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Tuesday, January 28, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z L LE

 

Luigi Speranza -- Grice e Leanace: la ragione conversazionale e la setta di Sibari -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). FIlosofo italiano. Pythagorean. Giamblico.

 

Luii Speranza -- Grice e Lecaldano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della traspatia – l’impassibile di Cicerone – filosofia veneta – la scuola di Treviso -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Grice: “Lecaldano is interested in altruism as the basis for morality; I’m interested in morality as the basis for altruism; he ain’t Kantian; I am!” -- Grice: “I love Lecaldano; perhaps because he is an Italian, he focused on Scots! His analyses of Smith and Hume on ‘sympathy’ is ‘simpatico,’ as the Italians say.” Grice: “Lecaldano engages in the kind of linguistic botanising I do when I reflect on ‘cooperation’ versus ‘benevolence’ versus ‘empathy’ versus ‘sympathy’ versus ‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end up with a rationality-based account of cooperativeness – or rather a narrowing of ‘co-operation’ to ‘rational co-operation’ – there are others!” Si laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La Società Italiana di Filosofia Analitica (“to keep us apart from non-analytics like Plato!”). Membro della Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di L. spaziano dalla storia della filosofia morale sino alle discussioni contemporanee sulla bioetica. Avvalendosi anche del rigore concettuale della filosofia analitica, indirizza la sua ricerca alla ricostruzione storiografica della morale, con particolare riferimento ai filosofi scozzesi (Hume, Smith). Ha inoltre indagato criticamente i problemi della meta-etica. In bio-etica, L. si prefigge l'obiettivo di una chiarificazione delle implicazioni morali legate alle bio-tecnologie, che sfocia in una prospettiva laica per la pacifica gestione del conflitto morale che le "tecnologie della vita" hanno prodotto. Saggi: “Le analisi del linguaggio morale – “Buono" e "dovere" (Roma, Ateneo), “La fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La lume della ragione, gl’iluminati”” (Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza); “Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica: la scelta morale” (Roma, Laterza); “La morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica secolare – senza Dio” (Roma, Laterza); “Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano, Cortina); “Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino); -- la religione officiale in Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di vista morale di L. sulla nascita, la cura e la morte di Corchia. Riflessioni di L. sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di simpatia tra conversazione comune e letteratura  “La molteplicità di usi di simpatia”  È possibile riconoscere diversi significati nel termine simpatia che di solito è accompagnato da un  significato positivo, anche se in realtà è possibile estendere il suo significato fino a usarlo con connotazione negativa. Nel dizionario troviamo distinte 13 accezioni del termine, dall’attrazione  sentimentale alla condivisione di un atteggiamento o posizione politica. Come nota Hume, è molto difficile parlare delle operazioni della nostra mente in termini del tutto esatti, perché  il linguaggio comune raramente fa delle sottili distinzioni. Il termine “simpatia” viene compreso dalla  gran parte delle persone, ma paga la sua ampia diffusione con l'indeterminazione che ad esso si  accompagna. E enorme l'utilizzazione che ha avuto la simpatia, sia in forma implicita che  esplicita. Hunt suggerisce che la nozione di simpatia sia la prosecuzione di quella che nei testi  illuministi viene analizzata come simpatia; Hunt, poi, privilegia la simpatia assimilata alla  compassione. Già nel diciottesimo secolo Rousseau, assimilando la simpatia e la compassione, la  considerava una forma di pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre Hume e Smith la  considerano come la capacità, più sviluppata negli uomini che negli animali, di partecipare  attivamente alle condizioni altrui, sia dolorose che gioiose. E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui  il rafforzarsi della simpatia fra gli esseri umani nella cultura europea (reso possibile  dai romanzi) portò a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri umani che fino a quel momento erano  stati emarginati. Molti romanzi in secoli successivi accesero le emozioni e la partecipazione  simpatetica del pubblico.Verosimilmente anche molta della forza espressiva del cinema  può essere identificata nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le sue tecniche, degli stati  d'animo e della trasformazione delle emozioni dei personaggi. (discorso su Kundera)  “Un percorso di approfondimento”  Lo sforzo di conoscere il funzionamento della simpatia si connette con la questione relativa a quanto  la simpatia si debba ritenere essenziale per la genesi della pratica morale diffusa tra gli esseri umani.  Cercheremo di capire se la simpatia sia necessaria o meno per la moralità ed esporremo le  argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo restando che la simpatia può essere considerata  necessaria per la nostra vita etica, ma non sufficiente. Simpatia può riferirsi a un'attitudine  conoscitiva tramite la quale riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui, oppure a una reazione  affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti altrui. Concordando con Stueber, andremo verso la  simpatia intesa come preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in base  ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte quello che considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e istintiva,  un contagio emozionale automatico;  Dall'altra quello che considera la simpatia come un processo psicologico più complicato e che  comporta un minimo di riflessione.  L'impostazione adeguata è quella che non confonde i due livelli di simpatia e non semplifica le cose,  presentando una concezione riduttiva. Insisteremo inoltre sulla connessione tra simpatia e la pratica  non solo della moralità, ma della giustizia, della politica, così come sulla sua incidenza nelle forme di  civilizzazione. Prenderemo le distanze dall'esportazione della simpatia sul piano normativo che vede  in essa ciò che è necessario e sufficiente per la costruzione di una moralità umana. La nozione di simpatia ha una lunga tradizione nella storia della filosofia. La prima importante  nozione di simpatia è quella che le riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le cose del  mondo. Nella cultura classica greca e latina, la simpatia utilizzata per richiamare una connessione  armonica che unisce fra loro esseri umani e realtà naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella  filosofia antica viene usata per richiamare un processo che si sviluppa nel mondo fisico e solo  secondariamente in quello umano, infatti gli stoici si riferiscono ad una simpatia universale per  indicare l'affinità oggettiva esistente fra tutte le cose. Gli stoici sono importanti per l'influenza che  ebbero sui moderni interessati alla simpatia come Hume e Smith. In Plotino troviamo un'immagine  che verrà ripresa da Hume. Questo concetto naturalistico della simpatia è il  fondamento della magia e verrà ripreso dai maghi del Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia  ha un'estensione prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno  universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione automatica. Fin dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è  un'importante innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Assisi, che nel “Cantico  delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma anche il sole, la luna, l'acqua e il  fuoco. Questo atteggiamento è “empatia” (oriente e Schopenhauer)  “Una relazione attiva fra due poli”  La simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica a  Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come essenzialmente egoista. Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson che però, pur riconoscendo agli esseri umani un  grado di apertura affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato quella completa soggettivizzazione che troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury, infatti, con l'impostazione platonizzante tende a considerare la simpatia come una trama che si estende al di là del mondo  umano, creando armonia fra vite umane ed ordine universale. Hutchenson, invece, preferisce il  termine simpatia quello di “senso pubblico”, facendo riferimento ad un contagio emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una trattazione della simpatia erronea perché incapace di  cogliere il suo collegamento con l'immaginazione e la riflessione. Ciò non toglie che le analisi di  Hutchenson siano tornate attuali. Troviamo la trattazione più approfondita dell'idea di simpatia e si può  individuare nelle analisi di Hume e Smith due diverse concezioni che influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano nel considerare la simpatia solo come un dato della natura della psicologia umana e non una forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico che permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani; per Smith è altresì un principio psicologico, ma tende a distinguere fra ciò che possiamo approvare e ciò che dobbiamo  disapprovare. Queste diversità tra i due autori incidono sulla connessione fra simpatia e moralità: Smith la concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo necessaria ma non sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel “Trattato sulla natura umana”, in cui troviamo una linea  interpretativa ben riconoscibile che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume un  principio costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo quelle fra esseri umani,  nonostante coinvolga anche relazioni con gli animali e tra loro stessi;  Nella natura umana esiste una gran tendenza a prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che  osserviamo in noi stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di questi  ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali suscitando le stesse emozioni  provocate nella nostra specie. Hume distingue due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin dall' infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo indiretto, ricorrendo  all'immaginazione riflessiva e non immediata che genera i sentimenti morali. A quest'ultima  forma di simpatia può essere ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale e  simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in grado di rendere conto  della distinzione che facciamo tra virtù e vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione della simpatia alternativa  a quella di Hume. Infatti, a Smith non interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la  identifica come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e passioni  altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere su nel condividere emotivamente la  