di esclamazioni: Per
te l'ha serbato,
soltanto per te,
povero angiolo; ed
eccolo o pianto!
lo vedi? un
rosicchiolo secco. Moriva
sul letto di
strame; tu, bimbo,
dormivi, sicuro. Che pianto
! che fame
! Ma c'era
un rosicchiolo duro...
e in altre
molte. Già vi
sono le inopportune
ma- terialità. I versi
Scalpitio: si sente
un galoppo lontano
(è la...?) che
viene, che corre
nel piano con
tremula rapidità; non
sono da riprovare
(come è stato
fatto) per l'ardimento
metrico, ma perchè
la previsione della
Morte che sopraggiunge
è diventata in
essi qualcosa di
prosaico, quasi di
un treno che
ar- rivi; e il
verso, lodato per
bellissimo: «con tremula
rapidità», è di una precisione
sconcordante col soggetto;
come sconcordante è il triplice
grido ultimo: «la
Morte! la Morto!
la Morte!», che
ricorda quello del
madrigale di Mascarille:
« Au voleur!
au voleur! au
voleur! au voleur!
» . Lo strafare
appare già per
molti segni. Alla
breve poesiola: II
cuore del cipresso,
sono state aggiunte,
nella seconda edizione,
altre due parti
per rincupirla e
renderla enfatica; con
raffinati giochetti come:
«l'ombra ogni sera
prima entra nell'ombra»,
e con interrogativi
a più riprese:
«E il tuo
nido? il tuo
nido?...». Finanche la
ottava quasi in
tutto bella delle
prime Myricae: Lenta
la neve fiocca
fiocca fiocca: senti:
una zana dondola
pian piano. Un
bimbo piange, il
piccol dito in
bocca; canta una
vecchia, il mento
sulla mano. La
vecchia canta: Intorno
al tuo lettino
c'è rose e
gigli, tutto un
bel giardino. Nel
bel giardino il
bimbo s'addormenta. La
neve fiocca lenta
lenta lenta; — è
stata esagerata, non potendosi altro,
nel titolo. S'intitolava
semplicemente: Neve, e
fu poi inti-
tolata: Orfano; laddove è
evidente che nessuna
ragione artistica costringeva
a privar dei
geni- tori quel caro
piccino, che piange,
« il piccol
dito in bocca
» ! Allorché,
dunque, nelle Myricae
si prescinda da
ciò che è
eco o incidente
passeggero o semplice schizzo e
quadretto minuscolo, vi
si trova in
embrione il Pascoli
con le sue
virtù e coi
suoi difetti. Le Myricae
contengono i motivi
da cui si
svilupperanno i Canti
di Castelvecchio e
i poemetti georgici
e morali; i
quali danno poi
la mano ai
Poemi conviviali e
agli Inni. III.
È da vedere
perciò se non
convenga seguire l'altra
indicazione, che ci
è stata offerta:
che cioè il
Pascoli vero sia
da cercare nella
sua poesia ultima
e degli anni
maturi, in P. «
maggiore » contrapposto
al « minore
», in quello
delle solenni composizioni
in terzine e
in endecasillabi sciolti. È
da vedere se
di quei difetti,
di cui è
libero nelle prime
Myricae perchè si
appaga del piccolo,
non sia riuscito
poi a liberarsi anche e
meglio per altra
• via, lavorando
in grande, componendosi
un gran corpo.
E poiché non
diletta sfondare porte
aperte, lascio da
banda gl'Inni, che
per comune e
concorde giudizio sono la
parte più debole
della sua produzione
ultima, e vado
difilato ai Poemi
conviviali. Nei quali, a
tutta prima, sorprende
un'aria di compostezza,
una facilità ed
egualità d'intonazione, onde par di avere
innanzi un'altra persona,
o tale che
si è sviluppata
cosi improv- visamente e
magnificamente che non
lascia riconoscere l'antica. Che
cosa è mai
accaduto? Il Pascoli,
oltre che poeta,
è anche umanista:
conforme alla tradizione della
nativa Romagna (clas-
sicheggiante, più forse che
altra regione d'Italia nel
secolo decimonono), e
all'indirizzo della scuola
di Carducci. Non
è un pensatore,
e nemmeno propriamente
quello che si
dice un dotto,
perchè la sua
solida cultura letteraria
non è orientata
verso la ricerca
scientifica o storica,
ma verso il
godimento del gusto
e la riprodu-
zione della fantasia. Perciò
ha qualcosa di
antiquato rispetto al modo
moderno della filologia;
e, insieme, qualcosa
di raro e
di sorprendente. Da
scolaro, faceva meravigliare
i condiscepoli che
dicevano ch'egli attendesse a
mettere in prosa
attica l'autobiografia di
Cellini; e ancora
si narrano le
sue prodezze di
versificazione latina e
greca. Ha presentato
più volte poemetti
latini alla gara
internazionale di Amsterdam,
e più volte
ha riportato il primo
premio. Ha compilato
antologie di poesia
latina, e postovi
introduzioni critiche, nelle
quali si trovano
brani e pagine
descrittive, — gli
aedi, Achille morente,
l'agone tra Omero
ed Esiodo, Solone
vecchio che vuol
imparare un canto
di Saffo e
morire, ecc. —
che ricompaiono nei
Poemi conviviali. Ora,
in questi poemi
[Un esempio. «
L'aedo viaggia per l'
Hellade divina e
per le isole.
Si aggira spesso
lungo il molto
rumoroso mare per
trovare una nave
bene arredata, che
lo tragitti: egli
paga i nocchieri
con dolci versi,
se è accolto...
Ma, se è
re- spinto, maledice... Così
a tutti si
rivolge l'aedo, che
a tutti canta,
uomini e dei:
entra come nella
casa dei re,
così nella capanna
del capraio ;
chiede con la
maestà del sacerdote
sì ai pescatori
che tornano, sì
ai vasai che
accendono la for-
nace ; e canta.
Qualche volta dorme
sotto un pino
della cam- pagna: qualche volta,
sorpreso dalla neve,
vede risplendere in
una casa'ospitale la
bella fiammata, che
orna la casa
come egli sposa la sua ispirazione
poetica alle forme
della poesia greca,
nella cui riproduzione
ha acquistato pratica
meravigliosa. Come nei
poemetti presentati alle gare
olandesi parla latino,
e in latino
dà i primi
abbozzi o le
varianti del Ciocco,
dei Due fanciulli
e di altre
sue composizioni italiane, così
nei Poemi conviviali
parla greco: greco
con parole italiane,
ma con tutte
le inflessioni, i
giri, i sottintesi
di chi si
è a lungo
nutrito di poesia
greca. Il libro
è un trionfo'
della virtù assimilatrice, un
capolavoro di aultura
umanistica. Questo linguaggio
greco, adottato da P.,
conferisce alla sua
nuova o/pera un
aspetto meno agitato
e dissonante. Ma,
quando si afferma,
com'è stato affermato,
che nel passare
dalla lettura dell'
Odissea a quella
dei Poemi conviviali
non si avverte
diversità di sorta,
bisogna rispondere di
star bene attenti
a non lasciarsi
ingannare dalle apparenze.
Sotto l'acqua limpida
e cheta si
muove la corrente
' 'jf /)
turbinosa e torbida.
P. è P.
e non'l^y»*/ Omero:
è, anzi, la
sua, quanto di
più dissimile )J^
i figli l'uomo,
le torri le
città, i cavalli
la pianura, le
navi il mare».
(Epos, p. xxi).
Si ascolti ora II cieco
di Ohio: Io
cieco vo lungo
l'alterna voce del
grigio mare; sotto
un pino io
dorino dai pomi
avari; se non
se talora m'annunziò,
per luoghi soli,
stalle di mandriani,
un subito latrato;
o, mentre erravo
tra la neve
e il vento,
la vampa da
un aperto uscio
improvvisa nella sua
casa mi svelò
la donna, che
fila nel chiaror
del focolare. si
possa pensare dalla
poesia omerica: questa
così ingenuamente umana,
quella cosi sapiente
nella sua umanità,
cosi sorpresa e
stupita della sua
ingenuità che sta
a guardarla e
a riguardarla in
viso, e ad
ammirarla; e non
le par vera!
Si può scegliere
a piacere qualsiasi
dei suoi poemi,
giacché il loro
valore press 'a poco
si equi- vale. Anticlo
è nato da
due versi e
mezzo dell'Odissea.'.
Anticlo, nel cavallo
di legno, sta
per rispondere alla
voce di Elena
che contraffa quella
della moglie di
lui, quando Ulisse
gli caccia la
mano nella gola,
Il P. comincia con
l'eseguire variazioni intorno a
questo motivo. Le
due prime parti
del poemetto sono
quasi ripetizioni l'una
dell'altra: un granellino
di poesia è
diluito in molta
acqua: E con
un urlo rispondeva
Anticlo, dentro il
cavallo, a quell'aerea
voce, se a
lui la bocca
non empia col
pugno Odisseo, pronto...
La voce dilegua
chiamando ancora .per
nome, finché non
s'ode più nulla:
finché all'orecchio degli
eroi non giunse
che il loro
corto anelito nel
buio; così come,
all'ora del tramonto,
mentre essi se
ne stavano chiusi
nel gran cavallo,
udirono lon- tanare i
cori delle vergini;
e poi si
fece sera, e
[ ''AvxikX,05 5è
aé y' 0X05
à[igCi|>ac8ai èjiéeaaiv fj8EXv,
àXV 'Oòvaaevq è:tl
nàaxaxa xeQoi Jite^ev
VO)X8|léa)5 KQaT8QTÌ, come
è stata argutamente
chiamata. E l'idillio
di un animo
piagato; è una
pace di conquista,
non di natura.
La casetta e
la famigliuola, che
sono le imma-
gini consuete dell'idillio, hanno
accanto a sé,
nella visione del
Pascoli, un'altra casa
e un'altra famiglia
in cui egli
vive non meno
che in quelle
in cui trascorre
la vita materiale:
il cimitero, e
i fantasmi dei
suoi morti. Questi
morti sono sem-
pre con lui: tornano
sempre a quelle
pareti doraestiche da
cui furono crudelmente
strappati: toccano e
riconoscono le loro
masserizie, i loro
abiti, le tele
che tesserono e
cucirono, i figliuoli
che generarono e
lasciarono bambini, i
fratelli coi quali
divisero le prime
gioie brevi e
i primi pungenti
dolori. Immagini di
morti, che si
tirano dietro, nell'animo
del poeta, altre
immagini affini: mendichi,
vecchi, ciechi, bambini
deboli e pian-
genti. È un idillio,
irrigato di pianto:
il tesoretto domestico,
sul quale egli
vive, è formato
dal ricordo dei
mali e delle
angosce sofferte. L'ere-
mita (del poemetto cosi
intitolato), nello scendere
lungo il fiume
della morte, grida:
Signore, fa ch'io
mi ricordi! Dio,
fa che sogni!
Nulla è più
soave, Dio, che
la fine del
dolor; ma molto
duole obliarlo; che
gettare è grave
il fior che
solo odora quando
è còlto. Da
questa contemplazione, fatta
fine e abito
di vita, sorge
una forma di
serenità: l'animo, non
più interiormente dilaniato,
può volgersi al
mondo esterno, e
guardare ed osservare
e comentare, in
un modo per
altro sempre intonato
alle sofferte vicende:
calmo, sì, ma
non gaio: sereno,
ma non agile
e leggiero. E
sorgono insieme le
gioie modeste: l'attitudine a godere
delle cose piccole,
del riposo gior-
naliero, della mensa, della
passeggiata, dello studio;
a scoprire in
esse un sapore,
una virtù ascosa,
che altri, più
fortunati o più
sfortunati, non vi
scoprirebbero: come nel
fior d'acanto, che le
api regali disdegnano,
le api legnaiole
trovano il miele
e la contadinella
sugge il nettare
ignoto. A te né
le gemme né
gli ori forniscono
dolce ospite, è
vero; ma fo
che ti bastino
i fiori che
cògli nel verde
sentiero, nel muro,
sulle umide crepe
dell'ispida siepe. Non
reco al tuo
desco lo spicchio
fumante di pingue
vitella; ma fo
che ti piaccia
il radicchio, non
senza la sua
selvastrella, con l'ovo
che a te mattutina cantò
la gallina. Questa
disposizione d'animo è
stata da P., negli ultimi
tempi, innalzata a
una teoria etico-sociologica, che
egli non si
stanca di pre-
dicare in tutte le
occasioni: tanto che,
per questo rispetto,
stiamo per avere,
anche noi italiani,
il nostro Tolstoi
(purtroppo, solo Tolstoi
che filosofeggia! La natura
è una madre
dolcissima che sa
quel che fa,
che ama i
figli suoi, e
dal male ricava
per essi il
bene. La vita
è bella, o
sarebbe, se gli
uomini non la
guastassero. Ma gli
uomini avvelenano ogni
cosa con la
discordia, con l'odio,
con la guerra,
e con la
cupidigia insaziabile, che è il
movente riposto e
ultimo. Bisogna dunque
dichiarar guerra alla
guerra; non ammettere
di- visioni fatali, esser
di nessun partito,
addetti so- lamente alla
causa dell'umanità: non
ridere delle parole
carità e filantropia,
ma accettarle meglio
che quelle di
socialismo, individualismo e
simili; il vero socialismo
è il continuo
incremento della pietà
nel cuore dell'uomo.
Tutte le cose
buone sono identiche,
o s'identificano: il
patriottismo non sta
contro il socialismo,
e viceversa: il
so- cialismo dev'essere patriottico,
e il patriottismo
socialistico. Tutto è
affar di cuore,
di dolcezza, di
pietà. Anche la
scienza e la
fede non debbono
rissare: la scienza
deve tener della
fede e la
fede della scienza.
Codesta non già
transvalutazione, ma adeguazione
o depressione di
valori, è sug-
gellata dalla virtù del
contentarsi: contentarsi del
poco, perchè, se
il molto piace,
il poco solo
è ciò che
appaga. Uomini, contentatevi del
poco (assai, vuol
dire si abbastanza
e sì molto:
filosofia della lingua!),
e amatevi tra
voi nell'ambito della
famiglia, della nazione
e dell'umanità. Una filosofia,
che è già
bella e criticata,
quando si è
mostrato che nasce
da uno stato
d'animo individuale; e del
resto, P. stesso,
pratica- mente, come uomo,
la contradice quando,
appena qualcuno tocca
ciò che gli
è caro (la
sua arte, o
i, suoi convincimenti
critici), corre alle
difese e alle
offese; non esita
a chiamare stolti
o « sciocchi
» i suoi
accusatori (si veda
la prefazione ai Poemi
conviviali)) e, insomma,
conserit proelia, viene
alle mani: di
che non lo
biasimerò io certamente,
perchè mi par
naturale che ognuno
protegga, come può,
le cose che
ama. Nasce da
uno stato d'animo
e ci conferma
questo stato d'animo,
che è quello
che abbiamo definito
come una varietà
del sentimento idillico.
Ora, il sentimento
idillico è costante
in tutta l'opera letteraria
del Pascoli: involuto,
e qua e
là lievemente sorridente,
nelle primissime Myri-
cae, chiaramente spiegato
nelle poesie posteriori.
Non fanno eccezione
i Poemi conviviali,
il cui contenuto
sono la natura,
la morte, la
bontà, la pietà,
l'umiltà, la poesia;
e la poesia
e la morte
più d'ogni altra
cosa: pensieri tristi
e delicati, che
risuonano sulle labbra
dei personaggi del
mito, della leggenda
e della storia
ellenica. Per bocca
dell'antico Esiodo parla
sempre il Pascoli:
E sol com'ora
anco è felice
l'uomo infelice: s'egli
dorine o guarda:
N quando guarda
e non vede
altro che stelle,
quando ascolta e
non ode altro
che un canto;
P. stesso è
effigiato in Psiche,
che solitaria nella
sua casa intende
l'orecchio al canto
di Pan: Eppur
talvolta ei soffia
dolce così nelle
palustri canne, che
tu l'ascolti, o
Psiche, con un
pianto sì, ma
ch'è dolce, perchè
fu già pianto
e perse il
triste nel passar
degli occhi la
prima volta; o
nell'aedo Femio, che
parla ad Ulisse
e dice della
poesia, quel che
già era stato
detto nelle varie
allegorie ed apologhi
delle Myricae: Un
nicchio vile, un
lungo tortile nicchio,
aspro di fuori,
azzurro di dentro,
e puro, non,
Eroe, più grande
del nostro orecchio;
e tutto ha
dentro il mare,
con le burrasche
e le ritrose
calme, coi venti
acuti e il
ciangottio dell'acque. Una
conchiglia breve, perchè
l'oda il breve
orecchio, ma che
tutto l'oda; tale
è l'aedo. Pure
a te non
piacque. La medesimezza
dell'ispirazione nei Poemi
conviviali, e nelle Myricae
e Poemetti, è
stata concordemente
riconosciuta; e in
questo senso si
è bene affermato
che P. ellenico
è un elle-
no-cristiano. Diversa opinione
è stata manifestata
per gli Inni',
e si è
detto che P.
vuol tentar in essi la
corda eroica, e
fallisce. E gli
si è dato
sulla voce, consigliandolo (per
parlare col suo
poeta) a meditare
silvestrem musam tenui
avena, ad attenersi
al deductum Carmen,
al calamos inftare
leves, se non
voglia stridenti miserum
stipula disperdere carmenì
Ma gl'inni, nel
loro complesso, contengono
nient'altro che la
predicazione del solito vangelo
pascoliano: si ricordino
quelli sull'anarchico assassino
dell'imperatrice Elisabetta, sul
negro di Saint-Pierre,
sulla uccisione di re
Umberto, sul Duca
degli Abruzzi e
la spedizione al
Polo, sulle stragi
civili. E si
deve concludere che
non vi ha
luogo a distinguere,
nell'opera del Pascoli,
filoni diversi di
pensieri, correnti diverse
di sentimento, e ad assegnare
la parte geniale
della poesia di
lui all'una delle
correnti, e l'artificiosa
all'altra. Si deve
concludere che anche
il secondo dei
due procedimenti critici,
che abbiamo ricordati,
si chiarisce inapplicabile
al caso suo. E
così l'arte di P.
par che
serbi sempre l'aspetto
di un problema.
La genialità e
l'artificio, la spontaneità
e l'affettazione, la
sincerità e la
smorfia, appaiono uniti
negli stessi componimenti,
nelle stesse strofe,
talvolta in un
singolo verso. Il
male attacca la
lirica nelle sue
radici e nelle
sue fibre più
intime, nel metro;
talché in mol-
tissime poesie del Pascoli
la mossa metrica
è come staccata
dall'ispirazione: quasi si
direbbe che, appena
sorto il germe
di vita, un
microbio vi si
sia precipitato sopra
a contaminarlo. L'impressione del lettore
è quella che
io ho notata
in principio: l'attrattiva
e la repulsione,
il rapimento e
il disgusto si
avvicendano. Abbiamo insieme
un poeta ingenuo
e uno bambinesco;
un lirico del
dolore e un
assassinato di dolore,
come avrebbe detto
Pietro Aretino; un
commoso cantore della pace
e un predicatore
alquanto untuoso; un
uomo santo e
un sant'uomo, uno
spirito religioso e un
prete. Stiamo a
momenti per gridargli
entusiasmati: Quae Ubi,
quae tali reddam
prò Carmine donaci,
e donargli la
nostr'anima (unico dono
degno che possa
farsi ai poeti);
ma, nel- l'istante seguente, lo
slancio del donatore
resta sospeso. E
il critico è
messo in imbarazzo:
press'a poco nella
situazione di Gargantua,
quando gli nacque
il figlio e
gli mori la
moglie, che non
sapeva se dovesse
ridere o piangere:
*Et ledóbufe qui
troubloil san en
tende meni esloit
assavoir l'AS mon
s'il devoit pleurer
poùr le deuil
de sa femme,
ou rire pour
la joie de
son filz. D'un coste
et d'aulire, il
avoit argumens sophistiques
qui le suffoquoient,
car il les
faisoit tres ìnen
in modo et
figura, mais il
ne les pouvoit
souldre. Et, par
ce moyen, demeuroit
empestrè cornine la
souris empeigée, ou
un milan pris
au lacet». Ma il
critico non vuole
escogitare « argumens
sophistiques»: vuol vederci
chiaro, e non
gli riesce. Non
è una consolazione
osservare che questa
incertezza si ritrova
nell'opinione generale con-
cernente il Pascoli. Coloro
che più ponderata-
mente hanno scritto della
sua opera, mostrano
sempre, in modo
espresso o tra
le linee, una
tal quale insoddisfazione: e
ora concludono che
P. non giunge
alla creazione spontanea
e ^geniale; ora
riconoscono quel che
c'è d'imperfetto nelle sue
più belle creazioni;
ora lo consi-
derano piuttosto come precursore
che come ar-
tista compiuto in sé
stesso; ora lamentano
che nel Pascoli
ci sia l'imitazione
di sé medesimo,
il pascolismo. Più
volte ho potuto
osservare che alcuni
dei maggiori estimatori
e lodatori di
lui non sanno
celare la loro
dubbiezza e cercano
come di essere
rassicurati sulla legittimità
della loro ammirazione;
o alcuni dei
più risoluti avver-
sari non si sentono,
nella manifestazione del
loro dispregio, in
completa buona coscienza.
Tanta è questa
incertezza, che si
ode lamentare non essere
stato finora P.
giudicato degnamente perchè
la critica italiana
è inferiore al
compito suo; ed
altri scusano la
critica con- siderando l'arte del
Pascoli come un'arte
dell'av- venire, che solo
in una nuova
fase spirituale potrà
essere compresa a
pieno. Sarà dunque
così? Fallimento della
critica? o rinvio
all'avvenire? Ma, prima
di ricorrere a
codeste ipotesi da
disperati (da disperati,
perchè non verificabili), bisogna
esaminare un'ipotesi più
semplice. La quale
è, che ciò
che si presenta
come problema sia
una soluzione; che
ciò che sembra
una do- manda, sia
già una risposta
; che questa
mia censura critica, che
finora sembra tutto
un prologo, sia
già una conclusione.
Il Pascoli è,
per l'appunto, quale
lo siamo venuti
osservando: uno strano
miscuglio di spon-
taneità e d'artifizio: un
grande-piccolo poeta, o, se piace
meglio, un piccolo-grande poeta
(cosi come, in
una delle sue
poesie, la terra
a lui apparisce un
« piccoletto-grande presepe
» !). In
lui, anche dopo
le prime Myricae,
sono sorti motivi
poetici felicissimi, anzi
più ricchi forse
e più pro-
fondi dei suoi primi;
ma codesti motivi
non ven- gono padroneggiati e
ridotti a unità
artistica, e non
acquistano quell'intonazione armonica,
che è la
manifestazione dell'unità. Era
uno squisito poeta
nelle prime Myricae,
restio a scrivere
e a stampare,
tanto che si
denominava da sé
« Belacqua», e,
sfiducioso, non cercava
la fama. Ma! la
fama l'ha raggiunto,
e lo ha
eccitato a una
produzione abbondante e
artificiale. Spirito poetico qual
egli è, non
riesce mai a
diventare del tutto
un retore; ma
non riesce neppure
alla poesia compiuta,
e s'indugia in
una semi-poesia. Perciò
anche egli, ora,
non vede nessun
termine alla sua
produzione: smarrito il
senso della sin-
tesi artistica, di ogni
commozione fa una
lirica, prima che
sia diventata veramente
tale: la sua
produzione si è
resa facile e
meccanica. « Quanto
più di numero
vorrei che fossero!
(scrive nella prefazione
di Odi e
inni, che pure
son troppi e
troppi). Io sento
di non avervi
ancor detto nulla
di ciò che
avevo per i
vostri cuori. E
temo di andarmene,
volgendomi disperatamente addietro
per dirvi ciò
che non dissi,
e che è
sempre e ancora
il tutto. Bisogna
affrettarsi, ora. Gli
anni non vengono,
ora: vanno ».
Perciò, non s'acqueta
in nessuna delle
sue creazioni. Ogni
materia diventa per lui
inesauribile. Il tragico
fato del _padre
gli è fonte
perpetuajd^__pjoesia^,appunto
perchè nessuna perfetta
poesia ne è
nata. Egli sente
nell'aria il rimprovero
per quel suo
inces- sante verseggiare i
casi della propria
famiglia; e si
difende: «Io devo
(il lettore comprende)
io devo fare
quel che faccio.
Altri uomini, rimasti
impuniti o ignoti,
vollero che un
uomo non solo
innocente ma virtuoso,
sublime di lealtà
e bontà, e
la sua famiglia,
morisse. E io
non voglio. Non
voglio che siano
morti. E non si tratta
di questo: i
lettori non l'accusano
di parlar troppo
di suo padre,
ma di non
parlarne abbastanza poeticamente;
ed egli forse
insiste nel tema,
non perchè spinto
da dovere domestico,
ma perchè avverte,
sia pure confusamente,
che non è
giunto ancora a
concretare il suo
sentimento nelle immagini.
