Luigi Speranza --
Grice e Leanace: la ragione conversazionale e la setta di Sibari -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Sibari). FIlosofo italiano. Pythagorean. Giamblico.
Luii Speranza -- Grice e Lecaldano: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della traspatia – l’impassibile
di Cicerone – filosofia veneta – la scuola di Treviso -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso,
Veneto. Grice: “Lecaldano is interested in altruism as the basis for morality;
I’m interested in morality as the basis for altruism; he ain’t Kantian; I am!”
-- Grice: “I love Lecaldano; perhaps because he is an Italian, he focused on
Scots! His analyses of Smith and Hume on ‘sympathy’ is ‘simpatico,’ as the
Italians say.” Grice: “Lecaldano engages in the kind of linguistic botanising I
do when I reflect on ‘cooperation’ versus ‘benevolence’ versus ‘empathy’ versus
‘sympathy’ versus ‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end up with a
rationality-based account of cooperativeness – or rather a narrowing of
‘co-operation’ to ‘rational co-operation’ – there are others!” Si laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La
Società Italiana di Filosofia Analitica (“to keep us apart from non-analytics
like Plato!”). Membro della Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di L.
spaziano dalla storia della filosofia morale sino alle discussioni
contemporanee sulla bioetica. Avvalendosi anche del rigore concettuale della
filosofia analitica, indirizza la sua ricerca alla ricostruzione storiografica
della morale, con particolare riferimento ai filosofi scozzesi (Hume, Smith).
Ha inoltre indagato criticamente i problemi della meta-etica. In bio-etica, L.
si prefigge l'obiettivo di una chiarificazione delle implicazioni morali legate
alle bio-tecnologie, che sfocia in una prospettiva laica per la pacifica
gestione del conflitto morale che le "tecnologie della vita" hanno
prodotto. Saggi: “Le analisi del linguaggio morale – “Buono" e "dovere"
(Roma, Ateneo), “La fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La lume della
ragione, gl’iluminati”” (Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza); “Etica,
Torino, POMBA); “Bio-etica: la scelta morale” (Roma, Laterza); “La morale” (Gaeta,
Bibliotheca); “Dizionario di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica secolare – senza
Dio” (Roma, Laterza); “Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia,
impassibile” (Milano, Cortina); “Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino);
-- la religione officiale in Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino);
“Bioetica Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il
punto di vista morale di L. sulla nascita, la cura e la morte di Corchia.
Riflessioni di L. sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di
simpatia tra conversazione comune e letteratura “La molteplicità di usi
di simpatia” È possibile riconoscere diversi significati nel termine
simpatia che di solito è accompagnato da un significato positivo, anche
se in realtà è possibile estendere il suo significato fino a usarlo
con connotazione negativa. Nel dizionario troviamo distinte 13 accezioni
del termine, dall’attrazione sentimentale alla condivisione di un
atteggiamento o posizione politica. Come nota Hume, è molto difficile parlare
delle operazioni della nostra mente in termini del tutto esatti, perché
il linguaggio comune raramente fa delle sottili distinzioni. Il termine “simpatia”
viene compreso dalla gran parte delle persone, ma paga la sua ampia
diffusione con l'indeterminazione che ad esso si accompagna. E enorme
l'utilizzazione che ha avuto la simpatia, sia in forma implicita che
esplicita. Hunt suggerisce che la nozione di simpatia sia la prosecuzione di
quella che nei testi illuministi viene analizzata come simpatia; Hunt,
poi, privilegia la simpatia assimilata alla compassione. Già nel
diciottesimo secolo Rousseau, assimilando la simpatia e la compassione,
la considerava una forma di pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre
Hume e Smith la considerano come la capacità, più sviluppata negli uomini
che negli animali, di partecipare attivamente alle condizioni altrui, sia
dolorose che gioiose. E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui il
rafforzarsi della simpatia fra gli esseri umani nella cultura europea (reso
possibile dai romanzi) portò a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri
umani che fino a quel momento erano stati emarginati. Molti romanzi in
secoli successivi accesero le emozioni e la partecipazione simpatetica
del pubblico.Verosimilmente anche molta della forza espressiva del cinema
può essere identificata nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le
sue tecniche, degli stati d'animo e della trasformazione delle emozioni
dei personaggi. (discorso su Kundera) “Un percorso di
approfondimento” Lo sforzo di conoscere il funzionamento della simpatia
si connette con la questione relativa a quanto la simpatia si debba
ritenere essenziale per la genesi della pratica morale diffusa tra gli esseri
umani. Cercheremo di capire se la simpatia sia necessaria o meno per la
moralità ed esporremo le argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo
restando che la simpatia può essere considerata necessaria per la nostra
vita etica, ma non sufficiente. Simpatia può riferirsi a un'attitudine
conoscitiva tramite la quale riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui,
oppure a una reazione affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti
altrui. Concordando con Stueber, andremo verso la simpatia intesa come
preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in
base ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte
quello che considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e
istintiva, un contagio emozionale automatico; Dall'altra quello che
considera la simpatia come un processo psicologico più complicato e che
comporta un minimo di riflessione. L'impostazione adeguata è quella che
non confonde i due livelli di simpatia e non semplifica le cose, presentando
una concezione riduttiva. Insisteremo inoltre sulla connessione tra simpatia e
la pratica non solo della moralità, ma della giustizia, della politica,
così come sulla sua incidenza nelle forme di civilizzazione. Prenderemo
le distanze dall'esportazione della simpatia sul piano normativo che vede
in essa ciò che è necessario e sufficiente per la costruzione di una moralità
umana. La nozione di simpatia ha una lunga tradizione nella storia della
filosofia. La prima importante nozione di simpatia è quella che le
riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le cose del mondo.
Nella cultura classica greca e latina, la simpatia utilizzata per richiamare
una connessione armonica che unisce fra loro esseri umani e realtà
naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella filosofia antica viene
usata per richiamare un processo che si sviluppa nel mondo fisico e solo
secondariamente in quello umano, infatti gli stoici si riferiscono ad una
simpatia universale per indicare l'affinità oggettiva esistente fra tutte
le cose. Gli stoici sono importanti per l'influenza che ebbero sui
moderni interessati alla simpatia come Hume e Smith. In Plotino troviamo
un'immagine che verrà ripresa da Hume. Questo concetto naturalistico
della simpatia è il fondamento della magia e verrà ripreso dai maghi del
Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia ha un'estensione
prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno
universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione
automatica. Fin dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione
positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è un'importante
innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Assisi, che nel “Cantico
delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma anche il
sole, la luna, l'acqua e il fuoco. Questo atteggiamento è “empatia”
(oriente e Schopenhauer) “Una relazione attiva fra due poli” La
simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica
a Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come
essenzialmente egoista. Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson
che però, pur riconoscendo agli esseri umani un grado di apertura
affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato quella completa soggettivizzazione
che troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury, infatti, con
l'impostazione platonizzante tende a considerare la simpatia come una
trama che si estende al di là del mondo umano, creando armonia fra vite
umane ed ordine universale. Hutchenson, invece, preferisce il termine
simpatia quello di “senso pubblico”, facendo riferimento ad un contagio
emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una trattazione della simpatia erronea
perché incapace di cogliere il suo collegamento con l'immaginazione e la riflessione.
Ciò non toglie che le analisi di Hutchenson siano tornate attuali. Troviamo
la trattazione più approfondita dell'idea di simpatia e si può
individuare nelle analisi di Hume e Smith due diverse concezioni che
influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano nel considerare la
simpatia solo come un dato della natura della psicologia umana e non una
forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico
che permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani;
per Smith è altresì un principio psicologico, ma tende a distinguere fra
ciò che possiamo approvare e ciò che dobbiamo disapprovare. Queste
diversità tra i due autori incidono sulla connessione fra simpatia e
moralità: Smith la concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo
necessaria ma non sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel
“Trattato sulla natura umana”, in cui troviamo una linea interpretativa
ben riconoscibile che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume
un principio costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti
fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo
quelle fra esseri umani, nonostante coinvolga anche relazioni con gli
animali e tra loro stessi; Nella natura umana esiste una gran tendenza a
prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che osserviamo in noi
stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione
della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di
questi ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali
suscitando le stesse emozioni provocate nella nostra specie. Hume distingue
due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin dall'
infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo
indiretto, ricorrendo all'immaginazione riflessiva e non immediata che
genera i sentimenti morali. A quest'ultima forma di simpatia può essere
ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale e
simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in
grado di rendere conto della distinzione che facciamo tra virtù e
vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione
della simpatia alternativa a quella di Hume. Infatti, a Smith non
interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la identifica
come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e
passioni altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere
su nel condividere emotivamente la risposta che l'altro dà alla
situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa
simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato
complesso e articolato: vi è un primo stadio che è la capacità di
ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta
sofferenza o piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato
dall'approvazione o disapprovazione che si dà della condotta altrui;
infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre
approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia
come approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella
generica analizzata da Hume, ma molto più aperta per ciò che riguarda il
ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come approvazione
morale in Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica
l'intervento di uno spettatore immaginario capace di far valere le
esigenze di una più completa ricerca delle informazioni rilevanti.
Concezione diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla
simpatia col ter. Grice: “While his
research on sympathy is erudite, he shows little sympathy! As far as his
philosophy of laicity (an Italian obsession) is concerned, he forgets for
Romans religio WAS a matter of state – those who did not submit were thrown to
the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize, but then he would, being a
post-Lateran-pact traumatized Italian – that not only religion was for the
romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but that the STATE was a matter
of religion. This was well perceived by that branch of fascism who culticated
the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies to the birth of Christ! I
would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself as ‘ethnic, ‘ethnicus,
ennico, a pagan, or heathen!” LE DISCIPLINE
FILOSOFICHE o doo lerprene CUCA CO SC {y/ertse e Ul insonne do
SAU VOVASVARIZZZA quali Sé prese NARO 1 SSCONI SUL problemi ‘ORGONO
per gli CSSOLL UAN quando AYIscOno © cerci ole è princi da Seguire
nelle diverse dimensioni d > Oa pratica. Sa parte integrante di questa
ILCELC “tazione delle regole TAN c0 pri «e giù disponibili Q/ we da
altre pers one. Afrontereno WZZZ volte nel co SAGGIO la questione di
Guanto l'etica assorba i sé 4 AGUA dall'economia per fare
valere 77) generale Pa ‘va (esa a lenee distinte concettualmente
CALO, da. In questo senso ‘etica’ occuba lo spazio. Ordinario di
Storia delle dottrine morali all'Università «La Sapienza» di Roma. I suoi
lavori sulla filosofia inglese dei secoli XVII e XVIII vanno
dall’edizione italiana delle Opere di Hume), all’edîzione italiana delle
Lettere a Serena di Johni Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli
XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di David Hume,
all’edîzione italiana delle Lettere a Serena di Toland, all’ampia antologia
L’ilyminismo inglese (1985), al volume Hume e la nascita dell'etica
contemporanea. All’etica contemporanea ha dedicato, tra gli altri, i
volumi Le analisi del linguaggio morale e Introduzione a Moore ETICA STEAS TEA - Tascabili degli
Editori Associati S.p.A. Corso Italia 13 - Milano UTET, corso
Raffaello, Torino. UTET dal Volume ITI della Fi/osoffa, diretta
da Rossi TEA ETICA. Con il termine
etica ci si riferisce all'insieme di scritti e discorsi nei quali si
presentano riflessioni sui problemi che si pongono per gli esseri umani
quando agiscono e cercano regole e principi da seguire nelle diverse dimensioni
della loro vita pratica. Fa parte integrante di questa ricerca la valutazione
delle regole e dei principi già disponibili o fatti valere da altre
persone. ETICA Affronteremo più volte nel corso del saggio la
questione di quanto l'etica assorba in sé e si distingua dall'economia per fare
valere in generale una prospettiva tesa a tenere distinte concettualmente etica
ed economia. In questo senso ‘etica’ occupa lo spazio semantico che nella
tradizione dotta italiana si collega a ‘filosofia morale’. L'etica in questo
senso ampio comprende dunque tutta una serie di più determinate
specificazioni che riguardano di volta in volta i problemi morali, quelli
di pertinenza del diritto e della legge e quelli che più propriamente
rientrano nel campo della politica o dell’azione del governo. Usando un altro
linguaggio si può dire che l'etica riguarda l'universo dei valori e delle
norme complessivamente inteso e dunque in questo senso sia la morale, sia
il diritto e la politica. È chiaro che, invece, gli aspetti più tecnici e
specifici del diritto e della politica, quali, poniamo, la teoria
dell’ordinamento giuridico o le varie tecniche da adottare per rendere efficaci
le sanzioni, o ancora le riflessioni sulle varie forme di governo e i rapporti
tra i vari poteri non sono di pertinenza dell'etica come qui intesa.
Verranno dunque brevemente trattate le questioni relative al diritto e
alla politica solo per individuare con più precisione gli ambiti specifici di
problemi pratici in gioco in queste aree dell'etica, La pretesa per
quanto riguarda queste sezioni è di col. locarle con chiarezza nel
campo più generale dell'etica piuttosto che affrontare partitamente i loro
problemi specifici. La scelta concettuale fatta comporta che si lasci
completamente da parte la pretesa di occuparci dell'etica 0 della morale
in un senso più sociologico, ovvero come insieme di costumi di un popolo,
o in un senso più psicologico, ovvero come stili di vita 0 inclinazioni e
abitudini a determinati tipi di associazione mentali effettivamente
riconoscibili nella biografia di esseri umani concretamente esistenti. L'etica
nel senso in cui ce ne occuperemo coinvolge piuttosto la riflessione e il
pensiero impegnati nella caratterizzazione, critica, difesa e revisione
del costume o delle pratiche effettive. La scrittura di
questo testo è stata orientata da due linee guida. Da una parte si è
cercato di fare valere l'ottica di chi scrive alla fine del secolo XX.
Anche se probabilmente una partizione che prenda troppo sul serio lo stacco
tra secoli va incontro a forzature, si muove, comunque, da una
prospettiva che è largamente influenzata dalla considerazione di quei
problemi morali che nel nostro secolo si sono dovuti affrontare, e si
stanno ancora affrontando, per la prima volta, quali ad esempio le questioni
della bioetica, o dell'etica ambientale, del trattamento degli animali ecc. In
secondo luogo chi scrive assume la prospettiva fatta valere da Derek
Parfit secondo la quale una vera e propria etica nel senso moderno può
essere vista nascere solo con il XVII secolo. Ma un'etica che unisca
insieme la consapevolezza della sua autonomia e un certo impegno in senso
professionale riguarda solo la seconda parte di questo secolo (Parfit). Ed è
dunque a questa etica moderna e contemporanea più che a quella antica e
medievale che in questo scritto si farà principalmente riferimento per
dare spessore storico alle distinzioni e conclusioni che si
avanzeranno. Anche se l'etica si presenta come una disciplina già
consolidata e con una tradizione di sapere costituito, si può indicare
una strada che permette di accedere ai problemi di cui si occupa muovendo
dall'esperienza comune e quotidiana. Infatti la pretesa dell'etica come del resto di quasi tutti i rami
della riflessione filosofica è
quella di occuparsi di problemi che tutti gli uomini affrontano e
incontrano nella loro vita. Nel caso dell'etica teorica è frequente anzi trovare affermata la pretesa di essere più
vicina e direttamente rilevante per la vita delle persone di quanto siano altri
ambiti della filosofia, quali poniamo la gnoseologia (con la sua
elaborazione teorica sulla conoscenza), 0 l'epistemologia (con le sue
riflessioni sulla teoria della verità) ecc. Questa pretesa di una
più stretta vicinanza con la vita di tutti si accompagna spesso nelle
elaborazioni teoriche nel campo dell'etica con un'ulteriore pretesa per
cui tali elaborazioni vengono presentate come la parte più importante delle
riflessioni filosofiche 0 comunque come quella che ha priorità e
centralità regolativa rispetto alle altre. Nella vita quotidiana si
presentano numerose situazioni problematiche che possono essere
considerate come punti di partenza per la riflessione etica. Suggeriamo
di classificare queste situazioni problematiche ricorrendo a due distinte
tipologie, quella dei conffitti e quella dei disaccordi. Casi di
conflitto per così dire il
versante privato o soggettivo dell'etica sono quelli in cui noi stessi non
riusciamo a trovare una soluzione valida a un problema etico 0 perché i
nostri principi tradizionali risultano inadeguati o perché non riusciamo a
risolverci appunto tra differenti principi egualmente rilevanti. Casi di
disaccordo per così dire il versante
oggettivo o pubblico dell'etica sono quelli, molto frequenti e diffusi
nelle nostre società complesse, in cui petsone diverse tendono a fare
valere principi etici contrastanti per risolvere la stessa situazione
moralmente rilevante, î Il cammino verso l'elaborazione di un'etica
più riflessa sembra aprirsi non già quando le regole e i principi
tradizionali rispondono alle nostre esigenze, ma piuttosto in una
situazione in cui gli esseri umani incontrano difficoltà nel campo delle
loro scelte e decisioni pratiche. Se, infatti, la vita pratica procede in
modo del tutto ordinato all’interno di una routine consolidata non vi è
quella base necessaria per un'elaborazione critica, Il presentarsi di una
diffi. coltà nell'applicazione dei codici normativi tradizionali è, in
genere, il punto di partenza per l'elaborazione dell’etica nel pensiero
moderno e tale quadro problematico è diventato costitutivo della teoria
etica nel pensiero etico contemporaneo. La stretta connessione
della riflessione etica con situazioni di conflitto e di disaccordo
sembra voler suggerire che proprio all'etica in quanto tale spetta di
proporre una soluzione e che quindi rientra negli obiettivi specifici
dell'etica teorica prescrivere esplicitamente ciò che è bene o giusto fare in
situazioni particolari. Una pretesa che nel corso della nostra ricostruzione
delle varie posizioni riconoscibili nell’etica moderna e contemporanea
avremo l’occasione di valutare criticamente. L'elaborazione etica
di cui renderemo conto in modo più sistematico in questo scritto si
colloca in un quadro generale individualistico. A monte infatti della nostra
rivisitazione dell'etica vi è l’assunzione filosofica che in generale i
problemi con cui si ha a che fare riguardano individui ovvero persone
umane. L'etica così intesa si muove in un contesto che può essere considerato come proprio del
pensiero moderno da Cartesio in avanti in cui i problemi di fronte ai quali ci si
trova sono problemi che nascono per esseri umani particolari e finiti.
Anche se nei primi secoli della ricerca moderna la riflessione era volta a
fissare il campo dell'etica tenendo conto della natura umana
complessivamente intesa, fin dal secolo XVII essa muoveva da problemi pratici
di individui ben determinati. Il lettore troverà dunque privilegiata
nell'esposizione seguente una tradizione empiristica e naturalistica nella
quale, tra il XVII e il XXX, si sono collocati tra gli altri: Hobbes,
Locke, Hume, Smith, Bentham, Mill, e Sidgwick. La riflessione sulla
morale di Kant malgrado non rientri in questa tradizione sarà tenuta
presente per la sua capacità di far valere l'ottica di una responsabilità
individuale autonoma nella vita morale, Esponenti del neoempirismo e della
filosofia analitica hanno contribuito nel corso del XX secolo a questo
approccio più generale nei confronti dell’etica e il loro contributo sarà largamente presente
nelle pagine seguenti , che è stato più recentemente caratterizzato
esplicitamente come «individualismo metodologico». Una linea di ricerca
ampiamente percorsa anche se non
senza differenze in ITALIA, ad
esempio, da Juvalta, Abbagnano, Preti, Scarpelli e Bobbio. È vero
che i casi in cui gli esseri umani individuali e le persone si trovano
effettivamente di fronte a problemi etici quali quelli che rendono possibili
laserie di riflessione di pertinenza dell'etica sono probabilmente più rari
di quanto in genere si ritenga. Ma la rinascita dell'etica e il fiorire
della riflessione pratica a cui abbiamo assistito nella seconda metà del secolo
XX (dai disaccordi pubblici sulle questioni di giustizia distributiva e
di discrimina. zione che hanno caratter izzato gli anni Settanta, ai
conflitti che negli anni Ottanta ci hanno coinvolto tutti sui principi e le
regole da far valere di fronte alle nuove condizioni del nascere, morire
e curarsi degli esseri umani) mostrano l'ampio radicamento nella
vita comune di questa dimensione filosofica. Probabilmente riflessioni e
decisioni si svolgono in modo meno esplicito e più impersonale
(attraverso la meditazione della discussione pubblica intersoggettiva) di
quanto risulterà dal taglio individualistico di questo saggio. Ma nelle
pagine seguenti, senza la pretesa di tutto abbracci are o risolvere,
renderemo conto in modo sistematico e critico delle diverse concezioni
elaborate per avere a che fare con quelle scelte individuali che sono
influenzate da ragioni etiche. 2. Lanatura dell'etica.
2.1. Meta-etica e meta-morale. La
riflessione sulla natura dell’etica ha una priorità logica una volta
assunta la prospettiva riflessiva e critica alla cui genesi abbiamo fatto
riferimento nel paragrafo 1. Si tratta infatti, in primo luogo, di capire
l'ordine di problemi intorno a cui si riflette econseguentemente di individuare
quali siano i criteri cui si può ricorrere per risolverli 0 mettere alla
prova la validità delle soluzioni alternative che ci si presentano.
Un esempio particolarmen te rappresentativo di questo percorso logico
troviamo delineato da Moore nei suoi Prircipis Ethica. Moore chiarisce che il
problema centrale dell'etica a suo
parere, l’unico problema dell'etica è quello di fornire una definizione delle
principali nozioni che ricorrono nei nostri discorsi morali, ovvero le nozioni
di buono, giusto, obbligatorio, dovere ecc. Moore sostiene poi che tutte
le nozioni etiche sono riducibili, in modo più 0 meno diretto, a quella
fondamentale e primaria di «buono». Ecco quindi quanto scrive Moore:
Ciò che ‘buono’ significa è in effetti, a parte il suo contrario
«cattivo», il solo oggetto semplice di pensiero che appartenga
peculiatmente all'etica. La sua definizione, di conseguenza, è il punto
essenziale nella definizione dell'etica; e inoltre un errore su questo
punto porta con sé un numero di giudizi errati di gran lunga più grande che
qualsiasi altro errore in materia. Se questa domanda preliminare non è
pienamente compresa è non se ne vede chiaramente la risposta, tutta il
resto dell’etica ha un valore praticamente nullo dal punto di vista della
conoscenza sistematica [...] in ogni caso, è impossibile che, finché non
si conosca la risposta, si possa sapere quale è la prova richiesta per un
giudizio etico qualsiasi. Ma il principale obiettivo dell'etica come
scienza sistematica è dì fornire ragioni corrette per pensare che una
cosa 0 un'altra è buona; e se non si risponde alla nostra domanda tali
ragioni non si possono dare (Moore, 1964: 48-49). Secondo
l’impostazione di Moore dunque che
faremo nostra i metodi di prova e
confutazione che hanno efficacia in etica potranno essere identificati solo
dopo che avremo capito la natura dell'etica, ovvero il tipo di problemi di
fronte ai quali ci troviamo laddove è in gioco la parte morale della
nostra esistenza. Cominciamo quindi con il passare in rassegna
criticamente le più importanti concezioni sulla natura dell'etica. In filosofia
è corrente una nozione per riferirsi a questa parte della ricerca e,
specialmente in questo secolo, ci si è molto dilungati sulle diverse
meta-etiche o meta-morali (assumiamo qui queste etichette in un senso generico
e che le rende equivalenti senza investire la distinzione tra etica e
morale su cui invece ci soffermeremo nel $ 6). Una determinata concezione
meta-etica o meta-morale si colloca sul piano conoscitivo e logico. Essa si
propone infatti, prima di tutto, di farci capire qual è la natura
dell'etica e quali sono i metodi di prova e dimostrazione in essa in vigore.
Tutto ciò è preliminare e solo dopo si ritiene possibile passare a
sottoscrivere una determinata soluzione. La riflessione meta-etica viene quindi
non solo concepita come preliminare o logicamente prioritaria, ma in
genere come del tutto neutra da un punto di vista normativo, Si
tratterebbe dunque, per usare formule che piacciono molto ai filosofi, di
identificare preliminarmente ciò che è comune a tutti i punti di vista
etici in quanto etici, per eventualmente passare poi a sottoscrivere una
determinata etica a preferenza di altre. Naturalmente vi sono anche
pensatori che negano che una meta-etica neutrale e del tutto priva di
implicazioni normative sia possibile. In questalinea troviamo un autore
di tendenze analitiche come Scarpelli che sottolinea la natura prescrittiva di
tutte le scelte a monte della costruzione di una particolare meta-etica
(Scarpelli,). Ma anche autori del filone postanalitico come Hilary Putnam
e Donald Davidson che negano la validità dell'assun zione che distingue tra
forma e contenuto, distinzione a monte della tesi della neutralità delle
teorie meta-etiche (H. Putnam, 1985; D. Davidson, 1992). Questa
controversia riguarda però più propriamente il modo di intendere il
lavoro filosofico e il modo di concepire le relazioni e connessioni tra
analisi concettuali e logiche e opzioni valutative e normative e dunque
in questa sede laasciamo da parte. Così come non affrontiamo
esplicitamente la questione di quale si debba considerare l'oggetto
proprio delle analisi meta-etiche. Se cioè esse debbano vertere
esclusivamente sulle parole e il linguaggio morale come ha sostenuto una parte dei filosofi di
questo secolo e specialmente gli esponenti della filosofia del
linguaggio ordinario come ad esempio Stevenson, Hare e Nowell-Smith, o
possano essere caratterizzate in modo meno ristretto. Più recentemente,
ad esempio, Bernard Williams ha suggerito di considerare come oggetto
proprio delle analisi sulla natura dell'etica in coerenza con una concezione più liberale
dell'analisi filosofica non solo i
discorsi, ma anche esperienze, azioni, emozioni ecc. (B. Williams, 1987).
Tenendo conto del livello generale di questo scritto potremo fare tesoro
di questa proposta liberalizzatrice e considerare come campo della meta-etica o
della meta-morale l'insieme delle diverse dimensioni della vita etica degli
uomini. La concezione dell'edonismo egoistico. La via più ovvia per identificare la natura
generale dei problemi che sorgono quando stiamo scegliendo o decidendo
tra differenti alternative che ci stanno di fronte è quella di sostenere che in
realtà siamo esitanti solo perché non ci risulta chiaro cosa ci conviene fare
di più. Ovvero lasciando da parte la
questione di una differenza tra le più specifiche caratterizzazioni di
che cosa intendiamo con la formula «ciò che ci conviene di più» -ciò su
cui stiamo deliberando è solo l'individuazione del corso di azione che farà
maggiormente il nostro proprio interesse, 0 ci darà più piacere o ci farà
guadagnare di più ecc. Questa concezione meta-etica riconduce quindi le
azioni in gioco in questa dimensione della nostra vita pratica all'interno
di un contesto che riguarda le azioni umane in generale: tutte le azioni
umane sono rivolte a ottenere il proprio personale piacere e a evitare il
dolore. Si tratta di una concezione che riconduce l'etica
all’interno di quel quadro dell’edonismo egoistico che con una certa approssimazione interpretativa viene attribuito a pensatori come Epicuro
e Hobbes. Troviamo ad esempio che Hobbes negli Elements of Law
Natural and Politic (Elementi di legge naturale e politica) sostiene:
«Ogni uomo, dal canto suo; chiama ciò che gli piace ed è per lui
dilettevole, bene; e male ciò che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno
differisce da un altro nella costituzione fisica, così ci si differenzia l’uno
dall’altro anche riguardo alla comune distinzione di bene e male. Né esiste una
cosa come l’agaton aplos, vale a dire il bene assoluto» (Hobbes,).
Questa concezione della natura dell'azione umana in generale in
realtà porta a negare che vi sia una dimensione etica nella vita degli
esseri umani. Infatti ci troviamo di fronte a una posizione che propone
di tradurre tutti gli enunciati 0 giudizi etici in questioni che hanno a
che fare esclusivamente con valutazioni, pro 0 contro una certa linea di
azione, sulla base di un criterio esclusivo che è quello del proprio
personale tornaconto. La natura dell'etica non viene certo caratterizzata
in questa direzione da tutti coloro che presentano delle teorie meta-etiche o
meta-morali. Infatti al di lì delle diversità da un punto di vista
epistemologico, gnoseologico, psicologico 0 genetico, tutte le diverse
concezioni concordano nel presentare, in termini contenutistici e
sostantivi, il campo dell'etica come quello che ha a che fare con scelte e
valutazioni che hanno come punto di riferimento degli obiettivi che vanno al di
là del solo interesse personale. Naturalmente una
caratterizzazione dell'etica che insiste sulla natura non interessata,
imparziale e generale del punto di vista che essa coinvolge pone come
questione preliminare quella più propriamente empirica e psicologica
della possibilità che gli uomini effettivamente agiscano mossi da
motivazioni non strettamente egoistiche. Vedremo più volte nelle pagine
seguenti che una delle grandi questioni intorno a cui sono convergentemente
confluiti gli sforzi di melti pensatori è proprio quella di riuscire
a salvaguardare nel comportamento umano uno spazio per le azioni mosse
da ragioni etiche e dunque non strettamente egoistiche. In questa sezione
ci limitiamo dunque a fissare in via del tutto preliminare il punto su cui
convergono le diverse concezioni sulla natura dell'etica e della morale
di cui renderemo conto in questo paragrafo. In modi diversi
le numerose concezioni meta-etiche cercano di rendere conto di un fatto
considerato più o meno acclarato ovvero che nella vita degli esseri umani
esiste una sfera di azioni, scelte, valutazioni che è di pertinenza
dell'etica e della morale. Questa sfera ha a che fare comunque con
valori, principi, criteri, norme, regole che riguardano la condotta degli
uomini ove la si veda come non esclusivamente indirizzata verso la
realizzazione di obiettivi strettamente egoistici ponendosi dal punto di
vista di ciascuno degli agenti. Vi è cioè secondo le diverse teorie
meta-etiche che ora passeremo in rassegna una dimensione sovraindividuale
e intersoggettiva (se non addirittura universale) coinvolta nelle azioni umane
e che sarebbe appunto quella di pertinenza dell'etica. Sulla base di
questa premessa comune le meta-etiche si differenziano poi per il modo di
rendere conto di questa dimensione e conseguentemente delle vie per fondare e
giustificare scelte e giudizi etici corretti. 2.3. L'etica come
insieme di comandi divini. Una
delle teorie meta-etiche più antica e fortunata è quella che ritiene che
al centro dell’etica vi siano una serie di doveri e di obblighi che
ricavano la loro origine, validità e forza dal fatto di essere comandi di
un’autorità superiore. In genere poi all'interno di questa concezione
meta-etica si tende a identificare l'autorità i cui comandi vengono messi
in pratica nell'etica con una qualche divinità, si tratti del Dio di una
delle diverse religioni positive, o piuttosto l'Autore della Natura della
religione naturale, o ancora qualcuna delle divinità minori delle religioni
politeistiche. Nel mondo moderno una tale concezione meta-etica è
stata presentata nella forma più chiara dai teorici del giusnaturalismo
provvidenzialistico del XVII secolo e in particolare la si trova difesa
approfonditamente da Locke negli Essays on the Law of Nature (1660-1664,
Saggi sulla legge naturale). Si tratta di una concezione meta-etica che
proprio per il riferimento essenziale ai comandi di una autorità sovrannaturale
considera primarie e centrali per rendere conto di questo campo della vita
umana le nozioni di legge, obbligazione, dovere e mette, dunque, in secondo
piano altre nozioni quali quelle di buono, giusto, diritti, virtù ecc. In
questa prospettiva l'etica è poi strettamente connessa con la religione.
Infatti se tutto ciò che è in gioco nelle nozioni etiche è un qualche
comando o legge di un’autorità divina che rende obbligatori i suoi
dettami attraverso sanzioni a cui nessun essere umano può sfuggire allora
un'etica così intesa dipenderà fortemente dalla disponibilità di prove
dell'esistenza dell'autorità divina presupposta e andrà incontro a
insormontabili difficoltà nel momento in cui entra in crisi la credenza
nell'esistenza di un essere che trascende la natura. I fautori della
concezione che vede nell’etica una serie di comandi o leggi o ordini di
una qualche autorità divina, giunti a questo punto o riterranno scomparsa
l'etica dall'orizzonte della vita degli uomini 0 dovranno indicare una qualche
autorità terrena da cui fare dipendere la validità dei principi etici 0,
infine, dovranno abbandonare del tutto la metaetica che rende conto dei
principi morali come di comandi di una qualsiasi autorità. Una
trasformazione del genere fu al centro della riflessione di Hobbes portando
inizialmente a una forma implicita di positivismo giuridico. Ma più
in generale guardando alla riflessione morale dal XVII secolo ad oggi,
con una qualche semplificazione, si può rendere conto dell'etica moderna
e contemporanea come un processo di progressivo allontanamento della
meta-etica in termini di comandi di una qualche autorità distinta dal
soggetto che sceglie, decide o giudica eticamente. Laddove si
istituisce il collegamento tra l’etica e la legge divina si aprono le due
diverse possibilità dell’intellettualismo e del volontarismo. Chi ritiene
che l’etica non sia altro che un insieme di comandi divini può infatti
ritenere che Dio comandi ciò che è bene perché lo riconosce come tale
oppure alla lucedi una concezione
volontarista può concludere che ciò che
è buono è tale proprio in quanto è Dio a volerlo. Non ci soffermeremo
sulle difficoltà presenti in queste due distinte vie teoriche. In
particolare l’intellettualismo sembra andare incon tro alta
difficoltà di rendere in qualche modo il bene precedente e superiore a Dio.
Viceversa il volontarismo si scontra con la teodicea ovvero con la
questione dell’esistenza del male nel mondo e dunque con la necessità di
ammettere un qualche limite alla potenza di Dio di fronte ad esso. Si può
ipotizzare che proprio le difficoltà incontrate una narrazione di queste difficoltà si
può trovare nei volumi di S. Landucci e Scribano nel corso del XVII secolo nel delineare in
modo coerente e accettabile queste diverse strategie per fare dipendere il
bene morale dalla legge divina, hanno segnato una delle cause del crollo
della concezione meta-etica che stiamo esponendo. Sulle macerie di questa
concezione si sono andate consolidando le meta-etiche che ritengono
costitutiva per una ricostruzione adeguata di questo campo il pieno
riconoscimento dell'autonomia delPetica. Cerchiamo di delineare sia
pure sommariamente le principali argomentazioni che giustificavano questo
sforzo di ricondurre l'etica alla legge divina. Nella sezione successiva
ricostruiamo invece il tentativo di connettere comunque l’etica ai comandi di
un'autorità, non già però sovrannaturale, ma solo terrena e
positiva. Come si è detto la biografia intellettuale di Locke è
particolarmente significativa per chi sia interessato a una riflessione critica
sulle ragioni pro e contro un’etica del comando divino. Lo sforzo di Locke era
quello di conciliare questa concezione meta-etica con ragioni che
potessero essere accettate anche, al di fuori della metafisica innatistica del
pensiero medievale e cartesiano, da chi si muoveva accettando
un’epistemologia empiristica. Vi erano alcuni vantaggi a favore di una concezione
della morale e dell'etica come una legge divina presente nella natura
umana. Quest'impostazione permetteva di risolvere in modo semplice le complesse
questioni della motivazione propria della condotta etica e
dell’universalità ed eternità dei principi morali. Locke mostra con
chiarezza che questa concezione meta-etica veniva abbracciata in defini
tiva proprio in quanto permetteva di rendere conto di un'etica in cui i
principi venivano appunto considerati come eterni e universali e obbligatori
per tutti gli esseri umani. Infatti come insistentemente ripete Locke e non solo negli Essays on the Law of
Nature, ma anche in An: Essay concerning Human Understanding (1690,
Saggio sull'intelletto umano) e negli scritti pubblicati dopo il 1690 un'adeguata filosofia morale deve riuscire a
delineare le condizioni che rendono vincolante principi e regole,
ovvero la legge naturale, per tutti gli esseri umani in qualsiasi
epoca. Ma il punto decisivo è che l’obiettivo di una filosofia morale
non è solo mostrare che un certo principio è vincolante e
obbligante, ma anche che ciò che esso ci comanda va fatto perché noi
ricoposciamo che è giusto. Tutto ciò possiamo realizzarlo solo concependo
la legge naturale al centro dell'etica come un comando di Dio. Solo
questo infatti garantisce che il comando sarà giusto, direttamente presente în
tutti gli esseri umani e vincolante in modo efficace in quanto tutti
sanno che qualsiasi defezione alla legge sarà punita da Dio senza scampo
in una vita eterna. Locke nella sua presentazione della natura
dell'etica come una legge naturale non solo si sforzava di insistere sulla
natura obbligante di questa legge facendola derivare da un comando
divino, ma di rendere possibile la conoscibilità di questa da parte della
coscienza umana senza doverla presupporre come innata o ammettere un
consenso universale non riscontrabile empiricamente. Proprio il fatto di fare
derivare la conoscenza della legge naturale da un processo che univa
senso e ragione portava Locke a considerare tale legge come costitutiva
della natura umana. Locke finiva dunque con il congiungere la concezione
che vede l'etica come il campo dei comandi divini con un’altra
concezione che vede piuttosto l’etica come l’esplicitazione di quelli che sono
i caratteri necessari della natura umana. Nelle sue analisi Locke non
distingueva tra due strategie radicalmente diverse, quella che concepisce la
legge morale naturale come un comando divino che ci viene direttamente
comunicato da Dio o da un suo interprete autorizzato e quella che invece vede
la legge naturale come qualcosa solo indirettamente scopribile
ricostruendo le leggi morali incorporate nella condotta umana.
2.4. L'etica come comando di una qualche autorità. L'insistenza sulla tesi che la natura
propria dell'etica può essere colta solo mettendo al suo centro principi morali
che sono obbliganti e vincolanti in quanto comandati è presente anche in
un’altra linea di caratterizzazione meta-etica e meta-morale. Si tratta
di quella concezione che, negata la possibilità di riconoscere una autorità
sovrannaturale e divina, mantiene pur tuttavia l'apparato concettuale
dell'etica religiosa per cercare di rendere conto in termini mondanizzati
della natura vincolante della morale. Questa strategia di traduzione
dell'etica del comando divino nella meta-etica che definisce comunque le
nozioni morali in termini di imperativi o comandi sia pure di una
autorità terrena e umana fu percorsa già nel corso del XVII secolo, ad
esempio secondo alcuni studiosi di etica da Hobbes. Ma l'interpretazione
di Hobbes in questo senso è controversa e dunque risulta dubbia la possibilità
di rendere conto della sua concezione della legge etica o morale considerandola
come una concezione che la riduce al comando di un'autorità positiva
riconosciuta. Né ritengo che, diversamente da quanto pensano altri studiosi di
storia dell’etica (ad esempio M. A. Cattaneo, 1962), una concezione del
genere si possa ritrovare nell'opera del fondatore dell’utilitarismo
Jeremy Bentham in quanto è chiaro da un punto di vista concettuale che
per un utilitarista il criterio decisivo dell'etica non è il rinvio a
qualcosa che è comandato secondo procedure riconosciute idonee ma direttamente a ciò che è accettabile in
termini di utilità generale. Tale concezione può dunque essere più
correttamente attribuita ad autori come John Austin o, per venire al
secolo XX, ai sostenitori del positivismo giuridico come Hans Kelsen. Si tratta
di una concezione legalistica dell'etica; ciò che ha una validità etica può
essere obbligante solo se vi è un’autorità che è in grado di fare
rispettare, con opportune sanzioni, la legge o le regole codificate. Tale
impostazione non solo esige una qualche codificazione dell'etica, ma
richiede anche che vi sia una autorità in grado di fare rispettare i suoi
decreti. Numerose sono le obiezioni che sono state mosse a questa
concezione legalistica dell’etica e in generale a una concezione come quella
che sarà sviluppata sistematicamente dal positivismo giuridico che tenta di
ricondurre la totalità del valore etico ai comandi di un'autorità positiva in
grado di fare rispettare con l'uso della forza i suoi decreti. Già nel XVII secolo
viene messa a punto un’ampia batteria di critiche. Esse rendono difficile
accettare questa concezione come in grado di spiegare la natura
dell’etica in generale e finiscono con il delimitarne la portata esplicativa,
eventualmente, al solo diritto positivo strettamente inteso (cfr. infra,
$ 6.2). Ricordiamo alcune di queste critiche. Il punto
decisivo sta nel fatto che ricondurre l'etica a un insieme di comandi non
permette di discriminare come ha
mostrato nel dettaglio ad esempio F. Snare (Snare) tra tre situazioni
che sono concettualmente distinte. 1) Una posizione è quella di chi
accetta un comando in quanto teme l'eventuale sanzione di chi promulga il
comando, ovvero quella di chi considera il comando obbligatorio e
vincolante in quanto prevede che chi lo ha emesso ricorrerà a una forza
efficace coercitiva per farlo rispettare. 2) Completamente diversa è poi la
posizione di chi accetta un comando in quanto riconosce un'autorità a chi
promulga il comando. In questa posizione ricadono non solo i fautori di cui abbiamo già detto nella sezione
precedente di un legalismo religioso
alla Locke che vedono il comando divino come obbligante non potendosi
non avere «fiducia» nell’autore della natura che non può regolarsi in
modo diverso da quello proprio di un padre buono. Vi ricadono anche i fautori
del positivismo giuridico (per una presentazione ed una critica di questa
posizione sono utili Bobbio, 1965; Scarpelli, 1965} che ritengono di non
potere non obbedire alle leggi promulgate da un'autorità che riconoscono
come legittima in quanto rispetta le procedure costituzionalmente previste per
promulgare leggi. 3) Infine del tutto diversa è la posizione di coloro che
accettano un comando in quanto discriminano tra comandi giusti e comandi
ingiusti e dunque rispettano le leggi del loro paese fino a quando le
considerano eticamente accettabili. Si tratta di tre situazioni ben distinte e
una meta-etica che non riesca a mantenere autonoma l'obbligatorietà
della morale dalla mera accettazione di un comando legittimo o dal timore di
una qualche sanzione data da un potere che ha la forza di costringerci
risulta una meta-etica inadeguata. Le critiche alle concezioni
religiose o legalistiche della natura dell’etica sono una chiara via pet
giungere a cogliere l'autonomia dell'etica. L'autonomia che così viene in
primo piano è quella di decisione di ciascun soggetto individuale
responsabile. L'etica ha a che fare con decisioni autonome di individui che non
possono ritenere risolti i loro problemi meramente facendo appello a una
qualche autorità che comanda loro che cosa fare. In realtà resta sempre
aperta da un punto di vista etico la domanda che conta ovvero se obbedire o
meno al comando riconoscendolo giusto. Il senso peculiarmente etico di
tale domanda ci si rivela laddove comprendiamo che con essa ci si chiede
non tantose l'autorità che ci sta di fronte sarà in grado di scoprirci o
punirci ove non rispetteremo i suoi comandi, quanto piuttosto se il
comando è giusto o meno, ovvero se è o no moralmente accettabile.
Le concezioni legalistiche dell'etica e il positivismo giuridico non
riescono dunque a discriminare tra potere giusto e ingiusto. Collocandosi
al loro interno non trovano una spiegazione tutte le situazioni su cui ha molto insistito Ronald Dworkin
(Dworkin, 1990) nella sua critica al riduzionismo metaetico del positivismo
giuridico quali quelle in gioco quando
ci si rifiuta di obbedire a un comando ingiusto (le forme di
totalitarismo del XX secolo hanno di continuo fatto sorgere per gli
esseri umani dilemmi del genere}. Ma più in generale partendo da una
concezione meta-etica del genere non si riesce a spiegare proprio la genesi di
istituzioni quali la giustizia e il governo. Naturalmente intendiamo
riferirci a una genesi che cerchi sul piano logicocritico le ragioni della
validità morale di un certo governo e della giustizia, non già a una
genesi che si contenti di qualche risposta di ordine storico 0 fattuale.
Le concezioni che riconducono la validità dei principi morali a comandi
vincolanti dati da una qualche autorità tendono infatti a considerare che
l'unico problema in gioco laddove ci interroghiamo sulla genesi della validità
del potere di un certo governo o di determinate regole di giustizia non è
altro che il mero interrogarsi sul fatto storico se questo governo esiste o
meno e se queste sono o meno le leggi che vigono nel nostro paese. Chi
riduce l'etica ai comandi di una qualche autorità non riesce più a rendere
conto del perché distinguiamo tra governi e leggi giuste e governi e
leggi ingiuste. In questo quadro legalistico non ha nemmeno molto senso
porsi il problema, che pure sembra centrale per l'etica moderna e
contemporanea, dello spiegare quali sono le basi per cui si debba
obbedire a una qualche norma anche quando si sa che non c’è nessuna
autorità in grado di osservare il nostro comportamento e dunque premiarci o
punirci per la nostra fedeltà o la nostra defezione. Se l'unica validità di una
legge etica è data dalla forza che chi la comanda ha di farla rispettare, è
evidente che non c’è nessuna ragione di seguire una norma etica quando
l’autorità non è in condizione di raggiungerci con le sue sanzioni,
Questa concezione meta-etica dunque non solo non spiega il passaggio da
una situazio ne priva di etica a una in cui vi è un qualche principio
etico, ma finisce con il lasciare sempre aperta in definitiva come fisiologica e legittima la possibilità di defezionare dai comandi
dell'etica ove si sia in condizione di sfuggire al controllo
dell’autorità che li ha promulgati. 2.5. L'etica come legge
naturale 0 razionale. Un'altra
concezione sulla natura dell'etica che ha una lunga storia dietro di sé è
quella che identifica il bene e il giusto con ciò che è naturale per gli
uomini ovvero con ciò che è razionale per essi. Le derivazioni della
morale in termini di ragione umana e in termini di natura umana
rappresentano certamente due diverse concezioni meta-etiche se le si vede
da un punto di vista contenutistico; infatti è ben diverso presentare come un
tratto definiente del bene e del giusto la natura o la ragione umana. Per
una lunga parte della storia dell’etica però le due vie sono state fatte
coincidere e fino al XVII secolo la natura umana è stata appunto
presentata principalmente come natura razionale. Solo nel XVIII secolo si
sono andate divaricando le due diverse strategie che hanno ricondotto
l’etica o ad aspetti della natura umana non strettamente razionali (i
sentimentalisti e Hume) o proprio alla parte razionale in quanto non
influenzata da desideri e passioni (Kant). Per quanto riguarda queste
concezioni che riconducono l'etica alla natura o alla ragione umana va
rilevato che diversamente da quanto accade nel caso dell'etica del
comando divino la definizione del campo proprio del bene e del giusto non viene
data rinviando a realtà al di sopra o al di là degli esseri umani, quali
sono appunto i comandi di un Essere Supremo. Ci troviamo infatti di
fronte a concezioni che ritengono di potere rendere conto del campo della
morale ricavandolo integralmente da ciò che è interno all’universo della vita umana.
Si viene così a superare una concezione eteronoma dell'etica nel senso di
una concezione che rinvia a qualcosa che è al di sopra o al di fuori
della natura e ragione umana. Non tutte però le concezioni che collegano
l'etica alla natura o ragione umana e
che potremmo caratterizzare in un senso molto generale come naturalistiche o
immanentistiche ne riconoscono
pienamente l'autonomia, e non mancano fino al XVIII secolo concezioni
riduzionistiche che tendono ad assimilare l'etica a tratti generali della
vita o della natura umana niente affatto peculiari. Alle concezioni metaetiche
di Hume e Kant possiamo fare risalire il pieno riconoscimento dell’autonomia
dell’etica pure nell’alveo di spiegazioni che fanno ricorso alla natura o
alla ragione umana. Nel senso più radicale di collegamento dell'autonomia
dell'etica con le scelte e le decisioni individuali dobbiamo invece guardare
a un processo che si è sviluppato solo nel XIX e XX secolo.
Cerchiamo di individuare i tratti distintivi di questa concezione
meta-etica o meta-morale rendendo brevemente conto delle tradizioni che
l'hanno maggiormente sviluppata. In primo luogo la tradizione naturalistica che
ha guardato e guarda tuttora all'etica nei termini metafisici e ontologici
propri della filosofia di Aristotele con le trasformazioni e
manipolazioni più o meno profonde operate dalle filosofie tomistiche e
neotomistiche. In secondo luogo la tradizione razionalistica che possiamo
fare coincidere con il giusnaturalismo razionalistico del XVII secolo. Come si
è detto vanno tenute distinte da queste due strategie meta-etiche che
potremmo caratterizzare come riduzionistiche quelle che pur rinviando alle
nozioni di natura o ragione umana riconoscono uno spazio del tutto autonomo per
la morale o l'etica. Così va considerata a parte la forma di naturalismo
presente nelle opere di Hume che riconosce nell’etica una dimensione del tutto
peculiare della vita umana della quale non si può rendere conto nei
termini di una generale ricostruzione ontologica e metafisica della natura
umana complessivamente intesa. Va ugualmente tenuta distinta dalle concezioni
riduzionistiche dell'etica la ricostruzione che della morale realizza Kant.
Infatti questi, pur ammettendo lo stretto collegamento tra razionalità ed
etica, salvaguarda l'autonomia del campo della morale distinguendo
nettamente tra il piano della ragione pura conoscitiva e quello della
ragione pratica. Presenteremo dunque quattro distinte
caratterizzazioni dell'etica: nel senso di un giusnaturalismo
ontologizzante e metafisico; nel senso dell’estrinsecazione di un'unica Ragione
ontologicamente radicata; nel senso di un collegamento con una natura umana universalmente
intesa al cui interno si cercano però tratti che consentano di salvaguardare
l'autonomia del campo della morale; e infine nel senso
dell'estrinsecazione di una razionalità pur sempre sovrastorica e
universale ma che viene connotata in una dimensione specificamente pratica
distinta da altre dimensioni. In Aristotele troviamo chiaramente
formulata la tesi che la virtà e il bene consistono per gli uomini nel
realizzare il comportamento che è proprio della loro natura. L'essere
umano è dunque naturalmente etico (come del resto è naturalmente
politico), e l'etica nella sua realtà può essere derivata solo dalla
conoscenza dell'essenza stessa della natura umana. Una prospettiva che
tra l’altro rende praticamente impossibile distinguere il piano
dell’analisi metaetica da quellodelle analisi normative: identificare lo spazio
dell'etica coincide con l’identificare il bene che gli esseri umani sono
naturalmente inclini a riconoscere. Nell’Etica Nicomachea (Aristotele, 1979)
Aristotele presenta la più chiara formulazione di una concezione che
ricava la definizione dell'etica dalla definizione della natura umana.
L'elenco delle virtù umane e la loro gerarchia viene infatti derivata da una
preliminare conoscenza di quella che è la natura sostanziale dell'uomo.
Anche se in Aristotele si riconosce come propria della vita pratica una
dimensione di indeterminatezza e probabilità che la rende del tutto
diversa dal sapere teorico in cui si possono attingere sia la certezza,
sia la conoscenza dimostrata, poi non troviamo tale indeterminatezza
quando si passa a delineare i fondamenti dell'etica. Che per gli uomini
la virtù somma stia nella vita contemplativa e che la giustizia
rappresenti la virtù suprema della vita associata viene derivato
logicamente dalla definizione dell'essenza dell’uomo come appunto animale
razionale propriamente adatto al sapere teorico e al vivere in società.
Vi è nell’etica aristotelica non solo una derivazione della definizione
dell’etica da quella che si ritiene la natura essenziale e sostanziale
dell'uomo, ma anche una particolare strategia teleologica per rendere
conto della vita etica in modo tale da salvaguardare l'impianto dinamico
e progressivo della vita pratica. In Aristotele infatti il bene per
l’uomo e quindi l'orizzonte di realizzazione dell'erica non rinvia a qualcosa
di già dato e posseduto, ma richiede piuttosto l'impegno dell'uomo a
realizzare quello che è lo scopo ad esso più proprio. Questo
impianto teleologico dell'ontologia aristotelica permette alla filosofia di
Aristotele di venire riproposta nel tomismo e nel neotomismo come
struttura portante della concezione mediante cui il cristianesimo elabora il
suo peculiare tentativo di ridurre l’etica alla natura umana (si veda
Maritain, 1971). Nella tradizione cristiana non è necessario percorrere
la strategia che riduce l’etica direttamente ai comandi divini: si può
infatti percorrere anche la strada che vede la natura umana come di per
se stessa fornita di caratteri etici imprescindibili. L'Autore della
Natura con la sua bontà e provvidenza ha creato la natura umana in modo
tale da fornirla intrinsecamente di quel particolare te/os che le permette di
realizzarela felicità e i risultati migliori per gli uomini. Realizzare i
fini propri della natura umana diventa così un comandamento anche per la
religione cristiana in quanto appunto nella n atura umana sono
rintracciabili chiaramente i tratti distintivi propri della vica etica. Ciò
che è innaturale risulta negativo e malvagio e nello stesso ordine naturale
delle cose possiamo rintracciare la regola di ciò che è buono e
giusto. Ma questa via di ricondurre l'etica a qualche tratto tipico
della natura umana viene percorso nel pensiero moderno e contemporaneo
anche su basi diverse da quelle metafisiche e ontologiche proprie
dell'etica aristotelica. Se il carattere comune în base al quale
caratterizziamo una meta-etica come naturalistica è quello di ricondurre i
tratti distintivi dell'etica a qualcosa che è peculiare della natura umana
allora numerose meta-etiche naturalistiche sono state presentate
anche dal Seicento in avanti. Ma queste forme moderne e contemporanee di
naturalismo rifiutano poi di irrigidire la natura umana alla luce di una
concezione sostanzialistica e di conseguenza non percorrono la strada che
presenta l'etica come qualcosa di ontologicamente o concettualmente necessario
per una definizione della natura umana ed evitano anche di ricorrere alla
strategia finalistica 0, nella versione cristiana, provvidenzialistica,
per fondare il campo della morale. Presentiamo alcune di queste
meta-etiche naturalistiche delineate nella cultura moderna econtemporanea
e alcune critiche ad esse mosse. Abbiamo un filone di meta-etiche
naturalistiche, inaugurato dalla filosofia di Anthony Ashley Cooper Shaftesbury,
che pone al centro dell'etica un qualche istinto 0 sentimento originario e
irriducibile ad altro: un «senso morale» proprio di tutti gli esseri
umani, Qui ci troviamo non solo di fronte a una meta-etica chiaramente
immanentistica, ma anche a una con cezione che non deriva la
definizione dell’etica da una caratterizzazione di tipo essenzialistico
della natura umana, ma da una ricognizione empirica degli esseri umani. Resta
poi vero che attraverso questa procedura empirica si ritiene di potere
individuare qualcosa che è comune a tutti gli uomini e quindi come tale
proprio della natura umana e almeno nel caso di Shaftesbury, e dopo di
lui di Francis Hutcheson, anche qualcosa di originario. Va sottolineato
che l'etica viene qui collegata alla disposizione da parte degli uomini a
reagire alle cose del mondo sulla base di qualche sentimento o senso
piuttosto che in termini meramente intellettuali o razionali. Ancora per
tutto il secolo XVILI vi è stata una metaetica riconducibile a una forma di
naturalismo sentimentalistico. L'etica infatti ha a che fare con
sentimenti e emozioni proprie di tutti gli uomini anche, ad esempio,
per Hume e Smith. Nel caso di Hume tale caratterizzazione in termini
naturalistici dell'etica risulta temperata, sia dalla portata complessivamente
ipotetica delle sue spiegazioni filosofiche, sia dal presentare i sentimenti e
le emozioni proprie dell’etica come in larga parte non originarie, ma
piuttosto come il risultato di un processo artificiale di sviluppo della
natura umana. Di conseguenza da una parte l'etica si presenta come
qualcosa che ha a che fare con un risultato artificiale e non
originario della vita umana, ma dall'altra questo stesso artificio è
presentato come del tutto naturale per gli uomini nel senso che Hume ne
ricostruisce la genesi ricorrendo a cause naturali. Tale concezione
naturalistica è stata così vista ad
esempio da Ruse come un precedente di quella evoluzionistica elaborata
da Darwin e che si trova sviluppata poi
a un livello filosofico (non privo di inclinazioni assolutistiche) in Herbert
Spencer. Nel naturalismo evoluzionistico l’etica viene considerata come
un insieme di istinti e abitudini cooperative acquisite dagli uomini nel corso
dell’evoluzione, ma una derivazione evolutiva dell’etica non esclude che
essa venga considerata specialmente
laddove si insiste sulle sue radici biologiche come propria di tutta la specie umana.
‘Tutte queste diverse forme di meta-etica naturalistica sono state
sottoposte a critiche radicali lungo due linee convergenti, tra la fine
del XIX secolo e la prima metà del XX. Da una parte si èobiettato, come
ad esempio fa J. $. Mill nel primo dei suoi Three Essays on Religion
(1874, Tre saggi sulla religione) dedicato alla natura (Mill, 1972:
13-52), mostrando la vaghezza e genericità della nozione di natura
che come tale è del tutto incapace di fornire un qualche criterio preciso per
avere a che fare con i problemi etici, dato che sta le azioni più crudeli
sia quelle più generose rientrano nella Natura latamente intesa. Dall'altra si
è obiettato, come fa ad esempio G. E. Moore nei Prircipia Ethica (Moore,
1964: 91-120) che da un punto di vista logico econcettuale il naturalismo
cade nella cosiddetta «fallacia naturalistica» riducendo appunto a
naturale ciò che non lo è (cfr. oltre $$ 3.4 e 3.11). Malgrado
queste critiche nel XX secolo concezioni naturalistiche dell’etica sono
state pur tuttavia riproposte, sia in termini evoluzionistici (ad esempio
nel caso della sociobiologia, specialmente da E. Wilson, 1975), sia
attraverso forme aggiornate di neoaristotelismo (ad esempio P, Foot, 1978
e A. Mac. Intyre, 1988). In contrasto con queste meta-etiche
naturalistiche vanno viste quelle concezioni che rendono conto dell’etica non
tanto riconducendola alla natura umana, in generale, quanto piuttosto
collegandola strettamen te, in modo più specifico, con la ragione
umana. Tale strategia è stata percorsa lungo due di. verse linee, Da una
parte i razionalisti etici del XVII secolo, quali ad esempio i
giusnaturalisti Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, consideravano questa ragione
umana come una facoltà ontologicamente garantita in grado di cogliere
l'essenza stessa dell’uomo e dunque i suoi obiettivi più propri (Bobbio,
1963). Questa concezione della ragione è rintracciabile anche alla base
dei numerosi tentativi nel corso del XVII secolo di dare vita a un'etica
dimostrata, un compito verso cui tendono pensatori per altri versi molto
differenti quali ad esempio Hobbes, Baruch Spinoza, Locke e Samuel Clarke.
L'idea era quella di presentare una morale che derivasse le leggi del
comportamento umano da principi o auto-evidenti, o assunti comevalidi per
definizione, o radicati nella struttura metafisica del mondo.
Il razionalismo etico è stato però successivamente elaborato anche al
d i fuori di questo quadro metafisico, essenzialistico o
dimostrativo. Questa è ad esempio la strategia percorsa nel modo più
rigoroso ed approfondito da Kant nella Kritik der praktischen
Vernunft (\788, Critica della ragion pratica), ma poi ampiamente
ricorrente nella storia dell'etica contemporanea. Nel caso di Kant
l'etica ha a che fare non più con la struttura essenziale del mondo,
quanto piuttosto con la forma pura della razionalità umana. Kant precisa
anzi, salvaguardando la sua meta-etica dalla critica di ridurre il
dovere al fatto, la morale alla scienza, che la ragione di cui egli
tratta nell'etica non è la ragione pura conoscitiva ma è la ragione
pratica. L'etica secondo Kant non ha un contenuto diverso dai principi
generali che presiedono alla possibilità stessa di una razionalità
pratica per gli uomini, ed è in questo senso che l'etica ha a che fare
con una dimensione trascendentale che riguarda la volontà umana in generale.
L'etica fissa e precisa le leggi che presiedono al funzionamento di
qualsivoglia volontà umana che non si proponga questo o quell'obiettivo particolare,
ma piuttosto di conformarsi alla sua struttura generale. L'etica rende
così esplicita la struttura categoriale della razionalità pratica umana.
Vedremo nel paragrafo 4.6 quali sono i contenuti normativi precisi a cui
Kant giunge muovendo da questa concezione meta-morale; qui ci limitiamo a
sottolineare alcuni tratti della meta-etica kantiana. Nel caso
della caratterizzazione della natura della morale fornita da Kant risulta
del tutto salvaguardata l'autonomia dell'etica rispetto alle dimensioni
della conoscenza empirica e della fede religiosa (Landucci, 1993): la
razionalità pratica umana è infatti in grado da sola di fondare la validità
della vita morale. Anzi nella concezione kantiana gli stessi contenuti
principali della religione sembrano presentarsi come risultati dell’azione
della razionalità pratica umana in quanto suoi postulati che garantiscono la
validità della vita morale. Nell’approccio kantiano l’esigenza di non ridurre
l'etica a qualche altra cosa viene dunque salvaguardata sia attraverso
l'affermazione della netta distinzione tra ragionpura conoscitiva e ragion pura
pratica, sia con la negazione della riconducibilità dell'etica a sentimenti ed
emozioni naturali degli uomini. Rifiutando di assumere un qualsiasi
sentimento o emozione particolare degli uomini come in grado di rendere conto
della natura della morale, Kant ritiene anche di poter
giungere a garantire l'universalità della legge morale. Questa teoria
meta-etica ha come sua conseguenza un pregiudiziale rifiuto rigoristico di
considerare come bene una qualunque cosa che possa soddisfare un sentimento,
un'emozione 0 un desiderio individuale. Malgrado l'impegno con cui
Kant si è sforzato di salvaguardare l’autonomia dell’etica non sono mancate nei
confronti della sua meta-etica le critiche di coloro che vi trovano una
forma di riduzionismo non diversa da quella presente nell’etica naturalistica.
Si insiste dunque che in Kant il dovere etico è ridotto a quella che è la
legge e la struttura della volontà. E ancora che nei suoi scritti vi è la
riduzione di tutte le ragioni pratiche dei singoli esseri umani finiti a
una razionalità universale e assoluta. Si rileva poi che l’uso di una nozione
come quella di trascendentale è una traccia del permanere di tentazioni
di tipo ontologizzante ed essenzialistico. Va segnalato che come avremo modo di documentare
ulteriormente l’impostazione kantiana ha
avuto comunque una grande fortuna nel corso del XX secolo. Autori su posizioni
filosofiche molto diverse quali ad
esempio J. Rawls, H. Putnam, K. O. Apel la ripropongono in nuove vesti.
La tendenza è quella di depurare l'imposta» zione kantiana dalle
tentazioni di ordine metafisico e considerare l'etica come qualcosa che
ha a che fare non tanto con la struttura di fondo della razionalità
pratica quanto con le condizioni stesse della comunicazione umana in generale o
con le presupposizioni della vita civile. Coloro che elaborano il
modello della razionalità pratica kantiana giungono così per quanto
riguarda la natuta dell'etica a conclusioni non molto diverse da quelle
raggiunte da alcuni teorici del prescrittivismo non cognitivistico di cui
renderemo conto nella prossima sezione. 2.6. L'etica come
prescrizione universalizzabile. Nel
corso del XX secolo il tipo di concezione dell'etica che ha avuto la prevalenza
è quella preoccupata principalmente di rendere conto della vita morale in modo
tale da segnarne una netta autonomia e differenziazione rispetto al piano della
conoscenza empirica e scientifica; potendosi oramai ritenere già del tutto
acquisito, sul piano teorico, il processo che ha portato a segnare il
distacco dell’etica dalla religione. La distinzione dell'etica rispetto
al campo della scienza e della conoscenza empirica è stata poi tracciata
su basi molto diverse, rimanendo dunque costante la tendenza a definire
la natura dell'etica come campo del tutto irriducibile e peculiare della
cultura umana. Così Moore consolida in modo definitivo la
tendenza a segnare una completa autonomia dell'etica rispetto alla conoscenza
empirica 0 metafisica, anche se poi egli legava le principali nozioni etiche
con una forma di conoscenza intuitiva del tutto peculiare. Conclusione
quest'ultima che verrà rifiutata da coloro che più rigorosamente
negheranno che l'etica abbia a che fare con una forma qualsiasi di
conoscenza, ovvero da quei teorici del non-cognitivismo preoccupati
piuttosto di salvaguardare la dimensione prevalentemente normativa o
prescrittiva al centro della morale. Ma la soluzione di Moore era quella
di indicare nelle proprietà oggetto dell’intuizione etica ovvero nel bene e nel dovere delle proprietà del tutto uniche e
irriducibili ad altri tipi di proprietà naturali, presentandole quindi come
peculiari e indefinibili qualità non-naturali. Tutte le meta-etiche che non
avevano riconosciuto l’indefinibilità e l'irriducibilità delle proprietà etiche
secondo Moore avevano compiuto, in generale, l'errore logico da lui
chiamato «fallacia naturalistica», errore consistente prima di tutto nel
ridurre ciò che non è naturale al naturale. Su basi diverse
all'analoga conclusione dell’affermazione di una netta distinzione tra
conoscenza empirica o scienza e ambito della morale arriveranno anche
quei neo-positivisti che —— come ad esempio Alfred Jules Ayer in Language,
Truth and Logic (1946, Linguaggio, verità e logica) — allargavano la loro
analisi verificazionista del discorso fino a presentare conclusioni a proposito
della natura dell'etica. La tesi generale di Ayer era quella dell'impossibilità
di rend ere conto dei giudizi morali con le stesse concezioni esplicative
che rendono conto delle normali asserzioni empiriche e scientifiche. Ma
Ayer non si limitava a tracciare una distinzione tra l'ambito delle
asserzioni empiriche e l'etica. Egli infatti concludeva sulla base della
generale teoria del significato accettata dai neo-positivisti — secondo
la quale solo le proposizioni empiricamente verificabili, sia pure in linea di
principio, hanno un significato — che l'autonomia dell’etica è data dal
fatto che i suoi enunciati, proprio per l’uso di nozioni quali buono,
giusto e dovere non sono verificabili in termini empirici e dunque sono
privi di senso. Ayer non si limitava però alla conclusione negativa, ma
aggiungeva anche una caratterizzazione in positivo dell’etica. Ayer infatti
riconosceva alle proposizioni dell'etica un ruolo loro proprio: quello di
esprimere le emozioni di chi parla e di suscitare emozioni in chi ascolta.
Proprio sulla base di questa caratterizzazione emotivistica della natura
dell'etica Ayer finiva con il sostenere sul piano epistemologico che non
esistono modi razionali per cercare di superare il disaccordo in morale
(cfr. srfra, $ 3.9). Anche Stevenson salvaguardava in Ethics and
Language (1944, Etica e linguaggio) l'autonomia dell'etica collegandola agli
atteggiamenti, mentre le altre specie di discorso hanno a che fare
principalmente con le credenze. Gli strumenti teorici generali di Stevenson
erano però quelli del pragmatismo e non già quelli del neopositivismo, e
proprio perciò permettevano di delineare una ricostruzione meno rinunciataria
e negativa del discorso etico. Infatti secondo Stevenson l’etica è
costituita da un insieme di giudizi in cui chi parla espone appunto i
propri atteggiamenti e cerca di provocarne di analoghi anche negli altri.
Rispetto all'analisi riduttiva di Ayer, in quella dell’«ernotivismo moderato»
di Stevenson viene riconosciuto il ruolo peculiare del discorso etico
come pienamente significante sia pure collocandolo su dì un piano non
conoscitivo. Rispetto al neopositivismo (ma anche all'intuizionismo di Moore)
il punto di svolta sta nel riconoscimento che non solo le conoscenze sono
significanti. Rispetto a quanto era stato fatto dalla riflessione meta-etica
precedente quello che per Stevenson e i non- cognitivisti diventa
centrale non è solo riuscire a rendere conto di quanto l'etica sia distinta
dalla conoscenza, ma anche specialmente dello stretto collegamento che
essa ha con l'azione e la pratica effettiva. Su questo piano diventa
prioritario nella riflessione meta-etica la salvaguardia della distinzione tra
l'è di cui appunto si occupa la conoscenza e il deve che è di pertinenza
della morale. I fautori della meta-etica non-cognitivistica si
impegnano particolarmente lungo una linea analitica rivolta a rendere
esplicito il collegamento del discorso etico con l’azione fissando in termini
di regole precise e non già di espressione di emozioni questo ruolo del
linguaggio umano. In questa direzione sono stati elaborati numerosi
tentativi di caratterizzazione. Tutta la riflessione europea sull'analisi del
linguaggio morale nel periodo successivo alla fine della seconda guerra
mondiale è dedicata principalmente a questo obiettivo. Rendiamo qui
conto della più fortunata tra le concezioni non-cognitivistiche, quella di
Richard Mervyn Hare, già delineata fin dal 1952 con The Language of Morals (Il
linguaggio della morale) e poi ripresa e sviluppata, prima sul piano
epistemologico nel 1963 con Freedom and Reason (Libertà e ragione) € poi
su quello normativo nel 1981 con Mora! Thinking. Its Levels, Method and
Point (Il pensiero morale). Secondo Hare l’etica è caratterizzata
dalla presenza di nozioni la cui funzione è tale che non può trovare
realizzazione in nessuna altra parte del discorso umano: la funzione propria
del discorso etico è quella di dare voce a «prescrizioni
universalizzabili soverchianti». Tutti questi tratti dell'etica vengono
spiegati dettagliatamente da Hare nei suoi scritti. Le impostazioni filosofiche
generali di L. Wittgenstein e di J. L. Austin gli forniscono gli strumenti per
dare corpo alla sua meta-etica. Con il sottolineare la natura prescrittiva
dell'etica Hare salvaguarda quello stretto collegamento delle nozioni
morali con le azioni effettive di chi esprime una propria posizione e di
chi ascolta. Si tratta di quel nucleo proprio dell’etica per cui essa è
necessariamente collegata con una qualche motivazione ad agire, e per cui si
imparenta con i comandi e con gli imperativi e include il ricorso alle
nozioni di dovere e obbligo. Si tratta appunto di quel nucleo prescrittivo
che veniva perso di vista da quelle concezioni meta-etiche quali l'intuizionismo sostenuto da Moore
che tendevano invece a rendere conto
dell'autonomia e specificità della morale in termini di una conoscenza
peculiare. In realtà l'etica non è in alcun modo una conoscenza di ciò
che è, ma è un insieme di prescrizioni rivolte a ciò che deve essere.
Un altro punto importante della concezione meta-etica di Hare è
quello che insiste sul farto che i nostri discorsi morali non solo sono
prescrittivi, ma in realtà trasmettono prescrizioni universali, ovvero
prescrizioni che si ritengono valide per tutti i casi simili. Il riconoscimento
di una universalizzabilità dei giudizi morali così come affermata dalla
meta-etica non-cognitivistica vuole rendere conto di un'esigenza
peculiare di coerenza e strutturazione propria della vita morale, per cui i
giudizi dell'etica si distinguono dai giudizi di gusto 0 di preferenza
relativamente ai quali tale esigenza non viene abitualmente fatta valere. Una
distinzione tra giudizi morali e giudizi di preferenza della quale invece
non riuscivano a rendere conto le meta-etiche emotivistiche. Attraverso questa
via dell'universalizzabilità Hare e i non-cognitivisti recuperano e includono
nelle loro spiégazioni un tratto dell'etica che è stato fortemente
richiamato e sottolineato da Kant ed è centrale per coloro che ne
riprendono la concezione della morale. Non diversamente come un tentativo
di rendere conto di un'etica che ha molti dei tratti della moralità così
come già la presentava Kant, va visto l'ultimo carattere che Hare
riconosce come proprio dell’etica nel suo modello non-cognitivistico: il
fatto di essere soverchiante. Ciò significa riconoscere che l'etica è
costituita non solo da prescrizioni universalizzabili, ma anche che in quanto
«soverchianti» sono gerarchicamente preordinate rispetto ad altre prescrizioni.
Il non-cognitivismo di Hare è stato ampiamente discusso nella
seconda metà del secolo XX come tentativo fertile di cogliere la natura
propria dell'etica, La concezione dell'etica come insieme di prescrizioni
universalizzabili soverchianti è stata fatta propria anche dai teorici
tedeschi dell'etica del discorso come K. O. Apel e J. Habermas (Apel, 1977;
Habermas, 1985). Non sono mancate le critiche a questa concezione che è
stata considerata ad esempio da B.
Williams (1987) non tanto come una
spiegazione o un’analisi neutra di quella che è l'etica per noi, quanto
piuttosto come una posizione che cerca di imporre una ben precisa
concezione, rigida e superata, della moralità. Altre critiche hanno
rilevato come tale meta-etica sembri volere negare, sul piano logico, la
possibilità invece del tutto aperta a
ogni essere umano di restare al di
fuori di una vita etica così intesa. Hare ha cercato di rispondere a
questo ultimo tipo di critiche precisando che la sua tesi non sostiene che non
si può fare a meno di sottoscrivere nel corso della propria vita
prescrizioni universalizzabili soverchianti, quanto piuttosto che non si
può rendere conto in modo logicamente corretto della natura dell'etica e
della morale fuoriuscendo da questo quadro esplicativo. Altri
problemi aperti riguardano dimensioni ulteriori della meta-etica
noncognitivistica e avremo occasione di fermarci su di essi nei prossimi
capitoli. Proprio in quanto la meta-etica non-cognitivistica si presenta,
secondo chi scrive, come quella più adeguata e fertile si tratterà di
completarne l'esame affrontandone anche le altre implicazioni, relative
alla genesi dell’etica (cfr. $ 3.10), alle forme argomentative ad essa
proprie fcfr. $$ 3.9 e 11) e ai suoi eventuali suggerimenti normativi
(cfr. $ 4.7). 2.7. La negazione dell'etica: libertà e
determinismo. Nel rendere conto
delle posizioni che si sono occupate in generale della natura dell'etica
dobbiamo soffermarci su quelle concezioni che hanno negato che in realtà vi
sia uno spazio per le scelte etiche degli uomini. Per quanto riguarda
queste posizioni molto differenziate e
sempre più diffuse nel secolo XX distinguiamo tra coloro che negano decisamente
che gli uomini possano mai agire realmente in modo libero e dunque essere
imputabili di una qualche respon. sabilità, e le posizioni che invece,
pur ammettendo che gli uomini possano agire liberamente, negano che
possano essere effettivamente motivati dalla ricerca di obiettivi non
strettamente personali. Le negazioni dell'etica dell'ultimo tipo nascono da
quelle teorie psicologiche che non ammettono che gli esseri umani possano
essere mossi ad agire da prospettive imparziali o valori più o meno
universali. Le concezioni che negano qualsiasi spazio per una
libera scelta da parte dell'uomo sono chiamate abitualmente
deterministiche. Va subito precisato però che qui ciò che è in gioco non
è tanto la questione su cui sembrano contrapporsi deterministi e non-
deterministi se vi possano mai essere per gli esseri umani azioni del tutto
immotivate e dunque arbitrarie, quanto piuttosto la questione se gli
uomini possono scegliere liberamente di fare le azioni che vogliono fare
sulla base delle ragioni e motivazioni a cui sono più sensibili, comprese
le motivazioni e ragioni specificamente morali. Nella lettura che noi
proponiamo dunque la questione della libertà e della responsabilità etica degli
uomini non si colloca nel quadro di discussione sul determinismo e
indeterminismo proprio della filosofia medievale, incline a identificare la
libertà degli uomini con un irrealizzabile libero arbitrio, ovvero con
una libertà di volere in assenza di qualsiasi motivazione. In alternativa
va invece accettata l’impostazione delle analisi sulla questione
libertà-necessità dell'agire umano fatte valere nella linea empiristica da
Thomas Hobbes, John Locke, David Hume. Secondo questi pensatori è del
tutto compatibile (0 se si vuole addirittura essenziale) con il riconoscimento
di una libertà e responsabilità morale nelle azioni umane, una posizione
che considera le azioni umane sempre determinate o motivate da una qualche
causa o ragione (W. K. Frankena, 1981: 155162). Il punto decisivo nella
diatriba non è dunque se le azioni umane siano o no sempre motivate da
ragioni o cause, ma se gli uomini possano 0 meno scegliere liberamente di fare
le azioni per le quali hanno motivi o ragioni. In questo senso la libertà delle
azioni umane non si contrappone tanto all’esistenza di motivi o ragioni
che determinano la volontà, quanto al fatto che gli esseri umani sono
costretti a fare certe azioni da altri esseri wmani o che vi siano
comunque delle cause che essi non
possono in alcun modo controllare che li costringano a fare delle azioni
che, ove fossero liberi, non farebbero. Si è costretti a concludere che
gli uomini non sono liberi € l'etica non ha alcuna possibilità di
sussistere laddove si ritenga non tanto che tutte le azioni umane abbiano
{o debbano avere) dei motivi, delle cause o delle ragioni, ma si ritenga che
tali cause e motivi agiscano necessariamente anche laddove gli uomini credano
di avere altri motivi e ragioni per agire. Dunque non sussiste uno spazio
per l'etica quando si abbraccia una concezione che ci porta a ritenere tutte le
azioni umane come effetto necessario di cause esterne ai differenti individui
umani esistenti, cause sulle quali né ciascuno di questi esseri umani
singolarmente né in collegamento con gli altri può avere una qualche
influenza. Esistono numerose concezioni che specialmente nel corso
del XIX e XX secolo hanno insistito sulla completa assenza di spazio per
una libera scelta nelle azioni umane nel senso che abbiamo appena
definito. Non possiamo qui rendere conto di tutte le concezioni del
genere; ricordiamo solo quelle più importanti e certamente inquietanti
per chi crede a una qualche realtà ed efficacia delle distinzioni morali.
Già Darwin, nei primi appunti stesi in collegamento con le sue prime
riflessioni tra il 1833 e il 1840 sulle sue scoperte intorno alle
trasformazioni delle specie viventi, suggeriva le implicazioni per la
morale di una concezione evoluzionistica (Desmond e Moore, 1992:
293-320). Tutto il processo evolutivo è dominato dal caso e dalla sopravvivenza
dei più adatti in termini meramente biologici e sessuali. Come risulta chiaro
poi la lotta per la vita in termini evolutivi riguarda non già i singoli
individui, ma le specie nel loro complesso. In questo quadro tutte le azioni
umane si presentano come frutto di cause che riguardano complessivamente
la specie umana. Questa prospettiva biologica sulla vita degli uomini è
stata sviluppata e approfondita da autori che hanno elaborato quella che è
chiamata sociobiologia (Wilson, 1979). A) di là delle opzioni
apparentemente libere che si presentano alle scelte umane, in realtà
tutte le azioni umane sono casuali e soggette a condizionamenti in termini di
ciò che è vantaggioso per la sopravvivenza della specie complessivamente
intesa. Così se identifichiamo l'etica con la presenza di una dimensione
cooperativa nelle azioni umane, tale dimensione non è altro che un
effetto dell'evoluzione biologica naturale e le azioni che ne conseguono
sono del tutto istintive e sottratte al nostro controllo. Del tutto
illusoria è dunque la prospettiva dell'etica che vi siano dei contlitti,
disaccordi e scelte drammatiche di fronte agli uomini e che essi possano
responsabilmente e liberamente dare ad esse una soluzione. La vita umana
è sottoposta alle leggi generali della vita e del tutto casualmente si
realizzano processi e trasformazioni, i quali tutti vanno dunque al di là
di qualsiasi libera scelta individuale. Un'altra concezione che
sembra negare qualsiasi spazio alle scelte libere e responsabili di cui
tratta l'etica è quella che viene considerata come una conseguenza
dell’accettazione dell’impostazione psicanalitica di Sigmund Freud. È
dubbio che una tale schematica concezione sia presente in Freud, che, se
leggiamo opere come Das Unbebagen in der Kultur (1929, Il disagio della
civiltà) sembra piuttosto impegnato a rendere conto della genesi della
coscienza morale all’interno della sua generale teoria sulla dinamica
psichica, senza volersi dunque impegnare su di un piano essenzialistico (Freud,
1978). Ma vi è comunque una vulgata che considera una conseguenza
dell’impostazione psicanalitica la tesi che le azioni umane individuali non
possono essere viste come frutto di scelte consapevoli, ma sono il
risultato piuttosto di motivazioni inconsce che sfuggono a qualsiasi
controllo individuale. Quando noi riteniamo di avere di fronte determinate
alternative tra le quali scegliere razionalmente la migliore, in realtà siamo
spinti a percorrere una certa strada da pulsioni profonde (amore- odio ecc.)
che sfuggono completamente al nostro controllo consapevole e che dettano anche tenendo conto della nostra storia
psicologica personale i nostri
comportamenti in modo necessario. Una analoga riduzione delle motivazioni
consapevoli ad altre più profonde cause si troverebbe nella concezione di
Carl Gustav Jung e in tutte quelle dottrine che elaborano una qualche
tipologia o caratteriologia. Rispetto a questi approcci alle azioni
umane che negano all’etica un qualunque ruolo va mossa una critica preliminare.
Queste tesi hanno un valore se sono presentate come ipotesi scientifiche,
ma se vengono presentate come tali la loro validità non può essere estesa
appunto al di là di quella propria di spiegazioni empiriche per un campo
ben determinato di comportamenti umani. Rendere conto delle azioni umane
secondo una spiegazione evoluzionistica non può essere presentato pena l'abbandono del piano scientifico
di discorso come l’unica e
necessaria spiegazione di qualsiasi azione umana, come una sorta di
caratterizzazione essenzialistica e sostanzialistica della natura delle cose.
Gli stessi teorici, metodologicamente più avvertiti, dell’evoluzionismo come ad esempio Richard Dawkins (Dawkins,
1992) non hanno mancato di
temperare in vari modi questa semplicistica negazione dell'etica. Da una parte
hanno così insistito sull'incidenza solo statistica e non necessaria
delle cause evolutive. Dall'altra hanno anche riconosciuto una capacità degli
esseri umani, non solo di essere consapevoli dei processi evolutivi, ma
di sottrarsi proprio sul piano procreativo ai meccanismi dettati
dall’evoluzione, Infine si sono impegnati ad elaborare spiegazioni che rendono
conto della superiorità, sul piano evolutivo, di quelle culture che
realizzano al loro interno un equilibrio selettivo stabile intorno ad
abitudini cooperative, rispetto alle culture dominate dal completo egoismo
individuale. Una estensione dunque su di un piano ontologico o metafisico
dell’evoluzionismo risulta effettivamente incompatibile con qualsiasi altra
spiegazione o interpretazione delle azioni umane, ma in quanto tale
rappresenta una fuoriuscita dal piano del discorso scientifico e la
trasformazione dell’evoluzionismo in una religione. Non diversamente si
può ritenere indebita la generalizza zione del modello esplicativo
proprio della psicanalisi a tutte le situazioni in cui gli uomini
scelgono, decidono e deliberano. La fertilità della psicanalisi è
indubbia laddove è presentata come una spiegazione di ben precise azioni e
di situazioni patologiche del comportamento umano. Ma non si può se non
impropriamente estenderla in modo tale che essa pretenda di spiegare tutte
le azioni umane in qualsiasi situazione con le forze e pulsioni inconsce
su cui richiama l’attenzione, Un'altra strada è stata
percorsa sempre più insistentemente negli ultimi due secoli per negare
qualsiasi spazio all'etica. Si tratta qui di quella posizione che
sostiene che gli uomini sono in definitiva mossi solo da motivazioni del
tutto personali ed egoistiche e che dunque cercano sempre e solo la
soddisfazione dei loro interessi. È poi molto diffusa la tendenza a
caratterizzare questi interessi in termini strettamente economici. La
negazione dell'etica in questo senso deriva da una concezione
essenzialistica dell'azione umana che identifica come unico movente di tutte le
scelte la realizzazione del massimo vantaggio da un punto di vista economico.
Secondo alcuni ad esempio Louis Dumont
(Dumont, 1984) è questo il tipo di
prognosi sulla civilizzazione umana nell'Occidente che troveremmo già in
Bernard de Mandeville (Mandeville, 1987) e in Smith e che dovremmo
realisticamente fare nostra. La tesi generale è che la realizzazione e il
consolidarsi delle società dominate dalla logica del mercato rende
praticamente impossibile la ricerca da parte di ciascun essere umano di
obiettivi non strettamenté autointeressati. Vi sarebbe quindi, paralletamente
al progressivo consolidarsi delle strutture delle società di mercato, una
vera e propria morte dell’etica. In luogo di una spiegazione pluralistica
ancora legittima nel secolo XVII dell’azione umana che la riconduceva a
ragioni etiche, economiche, di moda ecc. ora saremmo dunque costretti a
fare nostra una spiegazione monistica per la quale le uniche ragioni
delle scelte e decisioni sono economiche, e tra l'altro quasi mai sotto il
controllo dell'individuo. Secondo questa filosofia della civilizzazione sono
dunque del tutto scomparse le condizioni che permettono azioni mosse da
ragioni etiche, altruistiche 0 universalistiche. Ancora una volta una
spiegazione che può avere una sua fertilità se tenuta su di un terreno
del tutto limitato finisce poi con il risultare inaccettabile una volta
estesa su di un piano essenzialistico. Tutte queste concezioni contestano
la possibilità dell'etica sulla base di una pretesa ingiustificata di
caratterizzare in termini sostanziali ed essenziali l'azione umana. La
ricostruzione che dell'azione umana viene offerta da chi ammette
l'incidenza delle ragioni etiche è una delle possibili spiegazioni che
restano aperte nella nostra cultura. Certo non l’unica, forse nemmeno
quella più importante e significativa, ma di sicuro una spiegazione
fertile sul piano esplicativo e non priva di forza prognostica. Se si
cerca di rendere conto delle azioni umane sulla base dell'assunzione che
gli uomini sono mossi ad agire anche da ragioni etiche si riesce come ha recentemente in vari modi mostrato
Amartya K. Sen (Sen, 1986, 1988, 1992, 1994) a rendere conto di alcuni comportamenti
effettivi e a prevedere alcune situazioni future in modo non diverso (e
non meno esteso) di quanto accade con le altre spiegazioni. 3.
Fondazione, giustificazione e spiegazione: l’epistemologia dell'etica.
3.1. Dalla meta-etica all'epistemologia. La ricerca rivolta a identificare la
natura della morale, il senso delle nozioni che operano nell'etica, rappresenta
un passaggio preliminare prima di affrontare un altro genere di questioni
decisivo per l'etica, quello relativo alle vie disponibili per fondare,
giustificare, o eventualmente spiegare, le scelte e i giudizi normativi. Sapere
che tipo di domande ci poniamo quando siamo alla ricerca di ciò che è
bene © giusto fare in una data situazione è appunto preliminare da un punto di vista logico e
concettuale per arrivare a individuare
le procedure mediante le quali si può trovare la risposta adeguata.
Rendiamo dunque conto in questo paragrafo delle diverse linee lungo
le quali si è risposto al problema dei modi in cui si possono conoscere,
fondare 0 giustificare le norme e i valori con cui l'etica ha a che fare.
Nel corso del secolo XX vi è stato, prima, uno spostamento deciso dal problema
di come sono conoscibili i valori etici, a quello di come sono fondabili
i nostri giudizi normativi e le nostre decisioni pratiche.
Successivamente l'elaborazione filosofica ha visto affermarsi una prospettiva
che in luogo della tesi della fondabilità delle conclusioni etiche ha preferito
limitarsi a sostenere la possibilità di giustificarli o di argomentare pro
o contro i valori in gioco. In questo paragrafo renderemo anche conto di un
altro approccio che si è andato sempre più consolidando nella riflessione
etica del secolo XX rivolto non più a fondare o giustificare le conclusioni
normative, quanto piuttosto a spiegare la genesi dell'etica e delle distinzioni
che in essa vengono istituite. Quest'ultimo approccio che abbandona le
pretese di elaborare criteri gnoseologici ed epistemologicì per passare ad
un'analisi propriamente esplicativa non coinvolge solo le posizioni (di
cui abbiamo reso conto nel $ 2.7) di coloro che negano la validità delle
distinzioni etiche. Un analogo approccio esplicativo troviamo in chi
occupandosi dell'etica filosofica si rifiuta di passare sul piano più direttamente
prescrittivo e normativo, fissando così i limiti dell'intervento
riflessivo nella determinazione della natura dell'etica, dei tipi di
procedure gnoseologiche ed epistemologiche che essa coinvolge e dei meccanismi
genetici che l'hanno costituita. Nel rendere conto dei
diversi modelli gnoseologici ed epistemologici riconoscibili nell’etica moderna
e contemporanea mescoleremo ancora la prospettiva storica con quella critica e
teorica. Per procedere con questo bilanciamento delle due prospettive le partizioni
di questo paragrafo non seguiranno l'ordine di quelle esposte nel
precedente paragrafo, né riprenderanno in modo esclusivo le distinzioni
già fissate a livello di meta-etica. Dal punto di vista gnoseologico ed
epistemologico alcune delle partizioni fatte valere sul piano meta-etico
risultano infatti o troppo strette o troppo larghe, nel senso che un
approfondimento analitico permette di riconoscere diverse procedure
epistemologiche alla base della stessa concezione meta-etica o procedure epistemologiche
analoghe laddove siamo costretti a tracciare delle distinzioni sul piano
meta-etico. Il lettore si accorgerà che il quadro precedentemente delineato
di concezioni meta-etiche trova comunque un riscontro in questo
paragrafo. 3.2. La conoscibilità della legge divina. Come si è già avuto modo di sottolineare
il secolo XVII rappresenta un punto di riferimento essenziale per chi
voglia rendere conto dello sviluppo dell’etica teorica nel senso in cui
ne stiamo trattando in questo scritto. Numerosi pensatori riconoscono che
le soluzioni a proposito dell'etica devono essere tali da poter essere
accettate da esserti umani, finiti razionali, che siano in grado di
ripercorrere la strada che viene ad essi indicata per superare coniflitti
e disaccordi. Questa prospettiva di ricerca sull’etica e sulle sue basi
epistemologiche e gnoseologiche è ad esempio del tutto operante in Cartesio,
che però non la percorre arrestandosi alla sua soglia. Infatti Cartesio
non sottopone anche le verità etiche all’analisi in termini di dubbio e
di ricerca della certezza a cui egli sottopone le altre verità, e proprio
in quanto non intraprende tale indagine si arresta a quella che lui
stesso chiama una «morale provvisoria». Una morale assunta acriticamente
dalla tradizione e che andrà confermata o sostituita dopo che si sarà
percorsa sisternaticamente la strada della ricerca critica sulle verità
morali. Questa rinuncia dichiarata a percorrere una strada fondazionale non
esclude, del resto, la presenza nell'opera di Cartesio di una vasta
ricerca sulle basi antropologiche della vita morale e una rivisitazione, per
molti versi scettica, delle concezioni tradizionali di virtù e felicità
(Canziani, 1980). Una ricerca sulle basi razionali dell'etica viene
invece esplicitamente avviata, nel secolo XVII, da pensatori come Hobbes e
Locke. Negli scritti di Locke troviamo in realtà percorse diverse
strategie gnoseologiche ed epistemologiche per l'etica e il suo problema
fondamentale fu proprio quello della conoscibilità della legge morale e
degli articoli della fede religiosa (Colman, 1983; Fagiani, 1983). Locke
dunque affronta sistematicamente la questione di come sia conoscibile la
legge morale naturale in un contesto che assume che la legge naturale è
un comando divino. Dopo avere ricostruito analiticamente diverse
strategie alternative mediante le quali si potrebbe giungere a conoscere tale
comando Locke finisce poi però con il dichiarare la loro inadeguatezza.