risposta che l'altro dà alla situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa  simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato complesso e articolato: vi è un primo stadio che è  la capacità di ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta sofferenza o  piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato dall'approvazione o disapprovazione che si dà  della condotta altrui; infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre  approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia come  approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella generica analizzata da Hume, ma  molto più aperta per ciò che riguarda il ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come  approvazione morale in Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica l'intervento di uno  spettatore immaginario capace di far valere le esigenze di una più completa ricerca delle  informazioni rilevanti. Concezione diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla simpatia col ter. Grice: “While his research on sympathy is erudite, he shows little sympathy! As far as his philosophy of laicity (an Italian obsession) is concerned, he forgets for Romans religio WAS a matter of state – those who did not submit were thrown to the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize, but then he would, being a post-Lateran-pact traumatized Italian – that not only religion was for the romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but that the STATE was a matter of religion. This was well perceived by that branch of fascism who culticated the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies to the birth of Christ! I would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself as ‘ethnic, ‘ethnicus, ennico, a pagan, or heathen!” LE DISCIPLINE FILOSOFICHE   o doo lerprene CUCA CO SC {y/ertse e Ul insonne do SAU  VOVASVARIZZZA quali Sé prese NARO 1 SSCONI SUL problemi  ‘ORGONO per gli CSSOLL UAN quando AYIscOno © cerci  ole è princi da Seguire nelle diverse dimensioni d  > Oa pratica. Sa parte integrante di questa ILCELC  “tazione delle regole TAN c0 pri «e giù disponibili Q/  we da altre pers one. Afrontereno WZZZ volte nel co  SAGGIO la questione di Guanto l'etica assorba i sé  4   AGUA dall'economia per fare valere 77) generale Pa  ‘va (esa a lenee distinte concettualmente CALO,    da. In questo senso ‘etica’ occuba lo spazio. Ordinario di Storia delle dottrine morali all'Università «La Sapienza» di Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli  XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di Hume), all’edîzione italiana delle Lettere a Serena di Johni Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli  XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di David Hume, all’edîzione italiana delle Lettere a Serena di Toland, all’ampia antologia L’ilyminismo inglese (1985), al volume Hume e la nascita dell'etica contemporanea.  All’etica contemporanea ha dedicato, tra gli altri, i volumi Le analisi del linguaggio  morale e Introduzione a Moore  ETICA STEAS TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A.  Corso Italia 13 - Milano UTET, corso Raffaello, Torino. UTET   dal Volume ITI della Fi/osoffa, diretta da  Rossi TEA ETICA. Con il termine etica ci si riferisce all'insieme di scritti e discorsi nei quali si  presentano riflessioni sui problemi che si pongono per gli esseri umani  quando agiscono e cercano regole e principi da seguire nelle diverse dimensioni della loro vita pratica. Fa parte integrante di questa ricerca la valutazione delle regole e dei principi già disponibili o fatti valere da altre persone. ETICA  Affronteremo più volte nel corso del saggio la questione di quanto l'etica assorba in sé e si distingua dall'economia per fare valere in generale una prospettiva tesa a tenere distinte concettualmente etica ed economia. In questo  senso ‘etica’ occupa lo spazio semantico che nella tradizione dotta italiana si  collega a ‘filosofia morale’. L'etica in questo senso ampio comprende dunque  tutta una serie di più determinate specificazioni che riguardano di volta in  volta i problemi morali, quelli di pertinenza del diritto e della legge e quelli  che più propriamente rientrano nel campo della politica o dell’azione del governo. Usando un altro linguaggio si può dire che l'etica riguarda l'universo  dei valori e delle norme complessivamente inteso e dunque in questo senso sia  la morale, sia il diritto e la politica. È chiaro che, invece, gli aspetti più tecnici  e specifici del diritto e della politica, quali, poniamo, la teoria dell’ordinamento giuridico o le varie tecniche da adottare per rendere efficaci le sanzioni, o ancora le riflessioni sulle varie forme di governo e i rapporti tra i vari  poteri non sono di pertinenza dell'etica come qui intesa. Verranno dunque  brevemente trattate le questioni relative al diritto e alla politica solo per individuare con più precisione gli ambiti specifici di problemi pratici in gioco in  queste aree dell'etica, La pretesa per quanto riguarda queste sezioni è di col.   locarle con chiarezza nel campo più generale dell'etica piuttosto che affrontare partitamente i loro problemi specifici. La scelta concettuale fatta comporta che si lasci completamente da parte la pretesa di occuparci dell'etica 0  della morale in un senso più sociologico, ovvero come insieme di costumi di  un popolo, o in un senso più psicologico, ovvero come stili di vita 0 inclinazioni e abitudini a determinati tipi di associazione mentali effettivamente riconoscibili nella biografia di esseri umani concretamente esistenti. L'etica nel  senso in cui ce ne occuperemo coinvolge piuttosto la riflessione e il pensiero  impegnati nella caratterizzazione, critica, difesa e revisione del costume o  delle pratiche effettive.   La scrittura di questo testo è stata orientata da due linee guida. Da una  parte si è cercato di fare valere l'ottica di chi scrive alla fine del secolo XX.  Anche se probabilmente una partizione che prenda troppo sul serio lo stacco  tra secoli va incontro a forzature, si muove, comunque, da una prospettiva  che è largamente influenzata dalla considerazione di quei problemi morali che  nel nostro secolo si sono dovuti affrontare, e si stanno ancora affrontando, per  la prima volta, quali ad esempio le questioni della bioetica, o dell'etica ambientale, del trattamento degli animali ecc. In secondo  luogo chi scrive assume la prospettiva fatta valere da Derek Parfit secondo la  quale una vera e propria etica nel senso moderno può essere vista nascere solo  con il XVII secolo. Ma un'etica che unisca insieme la consapevolezza della sua autonomia e un certo impegno in senso professionale riguarda solo la seconda parte di questo secolo (Parfit). Ed è dunque a questa  etica moderna e contemporanea più che a quella antica e medievale che in  questo scritto si farà principalmente riferimento per dare spessore storico alle  distinzioni e conclusioni che si avanzeranno.   Anche se l'etica si presenta come una disciplina già consolidata e con una  tradizione di sapere costituito, si può indicare una strada che permette di accedere ai problemi di cui si occupa muovendo dall'esperienza comune e quotidiana. Infatti la pretesa dell'etica  come del resto di quasi tutti i rami della  riflessione filosofica  è quella di occuparsi di problemi che tutti gli uomini  affrontano e incontrano nella loro vita. Nel caso dell'etica teorica è frequente   anzi  trovare affermata la pretesa di essere più vicina e direttamente rilevante per la vita delle persone di quanto siano altri ambiti della filosofia,  quali poniamo la gnoseologia (con la sua elaborazione teorica sulla conoscenza), 0 l'epistemologia (con le sue riflessioni sulla teoria della verità) ecc.   Questa pretesa di una più stretta vicinanza con la vita di tutti si accompagna spesso nelle elaborazioni teoriche nel campo dell'etica con un'ulteriore  pretesa per cui tali elaborazioni vengono presentate come la parte più importante delle riflessioni filosofiche 0 comunque come quella che ha priorità e  centralità regolativa rispetto alle altre.   Nella vita quotidiana si presentano numerose situazioni problematiche che  possono essere considerate come punti di partenza per la riflessione etica.  Suggeriamo di classificare queste situazioni problematiche ricorrendo a due  distinte tipologie, quella dei conffitti e quella dei disaccordi. Casi di conflitto   per così dire il versante privato o soggettivo dell'etica  sono quelli in cui  noi stessi non riusciamo a trovare una soluzione valida a un problema etico 0  perché i nostri principi tradizionali risultano inadeguati o perché non riusciamo a risolverci appunto tra differenti principi egualmente rilevanti. Casi  di disaccordo  per così dire il versante oggettivo o pubblico dell'etica   sono quelli, molto frequenti e diffusi nelle nostre società complesse, in cui  petsone diverse tendono a fare valere principi etici contrastanti per risolvere  la stessa situazione moralmente rilevante, î   Il cammino verso l'elaborazione di un'etica più riflessa sembra aprirsi non  già quando le regole e i principi tradizionali rispondono alle nostre esigenze,  ma piuttosto in una situazione in cui gli esseri umani incontrano difficoltà nel  campo delle loro scelte e decisioni pratiche. Se, infatti, la vita pratica procede  in modo del tutto ordinato all’interno di una routine consolidata non vi è  quella base necessaria per un'elaborazione critica, Il presentarsi di una diffi.  coltà nell'applicazione dei codici normativi tradizionali è, in genere, il punto di partenza per l'elaborazione dell’etica nel pensiero moderno e tale quadro  problematico è diventato costitutivo della teoria etica nel pensiero etico contemporaneo.   La stretta connessione della riflessione etica con situazioni di conflitto e di  disaccordo sembra voler suggerire che proprio all'etica in quanto tale spetta  di proporre una soluzione e che quindi rientra negli obiettivi specifici dell'etica teorica prescrivere esplicitamente ciò che è bene o giusto fare in situazioni particolari. Una pretesa che nel corso della nostra ricostruzione delle  varie posizioni riconoscibili nell’etica moderna e contemporanea avremo l’occasione di valutare criticamente.   L'elaborazione etica di cui renderemo conto in modo più sistematico in  questo scritto si colloca in un quadro generale individualistico. A monte infatti della nostra rivisitazione dell'etica vi è l’assunzione filosofica che in generale i problemi con cui si ha a che fare riguardano individui ovvero persone  umane. L'etica così intesa si muove in un contesto  che può essere considerato come proprio del pensiero moderno da Cartesio in avanti  in cui i problemi di fronte ai quali ci si trova sono problemi che nascono per esseri umani  particolari e finiti. Anche se nei primi secoli della ricerca moderna la riflessione era volta a fissare il campo dell'etica tenendo conto della natura umana  complessivamente intesa, fin dal secolo XVII essa muoveva da problemi pratici di individui ben determinati. Il lettore troverà dunque privilegiata nell'esposizione seguente una tradizione empiristica e naturalistica nella quale,  tra il XVII e il XXX, si sono collocati tra gli altri: Hobbes, Locke, Hume, Smith, Bentham, Mill,  e Sidgwick. La riflessione sulla morale di Kant  malgrado non rientri in questa tradizione sarà tenuta presente  per la sua capacità di far valere l'ottica di una responsabilità individuale autonoma nella vita morale, Esponenti del neoempirismo e della filosofia analitica  hanno contribuito nel corso del XX secolo a questo approccio più generale  nei confronti dell’etica  e il loro contributo sarà largamente presente nelle  pagine seguenti , che è stato più recentemente caratterizzato esplicitamente come «individualismo metodologico». Una linea di ricerca ampiamente  percorsa  anche se non senza differenze  in ITALIA, ad esempio, da Juvalta, Abbagnano, Preti, Scarpelli e Bobbio.   