Quella tragedia familiare
gli sta dinanzi
come un grosso
blocco di marmo,
che non sa
come lavorare: ne
fa con lo
scalpello saltare qualche
scheggia, ma non
v'incide una volta
per sempre la
statua o il
gruppo. Per la
stessa ragione, infine, la
sua opera poetica
ha l'aria di
una poesia dell'avvenire: i
motivi, che vi
sono abbozzati e
non perfettamente elaborati,
paiono aspettare e
provocare l'artista, che
li ripiglierà. Come
dal suo stato
d'animo idillico P. ha
tratto una filosofia
che è la
conferma di quel
suo stato, cosi
dalla sua arte
imperfetta ha tratto
un'estetica e una
critica, che è
il riflesso teorico di
essa, e insieme
una conferma dell'analisi
che si è
tentata in queste
pagine. Il poeta
jegli dice ed
io compendio), il
poeta vero è
un fanciullo: è
l'anima che ama
il poco, le
piccole cose, la
campagna piccola, il
campicello, l'orto con
una fonte e
con un po'
di selvetta, il
cavallino, la carrozzina,
l'aiolina. E l'ama
con la dolcezza
della pietà: perchè
il poeta non
solo è il
fanciullo, ma è
anche il poverello
dell'umanità, spesso cieco
e vecchio. Per
conseguenza, in quanto
poeta, è sempre
ispiratore di buoni
e civili costumi,
d'amor patrio e
familiare e umano:
è sempre socialista,
perchè è umano:
esclude l'impoetico, e
alla fine si
trova che l'impoetico
è quello appunto
che la morale
riconosce cattivo e
l'estetica dichiara brutto:
l'esclude non di
proposito, non ragionando,
ma cosi istintivamente, perchè
ne ha paura
o schifo. Ciò
che esce fuori
di questo amore
pel piccolo) non
è poesia. Le
armi, le aste
bronzee, i carri
di guerra, i
lunghi viaggi, le
traversie, sì, perchè
sono cose che
il fanciullo ricerca
con avida curiosità,
e le vagheggia
palpitando di gioia.
Ma tale non
è l'amore, l'eros;
tale non è
tutta la moltitudine
irosa delle altre
passioni. Ciò P.
chiama non più
elemento poetico, ma
drammatico; non più
poesia pura, ma
applicata; non più
di sentimento, ma
di fantasia. Con l'introduzione dell'elemento
erotico, l'essenza poetica
diminuisce: le figure
omeriche sono più
poetiche di quelle
della tragedia ellenica:
Rolando della Chanson
è più poetico
dell'Orlando innamorato e
furioso dei romanzieri
italiani. La Comedia
dantesca, come tutti
i grandi poemi,
i grandi drammi,
i grandi romanzi,
è poesia ap-
plicata: è un gran
mare, nel quale
di tanto in
tanto si pesca
una perla, un
prodotto di poesia
pura; com'è, per
esempio, nel Purgatorio
la descrizione dell' «ora
che volge il
desio ai naviganti .
Questa estetica è
la base della
sua critica letteraria.
Di Omero mette
in mostra l'intona-
zione fanciullesca: « descriveva
i particolari l'uri
dopo l'altro, e
non ne tralasciava
uno, nemmeno, per
esempio, che le
schiappe da bruciare
erano senza foglie.
Che tutto a
lui pareva nuovo
e bello, ciò
che vi aveva
visto, e nuovo
e bello credeva
avesse a parere
agli uditori. La
parola c bello
e ' grande
' ricorreva a
ogni momento nel
suo novellare, e
sempre egli incastrava
nel discorso una
nota a cui
riconosceva la cosa.
Diceva che le
navi erano nere,
che avevano dipinta
la prora, che
galleggiavano perchè ben
bilanciate, che avevano
belli attrezzi, bei
banchi; che il
mare era di
tanti colori, che
si moveva sempre,
che era salato,
che era spumeggiante.. L'Eneide
di VIRGILIO diventa
per P. quasi un duplicato
della Georgica: l'Eneide
canta, si, guerra
e battaglie; ma tutto
il senso della
mirabile epopea è
in quel cinguettìo
mattutino di rondini
o passeri, che sveglia
Evandro nella sua
capanna, là dove
avevano da sorgere
i palazzi imperiali
di Roma. Nelle
sue introduzioni aXY Epos
e alla Lyra,
il Pascoli evoca
la Grecia primitiva
coi suoi aedi
e mendicanti, ricchi
di meravigliose storie,
fanciulli parlanti ad
altri fanciulli, o
ri- sveglianti nell'uomo
adulto il fanciullo:
evoca il Lazio
primitivo, con la
sua vita agreste
piuttosto che guerresca.
È da notare
un'altra dottrina letteraria
del Pascoli, che si lega
alla precedente. Egli
afferma che per
la poesia vera
e propria agli
italiani manca, o
sembra mancare, la
lingua; e che
bisogna riproporsi il problema
posto e studiato
dal Manzoni: il
problema della lingua.
La lingua, che
si adopera, è
troppo generica e
grigia. « Pensate
ai fiori e
agli uccelli, che
sono de' fanciulli
la gioia più
grande e consueta:
che nome hanno?
S'ha sempre a
dire uccelli, si
di quelli che
fanno tottavì e si di
quelli che fanno
crocrol Basta dir
fiori o fioretti,
e aggiungere, magari,
vermigli e gialli,
e non far
distinzione tra un
greppo co- perto di
margherite e un
altro gremito di
crochi?». Ed insegna ai
fanciulli il segreto
per diventar valenti in
poesia: «Chiedete sempre
il nome di
ciò che vedete
e udite; chiedetelo
agli altri, e
solo quando gli
altri non lo
sappiano, chiedetelo a
voi stessi, e,
se non c'è,
ponetelo voi il
nome alla cosa »
. Anche
questa dottrina è
base ai suoi
giudizi critici. Esamina
il Sabato del
villaggio di Leopardi, e trova
indeterminato e vago
il verso «un
mazzolin di rose
e di viole»; et avrebbe
desiderato maggiore precisione
per es- sere in
grado così di
stabilire a quale
mese dell'anno si riferiva
il poeta con
la sua descrizione:
corregge altrove Leopardi,
che accenna al
canto degli usignoli,
notando che nella
valle di Recanati
si odono invece
le cingallegre; l'Elogio
degli uccelli gli
suggerisce l'esclamazione :
« mai un
nome di uccelli:
tutti uccelli, tutti
canterini! ». Ora è
evidente, per quanto
riguarda la dottrina estetica, che P.
ha equivocato, scambiando
e confondendo in
uno l'ideale fan-
ciullezza, che è propria
della poesia la
quale si libera
dagl'interessi contingenti e
s'affisa rapita nelle cose,
la fanciullezza che
è imma- gine della
contemplazione pura, —
con la realistica fanciullezza, che
si aggira in
un piccolo mondo
perchè non conosce
e non è
in grado di
dominarne uno più
vasto. E l'equivoco
lo ha menato
diritto a negare
carattere d'arte pura a
quasi tutta l'arte;
a distinguer l'arte
dalla fantasia confinandola
al sentimento, e
a mutilare il sentimento
stesso confinandolo a
quel solo sentimento
che non sia
erotico o passionale,
al sentimento idillico.
La sua dottrina
sulla lingua ha
stretta affinità con quella
di Edmondo de
Amicis e degli
altri linguai; vale
a dire, si
riduce in fóndo
al- l'eretismo delle piccole
cose, agli alberi
che impediscono la vista
della selva. Dice
il Leopardi nella
Vita solitaria: Talor
m'assido in solitaria
parte sovra un rialto, al
margine d'un lago
di taciturne piante
incoronato. E un
De Amicis o
un Pascoli a
domandare; Piante? ma quali
piante? di quale
specie e sot-
tospecie e famiglia e
varietà? Qui c'è
l'indeter- minato e l'impreciso!
— quasi che
Leopardi dovesse essere,
in quel momento,
non già un'anima
assorta nel problema
del dolore e
del fine dell'universo, ma un
dilettante di botanica;
come prima, nel
caso degli uccelli,
non un filosofo
pessimista, ma un cacciatore,
esperto a riconoscere
lo voci e
le forme degli
uccelli, a cui
mirerà con lo
schioppo! La critica
di P., infine,
è unilaterale ed
esagerata. Dove egli
s'incontra con poeti
e con situazioni
poetiche che rispondono
al suo proprio
ideale e alla
sua angusta teoria,
li sente e
interpreta bene, e
vi fa intorno
osservazioni assai fini.
Ma, trovandosi più
spesso innanzi a
un'arte diversa, è
costretto o a
tacere o a
ridurla sofisticando alla sua
personale visione. Rare
sono le eccezioni,
dovute allo spontaneo
irrom- pere di un più compiuto
senso dell'arte. Ma è veramente
l'Eneide quella che
egli ci presenta
nel giudizio riferito
di sopra? E,
per esempio, il
passionale episodio di
Didone, cosi importante
e significante, come
si concilia con
la veduta georgica
dell'essenza del poema?
E, veramente, lo
stile di Omero
quello che P.
ci ha descritto, o
non è di un Omero
reso da lui
alquanto puerile? Anche
i saggi di
traduzione che il
Pa- scoli ci ha
dati dei poemi
omerici destano i
medesimi dubbi. Non istituirò
sottili confronti con
l'originale, convinto come
sono che la
poesia, rigorosamente parlando,
non si traduce;
o, come è
stato detto di
recente e assai
bene da un
critico d'arte tedesco,
che chi traduce
con la pretesa
di sostituire l'originale,
fa come uno
che volesse dare
a un innamorato
un'altra donna in
cambio di quella
che egli ama:
una donna equivalente
o, su per
giù, simile; ma
l'innamorato è inna-
morato proprio di quella
e non degli
equivalenti. Né contesterò l'utilità
grande che avrà
per la cultura
italiana il possedere
un Omero messo
in italiano da
un profondo grecista
e da un
espertissimo letterato, quale
P.: anzi affretto
coi miei voti
il compimento del-
l'opera. Ma, considerando quelle
traduzioni per sé,
come opere d'arte
che stiano da
sé, a me
pare che tra
l'Omero alquanto rimbambinito
di P., e quello
un po' enfatico
e accademico, ma
pur grandioso, di
Vincenzo Monti, chi
legga per mere
ragioni di godimento
artistico preferirà sempre
il secondo: Elena
dunque venire vedevano
verso la torre,
e l'uno all'altro
parlava parole dall'ale
d'uccelli : Torto
non è che Troiani ed
Achei dalle belle
gambiere da sì
gran tempo per
tale una donna
sopportino il male. Monti
ha soppresso le
ali di uccello
e le belle
gambiere, sentendo che
il loro valore
si falsifica nella
letterale versione italiana;
ha aggiunto qualche
suo tocco: ne
è uscito un
quadro o una
statua alla David
o alla Canova,
ma, a ogni
modo, una pagina
d'arte: Come vider
venire alla lor
volta la bellissima
donna, i vecchion
gravi alla torre
seduti, con sommessa
voce tra lor
venian dicendo :
— In vero
biasmar né i
Teucri né gli
Achei si denno
se per costei
si diuturne e
gravi sopportano fatiche...
Il fanciullesco non
c'è più; ma
c'era veramente in
Omero? L'omerico neanche
c'è più; ma
si poteva rendere?
e l'ha reso
poi il Pascoli?
— Parla Achille
ad Ettore caduto:
Ettore, tu lo
credevi spogliando il mio Patroclo
morto, d'esser salvo,
e di me
ch'ero lungi, pensier
non ti davi
bimbo! ma in
parte da lui
c'era un molto
più forte com-
pagno presso le
navi cavate, c'ero
io dietro ad
esso rimasto, che
i tuoi ginocchi
snodai! I cani
e gli uccelli
da preda strascicheranno ora
te; lui seppelliranno
gli Achei! Anche
qui mi pare
che sia più
facile gustare il
Monti, che traduce
nello stile neoclassico,
non senza qualche
svolazzo accademico: Ettore,
il giorno che
spogliasti il morto
Patroclo, in salvo
ti credesti, e
nullo terror ti
prese del lontano
Achille. Stolto! restava
sulle navi al
mio trafitto amico
un vindice, di
molto più gagliardo
di lui: io
vi restava, io,
che qui ti
distesi. Or cani
e corvi te
strazieranno turpemente, e
quegli avrà pomposa
dagli Achei la
tomba. Comunque, la
critica del Pascoli,
quando non può
interpretare in modo
rispondente al suo
ideale di vita
le opere poetiche,
divaga, come può
vedersi nei citati
discorsi introduttivi alle
raccolte dell'Epos e
della Lyra, i
quali sono i suoi migliori
lavori critici: serie
di note sugli
aedi dell'Eliade, sulla
condizione dei poeti
nella primitiva società
romana, sulle leggende
di Roma confrontate
con quelle dell'epos
ellenico, su Enea
e Odisseo, su
questioni biografiche e
cronologi- che, sulle varie
redazioni del testo
dell' Eneide, e
simili, che non
stringono dappresso il
problema critico. Nella
sua inesatta idea
dell'arte è anche
l'origine di quella singolare
opera critica, che
sono i parecchi
volumi da lui
dedicati dall'esegesi dantesca.
Il Pascoli non
sembra ancora investito
dello spirito della
critica moderna, per
la quale il
pensiero poetico e
la grandezza di
Dante non sono
riposti nelle allegorie
e nei concetti
morali. La sua
Minerva oscura (prendo
questo libro come
esempio) discute ancora
con gravità e
come di problemi
di alta importanza,
se il sistema
delle pene e
dei premi sia
il medesimo nell'Inferno,
nel Purgatorio e
nel Paradiso; se
delle tre fiere
la lonza rappresenti
l'incontinenza, il leone
la violenza, la
lupa la frode;
se il messo
del cielo sia
Enea; perchè il
conte Ugolino stia
nell'An- tenora e
non nella Caina,
e via dicendo:
questioni di nessuno
o di assai
scarso significato non
solo per l'intelligenza artistica
di Dante, ma
anche per la
conoscenza della vita
medievale e delle
intenzioni e dei
sentimenti appartenenti alla
bio- grafìa di Dante
: inezie, che,
di giunta, sono
per lo più
questioni insolubili, per
mancanza di dati
di fatto sufficienti;
onde rendono possibile
quel raziocinare all'infinito,
che piace ai
perditempo, e quell'acume
a buon mercato,
che piace ai
vanitosi. Ed ecco
il Pascoli, per
le scoperte del
genere accennato, «
raggiante di solitario
orgoglio » . «Aver
visto nel pensiero
di Dante!... (dice
nella prefazione alla
Minerva oscura). Io,
la vera sentenza, io
l'ho veduta! Si:
io era giunto
al polo del
mondo dantesco, di
quel mondo che
tutti i sapienti
indagano come opera
di un altro
Dio! Io aveva
scoperto, in certo
modo, le leggi
di gravità di quest'altra
Natura; e quest'altra
natura, la ragione
dell'universo dantesco, stava
per svelarsi tutta!». Sembra
anche qui Edmondo
de Amicis, quando,
dopo aver veduta
e toccata a
Granata la cassetta
delle gioie d'Isabella
di Castiglia, si
guardava le mani,
esclamando come incredulo
o trasognato: «Io
l'ho toccata, con
queste mani!». Ma
il Pascoli si
ricorda, subito dopo,
del doveroso sentimento
di modestia: scaccia via
con piglio risoluto
l'orgoglio, benché, nello
scacciarlo, gli accada
(disavventura in cui
incappano di solito i
modesti) di accentuarlo
più fortemente: «Cancelliamo quelle
superbe parole! Mi
perdoni chiunque ne
sia rimasto scandalizzato! Oh,
se la gloria
è ombra di
vanità... Via dal
cuore cosi perverso
fermento!». Il che
non impedisce che, qualche
anno dopo, egli
non sappia tenersi
dal contare la
sua scoperta e
la sua gloria
ai fanciulli delle
scuole d'Italia: «
E io vi
dico, o fanciulli,
che il tempio
(la Divina Commedia)
è ancora in
piedi, e che
è bello dentro
e fuori, e
più bello nel
suo complesso che
nei suoi particolari che sono
pur bellissimi, e
che nel tempio
e si gode
molto, per la
grande bellezza, e
s'impara molto per la
ingegnosa verità; e
che vi si
può entrare, perchè
la chiave si
è trovata. E
se vi soggiungessi
che l'ho trovata
io, mi direste
superbo? Quanti trovano,
figliuoli miei, una
chiave, in questo
mondo, e non
sono detti superbi
se dicon d'averla
trovata e la
riportano! E poi,
sapete dove l'ho
trovata? Nella serratura.
Era nella toppa,
la chiave del
gran tempio! Era
lì, e bastava
appressarsi un poco
per vederla e
gi- rarla ed entrare!
Ma nessuno s'era,
a quanto pare,
appressato assai »
(Fior da flore,
prefaz.). E, an-
cora qualche tempo dopo,
con rapida mutazione
di stile, rivolgendosi
ai critici, e
alludendo ai suoi volumi
danteschi, scritti e
da scrivere: «Essi
furono derisi e
depressi, oltraggiati e
calunniati ; ma
vivranno. Io morrò:
quelli no. Così
credo, cosi so:
la mia tomba
non sarà silenziosa.
Il genio di
nostra gente, Dante,
la additerà ai
suoi figli ».
In questi giubili,
in questi vanti,
in queste stizze,
in questa virtù
che si nasconde
ma se cupit
ante videri, abbiamo
innanzi, veramente, non il fanciullo
divino e poetico,
ma il fanciullo
realistico e prosaico.
E neppure nelle
poesie del Pascoli
c'è solo il
divino infante. Anche
colà, come nella
sua dottrina estetica
e critica, i due esseri,
così all'apparenza simili,
così nel profondo
diversi, sono abbracciati
e stretti in
un amplesso indissolubile. Questo
amplesso del poeta
ut puer e
del puer ut
poeta è forse
il simbolo più
ade- guato dell'arte di P.
INTORNO ALLA CRITICA
DELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA E
ALLA POESIA DI P. Il
giudizio di CROCE (si veda)
su P. suscita —
e me le
aspettavo — vivaci
opposizioni e contro-
versie. E a proposito
di esso si
è ripreso a
discutere di quel che
sia o debba
essere la critica
letteraria, e dei
vantaggi e degli
inconvenienti di questo
e di quel
metodo, e del
metodo in genere. Ecco
dunque buona occasione
per meglio chiarire
le idee non
ancora del tutto
chiare (sebbene molto meno
confuse di quanto
fossero alcuni anni
addietro) sull'ufficio della
critica, e anche
per aggiungere qualche
cosa circa la
poesia di P. Quale
sia il metodo
di critica, che
si professa in
queste pagine, può
compendiarsi in poche
parole, quasi in un catechismo.
È una critica
fondata sul concetto
dell'arte come pura
fantasia o pura
espressione, e che
per conseguenza non
esclude dalla cerchia
dell'arte nessun contenuto o
stato d'animo, sempre
che sia concretato
in un'espressione perfetta.
Fuori di tale
concetto, quella critica
non ha alcun
altro presupposto teorico,
e rifiuta come
arbitrarie le cosiddette
regole dei generi
e ogni sorta
di leggi letterarie
e artistiche. Per
giudicare d'arte non
conosce altra via
che quella d'interrogare
direttamente l'opera stessa
e risentirne la
viva impressione; e
a questo fine,
e solo a
questo fine, crede
am- messibili, anzi
indispensabili, le ricerche
che si chiamano
storiche o filologiche,
le quali hanno
valore ermeneutico e
servono a trasportarci,
come si dice,
nelle condizioni di
spirito dell'au- tore nell'atto che
formò la sua
sintesi artistica. Ottenuta
la viva impressione,
ossia il congiun-
gimento con lo spirito
dell'artista, il lavoro
ulteriore non può
esplicarsi se non
nel determinare ciò che
nell'oggetto che si
esamina è schietto
prodotto di arte,
e ciò che
vi si contiene
di non veramente
artistico, come sarebbero,
per esempio, le
violenze che l'autore
fa alla sua
visione per intenti
sovrapposti, le oscurità
e i vuoti
che lascia sussistere
per ignavia, le
gonfiature e fiorettature che
introduce per far
colpo, i segni
dei pregiudizi di
scuola, e tutta
insomma la varia
sequela delle deficienze
e viziature ar-
tistiche. Il risultato di
questo lavoro è
l'esposizione o ragguaglio critico,
che dica semplicemente (e, nel
dir ciò, ha
insieme giudicato) wie es eigentlich
gewesen, « come
sono andate propriamente
le cose »,
secondo la definizione,
geniale nella sua
semplicità, che Ranke da
della storia. Perciò
critica d'arte e
storia d'arte, a
mio vedere, s'identificano: ogni
tenta- tivo di critica
d'arte è tentativo
di scrivere una
pagina di storia
dell'arte (intendendo la
parola storia nel
suo . senso alto
e compiuto, cioè
nel suo senso
vero). La critica
distingue e caratterizza
le forme prese
dallo spirito artistico
nel corso della
realtà, che è
svolgimento e storia.
Mi ha recato
dunque meraviglia leggere
su pei giornali
che questo metodo
vuol « misurare
la fantasia e
l'estro di un
poeta col metro
di preconcetti pedanteschi
», o che
esso applica all'arte
« i criteri
logici che sono
propri della critica
della scienza, o
che si fonda
sui caratteri estrinseci dell'opera
d'arte; — quando
vero è proprio
l'opposto, cioè che
esso è sorto
per discacciare preconcetti
pedanteschi e abitudini di
confusione tra arte
e scienza, e
per ricondurre lo
sguardo dall'estrinseco all'intrinseco. E non
so che cosa
si voglia dire
con l'accusare quel metodo
come «sistematico», giacché,
per quel ch'io
so, la mente
umana è sistema,
vale a dire
ordine; e si
potrà censurare come
imperfetto un particolare
sistema, ma non
perciò sopprimere mai
l'esigenza sistematica, la
quale conviene a
ogni modo appagare.
Non potrei neppure ammettere che
il metodo da
me professato sia
bensi buono, ma
che « accanto
ad esso ve
ne siano altri
egualmente buoni per
giudicare dell'arte, perchè
non intendo come
una funzione dello spirito
umano possa avere
altro metodo che
non sia quell'unico,
che le è
proprio; e resto
stupito quando poi
leggo, che «
di un metodo
in critica non
si dovrebbe neppur
parlare», perchè rispetto troppo
il mestiere che
qui faccio per
considerarlo come cosa
capricciosa e priva
di metodo, cioè
di giustificazione e
di valore. Ma
confesso che la
meraviglia maggiore è nata in
me dal timore
manifestato da Gargano:
che questo metodo,
risolvendosi in un
formolario, metterà «
d'ora innanzi alla
portata di tutti l'esame
di ogni produzione
letteraria, di coloro
specialmente che, sforniti
della dote essenziale
del critico, cioè
del gusto, crederanno
in buona fede
di poter giudicare
applicando severamente i principi
della logica. Lasciando
stare l'ovvia risposta
già da altri
anticipata a Gargano (che
di qualsiasi metodo
si può abusare
dagli incapaci), io
osservo che la
vecchia critica, fondata
sulle regole e
i modelli, quella,
sì, era facilissima
e alla portata
di tutti; perchè
non ci voleva
molto a sentenziare:
la tale opera
non risponde alle
regole della tragedia,
e perciò merita
condanna»; ovvero: « il tale
personaggio si conduce
in questa situazione
precisamente come il
pius Aeneas, e
perciò merita lode
di decoroso eroe
da epopea». Ma
la critica moderna, richiedendo insieme
idee filosofiche sul- l'arte, cultura storica,
sensibilità estetica, acume
di analisi e
forza di sintesi,
è difficile. Tanto
diffìcile che io
non l'ho vista
mai attuata se
non [Nel Marzocco
di Firenze.] a tratti
e lampi; e
non conosco se
non un sol
critico (l'ho detto
già molte volte),
che l'abbia degnamente
esercitata sopra un'intera
letteratura: il De Sanctis.
Per quel che
concerne me che,
in mancanza di
altri volenterosi, mi
sono provato ad
adoprarla per la
contemporanea letteratura
italiana, io sono
di continuo travagliato
dal dubbio (igienico
dubbio) della mia
inade- guatezza all'alto ufficio. Faccio del
mio meglio, m'invigilo,
procuro di correggermi;
ma non ho
mai la sensazione
di correre un
campo libero di
ostacoli, o di
scivolare come in
islitta sul ghiaccio.