Possiamo quindi ricavare dai suoi scritti sia una indicazione delle diverse
procedure epistemologiche a cui può fare appello chi accetta la tesi che
l’etica sia in definitiva un insieme di comandi divini, sia l'indicazione dei
limiti propri di queste procedure e dunque la difficoltà complessiva di
dare una base razionale al tentativo di derivare l’etica da tesi di
ordine religioso. Una prima strategia consiste nel legare la
conoscibilità e autorevolezza della legge morale quale comando divino ad
alcuni testi in cui tale legge è rivelata. Locke si mostra petò consapevole
dei limiti presenti in questo appello ai testi rivelati. Egli riconosce,
ad esempio in The Reasonableness of Christianity, as deliver'd in the
Scriptures (1695, La ragionevolezza del Cristianesimo), che il ricorso ai
testi sacri per la tradizione cristiana può al massimo valere sul piano
pedagogico e retorico. Argomenti analoghi possono essere fatti valere per tutte
le religioni positive. Il ricorso ai testi sacri e rivelati può
rappresentare un aiuto e una facilitazione per chi si preoccupi di convincere
0 persuadere altri, ma non può però rappresentare una via adeguata per
giustificare una conclusione etica per tutti gli esseri umani, Il
collegamento della verità etica conoscibile con la lettura di qualche
testo in cui la divinità ha espresso i suoi comandi oltre il problema della molteplicità
delle interpretazioni possibili della lettera del testo comporterebbe l’assurda conseguenza di
considerare tutta quella parte dell'umanità che è vissuta prima, 0 vive al di
fuori, della rivelazione come del tutto priva di etica. Una ulteriore
conseguenza assurda: considerare del tutto privi di morale coloro che
sono in disaccordo con noi su alcuni dei punti caratterizzanti la
religione rivelata che noi accettiamo. Lo stesso Locke fa valere
una obiezione più generale nei confronti del tentativo di ricondurre la base di
validità di una tesi etica al fatto che si tratti del comando di una
certa divinità. Si tratta di una critica contro il volontatismo di quei
teologi che considerano invece questa strategia come in grado di fondare
la moralità. La critica generale presente negli scritti di Locke già negli Essays (Saggi) del 1664 (Locke,
1973) è che il fatto di trovare un certo
comando espresso in un testo che più o
meno fondatamente crediamo
espressione della volontà divina è del tutto irrilevante sul piano etico; su
questo piano il problema che si pone non è tanto se ci si trova di fronte ad
un comando di qualcuno, quanto piuttosto se ciò che viene comandato è
giusto. I sostenitori dell’origine divina dell’etica hanno sempre
considerato come necessaria e sufficiente la coincidenza tra volontà divina e
legge morale, ma la riflessione moderna e contemporanea ha invece fatto
valere sempre di più l'autonomia dell'etica. Questa autonomia viene
affermata già a livello concettuale distinguendo nettamente le nozioni etiche
dalle nozioni che fanno riferimento a ciò che è comandato da qualcuno, sia pure
l'Autore della Natura. Il riconoscimento di tale autonomia ha poi un
riflesso sul piano epistemologico e gnoseologico e porta a fissare con
precisione la diversità delle procedure gnoseologiche con cui si conosce
la volontà divina rivelata nei testi sacri rispetto a quelle con cui si conosce
la legge morale valida. Prima di illustrare le vie percorse in
positivo da Locke per cercare di fondare razionalmente le conclusioni etiche
soffermiamoci invece su una strada da lui rifiutata. Si tratta di quella
concezione che indica in una particolare coscienza 0 facoltà morale il
modo più sicuro per arrivare a conoscere direttamente i comandi mortali della
divinità. Una strategia per fondare e conoscere l'etica tuttora molto
frequentata e cara ai fautori di una riduzione dell'etica alla religione. Per
quanto riguarda Locke nel I libro dell’Essay nega che alla «coscienza» ci
si possa appellare come a una prova valida in morale e la nozione di
coscienza viene fatta rientrare nell'armamentario delle assunzioni
innatistiche che non possono avere alcun riscontro sul piano empirico (Locke,
1971; 92-93). La concezione che Dio stesso ci comanda direttamente senza per questo servirsi della
rivelazione la legge morale, e che noi
abbiamo una cognizione diretta di tale legge attraverso la nostra
coscienza, è stata sviluppata, nel secolo XVII, da alcuni neo- platonici di
Cambridge, e in particolare da Herbert di Cherbury con la sua dottrina
delle notiones comsmunes. La stessa linea fu poi riproposta nel secolo
XVIII su basi nuove da intuizionisti e sentimentalisti che conservavano
un quadro provvidenzialistico. Così Joseph Butler legava la conoscenza
delle verità etiche all’attività intuitiva di una peculiare «coscienza» capace
di obbligare e fornita di autorevolezza, e Hutcheson indicava nel «senso
morale» la base di quel particolare sentimento che ci fa cogliere la
virtà in un mondo ordinato dall’Autore della Natura. Contro la tesi che Dio
ci rende noti direttamente nella coscienza i suoi ordini morali vi sono
alcune argomentazioni già formulate da Locke. L'appello alla coscienza
non può essere certo un criterio definitivo in etica perché dovremmo
disporre di almeno altre due ulteriori specificazioni. In primo luogo un
qualche criterio che ci permettesse di discriminare quei dettami della
nostra coscienza che sono affidabili da quelli che sono errati. In
secondo luogo un qualche fondamento che ci autorizzasse a ritenere laddove sorgessero disaccordi che ciò che ci fa conoscere la nostra
coscienza è veramente la legge morale per tutti gli uomini, anche per
quelli che con i loro discorsi e con le loro azioni testimoniano di non
trovare nelle loro coscienze principi analoghi ai nostri. Rifiutata la
via della coscienza Locke invece si impegna positivamente nel cercare di
conciliare una concezione che vede la morale come caratterizzata da
comandi divini con una strategia empiristica. L'accettazione di una
epistemologia e gnoseologia empiristiche porta Locke ad elaborare una strada
indiretta di fondazione e giustificazione della legge morale naturale come
corando divino. Secondo questa via di fondazione indiretta noi giungiamo
ad accettare il comando morale divino espresso nella legge naturale dopo
avere percorso un ragionamento che ci porta a risalire a Dio come
all'Autore della Natura buono che ha creato gli esseri umani in modo tale
che essi effettivamente siano in condizione di ottenere la loro felicità.
Ovviamente questa strategia comporta l’assunzione che ciò che Dio comanda non
può che essere il bene per gli uomini, un passaggio verso l'accettazione
dell’intellettualismo etico che non vede più nella volontà divina l'unico
fondamento del bene e rende del tutto secondario il valore dei testi
rivelati. La strategia di giustificazione della validità della legge naturale
morale avanzata da Locke comprende diversi passaggi: in primo luogo
trovando un ordine o un disegno nel mondo si risale a un autore della
natura; poi si postula una natura divina buona e razionale per cui
l’autore della natura non può che volere la felicità degli esseri umani; ancora
si crede che l’autore della natura non solo abbia trasmesso agli esseri
umani un insieme di leggi naturali, universali ed eterne, per realizzare la
loro felicità, ma anche che abbia messo gli esseri umani in condizioni di
conoscere tali leggi con certezza con il ricorso alle loro facoltà naturali
del senso e della ragione; infine si assume che conoscere tali leggi
naturali equivale a essere obbligati a obbedire a ciò che ci richiedono. Le
lacune e le cir. colarità presenti in questi vari passaggi risultavano
già evidenti allo stesso Locke che nel corso di tutta la sua vita si
affannò a cercare di ovviare ad esse. In effetti la procedura di
giustificazione lockiana della validità delle leggi naturali come comandi
divini comporta il continuo passaggio dal piano empirico a quello
sovrannaturale, dal piano dell'essere a quello del dovere. Con l’aiuto di
questa strategia si potrà al massimo disporre di ragioni del tutto ipotetiche a
favore di ciò che noi siamo già giunti ad accettare come un comando
divino del tutto indipendentemente e prima del ricorso a queste procedure
gnoseologiche ed epistemologiche. Consapevole di ciò Locke presentava
nell’ultima parte della sua vita il suo tentativo di elaborare un'etica
dimostrativa come una via per confermare le opzioni morali trasmesse
dalla tradizione cristiana. Una volta che cadono le assunzioni che sorreggono
l'argomento del disegno e le pretese sulla bontà provvidenziale
dell'Autore della Natura questa strategia sembra crollare, Non c'è più nessuna
divinità da cui far dipendere la validità della legge morale, nulla garantisce
che l’autore della natura sia buono piuttosto che malvagio, nulla è più
in grado comunque di farci superare l'abisso tra l'eventuale conoscenza di una
norma come comando divino e il nostro accettarla come obbligante. Locke
stesso cercò di superare questo abisso, ma legando la validità e
l'efficacia della legge morale naturale non tanto al riconoscimento che
si tratta di un comando divino in sé giusto, quanto piuttosto al timore
per la sanzione che sarebbe derivata in un'altra vita in caso di
infrazione verso di essa. Ma questo tentativo di agganciare la validità e
l'obbligatorietà di un principio etico a una qualche sanzione che segue
una infrazione verso di esso, è una strategia che non possiamo più
percorrere indipendentemente
dall’accettabilità o meno delle credenze sull’immortalità dell'anima e
sull'esistenza di uno stato futuro ove
riconosciamo l’autonomia dell'etica. Fare appello a qualche sanzione
ultraterrena infatti al massimo riesce a giustificare o fondare che noi si
faccia qualcosa perché temiamo la sanzione o cerchiamo i premi che una
certa autorità lega a questi comportamenti, Ma percorrere questa strada
impedisce di vedere che il piano concettuale investito dall’etica è quello che
comporta fare ciò che è giusto o bene fare e non già quello che comporta
fare una certa cosa solo perché teniamo la sanzione di una qualche
autorità (per quanto illuminata} ove non dovessimo obbedire ai suoi
comandi. La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale. Un'altra strada percorsa per fondare
l'assunzione di un punto di vista etico è quella che cerca di
riconnettere la ricerca individuale del bene personale con la considerazione
pet il bene comune. Naturalmente non si tratta di quelle concezioni che sulla
base di considerazioni empiriche e a posteriori concludono che la ricerca
del bene personale risulta essere l’unica via che consente di realizzare un
incremento del bene comune. Una concezione del genere è spesso alla base
della difesa dell'economia di mercato e viene attribuita a Smith ed è
stata esposta in modo approfondito da FÀ. von Hayek (Hayek, 1986).
Affrontiamo invece in questa sezione la questione se si possa o meno fornire un
fondamento razionale all'esigenza di essere morali: dove si considerano
razionali solo le argomentazioni che rinviano alla soddisfazione di
propri interessi o piaceri e con «morale» si intende il rispetto di
qualche regola generale o norma di cooperazione quali ad esempio mantenere le promesse, rispettare i contratti
e obbedire alle leggi del proprio paese. Questa impostazione è
presente in modo del tutto esplicito nelle pagine di Hobbes. Così la
risposta che Hobbes dà allo «sciocco razionale» nel capitolo XV del
Leviathan, or tbe Matter, Forme and Power of a Common-wealth Ecclesiasticali
and Civili (Il leviatano; Hobbes) è rivolta a cercare di mostrare che,
calcolando sulla base degli interessi in gioco, la salvaguardia di un minimo di
principi etici e cooperativi è vantaggiosa per i diversi individui.
Troviamo dunque nelle pagine di Hobbes il tentativo di elaborare una
giustificazione di ordine prudenziale a favore del riconoscimento
dell'opportunità di rispettare i principi dell'etica. La razionalità in gioco
nel calcolo prudenziale è stata sistematicamente delineata nei suoi assiomi e nelle sue deduzioni nel corso del XX secolo dalla «teoria della
scelta razionale 0 teoria delle decisioni» (Axelrod, 1985; Resnik, 1990).
Proprio tra i teorici della scelta razionale di questo secolo vediamo
ripresentarsi il problema di Hobbes formulato in un diverso modo (Kavka,
1986). Si tratta cioè di individuare se e in che modo sia possibile provare la
razionalità dell’accettazione di un minimo di regole cooperative anche
quando quest’accettazione sembra essere in contrasto con i nostri interessi più
immediati e diretti e ci si trovi in una situazione in cui un’eventuale
nostra defezione unilaterale potrebbe sfuggire al controllo altrui.
Già in Hobbes troviamo dunque un tentativo di argomentare a favore
dell'accettazione di regole © principi etici contro le pretese dello
«sciocco razionale» di fare sempre e comunque ciò che è per lui più
vantaggioso e dunque di defezionare o sospendere la propria fedeltà nei
confronti della regola o del principio etico quando ciò è per lui più conveniente
o quando comunque può sfuggire alla sanzione altrui. Torneremo su queste
argomentazioni quando affronteremo i tentativi di presentare come una
vera e propria teoria etica normativa la teoria della scelta razionale. La
situazione dello «sciocco razionale» è molto simile a quella di cui si occupano
i teorici della scelta razionale quando affrontano i problemi posti dal
«dilemma del prigioniero», e si impegnano nell’analisi del comportamento
del free rider. Già Hobbes elaborava alcune argomentazioni che insistevano
sulla rischiosità di un comportamento di defezione unilaterale e sulla
probabilità di ricavare un danno nel momento in cui gli altri prima o poi giungeranno a scoprirlo.
Negli ultimi decenni il paradigma hobbesiano è stato in vari modi
interpretato e sviluppato da diversi teorici dell'etica. Particolarmente
stringente è stato il modo in cui David Gauthier (Gauthier, 1986) ha
cercato di fondare la preferibilità di avere una morale in luogo di
esserne privi all'interno di quella posizione che ha caratterizzato come
«contrattualismo reale» per distinguerla dal «contrattualismo ideale» di
Rawls (Rawls, 1982). Secondo Gauthier il quadro concettuale di Rawls con
l'assunzione in partenza della validità del principio di equità implica
già l'accettazione di un piano etico e dunque dà per dimostrato quella
che vorrebbe giustificare. Gauthier cerca di elaborare invece una teoria
in cui l'accettazione dell’etica e del contratto sociale originario che
garantisce la vita civile e la cooperazione non viene fatta dipendere da
condizioni ideali presupposte, ma piuttosto dal beneficio che ciascuno
dei contraenti ricava in termini di ragioni prudenziali o di utilità
personale. Il programma di Gauthier è quello di riuscire a mostrare
all’interno della teoria della scelta razionale come sia più conveniente
e vantaggioso essere un «massimizzatore vincolato» dall’accettazione di
qualche principio etico interpersonale, piuttosto che un «massimizzatore
diretto» che tende sempre e solo alla soddisfazione dei propri interessi
immediati. Gauthier elabora tutta una serie di argomenti che fanno
emergere l’ottimalità dei risultati raggiunti attraverso la via della
massimizzazione vincolata, una volta messi a confronto con le
disponibilità di partenza o con i risultati raggiungibili attraverso la
massimizzazione diretta propria di chi procede come un free rider,
Gauthier sostiene che il modo in cui un agente delibera influenza le
opportunità da lui attese. Così se guardiamo al modo di deliberare proprio di
un massimizzatore vincolato potremo aspettarci che egli consenta
volontariamente con i termini di un accordo precedente, anche se questo
comporta che egli così vincoli il diretto perseguimento dei suoi
interessi. Ma sulla base di tali aspettative il massimizzatore sarà il
benvenuto come partner în progetti cooperativi reciprocamente benefici.
Se invece consideriamo il modo di deliberare proprio di un massimizzatore
diretto, da costui non potremo aspettarci che consenta con i termini dei
suoi precedenti accordi a meno che ciò non contribuisca direttamente a
soddisfare i suoi interessi. Ma proprio sulla base di questa aspettativa sul
suo comportamento il massimizzatote diretto sarà estromesso come partner
nelle iniziative cooperative in quanto non si può gemuinamente avere fiducia in
lui. La conclusione di Gauthier è dunque che il massimizzatore vincolato
può aspettarsi di godere di opportunità che invece il massimizzatore
diretto può solo prevedere che gli saranno negate. Si tratta di una
differenza che evidentemente opera a tutto vantaggio del massimizzatore
vincolato. Sulla base di questa argomentazione Gauthier conclude che si
può ritenere razionale incorporare nelle proprie deliberazioni i vincoli
con cui si è razionalmente concordato come filtri tra possibili azioni
tra cui scegliere, Ed è chiaro che qui razionale significa un calcolo con
un saldo positivo a proposito della soddisfazione dei propri
interessi. La teoria di Gauthier si presenta come molto potente in
quanto presume di potere dimostrare la razionalità dell'assunzione di
vincoli etici come mezzo per realizzare un surplus di soddisfazione dei
propri interessi. Ma l'elaborazione di Gauthier va incontro a una serie di
difficoltà che mostrano come sia ancora irrisolto il tentativo di fondare
in termini prudenziali la preferibilità di una vita etica. Infatti da una
parte, legando il saldo attivo che ricava il massimizzatore vincolato alla
fiducia di altri nei suoi confronti, Gauthier sembra dovere fornire un
criterio sicuro per discriminare tra situazioni in cui la fiducia è bene
riposta e casi in cui invece una tale fiducia è errata. Un criterio del
genere non viene offerto da Gauthier, ma si può ipotizzare che esso non
sia disponibile e che, nel caso in cui si tratti di fiducia da concedere
a un qualche partner, si debba oscillare tra una valutazione diretta,
caso per caso, 0 una assunzione di trasparenza delle motivazioni del
partner o una qualche circolarità. L'altra difficoltà di ordine generale
dell’argomentazione di Gauthier (e più in generale di quelle strategie
che tentano di giustificare l’etica in termini prudenziali o di
salvaguardia dei propri interessi) sta nella pretesa di potere dimostrare
che il surplus di ottimalità conseguente all'assunzione di un vincolo etico
riguardi tutti i possibili contraenti con qualsiasi interesse di partenza.
Gauthier si impegna ad elaborare una concezione non riduzionistica di
«interessi» (concerns) non definendoli in termini strettamente economici,
ma lastiandone indeterminato il contenuto mediante un rinvio alle
preferenze di ciascuno. La cooperazione e dunque l'etica secondo Gauthier
rende possibile soddisfare con esiti migliori i propri interessi di
partenza di qualsiasi tipo essi
siano che vanno quindi vincolati secondo
le aspettative degli altri. Resta difficile da capire come si possa mettere su
uno stesso piano interessi che esigono soddisfazioni molto differenziate
e, ciò che più importa, vincoli ben diversi. È difficile cioè riuscire a
capire come si possa assemblare e considerare vincolabili alla stessa stregua
preferenze di partenza per beni diversi (poniamo, beni condivisibili e beni
esclusivi). Difficile capire come si possa costruire in modo unitario il
«massimizzatore vincolato» tenuto conto che in genere gli interessi degli
esseri umani si intende dello stesso
essere umano in tempi diversi sono
molteplici e probabilmente bisognosi di un qualche ordinamento interno.
Ma la difficoltà più generale riguarda la pretesa della teoria di
Gauthier di fornire la mossa vincente per convincere chiunque solo sulla base di un calcolo strettamente
interessato della convenienza a
interiorizzare una disposizione a rispettare gli accordi. Sembra opinabile
che questa mossa possa risultare efficace anche laddove per esempio non
si avesse già una disposizione a rispettare gli accordi o non vi fosse
una qualche base motivazionale, emotiva o psicologica, sulla quale fare
leva per radicarla o rafforzarla. Vedremo poi in una sezione
successiva un'altra difficoltà intrinseca all'approccio prudenziale o della
teoria della scelta razionale. Vedremo infatti che per restare coerenti
con questo approccio finiamo, in alcune situazioni, con il tendere a risultati
niente affatto ottimali. Vi sono però strategie per la
fondazione dell'etica molto più antiche di quelle che abbiamo appena
ricordato e ad esse si continua a ricorrere anche nell'etica moderna e
contemporanea. Ad esempio quelle strategie che ritengono che nella natura
umana siano rintracciabili dei caratteri e delle proprietà che fondano
una particolare considerazione e rispetto per gli esseri umani, conseguenza del
riconoscimento di uno status privilegiato e unico dell’uomo nell'universo.
Abbiamo visto soprache vi sono cacatterizzazioni dell'etica che vedono al
suo centro una legge naturale razionale e dunque concepiscono il
comportamento morale come realizzazione di alcuni tratti propri delia natura
umana. È costitutivo di questa strategia argomentativa il tentativo di derivare
ciò che si deve fare da quella che è la natura umana in quanto tale.
Due passaggi sono caratteristici di questa strategia sul piano
fondazionale. In primo luogo questa strategia implica che si abbracci una
forma di cognitivismo essenzialistico e può essere percorsa solo da chi ritenga
di disporre di una concezione che coglie in modo assoluto e compiuto la
natura umana. In effetti le etiche che procedono lungo questa strada
presentano come loro premessa una qualche definizione sostanziale della natura
umana e in genere rendono conto del suo posto nell'universo in termini
metafisici o ontologici. Troviamo percorsa questa linea nella tradizione
aristotelico-tomistica di cui Jacques Maritain ha reso conto, nel XX secolo, in
modo simpatetico (Maritain, 1971). In questa strategia il contenuto
dell'etica viene derivato da una definizione dell’uomo concepito come persona
con una propria peculiare natura sostanziale che ne garantisce la dignità. La
difficoltà per questa strategia sta nella discutibilità della
caratterizzazione della natura della persona, una natura della quale linee di
pensiero diverse hanno reso conto in termini dei tutto alternativi e
incompatibili (come argomentano Scarpelli, 1985: 181-203; Preti, 1989:
63-95). Nell'elaborare la concezione della persona morale si procede di
solito o impoverendo l'essere umano di tutti gli elementi concreti, o
presentando l'individuo umano in vesti tanto astratte e ideali che una tale
rappresentazione finisce con il non avere alcuna presa sul piano delle azioni
concrete. Un'altra via che pone al centro della morale una definizione
della natura personale dell’uomo è quella che connota la persona con una serie
di tratti che non sono altro che l’ipostatizzazione di assunzioni di
ordine ideologico o religioso. Una tale costruzione e conseguente uso della nozione della persona come fondamento
dell'etica è ad esempio presente nel XX secolo nei documenti ufficiali su
questioni morali della Chiesa Cattolica. Un altro limite di questa
impostazione sta nel commettere in modo evidente l'errore logico di ridurre ciò
che deve essere a ciò che è. Si tratta di quella «fallacia naturalistica»
ovvero di quella offesa alla cosiddetta «legge di Hume. Infatti le
diverse caratterizzazioni della natura umana in termini ontologici e
sostanziali non fanno che richiamare ciò che è già proprio di tutti gli
esseri umani. Ma allora non si riesce a capire in che modo da ciò che è
già proprio dell’uomo in quanto tale si possa ricavare ciò che l’uomo
dovrebbe fare e che in quanto dovrebbe ancora realizzare non può
logicamente già essere. Proprio questa indebita riduzione del dovere
all'essere è stata al centro di una serie di contestazioni contro tutte le
forme di riduzionismo dal Settecento in avanti. Tali critiche sono
particolarmente decisive contro quelle forme di ragionamento che
presumono di potere conoscere quale sia il bene 0 il dovere per gli omini
ricorrendo a una definizione di quella che è la loro natura essenziale. In
generale va quindi detto che chi procede per la strada di una fondazione ontologica
dell’etica compie tutta una serie di errori logici; il tentativo di ridurre
i valori a fatti ovvero a realtà empiriche o metafisiche; il non cogliere
la peculiare funzione prescrittiva e normativa che è propria di tutti i giudizi
etici; l'assimilare le procedure mediante cui si può giustificare o
argomentare in etica a quelle seguite dalle scienze empiriche o da
presunte discipline metafisiche per descrivere o spiegare il mondo come
è. La natura umana come fondamento dell'etica: la via empirica. Vi è stata un'altra strategia che ha
cercato di indicare come procedura propria della fondazione della morale
un esame della natura umana. In questa linea non ci si propone di
risalire a una qualche definizione metafisica o ontologica della natura
umana, ma di cercare di cogliere, attraverso l’esperienza e l'osservazione,
quale è per gli esseri umani il comportamento più consono ed adeguato. Anche
questa via di fondazione epistemologica dell'etica si presenta come
destinata al fallimento. Da una parte la ricerca empirica sulla natura degli
uomini ben difficilmente potrà ottenere dei risultati di ordine
universale, ma finirà sempre con l’identificare la natura umana con
alcuni tratti propri degli esseri umani in un determinato momento del tempo
e in una ben precisa cultura. Inoltre questa strategia non può sfuggire
alla fallacia tipica di tutte le forme di naturalismo che riducono ciò
che deve essere a ciò che è. Tra le concezioni che hanno cercato di
sviluppare sistematicamente il tentativo di provare attraverso un’indagine
empirica che cosa è bene o giusto si colloca certamente l'evoluzionismo
erede di Darwin, specialmente nella forma che esso ha preso con Herbert
Spencer. Berirand Russell agli inizi di questo secolo negli Elements of
Ethics (1910, Gli elementi dell'etica) criticava, in quanto
riduzionistica, la pretesa di ricavare indicazioni etiche da un presunta
linea dell'evoluzione umana empiticamente corroborata. Nella concezione
evoluzionistica, rilevava Russell, la strategia argomentativa procede
attraverso continui passaggi dal piano del riscontro empirico a quello
delle definizioni implicite. Così laddove si identifica ciò che è giusto
e ciò che è buono con la linea evolutiva che si ritiene avere scoperto
empiricamente in realtà si è introdotta una definizione etica per cui ciò che è
più evoluto è moralmente superiore, Proprio per queste difficoltà generali a
cui va incontro l’evoluzionismo etico dopo l’ubriacatura dei
sociobtologi, neo-evoluzionisti epistemologicamente avvertiti come R. Dawkins
(Dawkins, 1992; cfr. $ 2.7) rifiutano di presentare le loro concezioni come una
fondazione dell'etica. Tra l’altro non è certo possibile percorrere
questa strategia con un minimo di utilità pratica, ovvero rintracciare in
termini empirici la soluzione a un problema etico connettendola con un corso di
azioni migliore evolutivamente, ovvero che favorisce la sopravvivenza del
genere umano o del gruppo di cui facciamo parte biologicamente. Non vi
sono procedure empiriche che consentono di arrivare a confrontarsi con
un’aliernativa secca tra ciò che favorisce la sopravvivenza del genere
umano e ciò che l’ostacola. Non esistono di certo sicuri metodi empirici
per decidere se una certa linea di comportamento è più o meno in
contrasto con i bisogni della specie umana. Né può rappresentare una
fuoriuscita dalle difficoltà etiche con cui ci confrontiamo, sostenere che però
a posteriori può essere poi dimostrato ammesso che ciò sia possibile che ciò che gli uomini fanno è quanto
rende possibile la loro sopravvivenza. Si tratta di procedure dubbie
perché finiscono con il razionalizzare catastrofi e guerre e comunque si
tratta di ricostruzioni che vengono date dopo che le azioni sono state
compiute e che poco dunque possono aiutarci sul piano deliberativo o della
costruzione di una qualche concezione etica. Difficoltà
insormontabili si presentano per tutti gli altri tentativi di ricondurre il
bene e il giusto a delle proprietà del mondo che, non diversamente dalla
forza e dall’energia, possono essere verificate, misurate e quantificate.
Ma più in generale e su un piano meno materiale sono destinati al
fallimento tutti quei tentativi di ricondurre le procedure di fondazione
dell'etica a quelle in uso in scienze, quali la psicologia e la
sociologia, più direttamente rivolte allo studio degli uomini. La via di
ricondurre l'etica alla psicologia è stata più volte percorsa nel corso
del secolo XX. Così procedeva Moritz Schlick nei suoi Fragen der Ethik
(Problemi di etica) quando indicava nel bene ciò che è considerato più
idoneo ai bisogni di un individuo che vuole mantenere l'armonia con il
gruppo sociale di cui fa parte. Una definizione che, ammesso sia in grado
di suggerire un qualche criterio di valutazione, dà per scontata la
preferibilità sempre e comunque dell'armonia rispetto alla disarmonia,
con ovvie implicazioni conformistiche. Un più recente tentativo di
ricondurre le procedure della deliberazione etica a quelle in uso nella
psicologia è stato fatto da Richard Brandt in A Theory of the Good and
Right (1979, Una teoria del bene e del giusto). Brandt si è sforzato di
mostrare come il processo deliberativo dell’etica sia assimilabile alla tecnica
usata nella terapia psicologica cognitiva per mettere alla prova i
desideri e gli obiettivi sulla base di una valutazione della loro razionalità.
Brandt sostiene che nell’etica come nella terapia cognitiva si tratta di
valutare razionalmente se i desideri che abbiamo sono o meno adeguati:
ovvero tali che li confermiamo avendo tutte le informazioni empiriche
necessarie, tali che ci propongono obiettivi per realizzare i quali
disponiamo dei mezzi necessari e infine tali che non comportano delle
conseguenze inaccettabili. Questi sono certamente passaggi a cui si può
ricorrere quando è in corso una deliberazione etica, ma va aggiunto che
parte dell’etica sembra consistere nel valutare se noi riteniamo che
determinati desideri debbano essere accettati da tutti coloro che si trovino in
situazioni analoghe. I riscontri empirici ci dicono quali desideri gli
uomini hanno, ci presentano le distribuzioni statistiche di questi
desideri, ma nulla dicono su quali siano i desideri da privilegiare e
quelli da mortificare, quelli da rafforzare e quelli da controllare ad
ostacolare. Non mancano coloro che non si fanno influenzare da
questi dubbi sulla validità conclusiva in etica di un metodo di
deliberazione e giudizio che cerchi di controllare empiricamente come
stanno le cose per quanto riguarda gli uomini e le situazioni in discussione.
Fautori di un naturalismo ingenuo, sostengono che noi di fatto già sappiamo che
certe azioni sono negative e malvagie (per esempio l'assassinio o il
furto) e che certe istituzioni (per esempio i contratti, il mantenimento delle
promesse e la fedeltà verso un certo governo) sono giuste. Si può
ammettere che questa strategia naturalistica aiuti a individuare inclinazioni e
tendenze ira le più radicate negli esseri umani, ma il punto è che tali
inclinazioni e tendenze non possono essere giustificate con la mera
argomentazione che di esse già disponiamo di fatto, o che sono universalmente
presenti tra gli uomini (il che tra l'altro non si riesce a dimostrare).
Ancora una volta si fa appello a predisposizioni o inclinazioni così generiche
e indeterminate che il rinvio ad esse ci può essere di scarso aiuto nel
risolvere i concreti problemi etici di fronte ai quali ci troviamo. Così,
ad esempio, nessuna indagine empirica sulla natura umana potrà riuscire a
risolvere la questione se vanno considerati o meno come omicidi alcuni casi
controversi (per esempio l'aborto nelle prime settimane dal concepimento,
o alcuni casi di eutanasia volontaria). Inoltre forse egualmente naturali e per
così dire universali si presentano inclinazioni all’aggressività e
predisposizioni all’odio, al risentimento, e alla gelosia che non risultano
certamente giustificate per la loro diffusione e riscontrabilità
empirica. 3.6. L'appello a una ragione universale come via per la
fondazione dell'etica. Un'altra
concezione epistemologica per l’etica è quella che fonda le sue
conclusioni non tanto genericamente sulla natura umana, quanto più
specificamente sulla ragione umana, ovvero su quello che è considerato il
tratto più peculiare degli uomini. Così larga parte del giusnaturalismo
del XVII secolo si presenta come un vero e proprio giusrazionalismo.
Grozio e Pufendorf si impegnarono, infatti, nel tentativo di edificare il
diritto, e più in generale l'etica come scienza razionale dimostrativa.
Questo stesso tentativo è presente anche accanto ad altre vie in Locke. La possibilità di edificare la
morale come scienza dimostrativa viene fatta dipendere da Locke dalla natura
del tutto artificiale delle principali nozioni morali (come egli sostiene
si tratta di «modi misti»), ciò che permette dunque di stringere con un
collegamento logicamente necessario tutti i giudizi in cui ricorrono nozioni
morali (Locke, 1971: 632-636). Ma questo rigore dell’etica, questa sua
struttura dimostrativa, e la sua completa dipendenza dalla razionalità, è
possibile solo in quanto si sono svuotate di qualsiasi portata realistica
le nozioni etiche ricavandole integralmente da convenzioni linguistiche che
permettono di dare vita a definizioni essenziali di tipo arbitrario. In
generale questa forma di razionali smo etico si unisce con una qualche
fondazione contrattualistica dei principi dell'etica nel senso di un
qualche accordo sulla definizione delle sue nozioni centrali. Ma la
procedura contrattualistica può fondare una validità solamente convenzionale
ovvero limitata a coloro che accettano
di sottoscrivere il patto e dunque
le basi della conseguente scienza etica dimostrativa risultano del tutto esili
(cfr. $ 3.8). Il razionalismo seicentesco ha presentato anche
tentativi di dare una portata realistica alle conclusioni etiche scoperte
mediante la ragione. Così ad esempio in autori come Samuel Clarke e
William Wollaston la ragione si presenta come la facoltà che permette di
scoprire la verità in etica. Questo è possibile solo in quanto si ritiene che
il bene e il male, il giusto e l'ingiusto siano identificabili individuando
quali sono le relazioni adeguate alle cose in se stesse. Nel caso di
Clarke il giusto non è altro che una relazione di adeguatezza tra l’azione e lo
stato delle cose; per Wollaston il giusto non è altro che un collegamento
veritativo tra l’azione e lo stato complessivo delle cose (così come
l’ingiusto è dichiarare, con la propria azione, il falso). Ma questa
prospettiva che riconduce il giusto e l’ingiusto a un giudizio di adeguatezza
o inadeguatezza tra le azioni e lo stato delle cose comporta due
assunzioni che saranno fortemente contestate nel pensiero successivo. Da
una parte la convinzione che gli esseri siano ordinati secondo una gerarchia
ben definita la grande catena
degli esseri che distingue nettamente
tra livelli separati ontologicamente e forniti di valore diverso. Solo sulla
base di questa assunzione si può ad esempio, all’interno di questa
prospettiva, considerare inadeguata quella azione in cui l'animale sia
preferito a un essere umano, o un essere umano trattato in modo
inadeguato al suo status ontologico. Questa tesi della gerarchia tra gli
esseri è contestata decisamente da tutta la ricerca evoluzionistica del XIX e
XX secolo, Non necessariamente la scala evolutiva corrisponde a una scala di
valore; non mancano inoltre i casi di confine difficilmente decidibili; nulla
vieta di riconoscere valore anche agli esseri che si presume siano al fondo
della scala degli esseri. La seconda assunzione dei razionalisti realisti
è che dare un giudizio sulla giustezza o meno di un atto {o di un evento)
si possa identificare con l’individuare una qualche relazione tra le
cose. Questa pretesa è criticata e dissolta da Hume che mostra con chiarezza (Hume)
come un giudizio di relazione tra cose non possa in alcun modo esaurire
lo spazio di un giudizio morale. È infatti indubbio che relazioni dello stesso
tipo di quelle in gioco nell’incesto sono rintracciabili tra animali, o che tra
le piante ritroviamo collegamenti analoghi a quelli che si hanno nel
parricidio, eppure non possiamo certo concludere con un giudizio morale
sulle «azioni» degli animali e delle piante. La pretesa di ridurre i giudizi
morali a formule matematiche o a conclusioni razionali dimostrative risulta del
tutto fallace. Un tentativo ma in una forma del tutto diversa dalle
precedenti di fondare l’etica
sulla ragione è stato anche quello di Kant e di coloro che ne riprendono
il razionalismo etico. In questo caso si sostiene che è la stessa ragione
pratica o volontà pura, in quanto tale, che implica certi principi morali
che vanno rispettati se si vuole dare coerenza alle nostre conclusioni
etiche. Ciò che è bene e ciò che è giusto può essere quindi individuato
conformando la nostra scelta e decisione alle presupposizioni che
vincolano qualsiasi volontà umana razionale. La razionalità pratica in quanto
tale implica certi principi formali che sono rispettati solo da coloro che
compiono le azioni effetti vamente giuste o ingiuste (Kant; Landucci). È
questa la strategia fondazionale seguita da Kant per ricavare le diverse
formulazioni dell'imperativo categorico (si veda $ 4.6) dalle regole
trascendentali che presiedono alla volontà umana. Critiche alla procedura
epistemologica alla base dell'etica kantiana vengono mosse su due piani.
In primo luogo si obietta che la prospettiva kantiana in realtà concepisce
la volontà umana in termini sostantivi e dunque inttoduce fin
dall’inizio nelle sue analisi apparentemente formali e neutrali del
volere umano dei tratti che non possono che portare a un ben preciso
esito morale. In secondo luogo viene obiettato che un mero appello alla
coerenza formale è del tutto inefficace in etica perché alla costrizione
in gioco nell’appello alla coerenza si può sempre sfuggire rifiutandosi
di considerare come effettivamente insostenibile uno stato di incoerenza.
In questa rivisitazione del razionalismo etico faccio dunque mia la
prospettiva critica che rileva che la ragione in quanto tale può solo
permetterci di trarre delle conclusioni che si esprimono in quelle che
chiameremo deduzioni o giudizi analitici. Ma se così stanno le cose ciò
che è eticamente rilevante o è già dato nelle premesse del nostro
discorso e allora occorrerà spostare
la discussione su come sono state costruite queste premesse o non potrà certo essere raggiunto
ricorrendo al solo aiuto della deduzione razionale. La razionalità e la ragione
umana in quanto tali non solo risultano eticamente vuote, ma se si guarda
poi alla ragione come facoltà intellettuale questa presenta l’insufficienza più
generale, dal punto di vista fondazionale, di portare a conclusioni © esiti che
non risultano direttamente motivanti. Scoprire che vi è una certa
relazione tra le cose, o che date certe premesse se ne ricavano per via
analitica determinate conclusioni è cosa ben diversa dall'essere mossi a
fare ciò che è bene, giusto, doveroso fare. La ragione può dunque solo
aiutarci a identificare ulteriori situazioni a cui estendere i nostri
principi etici, una volta che noi già abbiamo sulla base delle nostre sensazioni, emozioni e
passioni discriminato tra quello che
approviamo 0 disapproviamo, apprezziamo o svalutiamo. Il collegamento
con la ragione umana concepita come la
parte migliore e più alta, quasi una patte divina, della natura umana è spesso sembrata la via maestra per
garantire alle conclusioni dell'etica sia una strategia peculiare sia una
superiorità rispetto a tutto il resto. Ma nel pensiero moderno e contemporaneo
la consapevolezza dell’autonomia della morale ha portato ad abbandonare questa
strada. Questa esigenza di riconoscere l'autonomia dell'etica veniva già
raccolta da Kant, sia pure in un quadro generalmente razionali. stico,
attraverso l'identificazione di una peculiare razionalità pratica. Ma
altri pensatori hanno preferito incamminarsi sulla strada di una
derivazione dell'etica e delle distinzioni in essa in gioco da una facoltà ad
doc del tutto peculiare ed irriducibile sia alla ragione o intelletto sia ai
vari sensi che contribuiscono a dare agli uomini il bagaglio delle loro
esperienze. La strada dell'individuazione di una vera e propria
facoltà ad hoc per la vita morale è stata percorsa in modo sistematico e
nel dettaglio da Hutcheson. Nei suoi scritti infatti egli presenta
articolatamente uno specifico «senso morale» che permette di cogliere
direttamente le distinzioni morali e che non è riducibile né alle
operazioni dell'intelletto, né agli altri sensi. La ricostruzione che
Hutcheson fornisce del senso morale come facoltà del tutto peculiare che
permette di fondare oggettivamente le conclusioni etiche sembra giustificare
l'attribuzione a questo pensatore di una concezione intuizionistica
(Norton, 1982). In definitiva il senso morale di Hutcheson è in grado di
cogliere direttamente delle vere e proprie qualità delle azioni e situazioni
naturali da giudicare, Hutcheson si impegna anche a ricostruire il modo
in cui proprietà e qualità etiche sono collegate necessariamente con le
altre proprietà oggettive e reali delle cose di cui abbiamo esperienza.
Dunque in Hutcheson possiamo trovare un quadro intuizionistico che
vedremo ripreso, al di fuori di alcune pretese sensistiche, nel secolo
XX. Infatti intuizionisti come Sidgwick e Moore {o in parte H.
Prichard, A. Ewing e D. W. Ross; si veda Hudson, 1980: 74-104)
insisteranno nel trovare nel campo dell'etica la presenza di peculiari
proprietà non-naturali, ben distinte dalle qualità naturali ordinarie,
che solo una intuizione del tutto speciale può cogliere. La strategia di
fondazione propria dell’intuizionismo etico viene criticata in quanto
perde di vista che al centro dell'etica non c'è tanto la questione di
riuscire a cogliere la presenza di questa o quella proprietà non-naturale sia poi questa proprietà considerata come
sopravveniente o come una accanto a quelle naturali , quanto piuttosto di
essere motivati o sentirsi obbligati a fare certe cose considerate buone,
giuste o doverose. Naturalmente questa difficoltà può essere supetata
sostenendo che le proptietà nonnaturali con cui l'intuizione etica ci mette
direttamente in contatto si presentano come costitutivamente motivanti e
obbliganti. Ma un aggiustamento del genere non sembra nulla di più che
uno stratagemma convenzionalistico. Per ovviare a questa difficoltà
è stata elaborata una strategia già in
parte riconoscibile secondo alcuni interpreti negli scritti di Hutcheson che concepisce la facoltà in gioco nella
conoscenza morale non tanto come uno strumento intellettuale e conoscitivo di
registrazione e individuazione, quanto piuttosto come essa stessa emotiva
o sentimentale e dunque motivante e carica di energia attiva. In questa linea
si collocano tutte le analisi sviluppate a proposito dell'etica dai
sentimentalisti del Settecento come ad esempio Shaftesbury, Hume e Smith. Ma in
questa stessa direzione vanno le analisi di coloro che nel XX secolo sostengono
(come è il caso di David Wiggins, 1987 e John McDowell, 1981) sia
rintracciabile nell’etica una peculiare sensibilità che risponde appunto
con una qualificazione di valore a certe azioni o situazioni. La
strategia epistemologica del sentimentalismo sembra però fuoriuscire dal
quadro fondazionale e muoversi piuttosto in quell'orizzonte più moderatamente
giustificativo 0 esplicativo di cui renderemo conto nelle successive sezioni di
questo paragrafo. Infatti questa sensibilità peculiarmente morale
si presenta come qualcosa che va ricostruita e delineata nella sua
specificità attraverso un esame a posteriori degli esseri umani. L'appello poi
a questa base di giustificazione non permette certo di edificare giudizi etici
forniti di quei caratteri di necessità e universalità definitiva a cui tendono
invece coloro che si muovono in un orizzonte fondazionale. Rifiutando
la strada di una fondazione assoluta e aprioristica dell'etica vi sono
alcune concezioni che considerano le opzioni etiche come esiti a cui si
può arrivare dopo avere seguito una determinata procedura razionale. Percorrono
questa strada quei pensatori che sul piano meta-etico considerano l'etica
€ la morale come un universo di principi e norme frutto di decisioni 0
scelte individuali e intersoggettive. Questa linea di giustificazione è
propria ad esempio del contrattualismo etico. Il contrattualismo è stato
inizialmente presentato specialmente nel
XVII e XVIII secolo da pensatori come Hobbes, Locke, J. J. Rousseau e
Kant come una teoria mediante la quale
rendere conto della genesi della società civile e delle istituzioni
politiche (Gough). Ma il ricorso a qualche forma di contratto è stato spesso
presentato anche come una procedura in grado di dirimere in generale i
disaccordi pubblici su tutti.i tipi di distinzioni etiche. In particolare nel
XX secolo il contrattualismo è stato ripreso e sviluppato, ad esempio da Rawls
e Gauthier, come la teoria etica e la procedura di giustificazione di
regole e principi capaci di impostare meglio le questioni di giustizia
sociale. In questa sede ci limitiamo a presentare sinteticamente le
concezioni di Hobbes e di Rawls viste come due forme tipiche di tentativi
di derivare la giustificazione delle conclusioni etiche da procedure
contrattuali. In realtà il contrattualismo si lega strettamente alle
forme di giustificazione prudenziale di cui abbiamo dato conto nel
paragrafo 3.3. Le differenze che qui richiameremo non riguardano il tipo
di ragionamento in genere appunto
prudenziale che porta ad accettare il
contratto come una procedura idonea per risolvere i contrasti etici. Le
differenze concemono piuttosto il contesto in cui la procedura contrattuale
interviene, le sue implicazioni e le conseguenze che se ne ricavano per
quanto riguarda il carattere vincolante degli esiti. Nel caso di
Hobbes il ricorso a una procedura contrattuale in etica si sviluppa dopo la
presa d’atto dell’impossibilità di trovare una fondazione del bene e del
giusto in termini di rinvio al piacere di ciascuno e ai desideri e alle «
passioni individuali. Fare riferimento ai piaceri e desideri individuali non
permette di superare quella condizione di guerra di tutti contro tutti che è
propria dello stato di natura in cui ciascuno definisce bene, male, giusto e
ingiusto, appunto a suo modo. Se si vuole mantenere uno stato di pace e
convergere su qualche bene considerato comune (che certo comunque non
potrà essere trattato come un bene assoluto) bisognerà limitare la
completa discrezionalità naturale concordando sull’accettazione di una
procedura che permetta di realizzare patti condivisi. Secondo Hobbes, dunque,
solo un contratto è in grado di vincolare i singoli individui all'accettazione
di principi etici che non siano direttamente riconducibili agli interessi
egoistici di qualcuno. Nel fare ricorso al contratto come risolutivo Hobbes
delineava tutta una serie di condizioni che presiedono alla sua genesi e
alla sua efficacia. Da una parte il contratto incorporava tutta una serie
di principi secondo Hobbes le «leggi
naturali» che venivano considerati
giustificati razionalmente, in linea esclusivamente strumentale, come
mezzi idonei alla conservazione in vita dei contraenti e al mantenimento
della pace tra loro. Dall'altra parte la necessità di rendere vincolanti
gli equilibri che vengono identificati mediante la procedura di
contrattazione porta a un completo trasferimento della forza coercitiva a
un potere che in nome della sua funzione di garantire il rispetto del
contratto non è sottoposto ad alcun limite. Anche questa è una conseguenza
derivante dalle assunzioni generali di Hobbes che vede appunto gli esseri
umani come del tutto egoisti e mossi da un irrefrenabile impulso possessivo in
una condizione di scarsità di beni. Infine va rilevato che laddove in Hobbes
il potere non può avere limiti esterni, esso ha un ampio limite interno. Ciò
dipende dalla convinzione di Hobbes che leggi contrattualmente definite
possono valere solo per i corpi di coloro che stipulano il patto, mentre
sentimenti, emozioni e pensieri sono al di fuori della portata
dell’applicazione di principi e regole create con la procedura condivisa.
AI modello di contrattualismo hobbesiano sono state mosse numerose
critiche. In particolare è la sua peculiare derivazione artificialistica dei principi
etici ad essere oggetto di diverse obiezioni. La prima linea di obiezioni
viene da coloro che ritengono necessaria una fondazione assoluta
dell'etica e che rilevano la parzialità e la limitazione di una
derivazione da un qualche contratto di regole e principi etici. Le leggi
concordate mediante il patto possono valere solo quando si è sotto il
controllo di un potere totale e completo come quello appunto ipotizzato
nel Leviafazo di Hobbes, ma non riusciamo così ad escludere defezioni
quando il potere è inefficace. Hobbes sembra tentare una risposta a
queste critiche quando ammette la validità delle leggi naturali anche «in
foro interno» {Hobbes, 1976: 150-154; ma si veda Warrender, 1974), ma
risulta difficile capire qual è la base di obbligatorietà in questo caso delle
leggi naturali. Una seconda linea di obiezioni viene da quei pensatori
che come ad esempio Hume pur condividendo una spiegazione artificiale
della genesi di principi e regole etiche, prendono poi le distanze da Hobbes e
dal suo contrattualismo per il particolare tipo di artificialismo
razionalistico in gioco. L’obiezione in questo caso è che il
«costruttivismo razionalistico» hobbesiano il considerate cioè i principi etici come il
frutto di una scelta consapevole di una serie di individui razionali risulta del tutto inadeguato quando si
tratta di rendere conto della genesi di regole e principi etici. Vedremo
nelle ultime due sezioni di questo paragrafo în che senso il
convenzionalismo etico di Hume presentava un modello artificialistico di
spiegazione dell'etica del tutto alternativo rispetto a quello di
Hobbes. Un altro modello di giustificazione procedurale dell'etica
è quello presentato nel modo più sistematico ed argomentato da Rawls. Si
tratta di un modello che viene ora abitualmente chiamato «contrattualismo
ideale» per distinguerlo da quello di Hobbes e da quello detto «contrattualismo
reale» sviluppato da Gauthier, Il modello epistemologico del
«contrattualismo ideale» sostiene pur sempre che i principi giusti dell'etica
possano essere individuati attraverso accordi, ma poi fa valere tutta una serie
di vincoli relativamente alla procedura considerata idonea per realizzare
accordi equi. Rawls delinea tale procedura come una «posizione
originaria» del tutto artificiale. In primo luogo, gli individui che entrano
nella posizione originaria da cui si scelgono i principi di giustizia
vanno considerati come individui rappresentativi e non già come singoli
individui concreti. In secondo luogo, gli individui rappresentativi scelgono
tra le diverse opzioni a loro aperte in una condizione caratterizzata da
«un velo d’ignoranza», ovvero si immagina che gli individui nella
posizione originaria non debbano sapere quale sarà la loro condizione
effettiva e il loro status concreto nella società. Infine Rawls ritiene
che le scelte nella posizione originaria debbano essere ispirate da un
principio generale, che egli chiama del maxinmin, secondo il quale si
debba sempre preferire quell’alternativa che permette di massimizzare le
esigenze degli individui rappresentativi dello stato peggiore.
La linea argomentativa di Rawls in realtà non si presenta come un
tentativo di giustificare o fondare il nucleo centrale dell'etica, ma piuttosto
come un tentativo di decisione o risoluzione dei conflitti una volta
assunta una determinata definizione della morale. Troviamo che fin dalla
delineazione della «posizione originaria» sono presenti alcune opzioni
morali sostantive che vengono incorporate nella procedura prevista per
l'individuazione dei principi di giustizia. Ad esempio è fuori discussione fin
dall’inizio che le soluzioni da preferire saranno quelle più imparziali ed
eque. Rawls non spende nemmeno un’argomentazione a giustificare queste opzioni
di fondo che sono costitutive del suo contrattualismo. Ancora, in quanto Rawls
si preoccupa principalmente di questioni di giustizia sociale o di
distribuzione delle risorse, troviamo che egli fa valere il citato criterio di
waxiziz. Contro questo criterio numerosi studiosi di etica (ad esempio
Harsanyi, 1988: 109-136) hanno obiettato che esso ha delle conseguenze
controintuitive. Infatti il criterio del maximin ci costringe a preferire
sempre e comunque quel corso di azione che può migliorare sia pure di
pochissimo le condizioni di chi sta peggio senza minimamente tenere conto di
quanto questo corso d'azione peggiori le condizioni di tutti gli altri o
senza minimamente instaurare un confronto tra i diversi corsi d'azione
possibili ad esempio sulla base della probabilità effettiva che si
realizzi ciascuno di essi, Dunque la procedura epistemologica a cui
si richiama Rawls, ben lungi dal giustificare le opzioni etiche, in
realtà dà già per acquisita la natura dell'etica e il suo ambito. Del
resto questo è ampiamente ammesso dallo stesso Rawls che ha riconosciuto
che la sua ricostruzione della natura dell’etica è adeguata a rendere
conto delle intuizioni morali di un cittadino di una società caratterizata,
come quella statunitense, dalle istituzioni liberal-democratiche. Spiega
Rawls che la sua etica è tale da non avere una portata metafisica, ma che
si presenta come prevalentemente rivolta a rendere conto di un ben preciso
contesto storico e dunque politico (Rawls, 1994: 155-182). La procedura
giustificativa delineata da Rawls può dunque operare solo presupponendo una
serie di intuizioni o credenze morali già date. La linea argomentativa
del contrattualismo ideale è rivolta ad ottenere un risultato che Rawls stesso
presenta come una sorta di «equilibrio riflessivo» tra le nostre
intuizioni di partenza e i risultati più equi e giusti raggiunti
attraverso una correzione delle distorsioni e parzialità di tali intuizioni.
Caratteristico di questo modello è la caduta della pretesa di una
fondazione assoluta e compiuta dei principi etici. Il contrattualismo ideale di
Rawls in definitiva riesce a generare accordi solo in quanto parte già da
un accordo dato in partenza tra tutti i membri della stessa società.
Nulla può essere fatto per convincere ad accettare l'etica da parte di
coloro che non sono già cittadini della stessa società ideale che condivide il
contratto. Laddove la posizione hobbesiana sembrava incapace di generare
accordi se non presupponendo il ricorso a uno strumento extra-teorico quale la
forza; la posizione di Rawls è sterile perché si limita a ricostruire il
modo in cui già di fatto si realizzano accordi, nelle società
liberal-democratiche, tra coloro che accettano politiche progressiste e
nulla dice per dirimere i contrasti tra individui rappresentativi di società
profondamente diverse (quali, poniamo, quelle del mondo occidentale e
quelle dei paesi dell’Africa o dell'Asia). La procedura contrattualista di giustificazione
etica ha sicuramente un ampio spazio laddove contrasti e conflitti sorgano tra
individui già vincolati a un certo patto e all’accettazione di una certa
procedura per dirimere i contrasti. Ma poco o nulla può offrire laddove
si affrontino le questioni più sostanziali: da una parte di come
giustificare la scelta di avere un contratto da rispettare in luogo di non
avere nessuna forma di contratto; dall'altra di come giustificare
l'opzione di continuare a rispettare il contratto, in luogo di defezionare,
anche quando ciò danneggia i nostri interessi personali. 3.9. Il
non-cognitivismo e la giustificazione logico-argomentativa del punto di
vista etico. Una teoria della
giustificazione © argomentazione etica è stata messa a punto anche dai
teorici del non-cognitivismo (cfr. $ 2.6). Laddove gli emotivisti
consideravano del tutto fallace la convinzione che si potesse avere una
reale discussione su questioni etiche, i teorici del non-coBnitivismo trovano
possibile indicare una serie di procedure come peculiari del ragionamento
etico. Vale la pena di fermarsi brevemente sulle differenze
www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 56 ETICA sul piano
della giustificazione e dell’argomentazione, dunque sul piano epistemologico,
tra le posizioni degli emotivisti e quelle dei non-cognitivisti. Infatti
lo sviluppo di questa differenza rappresenta una delle vicende centrali
dell'etica del XX secolo che viene completamente trascurata da quanti come ad esempio A. MacIntyre (MacIntyre,
1988) assimilano rigidamente emotivismo
e non-cognitivismo, Nel caso degli emotivisti occorre distinguere
tra le posizioni di Ayer e di Stevenson. È appunto nelle pagine di Ayer
(Ayer, 1961) che troviamo la posizione più radicale che ritiene che l’unico
punto di dibattito effettivo in una discussione etica possa essere
quello di una verifica fattuale sul come sono andate le cose e, per il
resto, sia da considerare comeeffettivo in una discussione etica possa
essere quello di una verifica fattuale sul come sono andate le cose e,
per il resto, sia da considerare come del tutto illusoria la pretesa
di aprire una qualche discussione criticamente valutabile sulla rilevanza etica
di ciò che è accaduto, In definitiva connotando eticamente qualcosa ciascuno
esprime solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è noto,
sui gusti non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Stevenson,
1962; cfr. qudo eticamente qualcosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali
del tutto personali e, come è noto, sui gusti non si può certo disputare.
La posizione di Stevenson (Stevenson, 1962; cfr. qui sopra $ 2.6) è meno
riduttiva, ma finisce con il sostenere che tutto ciò che possiamo fare da
un punto di vista argomentativo o epistemologico in morale è divenire
pienamente consapevoli del come usare nel modo appropriato, come un
potere causale, la forza emotiva presente nelle nozioni etiche, vuoi per
persuadere altri ad accettare i nostri standards, vuoi impedendo che
altri ci persuada con il mero ricorso a delle definizioni persuasive, Ma non
resta nessuna possibilità pet discutere in una qualche forma argomentativa
l'appropriatezza etica di un determinato giudizio morale. Laddove consideriamo
l’etica come un linguaggio emotivo sia
pure, come fa Stevenson, come un linguaggio guidato da regole nel suo uso
tutto ciò che possiamo fare sul
piano epistemologico è richiamare l’attenzione sulla presenza di tecniche di
persuasione che possono essere utilizzate sia da una persona che voglia fare
passare dei valori giusti, sia da chi invece voglia imporre dei valori
ingiusti, L'argomentazione etica, così come ce la presenta Stevenson con
il suo emotivismo moderato, non ci permette di discriminare tra questi
valori, ma solo di sostenerli nel modo migliore ed egli quindi riconosce
in questo campo solo uno spazio per procedure di tipo retorico o
propagandistico. Nel caso invece del non-cognitivismo, come
sostenuto ad esempio da Hare (Hare, 1971 e 1989), troviamo l'impegno a
elaborare un'epistemologia per l’etica che fornisca criteri di discussione
e critica anche per il nucleo peculiare di valori che è in gioco nel
discorso morale. Come si è già spiegato (cfr. sopra, $ 2.6) secondo
questa concezione meta-etica la morale è costituita di prescrizioni
universalizzabili soverchianti. Partendo da questa caratterizzazione
della natura della morale un non-cognitivista ha di fronte a sé due
problemi distinti. Si tratta, in primo luogo, di esaminare se vi sono vie
argomentative per convincere razionalmente a farsi guidare nelle proprie
azioni da una morale così intesa chi non la vuole fare propria preferendo
un completo amoralismo. In secondo luogo si tratta di delineare quali
procedure argomentative sono disponibili per sottoporre a controllo le
diverse opzioni mortali possibili al fine di individuare, per la situazione
in cui ci troviamo, quale è la migliore prescrizione universalizzabile
soverchiante. Esponiamo qui di seguito le due diverse strategie
argomentative così come vengono delineate da Hare. Per quanto
riguarda il livello di discussione che si apre nei confronti di chi non
intende in alcun modo ispirarsi a regole morali, sul piano argomentativo
non c'è molto da fare. Non si può cioè costringere logicamente qualcuno a
usare il linguaggio della morale; si può solo, una volta che egli lo usi,
mostrare che lo ha usato in modo inadeguato rispetto alle regole che ne
governano l'uso. Hare dunque sembra voler fissare come limite
invalicabile per l’argomentazione morale il confine al di lì del quale si
collocano tutti coloro che non fanno in alcun modo uso del linguaggio
morale. Nei confronti di costoro si potrà fare qualcosa solo collocandosi
da un punto di vista non strettamente argomentativo. L'educazione e l’uso
della forza sono due diverse strategie cui si ricorre per far si che le
persone facciano propria la forma di vita che include la morale.
All’interno della prospettiva non-cognitivista di Hare si può invece
argomentare contro chi pretende di formulare giudizi morali ed invece in
realtà non rispetta le condizioni logiche necessarie perché un
proferimento faccia parte del linguaggio etico. Come sappiamo
un'espressione linguistica farà parte del discorso morale solo in quanto
si presenta come una prescrizione universalizzabile soverchiante.
Possiamo identificare con chiarezza coloro che pretendono di dare una
portata morale alle loro affermazioni, ma compiono degli errori logici
(oltre che morali}. Le analisi di Hare sono rivolte a delineare il tipo
di argomentazione che può essere sviluppata contro il più comune errore
nell'uso del linguaggio morale, quello proptio dei fanatici morali. Le
posizioni dei fanatici morali nascono in quanto si prescrivono dei principi
che non vengono fatti valere come
la loro natura di principi morali esigerebbe in modo analogo per tutte le situazioni simili
indipendentemente dal posto occupato da coloro che sono coinvolti. Un
tentativo, coerente con la concezione della morale propria del
non-cognitivismo, può essere fatto per contrastare il fanatismo morale ad
esempio nella forma più ricorrente che è quella del razzista (Hare, 1971;
ma Hare più recentemente ha trattato anche del caso di un medico che in
nome dei suoi doveri professionali fa proprio l’accanimento
terapeutico: Hare). Si tratta di chiedere al fanatico di immaginarsi in una
situazione in cui egli occupa il posto di colui nei confronti del quale
egli vuole fare valere in modo diseriminante i suoi pretesi principi
morali. Che cosa fa il razzista anti-semita quando una nuova informazione
fornisce le prove che lui stesso è di origine ebraica? Il non-cognitivista può
con. siderare l'articolazione di un esperimento mentale del genere come
un’estensione epistemologica della sua concezione meta-etica. Si
badi infine che l’argomentazione propria dell'etica che viene individuata
muovendo dalla concezione della natura dei giudizi morali avanzata da
Hare non si limita come nel caso
del formalismo kantiano ad avanzare la
richiesta di una mera coerenza formale, ma enuncia un requisito
contenutistico. In linea del tutto pregiudiziale un giudizio potrà essere
incluso nell'universo dei giudizi propri del discorso morale solo se
prescrive un qualche principio che si è pronti a far valere in modo
analogo per tutti i casi simili indipendentemente dalla propria collocazione
nelle situazioni investite. Lavorando su questa condizione epistemologica
della concezione che vede la morale come insieme di prescrizioni universalizzabili
soverchianti, più recentemente Hare ha elaborato ulteriori passaggi
critici a cui sottoporre le prese di posizione etiche. Nello sviluppare queste
implicazioni epistemologiche si è incamminato lungo una linea che giunge a
presentare come adeguate su basi
sostantive quelle conclusioni che
vengono ricavate dall’utilitarismo dell’atto. In quanto ci troviamo di
fronte ad un’argomentazione che ricava da una meta-etica una ben precisa etica
normativa, ce ne occuperemo in un prossimo paragrafo. Dalla
giustificazione allo spiegazione dell'etica. Proprio nel nostro secolo la riflessione
filosofica sull'etica ha elaborato una serie di analisi conseguenti a un
radicale mutamento di approccio. L'effetto di questo cambiamento è che anche
per quanto riguarda le procedure argomentative in uso in morale
l’obiettivo cui si tende è di ricostruirne il complesso delineando anche il
contesto in cui si sono formate. Con questo approccio non ci si propone
dunque di fondare o giustificare aleunché 0 di modellare al meglio
strutture argomentative, quanto piuttosto di presentare spiegazioni
complessive rivolte a comprendere qual è il posto che l’etica occupa
nella nostra vita. In definitiva è la prospettiva che Hume aveva
sviluppato nella sua scienza della natura umana che viene recuperata, tradotta
nel linguaggio del nostro secolo e resa più rigorosa e determinata.
L'etica viene così considerata come un presupposto della nostra forma di vita
che non tanto va giustificato o fondato quanto piuttosto spiegato nella
sua concretezza. Si tratta dunque di un programma esplicativo che
considera l'etica e le sue distinzioni come costitutive della nostra
esperienza del mondo, con un approccio in parte analogo a quello kantiano
impegnato a identificare le forme generali della nostra esperienza. Ma
questo approccio esplicativo non percorre poi la linea aprioristica kantiana
dell'analisi trascendentale, proponendosi piuttosto di avanzare ipotesi
empiriche sulla natura dell'etica e le forme di argomentazione in essa
correnti (Preti, 1986). ; Questo tipo di ricerca ha avuto nel
nostro secolo una notevole espansione parallelamente al tentativo della
filosofia di trasferirsi dal piano fondazionale a quello esplicativo
(cfr. Gargani, 1975 e Nozick, 1987). Una prima differenza tracciabile in
questa linea filosofica, come si è detto, è relativa al tipo di spiegazioni,
ovvero alla natura logica delle presupposizioni a cui ci si richiama,
caratterizzate o in una direzione trascendentale oppure come ipotesi
empiriche. Su basi kantiane un tentativo di spiegare l'etica è presente
nelle analisi di Putnam. La tendenza a esprimere giudizi morali è
secondo Putnam un modo del tutto aprioristico e comune al genere umano di
categorizzare; in modo analogo va spiegata la stessa predilezione sostantiva
per certi contenuti (benevolenza, giustizia ecc.). Invece sul piano
empirico si trovano, tra le altre, le seguenti spiegazioni della morale.
Da una parte abbiamo una concezione come quella di Mackie che ritiene che
l'etica sia una produzione artificiale della cultura umana con cui gli
vomini cercano di fare affermazioni su specifiche proprietà del mondo,
ovvero i valori o le qualità etiche; ma queste affermazioni sono tutte
false in quanto tali proprietà non sussistono realmente. Dall'altra
abbiamo le posizioni proiezioniste, quale ad esempio quella di Blackburn,
secondo le quali invece si guarda all’etica come un prodotto della nostra
cultura che ci consente di fare riferimento a qualità o proprietà quasi
reali (le proprietà morali) che noi abbiamo proiettato sulle cose e sul
mondo. Sono ancora da ricordare le analisi sensiste di Wiggins e McDowell
i quali ritengono viceversa che si debba considerare l’etica come il campo che
gli esseri umani costituiscono in quanto forniti di un peculiare senso o
sentimento che li mette in grado di cogliere delle proprietà nel mondo
(appunto ciò che rende moralmente rilevante una qualche situazione) che hanno
poi su di essi una forza motivante e vincolante. Infine in un contesto
più evoluzionistico Gibbard indica nella morale un insieme di norme che
gli uomini anno elaborato nel corso di una loro attività peculiare
che li muove a discutere pubblicamente sul come condurre le loro vite e come
sentire a proposito delle scelte fatte nel corso delle loro vite. Tutti
questi diversi modelli esplicativi dell'etica e della sua genesi come si può
vedere ne rendono conto in ter. mini universalistici; l'etica si presenta
cioè come un'istituzione del genere umano che include al suo interno il
ricorso a procedure pubbliche pet controllare la validità delle opzioni
privilegiate. Larga parte di queste concezioni esplicative sono rivolte a
trovare una collocazione per la credenza che il controllo fattuale giochi un
ruolo importante nella discussione etica. Una credenza del genere sussiste
anche se i fatti morali non esistono, 0 sono solo delle nostre proiezioni
o tali che noi li cogliamo perché forniti di una peculiare attrezzatura
percettiva. In questo secolo un ampio dibattito si è sviluppato
intorno a due nuclei problematici centrali per chiunque si ponga
l’obiettivo di una fondazione o giustificazione di conclusioni etiche. In
primo luogo hanno avuto un’ampia diffusione le discussioni relative alla
cosiddetta «legge di Hume» che coinvolgono tutti i tentativi di fondare
una conclusione etica su basi scientifiche, osservative o empiriche. Il
punto di partenza per questa linea di riflessione viene indicato in un passo
del Treazise di Hume (Hume, 1987: I, 496-497), il cosiddetto «is-ought
paragraph», in cui si richiama l’attenzione sulla differenza tra
proposizioni in cui è presente la copula è {:5) e quelle in cui compare la
nozione deve (ough)). A questo passo si sono richiamati tutti coloro che
hanno criticato come logicamente inaccettabile la derivazione di una
conclusione normativa, e in generale etica, da premesse descrittive, assertive
o in generale non-etiche (cfr. Hudson, 1969; Carcaterra; Oppenheim; Scarpelli;
Celano). Sul piano storico occorre precisare che è molto probabile che
Hume non fosse direttamente impegnato a formulare un vero e proprio
principio logico relativo all’inderivabilità del dovere dall'essere, quanto
piuttosto a segnare con precisione la «grande divisione» concettuale tra
conclusioni con l'è e quelle con il deve. Importa però qui richiamare che
nel XX secolo invece si fa rilevare che proprio da un punto di vista
strettamente logico-formale e sintattico si deve ritenere del tutto
scorretto qualsiasi ragionamento o argomentazione che pretenda di
ricavare una decisione, una scelta o un giudizio etico da considerazioni che
riguardano lo stato dei fatti o delle cose. Questa posizione è
stata ampiamente sostenuta nel corso del XX secolo con articolazioni
lievemente diverse. Così ad esempio Max Weber insisteva con decisione
sulla differenza di piani tra fatti e valori e dunque tra conclusioni
avalutative e scientifiche sulla natura e sulla società e decisioni o assunzioni
di responsabilità intorno a ciò che si deve fare (Weber, 1958; Rossi,
L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 61 1971: 249-315; Hennis, 1991).
Partendo dalla stessa tesi della inderivabilità dei valori o doveri dai
fatti si sono rifiutate numerose concezioni spesso accusate di essere cadute
nella «fallacia naturalistica» (Moore). Così da una patte vengono denunciate
come frutto di un errore logico tutte quelle posizioni riduzionistiche o
conformistiche che concludono che ciò che si deve fare è o ciò che è
naturale per l'uomo o ciò che è già indicato dai valori accettati più o
meno diffusamente nella società. Non diversamente viene considerata fallace
quella specie di argomentazione etica propria dell'approccio consequenzialista
che considera come completamente risolvibile un qualche problema morale
ricostruendo con precisione ammesso che
tra l'altro questo sia fattibile quali
sono le conseguenze delle diverse opzioni tra cui dobbiamo scegliere. In
realtà sapere con precisione quali sono le conseguenze delle alternative
che ci sono davanti non basta per ricavare una conclusione su ciò che
dobbiamo fare perché una tale previsione se attendibile ci dirà solo ciò che ci sarà nel futuro, ma
nulla ci dice sul punto se certe conseguenze che ci saranno vanno poi
preferite o meno ad altre e dunque approvate o disapprovate. Tra l’altro
era proprio questa l’argomentazione che faceva valere Hume nella sua Exquiry
concerning the Principles of Morals (Ricerca concernente i principi della
morale; Hume) contro i tentativi di derivare le distinzioni etiche dal
principio di utilità. Contro l’uso di questa critica come
ghigliottina decisiva per numerose concezioni etiche si sono schierati
quei pensatori particolarmente numerosi
nell'ultirna parte del XX secolo che
hanno negato che si potesse nettamente distinguere un piano di descrizioni
neutrali del mondo da un piano di opzioni valutative su di esso. Questo
tentativo di superamento del quadro concettuale che sorregge la
cosiddetta «legge di Hume» è stato principal mente rivolto a contestare
la concezione della scienza dei neopositivisti che sembra sorreggere una
forte divaricazione tra fatti e valori, essere e dovere. Questa
divaricazione è stata criticata e giudicata superata da numerosi pensatori
pragmatisti, tra i quali in particolare Putnam. In secondo luogo indubbiamente
rilevante per il problema della fondazione e della giustificazione dell’etica è
tutto il dibattito specialmente
vivo nella seconda metà del XX secolo relativo alla possibilità di costruire
una logica delle norme. Collocandosi dunque sul piano della ricerca di
una sintassi di un discorso etico che voglia fare valere al suo interno
principi di coerenza e non-contraddizione è stata contestata la stessa
possibilità di enunciare una logica delle norme. Una posizione del genere
è presente nelle conclusioni a cui era giunto H. Kelsen nell'ultima parte
della sua vita (Kelsen, 1985). Rilevando che le norme sono, dal punto di vista
del significato, dei comandi, e che dunque come tali non possono essere
valutati in termini di verità e falsità, Kelsen negava che si potesse
costruire un sillogismo logico in cui premesse e conclusioni fossero
degli asserti normativi. Le implicazioni della sintassi logica possono
valere solo in presenza di proposizioni empiriche o asserzioni scienrifiche,
ovvero laddove premesse e conclusioni si collocano sul piano della verità e
dunque da premesse vere (o false) si traggono conclusioni vere (o false).
Ma un enunciato normativo non è in alcun modo vero 0 falso e dunque non
può funzionare da premessa di nessuna conclusione logicamente derivata,
Così se presentiamo nella premessa maggiore un enunciato normativo di caratrere
universale, laddove nella premessa minore troviamo l'individuazione di
una fattispecie rilevante sulla base della norma generale enunciata nella
premessa maggiore, secondo Kelsen non siamo autorizzati a presentare come
una conclusione logicamente necessaria una qualche azione o omissione
{con relativa sanzione). Coloro che contestano la possibilità di una
logica delle norme obiettano infatti che comunque il linguaggio normativo
esige sempre che ci sia un qualche comando effettivo ripetuto subito
prima del compimento di qualsiasi azione. Sia le «legge di Hume»
sia le obiezioni alla possibilità di elaborare una «logica delle norme»
risultano particolarmente rilevanti nei confronti di chi si muove
all’interno di un contesto fondazionale e pretende dunque di dare una
qualche fondazione assoluta o conclusiva dell'etica. Ma se ci collochiamo
sul piano dell’argomentazione o della giustificazione (per non dire del
piano della spiegazione delle procedure effettivamente adottate) le cose
risultano più complesse. Per quanto riguarda, ad esempio, la cosiddetta
«legge di Hume», sembra difficile non ammettere l'efficacia di quelle
critiche rivolte al tentativo di ricavare le proprie conclusioni etiche
semplicemente da una ricostruzione dei fatti in gioco, o da una mera
raccolta di informazioni, o dall’accumulo di una congerie più o meno
estesa di previsioni. Dovrà introdursi prima o poi la nostra preferenza
per un qualche principio da fare valere in modo analogo in tutte le
situazioni simili, una preferenza che sia radicata nelle nostre emozioni
e che siamo pronti a mettere in pratica quando starà a noi agire
facendola prevalere su nostre opzioni non strettamente etiche. Questa
ammissione di una qualche frattura, divisione o salto tra il piano delle
ricostruzioni empiriche della situazione e quello di una valutazione e conseguente decisione delle diverse
opzioni che ci stanno di fronte non deve essere spinto però fino ad esiti
eccessivi. Così risulterà insostenibile sul piano metodologico una
ricostruzione della natura dell’indagine empirica e scientifica che non tenga
conto di quanto le nostre osservazioni e le nostre esperienze siano
dipendenti dalle teorie, ipotesi e opzioni (anche valutative) da cui
muoviamo. Né sarà accettabile un divisionismo spinto fino all’estremo di non
riconoscere la rilevanza in un
certo senso come condizione necessaria anche se non sufficiente di
un’argomentazione etica dell'impegno sia
a verificare come stanno realmente le cose nella situazione in esame, sia a
immaginare quali conseguenze seguiranno una volta incamminatici lungo
l’uno o l’altro corso di azione. Non diversamente a proposito della
questione della possibilità di costruire una logica delle norme è
difficile negare la nostra capacità sia di squalificare certe prese di
posizione etiche perché in contraddizione con principi già assunti, sia di
estendere i nostri principi a situazioni nuove sulla base della tesi
logica che esse sono del tutto simili a quelle che abbiamo già giudicato.
È probabile che nel riconoscere questo ci muoviamo a un livello che non è
esattamente quello della sintassi logico-formale, ma piuttosto come ha suggerito Nowell-Smith delle
implicazioni di una logica pragmatica che dà vita a una valutazione dei giudizi
in gioco in termini di stranezza logica. Ma la rilevanza e la portata di
strategie di tipo sintattico o logico resta innegabile se si abbandona la
pretesa di muoversi sul piano di un'etica dimostrata in modo assiomatico e
geometrico. Va, infine, sottolineato che malgrado le obiezioni di fondo dei
puristi della logica larga
estensione hanno avuto nella seconda metà del XX secolo i tentativi di
elaborare simbolismi e formalismi idonei al trattamento di norme. Ben al
di là dei tentativi o delle enunciazioni di principio si sono spinti
tutti coloro da Wright a Alchourron e
Bulygin che si sono impegnati a elaborare la logica deontica e la logica
delle norme. I risultati raggiunti con tutta la loro complessa
articolazione mostrano la fertilità di un tentativo di dare vita a un
trattamento simbolico della sintassi delle norme e di inserire in un
contesto logico le relazioni tra obbligazioni etiche. Difficile peraltro che
tali modelli di linguaggi perfetti o ideali per le norme o le valutazioni
etiche possano essere di aiuto per ciascuno di noi quando, nella vita
comune, siamo alle prese con i nostri problemi etici concreti. Tali
linguaggi invece illuminano certamente il lavoro di giuristi, politici,
scienziati sociali impegnati nel mettere a punto sistemi di norme più o meno
stabili, efficienti, chiari e comprensibili da tutti coloro per cui tali
norme debbono valere. 4. Le etiche normative: concezioni in
contrasto. 4.1. Eriche conseguenzialiste e deontologiche:
principi, mezzi e fini nell'etica. Quando si tratta di classificare le diverse
concezioni etiche possiamo ricorrere a differenti criteri formali che si
intersecano. È quanto faremo n questo paragrafo, esponendo le differenti
concezioni normative esistenti usando diverse strategie di
classificazione. In primo luogo distingueremo le etiche normative in
generale sulla base di una loro struttura di fondo che col. lega la
valutazione etica 0 a un riferimento a principi 0 a una considerazione
delle conseguenze. Renderemo così conto della differenza tra etiche
deontologiche o tuotanti intorno a principi ed etiche teleologiche o rivolte
principalmente alle conseguenze, e accenneremo anche ad alcuni tentativi di
elaborare etiche miste. Passeremo poi a rendere conto delle diverse
etiche normative classificandole sulla base di un diverso criterio
formale che ritiene essenziale la distinzione tra etiche che fanno uso di
una nozione di valore intrinseco, in quanto contrapposta a quella di
valore estrinseco, ed etiche che invece rifiutano tale distinzione.
Esamineremo, infine, alcune concezioni normative che identifichiamo come
le più diffuse e vitali nelle discussioni di etica teorica nel secolo XX.
Ovviamente di pari passo con l’esposizione cercheremo sia di fornire le ragioni
delle inclusioni ed esclusioni nella lista, sia della nostra preferenza critica
per una di queste etiche. Un modo ricorrente per distinguere tra le
diverse concezioni normative è dunque quello che contrappone l’etica che
ruota intorno a un appello ai principi a quella che tiene piuttosto conto delle
conseguenze dell’azione. Si tratta di una distinzione che è centrale, ad
esempio, nella riflessione di Max Weber, che però se ne è valso non tanto
per distinguere due tipi diversi di etica quanto piuttosto per richiamare
l'attenzione su due piani diversi della vita etica: quello proprio del
moralista che fa appunto appello alla rilevanza dei principi e quello di
chi come il politico o chi sia comunque
impegnato in una dimensione tecnico-pratica invece, muovendosi nel quadro di
un'etica della responsabilità, deve badare principalmente alle
conseguenze dei diversi corsi di azione in cui si impegna (Weber, 1966).
Dietro queste due diverse strategie possiamo anche ritrovare come subito vedremo un diverso modo di considerare il
rapporto mezzi-fini nella vita pratica. Sono state presentate
concezioni deontologiche dell'etica diversamente strutturate. Avremo così
diversi tipi di etiche dei principi a seconda che pongano al loro centro uno o
più principi, e a seconda che concepiscano tali principi o come assoluti e
aprioristici o come ricavati dall'esperienza e in generale rivedibili. È
così chiaro che l'etica kantiana si presenta come un'etica deontologica che
ruota intorno a un solo principio di fondo, assoluto e a priori, dato
dall'imperativo categorico, e le diverse formulazioni offerte,
dell'imperativo categorico, non presentano in realtà principi diversi
(Kant, 1970a). Nel caso di alcune etiche del comando divino (come ad
esempio l’etica cristiana o cartolica) vi è invece una tendenza a presentare
come costitutivi della vita morale diversi principi tutti assoluti (i
vari comandamenti divini o le norme che costituiscono la legge naturale).
Un'etica deontologica pluralista si trova di fronte al problema (quasi
mai invece affrontato esplicitamente in queste etiche) della necessità di
disporre di un criterio chiaro per ordinare i diversi principi e
risolvere quei casi in cui più principi assoluti entrano tra di loro in
conflitto. Ma una concezione etica deontologica non è logicamente costretta
a considerare i principi al centro della vita morale come assoluti,
immutabili e di derivazione non empirica. Non mancano infatti analisi
della vita etica (ad esempio quella dell'evoluzionismo filosofico di H.
Spencer H. Spencer, 1893 o di certe forme contemporanee di
intuizionismo si vedano ad esempio
W. D. Ross, 1930 e A. C. Ewing, 1948) che pur ritenendo costitutivo della
vita morale l’appello a principi, non rendono conto del costituirsi di
questi principi lungo l’asse dell’impostazione kantiana o di quella religiosa.
I principi dell'etica vengono piuttosto considerati o come regole
fissatesi nel corso dell'esperienza quali abitudini o come assunzioni più o meno convenzionali preliminari, o anche come ipotesi più o meno
rischiose da avanzare in situazioni risolvibili difficilmente con gli strumenti
ordinari. La questione centrale per una valutazione critica delle
etiche deontologiche è quella di chiederci fino a che punto le si possa seguire
nella loro assunzione che i principi e la coerenza sono il criterio
determinante della vita morale senza che st debba tenere conto delle
conseguenze di un'applicazione di questi principi. Le etiche
deontologiche incontrano in realtà difficoltà insormontabili in quanto si
presentano come la struttura di riferimento di tutte le forme di
fanatismo morale, ovvero di quelle concezioni che ritengono che l'unico
modo per elaborare decisioni e giudizi eticamente validi sia quello di
dedurre coerentemente le implicazioni suggerite da principi considerati
come indiscutibili e non modificabili. Il fanatismo nasce laddove si
spinge la fedeltà ai principi fino a non tenere in alcun conto le
eventuali conseguenze disastrose di questa fedeltà. Le etiche deontologiche
partoriscono quindi spesso moralisti che riaffermano continuamente vecchi
principi che, in realtà, non sono più in consonanza con la vita effettiva
degli esseri umani, Paternalismo e rigidità sembrano essere sul piano
pragmatico alcune delle possibili implicazioni delle etiche deontologiche. Tali
conseguenze sono evitate attraverso l’impegno a formulare elaborate casistiche
che prevedono un'ampia gamma di condizioni in cui si può fare
un'eccezione alle regole, Mentre sul piano psicologico non è infrequente che
tali etiche generino forme più 0 meno estese di ipocrisia per cui regole
e principi assoluti sono enunciati solo verbalmente e in pubblico, ma non
seguiti nelle scelte effettive e in privato. Proprio come
correttivo di questi eccessi formalistici e rigoristici sono state
presentate come più adeguate le teorie etiche che mettono al centro
della vita morale una considerazione delle conseguenze delle azioni. Si
tratta di etiche in cui è centrale la considerazione per la dimensione della
responsabilità. In luogo di una stretta fedeltà ai principi
l'atteggiamento etico è quello di chi è impegnato in una continua
valutazione dei risultati. Si tratta di quelle concezioni dell'etica che già
nel mondo antico, ad esempio con gli stoici, richiamavano l’importanza della
prudenza per rendere conto del nucleo centrale della vita morale, Queste
posizioni conseguenzialiste hanno avuto un grande sviluppo dalla fine del
secolo XIX in quanto sono divenute la struttura portante delle etiche utilitaristiche.
Sul piano logico non è però corretta un’assimilazione tra conseguenzialismo e
utilitarismo. Infatti l'utilitarismo è una delle varie forme che può
prendere il conseguenzialismo, quella che considera come criterio di
valutazione dei risultati la realizzazione del massimo bene per il
maggior numero. Altre forme di conseguenzialismo possono assumere, come
criteri di valutazione dei risultati, concezioni del bene o del valore da
realizzare del tutto alternative rispetto a quella felicifica dell'utilitarismo.
Però proprio la possibilità di distinguere tra utilitarismo e
conseguenzialismo richiama quella che sembra essere la difficoltà principale
delle concezioni conseguenzialiste, ovvero la loro incompletezza. Infatti
una concezione che mette in primo piano per la valutazione morale la
considerazione delle conseguenze delle nostre azioni non sembra in grado di
rendere conto pienamente del giudizio etico, in quanto tale giudizio non
può limitarsi a esaminare quali saranno le conseguenze di certe scelte,
ma dovrà anche valutarle sulla base di ben precisi criteri di valore. Ci
troviamo dunque di fronte alla difficoltà che già richiamava Hume (Hume,
1987: II, 301-311), ovvero che una considerazione delle conseguenze può
informarci solo relativamente ai mezzi e resta poi da valutare del tutto
indipendentemente l'accettabilità dei fini. Ma per quanto possa essere
incompleta, un'etica conseguenzialista richiama su quello che è un
passaggio necessario per le nostre valutazioni e decisioni; la considerazione
appunto di ciò che la loro accettazione comporta. Anche se poi questo approccio
non può esimerci da una valutazione dell’accettabilità o meno dei risultati che
si raggiungeranno. La concezione conseguenzialista dell'etica riesce a
rendere conto delle nostre valutazioni su ciò che è giusto o ingiusto ed
esige di essere integrata con una teoria della bontà o del valore dei
risultati. Per quanto riguarda poi l’uso della distinzione tra
mezzi e fini in etica va anche detto che specialmente nell'ultimo secolo
varie forme di naturalismo etico si sono impegnate nell’approfondire e
render meno semplicistica una considerazione esclusiva dei mezzi come
passaggio obbligato verso i fini, riflutando così di considerare i mezzi come
una dimensione incompiuta della vita pratica. In questa linea si
collocano le analisi di John Dewey nella sua Theory of Valuation (1939, La
teoria della valutazione) che ha insistito nel richiamare l'attenzione
sul processo mediante il quale gli stessi mezzi possono trasformarsi in fini e
nel mettere quindi in crisi una concezione che vede i fini come un
risultato finale, per sostituirvi una prospettiva che nella condotta
umana trova un conzinuute di azioni che da mezzi si trasformano in fini
che a loro volta si trasformano in mezzi ecc. Dall'altra parte vi sono
stati teorici che hanno concepito il conseguenzialismo come
autosufficiente laddove non si considerino i fini come valori intrinseci
o valori in sé, ma piuttosto come valori estrinseci. Il valore intrinseco nell'etica.
Dal punto di vista normativo le diverse
etiche possono essere differenziate anche sulla base del ricorso o meno
alla nozione di valore intrinseco. La nozione di valore intrinseco trova un
uso centrale nell’etica di Moore, ma anche ad esempio sul versante
fenomenologico nell'opera di F. Brentano e poi di Max Scheler (Scheler, 1944:
121-130). Nella seconda metà del XX secolo l’uso di tale nozione nella
teoria etica è stato più volte fatto oggetto di critiche in particolare
da pensatori pragmatisti {su questa discussione è da vedere G. Pontara,
1974, che presenta anche una difesa dell’uso in etica di tale nozione).
Vi sono stati altresì tentativi di delineare una nuova caratterizzazione della
nozione ad esempio da parte di R. Nozick (Nozick, 1987). La
nozione di valore intrinseco è legata al tentativo di dare all’etica una
dimensione oggettiva. Infatti in questo senso Moore (1964) collegava la nozione
di valore intrinseco con quella di «unità organica». Le cose fornite di
valore sono uniche in quanto presentano una unità organica che non è definibile
riducendo l’intero alle sue parti. In questo senso il valore intrinseco è
la contropartita a livello ontologico della tesi gnoseologica che
riconosce nel bene una qualità del tutto unica, semplice e indefinibile.
D'altra parte il riferimento al valore intrinseco fa sì che si consideri il
bene come qualcosa che viene conosciuto come presente nel mondo oggettivo
e non già come un modo di sentire soggettivo. In questo senso Moore riteneva
che le proprietà etiche avessero una loro realtà e sussistessero
indipendentemente dall'essere percepite, La tesi che vi sono
degli interi forniti di valore intrinseco (come ad esempio per Moore le
relazioni personali e le cose belle) permette di identificare il
normativo e l'etico con qualcosa che ha uno statuto peculiare e che
dunque non può essere ridotto a nessuna altra realtà. La posizione che
ammette l’esistenza del valore intrinseco nega che ogni azione possibile sia
fornita solo di valore estrinseco e strumentale e che possa essere
sostituita da qualsiasi altra azione. La concezione del valore intrinseco
si accompagna dunque all’elaborazione di una teoria normativa che riconosce
l'autonomia dell’etica e ritiene anche che vi sia un modo compiuto e
definitivo per fondare le conclusioni dell'etica. Anche
Nozick (1987) usa la nozione di valore intrinseco come mezzo teorico per
arrivare a riconoscere alle realtà al centro dell'etica un'oggettività e
una forza vincolante indipendenti dalle motivazioni individuali. Nozick,
come Moore, collega la nozione di valore intrinseco con quella di unità
organica e anzi propone una gerarchia delle realtà sulla base del diverso
grado di valore intrinseco, nel senso che sarà fornito di maggiore valore
intrinseco quell’intero che connette in modo più organico, ovvero più stretto e
unitario, un maggiore numero di parti differenti. In questo senso la
nozione di valore intrinseco secondo Nozick può essere attribuita a un
gran numero di esseri e permette misurazioni e graduazioni. La
moltiplicazione di esseri forniti di valore intrinseco nella teoria etica
di Nozick è confermata dalla tesi che questo valore può essere creato o
costituito (in quanto «valore contributivo» alla totalità di valore
intrinseco già esistente nel mondo). Nozick poi delinea una precisa lista
di realtà fornite di valori, suggerendo che in particolare sono le
persone e i sé ad avere una maggiore quantità di valore intrinseco e a
poterne creare di nuovo. Riprendendo la gerarchia degli esseri della tradizione
aristotelico-tomistica Nozick indica nella persona umana il vertice tra
le realtà fornite di valore intrinseco nel senso che i sé personali
possono scegliere di costituire unità organiche molto originali e strette,
unificando l’insieme molto differenziato di parti rappresentato dal
fluire delle loro vite. Nozick sembra dunque essersi impegnato a
riproporre su una base laica e empiristica la concezione religiosa e
spiritualistica che indicava negli esseri personali realtà fornite di un
valore intrinseco e non sottoponibili a una valutazione
strumentale. Un'etica che faccia uso della nozione di valore
intrinseco va incontro alla difficoltà di coinvolgere chi la sostiene in
una serie di pretese metafisiche dif ficilmente accettabili una volta
sottoposte a controllo empirico. Così nel caso di Moore la nozione di
valore intrinseco in definitiva rinvia a una struttura essenziale e
sostanziale delle cose buone che può essere direttamente conosciuta solo ricorrendo
a una intuizione niente affatto empirica. Nozick riesce in parte a
depurare la sua utilizzazione della nozione di valore intrinseco da
queste implicazioni ontologizzanti e metafisiche in quanto colloca tutta la
sua teoria non già su di un piano fondazionale, ma piuttosto su quello
esplicativo, Ma procedendo per questa strada non si capisce più perché
sia strettamente necessario usare in etica la nozione di valore
intrinseco. Infatti se rale nozione viene introdotta solo per spiegare
alcune assunzioni e intuizioni che si dà per scontato siano presenti nel
nostro modo di vivere la dimensione etica, potremmo rifiutarla negando di
trovare in noi tali assunzioni e intuizioni, oppure sottoponendo le
assunzioni e intuizioni presupposte a una critica che ne faccia risultare
l’artificiosità e l’inaccettabilità. La nozione di valore
intrinseco può avere un suo uso nel campo dell’estetica quando si tratta di
spiegare il valore di cui una certa opera d’arte come un tutto è fornita,
valore che non è riconoscibile nelle diverse parti che la costituiscono.