È vero che i casi in cui gli esseri umani individuali e le persone si trovano  effettivamente di fronte a problemi etici quali quelli che rendono possibili laserie di riflessione di pertinenza dell'etica sono probabilmente più rari di quanto in genere si ritenga. Ma la rinascita dell'etica e il fiorire della riflessione pratica a cui abbiamo assistito nella seconda metà del secolo XX (dai  disaccordi pubblici sulle questioni di giustizia distributiva e di discrimina.  zione che hanno caratter izzato gli anni Settanta, ai conflitti che negli anni Ottanta ci hanno coinvolto tutti sui principi e le regole da far valere di fronte alle  nuove condizioni del nascere, morire e curarsi degli esseri umani) mostrano  l'ampio radicamento nella vita comune di questa dimensione filosofica. Probabilmente riflessioni e decisioni si svolgono in modo meno esplicito e più  impersonale (attraverso la meditazione della discussione pubblica intersoggettiva) di quanto risulterà dal taglio individualistico di questo saggio. Ma nelle  pagine seguenti, senza la pretesa di tutto abbracci are o risolvere, renderemo  conto in modo sistematico e critico delle diverse concezioni elaborate per  avere a che fare con quelle scelte individuali che sono influenzate da ragioni  etiche.    2. Lanatura dell'etica.    2.1. Meta-etica e meta-morale.  La riflessione sulla natura dell’etica ha  una priorità logica una volta assunta la prospettiva riflessiva e critica alla cui  genesi abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 1. Si tratta infatti, in primo  luogo, di capire l'ordine di problemi intorno a cui si riflette econseguentemente di individuare quali siano i criteri cui si può ricorrere per risolverli 0  mettere alla prova la validità delle soluzioni alternative che ci si presentano.   Un esempio particolarmen  te rappresentativo di questo percorso logico  troviamo delineato da Moore nei suoi Prircipis Ethica. Moore chiarisce che il problema centrale dell'etica  a suo parere,  l’unico problema dell'etica  è quello di fornire una definizione delle principali nozioni che ricorrono nei nostri discorsi morali, ovvero le nozioni di  buono, giusto, obbligatorio, dovere ecc. Moore sostiene poi che tutte le nozioni etiche sono riducibili, in modo più 0 meno diretto, a quella fondamentale e primaria di «buono». Ecco quindi quanto scrive Moore:    Ciò che ‘buono’ significa è in effetti, a parte il suo contrario «cattivo», il solo oggetto  semplice di pensiero che appartenga peculiatmente all'etica. La sua definizione, di conseguenza, è il punto essenziale nella definizione dell'etica; e inoltre un errore su questo  punto porta con sé un numero di giudizi errati di gran lunga più grande che qualsiasi  altro errore in materia. Se questa domanda preliminare non è pienamente compresa è  non se ne vede chiaramente la risposta, tutta il resto dell’etica ha un valore praticamente  nullo dal punto di vista della conoscenza sistematica [...] in ogni caso, è impossibile che,  finché non si conosca la risposta, si possa sapere quale è la prova richiesta per un giudizio  etico qualsiasi. Ma il principale obiettivo dell'etica come scienza sistematica è dì fornire  ragioni corrette per pensare che una cosa 0 un'altra è buona; e se non si risponde alla  nostra domanda tali ragioni non si possono dare (Moore, 1964: 48-49).    Secondo l’impostazione di Moore dunque  che faremo nostra  i metodi di prova e confutazione che hanno efficacia in etica potranno essere identificati solo dopo che avremo capito la natura dell'etica, ovvero il tipo di problemi di fronte ai quali ci troviamo laddove è in gioco la parte morale della  nostra esistenza.   Cominciamo quindi con il passare in rassegna criticamente le più importanti concezioni sulla natura dell'etica. In filosofia è corrente una nozione per  riferirsi a questa parte della ricerca e, specialmente in questo secolo, ci si è  molto dilungati sulle diverse meta-etiche o meta-morali (assumiamo qui queste etichette in un senso generico e che le rende equivalenti senza investire la  distinzione tra etica e morale su cui invece ci soffermeremo nel $ 6). Una determinata concezione meta-etica o meta-morale si colloca sul piano conoscitivo e logico. Essa si propone infatti, prima di tutto, di farci capire qual è la  natura dell'etica e quali sono i metodi di prova e dimostrazione in essa in vigore. Tutto ciò è preliminare e solo dopo si ritiene possibile passare a sottoscrivere una determinata soluzione. La riflessione meta-etica viene quindi non  solo concepita come preliminare o logicamente prioritaria, ma in genere come  del tutto neutra da un punto di vista normativo, Si tratterebbe dunque, per  usare formule che piacciono molto ai filosofi, di identificare preliminarmente  ciò che è comune a tutti i punti di vista etici in quanto etici, per eventualmente passare poi a sottoscrivere una determinata etica a preferenza di altre.   Naturalmente vi sono anche pensatori che negano che una meta-etica neutrale e del tutto priva di implicazioni normative sia possibile. In questalinea  troviamo un autore di tendenze analitiche come Scarpelli che sottolinea la natura prescrittiva di tutte le scelte a monte della costruzione di una particolare  meta-etica (Scarpelli,). Ma anche autori del filone postanalitico  come Hilary Putnam e Donald Davidson che negano la validità dell'assun zione che distingue tra forma e contenuto, distinzione a monte della tesi della  neutralità delle teorie meta-etiche (H. Putnam, 1985; D. Davidson, 1992).  Questa controversia riguarda però più propriamente il modo di intendere il  lavoro filosofico e il modo di concepire le relazioni e connessioni tra analisi  concettuali e logiche e opzioni valutative e normative e dunque in questa sede  laasciamo da parte. Così come non affrontiamo esplicitamente la questione  di quale si debba considerare l'oggetto proprio delle analisi meta-etiche. Se  cioè esse debbano vertere esclusivamente sulle parole e il linguaggio morale   come ha sostenuto una parte dei filosofi di questo secolo e specialmente gli  esponenti della  filosofia del linguaggio ordinario come ad esempio Stevenson, Hare e Nowell-Smith, o  possano essere caratterizzate in modo meno ristretto. Più recentemente, ad  esempio, Bernard Williams ha suggerito di considerare come oggetto proprio  delle analisi sulla natura dell'etica  in coerenza con una concezione più liberale dell'analisi filosofica  non solo i discorsi, ma anche esperienze,  azioni, emozioni ecc. (B. Williams, 1987). Tenendo conto del livello generale  di questo scritto potremo fare tesoro di questa proposta liberalizzatrice e considerare come campo della meta-etica o della meta-morale l'insieme delle diverse dimensioni della vita etica degli uomini. La concezione dell'edonismo egoistico.  La via più ovvia per identificare la natura generale dei problemi che sorgono quando stiamo scegliendo  o decidendo tra differenti alternative che ci stanno di fronte è quella di sostenere che in realtà siamo esitanti solo perché non ci risulta chiaro cosa ci conviene fare di più. Ovvero  lasciando da parte la questione di una differenza  tra le più specifiche caratterizzazioni di che cosa intendiamo con la formula  «ciò che ci conviene di più» -ciò su cui stiamo deliberando è solo l'individuazione del corso di azione che farà maggiormente il nostro proprio interesse, 0 ci darà più piacere o ci farà guadagnare di più ecc. Questa concezione  meta-etica riconduce quindi le azioni in gioco in questa dimensione della nostra vita pratica all'interno di un contesto che riguarda le azioni umane in  generale: tutte le azioni umane sono rivolte a ottenere il proprio personale  piacere e a evitare il dolore. Si tratta di una concezione che riconduce l'etica  all’interno di quel quadro dell’edonismo egoistico che  con una certa approssimazione interpretativa  viene attribuito a pensatori come Epicuro e  Hobbes. Troviamo ad esempio che Hobbes negli Elements of Law Natural  and Politic (Elementi di legge naturale e politica) sostiene: «Ogni uomo,  dal canto suo; chiama ciò che gli piace ed è per lui dilettevole, bene; e male  ciò che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno differisce da un altro nella costituzione fisica, così ci si differenzia l’uno dall’altro anche riguardo alla comune distinzione di bene e male. Né esiste una cosa come l’agaton aplos, vale  a dire il bene assoluto» (Hobbes,).   Questa concezione della natura dell'azione umana in generale in realtà  porta a negare che vi sia una dimensione etica nella vita degli esseri umani.  Infatti ci troviamo di fronte a una posizione che propone di tradurre tutti gli enunciati 0 giudizi etici in questioni che hanno a che fare esclusivamente con  valutazioni, pro 0 contro una certa linea di azione, sulla base di un criterio  esclusivo che è quello del proprio personale tornaconto. La natura dell'etica  non viene certo caratterizzata in questa direzione da tutti coloro che presentano delle teorie meta-etiche o meta-morali. Infatti al di lì delle diversità da  un punto di vista epistemologico, gnoseologico, psicologico 0 genetico, tutte  le diverse concezioni concordano nel presentare, in termini contenutistici e  sostantivi, il campo dell'etica come quello che ha a che fare con scelte e valutazioni che hanno come punto di riferimento degli obiettivi che vanno al di là  del solo interesse personale.   Naturalmente una caratterizzazione dell'etica che insiste sulla natura non  interessata, imparziale e generale del punto di vista che essa coinvolge pone  come questione preliminare quella più propriamente empirica e psicologica  della possibilità che gli uomini effettivamente agiscano mossi da motivazioni  non strettamente egoistiche. Vedremo più volte nelle pagine seguenti che una delle grandi questioni intorno a cui sono convergentemente confluiti gli sforzi di melti pensatori è proprio quella di riuscire a  salvaguardare nel comportamento umano uno spazio per le azioni mosse da  ragioni etiche e dunque non strettamente egoistiche. In questa sezione ci limitiamo dunque a fissare in via del tutto preliminare il punto su cui convergono  le diverse concezioni sulla natura dell'etica e della morale di cui renderemo  conto in questo paragrafo.   