Se altri prova
questo godimento, beato
lui! Ma come
mai l'enunciato metodo
critico, che è
il più liberale
che sia stato
mai concepito, il
più rispettoso verso
tutte le infinite
individuazioni artistiche,
il solo che
non prenda il
passo sull'arte, viene
ad assumere agli
occhi di molti
aspetto minaccioso di
forza e di
prepotenza, tanto da
spingerli alle proteste
e alle accuse
malamente formolate con
le parole di
sistematismo, logicismo, preconcettismo pedantesco, e
simili? Chi non
ignora che le
medesime accuse sono state
date ai metodi
dei più vigorosi
filosofi, e le lodi contrarie
largite in copia
ai filosofi molli
e contradittorl e
inconcludenti, chi rammenta
di quanto odio
siano stati proseguiti Spinoza o
Hegel, e di
quante simpatie Mill
o Spencer, non
dura grande fatica
a spiegarsi il
caso. La ragione
delle accuse, non
potendo essere fondata
nella qualità di
quel metodo, deve
cercarsi nelle disposizioni
degli animi e
degl'intelletti degli accusatori:
in quelle tendenze
che io soglio
riassumere con la parola
pigrizia. È l'umana
pigrizia che fa
preferire un metodo
più comodo, o
almeno rivendica il
diritto di un
metodo più comodo
e benigno accanto
all'altro troppo severo;
la pigrizia, che
rifiuta il peso
e scansa la
responsabilità del concludere,
e tenta di
eludere il problema,
girandolando intorno all'arte,
cogliendone solo qualche
lato, divagando leggiadramente o
sviandosi in questioni
estranee. L'orrore di
molti cosiddetti «
eruditi » per
la cosiddetta «critica
estetica» è l'istintiva
paura per un
esercizio troppo aspro
e periglioso. Met-
tere insieme la cronaca
dei pettegolezzi di
Recanati è, si sa,
molto più facile
che non analizzare il
Canto del pastore
errante. La pigrizia
per altro è,
nella critica della
letteratura contemporanea, rafforzata
da motivi particolari.
Quella critica, a
dir vero, considerata intrinsecamente, non
ha problema diverso
da ogni altra
forma di critica,
che concerna le
letterature più da
noi remote nel
tempo; e anch'essa, come si
è detto, consiste
nel tentativo di
scrivere una pagina
di storia letteraria.
E se vi
s'incontrano condizioni sfavorevoli,
che non si
trovano nella letteratura
più remota, presenta
altresì alcune condizioni
favorevoli, che mancano
nell'altro caso: se
nella letteratura contemporanea è assai
malagevole cogliere il
carattere e il
valore di certi
processi che sono ancora in
fieri o si
sono appena conclusi,
laddove per l'antica
si hanno innanzi
serie di svolgimenti compiuti e
nitidamente assegnabili, d'altro
canto per la
letteratura contemporanea si
ha una agevolezza d'interpretazione e
comprensione, che nella
più antica si
ottiene di solito
con grandi stenti
e solo in
parte. Vantaggi e
svantaggi, in- somma, su
per giù si
compensano, e gli
uni e gli
altri sono poi
affatto contingenti. Ma
la cosa non
sta allo stesso
modo circa le
condizioni soggettive, o
meglio i sentimenti
e le passioni
individuali; le quali,
a dir vero,
nella letteratura
contemporanea, operano assai
di frequente una
vera pressione psicologica
per impedire la
posizione esatta e
la soluzione giusta
del problema critico.
Vi hanno, per
esempio, tra gli
autori di versi
e prose letterarie,
personaggi o ragguardevoli
per situazione sociale
o rispettabili per
altre forme della
loro attività o
attraenti e cari
per la loro
bontà e amabilità,
la cui opera
artistica non risponde
in modo degno
alle altre loro
forze e virtù.
Il che più
o meno tutti
avvertono, ma tutti
o quasi tutti,
come per tacito
accordo, si propongono
di non dire.
A questo intento
si ricorre a
una sorta di
critica diplomazia, la
quale o si
perde in vani
suoni o gira
il problema o
somiglia al linguaggio
di Alete, pieno
di strani modi,
« che sono
accuse e paion
lodi ». Si
lasci balenare il
più lieve accenno
di critica seria
innanzi a codesto
tessuto di frasi
abili e sfuggenti, e
ne nascerà uno
scompiglio, come io
stesso ho potuto
sperimentare in più
occasioni pei miei
giudizi. Per esempio,
ho mostrato che
nei volumi di un
egregio uomo, scrittore
di versi, vi
ha cultura, elevatezza
di pensieri e
d'intendimenti, pratica dello
scrivere, ma difetta
quasi del tutto
la sostanza poetica,
l'intimo ritmo e
il canto. Ed
ecco una schiera
di amici a
scandalizzarsi e a
darmi sulla voce.
« Quello scrittore
è una nobile
personalità». D'accordo; ma
non è poeta.
« Quello scrittore
sta solo in
parte, intatto dal-
l'applauso volgare » . Ciò
vorrà dire che
è uomo dignitoso,
ma non che
sia poeta. «
Quello scrittore ha un
aspetto tra di
monaco e di
guerriero, e avrebbe
potuto, se fosse
vissuto nel secolo
de- cimosesto, comandare una
galea in battaglia
contro i turchi
». Sarà, quantunque
sia difficile provarlo;
ma non è
poeta. « Quella
sua poesia attinge
il più alto
segno della poesia
degli acca- demici e
professori » . Il
che vorrà dire
che gli accademici
e i professori,
in quanto tali,
debbono astenersi dalla
poesia; ma non
già che quegli
sia poeta. «
Se verrà tempo
che non si
guarderà più a
un libro di
poesia da un
punto di vista
estetico secondo la
moda corrente, il
suo libro sarà
studiato come un
interessantissimo documento
psicologico». E ciò
conferma, per l'appunto,
che non è
poesia, ma semplice
documento biografico. — Sono
giudizi codesti che,
per quanto strani,
potrei tutti documentare,
coi nomi degli
autori e con
le altre relative
citazioni; ma prego
i lettori di
dispensarmene per non
allontanarci troppo dalla
questione che sola
ora c'interessa. Sembra,
in verità, che
il problema che
i più cercano
di risolvere, sia
di trovare il
modo di non fare
critica, pur dandosi
l'aria di farne.
. Innanzi a
siffatto proposito, tenace
quantunque spesso inconsapevole, di
nascondere la verità
come a un
malato si nasconde
la gravità della
sua malattia, il
critico ingenuo, che
ripeta il vecchio
e arrogante Hic
Rodhus, hic salta,
il critico che
cerchi determinare chiaramente
se una data
opera è o
non è poesia,
il critico che,
insomma, voglia adempiere
il dover suo,
desta fastidio e
impazienza come personaggio
importuno, e, non
sapendosi come combattere
i suoi giudizi,
si rifiuta addirittura
il suo «
metodo»: quel metodo che
procede o si
accinge a procedere
in guisa tanto
indiscreta. Guai a
chi si prova
ad accendere una
luce sfolgorante dove
si desidera l'ombra
o la penombra.
Ma il contrasto
del metodo da
me professato con
quello che è
consueto nelle trattazioni
della letteratura contemporanea, e
la parvenza di
ri- gidità e violenza
che il primo
assume, possono avere
origine anche da
altre cagioni. La
più parte degli
scritti sulla letteratura
contemporanea sono meramente
occasionali; concernono questa o
quel- l'opera di uno
scrittore, non il
complesso della sua
attività; e provengono
da persone, che
di solito propugnano
o avversano l' indirizzo
di quello scrittore
o di quella
scuola. Non dico
che per ciò
siano privi di
buona fede e di qualsiasi
verità; e anzi
concedo che offrano
sovente osser- vazioni delicate o
sottili e giudizi
giusti. Ma sono
di necessità unilaterali,
come unilaterale sarei
io stesso se,
per esempio, amico
ed estimatore del Pascoli,
seguendo il mio
desiderio o l'altrui
in- vito, scrivessi l'annunzio
di un nuovo
volume di questo
poeta : unilaterale
e non bugiardo
o falso, perchè
mi basterebbe spigolare
nel volume mo-
tivi e strofe e
versi di molta
bellezza (dei quali
nel Pascoli è
sempre abbondanza), per
conciliare in qualche
modo i miei
sentimenti personali con
la verità: tacendo
sul resto, ossia
schivando il vero
ed intero problema
critico. Messa a
para- gone di quegli
scritti occasionali e
polemici, la parola
di chi, come
me, è costretto,
per la qua-
lità stessa del suo
assunto, a esaminare
tutta l'opera di
uno scrittore (la peggiore e
la migliore, il
periodo di genialità
e quello di
artifizio o decadenza), e
a determinarne tutti
gli aspetti per
darne giudizio compiuto,
sembra ora troppo
severa, ora troppo indulgente.
I lettori equanimi
e bene informati
se ne sentiranno
soddisfatti ; ma
gli autori di
quelle recensioni e
annunzi (e chi
non è autore
di qualche recensione
o annunzio?), no.
Per ciascuno di
essi, a volta
a volta, il
critico è stato
ingiusto: una metà
di essi invoca
il panegirista, l'altra
metà il carnefice. Così, pei
dannunziani, io che
ho definito D'Annunzio
un «dilettante di
sensazioni», sono, a
stento, il «
migliore tra i
critici volgari di
D'Annunzio, incapace di
penetrare nel profondo idealismo della
sua arte; ma
dagli antidannunziani,
avendo io, com'era
mio dovere, riconosciuto
le bellissime cose
che D'Annunzio ha
prodotto nella sua
ristretta cerchia d'ispirazione, mi odo
invece proclamare un
bollente SI dannunziano», il
più «gran dannunziano
sotto la cappa
del sole ».
Ho parlato con
sincera simpatia dei versi
di Severino Ferrari;
ma ciò non
basta a chi
è stato amico
del Ferrari e
della sua poesia
si è fatto
una predilezione o
un sacro ricordo;
ed ecco che
di quelle mie
pagine lau- dative, ma
non ditirambiche, non
si sa dare
pace qualche cuore
tenero, che sul
Ferrari ha stam-
pato opuscoli col titolo:
Il rosignolo di
Alberino, e vede
con isdegno che
io considero il
valente Severino come
un uomo e
non come un augello. E
via discorrendo, perchè
gli esempi si
potreb- bero accrescere. Che
cosa fare? Io
non me ne
dolgo, perchè non
mi dolgo dell'inevitabile; e
poi ci ho
fatto la pelle;
e poi ancora
ho qualche compenso,
non solo nella
mia coscienza («
coscienza » è parola
rettorica, e non
bisogna pro- nunziarla!), ma anche
nelle inaspettate e
dolcissime manifestazioni
che ho ricevute
da parte di
alcuni degli autori
da me liberamente
criticati, i quali
mi hanno ricambiato
col farmi l'amichevole confidenza delle
loro lotte e
dei loro dubbi
e dei loro
scontenti, quasi ad
illustrazione e conferma
di quanto io
aveva spregiudicatamente osservato.
Ancora un'altra cagione
che fa apparire
rigido ed eccessivo il
metodo da me
adoperato, sta nel
fatto che la
prolungata consuetudine con la letteratura
del giorno tende
ad alterare il
senso della grande
arte e a
deprimere lo standard of
faste, il livello
della vita estetica.
Di questo pericolo
io sono consapevole,
e per mia
parte cerco premunirmene,
rileggendo di tanto
in tanto i
classici e giovandomi
di tale lettura
come di un
esercizio spirituale (di
una praepa- ratio
ad missam) pel
mio ufficio di
critico. Nondimeno, penso che
i miei saggi
critici sulla letteratura contemporanea siano
alquanto indulgenti, e che tali
saranno giudicati da chi li
rileggerà fra un
mezzo secolo. Ma,
se io forse
non sono abbastanza
esigente, oso dire
che i più
dei miei colleghi
in critica, sempre
tuffati nella letteratura
del giorno, hanno
addirittura fatto l'abito
a con- tentarsi di
poco. Odo frequenti
parole sulla «
divina bellezza » della
forma del Pascoli.
Chi dice questo,
quanto tempo è
che non rilegge
un'ottava di messer
Ludovico? Il D'Annunzio
ha osato ricordare
V Aiace sofocleo, a
proposito del suo
ultimo dramma. Ma
ha egli avuto
ben presente la
tragedia di Sofocle?
Quanto a me,
avendola ripresa tra
mano dopo aver
letto la prefazione
al Più che
l'amore, giunto appena
alle parole di
Odisseo: èTCotxteipw Sé
viv, ecc., balzai
dalla sedia e
mi sorpresi a
gridare dantescamente al
D'Annunzio. Fa', fa' che
le ginocchia cali!...
». E, come
il senso della
classicità, nella consuetudine con la
letteratura contemporanea si
smar risce sovente
quello della storia,
ossia della lentezza e
faticosità dello svolgimento
e della rarità
del prodotto veramente
geniale: Tu che
'1 diamante pur
generi, lenta, in
tua mole, tu
sai su l'eterno
quadrante quante ore
di secoli, e
quante vigilie e
che doglia si
vuole, o laboriosa
gestante, per dare
un cervello di
Dante, o un
cuore di Shelley,
al tuo sole!
La letteratura italiana
(che è una
grande letteratura) in sei
secoli non offre
dieci o quindici
veri poeti; e
si sarebbe preteso
che io ne
ritrovassi una cinquantina, se
non addirittura un
centinaio, nel periodo
di un quarantennio
o di un
cinquantennio, che è
quello che sono
andato investigando. Quale
meraviglia se, per la maggior parte
degli scrittori che
hanno avuto voga
e riputazione, il
mio giudizio è
o negativo o
circondato da molte
restrizioni? Ripeto: anche
per tale rispetto
credo di essere
piuttosto indul gente
che severo; e
sono indulgente perchè
comprendo le angosce dell'arte,
e tengo conto
anche delle approssimazioni al
segno non raggiunto,
e persino ho
qualche simpatia per le disfatte
non inglorioso. Chi
nei secoli venturi
riscriverà la storia
letteraria dello stesso
periodo trattato da
me, avrà (oh,
non dubitate!) la
mano assai più
ruvida e pesante
della mia. Per
queste e per
altre cagioni simili
a queste, che,
non volendo andare
per le lunghe,
lascio di enumerare
e illustrare, il
metodo critico da
me professato sembra,
e non è,
violento. Ma per
un'altra cagione sembra
poi talora sbagliato:
per l'incompiuta preparazione
mentale della maggior
parte dei critici
che trattano di
letteratura del giorno.
I quali sono
di solito (avverto
che non faccio
allusioni e non
penso a nessuno
in particolare) o
persone^ che hanno
tentato infelicemente l'arte e
hanno poi smesso
(peggio se continuano a
farne, perchè in tal caso
sono tratte a
preparare a sé
medesime l'ambiente della
compiacenza); o uomini di
gusto che, leggendo
poesie per proprio
diletto e acquistando
cosi esperienza e
pratica dell'arte, via
via passano dal
discorrerne oralmente allo scriverne
sui giornali, e
diventano per tal
modo, senz'averci mai
pensato, critici di
professione. Ma a
costoro, pur tra
molte belle qualità
particolari, manca quello
studio e quella
annosa meditazione sui
problemi dell'arte e
della critica, e
quelle cognizioni di
storia della critica
d'arte, che spesso
si provano indispensabili; e ciò li mena
a confondersi innanzi
a certi casi,
pei quali il
gusto naturale e
il semplice buon
senso non sono
bastevoli. Talvolta, essi
non riescono a
intendere esattamente nemmeno
i termini, che
adopera il critico
addottrinato e meglio
informato dell'odissea secolare
della sua disciplina.
Se ne desidera
qualche esempio? E
io ne darò,
restringendomi a quelli
che mi vengono
forniti dalle dispute
intorno al mio
saggio sul Pascoli.
Nel quale aveva
scritto tra l'altro,
di passata, che
« il pensiero
poetico e l'importanza
di Dante non
è nelle allegorie
e nei concetti
morali ». E
un fervente ammiratore
di P. mi redarguisce:
«Le allegorie e
i concetti morali
non son [Lettera
aperta di Pietrobono a
È. C. sulla
poesia di G.
P., nel Giornale
d'Italia.] tutto Dante, lo
sappiamo: ma senza
quelle e questi
Dante non è
più lui. Chi rinunzia a
render- sene ragione, rinunzia
semplicemente a capirlo.
Ora qual critico
mai s'è sognato
d'insegnare che il
pensiero dei poeti
non importa conoscerlo?».
E qui, un
argomento irresistibile :
— Se si
tolgono le allegorie, l'arte
di Dante si
riduce a frammenti;
resta una ruina,
sebbene una nobile
ruina. — Ora,
come spiegare in
quattro parole al mio contradittore
che il pensiero
artistico non ha
che fare col
pensiero allegorico o
extrar- tistico, e
che la sintesi,
l'elemento unificatore, è
data nell'arte di
Dante dalla sua
possente fantasia e non già
dalle sue escogitazioni
di moralista e
di teologo? Questa
distinzione di pensiero
artistico (intuizione) e di
pensiero extrartistico è una delle
più sudate conquiste
della scienza este
tica. E come
spiegargli, in quattro
parole, che la
critica è stata
impotente a comprendere
la grandezza di
Dante fintanto che
ha insistito sulle
sue allegorie e
sulle sue intenzioni,
e ha fatto
un gran passo
solo quando (nel
periodo romantico) ha guardato
Dante non come
un dotto e
un filosofo, ma
come un poeta
dell'anima pas- sionale, quasi uno
Shakespeare in anticipazione? e che perciò
il Pascoli, che
crede di poter
assi- dere su
più solide basi
la grandezza di
Dante scoprendo la
sua ìmdvota, il
suo pensiero riposto,
è, nella storia
della critica, un
ritardatario, anzi un
fossile? Un altro
esempio ci è
fornito dalla questione
che è stata
mossa: se valga
la pena, nella
critica, di far tutte
le fatiche che
io faccio per
« classificare » e
mettere nel «
casellario » gli
scrittori, che bisogna invece
soltanto gustare e far gustare.
Dapprima, a questa
opposizione, sono cascato
dalle nuvole. Classificare? casellario?
Ma se io
non classifico mai!
Ma se sono
il più radicale
avversario delle classificazioni e
dei casellari (dei
generi, delle arti,
della rettorica, e
di quanti altri
se ne conoscono
di questa sorte),
che sia mai
comparso nel campo
estetico! 8e mi
rifiuto perfino a
raccogliere gli scrittori,
di cui tratto,
in gruppi di
lirici, drammaturgi, romanzieri, e
via dicendo ! Ma, poi,
ho capito :
i miei contradittori
avevano confuso Vintelligere
col classificare, la
comprensione col casellario,
tra i quali
due procedimenti c'è
un abisso, perchè
il secondo è
la morte della
critica e il
primo il suo ufficio proprio.
Anche qui, come
spiegare in poche
parole una differenza,
che non si
può giu- stificare se
non risalendo alle
teorie fondamen- tali della
logica? Prendiamo il
sonetto: « Solo
e pensoso i
più deserti campi
». Se io
dico che è
una « lirica
», l'ho classificato
in uno degli
schemi delle vecchie
istituzioni letterarie; se
dico che è
un « sonetto
», l'ho classificato
secondo la metrica.
E quella lirica
o sonetto rimane
ancora criticamente intatto.
È bello o
brutto? e quale
stato d'animo esprime?
La classificazione, facendosi per
caratteri esterni, è
impotente a rispon-
dere a queste domande.
Ma se si
determina la si-
tuazione psicologica del Petrarca
(e determinarla non
si può se
non ricorrendo a
concetti, giacché, per sentirla
così com'è, non
c'è da far
altro che leggere
il sonetto stesso),
e se si
mostra come quella
situazione si è
svolta nelle varie
parti del sonetto,
e come tutto
bene si accordi
ad essa e
bene l'esprima, non
si classifica, ma
si cerca di
comprendere il sonetto,
cioè di farne
la critica. Ora, bene
o male, questo
e non altro
io mi sono
sforzato di fare
per P. e
per gli altri scrittori, che
sono andato esaminando.
Il « classificare » non
c'entra; e la
confusione tra i
due procedimenti è
di quelle in cui possono
cascare soltanto le
menti non abbastanza
disciplinate. A talun
altro il modo
della mia critica,
in fondo, non
dispiace; ma gli
sembra troppo freddo
e ragionatore e
polemico, e preferirebbe,
per esempio, il
calore e l'eloquenza
di Mazzini. E ciò andrebbe
bene, se io
fossi Mazzini; ma, essendo Cecco come
sono e fui»,
non posso discorrere
se non nel
tono, che è
proprio al mio temperamento.
Così il Sanctis,
educatore e maestro
nell'anima, non poteva
scrivere di critica al
modo del Carducci,
poeta nell'anima. Voglio dire,
che non bisogna
confondere il metodo
della critica, che
dev'esser uno, coi
temperamento dei critici,
che non può
non esser vario;
e non bisogna
(codesto ci mancherebbe!) mettere tra
i requisiti della
critica un particolare
temperamento.All'osservanza
del metodo tutti
sono obbligati; ma
nessuno è tenuto a sforzarsi a un tono a lui estraneo: che anzi ciò gli
è assolutamente vietato sotto pena di
cadere nell'artifizio, nella
rettorica e nella
l'aisita. Amo grandemente Sanctis e
ne accolto le idee
fondamentali; ma mi
sarebbe impossibile imitare
il suo stile, e mi guardo pur
dal tentarlo. Mi si prenda dunque come sono, con la mia simpatia per gli
schiarimenti e le digressioni
filosofiche, con la mia tendenza alla polemica e alla controcritica, col mio
tono prosastico e talvolta sarcastico, col mio dilettarmi talvolta Bioneis sermonibus
et sale nigro, perchè posso bensi correggere i miei errori quando me ne
accorgo, ma non posso e non debbo mutare il mio essere.Così anche
non so come si sia potuto far
questione di bontà di metodo pel
fatto che, nell'esaminare P., ho esaminato
altresì le opinioni dei critici intorno
a lui: dico « anche», perchè non
è vero che quello sia stato il
mio punto di partenza: il punto di
partenza (e l'introduzione stessa del mio
scritto ciò mostra chiaro) e l'impressione
diretta, prodottami dalla lettura dei versi
di lui. Vi ha questioni vessate o
pregiudicate, perchè già molte volte tentate
e trattate; e lo scrittore (che si
riattacca sempre agli scrittori precedenti
e con essi dialoga) non può non tenere
conto di quanto altri intelletti hanno
osservato
e pensato intorno al suo argomento,non solo
per trarne aiuto, ma anche per conoscere
verso quali punti deve orientare la
sua esposizione critica. E basti di
ciò. Mi sembra di aver difeso il
metodo da me professato contro gli
appunti, in verità non gravi, che gli
sono stati mossi, e posso concludere
con tanto maggiore sicurezza e
franchezza, che quel metodo è buono,
in quanto esso non è mia privata
invenzione e possesso, ma è il
risultamento della storia della critica.
So bene che mi si osserverà: Tu
hai difeso il metodo, ma, nel caso
del giudizio circa il Pascoli, non si
tratta di metodo, sibbene di applicazione.
« Il padre Zappata predicava bene,
ma razzolava male », mi
proverbia il Gargano
in un secondo
suo articolo (*);
senonchè, nel primo,
aveva invece rifiutato,
mi sembra, il
metodo e non
l'applicazione, o questa
solamente come effetto
di quello. Dunque,
procediamo per divi-
sione. Di metodo non
si parla più?
Il metodo è
buono? Si? Questo
mi premeva soprattutto.
E la questione
è terminata; e
siamo d'accordo. E
possiamo ora passare
all' «applicazione», ossia
al caso particolare
del mio giudizio
su P.. Dove mi
si para innanzi
una pregiudiziale, perchè,
a detta di
taluno dei miei
contradittori, a me
sarebbe accaduta una
piccola disgrazia, per la quale
potrei bensì utilmente
discettare in teoria,
ma non potrei
accostarmi ai casi
parti- colari. « Il
Croce, grazie alla
prolungata rifles- sione e
al ripensamento della
filosofia hegeliana, non
si trova più
nello stato di
fresca ver- ginità, di
docilità amorosa, che
è necessaria per
seguire i poeti
nelle loro fantasie.. Vera- ci) Nel
Marzocco. Sartini, nella rivista
Studium, di Milano.] mente, una
siffatta verginità, che
consisterebbe nel non
meditare, non che
io l'abbia perduta,
non l'ho mai
posseduta; e sono
per questo rispetto
in condizioni gravi,
quasi direi nelle
medesime condizioni di
quella Quartina sacerdotessa, che esclamava
appo Petronio: Junonem
meam iratam habeam,
si unquam me
memine- rim virginem
fuisse. Ma conosco
e posseggo un'altra
«verginità», che si
rinnova ogni qual
volta il mio
animo corre a
dissetarsi nella poesia:
una verginità, che
potrà somigliare alquanto
a quella di
Marion de Lorme
(come si vede,
non intendo esaltarmi
mercè i personaggi
coi quali mi
paragono): Ton soufflé
a relevè mori
àme. .... Près de
toi rieri de
moi n'est reste,
et ton amour
m'a fait une
virginité! Ma, naturalmente,
concedo subito che io possa
avere sbagliato nel
giudizio sul Pascoli;
anzi questa concessione
è già implicita
in quel che
ho detto di
sopra circa le
difficoltà della critica
d'arte. E non
solo per ciò
che riguarda il
Pascoli. Ho esaminato
finora, nei miei
saggi, l'opera complessiva
di parecchie decine
di contempora- nei scrittori
italiani; e, quantunque
abbia adoperato ogni diligenza,
se pensassi di
non essermi mai
distratto, di aver
semptre reso esatta
giustizia a tutti quegli
scrittori e a
tutte le singole
loro opere, sarei
un fatuo. E,
se avessi sbagliato
circa P., certo
me ne dorrebbe,
e ne proverei
una qualche contrarietà
e mortificazione di
amor proprio; ma
stia tranquillo il
dottor Rabizzani, che
ha pubblicato testé un
bell'articolo su P.,
nel quale, tra
l'altro, si dà
pensiero della possibilità
di un mio
«postumo pentimento», e
mi ricorda sin
da ora, per
incoraggiarmi, il nobile
atto di contrizione
che lo Chateaubriand
recitò pel suo
giudizio, nientemeno, sullo
Shakespeare : ho fiducia
che troverei in
me la quantità
di coraggio necessaria, e
saprei consolarmi, pensando
che, costretto io
a lacerare cinquanta
delle non poche
mie pagine di
prosa, l'Italia avrebbe
assodato io cambio
la gloria di
un suo forte
e perfetto poeta.