Ma sembra difficile accettare come pacifica un'estensione di tale nozione
alla vita morale, In realtà affermando l'imprescindibilità dell'etica
dalla nozione di valore intrinseco si ripropone sotto una nuova forma
l’obiezione che contro le concezioni conseguenzialiste muove chi fa appello
all’ineliminabilità dei principi. Il sostenitore dell'etica dei principi
rimarca che la considerazione delle conseguenze esige comunque una loro
valutazione ticorrendo a principi. In modo analogo chi ritiene
ineliminabile dall’etica l’uso della nozione di valore intrinseco rimarca
che una considerazione etica in termini di valore strumentale rinvia
sempre a qualcosa che è fornito invece di valore intrinseco 0 finale. Con
questo lessico la critica al conseguenzialismo si carica di allusioni
ontologiche, metafisiche e oggettivistiche che è difficile possano avere
un riscontro sul piano dell’analisi empirica, L'etica
giusnaturalistica e la legge naturale. Passando al piano più sostantivo
un'etica normativa chiaramente identificabile è quella giusnaturalistica o
della legge naturale. Abbiamo già avuto modo (cfr. $ 3.4) di sostenere
come il giusnaturalismo e la concezione della legge naturale vadano incontro
a profonde difficoltà epistemologiche, ma resta fermo che anche nel corso
del XX secolo benché con minore
fortuna che nel passato sono
riconoscibili dei sostenitori di un concezione giusnaturalista o della legge
naturale (ad esempio Finnis, 1983), Si tratta di quella posizione etica
che ritiene che gli uomini hanno per natura determinati doveri e obblighi
e che tali doveri e obblighi siano determinabili prima e indipendentemente dal
costituirsi di qualsiasi istituzione giuridica o politica. La
tradizione giusnaturalistica ha avuto, dopo la presentazione da parte di
Tommaso d’Aquino di un’etica cristiana della legge naturale, una ripresa
e una formulazione sistematica nel corso del XVII secolo da parte di
autori come Grozio e Pufendorf. La concezione della legge naturale è
stata poi varie volte ripresentata nei secoli successivi e tuttora
costituisce l'etica prevalente nelle visioni cristiane e religiose. Le
concezioni della legge naturale ruotano intorno al riconoscimento di una
serie di obblighi e di doveri propri della natura umana. Proprio
conseguentemente a questo riconoscimento i teorici della legge naturale
fanno ampio uso del linguaggio dei diritti, anzi possiamo ritenere che la
diffusione nell'età moderna e contemporanea di tale linguaggio sia una
ricaduta del giusnaturalismo del XVII secolo. Va però sottolineato come
sia del tutto differente il ruolo che i diritti hanno nelle concezioni
giusnaturalistiche rispetto a quello che essi hanno nelle teorie etiche dei
diritti propriamente dette. Infatti i diritti affermati da un'etica
giusnaturalistica non sono mai illimitati e assoluti, ma trovano una
delimitazione nell’obbligo o dovere che occorre comunque rispettare
facendo valere il proprio diritto. Le diverse classificazioni dei diritti
rinviano quindi a un contesto di leggi, doveri e obblighi che resta
primario. I teorici della legge naturale concordano nel ritenere
che gli uomini in quanto tali hanno tutta una serie di diritti e doveri
paralleli: ad esempio, l’esistenza di un diritto alla vita da parte di qualcuno
sì accompagna al dovere del rispetto della vita di costui da parte degli
altri. Tra gli obblighi più frequentemente richiamati dai teorici della legge
naturale ricordiamo i doveri verso se stessi, i doveri verso gli altri
(distinguendo in questo ambito tra i doveri verso i propri familiari e i
doveri verso i propri concittadini) e i doveri verso Dio. I doveri verso
se stessi sono spesso identificati con tutta una serie di massime di tipo
prudenziale, sulla base di un più generale principio che considera la
vita umana più specificamente la
propria vita come non disponibile.
All’interno del quadro delle etiche giusnaturalistiche infatti il suicidio è
general mente considerato inaccettabile. Per quanto riguarda
poi la dimensione dei doveri verso gli altri una prima proposta è quella
che distingue tra i doveri in senso più stretto nei confronti dei propri
familiari e i doveri in senso più generale verso i propri simili.
Un'altra distinzione ricorrente tra i teorici del giusnaturalismo è quella
tra doveri perfetti e imperfetti. Ci si trova di fronte a doveri perfetti
laddove a questi doveri non si può disattendere in quanto sono legati a
un corrispondente diritto da parte degli altri e dunque con una qualche
codificazione. Così in questa classe rientra il dovere di non ledere gli
altri o di ottemperare a una promessa o patto sottoscritto. Nella nozione
di lesione si fa spesso rientrare non solo il danno fisico, ma anche il
danno relativo ai beni ovvero alla proprietà. Vi sono invece tutta una
serie di doveri imperfetti: essi riguardano azioni che non siamo sempre
tenuti a realizzare perché gli altri non le possono pretendere da noi
come un loro diritto (ad esempio le azioni mosse da generosità 0
beneficenza); oppure si tratta di doveri speciali legati al partico. lare
posto che si occupa, ovvero al ruolo professionale, o al ruolo
nella famiglia (padre, madre, figlio ecc.), o alla carica che si ricopre
nella società. Non mancano tentativi fatti dai teorici della legge
naturale specialmente nel XVII secolo con Grozio, Pufendorf, Althusius e
Thomasius (Bobbio, 1980) di esporre in forma compiuta e sistematica tutto
il codice di obblighi e doveri. I teorici della legge
naturale riconoscono uno statuto del tutto peculiare al dovere nei
confronti del governo o dello Stato, ovvero al dovere di obbedienza 0 lealtà
nei confronti delle leggi del proprio paese. Ma proprio la riflessione intorno
a questo dovere, alla sua assolutezza o ai suoi limiti, segna nel corso
del XVII secolo il processo di crisi per l'etica della legge naturale. Infatti
Hobbes mette in luce la difficoltà di conciliare all'interno di un'etica
della legge naturale due distinte esigenze entrambe considerate essenziali:
da una parte il dovere di obbedienza al governo e dall'altra un qualche
diritto a resistere al governo ingiusto. Hobbes indicava la soluzione nel
rimettere al governo attraverso il patto tutti i diritti e dunque
complessivamente anche il diritto di resistenza, lasciando però
all'individuo la possibilità di salvare con la fuga la propria vita
quando in pericolo. La concezione giusnaturalistica dunque è
entrata in crisi non solo sul piano epistemologico (cfr. $ 3.4), ma anche
per la sua incapacità di fornire soluzioni pratiche effettive ai problemi
etici che di volta in volta si sono presentati agli uomini. Quanto più le
condizioni di vita degli esseri umani sono andate collocandosi in un
ambiente artificiale, tanto meno il richiamo alla natura è risultato decisivo e
chiaramente comprensibile. Non solo il dovere di resistenza del cittadino
nei confronti dei governi ingiusti o delle guetre ingiuste è risultato
inderivabile da una presunta legge naturale, ma molti dei doveri a cui
rinviava la legge naturale sono apparsi desueti o inutili o lacunosi
quando le condizioni di vita si sono andate trasformando radicalmente nel
corso di un processo di civilizzazione che ha segnato il prevalere di
condizioni artificiali di vita. Si pensi, ad esempio, alle profonde
trasformazioni che hanno subito le relazioni familiari. Da queste
trasformazioni deriva la vuotezza di quelle concezioni che pensano di
potere risolvere i conflitti facendo appello a ciò che è naturale. Le
questioni legate alle relazioni familiari o ai rapporti tra i sensi non
trovano certo più una soluzione ovvia e condivisa rinviando a una
presunta famiglia naturale ideale o a un comportamento appropriato e lodevole
secondo un qualche modello naturale di padre, madre, figlio e dei rispettivi
doveri. Ancora, per cogliere le difficoltà a cui va incontro il giusnaturalismo
si pensi come al suo interno sia arduo trovare risposte per i problemi
che nascono con le nuove professioni o le nuove responsabilità etiche
(pensiamo a chi si occupa di gestione o trasmissione delle informazioni o
delle immagini, o a chi si occupa di terapia delle malattie mentali). L'etica
della legge naturale pretende di trovare nella natura umana da sempre e
per l'eternità doveri e diritti relativi a condizioni e situazioni che
solo cinquant'anni fa erano inimmaginabili. Né una riduzione a una
presunta essenza della condizione umana può risolvere queste difficoltà in
quanto per questa via le norme ricavate dalle leggi naturali si
presentano con una formulazione tanto astratta e generica da risultare
del tutto inefficaci. Proprio perciò la tradizione giusnaturalistica si è
andata sempre più svuotando della sua forza pratica e l'appello alla
legge naturale è divenuto solo uno strumento retorico e ideologico, unito
alla reiterazione di regole (spesso del tutto incapaci di guidarci) molto
generali quali «non uccidere», «non rubare» ecc. 44. L'etica
contrattualistica e le sue forme. Il
contrattualismo come teoria etica fu elaborato inizialmente nel corso del
XVII secolo proprio come superamento del giusnaturalismo cristiano e
medievale. La possibilità di indicare nella natura umana un fondamento adeguato
per l’etica veniva messa in crisi da Hobbes indicando la completa
assenza, nella natura originatia degli uomini, di tendenze che rendessero
possibili la pace, l'ordine e la cooperazione sociale. Proprio in quanto la natura
umana immaginata in uno «stato di natura» è incapace secondo Hobbes di
dare fondamento alla distinzione tra il bene il male, tra il giusto e
l'ingiusto, queste distinzioni vanno collegate a una procedura
artificiale che coincide con il contratto. Il contratto fu ampiamente usato nel
corso del XVII secolo come criterio etico decisivo da autori molto diversi tra loro come Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Locke
{Gough, 1986). Un tratto tipico comune del contrattualismo del XVII
secolo sta nel fatto che il contratto è presentato come un criterio che
può riuscire a fondare solo una parte del contenuto dell'etica quello che ha a che fare con le leggi
giuridiche e con le istituzioni politiche , ma non la totalità dell'etica e
în particolare non può rappresentare un criterio adeguato per fondare la
morale nel senso stretto in cui ne trattiamo in questo scritto. Proprio
perciò i teorici nel XVII secolo, al di lì dello spazio garantito dal
contratto, rinviano a una diversa base come fondazione per la morale
propriamente detta. Ad esempio nella teoria di Hobbes troviamo che o secondo la maggior parte dei suoi
interpreti vi è una completa assenza di
morale nello stato di natura e prima del patto che dà vita all’ordine
civile, oppure ad esempio secondo H.
Warrender (1974) la morale viene fatta
dipendere dagli ordini di Dio, o infine ad esempio secondo Bobbio (1989) la si fa dipendere da un calcolo
prudenziale. Pufendorf e Locke invece ritengono che il contrattualismo
per quanto riguarda l'obbligo giuridico e politico possa (e debba) essere
accompagnato dall'accettazione del giusnaturalismo per quanto riguarda
l’obbligazione morale propriamente detta. Una prospettiva che restringe la
portata della procedura artificialistica del contratio è presente anche
in un autore come Jean-Jacques Rousseau che pure indica, nel contratto
sociale (Rousseau, 1966), l’unica via per correggere le distorsioni
generate dalla corruzione prodotta dallo sviluppo della società e ricostituire
così condizioni etiche più consone alla natura degli uomini (Rousseau,
1988). Solo con il XX secolo il contrattualismo si è presentato come
criterio etico generale non ristretto alle situazioni di pertinenza del
diritto e della politica. È infatti con Rawls e la sua «teoria della
giustizia» (Rawls, 1982) che la concezione contrattualista viene proposta come
strategia adeguata per individuare i principi etici in generale. Va però
rimarcato che il «contrattualismo ideale» di Rawls riesce a funzionare da
criterio generale per l’etica solo in quanto si delinea come una procedura che
ha incorporato in sé un altro requisito ritenuto caratteristico
dell’etica: quello dell’imparzialità o dell'assunzione di un punto di
vista generale. Abbiamo già indicato (cfr. $ 3.8) i limiti del
contrattualismo di Rawls per quanto riguarda le procedure epistemologiche
a cui si richiama; sul piano normativo va rilevato che tale criterio è in
grado di indicare soluzioni ad esempio
nella distribuzione dei beni disponibili solo in quanto tutti coloro che sono
coinvolti accettano già alcuni vincoli. Perché la procedura contrattualistica
possa risultare decisiva bisogna, dunque, ritenere che ci sia già un
qualche accordo nel considerarsi cittadini di una stessa comunità;
oppure, in alternativa, bisogna ritenere che ci sia un’armonia prestabilita
(un residuo del provvidenzialismo settecentesco) che garantisce la
confluenza degli interessi individuali nel bene generale. Proprio come
correttivo di queste limitazioni Gauthier ha presentato una procedura
delineata come una forma di «contrattualismo reale» (Gauthier). Questa
strategia si sforza di mostrare che un certo esito identificato come un
equilibrio di contrattazione risulta per tutti coloro che sono coinvolti più
conveniente in termini di soddisfazioni personali. Resta però da dire che in
questo caso il criterio etico decisivo sembra presentarsi al di lì del contratto in una sorta di «egoismo razionale» che
accetta i vincoli di una contrattazione come mezzo migliore per
l'ottimizzazione di risultati anche dovendo fare conto su eventuali sostegni o
ostacoli da parte degli altri (cfr. $ 3.3). In generale dunque il
contrattualismo presenta un criterio normativo che non è in grado di
esaurire nella sua interezza lo spazio dell'etica, ma che ha bisogno di
rinviare a criteri aggiuntivi (imparzialità o egoismo razionale) ove lo
si voglia fare valere al di là del piano giuridico e politico. Un'etica
dei diritti. Anche l'etica dei diritti
si è andata sviluppando nella cultura moderna e contemporanea come un
correttivo della concezione giusnaturalistica. Una prima fase dell'etica dei
diritti nel corso del XVII secolo fu la via attraverso la quale si cercò
dì garantire la sfera di autonomia delle persone nei confronti dell'intervento
della legge e del potere politico. I diritti che vengono fatti valere sul piano
etico si presentano dunque prevalentemente come diritti negativi e di
libertà contro l’ingerenza di un potere esterno. Così, da una parte, autori
come Hobbes e Locke si fermarono a lungo sui diritti negativi alla
autoconsetvazione e alla proprietà dei beni ed altri autori come ad esempio Anthony Collins (1990) e in generale i free-tbinkers cercarono di far valere il diritto alla
libertà di pensiero. Il processo teso a garantire i diritti negativi ebbe esito
sul piano storico con le varie Dichiarazioni dei diritti degli Stati
Americani (1776-1789) e con la Dichiarazione dei diritti della Rivoluzione
francese (1789; cfr. Cassese, 1988). Nel corso del XIX secolo e
nella prima metà del XX vi è stata una contestazione della teoria etica dei
diritti, da una parte dagli utilitaristi sul piano epistemologico e,
dall'altra, dai marxisti sul piano di una critica storico-sociale. Ma come rileva Brenda Almond (Almond, 1991} una ripresa dell'etica dei diritti si è avuta
dopo la seconda guerra mondiale in particolare come reazione alla
soluzione finale e al penocidio voluto dai nazisti. Si è così assistito a
un progressivo ampliamento dell'etica dei diritti fino al punto che
Bobbio ha potuto indicare come adeguata per la nostra epoca l’espressione
di «età dei diritti» (Bobbio, 1990). Infatti più recentemente hanno fatto
ricorso al linguaggio dei diritti anche quelle concezioni che in
precedenza lo avevano criticato, come ad esempio l’utilitarismo che l'aveva riftutato come del tutto
privo di sensatezza o l'etica cattolica che l’aveva attaccato come espressione
del trionfo di una mentalità moderna anarchica e priva di eticità. Nella
seconda metà del secolo XX si è altresì assistito a una espansione della
sfera dei diritti affermati come degni di salvaguardia. Infatti la più
recente etica dei diritti non si limita più a rivendicare i tradizionali
diritti negativi ma ha esteso le pretese anche a tutta una serie di
diritti cosiddetti positivi (ad esempio alla salute, all'educazione, ad
un lavoro ecc.). Ma in questa sede non possiamo limitarci a prendere atto
della larga diffusione a livello di opinione pubblica del linguaggio dei
diritti; dobbiamo piuttosto impegnarci a identificare e valutare criticamente
le concezioni teoriche che hanno visto nell’affermazione dei diritti il
criterio etico fondamentale. Nel corso del secolo XVII laddove i
sostenitori della legge naturale preferivano richiamare sul piano etico il
primato dei caratteri essenziali della natura umana intesi in modo complessivo,
o per così dire olistico, i sostenitori di un'etica dei diritti pur conservando la convinzione di una legge
naturale o divina che fonda in modo assoluto l’etica facevano proprio sia pure in modo grezzo e schematico il quadro teorico dell'individualismo
metodologico. Muovendo da questa prospettiva, almeno per una parte della storia
dell'etica dei diritti possiamo accettare il quadro esplicativo proposto da
autori come L. Strauss (1990) e C. B. Macpherson (1973) che identificano
questa storia con quella della lotta di una nuova classe in ascesa la borghesia 0 ceto medio, ovvero il
ceto di produttori per giungere a un
ticonoscimento delle sue esigenze da parte della legge o del potere
politico. Dunque una prima fase dell'affermazione dei diritti fu rivolta
a far valere pretesi diritti naturali degli uomini contro lo strapotere
della legge e dello Stato. Si tratta di quella fase che possiamo ritenere
conclusa con le Rivoluzioni americana e francese in cui si affermano i
diritti negativi alla vita, alla libertà, all'autonomia, alla resistenza, alla
proprietà ecc. In questo quadro, oltre ai teorici del liberalismo
settecentesco, possiamo collocare anche autori che, come Rousseau, sono
impegnati a recuperare una serie di esigenze naturali degli uomini contro le
limitazioni progressivamente delineatesi nella storia della corruzione
umana. Nel corso del XX secolo invece i fautori dell'etica dei
diritti hanno cercato, sempre su un piano morale o pregiuridico e prepolitico,
di argomentare a favore del riconoscimento di una serie di esigenze
minime che gli esseri umani avrebbero in quanto tali e che le collettività
dovrebbero garantire con le loro istituzioni e forme di vita organizzate.
Tra questi diritti positivi rientrano ad esempio quelli alla salute, al lavoro,
a una casa o più genericamente alla liberazione dalla povertà o
addirittura al benessere o alla felicità. Laddove nella prima fase erano
i diritti dell’individuo o del cittadino che si cercava di considerare
come criterio decisivo dell'etica, nella fase più recente si prendono a guida
piuttosto i diritti della persona umana più ampiamente intesa. Va però
rilevato che ci si trova di fronte a una sorta di contrasto 0 incompatibilità
tra l'affermazione dei diritti negativi e quella dei diritti positivi.
Come ha più volte sottolineato Bobbio (1990) l'espansione dei programmi
di difesa dei diritti sociali o positivi (a parte le difficoltà di
concordare una lista precisa dei diritti da includere in questo programma
e di convergere su una loro gerarchia) non può che essere realizzata dando al
potere politico e giuridico una qualche autorità per limitare
eventualmente i diritti negativi individuali che, se illimitati, non
permettono il raggiungimento per tutti i membri di una società dei diritti
sociali. Dal punto di vista teorico nel nostro secolo l'appello ai
diritti è stato collegato, sul piano fondazionale, non solo con la legge
naturale, ma anche con altre strategie etiche. Non è mancato chi ha
cercato di fondare i diritti in un quadro generalmente contrattualistico
(ad esempio Rawls, 1982), o di recupecarne un qualche riconoscimento anche in
un quadro utilitaristico (ad esempio Hare, 1989), anche se in queste concezioni
i diritti non hanno più una collocazione primaria e originaria ma solo un
ruolo sussidiario e derivato. Non sono poi mancate profonde divaricazioni
per quanto riguarda il tipo di tradizione etico-politica al cui interno
sono state calate le affermazioni dei diritti. Da una parte si è fatto ricorso
alla tradizione liberale che ha piuttosto insistito sui diritti negativi
degli individui nei confronti della società civile e spesso contro lo
Stato (così da I. Berlin, 1989, fino alle posizioni anarchiche di R.
Nozick, 1981). Dall'altra si colloca la strategia che ha trovato espressione nei movimenti
democratici e socialisti e in forma più totalitaria nei regimi comunisti che in nome della realizzazione dei diritti
sociali dei cittadini ha proposto limitazioni più 0 meno estese delle libertà
negative. Una storia del progressivo espandersi e modificarsi delle
rivendicazioni dei diritti può essere una strada molto fertile per
ripercorrere la storia della morale e del costume sociale nelle società
occidentali, ma non permette di arri. vare a identificare un preciso
criterio etico. In questa direzione già Bentham mostrava le fallacie e le
insufficienze di una teoria etica dei diritti che a suo parere non poteva
che confluire in un'etica della legge naturale e dunque in una forma di
etica autoritaria o dell’ipse dixit {Bentham, 1981). Un'alternativa alle
concezioni giusnaturalistiche che può essere percorsa dall’etica dei
diritti è quella che, secondo alcuni interpreti, sarebbe propria di
Hobbes, il quale identifica i diritti con le prerogative che ciascuno
individuo si trova di fatto ad avere a ragione delle sue condizioni
storiche, del suo status sociale, delle sue capacità, forza ecc. Una
impostazione che però rende praticamente impossibile un qualche bilanciamento
dei titoli che qualsiasi individuo può far valere come decisivi.
Ovviamente si presentano qui come insolubili pretese confliggenti di diritti in
una condizione come quella umana nella quale per la scarsità delle
risorse e i vincoli emotivi degli esseri umani non sono contemporaneamente
soddisfacibili tutte le esigenze di tutti. L'etica dei diritti
manifesta la sua maggiore inadeguatezza sul piano critico e teorico
proprio nella seconda metà del XX secolo, quando realizza il maggiore successo
dal punto di vista della sua diffusione come forma di discorso prevalente
nell'opinione pubblica. Infatti proprio in questo periodo vi è stato un
fiorire di nuovi diritti ed un indubbio processo di democratizzazione (ovvero
di allargamento della base di coloro che avanzano le pretese di diritti),
fenomeni che ben lungi dal risolvere problemi etici ne hanno fatto sorgere
di nuovi. Abbiamo assistito, proprio come conseguenza del prevalere
della forma di rivendicazione etica che fa appello ai diritti, a un
riacutizzarsi dei contrasti in campi quali quelli della nascita, della
morte, della cura, dell’ambiente, del trattamento degli animali, della considerazione
delle generazioni future ecc. Da un punto di vista puramente descrittivo e lasciando sospeso il giudizio di
merito su questi fenomeni si può
rilevare una crescita esponenziale di nuovi soggetti di diritti e di diritti
che ciascun soggetto avanza con la pretesa che siano riconosciuti da
tutti e salvaguardati dalle istituzioni politiche e giuridiche. Dietro questo
diffondersi delle pretese ai diritti, invece, da un punto di vista
teorico e fondazionale restano valide le strategie del passato con cui si
era già cercato di giustificare il primato dei diritti presentandoli, di volta
in volta, come una pretesa di verità (White, 1984), uno strumento emotivo
particolarmente persuasivo (Hagerstròm, 1953), una sorta di «asso di briscola»
(Dworkin, 1982), un titolo richiamato come valido (Nozick, 1981), Ma il
tentativo di costruire una qualche etica dei diritti come risolutiva va incontro
a difficoltà insuperabili quando si tratta di fornire criteri sicuri per
decidere quali nuovi diritti riconoscere effettivamente come meritevoli di
codificazione giuridica o di tutela morale. Non diversamente, il contesto
teorico dell'etica dei diritti non è in grado, di fronte a casi concreti,
di offrire una strada argomentativa per superare contrasti e conflitti
proprio relativamente a diritti da riconoscere convergentemente. Per
questi suoi limiti epistemologici l’etica dei diritti si presenta, più
che come una teoria valida e coerente, come una retorica pubblica
largamente usata oggi nella nostra cultura. 4.6. L'etica kantiana
e la persona umana. Un modello del tutto
peculiare di etica normativa è quello che si trova negli scritti di Kant. Come
ha sottolineato Frankena, nel caso di Kant ci troviamo di fronte a una
ben precisa forma di «deontologismo della regola» {Frankena, 1981).
L’universalità richiamata dall’etica kantiana si collega, su un piano
epistemologico, con una forma di intuizionismo che attraverso la via del
trascendentalismo sfocia in un realismo etico che esclude la possibilità
di conciliarlo con una meta-etica noncognitivistica. Va così rifiutato il
tentativo di Rawls {Rawls, 1980) di trovare in Kant un'etica
sostanzialmente costruttivistica e puramente procedurale. La legge
etica di fondo dell’etica kantiana ovvero l'imperativo categorico «agisci in modo
che la massima della tua volontà possa valere nello stesso tempo come
principio di una legislazione universale» (Kant, 1970a: 167) si presenta come decisiva e capace di
indicare le soluzioni dei diversi conflitti e disaccordi etici. Ma è
proprio questo universalismo dell’etica di Kant che è stato più
frequentemente criticato. L'etica kantiana si presenta secondo i critici come
una mera etica della coerenza formale e propria di una volontà che per
rendersi il più universale possibile si depotenzia, si svuota di contenuti e
si rende del tutto incapace di incidere in qualche modo sulle effettive
opzioni presenti nelle situazioni reali. La comprensione
della proposta etica kantiana passa attraverso una più precisa
individuazione della natura dell'imperativo categorico. In Kant si tratta
di una massima che è universalizzabile solo se può essere voluta senza
contraddizione come legge universale, cioè se e solo se qualcuno può
volere, senza incoerenza nella volontà, che ognuno adotti questa massima
e agisca secondo essa. L’universalizzabilità in questo senso «è la prova
dell’accettabilità morale di una massima dell’azione e conseguentemente della
condotta» (cfr. M. G. Singer, 1985: 55). Per Kant l’universalità è un
principio morale e come tale non ha molto a che fare con
l’universalizzabilità che Hare riconosce come carattere proprio dei
giudizi morali, in quanto tale carattere, almeno nelle prime affermazioni
che ne fa Hare (cfr. $ 2.6), si presenta come una tesi sulla logica del
discorso morale. Ma per rendere conto adeguatamente dell’etica
normativa kantiana non ci si può limitare alla componente
universalistica. Vi sono altri tratti che la rendono storicamente
riconoscibile, e almeno altre due tesi ne rappresentano il nucleo
essenziale: il complessivo approccio rigoristico a preferenze, desideri e
passioni umane; l'affermazione della centralità morale della persona.
Nel caso dell’etica kantiana la legge morale e gli imperativi categorici
nascono proprio negando in nome della
libertà interessi egoistici e desideri
individuali e non già rendendo possibile, con il fare valere punti di
vista imparziali e generali, una loro conciliazione. Uno degli aspetti
caratteristici dell'etica normativa kantiana sta nel riprendere il
discorso delle etiche ascetiche cristiane che indicavano un'incompatibilità tra
la ricerca del proprio benessere e il piano morale. In questa linea l’etica
kantiana non si spinge solo a fissare una distinzione tra il cosiddetto
piano prudenziale e il piano etico, ma procede fino a prescrivere la
salvaguardia di un piano morale che nega recisamente contrapponendovisi tutta l'impostazione delle etiche
eteronome che fanno del benessere il fine delle azioni umane. Proprio in
questo senso l'etica di Kant si presenta come un'etica del dovere e della
scelta responsabile e razionale della legge universale, in contrasto con
qualsiasi tendenza a considerare la felicità individuale come obiettivo finale
dell'etica. La posizione kantiana si presenta, dunque, come del tutto
alternativa rispetto a quella fatta valere sempre più decisamente nella
tradizione empiristica da Hume
all’utilitarismo, al prescrittivismo universale secondo la quale solo desideri,
sentimenti e preferenze sono in grado di motivare le scelte (etiche o non
etiche) e la ragione invece risulta inefficace su questo piano, Non bisogna
per dere di vista questa componente dell'etica kantiana che rende del
tutto eccentrici aleuni tentativi contemporanei ad esempio quelli di J. Rawls e R. M,
Hare di conciliare l’universalismo
kantiano con un bilanciamento dei desideri e delle preferenze effettive di
coloro che sono coinvolti. Kant rifiutava tutte quelle etiche che
facevano discendere la determinazione della moralità da motivi diversi da
quelli propriamente etici. La sua teoria è del tutto in linea con
l'affermazione nella cultura moderna e contemporanea dell'autonomia della
morale. In particolare Kant rifiutava come eteronome tutte quelle etiche che
assimilavano il bene morale a qualcosa che dipendeva o dall'educazione
(Montaigne), o dalle leggi civili (Mandeville), o dal sentimento fisico
(Epicuro), o dal senso morale (Hutcheson), o dalla perfezione oggettiva (Wolff
e gli stoici), o dalla volontà di Dio (Crusius e altri moralisti teologici;
Kant, 1970a: 178). Secondo Kant l’amore di sé, i sentimenti e le preferenze
personali non sono in grado di costituire il punto di vista morale:
laddove l’azione è motivata da questi scopi essa è chiaramente eteronorna
e dunque non morale. Solo una legge della ragione può motivare
autonomamente. Nel primo caso si hanno solo imperativi ipotetici e
precetti prudenziali, mentre nel secondo caso si giunge agli imperativi
categorici morali nella loro peculiarità. La concezione etica kantiana
infine riconosce un posto centrale alla persona. Kant presenta una
caratterizzazione della persona umana in termini essenzialistici e semplici
ovvero come qualcosa che ha una sua realtà sostanziale continua e
inconfondibile {tra l'altro che sopravvive alla stessa morte}, anche se
questa realtà sfugge alia nostra conoscenza e si presenta come collocata
sul piano noumenico. Ecco ad esempio una definizione dell’essere umano,
non priva di implicazioni assiologiche, offerta da Kant nella
Axtoropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst (1798, Antropologia dal punto
di vista pragmatico): «Che l’uomo possa avere una rappresentazione del proprio
io, lo innalza infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri
viventi sulla terra. Perciò egli è una persona e, grazie all'unità della
coscienza in tutti i mutamenti che subisce, una sola e stessa persona»
(Kant, 1970a: 547). Malgrado alcune limitazioni epistemologiche
nell’affermazione di un personalismo essenzialistico Kant considera
decisamente come tratto definiente della persona umana che è l'unico soggetto-oggetto
dell'universo morale la sua razionalità.
La centralità della nozione di persona nell’etica kantiana risulta esplicita in
una delle formulazioni dell'imperativo categorico che suona: «agisci in
modo di trattare l'umanità nella tua persona come nella persona di ogni
altro sempre come fine e mai soltanto come mezzo» (Kant, 19704). Proprio
sulla base della persona è fondata la tavola dei doveri presentati in Die
Merapbysik der Sitten (1797, La metafisica dei costumzi). Kant riprendeva
le distinzioni avanzate dai giusnaturalisti (in particolare Pufendorf e
Thomasius) tra doveri positivi e negativi (che si intreccia con quella
tra doveri verso Dio, verso gli altri e verso se stessi), riformulandola
come una distinzione tra doveri perfetti {quelli verso se stessi
stabiliti da massime universali per le quali persare un'eccezione equivale a
una contraddizione) e doveri imperfetti (doveri verso gli altri in cui la
contraddizione si presenta laddove vogliazzo un'eccezione) (Kant, 1970b:
269-374). Le critiche alla concezione kantiana dell'etica sono
state mosse lungo diverse linee. Ricordiamo quelle che ci sembrano più
decisive: la mera forma dell’universalità o è vuota 0 può essere
soddisfatta dalla coerenza e fedeltà verso qualsiasi valore anche
negativo; l’uso dell'autonomia dell’etica in chiave rigidamente
rigoristica rende del tutto astratta e ininfluente la norma kantiana che
non potrà includere nessuno dei desideri effettivi di esseri umani
concreti. Inoltre, l'ancoraggio dell'etica da parte di Kant alla persona
razionale comporta per la sua prospettiva alcuni limiti: non può essere estesa
a rendere conto di situazioni etiche in cui siano presenti esseri non
razionali (animali, ambiente ecc.); resta pur sempre un residuo di
colorazione egoistica in una prospettiva che si muove esclusivamente in
un contesto di persone in qualche modo distinte e separate l'una
dall'altra. Quest'ultima critica è stata fatta valere in particolare da Parfit
(1989). La tesi è che solo un quadro concettuale che come quello elaborato da Parfit dia una spiegazione riduzionistica e
complessa per quanto riguarda la natura dell'io e della persona potrà
permettere di non considerare le singole persone umane come unità di misura
finale pes l'etica. Dunque solo chi sappia liberare la morale dai confini
ontologici della persona umana potrà porre le basi per la costruzione di
un'etica effettivamente universalistica e altruistica. 4.7. Le
etiche utilitaristiche. Una concezione
etica molto diffusa e fortunata è quella utilitaristica. Si può trovare un
appello generico all’utilità come criterio di scelta etica in molti
pensatori dall’antichità ai giorni nostri. Ma prendendo in esame
l’utilitarismo propriamente detto facciamo riferimento a quelle concezioni che
riprendono da Bentham lo sforzo di sviluppare, in termini precisi e rigorosi,
un criterio di scelta e valutazione morale con al centro l'utilità, a sua
volta definita ricorrendo a nozioni quali piaceredolore, felicità-infelicità,
soddisfazione di preferenze ecc. La storia dell’utilitarismo, anche in questo
senso più stretto e determinato, è molto ampia e non si può qui
ripercorrerla se non in modo sommario limitandosi a delineare alcuni dei
filoni principali in esso riconoscibili. Nel rendere conto delle
varie forme di utilitarismo proviamo a differenziarle sulla base della diversa
caratterizzazione che viene offerta della nozione del bene che alla fine
si deve ottenere. La nozione di utilità è, infatti, sempre ricondotta ad
una più determinata nozione di bene che identifica con più precisione in
che cosa risiede l'utilità che va massimizzata. Un'altra linea di
distinzione che sviluppererno in questo paragrafo è quella tra le concezioni
che applicano il criterio utilitaristico alle singole azioni o agli atti
particolari e quelle che viceversa fanno valere tale criterio per le regole o
norme in generale. Occorre precisare preliminarmente una precisazione particolarmente
necessaria in una cultura come quella italiana in cui l’utilitarismo, ben
lungi dall'essere studiato e discusso, è aprioristicamente liquidato e
stigmatizzato come una forma di egoismo del tutto inconciliabile con la
moralità (è ancora l'atteggiamento avanzato da Alessandro Manzoni nelle
sue Osservazioni sulla morale cattolica nel 1819 a fare testo) che l'etica utilitaristica va tenuta
nettamente distinta dalle cosiddette concezioni egoistiche. È tipico dei
fautori dell'etica utilitarista fare riferimento a un’utilità che non
riguarda mai il singolo agente, ma che riguarda a seconda della formula privilegiata la massima utilità generale, l’utilità
del maggior numero, l’utilità di tutti, l'utilità di tutti coloro che
sono coinvolti ecc. Si possono individuare diverse concezioni dell’utilitarismo
anche tenendo conto della prospettiva sottoscritta per quanto riguarda
l'universo dei soggetti da tenere presente nel calcolo utilitaristico. Vi è la
tendenza a considerare la massima utilità che va cercata come
coinvolgente tutti coloro nei quali può essere rintracciato il tipo di stato
mentale che va massimizzato, che si tratti di piacere, dolore, preferenze,
desideri o altro. Proprio in questo senso è tipico dell'utilitarismo il
presentarsi come una concezione della morale che estende la sua portata
anche al di là dell’ambito delle persone umane, fino a coinvolgere tutti
gli esseri viventi in cui si trovi lo stato mentale (ad esempio la
sofferenza o il piacere) che il criterio deve minimizzare o massimizzare con il
corso di azione prescelto. Già in Bentham {Bentham) era presente quell'apertura
a una considerazione etica del mondo animale che troviamo poi largamente
sviluppata nell’utilitarismo contemporaneo. Per quanto riguarda la
caratterizzazione del bene che va massimizzato una differenza classica è
quella tra concezione edonistica che distingue tra i piaceri solo su basi
quantitative e quella che riconosce differenze qualitative. Così in
Bentham troviamo sviluppata l’idea che la misurazione quantitativa del piacere
€ del dolore è l'unico criterio in grado di dare una base esterna, valida
e pubblicamente discutibile, alle prese di posizione etiche. Bentham
quindi critica tutte le etiche alternative all’utilitarismo in quanto inclini a
far valere un criterio del rutto arbitrario in morale. La formulazione di
un criterio di misurazione della quantità del piacere, in gioco in corsi di
azione che coinvolgono più esseri senzienti, non è priva di difficoltà.
Proprio sull’inadeguatezza, ad esempio, del criterio offerto da Bentham
si sono concentrate le critiche degli avversari dell’utilitarismo. Si è
rilevata tra l’altro l'impossibilità di ridurre a una base unica piaceri
diversi e l'impraticabilità di quei confronti interpersonali di piacere e
dolore che sarebbero necessari. Resta poi anche costante la critica che
la ricerca del solo obiettivo della massimizzazione dei risultati sembra
lasciare completamente da parte le esigenze di una distribuzione giusta
del bene massimizzato. Considereremo eticamente preferibile un corso di
azione che realizza un incremento della quantità di piacere, anche se
questo risultato si accompagna a una distribuzione del tutto iniqua di
tale piacere o benessere e addirittura accentua la distanza tra individui
che ottengono grandi quantità di piacere e individui che ne ottengono una
ridottissima. Dunque vi sarebbe un’opacità di fondo dell'utilitarismo
rispetto a questioni di giustizia distributiva, e più in generale a
questioni di diritti. Una diversa forma di utilitarismo fu
delineata da John Stuart Mill in Ut litarianism in parte già come
risposta a queste critiche e difficoltà del particolare edonismo di
Bentham (Mill, 1981b). Le variazioni più significative riguardano
l’introduzione di una distinzione qualitativa tra piaceri e un'insistenza sul
principio che ciascun individuo è sovrano nella determinazione delle
proprie gerarchie di piacere e che le sue opzioni laddove non procurino danno agli altri vanno incorporate nel criterio utilitaristico.
Mill nei suoi scritti non si limita ad assumere come rilevante la
distinzione qualitativa tra piaceri più elevati e più bassi, ma sviluppa
anche una tecnica con l’aiuto della quale risolvere eventuali contrasti,
e ciò che più conta usa questa distinzione per proporre sostanziali innovazioni
del costume morale a proposito del trattamento delle donne, della
questione dei lavoratori manuali, della povertà e della scelta
responsabile delle nascite. Per quanto riguarda i contrasti relativi ai
piaceri qualitativamente diversi coinvolti Mill ritiene che essi possano
essere risolti facendo appello all'opinione che si esprime nella discussione pubblica con
l'approvazione o la disapprovazione morale di coloro che conoscono tutte le forme di
piacere in gioco. La posizione di Mill per quanto riguarda la distinzione
qualitativa dei piaceri è stata spesso criticata e denunciata come
contraddittoria, in quanto mescolerebbe due differenti criteri di
valutazione (cfr. Musacchio, 1981). Occorre ammettere che Mill presenta
un’etica mista, ovvero che unisce due diversi criteri di scelta e di
decisione, ma non.va data come ovvia e scontata l'inaccettabilità di una
posizione normativa che cerchi di conciliare due distinti principi ad esempio
facendoli valere a diversi livelli etici. Ma la grande svolta nella
storia dell'utilitarismo è segnata da quel momento in cui il criterio passa a
prendere in considerazione non tanto le componenti del piacere e del dolore,
quanto, più genericamente, le preferenze di coloro che sono coinvolti
nelle situazioni in esame. L'utilitarismo delle preferenze che si sviluppa in
particolare nel secolo XX realizza uno spostamento decisivo del criterio
che non pretende più di fare riferimento a una unità di misura comune e
oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto accettando come tutte di
eguale valore le preferenze dei diversi soggetti coinvolti e dunque
identificando come giusto quel corso di azione che massimizza la soddisfazione
delle preferenze quali che siano. Le preferenze possono tendere verso
oggetti completamente diversi e dunque l’utilitarismo delle preferenze
dispone di uno strumento di valutazione etico più flessibile, recuperando
e ampliando in un senso ancora più
liberale e individualistico quell’esigenza di pluralismo fatta valere da
Mill contro il riduzionismo oggettivistico e paternalistico
dell’utilitarismo di Bentham (Harsanyi, 1988 e Hare, 1989).
L'utilitarismo delle preferenze è stato poi elaborato nel tentativo di
trovare una risposta per numerose questioni dell’etica teorica; in
particolare sono stati messi a punto criteri per distinguere preferenze
di ordine diverso, quali quelle antisociali di un sadico e quelle
benevole o altruiste. Così John Harsanyi (Harsanyi, 1985: 75-126} ha
considerato rilevanti per l'etica solo le preferenze benevole considerate
imparzialmente, mentre Hare ha identificato come eticamente significative le
preferenze universalizzabili (Hare, 1989). Infine non sono mancati
utilitaristi che hanno proposto complesse tecniche di valutazione critica delle
preferenze: ad esempio Brandt ha proposto di accettare, dopo averle
sottoposte a una sorta di vaglio terapeutico, le sole preferenze
razionali ovvero basate su desideri non egoistici e pienamente informati
(Brandt, 1979). Anche la storia dell’utilitarismo mostra dunque come, a
livello teorico, prevalga l’elaborazione di concezioni miste. Nel caso
specifico al criterio della massimizzazione si affianca quello della selezione
delle preferenze in base alla loro universalizzabilità formale o
imparzialità sostanziale. Malgrado questi tentativi di evitare il
riduzionismo, l'utilitarismo è stato insistentemente attaccato (Smart e
Williams, 1985; A. Sen e B. Williams, 1984) contestando la legittimità di
un approccio che considera come decisive le preferenze che di fatto un
certo individuo si trova ad avere. Procedendo in questo modo
l’utilitarista non terrebbe conto che le preferenze esistenti possono essere
indotte dall'esterno o comunque niente affatto adeguate ai bisogni reali
degli individui che di fatto le rivelano. In particolare A. Sen (1986) ha
obiettato che la mera registrazione delle preferenze rivelate finisce con il
consolidare le distribuzioni di beni inique di fatto già istituzionalizzate.
Gli utilitaristi hanno cercato di rispondere a queste critiche indicando che
l'esigenza della massimizzazione delle soddisfazioni delle preferenze può
essere ottimiz. zata solo laddove si accetti l’esistenza di una soglia
per ciascun individuo al di là della quale un incremento della
soddisfazione delle sue preferenze realizza risultati meno validi di
quelli realizzabili incrementando la soddisfazione delle preferenze di
individui che stanno peggio (Pontara, 1988). Nella storia
dell’utilitarismo, specialmente nel XX secolo, si è proceduto anche su di
un altro piano nel cercare un correttivo che permettesse di fare valere
nella massimizzazione una qualche regola o principio distributivo. In
questa linea si sono sviluppate ad esempio varie forme di utilitarismo
della norma © della regola. Sul piano storico vi è stata una tendenza a
considerare Bentham come un tipico esponente dell’utilitarismo dell’atto
e a trovare invece in Mill una posizione che anticipa le esigenze dell’utilitarismo
della regola o della norma (J. Urmson, 1953). Il problema principale affrontato
da questa parte della riflessione teorica interna all’utilitarismo è
stato quello della possibilità o meno di ricondurre l’utilitarismo della
regola all’utilitarismo dell’atto. Nel caso poi in cui si è concluso per la
specificità dell'utilitarismo della regola, la questione è stata se una
teoria che fa valere un qualche riferimento a regole, principi e norme
non comporti una fuoriuscita dal quadro conseguenzialista proprio
dell’utilitarismo (Lyons, 1965). Nella riflessione sullassibilità di conciliare
l'accettazione primaria dell’utilitarismo dell’atto con un riconoscimento di un
qualche ruolo nella vita etica a principi e norme, partico larmente
interessante risulta un tentativo come quello di Hare. Hare ha presentato
una teoria dei due livelli di pensiero etico: uno, più intuitivo e di
senso comune, all’interno del quale valgono le regole e le norme, e
l'altro che si colloca invece sul
piano della riflessione critica nel
quale, viceversa, si applica ditettamente alle singole azioni il criterio
utilitaristico della massimizzazione della soddisfazione delle preferenze
di tutti coloro che sono coinvolti (Hare, 1989). Più fertili sono da
ritenere però quei tentativi di presentare un utilitarismo della norma e della
regola come itriducibile sul piano
normativo all’utilitarismo dell'atto.
Così ad esempio procede Brandt, che ha più volte fatto valere la sua
posizione come una forma di utilitarismo della norma ideale. In questa
teoria il criterio etico decisivo è quello che identifica le soluzioni
rappresentandosi le norme da accettare in una società ideale rivolta a
soddisfare massimamente i desideri razionali dei suoi cittadini (Brandt,
1992). Nel rendere conto delle varie specie di utilitarismo va
infine ricordato quell’utilitarismo che è sembrato preoccupato non tanto
di realizzare un saldo attivo di piaceri, quanto di minimizzare le
sofferenze e i dolori (R, N. Smart, LE ETICHE NORMATIVE). Questo tipo di
utilitarismo negativo è stato spesso criticato ad esempio da J. J. Smart (Smart, 1985) come paradossale in quanto implica che
la soluzione migliore è quella che riduce al massimo il numero di esseri
senzienti esistenti, in quanto per questa via si procede certamente a una
riduzione della quantità delle sofferenze. Ma se si va al di là del piano
speculativo sul quale si muove l’etica teorica sembra chiaro che proprio
il criterio di una riduzione delle sofferenze inutili ha avuto un ruolo
decisivo nei dibattiti più recenti sull’etica pratica. È stata questa la
via principale mediante la quale si è allargato l'ambito del discorso
etico anche alle questioni del trattamento degli animali ed ancora è
questa la via mediante la quale riprendendo le critiche di Bentham nei
confronti delle etiche ascetiche si
continua a fare emergere l'inaccettabilità di quelle soluzioni fittizie
ricavate dall’imposizione di antropologie astratte. 4.8. La scelta
razionale come criterio normativo. Consideriamo poi quella concezione
normativa che sostiene che ciò che è bene o giusto fare, in una qualsiasi
situazione che ci presenta diverse alternative, può essere deciso
cercando ciò che è razionale o ragionevole fare, nel senso di ciò che
soddisfa massimamente i propri interessi e bisogni. Una concezione etica
della scelta razionale è riconoscibile in particolare negli scritti di
alcuni teorici che difendono l'economia di mercato, sostenendo che proprio la
ricerca da parte di ciascun individuo della massima realizzazione delle
proprie esigenze consente di ottenere i risultati migliori per la società
nel complesso (Arrow, 1977 e Buchanan, 1989). Naturalmente un punto
decisivo per questa concezione normativa sta nell'impegno a definire con
maggiore precisione la natura di ciò che è razionale massimizzare nella
ricerca di una soddisfazione personale. In questa luce si presentano come
nettamente distinte: da una parte, una posizione che tende a ritenere razionale
qualsiasi scelta che ciascuno consideri come massimizzante la propria
utilità interpretata in termini di benessere o vantaggio economico
personale una teoria etica che muove dal
riconoscimento di una qualche sovranità del consumatore; dall’altra una
posizione che interpreta la scelta razionale come quella che massimizza,
ad esempio, i bisogni più profondi ed elevati della persona che sceglie.
La teoria che ritiene eticamente preferibile come criterio per le scelte
pubbliche il comportamento che tende a massimizzare l’utilità attesa da
ciascuno degli agenti negli ultimi decenni è stata attaccata lungo due
linee: una rivolta a mostrarne le difficoltà interne laddove venga
presentata come teoria normativa da adottare per identificare l'alternativa di
azione ottimale; l’altra rivolta a farne risaltare la scarsa portata
analitica e esplicativa. Il primo ordine di difficoltà si esprime specialmente
osservando che, col. locandoci all’interno della teoria della scelta
razionale e regolandoci non diversamente da giocatori che cercano di vincere la
partita contro avversati egualmente razionali, finiamo con il trovarci di
fronte al ben noto dilerzizza del prigioniero (Axelrod, 1985 e Resnik,
1990). Se più individui razionali in una situazione che li coinvolge in
competizione si fanno guidare per decidere la via da seguire dalla
ricerca del migliore risultato prevedibile sulla base del. l'attribuzione di un
calcolo eguale agli altri individui saranno costretti a privilegiare corsi
di azione che porteranno a un risultato niente affatto ottimale. Ll risultato
migliore a cui tenderà ciascuno cercando di garantirsi la massima utilità
attesa, presupponendo anche da parte degli altri un analogo comportamento, non
garantirà affatto quel buon esito che si potrebbe realizzare solo
introducendo l'accettazione di qualche vincolo cooperativo da parte di
tutti gli individui presenti nella scena. L'altro tipo di critica avanzato ad esempio da Sen (1986) è rivolto a mostrare i forti limiti
esplicativi presenti nella teoria della scelta razionale in quanto
risulta del tutto incapace di rendere conto di tutte le nostre scelte in
situazioni che coinvolgono beni pubblici. Infatti se pensiamo a scelte che
riguardano la disponibilità di beni quali strade, servizi ecc. ci rendiamo
conto che ciò che di fatto facciamo laddove privilegiamo una decisione
che porti alla creazione o all'uso regolato di uno qualunque dei beni
pubblici creazione e uso regolato
che risultano costitutive della nostra forma di vita non può essere in alcun modo spiegato
come esito di una scelta ispirata dalla teoria della scelta razionale.
Infatti ispirandoci a tale criterio dovremmo sempre tutti regolarci come
free riders, ovvero come battitori liberi che si preoccupano
esclusivamente dei propri interessi, e ciò renderebbe impossibile la
convergenza sulla creazione e l’uso regolato di un bene pubblico, Tale teoria
non riesce dunque a rendere conto dell’esistenza di una larga fetta della
nostra realtà sociale. Va però segnalato che i teorici della
scelta razionale sono tuttora impegnati a elaborare modelli, coerenti con le
loro assunzioni, con cui rispondere a tutte queste obiezioni. In
particolare si sono sforzati di mostrare come nel quadro teorico della
cosiddetta teoria della scelta razionale o dei giochi ovvero in una situazione in cui sono presenti
più agenti razionali con obiettivi in competizione è possibile spiegare l'insorgenza di norme e
regole cooperative che permettono di convergere sui risultati ottimali. In
questa linea si è mosso ad esempio R. Sugden {Sugden, 1986) che ha molto
lavorato nel cercare di mostrare come una teoria della scelta razionale che
preveda scelte ripetute, con la ricerca da parte degli agenti di un
aggiustamento reciproco in vista di un equilibrio più stabile, permette di
arrivare a rendere conto dell’accetrazione sociale di norme con un minimo di
contenuto cooperativo. Questo modello cerca di rendere conto dell'ordine
sociale in generale sviluppando alcuni tratti della ricostruzione della
genesi delle istituzioni cooperative già presente in Hume (Magri, 1994).
Questi modelli esplicativi valgono solo in quanto a posteriori rendono
conto di quello che si è già realizzato, ma è difficile usarli come criteri
normativi per scegliere comportamenti rivolti al futuro. I modelli della scelta
razionale sono stati adottati in modo indubbiamente fertile per rendere conto,
all’interno di un generale quadro evoluzionistico, di come tra gli animali
superiori si rafforzano abiti cooperativi in alternativa a quelli o del
tutto egoistici o assolutamente benevoli (Dawkins, 1992). Ma questa
teoria nulla può dirci quando si tratta di decidere quale, tra le
differenti alternative di comportamento che ci sono davanti, dobbiamo
scegliere. L'esistenza di differenti concezioni etiche il loro conflitto sempre risorgente non solo fa nascere la questione della
disponibilità o meno di criteri per affrontare razionalmente i contrasti,
ma fa sorgere anche il problema di come conciliare la presa d'atto di una
pluralità di concezioni etiche con il riconoscimento all'etica di una qualche
validità. In primo luogo il riconoscimento del pluralismo etico
sembra essere ineliminabile nella società attuale. Non solo si tratta di una
constatazione di fatto, ma il pluralismo etico è considerato anche un
valore. Viene cioè considerata più apprezzabile una società pluralistica
che una società che in forme più o meno coercitive impone il prevalere di
una sola etica. Quest'ultima assunzione valutativa non è però condivisa dalle
cosiddette concezioni comunitarie (Ferrara, 1992) che invece privilegiano
società in cui si realizzi una forte convergenza sui valori e anzi al limite
siano caratterizzate da un'unica morale {MacIntyre, 1988). Ma al di là
dei timori per un pluralismo etico eccessivo e delle tentazioni per una
società segnata da una forte uniformità, vi sono argomentazioni e distinzioni
che sorreggono una preferenza per situazioni caratterizzate da una pluralità di
etiche in competizione. Tutta la tradizione liberale trova nella
fioritura pluralistica una condizione che favorisce lo sviluppo di tutte le
differenti potenzialità creative presenti nella natura umana. Tale
posizione presente ad esempio in
pensatori come W. von Humboldt (Humboldt, 1974) e J. S. Mill (Mill,
19814) ritiene che solo un'effettiva
libertà per gli esseri umani di vivere Îl tipo di vita che essi ritengono
giusta, libertà garantita anche accentuando le differenze, permette che vi
sia una piena realizzazione e un progresso delle capacità umane.
L’uniformità porterebbe invece a una completa atrofizzazione di queste
capacità. Una posizione a favore del pluralismo etico presuppone
che si riescano a tenere ben distinte due dimensioni dell'etica: da una
parte, quella che riguarda quel minimo comune denominatore di principi e regole
cooperative che sembrano essere una condizione necessaria perché vi sia
una qualche stabilità della vita associata; dall'altra parte invece quella che
ha a che fare coni modelli e gli ideali che ciascuno può assumere per
quanto riguarda lo stile di vita da preferire. Proprio sul piano che
riguarda i valori e gli ideali etici un confronto tra progetti anche
alternativi può segnare un arricchimento e uno sviluppo della cultura
umana. Sul piano più ristretto dell'etica minima in gioco laddove si
tratta delle basi della convivenza è invece difficile ritenere adeguato
un pluralismo di fondo. Ritorna qui dunque una distinzione già presente nella
tradizione giusnaturalistica tra il piano dei diritti o doveri perfetti e
quello dei doveri imperfetti. Questa posizione di apprezzamento per
un contesto sociale e culturale segnato dal pluralismo etico o pluralismo
dei valori va tenuta però distinta da una concezione che sottoscriva un
completo relativismo. Va, infatti, tenuta chiaramente distinta una
posizione che, sul piano descrittivo, prenda atto che si confrontano
diverse concezioni etiche, dunque tutte relative e non assolute, da una
posizione che assuma da un punto di vista normativo le conclusioni del
relativismo. Il relativismo normativo infatti sostiene che non abbiamo
ragioni per ritenere che nelle questioni etiche sia preferibile una posizione
a un'altra. Il relativista dunque, in definitiva, non riconosce alcuna
validità alle distinzioni morali o etiche tra bene e male, giusto e
ingiusto. È invece caratteristico del nostro tempo il fatto che si riesca a
sostenere con decisione e forza di convinzione la propria soluzione etica
ai problemi pur rispettando è tollerando quelle diverse dalla nostra. Ma
in questo caso l'ammissione di altre posizioni etiche non equivale a
ritenere che l’una vale l’alira. Come si è ben detto (in particolare da
parte di Berlin, 1989 e Rorty, 1989, ma a livello teorico la posizione
era stata già illustrata da Juvalta, ed è stata più recentemente derivata
da una meta-etica non-cognitivista, da Scarpelli, 1982) la situazione è per paradossale che possa sembrare quella di chi si impegna con decisione a
fornite ragioni a favore del proprio punto di vista etico pur
riconoscendo, ammettendo e rispettando un interlocutore che fa valere un
altro punto di vista e differenti ragioni. La consapevolezza che il
proprio punto di vista etico non è quello assolutamente giusto e buono
consente di tollerarne altri. Ciò non toglie che, comunque, è il nostro punto
di vista a valere di più ad essere
più buono e più giusto fin quando non
ci verranno presentate ragioni o non faremo esperienze che ci
costringeranno ad abbandonarlo. Le distinzioni che stiamo
suggerendo partono dal presupposto che si sia completamente abbandonata
la pretesa di un'assolutezza dei valori in generale e dunque anche del proprio
punto di vista etico. Una condizione propria del nostro tempo che M.
Weber esprimeva con l’espressione «politeismo dei valori» (Weber, 1958). Viceversa
risulterà impossibile conciliare pluralismo, relativismo empirico,
tolleranza e impegno per il proprio punto di vista se si muove dalla
convinzione che l’etica deve avere a che fare con qualcosa di assoluto.
Ma quest’ultima prospettiva nel XX secolo è largamente inattuale e perdente, in
quanto certamente non può essere conciliata con una meta-etica che
pretenda di avere dalla sua una qualche verità e capacità di rendere
conto della nostra effettiva esperienza morale. Proprio la persistenza di
questa prospettiva assolutistica dell'etica continua a generare confusione e
conflitti e contrasti etici spinti fino a mettere in pericolo la
coesistenza, in quanto mossi da forme di fanatismo morale che non
tollerano le differenze. La trasformazione che stiamo vivendo con il passaggio
da un contesto etico caratterizzato dall’aspirazione all’assolutezza ad
uno che accetta la finitezza e mutevolezza dei punti di vista morali può
essere vissuta in due diversi modi. Da una parte ci sono i nostalgici che
vivono il tempo e la società presente come caratterizzati da una perdita
e da un regresso; sono coloro che identificano il passaggio da valori
assoluti a valori frutto delle scelte umane come l’atto di nascita di un
completo nichilismo e di una cultura del tutto irrazionalistica. Per
costoro non vi è alternativa tra un fondamento assoluto e la più completa
irrazionalità e mancanza di senso. Dall'altra e chi scrive si riconosce in questa
seconda linea vi sono coloro che
vedono la nuova condizione come un guadagno in quanto ci si è finalmente
liberati di miti e illusioni. La credenza in valori assoluti è stata, ed è
tuttora, all'origine di pericolosi e insanabili contrasti. L'alternativa non è
il nulla o la perdita di senso della nostra esistenza ma piuttosto un'etica che
muove da un piano più realistico e empirica. mente fondato. I valori
derivano quindi da scelte e decisioni che gli uomini assumono
responsabilmente tenendo conto delle loro emozioni, delle loro limitate
capacità intellettuali e delle loro condizioni effettive. Credere questo non
equivale ad avere perso qualcosa, ma viceversa ad avere puadagnato una
prospettiva che permette agli esseri umani di muoversi, su un piano di parità,
verso soluzioni realizzabili e adeguate per i loro problemi
pratici. Dall’etica teorica all'etica pratica. Dall’etica teorica
all’antropologia: motivazione e obbligazione. La storia dell'etica è
ricca di pensatori che uniscono alle tesi normative, specifiche concezioni
antropologiche relative alle motivazioni, i bisogni, i desideri e gli
interessi degli esseri umani. Potremmo anzi sostenere che è comune che a
un'etica teorica si accompagni un’etica antropologica, ovvero una
psicologia della morale che su basi più o meno empiriche pretende di
descrivere come gli uomini sono fatti e procedono nelle loro scelte.
Questa commistione tra piano normativo e piano descrittivo ed empirico
risulta largamente praticata specialmente dal secolo XVII in avanti, dopo
che è entrata in crisi Ja conce. zione innatistica della legge naturale,
che riteneva la legge morale naturalmente obbligante in quanto presente
originariamente nella coscienza di tutti gli esseri umani. Il quadro
filosofico del XVII secolo segna il tramonto di questa soluzione innatistica
nel collegamento tra legge morale obbligatoria e base motivante negli
esseri umani e dunque per l’etica moderna e contemporanea diventa
essenziale non solo la questione di ciò che è bene o giusto, ma anche di
ciò che rende effettivamente obbligante per gli uomini il bene e il
giusto (cfr. Fagiani, 1983). Si avvia quindi una ricerca sistematica
sulla motivazione e la base psicologica che rende obbligatoria una
condotta etica, Nel pensiero moderno è ricorrente, per quanto
riguarda la motivazione morale, una concezione che nega che ciò che viene
scoperta 0 trovato con l’aiuto della sola ragione possa avere di per sé
forza obbligante o motivante, Un residuo di attribuzione di forza
obbligante alla ragione in quanto tale si può trovare nella concezione di
giusnaturalisti come Grozio (Grozio, 1625) o in quei pensatori che come ad esempio Joseph Butler (Butler,
1970) nel corso del Settecento indicano
nella coscienza non solo un principio in grado di trasmettere la consapevolezza
della legge morale, ma anche di obbligare ad essa. Ma la via percorsa dai
teorici dell'etica è piuttosto quella alternativa di negare alla ragione
la capacità di motivare all’azione e dunque di negare forza obbligante
alle norme e leggi scoperte attraverso l’uso del solo intelletto.
Muovendo da questa premessa è dunque necessario procedere a uno studio
empirico della natura umana e in particolare della condotta per vedere
che cosa muove ad agire. Viene così ampiamente ripresa nel corso del XVII
secolo la tesi edonistica secondo la quale solo il piacere e il dolore muovono
all'azione (cfr. $ 2.2). Sia Hobbes che Locke, quando fanno riferimento
al piacere e dolore come cause motivanti guardano, in modo del tutto esclusivo,
alla persona che agisce. Proprio su questa base tanto Hobbes quanto Locke
sembrano appoggiare la forza obbligante della legge naturale esclusivamente sul
potere di sanzione. Nel caso di Hobbes il potere sanzionatorio viene
legato a un calcolo prudenziale relativo ai benefici e ai danni che nel
corso della vita terrena si ricevono uniformandosi alle leggi naturali.
Locke lega invece il potere sanzionatorio della legge naturale, e dunque
la sua forza obbligante, alla considerazione del premio e delle pene che
si potranno ottenere in un’altra vita (Locke, 1971). La concezione che lega la
forza obbligante e la capacità di motivare della morale e dell'etica in
generale a qualche sanzione viene spesso riproposta nel pensiero moderno e
contemporaneo, ad esempio rinviando alla forza sanzionatoria data da
qualche piacere o dolore fisico comunque in gioco. Erede di questa
tradizione può essere considerato Bentham con il suo tentativo di
agganciare al potere sanzionatorio del sovrano la forza della legge
giuridica. Non diversamente in questa linea va collocato il positivismo
giuridico del secolo XX. Proprio l’approfondimento della conoscenza
della natura empirica degli uomini porta tra la fine del XVII secolo e la
metà del XVIII a elaborare una concezione della forza obbligante
dell’etica che, pur non riconducendola a una capacità automotivante della
ragione o delle facoltà intellettuali, non la tiduce però al
sanzionamento in termini di piacere e dolore fisici, genericamente intesi.
Questa ricerca di una base specifica di motivazione per la morale è già
presente alla fine del secolo XVII in Shaftesbury, che proprio
dall'osservazione empirica degli uomini fa derivare la scoperta di un peculiare
«senso morale» che non solo porta gli uomini ad approvare le azioni
virtuose, ma anche a sentirsi spinti a compiere tali azioni e ove tali
azioni non sono compiute a provare emozioni di disagio e sradicamento da ciò che
è più proprio del genere umano, È dunque la struttura passionale degli
uomini a presentare un'inclinazione in parte già colta dall’antropologia
aristotelica a compiere azioni in
generale cooperative. Questa stessa linea analitica verrà
sviluppata ancora nel corso del XVIII secolo da Hutcheson e Hume. Il
nucleo distintivo di questa ricostruzione della forza obbligante del
comportamento etico sta nel mostrare nella psicologia degli esseri umani una
base motivazionale del tutto autonoma e specifica che spinge a fare
azioni eticamente rilevanti. Questi autori poi si differenzieranno tra loro in
quanto presenteranno o meno come motivazione universalistica tale base
psicologica. Così mentre da una parte troveremo pensatori come
Shaftesbury, Hutcheson e Smith che rinviano a un altruismo o benevolenza più o
meno universali, dall’altra troveremo chi, come Hume, riconoscetà come
motivante solo una benevolenza limitata che si estende piuttosto ai
legami familiari. L'idea di tutti questi autori è comunque comune. Il
senso morale approva determinate azioni perché esse risultano motivate
non solo da un esclusivo amore di sé, ma da una benevolenza più o meno
estesa. La stessa approvazione del senso morale costituisce poi una
motivazione aggiuntiva al comportamento virtuoso. Risulta
dunque chiaro in questa strategia analitica che la condotta etica trova
una sua base motivazionale in inclinazioni naturali degli uomini per una
forma più o meno estesa di altruismo e interessamento per gli altri. Un
aspetto teorico significativo per il quale questi autori si distingueranno sarà
il loro modo di rendere conto della naturalità della motivazione etica.
Accanto a coloro come ad esempio
Shaftesbury o Hutcheson che
considereranno la motivazione a fare azioni cooperative come originaria
per la natura umana, vi saranno coloro che la presenteranno piuttosto
come risultato o prodotto di un processo evolutivo o di civilizzazione
piuttosto lungo. Nel corso del XVIII secolo la spiegazione delle basi
motivazionali del comportamento morale sarà inserita sempre di più in un
quadro artificialistico ed evolutivo, Una spiegazione genetica evoluzionistica
e artificialistica della motivazione alla condotta etica è, ad esempio,
già presente in Mandeville e viene sviluppata estesamente da Hume e poi in una direzione ancora più ampia da pensatori come J. J. Rousseau, A.
Smith e A. Ferguson. Questi ultimi sono impegnati nel progetto, che
sembra centrale per gli intellettuali del XVIII secolo, di ricostruire la
storia della civilizzazione umana avvalendosi della teoria stadiale,
ovvero di quella concezione che scandisce in quattro stadi diversi (della
caccia e pesca, dell’allevamento, dell’agricoltura, e del commercio) la
storia dell'umanità (Meek, 1981). La prospettiva impegnata a delineare il
processo artificiale attraverso il quale gli uomini giungono a disporre di una
base psicologica e motivazionale specifica per il comportamento etico (0
coopera tivo) viene realizzata nel corso del XVIII secolo anche lungo una
diversa linea associazionistica. In questa chiave il costituirsi delle
motivazioni propriamente etiche viene spiegato come un risultato di
ripetute associazioni. Significativo anche per un lettore del XX secolo il contributo analitico di David
Hartley, il cui associazionismo è propriamente fisiologico, e poi di
alcuni esponenti dell'Illuminismo francese (ad esempio Claude-Adrien
Helvétius, Etienne Condillac, Paul Heinrich Dietrich D'Holbach ecc.) e
ancora di utili taristi come James Mill e J. S. Mill. Nel XIX secolo la
genesi delle motivazioni cooperative sarà collocata in un quadro più
esplicitamente evoluzionistico da Darwin e Spencer (Ruse, 1986). Questa
linea di spiegazione evoluzionistica che coinvolge il livello biologico della genesi di una base motivazionale
ad hoc per il comportamento morale è stata ampiamente ripresa nel corso
del XX secolo. Abbiamo così chi, come E. Wilson (1975), ha presentato una
vera e proprio concezione socio-biologica, o chi, come K. Lorenz (1990),
si è piuttosto impegnato a mostrare analogie e differenze tra gli istinti
cooperativi presenti negli uomini e quelli rintracciabili negli animali.
La ricerca rivolta a individuare una base motivazionale nella natura
emotiva degli uomini a cui agganciare l'obbligazione etica si estende ben al di
là delle concezioni che abbiamo appena delineato. Non sono mancati coloro
che hanno indicato come carattere distintivo della specie umana la
capacità di essere motivati a compiere azioni degne di apprezzamento per il
solo gusto o senso del dovere da compiere, e dunque per il solo essere
richiamati da ciò che vale: una strategia che risulta percorsa da Kant e
da coloro che a lui si richiamano come ad esempio K. O. Apel {Apel, 1977).
Al polo opposto si colloca la strategia di analisi, scettica e
riduzionistica, che ha del tutto negato che negli uomini sia
rintracciabile una qualche capacità di auto-motivarsi o scegliere
liberamente, e dunque tanto meno una inclinazione a partecipare ai piaceri
e ai dolori degli altri esseri umani. Nel XX secolo entra in crisi
la pretesa di disporre di una antropologia universalistica che sia in grado di
indicare con nettezza passioni e sentimenti presenti in tutti gli uomini o
viceversa di negare agli esseri umani generalmente intesi una qualche
motivazione. L'analisi antropologica, piuttosto che rinviare a una base
motivazionale comune, si impegna ad elaborare più strategie mediante le quali
si può spiegare la forza obbligante delle regole morali. Risulta pur
sempre difficile riuscire rendere conto del ruolo obbligante dell'etica laddove
si ritiene che gli esseri umani siano mossi dal più rigido egoismo;
stanno a dimostrarlo la crisi e le difficoltà a cui è andata incontro la
teoria della scelta razionale (cfr. $ 4.8). In positivo, dunque, risulta
del tutto acquisito che per dirla
con Williams (Williams) nessun discorso
può riuscire a rendere motivante per un essere umano un principio etico
cooperativo se nella struttura emotiva di questo essere umano non è già
presente (probabilmente come frutto della sua formazione e iniziazione alla
cultura umana) un minimo di interessamento per i piaceri e i dolori di un
altro essere urnano. Da questa prospettiva come da altre il contesto
dell'etica coinvolge direttamente non solo la capacità di chi agisce di presentarsi
come essere fornito di una sua identità, ma anche di riconoscere
l'identità degli altri. Passiamo dunque a rendere conto della portata delle
analisi sulla natura dell’identità personale nell’etica teorica.
5.2. Il ruolo dell'identità personale nell’etica. Nell’etica medievale il rinvio all'anima
sostanziale rappresentava un fondamento e un preciso criterio per
risolvere le questioni morali. Infatti, da una parte, proprio al fondo
della sostanza spitituale si presentavano le norme da applicare in etica
e dall'altra l'individuazione dell'universo di esseri forniti di sostanza
spirituale metteva a disposizione un chiaro criterio di applicazione ed
estensione dell’ambito mo. rale. Questa concezione semplice dell'etica
che ruota intorno a una sostanza che è la persona umana e che non è
riducibile ad altro, nello stesso tempo oggetto e soggetto esclusivo
della vita morale, è entrata in crisi tra il XVII e il XVIII secolo
quando l’identità personale non è più risultata riconducibile a una sostanza.
Alla filosofia di Locke prima e a quella di Hume poi si può far risalire
il superamento critico della concezione sostanzialistica della persona
umana e dell'identità personale e l'avvio di quell'approccio che
concepisce tali realtà come complesse e cerca di spiegarne la natura
riconducendola a qualcosa d'altro. Ma sulla strada dell’elaborazione
delle concezioni complesse e ridu zionistiche dell’identità personale si
presenta la difficoltà di riuscire a rendete conto del soggetto morale
con quel minimo di stabilità necessaria per dare una base a nozioni
essenziali per l'etica quali
responsabilità, merito, demerito ecc. Un altro problema a cui vanno incontro le
concezioni riduzionistiche e complesse dell'identità personale sta nella
difficoltà con cui riescono a rendere conto del valore morale senza farlo
dipendere esclusivamente da una considerazione degli atti di per sé
stessi, ma riuscendo a collegarlo anche con una considerazione del
carattere e dei motivi dell'agente. La connessione tra la considerazione
del carattere e dei motivi e i giudizi morali è al centro, ad esempio,
dell’analisi delle virtù e dei vizi delineata da Hume e Smith e sembra
tanto profondamente radicata nel senso comune morale da non poter essere
soppiantata da una qualche teoria che indica come eticamente rilevanti le
sole azioni. La riflessione di marca empiristica e analitica sulla natura
dell’identità personale si è dunque sempre più impegnata dal Settecento a
oggi nell’elaborazione di una spiegazione della continuità e stabilità dell’io
che, senza dover ricorrere alla nozione sostanzialistica e semplice di
io, fosse conciliabile con l’uso di categorie centrali del linguaggio
etico-giuridico quali responsabilità, merito, demerito, punizione,
condotta virtuosa ecc. Un’estensione dell'analisi complessa e
riduzionistica dell'Io anche a livello di ricostruzione della vita morale
oltre che sul piano conoscitivo viene avviata da Henry Sidgwick nel 1874
con i suoi Methods of Ethics (I metodi dell'etica), ed è stata poi
sistematicamente realizzata nella seconda metà del secolo XX da pensatori
come Nagel, Parfit, Nozick ecc. Si può ipotizzare che questa recente
fortuna di un'analisi dell'etica che muove da una concezione complessa
dell'identità personale sia un riflesso, a livello filosofico, di quel fenomeno
più generale a cui si allude sinteticamente con l’espressione «perdita
del Soggetto». La rapidità delle trasformazioni nelle società occidentali,
la grande quantità di novità che quotidianamente ciascun essere umano
deve raccordare con l’esperienza passata e con i punti di equilibrio in
essa raggiunti hanno reso sempre più frammentaria la continuità della
vita interiore e difficoltosa l'operazione di recuperarne una qualche
stabilità. Va peraltro sottolineato che le concezioni complesse e analitiche
dell'identità personale più che essere impegnate in lamentele e
declamazioni sulla «Perdita del Soggetto» cercano di elaborare una
concezione dell’essere umano eticamente responsabile che sia adeguata alle
trasformazioni culturali degli ultimi secoli, trasformazioni che hanno reso il
rinvio a un qualche Soggetto sostanziale solo un mito privo di qualunque
fondamento empirico. Le analisi di Parfit sfociate nel volume del
1984 Reasons and Persons (Ragioni e persone) presentano lo sforzo più
approfondito di sviluppare gli spunti presenti nell'opera di Sidgwick e
di ridefinire, muovendo da una nuova concezione appunto riduzionistica e complessa dell’identità personale nozioni come quelle di
responsabilità morale, merito e demerito ecc. Se tuito ciò che troviamo
dietro la soggettività e l'identità di una persona umana è una qualche
continuità psicologica più o meno stretta, ne consegue che i nostri
giudizi morali © giuridici dovranno essere del tutto a posteriori e investire
interrogativi quali: «quanto la persona che ci sta di fronte è la stessa di
quella che ha compiuto l’azione? », «quanto l’azione che la persona ha
compiuto si inserisce nel flusso più continuo e stabile delle sue
abitudini e del suo carattere e quanto invece ne rappresenta una rottura?» ecc.
L'approccio empiristico all’identità personale comporta dunque non già
l’eliminazione delle nozioni etiche tradizionali dal nostro lessico morale, ma
una loro ridefinizione in modo tale da presupporre connessioni più deboli
e meno definitive: tra le azioni e la persona che le ha compiute; tra la
persona come attualmente è e la sua storia passata; tra il tipo di intervento
che possiamo fare sulla persona attuale e la sicurezza che, utilizzando
determinati mezzi, potremo ottenere certi risultati che coinvolgono il
suo io futuro. In generale ci si muove verso una concezione meno
assolutistica e necessitante dell'etica di quella che accetta chi crede nella
persona come sostanza. Ed è ovvio che una prospettiva del genere risulta
del tutto in linea con l’epistemologia empiristica, ma e si tratta di ciò che più conta anche forse, oggigiorno, fertile sul piano
esplicativo e predittivo, L’approccio all'identità personale che la
considera come una successione di io che hanno tra di loro una
connessione psicologica più o meno stretta è ben lontano dall'essere
diventato «senso comune» e ranto meno sembra corrispondere intuitivamente a
quella concezione della persona che troviamo radicata nella parte morale del
nostro «senso comune», una parte che tende a trasformarsi con più lentezza
e prudenza di quella intellettuale. Vanno però messe in luce le
implicazioni normative che accompagnano le analisi di tipo complesso e
riduzionistico dell'identità personale, anche se per ora occorre
confinatne la portata solo alle premesse intellettuali di un sistema morale
che pretenda di essere costruito su credenze vere. Un
approccio all'identità personale che metta in secondo piano una concezione
sostanzialista e semplice della persona umana favorisce anche un
complessivo riassetto normativo. In primo luogo questa linea epistemologica
porta al rifiuto di una concezione statica e sostanziale del bene morale,
la presa di distanza da un modo di intendere la responsabilità morale
come legata a colpe, peccati o meriti che solo un Essere Assoluto, in grado di
conoscere la struttura sostanziale della persona e i più riposti pensieri degli
esseri umani, può giustamente distribuire. La responsabilità morale in
questa prospettiva ha invece a che fare non già con riposte intenzioni, ma
principal. mente con ciò che effettivamente si compie in un campo di
azioni pubblicamente osservabili. In secondo luogo poi tale
approccio contribuisce anche a scalzare le basi analitiche che sorreggono
l’impianto normativo dell’egoismo razionale. Ancora a Parfit si devono
dettagliati argomenti che mostrano, una volta assunta la prospettiva
complessa e riduzionistica dell'io, quanto risulti ingiustificata una
preferenza per le parti future della propria vita nei confronti delle
vite attuali di altri esseri umani. La ragionevolezza ed evidenza di una
preoccupazione esclusiva su base
egoistica e prudenziale per i nostri io
futuri non risulta affatto giustificata una volta che si diventi
consapevoli della complessità di passaggi che muovendo dal nostro io attuale
porta ai nostri io futuri laddove non si postuli più la persistenza di
una stessa sostanza semplice. Tra il nostro io attuale e quello che
saremo fra numerosi anni vi sono connessioni più dubbie e dunque relazioni più deboli rispetto a quelle che possiamo istituire
oggi con i Sé degli altri esseri umani. L'impegno nella costruzione di
un'etica più imparziale e meno rigidamente egocentrica sembra dunque
avere tutto da guadagnare dalla revisione dell'identità personale
intrapresa dalla filosofia empiristica. Infine risulta del tutto
indebolito il ruolo della nozione di persona come categoria essenziale
per la determinazione dell'universo di esseri per i quali valgono le
nozioni etiche. Se ciò che conta in morale non è più solo la presenza di
qualche peculiare sostanza semplice di natura spirituale, ma gli atti che
si compiono più o meno responsabilmente, nulla vieta che divengano eticamente
rilevanti anche atti che non coinvolgono persone umane. Passando attraverso
atti responsabilmente connessi con dimensioni quali la sofferenza e il
danno o il piacere e la soddisfazione di bisogni e desideri, possono diventare
rilevanti per l’etica gli animali, o gli oggetti che costituiscono
l’ambiente, o realtà di certo non
personali nel senso di essere effettivamente presenti ora come sostanze
semplici con una loro propria individualità quali, ad esempio, i membri di
generazioni future molto lontane. È questa dunque la via epistemologica
che porta ad abbandonare quella concezione ristretta dell'etica che si ha
quando si è costretti a passare sempre attraverso la cruna d'ago fornita
dalla persona. In particolare sono le etiche utilitaristiche e
conseguenzialiste che si sono impegnate in questo sforzo di fornire
indicazioni normative congruenti con le concezioni di derivazione
empiristica dell'identità personale e dell’universo degli esseri moralmente
rilevanti. 5.3. Etica del carattere 0 dell’azione. Come abbiamo visto le diverse concezioni
etiche si distinguono sulla questione di quale sia da considerare
l'oggetto proprio di una valutazione. Su questo piano la differenza più
rilevante è quella tra chi ritiene che l’unico oggetto peculiare di valutazione
etica sono le azioni e le loro conseguenze e chi invece ritiene
essenziale il riferi mento al carattere 0 comunque a qualche qualità
interna (intenzione ecc.) di chi agisce. Le due diverse concezioni hanno
entrambe dei punti a loro favore. Si può anzi suggerire che la concezione
più adeguata sia quella che non ricorra in modo esclusivo o all'uno a all’altro
approccio o azione o tratti del
carattere ma piuttosto sappia integrare
entrambe le esigenze. A favore della concezione che ritiene
esclusiva l’attenzione per le azioni vi è l'esigenza fatta valere in modo decisivo non solo
dall’utilitatismo, ma anche dal garantismo giuridico (Fetrajoli, 1989) che ciascuno possa essere ritenuto
responsabile solo di quello che ha effettivamente compiuto e non possa
essere giudicato negativamente sulla sola base di presunte predisposizioni 0
inclinazioni ad agire, che tra l’altro rinviano a una pretesa capacità di
cogliere l'essenza o vera natura di una persona. Il riftuto della concezione
sostanzialistica della persona umana è tra l’altro accompagnato dallo sforzo
di ricollocare l'etica su un piano più esterno e comportamentale. La
considerazione prevalente delle azioni effettivamente compiute segna anche il
tramonto di valutazioni che investono i piani del peccato o della
colpa. Considerando come positivo il superamento di un approccio
etico che pretenda di presentare valutazioni assolute basate su di una
presunta conoscenza finale del carattere o della natura di una persona, va però
segnalato un limite di questo approccio. Un'etica che pretenda di
derivare in modo esclusivo le sue valutazioni dalla considerazione dei comportamenti
esterni degli esseri umani sarà costtetta a omologare azioni criminose e
incidenti colposi e non sarà comunque in grado di discriminare tra azioni
compiute in contesti motivazionali e intenzionali differenti. La
valutazione etica non sembra potere prescindere dall'esame di quanto le
azioni in gioco siano responsabili e dunque frutto di intenzioni e non del
tutto casuali o determinate da costrizioni al di là della portata di chi
agisce. Proprio la necessità che l'etica riesca a coinvolgere anche
la responsabilità delle azioni considerate rappresenta un argomento a
favore delle concezioni che pongono al centro della loro considerazione
il carattere di chi agisce. In questo si sono impegnate le cosiddette
etiche della virtà. Una tradizione che diversamente da quanto è stato recentemente
sostenuto (MacIntyre, 1988) non è
certo confinata alla cultura antica e medievale, ma ha trovato anche
nella cultura moderna e contemporanea dei sostenitori. La
concezione dell'etica che ritiene centrale la considerazione del
carattere sembra salvaguardare alcune esigenze essenziali per una
adeguata teoria della valutazione morale. Anche questo approccio ha però
bisogno di correttivi, ÎNon solo risulta dubbia un'attenzione per il
carattere tanto esclusiva da giudicare una persona condannabile per il solo
fatto che ha determinate intenzioni, ma una considerazione etica esclusivamente
attenta al carattere può portare a considerare virtuoso anche chi si
limiti a manifestare certi principi o convinzioni etiche e poi di
nascosto agisce in modo completamente diver: gente. Un’etica
dell’intenzione può anche portare a ritenere giustificati atti gravemente
dannosi rinviando a presunte intenzioni benefiche di chi li compie. Un'etica
dell'intenzione o del carattere corre il pericolo di sottoscrivere
posizioni morali esclusivamente predicatorie o addirittura ipocrite, alle
quali comunque non corrisponde alcun effettivo comportamento.
Nella conciliazione, tutt'altro che semplice, delle due concezioni
sull’oggetto della valutazione morale sono impegnati in particolare i fautori
dell’utilitarismo della regola o delle norme (cfr. $ 4,7). Nel senso di
un'integrazione delle considerazioni etiche sugli atti con quelle
relative ai caratteri e alle intenzioni vanno anche molte delle discussioni di
casi concreti nelle quali si sono impegnati specialmente nella seconda metà del secolo XX
(cfr. $ 5.4) gli esponenti dell'etica contemporanea. Ad
esempio, larga parte della discussione etica contemporanea su situazioni
concrete quali quelle legate alla nascita e in particolare all'aborto € alla morte e in particolare all’eutanasia è legata alla riflessione sul ruolo più
o meno decisivo delle intenzioni in gioco. Proprio la tesi di un ruolo
essenziale delle intenzioni nelle valutazioni delle scelte relative all'inizio
e alla fine della vita umana ha portato ad elaborare la dottrina del
«doppio effetto» (Anscombe, 1958 e Foot, 1978). Con questa dottrina si è
ritenuto di potere distinguere tra diverse ricorrenze della stessa azione,
considerandola rispettivamente o come una conseguenza diretta e voluta
dell'intenzione di ottenere questo risultato o viceversa come effetto
secondario e non direttamente voluto dell'intenzione rivolta a un risultato
benefico. Laddove l'effetto diretto della nostra intenzione è, ad
esempio, garantire la nascita di un bambino, solo un doppio effetto non
voluto è la morte della madre; o all’altro confine della vita laddove effetto diretto della nostra
intenzione è l’azione rivolta a un'attenuazione delle sofferenze di un
morente, è solo un effetto secondario non direttamente voluto la morte
della persona, quale conseguenza dell’uso di farmaci per attenuare il
dolore. Ma questa concezione va incontro a un’insormontabile difficoltà di
ordine epistemologico, in quanto ovviamente non sono disponibili
procedure affidabili per discriminare tra una dichiarazione di intenzione del
tutto ritualistica o ipocrita e una dichiarazione veritiera. In questo senso la
prospettiva che ruota intorno alla centralità dell’intenzione si presenta come
il residuo di una fase in cui l’etica teorica era impegnata a far valere per il
giudizio sulle azioni umane un punto di vista ideale o divino. Un'’etica
fatta su misura per le esigenze della specie umana, pur riconoscendo la
rilevanza delle motivazioni delle azioni, indebolisce però la portata
delle intenzioni considerandole come componente aggiuntiva e sussidiaria
del giudizio etico e non già come aspetto decisivo ed esclusivo. Fa
parte della riflessione sull’oggetto proprio delle valutazioni etiche anche la
discussione sulla possibilità di distinguere nettamente da un punto di
vista assiologico tra azioni e omissioni. Questa distinzione viene
considerata sempre meno influente per l'etica (Glover, 1977; Singer,
1989) proprio da quelle concezioni che come l’utilitarismo hanno messo al centro della valutazione
le azioni e la considerazione delle conseguenze. L’utilitarismo
contemporaneo fa propria in realtà una nozione non riduttiva di azione,
data la quale risulta chiaro che il non fare qualcosa quando si ha la
possibilità di farlo è eticamente rilevante non meno del compimento
effettivo di un atto. Ciò che conta è la nostra responsabilità che si agisca o non si agisca per conseguenze nella situazione futura,
in quanto esse dipendono comunque da nostre scelte e decisioni.
Si può avanzare l’ipotesi che nel corso degli ultimi secoli della storia
della cultura occidentale la struttura del nostro discorso morale si sia
trasformata nel senso di un'estensione della portata del lessico legato
primariamente alle azioni e di una correlativa riduzione dell'incidenza
di quella parte del lessico legato a emozioni, sentimenti, stati d'animo,
intenzioni, caratteri ecc. Da questa ipotesi si ricava che per quanto forte
possa ancora essere, al livello della predicazione, la riaffermazione di
un’etica di tipo agapistico o dell'amore universale (un’etica cristiana
genericamente intesa), tale etica risulta poi in secondo piano, quando ci si
impegna in una riflessione critica rivolta a indivi. duare regole e
principi etici concreti a cui ispirarsi. L'appello a sentimenti quali
l’amore o una benevolenza universale sembra essere del tutto irrilevante
quando siamo impegnati a identificare il migliore comportamento effettivo
nelle situazioni eticamente rilevanti che ci sono di fronte. Certamente tale
appello può continuare a mantenere un ruolo decisivo laddove siano in
gioco concezioni super-erogatorie e ideali sul dovere (che coinvolgano ad
esempio la santità e l’eroismo), che hanno però un ruolo sempre più
marginale nella morale di senso comune di società altamente complesse e
popolate come quelle nelle quali viviamo. La nostra ricerca etica è
piuttosto rivolta a regole più modeste e limitate che incidano però
effettivamente sulle azioni o omissioni della nostra vita quotidiana, in modo
tale che le conseguenze dei nostri stili di vita siano benefiche o quanto meno non disastrose € dannose per le generazioni future.
54. La svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. Nel corso del XX secolo l'orizzonte di
riflessione che muove dai problemi pratici concreti degli esseri umani è
stato riafferrmato come primario e decisivo da una serie di pensatori che
hanno contestato l'utilità di una ricerca esclusivamente metaetica e astratta.
Si è soliti fare riferimento a questa svolta, realizzatasi nella
riflessione sulla morale specialmente a partire dagli anni Settanta, con
l’espressione «l'irruzione dell'etica applicata» (De Marco e Fox, 1986). Questo
appello all'etica applicata è stato fatto valere, successivamente, con
due diversi obiettivi critici. In un primo periodo l'appello era rivolto
a fare sì che punto di partenza e punto di arrivo della riflessione etica
fosse considerato non già la conoscenza della natura della morale e delle
forme di ragionamento in essa valide, ma la ricerca di soluzioni normative. In
un secondo periodo a partire dagli
anni Ottanta si sono contestate le
stesse risposte normative offerte dalle opere sistematiche degli anni Settanta
e la richiesta avanzata è stata che in luogo di criteri normativi
generali validi per tutte le questioni etiche la riflessione critica
fosse rivolta a delineare soluzioni più determinate e settoriali in grado
di risultare rilevanti per una delle diverse dimensioni problematiche
riconoscibili all'interno dell'etica pratica. La prima esigenza
fatta valere negli anni Settanta è stata dunque quella di trasformare la
teoria etica in modo tale che in essa l’obiettivo principale fosse non
già quello logico-conoscitivo di mettere a punto una meta-etica e dunque
una conseguente epistemologia, quanto piuttosto lo sviluppo sistematico
di un risposta esplicitamente normativa. Il neo-contrattualismo di J.
Rawls e Gautbier, il neo-utilitarismo di }. Harsanyi e poi di R. M. Hare
e R. Brandt, le diverse teorie dei diritti di R. Nozick e di R. Dworkin
ecc. tutte concezioni a cui abbiamo già
fatto riferimento specialmente nel paragrafo 4 sono alcuni dei tentativi più influenti
di elaborare teorie etiche impegnate prevalentemente sul piano normativo.
Le differenti teorie etiche normative presentate nel corso degli anni
Settanta sono, di volta in volta, la riproposta sotto una nuova veste di
opzioni già formulate a partire dal secolo XVIL Il neocontrattualismo di
Rawls e Gauthier tiene largamente conto dell'elaborazione contrattualista
precedente da Hobbes a Kant. Il neo-utilitarismo ha largamente discusso e
riproposto le precedenti impostazioni di J. Bentham e J.S. Mill. I teorici dei
diritti non hanno mancato di tenere conto delle analisi di Locke ecc.
Restano dunque in larga parte operanti le stesse concezioni che nel corso
dell'età moderna e contemporanea sono state indentificate come utilizzabili da
chi fosse alla ricerca di un criterio generale per risolvere i problemi
pratici degli esseri umani. Al livello dei principi o procedure più
generali non sembra si possa segnalare la nascita di nuove etiche, ma si
assiste solo allo sviluppo e all'approfondimento delle linee etiche
normative già disponibili. La novità principale nell’«etica
teorica» {e qui si intende una teorizzazione etica con obiettivi esplicitamente
normativi) del XX secolo sta dunque nelle forme che prendono le diverse
concezioni normative, una trasformazione che in realtà era stata già anticipata
da H, Sidgwick con i suoi Methods of Ethics (Sidgwick, 1963). In primo
luogo le diverse proposte normative non fanno più parte di una ricerca
filosofica generale. Chi si occupa di etica e contribuisce ad essa non colloca
la sua ricerca in una più ampia prospettiva che ad esempio affronti
questioni generali sulla conoscenza umana, la natura umana ecc. Si parte
dando per scontata una sorta di specializzazione per cui chi si occupa di
etica e di problemi normativi guarda esclusivamente a questi. I teorici
dell'etica contemporanea sono dunque eredi dei professori di filosofia morale
come Hutcheson o Smith, più che di filosofi come Hobbes, Locke € Hume
(per non dire che nulla hanno a che fare con personalità quali quelle dei
fondatori di morali come Cristo, Budda o Gandhi}. Laddove Hobbes, Locke e
Hume ma ovviamente anche Kant collocavano la loro attenzione per i problemi
etici in un contesto filosofico generale, i teorici dell'etica
contemporanea limitano invece le loro analisi ai soli problemi pratici.
Questo si accompagna non solo con la specializzazione che abbiamo
sottolineato, ma anche con un più limitato orizzonte critico che viene
fatto valere nelle proposte etiche contemporanee. Tutti i diversi teorici
dell'etica muovono nelle loro analisi assumendo la validità di tesi più
generali sulla conoscenza, la ragione ecc. In questo senso le diverse etiche
teoriche acquistano senso solo vi. ste sullo sfondo delle diverse
prospettive filosofiche generali elaborate dai pensatori che abbiamo più volte richiamato del XVII e XVIII secolo, Questa
più marcata limitazione del contesto dell’etica teorica contemporanea è in
molti di questi pensatori esplicitamente riconosciuta e programmati.
camente affermata anche per quanto riguarda il piano dei valori di
riferi. mento. Così molti dei teorici dell’etica contemporanea ammettono
di muoversi in contesti storici e culturali ben definiti identificando lo
sfondo che dì validità alle loro teorie normative con quello delle
credenze etico-politiche condivise nelle società liberal-democratiche
occidentali (Rorty, 1989; Rawls, 1994). Emerge dunque in molti teorici
contemporanei la tesi che l’etica è una riflessione critica che non solo
muove da intuizioni 0 credenze morali di par tenza che sono già date, ma
che in realtà non può operare al di fuori di un qualche contesto di
credenze condivise. Questo orientamento segna di fatto non solo una
specializzazione dell’etica teorica, ma anche l'abbandono in essa del
quadro universalistico in cui si muovevano i filosofi del XVII e XVIII
secolo. Parallelamente con questo restringimento della base del
discorso dell’etica teorica troviamo viceversa e specialmente nelle opere sisternatiche
elaborate negli anni Settanta uno sforzo
di approfondimento analitico molto più marcato, con la pretesa di
realizzare un'elaborazione coerentemente sistematica e un’argomentazione
persuasiva di ampio respiro. Se ci volgiamo infatti alle opere principali
dell'etica teorica contemporanea vediamo che la loro. mole e complessità
rispetto agli scritti dell'etica tradizionale è fortemente cre. sciuta.