In modi diversi le numerose concezioni meta-etiche cercano di rendere  conto di un fatto considerato più o meno acclarato ovvero che nella vita degli  esseri umani esiste una sfera di azioni, scelte, valutazioni che è di pertinenza  dell'etica e della morale. Questa sfera ha a che fare comunque con valori,  principi, criteri, norme, regole che riguardano la condotta degli uomini ove la  si veda come non esclusivamente indirizzata verso la realizzazione di obiettivi  strettamente egoistici ponendosi dal punto di vista di ciascuno degli agenti. Vi  è cioè secondo le diverse teorie meta-etiche che ora passeremo in rassegna  una dimensione sovraindividuale e intersoggettiva (se non addirittura universale) coinvolta nelle azioni umane e che sarebbe appunto quella di pertinenza  dell'etica. Sulla base di questa premessa comune le meta-etiche si differenziano poi per il modo di rendere conto di questa dimensione e conseguentemente delle vie per fondare e giustificare scelte e giudizi etici corretti.    2.3. L'etica come insieme di comandi divini.  Una delle teorie meta-etiche più antica e fortunata è quella che ritiene che al centro dell’etica vi siano  una serie di doveri e di obblighi che ricavano la loro origine, validità e forza dal fatto di essere comandi di un’autorità superiore. In genere poi all'interno  di questa concezione meta-etica si tende a identificare l'autorità i cui comandi  vengono messi in pratica nell'etica con una qualche divinità, si tratti del Dio  di una delle diverse religioni positive, o piuttosto l'Autore della Natura della  religione naturale, o ancora qualcuna delle divinità minori delle religioni politeistiche.   Nel mondo moderno una tale concezione meta-etica è stata presentata  nella forma più chiara dai teorici del giusnaturalismo provvidenzialistico del  XVII secolo e in particolare la si trova difesa approfonditamente da Locke  negli Essays on the Law of Nature (1660-1664, Saggi sulla legge naturale). Si  tratta di una concezione meta-etica che proprio per il riferimento essenziale ai  comandi di una autorità sovrannaturale considera primarie e centrali per rendere conto di questo campo della vita umana le nozioni di legge, obbligazione, dovere e mette, dunque, in secondo piano altre nozioni quali quelle di  buono, giusto, diritti, virtù ecc. In questa prospettiva l'etica è poi strettamente  connessa con la religione. Infatti se tutto ciò che è in gioco nelle nozioni etiche è un qualche comando o legge di un’autorità divina che rende obbligatori  i suoi dettami attraverso sanzioni a cui nessun essere umano può sfuggire allora un'etica così intesa dipenderà fortemente dalla disponibilità di prove dell'esistenza dell'autorità divina presupposta e andrà incontro a insormontabili  difficoltà nel momento in cui entra in crisi la credenza nell'esistenza di un  essere che trascende la natura. I fautori della concezione che vede nell’etica  una serie di comandi o leggi o ordini di una qualche autorità divina, giunti a  questo punto o riterranno scomparsa l'etica dall'orizzonte della vita degli uomini 0 dovranno indicare una qualche autorità terrena da cui fare dipendere  la validità dei principi etici 0, infine, dovranno abbandonare del tutto la metaetica che rende conto dei principi morali come di comandi di una qualsiasi  autorità. Una trasformazione del genere fu al centro della riflessione di Hobbes portando inizialmente a una forma implicita di positivismo giuridico. Ma  più in generale guardando alla riflessione morale dal XVII secolo ad oggi, con  una qualche semplificazione, si può rendere conto dell'etica moderna e contemporanea come un processo di progressivo allontanamento della meta-etica  in termini di comandi di una qualche autorità distinta dal soggetto che sceglie,  decide o giudica eticamente.   Laddove si istituisce il collegamento tra l’etica e la legge divina si aprono  le due diverse possibilità dell’intellettualismo e del volontarismo. Chi ritiene  che l’etica non sia altro che un insieme di comandi divini può infatti ritenere  che Dio comandi ciò che è bene perché lo riconosce come tale oppure  alla  lucedi una concezione volontarista  può concludere che ciò che è buono è  tale proprio in quanto è Dio a volerlo. Non ci soffermeremo sulle difficoltà  presenti in queste due distinte vie teoriche. In particolare l’intellettualismo  sembra andare incon tro alta difficoltà di rendere in qualche modo il bene precedente e superiore a Dio. Viceversa il volontarismo si scontra con la teodicea  ovvero con la questione dell’esistenza del male nel mondo e dunque con la  necessità di ammettere un qualche limite alla potenza di Dio di fronte ad esso.  Si può ipotizzare che proprio le difficoltà incontrate  una narrazione di  queste difficoltà si può trovare nei volumi di S. Landucci e Scribano  nel corso del XVII secolo nel delineare in modo coerente e accettabile queste diverse strategie per fare dipendere il bene morale  dalla legge divina, hanno segnato una delle cause del crollo della concezione  meta-etica che stiamo esponendo. Sulle macerie di questa concezione si sono  andate consolidando le meta-etiche che ritengono costitutiva per una ricostruzione adeguata di questo campo il pieno riconoscimento dell'autonomia delPetica.   Cerchiamo di delineare sia pure sommariamente le principali argomentazioni che giustificavano questo sforzo di ricondurre l'etica alla legge divina.  Nella sezione successiva ricostruiamo invece il tentativo di connettere comunque l’etica ai comandi di un'autorità, non già però sovrannaturale, ma solo  terrena e positiva.   Come si è detto la biografia intellettuale di Locke è particolarmente significativa per chi sia interessato a una riflessione critica sulle ragioni pro e contro un’etica del comando divino. Lo sforzo di Locke era quello di conciliare  questa concezione meta-etica con ragioni che potessero essere accettate anche, al di fuori della metafisica innatistica del pensiero medievale e cartesiano,  da chi si muoveva accettando un’epistemologia empiristica. Vi erano alcuni  vantaggi a favore di una concezione della morale e dell'etica come una legge  divina presente nella natura umana. Quest'impostazione permetteva di risolvere in modo semplice le complesse questioni della motivazione propria della  condotta etica e dell’universalità ed eternità dei principi morali. Locke mostra  con chiarezza che questa concezione meta-etica veniva abbracciata in defini  tiva proprio in quanto permetteva di rendere conto di un'etica in cui i principi venivano appunto considerati come eterni e universali e obbligatori per  tutti gli esseri umani. Infatti come insistentemente ripete Locke  e non solo  negli Essays on the Law of Nature, ma anche in An: Essay concerning Human  Understanding (1690, Saggio sull'intelletto umano) e negli scritti pubblicati  dopo il 1690  un'adeguata filosofia morale deve riuscire a delineare le condizioni che rendono vincolante principi e regole, ovvero la legge naturale, per  tutti gli esseri umani in qualsiasi epoca. Ma il punto decisivo è che l’obiettivo di una filosofia morale non è solo mostrare che un certo principio è vincolante  e obbligante, ma anche che ciò che esso ci comanda va fatto perché noi ricoposciamo che è giusto. Tutto ciò possiamo realizzarlo solo concependo la  legge naturale al centro dell'etica come un comando di Dio. Solo questo infatti garantisce che il comando sarà giusto, direttamente presente în tutti gli  esseri umani e vincolante in modo efficace in quanto tutti sanno che qualsiasi  defezione alla legge sarà punita da Dio senza scampo in una vita eterna.   Locke nella sua presentazione della natura dell'etica come una legge naturale non solo si sforzava di insistere sulla natura obbligante di questa legge  facendola derivare da un comando divino, ma di rendere possibile la conoscibilità di questa da parte della coscienza umana senza doverla presupporre  come innata o ammettere un consenso universale non riscontrabile empiricamente. Proprio il fatto di fare derivare la conoscenza della legge naturale da  un processo che univa senso e ragione portava Locke a considerare tale legge  come costitutiva della natura umana. Locke finiva dunque con il congiungere  la concezione che vede l'etica come il campo dei comandi divini con un’altra  concezione che vede piuttosto l’etica come l’esplicitazione di quelli che sono i  caratteri necessari della natura umana. Nelle sue analisi Locke non distingueva tra due strategie radicalmente diverse, quella che concepisce la legge  morale naturale come un comando divino che ci viene direttamente comunicato da Dio o da un suo interprete autorizzato e quella che invece vede la  legge naturale come qualcosa solo indirettamente scopribile ricostruendo le  leggi morali incorporate nella condotta umana.    2.4. L'etica come comando di una qualche autorità.  L'insistenza sulla  tesi che la natura propria dell'etica può essere colta solo mettendo al suo centro principi morali che sono obbliganti e vincolanti in quanto comandati è  presente anche in un’altra linea di caratterizzazione meta-etica e meta-morale.  Si tratta di quella concezione che, negata la possibilità di riconoscere una autorità sovrannaturale e divina, mantiene pur tuttavia l'apparato concettuale  dell'etica religiosa per cercare di rendere conto in termini mondanizzati della  natura vincolante della morale. Questa strategia di traduzione dell'etica del  comando divino nella meta-etica che definisce comunque le nozioni morali in  termini di imperativi o comandi sia pure di una autorità terrena e umana fu  percorsa già nel corso del XVII secolo, ad esempio secondo alcuni studiosi di  etica da Hobbes. Ma l'interpretazione di Hobbes in questo senso è controversa e dunque risulta dubbia la possibilità di rendere conto della sua concezione della legge etica o morale considerandola come una concezione che  la riduce al comando di un'autorità positiva riconosciuta. Né ritengo che, diversamente da quanto pensano altri studiosi di storia dell’etica (ad esempio  M. A. Cattaneo, 1962), una concezione del genere si possa ritrovare nell'opera  del fondatore dell’utilitarismo Jeremy Bentham in quanto è chiaro da un  punto di vista concettuale che per un utilitarista il criterio decisivo dell'etica  non è il rinvio a qualcosa che è comandato  secondo procedure riconosciute idonee  ma direttamente a ciò che è accettabile in termini di utilità  generale. Tale concezione può dunque essere più correttamente attribuita ad  autori come John Austin o, per venire al secolo XX, ai sostenitori del positivismo giuridico come Hans Kelsen. Si tratta di una concezione legalistica dell'etica; ciò che ha una validità etica può essere obbligante solo se vi è un’autorità che è in grado di fare rispettare, con opportune sanzioni, la legge o le  regole codificate. Tale impostazione non solo esige una qualche codificazione  dell'etica, ma richiede anche che vi sia una autorità in grado di fare rispettare  i suoi decreti.   Numerose sono le obiezioni che sono state mosse a questa concezione legalistica dell’etica e in generale a una concezione come quella che sarà sviluppata sistematicamente dal positivismo giuridico che tenta di ricondurre la totalità del valore etico ai comandi di un'autorità positiva in grado di fare rispettare con l'uso della forza i suoi decreti. Già nel XVII secolo viene messa a  punto un’ampia batteria di critiche. Esse rendono difficile accettare questa  concezione come in grado di spiegare la natura dell’etica in generale e finiscono con il delimitarne la portata esplicativa, eventualmente, al solo diritto  positivo strettamente inteso (cfr. infra, $ 6.2).   