Ma ho poi
sbagliato? Temo di
no, a giudicare
anzitutto dai modi
tenuti nelle loro
risposte dai miei
avversari. Uno dei
quali, Gargano (un
critico con cui
in altre questioni
letterarie ho avuto
il piacere di
andar d'accordo), in
un primo articolo,
in luogo di
difendere il Pascoli,
assalì il metodo
in genere, che,
come si è
visto, è affatto
incolpevole; in un
secondo articoletto, cercò
di farmi passare
per uno che
sfuggisse alla discussione
(laddove il vizio
del quale, se
mai, debbo correggermi,
è l'opposto); in
un terzo, finalmente,
cavò fuori uno
strano pensiero :
che cioè «
sembra avere io
ora scelto come
bersaglio dei miei colpi
i poeti più
celebri dell'Italia di mezzo: il
che suona un
appello, vero e [Nella Nuova
rassegna di Firenze. Nel
Marzocco.] proprio, alle
brutte passioni del
campanilismo. E mi
pare perciò che
l'affetto pel suo
poeta gli abbia,
questa volta, mosso
nell'animo sentimenti di
stizza verso chi
è di avviso
alquanto diverso dal
suo: e la
stizza (ecco un
adagio ben trito)
non giova alla
causa che si
difende. Vediamo, a ogni modo,
le controcritiche ; le quali
si sono aggirate
quasi sempre sui
particolari delle analisi che
io ho date
di alcune poesie
del Pascoli per
illustrare il mio
giudizio generale sull'opera
di lui. Nella
poesia La voce
ho mostrato come
quel «Zvani», che
fa da ritornello,
rompa brutta- mente la
delicatezza
dell'ispirazione. Il prof.
Pie- trobono (*)
dà al mio
giudizio questo significato:
che io non
ammetta l'uso del
dialetto nella poesia
e nella prosa
colta; e mi
ricorda il miscuglio
dialettale omerico, con erudizione
alquanto remota, quando
poteva semplicemente citare
ciò che io
stesso ho scritto
più volte (2)
per difendere il
dialetto e il
miscuglio dei dialetti.
Ma no: quel
« Zvani »
mi spiace come
mi spiacciono di
fre- quente le onomatopee
ornitologiche di P., non
perchè dialetto, ma
perchè mi sembra
un modo alquanto
comodo e semplicistico
di risolvere il
problema artistico, offrendo
la materialità della
cosa invece del suo spirito.
Come mai P.,
che freme e
trema alla voce
della morta, [Si
veda la citata
Lettera aperta del
rev. prof. Pietrobono.
Si veda, tra
l'altrev a proposito
del Di Giacomo,
in Letter. d.
nuova Italia, in, II
alla voce di
sua madre, può,
nel medesimo istante,
mettersi freddamente a
contraffare quella voce
e rimodulatia dilettautescamente dentro
di sé? Quella
voce dovrebbe sentirsi
dappertutto nella lirica,
e non lasciarsi
mai fissare nella sua
determinatezza estrinseca e nel suo
contorno preciso. È
un « infinito
> di ango-
scia e di nostalgia,
che non bisogna
rendere finito e
tascabile. Il mio
contradittore afferma che
«quel Zvani... ci
sta d'incanto, specie
se si pronunzia
a dovere; e
così scopre egli
stesso la sollecitudine
di salvare, per
virtù di pronunzia,
l'effetto di quel
ritornello. Che cosa
dirgli? Io mi
provai a pronunziarlo
in tutte le
più varie intonazioni;
me lo feci
perfino leggere da
un amico, valente
lettore di versi:
e la stonatura mi
parve e mi
pare sempre gravissima.
Forse, se lo
sentissi pronunziare da
lui, sarei vinto,
e qualche lacrima
mi sgorgherebbe; ma
anche in quel
caso mi resterebbe
il dubbio di
avere reso omaggio
non alla virtù
del poeta, ma
a quella del
bravo declamatore, che
sa come si
tappino i buchi
o si scivoli
sulle asprezze del-
l'espressione poetica. Si dica
lo stesso del:
« Papà, papà,
papà » dell'altra
poesia Un ricordo.
Qui il Gargano
anche osserva che
io mi son
« fatto lecito
di associare ad
una delle più
soavi elegie pasco-
liane il ricordo
di una canzonetta
napoletana volgaruccia anzi
che no » .
Mi son fatto
lecito? Si posseggono
non so quante
parodie di Omero
e di Dante,
anzi quasi non
c'è verso di
quei grandi che
non sia stato
parodiato e cui
non sia appiccato
un ricordo buffo;
eppure non mi
accade mai di
ricordarmene quando leggo
Omero e Dante.
Quella reminiscenza di
opera buffa mi
è stata suscitata,
e comandata, a quel punto,
dal Pascoli stesso, per
l'imperfezione, pel vano
sforzo, in quel
punto, della sua
arte. Che poi
(come nota il
precedente contradittore) «
Un ricordo e
la Cavalla storna
seguiteranno a commovere
i let- tori anche
quando noi saremo
fatti vecchi, ecc.
», sarà e
non sarà: ma
sono affermazioni con
le quali il
dibattito non fa
un passo innanzi.
Per dare un
piccolo e curioso
e quasi scher-
zoso esempio del modo
in cui il Pascoli tende
a strafare, ho
notato il mutamento
del titolo dell'ottava
Neve in quello
di Orfano. Il
Gargano risponde: «
Quel bimbo non
è soltanto ora
diventato orfano; lo era
già prima, quando
lo cullava sempre
quella vecchia, che
neppure allora era
sua madre». Perchè?
La situazione della
poesia è nel
contrasto tra lo
squallore nivale della
realtà e il
bel giardino della
fantasia, la dura
vita reale che
quell'essere umano dovrà
una volta affrontare
e l'illusione in
cui viene cullato.
La vecchia può
essere la nonna
o la balia,
e lasciar presupporre
vivente o morta
la madre. Tutto
ciò non cangia
nulla all'essenza poetica
dell'ottava. Il nuovo
titolo lagrimoso, che
richiama una sventura
al- quanto contingente e
individuale del bambino,
mi sembra che
impicciolisca e non
rafforzi. L'altro contradittore
mi fa notare
che io ho
sbagliato nel parlare,
a proposito della
poesia Il sogno
della vergine, della
culla come di
una culla reale,
laddove è una
culla metaforica. E
ha ragione, e
lo ringrazio di
avermi fatto accorto
della svista in cui sono
incorso nello stendere
i miei appunti;
come anche di
avermi avvertito (altra
svista) che le
strofe di Un
ricordo sono composte
di dieci e
non di nove
versi. Correggerò. Ma ciò
non tocca il
punto sostanziale della
mia critica, che
sta nel notare
la soverchia accentuazione data alla
figurazione metaforica o
no che sia
(e peggio ancora
se metaforica) della
culla: «Si dondola,
dondola, dondola» ecc.,
e l'eccessiva dilatazione
in una lunga
poesia di un
motivo (i figli
non nati), del
quale un gran
poeta avrebbe fatto
appena un incidente
e un tocco,
che in questa
sua rapidità sarebbe
rimasto indi- menticabile. — Così
nella poesia: /
due cugini, io
credo che dopo
la strofa: Tu,
piccola sposa, crescesti:
man mano intrecciavi
i capelli, man
mano allungavi le
vesti, — l'altra
che segue: Crescevi
sott'occhi che negano
ancora; ed i
petali snelli cadeano:
il flore già
lega; sia uno
stento d'immagini, che
ottenebra e non
potenzia le immagini
della strofa antecedente.
Il mio contradittore
vuole che il
Pascoli, in quella
seconda strofa, faccia
sorgere accanto alla
bam- bina «l'immagine
della madre, con
quel suo sentimento
di grande delicatezza,
ond'è mossa a
desiderare, come tutte
le mamme, che
la figliuola le
resti sempre piccina
», sentimento che
« fa eco
e si sostituisce
al desiderio inespresso
e ormai inesprimibile
del piccolo morto».
Sarebbe un parallelismo
artifizioso e una
lambiccatura; e, a
ogni modo, si
veda se tutto
ciò è poi
detto con la frase oscurissima
: Crescevi sott'occhi
che negano ancora...
Il metodo ermeneutico
qui adoperato dal
mio contradittore mi
ricorda quello di
un erudito campano,
il quale, una
trentina d'anni fa,
inte- stato che Pier
della Vigna fosse
nato a Caiazzo,
avendo trovato colà
alcuni frammenti di
marmo con le
lettere nus M.,
aul, reas f. r., coraggiosamente integrò: «
Dominus Magister Petrus
de Vinea Magne
Imperialis Aule Protonotarius
Edes Marmoreas Fecit
Restituii » ;
e pretendeva aver
ragione contro il
Capasso, che non
gli me- nava buona
la troppo abbondante
integrazione. — Vuole
ancora il mio
contradittore che «
il cadere dei
petali snelli, della
fiorita d'ali che
la rassomigliava a
un lucherino, esprima
un nuovo dolore
per il morto,
che vede cadere
quello che in lei principalmente amò
» : come
se il pasticcio
di metafore, onde
le metaforiche ali
diventano petali di
fiori, accresca, e
non piuttosto confonda,
le belle e
dirette immagini dell'intrecciare man
mano i capelli
e dell'allungare man
mano le vesti.
Vuole, inoltre, che
« la pennellata
sobria e pudica del
' fiore che
lega ' dica
come la fanciulla cominci a
diventar donna e
annunzi quel c
nuovo seno ' che il
bimbo ignora »
: come se,
sempre dopo la
prima bellissima strofetta,
ci volesse il
vieto paragone del
fiore per fare inten- dere il
formarsi della bambina
a donna. —
Ma perchè non
essere schietti e
non confessare la
semplice e prosaica
verità? Al Pascoli,
dopo la prima
strofetta uscitagli di
getto, mancò la
vena ; e,
non sapendo come
riempire la seconda,
che pure il
prefisso schema strofico
richiedeva, continuò alla peggio
nella primitiva redazione:
Crescevi, come erba
nel prato. I
petali dai ramoscelli
già caddero, e
il fiore ha
legato (')• Questa
strofetta, assai scialba
e sciatta, non
poteva contentarlo; e
procurò di rabberciare,
sostituendole quella che
abbiamo or ora
esaminata. Ma il lavoro
di rappezzo poetico
non gli riusci,
come non riesce
ora il rappezzo
critico al suo
difensore. E lascio
d'inseguire altri particolari,
e mi restringo
ad osservare che
il mio contradittore
ha frainteso il
mio pensiero circa
i metri, quando
ha creduto che
io volessi stabilire
che un soggetto
non può essere
trattato se non
in una determinata forma metrica,
mettendo in rapporto
i metri in
astratto e i
soggetti in astratto.
Tutti sanno (!)
Con questa variante
la lirica 1
due cugini fu
pubblicata la prima
volta nel Marzocco.]
c;he io ho
sostenuto sempre l'opposto,
e ho negato
ogni valore alla
dottrina metrica come
fondamento di giudizio estetico
('). Io ho
inteso sempre parlare
della disarmonia di
molte poesie del
Pascoli, la quale
dalla disannonia nel
metro si stende
a quella nelle
proporzioni del componimento e nelle
accentuazioni delle immagini,
alle materialità inopportune,
e via dicendo;
e, se ho
parlato di queste
cose come distinte,
l'ho fatto per
semplice espediente espositivo
o didascalico. L'osservazione enfatica
che « Dante
nella terzina ha
gittato il bronzo
di Farinata, l'odio
di Ugo lino,
la timida preghiera
della Pia e il volo
dell'aquila portata da Cesare
», può fare
effetto sui profani,
ma lascia freddo
chi come me
ha sempre affermato
che non solo
ogni terzina è
diversa da ogni
altra terzina, ma
ogni verso da
ogni verso, anzi
ogni parola da
ogni altra parola,
anche quelle che
il vocabolario pone
come iden- tiche: l'«
amore» di Francesca,
nelle terzine: «Amor
che a cor
gentil» ecc., (dice
benissimo il mio
amico Vossler) non
è una stessa
parola tre volte
ripetuta, ma sono
tre parole diverse.
Tanto il Gargano
quanto il Pietrobono
e il dottor
Rabizzani si meravigliano
che io, dopo
avere approvato come
belle alcune descrizioni
nei poemetti georgici
del Pascoli, resti
perplesso sull'insieme e
mi domandi: «Dov'è
il mondo interno
del poetar». «Ebbene,
in questo caso
(!) Si veda,
per es., Problemi
di estetica, pp.
163-66. (scrive, e
più efficacemente degli
altri due, il
Rabizzani, a cui
do la parola)
il mondo interno
del poeta è
proprio il mondo
che sta fuori
di lui e
che solo per
opera d'intuizione vien
riprodotto. Dinanzi alla cosa
veduta c'è l'occhio
che vede e
modifica inconsciamente e
sceglie scientemente
eliminando la scoria
delle impressioni inutili
per far luogo
solo a quelle
che possono determinare
la sua visione.
Così la descrizione
è obbiettiva per
gli elementi che
la costituiscono, ma
subiettiva per il
modo nel quale
sono costituiti. Ed è
inutile cercare dietro
ad esso una
corrispondenza morale propria
del poeta; tanto
varrebbe cercare i
regni celesti oltre
la zona fisica
del padiglione costellato.
C'è nella nostra
coscienza estetica un
residuo di simbolismo
per il quale
la natura ha
diritto di vivere
nell'arte solo a
patto che un'allegoria
la giustifichi •» .
Per- fettamente d'accordo nel
principio che non
bisogni cercare nelle poesie
l'allegoria, e che,
se un residuo
di allegorismo resta
in fondo alla
coscienza estetica, occorra
liberarsene, io non
sono poi d'accordo
nel credere al
valore delle descrizioni oggettive in
poesia. Se una
descrizione non è
soggettiva, ossia non
ha afflato lirico
(e s'intenda pure la
lirica in tutte
le sue gradazioni
fino alla ironia
e allo scherno),
non ò poesia.
E poiché questo
afflato lirico non
manca in molti
punti dei poemetti
georgici del Pascoli,
io li ho
ammirati; e poiché non
li investe tutti
(pel solito difetto
che è in
lui di perdersi
nei particolari e
nelle sottigliezze), ho
notato in quei
poemetti il miscuglio di
un poeta vero
con un verseggiatore e descrittore
meramente virtuoso. Nel
giudizio sui Poemi
conviviali, anche il
Pietrobono riconosce esatta
la caratteristica da
me data dell'atteggiamento spirituale
tutt'al- tro che
omerico, anzi sommamente
raffinato, del Pascoli;
e solamente crede
che io faccia
di ciò un
rimprovero al Pascoli,
il che non
mi è mai
passato pel capo.
Io ho insistito
invece sul modo
di concezione e
composizione di quei
poemi, che sembrano
mucchi di frammentini
delicati: è tutta
carne molle, e
manca l'ossatura; di
qui la scarsa
loro efficacia. Chi
ripensi, per esempio,
ai Sepolcri del Foscolo,
intenderà ciò di
cui lamento la
mancanza nel Pascoli.
E quando il
mio contra- dittore
si duole che né io
né altri abbia
osservato « che lungo
e che grande
amore debba esser
costato al Pascoli
la ispirazione di
quei suoi Poemi
conviviali, in cui
rinovera, analizza e
rivive a una
a una ordinatamente
le età di
Omero e di
Esiodo, quella dei
tragici greci nei
Poemi di Ate,
quella dell'arte plastica
in Sileno, i
pen- samenti di Platone
nei poemi di
Psiche, e ci
denuda l'anima dell'età
di Alessandro, di
Tiberio, dei popoli
di Oriente in
Gog e Magog,
e finalmente canta l'annunzio
dell'era novella cristiana,
nella quale tutte
le altre si
assommano e conluiscono a
produrre la civiltà
moderna », —
sono costretto a
rispondere ancora una
volta, che egli
dimentica un principio
di critica, pel
quale la ricchezza
di erudizione, l'ordine
storico sapiente, la
giustezza del colore
storico, e via
dicendo, sono cose tutte
estranee all'arte ;
tanto vero, che
si trovano anche
in poeti mediocri,
i quali, incapaci
di scrivere dieci
bei versi d'amore,
sono poi resistentissimi nel
comporre trilogie e
decalogie di drammi,
cicli di poemi
e leg- gende di
secoli, con relative
annotazioni storiche
dottissime. Senonchè, qual è poi
il giudizio complessivo
e conclusivo che
i miei contradittori
hanno opposto a
quello da me
proposto e dimostrato
intorno all'opera del
Pascoli? Ho innanzi
a me i
parecchi articoli, che si sono
pubblicati a proposito del
mio studio; e
cerco una conclusione
diversa dalla mia, e non
la trovo. Ecco
il Rabizzani, che
si dava pensiero
di una mia
possibile e probabile
conversazione: Pur non
accettando le conclusioni
a cui giunge
il Croce nella
crudità della formola
e nel rigore
dello spinto, dobbiamo
ammettere il carattere
frammentario dell'opera pascoliana.
Il poeta ha uu grande
mondo, ma non
è ancora riuscito
ad esprimerlo compiutamente. Per
ora, la sua
sovranità è nell'abisso
della sua mente.
E quand'an- che non
riuscisse a farnela
uscire, noi gliene
daremmo il merito,
sebbene l'Amiel abbia
detto che le
genie latent rìest
qu'une prèsomption: tout
ce qui peut
étre, doit devenir,
et ce qui
ne devieni pas
n'ètait rien». Mi
pare giudizio assai
più severo del
mio; e, se
mai, ho paura
che il dottor
Rabizzani dovrà fare
una penitenza più
grossa della mia.
Ecco la Rivista
di cultura di don
Romolo Murri, non
certo avversa a Pascoli
e, a ogni
modo, assai equanime»:
Non dividiamo, a
proposito del Pascoli,
il giudizio recentemente
datone dal Croce:
giudizio giu- sto nella
sostanza, se riguarda,
nell'insieme, l'opera e l'ispirazione
poetica del Pascoli,
ma ingiusto per
rapporto a molte
particolari poesie. E vogliamo
dire questo: che il Pascoli
non ha una
così ricca e
possente ispirazione poetica
che non gli
venga mai meno
nel suo molto
versificare, né un
cosi fine e
sicuro gusto da
non dare al
pubblico, della molta
opera sua, se
non quello che
è Anito o
perfetto; ma, dall'altra
parte, quello che
il Croce concede
di strofe e
di brani di
poesie, che sono
di un vero
e grande poeta,
noi pensiamo si
possa raramente estendere
a poesie intere
» (i). Non
dividiamo; ma, viceversa,
dividiamo. Un altro
e temperato critico
affaccia un dubbio,
ma comincia col concedere:
«Il Croce ha
messo il dito
sulla piaga: lo
smarrirsi dell'ispirazione universale nel mare
dei particolari è,
presso il Pascoli,
un caso non
infrequente. Ma non
sarebbe questo un
segno de' tempi,
non sarebbe la
parte caduca dell'arte
pascoliana, la quale
vivrà egualmente ne'
secoli ad onta
di tutti i
suoi difetti, ombra
appena percettibile a
petto ai suoi
grandissimi pregi?. Perfino
il Pietrobono non
sa dire altro
circa il carattere
generale della poesia
di P. se
non che quella
è « una
gran bella [Rivista di
cultura] Pasini, nel Palvese,
di Trieste.] poesia»; lode
che, nella sua
indeterminatezza, potrei concedere
anch'io. Perchè, se
alla poesia di P.
non avessi riconosciuto
valore, e molto
valore, non le
avrei fatto (questo
è ben chiaro)
l'onore di un
lungo esame, e
di questa non
breve discussione, che
ora gli ha
tenuto dietro. Ancora
sulla poesia di
P.. Da
una dozzina d'anni
non avevo letto
quasi più nulla
di P., saziato
dallo studio che
un tempo feci
delle cose sue
per scrivervi in-
torno un saggio, il
quale, quando fu
pubblicato, parve, peggio
che severo, ingiusto.
E con curiosità
ho tolto tra
mano la scelta
che delle poesie
di lui ha
testé curata il
Pietrobono {Poesie di
Giovanni Pascoli, con
note di Luigi
Pietrobono, Bologna, Zanichelli);
con curiosità (prego il
lettore di credermi)
assai bene- vola, animata
dal desiderio di
scoprire nel Pascoli, dopo
tant'anni, aspetti che
allora potevo non
avere scorti, e
di giudicare, dopo
tant'anni, con mente
rinfrescata, non solo
la poesia di
quel [Dalla Critica] poeta, ma
lo stesso giudizio
mio. Il Pascoli
non è più;
e tra il
tempo ch'egli ancora
viveva e il
presente sono accaduti
tanti straordinari avve-
nimenti, che hanno respinto
assai indietro, nel
remoto, gli anni
anteriori, comprimendoli
in un periodo già chiuso, quasi con
lo stesso cangiamento di prospettiva che
la Rivoluzione francese fece per gli
anni anteriori al 1 789. Ho levato
dunque gli occhi verso il Pascoli
come verso un autore del vecchio
tempo (del « buon » vecchio tempo
?), pel quale non si può non
esser disposti a simpatia; e perfino
l'averlo criticato nei giorni lontani
accresceva il sentimento di simpatia,
perchè anche questo mi formava un
legame con lui, anche questo me lo
faceva parte di una parte della mia
vita passata. S'aggiunga che il compilatore
del volume, il Pietrobono, ha molto
amato il Pascoli ed è colto e
fino ingegno, e m'invogliava perciò
a rileggere quelle
poesie sotto la
sua guida bene
informata, esperta ed
affettuosa; e, a
dir vero, per
questo riguardo, non
mi è toccata
alcuna delusione, e
credo che, posto
che giovi adornare
di comento le
opere del Pascoli,
non si poteva
eseguir tale compito
in modo migliore
di quello tenuto
dal Pietrobono, che non
può esser tacciato
se non forse
di sottigliezza e
ingegnosità eccessive, effetti
di eccessivo amore.
Ma, pel resto,
ahi, ahi, come
la mia buona
intenzione, la mia
mite e sentimentale
e malinconica disposizione d'animo,
è stata presto
tutta sconvolta! Come
mi son sentito
riprendere di Ili
- colpo dall'antica ripugnanza,
e risospingere al-
l'antica riprovazione, fotta più
acuta e più
violenta dalla stessa serenità
con la quale
mi ero messo
a riconsiderare, dalla
stessa aspettazione che
avevo carezzata di
poter temperare il
mio antico giudizio
o integrarlo col
riconoscimento di alcune
cose belle di
quella poesia! E
la riprovazione si è
volta in isdegno,
ricordando di aver
letto su pei
giornali letterari, che è ormai
venuto il tempo d'introdurre
il Pascoli nelle
scuole italiane, a
modello o incitamento
stilistico per la
nuova generazione. Oh,
no! Noi non
abbiamo il diritto
di propagare nella
nuova generazione le
malsanie e i
vizi nostri; non
abbiamo, in ogni
caso, il diritto
di toglier d'innanzi
ad essa quelli
che la tradizione
dei secoli ha
consacrati classici, per
surrogarvi gl'idoli delle
nostre fuggevoli esaltazioni,
dei nostri morbosi
sentimentalismi, e dei
nostri capricci. Ciò
che altra volta
ebbi a notare,
ciò che sempre
mi era sommamente
spiaciuto nei versi
del Pascoli, e
mi aveva fatto
dubitare della sua
virtù poetica, mi s'è ripresentato
subito agli occhi,
appena aperto il
volume, alle prime
pagine. È quasi la
caratteristica della sua
arte : il
dissidio tra ritmo
e metro : il ritmo
del sentimento che
richiede un certo
andamento, che s'intrav-
vede, si presente,
si attende, e
il metro che
gliene dà un
altro. Donde anche,
introdotta questa prima
scissione nell'inscindibile, il
compiacersi nel par-
ticolare per sé fuori
della nota fondamentale,
e, per un
altro verso, caricare
il tono per
ottenere l'effetto cercato
: disarmonia ed
affettazione. Vedo che
il comentatore insiste
su ciò, che
la poesia del
Pascoli è poesia
di dissidio; e
teorizza che €
il dubbio è
uno stato d'animo
anch'esso, e il
poeta che n'è vittima, e
vuol essere sincero,
bisogna pure che,
come sente, così
si esprima, e
non rifugga dall'apparire
nel tempo stesso
ot- timista e pessimista,
ecc. » . E
starebbe benissimo, e
non ci sarebbe
niente da ridire,
se si trattasse
solo di contrasti
psichici; ma i
contrasti psichici debbono,
in arte, essere
composti in armonia
estetica: ciò che
l'uomo divide, e
ciò che divide
l'uomo, la dea
dell'arte congiunge. Che
è poi per
l'appunto quel che
al Pascoli, per
infelicità d'in- gegno, non
veniva mai fatto.