La base di partenza è più ristretta ma la pretesa di approfondimento analitico
è maggiore. Le nozioni che la tradizione etica precedente trovava del
tutto comprensibili vengono ora sottoposte ad analisi dettagliate. In
questa direzione contributi del tutto nuovi vengono offerti, ad esempio:
o con una dettagliata tassonomia dovuta in particolare agli utilitaristi delle diverse forme di preferenze; o con
una classificazione che troviamo
principalmente negli scritti dei neo-contrattualisti e dei teorici dei
diritti delle principali
differenze tra bisogni e interessi; o con lo scavo e qui sono i teorici della scelta
razionale ad offrire il maggiore contributo delle diverse forme di ragionamento con cui
possiamo valutare le linee di azione che coinvolgono conseguenze future più o
meno lontane e più 0 meno sicure. Ll terreno dell'etica teorica appare
dunque certamente come più limitato e ristretto un campo che si cerca di tenere distinto
da quelli confinanti ma esso viene
scavato con una profondità maggiore che nel passato in tutte le sue
parti. La convinzione che muove questo approccio è che le radici delle
questioni etiche possano essere raggiunte non già derivandole da un altro campo
di ricerca, ma andando sempre più a fondo nello scavo dell’area
dell’etica considerata come autonoma e autosufficiente. Quello che lascia
particolarmente insoddisfatti è che i tratti generali del paradigma della
ricerca si trovano messi in pratica e ripresi acriticamente senza nessuna
elaborata valutazione della loro adeguatezza. Né vi è una sensibilità per la
questione a mio parere decisiva di come la vicenda dell'etica teorica
contemporanea possa essere raccordata acquistando con questi raccordi senso e
rilevanza con i lasciti e i
residui della passata elaborazione. Molto più accentuata che
nel passato è poi la pretesa di sistematicità e di coerenza interna, così
come della massima completezza possibile. In questo senso l’etica teorica
si muove prendendo a modello le teorie scientifiche in generale. Proprio
per questo tentativo di strutturarsi in analogia con gli universi scientifici
prevale tra le diverse concezioni normative una tendenza al monismo etico
e nello stesso tempo assistiamo ad un progressivo allargamento
dell'ambito di casi e fenomeni investiti. Una tendenza verso il monismo
normativo era presente anche nelle etiche tradizionali che insistentemente
andavano alla ricerca di un solo principio fondamentale. Una volta caduto
l’orizzonte fondazionale il monismo etico si presenta come la ricerca di un
unico criterio di decisione per tutte le situazioni problematiche nella
convinzione che la presenza di più criteri non può che originare
conflitti e disaccordi insanabili. Nei sistemi normativi degli anni
Settanta troviamo infine approfondito lo sforzo di argomentare in modo
persuasivo e convincente a favore della posizione fatta valere. La dimensione
per così dire retorica e persuasiva diviene esplicita e diventa primario
l'impegno a fornire già all'interno di ciascuna teoria una risposta alle
critiche avanzate dalle concezioni alternative. Prevalgono quindi
nell’etica teorica contemporanea le esigenze di una discussione pubblica. Le
diverse etiche si presentano infatti in primo luogo come discorsi sistematici e
razionalmente giustificati nel modo più compiuto, sviluppati per
convincere gli interlocutori nella discussione pubblica a proposito della
preferibilità delle opzioni normative proposte. Questi tratti spiegano nello
stesso tempo, da una parte la maggiore concretezza delle etiche teoriche
contemporanee rispetto a quelle tradizionali e, dall'altra, il loro minore
respiro e la loro collocazione in un contesto storicamente più
limitato. 5.5. I principali campi dell'etica applicata. Ma come si è detto un’ulteriore svolta ha
segnato l'etica teorica a partire dagli anni Ottanta. Vengono contestate
ora le stesse teorie impegnate nella presentazione di grandi sistemi
normativi, denunciando la loro astrattezza e la loro irrilevanza per i
problemi pratici effettivi. L'impegno in una riflessione etica che
abbandonasse il piano delle concezioni astratte veniva a caratterizzare
sempre di più gli anni Ottanta. Anzi in questa direzione era la medicina a
salvare l'etica come si esprimerà
Toulmin {$. E. Toulmin, How Medicine saved Etbics, in De Marco e Fox) nel senso che i nuovi problemi etici generati
dagli sviluppi della medicina e della biologia ponevano in modo urgente una
richiesta di soluzioni che non poteva essere soddisfatta dai grandi
sistemi normativi classici o contemporanei. Laddove infatti i sistemi
normativi degli anni Settanta avevano al loro centro i problemi della giustizia
sociale e della cittadinanza, le questioni della guerra giusta e delle
relazioni internazionali, viceversa i nuovi problemi posti dalle mutate
condizioni nella nascita, morte e cura degli esseri umani coinvolgevano
dimensioni etiche completamente diverse, Inizia così un processo di
articolazione e sviluppo di una miriade di settori nuovi nell’etica
applicata che, in parallelo con la tendenza della cultura americana alla
specializzazione e alla professionalizzazione, porta al consolidarsi e
istituzionalizzarsi di vari campi dell'etica pratica considerati come
autosufficienti. Compare così la nuova figura professionale dell’eticista,
ovvero dell'esperto dei problemi di un particolare settore. Certamente la
riflessione etica guadagna così in concretezza, ma una ricerca
esclusivamente impegnata nell’evidenziare i criteri ed i principi etici validi
per specifici e peculiari problemi applicativi va incontro ai limiti del
settorialismo e della iper-specializzazione. Dopo lo sforzo di
scomposizione e di indagine ravvicinata dei singoli campi problematici
che ha accompagnato il fiorire delle varie dimensioni dell'etica pratica
è ora auspicabile un lavoro di sintesi e di ricomposizione che identifichi i
principi e i criteri etici validi in generale e che sappia fornire visioni
d'insieme della vita etica. La maggior parte dei diversi settori
dell'etica applicata consolidatisi negli ultimi decenni del secolo XX ha
a che fare con i problemi pratici del tutto nuovi che sono sorti con lo
sviluppo della tecnologia e detta ricerca medicobiologica. Tutta una serie di
azioni e pratiche umane che risultavano neutre da un punto di vista etico
o che comunque erano affidate quasi integralmente a processi naturali e
biologici, e dunque considerate al di là delle decisioni responsabili, sono
entrate a far parte dell’universo di eventi influenzati dai diversi criteri per
discriminare tra scelte giuste e ingiuste. In primo luogo si sono
andate consolidando come aree largamente indipendenti dell’etica applicata
alcune dimensioni problematiche già colte dalla riflessione del secolo
scorso, Laddove nel Settecento trovavamo solo degli accenni in Bentham sulle
sofferenze degli animali, nella seconda metà del XX secolo si è assistito
al fiorire di una vera e propria etica impegnata nel realizzare la liberazione
degli animali (Singer, 1992). St sono sviluppate diverse concezioni generali
rivolte a giustificare un trattamento non discriminante per le sofferenze
degli animali: da posizioni mistiche o religiose, a quelle utilitaristiche a
quelle che ruotano intorno all'elaborazione di una teoria dei diritti anche per
gli animali (T. Regan, 1990). In questo caso la presentazione di una
risposta normativa alla questione del trattamento degli animali va di
pari passo con una ridescrizione della loro condizione. I libri dei
teorici della liberazione animale sono infatti insostituibili per la ricchezza
di dati e esemplificazioni che forniscono sulle pratiche invalse il più delle volte inutilmente crudeli per quanto riguarda l'uso degli animali nella
ricerca medica e farmaceutica, nell'industria cosmetica a dell’abbigliamento,
nella produzione industriale di cibo ecc. (Singer, 1992). Una
grande fioritura, in quest'ultima parte del XX secolo, hanno avuto i
tentativi già presenti ad esempio in uno
scritto del 1869 di J. S. Mill su The Subjection of Women (La soggezione
delle donne) di affrontare in modo
esplicito e sistematico i problemi etici legati al differente trattamento nelle istituzioni e nelle pratiche
sociali di persone di sesso diverso. Il
dibattito critico sulle discriminazioni legate alle differenze sessuali
ha assistito non solo a una ricerca rivolta a ricavare soluzioni giuste
dalle diverse concezioni normative disponibili, ma anche alla presentazione di
tesi femministe che hanno insistito sulla radicale inconciliabilità tra
l’elaborazione di un'etica delle donne e le concezioni tradizionali. Così
da una paste si è discusso sull’alternativa tra l’universalismo che sarebbe
proprio dell'etica maschile e l'assunzione delle differenze di genere
come orizzonte decisivo che è proprio dell'etica femminile {Irigaray
1985). Dall'altra si è insistito sulla tesi che il recupero del punto di
vista femminile farebbe emergere valori del tutto peculiari e in luogo di
una centralità del valore della giustizia tipicamente maschile segnerebbe
l'affermazione del valore della cura (Gilligan, 1982). Molti altri
tradizionali problemi etici sono stati rivisitati alla luce della situazione
contemporanea e coloro che se ne sono occupati hanno dato vita a un'ampia
produzione specialistica. Tra i campi più significativi per la costituzione di
un'ideale «Enciclopedia Pratica» del nostro tempo ricordiamo le riflessioni
dedicate a: le guerre giuste e l'uso lecito o no della violenza {Walzer, 1990); le
particolari regole che governano le relazioni internazionali tra stati
(Bonanate, 1992); le questioni più strettamente legate alle discriminazioni di
tipo razziale e culturale (Walzer, 1987); i problemi del trattamento
della povertà anche riconoscendone le articolazioni geografiche (Sen, 1981);
il tuolo della pena nel diritto (Ferrajoli, 1989). Una ben precisa area
di etica degli affari si è costituita per i problemi morali posti dall'attività
economica e produttiva, e qui i maggiori avanzamenti sono venuti dall’uso
di una tecnica del tutto nuova fornita dalla «teoria della scelta
razionale» (Sacconi, 1991). Infine un incremento notevole hanno
avuto le riflessioni morali già presenti
in Ar Essay on the Principles of Population del 1798 di Thomas Robent
Malthus (Saggio sul principio di popolazione) e nei Principles of Political
Economy del 1848 di J. S. Mill (Prizcipi di economzia politica) relative alla questione etica di una
procreazione responsabile. Tali riflessioni hanno forte mente
approfondito le questioni collegate al contesto di decisione costituito
dall’intreccio tra le previsioni sullo sviluppo demografico e quelle sulla
disponibilità di risorse. Tutta questa tematica ha portato ad elaborare una
vera e propria etica delle generazioni future. Le questioni della
giustizia tra generazioni, della regolazione delle nascite in previsione della
presenza nel 2050 di oltre dieci miliardi di esseri umani, dei rischi
dello sviluppo tecnologico per gli esseri umani futuri sono al centro di
riflessioni che hanno anche contribuito a modificare il quadro complessivo
delle etiche tradizionali (Parfit; Jonas, 1990). Del tutto nuovi
sono invece due settori di etica applicata. Da una parte abbiamo il
consolidarsi e determinarsi della bioetica come disciplina autonoma che
affronta sistematicamente i problemi etici posti dallo sviluppo della
medicina e della biologia. Non possiamo qui fare altro che accennare ai
principali tra questi problemi del tutto nuovi che coinvolgono la nascita, la
morte e la cura degli esseri umani: la fecondazione artificiale ix vitro:
l'uso nei reparti di terapia intensiva di strumenti vicarianti le funzioni
essenziali della respirazione, alimentazione e idratazione; il ricorso ai
trapianti; la diagnostica prenatale; la ricerca sul DINA e l’ingegneria
genetica; l’accresciuta conoscenza dello sviluppo embrionale e la
possibilità di realizzare in laboratorio le prime fasi di questo sviluppo
con eventuali conseguenti sperimentazioni ecc. Vita umana, persona umana,
sanità, malattia, benessere, diritti dei malati, dignità della morte,
doveri dei medici ece. sono solo alcune delle nozioni che vengono sottoposte a
riesame nella riflessione bioetica che si è concretizzata in una
sterminata letteratura e nella nascita di una ben precisa disciplina. Nel
corso di questa ricerca sono emerse tendenze a far valere alcuni nuclei
tema: tici specifici come nucleo della discussione (ad esempio la
contrapposizione tra un’etica che si impegna principalmente nel sostenere
la non disponibilità e sacralità della vita umana e un'altra che ritiene
invece centrale la preoccupa zione per una buona qualità della vita
umana; Kuhse, o a enucleare principi più specificamente rilevanti per le
problematiche della nascita, morte e cura degli esseri umani (in questo
senso è, ad esempio, frequente il richiamo a un principio di beneficenza o
ad un principio di autonomia: Engelhardt, 1991, ma anche Gracia,
1993). Infine le conseguenze devastanti che sull'ambiente hanno
avuto gli sviluppi scientifici e tecnologici e l'incremento demografico a
livello planetario hanno reso eticamente rilevante una serie di azioni
umane con effetti più o meno diretti, immediati o futuri sulla natura. La
riflessione di etica ambientale è stata caratterizzata da una
molteplicità di concezioni (Bartolommei, 1989): quella più religiosa e
sacrale rivolta a dare un valore intrinseco alla natura; quella
utilitaristica tesa a calcolare le differenti conseguenze (in termini di
danno e beneficio) sull'ambiente di differenti strategie operative; quella
che cerca di estendere il linguaggio dei diritti anche a oggetti naturali
ecc. Non abbiamo fatto altro che elencare le differenti dimensioni
dell'etica applicata. Infatti dalla prospettiva complessiva da cui muoviamo
dobbiamo limitarci a rilevare la fertilità di questo recente dibattito, sia nel
senso di un arricchimento delle nostre conoscenze sui problemi pratici
effettivi degli esseri umani, sia nel senso di un incremento del processo
di democratizzazione dell'etica (al centro di tutti i diversi settori
dell'etica applicata troviamo individui umani che affrontano
autonomamente i loro problemi). Il pericolo che sta dietro questo
specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell'etica applicata è
quello della frammentazione. Ciò che fa questione non è tanto il fatto
che ciascun individuo elabori da sé la propria etica, quanto piuttosto quella
confusione che nella vita pratica di ciascuno può derivare dall’appello, in
situazioni diverse, a principi o criteri etici differenti come risolutivi. Una
frammentazione in questo senso può spingersi fino a esigere dallo stesso
individuo comportamenti incompatibili. In contrasto con questa tendenza
l’obiettivo di una unificazione richiede un recupero di tutte le diverse
dimensioni dell'etica teorica di cui abbiamo reso conto nei paragrafi
precedenti. Un contesto unitario per le riflessioni etiche può infatti essere
offerto da teorie generali che sul piano meta-etico, epistemologico e
normativo identificano quel nucleo
comune valido per qualsiasi approccio o discorso che pretenda di farsi
valere come etico. Nel corso dei paragrafi precedenti abbiamo reso
conto dei problemi generali al centro dell'etica in modo unitario non
tracciando distinzioni al suo interno. Così finora in modo unitario si sono
affrontate le questioni di una caratterizzazione, definizione, giustificazione
o fondazione, applicazione e formulazione sistematica dell’etica. Ma le
norme e i valori con cui ha a che fare l’etica complessivamente intesa vengono
in vari modi distinti in campi più o meno nettamente differenziati nei
nostri discorsi e nelle forme di vita. In questo paragrafo renderemo conto
brevemente della distinzione più comune e consolidata che vede l'etica
comprendere i diversi piani della morale, del diritto e della politica.
Ricorrendo all'aiuto della storia dell'etica possiamo rilevare che
nell’età moderna e contemporanea vi è una certa convergenza nel
discriminare tra morale, diritto e politica, mentre notevoli differenze
vi sono per quanto riguarda i criteri a cui ci si è richiamati per tracciare queste
differenze. I differenti criteri risultano come vedremo nelle pagine seguenti — in
definitiva funzionali alle diverse opzioni meta-etiche, epistemologiche e
normative da cui sono mossi coloro che hanno proposto una ricostruzione
dei campi dell'etica. Un primo modo per caratterizzare il campo
dell'etica che proponiamo di chiamare morale in senso stretto è quello di
considerarlo come quel settore in cui sono in gioco principi e norme che
guidano, 0 dovrebbero guidare, azioni che producono negli altri
conseguenze positive o negative diverse dal danno in gioco con le azioni
di rilevanza giuridica e dai benefici o danni provocati dalle azioni di
rilevanza politica. Proprio in quanto diverso è il raggio di influenza con cui
ha a che fare la morale strettamente intesa essa ha anche a che fare con
una sanzione del tutto particolare che va tenuta distinta da quella in
gioco con la legge giuridica e con quella politica: una sanzione
semplicemente in termini di disapprovazione pubblica piuttosto che di
concrete pene 0 multe o di allontanamento dalla cittadinanza politica.
Questa caratterizzazione dei vari campi dell’etica è largamente corrente
tra gli utilitaristi ed è stata delineata già in On Liberty di J. S. Mill
(Saggio sulla libertà). La caratterizzazione così avanzata della
natura delle regole e dei principi specificamente morali ovviamente nel senso meta-etico di cui qui ci
occupiamo è in realtà pur sempre carica
di normatività in quanto si presenta come una ridefinizione stipulativa.
Alcuni avvertiranno in questa caratterizzazione un limite dato dal fatto che
essa esclude comunque una qualunque rilevanza etica per quelle regole e
principi che riguardano stati d'animo o azioni del tutto privati, ovvero
tali che non hanno nessun tipo di conseguenza né benefica, né negativa sugli altri. Possiamo offrire un chiaro
esempio di questo campo di azioni del tutto private e che non sarebbero di
pertinenza della morale così intesa rinviando ad atti di auto-erotismo o
al modo in cui impieghiamo il nostro tempo libero. È così chiaro
che stiamo proponendo una caratterizzazione della morale più stretta
rispetto a quella a cui giungono coloro che, muovendosi all’interno di
una tradizione spiritualistica e giusnaturalistica, trovano l'etica
complessivamente intesa come un insieme di doveri verso Dio, se stessi e gli
altri. Anche all'interno di questo approccio all’etica, comunque, il livello
della moralità per così dire del tutto privato si presenta come diverso
rispetto a quello della moralità che coinvolge altri; nel complesso poi
l’insieme della morale va tenuto distinto dalle azioni con cui hanno a
che fare il diritto e la politica. Il piano delle regole morali del tutto
private e personali può essere considerato come campo di applicazione di
principi e regole super-erogatorie che hanno a che fare con una vita
santa, eroica o perfetta (Urmson): una forma di vita che solo cedendo al
fanatismo può essere prescritta universalmente. La morale
super-erogatoria va dunque tenuta distinta dalla morale che ha a che fare
con azioni di benevolenza o generosità che per quanto considerate doverose e
obbligatorie non lo sono certo nello stesso senso delle azioni che evitano il
danno fisico per gli altri. Vediamo così ricomparire una distinzione tra
diversi piani della vita etica, sia pure su basi differenti.
Muovendoci all’interno dell'approccio utilitaristico già delineato
suggeriamo però di collocare al di fuori dell'etica generalmente intesa non
solo le azioni strettamente interessate a obiettivi economici, ma anche
molte azioni del tutto indifferenti moralmente che ciascuno di noi può compiere
nel modo che preferisce laddove queste non coinvolgano in alcun modo gli
altri. In questo senso questa concezione dell'etica si presenta come fornita di
limiti anche per quanto riguarda l'ambito della moralità strettamente
intesa (Williams, 1987). i Possiamo dunque collocare l'ambito
della morale nel campo delle azioni benevole e generose che non siamo
tenuti a compiere con la stessa coercività dei nostri obblighi giuridici
e politici. La morale cioè ha a che fare con un universo di azioni che saranno poi distinte in buone e cattive a
seconda dei diversi valori sottoscritti che gli altri non si aspettano da noi come
soddisfacimento di loro diritti giuridicamente o politicamente riconosciuti. Le
nozioni di obbligo, dovere, diritto possono avere un uso nel contesto della
morale, ma con un significato che va tenuto nettamente distinto da quello che
tali nozioni hanno nel contesto giuridico e politico. Molte confusioni e
conflitti sociali nascono dall’incapacità di tenere distinti questi
diversi livelli dell'etica, In un campo della morale così inteso le
diverse concezioni dei valori potranno confrontarsi presentando appunto
diversi modelli e stili di vita virtuosa. La vita virtuosa si distinguerà
poi, da una parte, dalla vita santa o eroica e dall'altra da quel tipo di vita
che è richiesto a ciascuno di noi dalle leggi del suo paese e dalle
regole politiche della sua società. : In un approccio del genere
diventerà decisivo riuscire ad individuare, e tenere ben distinto, un
ambito di danno o offesa che è coinvolto dalle azioni di pertinenza della
morale strettamente intesa. Si tratta di sviluppare l’idea messa a punto dagli utilitaristi e più
recentemente da Hart e Feinberg che ci sono alcune aree delle nostre
azioni interpersonali in cui non sono in gioco danni di rilevanza giuridica,
ma solo danni e offese morali. Gli altri si aspettano da noi un certo
comportamento anche se questo comportamento non è sanzionabile mediante
l’intervento della legge. Il piano di questi obblighi morali coinvolge
principalmente le relazioni più strettamente personali ovvero quelle
relazioni che riguardano i rapporti familiari, i rapporti tra persone di
sesso diverso, le relazioni tra persone di diversa età, le relazioni collegate
a diverse responsabilità professionali o di status sociale ecc, Tutta
un'area di relazioni personali coinvolgono per ciascuno di noi obblighi
relativi al suo status (figlio, padre, marito, amico, medico, docente ecc.) che
non fanno riferimento a danni giuridici, ma a danni morali. Possiamo
provare a suggerire l'estensione e l’importanza di un ambito della morale
così determinato pensando al rilievo che nelle relazioni umane hanno le promesse
che non siano state codificate in un contratto, o alle aspettative che ci
legano con gli altri esseri umani con cui abbiamo istituito più strette
relazioni personali. Proprio quest'ambito della moralità è quello che
rende possibile la convivenza civile. Infatti laddove cerchiamo di ancorare
la permanenza di una qualche forma di società civile o ordine sociale al
riconoscimento di obblighi e danni esclusivamente legali non riusciamo a
rendere conto di niente altro che di uno stato di polizia. Senza basi
morali la convivenza può essere garantita solo da uno Stato ossessivamente
preoccupato che nessuna azione dei suoi cittadini sfugga al controllo
delle sue sanzioni. E si tratterà comunque di uno stato di polizia la cui
accettazione come legittimo da parte di coloro che si riconoscono come
suoi cittadini risulterà del tutto incomprensibile a meno che con un ragionamento circolare e vizioso
non si voglia fare appello alla autorità derivata dalla sola forza. Il
divitto e î sistemzi codificati. Un
ambito dell'etica completamente diverso da quello in gioco nella morale è
quello in gioco nel diritto e nell'insieme delle norme giuridiche. Qui come peraltro con la politica ci muoviamo nel campo dell’etica pubblica,
laddove con la morale abbiamo a che fare con l’etica privata (Veca).
Largamente condivisa è la tesi di una marcata differenza tra piano delle
regole morali e piano del sistema giuridico, nel senso che quest’ultimo
rinvia necessariamente a un momento di codificazione. Anche i teorici del
giusnaturalismo, che pur vedono la sfera giuridica come strettamente
correlata con la legge morale naturale, accettano Ja distinzione sia pure cronologica 0 tecnica tra il piano naturale della morale €
quello civile proprio delle procedure che caratterizzano il diritto e la
politica, Significativa in questa luce la posizione espressa da Locke nel
1690 nei Two Treatises of Government {Due trattati sul governo;
Locke). Locke vede già presente nello stato di natura il diritto di
punire come diritto di ognuno, ma individua nel passaggio alla società civile
la realizzazione di una completa delega di questo diritto a un magistrato
che potrà usare unico autorizzato la forza e fare rispettare le sue decisioni,
che non saranno più caratterizzate dagli inconvenienti che accompagnano nello
stato di natura l’uso del diritto di punizione da parte di
ciascuno. Uno dei grandi problemi al centro dell'etica è proprio
quello delle connessioni tra morale e diritto. La questione preliminare è
quella di spiegare in che senso le norme del sistema giuridico ovvero le norme che si occupano della
giustizia penale e pubblica e che sono sanzionate con l’uso della forza sono collegate con le norme morali
(ovvero pre-giuridiche o non-giuridiche). La soluzione più semplice è
quella del positivismo giuridico che ritiene che di vero € proprio
diritto non si possa parlare se non dopo il costituirsi di un governo
riconosciuto, legittimato e autorizzato a promulgare norme giuridiche. Queste
norme saranno poi valide giuridicamente laddove siano state promulgate
osservando le procedure previste nello Stato dalla Costituzione o dalle sue leggi
fondamentali per l’amministrazione della
giustizia (Scarpelli). La posizione del positivismo giuridico non è priva di
difficoltà in quanto confonde due nozioni etiche concettualmente diverse,
ovvero la legge promulgata correttamente, e cioè nei modi previsti dalla
Costituzione, e la legge giusta. Norme del tutto in regola dal punto di
vista della validità formale richiesta dal positivismo giuridico come quelle promulgate dal regime nazista possono risultare del tutto ingiuste e tali
da esigere un obbligo di resistenza da parte dei cittadini
(Dworkin). Alcune posizioni che si presentano come alternative al
giusnaturalismo si distinguono dal positivismo giuridico proprio in
quanto riconoscono un collegamento tra morale e diritto. Questo è ad esempio
vero per l'utilitarismo fin da Bentham. Infatti Bentham riconosceva
l’ineliminabilità di questa connessione rappresentando la morale e la legge
come due sfere concentriche, l'una più ristretta costituita dal diritto e
l’altra più ampia costituita dalla morale. Questa immagine permette di
capire sia in che senso la morale condiziona la sfera giuridica, sia in
che senso l'ambito del diritto debba essere considerato più ristretto di
quello proprio della morale. Questa stessa linea di analisi è stata
elaborata in modo compiuto da Mill, I collegamenti tra queste due
dimensioni dell'etica la morale e la
legge giuridica sono complessi e
ineliminabili, Non solo i limiti di applicazione della legge giuridica ovvero la distinzione tra l'ambito di
pertinenza della sanzione giuridica e quello in cui c'è completa libertà
dalle sanzioni e in cui dunque vale la sola critica che si manifesta
nella discussione pubblica , ma le stesse procedure mediante le quali
vanno accertate le azioni che sono rilevanti dal punto di vista della
responsabilità giuridica e infine gli stessi modi in cui va articolata la
sanzione e la pena giusta esigono un rinvio continuo a considerazioni di ordine
morale (Ferrajoli, 1989). Il riconoscimento di un’effertiva responsabilità
giuridica rientra anch'esso in un discorso che esige il ricorso ad assunzioni
di ordine morale. Non diversamente assunzioni di ordine morale sono in gioco
laddove si discute la questione della pena adeguata o giusta o meritata
pet un determinato reato. Tutta la discussione sull’uso della tortura,
della pena di morte e dell’ergastolo da parte di sistemi penali sta lì a
mostrare questo intreccio. La politica e i fini del governo. L'ambito dell’etica che invece possiamo
denominare «politica» è quello che rinvia ai principi e alle norme che
all’interno di una società riguardano non tanto i rapporti giuridici,
quanto l’azione del governo e il riconoscimento della sua legittimità.
Una parte della dottrina etica che coinvolge la politica riguarda dunque
l'individuazione dei principi che sono in grado di dare ai governanti
l'autorità per governare, e conseguentemente gli obblighi di lealtà dei
cittadini nei confronti dei loro governanti (e di riflesso gli obblighi dei
governanti nei confronti dei loro cittadini) e infine l’esistenza o meno (e in
quali limiti) di un diritto dei cittadini a resistere alle leggi dello
Stato. Basta volgersi alla riflessione di filosofia politica per
vedere quanto già in quell'epoca fosse centrale la ricerca di una base morale
che desse validità alla pretesa dei governanti di avere un'autorità sui
loro cittadini, Il primo dei Tivo Treatises di Locke rappresenta un
chiaro tentativo di contestare la pretesa avanzata da Filmer nel Patriarca che
i sovrani potessero ricavare il loro diritto ad un'autorità assoluta sui loro
sudditi da una investitura diretta da parte di Dio ad Adamo che era poi
stata trasmessa secondo una linea
diretta, di successione ai suoi eredi.
La cultura filosofica presenta non solo l’attacco più radicale alla concezione
assolutistica del potere politico come di origine divina, ma anche i
primi decisi tentativi di ricavare da principi più mondani il potere dei
governanti. Così Hobbes e Locke percorrevano la strada del contratto come
base del potere politico, ma le due forme di contratto a cui si
richiamavano erano tali da condurre a due diversi tipi di potere politico,
l’uno totalitario ed illimitato e l'altro invece determinato e limitato dal
rispetto di una serie di diritti che comunque il cittadino deve salvaguardare.
Perciò, mentre Hobbes non sembra riconoscere un vero e proprio diritto di
resistenza, Locke lo accetta, come del resto dopo di lui faranno tutti i
teorici dello stato liberale. Quasi tutta la filosofia politica
contemporanea, da J. Rawls a R. Dworkin, da A. Downs a R. Dahl, si muove
elaborando le basi etiche di una teoria liberal-democratica (Brown). È oramai
fuori discussione che solo l’investitura popolare mediante votazioni
democratiche può giustificare il potere politico. Così come è largamente
accettata la convinzione che il potere politico deve limitarsi nelle sue
leggi in modo tale da non toccare i cosiddetti diritti negativi dei suoi
cittadini. Non viene nemmeno posto in discussione specialmente dopo l’esperienza dei regimi
totalitari del XX secolo quali il nazismo e lo stalinismo il riconoscimento del diritto dei cittadini di
resistere ai comandi ingiusti dei loro governanti, anzi addirittura viene
riconosciuto il loro dovere di boicottarli e di lottare contro di
essi. Per quanto riguarda poi la riflessione etica sugli scopi del
governo essa ha subito a partire dal XIX secolo una radicale
trasformazione laddove si è considerato come uno dei compiti primari dei
governi garantire ai cittadini non solo la pace sociale, la vita, la
salvaguardia dei diritti di proprietà, ma anche il benessere, la salute,
la qualità della vita ecc. Quando sono entrati in gioco quelli che si
considerano più propriamente i diritti positivi (cfr. sopra, $ 4.5) dei
cittadini si è posto il problema di quanto si dovesse ritenere autorizzato
il potere di un governante che, ad esempio, ponesse dei limiti ai diritti
negativi dei suoi concittadini al fine di far progredire i diritti positivi
della maggioranza. Si tratta di questioni etiche che la riflessione sul
potere politico si è trovata davanti in particolare all’interno della questione
sociale e sulla base delle lotte sostenute dalle classi operaie e dal
movimento socialista (Bobbio). Molte delle questioni etiche in
gioco nella politica coinvolgono direttamente le relazioni internazionali tra
Stati. È oramai del tutto superata la posizione considerata ovvia nel XVII
secolo per esempio da Hobbes, ma anche da Locke, che riteneva i rapporti
tra Stati come costitutivamente collocabili nella sfera di uno «stato di
natura». Nel corso dell'età moderna e contemporanea non solo è cresciuta
l’esigenza di una valutazione etica delle motivazioni che ispirano le
azioni internazionali dei governanti (Bonanate), ma si è anche affermata sempre
più la spinta a far valere anche tra Stati una serie di principi
consensualmente accettati che garantissero, nei limiti del possibile, la
pace. È stato Kant {Kant) che ha fatto valere con decisione l'esigenza di
estendere anche alle relazioni internazionali quel requisito della pace
che si riteneva necessario per i rapporti all'interno della società civile.
Le Filosofia_in_Ita3 riflessioni etiche sull'uso della forza nelle
relazioni internazionali tra Stati nel XX secolo hanno poi dovuto
affrontare le questioni nuove segnate dalla creazione di armi nucleari. Molto
insistita è stata la conclusione che l’uso di armi che, come quelle
nucleari, mettono a rischio l’esistenza della stessa umanità, non può
essere giustificabile al di lì della sola funzione deterrente (Kavka,
1987; Pantara, 1989). Anche sul piano delle relazioni
internazionali si è poi ripresentata in questo secolo una riflessione etica che
non investe solo quei fini dei governi esclusivamente rivolti a salvaguardare o
difendere i diritti negativi dei cittadini del mondo, ma ancor più i
cosiddetti diritti positivi. In particolare l'incremento della
popolazione mondiale, una differenza sempre più incolmabile tra qualità
della vita nei paesi ricchi e sviluppati dell'Occidente e povertà nei paesi
sottosviluppati dell’Africa, dell'Asia e dell'America del Sud hanno posto
come problema etico primario per la politica la questione di quanto si
debba ritenere obbligatoria una qualche forma di giustizia sociale
internazionale (Pontara; Singer; Sen), Da un punto di vista teorico
generale, così come si è assistito a un allargamento dello spazio per l’etica
nel senso di una progressiva democratizzazione delle responsabilità e
decisioni che essa richiede in modo paritario a tutti i cittadini del
mondo, si assiste altresì a un analogo allargamento di questo spazio nella
direzione di un incremento delle questioni che ad essa si demandano.
L’ipotesi che avanziamo ovviamente
carica di un’opzione normativa è
che ci si muova verso un allargamento delle aree problematiche che
vengono affidate alla discussione pubblica e dunque a una
regolamentazione pacificamente concordata, sottraendole al terreno in cui si fa
ricorso alla forza. Così sul piano internazionale vediamo sempre più
riconosciuta almeno al livello del
dover essere l'esigenza di un governo
mondiale democraticamente
costituito e rispettoso della libertà dei suoi membri impegnato a garantire pace e giustizia
sociale a livello planetario. Oggigiorno sembrano quindi privilegiate quelle
teorie etiche normative in grado di rendere conto in modo adeguato delle
nuove estensioni problematiche presenti nella situazione storica degli esseri
umani, Una competizione con le sole armi dell’argomentazione razionale e della
conoscenza tra concezioni normative può favorire l’in- dividuazione di
soluzioni giuste ed efficaci. In generale poi una richiesta di maggiore
riflessione sull’etica può trovare una sua giustificazione in quanto
questa riflessione sia pure in modi più
o meno indiretti contribuisce a
rendere più realizzabili gli obiettivi della pace, della libertà e della
giustizia sociale per l'insieme dell'umanità senza dovere ricorre alla
forza delle armi 0 alla violenza. Filosofia_in_Ita3
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in Deontic Logic and the General Theory of Action, Amsterdam, North
Holland, Filosofia_in_Ita3 INDICE DEI NOMI: Abbagnano Cooper A.A., v.
Shaftesbury Alchourron Crusius Almond Althusius Dahl Anscombe Darwin Apel
Davidson LIZIO Dawkins Arrow De Marco Austin Descartes Austin Desmond Axelrod
Dewey Ayer D'Holbach Downs Baier Dumont Bartolommei Dworkin Bentham Engelhardt
Berlin Epicuro L’ORTO Blackburn Ewing (CITED BY GRICE) Bobbio Bonanate Fagiani
Brentano Feinberg Brown Ferguson Buchanan Ferrajoli Buddha Ferrara Bulygin
Filmer Butler Finnis Foot Canziani Fox Carcarerra Frankena Cartesio, v.
Descartes R. Freud Cassese Clarke Gandhi Collins Gargeni Colman Gauthier
Condillac (Etienne Bonnot de), 92. Gibbard om/Filosofia_in_Ita3 Gilligan
Glover Gough Gracia Grice, H. P., Grice (Welsh) G. R. Grozio Habermas
Hagerstròm Hare Hart Hartley Hayek Helvétius Hennìs Herbert di Cherbury Hobbes
Hudson Humboldt Hume Hutcheson Irigaray Jonas Jonsen Jules Jung Juvalta Kant
Kavka Kelsen Kuhse Landucci Locke Lorenz Lyons Mackie Macpherson Magri Malthus
Mandeville Manzoni Marirain McDowell Melniyre Meek Mill Mill Montaigne
Moore Moore Musacchio Nagel Norton Nowell Smith Nozick Oppenheim Parfit Pontara
Preti Prichard Pufendorf Putnam Rawls Regan Resnik Rorty Rass Rossi Rousseau
Ruse Sacconi Scarpelli Scheler Filosofia_in_Ita3 INDICE DEI
NOMI Schlick Sen Shaftesbury Cooper Sidgwick Singer Singer Smart
Smart Smith Snare Spencer Spinoza Stevenson Strauss Sugden Thomasius Aquino
Toulmin Urmson Veca Viano Walzer Warrender Weber White Wiggins Williams
Wittgenstein Wolff C., Wiollaston Wright .com Filosofia_in_Ita3 Introduzione
La natura dell'etica si ci. Fondazione, giustificazione e spiegazione:
l’epistemologia dell'etica CRA ERA Le etiche normative; concezioni in
contrasto Dall’etica teorica all’etica
pratica Di Le dimensioni dell'etica Nota bibliografica Indice dei nomi
.. po. Eugenio Lecaldano. Lecaldano. Keywords: simpatia, simpatico,
antipatico, compassione, compassivo, empatia, impassibile, transpatia, patia,
patico, il patico, diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler uses
‘transpathy,’ but then he would use anything!” filosofi italiani della
simpatia, croce, l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia, impassibile, im-
negative, im- enfatico – teorie della simpatia morale in Italia, illuminati e
illuministi --. Refs.: transpatia, dia-pathia, trans-passione – trans-passio. Luigi
Speranza, “Grice e Lecaldano” – The Swimming-Pool Library. Lecaldano.
Luigi Speranza --
Grice e Lelio: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Ha fama
soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. Conosce
i tre filosofi inviati a Roma, ma e attirato principalmente da Diogene, del
Portico. In seguito L. ha rapporto con Panezio e ne diffuse la dottrina
nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. L. partecipa alla guerra
contro i punici e si distinge nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la
pretura. Appartenne agl’auguri è diviene console. Nelle lotte civili
determinate dall'azione di Tiberio GRACCO (si veda), L. si schiera contro
questo e i suoi fautori. E ammirato, se non come oratore, come uomo
politico, e dove il soprannome di "sapiente" datogli
dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Console
della repubblica romana. Filosofo del portico, politico e militare
romano. E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio
Cornelio SCIPIONE (si veda) Africano, che
segue durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e
questore. Si distingue particolarmente nella conquista di Cartagine e in
seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Dopo
un viaggio di XXXVII giorni, partito da Tarraco in Spagna, in seguito alla
presa di Carthago, raggiunse a Roma. Quando entra in città insieme ad una
grande schiera di prigionieri attira l'attenzione del popolo che si riversa
lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato,
dove racconta che Cartagine e presa in una sol giorno. Oltre a questa notizia
rifere che sono state riprese alcune delle città che si sono ribellate ai romani,
mentre altre sono state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono
cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio
Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si sta preparando per passare con un
grande esercito in Italia, tanto da destare preoccupazioni nei senatori, visto
che a stento si e riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. L. rifere
degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato
decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di
ringraziamento a GIOVE CAPITOLINO per l'esito felice della guerra e ordina a
Lelio di far ritorno dal suo comandante SCIPIONE il prima possibile, con le
stesse navi con cui e venuto. Dopo la fine della guerra e edile plebeo, pretore
e console e fornisce importanti informazioni sulla vita dell'amico SCIPIONE Africano,
a Polibio. L. è il padre di L. SAPIENTE, console insieme a Quinto Servilio
Cepione. Smith, Dictionary
of greek and roman biography and mythology, The Ancient Library.Polibio, Livio.
Polibio. Appiano di Alessandria, Historia
Romana. Livio, Ab Urbe condita libri. Polibio, Storie, Strabone, Geografia.
Brizzi, Storia di Roma, dalle origini ad Azio, Bologna, Patron; Piganiol, Le
conquiste dei romani, Milano, Saggiatore; Scullard, Storia del mondo romano.
Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, Milano, BUR, L,, in
Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, Romanzi storici Posteguillo,
L'Africano, Casale Monferrato, Piemme; Posteguillo, Invicta Legio, Casale
Monferrato, Piemme, L., Enciclopedia Britannica. Predecessore Console romano Successore
Manio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica con Lucio Cornelio
Scipione Asiatico Gneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio Nobiliore; guerra punica,
guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Antica
Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani Militari romani Militari.
Consoli
repubblicani romani Laelii Persone della seconda guerra punica. A statesman and
orator who takes a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of
members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the nickname
‘sapiens’ (know it all). According to CICERONE, this was not because L. knew it
all, but because of his self control in matters of judicial sentencing. Cicerone
greatly admires him and featured him in a number of his philosophical works. Gaio Lelio. Lelio.
Luigi Speranza --
Grice e Leocide: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone. Roma – filosofia
basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Luigi Speraza -- Grice
e Leofronte: la ragione cnversazionale e la setta di Crotone – Roma – filosofia
calabrese – scuola di Crotone -- filosofia italiana– Luigi Seranza (Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.
Luigi Speranza --
Grice e Leone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia
basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). FIlosofo italiano. A Pythagorean,
according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide. Alcmaeon di Crotone
dedicates a ‘saggio’ to him.
Luigi Speranza --
Grice e Leonzio: all’isola -- la setta di Leonzio -- Roma – filosofia siciliana
– filosofia leonzia – scuola di Leonzio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo italiano. Filosofo siciliano.
Filosofo leonzio. Leonzio, Sicilia. Pupil of Girgenti. He seems to have written one
essay on philosophy. In it, he argues that nothing exists, or that if anything
did exist, there could be no knowledge of it, or if there could be knowledge of
it, that knowledge could not have passed from one person to another. Poche e scarne le notizie relative a L. sotto il
dominio di Roma. Inquadrata in primo momento tra le città decumane, sottoposte
al pagamento della decima parte del raccolto, si trasforma a poco a poco in
città censoria, il cui territorio viene dato in affitto a cittadini di altre
città dietro pagamento di un canone prestabilito. Alla fine del I secolo a.C.
il territorio di Leontini viene usato per i donativi agli alleati dei
triumvirato. La città entra in un periodo di grande decadenza, scompare
praticamente come città, mentre la popolazione preferisce trasferirsi nelle
campagne e nelle fattorie sparse nel territorio. Quasi del tutto assenti le
notizie relative alla città in periodo imperiale. Le poche informazioni giunte
fino a noi sono inserite nel contesto delle vicende dei santi martiri Alfio,
Filadelfo e Cirino, chiaramente leggendarie e quindi di poca utilità. Secondo
la tradizione, la chiesa leontina è una delle prime ad affermare che Maria è
madre di Dio, prima che questa verità di fede venga ufficialmente proclamata
dal concilio di Efeso. La riscoperta tra studi e scavi Paolo Orsi,
R Carta, R Santapaola in una foto degli anni 30 Dopo un secolare abbandono del
sito, torna l'interesse per la storia del luogo grazie ai primi studi favoriti
da vari studiosi. Le prime indicazioni sull'antica L. provengono da C.M.
Arezzo, Fazello, Alberti, Maurolico e Cluverio. Nel XVIII secolo Vito Amico
identificò la valle S. Mauro come l'agorà e la Valle S. Eligio come sede
dell'antico fiume Lisso. Nel 1781 Ignazio Paternò Castello evidenzia lo stato
di decadenza della città. Schubring studiando il testo di Polibio sulla città
ne identifica la struttura assieme alla strada citata anche da Tito Livio per
la morte di Geronimo nel 215 a.C. La testa del kouros della
collezione Biscari Le prime segnalazioni in merito alle necropoli di Leontinoi
risalgono al 1879 ad opera di Giuseppe Fiorelli, con tombe nella zona nord di
Lentini. Nel 1884 Francesco Saverio Cavallari rinviene un ipogeo cristiano e
nel 1887 una necropoli sicula nella Valle Ruccia. Nel 1891 il Columba presenta
uno studio sulla topografia della città con un rilievo del Castellaccio.
Le ricerche effettuate misero in evidenza l'esigenza di mettere ordine al
patrimonio per bloccare i traffici illeciti di materiali verso collezioni
private. Lo stesso Paolo Orsi evidenzia questo problema suggerendo già nel 1884
la fondazione di un museo archeologico. Sono proprio gli studi di Paolo Orsi a
dare impulso alle ricerche tramite gli scavi condotti in varie parti del sito.
Nel 1902 viene ritrovato il kouros di Lentini, oggi al Paolo Orsi cui viene
associata la testa della collezione Biscari. Nel 1925 lo Ziegler pubblica una
sintesi sulle conoscenze di Lentini. Gli scavi riprendono nel 1940 con
Pietro Griffo presso le fortificazioni del S. Mauro e ulteriori indagini
relative alla topografia. Dal 1950 al 1955 viene messa in luce la porta sud (la
cosiddetta porta siracusana) e viene esplorata la necropoli esterna. Ulteriori
ricerche di Adamesteanu e Rizza mettono in luce altre strutture. Mentre nel
1960 viene rinvenuta casualmente una stipe votiva ad ovest del colle della
Metapiccola. Vengono scoperti dei blocchi in Piazza Vittorio Veneto, nel 1971 e
nel 1974 vengono esplorate delle tombe presso la Valle di S. Eligio, e nel
1977-78 si riprende l'esplorazione della necropoli di contrada Piscitello.
In contrada Crocifisso viene riportata alla luce un'abitazione che rispecchia
le descrizioni di Polibio. Tra il 1981-82 le ricerche vengono effettuale a sud
della porta meridionale in contrada Pozzanghera, mettendo i luce delle tombe di
età arcaica sino a quella ellenistica. Si prosegue con scavi nel 1986 sul colle
Metapiccola, nel 1987 sul Castellaccio da cui emergono anche le strutture
murarie della porta nord. Gli scavi sono proseguiti su varie aree sino al 1989,
poi nel 1993 in Piazza Umberto è stata rinvenuta una necropoli musulmana sopra
a quella greco-arcaica, sino ad arrivare agli ultimi anni con ulteriori
aggiornamenti. Il sito Mappa di Leontinoi «La città di Leontinoi è
interamente rivolta verso settentrione: vi è nel mezzo di essa una valle piana,
nella quale si trovano le sedi dei magistrati e dei giudici e tutta l'agorà. Da
un lato e dall'altro della valle vi sono alture scoscese: I ripiani di queste
alture sopra i colli sono pieni di case di templi. Due porte ha la città, di
cui una è al termine della valle anzidetta verso mezzogiorno e porta a
Siracusa, l'altra, al Nord, porta ai campi detti Leontini e alla regione
coltivabile. Sotto uno degli scoscendimenti, quello verso Occidente, scorre un
fiume che chiamano Lisso. Parallele a questo, E la maggior parte sotto lo
stesso pendio, giacciono delle case contigue, tra le quali e il fiume vi è la
strada anzidetta.» (Polibio, Historiae) Il sito di Leontinoi è
stretto tra Carlentini a sud e Lentini a nord. L'area dell'agorà si trova in
una vallata circondata a sud est dal colle della Metapiccola e a sud ovest dal
colle San Mauro. Mentre a nord vi è l'area del Castellaccio. Il parco
archeologico copre parzialmente l'intera estensione dell'antica città ed è
accessibile da sud, con ingresso dalla porta siracusana, una porta a tenaglia
di cui sono ben visibili i tratti murari. Sull'ingresso sono
rintracciabili anche dei monumenti funerari e delle vicine necropoli del IV e
III sec a.C. Le prime tombe di questa zona risalgono al VI sec a.C. L'agorà si
trova al centro della vallata. Le fortificazioni arcaiche sul monte S.
Mauro Sul colle della Metapiccola è presente un villaggio preistorico
identificato con l'antica Xouthia. Gli scavi hanno evidenziato la presenza di
capanne rettangolari col basamento infossato. Le capanne erano di legno,
difatti sono visibili anche i segni dei pali sul terreno. La cinta muraria
La cinta muraria ha un andamento complesso e mostra quattro interventi
costruttivi. La più antica risale al VII sec a.C. e circondava solo l'acropoli,
sono emersi dei tratti sul lato est del colle S. Mauro con incisioni che
distinguono la cava di estrazione. La seconda cinta è degli inizi del VI
sec a.C. e dal fondovalle risaliva sino al colle della Metapiccola. La
fortificazione ben visibile a piccoli blocchi presenta una torre circolare. Un
restauro delle mura avvenne nel III sec a.C. durante la guerra tra Roma e
Siracusa. Lentini nell'Enciclopedia Treccani, su Treccani. LENTINI
Enciclopedia dell' Arte Antica, Treccani. Bibliografia Massimo Frasca, M.
Congiu, C. Miccichè e S. Modeo, Tucidide e l’archaiologhìa di Leontinoi, in Dal
mito alla storia. La Sicilia nell'Archaiologhia di Tucidide (Atti del VIII
Convegno di Studi, Caltanissetta). Massimo Frasca, Leontinoi. Archeologia di una
colonia greca, Roma 2009 Massimo Frasca, Interazione tra Greci e Indigeni nella
Sicilia orientale Il caso Leontinoi. Maltese, I Tetradrammi di Leontinoi.
Dinamiche produttive e storico-artistiche, Trieste Sicilia, Touring Club
d'Italia, Voci correlate Monte San Basilio Storia di Lentini Museo archeologico
di Lentini Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di
o su Leontinoi Leontinoi, su sapere. Agostini. Leontini, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Leontinoi, su sicilia fotografica
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città dei Calcidesi in Sicilia. Città della Magna Grecia Siti archeologici
della Sicilia greca Portale Antica Grecia Portale
Sicilia Portale Storia Categorie: LeontinoiSiti archeologici del
libero consorzio comunale di SiracusaCittà della Sicilia grecaCittà romane
della SiciliaLentini [altre]. L. Se stai cercando altri significati, vedi L.
(disambigua). Busto di L. ad opera dello scultore lentinese Caracciolo. L.
(in greco antico: Γοργίαςs; Leontini – Larissa), retore e filosofo
siceliota. Discepolo di Empedocle di GIRGENTI (si veda), è considerato
uno dei maggiori sofisti, teorizzatore di un relativismo etico assoluto,
fondato sulla morale della situazione contingente, spinto fino al
nichilismo. Figlio di Carmantida, nasce a LEONZIO, Leontini (odierna
Lentini, nella provincia di Siracusa), città greca della Sicilia. Fu discepolo
del filosofo Empedocle di GIRGENTI (si veda) e dei retori siracusani Corace e Tisia,
inventori della retorica, ma subì anche l'influenza delle scuole pitagorica ed
eleatica. Prese parte ad un'ambasceria ad Atene per richiedere aiuti militari
nella guerra contro Siracusa e riscosse un grande successo per la sua eloquenza
(vedi Prima spedizione ateniese in Sicilia). Viaggiò anche in Tessaglia, in
Beozia, ad Argo (dove fu fatto divieto di frequentare le sue lezioni), a Delfi
e a Olimpia, dove gli furono erette statue. Vendendo i propri insegnamenti di
città in città, pare guadagnasse ingenti ricchezze facendosi pagare fino a 100
mine ad allievo, anche se in realtà alla sua morte lasciò una somma piuttosto
modesta. Muore in Tessaglia, dove soggiornava presso il tiranno Giasone di
Fere, pare ultracentenario[8]; a chi gli chiedeva il motivo di tale longevità,
egli rispondeva: «il non aver mai compiuto nulla per far piacere ad un altro.
Di sicuro visse con sobrietà dominando le passioni, lontano da simposi e
incurante di tutto ciò che potesse turbarlo. Tra i suoi numerosi discepoli si
ricordano Polo di Agrigento, Crizia, Alcibiade, Tucidide, Alcidamante, Isocrate
e Antistene. Pare inoltre che intrattenesse ottimi rapporti di amicizia con
Pericle. Tipico dell'oratoria di L. era l'ampio uso di complesse figure
retoriche, desunte dal linguaggio poetico ed epico. Si prendeva gioco, inoltre,
di quanti sostenevano di poter insegnare la virtù, e vantava di saper tenere un
discorso su qualsiasi argomento, come testimoniato anche da Platone. Insieme a
Protagora, Prodico e Ippia di Elide, viene tradizionalmente ricordato come uno
dei grandi sofisti. Contenuto delle opere principali Opere conservate sono
l'Encomio di Elena e In difesa di Palamede. Solo frammenti, invece, abbiamo del
Sul non essere o sulla natura di un Epitafio per i morti della guerra del
Peloponneso, di un Encomio degli Elei, di un Discorso Olimpico e Discorso
Pitico. Encomio di Elena Lo stesso argomento in dettaglio: Encomio
di Elena. L'amore di Elena e Paride, olio su tela di David, oggi esposto
al Louvre (Parigi) Nell'Encomio L. difende Elena dall'accusa di essere stata
causa della guerra di Troia, con la sua decisione di tradire il marito Menelao
e seguire Paride. Elena è innocente, perché agì o mossa da un principio a lei
superiore (che si tratti degli dèi o dell'Ananke, la Necessità), o rapita con
la forza, o persuasa da discorsi (logoi), o vinta dall'amore. In ogni caso il
movente rimane esterno alla sua responsabilità. Schematizzando,
l'argomentazione L.na è ricondotta a quattro argomenti: Elena si era innamorata
di Paride; era stata rapita da Paride; fu persuasa da Paride; fu rapita per
volontà divina. Nel primo caso Elena è una vittima, poiché Afrodite
promise a Paride che in cambio della Mela d'Oro avrebbe fatto innamorare di lui
la donna più bella al mondo, appunto Elena. Nel secondo caso Elena viene
rapita, quindi è una vittima e la colpa è da assegnare a Paride. Nel terzo caso
se è stata la potenza della parola a convincerla anche in questo caso non è
colpa sua poiché la parola è una grande dominatrice. E se fu per l'ultimo caso
non fu per sua volontà ma per quella degli dei i cui progetti non possono
essere impediti con la nostra precauzione o provvidenza. Sul non essere o
sulla natura Nell'opera Sul non essere G. dimostra, tramite la reductio ad
absurdum, tre ipotesi, volutamente opposte alla scuola di Elea. Il suo
argomentare svolge il seguente percorso logico: Nulla è; Se anche
qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; Se anche qualcosa fosse conoscibile,
non sarebbe comunicabile agli altri. Questi tre punti fondamentali della
filosofia di L., secondo la testimonianza di Sesto Empirico, vengono delucidati
attraverso una sequenza di ragionamenti che portano ad una conclusione
ultima. Che niente esista G. dimostra in questo modo: se qualcosa esiste,
esso sarà o l'essere o il non-essere o l'essere e il non-essere insieme. Ora il
non-essere non c'è, ma neppure l'essere c'è. Ché, se ci fosse, esso non
potrebbe essere che o eterno o generato o eterno e generato insieme. Ora, se è
eterno, non ha alcun principio e, non avendo alcun principio, è infinito e, se
è infinito, non è in alcun luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma
neppure generato può essere l'essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o
dall'essere o dal non-essere. Ma non è nato dall'essere, ché, se è essere, non
è nato, ma è già; né dal non-essere, perché il non-essere non può
generare. Se le cose pensate non si può dire siano esistenti, sarà vero
anche l'inverso, che non si può dire che l'essere sia pensato. È giusta e
conseguente la deduzione che “se il pensato non esiste, l'essere non è
pensato”. E che le cose pensate non esistano è chiaro: infatti, se il pensato
esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si pensino; ciò è
contrario all'esperienza, perché non è vero che, se uno pensa un uomo che voli
o dei carri che corran sul mare, ecco che un uomo si mette a volare o dei carri
si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero che il pensato esista. Di più,
se il pensato esiste, il non-esistente non potrà esser pensato, perché ai
contrari toccan contrari attributi. Ma ciò è assurdo, perché si pensa anche
Scilla e la Chimera e molte altre cose irreali. Dunque l'essere non è
pensato. Posto che le cose esistenti sono visibili e udibili e in genere
sensibili e di esse le visibili sono percepibili per mezzo della vista e le
udibili per l'udito, e non viceversa, come dunque si potranno esprimere ad un
altro? Poiché il mezzo con cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è
l'oggetto, la cosa, non è realtà esistente ciò che esprimiamo al nostro vicino,
ma solo parola, che è altro dall'oggetto. Al modo stesso dunque che il visibile
non può diventare audibile, e viceversa, così l'essere, in quanto è oggetto
esterno a noi, non può diventar parola, che è in noi. E non essendo parola non
potrà esser manifestato ad altri.» (Sesto Empirico, Contro i
matematici) Interpretazione dell'opera Lo stesso argomento in
dettaglio: Relativismo etico sofistico
Il nichilismo di G. E' decoro allo Stato una baldanzosa gioventù, al
corpo la bellezza, all'animo la sapienza, alla parola la verità. (G.
Encomio di Elena) Le interpretazioni di G. si possono dividere
fondamentalmente in due tipi, a seconda che si considerino le sue opere scritte
con intento serio o ironico. Nel secondo caso, il trattato Sul non essere
sarebbe unicamente una parodia delle dottrine e dello stile argomentativo
tipico di Parmenide e della sua scuola e non, piuttosto, una presa di posizione
convinta che invece farebbe di G., secondo alcuni, un precursore del
nichilismo. Nel Sul non essere G. giunge alla conclusione (secondo
l'interpretazione dello Pseudo-Aristotele) che solo il nulla è. Di conseguenza,
l'essere non esiste: poiché se è infinito nessun luogo potrebbe contenerlo, e
non può essere finito poiché gli stessi eleati lo negano come tale. Ancora, se
anche esistesse, non sarebbe conoscibile: chi è all'interno dell'Essere, dello
Sfero parmenideo, non può conoscerlo. Infine, se anche fosse conoscibile, non
sarebbe dicibile né comunicabile ad altri: mancherebbero le parole per
esprimerlo, e anche se fosse esprimibile non si potrebbe comunicare se non ciò
che è oggetto d'esperienza, sicché per L. appare una conoscenza espressa in
termini negativi: la verità non esiste, ogni sapere è impossibile, tutto è
falso perché tutto è illusorio. Se la verità non è raggiungibile né con i
sensi ingannatori né con la ragione, su quali princìpi certi si reggerà la
morale dell'uomo? L. risponde che non esistono valori, princìpi immutabili di
comportamento, ma che ognuno dovrà affrontare la situazione in cui si trova e
semplicemente reagire ad essa. È questa la «morale della situazione» per cui il
comportamento di ognuno varierà a seconda del soggetto, della sua età, della
sua cultura, delle circostanze. Significativo è il fatto che, quando G.
fu incaricato dal governo ateniese di celebrare i caduti della guerra del
Peloponneso, egli disse che questi non furono eroi, ma che erano da onorare
perché accettarono la situazione in cui si trovarono e seppero agire come le
circostanze richiedevano – seppero cioè rispondere all'occasione (kairós)
offerta dalla situazione. Di fronte al dramma della vita, l'unica consolazione
è la parola (logos), che acquista valore proprio perché non esprime la verità
ma l'apparenza (doxa). La parola, afferma nell'Encomio di Elena, è magica: essa
è «un potente signore, che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a
compiere le imprese più divine. La parola esprime al meglio le passioni che
guidano la vita dell'uomo, è in grado di evocarle e modificarle, e così di
sottomettere chiunque. Essa è dunque onnipotente e addirittura in grado di
creare un mondo perfetto dove vivere. L'uomo è una pedina nelle mani del caso
(tyche), il quale domina ogni vicenda umana. Egli, però, sarà felice se sarà in
grado di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità (kairoȋ) che la tyche gli
offre: è per questo, in ultima analisi, che Elena merita un elogio, in quanto
ha saputo sfruttare a proprio vantaggio ciò che le assegnava il destino.
In conclusione, un'interpretazione filosofica del pensiero di G. tenta di
tracciare un percorso che, partendo dal naturalismo proprio di Empedocle,
conduce alla cosiddetta crisi eristica, di stampo nichilista, sino a uno sbocco
in un più sereno scetticismo del linguaggio. Resta tuttavia dubbio se L. avesse
un'effettiva sfiducia nelle possibilità conoscitive dell'uomo o non, piuttosto,
un'enorme fiducia nelle possibilità del linguaggio, in grado di dimostrare
tutto e il contrario di tutto, svincolato da ogni criterio di verità. D'altra
parte, resta anche incerto quanto G. fosse cosciente dell'onnipotenza della
parola o se essa non fosse piuttosto un ovvio corollario della sua attività
retorica. Infine G., a differenza di alcuni filosofi di epoca successiva
come Platone, ha una buona opinione dell'arte: sostiene che se esistesse
l'essere, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta, ma siccome
l'essere non esiste, l'artista è un creatore di mondi. Quindi il bravo artista
è colui che riesce ad ingannare gli spettatori facendoli partecipi delle
proprie opere, mentre lo spettatore più "saggio" è colui che sa farsi
ingannare.[18] Note Fazello, Della Storia di Sicilia, Palermo, Assenzio,
Quintiliano DK Diodoro Siculo, XII 53, 1-3. ^ Olimpiodoro, commento a Platone,
G., Pausania, VI 17, 7 per Olimpia; X 18, 7 per Delfi. ^ Probabilmente il
prezzo di 100 mine d'oro, testimoniatoci da Isocrate nell'Antidosis, si
riferiva non a singole lezioni ma all'intero ciclo di insegnamento. A riprova
di ciò vi è il fatto che lo stesso Isocrate testimonia che alla morte del maestro
non si trovarono le ingenti ricchezze che tutti si aspettavano, ma solo 1000
stateri. Cfr. Antidosis, 155-156. ^ Le fonti riportano un'età variabile tra i
107 e i 109 anni. Cfr. Apollodoro di Atene, FGrHist 244 F33. ^ DK 82 A11. ^
Filostrato, Vite dei sofisti, I 9, 3. ^ Filostrato, Vite dei sofisti, I 1. ^
Forse provenienti da manuali di retorica (frr. 12-14 D.-K.) contenenti numerose
orazioni da memorizzare come esempi. ^ La scuola eleatica, a differenza del suo
fondatore Parmenide, concepisce l'essere come infinito, soprattutto a seguito
delle considerazioni di Melisso. ^ M. Sacchetto, La morale della situazione, in
L'esperienza del pensiero. Le polis e l'età di Pericle, p. 72. ^ DK 82 B6. ^ DK
82B11 ^ J.C. Capriglione, Elena tra L. e Isocrate ovvero se l'amore diventa
politica, in L. Montoneri-F. Romano (a cura di), L. e la sofistica, numero
monografico di «Siculorum Gymnasium» Cfr. DK82 B23. Bibliografia L.,
Testimonianze e frammenti, a cura di Roberta Ioli, Roma, Carocci, 2013. L. di
Leontini, L. "Su ciò che non è", edizione critica, traduzione e
commento a cura di Roberta Ioli, Hildesheim: Georg Olms, 2010. Barbara Cassin, Si Parménide. Le
traité anonyme De Melisso, Xenophane, L., Lille: Presse Universitaire de Lille,
1980. I presocratici. Prima traduzione
integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di
Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006
( = DK) Stefania Giombini, L. epidittico. Commento filosofico all’Encomio di
Elena, all’Apologia di Palamede, all’Epitaffio, Presentazione di Livio
Rossetti, Passignano, Aguaplano, 2012. Giuseppe Mazzara, L.. La retorica del
verosimile, Sankt Augustin, Academia Verlag, 1999. Maurizio Migliori, La
filosofia di L., Milano: CELUC, 1973. Mario Untersteiner (a cura di), Sofisti:
testimonianze e frammenti, Milano: Bompiani, Voci correlate L. (dialogo), il
dialogo platonico di cui è protagonista Ippia di Elide Prodico Protagora
Relativismo etico sofistico Sofistica Gòrgia di Leontini, su Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Calogero, L. di
Leontini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, L. di
Leontini, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Gòrgia (sofista e retore), su sapere.it, De Agostini. L.s of Leontini, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. L., su Internet
Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata (EN) Opere di L., su Open
Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di L., su
LibriVox. Modifica su Wikidata (EN) L., su Goodreads. Modifica su Wikidata
Registrazioni audiovisive di L., su Rai Teche, Rai. Modifica su Wikidata (EN) C.
Francis Higgins, L.s (483—375 B.C.E.), su Internet Encyclopedia of Philosophy.
Taylor, Mi-Kyoung Lee, The Sophists, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information
(CSLI), Università di Stanford. V · D
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a.C.Sicelioti del V secolo a.C.Morti a LarissaFilosofi greci antichi del V
secolo a.C.SofistiCentenari greci antichiMagna Grecia[altre]L.. L. o Leonzio? Cf. Empedocle o
Girgentu. Cf. William or Occam? L.. Conversational reason as a PRESUPPOSITION
for conversation. Trascendental argumentation. L. as a character in Plato’s
dialogue where Socrates and L. argue that, unless understanding that the other
is abiding by a principle of conversational helpfulness, it is not worth
conversing! Or even POSSIBLE! L.. Grice e Leonzio.
Grice e Lionzio. Grice e Lionzo. Grice e Lionzi Grice e Leonzi: l’arte
dell’implicatura – filosofia siciliana – la scuola di Leonzio – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo siciliano. Filosofo italiano,
Leonzio, Sicilia. Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi L.
(disambigua). Busto di L. ad opera dello
scultore lentinese Salvatore Caracciolo. L. (in greco antico: Γοργίας?,
Gorghías; Leontini, 485 a.C. oppure 483 a.C. – Larissa, 375 a.C. circa) è stato
un retore e filosofo siceliota.
Discepolo di Empedocle, è considerato uno dei maggiori sofisti,
teorizzatore di un relativismo etico assoluto, fondato sulla morale della
situazione contingente, spinto fino al nichilismo. Biografia Figlio di Carmantida, nacque
intorno al 483 a.C. a Leontini (odierna Lentini, nella provincia di Siracusa),
città greca della Sicilia.[1] Fu discepolo del filosofo Empedocle e dei retori
siracusani Corace e Tisia[2], inventori della retorica, ma subì anche
l'influenza delle scuole pitagorica ed eleatica.[3] Nel 427 prese parte ad
un'ambasceria ad Atene per richiedere aiuti militari nella guerra contro
Siracusa e riscosse un grande successo per la sua eloquenza (vedi Prima
spedizione ateniese in Sicilia)[4]. Viaggiò anche in Tessaglia, in Beozia, ad
Argo (dove fu fatto divieto di frequentare le sue lezioni)[5], a Delfi e a
Olimpia, dove gli furono erette statue[6]. Vendendo i propri insegnamenti di
città in città, pare guadagnasse ingenti ricchezze facendosi pagare fino a 100
mine ad allievo, anche se in realtà alla sua morte lasciò una somma piuttosto
modesta.[7] Morì in Tessaglia, dove
soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere, intorno al 375 a.C., pare
ultracentenario[8]; a chi gli chiedeva il motivo di tale longevità, egli
rispondeva: «il non aver mai compiuto nulla per far piacere ad un altro»[9]. Di
sicuro visse con sobrietà dominando le passioni, lontano da simposi e incurante
di tutto ciò che potesse turbarlo. Tra i suoi numerosi discepoli si ricordano
Polo di Agrigento, Crizia, Alcibiade, Tucidide, Alcidamante, Isocrate e
Antistene. Pare inoltre che intrattenesse ottimi rapporti di amicizia con
Pericle.[10] Tipico dell'oratoria di L.
era l'ampio uso di complesse figure retoriche, desunte dal linguaggio poetico
ed epico. Si prendeva gioco, inoltre, di quanti sostenevano di poter insegnare
la virtù, e vantava di saper tenere un discorso su qualsiasi argomento, come
testimoniato anche da Platone. Insieme a Protagora, Prodico e Ippia di Elide,
viene tradizionalmente ricordato come uno dei «grandi sofisti».[11] Contenuto delle opere principali Opere
conservate sono l'Encomio di Elena (415 a.C.) e In difesa di Palamede[12]. Solo
frammenti, invece, abbiamo del Sul non essere o sulla natura di un Epitafio per
i morti della guerra del Peloponneso, di un Encomio degli Elei, di un Discorso
Olimpico e Discorso Pitico. Encomio di
Elena Lo stesso argomento in dettaglio:
Encomio di Elena. L'amore di Elena e
Paride, olio su tela di Jacques-Louis David, oggi esposto al Louvre (Parigi)
Nell'Encomio L. difende Elena dall'accusa di essere stata causa della guerra di
Troia, con la sua decisione di tradire il marito Menelao e seguire Paride.
Elena è innocente, perché agì o mossa da un principio a lei superiore (che si
tratti degli dèi o dell'Ananke, la Necessità), o rapita con la forza, o
persuasa da discorsi (logoi), o vinta dall'amore. In ogni caso il movente
rimane esterno alla sua responsabilità. Schematizzando, l'argomentazione L.na è
ricondotta a quattro argomenti: Elena si era innamorata di Paride; era stata
rapita da Paride; fu persuasa da Paride; fu rapita per volontà divina. Nel primo caso Elena è una vittima, poiché
Afrodite promise a Paride che in cambio della Mela d'Oro avrebbe fatto
innamorare di lui la donna più bella al mondo, appunto Elena. Nel secondo caso
Elena viene rapita, quindi è una vittima e la colpa è da assegnare a Paride.
Nel terzo caso se è stata la potenza della parola a convincerla anche in questo
caso non è colpa sua poiché la parola è una grande dominatrice. E se fu per
l'ultimo caso non fu per sua volontà ma per quella degli dei i cui progetti non
possono essere impediti con la nostra precauzione o provvidenza. Sul non essere o sulla natura Nell'opera Sul
non essere L. dimostra, tramite la reductio ad absurdum, tre ipotesi,
volutamente opposte alla scuola di Elea. Il suo argomentare svolge il seguente
percorso logico: Nulla è; Se anche
qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; Se anche qualcosa fosse conoscibile,
non sarebbe comunicabile agli altri. Questi tre punti fondamentali della
filosofia di L., secondo la testimonianza di Sesto Empirico, vengono delucidati
attraverso una sequenza di ragionamenti che portano ad una conclusione
ultima. «Che niente esista L. dimostra
in questo modo: se qualcosa esiste, esso sarà o l'essere o il non-essere o
l'essere e il non-essere insieme. Ora il non-essere non c'è, ma neppure
l'essere c'è. Ché, se ci fosse, esso non potrebbe essere che o eterno o
generato o eterno e generato insieme. Ora, se è eterno, non ha alcun principio
e, non avendo alcun principio, è infinito e, se è infinito, non è in alcun
luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma neppure generato può essere
l'essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o dall'essere o dal non-essere. Ma
non è nato dall'essere, ché, se è essere, non è nato, ma è già; né dal
non-essere, perché il non-essere non può generare. Se le cose pensate non si può dire siano
esistenti, sarà vero anche l'inverso, che non si può dire che l'essere sia
pensato. È giusta e conseguente la deduzione che “se il pensato non esiste,
l'essere non è pensato”. E che le cose pensate non esistano è chiaro: infatti,
se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si
pensino; ciò è contrario all'esperienza, perché non è vero che, se uno pensa un
uomo che voli o dei carri che corran sul mare, ecco che un uomo si mette a
volare o dei carri si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero che il
pensato esista. Di più, se il pensato esiste, il non-esistente non potrà esser
pensato, perché ai contrari toccan contrari attributi. Ma ciò è assurdo, perché
si pensa anche Scilla e la Chimera e molte altre cose irreali. Dunque l'essere
non è pensato. Posto che le cose
esistenti sono visibili e udibili e in genere sensibili e di esse le visibili
sono percepibili per mezzo della vista e le udibili per l'udito, e non
viceversa, come dunque si potranno esprimere ad un altro? Poiché il mezzo con
cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è l'oggetto, la cosa, non è
realtà esistente ciò che esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola, che è
altro dall'oggetto. Al modo stesso dunque che il visibile non può diventare
audibile, e viceversa, così l'essere, in quanto è oggetto esterno a noi, non
può diventar parola, che è in noi. E non essendo parola non potrà esser
manifestato ad altri.» (Sesto Empirico,
Contro i matematici, VII, 65 ss)
Interpretazione dell'opera Lo
stesso argomento in dettaglio: Relativismo_etico_sofistico § Il_nichilismo_di_L..
«E' decoro allo Stato una baldanzosa gioventù, al corpo la bellezza, all'animo
la sapienza, alla parola la verità.» (L.,
Encomio di Elena, 1) Le interpretazioni
di L. si possono dividere fondamentalmente in due tipi, a seconda che si
considerino le sue opere scritte con intento serio o ironico. Nel secondo caso,
il trattato Sul non essere sarebbe unicamente una parodia delle dottrine e
dello stile argomentativo tipico di Parmenide e della sua scuola e non,
piuttosto, una presa di posizione convinta che invece farebbe di L., secondo
alcuni, un precursore del nichilismo.
Nel Sul non essere L. giunge alla conclusione (secondo l'interpretazione
dello Pseudo-Aristotele) che solo il «nulla è». Di conseguenza, l'essere non
esiste: poiché se è infinito nessun luogo potrebbe contenerlo, e non può essere
finito poiché gli stessi eleati lo negano come tale.[13] Ancora, se anche esistesse,
non sarebbe conoscibile: chi è all'interno dell'Essere, dello Sfero parmenideo,
non può conoscerlo. Infine, se anche fosse conoscibile, non sarebbe dicibile né
comunicabile ad altri: mancherebbero le parole per esprimerlo, e anche se fosse
esprimibile non si potrebbe comunicare se non ciò che è oggetto d'esperienza,
sicché per L. appare una conoscenza espressa in termini negativi: la verità non
esiste, ogni sapere è impossibile, tutto è falso perché tutto è illusorio. Se la verità non è raggiungibile né con i
sensi ingannatori né con la ragione, su quali princìpi certi si reggerà la
morale dell'uomo? L. risponde che non esistono valori, princìpi immutabili di
comportamento, ma che ognuno dovrà affrontare la situazione in cui si trova e
semplicemente reagire ad essa. È questa la «morale della situazione» per cui il
comportamento di ognuno varierà a seconda del soggetto, della sua età, della
sua cultura, delle circostanze[14].
Significativo è il fatto che, quando L. fu incaricato dal governo
ateniese di celebrare i caduti della guerra del Peloponneso, egli disse che
questi non furono eroi, ma che erano da onorare perché accettarono la
situazione in cui si trovarono e seppero agire come le circostanze richiedevano
– seppero cioè rispondere all'occasione (kairós) offerta dalla situazione[15].
Di fronte al dramma della vita, l'unica consolazione è la parola (logos), che
acquista valore proprio perché non esprime la verità ma l'apparenza (doxa). La
parola, afferma nell'Encomio di Elena, è magica: essa è «un potente signore,
che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a compiere le imprese più
divine»[16]. La parola esprime al meglio le passioni che guidano la vita
dell'uomo, è in grado di evocarle e modificarle, e così di sottomettere
chiunque. Essa è dunque onnipotente e addirittura in grado di creare un mondo
perfetto dove vivere. L'uomo è una pedina nelle mani del caso (tyche), il quale
domina ogni vicenda umana. Egli, però, sarà felice se sarà in grado di
sfruttare a proprio vantaggio le opportunità (kairoȋ) che la tyche gli offre: è
per questo, in ultima analisi, che Elena merita un elogio, in quanto ha saputo
sfruttare a proprio vantaggio ciò che le assegnava il destino[17]. In conclusione, un'interpretazione filosofica
del pensiero di L. tenta di tracciare un percorso che, partendo dal naturalismo
proprio di Empedocle, conduce alla cosiddetta crisi eristica, di stampo
nichilista, sino a uno sbocco in un più sereno scetticismo del linguaggio.
Resta tuttavia dubbio se L. avesse un'effettiva sfiducia nelle possibilità
conoscitive dell'uomo o non, piuttosto, un'enorme fiducia nelle possibilità del
linguaggio, in grado di dimostrare tutto e il contrario di tutto, svincolato da
ogni criterio di verità. D'altra parte, resta anche incerto quanto L. fosse
cosciente dell'onnipotenza della parola o se essa non fosse piuttosto un ovvio
corollario della sua attività retorica.
Infine L., a differenza di alcuni filosofi di epoca successiva come
Platone, ha una buona opinione dell'arte: sostiene che se esistesse l'essere,
l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta, ma siccome l'essere non
esiste, l'artista è un creatore di mondi. Quindi il bravo artista è colui che
riesce ad ingannare gli spettatori facendoli partecipi delle proprie opere,
mentre lo spettatore più "saggio" è colui che sa farsi
ingannare.[18] Note ^ Tommaso Fazello,
Della Storia di Sicilia, vol. I, pp. 198-200, Palermo, Giuseppe Assenzio, 1817.
^ Quintiliano, III 1, 8 ss. ^ DK 82 A2. ^ Diodoro Siculo, XII 53, 1-3. ^
Olimpiodoro, commento a Platone, L., 46, 11. ^ Pausania, VI 17, 7 per Olimpia;
X 18, 7 per Delfi. ^ Probabilmente il prezzo di 100 mine d'oro, testimoniatoci
da Isocrate nell'Antidosis, si riferiva non a singole lezioni ma all'intero
ciclo di insegnamento. A riprova di ciò vi è il fatto che lo stesso Isocrate
testimonia che alla morte del maestro non si trovarono le ingenti ricchezze che
tutti si aspettavano, ma solo 1000 stateri. Cfr. Antidosis, 155-156. ^ Le fonti
riportano un'età variabile tra i 107 e i 109 anni. Cfr. Apollodoro di Atene,
FGrHist 244 F33. ^ DK 82 A11. ^ Filostrato, Vite dei sofisti, I 9, 3. ^
Filostrato, Vite dei sofisti, I 1. ^ Forse provenienti da manuali di retorica
(frr. 12-14 D.-K.) contenenti numerose orazioni da memorizzare come esempi. ^
La scuola eleatica, a differenza del suo fondatore Parmenide, concepisce
l'essere come infinito, soprattutto a seguito delle considerazioni di Melisso.
^ M. Sacchetto, La morale della situazione, in L'esperienza del pensiero. Le
polis e l'età di Pericle, p. 72. ^ DK 82 B6. ^ DK 82B11 ^ J.C. Capriglione,
Elena tra L. e Isocrate ovvero se l'amore diventa politica, in L. Montoneri-F.
Romano (a cura di), L. e la sofistica, numero monografico di «Siculorum
Gymnasium» n. 38 (1985), pp. 429-443. ^ Cfr. DK82 B23. Bibliografia L., Encomio
di Elena, testo greco a fronte, a cura di Giuseppe Girgenti, Milano,
Alboversorio, 2014. L., Testimonianze e frammenti, a cura di Roberta Ioli,
Roma, Carocci, 2013. L. di Leontini, L. "Su ciò che non è" , edizione
critica, traduzione e commento a cura di Roberta Ioli, Hildesheim: Georg Olms,
2010. Barbara Cassin, Si
Parménide. Le traité anonyme De Melisso, Xenophane, L., Lille: Presse
Universitaire de Lille, 1980. I
presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle
testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di
Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006 ( = DK) Stefania Giombini, L.
epidittico. Commento filosofico all’Encomio di Elena, all’Apologia di Palamede,
all’Epitaffio, Presentazione di Livio Rossetti, Passignano, Aguaplano, 2012.
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Verlag, 1999. Maurizio Migliori, La filosofia di L., Milano: CELUC, 1973. Mario
Untersteiner (a cura di), Sofisti: testimonianze e frammenti, Milano: Bompiani,
2009. Voci correlate L. (dialogo), il dialogo platonico di cui è protagonista
Ippia di Elide Prodico Protagora Relativismo etico sofistico Sofistica Altri
progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a L.
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Collegamenti esterni Gòrgia di Leontini, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Guido Calogero, L. di
Leontini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933.
Modifica su Wikidata L. di Leontini, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Gòrgia (sofista e
retore), su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) L.s of Leontini,
su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata
(EN) L., su Internet Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata (EN)
Opere di L., su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN)
Audiolibri di L., su LibriVox. Modifica su Wikidata (EN) L., su Goodreads.
Modifica su Wikidata Registrazioni audiovisive di L., su Rai Teche, Rai. Modifica su Wikidata (EN) C.
Francis Higgins, L.s (483—375 B.C.E.), su Internet Encyclopedia of Philosophy.
(EN) C.C.W. Taylor, Mi-Kyoung Lee, The Sophists, in Edward N. Zalta (a cura
di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information (CSLI), Università di Stanford. V · D · M Presocratici V · D · M Sofisti Portale
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siceliotiFilosofi siceliotiFilosofi del V secolo a.C.Sicelioti del V secolo
a.C.Morti a LarissaFilosofi greci antichi del V secolo a.C.SofistiCentenari
greci antichiMagna Grecia[altre] Gorgia di Leonzi. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Leonzio”. Leonzio.
Luigi Speranza --
Grice e Leonzio: la ragione conversazionale la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
pugliese – scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to The Vita di Pitagora di Giamblico di Calcide.
Luigi Speranza --
Grice e Lettine: all’isola – la diaspora di Crotona – Roma – filosofia
siciliana – scuola di Siracusa -- filosofia italiana – Luigi Spearnza (Siracusa). Filosofo italiano. Siracusa, Sicilia. A
Pythagorean, according to “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Luigi Speranza -- Grice e Leoni: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia marchese – scuola
di Ancona -- filosofia italiana – il vincolo mi fa libero -- Luigi Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Ancona, Marche. Grice: “I love
Bruno Leoni; my balance between the principle of conversational self-love and
the principle of conversational benevolence is what all his philosophy is
about!” – Grice: “Leoni has technical concepts here: his is an individualism,
i. e. subjectivisim, and he believes that the ‘scambio’ or ‘inter-subjective,’
inter-individual exchange’ is ‘spontaneous – he calls it ‘ordine spontaneo.’ He
doesn;’t see it necessarily as ethical or meta-ethical – but descriptive;
similarly I speak of conversational maxims as different from ‘moral’ maxims!” “La situazione paradossale del nostro tempo è che
siamo governati da uomini non, come pretenderebbe la classica teoria
aristotelica, perché non siamo governati dal diritto, ma esattamente perché lo
siamo. Vive a Torino, Pavia, e la Sardegna. Per la sua filosofia, viene
associato ad un modello liberale e anti-statalista della società. All'interno
della filosofia, si inserisce nella
tradizione del liberalismo classico. Allievo di SOLARI, di cui e pure
assistente volontario, e collega di Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del
conflitto, fa parte di A Force, un'organizzazione segreta alleata incaricata di
recuperare prigionieri e salvare soldati. Insegna filosofia e ricoprendo
l'incarico di preside della facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze
tragiche, ucciso. Un collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione
tipografo ma che svolge amministrazioni di condomini e palazzi, ha perpetrato
truffe e sottrazioni di denaro. Quando se ne accorse e minaccia di denunciarlo,
Quero lo assassina colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo
in un garage, inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli
anni della ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si
affermavano politiche economiche di stampo statalista, anda contro-corrente
sostenendo il liberalismo, che ormai quasi più nessuno e pronto a difendere. L.
critica la logica dell'intervento pubblico mentre esalta la superiore
razionalità e legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del
concorso delle volontà dei singoli individui. Fondatore di Il Politico, svolge
ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per
Il Sole 24 ORE. Membro della Societa Mont Pelerin di cui fu segretario e poi
presidente, il filosofo torinese e pure molto impegnato nel Centro di Studi
Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e
Documentazione Einaudi. Filosofo poliedrico (giurista e filosofo, ma anche
appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che
della storia delle dottrine politiche), L. Promuove le idee liberali
all'interno della filosofia italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo
contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della
società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere
quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore
conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della
rivista da lui diretta, Il Politico, in cui da spazio ad autori spesso a quel
tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche. Con i suoi saggi,
inoltre, L. apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta
pubblica all'Analisi economica del diritto -- filoni di ricerca che esaminano
la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia -- fino all'indagine
interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non
già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca
capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso. E stato quasi
dimenticato: soprattutto in Italia. Il suo saggio più conosciuta (frutto di
lezioni ). L’ndividualismo integrale di L. risulta ben poco in sintonia con la
cultura del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è
pervaso da quella cultura che egli assimila in profondità grazie all'intensa
frequentazione di alcuni tra i maggiori filosofi di quell'universo
intellettuale. Inoltre, segue sempre con il massimo interesse i
protagonisti della scuola austriaca -- Mises e Hayek, soprattutto -- cheanche
se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi
e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi. In questo senso,
bisogna rilevare che il percorso filosofico di L. e stato molto differente
senza la Societa Mont Pelerin, nei cui convegni egli ha l'opportunità di
entrare in contatto con filosofi e scuole di pensiero estranei al clima
dominante nell'Italia. In effetti, l'associazione fondata da Hayek ha
rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercano
interlocutori radicati nella cultura del liberalismo. Dimenticato o quasi
in Italia, la filosofia di L. continua a vivere fuori dei nostri confinigrazie
alle iniziative, ai saggi dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i
suoi saggi suscitano nelle nuove generazioni di studiosi liberali. La
situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione
de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere
sulle pagine del torinese, dando vita ad
una vera e propria riscoperta che sta producendo numerosi frutti e grazie alla
quale si va finalmente riconoscendo a L. la sua giusta posizione tra i maggiori
filosofi del liberalismo. Oggi. non è
più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore
delle sue tesi. In questo senso, è interessante rilevare che perfino filosofi
lontani dalle posizioni liberali e libertarian di L. avvertano sempre più il
carattere innovativo della sua filosofia, che nell'ambito della filosofia del
diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del
normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale
all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre il diritto è
stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al
potere, uno dei contributi maggiori di L. è quello di aver indicato un altro
modo di guardare alla norma giuridica, sforzandosi di cogliere ciò che vi è
oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa
ragione, si guarda alla teoria di L. come ad una radicale alternativa rispetto al
normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da L.. Quella di L.,
per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più
di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della
tradizione libertariana, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che
restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro
potenzialità. Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato
fondato l'Istituto L., con sedi a Torino e a Milano, animato da Lottieri,
Mingardi e Stagnaro, che si propone di affermare, all'interno del dibattito filosofico,
i principii liberali difesi da L, stesso e di promuovere la conoscenza della
filosofia di L. e, in generale, delle teorie liberali e libertariana. Altri
saggi:“Lo stato” (Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Mannelli,
Rubbettino); “La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza
politica e teoria del diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le
radici individuali del diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La
sovranità del consumatore” (Roma, Ideazione);
“La libertà del lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”,
Treviglio Mannelli, Facco Rubbettino, “Il
diritto come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico
moderno e contemporaneo, Masala, Bassani, Macerata, Liberi libri, Istituto L.. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni
nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di
O. Quero, su in mia memoria. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato
a sviluppare le ricerche di L. è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu,
che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana. E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek,
rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e
del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia coerente
con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il
liberalismo (Mannelli, Rubbettino); saggio su L.. Masala La teoria politica (Mannelli, Rubbettino); Lottieri,
“Libertà e stato” in Masala, cur., La teoria politica; Mannelli, Rubbettino; Lottieri,
Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico”, Mannelli, Rubbettino; Approfondisce
il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in L., ma già
ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, L..
Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della
Collana “L'ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e
politico italiano”, Napoli, ESI, Gulisano, Tra positivismo e gius-naturalismo.
Il diritto evolutivo, Foedrus. Gulisano, La teoria empirica di L. La centralità
dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. riscoprire.bruno.l.Bruno
Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice
e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione
liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale
fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo
italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Leoni: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia umbra – scuola di
Spoleto – filosofia perugiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Spoleto). Filosofo italiano. Spoleto, Perugia, Umbria. Grice:
“In Italy, they like ‘renaissance men,’ but there’s a peril in that: Leoni was
a philosopher and a physician (to Medici) – when he died, Medici did, Leoni was
accused of malpractice (poisoning), strangled to death, and thrown into a
ditch. Categorie: philosophers in ditch –
Thales, Leoni.” Di famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e
Pisa. E qui che ha modo di entrare in
contatto con la cerchia di filosofi che gravitano attorno a Lorenzo de’ Medici,
a Firenze. Ha contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico. Venne
considerato uno dei più valenti filosofi. I più illustri personaggi e sovrani
dell'epoca, come il duca di Calabria, il re di Napoli, Ludovico il Moro, forse
anche IInnocenzo VIII, richiedeno le sue cure, tanto che divenne il medico
personale dello stesso Lorenzo de Medici.
All'indomani della morte di Lorenzo de Medici venne ingiustamente
sospettato di essere stato il responsabile del suo avvelenamento, e venne
quindi strangolato e gettato in un pozzo il giorno seguente. Diverse fonti
dell'epoca sostengono che il mandante
dell'uccisione di L. e il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F. Bacchelli,
Dizionario Biografico degl’Italiani, riferimenti in. Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz.
Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Era
adpresso del dicto Lorenzo uno excellentissimo et famosissimo medico de
grandissima scientia in FILOSOFIA, nominato magistro Pierleone de leonardo da
Spolitj, reputato el più singulare valente homo in dicte scientie che ogie dì
viva. E questo uomo in tanto prezzo adpresso del dicto Lorenzo che, senza
quisto clarissimo doctore, non podiva stare. E conducto ad Pisa ad legere, ha mille
ducatj de provisione per anno: poj e conducto ad Padova, ha mille et ducento
ducatj per anno. Ad Pisa stecte annj ad legere e similemente ad Padova. Dagli
Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio
per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Lorenzo se amala, mandò per luj, e anda
a Firenze. E questo mastro L. de tanta scientia, che predisse la morte sua
essere infra IV misi. E anda mal voluntierj ad Firenze. Tandem jonto ad Firenze
trova Lorenzo stare male: sono lì clarissimj medicj et valentj et excellentj:
poj ce venne el medico del duca de Milano: et predice mastro L. la morte de
Lorenzo. Ipso non presta mai et non se mestecù in alcuna medicina ne potione
sue. Il cronista forse vuol dire che L, non s'ingerì affatto in ciò che
riguarda l'assistenza sanitaria dell'infermo, limitando l'opera sua alla pura DIAGNOSI
della malattia ed a consultazioni astrologiche. E con ciò vuole, forse,
velatamente intendere che niente ha a che vedere L. con quelle strane pozioni a
base di gemme e perle triturate somministrate da un altro medico, il
Piacentino, le quali, attese le lesioni viscerali che tormentano il paziente,
servirono forse ad accelerarne il tracollo -- ma solo ipso in consulendo et
predicendo. Tandem venendo alla morte Lorenzo, Perino, figliolo del dicto
Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato homo bestiale e senza prudentia,
ordina che el dicto mastro L. fosse morto. Lorenzo e in villa ad uno suo
casale, e lì tucto dì sta mastro L. Essendo morto Lorenzo, et lì insino alla
sera stando mastro L., volendo tornare luj allu solito loco, e menato per uno
Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale, et lì e strangulato dicto
mastro L., et buctato in uno pozo. Poj e retracto e portato in Firenze, e
retenuto il suo corpo con guardia et veneratione assai. Et de tanto tradimento
et iniusta morte se ne dolse tucta la città, perché la bona memoria de Lorenzo
ama questo uomo più che uomo vivesse, et tucti li secretj soj sapiva, savio,
sapientissimo e pieno de verità, bontà et integrità." Nella sua "Storia della Letteratura
Italiana" Tiraboschi, Firenze, Landi, riporta fonti dell'epoca, fra cui
Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se medesimo ma si
rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice Cambi, da due famigliari di
Lorenzo. Lo stesso testo riporta le affermazioni di Sanazzaro, il quale non
nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei parla di
Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo, e di Allegretti, storico senese
contemporaneo di L., che riporta. L. da Spoleto, che lo medica (si riferisce a
Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'avvelena, nientedimeno si
conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti: Sannazaro. Branca V: Dizionario critico
della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta, Klien: I Medici in rete, Olschki,
Firenze, C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della
Letteratura italiana, Mauro, Opere volgari, Laterza, Bari; Montevecchi, Storie
fiorentine, Rizzoli, Milano; Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria
della carta de' dintorni di Roma, Belle Arti, Roma, Orio, Le iscrittioni poste
sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere, Torrentino, Firenze, Pesenti,
Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova, Repertorio bio-bibliografico, Radetti, Un'aggiunta
alla biblioteca di L. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di
Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di
Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e
opere di un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Sansi: Storia del comune
di Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori. Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier
Leone. Leone. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library. Leoni.