Ricordiamo alcune di queste critiche. Il punto decisivo sta nel fatto che  ricondurre l'etica a un insieme di comandi non permette di discriminare   come ha mostrato nel dettaglio ad esempio F. Snare (Snare)   tra tre situazioni che sono concettualmente distinte. 1) Una posizione è quella  di chi accetta un comando in quanto teme l'eventuale sanzione di chi promulga il comando, ovvero quella di chi considera il comando obbligatorio e  vincolante in quanto prevede che chi lo ha emesso ricorrerà a una forza efficace coercitiva per farlo rispettare. 2) Completamente diversa è poi la posizione di chi accetta un comando in quanto riconosce un'autorità a chi promulga il comando. In questa posizione ricadono non solo i fautori  di cui  abbiamo già detto nella sezione precedente  di un legalismo religioso alla  Locke che vedono il comando divino come obbligante non potendosi non  avere «fiducia» nell’autore della natura che non può regolarsi in modo diverso da quello proprio di un padre buono. Vi ricadono anche i fautori del  positivismo giuridico (per una presentazione ed una critica di questa posizione sono utili Bobbio, 1965; Scarpelli, 1965} che ritengono di non potere non obbedire alle leggi promulgate da un'autorità che riconoscono come legittima in quanto rispetta le procedure costituzionalmente previste per promulgare leggi. 3) Infine del tutto diversa è la posizione di coloro che accettano  un comando in quanto discriminano tra comandi giusti e comandi ingiusti e  dunque rispettano le leggi del loro paese fino a quando le considerano eticamente accettabili. Si tratta di tre situazioni ben distinte e una meta-etica che  non riesca a mantenere autonoma l'obbligatorietà della morale dalla mera accettazione di un comando legittimo o dal timore di una qualche sanzione data  da un potere che ha la forza di costringerci risulta una meta-etica inadeguata.   Le critiche alle concezioni religiose o legalistiche della natura dell’etica  sono una chiara via pet giungere a cogliere l'autonomia dell'etica. L'autonomia che così viene in primo piano è quella di decisione di ciascun soggetto  individuale responsabile. L'etica ha a che fare con decisioni autonome di individui che non possono ritenere risolti i loro problemi meramente facendo  appello a una qualche autorità che comanda loro che cosa fare. In realtà resta  sempre aperta da un punto di vista etico la domanda che conta ovvero se obbedire o meno al comando riconoscendolo giusto. Il senso peculiarmente  etico di tale domanda ci si rivela laddove comprendiamo che con essa ci si  chiede non tantose l'autorità che ci sta di fronte sarà in grado di scoprirci o  punirci ove non rispetteremo i suoi comandi, quanto piuttosto se il comando  è giusto o meno, ovvero se è o no moralmente accettabile.   Le concezioni legalistiche dell'etica e il positivismo giuridico non riescono  dunque a discriminare tra potere giusto e ingiusto. Collocandosi al loro interno non trovano una spiegazione tutte le situazioni  su cui ha molto insistito Ronald Dworkin (Dworkin, 1990) nella sua critica al riduzionismo metaetico del positivismo giuridico  quali quelle in gioco quando ci si rifiuta di  obbedire a un comando ingiusto (le forme di totalitarismo del XX secolo  hanno di continuo fatto sorgere per gli esseri umani dilemmi del genere}. Ma  più in generale partendo da una concezione meta-etica del genere non si riesce a spiegare proprio la genesi di istituzioni quali la giustizia e il governo.  Naturalmente intendiamo riferirci a una genesi che cerchi sul piano logicocritico le ragioni della validità morale di un certo governo e della giustizia,  non già a una genesi che si contenti di qualche risposta di ordine storico 0  fattuale. Le concezioni che riconducono la validità dei principi morali a comandi vincolanti dati da una qualche autorità tendono infatti a considerare  che l'unico problema in gioco laddove ci interroghiamo sulla genesi della validità del potere di un certo governo o di determinate regole di giustizia non è  altro che il mero interrogarsi sul fatto storico se questo governo esiste o meno  e se queste sono o meno le leggi che vigono nel nostro paese. Chi riduce l'etica ai comandi di una qualche autorità non riesce più a rendere conto del  perché distinguiamo tra governi e leggi giuste e governi e leggi ingiuste. In  questo quadro legalistico non ha nemmeno molto senso porsi il problema, che  pure sembra centrale per l'etica moderna e contemporanea, dello spiegare  quali sono le basi per cui si debba obbedire a una qualche norma anche  quando si sa che non c’è nessuna autorità in grado di osservare il nostro comportamento e dunque premiarci o punirci per la nostra fedeltà o la nostra defezione. Se l'unica validità di una legge etica è data dalla forza che chi la comanda ha di farla rispettare, è evidente che non c’è nessuna ragione di seguire  una norma etica quando l’autorità non è in condizione di raggiungerci con le  sue sanzioni, Questa concezione meta-etica dunque non solo non spiega il  passaggio da una situazio ne priva di etica a una in cui vi è un qualche principio etico, ma finisce con il lasciare sempre aperta  in definitiva come fisiologica e legittima  la possibilità di defezionare dai comandi dell'etica ove  si sia in condizione di sfuggire al controllo dell’autorità che li ha promulgati.    2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale.  Un'altra concezione sulla  natura dell'etica che ha una lunga storia dietro di sé è quella che identifica il  bene e il giusto con ciò che è naturale per gli uomini ovvero con ciò che è  razionale per essi. Le derivazioni della morale in termini di ragione umana e  in termini di natura umana rappresentano certamente due diverse concezioni  meta-etiche se le si vede da un punto di vista contenutistico; infatti è ben diverso presentare come un tratto definiente del bene e del giusto la natura o la  ragione umana. Per una lunga parte della storia dell’etica però le due vie sono  state fatte coincidere e fino al XVII secolo la natura umana è stata appunto  presentata principalmente come natura razionale. Solo nel XVIII secolo si  sono andate divaricando le due diverse strategie che hanno ricondotto l’etica  o ad aspetti della natura umana non strettamente razionali (i sentimentalisti e  Hume) o proprio alla parte razionale in quanto non influenzata da desideri e  passioni (Kant). Per quanto riguarda queste concezioni che riconducono  l'etica alla natura o alla ragione umana va rilevato che diversamente da quanto  accade nel caso dell'etica del comando divino la definizione del campo proprio del bene e del giusto non viene data rinviando a realtà al di sopra o al di  là degli esseri umani, quali sono appunto i comandi di un Essere Supremo. Ci  troviamo infatti di fronte a concezioni che ritengono di potere rendere conto  del campo della morale ricavandolo integralmente da ciò che è interno all’universo della vita umana. Si viene così a superare una concezione eteronoma  dell'etica nel senso di una concezione che rinvia a qualcosa che è al di sopra o  al di fuori della natura e ragione umana. Non tutte però le concezioni che collegano l'etica alla natura o ragione umana  e che potremmo caratterizzare in un senso molto generale come naturalistiche o immanentistiche  ne  riconoscono pienamente l'autonomia, e non mancano fino al XVIII secolo  concezioni riduzionistiche che tendono ad assimilare l'etica a tratti generali  della vita o della natura umana niente affatto peculiari. Alle concezioni metaetiche di Hume e Kant possiamo fare risalire il pieno riconoscimento dell’autonomia dell’etica pure nell’alveo di spiegazioni che fanno ricorso alla natura  o alla ragione umana. Nel senso più radicale di collegamento dell'autonomia  dell'etica con le scelte e le decisioni individuali dobbiamo invece guardare a  un processo che si è sviluppato solo nel XIX e XX secolo.   Cerchiamo di individuare i tratti distintivi di questa concezione meta-etica  o meta-morale rendendo brevemente conto delle tradizioni che l'hanno maggiormente sviluppata. In primo luogo la tradizione naturalistica che ha guardato  e guarda tuttora  all'etica nei termini metafisici e ontologici propri  della filosofia di Aristotele con le trasformazioni e manipolazioni più o meno  profonde operate dalle filosofie tomistiche e neotomistiche. In secondo luogo  la tradizione razionalistica che possiamo fare coincidere con il giusnaturalismo razionalistico del XVII secolo. Come si è detto vanno tenute distinte da  queste due strategie meta-etiche che potremmo caratterizzare come riduzionistiche quelle che pur rinviando alle nozioni di natura o ragione umana riconoscono uno spazio del tutto autonomo per la morale o l'etica. Così va considerata a parte la forma di naturalismo presente nelle opere di Hume che riconosce nell’etica una dimensione del tutto peculiare della vita umana della  quale non si può rendere conto nei termini di una generale ricostruzione ontologica e metafisica della natura umana complessivamente intesa. Va ugualmente tenuta distinta dalle concezioni riduzionistiche dell'etica la ricostruzione che della morale realizza Kant. Infatti questi, pur ammettendo lo stretto  collegamento tra razionalità ed etica, salvaguarda l'autonomia del campo della  morale distinguendo nettamente tra il piano della ragione pura conoscitiva e  quello della ragione pratica.   Presenteremo dunque quattro distinte caratterizzazioni dell'etica: nel  senso di un giusnaturalismo ontologizzante e metafisico; nel senso dell’estrinsecazione di un'unica Ragione ontologicamente radicata; nel senso di un collegamento con una natura umana universalmente intesa al cui interno si cercano però tratti che consentano di salvaguardare l'autonomia del campo della  morale; e infine nel senso dell'estrinsecazione di una razionalità pur sempre  sovrastorica e universale ma che viene connotata in una dimensione specificamente pratica distinta da altre dimensioni.   In Aristotele troviamo chiaramente formulata la tesi che la virtà e il bene consistono per gli uomini nel realizzare il comportamento che è proprio della  loro natura. L'essere umano è dunque naturalmente etico (come del resto è  naturalmente politico), e l'etica nella sua realtà può essere derivata solo dalla  conoscenza dell'essenza stessa della natura umana. Una prospettiva che tra  l’altro rende praticamente impossibile distinguere il piano dell’analisi metaetica da quellodelle analisi normative: identificare lo spazio dell'etica coincide  con l’identificare il bene che gli esseri umani sono naturalmente inclini a riconoscere. Nell’Etica Nicomachea (Aristotele, 1979) Aristotele presenta la più  chiara formulazione di una concezione che ricava la definizione dell'etica  dalla definizione della natura umana. L'elenco delle virtù umane e la loro gerarchia viene infatti derivata da una preliminare conoscenza di quella che è la  natura sostanziale dell'uomo. Anche se in Aristotele si riconosce come propria  della vita pratica una dimensione di indeterminatezza e probabilità che la  rende del tutto diversa dal sapere teorico in cui si possono attingere sia la  certezza, sia la conoscenza dimostrata, poi non troviamo tale indeterminatezza  quando si passa a delineare i fondamenti dell'etica. Che per gli uomini  la virtù  somma stia nella vita contemplativa e che la giustizia rappresenti la virtù  suprema della vita associata viene derivato logicamente dalla definizione dell'essenza dell’uomo come appunto animale razionale propriamente adatto al  sapere teorico e al vivere in società. Vi è nell’etica aristotelica non solo una  derivazione della definizione dell’etica da quella che si ritiene la natura essenziale e sostanziale dell'uomo, ma anche una particolare strategia teleologica  per rendere conto della vita etica in modo tale da salvaguardare l'impianto  dinamico e progressivo della vita pratica. In Aristotele infatti il bene per  l’uomo e quindi l'orizzonte di realizzazione dell'erica non rinvia a qualcosa di  già dato e posseduto, ma richiede piuttosto l'impegno dell'uomo a realizzare  quello che è lo scopo ad esso più proprio.   