Si tagliò da
una siepe —
era un mattino
triste ma dolce
— il suo
bordone, e, volta
' la fronte,
mosse per il
suo cammino. Si
sente che lo
scrittore vorrebbe esser
sem- plice, ma la
terzina, invece, si
gira e si
dondola, come compiacendosi
di sé stessa.
Si noti quel
«volta la fronte»,
che atteggia il
personaggio come un
attore, che prende
a rappresentare la sua parte.
E non pago
di aver dato
quest'at- teggiamento, lo scrittore
vi calca sopra:
SI: mosse. Al
che il comentatore
: « Si
accorge di aver
ado- perata una parola
forse superba, e
la ripensa come
per correggerla; ma
trova invece che
non la sua
superbia, ma la
verità glie l'ha
posta sulle labbra, e
la conferma » .
Ora, veramente, non
si vede qual
superbia ci sia
nel « moversi
per il proprio
cammino»; ma ben
si vede che
il Pa- scoli ha
« ripensata »
la sua parola,
ossia, al so-
lito, l'ha vezzeggiata, compiacendovisi. E
quella era la
siepe folta d'un
camposanto, ed era
il camposanto, quello,
dove sua madre
era sepolta. Affettazione
di semplicità che
s'impaccia nelle ampie
pieghe del verso e della
strofa, e affettazione di sentimentalità, in
quella fantasia del
bordone, tagliato dalla
siepe, e proprio
da quella del
camposanto, e proprio
del camposanto in
cui giaceva la
madre morta. D'allora ha
errato. Seco avea
soltanto il suo
bordone. E qua
tese la mano,
e qua la
porse. E ha
gioito e pianto.
Solennità apparente, vuoto
sostanziale, tutte frasi
generiche che paiono
dire grandi cose
e dicono nulla.
E le frasi
generiche continuano nella
terzina che segue: E
vidi il fiume,
il mare, il
monte, il piano:
tutto... Sì, tutto,
perchè non ha
visto niente di
particolare e di significante. e
a tutto era
più presso il
cuore di quanto
il piede n'era
più lontano. Sentimento,
che potrebbe esser
vero, ma è
reso in forma di antitesi,
e perciò falsato
in un giochetto.
Invece di sentirci
riempire l'animo da
quel sentimento, ci
soffermiamo ad analizzare,
con lo scrittore,
il giochetto. Così
si va innanzi
sino alla fine:
peggiorando, perchè il
bordone mette poi
foglie, germina, ra-
dica, e, senza diventare
simbolo vivente, s' ingoffisce in cattiva
allegoria. Il secondo
componimento del volume
è quello de
Le ciaramelle. Chi
non sente come
liquefarsi l'anima al
loro suonoj^Jfla appunto
chi questo -Tret*ter~c1:uè preso
da un soave
palpito al riudire
le ciaramelle, palpita
così perchè non
è lui una
ciaramella, ma un'anima,
che, ormai diversa
e matura, è
riportata alle immagini
e alle com-
mozioni della fanciullezza. Ricordo
la vigilia di
"Natale, evocata- dal
Di Giacomo in
una sua lirica d'amore: la
Napoli, verso sera,
tripudiente, rumoreggiante, piena
di lumi, guardata
dal poeta dal
mezzo della collina,
che le sovrasta.
Ci sono anche
le zampogne: Saglieva
'a dinto Napule,
nzieme, cu tanta
voce, cunfusa 'int'
a na nebbia
na luce 'e
tanta lume: sentevemo
'e zampogne, c''o
suono antico e
ddoce jenghere ll'aria,
e tutti sti
voce accumpagnà... Ma
il Pascoli si
fa lui ciaramella,
e ciaramelleggia con
esse: Udii tra
il sonno le
ciaramelle, ho udito
un suono di
ninne nanne. Ci
sono in cielo
tutte le stelle,
ci sono i
lumi nelle capanne.
Sono venute dai
monti oscuri le
ciaramelle senza dir
niente; hanno destata
nei suoi tuguri
tutta la buona
povera gente... Una
filastrocca tutta ripetizioni
di concetti, ar-
guzie, insistenze, affanno, piagnucolamento :
una bruttura. E
sorvolo sul terzo
componimento {La voce)
— quello di
« Zvani »,
— perchè l'altra
volta già ne
mostrai la sconvenienza
e sconcezza ;
e libo appena
il quarto, in
cui l'abbaiar di
un cane a
notte alta è
chiuso in istrofe
di questa sponta-
neità: là nell'oscura
valle dov'errano sole,
da niuno viste,
le lucciole, sonava
da fratte lontane
velato il latrare
d'un cane; e,
in tanto artificio
e scontorcimento e
ballon- zolamento, il
cane abbaia davvero,
fa bau-bau: Va! va! gli
dice la voce
vigile, sonando irosa
di tra le
tenebre... E, infine,
incontrandomi nel quinto
componimento {Valentino) — con
le galline che
schia- mazzano: « Un
cocco! Ecco ecco
un cocco un
cocco per te —
mi arresto e non procedo
oltre. Cioè, smetto
di percorrere ordinatamente
il volume e
lo sfoglio qua
e là; e
su qualunque cosa
poso l'occhio, ritrovo
le stesse affettazioni.
Ecco il tanto
celebrato Aquilone: nel
quale lo scrittore
vorrebbe ritrarre un
momento della propria vita
di fanciullo, risvegliatosi
noi suo ricordo
alla vista di una
bella mattina, piena
di sole, che
lo riconduce ad
altra simile di
quei tempi lontani.
Ma la sua
incapacità a fecondare
un motivo poetico,
si che produca
la propria for-
ma, si dimostra qui
chiara dal suo
ricorrere (cosa che
è sfuggita al
Pietrobono) a una
forma bella e
fatta, all'Idillio maremmano
del Carducci. Il
canto del Carducci
comincia: Col raggio
del mattin novo
eh' inonda roseo
la stanza, tu
sorridi ancora improvvisa
al mio cuore,
o Maria bionda!
E P., sebbene
col solito tono
di appa- recchio e
d'affettazione, comincia allo
stesso modo: C'è
qualcosa di nuovo
oggi nel sole,
anzi d'antico: io
vivo altrove, e
sento che sono
intorno nate le
viole. Son nate
nella selva del
convento dei cappuccini... Il
Carducci termina: Meglio
era sposar te,
bionda Maria! Meglio
ir tracciando Meglio
oprando obliar E
P.: Meglio venirci
ansante, roseo, molle
di sudor, come
dopo una gioconda
corsa di gara
per salire al
colle! Meglio venirci
con la testa
bionda, che poi
che fredda giacque
sul guanciale, ti
pettinò co' bei
capelli a onda
tua madre... adagio,
per non farti
male. Ma le
parole del Carducci
sono schiette, il
tono eguale; e
quelle di P.
una sequela di
abi- lita da virtuoso,
frigidissime: versi troppo
vibrati non si sa
perchè, specie il
terzo di ciascuna
terzina; versi che,
non si sa perchè,
fanno spicco: tra
le morte foglie
che al ceppo
delle quercie agita
il vento; immagini
leziose, come l'aquilone
che s'innalza: s'innalza;
e ruba il
filo dalla mano,
come un fiore
che fugga su
lo stelo esile,
e vada a
rifiorir lontano; e
falsità di ritmo
e leziosaggini, che
impediscono alle più gentili
immagini di acquistare
la loro musica:
Si respira una
dolce aria che
scioglie le dure
zolle, e visita
le chiese di
campagna, ch'erbose hanno
le soglie (bello!):
un'aria d'altro luogo
e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria
celestina che regga
molte bianche ali
sospese {troppo [cincischiato!). E tutto
il componimento ha
un aspetto di
con- gegnato, di preparato
(«Sì, gli aquiloni!
È que- sta una
mattina Che non
c'è scuola), direi,
di ginnastico, alienissimo
della vera poesia.
E a proposito
di Carducci e
del Pascoli. Mi fu raccontato,
da chi v'era
presente (uno dei
nostri più fini
artisti), che un
giorno il Carducci,
trat- tenendosi in casa
di amici e
trovato sul tavolino
un volume del
Pascoli, ne lesse
qua e là
ad alta voce
alcune pagine, e
poi, richiudendolo d'un
colpo e posandovi
su la mano,
ammoni gli astanti:
— Questa, non
è poesia. La stessa
sentenza mi sale
dai precordi, dopo
avere riassaggiato le composizioni
del Pascoli. Gridate
contro di me
quanto vi piace:
questa, non è
poesia. E se
non è poesia,
eppure ha avuto
tanta voga, ed ha ancora
tanti ammiratori, donde
la ragione della
sua fortuna? Credo
da ciò, che
essa giunse opportuna:
la grande poesia
italiana, mercè i
diversi ma del
pari alti esempì
del Manzoni e del Leopardi,
era stata salvata
dallo scompiglio romantico,
e, mercè quello
del Car- ducci, dalle
mollezze dell'ultimo romanticismo.
E l'esempio del
Carducci operò anche
sul D'ANNUNZIO (si veda)
(non solo nel
giovanile Canto novo,
ma anche qua
e là di
poi) come freno,
e come freno
operò nel primo
e nel miglior
P. (le prime
Myricae): ma, più
tardi nel D'Annunzio
e più presto
in P., quel
freno s'allentò, e
proruppe in essi
la letteratura decadente,
che era in ag- guato dietro
le loro anime,
e l'uno e
l'altro diventarono
precursori e avviatori
del futurismo. P.,
meno vigoroso del
D'ANNUNZIO (si veda), il quale
ha avuto una
sua forza di gioia sensuale,
che è stata
la sua sanità
e si è
guastato soprattutto con
l'intellettualismo
dell'eroico e ora
del religioso; P., che e
disposto al sentimentalismo, dove più
gravemente soggiacere al
de- cadentismo e futurismo,
alla spinta analitica,
alla disarmonia, al disgregamento, alle
smorfie e alle
sconcezze
dell'impressionismo
inconcludente. E poiché
la sua corruttela
estetica prendeva per
materia la pietà,
la bontà, la
tenerezza, la tri-
stezza, la morte (diversamente
dal D'ANNUNZIO (si veda) il quale
si compiaceva di
altre cose, che
davano scandalo ai
timorati), al Pascoli
è stato possibile
soddisfare in modo
decente quel ch'era
di mal- sano nelle
anime timorate, e
persino nei preti
: — come,
per un altro
verso, il Fogazzaro
è stato il
D'ANNUNZIO (si veda) dei cattolici,
ed ha scritto
per le famiglie
cattoliche il Piacere
e il Trionfo
dello morte sotto
i titoli di
Daniele Cortis, di
Ma- lombra e di
Piccolo mondo moderno.
Con quali aspettazioni
abbiano accolto il
Pascoli i cattolici si
può vedere dalla
prefazione stessa del
Pietrobono, che è
preso da quella
condizione di lui tra
la fede e
l'incredulità, interpe- trandola
quasi presentimento di
cielo, quasi persecuzione che il
Signore faceva di
un'anima, che ancora
gli riluttava. E
da essa si
può vedere quanto
potere il sentimentalismo, lo
spirito di pietà
e di carità,
il desiderio e
le esortazioni alla
pace, della quale
P. si era
fatto professionale
rappresentante, abbiano avuto
sui cuori te-
neri, a segno da
far dimenticare che
tutto ciò in
poesia non vai
nulla se non
diventa poesia, ed
è addirittura odioso
quando procura di
surrogare al mancante
valore di poesia
materiali valori di
sentimento. Così ora
i decadenti, gli
stilisti (che sono
poi decadenti, perchè
sol essi pensano
allo « stile » :
i grandi, i
classici lo hanno
e non vi
pensano), vorrebbero introdurre
la poesia e
la prosa di
P. nelle scuole,
nelle scuole classiche,
come ideale di
finezza artistica; e
i cuori teneri,
nelle scuole elementari,
come educatrici a
gentili affetti, e i
preti nelle loro,
perchè non vi
si parla di
amore (di quell'amore
che è persino
nel- Y Adelchi e
nei Promessi sposi]).
Ma per le
scuole elementari è
proprio indispensabile il
Pascoli? Non c'è
di più vecchio
e di meglio?
Non c'è il
poeta che facevano
leggere a noi
ragazzi, e imparare a
mente, il buon
canonico Parzanese, gloria
di Ariano di
Puglia? Se è
necessaria per certi usi
una poesia non
poetica, una poesia
pratica, quella del
Parzanese fa sempre perfettamente al
caso ; e
quasi mi vuol
parere che essa
dia, per questa
parte, la realtà
di ciò che
P. invano si
sforzò di raggiungere.
Volete onomatopee? Suona,
o campana, suona,
o campana, suona
vicina, suona lontana.
Tu sei la
musica del poveretto,
che nel sentirti
piange d'affetto; ei
sol comprende la
tua parola, quando
sonora per l'aria
vola. Dig din,
dog don, T'allegra,
o povero, questo
è il tuo
suon! Volete riproduzioni
di movimenti? Dote
non ho né
panni, e pur
vo' farmi sposa.
Passati son tre
anni che la
mia man non
posa. Ma il
tempo via sen
va, e il
caro dì verrà
che tanto il
ciel sospira; Filatoio,
gira, gira. Volete ninna-nanne?
Dormi. La bella
luna prende del
ciel la via;
passa, e sulla
tua cuna un
bianco raggio invia.
Pe' poveri Iddio
vuole che splenda
luna e sole.
Dormi, fanciullo mio,
dormi, ti veglia
Iddio. Volete figurini
di curati? Zitto!
Cessi lo strepito
e '1 baccano: che!
non vedete il
nostro buon pievano?
8' inoltra passo passo
il vecchierello: traetevi
il cappello. E di poverelli?
Se vedete un
vecchierello d'occhi cieco
e d'anni stanco,
senza scarpe né
mantello, che alla
figlia appoggia il
fianco, nel recinto
del castello date
loco al vecchierello... E
di sventurati? Chi
non ha lagrimato
per la cieca
del Parzanese? Non
mi dite che
torna il mattino
a svegliare le
cose dormenti ;
non mi dite
che d'oro e
rubino sono i
lembi del cielo
ridenti. Il mio
ciglio il Signor
non aprio. Deh! sia
fatto il volere
di Dio. Ed era
molto gentile, quella
cieca: Quando sento
il profumo d'un
giglio, voi mi
dite ch'è bianco
qual neve. Com'è
il bianco? In pensier
lo somiglio a
quel senso che
l'alma riceve quando
ascolta sull'ala del
vento d'un liuto
il lontano lamento. Che
cosa mai sono
venuto recitando? Vecchi
suoni dell' infanzia,
anche questi ;
ma, al tempo
stesso, cosette modeste,
adatte al loro
pratico intento, ben
intonate, che mi
ridanno quel senso
di equilibrio, che
gli spasmodici ritmi
del Pascoli mi avevano
tolto: del Pascoli
che (per dir
tutto in una
parola) in arte
era un atassico,
ossia non coordinava
i suoi movimenti.
«
Quiconque ne sent
pas ce defaut
est sans aucun
goùt ; et
quiconque veut le
justifier se rnent
à lui mérne.
Ceux qui m'ont
fait un crime
d'étre trop sevère,
m'ont force à
Vétre vèritablement et
à n'adoucir aucune
véritè (Voltaire, commento
su Corneille). Il
«
Paulo Ucello. P. lesse
nel Vasari che
Paolo di Dono
dipingeva storie di
animali, de' quali
sempre si dilettò,
e per fargli
bene vi mise
grandissimo (i) Dalla
Critica.] studio, e, che è più,
tenne sempre per
casa di- pinti uccelli, gatti,
cani, e d'ogni
sorta ani- mali strani
che potette avere
in . disegno, non
potendo tenerne de’vivi
per esser povero;
e perchè si
dilettò più degli
uccelli che d'altro,
fu cognominato Paulo
Ucello (Vite, ed.
Milanesi). Lesse e
fraintese, perchè il
biografo non volle
punto dire che
Paolo amasse gli
uccelli e gli
altri animali e,
non potendo farne
acquisto, im- pedito da
povertà, se li
dipingesse per suo
gaudio sulle pareti
di casa, ma
che amava dipingere
uccelli ed altri
animali (compresi leoni
e serpenti e ogni
sorta di brutte
bestie) e che,
non essendo in
grado di possederne
i vivi modelli,
aveva adunato in
casa sua quanti
disegni potesse
procurarsene. La notizia,
data da Vasari, si
riferisce alla comune
vita degli artisti,
ed è psicologicamente comprensibile
e naturale; ma lo
stesso non si può
affermare della interpetrazione o
fraintendimento di P., perchè
(si rifletta un
istante) a quale
verità psicologica risponderebbe
questa surrogazione del
dipingere al possedere?
Chi desidera un
uccellino reale, desidera
qualcosa di pratico,
e, non potendo
ottenerlo, si dorrà o si rassegnerà;
ma non trova mai un
equivalente o un sostituto
omogeneo aquell'oggetto nell'attività
artistica, che trascende
l'uccellino come realtà vivente e
si compiace nel proprio creare. Chi ama
una donna, ama quella donna, la desidera, la brama; ma, se si mette a dipingerla,
l'abbassa a materia o modello che si
chiami, e, in quell'atto, trascende il
suo amore e ogni altra cosa terrena, ed
è Innamorato, non più di una
donna, ma di
un'idea. Tanto vero
che raccoglitori e amorevoli
curatori di animali
domestici non sono
mai i pittori
di animali, ma le
vecchie signorine e i
vecchi celibatari; e il
pittore Dalbono, famoso
in Napoli per
la sua mania
di riempirsi la
casa di gatti, non dipingeva
gatti, ma festosi
paesaggi di Napoli.
Ma forse P.
non fraintese per
isvista di lettura,
e volle deliberatamente fraintendere,
ossia sul testo
di Vasari ideò
quella sua immaginazione di un
Paolo Ucello, desideroso
di avere uccelli
in casa, e
sfogantesi nel ritrarli,
e tuttavia tornante
sempre al suo
desiderio. Perchè? Perchè
quell'immaginazione gli parve
commovente, leggiadra, tenera.
Pensate un po'!
Un gran pittore,
che passa pel
mercato, vede un
fringuello in gabbia,
rosso in petto
e nero il
mantello, che gli
somigliava un fraticino
di san Marco,
vorrebbe portarselo a
casa, ma non
ha un grosso
per comperarlo, e
tira innanzi con
quel mortificato desiderio
nel cuore, e va alla
sua opera della
giornata, ma la
sbriga il più
presto che può,
per tornare a
casa e aggiungere
ai tanti uccelli
che ha già
dipinti sulle pareti,
ai tanti suoi
desideri insoddisfatti, là,
sopra un ramoscello
di melo, quel
«monachino rosso». Quanta
gente non si
lascia subito prendere
da queste immaginazioni
leggiadre, tenere, commoventi! Quanta? Moltissima:
tutta la legione
dei pascoliani, che,
da alcune settimane
in qua, stanno
dando prova dei
gentili sentimenti che
siffatte immaginazioni educano
negli animi, e li dimostrano
nelle loro mansuete,
francescane parole,
indirizzate a Sorella
Critica! Ma quella
moltissima gente è
anche di facile
contentatura; e, come
si compiace nel
verso che suona
e non crea,
così sdilinquisce per
le immagini che
paiono attraenti e
sono vuote, vuote
di schietto e
profondo sentire. Che vi
sia o non
vi sia una
realtà psicologica nell'atto
attribuito a Paolo
di Dono, essa
non cura: si attiene
alla superfìcie e
scatta in entusiasmi,
che altro non
chiedono e non
aspettano che di
scattare. Comunque, ideata
quella prima arguzia
o acutezza sentimentale,
P. non si fermò.
E perchè avrebbe
dovuto fermarsi? Con
lo stesso metodo,
e con lo
stesso buon successo,
poteva foggiarne quante
altre voleva. E
immaginò che Paolo
Uccello fosse terziario,
e che nel
suo irrefrenabile desiderio di un possesso
terreno, fosse anche
di quello -tenuissimo
di un uccellino,
peccasse; e che, dunque,
san Francesco gli
apparisse, là, sulla parete,
tra la sua
pittura o dalla
sua pittura, e
lo rimproverasse e
lo ammonisse, e
lo purgasse di
profani desideri, e
poi, andando via,
attingesse dallo scollo
del suo cappuccio
briciole di pane
e le spargesse
per la campa-
gna, e gli uccelli
volassero a quel lieto convito, e
Paolo, quetato alfine,
si addormentasse nel
suo sogno. La
poesia s'iunalzava così,
a suo credere,
a idealità francescana.
Tale fu, per
chiunque abbia qualche
pratica di poeti
e poesia, la
genesi di questo
Paulo Ucello, lodatissimo tra
i componimenti di
P. Ed è
chiaro che non fu
una genesi poetica,
ma senti- mentalistica, come di
solito in quel
tempo della produzione
pascoliana, quando l'autore
si era dato
tutto in balia
a certe sue
impoetiche tendenze,
incoraggiato e traviato
da false lodi,
specie da quelle
di amici, che
par si fossero
proposto di addensargli
intorno un velo
e fargli perdere
il senso della
realtà, e un
po' lo vagheggiavano
attraverso quel velo, un po' celiavano
sulle sue bizzarrie.
Senonchè, la poesia
non può nascere
da intenzioni, per
gentili che siano,
perchè tutte le
intenzioni sono, in
questo caso, aride,
unilaterali, astratte; ma nasce
dalla piena umanità
commossa, come suono tra
i suoni, accordato
con gli altri
suoni, non mai
tutta tenera o
tutta gentile o
tutta leggiadra. Anche
la poesia dell'idealità
francescana; della quale
uno dei più
vivi esempi che
mi vengano ora
a mente è
un verso e
mezzo di CAMPANELLA (si veda), in
un suo duro
e nodoso sonetto, dove,
ritratto l'orrore dell'umano
egoismo, le lotte,
le insidie, le
calunnie, e, più
di tutto, gl'infingimenti interiori
per cui l'uomo
sé stesso annichilando
si converte alfine
in istìnge, improvvisamente esclama,
come se gli
si spieghi innanzi
un lembo di
paradiso: Tu, buon
Francesco, i pesci
anche e gli
uccelli frati appelli! E,
se si vuole
un esempio più
a noi vicino,
ricorderò il sonetto del
non professionale francescano Carducci, quel
sonetto, in cui
il poeta, alla
vista della fertile
costa che pende
dal Su- basio,
considera commosso su]
piano laborioso, che
al sol di
luglio risuona di
canti d'amore, Santa
Maria degli Angeli:
Frate Francesco, quanto
d'aere abbraccia questa
cupola bella del
Vignola, dove incrociando
a l'agonia le
braccia nudo giacesti
su la terra
sola! Poiché la genesi
non fu poetica
ma intenzionale, o, come
io dico, intellettualistica, il
Pascoli non potè
indovinare la forma
poetica, la quale
è tutt'uno con
l'ispirazione, e nell'ispirazione è
già delineata e
mossa. E prese
a stendere il
suo estratto quintessenziale di
tenerezze e dulcitudini
e francescanerift in
una forma artificiosa
ed estrinseca, che
è subito dimostrata
tale dalla monotonia dell' intonazione,
dalla semplicità troppo
semplice, che in
essa si osserva.
Si desiderano prove
di ciò? Come
darle a chi
non ha orecchio
per sentire il
tono falso? Come
fissare in alcune
parole ciò che
è diffuso in
ogni snodatura e
spezzatura della sintassi, in
ogni inflessione della
voce? La critica
(l'ho detto tante
volte) ha un
limite o un
presupposto che si
chiami: il presupposto che si
abbiano occhi per
ben vedere e
orecchi per ben
udire. Tutt'al più,
essa può aiutare
con qualche indicazione:
Dipingea con la
sua bella maniera
sulla parete, al
fiammeggiar del cielo.
E il monachino
rosso, ecco, lì
era, posato sopra
un ramuscel di
melo. Che la
parete verzicava tutta
d'alberi.. 0 anche: Oh!
non voglio un
podere in Cafaggiolo,
come Donato: ma
un cantuccio d'orto,
sì, con un
pero, un melo,
un azzeruolo. Ch'egli
è pur, credo,
il singoiar conforto
un capodaglio per
chi l'ha piantato!...