Luigi Speranza -- Grice e Leopardi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del favoloso – Leopardi
fascista – filosofia maceratese – la scuola di Recanati -- filosofia marchese –
scuola di Recanati -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo
italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice: “Oddly, Leopardi’s philosophical
semantics is negative; admittedly, he is wedded to the Fido-‘Fido’ theory of
meaning, so he thinks, pretty much like the first Vitters, that language is a
prison. Man has a need for ‘non-linguistic thought,’ to think without naming –
without conceptualizing! The oddest philosophy of language for Italy’s greatest
poet, one would first think!” -- Grice:
“One could write a whole dissertation on Leopardi’s implicata – not I My
favourite expression would be ‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is
a philosophical griceianism, seeing that my theories were stolen by non-philosophers,
there is ‘leopardismo filosofico,’ seeing that he wasn’t one!” -- essential
Italian philosopher, and founder of a whole movement, ‘leopardismo.’ L. Al dibattito sulle
lingue universali partecipò anche Giacomo L. nello Zibaldone de' pensieri. Sostenne che a rendere internazionale una
lingua non è la potenza della nazione che la parla o la diffusione dei suoi
domini, e nemmeno il suo prestigio letterario: se così fosse la lingua
italiana, che per molto tempo fu intesa e letta nelle corti di tutta Europa e
oltre, sarebbe assurta a lingua
utilizzata da più nazioni, ma così non è stato.L. spiega che invece ciò
che fa di una lingua universale è un aspetto ad essa intrinseco, ovvero la sua
capacità di essere geometrica e regolare e di possedere una struttura semplice
e ideale. Esattezza, precisione, chiarezza i suoi punti costitutivi
fondamentali: Quello poi che ho detto
che una lingua strettamente universale, dovrebbe di sua natura essere anzi
un'ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente anzi esattamente conviene
a quella lingua caratteristica proposta fra gli altri dal nostro Soave I...I,
la qual lingua o maniera di segni non avrebbe a rappresentar le parole, ma le
idee, bensì alcune delle inflessioni d'esse parole (come quelle de' verbi), ma
piuttosto come inflessioni o modificazioni delle idee che delle parole, e senza
rapporto a niun suono pronunziato, né significazione e dinotazione alcune di
esso. Questa non sarebbe lingua perché la lingua non è che la significazione
delle idee fatta per mezzo delle parole.linguaggio (così nominiamola) la quale
giustamente si è riconosciuta per quella maniera di segni ch'è meno dell'altre
impossibile ad essere strettamente
universale. 63 Ella sarebbe una
scrittura, anzi nemmeno questo, perché la scrittura rappresenta le parole e la
lingua, e dove non è lingue né parole quivi non può essere scrittura. Ella
sarebbe un terzo genere, siccome i gesti non sono né lingua né scrittura ma
cosa diversa dall'una e dall'altra. Quest'algebra delLa proposta L.ana si
avvicina alle idee di Soave e crede realizzabile un progetto di lingua
universale solamente qualora questa sia rappresentata da segni matematici,
algebrici. Conscio però della forza implacabile del mutamento linguistico, a cui
tutte le lingue sono soggette, L.
aggiunge: Resta dunque provato che la
lingua strettamente universale, per cagione di quelle stesse condizioni
ond'ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e
senza cui l'universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per
causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi,
dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di
quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente
l'occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua
universalità, la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle
medesime condizioni che a tal durata
indispensabilmente richieggonsi.oIn sostanza quindi, dopo aver
individuato il miglior tipo di linguaggio universale auspicabile, cioè quello
composto matematicamente da segni e caratteri, L. rimane scettico sulla
possibilità, se non d'adozione di una tal lingua, della sua resistenza al
cambiamento. Di questo tratta anche Stefano
Gensini quando spiega che per L. In
termini teorici l...] un'autentica universalità è impossibile, perché
quand'anche i dotti riuscissero a convenire su un sistema artificiale di
comunicazione esso, una volta calato nell'uso, inevitabilmente comincerebbe a
mutare In questo modo, spiega Gensini - (L.]
anticipa a livello teorico l'idea saussuriana che tempo e massa parlante
sianostrettamente universale. books.google.it/ books?id=hnS1DwAAQBAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad =0#v=onepage&q&f=false consultato in
data 06/05/2020. La proposta L.ana si
avvicina alle idee di Soave e crede realizzabile un progetto di lingua
universale solamente qualora questa sia rappresentata da segni matematici,
algebrici. Conscio però della forza implacabile del mutamento linguistico, a
cui tutte le lingue sono soggette, L.
aggiunge: Resta dunque provato che la
lingua strettamente universale, per cagione di quelle stesse condizioni
ond'ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e
senza cui l'universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per
causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi,
dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di
quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente
l'occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua
universalità, la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle
medesime condizioni che a tal durata
indispensabilmente richieggonsi.otIn sostanza quindi, dopo aver
individuato il miglior tipo di linguaggio universale auspicabile, cioè quello
composto matematicamente da segni e caratteri, L. rimane scettico sulla
possibilità, se non d'adozione di una tal lingua, della sua resistenza al
cambiamento. Di questo tratta anche
Stefano Gensini quando spiega che per L.
In termini teorici (.../ un'autentica universalità è impossibile, perché
quand'anche i dotti riuscissero a convenire su un sistema artificiale di
comunicazione (...] esso, una volta calato nell'uso, inevitabilmente
comincerebbe a mutare In questo modo, spiega Gensini - (L. anticipa a livello
teorico l'idea saussuriana che tempo e massa parlante siano elementi 'interni'
dell'organismo linguistico, svuotando di senso, fra l'altro, ogni atteggiamento normativo di tipo
puristico.5STEFANO GENSINI, «Sul campo semantico del linguaggio nello
Zibaldone», in Lo «Zibaldone» di L. come ipertesto. Atti del Convegno
internazionale, a cura di Marìa de las Nieves Muñiz Muñiz, Barcellona, 2012,
pp. 162-163.Il conte Giacomo L., al battesimo Giacomo
Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro L. (Recanati), filosofo. È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento
italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché
una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua
riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi ispirazione sensista e
materialistane fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità
lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama
letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto
oltre la sua epoca. L., intellettuale dalla vastissima cultura,
inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità
greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio,
Epitteto, Luciano ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti
romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un
esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni
materialistederivate principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla
lettura di FILOSOFI come il barone d'Holbach, VERRI e Condillac, a cui egli
unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di una
grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un
compiuto sistema filosofico. Muore di edema polmonare o scompenso cardiaco,
durante la grande epidemia di colera di Napoli. Il dibattito sull'opera L.ana,
specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e
cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei
contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle
opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una
linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito
poetico fanno sì che L., al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più
tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un
precursore dell'Esistenzialismo. L. nacque a Recanati, nello Stato
pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle più
nobili famiglie del paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono all'età
adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. I
genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del conte
Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli studi
e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna
energica, molto religiosa fino alla superstizione, legata alle convenzioni
sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo di sofferenza
per il giovane Giacomo che non ricevette tutto l'affetto di cui sentiva il
bisogno. In conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte dal
marito, la marchesa prese in mano un patrimonio familiare fortemente
indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia
domestica. La rigidità della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i
sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane
Giacomo. Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro,
giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che
erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere con racconti ricchi di
fervida fantasia. La formazione giovanile La casa natale Ricevette
la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori, Torres e Sanchini
che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola
gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della
teologia e della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon
livello contenutistico e metodologico. Nel Museo L.ano a Recanati è conservato,
infatti, il frontespizio di un trattatello sulla chimica, composto insieme al
fratello Carlo. I momenti significativi delle sue attività di studio, che si
svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare nei saggi
finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione delle feste
natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed accurati e qualche
composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione
della Congregazione dei nobili. Il ruolo avuto dai precettori non impedì,
comunque, al giovane L. di intraprendere un suo personale percorso di studi
avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila volumi) e
di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei Roberti e
probabilmente da quella di Vogel, esule in Italia in seguito alla Rivoluzione
francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale della cittadina.
Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui stesso scrive
nell'Indice delle produzioni di me L. è da considerarsi una composizione. Da
questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati puerili.
La produzione dei puerili Puerili e abbozzi vari Il corpus delle opere
cosiddette puerili dimostra come il giovane L. sapesse scrivere in latino fin
dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di versificazione italiana
in voga nel Settecento, come la metrica barbara di Fantoni, oltre ad avere una
passione per le burle in versi dirette al precettore e ai fratelli. Iniziò lo
studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi della sua formazione
giovanile, scrisse le Dissertazioni filosofiche che riguardano argomenti di
logica, filosofia, morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia,
gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità, eccetera). Tra queste è
nota la Dissertazione sopra l'anima delle bestie. Con la presentazione pubblica
del suo saggio di studi che discusse davanti ad esaminatori di vari ordini
religiosi ed al vescovo, si può far concludere il periodo della sua prima
formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per
l'erudizione oltre che uno spiccato gusto arcadico. Si immerse totalmente in
uno "studio matto e disperatissimo" espressione da lui stesso
coniata, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni alla sua
salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerasse sempre
"poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e, senza
l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più sommario apprese anche altre
lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco (nello
Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue antiche, come il sanscrito).
Nel frattempo cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale ritenne inutile
continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di lui. Risalgono
a questi anni la Storia dell'astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari
degli antichi, diversi discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni
poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai rappresentate durante la sua vita,
La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta incompiuta). Per
quanto riguarda la compilazione della Storia dell'astronomia L. si avvalse di
numerose fonti: il testo di base fu sicuramente la Storia dell’astronomia di
Bailly, ridotta in compendio dal signor Francesco Milizia, a partire dalle
Histoires del celebre astronomo francese Jean Sylvain Bailly. L'opera termina
con la scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel. Invece il lavoro di L.
presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio la scoperta di Cerere,
Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del suo testo, L. fece uso,
anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande (presente nella biblioteca di
casa L.), del Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri Paulian e delle storie di
matematica inserite nel Tacquet e nel Wolff. Inoltre L. adoperò diverse opere
generali come la Storia della letteratura italiana di Tiraboschi, gli Scrittori
d’Italia di Mazzuchelli e varie raccolte biografiche di alcuni ordini
religiosi: Wadding per i francescani, Quétif e Échard per i domenicani e così
via. L'elenco di questi testi dimostra l’erudizione raggiunta dal giovane L.. Nella
Storia dell'astronomia L. lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse
per la matematica. Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai
quali invece il Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e
sull'argomento si limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la
invenzione de’ logaritmi fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo.
Probabilmente infatti L. non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò alla
geometria cartesiana e al calcolo differenziale. Iniziò nello stesso periodo anche le prime
pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando
sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli
anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi
introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal
greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre da Frattini di
Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano», gli idilli
di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo
dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di
Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione letteraria:
dall'erudizione al bello Tra Si avverte in L. un forte cambiamento, frutto di
una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad abbandonare l'erudizione per
dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici non più come ad
arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a modelli di
poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come Alfieri,
Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a maturare la sua sensibilità
romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di Goethe, le
opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo L. inizia
a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi conto
della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per liberarsi
dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune poesie
significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno a
Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della
Biblioteca Italiana, indirizzata ai redattori della rivista milanese, in
risposta alla lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de
Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno. Destinato dal
padre alla carriera ecclesiastica per la sua fragile salute, rifiuterà di
intraprendere questa strada. Fu colpito da alcuni seri problemi fisici di tipo
reumatico e disagi psicologici che egli attribuì almeno in partecome la
presunta scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni
scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia
esordì con affezione polmonare e febbre e in seguito gli causò la deviazione
della spina dorsale (da cui la doppia "gobba"), con dolore e
conseguenti problemi cardiaci, circolatori, gastrointestinali (forse colite
ulcerosa o malattia di Crohn) e respiratori (asma e tosse), una crescita
stentata, problemi neurologici alle gambe (debolezza, parestesia con freddo
intenso), alle braccia ed alla vista, disturbi disparati e stanchezza continua.
Era convinto di essere sul punto di morire. Il marchese Filippo Solari di
Loreto scrive poco dopo a Monaldo L.i: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo
dopo cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di
veramente orribile.» Egli stesso si ispira a questi seri problemi di salute,
di cui parlerà anche a Giordani, per la lunga cantica L'appressamento della
morte e, anni dopo, per Le ricordanze, in cui ripensa a questo e definisce la
sua malattia come un "cieco malor", cioè un male di non chiara
origine, che gli fa pensare al suicidio assieme all'angusto ambiente: «Mi
sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme e il
dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi la bella
giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi
più accreditata per lungo tempo (diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da
Citati) è che L. soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano la
diagnosi dell'epoca, più volte riproposta anche nel Novecento, di una normale scoliosi
dell'età evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite tubercolare, oppure
dalla spondilite anchilosante (secondo Sganzerla), una sindrome reumatica
autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei legamenti vertebrali
con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi disturbi infiammatori
sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi gravi, il tutto unitamente
a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno predisposizione genetica,
derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei genitori. Tutti i fratelli L.
furono deboli di salute, con l'eccezione di Carlo, forse però sterile, e
Paolina, la quale presentava solo una leggera asimmetria del viso. Citati
afferma che avesse anche dei disturbi urinari e di probabile impotenza, e
sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a cui poteva ovviare essendo
un nobile benestante) la causa del suo rapporto difficile con le donne e la
sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei disturbi, alcuni medici fiorentini,
come altri medici consultati in gioventù, a parte la deformità fisica
asserirannoprobabilmente in maniera erroneache numerosi disturbi del L. erano
dovuti a neurastenia di origine psicologica (sempre in questo periodo comincia
a soffrire di crisi depressive che taluni attribuiscono all'impatto psicologico
della malattia fisica), come lui stesso a tratti sostenne, anche contro il
parere di numerosi dottori. «Ma io non aveva appena vent’anni, quando da
quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi
dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo;
poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per
sempre.» (Lettera dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo
il neurologo Sganzerla, propositore della tesi sulla spondilite al posto della
tubercolosi, L. non mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica,
sfatando il mito sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste
patologie comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta
(come ribadito spesso da L.), influenzarono comunque il suo pessimismo
filosofico e lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il
significato della vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato
dal critico Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento
conoscitivo". Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente
giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo
portò a scoprire il bello in senso non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel
passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale
che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E
per L., che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la
sua intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne
derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti.
Consapevole ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto
confine in cui, fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì
l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli
avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale
in modo determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della
"teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da L. nel
corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale concezione è
contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la
sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero L.ano in
questi termini avviene. Scrisve al classicista Giordani che aveva letto la
traduzione L.ana del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del
giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così una fitta corrispondenza ed
un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere
scritte al nuovo amico, il giovane L. sfogherà il suo malessere non con
atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi ritengono un ragazzo, e
i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so
io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un
libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che
non è più quel tempo. Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico
divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia» Egli vuole
uscire da quel "centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea"
perché sa che al di fuori c'è quella vita alla quale egli si è preparato ad
inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa le prime osservazioni
all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in
dicembre si innamorerà della cugina, provando per la prima volta il sentimento
d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di scrittura di L. e lo incita a
dedicarsi alla scrittura; inoltre lo presenta all'ambiente del periodico
«Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare al dibattito culturale tra
classicisti e romantici. L. difende la cultura classica e ringrazia Dio di aver
incontrato Giordani che reputa l'unica persona che riesce a comprenderlo. Il
primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!» (Il primo amore,
v.3) Geltrude Cassi Lazzari con i figli, illustrazione di Chiarini per la
Vita di Giacomo L.. Inizia a compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le
sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di
Alfieri e compilò il sonetto "Letta la vita scritta da esso" che
toccava i temi della gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì
profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi
Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni
giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il
"Diario del primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in
seguito inclusa nei "Canti" con il titolo "Il primo amore".
La posizione di L. verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni
forti polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va
maturando e se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone
ed in due saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca
italiana", in risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il
Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle
Osservazioni di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano
l'avversione, sul piano più strettamente concettuale, al Romanticismo. La
posizione di L. rimane fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come
si vedrà, quello che professava sulla pagina critica si rivelerà, poi,
profondamente diverso dai risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo
spirito saranno, invece, perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva,
intanto, scritto le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e
Sopra il monumento di Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e
la sua adesione a quel tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso
dal Giordani. Il suo materialismo ateo si pone in contrapposizione al
Romanticismo cattolico predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche
il suo rifiuto di ogni speranza di progresso nella conquista della libertà
politica e dell'unità nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione
storicistica del passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei
contenuti e nella lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.» (L.,
L'infinito. Si riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto
progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da
un amico di famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il
progetto di fuga fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il L.
elaborò le prime basi della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle
speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del
dolore stesso. Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in
seguito pubblicati con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì
di festa, Alla luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera
del giorno festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento
notturno. Sono i cosiddetti "primi idilli" o "piccoli
idilli". Qui confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa
di coscienza dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il
permesso di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno
successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici. A L. Roma apparve squallida
e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata
studiando i classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di
prostitute che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come
scrive in una lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba
di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso
il Tasso, che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore
a livello stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi
componimenti, come Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente
culturale romano L. visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra
cui i filologi Christian Bunsen (poi ministro del regno di Prussia e fondatore
dell'Istituto di Archeologia a Roma) e Niebuhr; quest'ultimo si interessò per
farlo entrare nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma L. rifiutò.
Ritorna a Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non
era quello sperato. Tornato a Recanati, L. si dedicò alle canzoni di contenuto
filosofico o dottrinale compose buona parte delle Operette morali. Lontano da
Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta, invitato dall'editore
Antonio Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico di dirigere
l'edizione completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici
latini e italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il clima gli era
dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti,
gli recava noia. Ritratto di L. a metà degli anni '30, da alcuni indicato come
una realistica proto-fotografia, probabilmente una riproduzione in eliografia
(o altri tipi) di un'incisione; in alternativa realizzata con la tecnica della
camera oscura da artista: tramite bulino oppure immagine fissata secondo il
metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o bitume e lunga
esposizione). Recanati, casa L.. Decise, così, di trasferirsi a Bologna dove
visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi
con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente
bolognese L. conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al quale
dedicò un'epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse nell'Accademia
dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una
"Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al
Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A
Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si
innamorò senza essere corrisposto. L. frequentò i Malvezzi per quasi un anno,
ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del fatto
che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.L. si sfoga in
una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di lei. Uscivano
intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la casa del
medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta, patriota,
e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la famiglia
Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. L. in un ritratto
postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri al giovane
pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del ritratto di L.
sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte da Ranieri, da
Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto tempo, a causa
delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il quadro venne
ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più fedele e
realistico dei ritratti di L., con l'aspetto che aveva verso la fine della sua
vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e l'acconciatura
che portava negli anni napoletani; i critici hanno però argomentato che sia un
ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli non vide mai L.
dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei ritratti eseguiti da
altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze, dove conobbe il
gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i quali Capponi, Niccolini
(amico e corrispondente di Foscolo allora esiliato a Londra), Colletta,
Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a Firenze per rivedere dal punto di
vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico particolarmente del
Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e Manzoni, sebbene
quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu invece conflittuale il rapporto
col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente avverso al razionalismo ed al
materialismo, il quale giunse a provare una forte avversione per L.,
attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se riconosceva l'abilità
stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare L. per il suo aspetto
fisico (cosa che farà, però solo in lettere private rivolte ad altri, anche il
Capponi stesso irritato per la Palinodia). L. risponderà nel 1836 con un
epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che nell'ottava strofa della detta
Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Si recò a Pisa, dove rimase. Qui strinse
un'affettuosa amicizia con la giovane cognata del padrone del pensionato, Teresa
Lucignani, a cui dedica una breve lirica rimasta a lungo inedita. Grazie
all'inverno mite, la sua salute migliorò e L. tornò alla poesia, che tace (con
l'eccezione della poco riuscita epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del
Coro di lo studio di Ruysch contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle
sue mummie delle Operette morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane
Il Risorgimento e il canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici
che si basano su appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo,
alla figlia del cocchiere di Monaldo, morta giovane, Fattorini), inaugurando il
periodo creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche
"grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone
libera o L.ana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro Guidi, dalla
cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi» (Le ricordanze) Il periodo di
benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e
dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto
con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di
riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici:
Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e Zoologia a
Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle
conoscenze di L.; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a Bonn o Berlino,
ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima tedesco era
troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. L. allora progettò di
mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute non gli
permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati, dove
rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente alla
poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le ricordanze
(la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco prima,
Maria Belardinelli, da L. chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta, Il
sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e il
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo
denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi
idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti
pisano-recanatesi". In questo
periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio
borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i
recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto
che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in
sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un
canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei.» (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il
Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie
ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di
tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per
mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato
quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della
burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei
"Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse
infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro
senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di
personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio
di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di
Recanati, ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta)
che gli austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine
di concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere; L.
accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a Recanati. Risale
sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti
(terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi Lazzari e la Malvezzi),
moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti e forse amante di Ranieri,
conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di
Aspasia", una raccolta di poesie che contiene: Il pensiero dominante,
Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora positivamente), la
drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa raccolta si manifestò il L.
più disilluso e disperato, orfano anche di quella tristezza nostalgica degli
Idilli, nella perdita dell'ultima illusione che gli era rimasta, quella
dell'amore (l'inganno estremo). Aspasia, seppur piena di rancore e sarcasmo
contro Fanny, è considerata l'unica poesia d'amore (seppur per un amore ormai
finito) scritta per una donna che egli frequentò realmente e intimamente, anche
se solo in maniera romantica e intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse
sempre come un amico e dopo la morte come una persona "disgraziata" a
cui non voleva dare alcuna illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la
descrizione fisica e caratteriale della Targioni, presentata come una
"donna fatale", si nota anche una tensione erotica molto rara in L.,
il quale ribadisce ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla
nobildonna. L'identificazione della donna con l'Aspasia poetica è data, più che
dalle lettere di L., dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio
e da alcune lettere tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia
accenna anche a toni polemici e misogini, in cui L. si dice felice di essersi
perlomeno liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi
come un servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una
lettera a Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e
la morte del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di
Consalvo e con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le
sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere
desiderate. Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose
che non sono né belle né degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto
più volte le vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro.
Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo
che non posso nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno
valore, potete stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e
credetemi sempre vostro.» (Lettera da Roma) «Due cose belle ha il mondo:
/ amore e morte. All'una il ciel mi guida / in sul fior dell'età; nell'altro,
assai / fortunato mi tengo.» (Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei
Canti molto precedenti al ciclo, avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto
pensare che il personaggio di Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani
Malvezzi e non solo a Fanny. Per circa 4 anni frequenta molto spesso casa
Targioni, cercando di avvicinarsi alla padrona di casa procurandole moltissimi
autografi di scrittori e personaggi famosi, che lei collezionava. In questo
periodo L. diviene amico anche della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di
Ottajano, affascinata dalla grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel
1827, ma poi se ne allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna
descritta negativamente come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma
con Ranieri per ritornare a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due
ultimi dialoghi delle "Operette", Il Dialogo di un venditore
d'almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò
a corrispondere epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure
in maniera più fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i
due iniziò una fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra L. e
Ranieri vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe
trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso
nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo
al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio
Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai,
né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi
desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma
qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno
per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia.
Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà
eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì
per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse
giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò: «Quivi L.,
mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia
(cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi
lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana
allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua
cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da
ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse
cacciarli, per timore che L. fosse portatore di tubercolosi polmonare infettiva
e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti di sua
proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci faceva
caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse. «L.
ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag zur Nacht
macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei näherer
Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die Feinheit seiner klassischen Bildung
und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein. L. è piccolo e gobbo, il
viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e viceversa conduce una delle
più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo più da
vicino la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare
dispongon l'animo in suo favore. Busto del poeta presente a Villa Doria
d'Angri Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte delle
autorità borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti dopo
la censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni
"dialoghi". L. così ne parlava in una lettera a Sinner: «La mia
filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un
nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante
gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei Pensieri, che raccolse
probabilmente riprendendo molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese
i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto.
A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di
vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo
pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già L. aveva tradotta in gioventù, e
di cui continua la trama) che dal poema Gli animali parlanti di Giovanni
Battista Casti, rimane autografo il solo primo canto. Ranieri affermò sempre
che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto dettatura del L.. Le ultime
ottave sarebbero state dettate da L. morente poco dopo aver terminato l'ultima
poesia, Il tramonto della luna. Qualche dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri
investì soldi dopo la morte del poeta per farli pubblicare come autentici, con
poco successo finanziario. Quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, L. si
recò con Ranieri e la sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre
del Greco, dove rimase dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove
scrisse La ginestra o il fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà,
personalmente e con profondo affetto, L. nei suoi ultimi anni, all'aggravamento
delle sue condizioni fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si
trattasse di un amore fraterno. A Napoli L. lavora incessantemente, nonostante
la salute in peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le
raccomandazioni dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una
persona dalla salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al
pomeriggio e sta sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti
e gelati), talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del
colera) e beve moltissimi caffè. La morte L. sul letto di morte, ritratto
a matita di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi
molto realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La
ginestra o il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie
l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e
Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava
anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. L.
aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il
tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal
formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili
passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo
cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque
decidere il suo destino. In una lettera al conte L., una delle ultime di
Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando
più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue
condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far
sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute. L. si sentì
male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario
delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti
cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio
e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita
fredda) verso sera. Fu colpito da malore
poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato
programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore
dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, L. si spense
alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio,
Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello
stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero
registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della
parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto
"alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri
pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata
analizzata da studiosi di medicina. Molte sono state le ipotesi, dalla più
accreditata, pericardite acuta con conseguente scompenso, oppure scompenso
cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare e cardiomiopatia, seguite a
problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle più fantasiose[146], fino al
colera stesso.Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a smentire
il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio Ranieri: idropisia polmonare
("idropisia di cuore" o idropericardio), il che è comunque
verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla deformazione della
colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una delle conseguenze
dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa principale fosse un
problema cardiaco, forse accelerata da una forma fulminante di colera che
avrebbe ucciso il debilitato L. (che notoriamente soffriva di disturbi cronici
all'apparato gastrointestinale, i quali potevano mascherare la gastroenterite
colerosa) in poche ore. L. era morto all'età di quasi 39 anni, in un periodo in
cui il colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che
fece interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spogliequesta
la versione accettata dalla maggioranza dei biografinon furono gettate in una
fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa
dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una breve riesumazione alla
presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio della chiesa di
San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di Pozzuoli presso
Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro
Giordani: «Al conte Giacomo L. recanatese filologo ammirato fuori
d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente
coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece
Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto all'amico adorato.” Il
ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo dopo che un chirurgo,
non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta di sommaria autopsia
per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera. In realtà fin
dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti
furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue
versioni furono molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo
sospettare che il corpo del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero
delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366
Fosse), destinati in quel periodo ai morti per colera o per altre cause, come
attesta il registro delle sepolture della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca
di Napoli (riportante la dicitura "cimitero dei colerosi" e
"sepolto id.") o addirittura occultate nella casa di vico Pero, e che
Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un funerale a bara vuota,
con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e di un parroco
compiacente a cui avrebbe regalato dei pesci freschi. La lapide
originale, traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri continuò ad
affermare che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e che il
certificato d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta del
ministro di Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di
epidemia. Nel 1898 avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore
Mariotti, smentito da altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima,
un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità,
frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse
gettati nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti
con altre ossa. La tomba di L. (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco
della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del
comune di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del recanatese
e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino dai fratelli
Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con doppia
gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui delle
costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro
intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore
a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare
il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna
traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si
arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi
lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione
venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era
plausibile che quelli fossero parte dei resti di L.. Il medico parla
esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe
deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero
comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo
dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari
incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata
dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di L., e donata alla città di
Recanati. Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a
Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del passato,
la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta
dell'Accademia d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che
ne stabiliva l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco
Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel
quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora
sorge appunto il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei
pressi venne traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento
venne portata a Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal
Centro Nazionale Studi L.ani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte dello
studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della
riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della
Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi
resti fossero davvero di L. tramite l'esame del DNA e del mtDNA, comparato con
quello degli attuali eredi dei conti L. (Vanni L. e la figlia Olimpia,
discendenti diretti del fratello minore del poeta Pierfrancesco) e dei marchesi
Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla Soprintendenza sia dalla
famiglia L. (tramite la contessa Anna del Pero-L., vedova del conte
Pierfrancesco "Franco" L. e madre di Vanni). La posizione ufficiale
della famiglia L. (esplicitata dal 1898 in poi) e della Fondazione Casa L. da
loro presieduta (presidente fino al
conte Vanni L.) è invece che i resti nel parco Vergiliano non siano
comunque del poeta e Ranieri abbia mentito, che il corpo si trovi alle
Fontanelle e che quindi la riesumazione sia inutile, occorrendo altresì
rispettare la tomba-cenotafio lì situata. Un altro membro della famiglia,
chiamato anche lui Pierfrancesco, si è invece detto disponibile. Tale esame non
è stato finora autorizzato. «Cantare il dolore fu per lui rimedio al
dolore, cantare la disperazione salvezza dalla disperazione, cantare
l'infelicità fu per lui, e non per gioco di parole, l'unica felicità. n quei
canti veramente divini il L. trasformò l'angoscia in contemplativa dolcezza, il
lamento in musica soave, il rimpianto dei giorni morti in visioni di
splendore.» (Papini, Felicità di Giacomo L.) Il pensiero di L. è
caratterizzato, attraverso le fasi del suo pessimismo, dall'ambivalenza tra
l'aspetto lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge a credere nelle
«illusioni» e lusinghe della natura, e la razionalità speculativo-teorica
presente nelle sue riflessioni filosofiche, che invece considera vane quelle
illusioni, negando ad esse qualunque contenuto ontologico. La contraddizione
tra anelito alla vita e disillusione, tra sentimento e ragione, tra filosofia
del sì e filosofia del no, era del resto
ben presente allo stesso L., il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò
costantemente per ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto
che la vera filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione
e la poesia. Come ha rilevato De Sanctis. L. non crede al progresso, e te lo fa
desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore,
la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È
scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste
per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a
nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e L.,Luoghi L.ani A
Recanati Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo L.: è la
casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai discendenti e aperto al
pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali dall'architetto Carlo
Orazio L. verso la metà del XVIII secolo. L'ambiente più suggestivo è senza
dubbio la biblioteca, che custodisce oltre 20.000 volumi, tra cui incunaboli ed
antichi volumi, raccolti dal padre del poeta, Monaldo L.. Piazzuola del Sabato
del Villaggio: sulla quale si affaccia Palazzo L.. Ivi si trova la casa di
Silvia e la chiesa di Santa Maria in Montemorello, nel cui fonte battesimale fu
battezzato Giacomo L. nel 1798. Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte
Tabor da cui si domina un panorama vastissimo verso le montagne e che ispirò
l'omonima poesia composta dal poeta a soli 21 anni. All'interno del parco si
trova il Centro Mondiale della Poesia e della Cultura, sede di convegni,
seminari, conferenze e manifestazioni culturali. Il Colle dell'Infinito è
diventato un Bene del Fai aperto a tutti.
Palazzo Antici-Mattei: casa della madre di L., Adelaide Antici Mattei,
edificio dalle linee semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del
Passero Solitario: nel cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la
torre, decapitata da un fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario.
Chiesa di San Leopardo): venne fatta edificare dalla famiglia L. insieme e nei
pressi della villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch. La
cripta, a cui si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia L..
Chiesa di Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i Minori
Osservanti insieme al Convento annesso, cacciati i frati e abbattuti due lati
del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico cimitero di
Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca ed
affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei L.
ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della Posta (corso
Garibaldi), Palazzo Antici Mattei (Roma,
via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso in Sant'Onofrio
al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in mezzo agli aranci e
ai lecci". Bologna ("ospitalissima"), convento di San Francesco
(piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa dell'editore Anton Fortunato
Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano ("veramente insociale")
(Casa Badini, vicino al teatro del Corso (oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna
("tutto è bello, e niente magnifico"). Locanda della Pace, via del
Corso, a Bologna, Ravenna (qui si vive quietissimi), ospite del marchese
Antonio Cavalli. Firenze, "sporchissima e fetidissima città", Locanda
della Fonte, nei pressi del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa
sull'ultimo domicilio di L. a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via del
Fosso (oggi via Verdi), Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan
Pietro Vieusseux, a Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli
(casa Soderini). Il Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così
magnifico, così gaio, così ridente, che innamora"). "Una certa strada
deliziosa" da lui battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a
passeggiare a Pisa (lettera a Paolina L.). Levane, Camucia e Perugia, di
passaggio. Roma (città oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81
(spendo qui un abisso), con Ranieri. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada
nuova di Santa Maria Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti
affittati con Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa
delle Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello "sterminator
Vesevo". Opere di Giacomo L.. Copertina della prima edizione dello
Zibaldone di pensieri. Epistolario Di L. ci sono rimaste oltre novecento
lettere, composte nell'arco di una vita e indirizzate a circa cento
destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al padre e al fratello Carlo).
L'intero corpus epistolare di L. è raccolto dall'Epistolario, che malgrado le
origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta di prose
private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per seguire le
vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione del suo
pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali. L. prese
parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del saggio
Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa polemica
vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro
Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica. L.,
amico del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per iscritto il
proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca italiana e nel
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti entrambi inediti
sino al 1906. Nella prima L., pur riconoscendo la bontà dell'intervento
dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle istanze della
lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi alle nuove
letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si tratta di un
«vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più vicina alle
uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e quella latina.
Nel Discorso, invece, L. approfondì la sua riflessione poetica in merito al
dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali della poesia L.ana,
come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione. Zibaldone Lo
Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle quali L.
depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari. Inizialmente
l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario, essendo
semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: L. iniziò a
datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi agevolmente
nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso scartafaccio»),
arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo stato presente dei
costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve trattato
filosofico dove L. analizza le peculiarità che contraddistinguono la società
italiana, e le compara con il carattere, la mentalità e la moralità delle altre
nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera L. giunge all'amara conclusione che
l'Italia, dilaniata da un esasperato individualismo, è troppo poco civile per
godere dei benefici del progresso (come in Francia, Germania ed Inghilterra),
ma troppo civile per godere dei benefici dello «stato di natura», come accadeva
nelle nazioni meno sviluppate, quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo
manoscritto autografo dell'Infinito Le Operette morali, per usare le parole
dello stesso poeta, sono un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci
malinconici»: è ancora L. a descrivere la propria opera in una lettera
indirizzata all'editore Stella, sottolineando «quel tuono ironico che regna in
esse» e specificando che Timandro ed Eleandro sono una specie di prefazione, ed
un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni». Le Operette, oggi
considerate la più alta espressione del pensiero L.ano, racchiudono l'essenza
del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale
dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura. I
Canti, considerati il capolavoro di L., racchiudono trentasei liriche composte
da L.. Tra i componimenti poetici inclusi nei Canti ricordiamo Sopra il
monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, La sera del
dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra e infine L'infinito, uno dei
testi più rappresentativi della poetica L.ana. Le ultime opere Durante
gli anni napoletani L. scrisse due opere, i Paralipomeni della Batracomiomachia
e I nuovi credenti. Il primo è un poemetto in ottave con protagonisti animali:
«Paralipomeni», infatti, significa «continuazione» mentre Batracomiomachia è battaglia
dei topi e delle rane, ovvero un'opera pseudoomerica che L. aveva tradotto in
gioventù. Dietro la finzione comica L. qui stigmatizza il fallimento dei moti
rivoluzionari napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma
velleitari, mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare
a sé i granchi-austriaci, feroci e stupidi. nuovi credenti, invece, sono un capitolo
satirico in terza rima dove L. esprime una spietata satira contro gli esponenti
dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di facciata e
lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo L. si devono numerosi
neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio colto e
sorvegliato), come "erompere", "fratricida",
"improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa
di L. non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento purista
che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici, di
neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un caso,
un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò accuse
postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della lingua italiana.
Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di L., musica di Frontini, Milano,
Edizioni Ricordi.Coro di morti, versi di G. L. (dal Dialogo di Federico Ruysch
e delle sue mummie, Operette morali), musica di Goffredo Petrassi, per coro e
strumenti. Tre liriche di Goffredo Petrassi, per baritono e pianoforte, testi
di L., Foscolo e Montale. Epistolario di Giacomo L.. L. nell'immaginario
collettivo Il fatto che l'opera di L. sia stata e sia ogni anno oggetto dello
studio di migliaia di studenti ha determinato (come per Dante) che molte
locuzioni delle sue opere siano divenute d'uso corrente. Fra le principali:
studio matto e disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani e Zibaldone di pensieri); passata è la
tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel?
dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio
borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna...
(in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il
sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito).
Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12
pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie
città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano,
Napoli. Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la
Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva
anche altre opere di Trubbiani dedicate a L.: 10 disegni originali
realizzati sul tema "L. figurativo", 8 incisioni a colori, una scultura
in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in osservazione di un gregge di
pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede greggi”, ispirata al Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione scultorea sulla
Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane") ispirata ai
Paralipomeni della Batracomiomachia L.ani. L'ispirazione prodotta in Trubbiani
dall'opera L.ana è raccontata dall'artista nel breve documentario "Le
Marche di L.", patrocinato dalla Regione Marche. L. nella musica pop
italiana L. è citato nella Canzone per Piero di
Guccini e in Stai bene lì di Renato Zero; i suoi versi sono citati anche
nei titoli di Canto notturno (di un pastore errante dell'aria) e Il cielo
capovolto (ultimo canto di Saffo), entrambe di Roberto Vecchioni. Giorgio
Gaber, nella canzone "Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album
"Gaber" del 1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il
luogo "dove i poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su L.
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di
Ermanno Olmi. Pisa, donne e L. (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è
interpretato da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. L. è
interpretato da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma
televisivo"L., il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica
"Il tempo e la storia"; "Le Marche di L.", breve
documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche.
Video in rete su L. "L., il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini,
puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con Massimo
Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo L. e l`importanza di
Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo L. nel commento del
critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore Umberto Ceriani legge:
L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria; "Ecco
il vero Colle dell'Infinito descritto da L."]: Guzzini del Centro Studi L.ani
mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione
al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito; "Marche,
le scoprirai all'infinito", spot turistico della Regione Marche con il
noto attore statunitense Dustin Hoffman che tenta di recitare in italiano L'infinito.
Regia di Giampiero Solari; "A casa di Giacomo L.", intervista di
Pippo Baudo alla contessa Olimpia L. all'interno del Palazzo L. di Recanati;
"Un L. inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino
nella puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado
Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome L. può salvarti la
vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro
e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose
letture/interpretazioni dei principali canti L.ani da parte dei più importanti
attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Gassman: L'infinito, A
Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la tempest, A se
stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra (o Il fiore
del deserto) Alla luna, La sera del dì
di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà: L'infinito, Passero
solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il
fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio
Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia:
L'infinito, Lavia dice L.; Alberto Lupo:
Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario
Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la prima
parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima parte di
Aspasia. L. "testimonial" della Regione Marche La Regione Marche,
dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese per la
promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria offerta
enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso un video,
per la regia di Solari, trasmesso sui principali canali televisivi italiani ed
anche esteri, con protagonista il noto attore statunitense Dustin Hoffman[236],
già conoscitore delle Marche per aver interpretato ad Ascoli Piceno il film di
Germi "Alfredo, Alfredo", assieme ad una giovane Sandrelli.
Questa la descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della
stagione turistica: «Un uomo legge una delle poesie più note della
letteratura italiano, l’Infinito di Giacomo L., la cui emozionalità è
strettamente legata alle visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana.
L’uomo legge la poesia camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua
non stando fermo, dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha
visto nascere questo capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole
assolutamente penetrare la lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di
questa terra e riprova e riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi
di Rossini, che accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo
cerca per sé: l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere
l’Infinito nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova,
formidabile, ma difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine
sorridere, la poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente
conosciuta, capita e raggiunta.» (dal comunicato stampa della Regione Marche)
Nello spot Hoffman tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano
"condito" dal suo marcato accento californiano. Un accento tanto
forte e straniante da suscitare numerose critiche all'operato della Regione.
Tra queste, quella di Mina[239], che nella sua rubrica sulle pagine de "La
Stampa", ebbe a scrivere: «L. bisogna meritarselo. Sarebbe andato
benissimo anche Oliver Hardy. Al quale, paradossalmente, in questa
demoralizzante «performance», mi sembra che assomigli. Non so come l'avrebbe
fatta Ollio. Non peggio, credo... Sentire la nostra potente, meravigliosa
lingua strapazzata dal pur bravo divo americano mi ha rigettato giù nella
nostra condizione di sempiterna colonia... il mondo della pubblicità è un mondo
di matti. A volte geniale, ma più spesso volgare e irrispettoso. Dustin
Hoffman, from Los Angeles, sarà pure un nome che tira, ma non li avevamo noi
degli attori al suo livello? E che parlano l’italiano? E che conoscono la
musica dell’andamento di un’esposizione poetica?» (Mina Mazzini) Al
contrario, l'operazione promozionale fu elogiata da Rienzo, linguista e critico
letterario, da Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente
presidente onorario e presidente emerito dell’Accademia della Crusca; quest'ultimo
commentò lo spot con queste parole: «Sprovincializza la lingua italiana» Comunque
sia, lo scopo perseguito fu raggiunto: anche grazie alle polemiche, la versione
non definitiva del video della Regione Marche, inserito su YouTube, totalizzò
quasi 21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella prima settimana.
Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la campagna
promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi L.ani, ma,
come sottolineò Grasso sul "Corriere della Sera", nella nuova
edizione «il volto del testimonial diventa più importante dell’oggetto da
reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un racconto tutto
personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito amore per le
suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la gastronomia, l’arte,
la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna promozionale del Dustin Hoffman fu sostituito dall'attore
marchigiano Neri Marcorè. Continuò comunque l'utilizzo a scopi
promozionali dell'immagine di L.: sull'onda del successo del film "Il
giovane favoloso", diretto dal registra Mario Martone e interpretato
dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie di iniziative per
promuovere la visione del film e di conseguenza del territorio marchigiano che
ne aveva ospitato le location, tra cui un "movie-tour", consentito
gratuitamente a tutti gli spettatori muniti del biglietto del cinema. La
Regione ha patrocinato la realizzazione di un breve documentario, "Le
Marche di L.", diretto da Alessandro Scilitani, nel quale l'assessore alla
cultura dell'epoca tratteggiava il riepilogo delle iniziative regionali per
valorizzare la figura del poeta recanatese. Seguono una breve biografia di L.,
con le immagini di Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali
marchigiani che, rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il
pensiero del Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti
nella Regione (Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani,
Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti
marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci
paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su L. Giacomo L.,
Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza et f.i,Antonio Ranieri, Sette anni di
sodalizio con L., Milano-Napoli: Ricciardi, 1920; poi Milano: Garzanti,
(con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia (Raffaella Bertazzoli);
Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa L., Milano: Camunia; poi Milano:
Rizzoli, 1990 Renato Minore, L.. L'infanzia, le città, gli amori, Milano:
Bompiani, Rolando Damiani, Album L., Milano: Mondadori «I Meridiani», Attilio
Brilli, In viaggio con L., Bologna: Il Mulino, Rolando Damiani,
All'apparir del vero. Vita di Giacomo L., Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello
D'Orta, All'apparir del vero: il mistero della conversione e della morte di L.,
Piemme,. Pietro Citati, L., Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi L.ani
nel primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro
Nazionale di Studi L.ani. Esso ha come scopo la promozione di ricerche e
studi su Giacomo L. in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico,
artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo L., Effettivamente
il titolo di conte con cui L. veniva talvolta appellato, e che egli stesso
usava, in quanto primogenito dei conti L., era un "titolo di
cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a
Monaldo, finché fu in vita. Uno
sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ). Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo
L., su emsf.rai). Forse la malattia di
Pott o la spondilite anchilosante. Erik Pietro Sganzerla, Malattia e
morte di L.. Osservazioni critiche e nuova interpretazione diagnostica con
documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia a un uomo che
soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non felice e una
cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro decorso
temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei problemi
visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e ambientali
nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la diagnosi di
Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che L. «affetto
da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria cronica,
aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno scompenso
cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e possibile
miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che
dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è
male» (L., Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) Renato Minore, L.. L'infanzia, le città, gli
amori, Milano, Lettera di G. L. (Recanati) a Pietro Colletta (Livorno), ed
atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de' maggiori di queste
parti, è sommerso nei debiti. Emilio
Cecchi e Natalino Sapegno, Storia della letteratura italiana. Milano L'Ottocento
Zibaldone «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si
spegne la contessa L., erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti
vari inediti di Giacomo L. dalle carte napoletane, Firenze, successori Le
Monnier, Maria Corti in «Giacomo L.. Tutti gli scritti inediti, rari e editi»,
Milano, Bompiani 1972 Citati20-25. Cecchi, Sapegno, oGiuseppe BonghiBiografia di
L., su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano, Recanati,in
Epistolario di Giacomo L. con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte e
lettere di Giordani e Pietro Colletta all'Autore, raccolto e ordinato da
Prospero Viani, I, Napoli, Lettera
all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in Epistolario di L. con le
iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con sorpresa, in questa
lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato dallo storico Lucio
Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di Massimo Bernardini
(puntata "L., il rivoluzionario", 15 ottobre, RaiTre-RaiStoria) Sarà la lingua utilizzata nelle lettere allo
Jacopssen Il programma delle
celebrazioni L.ane, su giornale. regione. marche. Il sanscrito nella teoria
linguistica di Giacomo L., in L. e l'Oriente. Atti del Convegno Internazionale,
Recanati a c. di F. Mignini, Macerata,
Provincia di Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, L. e le scienze
matematiche, 5-8. Aimé-Henri Paulian su data.bnf.fr. Un episodio della sua vita farà da spunto a
una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria Cecchi, Sapegno, Spesso nell'epistolario
afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una coperta di
lana. C 33 esegg. Giuseppe Bortone, Il "morire
giovane" in L.i, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri
maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo Alessandro Livi, giacomo L., le malattie ed i
misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico, Paolo Signore,
Giacomo L.: il genio di Recanati favoloso e malato, su Rotari Club Fermo, «Di contenti, d'angosce e di desio, / Morte
chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di
cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco Malor,
condotto della vita in forse, / Piansi la bella giovanezza, e il fiore / De'
miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso / Sul
conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna poetando, / Lamentai co'
silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me stesso / In sul languir
cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su torreomnia. Giuseppe Sergi
e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la malattia,
"diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e considerata
probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di L. anche da
una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici pediatri recanatesi,
Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece.
Es. sindrome della cauda equina
Alcuni propongono altre diagnosi: diabete giovanile con retinopatia e
neuropatia, tracoma oculare con sindrome di Scheuermann alla schiena e disturbo
bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo cifoscoliotico, rachitismo e
neuropatia periferica originate da celiachia o malassorbimento, sifilide
congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni napoletani, arrivò a
pensaresalvo poi smentireaffermando che L. morì vergine (cosa dibattuta), Sette
anni di sodalizio con L.i che avesse contratto la sifilide o che l'avesse
ereditata dal padre. cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia
clinica di Giacomo L., Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto
contestata poiché basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia
criminale e della frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e
Giuseppe Sergi affermarono che L. aveva l'epilessia, e avesse disturbi
ereditari come tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi. Prof. M. L. Patrizi, Saggio
psico-antropologico su L. e la sua famiglia, Torino, Fratelli Bocca Editori, Patrizi.
G. Chiarini, Vita di G. L.453. E.
Galavotti, Letterati italiani Lettera di Paolina L. a G.P. Vieusseux, G. L., Lettera
ad Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. L., Zibaldone,
autografo, Scritti vari inediti di Giacomo L. dalle carte napoletane, cUn'analisi
critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla
Batracomiomachia si trova in: Riccardo Bonavita, L.: Descrizione di una
battaglia, Nino Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e
scrittori della letteratura italiana, 3,
tomo 1, Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove
privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più
tenebroso. Cecchi, Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di
cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma),
mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che
sia facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente
tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate
una befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in
Roma come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza
di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al
mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non
si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che
si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali
trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono così
pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione dell'epistolario
venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato solo in edizioni
recenti, come quella dei Meridiani, poiché troppo esplicito ("non la
danno"); cfr. Il senso di L. per la donna di città. Pierluigi Panza, La
casa di Silvia (amata da L.) restaurata e aperta, in Corriere della Sera L'eliografia,
metodo di riproduzione messo a punto da Joseph Nicéphore Niépce fu da questi
usato per la prima fotografia (precedente di 13 anni il dagherrotipo). Bonghi, Biografia di L., su classicitaliani. La
donna nelle parole di L., su casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle
Operette morali, Garzanti Citati 226 e
segg. Bortolo Martinelli, L. oggi:
incontri per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi,
Vita e Pensiero, Fotografia della
maschera (JPG), Centro Nazionale di Studi L.ani Recanati. 1º gennaio (archiviato il 1º gennaio ). Donatella Donati, L. a Napoli, Centro
nazionale di studi L.ani Centro mondiale della poesia e della cultura "G.L."Recanati
Città della poesia, Per lui scrisse la celebre Palinodia al marchese Gino
Capponi Niccolini era già stato
l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani delle Ultime lettere di Jacopo
Ortis «Ora bisogna che io scriva a quel
maledetto gobbo, che s'è messo in capo di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi
a Gian Pietro Vieusseux) Una stroncatura
per L. Archiviato in.; mentre fu più
meditato e indulgente il giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla
poesia e su L. stesso. Introduzione alla
Palinodia L., Epigramma contro il Tommaseo,
su fregnani. Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su
classicitaliani.Carlo L. così ricordava, su ilgiardinodigiacomo. wordpress.com.
Cfr. lettera di G. L. (Recanati) a Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver
percepito venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese. Lettera aColletta dcome citato in Marco
Moneta, L'officina delle aporie: L. e la riflessione sul male negli anni dello
Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani, La
scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30. Gente che m'odia e fugge, per invidia non
già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in
cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo L.: scaramucce
e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. L., in Catalogo degli
Accademici, Accademia della Crusca. CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione
Garzanti Donne fatali 2: L. e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto
di vivere quanto amando...", su sulromanzo. "Tu vivi / bella non solo ancor, ma bella
tanto, / al parer mio, che tutte l'altre avanzi"Aspasia, G. Sarra,
Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti e link in. Giovanni Mèstica, Gli amori di G. L., in
Fanfulla della domenica, (Fonte DBI).
Altri ritengono che il canto alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni
Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio nel commento ai Canti, edizione
Signorelli, Roma. L.: dama invaghita del poeta non fu ricambiata ma evitata, su
adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio
con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo Abbate, La vita erotica di L.,
C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu, pubblicato in
"Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's who in gay and
lesbian history, 1, ad vocem L. gay? Vietato dirlo, su ricerca. repubblica.
Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario, BrioschiLandi,
Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, Milano. D'Orta12.
Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo L. in L. Epistolario,
Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle abitudini del vivere. Si
leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari irregolari, va a letto verso il
fare del giorno. La sua vita non può esser longeva per i complicati mali onde è
gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, 1
"Durante tutta la sua vita, egli fece, appresso a poco, della notte
giorno, e viceversa." Traduzione in
Michele Scherillo, Vita di Giacomo L., Greco Editori, Milano, Epistolario,
lettera. L. e le donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro,
Ranieri Paola (Paolina), su treccani. 2 D'Orta25. L. Il poeta della sofferenza, su archivio storico.
corriere. Teorie alternative sulla morte del conte L. sono state trattate e
documentate negli studi condotti da Cesaro (cfr. Sfrondando gli allori della
poesia) Lettera di Antonio Ranieri a
Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta anche Citati, L., Mondadori,, Milano,
Secondo originale dell'atto di morte di L., su dl.antenati.san.beniculturali. Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e
delle Arti, Napoli dalla Tipografia Plautina, cfr. anche Notizia della morte del Conte
Giacomo L. Angelo Fregnani Ad esempio cibo avariato, congestione, coma
diabetico o indigestione Cenni storiciFu
un'indigestione a causare la morte di L.?, su spaghettitaliani.com. Napoli e L.,
su ildelsud.org. Ecco i confetti che uccisero L.. Al Suor Orsola la collezione
Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere. in Lettera di Ranieri a Fanny
Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di A. R. a Monaldo L., Napoli, in
Opere inedite di Giacomo L., G. Cugnoni,
I, Halle, Max Niemeyer Editore, Nuovi documenti intorno alla vita e agli
scritti di Giacomo L., G. Piergili, Firenze, Le Monnier, in.; "Idrotorace" in Lettera di A.
R. a De Sinner, Napoli, idropisia di petto" dice Paolina L. in una lettera
a Marianna Brighenti Biografia sulla Treccani,
su treccani. are LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni
Bonsignore, Bellia Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza
edizione, Milano, McGraw-Hill, Picchi, Storie di casa L., BUR, Dalla foto
pubblicata qui, su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e
letterarie per la Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di
Pietro Giordani, Scritti editi e postumi
di Giordani, pubblicati da Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione,
che presenta lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di
Giacomo L., edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo
intendimento dell'autore, da Antonio Ranieri,
Firenze, Successori Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10
ottobre in.. Pasquale Stanzione, Giacomo L.Una tomba vuota
a Fuorigrotta, su pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale stanzione. Ingrandimento
(JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su L.? Occorre cautela in. da
Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni, Vinceti Delitti e misteri del
passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio di Pier
Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA,
MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO? Loretta
Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi, L.,
strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”, recensione a:
Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo L., Guida,
Picchi, Storie di casa L. Si riporta anche il verbale ufficiale delle persone
presenti. E' vuota la tomba di L.. Guerra sulla riesumazione dei resti,
su ricerca.repubblica. La Vita L., sito
gestito dal CNSL Si torna a parlare dei
resti di L., nato comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di
Napoli, su ilcittadinodirecanati. Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su
cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia, Milano, Mondadori, Cfr. in proposito anche gli studi che il
filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare: Manzoni e L.: saggi critici
(Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo L. (Firenze, Sansoni). Paolo Emilio Castagnola, Osservazioni intorno
ai Pensieri di Giacomo L., pag. 26, Tipografia del Mediatore, Gino Tellini,
Filologia e storiografia. Da Tasso al Novecento, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, Sebastian
Neumeister, Giacomo L. e la percezione estetica del mondo Peter Lang, In Saggi critici, Russo, Bari,
Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc. Per L., su pergiacomo L..altervista.org. Tutte
le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In viaggio con
L., Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di L., tratte da sue
lettere. Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da L. a
Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare,
da L. a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali, su internetculturale. Sambugar,
Sarà, Visibile parlare, da L. a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi
Enciclopedia dell'Italiano (), Istituto dell'Enciclopedia italiana. Catalogo della mostra "Viaggi e transiti
opere L.ane di Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione
dell'inaugurazione del Centro culturale "Pergoli" di Falconara Marittima
Comune di Falconara Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la scheda
dedicata al CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea
di Falconara Marittima nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema
Museale della Provincia di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione
dell'Arte contemporanea, su Associazione "Sistema Museale della Provincia
di Ancona". "Le Marche di L.", breve documentario diretto
da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v=
Km1EK0MH6Sg ascolta la canzone nel sito
della Fondazione Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il-
luogo-dove-testo Archiviato il 6 settembre
in. vedi il testo dell'Operetta
morale in Operette _morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere.
Il corto metraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di
un passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBK JZNaU Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno
del programma "L., il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata
della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia" con
Massimo Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/ articoli/l.- il-rivoluzionario/default.aspx
"L., il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica
"Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio
Villari://raistoria.rai/ articoli/ L. -il-rivoluzionario/ default.aspx in. Rai Storia, "Giacomo L. e l`importanza
di Recanati"://raiscuola.rai/articoli/ giacomo-L.-parte-prima/3205/default.aspx
Archiviato l'8 settembre in. Nel sito web de "La Stampa",
Guzzini del Centro Studi L.ani mostra
l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto
di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/ multimedia/
societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito- descritto-da-giacomo-L.-fncjkba7
fEJyVoUSrazy1H/ pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman
con la regia di Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo L.",
intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia L. all'interno del Palazzo L.
di Recanati: youtube. com/watch?v=oNlkBu0E
"Un L. inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco
D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma
televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch? v=KwFnKv0T BaI Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia
sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere fragilicome L. può
salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oX Gh3g6lQsM
Gassman interpreta L'infinito, su youtube.com. Gassman interpreta A Silvia: youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il
29 marzo in. Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di
festa: youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube
Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U
Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4 Bene interpreta L'infinito: youtube.co Bene interpreta Passero solitario: youtube. com/
watch?v=IZz Qbnzpaok Bene interpreta La
ginestra (o Il fiore del deserto): youtube. com /watch?v=ZqzVXF3Fx4Y Bene interpreta Alla luna:
youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk Bene interpreta La sera del dì di festa:
youtube.com/ watch?v= qydGUiV1wwI Bene
interpreta Il sabato del villaggio: youtube.
com/watch?v=vI9PJfCtWw4 Bene interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch ?v=jyB0eM9AOoM Bene interpreta Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane:
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Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista
Archiviato in. leggi il testo di Inno ad Arimane
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settembre in. Bene interpreta Amore e Morte:
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interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario:
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A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=kmk_gd-48XE Foà interpreta La sera del dì di festa:
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interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà
interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v= hL 855FC_juA Foà interpreta La
ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/ watch?v= zB nDqu8X5fk Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della
luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN HqhHiIqok Arnoldo Foà interpreta Alla luna: youtube. Com
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Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao Lavia discetta sull'opera di L., prima della
"dizione" delle opere di L.: youtube Alberto Lupo interpreta Ultimo
canto di Saffo: youtube Elio Germano,
nel film Il giovane favoloso di M. Martone, interpreta L'infinito:
youtube.com/watch?v=jIvz Qvi75rQ
Germano, nel film Il giovane favoloso di Martone, interpreta La ginestra
(o Il fiore del deserto): youtube IGHm4
Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di M.n Martone, interpreta la
pri ma parte de La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4 Germano, nel film Il giovane favoloso di
Mario Martone, interpreta un brano di Amore e Morte: youtube Germano, nel film
Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube
nito», su corriere,/ turismo.marche/ Portals/1/L./ L.%2 0nel%20mondo.pd Il
backstage dello spot promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il
regista Giampiero Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM La stroncatura di Mina allo spot della
Regione Marche: you tube.co riportato in: "Il cittadino di Recanati",
Anche Mina nella sua rubrica su "La Stampa" affonda lo spot con
L'infinito, su ilcittadinodirecanati, "Il Resto del Carlino" Ancona,
"L. bisogna meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su
ilrestodelcarlino,"Il Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su
YouTube 21 mila visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora
sponsor delle Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6
settembre (archiviato il 6 settembre
). vedi la serie di spot "Le Marche
non ti abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè,
con la regia di Rovero Impiglia e Cagnelli: youtube Minnucci, La regione Marche
rispedisce Hoffman in America e pone fine allo stupro di L., su qelsi, su Giacomo L.. Edizioni delle opere Giacomo L.,
[Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario Epistolario di Giacomo L.,
Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere, Solmi e Solmi,
Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi «Classici Ricciardi» Il Monarca
delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo L., Graziella Pulce,
introduzione di Giorgio Manganelli, Milano: Adelphi «Biblioteca» Brioschi e
Landi, Torino: Bollati Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore
«I Meridiani», Zibaldone Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura,
Giosuè Carducci e altri, Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia,
Ferdinando Santoro, Lanciano: Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino:
Pomba scelto e annotato con introduzione
e indice analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento
letterario, pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda»,
Roma: La Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere:
Zibaldone scelto, Robertis, Milano: Rizzoli, Francesco Flora, Milano: Mondadori, in
Antologia L.ana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed Epistolario,
Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e Raffaella Solmi,
Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi, «Classici di
Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter Binni, con la
collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni, saggi
introduttivi di Solmi e Robertis, Milano: Mondadori «Oscar» (con uno scritto di
Ungaretti) e edizione fotografica dell'autografo con gli indici e lo schedario,
Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola normale superiore, Il testamento letterario,
pensieri dello Zibaldone scelti annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con
una premessa di P. Buscaroli, Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti
Francesco Biondolillo, Napoli: Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe
Pacella, Milano: Garzanti «I Libri della Spiga», Damiani, Milano: Mondadori, «I
Meridiani», Teoria del piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e
postfazione di Vincenzo Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica
stabilita sugli indici L.ani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete,
Roma: Donzelli Editore, Lucio Felici, premessa di Trevi, indici filologici di
Marco Dondero, indice tematico e analitico di Dondero e Marra, Roma: Newton
Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni, Milano:
Rizzoli «BUR», edizione critica Ceragioli e Ballerini, Bologna: Zanichelli, Canti
con note per cura di Francesco Moroncini, L., Giacomo, Canti: commentati da lui
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"L'inquietudine ritmica dell'in(de)finito", su academia.edu. Il primo
di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica della letteratura
italiana d’Ancona,. Il secondo nella Critica. Il terzo nella stessa
Critica. Tutti e tre furono riprodotti nei Frammenti di Estetica e
Letteratura, Lanciano, Carabba, Si ha alle stampe un’ Esposizione del
sistema filosofico di Giacomo L. *. E una dissertazione di laurea,
e reca infatti l’impronta comune a tutti i lavori giovanili.
L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro, un po’ troppo
prosaico, e incongruo col contenuto del libro, che non vuol essere
propriamente un’esposizione fatta dall’autore del sistema filosofico del L.;
ma appunto questo sistema, portato innanzi al lettore con le stesse
parole del L.; non volendo l’autore da parte sua aggiungervi se non
prefazione, note ed epilogo. Metodo anche questo alquanto ingenuo e da
scrittore che non vede ancora la necessità, chi voglia rappresentare
nella sua unità logica e nell’organismo delle sue parti il pensiero d’un
filosofo, d’appropriarsi questo pensiero, entrarvi dentro, mettendosi
allo stesso punto di vista del filosofo, e quindi in grado di rielaborare
il suo pensiero, chiarendolo con le attinenze storiche a cui è
legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui logicamente è suscettibile,
salvo a mostrarne, ove occorra, la inconsistenza: in modo che
l’esposizione riesca una vita nuova del sistema filosofico nella mente
dell’espositore. GATTI, Esposizione del sistema filosofico di L., saggio
sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro difficile, certo, e che non
riesce felicemente se non agli scrittori provetti; ma che nessuno
ordinariamente crede di potere schivare, se non limiti il proprio ufficio
a quello di semplice editore; e tutti ne escono alla meglio, esponendo i
vari sistemi come ciascuno li ha intesi. L’autore di questo
libro, invece, ha voluto mettere insieme i passi dello Zibaldone L.ano,
mostrando come fil filo un pensiero si svolgesse dall’altro; e dove
la connessione non appariva evidente nelle parole del testo, ha supplito
di suo i legamenti opportuni, ma continuando a parlare, in prima persona, a
nome del L.: proprio come se questi avesse riordinata e organizzata quella
copiosa congerie di riflessioni già via via segnate sulla carta a
schiarimento del proprio pensiero e a sfogo della sua malinconia. Né ha
lontanamente sospettato il rischio, e stavo per dire la responsabilità, a
cui andava incontro, facendo parlare per la sua bocca lui, il L.. Ha
creduto che nello Zibaldone stesse, pezzo per pezzo, tutto un sistema; e
non ha saputo resistere al seducente disegno d’innalzare, con la semplice
composizione degli stessi materiali L.ani, la statua del filosofo sul
piedestallo finora vuoto. Laddove è chiaro che, se anche nei pensieri
inediti del L. fosse implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di
ritro- varvelo e dimostrarvelo non poteva essere questa scelta
dall’autore. Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già
altri, ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il L. poeta,
questi inediti Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura venuti
ultimamente in luce, ci scoprissero il L. filosofo. Questa era anche la tesi
dello Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui il
nuovo studioso manifestamente prende le mosse, distinguendo due fasi principali
della filosofia pessimistica del L.: nella prima delle quali il dolore
sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa
natura; donde prima una concezione storica del pessi- niismo, e poi una
concezione cosmica. Ma lo Zumbini non insisteva sul valore sistematico di
questa filosofia L.ana; e, d’altra parte, nel secondo volume dei
suoi Studi su L., esaminando le Operette morali, veniva in realtà a
mostrare come tutto il succo di quelle riflessioni dello Zibaldone, le
conclusioni di quel lungo soliloquio che L. aveva fatto seco stesso
per iscritto, fossero appunto condensate nelle Operette. Gatti, invece, ha
esagerato fuor di misura la tesi dello Zumbini, cominciando col
cancellare quelle differenze cronologiche, che lo Zumbini aveva badato
bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è noto, dal L.) :
cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli pensieri liberamente
come parti integranti d’un sistema logico. Ora, lo Zibaldone comprende
centinaia e centinaia di pensieri annotati come si formavano giorno per
giorno nella mente del L. attraverso ben (juindici anni periodo lungo per
ogni vita, lunghissimo per quella del Leopai'di, che in 39 anni forse non
visse meno che il Manzoni in 78. Esso è anzi il diario degli anni
in cui si svolse la vita morale del poeta, e offre perciò, com’ è stato
notato, un riscontro a tutti i sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai
canti e dalle prose da lui stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in
questi sette volumi abbiamo, per dir così, i segreti documenti di
tutto il lavorìo intimo di quello spirito, non potremo apprezzarli nel
loro giusto valore, se prescindiamo dalle loro rispettive date; perché a
chi scrive ogni giorno le proprie riflessioni, la verità è quasi la
verità di quel giorno: e quel lavoro di sistemazione e organizzazione,
per cui di tutti i pensieri slegati si possa fare un tutto coerente,
manca. Gentile, ifa» 2 ont e L.. Il Gatti protesta che non va
imputato a sua «poca accortezza qualche salto anacronico, a dir così,
facile a rilevarsi, che qua e là avvicinerà pensieri
cronologicamente molto lontani fra loro ». E la sua ragione sarebbe
questa : Tali salti, mentre da un lato ci forniscono ancora una
prova evidentissima e incontrastabile della profonda ripugnanza.... provata da
L. per una concezione cosmica del dolore, rivelano nettamente,
d’altronde, il proposito nell’Autore di rifare spesso a ritroso coll’
immaginazione la via già percorsa dal pensiero allo scopo di viemmeglio
assicurarsi che non battesse falsa strada, e così riprendere, sempre jiiù
sicuro di sé, il cammino, allorché quella linea immaginaria
d’orientamento non gli avrà mostrata altra via da battere per giungere
alla mèta prefìssa». Cioè, se ho capito bene; a dilucidazione di pensieri
anteriori Gatti stima di poter addurre pensieri di un tempo più avanzato,
anche quando occorra ammettere avvenuto nell’ intervallo un
cambiamento sostanziale di pensiero, iierché L. rifà talvolta con
l’immaginazione la via già percorsa col pensiero, e già superata. Ci
sarebbero certi « pensieri di ritorno », o « ritorni immaginari », per
cui, secondo il Gatti, non bisogna credere che il L. contraddica al suo pensiero
posteriormente acquisito, anzi lo lasci intatto, ma, per certa ripugnanza
sentimentale alle più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi
temperamenti, torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza
filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un ritorno siffatto
nella mente del L., se noi crediamo di poter fissare questa nella coerenza di
certi pensieri definitivi, è evidente che non può essere altro che una
contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è costretto, quasi suo
malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria. Sanatoria inutile, se egli
avesse rinunziato a pretendere dal L., nelle sue stesse intime
confessioni, queU’unità sistematica che non era nella natura di tali
confessioni. E non era neppure nella natura dello spirito del L.,
che fu un poeta, un grande, un divino poeta, ma non fu un vero e proprio
filosofo. Che fa che egli abbia tante volte protestato di possedere una
sua filosofia ? Allo stesso modo del L., più o meno, chiunque si
ritiene in grado di giudicare dei sistemi dei filosofi, ossia di
mettersi, non dico alla pari, ma al di sopra di costoro, e insomma di
affermare una filosofia propria che possa aver ragione di quei sistemi. E
dal proprio punto di vista chiunque, così facendo, ha ragione; e
aveva ragione il L. ; perché in fondo a ogni mente umana, sopra
tutto in fondo a quella dei grandi poeti, è incontestabile l’esistenza di una
filosofia: e però è lecito parlare così di una filo.sofia del L., come di una
filosofia del Manzoni, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero. Ma questa
filosofia dei poeti non è la filosofia dei filosofi, e bisogna trattarla,
per non snaturarla e non distruggerla, con molta delicatezza. Una
delle differenze più notabili tra la filosofia dei poeti e quella dei
filosofi è che il poeta può averne una, se è capace di averla, in ogni
singola poesia; laddove il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la
sua dottrina, non ha nessuna dottrina. Il L. è in pieno diritto, come
poeta, di affrontare il problema del dolore, sempre da capo, con nuovo
animo, con considerazioni nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla
virtù, ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve
stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa di L. è infatti una
situazione d’animo nuova; quindi una nuova vista dello stesso dolore che
domina l’anima del poeta; un nuovo concetto, una filosofia nuova,
che solo trascurando le differenze essenziali, che in una poesia e
in una prosa del genere di quelle del L. son tutto, si può rappresentare come
sempre identica. Egli è che il poeta, checché si proponga e
dica di aver fatto, non espone propriamente una filosofia: ma
esprime soltanto un suo stato d animo, occupato, determinato e quasi colorito
da certi pensieri dominanti. Abbozza in se medesimo (e quindi in un
diario intimo) una filosofia provvisoriamente sufficiente ad
appagare i bisogni della propria ragione (che non sono poi grandi
in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in quanto
profondamente sentita, in quanto vita della propria anima, diventa
materia di poesia. Di poesia anche in prosa; perché, in sostanza la prosa
L.ana è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi stati
d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti per lo sforzo
che nella prosa come nei Paralipomeni il L. fa di costringere il
sentimento spontaneo dentro r intenzione ironica, satirica, che gli fece
appunto pre- f0rire la prosa al verso. Ma in realtà, nelle Operette
come nei Canti c’ è L. con la sua filosofia tetra e col suo
candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo grande amore per essi;
con tutte quelle contraddizioni, che altri ha studiosamente cercate in
lui, e che sono il vero segno caratteristico del suo spirito poetico e
non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver niente dell’anima
individuale di chi la costruisce. Essa è una liberazione assoluta compiuta dal
filosofo dai limiti della soggettività; è una contemplazione, diciamo
così, d’una verità eterna, in cui il filosofo, come persona
particolare, si dimentica di se stesso, e dei suoi dolori, e di tutte
le tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di Spinoza, la cui
\dta e il cui animo han parecchi punti di somiglianza con quelli del L.
non presenta nes- Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza, nella Rivista d’
Italia, asuna traccia, non offre nessuno indizio di sentimenti
personali. K veramente una visione del mondo sub specie aeternitatis,
come egli diceva, in cui la personalità del filosofo scompare. La filosofia
dei poeti, si potrebbe dire, scompare nell’animo dei poeti stessi;
l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia. Onde una
volta noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in tutto
l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un sistema di concetti, in sé.
Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio netto, che divida i
filosofi dai poeti; ma il pessimismo L.ano è, come è stato tante volte
osservato, così imprgnato di elementi ottimistici, così logicamente
frammentario e contradittorio, e d’altra parte così poeticamente coerente
e vivo, che lo scambio non è possibile. Noi possiamo studiare, dunque, la sua
filosofia, ma come vita del suo spirito, materia della sua poesia.
Studio, ripeto, molto delicato; perché in esso non bisogna mai
lasciarsi sfuggire che la realtà vera, a cui bisogna aver l’occhio,
non è questa filosofia in se medesima, astratta materia della poesia, ma
la poesia appunto, in cui quella filosofia è per acquistare la vita che
uno spirito poetico è capace di comunicarle. La filosofia quindi va
studiata per intendere la poesia, e valutata in quanto poesia, per quella
vita poetica che riuscì a vivere nello spirito del Poeta. La
pubblicaizione dello Zibaldone ha fortemente contribuito a fare smarrire questo
criterio. Ci s’ è trovata innanzi la materia grezza della poesia L.ana,
quella tal filosofia, che il L. rimuginava dentro se stesso, e che,
per quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva pregato nessuno di
mettere in pubblico: quella filosofia, che egli destinava a far materia
di espressione più perfetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne
in parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osservato, ma
merita di essere particolarmente studiato). E dimenticando che pel L.
tutti questi materiali non avevano valore per sé, ma l’avrebbero
acquistato soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno
s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del L.! No, questi
sono i detriti della sua poesia: tutto ciò che la sua forza poetica non
avvivò, non trasfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e trasfigurandolo
nel suo canto e nella sua satira. E produce davvero una strana
impressione il procedimento seguito dal dott. Gatti, che riferisce nel
testo certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a sussidio di
esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti, in cui gli stessi
pensieri assursero a forma artistica. Il perfetto fatto servire
all’imperfetto; la poesia ridotta a documento d’un suo documento!
Ecco un esempio di filosofia documentata con poesia. In un pensiero
L. S’era domandato. Che vale per noi questa «miracolosa e stupenda
opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosa macchina e
mole dei mondi? A che serve, dunque, questo infinito e misterioso
spettacolo dell’esistenza e della vita delle cose », se « né
resistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giova
veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed essendo
per noi l’esistenza, così nostra come universale, scompagnata dalla
felicità, eh’ è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica
utilità che resistenza rechi a quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e
tutta la Idosofia del L.. Ma che significano queste sue interrogazioni ?
Esse non possono aver altro significato che questo, che, non sapendo
concepire il fine dell’esistenza umana [ Zibald., Queste giunture frapposte alle parole del L.
sono del Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi
leggermente il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e
non vedendo, d’altronde, che tal fine sia o possa mai esser raggiunto,
egli, Giacomo L., finisce col non sapersi più spiegare quale possa
essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa costruzione e
nella sua vasta armonia farebbe pensare a un’ intima finalità. Qui non è
affermata una verità obbiettiva; è bensì manifestata la situazione
personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente espressa quando
il L. ci dirà tutta la risonanza che questo suo ondeggiare tra il
concetto di una finalità eudemonistica universale e il dubbio suUa
validità di tal concetto ha neU’animo suo; quando da questo suo perpetuo
ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento filosofico, o filosofia
soltanto iniziale e potenziale), egli sarà ispirato al Canto notturno di
un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a confronto e conforto di
quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno L. dice con l’energia della
fantasia commossa quello che nelle note fugaci del diario era
sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del canto. E
quando miro in cielo arder le stelle. Dico fra me pensando:
A che tante facelle ? Che fa l’aria infinita, e quel
profondo Infinito seren ? che vuol dir questa Solitudine immensa?
ed io che sono? Cosi meco ragiono: e della stanza Smisurata e
superba, E dell' innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar,
di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa. Girando senza
posa. Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal
dubbio che non ci sia un fine nel mondo; e non è il dubbio
astratto di un filosofo, ma il dubbio che irrompe neH’anima di un
poeta, che mira in cielo arder le stelle, quasi tante faci accese a
illuminare il mondo; e sente l’infinità dell’aria, il sereno profondo infinito
(elementi di grande commozione, com’ è noto, per L.), e l’immensità
della solitudine attorno alla propria persona non dimenticata {ed io che sono
P) né dimenticabUe perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una
filosofia, ma l’uomo L., intero, con l’ansia e il terrore che gh
desta lo spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al dolore di lui che
vi si sente dentro smarrito. C’ è anche, innegabilmente, un dubbio
filosofico : semphce dubbio («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse
s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero b mio
pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi nasce il dì natale); ma
come elemento o momento della lirica grande. La pubblicazione
dello Zibaldone, badiamo bene, è stata, in fondo, una certa quale
indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo L., e che
non si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio deUe
sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno che
scriva e stampi, pubblica soltanto queUo che gli par compiuto secondo il
fine a cui, più o meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta
non beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.
Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo
schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa
sua personale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene
appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo, r interesse
storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio,
mediante la conoscenza più larga che sia possibile della sua anima,
bastano a giustificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come degb
epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più gelosi
segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce col credere
che appartengano agli altri più che a se stesse. Ma questa
giustificazione non deve farci dimenticare che gli abbozzi del poeta,
sono abbozzi delle sue poesie, come gli appunti provvisori del filosofo
sono antecedenti spesso superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni
modo non si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore
che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresentano la conclusione
definitiva del poeta e del filosofo. Tutto questo, si potrebbe
osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna
vedere al fatto, se il L., dopo gli studi di Gatti, ci apparisca
nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei rispondere con un altro discorso
astratto, sostenendo che è ben difficile che uno stesso genio possa
essere insieme poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia un’attività,
che la filosofia necessariamente combatte e mortifica. Ma penso a
Dante: unico, secondo me, e se non sempre, quasi costantemente mirabilissimo
esempio dell’energia, onde è capace lo spirito umano, di individualizzare
e stringere nella fantasia e nel sentimento di un’anima
singolarmente potente il sistema più intellettuahsticamente universale ed
astratto che la storia della filosofia ci presenti: penso a quella
fusione e unità quasi sempre perfetta d’un sistema miracolosamente vario
e armonico di fantasmi che son pure astratti concetti: unità, che
non si finisce e non si finirà mai di studiare nella Divina
Commedia ». E preferisco perciò una risposta particolare e concreta, che
è questa. Tutto il mio discorso generale io r ho fatto appunto a
proposito del L., dopo Alla quale per questo rispetto non credo si possa
paragonare, ma a distanza grandissima, altro che il Faust: dove l’unità
dell’opera, come arte e come filosofia, rimase lungi dall’esser
raggiunta. aver letto attentamente il saggio di Gatti. Libro,
che non ò certo inutile, perché molti schiarimenti particolari a
concetti del L. da uno studio così attento e minuzioso dei Pensieri si
hanno; c molti istruttiva raffronti, oltre quelli già fatti dal Losacco e dal
Giani, vi sono opportunamente istituiti tra pensieri del L. e
luoghi di Helvétius, di Rousseau, di Maupertuis e degli altri autori del
Poeta; ma insufficiente a dimostrarci la tesi che il Gatti s’era
proposta, che nella mente del L. si fosse organizzato un sistema filosofico;
atto anzi a dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato
che ci dà dei Pensieri L.ani con l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema
non c’ è. C’ è la travagliosa meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono
le accorate riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che
furono il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non più
di questo. Il L. lo ritroveremo sempre nel disperato lamento de’ suoi
canti e nel sorriso amarissimo e pur soave delle prose. 11 materialismo
della sua metafisica, il sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo
finale della sua epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono
nei pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti, i motivi
costanti del breve filosofare leoparebano : ma sono spunti filosofici,
anzi che principii d’un pensiero sistematico; sono credenze d’uno spirito
addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo speculativo. Le
sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osservazione
empirica; e non servono ad altro che a dirci come vedev^a le cose Giacomo
L.. In lui non trovi né anche una critica della ragione, come
in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi somiglia. Ma un
prendere di qua e di là proposizioni contestabili, e accettarle come
verità assiomatiche e principii di deduzioni pessimistiche. Passione
v^era per a speculazione il L. non ebbe mai. Non studiò nessun
grande sistema filosofico: egli, conoscitore e studioso dei classici, non si
sforzò mai d’intendere il pensiero di Platone e di Aristotele. La sua storia
della filosofia antica ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri
dossografi. Del Medio Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza,
di Hume non conosce neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di
Leibniz sorrise come Voltaire, non sospettando in alcun modo la profondità del
suo pensiero Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano
allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma la sua vera
indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è r indole poetica,
convinti che fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore
filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della
esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica
edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette in rilievo di
contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non ha
niente che vedere coll’odierna filosofia prammatistica, a cui egli
studiosamente la raccosta, per dimostrare così la modernità del pensiero L.ano.
Quella filosofia pratica è il retaggio dello scetticismo da Pirrone in
poi: il quale ha contrapposto sempre la vita alla scienza, e salvata
almeno quella dal naufragio di questa. Salvataggio operato ora con la
natura, ora col sentimento, ora con la volontà, e in generale con un principio
irrazionale, o concepito come tale, che, appunto perciò, non contraddice
aUo scetticismo fondamentale. L. ricorre all’ immaginazione e a un
certo qual senso dell’animo, che fan contrappeso agli argomenti dolorosi
della ragione e bastano a confortarci a vivere. Né anche questo
principio, del resto, è sviluppato. Certo, esso non giova a chi presuma di
vedere nel Recanatese un precursore del James e degli altri pram-
matisti d’oggi, i quali non sono scettici, benché in realtà abbiano una
dottrina negativa del conoscere; non vedono nell’attività pratica un
surrogato dell’attività teoretica: ma unificano le due attività, e
immedesimano la verità con l’utile, in modo che quel che giova credere,
sia esso stesso il vero; laddove quel che gioverebbe credere,
secondo L., sarebbe né più né meno che un’ illusione. La differenza tra L. e
James è la differenza profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il
nuovo prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente
dommatica e positiva. Gli studi del Gatti furono ripresi da Giulio A. Levi
*, uno degl’ ingegni più fini tra gh studiosi di letteratura italiana, e
dei più valenti e competenti interpreti del pensiero L.ano; ma con
altro criterio e altro intendimento. E io son lieto di leggere al principio del
suo libro le seguenti parole; «Fu tentato da Pasquale Gatti, e
parzialmente dal Cantella, di ordinare e comporre in un sistema
filosofico i pensieri dello Zibaldone L.ano; con esito che non
poteva essere altro che infelice; quando si pensi che sono riflessioni
scritte giorno per giorno, senza disegno prestabilito, per lo spazio di
circa quindici anni, da quando prima il poeta adolescente cominciò a
voler pensare col suo cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno
degli argomenti principali che a suo tempo io opposi al tentativo di
GATTI. E sono interamente d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con gli
ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di cui ci conserva i documenti, può
esser materia alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero del poeta,
la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei prodotti più maturi,
dove parve all’autore d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei
Canti e nelle Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del
saggio del Levi, e conferma pienamente il mio giudizio sul valore e sull’
interesse dello Zibaldone. Questa idea bensì nel libro del Levi non
apparisce netta e ferma quanto si potrebbe desiderare, costretta
com’ è dall’autore ad andare in compagnia di certi prin- cipii direttivi,
che oscurano, a mio avviso, la visione esatta di taluni momenti dello
sviluppo del pensiero L.ano e turbano il giudizio sulla sua forma ultima. Cosi,
quando comincia a notare che io ho ecceduto « negando a priori allo Zibaldone
ogni interesse speculativo, per la qualità stessa dell’autore; il quale
sarebbe bensì un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta,
dominato interamente dal sentimento, e perciò di pensiero incoerente, mutevole
e spesso contradittorio », egli, da una parte, esagera e àltera il mio
giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su tutta l’opera del L.; e
dall’altra, accenna a un concetto (che non manca subito dopo di dichiarare
esplicitamente), il quale non gli può consentire una ricostruzione
storica non arbitrariamente soggettiva, ma razionalmente giustificabile
del pensiero L.ano. In primo luogo, non è esatto che io abbia negato
o voglia negare ogni interesse speculativo allo Zibaldone e tanto
meno alle poesie e alle Operette morali', anzi sono disposto a
riconoscere che tutta la poesia di L. non abbia altro contenuto, in tutte
le sue forme e in tutti i suoi gradi, che il problema speculativo, nei
termini, s’intende, in cui egli poteva e doveva porlo. Quel che ho
negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia del pensiero del L.
qualche cosa di più che non fosse negli scritti da lui pubblicati;
qualche cosa che, dal punto di vista del L., fosse già pervenuto a quel
punto di maturità spirituale, di verità, in cui il L. s’acquetò, a
giudicare dalle opere con cui egli stesso volle entrare nella nostra letteratura;
qualche cosa che possa nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si
parva licei componere magnis) da quelle note, onde ognuno di noi si
prepara ai suoi lavori, e che, compiuti questi, quando ci pare d'averne
spremuto bene tutto il succo, si buttano al fuoco; e tanto più
volentieri, quando dalle note alla stesura dei nostri scritti le idee
nostre si siano venute correggendo e integrando in più logica compattezza
' ; 2) che si possa adeguatamente valutare la grandezza di L., facendogli il
conto del tanto di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a
prescindere da ogni dottrina sulla natura della poesia, basta considerare
le critiche profonde e ineluttabili, onde quella verità fu superata da
uno spirito, che ebbe inizialmente una profonda simpatia congeniale col L.,
il Gioberti (specialmente nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: «
Fii detto che la pubblicazione del Diario sia stata un'indelicatezza,
quando il L. medesimo di questa pubblicazione non aveva pregato nessuno.
Oh si, sarebbe un indelicatezza esporre quelle cose agli occhi bene aperti d’un
pubblico di pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo gli errori del
grand'uomo che si viene formando. Ma chi ha già imparato ad amarlo e a
venerarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante le sue reliquie.
Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel che scrissi io nella
Rass. bibl. tett. U., mi rincresce
di dovergli rispondere che egli non ha inteso lo spirito della mia
affermazione. La quale mirava soltanto a chiarire che dello Zibaldone non
ci si può servire se non come di documento della formazione del pensiero del L.,
la cui forma ultima dobbiamo per altro cercare sempre nelle opere che da
<iuegli abbozzi trasse l'autore, e pubblicò egli stesso come sole
degne di sé. nel Gesuita e nella Protologia), in pagine che il Levi
non anteporrebbe di certo né pur a quelle dello Zibaldone. L vero
che « nei sistemi filosofici le parti più caduche sono spesso quelle
dovute alle esigenze di sistema ». Ma ciò non dimostra che la filosofia
non è sistema, anzi dimostra che è: perché gli errori di questo genere non
si scoiarono dal critico se non come errori della costruzione del
sistema, ossia come divergenze dalla costruzione che, secondo lui,
sarebbe più conforme alle verità fondamentali intuite d<al filosofo. E se U
critico non rifacesse per suo conto la costruzione del sistema, non
avrebbe modo di discernere nel sistema criticato il vero dal falso,
nato dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché un
giudizio che affermasse immediatamente : questo è vero, e questo è falso,
senza dimostrazione di sorta, non credo che pel Levi sarebbe un giudizio
per davvero. E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non
è privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi s’intende
i filosofi storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc., e per
poeti quelli che sono realmente vissuti o vivranno. Omero, Dante,
Shakespeare, ecc. Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me,
Iliacos intra muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie
rotte nel sistema, ce n’ è state, e ce ne sarà sempre, da una parte e
dall’altra. Ma noi non possiamo parlare di Omero poeta e di Platone
filosofo senza un concetto del poeta e del filosofo, e cioè della poesia
e della filosofia: le quali, come funzioni dello spirito, trascendono la
storia, che è la concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla
poesia e alla filosofia come funzioni trascendentali dello spirito si
possono assegnare caratteri distinti, dei quali quello che è della poesia
in quanto tale non sarà della filosofia, e per converso.
Nella storia tutte le funzioni concorrono in un’unità concreta, in
cui il poeta, essendo anche filosofo, partecipa del carattere dello
spirito che è filosofia; e il filosofo, essendo pure poeta, partecipa del
carattere dello spirito che è poesia, sempre. E la rigida e salda
distinzione delle funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile
distinzione della storia, che fa essa stessa la divisione dei grandi
spiriti nelle due schiere dei poeti e dei filosofi, secondo che negli uni
prevale il momento poetico e negli altri il momento filosofico; onde la
distinzione e però la categorizzazione del giudizio critico sono poi,
ogni volta, funzioni di giudizio storico, concreto. Perché il
L. va considerato come poeta, e non come filosofo ? Perché, se conosco il
L. storico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto, io ci vedo
bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia la vedo chiusa,
compressa, fusa e assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha
della sua personalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che
egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e poiché il suo
occhio è tutto intento alla risonanza tutta soggettiva, in cui vive per
lui un certo, oscuro, vago e frammentario concetto del mondo, la verità è
per lui, e dev’essere per me che lo giudico, non in questo concetto, ma
nella vita di esso, in quella tale risonanza, nella sua Urica. Beninteso
che, per quanto oscuro, vago e frammentario, quel concetto sarà pure un
concetto, che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente
alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta. E non ci
sono principii astratti ed estrastorici che possano segnare a priori i limiti
della filosoficità del concetto che vive neUa Urica del poeta. Ma ciò non
toglie che la distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e che
non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a volta, il valore
deUo spirito rispetto alle sue forme es- senziaU ed assolute. Ma,
dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme è in fondo una sola,
grandezza morale ed umana; e se è suprema esigenza etica che la nostra
vita sia azione, ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo nei poeti,
di cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di più che la
passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare e cercare
un’attività etica con un suo senso determinato e costante ». Ond’egli si
propone di cercare negli scritti del L. «per quah vie egli giunse
alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteggiamento interiore
costante e sicuro di fronte all’universo Ebbene, tutto questo è molto vago
perché possa servire di criterio alla storia del pensiero di un
poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una sola soltanto « in
fondo », bisogna pure che si rispettino le differenze tra le varie forme,
in cui unicamente è possibile che quello che è in fondo venga su, e si
manifesti, e assuma così una forma storica determinata. E se è
suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione, posto, com’ è
necessario, che le suddette forme della I grandezza, o, più modestamente,
dello spirito, siano più d’una, oltre la suprema esigenza etica, ci
saranno (dato pure c non concesso che questa sia la radice di
tutte) altre esigenze supreme : come quella che la vita sia poesia,
e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci riflette bene,
s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per la sua posizione, in cui
l’azione è fondamentalmente un ^ atteggiamento dell’uomo di fronte
all’universo : poiché; quest’atteggiamento o è un pensiero, o l’imphca; e
questo pensiero, dovendo essere una filosofia, non può non essere
anche una poesia. In realtà, quel che cerca il Levi nel poeta, non è
la ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì una
metafisica, I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o del
regno soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa
mèta. Gentile, Manzoni e L.] pur accennando qua e là all’ identità del
valore poetico e del valore del contenuto filosofico della poesia,
egli non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro, il
problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira quasi mai al
giudizio estetico dell’arte L.ana; ma si restringe a tracciare la linea
di svolgimento del pensiero che c’ è dentro, e che egli crede abbia
assunto la sua forma finale in una specie di individualismo
romantico corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò
bensì che la distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire nel
pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente estetico, più che
etico, di questa filosofia romantica a cui egli aderisce: quantunque pur
in questo concetto la differenza permanga e obblighi il Levi a far
violenza, qua e là, al pensiero del L. per dargli queUa sistematicità,
che è necessaria anche a una filosofia individualistica. Il
risultato degli studi del Levi, in breve, è questo. Nel pensiero
del L. si devono distinguere due periodi; uno come di distruzione e
dissoluzione dell’uomo, l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo
stesso; il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- !
mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo periodo, e si
aderge in tutta la sua grandezza, che è la j sua stessa infeUcità, o
piuttosto la coscienza della sua p infelicità. 11 primo periodo
terminerebbe verso la fine | del 1823, e sarebbe rappresentato,
sostanzialmente, dallo 1 Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a
poco, nel J gennaio 1824, quando il L. pose mano alle Operette morali', a
proposito delle quali il Levi scrive giusta- # mente ; « Fa onore al buon
gusto e al senso critico del 1 L. l’aver lasciato da parte tutto quello
ch’egU l sentiva estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS
alla storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?. e l’aver
esposto definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi
pensieri intorno alla virtù e alla felicità umana. Insomma, anche pel
Levi, lo Zibaldone è il periodo jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi
sette volumi i primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in
cui il L. cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ritrova qual era
nella sua giovinezza e all’ inizio del suo speculare: «pieno d’ardore per
la virtù, e assetato di felicità, di bellezza e di grandezza ». La
riflessione, in questo periodo, che comincia intorno al ’20, si
stringe addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito L.ano;
e non riesce a giustificarli, anzi h corrode e distrugge. Che cosa è il
bello ? e il bene ? e il vero ? e il talento ? Movendo dal sensismo, che
negava lo spirito e non vedeva altro che la natura, tutti i valori dello
spirito si dileguano facilmente dagli occhi del giovane pensatore, poiché
perdono tutti la loro assolutezza, la loro apriorità. Ma da ultimo la
vita stessa, che prende in lui il dolore di questo dileguo di tutti gl’
ideah, si desta nell'esser suo di coscienza, e prorompe in una espressione
ingenua della verità disconosciuta: espressione, che ferma giustamente
l’attenzione del Levi; e giustamente gli fa segnare questo momento come
principio d’un nuovo periodo dello svolgimento del L., ma comincia ad
essere interpretata alla stregua del difettoso concetto che egli ha
delle attinenze della poesia con la filosofia, e a far deviare quindi
tutta la sua interpretazione del secondo periodo. 11 L., il
27 novembre 1823, scriveva nel suo Diario : « Bisogna accuratamente
distinguere la forza dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio
risiede neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente quanto
è più forte e viva in lui quella parte che si chiama Storia,
anima. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò per se medesimo
non fa ch’egli sia più infelice, né accresce il suo amor proprio. Nel totale e
sotto il più dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono in
ragione inversa della forza propriamente corporale.... La vita è il
sentimento dell’esistenza. La materia (cioè quella parte delle cose e
dell’uomo che noi più pecuharmente chiamiamo materia) non vive, e il
materiale non può esser vivo e non ha che far colla vita, ma
solamente coll’esistenza, la quale, considerata senza vita, non è
capace di amor proprio, né d’ infelicità. Quello che in questo luogo il L.
chiama sentimento vitale, o vita», avverte esattamente il T.evi, «
è manifestamente la coscienza ». Ma continua : Di qui innanzi egli
negherà ancora in astratto la nozione metafisica dello spirito (al che egli
ha avuto cura di tenersi aperta la strada colle
circonlocuzioni quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale ’
e ' quella parte delle cose e dell’uomo che noi più peculiarmente
chiamiamo materia'). A questo lo movevano il suo bisogno di concretezza,
e l’avversione a tutto 1 accattato e il falso ch’ei sentiva negli
entusiasmi spiritualistici dei romantici. Ma, praticamente, rispetto a sé
e rispetto all’uomo in generale, egli ha fermato con sufficiente
sicurezza la nozione di ciò che in esso è di natura spirituale e della sua
dignità». Ora qui è il piincipio del maggiore equivoco, in cui si dibatte
poi il Levi in tutta la sua interpretazione del L.. Nel luogo citato del
Diario c’ è la coscienza della vita, ma non c è la coscienza (il
concetto) di questa coscienza; il L. sente la propria grandezza come uomo sugh
animaU e sugli esseri inferiori, e la propria grandezza come L.
sugli uomini comuni, come potenza di essere infehce. ma non pone
mente che egli è grande, non perché infelice, ma perché conscio della sua
infelicità ; cioè non vede 1 esser cuo nella coscienza che si eleva al di
sopra del dolore, e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun
patto asserire che possegga la nozione della propria natura spirituale e
della propria dignità di contro alla natura. Infatti il possederla
praticamente (e soltanto praticamente) come vuole il Levi, che significa
se non che non la possiede come nozione, bensì con quella immediatezza
onde 10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza
di sé ? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il
contenuto della sua poesia (attualità reale del suo spirito), sarebbe
superato; poiché sarebbe risoluto nella poesia diventata essa stessa
contenuto od oggetto dello spirito consapevole della propria
vittoria sulla natura, come opposizione e limite dello spirito, e
quindi sorgente dell’ infelicità. Il pessimismo è assolutamente
inconciliabile col concetto del valore dello spirito; e questa è la vera e
profonda ripugnanza che prova il L., pur quando intravvede nella vivacità
stessa della sua spiritualità l’essenza propria del reale, che è
sentimento, com’egli s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà
che non ha posto nella visione pessimistica del mondo in cui si
chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle circonlocuzioni «
quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni,
che sono la patente documentazione del fatto, che il L. non si solleva al
concetto dell’essenza dello spirito. Che se questo concetto si fosse
rivelato comunque alla sua mente, con tutta la sua « avversione
all’accattato e al falso che ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici
dei romantici », con tutto « il suo bisogno di concretezza », come
avrebbe potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che
11 sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non è
materia, e che la presunta concretezza della materia come tale non è
altro che un’astrazione, dal momento che essa non ci può esser nota
altrimenti che pel sentimento che ne ha il vivente? Orbene questa
contraddizione intrinseca tra il sentimento, non elevato a concetto, dell’umana
grandezza, e il concetto (contenuto della poesia L.ana) della
nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fatalità assoluta del
dolore, questa è la grande situazione poetica di L. rappresentata così
splendidamente dal De Sanctis nel saggio su Schopenhauer: L. produce l’effetto contrario a quello che
si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede
alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la
virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi
lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non
cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire al
suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede
possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno
un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso
concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la onora e la
nobilita ». Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto
e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua poesia: ma non
perviene mai a distinta coscienza degli opposti motivi che vi concorrono
senza scoppiare dentro il contenuto (astrattamente considerato come
filosofia) in manifesta contraddizione logica, come avviene nella
Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so. Certo, la forma L.ana
si regge sull’equilibrio di questi opposti motivi, che sono la
personalità del poeta e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si
mantiene perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo,
Saggi critici, à nel canto A Silvia, nel Canto notturno e, in modo
tipico, nei versi All' infinito, dove la personalità si dimentica
nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma poetica : laddove, appena vi si
contrapponga, come parte di contenuto (che qui coscienza che il poeta ha
di se medesimo) accanto all'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a
spezzare l’unità del fantasma, che è la logica del pensiero
poetico. Di tale contrasto il Levi, poeteggiando anche lui per
interpretare il L., non vedo abbia chiara coscienza; e però scambia la
forma col contenuto dell’arte L.ana, e vede una filosofìa (quella con cui piace
a lui d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima, e cioè
la poesia del L.. Tralascio i bei capitoli, che il Levi consacra
alla storia della concezione storica del pessimismo, quale si disegna
già nella critica dello Stato e della civiltà, della scienza e della
filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso 10 stesso
Zibaldone per trovare in fine la sua espressione nei primi canti; Nelle
nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone. Bruto minore.