Questo impianto teleologico dell'ontologia aristotelica permette alla filosofia di Aristotele di venire riproposta nel tomismo e nel neotomismo come  struttura portante della concezione mediante cui il cristianesimo elabora il suo  peculiare tentativo di ridurre l’etica alla natura umana (si veda Maritain,  1971). Nella tradizione cristiana non è necessario percorrere la strategia che  riduce l’etica direttamente ai comandi divini: si può infatti percorrere anche la  strada che vede la natura umana come di per se stessa fornita di caratteri etici  imprescindibili. L'Autore della Natura con la sua bontà e provvidenza ha  creato la natura umana in modo tale da fornirla intrinsecamente di quel particolare te/os che le permette di realizzarela felicità e i risultati migliori per gli  uomini. Realizzare i fini propri della natura umana diventa così un comandamento anche per la religione cristiana in quanto appunto nella n atura umana sono rintracciabili chiaramente i tratti distintivi propri della vica etica. Ciò che  è innaturale risulta negativo e malvagio e nello stesso ordine naturale delle  cose possiamo rintracciare la regola di ciò che è buono e giusto.   Ma questa via di ricondurre l'etica a qualche tratto tipico della natura  umana viene percorso nel pensiero moderno e contemporaneo anche su basi  diverse da quelle metafisiche e ontologiche proprie dell'etica aristotelica. Se il  carattere comune în base al quale caratterizziamo una meta-etica come naturalistica è quello di ricondurre i tratti distintivi dell'etica a qualcosa che è peculiare della natura umana allora numerose meta-etiche naturalistiche sono  state presentate anche dal Seicento in avanti. Ma queste forme moderne e  contemporanee di naturalismo rifiutano poi di irrigidire la natura umana alla  luce di una concezione sostanzialistica e di conseguenza non percorrono la  strada che presenta l'etica come qualcosa di ontologicamente o concettualmente necessario per una definizione della natura umana ed evitano anche di  ricorrere alla strategia finalistica 0, nella versione cristiana, provvidenzialistica,  per fondare il campo della morale. Presentiamo alcune di queste meta-etiche  naturalistiche delineate nella cultura moderna econtemporanea e alcune critiche ad esse mosse.   Abbiamo un filone di meta-etiche naturalistiche, inaugurato dalla filosofia  di Anthony Ashley Cooper Shaftesbury, che pone al centro dell'etica un qualche istinto 0 sentimento originario e irriducibile ad altro: un «senso morale»  proprio di tutti gli esseri umani, Qui ci troviamo non solo di fronte a una  meta-etica chiaramente immanentistica, ma anche a una con cezione che non  deriva la definizione dell’etica da una caratterizzazione di tipo essenzialistico  della natura umana, ma da una ricognizione empirica degli esseri umani. Resta poi vero che attraverso questa procedura empirica si ritiene di potere individuare qualcosa che è comune a tutti gli uomini e quindi come tale proprio  della natura umana e almeno nel caso di Shaftesbury, e dopo di lui di Francis  Hutcheson, anche qualcosa di originario. Va sottolineato che l'etica viene qui  collegata alla disposizione da parte degli uomini a reagire alle cose del mondo  sulla base di qualche sentimento o senso piuttosto che in termini meramente  intellettuali o razionali. Ancora per tutto il secolo XVILI vi è stata una metaetica riconducibile a una forma di naturalismo sentimentalistico. L'etica infatti ha a che fare con sentimenti e emozioni proprie di tutti gli uomini anche,  ad esempio, per Hume e Smith. Nel caso di Hume tale caratterizzazione in  termini naturalistici dell'etica risulta temperata, sia dalla portata complessivamente ipotetica delle sue spiegazioni filosofiche, sia dal presentare i sentimenti e le emozioni proprie dell’etica come in larga parte non originarie, ma  piuttosto come il risultato di un processo artificiale di sviluppo della natura umana. Di conseguenza da una parte l'etica si presenta come qualcosa che ha  a che fare con un risultato artificiale e non originario della vita umana, ma  dall'altra questo stesso artificio è presentato come del tutto naturale per gli  uomini nel senso che Hume ne ricostruisce la genesi ricorrendo a cause naturali. Tale concezione naturalistica è stata così vista  ad esempio da Ruse  come un precedente di quella evoluzionistica elaborata da  Darwin e che si trova sviluppata poi a un livello filosofico (non privo di inclinazioni assolutistiche) in Herbert Spencer. Nel naturalismo evoluzionistico  l’etica viene considerata come un insieme di istinti e abitudini cooperative acquisite dagli uomini nel corso dell’evoluzione, ma una derivazione evolutiva  dell’etica non esclude che essa venga considerata  specialmente laddove si  insiste sulle sue radici biologiche  come propria di tutta la specie umana.   ‘Tutte queste diverse forme di meta-etica naturalistica sono state sottoposte  a critiche radicali lungo due linee convergenti, tra la fine del XIX secolo e la  prima metà del XX. Da una parte si èobiettato, come ad esempio fa J. $. Mill  nel primo dei suoi Three Essays on Religion (1874, Tre saggi sulla religione)  dedicato alla natura (Mill, 1972: 13-52), mostrando la vaghezza e genericità  della nozione di natura che come tale è del tutto incapace di fornire un qualche criterio preciso per avere a che fare con i problemi etici, dato che sta le  azioni più crudeli sia quelle più generose rientrano nella Natura latamente intesa. Dall'altra si è obiettato, come fa ad esempio G. E. Moore nei Prircipia  Ethica (Moore, 1964: 91-120) che da un punto di vista logico econcettuale il  naturalismo cade nella cosiddetta «fallacia naturalistica» riducendo appunto  a naturale ciò che non lo è (cfr. oltre $$ 3.4 e 3.11).   Malgrado queste critiche nel XX secolo concezioni naturalistiche dell’etica  sono state pur tuttavia riproposte, sia in termini evoluzionistici (ad esempio  nel caso della sociobiologia, specialmente da E. Wilson, 1975), sia attraverso  forme aggiornate di neoaristotelismo (ad esempio P, Foot, 1978 e A. Mac.  Intyre, 1988).   In contrasto con queste meta-etiche naturalistiche vanno viste quelle concezioni che rendono conto dell’etica non tanto riconducendola alla natura  umana, in generale, quanto piuttosto collegandola strettamen te, in modo più  specifico, con la ragione umana. Tale strategia è stata percorsa lungo due di.  verse linee, Da una parte i razionalisti etici del XVII secolo, quali ad esempio  i giusnaturalisti Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, consideravano questa ragione umana come una facoltà ontologicamente garantita in grado di cogliere  l'essenza stessa dell’uomo e dunque i suoi obiettivi più propri (Bobbio, 1963).  Questa concezione della ragione è rintracciabile anche alla base dei numerosi  tentativi nel corso del XVII secolo di dare vita a un'etica dimostrata, un compito verso cui tendono pensatori per altri versi molto differenti quali ad esempio Hobbes, Baruch Spinoza, Locke e Samuel Clarke. L'idea era quella di  presentare una morale che derivasse le leggi del comportamento umano da  principi o auto-evidenti, o assunti comevalidi per definizione, o radicati nella  struttura metafisica del mondo.   Il razionalismo etico è stato però successivamente elaborato anche al d  i  fuori di questo quadro metafisico, essenzialistico o dimostrativo. Questa è ad  esempio la strategia percorsa nel modo più rigoroso ed approfondito da Kant  nella Kritik der praktischen Vernunft (\788, Critica della ragion pratica), ma  poi ampiamente ricorrente nella storia dell'etica contemporanea. Nel caso di  Kant l'etica ha a che fare non più con la struttura essenziale del mondo,  quanto piuttosto con la forma pura della razionalità umana. Kant precisa anzi,  salvaguardando la sua meta-etica dalla critica di ridurre il dovere al fatto, la  morale alla scienza, che la ragione di cui egli tratta nell'etica non è la ragione  pura conoscitiva ma è la ragione pratica. L'etica secondo Kant non ha un contenuto diverso dai principi generali che presiedono alla possibilità stessa di  una razionalità pratica per gli uomini, ed è in questo senso che l'etica ha a che  fare con una dimensione trascendentale che riguarda la volontà umana in generale. L'etica fissa e precisa le leggi che presiedono al funzionamento di qualsivoglia volontà umana che non si proponga questo o quell'obiettivo particolare, ma piuttosto di conformarsi alla sua struttura generale. L'etica rende così  esplicita la struttura categoriale della razionalità pratica umana. Vedremo nel  paragrafo 4.6 quali sono i contenuti normativi precisi a cui Kant giunge muovendo da questa concezione meta-morale; qui ci limitiamo a sottolineare alcuni tratti della meta-etica kantiana.   Nel caso della caratterizzazione della natura della morale fornita da Kant  risulta del tutto salvaguardata l'autonomia dell'etica rispetto alle dimensioni  della conoscenza empirica e della fede religiosa (Landucci, 1993): la razionalità pratica umana è infatti in grado da sola di fondare la validità della vita  morale. Anzi nella concezione kantiana gli stessi contenuti principali della religione sembrano presentarsi come risultati dell’azione della razionalità pratica umana in quanto suoi postulati che garantiscono la validità della vita morale. Nell’approccio kantiano l’esigenza di non ridurre l'etica a qualche altra  cosa viene dunque salvaguardata sia attraverso l'affermazione della netta distinzione tra ragionpura conoscitiva e ragion pura pratica, sia con la negazione della riconducibilità dell'etica a sentimenti ed emozioni naturali degli  uomini. Rifiutando di assumere un qualsiasi sentimento o emozione particolare degli uomini come in grado di rendere conto della natura della morale,  Kant ritiene anche di  poter giungere a garantire l'universalità della legge morale. Questa teoria meta-etica ha come sua conseguenza un pregiudiziale rifiuto rigoristico di considerare come bene una qualunque cosa che possa soddisfare un sentimento, un'emozione 0 un desiderio individuale.   