Ma un rosignolo
io lo vorrei
di buono... Un
altro aspetto di
questa forma, senza
in- timo freno, senza
intima sua legge,
e che ha
accattato una legge
dall'esterno, da un
proposito della mente,
da uno sforzo,
da uno stento
di vellicare i cuori
teneri e tenerli
in dolce spasimo,
è il frazionamento
nei particolari, le lungherie, le
materialità inopportune. P.,
anche in questo
caso, non ci
risparmia né le
nomenclature di uccelli,
né le sensazioni
fìsiche, per es.,
dei becchi che
beccano le miche
sparse (E, come
un bruscinar di
primavera, Rimase un
trito bec- chettio sonoro»), né il solito
usignuolo onomatopeico, che, alla
dipartita del santo,
canta chiedendo dov'era ito...
ito... ito. E
conseguenza di ciò
è la perplessità
nel lettore, che non
sa se il poeta scherzi
o dica sul
serio, se sia
in un momento
di festevolezza o
non piuttosto di
accoramento, se voglia
dilettare con un
rifacimento arcaico che
susciti un sorriso, o
se esprima un
suo serio sentire.
Che cosa è
quel san Francesco,
che favella con
vocaboli e formole
tolte di peso
ai Fioretti e
gestisce con attucci
che mal traducono
le pitture trecentesche?
È una figurina
grottesca, una caricaturina,
un follettino, da
divertir bimbi, o
il santo del
gran cuore, che
deve riempirci di
riverenza? No: nella
figurazione del Pascoli
egli non mi
riempie di riverenza
e di amore,
ma non posso
dir neppure che
mi diverta. E
quale impressione, dunque,
mi suscita? Buona
è codesta, color
foglia secca, tale
qual ha la
tua sirocchia santa,
la lodoletta, che
ben sai che
becca due grani
in terra, e vola in
cielo, e canta. E
sminuiva, e già
di lui non c'era, sui
monti, che cinque
stelline d'oro... Quale
impressione? Non altra
che quella, poco
piacevole, della poesia
stentata e sbagliata.
Sbagliata, ho detto;
ma sbagliata di P.,
e non già
da un qualsiasi
arfasatto: dal Pascoli
che non solo
era un letterato
studiosissimo, ma era,
o almeno era
stato una volta,
poeta, il poeta
idilliaco e triste
delle primissime Myricae,
e di tempo
in tempo aveva
come un'apertura di
cuore verso la
campagna, gli uccelli,
le modeste opere
agricole e casalinghe,
e un senso
di gioia e
di malinconia schiette.
Di questo fondo
spirituale di lui,
guasto da sovrapposte
cattive tendenze e dal cangiamento
dello spontaneo nel
professio- nale, si scorgono
le tracce anche
nel Paulo V cello,
particolarmente nel modo
simpatico in cui
egli ritrae (e.
2) la parete
dipinta da Paulo,
quella parete che
verzicava tutta d'alberi,
d'erbe, di fiori,
di frutta, e
qua vi si
vedevano zappe e
là falci, e
qua l'aratura e
là messi biondeggianti, e
due bovi messi
in prospettiva che
parevano grandi ed
erano più piccoli
di un leprotto
che fuggiva nel
primo piano. Peccato
che anche qui
la lamentela del
tono turbi l'effetto,
e la troppa
semplicità tolga semplicità.
E questo è
quanto si può
onestamente dire intorno
al Paulo U cello.
A coloro che
oggi lo esaltano
come un capolavoro, come
il capolavoro dei capolavori pascoliani,
una purissima, una
divina poesia francescana,
e insolentiscono contro
di me perchè
l'ho passato sotto
silenzio, e mi
tacciano di non
sentire la poesia,
di poca sensibilità (o di
poca morbosità), mi
contento di rispondere: Eh, via!
Da qualche accenno
che è nelle
noterelle critiche raccolte
nella terza parte
di questo volume,
i lettori avranno agevolmente
inferito che anch'esse
fecero scandalo e suscitarono un uragano
di proteste e d’invettive, maggiore e peggiore di quello che si ha quando fu pubblicato
il saggio ristampato in primo luogo. Cosa naturalissima: nel
dodicennio corso fra
le due date
si era maturato
e svolto a
pi^no il futurismo,
del quale P.
è, a mio
avviso, da considerare
precursore e promotore,
nella nostra letteratura;
e la reazione
contro il mio
giudizio, dopo tanta devastazione
e perversione prodotta
nel gusto, doveva
essere, come fu,
violentissima. Una delle
accuse che, in
quel gridìo, risonava
come un ritornello
contro di me,
concerneva la mia
insensibilità. Confesso candidamente
che dapprima non compresi
di che cosa
mai si volesse,
con questa parola,
lamentare in me
l'assenza. Ma, con
pazienza filologica ravvicinando
i testi (e
quali testi!), e
cercandone l'interpetrazione, ho
poi non solo
compreso, ma, quel ch'è
meglio, mi sono
trovato affatto d'accordo
con gli accusatori.
Mi si tacciava,
in fondo, di
essere insensibile alle
seduzioni del pascoliamo, del semifuturismo
e del futurismo.
Insensibilissimo: sono, per questa
parte, addirittura un
pezzo di marmo.
Dopo di ciò,
non avrei niente
da aggiungere, non
parendomi che quella
critica d'opposizione abbia
apportato lume alcuno
allo schiarimento dei
problemi artistici da
me trattati. Ma,
poiché, per fortuna
una rivista letteraria,
La ronda di
Roma, fu invogliata
dalle mie noterelle
critiche ad aprire
una discussione o
referendum su P.,
che venne inserendo
nei suoi fascicoli,
mi piace rinviare
i curiosi e gli studiosi a
quelle pagine, che
contengono molte cose
istruttive e, nel
complesso, confermano il
mio giudizio. Anzi, come
saggio di queste
cose istruttive, trascriverò
qui alcuni brani
dell'articolo di uno
di coloro che
presero parte alla
discussione, Gargiulo, il
quale ebbe, tra
l'altro, il buon
pensiero di spremere il
succo dei principali
studi su P., pubblicati dopo il
mio, e, diversamente
dal mio, intonati
ad ammirazione, o
addirittura a commossa
tenerezza, pel poeta
romagnolo. È recente, solo
di qualche anno
fa, scrive dunque Gargiulo, lo
scritto che comincia
a pubblicare nella
Voce Onofri, sotto
forma di commento
estetico perpetuo alle
poesie di P.
Fu arrestato a
mezzo delle Myricae.
Quando mi occorse
di leggerlo, tempo
dopo, io dovetti
candidamente domandare all'autore
come avrebbe fatto
a continuarlo, e
qual vantaggio si
sarebbe ripromesso per
la fama del
poeta, nel proseguire.
Da quel che
se ne vide,
la negazione risultava
pressocchè totale; d'altra
parte, nel modo,
talvolta perfino un
po' ingenuo, con
cui rari versi
restavano additati all'ammirazione, non
si riconosceva punto
l'Onofri, che pur
aveva dato prova
di possedere, oltre
quella sensibilità che
conosciamo investita direttamente
in saggi di
poesia, scaltrite facoltà
critiche. Discussi alquanto
con lui anche
i rari versi
e, se mal
non rammento, urtai
infine contro un atteggiamento
di resistenza passiva,
se non d'indifferenza. Ma
certo conclusi che
per lo meno
era passato dall' Onofri
il quasi entusiastico
momento di fiducia,
che gli aveva
dato lena per
proporsi quel lunghissimo
lavoro destinato a
discriminazione e volgarizzamento delle
bellezze pascoliane. Di
Serra — del
quale non mi
esagero il valore
critico, ma riconosco
alcune buone per
quanto disgre- gate disposizioni, richiamiamo
un po' il
saggio su P.
È da notare
che Serra, giustamente, fu detto
un temperamento pascoliano;
e forse quel
saggio, da solo,
basterebbe a provare
le affinità. Ora,
in tutta la
parte negativa, che
è ampia, le
osservazioni giuste abbondano,
né certo l'amor
dell'argomento riesce ad
attenuarne l'acutezza. Si
porta all'evidenza, nella
parte positiva, la
« man- canza di
forma » di P.,
che sarebbe la
« forma propria»
di lui: i
versi del poeta
non si cantano,
non si ricordano,
non si citano,
se non forse
: Romagna solatia, dolce
paese, ( che
veramente è un
bello e dolce
verso '. c
E se noi,
richiesti, dovessimo offrire
in uno o
pochi versi rappresentata
quasi in iscorcio
la virtù propria
di lui, ci
rifiuteremmo; per quanti ce ne
potessero passare innanzi,
sappiamo bene che
di nessuno saremmo
contenti a pieno.
Anzi, dicendone e
mostrandone ad altri,
mi par che
sempre si senta
il bisogno di
soggiungere a ogni
tratto: a questo
non badar troppo,
non ti fermare
su quel particolare;
che il poeta
non è lì '.E
dov'è mai? —
dimandiamo a Serra, caduto
in così profondo
oblio del proprio cosidetto umanesimo?
È nelle cose:
c La poesia
di P. consiste
in qualche cosa
che è fuori
della letteratura, fuori
dei versi presi
a uno a
uno; essa è
di cose, è
nel cuore stesso
delle cose. Ed è lo
stesso Serra che
in altro scritto,
in difesa della
forma, o della
letteratura, ebbe questo
scatto: c Le
cosel tutto quello
che c'è in
me di meno
ingrato si rivolta
dispettosamente. Nulla è
così vago, goffo,
incon- cluderite, retorico,
come le cose.
Le cose dunque;
ed anche la
persona; cioè, P. bisogna
vederlo: 'È un
poeta. Ogni timore,
ogni inquietudine che la
lettura poteva aver
lasciato dietro di
sé, subito cade;
in lui non
c'è falsità, maschera,
posa, artifizio. Tali
cose non esistono;
non possono aver
luogo in quest'
uomo eh' io
vedo. Altri potrà
giudicare, pesare, classificare. C'è altro
ancora, e forse
di peggio, che
tralascio, nello scritto
del Serra; ma
non mi è
mai accaduto d'incontrarmi
nella condanna di
un artista concepita
in una forma
più cruda e
radicale di quella
che trascrivo: Questa è
la sua gran
forza e la
sua gran debolezza.
Secondo che l'uomo
accetti la poesia
di lui per
quello che è
o per quello
che vuole essere.
Poiché se io
accetto la poesia
di lui, col
significato ch'essa ebbe
per lui quando
la fece, se
mi trasporto, come
altri direbbe, nel
suo punto di
vista, allora il
valore ne diviene
incommensurabile: non è valore
di cosa d'arte,
ma di cosa
viva. Dove si arriva?
Eppure P. del Cecchi,
ha queste parole
nell'epilogo, che non
sono meno preoccupanti
di quelle ora
riferite di Serra:
f Bisogna rifondere
gli aspetti torbidi
e contrastanti, nei
quali questa poesia
viene, mano a
mano, rivelandosi, in un
misterioso aspetto solo
nel quale le
sue contraddizioni, le
sue incertezze, i
suoi errori, bì
siano stratti all'ardore
del nostro affetto,
della comprensione nostra.
Osservavo, in una
recensione che feci del
libro nella vecchia
Cultura, che in
tale giudizio è
c come una
confessione al lettore,
la quale suona:
l'aspetto misterioso, in
questo libro, è
rimasto misterioso; il
mistero non è
stato svelato. Di
quello studio dicevo
in genere (mi
permetto di autocitarmi,
perchè resto precisamente
a quel punto
ora che l'ho
riletto: c È
animato dalle più
benevoli e indulgenti
intenzioni; ma riesce
ad una condanna,
quasi tutta esplicita,
in minima parte
implicita, dell'opera pascoliana.
Pare che
Cecchi abbia impegnato in
questo suo studio
tutta la propria sensibilità
inventiva, che è
molta, e i
residui di un'antica
simpatia pel poeta, che
doveva essere ingenua,
non criticamente illuminata. Pure,
il risultato è
quello che è,
vale a dire
negativo '. Non
mancai di rilevare
la sproporzione tra
la parte negativa
e quella che
voleva essere positiva:
c Egli non
si è neppure
accorto che uno
studio costituito in
massima parte da
una violenta negazione,
e diretto, nel
tempo stesso, ad
una affermazione energica,
doveva essere assai
più svolto nella
parte affermativa, anche
sotto il rispetto
che sembra puramente
materiale, del numero
delle pagine. P. è, per
Cecchi, un poeta
coperto da una
corazza di falsità?
Ha sotto la
corazza una emotività delicatissima e
nuova? Ebbene bisognava
che lo studio
critico riuscisse solidamente
poggiato ed equilibrato
sulla parte affermativa.
Concentravo naturalmente l'attenzione
sulla parte del
libro che voleva
essere di sicura
affermazione, dedicata c
alla definizione della
particolarissima, intima ispirazione
pascoliana, di cui
poi quasi tutta
l'opera del poeta
sarebbe una deformazione.
Tale ispirazione centrale
si risolveva pel
Cecchi in una
disposizione iniziaimente sensuale,
oggettiva, di pura
dedizione alle cose,
attraversata poi dal
brivido del dolore
e del mistero. E
dovevo concludere: c
Lo sforzo grande,
ma vano, del
critico consiste nel rendere questo
brivido. Ma ecco che
Cecchi, invece di
svolgere e sciogliere fino all'evidenza
l'asserito sentimento di
dolore e di
mistero, il quale
resta, nei termini
indicati, ancora sotto
una forma schematica,
dura ed ambigua;
invece di trarlo
alla vita piena,
immergendo in esso
le opere del
poeta; impegna tutta
la sua sensibilità
inventiva, ed anche
tutta la sua
industria stilistica, nel
ridurre quel dolore
e quel mistero
alle più fugaci ed
inafferrabili espressioni : ad un
brivido, un attimo,
un baleno, e
via dicendo. Il
critico aveva paura
di fermare il
brivido; le poche
citazioni restarono anch'esse
sorde all'invito di
rivelarlo. Sulla poesia
che ha il
privilegio del più
lungo commento, la digitale purpurea,
io avrei ora
curiosità di sentire
da capo il
giudizio di Cecchi. Così
Gargiulo. Del resto, la
lode ottenuta, e
in parte ancora
mantenuta, dalla poesia
pascoliana, e la
difficoltà di far
prevalere un diverso
e più pacato giudizio, richiamano
moltissime altre vicende
consimili della storia
letteraria. Ci vuol
pazienza innanzi alle
asserzioni dei poco
perspicaci e dei
fanatici: A voce più
ch'ai ver drizzan
li volti, e
così ferinan sua
opinione prima ch'arte
o ragion per
lor s'ascolti. Così fer
molti antichi di
Guittone, di grido
in grido pur
lui dando pregio,
fin che l'ha
vinto il ver
con più persone
(Purg.). Ancora sulla poesia
del Pascoli. Il «Paulo
Ucello» » LATERZA, Bari.
SCRITTORI D'ITALIA cur. NICOLINI.
ELEGANTE RACCOLTA CHE COMPORRÀ DI OLTRE
SEICENTO VOLUMI DEDICATA A S.
M. VITTORIO EMANUELE
III. ARETINO P., Cartéggio
Il I libro
delle lettere AMENTI (degli)
S., Le Porretane BALBO C,
Sommario della Storia
d'Italia, BANDELLO M.,
Le novelle, BARETTI G.,
Prefazioni e polémiche La
scelta delle lettere
familiari BERCHET G., Opere,
Poesie Scritti aitici e
letterari BLANCH L., Della
scienza militare, BOCCACCIO
G., Il Contento
alla Divina Commèdia
e gli altri
scritti intorno a
Dante, BOCCALINI T.,
Ragguagli di Parnaso
e Pietra del
paragone politico, CAMPANELLA
T., Poesie BARO A.,
Opere COCAI M. (T.
Folengo), Le maccheronee,
Commedie CUOCO Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana,
seguito dal Rapporto
al cittadino Carnot,
di Lomonaco, Platone
in Italia DA PONTE
Memorie, DELLA PORTA
Le commedie, DE
SANCTIS F., Storia
della lettor, ital.,
Economisti del Cinque
e Seicento, FANTONI Poesie Fiore
di leggende. Cantari
antichi ed. e
ord. da E.
Levi, FOLENGO Opere
italiane FOSCOLO IL, Prose FREZZI
F., Il Quadriregio,
GALIANI F., Della
moneta, (n. 73).
GIOBERTI V., Del
rinnovamento civile d'Italia,
GOZZI C, Memorie
inutili, La Marflsa
bizzarra GUARINI Il Pastor
fido e il
compendio della poesia
tragicomica, GUIDICCIONI G. -
COPPETTA BECCUTI F.,
Rime IACOPONE (fra) da
TODI, Le laude
secondo la stampa
fiorentina (n. LEOPARDI G.,
Canti, Lirici marinisti,
LORENZO IL MAGNIFICO,
Opere, MARINO G.
B., Epistolario, seguito
da lettere di
altri scrittori, Poesie varie,
METASTASIO Opere, Novellieri
minori del Cinquecento Parubosco e
Erizzo PARINI G., Prose,
Poeti minori del
Settecento (Savioli, Pompei,
Paradisi, Cer- reta ed
altri) Mazza, Rezzonico,
Bolidi, Fiorentino, Cassoli,
Mascheroni POLO Il Milione,
PRATI Poesie varie,
Relazioni degli ambasciatori
veneti al Senato,
Riformatori italiani del
Cinquecento, Rimatori siculo-toscani, SANTA
CATERINA DA SIENA,
Libro della divina
dottrina, volgarmente detto
Dialogo della divina
provvidenza, STAMPA G.
e FRANCO Rime,
Trattati d'amore del
Cinquecento, Trattati sulla
donna, VICO G. B.,
L'autobiografia, il carteggio
e le poesie
varie, Le orazioni
inaugurali, il De
italorum sapientia e
le polemiche VITTORELLI Poesie, La
Bicicletta Olocausto, romanzo
» Quartetto il nemico, Oro
incenso mirra Fuochi
di bivacco Matrimonio La
disfatta, romanzo Gramigne
(Sullo scogio) Ombre
di occaso, Il Teatro OPERE
VARIE. ABIGNENTE F.,
La moglie, romanzo AMATUCCI Dalle
rive del Nilo
ai lidi del
Mar nostro Oriente e
Grecia Cartagine e Roma Hellàs BAGOT Gl'Italiani, CRIVELLI R.,
Boccaccino BARDI Grammatica inglese,
Scrittori inglesi BARONE
La storia militare
della nostra guerra
fino a Caporetto BATTELLI A.,
OCCHIALINI A., CHELLA
La radioattività. CAMPIONE F.,
Per i germi
della specie CARABELLESE P.,
L'e9sere e il
problema religioso. CECI G.,
Saggi di una
bibliografia per la
storia delle arti
figurative nell'Italia meridionale CERVESATO A., Contro
corrente CHIMENTI G., Commercial
English et Correspondence (in
ristampa). COTUGNO R.,
La sorte di
G. B. Vico Ricordi,
Propositi e Speranze DE
CUMIS Il Mezzogiorno
nel problema militare
dello Stato DE LEONARDIS
R., Occhi sereni,
(novelle per giovinette)
DE LORENZO G.,
Geologia e Geografia
fisica dell'Italia me-
ridionale I discorsi di
Gotamo Bnddho DEPOLI
G., Fiume e
la Liburnia DE SANCTIS
F., Lettere a
Virginia DI GIACOMO S.,
Nella Vita, novelle FORTUNATO G.,
Il Mezzogiorno e
lo Stato italiano, FUSCO E. M., Aglaia
o il II
libro delle poesie. GAETA Poesie d'amore GENTILE G.,
Il carattere storico
della Filosofia italiana. Sommario di
pedagogia come scienza
filosofica. Pedagogia generale.
Didattica, Teoria generale
dello Spirito come
atto puro. JUNIUS,
Lettere politiche LOPEZ
D., Canti baresi
LARCO R., La
Russia e la
sua rivoluzione. LORIS G.,
Elementi di diritto
commerciale italiano LORUSSO B.,
La contabilità commerciale MARANELLI C,
Dizionario Geogr. dell'Italia
redenta. MEDICI DEL VASCELLO. Per
l'Italia. NAPOLI G., Elementi
di musica. NAUMANN FR.,
Mitteleuropa. Trad. di G. Luzzatto,
NENCHA P. A.,
Applicaz. pratiche di
servitù prediali. LATERZA
Bari NICOLINI F.,
«li studi sopra
Orazio dell'abate «aliani
5,— OLIVERO F.,
Saggi di letteratura
inglese. Studi sul romanticismo
inglese Sulla lirica di
Alfred Tennyson Traduzioni dalla
poesia Anglo-Sassone.
PANTALEONI Tra le
incognite. Note in margine
della guerrPolitica: Criteri
ed Eventi. La a. fine provvisoria di un'epopea PAPAFAVA F.,
Dieci anni di
vita politica it. PASQUALI
G., Socialisti tedeschi PLAUTO M.
A., L'anfitrione — Gli
asini Commedie PRATO G., Riflessi
storici della Economia
di guerra. QUARTO di
PALO L., La
civiltà RACIOPPI G., Storia
dei moti di
Basilicata e delle
provi noie contermini
6, — RAMORINO La Borsa;
sna origine; suo
funzionare RAMSAY MUIR, La
espansione europea RATHENAU
L'economia nuova. RICCI E.,
Versi e lettere RICCI Protezionisti e
liberisti italiani SABINI G., Saggi di
Diritto Pubblico SCHURÉ I
grandi iniziati. Santuari d'oriente SCORZA, Complementi
di geometria SOMMA U.,
Stima dei terreni
a colture arboree TITTONI T.,
Conflitti politici e
Riforme costituzionali TIVARONI
J., Compendio di
scienza delle finanze.
I monopoli governativi
del commercio e
le finanze dello
Stato TOSO A., Che
cosa è l'Acquedotto
Pugliese WEBER Parlamento e Governo
nel nuovo ordinamento
della Germania. Giovanni Pascoli.
Pascoli. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Pascoli” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza. Pascoli.
Luigi Speranza -- Grice e Pasini: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – La meta-meta-fora del
cavaliere perduto – la scuola di Vicenza -- filosofia veneta – filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Vicenza).
Filosofo italiano. Vicenza, Veneto. Studia a Padova applicandosi agli studi
giuridici, che ben presto trascura per interessarsi della nuova scienza è in
contatto con Galilei e soprattutto della
filosofia, seguendo assiduamente le lezioni di Cremonini, impegnato nel
commento mortalista della “Fisica” e del “De coelo” di Aristotele e seguace
dell'aristotelismo critico e razionalistico di Pomponazzi, che mette in
discussione l'immortalità dell'anima e alcuni dogmi cattolici. Uno dei incogniti,
uno dei circoli più attive, vivaci libere. A tale adesione alcuni biografi
settecenteschi attribuiscono le accuse di eresia nei suoi confronti. Come
invece dimostra una serie di documenti dell'Archivio di Stato di Venezia, e un
fatto di sangue a determinare il provvedimento giudiziario che lo condanna all'esilio.
Per un futile contenzioso privato (un diritto di passaggio riconosciuto a dei
vicini), insieme con il fratello Vittelio e alcuni sicari, nella villa Pavaran uccide Malo e ne ferì
gravemente il fratello. Condannato a cinque anni di esilio a Zara, poi ridotti
di circa la metà, e assolto e liberato. Reintegrato nella società vicentina, e vicario
a Barbarano e a Orgiano, dove era già stato agli inizi della carriera. La sua
vita dove scorrere come quella di tanti nobili di provincia, tra affari
privati, responsabilità amministrative, passione letteraria e interessi
culturali, sempre presente l'ossequio al potere della Serenissima: dediche e
composizioni sono spesso dirette a podestà, capitani e dogi. Si registra un
stretto legame gl’incogniti e una grande produzione letteraria. Fa parte della
corrente poetica del marinismo, che ha in Marino il proprio modello. ””Rime
varie, et gli increduli, ouero De' rimedii d'amore: dialogo. Dedicate al molto
illustre Godi (Vicenza), esordio letterario del Pasini, miscellanea di sedici
componimenti in metro vario tutti di tematica amorosa e un dialogo, “Campo
Martio overo Le bellezze di Lidia, dedicato al clariss. sig. Giulio da Molino,
dell'illustriss. sig. Marco, componimento di versi settenari ed endecasillabi
sciolti, uscito a Vicenza presso Grossi e dedicato a un membro dell'illustre
famiglia Molino; “Rime” diuise in errori, honori, dolori, verita, et miscugli (Vicenza);
Il sogno dell'illustrissimo sig. Pietro Memo.. Dedicato a Molino, Vicenza, di
carattere politico-encomiastico, racconta allegoricamente come il sogno
trasporta il podestà attraverso i cieli sino alla via Lattea, dove trova gli
eroi che hanno illustrato la sua famiglia; “Rime Marinistiche”, raccolta
complessiva delle sue Rime, stampata a Vicenza; fanno rientrare l'autore nel
filone marinista dell'epoca. “La Metafora. Il Trattato e le Rime. “Trattato de'
passaggi dall'una metafora all'altra e degl'innesti dell'istesse nel quale si
discorre secondo l'opinione e l'uso de'migliori, se senza commetter diffetto,
si possano usare dai poeti e, oratori. Dedicato all'illustrissimo, et
eccellentiss. sig. Nicola Da Ponte” (Vicenza); “Historia del cavalier perduto” romanzo
erotico cavalleresco che indirizza il proprio interesse su vicende e situazioni
feudali di provincia. La sua opera più nota, che si inserisce nella tradizione
del romanzo barocco veneto e dei narratori incogniti, secondo una linea che
intreccia avventure cavalleresche amorose a tematiche storico-politiche. -è da
questo romanzo che Manzoni trasse poi spunto per la stesura de “I promessi sposi.”