Ultimo canto di Saffo, Alla primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al
secondo periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della coscienza che il L.
comincia ad acquistare della propria grandezza dopo la dimora che fa in
Roma: coscienza culminante da ultimo, in questa nota del Diario: «Ninna cosa
maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto,
che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente
sentire la sua piccolezza.... E veramente quanto gli esseri più son
grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono
più capaci della conoscenza, e del sentimento della propria
piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo periodo, il cui Zibald.] pensiero
il Levi vede maturarsi tutto nelle prose {Storia del genere umano, Dialogo
della Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e di un Islandese,
Frammento apocrifo di Stratone) e nelle note sincrone dello Zibaldone. In
questo secondo periodo dall’uomo L. ritrae la causa del dolore
universale nella natura; alla concezione storica del pessimismo sottentra
quella cosmica; ma di fronte alla natura inesorabile artefice del nostro
doloroso destino e imperscrutabile prosecutricc di fini divergenti dai fini
dell’uomo s’accampa questo con la coscienza del proprio valore:
dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo, e pur creatore
del suo valore nel virile disdegno d’ogni illusione, nella magnanima
sfida al Potere ascoso: nell’affermazione, insomma, di sé come coscienza del
dolore. Onde il L. acquista una serenità, una sicurezza ignota a
quell’angoscioso piegarsi e stridere dell’anima sotto il dolore, che è
l’atteggiamento del primo jieriodo. Questo mi pare, se ho bene inteso il
cenno più che esposizione del Levi, il suo modo d’intendere questa forma
suprema dello spirito L.ano. Ma contro questa interpretazione vedo
due princijiali difficoltà, la prima delle quali confesso di proporre
con qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere
interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i documenti dell’
interpretazione del Levi per ciò che riguarda l’individualità dell’uomo,
che in questo secondo periodo starebbe di contro alla natura.
Nell’allegoria dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la
designazione dei « cuori più teneri e più gentiU, delle persone più generose e
magnanime », che vengono a provare « piuttosto verità che rassomiglianza
di beatitudine », comprende bensì il L., anzi rappresenta soltanto
il L.: ma non come individuo che crea se stesso, col suo valore. Non è
coscienza del dovere dell’ individuo. che può nello spirito
vincere l’avversa natura e toccare (juindi la beatitudine da questa
contesagli ; ma è l’im- niediata condizione spirituale del Poeta, la cui
serenità estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il
dolore. 11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di
ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura dell’universo,
e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della beatitudine che spira
intorno al nume, figliuolo di Venere celeste, non v’ è giustificazione,
né quindi concetto. « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano,
invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate
dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo
effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato
dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è
l’anima che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come
concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce serenità che si
diffonde per tutta la prosa: ossia la forma, la poe.sia, non il
contenuto, la filosofia, del pensiero L.ano. Altrettanto, mulatis
mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella individualità che il Levi vede
nelle varie prose al di sopra del pessimismo cosmico, fino a
Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il
capo al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri
uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto negazione: E ardisco
desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e
con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata
al mondo se non da pochissimi. In altri tempi ho invidiato....
quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi
sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né
savi.... Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. In secondo
luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti si manifesti la
vittoria dell'uomo sulla natura, perché e come potrà farsi una
caratteristica del secondo periodo se nel primo periodo resta, per
esempio, il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che
guerreggia teco Guerra mortale, eterna, o fato indegno;
e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge magnanimo
contro i numi e l’empia sorte, e, conscio della propria grandezza al di
sopra del « velo indegno », emenda il crudo fallo del cieco dispensator
dei casi ? Però credo che nell’esame dei canti del secondo periodo,
cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e suggestivo studio del
Levi, la poesia L.ana sia più d’una volta tormentata affinché risponda
docilmente ai preconcetti filosofici costruttivi dell'autore. Nel
Risorgimento sarebbe celebrata « con gioconda sicurezza la superiorità della
vita affettiva sulla conoscenza e su tutto, e la forza invitta con cui
l’io profondo si afferma, non ostante la contraddizione di tutto
l’universo ». Ma, se il L. canta: Proprii mi diede i
palpiti Natura, e i dolci inganni; Sopire in me gli
affanni L’ingenita virtù. Non l’annullàr, non vinsela
Il fato e la sventura; Non con la vista impura L'infausta
verità. Pur sento in me rivivere Gl’ inganni aperti e noti; E
de’ suoi proprii moti Si maraviglia il sen. la chiave, l’intonazione
della poesia è in questo mera- vigharsi dell’animo di fronte al
risorgimento dell’ ingenita virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto
perché tale. j^on è menomamente sicura coscienza della
superiorità della vita affettiva sulla conoscenza. Data la
sicurezza, perché meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia,
questo stupore innanzi al subito rianimarsi del mondo al risorgere del
vecchio cuore, la poesia è svanita. Un altro esempio significativo.
Nei versi .4 se stesso, secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga
riaffermando, disperatamente, ma pure ancora superbissimamente,
l’assoluta solitudine della sua grandezza » ; e cita i versi; Non vai cosa
nessuna I moti tuoi, né di .so.spiri è degna La terra. Amaro e
noia La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. Ma
dov’ è qui la solitudine della grandezza, se il L. vi nega ogni finalità ai
moti stessi del cuore, se cioè non crede che il cuore possa aspirare a
nulla, e tutti i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco
sotto r immane fatalità ? Infine : « La Ginestra », dice il
Levi, « è da taluni, non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo
contenuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A me sembra
una cosa grande, anche per quella maschia e dantesca sprezzatura, onde il
poeta non rifugge, per rispetto all’ intento morale, dall’ interrompere
la sua melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti in
versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno all’
immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo, eppoi la
straordinaria descrizione delle eruzioni vesuviane. La bellezza di questa nasce
da cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva : e questa è
l’intensità tragica del pensiero universale simboleggiato, e la potenza
di una personalità, che si colloca di fronte alla natura, e ne abbraccia
e comprende la terribile grandezza senza lasciarsene opprimere ». Ma io direi
che la Ginestra non può esser cosa grande per la cosiddetta sprezzatura
dantesca d’interrompere la poesia con pagine di ragionamenti. Se vi sono
ragionamenti che interrompono davvero la poesia, il L., mi pare, sarebbe
stato più grande non interrompendo la sua poesia; dato che la grandezza
della poesia non possa essere altro die il carattere eccellente di una
poesia, tanto più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e
tutta poetica. Vero è che soltanto la retorica può persuadere ad esaltare la
Ginestra per il suo contenuto morale; poiché questa parte appunto (oltre
che la polemica contro la filosofia e contro Mamiani ROVERE (si veda)) è
quella in cui è compromesso l’equilibrio lirico della poesia; ma mi
pare anche un errore staccare la bellezza delle meditazioni sul contrasto
tra la grandezza sterminata dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o
ciucila della descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita
di tutta la ])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le
altre particolari sono irradiate: e che è, credo, la bellezza della ginestra,
del fior gentile, immagine del L., che, mentre tutto intorno una mina
involve, al cielo Di dolcis.simo odor manda un
profumo. Che il deserto consola: l'espressione più
delicata della divina poesia leojìardiana. E dove il Levi afferma con
intenzione, che la bellezza non so se della descrizione delle eruzioni
vesuviane o se di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta
che non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina
estetica, che dice altrove di non poter accettare, noterò che egli mostra
di non aver forse compreso che s’intende in questa dottrina per
espressione : perché l’intensità tragica che egli vi contrappone non è
niente di diverso dalla espressione, se di questa intensità tragica intende
parlare in quanto la vede nella Ginestra] poiché l’espressione va
cercata nell’atteggiamento individuale che lo spirito assume di fronte a
una certa materia, e questa, quindi, in lui. Ma c’ è poi
quella personalità, che si colloca di fronte alla natura senza lasciarsene
opprimere? Qui sarebbe il proprio della interpretazione del Levi. Né
supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra non
supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo, non crede sue stirpi
immortali, e sa pertanto che supph- cherebbe indarno al futuro
oppressore. Non c’ è, dunque, né pur qui, l’individuo che si contrappone
alla crudel possanza, ma la serenità pacata della coscienza della
sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che affermazione
romantica dell’umana personalità. In conchiusione, anche al nuovo
schema filosofico la poesia L.ana si sottrae e repugna, per
richiudersi sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos
lirico. ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con
alcune osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente
lettera: Egregio Professore, Mi par difficile discutere delle
interpretazioni particolari di questa o quella poesia o altro documento
del pensiero L.ano senza rimettere in discussione il concetto
generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro. Perché le mie
osservazioni singole non miravano a confutare singole opinioni e determinati
giudizi, né a mostrare piccole infedeltà ed inesattezze, sì bene a far vedere
in atto r illegittimità del criterio fondamentale con cui aveva Ella
ricostruito la sostanza dello spirito leo- [Si possono leggere nella
Critica,] pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune delle mie
critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire r intento generale
e il significato complessivo del mio articolo. Per esempio, perché, pur
consentendo che nel luogo citato dello Zibaldone con vita o
sentimento dell’esistenza H L. intenda la coscienza, 10
negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto, della
coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale, in quanto parte di
una generale intuizione del mondo, era ciò di cui Ella aveva bisogno per
cominciare a vedere nel L. la filosofia individualistica, in cui Ella
intende riporre l’essenza della più alta poesia L.ana. Con ciò io non
dovevo attribuire al L. soltanto 11 possesso immediato della
coscienza (com’Ella mi fa dire), che sarebbe stato invero troppo poco: ma
solo un senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o magari un
concetto, che però non era un vero concetto, della coscienza. Il Leoparch
insomma vede lì la coscienza, ma non la pensa; sicché per lui pensatore
questa coscienza è come se non fosse ; e non può dirsi perciò, che «
praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha
fermato con sufficiente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di
natura spirituale e della sua dignità ». Il senso della spiritualità e
della dignità spirituale di sé e dell’uomo in generale sì; e questo
appunto io dicevo essere non il contenuto (la filosofia, il concetto)
della poesia L.ana, ma la forma (la poesia, la lirica,
l’espressione della personalità del poeta, superiore alla sua
filosofia). Così, sarà verissimo che il L. si creda infelice
perché grande, piuttosto che grande jierché infelice. Ma questo non ha
che vedere con la mia osservazione che, se egli avesse avuto il concetto
della coscienza, avrebbe veduto la propria grandezza in un grado
spirituale che è al di sopra del dolore e della infelicità. La coscienza
per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza vera e propria, il
superamento della sensibilità, la filosofia del dolore, che, come
filosofia e quindi oggettivazione e visione sub specie aeterni del dolore
stesso, non può non liberare da esso il soggetto. Nel Dialogo della
Natura e di un Anima il L., phi che far dipendere l’infelicità dalla
grandezza, identifica l’una con l’altra. L’Anima domanda Ma, dimmi,
eccellenza e infehcità straordinaria sono sostanzialmente una cosa stessa? o
quando sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l’una
dall’altra?» e la Natura risponde; Nelle anime degli uomini, e
proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animah, si può dire che
l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo : perché l’eccellenza delle
anime importa maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa
maggior sentimento dell’ infelicità propria ; che è come se io dicessi
maggiore infelicità ». Dove è chiaro che la infelicità maggiore è
maggiore sensibilità, cioè eccellenza, grandezza spirituale: perché
l’infelicità è tale in quanto è sentimento di essa, cioè quella vita,
nella cui intensione consiste l’eccellenza dell’animale. E però L.
deve ad ogni modo commisurare la propria grandezza con la propria
infelicità ; ciò che egli non avrebbe fatto, se avesse fermato con
sicurezza, sia pure praticamente, la nozione della vera realtà
spirituale, che in lui spontaneamente s’afferma quando, come per esempio
nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i « maggiori frutti » che si
proponeva e sperava da’ suoi versi annoverava «il piacere che si jirova
in gustare e apprezzare i propri! lavori, e contemplare da sé, compiacendosene,
le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra
soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo ; sia essa o non
sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è quel dolore impietrato, di cui io
parlavo come dell’unica forma possibile del dolore in quanto
contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza, e quindi di
quella vita del dolore che non è più dolore nella vita dello spirito il L.
non ha coscienza. E però il contrasto interiore che io vedo nella
poesia del L. è identico a quello che ci vedeva il De Sanctis,
anche se, nel passo citato da me, rappresentato da un solo aspetto; il
contrasto tra la ricchezza spirituale della personalità del poeta e la
povertà, per non dire negazione, di ogni sostanzialità spirituale, propria del
contenuto della sua poesia. Del Dialogo di Tristano e di un amico
non è esatto che il primo periodo citato da me sia; E ardisco desiderare
la morte ecc. ». Le parole precedenti erano state pur da me riferite
immediatamente prima fino a Tristano che non si sottomette alla sua
infelicità, né piega il capo al destino, né viene seco a patti, come
fanno gli altri uomini » Ma queste parole non potevano impedirmi di
vedere in quel che segue, e in cui confluisce il pensiero di quelle
stesse parole, e però in tutto il Dialogo, una negazione piuttosto che
un’affermazione: e negazione non soltanto, come Ella dice, della propria
persona empirica; perché la morte, pel L., non distrugge soltanto la persona
empirica, ma tutto l’essere dell’ mdividuo. Mi piace ricordare la
felice osservazione di Sanctis {Studio sul L.). L. ha la forza di
sottoporrei il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo,
e fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la
forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e
fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il .suicidio, e
appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare]
Bruto e Saffo, non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se ci sono
stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del
poeta o del filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima, attirata nella
contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina la
faccia. Quanto alla differenza di disposizione spirituale tra ;j
pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino e Porfirio o VAmore e
morte, dove si anela alla morte, ma la si attende serenamente, deposto
ogni disperato pensiero di suicidio, non occorre negarla per non vedere
né anche nei componimenti più tardi quella coscienza jel valore della
propria individualità, che Ella ci vede. ^'el detto Dialogo non si cela,
almeno io non riesco a scorgere, « quella robusta fede nella grandezza
umana, riconosciuta possibile sempre, perché bastevole a se stessa
». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si dice che «la vita è cosa
di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser
molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. E, se non m’inganno,
la nota fondamentale del dialogo è nelle ragioni della tollerabilità
della vita, per misera che sia: le quali ragioni sono bensì la critica
del pessimismo materialistico del L., ma restano nella forma di
sentimento, bastevole a conferire al dialogo quell’ intonazione
affettuosa che gli è propria, e sono veramente l’opposto di quella
affermazione dell’ individualità dello spirito, di cui si va in cerca : «
Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti,
degl’intrinsechi, dei compagni; 0 non essere atto a sentire di sì fatta
cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far ninna
stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di
non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero,
colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degli
altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire,
dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto
che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il
più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo,
che si trovi al mondo. Se prendessimo atto di questa critica del suicidio
— che. risolvendosi in una serie di asserzioni, vale certo come
effusione di stati immediati deU’animo, ma non come filosofìa che
filosofia diverrebbe questa del Poeta che ha ragionato sempresul presupposto
che la vita dell’uomo sia racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il
mondo all’uomo non si rappresenti se non nella breve sfera del
piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte, senza questa
contraddizione interna tra la filosofia dominante nel dialogo e il senso
affettuoso onde il poeta è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere
umano (cfr. la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione
intima di Plotino con Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia del
commovente dialogo ? Nell’ intendere come ho inteso il Risorgimento
posso sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella crede si debba
intendere altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giudizio. Ma la ragione che
mi oppone non mi riesce molto persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia
una risposta alle domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete or mi
ridesta ? Che virtù nova è questa ? Chi mi ridona il piangere Dopo
cotanto oblio ? » ecc. ; Da te, mio cor, quest’ultimo Spirto
e l’ardor natio. Ogni conforto mio Solo da te mi vien;
ed è vero che nella quartina precedente l’accento maggiore è nel terzo
verso. Ma è anche vero che questa risposta è la soluzione del problema, in cui
consiste la poesia : l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del
vecchio cuore. E quindi il sentimento che regge tutta la poesia mi pare
la meraviglia. Ragione, invece. Ella ha certamente nel correggere il
significato da me attribuito In un periodo ora non più ristampato dello scritto
precedente. agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur dopo la
correzione, il significato del canto non è punto favorevole alla tesi
dell’affermazione della propria grandezza, gi a quella del grido della
disperazione, comune a quasi tutta la poesia L.ana. E nella Ginestra
chi negherà il motivo da Lei richia- luato, della personahtà del Poeta
che non si lascia opprimere dalla crudel possanza della natura ? Ma
bisogna vedere quanto questo motivo sia attenuato qui dall’umile
coscienza delle proprie sorti («che con franca hngua. Confessa il mal che ci fu
dato in sorte, E il basso stato e frale...; ma non eretto Con forsennato
orgoglio inver le stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito
e sciolto nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli uomini fra
sé confederati, e nella poesia consolatrice che, commiserando i danni
altrui, manda al cielo, come la ginestra, un profumo di dolcissimo amore,
che consola il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo
innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno
codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla
alla gentilezza del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati
amante, né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente
cantata da L. Certamente, tutte queste cose meriterebbero di essere
chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti L.ani; e io voglio sperare
che questa discussione possa invogliar Lei, che ha studiato tutte le cose
del nostro grande Poeta con tanto acume e con tanto amore, a non
staccarsene senza prima avervi gittate su la luce di nuove ricerche. Maestro
di vita L.? Bertacchi > si è proposto appunto di « raccogliere dagli
scritti di Giacomo L. e di comporre in multiforme unità gli
elementi dell’opera sua nei quali parlino più alto le feconde ragioni
della vita»: «quanto di sereno o di mcn ; triste ricorre neUe pagine del
Nostro; quanto di attivo e di energico, pur nello stesso dolore, risulta
dal senti- j mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di
integrar, ^ se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per dire la
' cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- | j
strare tutti gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1 L.ana.
1; Elementi che non mancano certamente nella detta 'i poesia; e
costituiscono la singolare caratteristica del suo j pessimismo, come già
osservava sessant’anm fa il De San- ' ctis nel suo dialogo sullo
Schopenhauer (dopo che allo stesso concetto aveva accennato un ventennio
prima Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita);, e
conferiscono infatti agli scritti di questo dolente e de- I solato
pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. E molti studi diligentissimi
furono fatti in questo senso i da Negri, nelle sue Divagazioni, che pare
siano t rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è ottimismo e ottimismo; e la
ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J direzione, che potrà
condurre a falsificare interamente il, carattere dello spirito L.ano,
attribuendogli un ot- l timismo edonistico od estetico, che solo un
lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un rft vita-. Sag^o L.ano,
Il poeta e la natura, Bologna, /a nichelli, igi?- stratto e
superficiale può vedere in alcuni aspetti della sua sublime poesia.
Giacché l’ottimismo del L. è la fede e l’esaltazione della virtù, della
grandezza e della lenza dello spirito, di quelle necessarie illusioni,
come egli le chiama, a cui non trova posto nel mondo, guardato come cieco
crudele meccanismo naturale; ma che non perciò egli abbandona, anzi
afferma sempre più vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e
doloroso viene da ultimo purificato e rasserenato in questa intuizione
schiettamente spiritualistica. La quale, d’altra parte, non a\Tebbe il
suo proprio particolar significato, disgiunta dalla negazione
pessimistica della vita dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la
base o il contenuto. In questa contraddizione intima tra la natura
cattiva e lo spirito buono che in sé accoglie la visione di cotesta
natura, consiste proprio la radice, da cui trae alimento tutta la poesia
del L.; per intender la quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né
l’altro dei due elementi contradittorii. 11 Bertacchi invece
crede di poter quasi cogliere in fallo il Poeta ogni volta che il vivo
senso delle bellezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia
il Poeta in rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro ai suoi canti
una sensazione di letizia; per modo che, contro r intenzione del Poeta,
la sua poesia tratto tratto scoprirebbe nella stessa realtà naturale
ravvivata dall’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita; ossia una
fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur seppe attingere.
Poiché, per lui, « vita è sentire e far sentire il bello e il sereno di
natura; vita ravvisare e creare le fide corrispondenze con essa », e poi
« l’uscirle incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o impregnati
di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o contrasti essa con noi,
moltiplicarci, nel suo cospetto, di atteggiamenti e di modi, circuirla di
umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso sensibile le conchiusioni jiiù
nostre e i significati inattesi » ecc., e il Poeta studiato « ne’
suoi fedeli commerci con la natura esteriore » apparirebbe maestro
di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a fecondarsi d’intorno e a
moltiplicarsi le cose » che sdoppia e ingrandisce e abbellisce con la sua
fantasia. Insomma la vita di cui sarebbe maestro il L. è una vita
di piacere | del piacere procurato dalla intuizione estetica della
natura. Tesi in parte ingenua e oziosa, in parte falsa. Perché se si
volesse dire soltanto che il L. insegna a guardare esteticamente la natura e in
generale a dar vita estetica al mondo sensibile, questo sarebbe
verissimo, ma così del L. come, più o meno, di ogni grande poeta; e
non c’ è nessun bisogno di dimostrare questa tautologia, che un’opera
d’arte, qualunque essa sia, è rappresentazione estetica; e quel che può avere
un interesse e un significato, è dimostrare nel caso particolare in che
modo un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in
più la pretesa d’indicare attraverso questo vagheggiamento fantastico
della bella natura una vita diversa da quella apparsa triste al Poeta:
quasi che questi ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1
altra squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne
accorgesse, fossero attratti più dalla prima, e la luce di questa
s’effondesse sull’altra. Che è una pretesa affatto erronea; e
giustificabile soltanto col criterio dal Bertacchi candidamente esposto
fin dalla prima pagina del suo libro, come norma fondamentale del suo
metodo critico. Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza
che l’opera d’uno scrittore non valga solo per sé, ma anche per il
modo diverso ond’essa, quasi, si adatta a ciascuno di noi », poiché «
spesso dalla parola d’un autore, acco- r stata alle anime
nostre, si svolgono sensi ulteriori che l’autore non previde, ma che le
affinità degli spiriti e le somiglianze dei casi vi sanno naturalmente
ritrovare. Il creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via di
significazioni e di uffici ». Sicché L. maestro di vita è il L. dei sensi
ulteriori e non il L. storico; L. creato più che il creatore: creato,
s’intende, in questo caso, dal Bertacchi. 11 quale, una volta sul punto
di creare, non è più legato da nessuno dei vincoli onde ogni critico e
storico è legato alle opere che intende interpretare; e può scegliere tra
gli scritti L.ani quelli soli o di alcuni di essi quelle parti
soltanto, in cui meglio può vedere adombrata l’imma- I gine del maestro
di vita che desidera raffigurare. Così comincerà con lo scartare le
prose ; perché « nella voluta terribile aridità » di queste, « il
pensatore sinistro svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo
agio di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ;
«egh non suscita in noi altro moto che non sia d’attenzione a quella sua logica
amara ». E il Bertacchi vuol dire che lì c’ è il pensiero del L., e non
c’ è la natura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il che non
è poi vero, se si considerano almeno la Storia del genere umano, il
Dialogo della Natura e di un Islandese, La Scommessa di Prometeo e V
Elogio degli Uccelli. Pel Bertacchi le Operette morali sono filosofia e
non poesia. Da scartare poi le poesie in cui il Poeta «trasferisce
nel canto quella materia medesima», malgrado «la maggior seduzione portata
dall’onda del verso, dal periodar musicale, dalle pur rare imagini che
infiorano il discorso qua e là ». E con questi caratteri il Bertacchi non
si perita di designare, oltre 1 ’ Epistola al Pepoli, la Palinodia ed /
miovi credenti, canti come II pensiero dominante. Amore e morte, il
Bassorilievo antico e il Ritratto di bella donna ; definite « Uriche
anch’esse di pensiero e infuse di sentimento » ! Scartate, almeno questa
volta, le poesie in cui il L. parla bensì diretto al nostro cuore
{Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma cantando se stesso non esce
dall’ambito umano e sdegna ogni elemento esteriore : giacché « chi legge,
anche in tal caso, è legato alla parola del poeta, e solo la
rielabora in sé in quanto essa gli desti nel cuore un moto di passioni
consimili che il cuore abbia provato esso stesso ». Da escludersi infine
i canti civili {AW Italia, Monumento di ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla
sorella Paolina, A un vincitore nel pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che
« si resta, sebbene con ampiezza maggiore
nell’ordine voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il L.
« canta all’aperto » ed effonde il canto dell’anima al cospetto della
natura: «vive con la natura, o almeno, nella natura. E questa natura,
poi, è quasi sempre serena ». Qui il ])oeta Bertacchi, creatore del
creatore, può spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi
ulteriori. Ecco; 1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi in
cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta, sono sempre evocati
nei loro aspetti più belli ; soleggiati sono i suoi giorni; le sue notti sono
stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica in un
dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro, riappare in Vita
solitaria con fresca dolcezza mattutina, attraversata dal sole che entro
vi trema sorgendo». E questa presenza della natura « non è senza effetto
per noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà bene, contro
ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune, o le innate
sventure di tutto il genere umano, o l’arcano terribile dell’esistenza;
noi potremmo bene, com’ei vuole, seguirlo nei suoi tristi argomenti,
veder quella bella natura velarsi del dolore di lui, sentir vivo il
contrasto che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi, non
possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel sereno che egli
evoca, si apprenda alle anime nostre, e festi in noi quasi a sé, quasi
distinto dai sensi che il poeta vi associa, congiungendosi, anzi, dentro
di noi con quante visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi
si raccolsero negli anni ». Che sarà anche, come si sarà avver-
t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana, un senso ulteriore,
che L. non ci mise (come ALIGHIERI (vedasi) della novella sacchettiana),
ma non ha più niente che vedere colla poesia del L. E dove pare si
accenni a un giudizio critico, non può essere altro che una vaga e
soggettiva impressione priva d’ogni valore. Così il Bertacchi ci
dirà che nel Sabato del villaggio e nella Quiete dopo la tempesta « il
poeta ha compromesso il filosofo versandoci con troppa pienezza nel
cuore tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che trabocca dalle
ore descritteci. Che, come giudizio, è un errore, perché tutta quella
poesia traboccante è l’incarnazione deU’ idea stessa del filosofo, che nel
Sabato non si esibisce già nella sentenza finale (« Questo di sette
è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia; Diman tristezza
e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la rappresentazione
precedente: dove tutta la gioia è la gioia d’una speranza guardata coi
mesti occhi della provata delusione: è la soavità della fanciullezza ma
non quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange l’uomo già
esperto della vita, in cui ad una ad una si son dileguate le speranze
lusingatrici della prima età. E bisogna non vedere questa pietosa
malinconia, che prorompe da ultimo, ma s’annunzia già dalla malinconica
donzelletta tornante dalla fatica dei campi sul calar del sole,
cioè chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un
dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende la mano al
filosofo. O. c., p. IO. Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e 1
altro La vtla, solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza,
lasciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere a queUa di
farsi vero dolore, la mantengono in una sospensione fluttuante, nella quale
diresti che il poeta sia perplesso sul proprio stato » >. Ora, il
breve idiUio Alla \ luna non fluttua punto, ma esprime nettissimamente
il piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare l’età del proprio
dolore; il grato «rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che
l’affanno duri». E la Vita solitaria fluttua soltanto agli occhi di chi
non vegga l’umtà e la sintesi che ne è tema (neU’anima, s’intende, del
poeta, e quindi in ogni parte della sua poesia) tra la fresca c
solenne beUezza della natura e il sospirante solingo muto, che non trova
in essa pietà (« E tu pur volgi Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le
sciagure e gh affanni, alla reina FeUcità servi, o natura »).
Ma in tutto il volumetto non si trova una pagina in cui
propriamente il Bertacchi affisi la poesia del L. invece di vagare nei suoi
cari sensi ulteriori. Dei quali a volte sente come il bisogno di
scusarsi, dicendo per esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito
col poeta, «poi è naturale, è umano che noi, da parte nostra, riviviamo
tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione di rimpianto, quivi il
poeta rievoca; che essi nell’anima nostra, non afflitta da quelle
cagioni, lascino pure qualcosa della originaria dolcezza; è umano che le
stelle dell Orsa e le lucciole del giardino e il canto della rana remota
e j viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come
sorte da noi, alle sensazioni già nostre, ai retaggi deU’essere nostro»».
Umano, troppo umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà
poesia sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la poesia, per dir la verità,
non so vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del
Ber- tacchi. « Ma il dono che L. fece a se stesso ed a noi, godendo
e mettendoci a parte di tante scene serene, non è il significato maggiore della
complessa sua opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa
di vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne siano gli
aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui,
che era in se stessa, per lui, elemento e ahmento di vita ». « Quelle
mitologie che, sia pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi
la visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura
d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme all’ inconscio e
aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa la fanciullezza dei singoli, la
giovinezza dei popoli ». «Momenti e motivi reali, più che di pura idea,
sono que’ tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi di
canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad avvolgere in aura
di poesia i temi son temi e temi che, comunque, ci attestano come la
stessa malia delle sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio
indugiar sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri »
». Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi ama
troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove forse i sensi ulteriori
gli soccorrono più lenti alla fantasia. Ecco, per un esempio, la chiusa d’un
capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi
liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle notti
medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di noi certamente, in
qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi
in cuore un’eco di quei canti stellati, e ripensando al poeta
congiunto da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli
è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi di oratoria
ritmica ; alla quale potranno non mancare gli ammiratori; ma in cui non
direi che sia ricreato i] L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio
che quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze
ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture L.ane
che il Comitato della Dante Alighieri di Macerata istituì nel 1927 presso
quella Università; nella cui Aula Magna questo discorso venne
pronunaiato; quindi pubblicato nella Nuova Antologia. A inaugurare oggi in
Italia un corso perpetuo di letture L.ane c’ è da essere assaliti da un
certo sgomento, per la responsabilità che si assume. E ciò per un
doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si rajjpresenta generalmente
come un maestro di pessimismo; ed alzare una cattedra a illustrazione
del suo pensiero e della sua poesia può parere perciò tutt’altro
che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire a vecchie e radicate
tradizioni d’indifferentismo e scetticismo e di allargare il petto ad energici
sentimenti di fiducia nelle proprie forze e ad alte convinzioni di
fede nella vita che è chiamato a vivere. Oggi sopra tutto, che il
popolo italiano è raccolto nella coscienza di grandi doveri da assolvere
e nel senso della necessità di rifare nella disciplina, nel lavoro, negli
ordinamenti civili, nella educazione della gioventù a maschi propositi e
metodi di vita l’antica fibra del carattere nazionale. E sarebbe
questo il momento di diffondere nei giovani e nel popolo gli
ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui poesia non si gusta senza
sentire con lui tutta la miseria di questa vita e l’inanità d’ogni sforzo
che si faccia per medicarla? Motivo grave di esitazione e
titubanza; ma che, lo confesso, non turba tanto l’animo mio quanto
l’altro che vi si aggiunge a far temere un pericolo nella istituzione che
oggi si inaugura. Giacché chi abbia anche una elementare conoscenza della
poesia L.ana, sa bene che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha
rinvigorito gli animi; e lungi dallo spegnere, ha infiammato nei cuori la fede
nella vita, nella virtù e negl’ ideali che fanno degna e feconda la vita
umana degl individui e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L.,
come già altri poeti e sopra tutto Dante, argomento di letture pel pubbhco,
diventi anche lui materia di quel malfamato genere letterario che troppo
è stato coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi
delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto il suo tempo, e
potesse ormai relegarsi tra le smesse abitudini dell’anteguerra. Giacché
bisogna che gl’ Italiani si persuadano che, se si vuol far davvero, e
stare tra le grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio, temibile,
realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla testa della
civiltà nel dominio del mondo materiale e morale, bisogna romperla col
passato. Dico col jiassato dell’accademia e della «letteratura», dei
sonetti e delle cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame
e colti signori in cerca di onesti passatempi, più o meno noiosi;
in cui ogni argomento era buono purché leggermente, discretamente,
spiritosamente trattato, o agitato con oratoria adatta a mover gli
affetti e guadagnare gli applausi: ma in cui né dicitore mai, né
ascoltatori debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di parlare o
di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con tutta l’anima, e a
pensare, a trarre da quel che si dice o si apiilaudisce, conseguenze che
siano norme di condotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si
dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un discorso da comizio, in cui
oratore e pubblico, in buona fede, e anche in mala fede, compiono
un’azione e si preparano a compierne altre; e non vuol essere una
predica, che debba edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che
nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio, nessuno vi si
riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno Si ge ne
torni a casa con lo stesso animo — vuoto con è venuto alla
conferenza. Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si
sviluppò durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne fuori
il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapidamente per tutto il suolo
del bel Paese, tutte quelle accademie dai nomi strani e burleschi che
attestavano es«i stessi la frivolezza dei propositi e la
spensieratezza jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano;
accademie, che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia
dalla nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resistono al
sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti nioderni e alla storia,
e vivacchiano oscuramente sul margine dei bilanci dello Stato nelle
provincie e anche nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a
danno delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle accademie
vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime e priva d’un profondo
contenuto e interesse religioso, morale, filosofico, umano; poesia senza
ispirazione, filosofia alla moda, erudizione per l’erudizione, scienza
per la scienza, nessuna fiassione, né anche nella letteratura
politica, che legasse il pensiero alla persona e la persona al suo
pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui l’uomo non era cittadino
della sua patria, né padre della sua famiglia, né credente della sua
religione, ma puro spirito innamorato di astratte forme, senza attinenza
con la pratica della vita e con la realtà degl’ interessi
personali. Cultura intellettualistica, di cervelli magari pieni
zeppi di notizie peregrine e di squisite nozioni e raffinatezze di
arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né amori. Cultura estranea
alla vita; che era poi vita senza cultura, cioè senza riflessione e senza
idealità ; la vita degli uomini proni alla frivolità e agl’ interessi
particolari, chiusi ad ogni alto e generoso sentimento e ad ogni idea la
cui attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile, MaiXrZoni e L..
Chi non conosce queste debolezze dello spirito italiana nei secoli della
decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^ risorta tra le nazioni quando s’ è
vergognata di quella cultura e di quella letteratura, e con Parini ed
Allieri ha cominciato a sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo e
che poesia, come ogni altra forma d’ingegno, vuoi dire pure volontà,
carattere, umanità ? Chi non sa che j)ur dopo la miracolosa risurrezione
di quest’attesa fra le genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa
sarebbe stata una creazione effimera ed insignificante senza gl;
Italiani ? Cioè senza Italiani che cominciassero a unire e a fondere
insieme quel che avevan sempre diviso, l’in. teUigenza e la volontà, la
letteratura e la vita, la scienza e gl’ interessi concreti e attuali
deH’uomo, facendola finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica
e con tutta la vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il dire e altro
è il fare », per cominciare a prender sul serio tutto, a lavorare
tenacemente, a sentire come proprio r interesse comune, a stringere la
propria sorte a quella della patria, a sentirla perciò questa patria come
intima a sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei si
muoia ? Chi non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori si doveva pur
rifare di dentro? Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma
venuto meno lo slancio morale di quell’età eroica, tale aspirazione si
attenuò e fu meno sentita; e nei riposati tempi di pace e di
raccoglimento succeduti al periodo agitato della rivoluzione e della
formazione del Regno, certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono
a galla; nel rifiorire della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò
di quei decennii ultimi del secolo scorso, in cui r Italia parve godersi
le prospere condizioni acquistate con l’unità) risorse con gioia l’antico
gusto idillico c arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica
ed elegante; e da Firenze, centro di questa rifioritura letagraria,
fecero epoca le conferenze prima sulla vita italiana e ]50Ì sulla Divina
Commedia. L’esem]no fu imitato jn tutte le principali città, e i
conferenzieri più brillanti f celebrati viaggiavano da una tribuna
all’altra recando j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le
loro pagine patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva,
del lor^^ pubblico di dilettanti di cultura a buon mercato. Perché a
certe conferenze, con certi nomi, di dire che l’ora é lunga a passare
pochi hanno il coraggio. L. non può esser materia di conferenze. Vi
si ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilissima, che
cerca i luoghi solinghi e i silenzi della notte dove il suo canto possa
spandersi in una religiosa elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e
l’infinito; dove il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare
a fronte della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi
segreti del suo cuore. Vi si ribella la religiosa austerità del suo
spirito tormentato dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo
com’era e orgoglioso della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico
e far suonare la sua voce esile e tremante di commozione in mezzo a
un numeroso uditorio distratto e proclive a mondani pensieri e a cure di
frivola oziosità o di vanità letteraria. No, quanti amano il
Poeta, non tollereranno che anche L. venga alle mani dei pedanti, dei
letterati, dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto
di vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi che
fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla sua vita con vigilante
coscienza morale. E io inizio questo corso formulando il voto e, per
cyuanto è da me, fermando il programma, che qui sia sempre vivo e
presente L. poeta, che è il L. degli
uomini, e non L. dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pettegoli e
dei perditempo. Giacché L. fu anche un erudito ap. passionatissimo ;
anzi, ricorderete, si rovinò la comples. sione e si precluse la via a
ogni godimento della vita per la furia con cui nella età più giovanile si
gettò sugli studi per puro amore di sapere. Per molti anni aspirò,
finché la perduta salute e la vista indebohta non gli ebbero create
difficoltà insormontabili, ad essere un filologo consumato. Delle
questioni letterarie, un tempo delizia degli accademici, fu anche lui
studiosissimo, ancorché ironicamente guardasse dall’alto, per la
coscienza che ebbe del suo più squisito gusto e della sua più
perfetta dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma la
sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella letteratura. Se ne
servì come di strumenti a vedere e sentire più addentro nel proprio
animo, e di grado in grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la
prova più manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse
sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando la vita, studiando
gli uomini, speculando sulla natura e sull’anima umana, indagando i
destini dei mortali e le forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel
suo iiensiero la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il
suo pensiero è una continua, commossa meditazione su se stesso, in
forma che ora rimane un filosofema, ora assurge a fantasma, e vibra e rifulge
agli interni occhi trepidanti. L., con diversa temperie
spirituale e cultura diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio
di quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e ne
sente il valore e la serietà; profondamente differente da quella
anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti italiani cominciarono ad
accorgersi che nella stessa poesia c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo;
l’uomo, che è legaio da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti
della sua vita a una divina realtà, governata da leggi che domano
e annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una realtà, in
cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo da cui si diparte morendo,
ma in cui deve inserire e jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni
sua azione, ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o
sentimento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello jella
morte. Anche L., razionalista e irrisore di superstizioni e di dommi, è
uno spirito profondamente religioso, sempre faccia a faccia del destino:
incapace di abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di
prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso è sempre un
sorriso di austera, solenne mestizia, e si scorge il pacato accoramento
dell’uomo che non riesce a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel
mondo subbiettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso dalla
considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in
particolare, si sforza di vincere il dolore. Per questa sua
costituzionale religiosità L. non fu soltanto un poeta, ma fu anche un
filosofo, allo stesso titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna
intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam così, di professione, ai
filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini, essi vi
risponderanno che L. filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le
idee speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti
più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta
personale, perché non furono fecondate da una sua speciale ispirazione.
Accettò, riecheggiò, Ria senza elaborare quel che accettò, senza
svilupparlo, ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità.
In una storia della filosofia ei perciò non può trovar posto; quantunque
di lui non si possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura
filosofica della prima metà del secolo passato. In questo senso,
d’accordo, L. non fu un filosofo. Ma c' è un altro senso in cui si
deve parlare della filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia
dei filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può interessare
tutti gli uomini, e non essere una malinconica fantasticheria di gente che viva
fuori del mondo. Ed è quello per cui c’ è la filosofia di quelli che
inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh
che, senza inventarne, li cercano questi sistemi nei libri dove
sono esposti, e leggono questi libri, li studiano, ne fanno prò, li
gustano, han bisogno di farsene nutrimento e forza dello spirito, in
cerca di risposta a domande che sorgono spontanee dal fondo della loro
anima, insistenti, invincibili, e che essi perciò non saprebbero reprimere
e far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il pungolo dei
problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa intorno a costoro,
jjer averne soddisfazione ai bisogni da cui sono senza tregua assillati.
Giacché, insomma, la filosofia, come la poesia, non è privilegio né monopoho
dei pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in fondo allo spirito
umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto, c’ è chi si distrae e
corre e si disperde per le cose e gl’ interessi esteriori, senza mai per altro dissiparsi
a tal punto nelle esteriorità da non portare in tutto l’accento,
per quanto leggiero, della sua personalità; e c’ è chi si ripiega e
raccoglie in sé, e dentro di sé cerca, trova e coltiva il germe della sua
vita e del suo mondo. In questo senso più largo e fondamentale il L.
fu squisitamente filosofo: e stette sempre anche lui con gli occhi
intenti, ansiosi, sopra il mistero della vita, quale ad ogni uomo che
sente e che pensa esso si presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane,
di tra il confuso agitarsi passioni svariate che gli tumultuano
incessantemente pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può
vivere così spensierato e abbandonato all’ istinto da non avvertire che
la sua vita non scorre tranquilla com’acqua sopr^ un letto già scavato e
terso. Sono sempre ostacoli da superare, bisogni da soddisfare, desideri!
non ancora appagati e ondeggianti tra la speranza e il timore; e la
gioia offuscata sempre dal dolore, che, vinto, risorge in mezzo allo
stesso ]ùacere; e nell’alterna vicenda di vittorie e sconfitte, cadute e
risorgimenti, speranze e disinganni, giubilo e scoramento, in fondo, alla
fine, uno sparire totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo
della sorgente stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue
labbra assetate; il nulla, la morte. La morte, che ci atterrisce prima di
colpirci, toghendoci per sempre e annientando intorno a noi tante delle nostre
persone care, con cui ci era comune la vita, in guisa che la morte
loro ci pare la morte di una parte di noi. E che è questa morte ? e
che questa vita che precipita fatalmente nella morte ? Che è questo
bisogno di cui viviamo, di non arrenderci a questo fato, che infrange ad
una ad una tutte le nostre speranze, disperde tutte le nostre
gioie, ci priva di tutti i nostri beni, ci chiude dentro mille ostacoli.
ci combatte, c’ insegue, ci sbarra la via, e non ci concede tregua finché
non ci abbatta per sempre ? Nascere è entrare in una lotta, che di giorno
in giorno richiede sempre nuove e maggiori forze, e una volontà
sempre più agguerrita, per vincere una battaglia sempre più aspra.
Svegliarsi ogni mattina è, presto o tardi, pronti 0 lenti, rispondere
all’appello delle cose, della natura, del destino, che ci attende, e ci
spinge a nuove fatiche per soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno
tutta la nostra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o men
difficile: ma per tutti è una scala, che bisogna salire; salire sempre;
da un gradino all’altro: sempre più senza fermarsi mai. Ma,
appena l’uomo che ha un cuore, sente quest affanno e scorge, anche da
lungi, la tragedia e la catastrofe” non può non interrogarsi e riflettere
se a questa lotta ché par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia
forz. sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi
confida a volta a volta di poter affrontare la lotta stessa per
conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita sua, quale ei la
vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia mette in moto la sua
attività; e se egli non debba aprire gli occhi, e riconoscersi vittima
del giuoco inesorabile della natura, granello di polvere sperduto nel
turbine, o ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato
movimento non s’arresterà né devierà mai, e dentro i] quale ogni sforzo
di volontà non può essere, esso medesimo, al pari delle idee e dei sentimenti
che lo sollecitano, se non un necessario effetto di una causa necessaria
predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in cui si svolge la
nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa neUa sua natura e nelle
sue leggi, immodificabile, e noi dentro di esso, tutt’uno con tutte le
altre cose, anche noi mossi dalla forza irresistibile del destino ? 0
siamo noi veramente capaci di metterci di fronte a ciuesto mondo,
modificarlo con la nostra opera, con la nostra volontà, e al di sopra
delle ferree leggi del meccanismo naturale col nostro amore, con l’impeto
dell’animo nostro innamorato dell’ ideale, instaurare una legge che sia
la norma del bene e di un mondo spirituale dotato di un valore assoluto ?
E se non fosse possibile questo mondo superiore, in cui il bene si
distingue dal male, e c è una verità che si oppone all’errore, come si
potrebbe pensare lo stesso mondo inferiore e quella natura spietata tutta
chiusa nel suo meccanismo, la cui affermazione implica che si ritenga vera? E
se a questo mondo superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera
dello spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità resping^n*^
contrario, se ne contrappone un altro che è la nepzione della hbertà,
come si farà ad ammettere che sia libera la natura umana, circondata e
condizionata da una natura che è l’opposto della hbertà ? Pensieri,
che il filosofo più esperto mette in formule stringenti, e scruta a
fondo; ma che confusamente, e non perciò meno tormentosamente, affiorano
in ogni umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono
la fede di cui ogni uomo ha bisogno per non fermarsi e cadere. Giacché 1
uomo non dà un passo senza credere di poterlo dare; senza pensare che c’è
una mèta innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona
per giungervi. E quando questa convinzione gli manchi, e gli manchi del
tutto, allora non gli resta che rifugiarsi nell’ Èrebo, come la misera
Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che
pensano e sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno invece sentì mai
cosi acutamente come il nostro L.. nessuno vi pensò mai con tanta insistenza, e
ne trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il L. se fu un
filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta in senso stretto. Il
che vuol dire, che le sue convinzioni filosofiche non gli rimasero nella
testa; ma gli scesero al cuore, e \'i si abbarbicarono, e furono la sua persona,
lui stesso, la sua anima, 1 immediato sentimento, in cui \ibrò a volta a
volta tutto il suo cuore. La sua concezione della vita, come or ora
vedremo, si chiuse in poche idee, ma queste si fusero e colarono ardenti
sulla stessa fiamma della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono
in accenti e fantasmi di poesia. La quale questo ha di proprio, a
differenza della scienza ragionata e del sapere speculativo; che in
questi il pensiero si spersonahzza e si stende in una tela universale,
che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e far sua, e viverne anche, ma
elevandosi sopra di sé e quasi uscendo da sé, e mediandosi, cioè
svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo vivente della sua
individualità, in guisa da parere che non senta più né affetti, né
passioni, né gioie, né dolori, assorta nella contemplazione del suo
oggetto. Laddove la poesia, lungi dall’alienare da sé il soggetto, lo
stringe a se stesso, e lo fa vedere immediatamente così come esso è,
dentro di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente nel brivido
della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere e nel suo atteggiamento
non ancora mediato, sviluppato, riflesso, ragionato e disindividuato. Lo
scienziato cerca e trova la verità che è di tutti, astrattamente obbiettiva,
in guisa che non par più né anche spettacolo di occhi umani od oggetto
conformato alla mente che lo pensa; e il poeta in^’ece non cerca e non
trova se non se stesso: l'amore o qual’altra passione gli detta dentro le
parole in cui egli si esjirime. In questa immediatezza, spontaneità
e quasi naturalità dello spirito poetico è il segreto della miracolosa
potenza della poesia, raffigurata dagli antichi nella virtù incantatrice
della lira di Orfeo, che traeva a sé e trascinava non pure gli uomini che
riflettono, ma le fiere che solo sentono. Perciò la poesia, quantunque
richieda anch’essa cultura e finezza spirituale, risultato di
studio e di educazione, s’appiglia al cuore dei semplici e delle
moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non per virtù di
persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, appunto, d’un tratto,
immediatamente, quasi per divino miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù
diffusiva dell’arte è senza paragone superiore a quella della filosofia.
Perciò quella filosofia, che fu nel L. sentimento e diventò sublime
poesia, ha una potenza infinitamente maggiore di qualunque più
sistematica filosofia; e se si chiudesse nel gretto circolo di una
concezione pessimistica della vita, non sarebbe, a dir vero, prudente accorgimento
di educatori del popolo italiano erigere qui una cattedra a commento ed
esaltazione di essa. I filosofi, per raggiungere la loro verità, devono
salire l’erta faticosa del monte; e giunti alla cima, vi restano per
solito in una solitudine magnanima, anche a malgrado della
moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti si traggono
dietro il popolo, toccandone il cuore anche lievemente, con quella loro
arte che « tutto fa, nulla si scopre ». L. è tra essi; ma materia del
suo canto è la sua filosofia. E qual è dunque il contenuto di
questa sua filosofia ? Quello che abbiamo già detto dei problemi
filosofici, che spontaneamente sorgono dal fondo del pensiero
umano, ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita intellettuale
e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei problemi martellò il
suo pensiero; e di quei problemi vagheggiò soluzioni, che scossero
profondamente il suo animo. E sono i problemi fondamentah o massimi
della filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno di
assicurare all’uomo la fede che gli è indispensabile per vivere: la fede
nella propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha, e deve avere, di
esercitare un suo giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi
un suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi ideali e
non dibattersi vanamente in una rete di illusioni e di sforzi infecondi.
Bisogno, rispetto al quale ogni filosofia materiahstica, evidentemente, è una
filosofia fallita; la quale, logicamente, se l’uomo non si risolvesse
da ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad abbandonarsi all’
istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come ho detto, al suicidio. Ora
Giacomo L., ogni volta che si trovò a fare di proposito una professione
di fede, fu esplicito nel manifestare la sua adesione alla filosofia
sensualistica e materialistica; e il Frammento apocrifo di Stratone
di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è una dichiarazione del suo
proprio pensiero, quale, per altro, si ripercuote in una buona metà de’
suoi scritti in prosa e in verso. Poiché da per tutto egh si vede innanzi
quella natura simbolicamente rappresentata nel Dialogo della Natura e di
un Islandese', la quale non sa e non si cura dei desiderii né delle sofferenze
umane; natura grande, enorme, infinita, la quale racchiude in sé
tutto, e non conosce perciò l’uomo che pretende di contrapporsele, di
deviarla dal suo corso, piegarla alle proprie tendenze, conformarla a
quei fantasmi di una vita bella ideale, che egli si finge e pretende di
far valere in concorrenza della dura, quadrata realtà che lo fronteggia.
Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni umana velleità, e aggioga
l’uomo al dominio universale delle leggi di natura: dove non c’è bene né male,
ma tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa che lo
determina, non può non accadere; e la stessa necessità ha ogni umano pensiero o
volere, che non deriva da un principio autonomo, che si faccia centro di
una vita superiore e indipendente, avente in sé la propria misura,
ma è effetto del generale meccanismo, che si abbatte sulla così detta
anima umana attraverso le sensazioni e gh appetiti che queste
producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa, in
conclusione, la filosofia del L. ? Io \’i invito a riflettere che c’ è due modi
di giungere a conclusioni materialistiche : uno proprio degh spiriti poco
sensibih, che, raggiunte quelle conclusioni, vi si rassegnano: le
trovano inevitabili, e si fanno un dovere, il cui adempimento non
costa a loro grande fatica, di accettarle senza reazione di sorta; e
l’altro invece proprio di quegli altri, che se non trovano la via di
affrancarsene, e scoprirne l’errore e la manchevolezza, ne soffrono, e vi
reagiscono contro, e vi si ribellano con tutta la forza del loro
sentimento, che ò come dire della loro stessa personalità. I
secondi non riescono ad affisarsi tanto nella visione di quella
natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da restarvi come
assorbiti, dimenticandosi affatto di queste esigenze, e cioè della lor propria
natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce appunto da questo
stridente contrasto, di cui essi infine vengono a fare l’esperienza, e a
vivere. La realtà finale, al cui cospetto vengono a trovarsi, non è una
sola, ma duplice: da una parte, la natura disumana, in cui tutte le luci
onde s’illumina la via dello spirito si spengono; e dall’altra, questa
realtà fiammeggiante e splendida, che arde dentro di loro, e alla cui
luce, infine, essi comunque guardano e vedono la prima. Giacché anche
questa è oggetto di una affermazione, in cui lo spirito umano manifesta
la fede che ha nelle proprie forze e nella propria capacità di
distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al primo in quanto esso è
opposto al secondo. La realtà che è lì di fronte allo spirito, è sì
quella realtà naturale, materiale, meccanica, chiusa e impervia ad ogni
idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di libertà; ma il contrapporsi
di essa allo spirito importa pure l’opporsi dello spirito ad essa: dello
spirito, che è una realtà dotata di attributi contrari a quelli con cui
vien pensata l’altra. E per ammettere questa, bisogna ammettere prima
quella ; senza la quale mancherebbe lo stesso pensiero, a cui si
chiede tale ammissione. E chi dice pensiero, dice libertà. Dunque ? Siamo
liberi ? Possiamo cioè col nostro pensiero, con la nostra volontà,
crearci il mondo che ci sorride alle menti innamorate; il mondo della
verità, delle cose belle e buone, a cui il nostro cuore tende con
irresistibile slancio ? E come spiegar l’ali, onde noi vorremmo
innalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse urtano sul muro di
bronzo di questa materiale natura, che ci attornia e stringe da tutte le parti,
dalla nascita alla morte ? Ecco l’esperienza del L., ecco la sua
lìlosofìa, che è molto ]ùù complessa del semjjlicismo
materialistico; ed essa è il reale contenuto della poesia L.ana:
quella filosofia fatta sentimento e persona, che ho detto esser materia
al canto del Poeta recanatese. 11 quale non si rassegna alla pura
affermazione materialistica, perché la ricca e sensibilissima vita morale
che gli riempie il cuore, è la negazione del materialismo; e poi perché
egli è un poeta, e come ogni poeta crede nel suo mondo, lo prende
sul serio; e questo suo mondo è la ])rova più luminosa della sua capacità
creatrice e della sua libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri
principali dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato,
l’uomo religioso, lo stesso filosofo può sentirsi legato a una
realtà che prcesiste alla sua azione, alla sua ricerca scientifica,
alla sua preghiera o alla sua speculazione, che è in sé quello che è, con
le sue leggi, a cui l’uomo deve arrendersi e subordinarsi, l’artista crea il
suo mondo e, prescindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente,
celebra la sua assoluta libertà, arbitro della nuova realtà che egli si
finge, e in cui vive, e si aliena dal mondo naturale dell’uomo comune e della
sua stessa vita ordinaria: sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda,
e si slarga a orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno
e del divino. La poesia del L. ribocca e freme di trepidante tenerezza
per le vaghe immagini figlie dell’arte sua: per quelle dolci parvenze che
un po’ gli sorridono e poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla
corrente di quella disumana realtà, che ignora il dolore che essa cagiona
ai cuori teneri e gentili. E insieme con le immagini belle, gli arridono
tutte quelle che una volta egli dice le « beate larve », familiari agli
uomini non ancora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non
ancora spinti dalla malsana riflessione alla disperazione (ji quella
mezza filosofia, che è il materialismo: le beate lar\e, che allietano e
confortano la vita agli uomini, nelle antiche età, e nei primi anni della
fanciullezza e della gioventù quando non ancora si sono appressate
le labbra all’amaro calice della vita; e nelle prime ore del
mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha riassaporato per
anco la realtà, e se ne foggia con 1’ immaginazione una che lo anima e alletta
alla nuova fatica. Le beate larve delle illusioni naturali e necessarie :
di tutte, cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che quella
filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate di un
legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare dallo spirito
umano. Perche illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea
onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita che noi conosciamo, risponde il L.,
ne è la negazione. Ricordate il dialoghetto di un venditore d’almanacchi
e di un passeggere? L’almanacco promette per l’anno nuovo tante cose
belle; ma il passeggere è scettico; «quella vita eh’ è una cosa bella non
è la vita che si conosce, ma (jueUa che non si conosce; non la vita
passata, ma la vita futura ». La quale però un giorno sarà passata, e
allora si conoscerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta sperimentata;
brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro è il mondo che vi finge lo
spirito; il mondo, dice L., delle illusioni. Lì è la virtù che vince il male
e trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì è l’amore;
lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello non è il mondo
reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga, e diventi passato. La
realtà realizzata, quale noi possiamo averla innanzi a noi, ed
effettivamente conoscerla, quella ci disillude, e ci dimostra che la
virtù è un nome vano. e che tutte le più vaghe speranze e gl’ ideali più
cari finiscono nel nulla. Tant’ è che Tuomo conchiuda o per
condannare come semplici ombre fallaci tutte le illusioni, e dire che
la vita non si può governare se non in rapporto al reale all’esistente,
al mondo qual è (che è poi il passato); o per risolversi animosamente a
dir no a questo mondo reale (che è il passato senza futuro) e a
governarsi con l’occhio all’avvenire, dove lo trae la sua natura di
essere pensante, e perciò creatore di ideali e vagheggiatore di una vita
superiore a quella puramente naturale. E L. dice questo no con tutta la forza
del suo animo, con tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è
tutto proteso verso il futuro, verso l’ideale, e torce con coscienza
prometeica lo sguardo dalla legge fatale che incatena l’uomo come essere
naturale alla ferrata necessità di morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza
il brutto poter che ascoso a comun danno impera e V infinita vanità
del tutto. Per lui Nobil natura è quella Ch’a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra Al comun fato. E quanto a sé non cederà
certo ; e alla morte può dire: Erta la fronte, armato,
E renitente al fato. I.a man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir. Solo
aspettar sereno Quel dì eh’ io pieghi addormentato il volto
Nel tuo virgineo seno. Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima
umana pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima jn
uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e infelice. Infelice perché
grande; perché sentire la infehcità è solo jelle anime grandi, che con la
loro gagharda natura si jnettono al di sopra del mondo, che le fa
soffrire, e regnano sovrane in quella superiore realtà che è propria dello
spirito. L. sa che la grandezza del suo dolore si commisura alla
grandezza del suo pensiero che lo sente e analizza e ne fa materia al suo
altissimo canto; e che un’anima volgare e torpida non saprebbe provare
tutto il dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e irride.
L. sa che la coscienza dell’umana miseria è già segno di grandezza. Sa
che ancor che tristo, ha suoi diletti il vero: che l'acerbo vero, a
investigarlo, dà un amaro gusto che piace. E poi quando l’anima,
disillusa e stanca della vita che non mantiene mai le sue promesse, si
riduca infatti all’estremo della infelicità, che non è la disperazione, ma la
noia >, la morte ncUa vita, non dolore né piacere, ma il sentimento
della nullità, questo terribile privilegio degli uomini, a cui la natura non ha
provveduto perché non ha neppur sospettato che l’uomo vi potesse cadere;
quella noia che, a simiglianza dell’aria «la quale riempie tutti
gl’intervalli degh altri oggetti, e corre subito a stare là donde questi
si partono, se altri oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e
immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi de’
viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche allora l’anima non
cade, non è vinta. Giacché, secondo L., « la noia è in qualche modo il
più sublime dei sentimenti umani. Il non potere essere soddisfatto
da ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della noia.
La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili, anche
i più crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha misto del bene, a
tutti fuorché alla noia» (Zibald.). Zibald., Giuntile, Manzoni e L..
alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare
l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei
mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo
proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo
infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più
grande che sì fatto universo; e sempre accu- sg^re le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vóto, e pero noia, pare a
me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della
natura umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nessun momento, e
pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le delusioni, su tutti i
dolori, su tutte le miserie, al di sopra della mole sterminata di
quest’universo, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spengono tutti
gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la hbertà, quindi la
possibilità di crearsi una vita superiore degna delle più nobili
aspirazioni connaturate all’animo umano. Anche pel L., poca scienza
pregiudica e mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce
la fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura, che
la mezza filosofia del materialista ci rappresenta in voley mutyignu, è
pur quella natura che mette nell’animo nostro le illusioni; e se non
sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo
non più contento delle condizioni naturali della vita che egli
dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore, con la pietà,
con tutti gli affetti gentili che riempiono il cuore di dolci
consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura
che governa Tuomo, madre benigna e pia nell’età dei Patriarchi, nei tempi
oscuri e favolosi del genere umano, e risorge amorosa nella prima età
di ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro immaginare la
speranza nel futuro a cui egli va incontro; questa natura, che nell’amore
torna sempre a rinverdire le speranze, e che ci fa conoscere una « verità
piuttosto che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,
quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuotato il calice amaro,
torna a confortare l’uomo, amica e consolatrice. La natura del
materialista è via; ma non è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11
savio torna fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è
alla presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo, che tutto
travolge e distrugge quanto a lui è più caro, ma quello del pensiero,
dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici
della filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indurrebbe il
filosofo al suicidio, Plotino può rispondere : <iPorgiamo orecchio
piuttosto alla natura che alla ragione»'. alla natura primitiva « madre
nostra e dell’universo », la quale ci ha infuso un certo senso
dell’animo, che è amore degli altri e che ferma la mano al suicida
ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero della sua
morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe togliersi la vita, il
filosofo più savio, il maestro, Plotino dirà: Viviamo, e
confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabilita dei mali della nostra specie ! Sì bene attendiamo a
tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e
soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa
fatica della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo :
e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci
conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti,
cosi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò
Sanctis paragonando Schopenhauer a L., notava questo grande divario tra n
filosofo tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette
in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto più ce la fa
amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce ne accende
vivo nel petto il desiderio e il bisogno. Perciò la lettura del L. non
sarà mai pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà leg-
gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso per metà è il
più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più sani e
vigorosi ottimisti che ci possano apprendere il segreto della vita
operosa e feconda. La morte, anche la morte, il simbolo della
fatalità avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare minacci sempre
da lungi e ammonisca della inanità d’ogni speranza e d’ogni fatica, e
della nullità della vita a cui ci sentiamo tutti legati, la stessa morte
al Poeta, nella maturità piena della sua poesia, quando il suo
animo ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la sua
verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa germana di Amore,
che è pel L., come s’ è veduto, ciò che dà verità più che rassomiglianza
di beatitudine. Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte
Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle Altre il
mondo non ha, non han le stelle. Morte diviene una bellissima
fanciulla, dolce a vedere; e gode accompagnar sovente Amore: E
sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d’ogni saggio
core. Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica, come
merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo L.ano, Treviso,
bongo e Zoppelli, Il Poeta sente
che Quando noveUamente Nasce nel cor profondo Un
amoroso affetto. Languido e stanco insiem con esso in petto
Un desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale
D’amor vero e possente è il primo effetto. Il Poeta vuol
rendersi ragione di questa coincidenza, e non vi riesce. Ma ben sente che
quando si ama, non ha più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso
nei suoi limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che
fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore scopre che la
sua vera vita è di là da questi hmiti; e che bisogna ch’egli perciò muoia
a se medesimo, e spezzi r involucro della sua individuahtà naturale,
centro di ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte
opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte è liberatrice,
affrancando lo spirito umano dai vincoli onde ogni uomo è da natura
incatenato a se medesimo, chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e
forze naturali, incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi,
entrare nel mondo morale, che è il mondo della libertà. Questo il
concetto che il Poeta sentì e visse: questa la materia del suo canto.
Formiamo oggi l’augurio, che attraverso il corso di queste letture, che
inauguriamo, tale concetto apparisca in luce sempre più
chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane
(Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali di G.
L., da me curata, Bologna, Zanichelli, Se si volesse considerare le Operette
morali come una raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso,
sarebbe tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non
sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite con perentoria
precisione dallo stesso autore innanzi alla terza edizione iniziata a
Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate
la prima volta a Milano, ristampate in Firenze coll’aggiunta del
Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere, e di quello di
Tristano e di un Amico; tornano ora alla luce ricorrette
notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo di Stratone da
Lampsaco, del Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio. Intanto, non tutte le Operette furono
pubblicate la prima volta a Milano; giacché tre di esse, come « primo
saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’ Antologia e
quell’anno stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo Ricoglitore.
Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione di quelle che nella
notizia testé riferita sono assegnate dall’autore furori composte; perché
l’autografo originale, che è tra le carte L.ane della Biblioteca
Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed. Mestica, li, fa sicura testimonianza con le date apposte
alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al 13
dicembre di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo in
cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima fu concepito, o ne
cadde il motivo fondamentale e inspiratore nell’animo del L.. Giacché con qual
fondamento si toglierebbe l’una o l’altra delle Operette a documento di quel
periodo spirituale che si suole infatti atribuire agli anni tra il canto Alla
sua donna con i Frammenti dal greco di Simonide (appartenenti probabilmente a
quello stesso tempo), e l’epistola Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se
quei pensieri che sono caratteristici delle Operette risalgono ad epoca
più remota ? Fu già osservato j che negli Abbozzi e appunti per opere da
comporre, che sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli
foglietti staccati senza indicazione di tempo » 3, è segnato un
Ecco le singole date, già in parte pubblicate dal Chiarini, Vita di G. L.,
Firenze, Barbèra, e da me riscontrate tutte sul manoscritto autografo
(che si conserva tra le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli):
Storia del genere umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e
della Morte; Proposta di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e di
Sallustio; Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ; Dialogo di Malamhruno
e di Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e
della Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo di un Fisico e di un
Metafisico; Dialogo della Natura e di un Islandese; Dialogo di Tasso e
del suo Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro;
Il Parini, ovvero della gloria; Dialogo di
Ruysck e delle sue Mummie; Detti memorabili di Ottonieri. Dialogo di
Colombo e di Gutierrez); Elogio
degli Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note, Da N. Serban, L. et la France, Paris,
Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle
carte napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo,
sul proposito di quella parlata della natura, all’uomo, che Volney le
mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » dialogo,
che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo della Natura e di
un'Anima) il quale, dunque, al tempo di quell’appunto non era scritto.
Pure nello stesso foglietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari
degli antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa cosa
del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e riflessioni sopra diversi luoghi
di diversi autori, sull’andare di quelle ch’io fo in un capitolo del F.
Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo dei Detti memorabili, che è
delle ultime operette del '24. Ora, se questi appunti sono pertanto da
ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in qual modo spiegarsi che del
suo Dialogo della Natura e di un’Anima l’autore parlasse come di opera da
comporre ? O egli non aveva neppur composti i Detti memorabili, e si riferiva
ai materiali che vi avrebbe messi a profitto, e che già, come vedremo,
possedeva ? Comunque, in altra serie di appunti, relativi,
come par probabile, a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti
segnati nel medesimo foglietto, s’incontrano, tra gli altri, i seguenti
argomenti: Salto di Leucade) Egesia pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e
Genio) Galantuomo e mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco,
da capo, il Dialogo della Natura e di un’Anima, ma accanto a un altro dialogo.
Galantuomo e mondo, che l’autore abbozza, per tornarvi sopra nel '24,
senza condurlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto deve
risalire. E secondo lo stesso documento, contemporanei sono i disegni primitivi
di altre [Vedi abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto relativo,
riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte L.ane della
Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12. quattro operette, due del
'24 e due del '27. Giacché, oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e
il Copernico, qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia
pisitanato la prima idea del Dialogo di Plotino e di Porfirio > ; e
nel Salto di Leucade quella del Dialogo di Cristoforo Colombo e di
Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore quella del Dialogo di Timandro
e Eleandro 3. E il documento certamente dimostra che del Plotino e del
Copernico, scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo il
concetto, ma anche la forma in cui il concetto si ])re- sentò alla mente
del L., non è posteriore alle Operette. E c’ è altro. Stando
alla cronologia dataci dai documenti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese
d’estate del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli Detti,
riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, ha dimostrato,
in modo incontestabile, che in questo scritto « liberamente il L.
raccolse dal suo Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici;
certo intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispecchiamento delle
proprie opinioni, ma più col fine di pubblicare qualche parte del
materiale accumulato giorno per giorno». Sicché s’è creduto poter
conchiudere che nell’ Ottonieri al L. « venne fatto un centone, non
un’operetta come le altre organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti
un paio d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap.
Ili dell’ Ottonieri si legge : > Egesia infatti è ricordato nel
Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo e Pensieri. Questo dialogo infatti originariamente recava
il titolo di Dialogo di Filénore e di Misénore. Luiso, Sui Pensieri
di L., nella Rassegna Nazionale. Dice che la negligenza e
l’inconsideratezza sono causa di commettere infinite cose crudeli o
malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità o crudeltà; come, a
cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo
passatempo, lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia;
non per animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando
colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’inconsideratezza sia
molto più comune della malvagità, della inumanità e simili; e da quella abbia
origine un numero assai maggiore di cattive opere; e che una grandissima parte
delle azioni e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a
qualche pessima qualità morale, non sieno veramente altro che
inconsiderati. Idee che fin dall’ ii settembre 1820 L. aveva
sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri, scrivendo: La negligenza
e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e produce gh effetti della
malvagità e brutaUtà. E merita di esser considerata come una delle
principali cagioni della tristizia degli uomini e delle azioni.
Passeggiando con un amico assai filosofo c sensibile, vedemmo un
giovinastro che con un gros.so bastone, passando, sbadatamente e come per
giuoco, menò un buon colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti
suoi senza infastidir nessuno. E parve segno all’amico di pessimo
carattere in quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione.
Questa molte volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui,
senza che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e
giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci penare il suo
servitore alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole; molte altre
volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo,
ma non ci curiamo di considerarlo e lo facciamo cosi alla buona; considerandolo
bene, noi non lo faremmo. Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e
produce lo stessissimo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che
ogni volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di
produrre quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia
che fare col tuo carattere Pensieri di varia filosofia e di bella
letteratura, no Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a
leggere; Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi
siamo inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene
di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri
pregi veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o
qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità,
ed un abito grande di meditare, e molta memoria, per considerare esse virtù ed
essi pregi, e tenerli poi sempre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni
altra cosa, o non iscopriamo in coloro queste tali parti, o non
confessiamo tra noi di scoprirvele. E anche questo pensiero,
quantunque in forma compendiata a mo’ di appunto, era già nello
Zibaldone; Noi supponiamo sempre negli altri una grande e
straordinaria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari
che sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando anche
ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto a qualunque
altra cosa. E il numero di simili riscontri è tale che pochi
sono i luoghi dell’ Ottonieri di cui non si trovi la prima prova
nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà dunque da dire che nel ’24
l’autore abbia dato soltanto la forma definitiva a questa operetta, facendone,
come ad altri è sembrato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro
anni prima ? Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri.
Anche del Parini è stato notato che la sostanza è già nei Pensieri [ b
Caratteristico questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al
Parini; Come città piccole mancano per lo più di mezzi e di
sussidi onde altri venga all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine;
e V. tra gli altri B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra,
- 04, II, 42; e Losacco, in Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro
e il pregevole concorre e si aduna nelle città grandi; perciò le piccole
sogliono tenere tanto basso conto, non solo della dottrina e della
sapienza, ma della stes.sa fama che alcuno si ha procacciata con questi
mezzi, che l’una e l'altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia.
E se per caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria
d’ingegno e di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al
tutto unica, non tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che
spesse volte, quando anche famosa al di fuori, ella è, nella
consuetudine di quegli uomini, la più negletta e oscura persona del
luogo. E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili luoghi,
che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò
tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta
nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la terra eh’ io soleva
attendere agli studi, e mi esercitava alcun poco nello scrivere; i
terrazzani mi riputavano poeta, filosofo, fisico, matematico, medico,
legista, teologo, e perito di tutte le lingue del mondo; e
m’interrogavano, senza fare una menoma differenza, sopra qualunque punto
di qual si sia disciplina o favella intervenisse per alcun accidente nel
ragionare. E non per questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi
credevano minore assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma
se io li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure
un poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora
moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo si persuadevano che essa mia
dottrina non si stendesse niente più che la loro. Mirabile pagina,
piena di verità. Ma essa trae origine da riflessioni jiersonali e
autobiografiche già dal L. segnate sulla carta fin dall’ottobre
1820; Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio,
se ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno
maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno sarà
infinitamente minor del giusto, sicché relativamente considereranno quel
tal pregio come molto minore. Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero
dedito agli studi, credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e
m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano
poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc.,
insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e
per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano
paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che
avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: A
voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perché
quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che
le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro stima
scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno del loro
grado Né soltanto la cronologia diventa un problema di
difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri. I quali
però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento del
pensiero del L. astratto dalla forma che esso ha nelle Of erette. Che se
si guarda a questa, è facile scorgere, per esempio, la superficialità del
giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri non sarebbe
nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si badi, d’altra parte,
a non prendere né anche questa forma in astratto, quasi la forma speciale
del tale passo delle Operette, il quale abbia un antecedente più o
meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur così intesa, essa sia
sempre nei due casi profondamente diversa). Anche questa è una forma
astratta; perché la vera forma assunta in concreto da ciascuna parte
di un’opera è quella tal forma soltanto in relazione con tutta
l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale, ossia di quel certo
atteggiamento spirituale, in cui l’autore si trovò componendola. Sicché
un centone si può certamente trovare anche in un’opera che abbia una
salda e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si prescinda da
questa unità, e si cominci a indagarne il contenuto, decomposto meccanicamente
nelle singole parti, Pensieri, dalla cui somma a chi se ne lasci sfuggire
lo spirito pare che l’opera risulti. Che è quello che è stato fatto per
le prose L.ane da tutti i critici che se ne sono occupati, ora
considerando e giudicando le singole operette ad una ad una, ora
sminuzzando Cuna o l’altra di esse in una serie di frammenti facilmente
rintracciabili in altri scritti, in verso e in prosa, dello stesso L.
(dando l’idea d’un L. che ripeta inutilmente se stesso), o in precedenti
scrittori, massime francesi del secolo XVIII (in confronto dei quali poi
tutta l’originalità dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che
il L. abbia avuto, il De Sanctis; se ha sdegnato ogni ricerca
analitica e mortificante di fonti e confronti, fermo nella dottrina, che
è sua gloria, dell’ inseparabilità del contenuto dalla forma nell’opera
d’arte, e perciò della necessità di cercare il valore e la vita di
quest’opera nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde
ogni vero artista trasfigura la sua materia; non s’è guardato
tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti, la cui serie forma
il contenuto del libro, anzi che nel tutto, nell unità, dove soltanto può
essere l’anima e l’originalità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare,
per così dire, un L. in ciascuna delle operette, presa a sé, invece
di cercare il L. di tutte le operette, che sono un’opera sola.
In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del Venditore di
almanacchi e del Tristano, con cui nel '32 l’autore volle tornare a
suggellare il pensiero delle Operette, tutte le altre pullularono dall’animo
del L. nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e di
sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il Copernico e il
Plotino erano già in mente al poeta quand’ei vagheggiava il suo Tasso, il
Colombo e fin lo stesso Ti- mandro; e meditava insomma quegli stessi
pensieri, che presero corpo nelle Operette del '24; con le quah
infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano
accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner, che gh chiedeva scritti inediti da
potersi pubblicare a Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere
aggiunti alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il
suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.
Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a vostro piacere:
solo bisogna eh’ io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la
copia. Esse non potrebbero facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma
avvertiva subito, che da soU questi dialoghi non potevano andare; e
tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che le mie due prose inedite
abbiano un interesse sufficiente per comparir separate dal corpo delle
Operette morali, al quale erano destinate»*. Quanto al Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente
posteriore alle altre prose compagne; anteriore ad ogni tentativo fatto
dall’autore per pubblicare le Operette. Alle quali, nelle edizioni parziali e
totali fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore non
potesse pensare ad includerlo a causa del crudo materialismo che vi è
professato, c che le Censure non avrebbero lasciato passare. Ma,
lasciando per ora da parte queste cinque operette [Stratone, Copernico,
Plotino, Venditore d’almanacchi e Tristano) che vennero successivamente
ad aggiungersi alle prime venti, è certo che queste venti, composte
tutte di seguito in un anno di lavoro felice, furono dall’autore
scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E quando ebbe in ordine
il suo manoscritto completo, escluse che le singole operette potessero
venire in luce alla spicciolata. Nel novembre del ’25 sperò poterle pubblicare
Epistolario, Firenze, Le Monnier, * Epistolario, nella raccolta delle sue
Opere, che un editore amico voleva fare allora in Bologna; e, andato a monte
quel disegno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani, al
quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un editore: con tanto
desiderio di vedere stampata la sua opera, che scrive impaziente a Papadopoli
: « I miei Dialoghi si stamperanno presto, perché se Giordani, che ha il
manoscritto a Firenze, non ci pensa punto, come credo, io me lo farò
rendere, e lo manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il
Vieus- seux il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli,
mi passò il bel manoscritto che gli avevate confidato, dal quale abbiamo
estratto alcuni dialoghi, che troverete riferiti nel n. 61 dell’Antologia,
ora pubbhcato, eh’ io ho il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno
del mio fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato
del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccellenti scritti. Sento
che queste Operette morali verranno probabilmente pubbhcate costà, e ne
godo assai pel pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio
fatte per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un
giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu altro che un
saggio. Del quale L. scrive all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi
stampati ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio, e
però furono così pochi e brevi. E soggiungeva 1 « La scelta fu fatta dal
Giordani, che senza mia saputa mise l’ultimo per primo; affermando così
che tra i dialoghi c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo
posto. Proponendo pertanto la stampa dell’opera intera all’editore Stella
di Milano, gli scriveva: « Ha ella veduto [Lett. del 9 nov. al fratello
Carlo, in Epist., II, 47. » Nell' Epist. del L. 3 Epist., II,
142-43. il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ? E penetrato, ed ha
avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella veduto il Saggio delle mie Operette
morali ? Le parlai già. in Milano di questo mio manoscritto. Ne abbiamo
pubblicato questo saggio in Firenze per provare se il manoscritto
passerebbe in Lombardia. Giudica ella che faccia a proposito per lei ?...
Tutte le altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve
ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto, in quel manoscritto
consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io 1’
ho più caro de’ miei occhi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di
quel mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella ha
ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto. 11 fascicolo
dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, ma l’editore non credeva di
poterne tuttavia sperare altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe
provato: intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il L.
subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi sento molto lusingato e
superbo del voto favorevole che ella accorda alle predilette mie Operette
morali. 11 manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma del ms.
d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente fitta di mio
carattere. Sarei ben contento se ella volesse e potesse esserne
l’editore.... La prego a darmi una risposta concreta in questo proposito tosto
ch’ella potrà » i. Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura
milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo Ricoglitore i dialoghi
usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali », scriveva all’autore il 1°
aprile, « poi formerò un opuscolo a parte che mi farà strada a pubblicar
tutte queste, da 0 . c., Lei chiamate Operette, che lo saranno per la
mole, non pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il L. affret-
tavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella stampa
fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella assumesse Tedizione
del libro intero ; che il 26 si disponeva a inviargli : « Debbo però
pregarla caldamente di una cosa. Mi dicono che costì la Censura non
restituisce i manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più
di perder la testa che questo manoscritto, e però la supplico a non
avventurarlo formalmente alla Censura senza una assoluta certezza, o che
esso sia per passare, o che sarà restituito in ogni caso » ^ E il
prezioso manoscritto partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo
Stella j)oté informare l’autore
d’averlo ricevuto. poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che
mi restano, vo leggendo le Operette sue morali, le quali quanto mi
allettano.... altrettanto temo che trovar debbono degli ostacoli per la
Censura. Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore,
per poi stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di
tutte in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento delle care Operette ?
La proposta ferì al vivo l’animo del L., che, a volta di corriere, il 31
rispose: «Se a far passare costì le Operette morali non v’ è altro
mezzo che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante- mente
la prego ad aver la bontà di rimandarmi il manoscritto al più presto possibile.
O potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre inedite al
dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubblicata a
brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume l’anno
seguente, come l’autore ardentemente desiderava, conscio dell’organicità
del corpo di tutte le venti operette, nate come venti capitoli di un’opera
sola. All’unità della quale ei certamente mirò nell’ordinamento
definitivo che fece delle singole parti, quando le ebbe condotte a
termine tutte. Abbiamo veduto come tenesse a rilevare e attribuire al
Giordani l’inversione avvenuta nei tre dialoghi ceduti dlVAntologia. Il
Ti- mandro doveva essere l’ultimo, egli avA^erte. Infatti era stato
scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure scritto prima del Colombo. Anzi
nell’ordine cronologico • era quattordicesimo, sui venti del 1824: ma
evidentemente fin da principio era destinato al ventesimo o,
comunque, ultimo posto, che tenne nella edizione milanese del '27.
È invero un’apologià del libro; e l’apologià non poteva essere se non la
conclusione e il giudizio, che, nell’atto di Ucenziare il libro, l’autore
voleva se ne facesse. Ma, nel passaggio dall’ordine cronologico a quello
ideale che L.ebbe da ultimo ragione di preferire, non soltanto il Timandro
venne spostato. Infatti tra il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico e
il Dialogo della Natura e di un Islandese, scritti successivamente, con
un solo giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno
frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, a cui
il L. pose mano appena finito quello della Natura e di tm Islandese. È
ovvio che senza una ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato;
ed è ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se non negli
scambievoh rapporti da cui questi dialoghi eran legati, agli occhi di chi
li scrisse. Va da sé poi che i vari scritti devono per lo più esser nati
già con questi rapporti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero germoghava
via via nella sua spontaneità organica; ma dove Cfr. sopra, p. io6, n.
i. una ripresa di idee già non sufficientemente svolte, e il
risorgere di un’ ispirazione che era parsa esaurita, traeva l’autore a
tornéire su se stesso, è pur naturale che l’ordine cronologico non
corrispondesse più allo svolgimento e alla coerenza del pensiero. Così il
Tasso, scritto appena levata la mano dall’ Islandese, nasce come un
anello che salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico;
e se l’autore scrive il Timandro, bisogna pensare che, saldato così l’
Islandese agli antecedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere
esaurito il suo tema; credere perciò di potersi arrestare a quella fiera
rappresentazione finale AtW Islandese: e quindi volgersi indietro a
giudicare e difendere il libro. Passarono infatti dodici giorni senza che
si sentisse riattirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col
Panni, e condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando
fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ; altre sei operette in tutto,
che s’ è condotti a pensare formino un gruppo distinto, nato da questo
risorgimento, seguito al Timandro, del motivo ispiratore delle
operette. Ma tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’organismo e
unità dell’opera L.ana, se questa unità non si trova effettivamente nel
suo intimo. Ed è vero. Com’ è pur vero che quando tale unità fosse messa
bene in luce con lo studio interno del hbro, potrebbe anche
apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato ad argomentare che
l’unità ci doveva essere. Ma è infine non meno vero che non si trova quel
che non si cerca; e che l’unità delle Operette L.ane, ritenute
generalmente una semplice raccolta, aumentabile (con la Comparazione delle
sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, come tutti fanno), o riducibile
(come pure han creduto gli autori delle varie scelte di prose L.ane) non
si è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti
questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne
essenziale. Intanto, lo spostamento osservato del Timandro
epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scorgere un gruppo, che
non è forse il solo tra questi singoli scritti, così come vennero quasi
rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro, destinato ad
epilogo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo distacco formale
dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia la forma di un mito), e
la sua rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di tutto il destino del
genere umano a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si
può a ragione considerare come un prologo; le diciotto operette
intermedie, formanti il corpo del libro, si distribuiscono naturalmente in tre
gruppi, di sei ciascuno, come tre ritmi attraverso i quali passa l’animo
del L.. Innanzi al terzo, nato, come s’ è veduto, da una ripresa
dell’ ispirazione originaria, si spiega il secondo, che comincia col Dialogo
della Natura e di un’Anima e si compie, (]uasi ritornando al suo
principio, con l’altro Dialogo della Natura e di un Islandese. Precede, e
inizia la trilogia, un primo grujipo, aperto dal Dialogo d’Ercole e di
Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui all’eroe classico
della potenza e della forza. Ercole, sottentra un eroe della potenza dello
spirito immaginato dalle superstizioni moderne, un mago, Malambruno,
dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo. Farfarello.
Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo insistere troppo, ma
che non può apparire arbitraria o fortuita quando si osservino gl’ intimi
rapporti spirituali onde sono insieme congiunte e connesse, in tale
ordinamento, le diverse operette. Ascoltiamo dalle parole stesse
del L. la nota fondamentale di ciascuna operetta; e vediamo se le
varie note degli scritti appartenenti a ciascun gruppo non forniino per
avventura un solo ritmo. Cominciamo dal primo gruppo. Ercole
va a trovare Atlante per addossarsi qualche Qja il peso della Terra, come
aveva fatto già parecchi secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si
riposi un poco. j(a la Terra da allora è diventata leggerissima; e
quando Ercole se la reca sulla mano, scopre un’altra novità più
nieravigliosa. L’altra volta che l’aveva portata, gli « batteva forte sul
dosso, come fa il cuore degh animali; e metteva un rombo continuo, che
pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un orinolo
che abbia rotta la molla »; e quanto al ronzare, Ercole non vi ode
uno zitto. E già gran tempo, dice Atlante, « che il mondo finì di fare
ogni moto o ogni romore sensibile; e io per me stetti con grandissimo
sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che
m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi
seppellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre. È lo stesso grido, come
si vede, de La sera del dì di festa'. Kcco è fuggito 11
dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il
tempo Ogni umano accidente. Or dov’ è il suono Di quei popoli
antichi ? Or dov’ è il grido De’ nostri avi famosi, e il grande
impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la
terra e l’oceano ? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa li
mondo, e più di lor non si ragiona. Perché questo silenzio e questa
morte ? Ecco che la Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa
questo perché alla Morte stessa: poiché i soh frivoli e accidiosi costumi
dei nuovi tempi possono spiegare i « lacci dell’antico sopor » che, pel
Poeta, non stringono soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo
secol morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e pgj. cui
il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e riscoperti dai filologi, « se in
tutto non siam periti » t La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per
volta ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in
disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben
essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabih che
abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho
messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa,
così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto
che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della
morte ». Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi,
infranto il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano macchine, e H
secol morto può dirsi «l’età delle macchine». L’Accademia dei SUlografi
ne fa la satira nel suo bizzarro bando di concorso per l’invenzione di
tre macchine, che restituiscano al mondo quel che agli occhi del
Poeta costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita
stessa, quale fu una volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e
magnanime, e la donna: quella donna, che fu r ideale degli spiriti
gentili, e fu pur ora cantata come la « sua donna » da esso il L. :
Forse tu l’innocente Secol beasti che dall’oro ha nome.
Or leve intra la gente Anima voli ? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti ornai
Nulla spene m’avanza 3 . Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv.
3-4. » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna. fbbene, una macchina ne
adempia gli uffici, essendo «espedientissimo che gh uomini si rimuovano
dai negozi jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco
diano luogo, sottentrando le macchine in loro scambio. Questa I la
morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degh
ideali che già fecero virtuoso e magnanimo l’uomo antico, finito con Bruto
minore; il quale non può sopravvivere alla maledizione scaghata
alla stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e nei
campi dell’ inquiete larve. Onde se un romano, e 5Ìa Catihna, può
credere, secondo Sallustio, d’infiammare i soci alla battaglia, parlando ad
essi non solo delle ricchezze, ma dell’onore, della gloria, della
libertà, della patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore
d’umanità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo di Sallustio
quella gradazione ascendente che il luogo, a norma di rettorica,
richiederebbe. La patria ? Non si trova più se non nel vocabolario. La
libertà ? Guai a proferir questo nome. Di essa, dice il L., che ne
sa anche lui qualche cosa « non si ha da far conto ». La gloria ?