Malgrado l'impegno con cui Kant si è sforzato di salvaguardare l’autonomia dell’etica non sono mancate nei confronti della sua meta-etica le critiche  di coloro che vi trovano una forma di riduzionismo non diversa da quella presente nell’etica naturalistica. Si insiste dunque che in Kant il dovere etico è  ridotto a quella che è la legge e la struttura della volontà. E ancora che nei  suoi scritti vi è la riduzione di tutte le ragioni pratiche dei singoli esseri umani  finiti a una razionalità universale e assoluta. Si rileva poi che l’uso di una nozione come quella di trascendentale è una traccia del permanere di tentazioni  di tipo ontologizzante ed essenzialistico. Va segnalato che  come avremo  modo di documentare ulteriormente  l’impostazione kantiana ha avuto comunque una grande fortuna nel corso del XX secolo. Autori su posizioni filosofiche molto diverse  quali ad esempio J. Rawls, H. Putnam, K. O. Apel   la ripropongono in nuove vesti. La tendenza è quella di depurare l'imposta»  zione kantiana dalle tentazioni di ordine metafisico e considerare l'etica come  qualcosa che ha a che fare non tanto con la struttura di fondo della razionalità  pratica quanto con le condizioni stesse della comunicazione umana in generale o con le presupposizioni della vita civile. Coloro che elaborano il modello  della razionalità pratica kantiana giungono così per quanto riguarda la natuta  dell'etica a conclusioni non molto diverse da quelle raggiunte da alcuni teorici  del prescrittivismo non cognitivistico di cui renderemo conto nella prossima  sezione.    2.6. L'etica come prescrizione universalizzabile.  Nel corso del XX secolo il tipo di concezione dell'etica che ha avuto la prevalenza è quella preoccupata principalmente di rendere conto della vita morale in modo tale da segnarne una netta autonomia e differenziazione rispetto al piano della conoscenza empirica e scientifica; potendosi oramai ritenere già del tutto acquisito,  sul piano teorico, il processo che ha portato a segnare il distacco dell’etica  dalla religione. La distinzione dell'etica rispetto al campo della scienza e della  conoscenza empirica è stata poi tracciata su basi molto diverse, rimanendo  dunque costante la tendenza a definire la natura dell'etica come campo del  tutto irriducibile e peculiare della cultura umana.   Così Moore consolida in modo definitivo  la tendenza a segnare una completa autonomia dell'etica rispetto alla conoscenza empirica 0 metafisica, anche se poi egli legava le principali nozioni etiche con una forma di conoscenza intuitiva del tutto peculiare. Conclusione  quest'ultima che verrà rifiutata da coloro che più rigorosamente negheranno  che l'etica abbia a che fare con una forma qualsiasi di conoscenza, ovvero da  quei teorici del non-cognitivismo preoccupati piuttosto di salvaguardare la dimensione prevalentemente normativa o prescrittiva al centro della morale. Ma  la soluzione di Moore era quella di indicare nelle proprietà oggetto dell’intuizione etica  ovvero nel bene e nel dovere  delle proprietà del tutto uniche  e irriducibili ad altri tipi di proprietà naturali, presentandole quindi come peculiari e indefinibili qualità non-naturali. Tutte le meta-etiche che non avevano riconosciuto l’indefinibilità e l'irriducibilità delle proprietà etiche secondo Moore avevano compiuto, in generale, l'errore logico da lui chiamato  «fallacia naturalistica», errore consistente prima di tutto nel ridurre ciò che  non è naturale al naturale.   Su basi diverse all'analoga conclusione dell’affermazione di una netta distinzione tra conoscenza empirica o scienza e ambito della morale arriveranno  anche quei neo-positivisti che —— come ad esempio Alfred Jules Ayer in Language, Truth and Logic (1946, Linguaggio, verità e logica) — allargavano la  loro analisi verificazionista del discorso fino a presentare conclusioni a proposito della natura dell'etica. La tesi generale di Ayer era quella dell'impossibilità di rend ere conto dei giudizi morali con le stesse concezioni esplicative che  rendono conto delle normali asserzioni empiriche e scientifiche. Ma Ayer non  si limitava a tracciare una distinzione tra l'ambito delle asserzioni empiriche e  l'etica. Egli infatti concludeva sulla base della generale teoria del significato  accettata dai neo-positivisti — secondo la quale solo le proposizioni empiricamente verificabili, sia pure in linea di principio, hanno un significato — che  l'autonomia dell’etica è data dal fatto che i suoi enunciati, proprio per l’uso di  nozioni quali buono, giusto e dovere non sono verificabili in termini empirici  e dunque sono privi di senso. Ayer non si limitava però alla conclusione negativa, ma aggiungeva anche una caratterizzazione in positivo dell’etica. Ayer infatti riconosceva alle proposizioni dell'etica un ruolo loro proprio: quello di  esprimere le emozioni di chi parla e di suscitare emozioni in chi ascolta. Proprio sulla base di questa caratterizzazione emotivistica della natura dell'etica  Ayer finiva con il sostenere sul piano epistemologico che non esistono modi  razionali per cercare di superare il disaccordo in morale (cfr. srfra, $ 3.9).   Anche Stevenson salvaguardava in Ethics and Language (1944, Etica e linguaggio) l'autonomia dell'etica collegandola agli atteggiamenti, mentre le altre  specie di discorso hanno a che fare principalmente con le credenze. Gli strumenti teorici generali di Stevenson erano però quelli del pragmatismo e non  già quelli del neopositivismo, e proprio perciò permettevano di delineare una  ricostruzione meno rinunciataria e negativa del discorso etico. Infatti secondo Stevenson l’etica è costituita da un insieme di giudizi in cui chi parla espone  appunto i propri atteggiamenti e cerca di provocarne di analoghi anche negli  altri. Rispetto all'analisi riduttiva di Ayer, in quella dell’«ernotivismo moderato» di Stevenson viene riconosciuto il ruolo peculiare del discorso etico  come pienamente significante sia pure collocandolo su dì un piano non conoscitivo. Rispetto al neopositivismo (ma anche all'intuizionismo di Moore) il  punto di svolta sta nel riconoscimento che non solo le conoscenze sono significanti. Rispetto a quanto era stato fatto dalla riflessione meta-etica precedente  quello che per Stevenson e i non- cognitivisti diventa centrale non è solo riuscire a rendere conto di quanto l'etica sia distinta dalla conoscenza, ma anche  specialmente dello stretto collegamento che essa ha con l'azione e la pratica  effettiva. Su questo piano diventa prioritario nella riflessione meta-etica la salvaguardia della distinzione tra l'è di cui appunto si occupa la conoscenza e il  deve che è di pertinenza della morale.   I fautori della meta-etica non-cognitivistica si impegnano particolarmente  lungo una linea analitica rivolta a rendere esplicito il collegamento del discorso etico con l’azione fissando in termini di regole precise e non già di espressione di emozioni questo ruolo del linguaggio umano. In questa direzione  sono stati elaborati numerosi tentativi di caratterizzazione. Tutta la riflessione europea sull'analisi del linguaggio morale nel periodo successivo alla fine  della seconda guerra mondiale è dedicata principalmente a questo obiettivo.   Rendiamo qui conto della più fortunata tra le concezioni non-cognitivistiche, quella di Richard Mervyn Hare, già delineata fin dal 1952 con The Language of Morals (Il linguaggio della morale) e poi ripresa e sviluppata, prima  sul piano epistemologico nel 1963 con Freedom and Reason (Libertà e ragione)  € poi su quello normativo nel 1981 con Mora! Thinking. Its Levels, Method  and Point (Il pensiero morale).   Secondo Hare l’etica è caratterizzata dalla presenza di nozioni la cui funzione è tale che non può trovare realizzazione in nessuna altra parte del discorso umano: la funzione propria del discorso etico è quella di dare voce a  «prescrizioni universalizzabili soverchianti». Tutti questi tratti dell'etica vengono spiegati dettagliatamente da Hare nei suoi scritti. Le impostazioni filosofiche generali di L. Wittgenstein e di J. L. Austin gli forniscono gli strumenti per dare corpo alla sua meta-etica. Con il sottolineare la natura prescrittiva dell'etica Hare salvaguarda quello stretto collegamento delle nozioni  morali con le azioni effettive di chi esprime una propria posizione e di chi  ascolta. Si tratta di quel nucleo proprio dell’etica per cui essa è necessariamente collegata con una qualche motivazione ad agire, e per cui si imparenta  con i comandi e con gli imperativi e include il ricorso alle nozioni di dovere e obbligo. Si tratta appunto di quel nucleo prescrittivo che veniva perso di vista da quelle concezioni meta-etiche  quali l'intuizionismo sostenuto da  Moore  che tendevano invece a rendere conto dell'autonomia e specificità  della morale in termini di una conoscenza peculiare. In realtà l'etica non è in  alcun modo una conoscenza di ciò che è, ma è un insieme di prescrizioni rivolte a ciò che deve essere.   Un altro punto importante della concezione meta-etica di Hare è quello  che insiste sul farto che i nostri discorsi morali non solo sono prescrittivi, ma  in realtà trasmettono prescrizioni universali, ovvero prescrizioni che si ritengono valide per tutti i casi simili. Il riconoscimento di una universalizzabilità  dei giudizi morali così come affermata dalla meta-etica non-cognitivistica  vuole rendere conto di un'esigenza peculiare di coerenza e strutturazione propria della vita morale, per cui i giudizi dell'etica si distinguono dai giudizi di  gusto 0 di preferenza relativamente ai quali tale esigenza non viene abitualmente fatta valere. Una distinzione tra giudizi morali e giudizi di preferenza  della quale invece non riuscivano a rendere conto le meta-etiche emotivistiche. Attraverso questa via dell'universalizzabilità Hare e i non-cognitivisti recuperano e includono nelle loro spiégazioni un tratto dell'etica che è stato  fortemente richiamato e sottolineato da Kant ed è centrale per coloro che ne  riprendono la concezione della morale. Non diversamente come un tentativo  di rendere conto di un'etica che ha molti dei tratti della moralità così come  già la presentava Kant, va visto l'ultimo carattere che Hare riconosce come  proprio dell’etica nel suo modello non-cognitivistico: il fatto di essere soverchiante. Ciò significa riconoscere che l'etica è costituita non solo da prescrizioni universalizzabili, ma anche che in quanto «soverchianti» sono gerarchicamente preordinate rispetto ad altre prescrizioni.   Il non-cognitivismo di Hare è stato ampiamente discusso nella seconda  metà del secolo XX come tentativo fertile di cogliere la natura propria dell'etica, La concezione dell'etica come insieme di prescrizioni universalizzabili  soverchianti è stata fatta propria anche dai teorici tedeschi dell'etica del discorso come K. O. Apel e J. Habermas (Apel, 1977; Habermas, 1985). Non  sono mancate le critiche a questa concezione che è stata considerata  ad  esempio da B. Williams (1987)  non tanto come una spiegazione o un’analisi neutra di quella che è l'etica per noi, quanto piuttosto come una posizione  che cerca di imporre una ben precisa concezione, rigida e superata, della  moralità. Altre critiche hanno rilevato come tale meta-etica sembri volere negare, sul piano logico, la possibilità  invece del tutto aperta a ogni essere  umano  di restare al di fuori di una vita etica così intesa. Hare ha cercato di  rispondere a questo ultimo tipo di critiche precisando che la sua tesi non sostiene che non si può fare a meno di sottoscrivere nel corso della propria vita  prescrizioni universalizzabili soverchianti, quanto piuttosto che non si può  rendere conto in modo logicamente corretto della natura dell'etica e della  morale fuoriuscendo da questo quadro esplicativo.   