Vicenza nella sua toponomastica stradale, "Le Garzantine", Manzoni a
Vicenza Firenze, Olschki). Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia e cantòinquestaforma. Nela vagastagion, che l'Usignolo
Dolenteancora dell’antico oltraggio Contragiche armonie filagna, e plora, E che
di novo amor fecondo il suolo Del gran Pianeta altemperato raggio di verde
giouentù gode, ès' honora, Con mano prodiga Flora D'odorosi tesori Con superbia
pomposa. D'ogni intorno spargea gemmati fiori; Ma qual donna degli altri in maestosa monarchia
sublimar parea la Rosa. Tributaria di lei, versando l’urna, La figliuola del
Sole Alba nascente Le offri adiper le ruggiadose unnerabo; Et ella, della pura onda
notturna. L’homaggio accolto in fen, lieta, eridente Di sii 2
Diricca gravidanza empieafı il grembo; Indi, il purpureo lembo Spiegando
a poco a poco, Scopria l'aurato crine Del gran lume del cielo al primo foco; Le
volauano intorno a far rapine Preciofe d'odor l'inrevicine. Superba citerea, ch'in
Regia tinta Le imporporasse il suo bel piele foglie, Incota i detti ingiuriosa
eccede. Chianti Giuno homai, tua gloria è vinta, Altro latte il mio fangne il pregio
toglie, E'l tuo fio real mio fior s'humilia, ecede. Cositumida fiede Con inportuno
orgoglio L'ambitioso petto Dela Regina del superno foglio, Che sdognando il suo
Numeeller negletto, Lo sguardo oscura, e in torbida l'aspetto. Frome, egal carrodi
vendetta ingorda Di vampe, efocbi, e di saette, e lampi . Grida lontana ancor ;
Figlio vendetta, Con fretto lofaman richiama, e lega Il vago augel da le
flellate piume, E con la voce anco la sferza accorda, Zosgrida, ebate, e impatiente
il piega, Quevfa il mondo incanutir di brume. Delarmi ilfjero Num e Quiui a
funguignalite Sai Vandalici campi Alti Duci in fiammana, e fchiereardite;
Giungeellaa lui, cuiparche'l guardoaukāpe Ambo fiam vilipeli, amboschernići, numi
impotenti son MARTE, e Guinone; La tua pudica Dea, la tua diletta, Quella, che del
su’amor resegraditi Cillenio, e Febo, el cacciator garzone, Questa del vago Adone
Cole ancor le memorie Solo a tuo scorno, e in vno Al mio latte dir infratia le gloriezn.
Mirà d'orgoglio altierfasto importuno, Che di rosa anteporsi ardisce a Giuno.
S'ami la madre, e lei gradir desij, A la superba l'alterigia Scorna, E la sua rosa
le axuilisci o figlio Madre, non fia, ch'io le tue ingiurie oblij (risponde) al
cielo pur sagli, e ritorna, Ch'io ben far olle bumiliare il ciglio: Di più fino
vermiglio Distino ostro più grande, Per tinger rosa altera, Di cui la gloria foltes
fa ghirlande; Stella non splende, ou'è del solla spera, E appo la neuengnicandor
s'annera. Cosidetto, ella parte, egli accore Doue aßalito il vandalo feroce Col
Goto afalitor pugna, e contende: Di sanguinos ifiumi ilprato corre, D'urli, e
di strida una mistura atroce, Che difonde terrori al Cielo ascende; Dubbio il success
opende, Al fin scompiglia, efrange il gran duce Adoino Lanemica Vandalica falange;
Ma il sacro Dio, ch'adostro peregrino Aspira, affrettailsyo mortal destino.
Cade il prode signor, fugge disperso Semi viva fi getta addosso al morto;
El'abbraccia, e lofringe, el bacia, e’lterge Condiluuij d'angoscia, elcrin s'afferra,
E Straccia, efuelle infinda le radici; I sulerose, chel buon sangue asperge, E
che compagne fon de la sua terra, Sperge presagi in vn mesto, e felici.
Esclama. O fiori amicia Los tuol nemico, il fuo trionfo sdegna Per sì gran
danno il Goto lagrimose j j Goiodisco il german nel duolo immersa Nela fortune gloriosa
insegna Tra rose inuolue il busto sanguinoso, E dono doloroso A Lutterial'invia,
Cheil gran marito fcorto E sangue, e freddo ogni diletto oblia, I d'amor piena,
e dota di conforto, che Così pullulerà la Rosa ORSINA. E così germinò,
così dal cielo, Per lo mondo abbellir, netrasse isemi, Nel suona tale ancor grande
i ammirata: Sorge fecondo il glorioso stelo, E ne' Gallici campi, e ne'Boemi
Degni rampoli ITALIANE traslata, D'api in vece, adorata Schiera d'altepirtudi
Lovà suggendo, efaui Poi ne compone di Reali studi, Onde il mondo i suoi cafi in
fausti, e graui Per si dolce liquor torni soaui. Defiudilaude dil Sole, acuis'aprica
solo, e solo a'suoirai s'avanza e gode, E l'irrigailfuddordi nobil onda; Duro, einduftre
cultor glièla fatica, Siepe l'ardire, il buon valor custode, El ' applauso de '
Cor i aura gioconda Ondeè poi, che diffonda Cosi pregiato odore E di palma, e di
Lauro Ch'ın tal nel girdo e l età migliore Non neadunola Gloria in fuo tesauro
Dal Borea àl'Auftro, e dal mar' Indo, alM auto. Scritte sa in Cielo alettere
difato, Là de l'eternità ne’ cupi annali, Digermetal son le grandezze, e i pregi.
Febo m'inspira è colassu fermato, Ch'egli fioriscafolfreggi immortali, Alte imprese,
opreilluftri, èfattiegregi: Tiranni eftinti, Regi Debellati, daafflitti, Regni sommersi
in lutti, Espugnatecittà, Ducisconfitti, Prouinciescosse, esercitidestrutti,
Pergliopresileuar, fiano suoi fruti. Lieto verdeggi, eauuenturosogoda, Che'l
ciel gliarride, eporgela fortuna Grandi Che'l core hor m i pungete,
Insegna peregrina Del mio venire immaturo ancor Sarete; Cosi auuerrà, cosilo
ciel destina, Il diadema adorar veggio di Piero. Fortunata Dalmatia, borche
s'innesta Neltuoceppo Realfinobil pianta, attendi pure un secolo d'eroi. Vomiti
incendihomai Chimera infesta, Stragede'campisiabelua Erimanta, Che
fienconcettii percussorisuoi; Altri indomiti buoi sbuffinofiamme in Colco,
C'hauralliubbidienti Adaratronouelnouo bifolco; Sorgan Procufti, elanguirandolenti
Ancola Famahà lingue, E fil grande, e facondo, Ei gesti degli Eroi spiega, ediftingue.
Bastià l'ORSIN valor, c'habbia giocondo Teatro Italia, e spettatore il mondo.
Gran di alimentià le r a dice prime. Beltesoroèvirtù;ma s'altaloda, Mase honori
laforteancogli aduna, Vie più chiaro Splendorne’raggiesprime Eccolohomaisublime
Gemmarsi intorno, intorno Sold'insegne d'impero, Manti, porpore, scettriilfanno
adorno; Mafouratuttiin maestà primiero Sotto noui Tesei gliultimi accenti,
Canzon chiudanlelabbra. La meta-meta-fora.
itopedelabiturates. daglianimal: corterdel'acquecitopedeèsolce Nec
tenoftra iuberfiericenfura pudican . Sentätha oppreffo Carulla DeXNptys Pelleic
Cerula verrentes abiegnis equora palmisan Verrentesperremigantı, palmisperremi
son metafore di poca comienienza; perche le mani non icopano come inftrumento
profimo. DS Fortetfolcodál foco et verrigins Jalmocodel la core circulari.
Sedtamen, uttentes disimularerogat. Cenfura è traslation dal Magistrato
Cenforio a } rigordell'atninre; oubetèmetaforaan ch'ega, che nonficonfaconla censura;
perchefebene: leges autiubescentvetant, quepermitan, AMAP Hiunt. La censura
pero non era legge, nè magistrato, che hau eflc auctorità di far legge. Ma a solo
gaftigauachi contrauenità a'buonicollumi, adalcuneleggi et
adalcunivnitalchequi? Pinnestodidue metafore invafolo predicatos poilslacione
confaceuole alla vièpoi il pallaggio nelnornogar dell'altropredje viè censura. tom
1 Nel terzo de arte amandi, Ecco Ne quevliusitinntisim
per untitabii. Ne quifleprezesirefoue palmulis metaforam non producer ad extremum
nec ineaintere. Sed abvnaadaliamtranfilire; hicveroraliumiprie Prorumfecurses, och
Non è di giustitia chc CATULLO refiabbando pato Epiù sottodiffe. Qui
formula croftramentofumprofcidir quota Aoftrumè metafora trasportata da gli vecelli
allegalee, acuimancauailproprio perfignif carlofprone, equindian coallanaue
perde notarlaprora, e proscindere è pur METAPHORA, che Hon ha corsispondenza
con legalec, ma con quellecose, chetagliano: Ecco appresso v o trappasso da metafora
a metafora. Ecco VA alero inneftopuriuinell'aggionto, e nel softantiuo. Dide
currum wlitanumper ladate, che viag giava PHASELLUS illeguem videte hospittia'?
Siswiffenavium celerrimus. Oprisforeivolarejouelinteo. Ognuno sà che
Falelloèvna fpeciedi nauigio; nel descriver la celericà del quale nel naaigare
Paurore fi vale della metafora del nuotatore e subitò palla al volo ch'è dell'uccello
e quianco favn'innestoin quel volarepairwisin cuivuo) direnauigar
coiremi:poichenen f volacon lepalme, maconl' aliscosiinnettal'operation!
dellyccello con l'inftrumento dell'huomo, ch'è la mano sopra il qualpaflo il Muretto
di fe.Aiuntvitiofumeffefernelsuscepram tolco da'legamini ]? wimruna è
nato da Tibulloze da Propertio speiò fenciamo lianch'elli. Propertio nella festa
decimadlegiadel. cerzo ang niNini Sublime capulmafiflimunubar Afperala
Mefiffimosa sperme, chehannodicomune, Ring oluenparcela branquillità, ch'e
delmare cal P6 Sempere n im vacuos naxi fobriatorque rumares. Nox
fobristonguet, inpeito. Pace Pasini. Pasini. Keywords: implicatura, il cavalier
perduto, la metafora, “dall’una metafora all’altra, galilei, cremonini, degl’incogniti, keplero,
Manzoni, rapimento, anonimo, incognito, meta-meta-fora. Refs.: “Grice e Pasini”
– The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Passavanti:
l’implicatura conversazionale dell’eroe – la scuola di Terni -- filosofia umbra
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Terni). Filosofo italiano. Terni, Umbria,
Italia. Partecipa alla Grande Guerra c sergente
nel IV reggimento Genova cavalleria, in cui e protagonista di incredibili atti
di eroismo. Partecipa alla occupazione di Fiume tra i legionari di Annunzio. Da
soldato, da caporale, da aiutante di battaglia, fulgido, costante esempio,
trascinatore d’uomini, cinque volte ferito, tre volte mutilato, mai lo strazio
della sua carne lo accasciò, sempre fu dovuto a forza allontanare dalla lotta;
sempre appena possibile, vi seppe tornare, ed in essa fu sempre primo fra i
primi, incurante di sé e delle sofferenze del suo corpo martoriato. In critica
situazione, con generoso slancio, fece scudo del suo petto al proprio
comandante, e due volte, benché gravemente ferito, si sottrasse, attaccando,
alla stretta nemica. Con singolare ardimento, trascinava il suo plotone di
arditi all’attacco di forte, munitissima posizione nemica; impossibilitato ad
avanzare, perché intatti i reticolati, fieramente rispondeva con bombe a mano,
alle intense raffiche di mitragliatrici. Obbligato a ripiegare, sebbene ferito,
sostava ripetutamente per impedire eventuali contrattacchi. Avuta notizia di
una nuova azione, abbandonava l’ospedale in cui l’avevano ricoverato, e
raggiungeva il suo reparto; trasportato dai suoi, riusciva a prendere parte
anche alla gloriosa offensiva finale. Soldato veramente, più che di carne e di
nervi, dall’anima e dal corpo forgiati di acciaio e di ottima tempra. Superdecorato, volontariamente nei ranghi
della nuova guerra, per la maggiore grandezza della Patria, riconfermava il suo
meraviglioso passato di eroico soldato. A capo della propaganda di una grande
unità, seppe dimostrare che più che le parole valgono i fatti e fu sempre dove
maggiore era il rischio e combatté con i fanti nelle linee più tormentate.
Nella manovra conclusiva, alla testa dell’avanguardia del Corpo d’Armata, entra
per primo in Korcia ed in Erseke, inalberandovi i tricolori affidatigli dal
Duce. Superba figura di combattente, animato da indomito eroismo, uscì illeso
da mille pericoli e fu l’idolo di tutti i soldati del III Corpo d’Armata, che
in lui videro il simbolo del valore personale, della continuità dello spirito
di sacrificio e della più pura fede nei destini della Patria, che legano
idealmente le gesta dei soldati del Carso, del Piave, del Grappa con quelle dei
combattenti dell’Italia. Mirabile esempio di coraggio sereno, di alto spirito
militare e di profondo sentimento del dovere, rimase sul posto di
combattimento, quantunque non lievemente ferito. Nuovamente e più gravemente
ferito, prima di esser trasportato al luogo di medicazione, volle esser
condotto dal comandante del gruppo, per riferirgli sulla situazione. Pirro, Arrone:
E Thyrus. L’arma dell’eternita, Roma, (Camera Deputati), L’organizzazioe
economica dell’industrai eletrica, Roma, Le benemerenze e la tirannide degli
idrolettrici, Roma, Risveglio e viluppo agricolo, Roma, Bonifica integrale,
Roma, Per una piu armonica distribuzione di pesi fra I diversi cespiti della
ricchezza e I diversi lavoatori, Roma, Precursoi. L’IDEA ITALIANA, in Piemonte,
Roma, La contabilita generale dello stato italiano, Roma, lineamenti chematica
di contabilita di stato, Siena, Storia di Terni, dale origi al medio-evo
(Roma), Interamna de Naarti, “INTERAMNA NAHARS”, La contabilita di stato o
economia di stato nella storia italiana, Giappichelli, Torino, L’ECONOMIA DI
STATO PRESO I ROMANI (Giappichelli, Trino), La contabilita generale dello stato
esposta per tavole sinottiche, aRosrino, Attualita economiche, Roma, La
contabilita dello stato”. “Nel numero e l’univeso ma il numero e un segno che
po cconviene interpretare. Elia Rossi Passavanti. Passavanti. Keywords: eroe,
Annunzio, Fiume,il concetto di economia di stato, l’economia di stato presso i
romani, la terni pre-romana, la terni no-romana, la terni umbra, la terni osca,
la lingua umbra, l’idea italiana, economia di stato. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Passavanti” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi
Speranza -- Grice e Passavanti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza -- jacopo – libro dei sogni.
Luigi Speranza -- Grice e Passeri:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del Lizio – la
scuola di Padova -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo
italiano. Padova, Veneto. VGrice: “He was Zabarella’s uncle – mine worked in
the railways!” -- Grice: “It’s amazing how much a little book like Aristotle’s
‘Peri psycheos’ influenced those Renaissance and pre-Renaissance Italians!
Surely they were concerned about the immortality or other of the soul!” Essential Italian philosopher. Pubblica commentarii al “De Anima” e alla “Fisica” –
contro GALILEI (si veda). Dimostra la perfetta convergenza fra le idee di Arstotele
e Galilei sulla dottrina dell'unità dell'intelletto. “Disputatio de intellectus
humani immortalitate” (Monte Regali: Torrentino); “De anima” (Venezia, Iunctas Perchacinum); Paladini, “La
scienza animastica”. At cum Latini uideantur hoc negare, nosrem ita esse comprobare
possumus quoniam Aristotele cum dederit communem ANIMA. Animæ definitione subiungit
et propriam cuiusque gradus dicendam fore et prior rem natura esse vegetativam
sensitiva, quod in codem intelligitur, non autem in diversis quoniam in eodem
animato posita sensiti, uaponitur vegetativa et posita intellectiva ni mortalibus
alie ponátur, quia sicut ise habet vegetativa in sensitiva, ita et sensitiva in
INTELLECTIVA, quoniam in consequenter se habentibus polito primo non ponitur se
cundum,atposito secundo ponicur primum. Itaque essentiæ gradum animæ cum se seconsequantur,
posita posteriori dabitur prior et per consequens communem animæ definitionem analogam
esse oportet. Secundum autem anobisposicum, ut intelligatur anima in scilicet intellectivam
immortalem fore secundum quid autem mortalem, intellectum IV modis dici, certum
est I depossibili II de in habitu III speculative et IV agente. Unus quisque
horum modorum arguir intelletum corruptibilem, quoniam omne quod incipit, necessario
definit: cum autem intellectus materialis in Sphæranon detur sed tantum in puero
nuper nato, cum inces perit in Socrate, ut ita dixerim necessario delinet. Similiter intellectus agens in Socrate
incipit, quo niáili copulatur, ut forma et cum agens ili copulatur, intellectus
in habitu, qui genitus est desinit intellectus etiam in actu speculans, cum de
non speculari transeat ad speculationem, videtur genitus cum autem amplius non speculator
actu, definit este intellectus actu speculans ita ut intellectus quodammodo et
propter diversos respectus quos suscipit, dicatur corruptibilis et factus secundum
autem substantiam cum eadem sit substantia intellectus agentis et possibilis
dicitur eternus et simpliciter immortalis, quod rationibus ab Aristotele acceptis
ita esse ostendi potest. Omne enim formas omnes materiales recipiens estim materiale
intellectus autem possibilis recipit omnes formas igitur est immaterialis, est autem
necessarium tale recipiens esse immateriale. Quoniam quod intus est extraneum
prohibet. Pomponatius [POMPONAZZI] tamenstuder destruere hanc rationem, primum
enim inquit illam non concludere proptere a quod si intellectcus. Eus materialises
et separatus sequeretur et suam operationem separatam fore, quia operatio ipsam
essentiam consequitur: at Aristotele inquit si intelligere est sicut sentire, ecce
quod comparat operationem intellectus operationi sensus, igitur videtur hæc
ratio, potius intellectum mortalem probare, quam immortalem. Nulla est hæc ratio
Pompo Ratij, quoniam sequeretur intellectum esse virtutem materialem, quod dictum
Aristotele omnino negat. Præterea videtur committere fallaciam a secundum quid ad
simpliciter, propterea quod non valet, possibilis obiective dependet, igitur omnis
intellectus. At cum Alexan, velit animam intellectiva sive intellectum possibilem
non esse formam, sed; præparationem quandam, qux et sirecipiat omnes formas, esse
tamen mortalem, peto abillo quid per preparationem intelligat, vel intelligit puram
privationem, vel privationem cum aptitudine, non primum. Quoniam privatio sola nihil recipit, igitur privationem
cum aptitudine illum intelligere oportet, igitur erit forma si forma, ergo materialis,
quare preparation hæc non, recipiet omnes formas. Adiungit præterea
Pomponatius, intellectus unicam tan tum operationem habet, propterea quid D i j
ynius Secunda ratio, qux nostram sententiam confirmat, accipiturab LIZIO In
de Anima. 13.& isi in quibus proposita in 13. quesstioncan intellectus sit intelligibilis
quema ad modum alia materialia intelligibilia, soluit in15. Et intelligibilis est
sicut ipsa intelligi biliain his quæ sunt sine materia idem est, quod
intelligit et quod intelligitur, quilo unius virtutis unica est operatio
cum itaque; intellectus sit una virtus, que media est inter: pure materiales et
omnino abstractas, una driteius operatio:
esse autem mediam ex eoni titur ostendere, quoniam intelligit universale in singulari
et quatenus intelligit universale, comunicat cum abstractis, quatenusin
singulari comunicat cum materialibus, primum dictum sublatum fuit, non
inconuenire quod una virtus diversi mode se habens, diversas exerce ar operationes,
secundum dictum apud me nullum est, quoniam intelligere substantiarum quæ
omnino sunt separatæ, est intelligere per essentiam, intelligere autem intellectus
est universalis per speciem, si itaque; hoc intelligere non convenit substantiis
omnino separatis, quomodo na erit media participatione extremorum, qux re erit ad
hucex hoc fundamento intelles Aus pure materialis. Tertia ratio accipitura
quodamnorabia ti, Quoniam naturalis philosophus vide turdare duo eus non est cum
LATINIS interpretandus, sed intellectum esse intelligibilem, cum possibilis habuerit
intellectum agentem ut formam, tunc est intelligibilis per speciem, qu x actu est
scilicet per formam intellectus agentis et est intelligibilis vel uti intelligere
tixet enim si intellectus intelligeretur
quem ad modum dicut LATINI, esset intellectus do terioris conditionis lapide, quoniam
lapis per suam speciem intelligitur per se, intellectus vero per accidens, intelligendo
lapidem per suam speciem. Quare intellectus materialis et si videatur intelligibilis
sicuti alia intelligibilia materialia per speciem, non tamen eodem modo quoniam
intellectus intelligibilis per suam formam sit intelligents, intelligibile autem
materias lem in imè, de quibus fufius in explanatione eius loci diximus fundamenta
Metaphy. primum quod detur abstractum in natura, nam si Metaphy., ignoraret abstractum,
eum non determinaret, alterum fundamentum est quod naturalis supponit abstractum
et quod abstractum magnitudine sic intelligens,
quod tribuit animasticus sine quo Metaphy. Non haberet, quod abstractum sitina
telligens. Ad rem si intellectus esset mortalis, non daretur Metaphy. quoniam
per nullam naturam posset haberi abstractum esse intelligens, intellectus enim
qui mortalis est non potest habere eandem operationem, cum intelligere intelligentiarum,
quare si esset mortalis, non haberetur cognitio eorum, quæ per essentiam sunt separata.
Ultima ratio quæ immortalitatem animam confirmat, est quoniam felicitatem acqui
ri posse conveniunt peripatetici omnes, quam habere esset impossibile, si intellectus
esset mortalis. Pomponatius discurrit agens de felicitates, illam contingere hominibus,
quoniam omnes libiinuicem sunt auxilio alijeni magunt secundum intellectum pra: eticum; alijautem
secundum intellectum, Speculatiuum: rectem in hoc dicit, sed, falli, tur, cum
-velit hominem esse hominem per intellectum, ideo homo exercet operationes morales
per formam, qua est homo et propterea inquit Averroes p moralis capit si, nem hominis
ineo quod homo, qui quidem finis est cogitativa, ideo foelicitas non competit homini
ut homo, fedut in coquoddam divinum reperitur.10, Ethi. cap. 9. Aliauita et
finis potior isto, ideo nos li er
nos cum homines fimus, non debemus humana curare sed peruenire ad
immortale et sempiternum, per id quod in nobis divinum est. De quibus fufius in
expositione com.; de anima diximus. Ianua. Marco Antonio Genua. Marco Antonio
Passeri. Antonio Passeri. Passeri. Keywords: peripatetici, lizii, nous,
intelletto, etimologia d’intelletto, da lego – ‘to care’, ‘to decide’.
Intelleto, nous, animus vs. anima, mens, Boezio, l’intelletto, l’anima
intelletiva, animistica, animastica. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Genua," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi
Speranza -- Grice e Passini: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza
Luigi
Speranza -- Grice e Pasqualini: la ragione conversazionale e l’mplicatura
conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza -- difficult to find. M. Pasqualini,
C. Pasqualini.
Luigi Speranza -- Grice e Pasqualotto:
la ragione conversazionale del trasmettitore/ricevitore – l’implicatura
conversazionale – la scuola di Vicenza -- filosofia veneta -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Vicenza). Filosofo italiano. Vicenza, Veneto. Grice: “I like
Pasqualotto; for one, he predates Oxonians in the ‘teoria dell’informazione’!”