Piacerebbe, se non costasse incomodo e fatica. Insomma, la ricchezza è il
solo vero bene: è quella cosa «che gh uomini per ottenerla sono pronti a
dare in ogni occasione la patria, la hbertà, la gloria, l’onore ».
Sicché il testo è da restituire, per travestirlo alla moderna, facendo
dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis, memi- neritis, vos gloriam,
decus, divitias, fraeterea spectacula, epulas, scorta, animam denique
vestram in dextris vestris portare. Animam vestram, la vita: quella
vita, che non hanno ! Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio
della vita [Ancona, nel Fanfulla della domenica del 29
novembre *895: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di
G. L., Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-08. e della morte, è in
sospetto anche lui sia cessata da un pezzo in qua; e però manda su dalle
viscere della terra uno spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno
spi rito dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti che «gjj uomini
sono tutti morti e la razza è perduta ». Mancati tutti: «parte
guerreggiando tra loro, parte navigando parte mangiandosi l’un l’altro,
parte ammazzandosi nori pochi di propria mano, parte infracidando
nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando,
e disordinando in mille cose; in fine, studiando tutte le vie di
far contro la propria natura » ; studiandole tutte con queir « irrequieto
ingegno, demenza maggiore » che « (juel- l’antico error, di cui « grido
antico ragiona », onde fu negletta la mano dell’altrice natura, come il L.
aveva appreso dal Rousseau. Oh contra il nostro Scellerato ardimento
inermi regni Della saggia natura ! Morto l’uomo; e «le altre cose....
ancora durano e procedono come prima ». E l’uomo che presumeva il
mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto invece crede
fosse fatto e mantenuto per i folletti; come lo Gnomo per gli gnomi ! La
vanità umana pareggia essa la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono
tutti spariti, la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non
sono stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano di
nascere e di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura non si commuove
allo sterminio di sé a cui l'uomo è tratto dal suo ardimento. Fu
certo, fu {né d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama il
grido Pasce l’avida plebe) amica un tempo Inno ai
Patriarchi. Al sangue nostro e dilettosa e cara Questa misera
piaggia, ed aurea corse Nostra caduca età. Non che di latte Onda
rigasse intemerata il fianco Delle balze materne, o con le greggi
Mista la tigre ai consueti ovili Né guidasse per gioco i lupi al
fonte Il pastorei; ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota
d'affanno Visse l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta contento
della vita spontanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura.
Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è il principio
della perdizione. E invano l’uomo cercherà col pensiero di restaurare la
sua vita e riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo
sa* *; Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano con
piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo servigio, lo
riapprende da Farfarello, impotente a farlo felice un momento di tempo.
La felicità è la vita che si V’iva sentendo che mette conto di viverla: è
la vita col suo valore. E il L. pare la intenda come un diletto
infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che ogni uomo ha di
se stesso, ma non può esser soddisfatto mai, perché nessun diletto è
infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro desiderio naturale.
Onde il vivere sentendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta se
non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda l’uso dei
sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra vita ; e se vivere è
sentire, « assolutamente parlando », il non vivere è meglio del
vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima conclu- [Malambruno
è Faust, non Manfredo, come mostra d' intendere il Losacco, L.ana, in
Giornale storico della letteratura italiana, sione di quella premessa,
che la felicità o valore della vita consista nel diletto; il quale non
può essere altro che limitato, e quindi mai mero diletto, senza
mistura di amarezza. Tale il concetto del primo gruppo delle
Operette, che pone l’animo del poeta in faccia alla morte e al
nulla: ossia al vuoto della vita, non più degna d'esser vissuta:
poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso,
coscienza. La vita nella felicità è la natura; e l’uomo se ne dilunga
ogni giorno più con la civiltà, con r irrequieto ingegno, che assottiglia
la vita, e la consuma. Ed ecco il problema e il tormento dell’anima di
L.: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è quella del dialogo
dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo, che è, non quella ciurmaglia già
spenta, da cui lo Gnomo avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere
quello che egli penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi
quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uomini morti e la natura
viva, muta, indifferente. Problema affrontato nel Dialogo della Natura e di
un’Anima, il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima,
dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e
chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice ».
Giacché, come poi le spiegherà, nelle anime degli uomini, e
proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire
che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza
delle I Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia
risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre co.se,
benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come
prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per
loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna).
jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità proria; che è come se
io dicessi maggiore infelicità»; e l’uomo « ha maggior copia di vita, e
maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi
il niù perfetto; e però è il più infelice. E il meglio è per l’anima
spogliarsi della propria umanità, o almeno delle (loti che possono
nobilitarla, e farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano
» che la natura abbia jjjai prodotto in alcun tempo. Di guisa
che quella morte dell’umanità, che nei dialoghi del primo gruppo poteva parere
una colpa dei degeneri nepoti, ecco, apparisce il destino dell’uomo : la
cui storia non può avere altra conchiusione che la rinunzia alla propria
umanità. La quale, dice il poeta col suo amaro sorriso, scacciata dalla
Terra, non si rifugia e raccoglie nella Luna, come immaginò l’Ariosto di
tutto ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la Terra,
nel dialogo che da esse s’intitola, ne domanda, non solo la convince che
l’immaginazione ariostesca è semplice immaginazione, ma in tutto il
dialogo dimostra che il linguaggio umano e relativo allo stato degli
uomini, che la Terra usa, non ha significato fuori di questa: e che
insomma non ha base in natura quello che gli uomini considerano pregio
della loro ^^ta, e che, non trovandolo fondato in natura, riconoscono
quindi mera illusione. Ma il concetto più direttamente è trattato
nella Scommessa di Prometeo: scommessa perduta con Momo (che è lo
stesso spirito satirico pessimista con cui
L. guarda la \'ita nella sua vanità).'Perduta, perché Prometeo
deve confessare che alla prova il suo genere umano, che avrebbe dovuto
essere il più perfetto genere dell’universo, « la migliore opera degl’
immortali, gli era fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli
antro- pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio della
vita, il più sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne
sapere più oltre, quando a Londra vede gran moltitudine affollarsi
innanzi a una porta ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso
su! pino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto e
morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti»:
sciagurato padre, che per dispera- zione ha ucciso prima i figliuoli e
poi se stesso: (juan- tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante
di amore, e favorito in corte: ma caduto in disperazione «per tedio
della vita, secondo che ha lasciato scritto. Il tedio della vita ! Ecco la
scoperta che si è fatta andando in cerca di quella felicità, di cui si
pose il problema nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i due
seguenti dialoghi hanno questo argomento. Il Dialogo di un Fisico e di un
Metafisico dimostra la vita non essere bene da se medesima, e non esser vero
che ciascuno la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed
ama come « istrumento o subbietto » della felicità, che è ciò che
veramente vale. E questa, guardata più da vicino, consistere
nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle affezioni e passioni e
operazioni, e insomma, non nel puro essere, ma nella sensazione
dell’essere e nel far essere (come ben si può dire) l’essere stesso. Non
l’inerzia e la vuota durata, ma la mobilità, la vivacità, il gran
numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il tempo pieno, questo è
l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita degli uomini « fu sempre non
dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in
maggior parte occupata, senza dolore né disagio ». La vita vacua,
che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte; anzi peggio della
morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso Metafisico (che ha
cominciato negando che la felicità sia vivere), «la vita debb’esser
viva»: cioè la vera felicita, in fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il L.
così sente) non è vita; è la morte; quella morte di cui s’ è acquistata
la certezza nelle operette del primo gruppo; e che non è pura morte, ma
la morte sentita; la morte nella coscienza dell’uomo che non conosce
altra realtà che l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può
sperare perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore
perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere il pieno; la morte al
posto della vita. E questo tedio è la malattia, il segreto tormento
del Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal ’zo,
quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso al L. come suo
spirito gemello, al par di lui « miserando esemplo di sciagura: O
Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa Tua niente allora, il pianto
A te, non altro, preparava il cielo. Oh misero Torquato ! il dolce
canto Non valse a consolarti o a sciorre il gelo Onde l’alma
t’avean, ch’era sì calda. Cinta l’odio e l’immondo
Livor privato e de’ tiranni. .Amore, Amor, di nostra vita
ultimo inganno. T’abbandonava. Ombra reale e salda Ti parve il
nulla, e il mondo Inabitata piaggia. Tasso medesimo, che non trova
nel mondo altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago
inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno alla realtà;
questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso e del suo Genio ', e non si
lagna già del dolore, ma della noia, che sola lo affligge e lo uccide. La
quale gli pare abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli
spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani
contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro
non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’
intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono
occupati dalla noia. E però. come nel mondo materiale, secondo i
Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà
vóto»; e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte di
dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona del povero
prigioniero immagine d’ogni uomo di fronte alla immutabile natura — si
viene via via votando cosi del piacere come del dolore, e riempiendo
tutta della tristezza soffocante del tedio. L’uomo
prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio dialogo del gruppo, in cui
si presenta da capo la Natura a render conto di sé all’uomo: al povero
Islandese, che la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se
la vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e l’ha
innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di forme smisurate, seduta
in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna;
viva, di volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi,
con 10 sguardo fisso e intento. Perché, le chiede il povero
errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi
figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere », e « per
niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto
o vi benedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita dell’universo è un
circolo perpetuo di produzione e distruzione. Ma, riprende 1’ Islandese, poiché
chi è distrutto patisce, e chi distrugge sarà distrutto, « dimmi
quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova
cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con
morte di tutte le cose che lo compongono ? E prima di aver la risposta 1’
Islandese è mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri dall’
inedia, che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel
giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo,
è la Natura che al principio ha detto aU’anima: Sii grande, e infelice.
La vita infatti È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché
vuota; e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa
Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza
valore, non appena con la sua coscienza si stacchi dalle cose, e vi si
contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto
nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima, il sentire)
non ha posto nella natura, che è poi tutto. Perciò l’anima è vuota, e la
vita è tedio. E qui potè parere al L., come osservammo, di aver
esaurito il proprio tema; e, prevedendo le facili critiche, che non
sarebbero mancate al piccolo e doloroso libro, ritenne opportuno
difenderlo col Timandro. Ma poi considerò che la sua dimostrazione
non era veramente perfetta. Il dolce canto non era valso a consolare
Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare Panimo addolorato ? Gino
Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al
grande Recanatese b scrisse una volta. L.comincia uno de’ suoi
Dialoghi, inducendo la natura che scaraventa nel mondo un’anima con queste
parole: Vi\d e sii grande ed
infelice. Io per me credo proprio il
rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non in quanto sono
esse piccole £ cosa facile esser grandi uomini, se basti a ciò essere
infehci, ed L. insegnò a molti la via della infelicità; ma non l’aveva
imparata egh quando produsse quelle canzoni per cui Acerbo e
ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene sensazioni profonde di
alcuni aspetti dell'arte L.ana, raccolto nel volume La donna, Milano,
.Agnelli, Vedi i miei Albori della nuova Italia, Lanciano, Carabba, Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta
in alto il nome suo »>. E il De Sanctis doveva osser\’are più tardi:
«Quel suo nullismo nelle azioni e nei lini della vita, che lo rendeva
inetto al fare e al godere, era riempiuto dalla colta e acuta intelligenza e
dalla ricca immaginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa, cevano
materia di diletto quello stesso soffrire. Egli aveva la forza di
sottoporre il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e
generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed
aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e
melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino
il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista
e immaginare Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi,
se ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più
felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? Ma né il
Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita al L.. È suo questo
pensiero vero e profondo ; L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento
vivo della noia universale e necessaria ». E suo è ciuesto altro che lo
precede ; « Hanno questo di proprio le opere di genio, che, quando anche
rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino
evidentemente e facciano sentire 1 inevitabile infelicità della vita,
quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad
un animo grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento,
disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita o nelle più acerbe e
mortifere disgrazie servono sempre di consolazione, raccendono
l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro che la morte, gh
rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta » I Studio
su L.. Napoli, Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo ora bene che,
spente che sieno le passioni, non resta negli studi aura Ebbene, sentire ripullular questa vita, che
il raziocinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il bisogno (ji
riprendere la dimostrazione. L. non affronta nelle Operette, né in altro
dei suoi scritti, il problema di questa vita incoercibile che risorge
dalla sua più fiera negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà,
non superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto
l’argomentare della sua filosofia non genera la convinzione che ne dovrebbe
deri\ are: la convinzione che arma la mano di Bruto contro se stesso, e
fa gittare dalla misera Saffo « il velo indegno », per rifuggirsi ignudo
animo a Dite, e così emendare il crudo fallo del destino. L’amor
della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima che le infinite
difficoltà e miserie, a cui vanno incontro i grandi, « sono ricompensate
abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi
egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricordanza che
essi lasciano di sé ai loro posteri. Ebbene, questa gloria, che già
non arride all’anima, quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva
pure agli occhi del L. questo mondo di morti, in cui gli sembrava
di vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso, potrà esser « vissuto
ozioso e disutile, e morto senza fama », come dice il suo epitaffio, ma
sentiva bene d’esser nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa
gloria, che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei
grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto più sentiranno la loro
infehcità, e più quindi saranno infelici, è la lode che nell’animo degli
altri e pei secoli riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli
alla loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la
soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per
Taddietro, finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non
potevo comprendere, Epist,,-- propria grandezza nella coscienza felice del suo
genio. La sua sostanza è veramente in questa lode interna e
soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e
ferma, e pare consolidi il valore onde il genio vede illuminata la
propria opera. L., nudrito la mente dei concetti classici e delle idee
materialistiche, cerca la realtà di questa gloria, in cui lo spirito
attinge la propria liberazione da tutte le miserie, in quella eco
esterna, in quel consenso che in fatto altri verrà tributando alla nostra
grandezza. E perciò si trova in faccia al problema del valore
tuttavia superstite della grandezza spirituale, veduto in questa
forma; l’anima grande e infelice è destinata essa alla gloria ? o la
speranza è fallace, come tutte quelle che ei rimpiangerà dileguate nelle
Ricordanze? ' Ed ecco il Farmi, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto
di questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel mondo presente, da
farla apparire mèta inattingibile. Talché vien meno anche questa
aspettazione, e al grande non rimane che seguire il suo fato, dove che
egli lo tragga, con animo forte, adoprandosi nella virtù, perché la
natura stessa lo fece nascere alle lettere e alle dottrine.
Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si possa chiedere
alla stessa eccellenza dell’animo, quando altra realtà, e fonte eventuale
di gioia, non si vegga da quella che l’animo mira esterna a se stesso,
qual porto rimane allo stanco spirito umano? Vivere infeUce ?
Dovecanterà: O speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età
! sempre, parlando. Ritorno a voi; ché per andar di tempo. Per
variar d'alletti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi,
intendo, Son la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha
la vita un frutto. Inutile miseria. E sia; ma se non si può né anche
farsi un monumento della propria infelicità ? Sola nel mondo,
eterna, a cui si volve Ogni creata cosa.In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura. Lieta no, ma sicura Dall'antico
dolor. La risposta viene dai morti, che si sveghano per un quarto
d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descrivono questa loro sicurezza dall’antico
dolor, nella quale vivono immortah; senza speme, ma non in desio,
come le anime del limbo dantesco: Profonda notte Nella
confusa mente Il pensier grave oscura; Alla speme, al desio,
l’arido spirto Lena mancar si sente: Così d’affanno e di
temenza è sciolto, E l’età vote e lente Senza tedio
consuma. Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza sentimento. Vero
porto, in cui il povero Islandese finalmente avrà pace, e in cui si può
giungere in un languore di sensi senza patimento, com’ è degli ultimi
istanti della vita, quando sopravvive solo un senso « non molto
dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del
sonno, nel tempo che si vengono addormentando. Dolce morte hberatrice ! Ma
prima che la morte ci abbia sciolti dal tedio ? Filosofare, come Filippo
Ot- tonieri, il socratico, che « spesso, come Socrate, s’intratteneva una
buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e
massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era
somministrata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre. non per
farne trattati (ché, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la
filosofìa in iscritto e irrigidir]^ in formule che non risponderanno piti
ai mutevoli bisogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e
senza illusioni la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando ogni vana
querimonia: come aveva detto Spinoza: non ridere, non liigere, neque
detestari, sed intelligere. Questo r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà
ozioso e disutile e morrà senza fama, ma « non ignaro della natura
né della fortuna sua »>. E con la sua pacata magnanimità e la
sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate anche in questa
modesta, anzi umile coscienza del sapere, e quindi, per lui, del potere umano.
L’ Ottonieri vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e
persona. Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia
? Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte
vegliata sull’oceano .sterminato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando
all’amico che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, ha
posto la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem- phee
opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli soggiunge, « quando
altro frutto non venga da questa navigazione, a me ]iare che ella ci sia
profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla
noia, ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che
altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,
come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan- dosi dal sasso
di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e
scampandone, restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione
amorosa. Io non so se egli si. debba credere che ottenessero questo
effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di
tempo, anco senza il favore di Apollo, avuta cara la vita, che prima
avevano in odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi.
Ciascuna pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla
fxipe di Leucade. E navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione
eroica. O filosofare, dunque, come Ot- tonieri; o navigare come Colombo,
e far guerra al tedio, P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte
non ce ne liberi. E lo stesso giorno * che finiva di scrivere
il Dialogo a Colombo e Gutierrez L.,
nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza del valore e quasi
gusto della vita riconquistato mercé l’attività, di questa grandezza
felice, mette mano al bellissimo Elogio degli uccelli: Urica stupenda,
sgor- gatagU dal pieno petto, al guizzo d’una immagine Ucta e
ridente: di queste creature amiche delle campagne verdi, delle vallette
fertili e delle acque pure e lucenti, del paese bello e dei soli
splendidi, delle arie cristalline e dolci e di tutto ciò che è ameno e
leggiadro, e rasserena e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento
e col canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena
d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. E ci fanno
amar la natura, che ebbe un pensiero d’amore, assegnando a un medesimo
genere d’animali il canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a
ricreare gU altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo
alto ; donde ella si spandesse all’ intorno per maggiore spazio, e
pervenisse a maggior numero di uditori ». Così viva è r intuizione della gioia
gentile che il poeta riceve da questa vaga immagine degU ucceUi,
che è già appagato il desiderio finale di questo Elogio: lo vorrei, per un poco
di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e
letizia della loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia
? Cfr. Pens. E un favoloso uccello,
il Gallo silvestre, di cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla
terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro
cantico vibrante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della vita,
attenuando bensì il tono della lirica precedente, c smorzando
l'entusiasmo, al quale mai come in questo caso s’era abbandonata l’anima
del poeta; e additandogli anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose,
e la morte a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente,
ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione del puro e
frizzante aer mattutino, ravvivatore e rin- francatore. Sensazione già
nota al Poeta: La mattutina pioggia, allor che l'ale Battendo
esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il sol che nasce I suoi tremuli rai fra le
cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi
risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli
augelli sussurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge
benedico. Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno;
« Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton- sene le
immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita : riducetevi dal
mondo falso nel vero ». La fiera soma! Meglio, meglio dormire, e non
destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita. Ad ogni modo », dice il
Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c canta questa corsa
universale alla morte, « ad ogni modo, il primo tempo del giorno suol
essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi
ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se
ne La Vita solitaria
producono e formano di presente; giacché gli animi in quell’ora eziandio
senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei
mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovasi occupato
dalla disperazione; destandosi, accetta uovamente neU’anima la speranza,
quantunque ella in niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la
speranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì nella disperazione
; e se il Gallo silvestre paragona la vita dell'universo al giorno, che
comincia col mattino ma va alla notte, e alla vita umana che muove dalla
heta giovinezza incontro alla vecchiaia e alla morte: e se termina annunziando
che tempo verrà, che la stessa natura sarà spenta, e « un silenzio nudo e
una quiete altissima empieranno lo spazio immenso »; il dolce gusto della
speranza mattutina e giovanile non è distrutto: perché quel tempo è molto
remoto e (secondo avvertì più tardi l’autore in una nota della seconda
edizione) non verrà mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al
mattino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo. Le operette
dunque del terzo gruppo ricostruiscono, nella misura e nel modo che si
può secondo L., quello che le prime dodici hanno abbattuto.
Ricostruiscono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche la
speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo gruppo ai
precedenti; e fu ritirato dopo le prime due edizioni verso il principio,
e attratto nell’orbita del secondo gruppo, poiché tra la Storia del genere
umano e il Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo rifiutò e
gli sostituì il Frammento di Stratone, collocato al diciannovesimo posto,
innanzi al Timandro. Allora il gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e
di un'Anima e il secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine
del- l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’interpretazione
metafisica che da ultimo il pensiero, ripiegatosi su se medesimo, diede della
propria intuizione filosofica: concezione, sullo stile delle teorie
cosmologiche greche più antiche, di un universo go\'ernato da pure leggi
meccaniche, com’era quello che giaceva in fondo a ogni concetto
pessimistico del L.; onde si tenta suggellare, nell’ intenzione del
Poeta, l’immagine di quella Natura che eternamente passa, e che negli
ultimi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano mirabile e
spaventoso. Si noti che il Sallustio fu conservato tra le venti
operette primitive anche nell’edizione di Firenze. quantunque in questa
fossero aggiunti i due nuovi dialoghi del Venditore d’Almanacchi e di
Tristano] e si noti che in questa edizione invece non potè entrare il
Frammento di Stratone molto probabilmente per le difficoltà già
accennate, derivanti dalla materia di esso, poiché è il solo scritto
crudamente materialistico, che sia tra le Operette. 11 che, se si pensa
pure al fatto che il Frammento fu scritto quando L. aveva tuttavia presso di sé
il manoscritto delle Operette, e a\ rebbe già fin d’aUora pensato ad
incorporarvelo, se questa aggiunta non avesse disordinato il disegno
simmetrico del hbro), dimostra all’evidenza che i dialoghi fiorentini,
che sappiamo scritti a Firenze due anni prima, formano un nuovo gruppo a
sé, che si viene ad aggiungere alle prhnitive operette, senza
fondervisi: come avverrà del Frammento, appena l’autore crederà
potere e dover tralasciare il Sallustio, e sostituirlo. Perché
tralasciarlo ? « Forse », risponde il Mestica I Cfr. Chi.\rini,
O.C., Scritti letter. di G. L., perché gli parve troppo scolastico e di materia
non [ abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso contenuti
siano conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha poco movimento e
scarso valore artistico », osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e
sull’attrattiva dello strano e del fantastico prevale nel lettore un
senso d’incredulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo, e
forse anche per rispetto a Sallustio medesimo. Forse anche col passar
degli anni, il L. non credè più che tutta la grandezza antica perisse con
Bruto e per opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è accostato
al L vero questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si
sarà I pentito delle parole crudissime che usa parlando della I
libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli f lamenta
la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in modo più vago ». Il
Sallustio, in questo cinico pessimismo, contraddice al motivo
fondamentale delle Operette: logico nell’ordine di pensieri da cui sorse,
ma ripugnante a quei sentimenti più profondi, onde la personahtà del poeta
abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva a un suo
particolar significato, siffatti pensieri. I quali non sono qui un
sistema filosofico astratto, ma l’alimento segreto di un’anima che si
riversa ed esprime in una poesia di grande respiro, la quale in tutta la
sua unità risuona all’anima del lettore come una musica, secondo
che osservò un amico del poeta, il Montani i, appena I operette
morali di L., ’ Le prose morali di L.Vedi la sua recensione
ncWAntologia del gennaioche incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera
d’opera nuova, di entrare in teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi
un motivo musicale diverso dal vero, trovar men bello e men
significante ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? — Quando VAntologia,
or son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L. ancora
inedite.... io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il motivo
della musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette insieme
unite, mi parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo sentimento. E
ne scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora
stava potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo rrio
tivo fondamentale facilmente si riconosce nel preI^^]i^^ e nell’epilogo,
onde è inquadrata nella sua naturale cor nice la trilogia delle operette
: ossia nella Storia del genere umano e nel Timandro: due operette, che
sono affatto estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di
tutte le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re
qua e là s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e d’entusiasmo; a
quello spirito, che si può definire con le parole stesse con cui il L.
ritrae se medesimo in una lettera al Giordani (del tempo in cui forse raggiunse nel
Frammento di Stratone l’estremo termine di questo suo stato d’animo) : «
Quanto al genere degli studi che io fo, come sono mutato da quel che io
fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di
eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non
cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi
compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria
degli uomini e delle cose, e di inorridire freddamente, speculando questo
arcano infelice e terribile della vita dell’universo ». Lo stesso animo,
non altrettanto felicemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tuttavia, nel
’26, nell’ Epistola al Pepoli : Ben mille volte Fortunato
colui che la caduca Virtù del caro immaginar non perde Per volger
d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati qui nel
più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di del
Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla camera del suo
amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette del L. sono
musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più d’una
osservazione notabile. SuU’amicizia
del L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi L.ani, Firenze, Le
Mounier, (si ricordi il Cantico
del Gallo silvestre)] Della prima stagione i dolci inganni
Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettoso immagini, che
tanto Amai, che sempre inlino all’ora estrema Mi fieno, a ricordar,
bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, né degli aprichi Campi il sereno e solitario
riso. Né degli augelli mattutini il canto Di primavera, né
per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il
cor; quando mi fia Ogni bel tate o di natura o d’arte. Fatta
inanime e muta; ogni alto senso. Ogni tenero affetto, ignoto o
strano; Del mio solo conforto allor mendico. Altri studi men
dolci, in eh’ io riponga L’ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle
mortaU E dell’eteme cose.. In questo specolar gh ozi traendo Verrò:
che conosciuto, ancor che tristo. Ila suoi diletti il vero.
Questo era stato il suo ideale nelle Operette] speculare, scoprire,
frugare la miseria degli uomini e di tutto, e inorridire, ma con petto irrigidito
e freddo. Se non che nel '25, nel caldo ancora dell’opera, poteva credere
di aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno dopo egli, più
ingenuamente, o meglio con maggior consapevolezza, sente che il suo petto sarà
forse un giorno, non è ancora, al tutto irrigidito e freddo; non è eterna
la gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma non è ancora del
tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo inorridire e il disprezzo
d’ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente è un desiderio, un
programma, un propo sito; ma non è, né può essere il suo stile, poiché né
ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto senso ogni
tenero affetto ignoto e strano. E questo sente liené e proclama il Poeta
nel dialogo di Timandro e di Eleandro; dove a Timandro che, secondo la
filosofia di moda fa alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è
capace' ed è insomma un ottimista, il pessimista, che sente invece
per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della Ginestra protesta di non
essere un Timone (per quanto non abbia sdegnato la parte di Momo di
fronte a Prometeo) ; « Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto
affetto quanto può mai cadere in anima viva Oggi, benché non sono
ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco tepida »
(aveva appena ventisei anni !) ; « non mi vergogno a dire che non amo
nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è
possibile ». Dove ognun vede che realmente certo invinciliile pudore
arresta Eleandro innanzi alla conseguenza delle sue dottrine; e si
ripigha subito infatti: « Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di
patire piuttosto io, che esser cagione di patimento ad altri. E di
questo, per poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi
possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si ribella alla negazione che
se n’ è voluto fare, e s’appella all’ intima e irreprimibile attestazione
del cuore. Altro che freddezza e petto irrigidito! E da ultimo
Eleandro conchiude; «Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità
dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per consolarmene col riso, e non
per altro ; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare,
sconsigUare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la
cognizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di
bassezza d’animo, [Ed ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non
doverlo più intitolare, come aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore
: egli non era davvero quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva
parere; né vero Filénore poteva dirsi l’ottimista. iniquità e disonestà di
azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed
esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri
nobili, forti, magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o
privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che
danno pregio alla vdta; le illusioni naturali dell’animo; e in line gli
errori antichi, diversi assai dagh errori barbari; i quali, solamente, e non
quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della
filosofia ». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da
queste illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si volgono gh occhi
del L., il mondo di Stratone da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese,
come non è spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza; ma
non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore del Poeta. 11 quale
non è Timandro, ma è bene Eleandro; e a dispetto di quella natura, che è
il vero, ama gli uomini e la virtù, dichiarandola un’illusione, ma
naturale, e quindi vera, quantunque contradittoria a quell’altra natura,
che non conosce né amore, né bene. Inorridire freddamente, sì; ma inorridire,
ed elevarsi quindi al di sopra della universale miseria, sentita come
tale, e non assentirvi, non semplicemente intelligere, come Spinoza
avrebbe voluto. Così nella Storia del genere umano, vero
preludio alla sinfonia delle Operette, quando l’uomo è pervenuto
all’ uno fondo di cotesta miseria, rappresentato dall’ap- parire in terra
della Verità, spunta egualmente una divina pietà al soccorso dell’
infelicità intollerabile dei mortali : « La pietà, la quale negli animi
dei celesti non è mai spenta, commosse, non è gran tempo, la
volontà di Giove sopra tanta infehcità; e massime sopra quella di
alcuni uomini singolari per finezza d’ intelletto, congiunta a nobiltà di
costumi e integrità di vita; i quali egli vedeva essere comunemente
oppressi ed afflitti più IO.(‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p
’rtìi. che alcun altro, dalla potenza e dalla dura
dominazione di quel genio»: ossia appunto, della Verità. Giove,
«compassionando alla nostra somma infelicità, propose agjj immortali se
alcuno di loro fosse per indurre l’animo a visitare, come avevano usato
in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, e
particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a se,
indegni della sciagura universale. Tacciono tutti gli altri Deima si
offre Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo massimo iddio », che «
non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti
all’ imperio della Verità ». Di rado egli scende, e poco si ferma, e
perché la gente umana ne è generalmente indegna, e perché gli Dei
molestissimamente sopportano la sua lontananza. EgU è dunque premio, che
l’uomo conquista con la sua grandezza. La quale perciò è condannata sì
all’ infelicità del vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore.
« Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentih
delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio;
diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti
sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano,
cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che
rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori
insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo
scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con
grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non
gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità
che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla
divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per se qualunque
più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Ed
ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur freddamente, allo spettacolo
del tristo vero. La sua anima è calda (iel divino beneficio di Amore. Né
può in lui la verità (quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che
né egli può respingere, né altri egli ha consigliato mai a
respingere. « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a
tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine
umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra,
permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità,
quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente
offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di
contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra logica non render l’arme
all’arcano, che resta pel Poeta questa natura, la quale mette in cuore il
bisogno della virtfi, e la fa apparire poi stolta a Bruto. Infine, quella
stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e ringagliardita dalla
speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo Amore ; « E siccome i fati
lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a
questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini,
che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi
che egh si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce, per tutto il tempo
che egh vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni
degli anni teneri. Molti mortah, inesjierti c incapaci de’ suoi
diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come
presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri;
e quando gli udisse, niun sup- phzio ne prenderebbe: tanto è da natura
magnanimo e mansueto. Qui non c’ è satira, né riso, né fredda
anahsi; ma la più ferma fede e l’anima stessa del Poeta, che con la
pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di Elean- dro: e raccoghe
in questo suo magnanimo e mansueto amore tutta la infehcità degli uomini
e delle cose, e la purifica e sana nel gran mare tranquillo del cuore,
dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una perpetua
giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e della barbarie, ma
dell’affetto che lega le anime con nodi divini, e della bellezza, della
libertà, della patria, e di tutte le cose nobili e alte che fan grande
l’uomo. Questo amore, che dà piuttosto verità che rassomiglianza di
beatitudine, e ristaura tutta la vita umana, questo è il vero spirito
delle Operette morali. Pessimista, sì, ma alla Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un
roscau, le plus faible de la nature] mais c’est un roseau pen- sant. Il
ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser ; une vapeur, une
gcmtte d'eau, suffit pour le tuer. d/a/s, quand l’univers l’écraiserait,
l' homme serait encore plus noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait
qu’ il meiirt, et l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait
rien\ sicché la grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se
connaU misérable E il L. nell’agosto del ’23, alla vigilia delle
Operette, e quando il concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente
dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza
e nobiltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e
fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si
sente essere infinitesima parte di un globo che è minima parte degh
infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione
stupisce della sua piccolezza e profondamente sentendola e intensamente
riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel
pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella
vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo
pensiero egli dà la maggior piova della sua nobiltà, della forza e della
immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e
menomo essere. I Pensées, (Brunschvicg). è jiotuta pervenire
a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di lui, e può
abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della
esistenza e delle cose. Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità
sulla trista natura il L. non smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua
poesia, in cui queste Operette rientrano. E chi voglia intenderle, deve
nel loro insieme e in ogni singola parte che le costituisce, aver
l’occhio a questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che
tutte le investe e compenetra. Tutte, ad eccezione del Sallustio, che è
negazione fredda, senza l’orrore, la ri- beUione dell’animo, il dolore,
sia pur mascherato da amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E
questo parmi il giusto motivo che indusse l’autore a
sopprimerlo. Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva
ispirazione diede il Copernico e il Plotino, venutisi quindi ad
aggiungere alle prime Operette già formanti un organismo, r ispirazione non era
punto mutata. Giacché il Copernico dimostra, secondo il detto dello
stesso autore, la nullità del genere umano; e la dimostra
ripigliando un’ idea che contro i Timandri medievali attardati
aveano già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle
ceneri e Galileo nei Massimi sistemi] donde la conclusione necessaria che
Porfirio ricava nell’altro dialogo (che sarebbe poi la conclusione
rigorosamente logica di tutta la parte negativa delle Operette) : che sia
ragionevole uccidersi. Ed egh vince a furia di argomentare (movendo da
premesse, che son quel che sono, ma a lui paiono ben fondate) il suo
stesso maestro, Plotino. Ma Pensieri, Plotino può opporgli una sapienza
assai più profonda più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro
ragion^ 1 accomodar l’animo alla vita : certamente quello è u ^
atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuoP elegger piuttosto di
essere secondo ragione un mostr^' che secondo natura uomo. Perché contro
natura e contro umanità il suicidio ancorché conclusione di logica
inesorabile? Porgiam’orecchio, dice Plotino, «piuttosto aUa natura che
alh ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre
nostra e deU’universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se
bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e
malefica, che non siamo stati noi coir ingegno proprio, colla curiosità
incessabile e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle
opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di
medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la
maggior parte. E quantunque sia grande 1 alterazione nostra, e diminuita
in noi la jjo- tenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla
né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in ciascuno gran
parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la stoltezza
nostra, mai non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error
di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette
di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi,
dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che
ha prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il
raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne. E credi a
me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della
nulhtà delle cose, della vanità deUe cure, della solitudine dell’uomo;
non odio del mondo e di se medesimo, che possa durare assai: benché
queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata
leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un
subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a notare; rilassi il
gusto della vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose
umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di
qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,
al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino, questo senso, non 1
’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è evidente che non la
filosofia negativa, che spazia dal Dialogo d’ Ercole e di Atlante fino al
Cantico del Gallo silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel
Copernico, opera di puro intelletto, è la somma della sapienza L.ana; ma
questa stessa filosofia in quanto dichiarata stoltezza dalla natura e da
questo « senso dell’animo ». Senso dell'animo, che è sempre amore
per L. Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche un
bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare: « E perché », chiede
Plotino, « anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degh amici;
dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori,
della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali
siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per
sempre : e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa
separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la
perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso ? ». E dice
la parola, che si va cercando attraverso tutte le Operette, ma di
cui può dirsi quello stesso che Tacito dell’ imma- Il solo, a mia
notizia, che abbia rilevato l’importanza che questo «senso dell'animo» ha
nel sistema dello spirito L.ano, come principio di redenzione dal
pessimismo, è stato il prof. Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni L.ane
(6 volumi, Pavia, 1894-99), passim, e specialmente voi. V, pp.
lys-yy. 1gine di Bruto mancante ai funerali della sorella: prae-
fulgebat eo ipso gitoci non visebatiir. « E in vero, colui che si uccide
da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se
non la utilità propria; si gitta per così dire, dietro alle spalle i suoi
prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del
privarsi della vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o
certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si
trovi al mondo. Dunque quella grandezza non è infelicità; perché l’uomo
infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe se vivesse per la
felicità e si attenesse quindi al calcolo dell’utile. Ma la vera vita è
non sembianza, sì verità di beatitudine se è amore, in cui l’uomo non
distingue più sé dagli altri, né agli altri antepone più se stesso. E
questa è la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso L., che non
è più il dolore incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma questo
amore che ci stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro
cuore di uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice al
suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di
portare quella parte che il destino ci ha stabìhta, dei mali della nostra
specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e andiamoci
incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel
miglior modo questa fatica della vita». Questo amore, che ci regge e
riempie la vita, ci conforta la morte e ci abbellisce l’idea di questo
mondo, da cui non spariremo senza sopravvivere. « E quando la morte
verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo momento gli amici e
i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che
saremo sjienti, così molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora
». Vili. Amore è la prima e l’ultima parola delle
Operette. Le quali ebbero ancora una ripresa nei due dialoghi fiorentini:
il Venditore d’Almanacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico
del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo grido festoso
annunzia l’anno nuovo, il tempo che ricomincia, e risveglia le speranze e
promette. Ma il passeggero in cui s’incontra oppone la sua fredda
riflessione a quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce
a considerare che « quella vita eh’ è una cosa bella, non è la vita che
si conosce, ma quella che non si conosce ; non la vita passata, ma la futura ».
La vita che si conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a
cagione di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla: vita
brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce, e che sarà
egualmente brutta quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta,
se noi ce la vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? L.
non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene dalle Operette:
sperare non è ragionevole, poiché, come cantava il Gallo silvestre, già
si corre alla morte; ma non sperare non si può; perché, è evidente, il
futuro sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché futuro; né di
questo futuro potrà mai tanto passarne che non ce ne sia sempre
dell’altro, in cui possa rifugiarsi la speranza, o innanzi a cui non
possa il Gallo intonare il suo canto consolatore. E la vita resta sempre
con queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una miseria
disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro cuore, i nostri
fantasmi, le nostre speculazioni e il nostro amore, una beatitudine
divina. Fu per Giacomo l’anno della tragica prova della sua fede.
Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo; non però
luminosa immagine della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del
cuore stesso di Giacomo. Bello il tuo manto, o divo cielo, e
bella Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta Infinita beltà parte
nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno. A’ tuoi
superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E
dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille
invano Supplichevole intendo Non meno supplichevole Giacomo
guarda ad Aspasia; onde ricorderà: Or ti vanta, che il puoi. Narra
che prima, E spero ultima certo, il ciglio mio Supplichevol
vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in ridirlo Di
sdegno e di rossor), me di me privo. Ogni tua voglia, ogni parola,
ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi Fastidi impallidir. E
cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu «
notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma Saffo proruppe nel grido
disperato ; Morremo ! -- e violenta
cercò l’atra notte e la silente riva. L. scrisse invece Amore e morte]
dove la morte non è più l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta
la sua gentilezza fino alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella d’Amore
; 1 Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima fanciulla,
Dolce a veder, non quale La si dipinge la codarda gente. Gode
il fanciullo Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la
via mortale. Primi conforti d'ogni saggio core £ la
morte sospirata dall’amante, nel languido e stanco desiderio di morire,
che si sente Quando novellamente Nasce nel cor profondo
Un amoroso affetto, perché già a’ suoi occhi la vita diviene un
deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede
ornai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier
figura; Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in
suo cor, brama quiete. Brama raccorsi in porto Dinanzi al
fier disio. Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.
E a questa morte consolatrice, che insieme con amore è quanto di
bello ha il mondo, a questa morte, senza armare la mano, anzi con umile e
mansueto animo, vol- gesi il Poeta con un sospiro di religiosa
preghiera: Bella morte, pietosa Tu sola al mondo dei
terreni affanni. Se celebrata mai F'osti da me, s’al
tuo divino stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar tentai.
Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina A disusati preghi.
Chiudi alla luce ornai Questi occhi tristi, o dell’età
reina. Non già che amore e morte abbian potere di cancellare
la fatale infelicità: né che l’uomo e il L. abbiano mercé loro, a lodarsi
del fato. Quando Morte spiegherà le penne al suo pregare, lo
troverà Erta la fronte, armato, E renitente al fato.
La man che flagellando si colora Nel suo sangue innocente Non
ricolmar di lode. Non benedir. La morte è consolatrice e
liberatrice da questo fato crudele: ma già L. aspetta sereno quel dì ch’ei
pieghi addormentato il volto nel vergineo seno di lei; e il fato è
vinto nel suo animo gentile da questa aspettazione: vinto nella stessa
vita. E questo è Tanimo di Tristano; il quale, dopo avere con amara
ironia fatta la palinodia del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe
di bruciarlo : « non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni
poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come
un’espressione dell’infelicità dell’autore»; perché, soggiunge al suo
amico Tristano, con accento che viene dal cuore e vibra di commozione, «
perché in confidenza, mio caro amico, io credo febee voi e felici
tutti gli altri; ma io, quanto a me, con licenza vostra e del secolo,
sono infebeisshno: e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non
mi persuaderanno il contrario ». Egb è flagellato dallo stesso fato di
Amore e morte. «E di più vi dico francamente eh’ io non mi sottometto
alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a
patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e
desiderarla sopra ogni altra cosa.... Né vi parlerei così se non fossi
ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole.... In
altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno
un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con
qualcuno di loro. Oggi non in\'idio più né stolti né savi, né grandi né
piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri
àzH’antico dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della
morte, è fiducia confortata da una speranza che non falhrà, e che già
allieta di sé Tanimo sottratto per lei a quella vita che è dolore: a
quella cosa arcana e stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare
senza tema, poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione
piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia
solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è
un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.
In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore trionfa del
dolore, anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la
natura e il fato danno all’uomo « di cedere inesperto ». Cederebbe il
suicida egoista, non il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore,
e guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae,
alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta differenza tra la morte
di cui Ercole ragiona con Atlante 0 quella che s’incontra nella Moda, al
principio delle Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge
desioso alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che
dall’una conduce all altra è già nella Storia del genere umano'.
Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel
Messaggero della domenica, poi nei Frammenti di estetica e letteratura, A
proposito di L. toma sempre in campo la questione delia differenza e del
rapporto tra filosofia e poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per
certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo; ma,
d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distinguere una cosa dall’altra,
come res dissociabiles, e in un libro di prosa volle in forma più
sistematica e più razionalmente convincente esporre quel suo pensiero da
cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle poesie. E non importa
se non ci sia una sola delle sue poesie in cui il L. non ragioni la sua
fede e non si sforzi di dimostrare la verità del concetto ch’egli s’era
formato della vita, e che attraverso una determinata situazione
personale, un paesaggio, un ’immagine, si sforza costantemente di mettere in
piena luce. Non importa se nessuna delle prose raccolte nelle Operette
morali si presenti sotto la forma di scolastica dimostrazione e scevra di
quel sentimento, di quella viva commozione, in cui \dbra la
personalità del poeta così nelle Operette come nei Canti. La distinzione
pare tuttavia innegabile, poiché, non po- tenilo altro, se ne fa una
questione di quantità e di più e di meno: affermando che l’elemento filosofico
predomina nelle Operette, e l’elemento hrico nei Canti. E si crede
così di salvare la tesi generale, che bisogna rinunziare alla filosofia
per esser poeti, e viceversa: giacché la loro natura è così diversa e
ripugnante, che l’una non può esser l’altra e una sempre deve essere
sacrificata. Ma io non voglio ora affrontare la questione,
che potrà sembrare tanto teoricamente difficile e dehcata uanto
praticamente inutile e oziosa. Nel caso di L. la questione di principio è priva
d’ogni interesse, perché il L., anche nelle sue prose, è
indubbiamente poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o
ragioni, cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce
se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità che gli invade
l’anima e non gli lascia modo di dubitare e di assoggettarla a quella più
alta razionalità, a quella critica oggettiva che s’inquadra in un
sistema, e in cui consiste propriamente una filosofia che non vuol
dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una filosofìa fatta
vita e persona, fatta vibrazione e ritmo del suo stesso sentimento,
incapace come tale d’acquistare intera coscienza di sé, e perciò di
superarsi. E, cioè, un certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde
nella divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore
a quella dottrina che l’autore si sforza consapevolmente di
formulare. Superiore perché, ormai è noto agh studiosi più
attenti della sua poesia questa ha pel
poeta un contenuto pessimistico, e per noi, invece, ha un contenuto
ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatalmente infelice, è ciò che
il poeta aveva innanzi agli occhi, vedeva e si proponeva di cantare. Ma
poiché quella \nta che ogni poeta canta non è quella che ha innanzi
agli occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e però ogni poeta
canta non la vita quale egli la vede, ma il cuore con cui egli la guarda;
e poiché il cuore di L. era, come egli disse una volta, nato ad amare, ed
aveva amato, e forse con tanto affetto quanto ]iuò mai cadere in anima
vdva », così, in realtà, tema del suo I Vedi ora il mio scritto
Arte e religione, nel Giorn. crii. d. filos- Hai., e nel voi. Dante e Manzoni, Firenze,
Vailecchi,-- canto non fu mai quella brutta vita, che è piena di dolore, ma
quell’altra che egli più profondamente sentiva, redenta dall’amore, la
quale «dà piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Poiché
appunto qui è il divario tra pessimismo e ottimismo: che il primo vede la vita
quale apparisce nella natura considerata dal punto di vista
materialistico, brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello spirito,
chiusa in sé di contro alle aspirazioni dell’anima umana bisognosa di
amore e di consenso, ossia di un mondo conforme alla sua vita e a lei
consentaneo; e l’altro invece crede nello spirito, nel valore de’ suoi
ideali, e nell’energia dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale
valore. 11 mondo del pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui il
dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il mondo dell'ottimista è il mondo in
cui la più salda e vera realtà è quella che risponde alle esigenze
dell’animo. E la verità è questa: che il L., pessimista di filosofia, e
ijuasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo
dell’animo: tanto più acutamente pessimista, col progresso della
riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista. Basta confrontare la
canzone All’Italia con La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della sua
poesia, dove la bestemmia e lo strazio della disperazione si smorzano e
dissolvono nella commossa e tenera effusione di un’anima angosciosamente
agitata da un bisogno di amore universale e da un’ incoercibile
fede nella virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filosofia di
questo superiore ottimismo in cui rimane assorbita la sua iniziale visione
pessimistica; e continua a dire che la sua è sempre la filosofia del
Bruto Minore^-, ma l’anima, che non perviene al concetto filosofico di
quella storia del genere umano. Lett. al De Sinner -- realtà che è
per lei la vera e suprema realtà, raggiungo bensì la forma poetica della
sua espressione in modo pieno e perfetto. Se cerchiamo in lui
il filosofo, avremo lo scettico, ironista, materialista piuttosto
mediocre nell’ invenzione, dove riesce facile scoprire quanto egli debba
ai libri che lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti
ph, disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a conferma delle sue
idee: mediocre nell'esposizione od elaborazione della materia, per evidente
inesperienza del metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità coi
grandi pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il L. e si fermi a
ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né anima per vedere che cosa c’ è
propriamente in lui che è vivo ed eterno e grande: ciò per cui anche a
chi pedanteggi la sua poesia s’impone e suscita un’eco solenne
nell’animo. In questo senso bisogna pur dire che in L. non si deve
cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima, che rifulge in tutto lo
splendore della sua grandissima umanità. C’ è insomma il poeta.
Anche nelle sue Operette. Le quali io credo di avere
definitivamente dimostrato con argomenti esterni, attestanti nella maniera più
esplicita 1’ intenzione di esso L., e con argomenti interni, desunti dallo
svolgimento del pensiero e dagli evidenti legami onde le singole operette
sono congiunte tra loro per graduali passaggi di atteggiamenti spirituali
e di sentimenti dal primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta,
ma un organismo, un tutto unico, che si articola dentro di se
stesso e si conchiude. Si conchiude tra un preludio e un epilogo in una
opera, che è un poema, e non è un trattato: un libro di poesia, anch’esso,
e non di contenuto didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente
di venti capitoli, scritti tutti in un anno di lavoro felice, ma con un
intervallo tra i primi quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire
il sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte,
svolgendosi in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella prima serie:
dalla quale sottraendo il primo e l’ultimo capitolo, quello perché
introduzione e questo perché apologia e conchiusione di tutta la serie,
si ottengono infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono
in due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è
destinato a svolgere un certo motivo, e quindi forma un ritmo a sé.
Sospetto confermato da alcuni spostamenti dall’autore introdotti nel primitivo
ordine cronologico, e poi costantemente mantenuti, salvo una
sostituzione che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per
l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al posto di un capitolo del primo
gruppo: capitolo abolito allora perché infatti non armonico né col
gruppo, né con tutta l’opera. La distribuzione, è ovvio, non
può avere se non una importanza relativa. £ ragionevole pensare che
fosse voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non volle
mai rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da lui curate dei
Canti, e diede loro un ordinamento ideale, che per lui aveva un \'alore,
e che per i lettori ed interpreti non può essere perciò trascurabile. Ma il
fatto stesso che tutte e venti le operette furono scritte
successivamente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo, e
hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo, dimostra
evidentemente che i loro singoli gruppi non si possono considerare
separatamente, quasi ognun d’essi formasse un tutto a sé. La
distribuzione del nucleo principale delle Operette in tre gruppi di sei
capitoli ciascuno, con a capo un capitolo introduttivo e in fondo un altro
capitolo conclusivo, può servire soltanto a renderci attenti per leggere
le varie parti del libro cercandovi tre motivi fondamentali che nel
pensiero deU’autore si fondo no in un solo ritmj complessivo, e
formano l’unità organica del libro; e in questo modo può servire quasi di
chiave a un libro, che fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno
o l’altro capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre
dire che ci vuole discrezione, e non bisogna pretendere un taglio netto
tra un gruppo e l'altro, e una soluzione di continuità che non si sa
perché l’autore avrebbe dovuto introdurre una prima e una seconda volta nel
corso della sua unica opera. Discrezione che non vedo, per esempio,
nel professor Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e
Farfarello che resta collocato alla fine del primo gruppo e da servire
quindi come passaggio al secondo, mi domanda: « Ma non potrebbe stare
anche nel secondo, poiché è una affermazione chiara ed esplicita dell’
infelicità assoluta dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta-
mente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere ? ». Ma io non avevo
eretto nessuna muraglia tra il primo gruppo concluso da questo dialogo di
Malambruno e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura
e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero dominante nel primo
gruppo, additavo in Malambruno quell’anima che si ritrova di fronte alla
Natura al principio del nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi non
un salto, anzi un passaggio naturale e come insensibile ove non si
osservi che quella che nel primo ciclo è una constatazione,
un'osservazione di fatto, diventa nel secondo ciclo il problema. Il
Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole [Una nuova edizione delle
fn Operette movali n di G. L., nel Marzocco -- da me usate incidentalmente, mi
fa dire che la differenza tra primo e secondo periodo in questa trilogia
delle Operette consisterebbe, secondo me, in ciò: che nel primo « r
infelicità del genere umano si considera particolarmente nell’età moderna come
effetto più che altro della volontà pervertita dell’uomo e della civiltà
», e nel secondo invece, « questa infelicità si considera come
legge imprescindibile e ineluttabile dell’umanità o del mondo in genere»;
sicché «la Natura, che nella prima ipotesi apparisce fonte in se ancora
inesausta di vita e di fehcità, apparisce invece nella seconda vero
principio di ogni male e di ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota
differenza osservata dallo Zumbini tra la prima fase « storica » del
pessimismo L.ano, e la seconda metafisica o cosmica. Ma non
corrisponde per l’appunto alla distinzione da me indicata, tra il concetto del
primo e quello del secondo gruppo delle Operette. Nel primo, io dissi,
l’animo del poeta vien posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al
vuoto della vita, non più degna d’essere vissuta; poiché degna sarebbe
la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella
fehcità è la natura; e l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la
civiltà, con l’irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma
». Qui il pessimismo storico è già superato, e Malam- bruno
può dire che « assolutamente parlando » il non vivere è meglio del
vivere. Lo può affermare, perché la vita umana, fin da principio e per
sua natura, è senso, coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità
istintiva e affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può parere »,
scrissi io, « che la morte dell’umanità, la sua nul- htà o infelicità
sia, nei dialoghi del primo gruppo, una colpa dei degeneri nepoti » :
poiché infatti civiltà è aumento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in
realtà, fin dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo
l’uomo. c’ è già il dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Malambruno
perciò è benissimo al suo luogo alla fine del primo ciclo. Il
secondo ciclo ricava la conseguenza pratica della verità scoperta nel
primo. E si apre infatti col Dialogo della Natura e di un’Anima, nel
quale dalla proporzione del dolore con la grandezza dell’uomo (il cui
progresso e perfezione consiste nell’acquisto di sempre maggior
copia di sentimento che gli fa sentire sempre più acuto il dolore
dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio spogliarsi deU’umanità, o
delle doti che la nobilitano, e farsi « conforme al più stupido e
insensato spirito umano che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo. Negare
l’umanità, rinunziare a ciò che fa il pregio della \ùta, rinunziare ad
affiatarsi con la Natura indifferente, che ci respinge da sé, ossia
rinunziare alla vita: e rassegnarsi alla vita vuota, al tedio, all’
inerzia. Laddove il primo ciclo addita aU’uomo l’abisso che con la
coscienza s’è aperto tra lui e la natura, il secondo gli fa sentire il
destino a cui gli conviene di rassegnarsi, rinunziando a quella natura
che non è per lui, e a quella vita che soltanto nella natura potrebbe
spiegarsi. Il primo ciclo è una negazione, per così dire teoretica; il
secondo è la negazione pratica, che consegue dalla prima negazione. La
conclusione dovrebbe essere quella di Bruto minore e di Saffo, il
suicidio; non ò però la conclusione del L., il quale non finisce
con r Ultimo canto di Saffo, ma con la Ginestra. E perché quella di
Bruto non sia la sua conclusione è detto nel terzo ciclo delle Operette.
Il quale svolge questo motivo: che quella vita che certamente non ha
valore, perché è dolore e perciò negazione della vita che noi
vorremmo vivere, ripullula rigogliosa e incoercibile dalla sua
stessa negazione. La \àta è abbarbicata aH’anima umana; e
questa, attraverso le attrattive e le lusinghe della gloria, la
stessa contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro da
tutte le tempeste, come la cantano i morti di Ruysch, attraverso una
filosofia che sappia intendere e sorridere con la magnanimità bonaria di
un Ottonieri, attraverso gli stessi rischi in cui la vita si perde e si
riconquista col gusto di una cosa nuova, e in generale attraverso
l’attività, il movimento, la passione e la speranza che non vien mai
meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore che ci fa ricercare nell’uomo,
neW’umana compagnia, quello che la natura ci nega anche nella piena
coscienza della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e
sente la gioia d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo
dalla natura. Una soluzione dunque del problema della vita nei
tre cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evidente che
no: perché la via che filosoficamente si dovrebbe seguire per superare il
pessimismo radicale dei primi due cich è, senza dubbio, quella per cui
l’anima dello scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente
procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì 10 slancio
naturale dello spirito che risorge con tutte le sue forze dalla negazione
pessimistica. E il pessimismo, in linea di teoria, rimane la verità
assoluta e insuperabile. L. sente bensì e vive la verità superiore,
ma non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli sperimenta in sé
ed attesta coi moti del suo animo la potenza dello spirito, che anche nell’uomo
che s’immagina scliiavo e vittima della natura, trionfa della forza
tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta la gioia di
questa sua vita in cui consiste la realtà dello spirito. E in questo
balsamo, che il suo animo sparge così su tutte le piaghe che ha aperte e
che ha fissate inorridito, in questa dolcezza che sana ogni dolore,
in quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione, qui la
personalità, qui è la poesia del L.. Così, ripeto nelle Operette, come
nei Canti. Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde
si conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di.
scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei. lato nelle
aggiunte posteriori; e si neghi, se è possibile, che il centro e
l’accento principale dello spirito leojiar- diano è in quel « senso
dell’animo », com’egli dice, che, agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo,
e con l’amore, vincolo soave insieme ed eroico, instaura un ordine morale
inespugnabile a ogni riflessione scettica, e superstite infatti (coni’ è
detto nella Storia del genere umano) a quella fuga di tutti i lieti
fantasmi che è prodotta dal sorgere della verità tra gli uomini. L’animo
del L., come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi
vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna d’esser vissuta,
per quel che dice appunto Plotino: «E perché non vorremo noi avere alcuna
considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli,
dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e
domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo: che morendo,
bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore di
questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, per
la perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del caso ?
». Questo non è un argomento filosofico, ma un cuore che trema in ogni
parola; e ogni parola si sente come velata dal pianto dell’anima che il
dolore apre ed espande nell’amore. Ma è proprio vero, torna a
domandarmi il professor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola delle
Operette ? Ecco: che la Storia del genere umano faccia consistere tutto
il pregio, la bellezza e la felicità della vita nell’amore, mi pare sia
così chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non
vedo che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto che
amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare che sia nella prima
forma di questo, quando finiva col Dialogo a Timandro e di Eleandro\ né
che sia nella forma definitiva, quando all’ultimo posto fu collocato il Dialogo
di Tristano e di un Amico. La compassione di Eleandro, egli dice, « non è
amore : tant’ è vero che questo dialogo dovea dapprincipio intitolarsi
Misénore e Filénore, e Mis nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva essere L.
». Ma il Faggi non ha badato che (come avrebbe potuto vedere da tutte le
varianti che io ho tratte dall’autografo) cotesto titolo, poi mutato
dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo, non solo fu ideato
quando ancora il dialogo era da scrivere, ma mantenuto fino alla fine
della composizione del dialogo stesso. Sicché il concetto di Mist'nore è
puntualmente quel medesimo che vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè
non si oppone propriamente all’amatore degli uomini, ma si oppone
soltanto a chi, anzi che Filénore, merita d’esser detto Timandro, perché
eccessivamente valuta, col domma della perfettibilità progressiva, il
potere umano di impadronirsi della feheità. L’uomo del L. non è l’uomo
vantato e millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII e dai
progressisti del suo secolo: l’uomo dalle magnifiche sorti e progressive
del Mamiani: è l’uomo vittima della natura e però degno di
compassione. La compassione non è amore; certo. Ma ne è la radice.
E perciò Giove, mosso da pietà, nella Storia del genere umano, manda
Amore fra gli uomini. Perché solo l’amore lenisce i dolori, per cui si
commisera l’infelice; e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido
che gli si sprigiona dal più profondo del cuore: Sono nato ad
amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima
viva », soggiunge. Oggi non mi vergogno a dire che non amo nessuno,
fuorché nie stesso, per necessità di natura, e il meno possibile»-
l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla coerenza del si' sterna
pessimistico della vita che Eleandro oppone al dommatico ottimismo di
Timandro; ma si smentisce subito continuando. Con tutto ciò sono solito e
pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimenti
ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg una sorta di
amore. Che se Tristano non sa più pensare se non alla morte questa
morte (come credo di aver chiarito abbastanza col riscontro di quel
dialogo con i canti dell’amore fiorentino, Aspasia e Amore e morte), non è la
disperazione della vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma è
la bellissima fanciulla che Gode il fanciullo Amore
Accompagnar sovente; la bella morte, pietosa, sospirata in
quel languido e stanco desiderio di morire che sorge col nascere d’un
amoroso affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel Tristano,
non è rivolta contro la vita confortata dall’amore, bensì contro quel
volgare ottimismo che parla il fatuo linguaggio di Timandro e deH’amico di
Tristano. Vero è che per leggere L. non bisogna tanto badare a
quello che egli dice, ma al modo piuttosto in cui lo dice, al tono delle
sue parole, in cui propriamente consiste la sua anima, e quindi la vita e
il valore della sua prosa. Che io perciò desidero considerare più
come poesia che come argomentazione. E perciò non posso accettare
quel che il Faggi dice del Dialogo di Tasso e del suo Genio familiare e dell’
Elogio degli uccelli. Come mai, mi domanda del primo, «appartiene
al secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è senza
dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato. vale il Dialogo
di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ». Infatti, egli osserva, «
non dee spaventare la differenza che c’ è fra un uomo chiuso nelle
quattro mura d’una prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’ Oceano
infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo Genio
familiare press’a poco la stessa soddisfazione che il grande Genovese nel
suo fortunoso viaggio. Tutt’e due han trovato la maniera di fuggire la
noia, questa compagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro frutto
non ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo Colombo a
Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per
lungo tempo essa ci tiene Uberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa
pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione.
E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla conversazione col suo Genio,
che, si può ritenere, il consigUo da questo datogli di ricercarlo, ov’ei
lo voglia, in qualche Uquore generoso, non andrà perduto. Tutt’e due,
tra fantasticare o navigare, van consumando la vita: non con altra
utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo se ne
può avere: e l’unico ‘intento che l’uomo deve proporsi ogni mattina in
sullo svegliarsi ’ ». Ora tutto ciò, se si guarda alla nota
fondamentale dei due dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo
spunto del Colombo ci è indicato dallo stesso L., che, come io ho
mostrato, aveva prima concepito questo scritto col titolo di Salto di
Leucade\ e il senso o nucleo del dialogo va quindi cercato nel passo che segue
alle parole citate dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU antichi,
come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan- dosi dal sasso
di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e
scampandone, restavano per grazia di Apollo, liberi dalla passione
amorosa. Io non so se egli si debba credere che ottenessero questo
effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di
tempo, anco senza il favore di Apollo avuta cara la vita, che prima
avevano in odio; o pm-g avuta più cara e più pregiata che innanzi.
Ciascuna na vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla
rupe di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(, durevoli
che quello non produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore
assai. Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a
ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita propria,
che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso rispetto giudico che
la vita si abbia da molto poche persone in tanto amore e pregio come da’
navigatori e soldati ». Non il consumai'e la vita è l'utilità
del rischio, a cui Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la gioia di
riafferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme sfuggita per sempre:
il gusto che si prova per ogni piccolo bene, appena ci paia di averlo
perduto, se lo riacquistiamo. 11 Colombo è questa gioia del pericolo vinto,
ma che bisogna perciò affrontare per vincerlo. Il Tasso è
tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta il piacere della vista di un
cantuccio di terra: ma il povero prigioniero non conosce né spera
mutamento alla sua sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da parte i
dolori, la noia solo lo uccide. La noia, di cui egli può parlare
perché ne ha esperienza; ma che gh pare il destino universale degh uomini,
quasi la sua prigione fosse simbolo della natura, che circonda e chiude
dentro di sé l’uomo: A me pare che la noia sia della natura dell’aria :
la (juale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose
matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro: e donde un corpo
si parte, e l’altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente.
Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono
occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici,
non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto : se non
quando la mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero.
Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche in se proprio e
come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a
cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno
di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e
il diletto. Che egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio col suo
Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier confermarsi nella
convinzione della sua immedicabile tristezza: «Senti. La tua conversazione mi
riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza, ma
questa per la più parte del tempo è come una notte oscurissima, senza
luna né stelle ; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli,
piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o
trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare. Il Genio
risponderà con amara ironia che la sua abitazione è in qualche liquore
generoso. Ma il Faggi crede sul serio che ci sia qui un consiglio da
prendersi alla lettera ? « Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che
ebbe pure la strana idea di cercare negh scritti del Tasso l’eventuale
fondamento storico di questo tratto. Il quale, per chi legga la prosa L.ana
con animo sensibile all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non
può significare altro che un realistico strappo che 1 autore vuol
dare alla stessa poetica illusione consolatrice del- r infelice
prigioniero. E porgendo l’orecchio all’accento commosso dello
scrittore io credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli lirica
stupenda sgorgata al L. dal pieno petto al guizzo d’una immagine lieta e
ridente, e come un canto di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio
degli uccelli un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj
riflessione; benché questa sia ravvivata dal soffio della poesia inerente
al soggetto. Il L. non intendeva di fare altro ». Piuttosto egli
penserebbe al Passero no litario) ma avverte subito da sé il carattere
del tutto estrinseco del ravvicinamento, e nota che « anche quello
non è un canto di gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo il Faggi, il L. è
filosofo, e non è poeta. « Non ha creduto di spogliare del tutto la
giornea del filosofo- che anzi egli parla per bocca di un Amelio,
filosofo solitario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico,
scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare Dante e Tasso.
.Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende
in una lunga digressione sull’origine e la natura del riso, suggeritagli dall’osservazione
che il canto è, come a dire, un riso che fa l’uccello ; e, intorbidando
l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo suo volea riposarsi, si lascia
attrarre a considerare il riso umano nello scettico, nel pazzo e
nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o spontanea dell’animo, e non
ha jùù quindi relazione col canto degli uccelli ». Donde
s’avrebbe a concludere che il L. abbia voluto scrivere sul serio l’elogio
degli uccelli, proponendosi una tesi ritenuta da senno per vera, e
industriandosi di dimostrarla nel miglior modo per tale. No, per Dio, non
mi prendete alla lettera ci
ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre
scandalizzato dalle forme pagane di Giacomo : « Io le giuro che l’intenzione
mia fu di far poesia in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una
mitologia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi, senza essere
perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. » Senza essere creduti
perciò zoologi o filosofi, possiamo aggiungere noi. E del resto a quella
conclusione io non credo che il Faggi abbia voluto andare incontro
intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'imaginazione beta o serena in cui
l’animo del L. volea riposarsi » ; e rispetto alla quale gli uccelli non
sono davvero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella tessitura dell’
Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze delle sue letture del
Buffon (che è poi un poeta, anche lui, della storia naturale) ; ma sono
appunto un’ immagine, simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non
conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui espansione e penetrazione
nel cuore del poeta si vede bene dove a questo si svegha nell’animo un
senso di gratitudine verso quella Provvidenza, che volle il dolce canto
degli uccelli a conforto degli uomini e d’ogni altro vivente. «Certo
fu notabile prowedimento della natura l’assegnare a un medesimo
genere di animali il canto e il volo; in guisa che quelli che avevano a
ricreare gli altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo
alto, donde ella si spandesse all’ intorno per maggiore spazio e
pervenisse a maggior numero di uditori. E in guisa che l’aria, la
quale si è l’elemento destinato al suono, fosse popolata di creature vocali
e musiche. Veramente molto conforto e diletto ci porge, e non meno, per
mio parere, agli altri animali che agli uomini, l’udire il canto degli
uccelli. La prosa tranquilla e contenuta vuol essere nella
sua forma esteriore l’eloquio didascalico di un filosofo, ma tanto più
perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che vi si agita dentro, con
quella stessa mobilità irrequieta, che fa dal poeta contrapporre all’ozio
pigro e sonnolento degli uomini la vispezza dei volatili. « Gli uccelli
per lo contrario, pochissimo soprastanno in un medesimo luogo; van- [ I
Episiol., lett. no e vengono di continuo senza necessità veruna ; usano T
volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen tinaia di
miglia dal paese dove sogliono praticare, i] medesimo in sul vespro vi si
riducono. Anche nel piccol tempo che soprasseggono in un luogo, tu non h
ved^ stare mai fermi della persona; sempre si volgono cjua I là,
sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK lano, si dimenano;
con quella \ds]iezza, queU'agUità quella prestezza di moti indicibile. E con
la stessa intenzione del contrasto tra l’esposizione solenne e dotta del
filosofo e il sentimento che ’ deve vibrare dentro, si spiegano i ricordi
anacreontd che il Faggi dice eruditi e freddi, e che tali vogliono essere
infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel desiderio finale di Amelio:
Similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello,
per provare quella contentezza e letizia della loro vita ». Ultime
parole dell’ Elogio, che ne sono quasi la chiave, e che reca meraviglia
non vedere intese esattamente nepjmr dal Faggi Già il Della Giovanna,
che, mi rincresce dirlo, troppo pedanteggiò irriverentemente nel suo
commento erudito ma offuscatore assai più spesso che rischiaratore del
nitido pensiero L.ano, postillò: n Per un poco di tempo. Meno male ! chè
dopo la vantata perfezione degli uccelli, c era da aspettarsi una
conclusione meno restrittiva. E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare
che Amelio non sia riuscito a convincere pienamente se stesso, o il
suo entusiasmo non sia stato davvero troppo profondo ». Come se si trattasse di
convincere! A me pare ci sia un modo più ragionevole d’intendere
quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente ad ognuno, che
rifletta che se il filosofo avesse espresso il desiderio d’essere
convertito per sempre in uccello, avrebbe fatto ridere. Che diamine, il
poeta invidia degh uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non
sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui
sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per essere disposto a
barattarla con esse per sempre. Anche la morte potrebbe essere per lui,
come per Porfirio, la soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso
dell’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero, colui che si
uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degh altri; non cerca
se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i
suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto che in questa azione
del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o
certo il men bello e men liberale amore di se medesimo che si trovi al mondo
». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del Palazzo Comunale di
Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno- luglio dello stesso anno del
periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di commemorare un poeta è
quello di entrare nella sua poesia, cioè nel suo animo, nel mondo
dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli elementi della sua
biografia, tutti, dalla data di nascita a quella di morte, i casi della
sua vita, le persone e le cose in mezzo alle quali questa vita si svolse,
le idee stesse che egh accolse e che professò, le correnti spirituali
antecedenti o contemporanee di cui partecipò, sono semplici generahtà,
paragonabili alle note d’un passaporto; le quah, ove non si accompagnino
e precisino con una fotografia, rimangono appunto generalità, riferibili a
migliaia di persone. Ogni uomo è una determinata personalità in quanto
è un’anima. La quale, quando si conosca da vicino e cioè per davvero, è
singolare e inconfondibile: unica. E la sua singolarità in fondo consiste
non nella periferia del mondo di cui l’uomo fu centro, ma in quello
piuttosto che egli fu, al centro di questo mondo, col suo modo di
reagire a questo mondo che era il suo, raccolto nel suo pensiero e nel
suo sentimento. Due possono nascere nello stesso anno e nello stesso
giorno, vivere nello stesso luogo e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi
agli occhi, tra gli stessi uomini e quasi con le stesse voci negli
orecchi; e ricevere la stessa educazione, incorrere magari nelle stesse
malattie, e insomma viv'ere tutta materialmente la stessa vita e concorrere
perfino nelle stesse idee, ed essere come due anime gemelle. Eppure ciascuna di
queste anime, se vi provate ad entrare nel suo intern è se stessa,
diversa, assolutamente diversa dall’altra quel certo suo dèmone ascoso,
che tratto tratto si senr nel timbro della voce o lampeggia nelle
pupille, svelane!^ subitamente l’essere dell’indi\dduo : quell’essere
eh” ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a scoprire atti e
nelle parole delle persone che frequenta. Quest dèmone interno, sorgente
segreta da cui scaturisce in verità tutta la vita effettiva dell’uomo non
soltanto quale essa è, ma quale è sentita e perciò nel valore che
ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io: il soggetto, che è la base
d’ogni individualità umana. Qualcosa d’inafferrabile in se stesso, perché
infatti non si manifesta se non in quanto si realizza nelle concrete
determinazioni del carattere, nel complesso degh atti e delle
parole, che formano la trama della vita dell’ individuo. 11 centro
non è rappresentabile se non in rapporto alla sua circonferenza.
Ora questo demone segreto che si cela e si svela nella vita di
ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione del poeta. Il quale non si
distingue dagli altri uomini se non jierché riesce a stampare una più
profonda impronta di questa segreta potenza nelle espressioni del suo
essere. E pare che per lui innanzi agli occhi meravigliati della
moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine infinita l’immagine di
un’anima divina, creatrice, che di sé fa il suo universo; e quelli che
per gli altri sono sogni e ombre, per la virtù sua onnipossente son corpi
saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la immensa scena del mondo
che il poeta sostituisce a quello della comune esperienza. Nel poeta, in
quanto tale, tutto ciò che egli vede e tutto ciò che può dirci è la sua
anima, anzi questo dèmone che si cela nella sua anima. Nel caso di
L., quanto difficile cercarla e trov'arla questa scaturigine della sua poesia:
e quanto perciò s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto della
sua grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide tutti i
cuori, trova la via di tutte le anime, che spontaneamente si aprono alle soavi
commozioni di essa. Ma studiata lungamente, pertinacemente,
ingegnosamente da mille ingegni, alla luce di mille sistemi e sulla base
di mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla pretensiosa volontà
indagatrice della critica, impegnata per lo più nella superba impresa di
ricostruire l’arte dagli sparsi frammenti esanimi ottenuti attraverso una
fredda operazione anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora alla
intelligenza riflessa, che si sforza di coglierne l’essenza e chiuderla in una
definizione. Negli ultimi tempi vi si son provati critici di
grande levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di cui non
disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti giovano indubbiamente
alla comprensione della poesia L.ana; ma solo in quanto ne scoprono alcuni
aspetti. 11 loro comune difetto è quello di trascurare la verità,
che io ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho creduto opportuno
prender le mosse. Trascuranza il cui effetto è questo: che il critico non
sente la necessità di risalire sino alla sorgente da cui la poesia L.ana
sgorga, e in cui soltanto è possibile scorgere l’unità della sua
ispirazione e rendersi conto della varietà dei motivi in essa dominanti.
Così accade che si aprano i canti e le prose del L., e si dica. Nelle
prose, manco a dirlo, non c’ è poesia. C’ è una pretesa filosofia, che
è una filosofia per modo di dire. Lambiccatura di cervello che si
sforza di dimostrare sistematicamente uno stato d’animo personale; e
perciò si mette fuori di questo stato d’animo; e quindi riesce amaro,
falso, estraneo al vero e profondo sentire dello stesso scrittore, e
perciò freddo, sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna
distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o versi in cui il
poeta trova se stesso e parla serio e commosso; e lì è il poeta; il poeta
le cui parole non si dimenticano e tornano da sé a risuonare nell’animo,
a commuoverci col calore e la passione della vita che ogni uomo vive
e sente. Ma ci sono negli stessi canti poesie giovanili rettoricamente
patriottiche; ci sono poesie filosofiche non meno fredde e artifiziate
delle prose: ci sono pezzi ora- torii, in cui il poeta cerca l’effetto e
pensa al lettore e non si dimentica nello schietto moto della sua
anima Manca qua e là negli stessi canti più felici il caldo di
queir ispirazione, che s’apprende immediatamente all’animo di ogni uomo.
Risorge il ragionatore a freddo che vede il mondo dall’angustissimo foro
che le sciagure fisiche e le tristi condizioni personali gli han
lasciato aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta
che accoglie beato nel suo petto la voce naturale del mondo e il vasto
respiro delle cose. £ fortuna se alla
prova di questa critica si salva qualche frammento della poesia del L..
Ma si salva davvero ? Io vorrei invitare questi critici a
ristampare L. purgandolo da tutte le scorie della sua poesia, per darcene
il fiore, un’antologia; contenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa
grazia. Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema-
mente difficile, se non impossibile: poiché non solo il significato di
ciascun verso risulta dal contesto a cui appartiene, e ogni strofa ha il
suo valore nel complesso del componimento; ma, si sa, ogni parola ha
sempre un accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quell’accento
non si può sentire se non nel ritmo dell’ insieme. Isolare una parola è
impresa vana ed assurda. E se si crede il contrario, ciò accade perché in
realtà quella parola che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e
la fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato, in cui
non è più la parola di quel poeta, ma l’espressione del nostro
animo. L. non è soltanto il poeta degl’ idillii, dove il suo petto
si allarga e s’inebria del profumo della natura, e il suo cuore batte
all’unisono col grande cuore del mondo, commosso dal senso della vita che
ride a primavera nei campi, brilla a notte nel mite chiarore della luna,
imporpora il viso alle fanciulle innamorate, tuona tra le nubi nell’
infuriar della tempesta, e ridesta ad ora ad ora negli animi stanchi e
delusi la speranza e la dolcezza dell’amore. Il L. è anche Tristano ed
Eleandro; ed è Copernico e Ottonieri; ed è Colombo e Tasso visitato nel
mesto carcere dal suo Genio familiare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’
Islandese al cospetto della Natura dal volto mezzo tra bello e terribile; ed è
il gallo silvestre che sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta
e col becco il cielo, e riempie del suo canto l’universo e dice di questo
« arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale » che, « innanzi di
essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi ». E insomma il Leopardi
pacato e placato nel sentimento solenne e religioso del dolore e del
mistero e della vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’ intima
soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni travagho c gustano una
beatitudine divina, ancorché confusa a certo mistico senso del proprio
dissolvimento nella vita universale. Ed è anche il poeta che come
italiano vede le colonne e i simulacri e le ruine della grandezza antica, ma
non vede più la gloria e le armi dei padri; e non sa rivolgersi indietro
a (juella schiera infinita d’immortah, che onorarono già la nostra terra,
senza pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore la
disperazione di Bruto per l’impotenza della virtù sconfitta dalla
perversa fortuna e lo strazio della misera Saffo, spregiata amante, vile
e grave ospite nei superbi regni della natura bellissima. Ma non sì che
l’animo non gli si esalti nell’ idea della guerra mortale che il
prode di cedere inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno
fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si sentirà sparso a terra
il velo indegno, di emendare il crudo fallo del cieco dispensator dei
casi. E anche l’uomo che si leva col pensiero al di sopra della ferrea
vita e sentendo che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero,
si compiace d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini delle
mortali e delle eterne cose] e trae gli ozi in questo speculare. E in fine
l’uomo che si rifugia con questo altissimo sentimento della invitta
potenza del pensiero umano nella rocca inespugnabile della noia: di
questo che egli dice « in qualche modo il più sublime dei
sentimenti umani », poiché « il non poter essere soddisfatto da
alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare
l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e la mole maravighosa dei
mondi, e trovare che tutto è ])oco e piccino alla capacità deU’animo
proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito,
e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che
sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di
nullità, e patire mancamento e vóto, e però noia, pare a me il maggior
segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. E perciò
anche L., nel colmo della sua delusione, può giungere a fermare in se
stesso ogni desiderio e ogni moto, a disprezzare perfino se stesso, come
la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V
infinita vanità del tutto: e, pur caduto l’incanto che gli fece vedere e
amare in una donna mortale la Dea della sua mente, pur vedendo ormai
nella propria vita una notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare
al suo fato Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta nella
coscienza di se medesimo: su l’erba Qui
neglùttoso immobile giacendo, Il mar, la terra e il ciel miro, e
sorrido. Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi
della poesia L.ana, per restringerci al dolce gusto di quell’
idillico che è la prima e immediata forma di questa poesia, noi avremo sì
elementi di una poesia squisita, ma perderemo la poesia propria del L..
Nella quale quella prima forma è solo uno degli elementi del dramma
e del fiero contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia L.ana per
l’appunto consiste. L’i dilli o è certo alla base di L. poeta. Ne
risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario, nello Zibaldone, nei
Canti, nelle Operette morali. Se volete rendervi conto della natura dell’
idillio, come L. r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito, quei
quindici versi che gittano la fantasia del Poeta al di là della siepe
in spazi interminati, sovrumani silenzi e profondissima quiete:
dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in sé e annichilano la voce
del vento che stormisce tra le piante e il suono delle lotte e delle
fatiche umane: Così tra questa Immensità s’annega il pensier
mio E il naufragar m’ è dolce in questo mare. L’uomo scioglie
il suo pensiero, ond’egli riflettendo si distingue e si oppone alla
natura, e si confonde con essa. Ricordate il Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia, che dice alla sua greggia: Quando tu siedi all’ombra, sovra
l’erbe. Tu .se’ quieta e contenta; E gran parte
dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra
l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno
spron quasi mi punge Si che, sedendo, più che mai son lunge Da
trovar pace o loco. Nell’ Inno ai Patriarchi il Poeta rammenta
l'antico mito della colpa che sottopose Vuman seme alla tiranna
Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce all’ irrequieto ingegno
dell’uomo la prima origine dei suoi dolori. La noia, la sublime noia, è
il privilegio del pensiero. Finché la riflessione non è sorta, e il
pastore errante non è ancora in grado di domandare alla luna il fine di tanti
moti, e che sia Questo viver terreno. Il patir nostro,
il sospirar che sia; Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno
.‘Vd ogni usata, amante compagnia; egh può esser queto e contento
come la sua greggia. Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi,
sentirsene fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di
tutto: non aver più né contentezza né pace. Il L. intanto sa bene
che senza pensiero non c’ è grandezza. Perciò in uno de’ suoi dialoghi la
Natura dice a un’Anima. Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta
e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e
infelice. Perciò il Poeta dice ai « nuovi credenti » che non credono al
dolore: A voi non tocca DeU’umana miseria alcuna parte,
Ché misera non è la gente sciocca. Dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia
alcuna Kon è dagli astri alcun poter concesso. Non al dolor,
perché alla vostra cuna Assiste, e poi sull’asinina stampa 11 pie’
per ogni via pon la fortuna. E se talor la vostra vita inciampa.
Come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio Il non sentire e il non
saper vi scampa. Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio
Rompon l’alme ben nate. Ma se il pensiero è la sorgente del dolore,
bisogna pur distinguere tra pensiero e pensiero. E anche questo è
avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è la stessa natura deU’uomo ;
deiruomo che sente e crede nell amore e nella virtù ; che sente e crede
nella bellezza della natura e della vita; che spera e apre l’animo alla
gioia delle illusioni, che tali si dimostreranno al cimento della esperienza,
ma che la natura stessa risusciterà sempre dal fondo del cuore umano a
rendere amabile o almen sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un
altro pensiero, che si sovrappone a questo primo e lo critica e lo
demolisce e lo irride, e, scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta
lo sconforto nel cuore umano e lo inonda d’immedicabile amarezza. Non
occorre pertanto che l’uomo si abbrutisca come il gregge per sottrarsi al
dolore. Può essergli simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura
e godere del benefizio di essa, se si abbandona, per dir così, al
pensiero naturale, e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha
dati. Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva
che è propria di tutti gli esseri naturali, senza che questa natura sia
sconvolta o turbata dal suo irrequieto ingegno. Così fa il fanciullo,
così tutti gli spiriti semplici e sani. Questa è la giovinezza sempre
rinascente del genere umano; dell’anima aperta alla speranza e
fortificata dalla fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se
stesso al mattino sul primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni suo giorno,
come d’ogni nuovo periodo della sua vita « Il primo tempo del giorno »,
canta anche il gallo silvestre « suol essere ai viventi il più
comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella mente pensieri
dilettosi o lieti- ma quasi tutti se ne producono e formano di
presente perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia
alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o
sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mah. Onde se
alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato daUa
disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza
ciuantunque cUa in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli
propri, molte cause di timore o di affanno, paiono in quel tempo minori
assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce
del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso,
come effetto di errori e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla
vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla
giovanezza. Cresce l’esperienza della vita, sopraggiunge la riflessione, la
speranza dilegua: sottentra il dolore e la noia: tanto più acuto quello,
tanto più grave questa, quanto più viva fu la speranza e ardente la fede
nella vita. Quindi la grande importanza del momento idillico, o
giovanile, spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del L.,
accentua poi il momento negativo del distacco e della opposizione, che è
il momento del dolore. Questo dolore è materiato, si può dire, dalla
stessa dolcezza dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione non avrebbe mai
il suo significato lirico se non corrispondesse a un’affermazione
vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così bella agli occhi del
Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel fondo del suo cuore, egli si duole
tanto di non possederla. Al disperato affetto di Saffo non arride
spet- tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto negli occhi
e nel petto; Placida notte, e verecondo raggio Della cadente
luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del
giorno; oh dilettoso e care Mentre ignote mi fur l’erinni e il
fato. Sembianze agli occhi miei. Del resto questo molle spettacolo
non fugge da’ suoi occhi senza che questi si volgano desiosi ad altri
spettacoli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo. Noi r insueto
allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido si voi ve E per li
campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando il
carro. Grave carro di Giove a noi sul capo. Tonando, il
tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar
giova tra’ nembi, e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o
d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira
dell’onda. Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di
questa natura di cui ella si vede prole negletta:, Bello il tuo manto, o divo
cielo, e bella Sei tu, rorida terra. A me non ride
L’aprico margo, e dall’eterea porta Il mattutino albor; me non il
canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi Il murmure saluta: e
dove all’ombra Degl' inchinati salici dispiega Candido rivo il puro
seno, al mio Lubrico pie’ le flessuose linfe Disdegnando
sottragge, E preme in fuga l’odorate spiagge. GkktIx<s,
Manzoni e L. Bruto minore, fermo già di morire, percote l’aura sonnolenta
di feroci note. Ma tra queste note se ne odono di soavi, affettuose, per
quanto solenni, come queste: E tu dal mar cui nostro sangue
irriga. Candida luna, sorgi, E l’inquieta notte e la
funesta All’ausonio valor campagna esplori. Cognati petti il
vincitor calpesta, Fremono i poggi, dalle somme vette Roma
antica mina; Tu si placida sei ? Tu la nascente Lavinia prole,
e gli anni Lieti vedesti, e i memorandi allori; E tu su
l'alpe l'immutato raggio Tacita verserai quando ne’ danni Del
.servo italo nome. Sotto barbaro piede Rintronerà quella
solinga sede. Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e
l’augello. Del consueto obblio gravido il petto. L’alta mina
ignora e le mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre. Al mattutino canto Quel
desterà le valli, e per le balze Quella r inferma plebe
Agiterà delle minori belve. D’altra parte, fin da quando il
Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed eternamente
giovanile della santa natura e del mondo, contro cui si volgerà sempre
più risentito e dolorante, egli sente nel petto Nell’ imo
petto, grave, salda, immota Come colonna adamantma, quella
noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte Carlo Pepoli. E
nello stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri piccoli e
grandi idilli che altro, infine, si canta se non il dolore ? Dolce
e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli
orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna
mia. Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la
notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol soimo Nelle tue chete
stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai né pensi Quanta
piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che si
benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica
natura onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi
disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di
pianto. La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi e lo
stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna formano lo sfondo
del quadro, in cui risalta la personalità di quest’uomo, a cui la
speranza è negata e i cui occhi non brilleranno mai se non di lagrime.
L’amarezza di questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna
sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a lei. Fantasmi e
sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono alla mente del Poeta soltanto
per fargli sentire che egli ne è escluso: non io, non già eh’ io
speri, .à.1 pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna.
Si getta per terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua
nella gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione
che l’inaridisce: Ahi, per la via Odo non lungo il solitario
canto Dell’artigian, che riede a tarda notte. Dopo i sollazzi, al
suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non
lascia. L’artigiano probabilmente non fa questa malinconica
riflessione. Probabilmente egli, come la donna, rimembra i sollazzi del
giorno, la cui memoria non è spenta e basta tuttavia a riempirgli e
consolargli l’animo. Ma su quel mondo festivo e gorgogliante ancora di
sensazioni dilet- tose il Poeta riversa l’angoscia fredda del suo cuore
desolato. E altrettanto si i)uò osservare di tutte queste sue
poesie, che L. stesso definì idillii, e in cui più forte risuona la corda
dell’animo commosso e vibrante della stessa vita del mondo.
Citerò ancora il primo periodo della Vita solitaria che
comincia; La mattutina pioggia, allor che l’ale Battendo
esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’afìaccia
L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce I suoi tremiili rai fra le
cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi
risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli
augelli susurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge
benedico; per rivolgersi subito contro le cittadine infauste mura,
e per concludere; In cielo. In terra amico agh
infehci alcuno E rifugio non resta altro che il ferro.
Principio idillico, conclusione tragica. Tragica quanto è idillico
il principio. I due termini si corrispondono e si congiungono insieme in
un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione e l’amore per la
natura, per la vita, per la donna, ])er la bellezza, per la forza
magnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er la patria, per
i parenti, per gli amici, per tutto ciò che rende amabile e santa la
vita, e non intenderete più lo strazio delle sue delusioni. Prescindete
dal fermo convincimento, che la sua filosofìa gli ha piantato nel petto,
della arbitraria soggettività degli ideali in cui l’uomo, non ancora
caduto in preda al pensiero, crede provvidenzialmente; chiudete gli occhi
sull’amarissimo gusto con cui egli, tornando sempre ad esaminare i suoi
pensieri e la vita e il proprio essere e il fato universale degli uomini,
ribadisce sempre quel suo convincimento; e non potrete più sentire il
tumulto con cui il suo cuore s’attacca a questa vita fallace e il tremito
giovanile e sto per dire virgineo con cui tutto il suo essere si stringe
al mondo, che non può, malgrado tutto, non amare. Leggete II
pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte del Poeta. Quel
pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è gioia ed è dolore. Quella
donna, per cui egli ha vaneggiato, ma il cui incanto è caduto, risorge nella
sua memoria e nel suo cuore superba visione, sua delizia ed erinni'. e
l’angehca sua forma, sempre viva e presente, torna sempre a imprimergli a
forza nel fianco lo strale, che già lo fece per tanto tempo
ululare. L’atteggiamento negativo ed ostile, quando non si
scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e significato, si può intendere
e s’intende anche in quelle forme di fredda ironia e di affettata
irrisione, che assume in qualche raro tratto dei Canti e in parecchie
delle Operette morali. Di cui si è potuto parlar con sì distratta
intelligenza da vedervi lampeggiare non so che sorriso cattivo e sinistro:
mentre chi legge ed ama L., sa che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma
questi critici sono i critici del frammento. Si fermano a una
pagina delle Operette L.ane, e non curano di guardarne l’insieme; e
così si lasciano sfuggire quella vivente unità organica, da cui esse
nacquero tutte ad una ad una, sotto la stessa ispirazione, nel pensiero e
nel sentimento dell’autore. Così vedono Momo, i sillografi,
Stratone; ma non vedono il principio e la fine del libro. E si
lasciano sfuggire il significato e l’accento del mito iniziale, la
Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per- v'asa di una
commozione contenuta e pudica di un amore gentilissimo; come si lasciano
sfuggire le meditazioni finali di Eleandro e di Plotino, tutte umanità ed
affetto. Non vedono perciò lo spirito complessivo e centrale e
quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia, che abbraccia
uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti più duri, più pungenti, più
amari, onde l’animo del Poeta è colpito allo spettacolo del freddo
vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei due opposti
motivi, che si fondono insieme e infondono nello spirito del L. l’impeto
della sua lirica sublime. La quale nel momento stesso che pare prostri
gli animi nel più disperato dolore, li solleva, conforta ed esalta,
aspergendoli di non so che affettuosa soa\ ita. Idilho e dolore. L’uomo
che vive lietamente e serenamente la vita; e l’uomo che diffida di essa,
e se ne apparta ed estrania; e fattosene spettatore deluso e sconsolato,
sente dentro di sé un vuoto infinito. Due cuori diversi, ma non
posti l’uno accanto all’altro, bensì unificati in un cuore solo. Questa
tragedia, che non è ottimismo, né ])cssimismo, ma il commosso e serio concetto
della nobiltà, del valore e della superiore letizia della vita,
tremenda insieme e adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 essenza
della poesia L.ana. In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma L.
sa, e soprattutto sperimenta in se stesso, che quel pensiero che ferisce,
sana esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di
tutte le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è
lo stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora rinverdisce
di nuove fronde. Non si può negare che esso faccia guerra continua alla
nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la
fede e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ; e
dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna, la quale tenta
d’immergervisi e sentirne il refrigerio, sottrae disdegnoso le flessuose
acque, e fugge e s’affretta per le piagge odorate. Se non che
questo pensiero devastatore e distruttore della originaria unità dell’uomo
con la natura, è esso stesso una nuov'a natura: è la natura di quell
anima grande perché infelice, e infehee perché grande, onde il
Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in verità sempre che
il pensiero non si guardi dal di fuori, ma si pensi, si attui, si viva,
esso non è più nulla di estraneo alla vita, ma è la vita stessa. E in
esso, ancorché rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più aride,
rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia.
Allora, ecco, il L. acquista coscienza della felicità superiore in cui si
purifica e rinvigorisce il suo spirito attraverso al pensiero e al canto;
poiché (come egli dice) « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e
la potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e nobiltà
dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e
fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora egli
sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce naufragare, è contenuto
nel suo pensiero, che lo abbraccia spaziando più oltre. Allora egli,
piccolo ed esile fiore sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore,
s’inebria del profumo della sua poesia, che consola il deserto.
Allora egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna gli
può strappare, nel demone divino e onnipotente che fa insieme la sua
infelicità e la sua grandezza, la gioia e il fervore della vera vita; in
cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende l’amcre
con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riattaccano alla vita e han
la forza di vivere e di morire. A Porfirio che a conclusione d’un
rigoroso ragionamento si vuol togliere la vita, Plotino ammonisce che «
non dee piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere secondo
ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro chi non cerca se non
la utilità propria, e si gitta, per cosi dire, dietro alle spalle i suoi
prossimi, e tutto il genere umano. Uomo chi l’amore di se medesimo
pospone all’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini, è
proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ? O non ci sono, per
dir così, due ragioni: una, inferiore, che ci trarrebbe al suicidio
attraverso il più sordido amore di noi medesimi, e una superiore, che ci
libera dal giogo di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini
che ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non è la
natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità che soffre ed ama e
canta. Quale in notte solinga Sovra campagne inargentate ed
acque. Là 've zefiro aleggia, E mille vaghi
aspetti E ingannevoli obbietti 1 Operette. Fingon l’ombre
lontane Infra Tonde tranquille E rami e siepi e
collinette e ville; Giunta al confin del cielo. Dietro
Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’ infinito seno Scende la
luna; e si scolora il mondo; Spariscon Tombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente
luce. Che dianzi gli fu duce. Saluta il carrettier dalla sua
via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età mortale La
giovinezza. La luna è tramontata, e il carrettiere canta. La giovinezza si
dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto. In questo canto, nella
sua mesta melodia, è il più alto segno dello spirito del Poeta. Qui la
sua poesia. Conunemorazione centenaria letta alla R. Accademia
Nazionale dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata, oltre che
ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i» lugUo dello stesso
anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo L. (Firenze, Sansoni Tra
pochi giorni sarà un secolo dalla morte di L. Secolo, segnatamente per 1’
Italia, pieno di grandi eventi ; storia mossa e agitata da fedi e
interessi in massima parte estranei all’animo del L., anzi
osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra filosofia, altro uomo. E gli
effetti sono stati così cospicui, così importanti, anche secondo il modo di
vedere del L., da riuscire un’aperta condanna delle sue convinzioni
e de’ suoi giudizi storici. Secolo, si può dire, anti-L.ano, culminante
in questa Italia, potente, imperiale, creazione audace della stessa
Italia che alla fantasia giovanile del L. apparve inerme, anzi di catene
carche ambe le braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la
faccia nascosta tra le ginocchia, piangente. Eppure lungo questo
secolo la fama del L. è venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in
Italia ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza
della sua poesia, della sua anima ha acquistato d’anno in anno, e quasi
giorno per giorno, di penetrazione, di comprensione e di intima simpatia a mano
a mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una coscienza
più seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze
risorgevano a dignità civile e politica. Scendevano quindi in campo
contro gli oppressori e li affrontavano nei congressi, e accordavano
rivoluzione e forze conservatrici dimostrando maturità di accorgimento e
di patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano
dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva,
operante e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto
sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una nuova scienza, una
nuova cultura, adeguata all’altezza dell’assunto politico; e creavano un
esercito nazionale; e sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla
vita economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e
creavano le scuole, organizzando tutto un sistema nuovo di pubblica
istruzione e portando via via la luce neUe menti delle plebi abbandonate
da secoli all’ignoranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di un
sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte le
energie individuali si venivano educando al senso e alla tecnica dello
Stato; e infine, in una riscossa della coscienza nazionale che si era venuta
formando negli animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee religiose
sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più grande guerra della
storia; combattevano con grande onore, e contribuivano più d’ogni altra
nazione alleata alla vittoria finale. E dopo questa prova stupenda dell’antico
valore, arditamente si accingevano con una profonda rivoluzione politica e
sociale a fare una nuova Itaha e una nuova Roma. Quanto cammino! E quanta
vita in quella moribonda Italia, di cui parlava L.! Eppure,
dicevo, il miracoloso progresso di quesb cento anni, lungi
dall’allontanare 1’ Italia dal L., r ha portata sempre più vicino a lui,
a misurare la sua grandezza. La bibliografia L.ana è una delle più
ricche tra quante se ne siano formate intorno ai maggiori poeti e
pensatori itaUani, da gareggiare con la dantesca. Segno visibile del
vasto interesse che ha suscitato e suscita la personalità del L. con i suoi
scritti e con i casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi
alberi che soprastano con le loro alte cime al vento, da De San-
ctis a Carducci e a Pascoli, per non citare viventi, e di fitta
boscaglia pullulante per tutto, ai piedi dei grossi tronchi. Intorno al L.
non pure letterati, deside- sori di esattamente conoscere tutti i
particolari della biografia e dello svolgimento graduale del genio, e di
risolvere tutti i problemi che lo studio di tal materia fa nascere; ma filosofi
e storici della filosofia, poiché il L. ebbe il gusto degli alti concetti
speculativi, e nel suo stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri
di dottrine celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme
scienziati (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in sospetto
che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta derivino da non so qual
limite somatico; sospetto nascente da improvvisate teorie e appoggiato a
improvvisate osservazioni di fatto; ma fecondo tuttavia di costruzioni e
interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili tuttavia a chi voglia
farsi un pieno concetto del lavoro compiuto in questo secolo intorno al L..
Fortunatamente, peraltro, se ci sono state deviazioni ed eresie critiche
e storture di metodi materialistici suggeriti da pigrizia
intellettuale di letterati ottusi, o da presunzione pseudo-scientifica di
cervelli rozzi e ignari dei rudimenti di qualsiasi serio concetto intorno ai
valori dello spirito, ci sono stati pur saggi di quella critica
magistrale che attraverso le forme storiche e letterarie e i conseguenti
atteggiamenti della espressione artistica sa scoprire il principio
profondo dell’ ispirazione, che è l’anima del poeta e 1 essenza di
quell’eterna poesia che lo fa immortale. Critica che in Italia, in questo
secolo, da L. a noi, ha avuto esempi da fare epoca, e che hanno infatti
educato nell’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per
raggiungere il poeta là dove egli e poeta. Così in questa selva
della letteratura L.ana noi non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo
di questo secolo anti-L.ano si può dire che egli sia stato
prima scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno dei
più grandi spiriti della storia del mondo, e come il creatore della più
intensa poesia che si sia prodotta mai in Italia. Fu scoperto quando un
nostro grande critico, che lo aveva conosciuto di persona, gentile e mansueto
come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti, e acutamente
investigato lo spirito che ci vive dentro, non poteva paragonarlo allo
Schopenhauer senza sentire la infinita differenza tra il pessimismo amaro
del filosofo tedesco e il pessimismo sui generis del poeta
itahano. L., dice, produce l’effetto contrario a quello che si
propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà,
e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne
accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che
non ti senta migliore; e non puoi accostar tigli, che non cerchi innanzi
di raccogherti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo
cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un
avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo
amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto
dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita.
E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al Quarantotto,
senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore. Atteggiamento
contradittorio ? Lo aveva confessato il L. medesimo, in quel libro in cui
più freddamente si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli
occhi dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza
indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e degna di esser
vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove esce candidamente a dire « che
non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nuUità delle
cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non
odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai; benché
queste disposizioni dell’animo siano ragionevolissime e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata
leggermente la disposizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in
un subito, per cagioni menomissime e appena possibih a notare;
rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e
le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne
di qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,
al senso dell’animo ». Benedetto «senso deU’animo», che salva
l’uomo dal sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché
sente di dover affermare, come fa L. Sono nato ad amare, ho amato, e
forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva, sohto e
pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di patimento agli
altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire : <( Se ne’ miei scritti
io ricordo alcune verità dure e triste, o jier isfogo dell’animo, o per
consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia negli
stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di
(juel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di
noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà
di azioni, o perversità di costumi; laddove, per Io contrario, lodo ed
esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili,
forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato;
quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che dànno pregio alla
vita; illusioni naturali dell’animo; e infine gli errori antichi, diversi
assai dagli errori barbari; i quali solamente, e non quelli, sarebbero
dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia ».
Così aveva pensato quando scriveva con animo di credente il Saggio
sopra gli errori popolari degli antichi. Così continuava a pensare, da
miscredente, sette anni dopo, nella canzone Alla primavera, o delle
favole antiche. Non si può credere al Poeta, quando, raccogliendo
il succo dell’amarissima esperienza amorosa fiorentina e assaporandone il
fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel '33 quegli accenti disperati ed
empi; In noi di cari inganni Non che la speme, il
desiderio è spento. Amaro e noia La vita, altro mai nulla ; e
fango è il mondo. Al gener nostro il fato Non donò che il
morire. Ornai disprezza Te, la natura, il br\itto Poter
che, ascoso, a comun danno impera, E r infinita vanità del
tutto. Momento satanico, ma un solo momento: voce sì
dell’anima L.ana, ma che il lettore attento non può ascoltare se non
commista in armonia profonda a voci più alte che sgorgano da polle
maggiori; e che lo stesso Poeta ascolta dentro il suo petto come
espressione più schietta della sua propria natura. Alla quale egli
non può rinunziare, convinto che sia da fare « poco stima di quella
poesia che, letta e meditata, non lascia al lettore nell’animo un tal
sentimento nobile, che per mezz’ora gl’ impedisca di ammettere un pensier vile,
e di fare un’azione indegna. Il momento satanico ricorre spesso nel L..
Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di questa forza incoercibile
che egli sente insorgere di dentro a se medesimo, di fronte e a dispetto
della natura, ossia di questo universal meccanismo che regge il
mondo concepito, come L. aveva appreso a concepirlo, in maniera
rigorosamente materialistica: quel mondo in cui non c’ è posto per la
libertà, né quindi per la virtù, né per l’immortalità; per nulla di ciò
che forma l’essenza umana dell’uomo, e gli conferisce la forza
d’una fede, e la fiducia nella sua forza di contrastare alla natura,
di dominarla e farne strumento di una vita spirituale sempre più
ricca. Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta l’immagine enorme e
tremenda di quella Natura disumana, che stritola e annienta l’uomo e
tutte le pretese del suo audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli
si presenta nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove
all’uomo che aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita per
cento parti la Natura e la fuggiva da ultimo nel- r interno dell’Africa,
sotto la hnca equinoziale, in un luogo non mai prima penetrato da uomo
alcuno, ecco che gli interviene qualche cosa di simile che a Vasco
di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura
in petto e in persona: «Vide da lontano un busto grandissimo; che da
principio immaginò doveva essere di pietra, e a somiglianza degli ermi
colossali veduti da lui, molti anni prima neh’ isola di Pasqua. Ma
fattosi jiiù da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta
in terra, col busto ritto, appoggiato il dorso e il gomito a una
montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile,
di occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ». La
Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più che altrove la sua
potenza. E alle molte parole con cui 1 ’ Islandese si lagna delle
tribolazioni che affliggono l’uomo in questa vita a cui non egli ha
chiesto di nascere, risponde breve che « la vita di quest’universo è un
perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé
di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla
conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra
di loro, verrebbe parimente in dissoluzione ». Intanto sopraggiungono « due
leoni, così rifiniti e maceri dall’ inedia, che appena ebbero forza
di mangiarsi quell’ Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro,
si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo
caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che r
Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò un superbissimo
mausoleo di sabbia; sotto il quale colui disseccato perfettamente, e
divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e
collocato nel museo di non so quale città di Europa. Ma lo stesso tono
malinconicamente beffardo della prosa dimostra con qual animo il Poeta
accolga questa immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra
una dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace d’indagare questo mistero
enorme delbumverso non per addolorarsi del disperato destino deU’uomo,
anzi per riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri, filosofo
socratico, che con occhi di lince scopre tutto il vano e il doloroso
della vita, ma ne ragiona con impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al
di sopra e al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo L. non
fa la fine dell Islandese; non soggiace aUa natura, pasto dei leoni o
còlto improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda dall’alto e
sorride, e sente la propria umanità superiore nell’ intelligenza
vittoriosa e nello stesso potere di reagire al fato col sentimento. £ BRUTO
MINORE che dispregia n plebeo il quale, non valendo a cessare gli
oltraggi del destino, si consola con la necessità dei danni, quasi
fosse men duro un male senza riparo o non sentisse dolore chi è
privo di speranza. No, Guerra mortale, eterna, o fato
indegno, Teco il prode guerreggia. Di cedere inesperto.
È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso luta ad emendare
il crudo fallo del cieco dispensator de casi. A quel modo di emenda
a cui s’induce Saffo, L., a pensarci, non potrà consentire, come
sappiamo. Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non
devecedere. Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pensiero
si leva al di sopra del fato, intende, comprende e sorride;
Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me
bastante E conforto e vendetta è che su l’erba. Qui neghittoso
immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e sorrido.
Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si allarga allo
spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece battere un momento
il suo cuore di speranza e di felicità. Ma questa eroica grandezza non
basta; poco stante, nella piena maturità delle sue esperienze morali,
tornata la calma dopo la tempesta della patita delusione e del
sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su dal cuore la risposta
più vera che si deve al cieco dispensator dei casi. Quando, presso
Portici, mirerà i campi cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti d’
impietrata lava, là dove erano state liete ville e ricche messi e
armenti e città famose, e ora tutto intorno una ruma involve, il
suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra, che, quasi i danni
altrui commiscrando, di dolcissimo odor manda un profumo, che il deserto
consola: simbolo della sua poesia, del suo animo, che da questa spietata
empia natura sa che c’ è un conforto e un riparo nella umana compagnia
e nell’amore che la stringe insieme incontro al destino:
Nobil natura è quella Che a sollevar s'ardisce Gli occhi
mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al
ver detraendo. Confessa il mal che ci fu dato in sorte. E non
si rivolge stoltamente contro gli uomini, ma contro la natura che sola è
rea: che de’ mortali Madre è di parto e di voler
matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando. Siccome è il vero, ed ordinata in
pria L'umana compagnia. Tutti fra sé confederati estima Gh
uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta
ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della
guerra comune. Oh l’alta meraviglia del L., dopo circa un lustro di
sforzi fatti per affisarsi in quel concetto desolato del mondo che le
meditate dottrine gli mettevano innanzi, e spogliarsi d’ogni personale
sentire, e obliarsi nella speculazione dell’acerbo vero (non più acerbo del
resto a chi lo gusti, poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta,
ancor che tristo ha suoi diletti il vero) ; dopo avere scritto le
Operette che sono la filosofia del L., ma sono pure un momento essenziale
dello svolgimento della sua poesia; dopo avere scritto il prosaico
programma della sua vita avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo
aver preso quel freddo bagno nella filologia italiana, che furono per lui
le cure spese intorno alle Rime del Petrarca e la compilazione della
Crestomazia italiana. oh l’alta meraviglia, quando si sentì
rifluire in petto la vita ! Non che risorgesse la speranza; non che
la natura gli apparisse sott’altra luce; non che si accorgesse comunque
d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi. Ma insomma. Proprii mi diede i
palpiti Natura, e i dolci inganni. Sopirò in me gli
affanni L’ingenita virtù ; Non l'annullàr: non vinsela
Il fato e la sventura; Non con la vista impura L’ infausta
verità. Dalle mie vaghe immagini So ben ch’ella
discorda; che natura è sorda. Che miserar non sa Il mondo, in ogni
parte, è proprio qual egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette: Pur sento
in me rivivere Gl’inganni aperti e noti; E de’ suoi propri
moti maraviglia il sen. Da te. mio cor, quest’ultimo
Spirto, e l’ardor natio. Ogni conforto mio Solo da te mi
vien. Saffo ha ragione quando afferma; Mancano, il sento,
aH’anima Alta, gentile e pura. La sorte, la natura. Il
mondo e la beltà. Saffo però ha dimenticato il suo cuore:
Ma, se tu vivi, o misero. Se non concedi al fato.
Non chiamerò spietato Chi lo spirar mi dà. Ecco, Tanima
si calma, torna la vita con le sue attrattive, con la sua gioia; risorge
la poesia. Torna al cuore del Poeta Silvia, la giovinetta Silvia
splendente di bellezza negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa;
toma l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il
petto, al suon della sua voce; quando questa voce gli faceva lasciare gli
studi leggiadri per affacciarsi al balcone della casa paterna:
Mirava il ciel sereno. Le vie dorate e gli orti,
E quindi il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortai
non dice Ouel eh’ io sentiva in seno. E pur lo aveva detto la
sua lingua, dieci anni prima, in quel capolavoro che è l’idillio scolpito
nei quindici versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna,
della spietata natura, aveva intravvista, sentita, amata un’altra Natura;
l’immensa Natura, verso la quale dal limite stesso della prossima siepe
l’anima è lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica
dolcezza: interminati Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete ove per poco Il cor non si spaura. E
come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito
silenzio a questa voce Vo comparando; e mi sovvien l’eterno, E le
morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Cosi tra
questa Immensità s’annega il pensier mio; E il naufragar m’ è
dolce in questo mare. Di questo momento mistico del L. poco
s’è parlato; ed è momento di grande valore per la comprensione della sua
anima, che in quest’atteggiamento religioso placa definitivamente il fiero
contrasto tra la sua indomita soggettività e la realtà onnipotente
e infinita, in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in
una situazione idillica che, riportando l’individuo alla natura madre,
infonde in lui la fiducia rinfrancatrice, di cui l’uomo ha bisogno per
vivere, abbandonarsi all’azione e sentire nel proprio petto il respiro eterno
e r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli perciò, com’egh
stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i grandi idilli che dal canto
a Silvia vanno a quello del pastore errante dell’Asia, scritti tra il ’zq
e il ’30, anni della più potente espansione e della lirica più piena e
felice del Poeta, è la chiave di vòlta di tutta la poesia L.ana.
Quando si legge la lettera al Giordani : « Poche sere addietro, prima di
coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro
e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che
abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi
parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un
forsennato, domandando misericordia alla Natura, la cui voce mi parve di
udire dopo tanto tempo »; non si può non essere commossi da questo prorompere di
così alta vena mistica la cui scaturigine evidentemente si cela nel
centro vivo più remoto della personalità L.ana. E allora s’intende
l’invocazione ansiosa della canzone Alla primavera: Vivi tu, vivi,
o santa Natura ? Allora si ode quasi il lento respiro queto e
dolce e l’arcana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in
solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di
taciturne piante incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si
volve. La sua tranquilla imago il sol dipinge. Ed erba o
foglia non si crolla al vento; E non onda incresparsi, e non
cicala Strider, né batter peima augello in ramo, Né farfalla
ronzar, né voce o moto Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete; Ond’ io quasi me stesso e il
mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian le
membra mie, né spirto o senso Più le coramova, e lor quiete antica
Co' silenzi del loco si confonda. Allora, infine, si scorge il tono
vero del Canto del Pastore, così buio e pur così luminoso, così accorato e
pur così sereno, con i suoi perché disperati, e col suo funereo
sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale) e la sua alata poesia
: Forse s'avess’ io l’ale Da volar su le nubi, E
noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in
giogo. Più felice sarei. Poiché il pastore vede che la sua
greggia è beata, quasi libera d’affanno, e che, sopra tutto, tedio non
-prova, a differenza di lui, che non ha pace anche sedendo sopra
l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la mente e uno sprone
lo punge di dentro e non gli lascia riposo. E ogni animale giacendo, a
bell’agio, ozioso, si appaga. Vede il pastore che nel seno della natura è
la felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con l’irrequieto
ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile intrigo, in una fatica
vana senza speranza. Tutta la poesia del L. attinge in quel
punto mistico del ritorno alla gran madre la pace e la gioia.
Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni che gli
ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della casa paterna, « la
vista di quel lontano mar, quei monti azzurri ». Per lui, come pel
jiassero solitario, non sollazzi, né riso, né amore: ma cantare sì, come
ruccellino che dalla vetta della torre antica va cantando, alla
campagna, finché non muore il giorno; ed erra l’armonia per la
valle, mentre Primavera d’intorno Brilla nciraria, e
per li campi esulta. Si ch’a mirarla intenerisce il core.
L'uccellino non si tormenta col pensiero della giovinezza che passa e
della morte che s’avvicina: poiché di natura è frutto ogni sua vaghezza e
in lei non è affanno : e da lei sgorga pure il suo canto; il canto che
aduna nel cuore la dolcezza della primavera che fa brillare l’aria
e esultare le campagne. Anche uomini di alto intelletto, come
Capponi, han voluto dar sulla voce al L. per quel suo concetto della
infehcità che cresce negli uomini in proporzione della loro grandezza: ossia
del loro ingegno e sapere. Come se questo stesso lamento non uscisse
dalle Sacre Carte ! E gli han voluto far osservare che felice era certo
egh stesso mentre componeva i suoi canti, e riusciva ad essere L.. Come
se non fosse questo il significato di tutta la poesia L.ana, e la
sorgente del suo irresistibile incanto! L. lo sapeva bene, e sotto
la data del 30 novembre 1828 ne’ suoi Pensieri annotava: «Felicità da me
provata nel tempo del comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia
vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’ io vivo ! Passar
le giornate senz’accorgermene e parermi le ore cortissime, e
meravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle ». E
nell’agosto del '23 non aveva egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che
« ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza deU’umano
intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e
fortemente sentire la sua piccolezza? Tale il suo canto; il più squisito
frutto dell’operare della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir
così, a far la più alta prova del suo potere dentro il genio
dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova se stesso,
scoperta che abbia la fonte della sua vita: quel divino, che ha in sé e
gli colora il mondo delle beate larve, e lo solleva da questa vicenda
perpetua di nascere e di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze,
al regno immortale della vita dello spirito. E quando scopre questa
sorgente, egh è veramente lui, il genio; e sente l’amore che abbellisce e
conforta, e crede nella potenza e nella grandezza dell’umana
intelligenza, e torna ad amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con
le dolenti parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore
in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto dello spirito
che si ritrae in se stesso e nel sentimento del proprio valore, quale si
svela al contatto di quella natura eterna, in cui è il suo principio e
con cui perciò deve immedesimarsi per trovare le radici del suo
proprio essere. E il naufragar m è dolce in questo mare. Qui
la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua poesia, che i giovani
amano per l’amore della giovinezza che vi spira dentro; che gh uomini
maturi ed esperti della vita amano non meno per il lucido specchio
che essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso i
quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni disinganno; che
tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti o ignoranti, considerano come
uno dei doni più preziosi di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un
gran cuore parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono
per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria innegabile della vita e
della non meno innegabile azione dello spirito che affranca da ogni
miseria e infonde la fede per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro,
sacro per gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in
cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò faciU, com’
è al passero solitario il suo perpetuo canto : anima della sua anima.
Piccolo libro da leggere bensì non a brani e frammenti, ma intero,
affinché non sia frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi
insieme la sua dolce virtù consolatrice e animatrice. Conferenza
tenuta al Lyceum di Firenze e pubblicata nel volume di letture Giacomo L.
a cura di Blasi (Firenze. Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia di
Giacomo L. (Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un poeta, e di un
grande poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del pensiero di
questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per discreto che voglia
essere, si espone al rischio di toccare un tasto falso e di riuscire
uggioso e molesto fin dalle prime parole. Ripugna infatti al senso
poetico di cui ogni spirito bennato è più o meno riccamente dotato, questa
ricerca che ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima e
affatto arbitraria : questa ricerca di mettere quel che pensa un poeta,
sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta, e cioè un poeta vero, quel che
egli riesce a dire, ossia quello che egli sente, e sente profondamente,
al paragone degh astratti schemi in cui ogni filosofia va a finire.
Non già che i poeti non abbiano anch’essi la loro filosofia, un loro
concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’ hanno ! Non c’ è uomo che
non ne abbia una. Anzi con la vivezza e col vigore del suo sentire la
sostanza della propria vita spirituale, nessuno così fortemente come il
poeta afferma la propria fede e la oppone ad ogni più meditata
dottrina che si esibisca da coloro che passano per gh autorizzati
interpreti della filosofia; nessuno più di lui è convinto d’avere una sua
filosofia capace di sbaraghare tutte le altre. Ma le battaglie che il
poeta combatte e vince, si svolgono dentro al chiuso della sua fantasia.
E gh possono bensì procurare la gioia della vittoria, ma una gioia tutta
soggettiva come di chi in sogno viene a capo del suo più arduo desiderio
e coglie il fiore più bello del giardino della vita. E nella storia — che
giudica tutti gli individui e le opere loro, perché con la ragione
sovrana prima o poi valuta le ragioni di ciascuno — di fronte al
poeta rimane sempre il filosofo, che scopre le contraddizioni del primo, il
carattere dommatico e gratuito delle sue asserzioni, l’immediatezza
irrazionale della sua fede; e insomma i difetti e le debolezze del suo
pensiero ; e viene così a trovarsi nella impossibilità di scorgere la
grandezza della sua personalità se a misurarla non adotti un metro
diverso. E che cosa di più irriverente e ottusamente inumano e brutale che
accostarsi ai grandi uomini per guardarli da tutti i lati, anche da queUi che
lasciano scorgere i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico
aspetto in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è
grande uomo per il suo cameriere; e potrebbe parere che in fine il
filosofo sia, per tale rispetto, il cameriere del poeta; gli spazzola i
vestiti, gli allaccia le scarpe, ma non lo guarda mai in faccia.
Oh la servitù numerosa che sta intorno al poeta ! C’ è il filosofo;
ma c’ è anche l’antropologo e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e c’ è il
filologo ; schiere e schiere di scienziati, servitori dalle più vistose
livree; i quah, per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti
più elementari del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il
padrone, per entrargli nell’anima e scrutarne la passione, intenderla,
sentirla, parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta
confidenza! Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto
tutto questo servitorame, e sta sulle sue, per non confondersi, per salvare se
stesso e \fivere la sua vita superiore, di cui è geloso come del suo tesoro.
Talora può concedere un sorriso di umana indulgenza o signorile
degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti occhi che
penetrano negh ascosi pensieri — così laboriosi, così opachi, così grevi; — e
negh angoh della bocca il sorriso diventa ironia, sarcasmo. E allora la
povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli uomini che la
filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue incessanti inchieste e
pretese, diventa materia di satira. Allora, il L. esce in
un’osservazione di gusto volteriano, come questa che è nello Zibaldone. L’apice
del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria
inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio; consiste a
correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella
condizione in cui sarebbe sempre stato s’ella non fosse mai nata. E
perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna
dalla filosofia ». Osservazione che ama ripetere, dandola come un «suo
principio»: «La sommità della sapienza consiste nel conoscere la propria
inutihtà, e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella non
fosse mai nata: e la sua maggiore utilità, o almeno il suo primo e
proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto umano (s’ è possibile)
appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei nascimento ».
E in assai più nitida forma tornerà a ribadirla infine come uno de’
capisaldi delle sue più profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo
di Timandro e di Eleandro: «L’ultima conclusione che si ricava dalla
filosofia vera e perfetta, si è, che non bisogna filosofare ». Nei
Paralipomeni degli ultimi anni, anzi degli ultimi giorni della sua vita,
più amaramente dirà; Non è filosofia se non un'arte La qual
di ciò che l'uomo è risoluto Di creder circa a qualsivoglia parte.
Come meglio alla fin 1 ’ è conceduto. Le ragioni assegnando
empie le carte O le orecchie talor per instituto Con più d'ingegno
o men, giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova avere.
Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del L. chi si limitasse a
leggere questa sola ottava dei Paralipomeni, come chi si diverte a
ripetere col Petrarca. Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o
ignorando che PETRARCA continua; Dice la turba al vii guadagno
intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il L. infatti si ripiglia nella
seguente, e precisa, compiendolo, il pen- sier suo in questo modo:
Quella filosofia dico che impera Nel secol nostro senza guerra
alcuna, E che con guerra più o men leggera Ebbe negli altri
non minor fortuna, Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera
La mia mente oso dir, portò ciascuna Facoltà nostra a quelle cime il
passo Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso. La filosofia,
dunque, che il L. schernisce è quella teologica, come allora si diceva,
dommatica, spiritualistica; la filosofia della Restaurazione e del
Romanticismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni filosofia.
Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica, presuntuosa,
intollerabile alla mentalità L.ana perché in contrasto coi fatti e con le
necessità di ogni libera mente, proveniente, come pur quivi si dice,
da quella Forma di ragionar diritta e sana Ch’a priori
in iscola ancor s'appella, Appo cui ciascun’altra oggi par
vana. La qual per certo alcun principio pone E tutto l'altro
poi a quel piega e compone; cotesta filosofia non è satireggiata
qui propriamente dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o, se si vuole,
da un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è combattuta e
debellata dalla vera: ossia da quella che all’autore par vera. Neanche si può
dire quel che dice MANZONI degli avversari della filosofia respinta in tutte le
sue forme e in generale, quando osserva che anch’essi, questi
avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro filosofia,
servitori senza livrea. Il L. sa di avere la sua filosofia; anzi, per
cominciare ad intenderci, egli propriamente professa di averne due. Dico
cU più: senza r intelligenza di questa sua duphce filosofia si
rischia di fare, a proposito del L., di quella esegesi filosofica,
ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti fare, e che s’ è sempre
fatta fin dal tempo del L.; una filosofia infarcita di luoghi comuni e di
massiccia pedaneria: filosofia da camerieri che allacciano le scarpe e
non guardano in faccia. Con la filosofia cosiffatta va a braccetto una
critica che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non meno,
tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però della sua
poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una ragione di
metodo, che ritengo fonda- mentale. Ed è questa: che l’essenza della
poesia non è nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta
ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma negh occhi con cui
lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e vivere nel suo interno. Fuori del
quale ogni realtà, sensibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile.
Lì, nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo ha il
suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede o si pensa, o si può
vedere e pensare; e lì è la sorgente della poesia. Perciò una critica che
innanzi alle Operette morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e
reazionario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e per ciò
non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e cioè di positivo ed eterno,
è critica radicalmente sbaghata, che scambia le ombre con i corpi saldi.
Poiché le idee, una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima
assume verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse
partecipano e da cui traggono il loro significato vivente, sono
pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente, ma non {lotrà mai
abbracciare al suo petto. Nel caso del L. poi c’ è di più; perché,
come ho accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa, natu-
rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e che fa materia
di assiduo pensare e ispirazione altresì del suo canto, egli ha la
filosofia di cotesta sua filosofia. E in questa filosofia superiore che è
negazione della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito da
Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser quella, che
non bisogna filosofare; in questa filosofia superiore è il senso serio e
profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda
della filosofia, giudicata inutile anzi dannosa. Lo stesso L.,
teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima della
sapienza, la chiama, nello Zibaldone, «ultrafilosofia»: una
filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle cose, ci ravvicini
alla natura: filosofia naturale, spontanea, primitiva, barbara; più che alle
origini, si trova nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo
da capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della
filosofia L.ana contro la pretensiosa filosofia ottimistica alla moda di
Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e
predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e
tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e
che il genere umano allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i
più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo
comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco
meno che tutti i filosofi antichi e moderni ». Timandro ha concesso ad
Eleandro che tutti sono infelici; gli ha concesso la necessità
della nostra miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e
piccolezza della specie umana, e la naturale malvagità degli uomini; gli
ha concesso che in queste verità si assommi la sostanza di tutta la
filosofia; ma deplora egh che tali verità vengano divulgate col solo
frutto di spogliare gli uomini della stima di se medesimi («primo
fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e
distorh dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle
verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare
alla maggior parte degli uomini; e credo che facilmente consentireste che
debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute
nell’animo, non possono altro che nuocere. 11 che è quanto dire che la
filosofia si debba estirpare dal mondo. Dunque, non bisogna filosofare,
come s’ è detto. Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia
primieramente è inutile, perché a questo effetto di non filosofare
non fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima,
perché cjuella ultima conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e
imparata che sia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio
degli uomini dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi più
facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare ». Non si
può mettere in opera. Il che significa che rultrafilosofia — che è la
conclusione perfetta e perciò la vera filosofia — non estirpa e distrugge
l’altra, falsa o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è
quella che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi
resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado, quantunque insieme
con essa e al disopra di essa ci sia una verità certamente più umana e
degna dell’uomo, diretta a ricostruire quel che la prima ha
demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che si
conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto ragionare che
s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa della filosofia superiore
non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda
natura, che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà
mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la
verità assoluta, perché messaci innanzi dalla stessa filosofia quando sia
riuscita ad elevarsi fino alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur
non contraddire alle verità via via accertate e sempre più
strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile sistema,
bisognerà sì rassegnarsi a dire errori in sembianza di verità, illusioni,
fantasmi, tutte quelle altre verità che come tali si rappresentano
all’uomo il quale a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda
rivivere il mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primitiva,
felice, ridente, soffusa di una divina aura di giovinezza ignara e fidente.
L’uomo L. non può non filosofare; non può non passare attraverso la prima
filosofia; ma non può né anche non giungere infine alla seconda e superiore.
Dove egli ritrova tutto quello che ha perduto. Lo ritrova,
s’intende, com’ è possibile soltanto dopo averlo perduto; poiché
dimenticare quel che ha saputo e sa, non potrà mai ; a quel modo che può
tornar fanciullo un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e
le amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della virtù chi
abbia una volta bevuto al calice del bene e del male. Chi
distingue nel pessimismo L.ano due fasi o forme, la prima di un
pessimismo storico in cui tutto il male è frutto dell’ « irrequieto
ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi
regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai Patriarchi),
e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi uomini vittime
incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire l’unità fondamentale dello
spirito del Poeta, dov’ è, ripeto, il segreto della sua poesia; di quella
dolcezza che ci suona dentro alla lettura dei canti dal primo
all’ultimo, e in forma più palese e più sistematicamente determinata,
almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette morali: dolcezza che
vince, per così dire, tutta l’amarezza che negli uni e nelle altre si
riversa nelle più varie forme dell’anima di quest’uomo, che fu certamente
tanto grande quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta onda
della sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per avvolgere il mondo
stesso nella tenebra della disperazione, anzi per illuminarlo coi raggi
d’una indomata fede nella vita con i suoi ideali e con i suoi
entusiasmi. La verità è quella che ci viene apertamente attestata
nello stesso disegno delle Operette. Le quali cominciano col mito delle
origini della umanità governate dall’amore e finiscono nella conclusione
di Eleandro. Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste,
o per isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per
altro [e dunque egli ha sfogato, e s’è consolato e ora può parlare
con animo pacato e sereno], io non lascio tuttavia negli stessi libri di
deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo
vero, la cognizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine,
o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità
di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle
opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,
magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato; quelle immaginazioni
belle e felici, ancorché vane, che dànno pregio alla vita; le illusioni
naturali dell’animo; e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli
errori barbari. i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti
cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia. E più
tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e di Porfirio, dove l’accento
torna sull’amore come sovrana legge della vita e rintuzza la volontà
suicida dell’egoista giunto al fondo della disperazione della sua vita
senz’amore. Prima parola ed ultima, amore. Quella stessa che
risuona in fondo ai Canti, nella Ginestra. E contraddice certamente al
freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello Zibaldone, e delle Operette e dei
Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi credenti e insomma a tutto il contenuto
prosaico della poesia L.ana; voglio dire a tutto quel sistema di
filosofia che era, nel vocabolario del L., la verità in opposizione agli
errori: a tutto il complesso degli insegnamenti di quella filosofia che, per
altro, negli stessi Paralipomeni, dove più espressamente essa viene esaltata,
non impedisce al L. di uscire in quel famoso grido del cuore. Bella
virtù, qualor di te s’awede. Come per lieto avvenimento esulta Lo
spirto mio. Cotesta filosofia, non occorre esporla. Tutti la conoscono. E
quella concezione del mondo, che giustifica un empirismo assoluto. Lo
spirito vuoto; e tutto quello che in esso può mai trovarsi, un derivato
meccanico dall’esterno attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il
quale da chi tenga fermo al concetto delle sue esigenze imprescindibili,
non può non raffigurarsi dotato di liberta, e quindi appartenente a quel
mondo dei valori per cui è possibile un pensare logico che sia vero in
opposizione al falso, o un volere buono in contrasto col malvagio,
e un’arte creatrice di bellezza che si libri nel puro aere ideale e
sovrasti alla miseria di tutte le cose brutte; lo stesso spirito, dico,
tratto a sentirsi, nel vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto
nulla, in cui libertà e verità e virtù e bellezza non possono essere, in
fondo, altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione
ingenua e fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa realtà che si
rappresenta a un tratto tutta spiegata ncUo spazio e nel tempo,
materiale, risultante da infinite parti e particelle che si condizionano
a vicenda in guisa che ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le
altre; in un meccanismo universale, dove tutto quel che accade, è
fatale di una necessità che schiaccia e stritola ogni vana pretesa
dell’uomo che si ])rovi a mutare il corso del destino. Tutto. Anche il
sentimento che sboccia nel cuore degli uomini, e che soltanto
l’irriflessione e l’ignoranza ci possono far giudicare buono o cattivo; anche
il giudizio con cui ci s’illude di distinguere il vero dal falso. Anche
la volontà che non sceglie, come si favoleggia, tra bene o male, ma scoppia in
un senso o nell’altro con la stessa cieca necessità del fulmine nelle
tempeste della natura. La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La
natura, perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a ogni
razionalità (perché la ragione è discriminazione, scelta, libertà). Un
mistero. Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che
essa dice con tanta sicurezza, fosse possibile; come se cioè fosse
possibile un mondo in cui, se non altro, la verità sia una parola vana, e ci
sia nondimeno posto per l’uomo che, in mezzo a questo universale
meccanismo, nel mistero di questa tenebra profonda e per
definizione invincibile, abbia pure il diritto di affermare che la verità
sia proprio quella che egli asserisce ! Come se fosse possibile salvare una
verità qualsiasi dal naufragio d’ogni verità. Filosofia dunque
essenzialmente contradditoria, che nei filosofi empiristi, naturalisti,
materialisti, tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente
contraddizione, tra la ragione che si nega e la ragione che per negarsi
rivendica di fatto il proprio potere e valore. Filosofia accettata dal L.,
ma con un’anima che troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo
è naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito reagisce
ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e quindi al dolore, per non
aver coscienza di tale contraddizione. E questa coscienza è in lui
acutissima. L’uomo, pertanto, che dovrebbe prostrarsi di fronte alla
natura nel senso angoscioso del proprio niente, non piega, invece,
non s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se battezzate
fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione di tutto il suo
spirito nel senso gagliardo e tenace con cui l’apprende e lo ferma nel
cristallo della sua divina fantasia, si trasfigura: non è più il limite
della sua forza e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è grandezza
umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e infinita
potenza. Qui l’anima di L., qui il fascino deUa sua poesia.
La quale non trae la sua ispirazione centrale dall’astratto concetto di
quel crudo materialismo, che annienta l’uomo e fiacca perciò ogni
velleità di vivere a proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un
mondo qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo senso
profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno, che gli \aene dalla
sua « ultrafilosofia », dal bisogno di respingere come antiumana e contradditoria
alla incoercibile natura dell’uomo cotesta filosofia negativa e soffocante. Ora
è Bruto minore, nudo di speranza, ma prode, di cedere inesperti), neUa
sua guerra mortale contro il fato indegno, in atto di sfida magnanima
contro il Destino, che egU vince, violento irrompendo nel Tartaro: e la
tiranna Tua destra, allor che vincitrice il grava.
Indomito scrollando si pompeggia. Quando nell’alto lato l’amaro
ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride. Ora è la
misera Saffo, grave ospite di natura, estranea alla infinita beltà di
questa, consapevole del prode ingegno che pur le venne in sorte
assegnato, delle proprie virili imprese, del dotto canto, della virtù
insomma che può vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il
velo indegno ricevuto da natura, primo principio della sua
infehcità; e morire, ed emendare così «il crudo fallo del cieco
dispensator de’ casi. Ora è il Poeta stesso, che invoca la morte hberatrice. Ma
certo troverai, qual si sia l’ora che tu le penne al mio pregar
dispieghi. Erta la fronte, armato, E renitente al
fato. La man che flagellando si colora Nel mio sangue
innocente Non ricolmar di lode. Non benedir, com’usa Per
antica viltà l’umana gente; Ogni vana speranza onde consola
Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto stolto Gittar da me. O
che, stanco di sperare e disperare, sente in sé spento anche il
desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima disperazione e cliiudersi in un
superbo disdegno di se medesimo, della natura e di questa infinita vanità
del tutto. Nel disprezzo del brutto poter che, ascoso, a comun danno
impera. Ora invece, il Poeta s’accosta a questa Natura misteriosa, arcana, e si
scioglie in un mistico sentimento della sua vita infinita e divina.
Giacché si sa che il naturalismo è stretto parente della mistica, che
ugualmente oppone la realtà all’uomo al punto da non lasciargli più
modo di distinguersene e spingerlo perciò al desiderio d’immergersi e
immedesimarsi col tutto infinito che gli è davanti e lo attrae. E allora L.
ricompone il suo volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo
dolore, ossia quella sua soggettività solitaria e disperata di uomo che,
perduta la giovinezza, vede intorno a sé il deserto e il buio della sera
e deH’orrida vecchiezza, nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,
dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce gusto
dell’eterno: Così tra questa Immensità s’annega il
pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare;
de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe A pensar
come tutto al mondo passa e quasi orma non lascia; e il suono
delle umane glorie e degl’ imperi più famosi cede come il canto
dell’artigiano che riede a tarda notte al suo povero ostello poiché la
festa è finita: Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo;
e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante insieme e viva
divenutagli familiare: ed alla tarda notte Un canto che
s’udia per li . sentieri Lontanando morire a poco a poco; de
La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del meriggio presso all’ immoto
specchio del lago di taciturne piante incoronato gli fa obliare se stesso
e il mondo: e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né
spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica Co’ silenzi del
loco si confonda. Estasi; estasi mistica che fa risalire dal petto
il trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel canto Alla
primavera, 0 delle favole antiche: Vivi tu, vivi, o santa
Natura ? e quello anche ])iù antico della stupenda lettera al
Giordani, che convien rileggere: «Poche sere addietro, prima di
coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e
un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano
da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche, e mi parve di
sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato,
domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di udire dopo
tanto tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore allontana,
riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota nello
Zibaldone che « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,
ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della sua nota, della FILOSOFIA
inferiore. Egli stesso ha il pensiero a una diversa filosofia quando,
sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi si strisciano
sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano
robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo
laberinto della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sentimento,
di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una
eminenza, scorge d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che sebben
fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si
contenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura o « senso
dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della piccola ragione,
poiché ha bisogno della grande. La quale non s’illude di aver spiegato
tutto quando ha spiegato la natura, e non ha spiegato e si mette in
condizioni di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a
dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita umana. L’uomo,
che è poi colui che si propone il problema della natura, e senza del quale
{pertanto il problema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella mezza
filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia nel meccanismo della
natura e condanna alla schiavitù del nulla, ma che risorge in tutta la
sua libertà e nel suo valore infinito appena la grande ragione gh faccia
sentire la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna cosa »
infatti, come si legge nello Zibaldone « maggiormente dimostra la grandezza e
la potenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e
interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza » ; e
provare la gioia del comporre, del cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità,
essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa, è grandezza, eccellenza. E
perciò l’uomo non soggiace alla natura, e può non temere la morte, e può,
come la ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino
alito spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una forma
lapidaria che fa parere il suo detto quasi proverbio, che « nessun maggior
segno d’essere poco filosofo e poco savio, che voler savia e filosofica
tutta la vita. Verità infatti che merita di passare in proverbio tra i
filosofi. E pel L. vuol dire che nella vita non c’ è soltanto la
filosofia : c’ è altro ancora, che è poi sempre filosofia. La vera però,
che afferra la verità con mano robusta, non quella falsa che sola par
vera all’angusto intelletto del filosofo chiuso nel bozzolo del suo
intellettualismo. La quale FILOSOFIA, si ponga mente, una volta,
come s’è veduto, il Poeta la chiama ultrafilosofia; ma non è poi
altro propriamente che la sua personalità, il suo modo di vedere e di
sentire la vita, quell’ingenita virtù che prorompe nel Risorgimento,
quando l’anima si risvegliò e rivide meravigliata salire su dal profondo
i palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza, e il sentimento della
natura. Meco ritorna a vivere, La piaggia, il bosco, il monte; Parla al
mio core il fonte. Meco favella il mar ») : quella ingenita virtù, che gli
affanni poterono sopire; Non l’annullàr: non vinsela Il fato
e la sventura; Non con la vista impura l’infausta
verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che è, io dico, la
stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero la determina e
attua. Giacché io non vorrei che nelle parole, nelle formule, nei
concreti pensieri, come sistematica- mente si possono comporre ad unità
nelle esposizioni che l’autore non fece delle sue idee, e che, sempre a
fatica e non senza arbitrarie glosse, continuano a imbandirci quei
camerieri di L. che sono i suoi interpreti, pronti a sobbarcarsi a
scriver loro sulla FILOSOFIA di L. i volumi che questi non pensò mai di
scrivere; non vorrei, dico, si ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come
opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e
orientamenti Mi perdoni la grande e austera ombra del Poeta questa
parola cara oggi a certi spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno
che il Padre manda in terra, suonano a stormo per adunar gente e
catechizzarla tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e
disporla a cercare con essi l’orientamento che essi non riescono mai a
trovare. Xtnnznni. No. LE PAROLE, i pensieri più o meno frammentari
e sparsi, le sentenze assai spesso felicemente formulate non
possono essere pel critico altro che accenni, spie dell’anima del filosofo.
La cui individualità è caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo
atteggiamento, che è la concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella che,
conferendo all’uomo un carattere, non ci spiega tanto le sue parole,
spesso espressioni di cose pensate e non sentite, ma le azioni in cui
l’uomo opera come sente nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o
no ad averne coscienza in un sistema chiaro e bene organato di
idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singolare e inconfondibile
individualità si mamfesta e si fa conoscere non per quel che dice ma per
il modo in cui lo dice, non pel contenuto delle sue parole ma pel
colore che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con cui la sua
anima vi suona dentro. Stile, essenza della poesia d’ogni uomo. Sicché,
infine, a parlare degnamente della filosofia del Leopardi, non bisogna
ridursi alla parte del cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi,
dove la pupilla trema della commozione segreta: ascoltare il suo
canto, dove la sua filosofia è la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi. Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi nella filosofia italiana," per
Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Leopardi:
l’implicatura conversazionale – 1150 – implicatura – filosofia italiana – filosofia
maceratese -- Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice: “We don’t have at Oxford a ‘chip off
the old block’ as they have in Recanati!” -- Importante
esponente del pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi,
targa commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio
primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una
delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del
padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro
figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal
precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della
cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali
cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto
alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio
familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la
deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse
l'amministrazione della propria eredità. Dopo un primo progetto di nozze andato a
monte, sposa la marchesa Adelaide Antici, sua lontana parente. Il matrimonio fu
un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato dalla famiglia di Monaldo, in
base ad antiche dispute tra casati e per questioni economiche (mancanza di una
dote adeguata), che per manifestare la propria contrarietà non partecipò al
matrimonio, che venne infatti celebrato nella sala detta "galleria"
di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio di famiglia, dalle mani di Monaldo,
passò in quelle della moglie, a causa dei debiti del prozio che il conte non
riusciva a ripianare. Frutto di questa unione tra opposti caratteri furono
numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età adulta Giacomo, Carlo, Paolina,
Luigi, e Pierfrancesco. A causa della impossibilità di gestirli (dovuta alla
sua indole caritatevole verso i poveri, agli sperperi dei parenti e
all'invasione giacobina), l'amministrazione dei beni di famiglia passò nelle
mani della consorte, donna energica e severa; Monaldo poté così dedicarsi
totalmente alla sua passione, gli studi e le lettere. Tra i suoi molti meriti
vi è aver grandemente contribuito alla formazione del nucleo fondamentale della
biblioteca di famiglia dei L., nella quale il giovane Giacomo passò i suoi anni
di "studio matto e disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i
quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per metterli a
disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza recanatese,
come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima stanza".
L'impegno civico Angolo della biblioteca di palazzo L. con i ritratti di
L., Adelaide e Giacomo Il medico e naturalista britannico Jenner La sua
opera è rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione
dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno
riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita
politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.
Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore
dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo
dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in
tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi
principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la
Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di
Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di
strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno
abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e
delle attività teatrali. Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze
della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a
vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò
inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo
stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il
cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il
vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui
propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che svolgeva
personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di
"retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte
della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di
un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe
seguito. Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i
medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la
costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come scrisse
una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le sue idee
controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire il mondo
per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene presente
sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale» Morì il
celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi, la
perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto nella
tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a Recanati. Dei
molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e filosofici di Leopardi,
i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie correnti” usciti con lo
pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane, ovvero le iniziali di
"Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente un grande successo,
ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più lingue e divennero
notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma, ne informa il padre
in una lettera dell'8 marzo: «I Dialoghetti, di cui la ringrazio di
cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho più in proprietà
se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in mano.» Per
umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È probabile che con
quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali del figlio, che
giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede cristiana. In essi,
infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche controrivoluzione). Tra
le tesi sostenute, la necessità della restituzione della città di Avignone al
papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica a Luigi XVIII di Francia
per la concessione della costituzione (che violerebbe il sacro principio
dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma viene addirittura da
Dio"), la proposta della suddivisione del territorio francese fra
Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la difesa della
dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella lotta per l'indipendenza.
Risalgono alcune opere di satira politica: Monaldo era infatti ottimo satirico
e disseminava le sue opere di scherzi letterari. Tra esse, il Viaggio di
Pulcinella e le Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato
nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza (versione
digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite, ammonimenti ai fedeli
cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano «La Voce della
Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che Leopardi stesso
diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i 2000
abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità. Rimasero
inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua
Autobiografia: in quest'ultima la prosa di L. si arricchisce di leggerezza,
ironia e umorismo. Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non
amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna
consistette in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo
pontificio e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico
svizzero Il Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi
storici su Recanati, coltivati in gioventù. Opere digitalizzate Monaldo
Leopardi, La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano, presso
Francesco Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in latino
con le sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e dilucidata con
annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle
materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al popolo liberale da
don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella contrada della poca
pazienza. Rapporto con il figlio ritratto di Giacomo Leopardi. Nonostante
la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio illustre appare buono:
senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere orgoglioso della precocità del
ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad esempio il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi, si avverte ancora l'influenza delle idee del
padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero strade diametralmente opposte:
la crescente autonomia di pensiero di Giacomo preoccupava Monaldo. La
lettura del carteggio fra i due rivela una relazione affettuosa, soprattutto
negli ultimi anni. La lettera più sincera scritta da Giacomo al padre è quella
che quest'ultimo non lesse mai: si tratta della missiva datata luglio 1819,
quando il poeta progettava la fuga, e che non fu mai spedita, perché egli
dovette rinunciare ai suoi piani. «Mio Signor Padre. Per quanto Ella
possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti,
Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi
hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non
debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea
cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in
questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e
persistesse in quella irremovibilmente. Io so che la felicità dell'uomo
consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice
mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo.
Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande
azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla
conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.» Finalmente,
Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo saltuariamente. Da lontano, il
padre assiste alla crescita della sua fama nel mondo intellettuale italiano, ma
non riesce a comprendere la grandezza del figlio: disapprova la pubblicazione
delle Operette morali, scrivendogli in una lettera (perduta) le "cose che
non andavano bene", suggerimenti che nella risposta Giacomo promette di
prendere in considerazione, ma che di fatto non sono mai accolti. La
pubblicazione dei Dialoghetti di L. è causa di attrito fra padre e figlio.
Giacomo Leopardi si trovava a Firenze: nell'ambiente iniziò a circolare la voce
che fosse lui l'autore dell'opera, espressione delle tesi reazionarie, cosa che
egli fu costretto a smentire seccamente sul giornale Antologia di Vieusseux. Si
sfogò poi per lettera con l'amico Melchiorri: «Non voglio più comparire con
questa macchia sul viso. D'aver fatto quell'infame, infamissimo,
scelleratissimo libro. Quasi tutti lo credono mio: perché Leopardi n'è
l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore
sono io. Fino il governo m'è divenuto poco amico per causa di quei sozzi,
fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più nominarmi o essere nominato in
nessun luogo, che non sentissi dire: ah, l'autore dei dialoghetti.» In
toni decisamente più miti ne scrive poi a L. il 28: «Nell'ultimo numero
dell'Antologia... nel Diario di Roma, e forse in altri Giornali, Ella vedrà o
avrà veduto una mia dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei
Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia,
e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel
libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me. E
dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri
apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e infine mi son deciso a parlare, per
due ragioni. L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è
dovuto ad altri, o massimamente a Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello
degli altrui meriti. [ L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare
per convertito, né di essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato
mai né irreligioso, né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei
principii non sono precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e
ch'io rispetto in Lei, ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati
però mai tali, ch'io dovessi né debba né voglia disapprovarli.» Nelle
ultime lettere Giacomo esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai
toni formali a quelli affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima
lettera). Monaldo sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i
due rimaneva però ancora evidente otto anni dopo la morte di Giacomo, non accettando
lui le idee areligiose del poeta; la sorella di lui, Paolina, scriveva a
Marianna Brighenti: «Di Giacomo poi, della gloria nostra, abbiam dovuto
tacere più che mai tutto quello che di lui veniva fatto di sapere, come di
quello che non combinava punto col pensiero di papà e colle sue idee. Pertanto,
non abbiamo fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle sue opere, e
quando le abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le teniamo ancora,
acciocché per cagion nostra non si rinnovi più acerbo il dolore.» Su
richiesta dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, pochi giorni dopo la
morte del figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni biografici su
Giacomo, con aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore per la rottura
fra i due e l'incapacità del padre di capire la direzione intrapresa dal
figlio; il Memoriale si interrompe: "Tutto ciò che riguarda il tratto
successivo è più noto a Lei che a me", scrive infatti. Nonostante ciò,
Monaldo piangerà con dolore la perdita di Giacomo, al punto che quando redigerà
il proprio testamento, alla settima volontà scrisse: «Voglio che ogni
anno in perpetuo si facciano celebrare dieci messe nel giorno anniversario
della mia morte, altre dieci il giorno 14 giugno in cui morì il mio diletto
figlio Giacomo. Manetti, Giacomo L. e la sua famiglia, Bietti, Milano. La
famiglia Leopardi è protagonista del romanzo fantastico di Michele Mari Io
venìa pien d'angoscia a rimirarti. L., di Sandro Petrucci Monaldo In viaggio per Leopardi, Leopardi fu
chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo fondatore, il Principe di
Canosa Antonio Capece Minutolo. Giacomo
Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo
Leopardi, Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi,
Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo
Leopardi. La giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo
Leopardi, Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana
ed., Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed.,
(L'ultimo amico del poeta narra di un
suo incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi,
Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede et Cultura, L.,
Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa
giudicata da un reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi,
Diabasis, Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo
Leopardi, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il
bicentenario del trattato di Tolentino, n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, L..
Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli, Gubbio, i
Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri editore, Pasquale
Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore, Lanciano, Casa Editrice Rocco
Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Pierfrancesco Leopardi. Monaldo Leopardi, su Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ferretti, Monaldo Leopardi, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Corno, L. in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Monaldo Leopardi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.
Opere di Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Monaldo Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e
l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte
Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi
anti-italiano. che
dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte
le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio, questi sono i
doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e
raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in
stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo
potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo,
questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi, e non trovo in esso una
sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole
e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi
sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto
questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro
io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete
che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello? LA
CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora
avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer.
Fin quì non dite male, ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con
cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella, ognuno ba i suoi gusti,
e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè
voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di
fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si
tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via
cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”.
Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa
tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a
campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo,
bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno
della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo.
come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo
dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va
guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é
desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m
e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol
guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non
dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie
per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i
merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi
ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo, e incominciamo
le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia, il Cervello e
il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete
quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che
vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi Cer.
Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il
governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città, perchè immagino
che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce
lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle
formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non
vogliamo un governo all'antica, il quale pretenda di governare davve ro, ma
bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra, un simulacro, un brodo di
ranocchie e niente di più. questa è una cosa da nulla, ed è più facile
preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel
regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer.
Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e
il più semplice, ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd, oibù ; se
fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele
poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo
vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano
diavere ricevuto il loro potere da Dio, e nessuno si azzardava di slendere la
mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma
nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del
popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente
devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico
adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il
più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re falto
dal popolo, perchèchipuòfarepuò guastare, ed è più facile sbalzare dal trono un
monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di
cucina.Sentite dunque signor governo, e imparate bene cosa ha da essere il
governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di
tutto, il re ha da essere un re di carta, o vogliamo dire che tulta la sua
autorilà deve consistere in un pezzo di carta, esso medesimo deve riconoscerla
tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella
carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle
belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso
di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e putati,
ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi la camera
ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza, e per una
semplice for malità, sua maestà di carta deve subito pi gliare la frusta e
andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del popolo. Gov.
Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la giustizia,e
deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza essere
ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino riceverà una
coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare una querela a
quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di pane e acqua,
il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità della
giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere i
vostri comandi. Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico
costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa, e di toccare un
quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno
di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla
cainera dei deputali, e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo
importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se
però la camera non vorrà darglieli,lascerà che il governo cammini da per sè
stesso, e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il
pa drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche
volta il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà, ac . compagnandolo con
le fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una
giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi
scacciare il re con tutta la sua maestà e la Gov. Benissimo. Fil.Siccome
poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve
sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla, e che egli pad usarne
soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali
condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua
maestà di carta lo dovrà liberare, e se condanneranno ingiustamente un
innocente malveduto dal popolo, sua maestà di carta dovrà farlo impiccare. Gov.
Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col bordone
in mano, e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five dei
conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono, il governo, tutto è del
popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestito dareper servire di passatempo
al popolo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella cillà a
preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”.
Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia
vera mente solida, dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse
col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che muova
la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino, il quale
non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna
contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto
affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare
ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici
debbano essere lavorali sopra queslo m o dello, un re dipinlo,ovvero un re di
paglia potrebbe servire nello stesso modo. La Filosofia. Chi siete, e cosa
volete? La Giustizia. Io sono la Giustizia e domando di essere ammessa nella
vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a
meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti, i quali hanno inolla pratica dei
tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie presenti, sa
rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle cause,ovvero
giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri sparmierebbero le
spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si confonderebbero il giusto
con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo con l'as sassino. Giu .
Parlate pura giacchè sono venula a p La Filosofia, il Cervello, a la
Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo senza tribunale
e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai lulle queste
cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente. Considero però che
se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia, gli avvocati e i procuratori
resterebbero in camicia, e questo non si ac comoderebbe con le idee filosofiche
sulla dif fusione dei godimenti e dei beni.È d'uopo dunque per un altro poco
adattarsi al siste ma antico, e perciò venile avanli madonna Giustizia e
facciamo i nostri palli. posta per imparare cosa deve essere la
giu. stizia nel paese della filosofia. Fil. Prima di tutto lenetevi bene in m e
n te che i liberali tauto palesi come occulli non devono avere mai lorlo,e la
giustizia deve essere una vera cortigiana consacrata e ven. dula sfacciatamente
al servizio dei liberali. Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi prostituiròin verecondamente
per compiacere iliberali.Ma ditemi un poco:come ho da fare per favorirli nelle
cause, quando stan no evidentissimamente dalla parte del torto ? Giu. Quei
giudici però i quali procederan no con ingiustizia manifesta potranno essere
discacciati e puniti. 102 re che questo non è proibilo ; e non manca il
modo di stancare e assassinare un povero liligante buttando la polvere sugli
occhi al mondo, e sostenendo che si opera per la giustizia.Se però qualcbe
volta vi troverelealle strelle, rinunziale pure a qualunque pudo re,invocate
ilnome di Dio,egiudicatenel nome del diavolo,purchè la villoria sia sem pre
assicurala per i liberali. pu. Fil. Finchè potete conservare cerle appa renze e
salvare la capra e l'orto, falelo Fil.Non dubitatediquesto,eigiudicinon temano
di niente quando sono protetti dai liberali. Primieramenle nel regno della filo
sofia i giudicisono una potenza assolutache non dipende da nessuno ; e poi i
liberali si mellono per tutto, e coperlamente, ovvero scopertamente comandano
in lulli i dicasteri, sicchè alla fine del conto lutto si fa a modo
loro, e a chiunque la prende con essi toc cano sempre la mazza e le
corna. Giu.Ho capilo: e lasciatevi servire.Segui tale pure la vostra lezione.
Fil. Inoltre se s'incontrano a litigare un uomo indifferenle e un inimico dei
liberali, dale sempre ragione all'uomo indifferente an corchè fosse uù
ruffiano, ovvero un capo la dro, e date sempre lorlo agl'inimici dei li. berali,
acciocchè quesla capaglia impari a rispettare la filosofia e la liberalilà.
Fil. In questi casi potete consollare i vo stri affelli privali, ovvero
ilvostro interesse; potete farvi merito con qualche Ciprigna ;e in somma fale
pure quello che vi pare, che alla filosofia non gliene importa niente.Cosa ne
dile compare Cervello ? Fil.Questo sarebbe un partito troppo gras. so per i
galantuomini i quali giuocherebbero alla pari,enelregno filosoficoiliberalihan.
no da godere sempre qualche vantaggio. A vete capito bene madonna Giustizia ?
Giu. Ho capito anche questo e non mi al lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma
come si dovrà procedere in parilà di circostanze o sia quando s'incontrany a
litigare due uo. mini indifferenti, ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che
hanno ragione quelli iquali desiderano, che ildirillo eiltorlo si estraggano
allasorte oppure vengano giuo catiallamorra.Difalliquando la Giustizia non ha
da essere veramente giustizia è m e glio ridurla al giuoco della bianca e della
nera . Giu. Ho capito benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause
criminali come dovrò regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per
la parte dei malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si
vuole la m a n naia del boia, e piuttosto si gradisce ilcol tello degli
assassini. Se la giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb
bero le gloriose giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo
morire di malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto
per la giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce, Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq
diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il
Sacramento, te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez
za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete,
un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli, i frali, i
vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in
galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave
re fatto una sconcordanza, caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la testa,
e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re, distribuite le
pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma regolatevi in modo da
far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è permesso fuorcbè toc care
colla puola delle dila i liberali e la fi Giu . H o capitotullo
benissimo, e vado a stabilire i tribunali e a portare in trionfo la giustizia
nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene compare mio che i miei ordinamenti
fondamentali non incontrano trop. po il vostro genio; ma finchè sarele un cer
vello all'anlica tullo pieno di pregiudizi, nonvimetterele
livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel regno della filoso. fia.
Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello perderà il cervello, e allora
le dottrine e le pratiche della filosofia si diran no regolale col cervello.
Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che vengono per abitare nel. la nostra
nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la Proprietà . La Filosofia.
Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i proprielari,ma anche
105 1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto umano proferire
qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire dominati na.
scostamente dai liberali faranno sempre la grazia, e non ci sarà mai pericolo,
che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un liberale. La
Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro puovo
impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i
proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni. Pro.
Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà, e lulle
le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e godere
tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire, m a
siccome ancora non siamo arrivati al punto, basterà stabilire per adesso alcu
ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse che
nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non
fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per
introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe
benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja,
intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e
tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo
partito definitivo, l'in civilimento ancora non è giunto al segno, e il mondo
non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg
gi, tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare
lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si
diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione
uguale ? 106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole
fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in
mira di spogliare iricchi,i signori e i benestanti; e di arricchire
i cialtroni, e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre
diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso
vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino,
e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer.
Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da
questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una
importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello
Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime, e siccome
alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere
come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti
gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più
rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il
denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano
di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente
aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con
questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il
malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un
popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca
pito,signora Proprietà? Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad
un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo, che
bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati
ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e
divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne;
e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia
le anticamere, perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a
spalle dei mincbioni, se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi
parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre
preferire i più indegni, i più asini e i più lemerari, e così si deve correre
ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il
perfezionamento filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo
Stalo non si contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil. Messo
in molo una volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni, diffusa l'idea che
tulli gli sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato, e
rotto l'argi ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni, igoverni e i
ministri del governo verranno strascinati da quella piena, e non potranno più
impedire l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più
bella di luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo
disordine e sono vera 108 mente affezionati allo Stato, daranno
mano al l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno
la loro affezioncella pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè
in gražia della affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti
qualche loro protello, tutti diranno che quella è la eccezione della regola, e
tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di
più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol
tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto,
acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè
furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il
privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato
perchè non ebbe mai niente, e non è dovere che nel giorno della cuccagna un
galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuo e il bisogno dello Stato
non dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni
assordiranno l'aria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le
sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza, a depositarsi nella pan cia
di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare la
diffusione dei beni, o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei
privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa
- tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe
qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci
è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste
nell'acconsentire senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e
delle giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da
vero poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di
pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia
prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero
un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita
impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi,
ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta,
con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di
avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli
poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le
mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con
dottieri nasali dei grandi, e sino le zitelle, le vedove e le vecchie,
pericolate, perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una
pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver
tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi,
e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli
soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e
i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno
in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti
annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della
proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi,
e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per
sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go
che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per
operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi
cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla
dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale
della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e
le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a
poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori,
e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i
coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e
preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le
casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare
del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra
mantenere il livellamento sociale. Fil. Sicuramente;equantunque l'artifi
zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste
cose dai raccomandatori perpetui della filosofia. Udite. mi, siguor Cervello, e
imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno
depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in
quelle casse, m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti
ipoteche sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco
depositato nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei
propriela rii verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli
effetti di questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio
avranno un capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie
tari e ancora dello stato, allora si manife steranno le forze di questa nuova
occulta p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le
proprielà, e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è
diventata la vera padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con
elemosine propor zionate, stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro
bisogni,e ricoverarli nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le
opere della prudenza e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di
talli i pezzenti, aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse
di risparmio so no un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni
? a banca per il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla
bellola ovvero rubati nelle bolteghe, e aiutare la feccia della plebe, perchè
monti a cavallo sul collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli
stessi go. verni, questo è propriamente secondo la dol trina della diffusione
del potere e dei beni, ed è la vera quintessenza della filosofica malignità.
Cer. Confesso il vero che mi avele sor preso, e non credeva cbe la filosofia la
sa. pesse tanto lunga, e pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto
di fare la carità ai poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi
sociali che proveranno da questa dilapidazione universale della proprie tào
vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo
non cerca di mutar posto, 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da
perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate
onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti,
rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e
la buona morale, il deside rio dell'ordine, l'altaccamento al governo e la
considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite
e degra date dalla miseria, sarà sempre difficile sol levare il popolo, sovvertire
l'ordine, distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della
nazione. Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio
dire quando lulli isignori saranno spiantati; quando le famiglie patrizie e le
classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni
; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o
quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine
tolta la barriera della ricchezza e della nobillà, o vogliamo dire tolta la
barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril
tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà
più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo, e le gloriose
giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non
altro è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni, o vogliamo dire
l'as sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire,
ma Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed
il ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato
per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti
passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno
nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo
crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà, non
potranno es sere permanenti e durevoli, perchè l'egua glianza delle proprietà è
in opposizionecon gli ordinamenti della natura. sfasciata da capo a fondo
una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo, sì quando avremo subissata
ben beno la società, non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci saranno
disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di quelli che
vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le educazioni e i
costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini del rispetto,
tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle mani degli
usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il dominio del
mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per ristabilire le
cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo assicurare il bordello,
il susurro, e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai secoli successivi,
speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non mancherà chi pensi alla
futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama Proprietà, ci siamo iplesi.
Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi ai miei be nefici
regolamenti, e ricordatevi che nel re gno dellafilosofiasidevelavorare con
lemani e coi piedi per la diffusione dei beni e delle proprietà, o sia per
assassinare tulle quante le proprielà. La Filosofia, il Cervello,
l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre persone che si avvanzano per
venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è colui che finge di sludiare
e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro talto smorfie e vezzisguaiati
che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi sono l'insegnamento e l'incivi
limento ; sono fratelli carnali, e amici tan to sviscerali che non vanno mai
uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento el'incivilimentouna volta erano
persone di garbo e godevano buon nome, ma bisogna dire che l'aria del paese
della filosofia abbia la prerogativa di corrom pere tulle le cose buone, perchè
questi due cbe si avanzano hanno la cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede'
galan l’uomini e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiil regno della
Filosofia.Ve nite avanti, signori, facciamo i nostri patti, e poi andale subito
ad ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà. L'Ins.
Parlate pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi.
Fil. Prima di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la
diffusione de lumi è quella appunto con cui si olliene
Fil.Dibò,oibo.Tutti vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae
strati e civili. Cer. Ma,echicifarà poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese
come in tutti gli altri ci saranno i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E
pretendete che gliuominiinciviliti e genlili si preslino volentieri agli uffizi
bassi della società, e che anche i guatleri, i cia vallini e i mozzi di stalla
debbano essere fi. losofi, letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto
prediletto della filosofia, e senza questo non si può archi scoperà le strade,
e chi attenderà alla cucina? la diffusione della civillà.Voi dunque, signor
Josegnamento, dovete mettervi in testa d'in segnare a tutti di rendere tulti
eruditi, let terati e saccenti, e di fare in modo che non ci resti un solo
ignorante e sempliciano in talla la nostra filosofica dominazione. Cer: Piano
un poco, madonna Filosofia, Voi vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no
nelle scienze tutti quelli che dalla natura, dallalorocondizionee. Dagli ordinamentiso.
ciali sono destinati a trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a
rendersiutilicol lorosapereallasocietà; ma quantoalleclassi del basso volgo che
la natura e lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani, que stinon
vorrete che apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a
renderli oziosi,indocili e scontenti diseme desimi, e gravosi e molesti agli
altri. rivare alla diffusione generale dei lumi,e al
l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora
si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai
vostri scon siderati seguaci, qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero
d'individui, e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla
schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità
e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro
che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso
stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di
vil lapi ignoranti, e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto
basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla
società non conviene alla filoso fia, la quale vuole il movimento e non vuole
la quiete, vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità. Se
predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero giungere
alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel do. minio
dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe consiste nella m
o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi convenevoli al proprio
grado, la filoso fia non vorrebbe saperne niente e prediche rebbe contro la diffusione
dei lumi e della ci viltà. Siccome però è certo che la grande plu ralità degli
uomini non arriva alle perfezio ni, e che ostacoli insormontabili naturali
e civili si oppongono alla troppa diffusione dei lumi e della civiltà, così
è certa che la propagazione smodera la dell'ammaestramento e dell'incivilimento
empirà il mondo solamente di mezzi dolli, di scioli, di sapulelli teme rari e
presuntuosi, iqualiappunto ci voglio no per secondare la grand'opera della
filoso fia.L'uomo grossolano e di buona fede crede più al curato che alle
pappole dei liberali,e rispellando e temendo il sovrano non pensa, neppure
quando si trova ubriaco, di essere esso stesso un sovrano.Chi non sa leggere o
non presume un poco di letteratura e di ci villà non legge le gazzelte e non
modella il suo modo di pensare sui giornali e sui liber coli della propaganda;e
senza le gazzelle,senza i libercoli e senza igiornali,come si rendereb bero
fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo del Bellarinino ? e dove si
trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare le croci,per
abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete dunque,carocompare
Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che sa ben essa cosa
vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della civillà. L'Inc. Orsù, non perdiamo più tempo perchè io
muoro di voglia d'incominciare la mia missione, e di andare a diffondere i lumi
e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali scienze vi piace che vengano
inse goatea preferenza, equalilibricredeleme glio adattati per affascinare la
mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil. Quanto allescienze, generalmentepar:
L'ins. Ho capito bene quanto alle scienze e lasciatevi pure servire;e
quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil. Tutti i libri che mettono in
ridicolo i preti, i frali, la chiesa e le pratiche della chiesa;tulli quelli
che parlano contro l'aulo rità del Papa e dei principi; e lulti quelli che
trattano scopertamente ovvero copertamen. te di materie scandalose e lascive
lusingando lando, potete secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate
sempre di oscurargli la verità e di allerare nel loro cuore igermi della virtù.
Parlando poi specialmente, le vostre lezioni più frequenti devono essere sulla
m e tafisica e su i dirilli dell'uomo, le quali scienzc adoperate dalla
filosofia liberale riescono benissimo adattate per diffondere le dollrine
dell’empielà e per suscitare lospiritodellale. merità.Sevoinon
capilenientedimelafisica, importa poco; purchè viriesca d'imbrogliare la testa
dei vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo fu
l'opera di un essere necessario, ovverouscì dai vorlicidelcaso, comeesconoilerniele
cinquine del lotto e se essi medesimi sono animali viventi, oppure ciolloli del
torrenle o ravanelli dell'orto. Così se di dirillo natu. rale e civile non ne
sapele un acca, queslo purenon importa niente, purchèivostridi scepoli
ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi che la ragione delle genti
consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella sovrani tà del popolo e nel
diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le gloriose giornate.L'Ins. Ho
capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere in pratica le vostre
lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi sempre in lingua
volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più usare la lingua
latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua già morta è
stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo sbandirla
affallo non solamente dalle scuole, madatutto il commercio letterario
sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga
conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia
delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi
epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli
della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi,
per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa
abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete
scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con
grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la
rigenerazione filosofioa, o voglia mo direl'assassiniodel mondo. Alloraandate a
colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro
lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche
modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende
senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e
l'esercizio della lingua latina sono mollissime, mavenericorderòdue princi
pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo
l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della
chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo, serve a
legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili,
commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e
comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle
nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem
proximi sui. In secondo luogo è necessario appunto l'uso di una lingua morta per
custo dire le tradizioni, i monumenti e le opere delle lingue viventi,perchè
quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli scrilli dei
nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre calledre, lad
dove le lingue volgari regolate dalla moda, allerale dal mescolamento di voci
nuove 0 straniere, e logorate e guastale dall'uso, si mulano e
s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per soltrarle
all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono il latino
di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli italiani,
dai francesi, dai goli e dagli arabi, i libri scritti in ilaliano e in francese
sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici, e non si possono
intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in comoda
precisamente per questo, e che vo gliamo levarcela di altorno appunto, perchè è
la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco della
dottrina ecclesia stica resterà in piedi, vantando diciotto se. coli
d’inalterata antichità, i preti e i frati, i vescovi, i papi e i cristiani ce
lo sbatte ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre
subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre
riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce
della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà
conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei
concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per
accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la
parola di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e
allora si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della
filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un
suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli.
E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti
rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa
diventerebbero i canoni dei concili, i placiti dei pontefici, le opere dei
padri e dei dottori, e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina
del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari, ma in primo luogo è
assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non
prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa, e in secondo
luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle
trame della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di
quella lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e
che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta
sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il
qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la
lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente
per due dozzine di secoli,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso
l'ultima sua rovina. Cer. Questo certamente è stato un passo falso
carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e
straniero, che presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale
concessione rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di
quelle riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della
filosofia e i danni religiosi e sociali diventi. nosempremaggiori.Siateperòcertachepo
co prima o poco dopo le ossa si rimelteran no al loro poslo, la lingua lalina
sarà rista bilita nei tribunali, e con questo neppure i litiganti faranno
nessuna perdita, essendo indifferente per essi che gli alli
giudiziali si facciano in volgare ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i
liberali non lo co noscano e che vogliano la lingua volgare nei tribunali per
l'interesse e per ilcomodo dei litiganti? I litiganti stannoin mano degli
avvocati e dei procuratori come gli ammalati stanno in mano dei medici e degli
speziali ; e siccome per gl'infermi è lull'uno che le ricelte sieno scritte in
latino ovvero in vol gare, giacchèin qualunque modo bisogna che prendano il
beverone sulla parola del dot tore e sulla fede del farmacista, così litiganti
è lo stesso che le citazioni e le cause si scrivano nell'una ovvero nell'altra
lin. gua, giacchè alla fine dei conti devono sem . pre fidarsi dei loro
difensori e dei loro cu riali. Abbiamo però altre buone ragioni per desiderare
sbandita la lingua latina dal foro : Fil. La prima è quella ragione generale di
cui già abbiamo parlato,giacchè tollialla lingua latina i tribunali si toglie a
questa lingua il cinquanta per cento della sua importanza e della sua
familiarità, si rende sempre più sconosciuta e straniera,e si spin ge a gran
passi verso il suo totale deperi mento. L'altra poi è quella di dilataremag
giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra forense, l'accessoai tribunali,a
e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque sortadim a scalzoni. Imperciocchè
dove gli alti giudi ziali si faranno sempre in latino, dove ico. dici e i
commentari saranno scrilti in la per i Cer. E quali sono queste ragioni?
tino, e dove il foro sarà chiuso per chi non ha sludiato
illatino,icursori,iprocuratori, i curiali, gli avvocati e i giusdicenti nelle
proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e di
dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango, e
somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di quella
lingua, gl'impegni, le protezioni e la cabala faranno il resto; il foro, i
tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a lulli i
facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon dersi
sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che le mie
ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre chiacchiere,
voi signor Jo segnamento, andate a prostituirvi in volgare nella città della
filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra tutteleclassi del
popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere la vostra lezione.
L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri comandi. Fil. Prima di
tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal vostro nome, persuaden
dovi, che la civillà di adesso non deve essere come quella di una volta, e che
l'incivilimen. tonel regno della filosofia ha da essere ilfra. tello carnale
dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della filosofia.
L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri precetti. Fil.
Una volta adunque la vera civiltà con. e L'Inc. Ho capito
benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la decenza
e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no l'indizioelagaranzia
dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le vogliamo più, e la
civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza e della
magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure
cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il
vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito
d'arlecchino, una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre
il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito
anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il
modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.
sistevanell'onesláen el pudore;maoggique ste cose non servono, e al più si deve
con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið
scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità
dichiarata e brutale, predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono
il frutto della civiltà, m a rendele poi familiari negli scritti e nei
trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze
seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e
questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e
il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc. Hocapito
tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per
opera della civiltà. Fil. Andate pure, e vi accompagnino cou
lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae
il Cullo. Fil. Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione
vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di
abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel
suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi
dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi, ma
oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo, e l'incilimento deve
esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i
superbi. Voi dunque, andando sempre contro natura,dovele mettere in
tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori, e d o vele
meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini, siccbè
queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino
a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra
costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia
sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la
diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe meglio di
una città regolata con questi principi e conqueste leggi. Fil. Non lo conosco
neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo
venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli
imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ? Fil. Voi vi
ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo
pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo
tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue
abitudini di una volla,enon glidarà l'animodivederelecose con altri occhiali
che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a
presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale
siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che
si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il
Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i
veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il
luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo
però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi
terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per
fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di
meglio, bisognerà contentarsi di questo, e verrò provisoriamente al vostro
servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere, eliboportati
di diversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro
paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e
un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci
libertà amplissima per tutti i culti. Cer. Come! Nel vostro paese voleleammel
terci tolti i culii ? Cer. Perchè la veritàèunasola,emet terla del pari con
l'errore è lo stesso che ri pudiarla. Il Cullo consiste nel professare una
religione enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola
religione può esser vera e tutte le altre devono essere false, così un solo
cullo può essere sauto e gralo a Dio, e lulli gli altri devono essere
allrellanle imposture e mascherate, ridicole agli occhi degli uomini e
oltraggiose alla maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in
discussioni di leologia e di scandalizzarvi con le doitrine
filosoficheintornoalla religio. ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto
dovele considerare che il fondamento della filosofia liberale è la libertà, che
la principale di tutte le liberlà è quella della coscienza, e che una città
dove non ci fosse la libertà della coscienza e del culto non p o
Fil.Giàsisa, olullio nessuno.Percbè si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne
uno. facendo torto agli altri ? trebbe essere la citla della
Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate pure nella mia residenza con
tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri vestiti: credele quello che vi
pare, operate come vi pare, e incensate quel che vipare,che ditutto questo ame non
im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo subito ad inca sarmi nel vostro slalo,e
vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi è tutta questa gente dalla quale
siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di diverse religio
pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori, accettando la
tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta, e venile a
ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo stre
rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa sua.
Fil. Queslo veramente non è necessario, percbè nei paesi della filosofia ci è
il datur omnibus, e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio. Nulladimeno
questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te della lanterna
magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur. lo sono un turco,
e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo a mangiare a bere
e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo luttuosamente nei
nostri serragli, come vi vono i galli nel pollaio e i becchi nel peco rile, e
la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo pollaie pecorili ancora
nell'altro mondo, e che l'abbondanza delle galline e delle pecore sarà il
guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa mi sem bra una
religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a dirla schietta,
questa, poco più poco meno, è la religione dei fi losofi liberali, i quali non
sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli due sessi del genere
umano quella libertà che si godono ibruti animali. Esaminate pure e analizzate
quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo illuminato, il libertinaggio
animalesco libera è il compendio di lulti i voti e lo scopo principale del
liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo dire un serraglio, e per
l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto l'evangelio della filosofia.Voi
dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia nuova cillà, esercitatevi il
vostro culto liberamente, e non dubitale che i pollai, i pecorili e i porcili
non saranno mai perseguitati dalla fi losofia. E voi che venile appresso chi
siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia un Dio, ma siccome non so
cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi
religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu
dizio. Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una
religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e
si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale
cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più, e non
gli volge mai nè uno sguardo, nè una parola ; questo Id dio è come se non ci
fosse, si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi, e la
dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe
corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni, ed
entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro.
Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se
il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione
fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo, ovvero se col
tempo prenderà qualche altra figu ra, e non so cosa sia l'uomo e se finirà di
essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per non
vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di Dio,
e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini, voglio dire che non
c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello che
gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia e
senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m e
desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile,
o il sarà quel che sarà, può accomodarsi benissimo con la dottrina della
filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione
filosofica, e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al
contrario di quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni
riconosciamo un diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a
doriamo il sole e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le
divinità di le gno e di cocco, e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le
lucerte, è fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un
branco dimatli, e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro
paese. Fil. E perchè no ? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se
la idolatria non è secondo i dellami della filosofia, almeno non riesce molesta
alla filosofia. Anzi al Dio M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei
filo sofi non mancheranno adoratori,e a quella cara Venere, deessa della
voluttà si dovreb bero erigere altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco
galantuomo : suppongo che la morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata, e
che contro il libertinaggio non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete
immaginare cosa debbano es sere la morale e i costumi dove le divinità sono
lavorate nelle botteghe dei falegnami e degli sloviglieri. Nulla dimeno il
fanalismo e l'imposlura si intrudono per lullo sotto lea p Ris. Noi
siamo riformati e protestanti, lu terani, calvinisti, zuingliani,anglicani,
quac queri, puritani, presbiteriani; insomma fra di noi ci è di ogni sorta un
poco, é venia mo astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino
che sarete tuiti quanti per suasi di essere una gabbia di matli, e co noscerele
che essendo una sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse
re lontana dalla verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può
trovarsi fuorchè in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con
indifferenza uno con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di
strada. Per que. sto se ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi
medesimi e conosciamo di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo
parenze della pielà, e anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre
vestali, e abbia mo i nostri penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio
per essi ; e poi ognuno ha i suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i
Bonzi e i Dervis vogliono digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro
divinità. Quelle credenze e quelle pratiche religiose che non disturbano la
società devono essere accolte e protette nel regno della filosofia. Andale
dunque tutti liberamente ; incensate quanto vi pare sorci, gatti, porci e
somari, e vivele si cuci della nostra filosofica fraternità. Adesso venga
avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta turba di gente ? Rif. Per
ultimo il nostro clero è disinvol. to e sociale e non intende di rinunziare
alle soddisfazioni della natura ; perlocchè, abbia mo in abbondanza
pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra noi ci fossero il papa e i cardinali
avremmo ancora le papesse e le cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi
miei compagni vogliamo aprire le nostre sinagoghe nei vostri domini. e
l'impegno ci conservano nel nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi
venia mo spesso a capelli siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci
disertori dalla Chiesa romana. Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo
godere i privilegi dell'errore, e non volendo assoggettarsi alle seccature
della ve. rità è d'uopo lenersi lontani da quella dot tora che presame
d'insegnare essa sola la verità. Rif. Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè
frati, nè confessionari, e conoscele bene che questa è una grandissima comodità
per la vila. Fil. Sicurissimamente; e levato quel tram pino del confessionale,
il libertinaggio non si contrasta più da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi,
e questo si chiama essere cristiani a buon mercato: pro priamente secondo il
gusto della filosofia. Entrale dunque anche voi col vostro mezzo evangelo,
perchè lanto è mezzo quanto è niente, e venga avanti chi resta. Fil.
Senlite, figliuoli miei, nel regno della filosofia ci deve essere senza dubbio
il luogo per lulli,ma voi altri giudei avevale tanti pregiudizi e tante
pretensioni che non so se starele d'accordo cogli altri, e non vorrei che mi
melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni dubbio,perchè gli ebrei di adesso non
sono più di quelli di pri m a, e anche noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li
patriarchi per arruolarci sollo le in segne della Filosofia. Ci resta un poco
di cir concisione, perchè ce la ficcano quando non possiamo parlare, ma questa
non si vede,e in tull'altro siamo una vera canaglia, nata fatta per venire a
figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene, ma intanto puzzatecenlo miglia
lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo a lulli i miei popoli. Eb.
Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio civilizzati noi siamo il
fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti, portiamo titoli e
decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se volessimo degnar. cene
faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori. Fil.Quando è così entrale
pure anche voi, fate le vostre sinagogbe, circoncidetevi a modo vostro,e non
dubitale che non vimanche ranno libertà e protezione nel regno della fi
losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat. Io sono un cattolico, e
insieme coi miei compagni desideriamo di professare li 137 e per
ultimo Cat. Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di ammettere tutte le
religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà essere esclusa ?
Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò non è vero nel
senso in cui voi lo intendele, e non polrete provare in nes sun modo cbe noi
siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es sere i soli a
credere e insegnare la verità, che fuori della vostra chiesa lulli sono p o
veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si chiama essere
conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là della verilà
non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è persuasodi
trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che quelli i
quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via dell'orrcre.Anzi
perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi dalla verilà basta
solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori delle loro dottrine
si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo nessuno a
farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che vivono in
un'altra credenza, e neppure ci vendichiamo quando veniamo oltraggiati e
beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica. Fil. Un cattolico! un
cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno dei filosofi la fede
e il culto cattolico? e perseguitati ; perlocchè in luogo di essere in
tolleranti, noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e i più tolleranli.
Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache, di frati e di claustrali
di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non vanno a genio della
filosofia. Cat. Ma, se è vero che nei paesi costituiti filosoficamente, ognuno
deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni uominiealcune donne unanimi nel
pensiero, e animali dallo stesso desiderio, non potranno albergare in una
medesima casa,vestire un medesimo abi to, vivere come gli pare e godere
anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della vostra tolleranza non
podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e dei giappo nesi, e i Dervis
dei maomettani, perchè lo vostre esclusioni saranno riservate privaliva mente
per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la vostra capaglia di frati vuol vivere
senza far niente e campare a spalle degli altri. Cat. I preti e i frati
callolici predicano la parola di Dio, istruiscono la gioventù, so stengono il
ministero del culto, assistono gli infermi, consolano i moribondi e tutto
questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli oc chi della filosofia ; e
quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri prelieinostri frati campano
per forza, assassinando i pas saggieri in mezzo alla strada ? forse i predi
canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il villo e il vestito dalle
nuvole e non 1 $ Fil. E non contate per niente il celibato
del vostro clero il quale naoce alla socielà col l'impedire la molliplicazione
del popolo? Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non
consiste nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta
proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però
entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà,
forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento
mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse
sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero
alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere
lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è
troppo serio, troppo pubblico, troppo pomposo e solenne, e non può essere mai
gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela
religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il
nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione
cattolica è la dominante, ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene
ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di
donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe,
epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla
filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei
nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto
dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte
dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele
dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non
disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della
filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di
più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare
mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio.
Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il
lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà
sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat.
tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete
accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri
frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro
priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure
e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si
accordano mai coi cattolici, e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto
quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il
perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo, perchè accomodata quella
piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per
ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete
accordarci il bru tismo, le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è
venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di
sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque, i preti e i cat
tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e
inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi
liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo
in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert
mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città, o
la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia
accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con
allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie
i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranità popolare
in qualità di signora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce
un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del
ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde
l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle.
La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a
questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS
un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di
scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si
mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un
corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa
la sua danza pippando, e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea
scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a
ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare
il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi, e della
civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno
accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale
dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare
a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna
contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il
libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del
potere, dei beni, dei lumi, e della civiltà si rende asfatlo completa.
Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la
Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce
la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo
lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con
l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la
diffusione del potere, dei beni, dei lumi, e della civiltà si rende asfatlo
completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a
calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così
finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata
troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La
Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La
Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La
Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti
dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello,
la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni
sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio
ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. –
the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista – interpretazione fascista da
Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Lettieri: all’isola
-- la ragione conversazioanle e l’implicatura conversazionale – filosofia
siciliana scuola di Messina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo siciliano.
Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Grice: “Lettieri rightly contrasts sensualism in the
practical sphere of reason as ‘egoism’ – my ‘principle of conversational
self-love’ – but focuses on benfeficence, and solidarity – as ‘rational’ – my
principle of conversational benevolence, -- or conversational helfpfulness.” Grice:
“I like Lettieri for two reasons: he uses ‘diritto razionale’ which we at
Oxford don’t! – He cherishes the ‘dialogo filosofico’ as a genre as we
Aristotelians at Oxford don’t – he wrote one on ‘l’intuito’ – While he wrote on
‘sensualism,’ he also explored the idea of ‘man’ and ‘ragione,’ or ragiun, as
he put it in his vernacular!” Insegna
a Messina. Presidente della Real Accademia Peloritana dei Pericolanti. Molto
apprezzato da Mamiani, Gioberti e Galluppi.
Altri saggi: Il sensualismo – cf. Grice, “Some remarks about the empire of the
five senses” – Austin, “Sense and sensibilia” --, dissertazione, Messina, Capra;
“La fisiologia calunniata di materialismo, Messina, Nobolo; La potenza del
pensiero, Palermo, Console; Etica e diritto naturale, Messina, Amico; L’intuito:
dialogo filosofico, Messina, Arena; L'omu nun avi l'usu di la ragiuni -- cicalata
di lu professuri cav. A. Catara- Lettieri (Messina, Amico; Introduzione alla
filosofia morale e al diritto razionale, -- Grice: “I like the idea of
‘rational’ right!” (Messina, Amico; “La cognizione del dovere -- poche nozioni
dirette all'operaio e ad ogni classe di cittadini” (Messina, Amico; “Ricordi
storici intorno al movimento filosofico in Siciliam Messina, Amico; “L’uomo” Pensieri”
(Messina, Amico; Via Lettieri, Messina. Lettieri basis his moral system on rationality –
solidarity, beneficence and all the conversational principles appealed by Grice
find room in Lettieri’s system – ‘dovere verso l’altri” o “il prossimo” – The
fundamental one is that of equality, as when Chomsky says that competence is an
ideal natuve speaker with another one --. Grice: “Lettieri would hardly
consider hiseself an Italian philosopher, seeing that he wrote a trattarello on
‘filosofia in Sicilia’ meaning that Italy does not belong to him, nor does he
belong to her!” – Antonio Catara
Lettieri. Antono Catara-Lettieri. Antonio
Catara-Lettieri. Lettieri. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lettiere: la
ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library.
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