– Grice: “I never took ‘information’ as seriously as Pasqualotto does – I do
compare information with money, and refer to the stupidity of ‘false’
information – “”False’ information is no information.”” – But Pasqualotto
attempts to reconstruct a ‘teoria,’ a ‘teoria dell’informazione,’ i. e.
complete with a model that has room for the implicaturum, i.e. any x such that
by a mittente ‘sending’ a message, he may ex-plicate such-and-such and
im-plicate so-and-so.””. Frequenta
il Pigafetta di Vicenza, dove ha come maestro FAGGIN (si veda). Sotto la guida
di FORMAGGIO (si veda), si laurea in filosofia a Padova, con una tesi sull'estetica
tecnologica di BENSE. Diventa amico di Brandalise, Cacciari, Curi, e Duso, ed è
maestro nel suo stesso liceo vicentino, dove conosce Volpi. Collabora
attivamente ad alcune importanti riviste di filosofia come Angelus
Novus, Contropiano, Il Centauro. È professore a Venezia; a 'Padova; è
stato co-fondatore dell'Associazione “Maitreya” di Venezia. Contribuito alla
nascita della rivista “Marco Polo, rivista di filosofia orientale” -- e comparata “Simplègadi” è stato tra i
promotori del Master in Studi Interculturali a Padova, presso il quale ha
insegnato Filosofia delle Culture. Direttore scientifico della Scuola Superiore
di Filosofia orientale e comparativa di Rimini. Contributo teorico Nel saggio
Dall'estetica tecnologica all'estetica interculturale, P. descrive la sua
avventura intellettuale e insieme l'evoluzione del suo pensiero. In una prima
fase si è formato all'estetica analitica e alla filosofia analitica del
linguaggio, ma ha rilevato il loro limitato significato formale. In una seconda
fase, si è rivolto al pensiero critico di Adorno e della Scuola di Francoforte,
e in questo caso ha valutato che la conclusione alla quale essi giungevano, era
la morte per utopia dell’estetica. In una terza fase si è rivolto al pensiero
di Nietzsche, tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta;
Nietzsche nella Nascita della tragedia, considera Apollo e Dioniso come due
istinti complementari, tanto da consentire di poter riuscire a «vedere la
scienza con l’ottica dell’artista e l’arte con quella della vita»’, e a dare
importanza alla saggezza del corpo. Ma quello Nietzscheano gli sembrò solo un
tentativo eroico di coniugare filosofia e vita, che alla fine si rivela
solo come uno straordinario tentativo di scrittura sulla vita. Un'insoddisfazione
di fondo per gli esiti del pensiero occidentale, e la ricerca continua di nuove
possibilità per il pensiero, lo hanno portato ad approfondire lo studioiniziato
già in anni giovanilidi tradizioni di pensiero esterne a quella occidentale. Il
buddhismo, in particolare, ha costituito un terreno ampio di indagine e di
confronto con diversi temi o autori della cultura europea; ma anche il pensiero
taoista e l'esperienza della filosofia indiana hanno rappresentato nel corso
degli anni un importante ambito di riflessione. Infatti, in un'ulteriore quarta
fase del suo viaggio intellettuale, P. si è rivolto all’estetica orientale come
meditazione, ovvero come cammino comune verso un possibile superamento della
scissione tra esperienza e riflessione. In una quinta fase, P. si è avvicinato
all’estetica di Garroni come uso critico del pensiero, quale comprensione
dell’esperienza in genere all’interno dell’esperienza: in un certo senso,
quindi, l’estetica andava coincidendo con la filosofia. Valutando la
riflessione di Garroni prossima a quella orientale, P. arriva a considerare
l'importanza della 'meditazione' e del 'vuoto mentale’, in base ai quali, come
l’assenza di pensiero non può essere pensata senza idee, così non si possono
pensare idee senza pensiero, come era stato già pensato da Dogen. Nella sua
sesta ed ultima fase, guarda l’estetica
con gli occhi della filosofia come comparazione e della filosofia
interculturale, quindi come un ampliamento dell’orizzonte particolare
dell’estetica verso una riflessione generale sui problemi cruciali
dell’esistenza. P., infatti, è stato il primo pensatore italiano a elaborare la
valenza teoretica di una filosofia come comparazione, teorizzata con rigore in FILOSOFIA
come comparazione, distinguendola da un mero esercizio comparativo di pensieri
appartenenti ad ambiti geo-filosofici differenti. Il suo pensiero ha trovato
echi e possibilità di dialogo con filosofi italiani, come Cacciatore, Cognetti, Leghissa, e stranieri come
Fornet-Betancourt, Kimmerle, Jullien, Mall, Ohashi, Panikkar, Stenger, Wimmer. Duemila ha contribuito
all'introduzione in Italia della filosofia di Marco Polo sull’Oriente a
cominciare dall'importante opera di Nishida L’io e il tu, e poi con gli
altrettanto importanti Uno studio sul bene e Problemi fondamentali della
filosofia, accompagnati sempre da un saggio interpretativo che è rimasto
sostanzialmente invariato nel corso degli anni. Parallelamente ad altri autori,
si è misurato dai primi anni Duemila con il tentativo di delineare temi e
metodi per una filosofia interculturale che costituisce il campo di maggior
impegno e interesse della sua ricerca, congiuntamente a una riflessione estetica
sulle forme dell'arte dell'Asia orientale. Riassumendo gl’elementi chiave
del pensiero di P., potremmo individuare due componenti fondamentali: il
concetto d’rmenuetica interminabile e quello di Dialogo interculturale Il
concetto d’Ermenuetica interminabile prevede come elementi: 1. il pensiero come
'comparazione originaria'; 2. il sapere come 'ambito problematico sempre
aperto', rispetto al quale non si dà mai una verità stabile, ma sempre
problematica, inscritta cioè in un processo inesauribile di ricerca; 3. il
concetto di 'impermanenza' (mutuata dal concetto buddhista di 'anatta') come
struttura relazionale di tutto ciò che è, in base alla quale tutto ciò che è, è
un ‘nodo’ di relazioni in continua trasformazione ed evoluzione processuale. Il
concetto di Dialogo interculturale prevede come elementi: 1. la 'meditazione'
come ‘vuoto mentale’ e ‘consapevolezza’mindfulnessdel senso critico del
pensiero radicato nel presente; 2. l'apertura conseguente alla compresenza
degli elementi precedentidell’orizzonte di una riflessione generale sui
problemi cruciali dell’esistenza, orizzonte tipico della filosofia
interculturale. P. precisa chiaramente la specifica forma di rapporto
comparativo che viene attivato nell'orizzonte della filosofia interculturale,
rapporto detto 'a tre variabili interdipendenti. L’orizzonte di una filosofia
interculturale dovrebbe invece tendere a porsi come linea immaginaria di uno
spazio illimitato pronto ad ospitare quelle specifiche pratiche interculturali
che sono gli esercizi in atto di filosofia in quanto comparazione. Per evitare
le conseguenze contraddittorie a cui conducono sia le prospettive
multiculturali, sia le utopie universaliste, è necessario precisare la natura e
la funzione della specifica forma di rapporto che si viene ad attivare
nell’orizzonte della filosofia interculturale. La modalità di tale rapporto può
essere definita 'a tre variabili interdipendenti': due sono costituite da
pensieri o ambiti di pensieri tra loro diversi, e la terza è costituita da un
soggetto (individuale o culturale) che li pone a confronto. L’essenziale di
questa modalità di rapporto è che nessuna delle tre variabili sussiste
autonomamente, prima, dopo o a parte rispetto alle altre due: in particolare, è
importante evidenziare che il soggetto risulta sempre e necessariamente
implicato nella pratica della comparazione, al punto che tale pratica lo forma
e lo trasforma: il suo sguardo è ‘impuro’ fin dall’inizio, perché fin
dall’inizio viene condizionato e prodotto da una serievirtualmente
infinitadi osservazioni comparative. Fra i temi affrontati più di frequente
dalla sua riflessione ricordiamo: 1. il tema dell’identità, in base al quale
essa non è alcunché di rigido e identitario, ma poiché l’essente è nodo di
relazioni, l’identità si dà come intreccio di infinite relazioni, ovvero come
compresa in una sua problematica autonomia; il soggetto che, in quanto
costitutivamente interessato da molteplici relazioni, nel suo ricercare il
senso del realtà del mondo, non è un osservatore disincarnato e disinteressato,
o imparziale, ma è compreso nel rilevamento di quel senso nella trasformazione
di sé e della realtà; il corpo, in base al quale esso è la mente e, insieme, la
condizione prima della conoscibilità del mondo; in questo senso il tragitto di P.
ha sicure relazioni al tema odierno della ‘cognizione incorporata’ e della
Filosofia del corpo; il concetto di ‘processo’, in base al quale la realtà è un
insieme di processi: ciò che è, in quanto 'nodo' potenzialmente infinito di
relazioni, diviene processualmente, concezione che deriva direttamente dalle
filosofie orientali, in particolare dal buddhismo; l’illuminismo in base al
quale i limiti della ragione possono venir posti soltanto dalla ragione stessa,
come era stato già perfettamente considerato dalla Dialettica dell'illuminismo;
l tema delle pratiche filosofiche e della pratica artigianale; il tema dei diritti umani che non è solo un
tema accessorio rispetto al suo pensiero; su questo versante pare giocarsi una
partita più grande, che, ai temi della ‘libertà condizionata', della natura
dell’individuo e del fenomeno della globalizzazione unisce una profonda preoccupazione per i
destini dell’umanità. A tal proposito pare essere abbastanza pessimista, un
pessimismo attivo non passivo. Egli dice, infatti, nella premessa alla nuova
edizione del Tao della filosofia, queste precise parole. È da osservare
tuttavia che le tematiche della filosofia comparata, della filosofia come
comparazione e della filosofia interculturale non hanno avuto e continuano a
non avere risonanze significative all’interno del dibattito filosofico
nazionale e internazionale. Le ragioni di questa scarsa ricaduta sono
molteplici e di varia natura. Forse vi sono alla base difficoltà intrinseche ai
modi in cui tali tematiche sono state formulate e proposte; ma è anche da dire,
a tale proposito, che finora non vi è stata alcuna proposta critica che abbia
messo in luce tali ipotetiche difficoltà. È da ritenere, allora, che le ragioni
di questa debolissima risonanza siano, almeno in parte ma in primo luogo, da
far risalire alle rigidità delle discipline accademiche che mal sopportano non
solo le contaminazioni interdisciplinari ed interculturali, ma anche i semplici
ponti che tentano di mettere in comunicazione diverse discipline, culture e
civiltà. In secondo luogoma, dovremmo dire, ad un secondo, più basso, livellosi
dovrebbero tener presenti le ragioni o, meglio, i ‘sentimenti’ che hanno a che
fare più da vicino con germi xenofobi mai estinti, con residui di
fondamentalismi religiosi e con rigurgiti di tipo razzista che infestano non
solo l’Italia e non solo l’Europa. Ci sembra, anzi, che le tendenze che
germinano da tali poltiglie psicologiche e ideologiche si stiano facendo sempre
più invadenti ed arroganti. Questa riedizione del Tao della filosofia può forse
costituire un frammento ancora utile a tenere aperta qualche piccola fessura di
luce in un orizzonte culturale che, nonostante le aperture imposte dalla
globalizzazione, si fa sempre più stretto e più cupo. Al fondo delle intenzioni
di P., c’è un atteggiamento ecologico e agnostico,fino addirittura a concepire
la possibilità dell’essere ‘apolide’ -, e consapevoleuna consapevolezza nel
senso di mindfulnessnei confronti della natura della mente e della psicologia
umane, al punto che, alla disillusione per la possibilità di integrazione nella
vita psicologica occidentale delle pratiche meditative orientali, si unisce la
preoccupazione e l’impegno sociale e politico, forse considerando la
marginalità dell’intellettuale nelle grandi vicende della contemporaneità, ma
insieme sempre anche con un’apertura di orizzonte per una riflessione generale
sui problemi cruciali dell’esistenza. Saggi: “Avanguardia, tecnologia ed estetica
(Roma, Officina); “Teoria come utopia” (Verona, Bertani); “Storia e critica
dell'ideologia, Padova, CLEUP, Oltre l'ideologia: «Il Federalista», Roma, Ist.
dell'Enciclopedia Italiana); “Pensiero negativo e civiltà borghese, Napoli,
Guida, Saggi di critica, Padova, CLEUP, Saggi su Nietzsche, Milano, Angeli, Il
Tao della filosofia. Corrispondenze tra pensieri d'Oriente e d'Occidente, Parma,
Pratiche, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d'Oriente,
Venezia, Marsilio, Illuminismo e
illuminazione: la ragione occidentale e gli insegnamenti del Buddha, Roma,
Donzelli, Yohaku: forme di ascesi nell'esperienza estetica orientale, Padova,
Esedra, East et West. Identità e dialogo interculturale, Venezia, Marsilio, Il
Buddhismo: i sentieri di una religione millenaria, Milano, Bruno Mondadori, Figure
di pensiero. Opere e simboli nelle culture d'Oriente, Venezia, Marsilio); Oltre
la filosofia, percorsi di saggezza tra oriente e occidente, Vicenza, Colla;
Dieci lezioni sul buddhismo, Venezia, Marsilio, Per una filosofia inter-culturale,
Milano, Mimesis, Taccuino giapponese, Udine, Forum, Tra Occidente ed Oriente:
interviste sull'intercultura ed il pensiero orientale (Pretto), Milano, Mimesis;
Filosofia e globalizzazione, Milano, Mimesis, Alfabeto filosofico, Venezia,
Marsilio); “Dall’estetica tecnologica all’estetica interculturale, in Studi di
estetica, Filosofia come comparazione in Simplègadi. Percorsi del pensiero tra
Occidente e Oriente, Padova, Esedra). Cfr. Davis, Bret W.,.) Kitaro, L’io e il
tu, Andolfato, Padova, Unipress, Nishida: dialettica e Buddhismo,
Postfazione, Kitaro, Uno studio sul bene,
Fongaro, Torino, Boringhieri, Kitaro, Problemi fondamentali della filosofia:
conferenze per la Società filosofica di Shinano, Fongaro (Venezia, Marsilio); Buddhismo
e dialettica. Introduzione al pensiero di Nishida, Per una filosofia
interculturale, Milano, Mimesis, Tra Oriente e Occidente. Interviste
sull’intercultura ed il pensiero orientale, Pretto, Milano, Mimesis, Nietzsche o dell'ermeneutica interminabile, in,
Crucialità del tempo, Napoli, Liguori, Saggi su Nietzsche, Milano, Angeli, Intercultura
e globalizzazione, in, Incontri di sguardi. Saperi e pratiche
dell’intercultura, Miltenburg, Padova, Unipress, Per una filosofia interculturale,
Milano, Mimesis, Identità e dialogo interculturale, Venezia, Marsilio, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle
culture d'Oriente, Venezia, Marsilio, Dalla prospettiva della filosofia
comparata all’orizzonte della filosofia interculturale, Simplègadi, East et West,
Venezia, Marsilio. Interessante può essere, sotto questo aspetto, il confronto
con il pensiero di E. Morin, nel suo La testa ben fatta” (Milano, Cortina, La riforma di pensiero, Alfabeto filosofico,
Venezia, Marsilio, voce Corpo. Illuminismo e illuminazione, Roma, Donzelli); Saggezze
d'Oriente e d'Occidente come forme di vita, n Id., Oltre la filosofia, Vicenza,
Colla, Interessante può essere, sotto questo aspetto, il confronto con il
pensiero di Sennet, nel suo L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, Diritti umani e valori in Asia, Studia Patavina,
Alfabeto filosofico, Venezia, Marsilio,, voce Libertà. Filosofia e
globalizzazione, Milano, Mimesis, Il tao della filosofia, Milano, Luni,
Premessa. I termini 'ecologico' e
'agnostico' non sono propri dei supo testi ma depositati nel suo insegnamento
'orale', nonché derivabile da una semplice riflessione sulle finalità e
conseguenze della sua impostazione teorica Santangelo, recensione a Estetica
del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d'Oriente Revue Bibliographique de
Sinologie, Ghilardi, Magno, Sentieri di mezzo tra Occidente e Oriente. in onore,
Milano-Udine, Mimesis, Fongaro,
Ghilardi, Filosofia come Pratica. A partire da Il Tao della Filosofia, in Simplegadi,
Sentieri di mezzo tra Occidente e Oriente, Ghilardi, Magno, Mimesis, Crisma,
Dao, ossia cammino. Note in margine al percorso di riflessione di in Simplegadi,
Sentieri di mezzo tra Occidente e Oriente, Ghilardi, Magno, Mimesis, Bergonzi,
Comparatismi e dialogo interculturale fra filosofia occidentale e pensiero
indiano, in Comparatismi e filosofia, Donzelli, Napoli, Liguori, Marramao,
Pensare Babele. L'universale, il multiplo, la differenza, in Iride, Pagano, Un
contributo ermeneutico per la filosofia interculturale, in Lo Sguardo: rivista
di filosofia, Ghilardi, Magno, La filosofia e l'altrove: Festschrift,
Milano-Udine, Mimesis, Yusa, Michiko, Porta, recensione ad Alfabeto Filosofico,
Daodejing, Mandukya Upanishad, Mimesis
Festival: Che cos’è la filosofia? d Schopenhauer tra Oriente e Occidente, di G.
Pensiero buddhista e filosofie occidentali, Panikkar e la questione dei diritti
umani, La compassione intelligente nella tradizione buddhista, Nirvana e
Samsara, Covid-19 e Libertà. Anteprima di Illuminismo e Illuminazione, Anteprima
di Per una filosofia interculturale, Anteprima di Taccuino. Anteprima di
Alfabeto Filosofico, Anteprima di Dieci
Lezioni sul Buddhismo, Materiali su Interculturalità e Oriente, Materiali su Interculturalità
e Oriente. Giangiorgio Pasqualotto. Pasqualotto. Keywords: Marco Polo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Pasqualotto” – The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza.
Luigi Speranza -- Grice e Pastore: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nella storia della dia-lettica
romana di Varrone a Peano – la scuola di Torino -- filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Orbassano). Filosofo italiano. Orbassano, Torino, Piemonte. Grice:
“A proto-Griceian.” Grice: “Pastore divides logicians by nationality, and he
has a few for Italians; he does not distinguish between Welsh Russell and
English Boole, though!” Grice: “Pastore has an excellent section on the
‘alleged’ imperfections of ordinary language, to which I refer to in my
reference to the common place in philosophical logic.” Grice: “Pastore lists
six imperfections of ordinary language, for which he notes how confusing the
allegations are.” “He ends by noting the moral of the formalist: “not
everything that is explicated is implicated, and not everything that is
implicated is explicated!” – Grice: “The Italian philosophers he mentions make
an interesting list.” Grice: “He has an earlier paragraph on “Roman logic,”
which is charming.” Laureato
a Torino con GRAF ed ERCOLE (si veda), è insegnante di liceo e ottenne una
cattedra a Torino. Fonda e dirigge il laboratorio di logica sperimentale a Torino.
Collaboratore della Rivista di filosofia.
I suoi manoscritti sono conservati nell'accademia toscana di scienze e
lettere La Colombaria di Firenze. La salma del filosofo riposa nel cimitero di
Bruino. Saggi: “La logica formale dedotta dalla meccanicia”; “Scienza”
“Sillogismo e proporzione,” “Dell'essere e del conoscere,” “Il pensiero puro,”
“Causa ed esperienza”; “Solipsismo,” “Potenzia
logica” “Logica sperimentale,”” L'acrisia di Kant” “La filosofia di Lenin”; “La
volontà dell'assurdo. Storia e crisi dell'esistenzialismo” (Logicalia, Dioniso,
“Introduzione alla metafisica della poesia,” Bazzani, Carte. Fondo
dell'Accademia La Colombaria” (Firenze, Olschki); Castellana, “Razionalismi
senza dogmi. Per una epistemologia della fisica-matematica” (Mannelli, Rubbettino);
Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia, Selvaggi, Un
filosofo triste: P. in Scienza e metodologia. Saggi di epistemologia, Roma,
Gregoriana). “È notissima la storia della logica nell’antica Roma, in cui assai
per tempo viene a prevalere la teoria catechistica, sviluppata negl’innumerevoli
manuali di logica ad uso delle scuole, mutuanti l’insegnamento dalli saggi di VARRONE,
di CICERONE, di Aulo GELIO, e di Quintiliano. Questo indirizzo comprende
altresi i saggi di Vittorino, di VEGEZIO (si veda), e si spinge fine a quelle
imporntantissimei di BOEZIO (si veda) e di Cassiodoro che riduceno la logica
all’uso d’una TABULA LOGICA o combinazione di concetti secondo le regole della
silogistica. BOEZIO, “Introductio ad categehoricos syllogismos”; “de syllogismo
categorico-hypothetico,” “de divvisione”, “de definitione”, Cassiodoro
(Venezia). In tutta quanta la scolastica la sillogistica di BOEZIO è ripresa ed
applicata con sottilissimo svolgimento. Comincia, a vero dire, per essere
incompletamente conosciuta. Si complete con LOMBARDO. Quindi fa decisamente il
suo ingresso nell’occidente per opera di AQUINO, ABANO, e COLONNA – Summa
theologica, cfr. BRUNO, “de specierum scrutinio”; de lampade combinatoria
lulliana, de progresso et lampade venatoria legocorum. S’istende la
lussureggiante vegetazione dei “terministi”, fra i quali appena è il caso dei
ricordare il nostro Paolo NICCOLINI (si veda) Veneto, TARTARETO, e NIGRI. Per
onore della filosofia, voglio dire che, in mezzo a tanta zavorra, i pensamenti
originali sono molto più numerosi ed important di quanto non si creda comunemente.
NIZOLIO, Pauli Veneti, “Logia parva”, tractatus summlarum (Venezia). Le loro
relazione possibili con le varie posizioni di certi dischetti girevoli atorno
un centro comune, sovrapposit l’uno all’altro, sui quali sono segnai i concetti
fundamentale. Questo tentativo di BRUNO (si veda) contiene in gemre tutta la
teoria della quantifiicatione del predicato e la teoria della logica
sperimentale. In seguito ai mie personali ricerche compiute nella biblioteva
comunate di Noto (Siracusa) la priorità della dottrina della quantificazione
del predicato si deve attributire al sottilissimo casista CARAMUEL (si veda),
che l’espose nella sua “Grammatica audax”. Zvsdilio, zinytofuvyio in stidyyrlid
lohivsm, ztoms. FACCIOLATI, Logia protehroai, rudimenta di Logica, TIZIO, Arte
di pensare. PEANO, Calcolo geometrico secondo l’ausdehnungslehre di Grassmann
preceduto dale operazione della logica deduttiva (Torino), arithmetica,
principia, nova method exposita, I principi di geometrica logicamente esposti
(Torino, Bocca); elementi di calcolo geometrico, principi di logica matematica
R d M, formule di logica matematica, sul concetto di numero, sui fondamenti della
geomentria, saggio di calcolo geometrico, studi di logica matematica, NAGYj,
Fondamenti del calcolo logico, Napolo, sulla rappresentazione grafica della
quantità logica, Lencei, lo stato attuale ed i progressi della logica, rivista
italiana di filosofia, I principi di logica esposti secondo le dottrine moderna
(Torino, Leoscher), I teoremi funzionali nel calcolo logico (Rivista di matematica);
La logica matematica e il calcolo logico (Rivista Italiana di Filosofia, Roma),
I primi dati della logica (Roma), Sulla definizione e il compito della logica
(Roma, Balbi), Alcuini teoremi intorno alle funzione logiche (Rivista di Matematica),
BURALI-FORTI, Logica matematica (Milano); Sui simboli di logica matemaitca (Il
Pitagora), Vacca, Vailati, Padoa, Pieri, Castellano, Ciamberlini, Giudice, Nota
di Logica matematica (Rivista di Matematica), Vailati, un teorema di logica
matematca (Rivista di Matematica), sul carattere della logica: il sviluppo
della logica formale (Rivista di filosofia), Vacca, “Sui precursori della
logica matematica” (Rivista di Matematica), Bettazzi, Chini, Boggio, Ramorni, e
Nasso. Tutti i logici italiani apparengono alla scuola di PEANO (si vedùa), al
qualse si deve la logica matematica o pura. In essa introduzione, Peano,
esposti lucidamente gli studio, dimostra l’identità del calùcolo sulle classi,
col calcolo sulle proposizioni. La sua opera contiene la teoria dei numeri
interi completamente riditta in formole facendo ricorso ad un limitatissimo
numero d’idee logiche Peano espresso coi simboli: e, > = + V ~ A. – sette simboli. Di qui trae origine
la sua ideo-grafia in cui ogni idea è rappresentata con un segno, e il su
strumento analitico anda perfezionandosi rapidamente. Arrichitta di numerose
indicazioni storiche per la collaborazioni di valenti seguazi, procede
alacremente, raccogliendo e trattando completamente in simboli tutte le
proposizioni della matematica. L’importanza filosofica di questo movimento
iniziato da Peano non e ancora stata apprezzatta convenientemente da ogni
filosofo, ma i saggi di Peano cominciano solo ORA a richiamare sola di se
l’attenzione dei filosofi. Il ritardo filosofico e tanto più strano quanto più
chiara è la filiazione filosofica di questa ideo-grafia. Peano stesso non cessa
mai di far notare che la sua ideo-grafia è casata su teoremi di logica. Ma se
con definizione opportune, si pote riddure le idee di logica anche si
incontrano in molte parti della matematica ad un numero sempre più piccolo d’idee
primitive, attualmente ancorsa si desidera una riduzione analogia di tutte le
idee di logica ache si incontrano nella LOGICA PURA. Questa riduzione presenta
in vero seriissime difficoltà ed e più facile il riconocere quante e quai siano
le idea primitive in aritmetica e in geo-metria che in logica. Continuando le
richerche mi convene supporre consosciuto tento di portare un contribute alla
soluzione del problema suddetto. Annibale
Pastore. Pastore. Keywords: implicature, logica meccanica, acrisia. Meccanica
rama della fisica. Refs: Luigi Speranza,
“Grice e Pastore,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.
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