Altri problemi aperti riguardano dimensioni ulteriori della meta-etica noncognitivistica e avremo occasione di fermarci su di essi nei prossimi capitoli.  Proprio in quanto la meta-etica non-cognitivistica si presenta, secondo chi  scrive, come quella più adeguata e fertile si tratterà di completarne l'esame  affrontandone anche le altre implicazioni, relative alla genesi dell’etica (cfr.  $ 3.10), alle forme argomentative ad essa proprie fcfr. $$ 3.9 e 11) e ai suoi  eventuali suggerimenti normativi (cfr. $ 4.7).    2.7. La negazione dell'etica: libertà e determinismo.  Nel rendere conto  delle posizioni che si sono occupate in generale della natura dell'etica dobbiamo soffermarci su quelle concezioni che hanno negato che in realtà vi sia  uno spazio per le scelte etiche degli uomini. Per quanto riguarda queste posizioni  molto differenziate e sempre più diffuse nel secolo XX  distinguiamo tra coloro che negano decisamente che gli uomini possano mai agire  realmente in modo libero e dunque essere imputabili di una qualche respon.  sabilità, e le posizioni che invece, pur ammettendo che gli uomini possano  agire liberamente, negano che possano essere effettivamente motivati dalla ricerca di obiettivi non strettamente personali. Le negazioni dell'etica dell'ultimo tipo nascono da quelle teorie psicologiche che non ammettono che gli  esseri umani possano essere mossi ad agire da prospettive imparziali o valori  più o meno universali.   Le concezioni che negano qualsiasi spazio per una libera scelta da parte  dell'uomo sono chiamate abitualmente deterministiche. Va subito precisato  però che qui ciò che è in gioco non è tanto la questione su cui sembrano contrapporsi deterministi e non- deterministi se vi possano mai essere per gli esseri umani azioni del tutto immotivate e dunque arbitrarie, quanto piuttosto  la questione se gli uomini possono scegliere liberamente di fare le azioni che  vogliono fare sulla base delle ragioni e motivazioni a cui sono più sensibili,  comprese le motivazioni e ragioni specificamente morali. Nella lettura che noi  proponiamo dunque la questione della libertà e della responsabilità etica degli  uomini non si colloca nel quadro di discussione sul determinismo e indeterminismo proprio della filosofia medievale, incline a identificare la libertà degli  uomini con un irrealizzabile libero arbitrio, ovvero con una libertà di volere in  assenza di qualsiasi motivazione. In alternativa va invece accettata l’impostazione delle analisi sulla questione libertà-necessità dell'agire umano fatte valere nella linea empiristica da Thomas Hobbes, John Locke, David Hume.  Secondo questi pensatori è del tutto compatibile (0 se si vuole addirittura essenziale) con il riconoscimento di una libertà e responsabilità morale nelle  azioni umane, una posizione che considera le azioni umane sempre determinate o motivate da una qualche causa o ragione (W. K. Frankena, 1981: 155162). Il punto decisivo nella diatriba non è dunque se le azioni umane siano o  no sempre motivate da ragioni o cause, ma se gli uomini possano 0 meno scegliere liberamente di fare le azioni per le quali hanno motivi o ragioni. In questo senso la libertà delle azioni umane non si contrappone tanto all’esistenza  di motivi o ragioni che determinano la volontà, quanto al fatto che gli esseri  umani sono costretti a fare certe azioni da altri esseri wmani o che vi siano  comunque delle cause  che essi non possono in alcun modo controllare   che li costringano a fare delle azioni che, ove fossero liberi, non farebbero. Si  è costretti a concludere che gli uomini non sono liberi € l'etica non ha alcuna  possibilità di sussistere laddove si ritenga non tanto che tutte le azioni umane  abbiano {o debbano avere) dei motivi, delle cause o delle ragioni, ma si ritenga che tali cause e motivi agiscano necessariamente anche laddove gli uomini credano di avere altri motivi e ragioni per agire. Dunque non sussiste  uno spazio per l'etica quando si abbraccia una concezione che ci porta a ritenere tutte le azioni umane come effetto necessario di cause esterne ai differenti individui umani esistenti, cause sulle quali né ciascuno di questi esseri  umani singolarmente né in collegamento con gli altri può avere una qualche  influenza.   Esistono numerose concezioni che specialmente nel corso del XIX e XX  secolo hanno insistito sulla completa assenza di spazio per una libera scelta  nelle azioni umane nel senso che abbiamo appena definito. Non possiamo qui  rendere conto di tutte le concezioni del genere; ricordiamo solo quelle più  importanti e certamente inquietanti per chi crede a una qualche realtà ed efficacia delle distinzioni morali.   Già Darwin, nei primi appunti stesi in collegamento con le sue prime riflessioni tra il 1833 e il 1840 sulle sue scoperte intorno alle trasformazioni  delle specie viventi, suggeriva le implicazioni per la morale di una concezione  evoluzionistica (Desmond e Moore, 1992: 293-320). Tutto il processo evolutivo è dominato dal caso e dalla sopravvivenza dei più adatti in termini meramente biologici e sessuali. Come risulta chiaro poi la lotta per la vita in termini evolutivi riguarda non già i singoli individui, ma le specie nel loro complesso. In questo quadro tutte le azioni umane si presentano come frutto di  cause che riguardano complessivamente la specie umana. Questa prospettiva  biologica sulla vita degli uomini è stata sviluppata e approfondita da autori che hanno elaborato quella che è chiamata sociobiologia (Wilson, 1979). A) di  là delle opzioni apparentemente libere che si presentano alle scelte umane, in  realtà tutte le azioni umane sono casuali e soggette a condizionamenti in termini di ciò che è vantaggioso per la sopravvivenza della specie complessivamente intesa. Così se identifichiamo l'etica con la presenza di una dimensione  cooperativa nelle azioni umane, tale dimensione non è altro che un effetto  dell'evoluzione biologica naturale e le azioni che ne conseguono sono del  tutto istintive e sottratte al nostro controllo. Del tutto illusoria è dunque la  prospettiva dell'etica che vi siano dei contlitti, disaccordi e scelte drammatiche di fronte agli uomini e che essi possano responsabilmente e liberamente  dare ad esse una soluzione. La vita umana è sottoposta alle leggi generali della  vita e del tutto casualmente si realizzano processi e trasformazioni, i quali tutti  vanno dunque al di là di qualsiasi libera scelta individuale.   Un'altra concezione che sembra negare qualsiasi spazio alle scelte libere e  responsabili di cui tratta l'etica è quella che viene considerata come una conseguenza dell’accettazione dell’impostazione psicanalitica di Sigmund Freud.  È dubbio che una tale schematica concezione sia presente in Freud, che, se  leggiamo opere come Das Unbebagen in der Kultur (1929, Il disagio della civiltà) sembra piuttosto impegnato a rendere conto della genesi della coscienza  morale all’interno della sua generale teoria sulla dinamica psichica, senza volersi dunque impegnare su di un piano essenzialistico (Freud, 1978). Ma vi è  comunque una vulgata che considera una conseguenza dell’impostazione psicanalitica la tesi che le azioni umane individuali non possono essere viste  come frutto di scelte consapevoli, ma sono il risultato piuttosto di motivazioni  inconsce che sfuggono a qualsiasi controllo individuale. Quando noi riteniamo di avere di fronte determinate alternative tra le quali scegliere razionalmente la migliore, in realtà siamo spinti a percorrere una certa strada da pulsioni profonde (amore- odio ecc.) che sfuggono completamente al nostro controllo consapevole e che dettano  anche tenendo conto della nostra storia  psicologica personale  i nostri comportamenti in modo necessario. Una  analoga riduzione delle motivazioni consapevoli ad altre più profonde cause si  troverebbe nella concezione di Carl Gustav Jung e in tutte quelle dottrine che  elaborano una qualche tipologia o caratteriologia.   Rispetto a questi approcci alle azioni umane che negano all’etica un qualunque ruolo va mossa una critica preliminare. Queste tesi hanno un valore se  sono presentate come ipotesi scientifiche, ma se vengono presentate come tali  la loro validità non può essere estesa appunto al di là di quella propria di  spiegazioni empiriche per un campo ben determinato di comportamenti  umani. Rendere conto delle azioni umane secondo una spiegazione evoluzionistica non può essere presentato  pena l'abbandono del piano scientifico di  discorso  come l’unica e necessaria spiegazione di qualsiasi azione umana,  come una sorta di caratterizzazione essenzialistica e sostanzialistica della natura delle cose. Gli stessi teorici, metodologicamente più avvertiti, dell’evoluzionismo  come ad esempio Richard Dawkins (Dawkins, 1992)  non  hanno mancato di temperare in vari modi questa semplicistica negazione dell'etica. Da una parte hanno così insistito sull'incidenza solo statistica e non  necessaria delle cause evolutive. Dall'altra hanno anche riconosciuto una capacità degli esseri umani, non solo di essere consapevoli dei processi evolutivi,  ma di sottrarsi proprio sul piano procreativo ai meccanismi dettati dall’evoluzione, Infine si sono impegnati ad elaborare spiegazioni che rendono conto  della superiorità, sul piano evolutivo, di quelle culture che realizzano al loro  interno un equilibrio selettivo stabile intorno ad abitudini cooperative, rispetto alle culture dominate dal completo egoismo individuale.   Una estensione dunque su di un piano ontologico o metafisico dell’evoluzionismo risulta effettivamente incompatibile con qualsiasi altra spiegazione o  interpretazione delle azioni umane, ma in quanto tale rappresenta una fuoriuscita dal piano del discorso scientifico e la trasformazione dell’evoluzionismo  in una religione. Non diversamente si può ritenere indebita la generalizza  zione del modello esplicativo proprio della psicanalisi a tutte le situazioni in  cui gli uomini scelgono, decidono e deliberano. La fertilità della psicanalisi è  indubbia laddove è presentata come una spiegazione di ben precise azioni e di  situazioni patologiche del comportamento umano. Ma non si può se non impropriamente estenderla in modo tale che essa pretenda di spiegare tutte le  azioni umane in qualsiasi situazione con le forze e pulsioni inconsce su cui  richiama l’attenzione,   Un'altra strada è stata percorsa sempre più insistentemente negli ultimi  due secoli per negare qualsiasi spazio all'etica. Si tratta qui di quella posizione  che sostiene che gli uomini sono in definitiva mossi solo da motivazioni del  tutto personali ed egoistiche e che dunque cercano sempre e solo la soddisfazione dei loro interessi. È poi molto diffusa la tendenza a caratterizzare questi  interessi in termini strettamente economici. La negazione dell'etica in questo  senso deriva da una concezione essenzialistica dell'azione umana che identifica come unico movente di tutte le scelte la realizzazione del massimo vantaggio da un punto di vista economico. Secondo alcuni  ad esempio Louis Dumont (Dumont, 1984)  è questo il tipo di prognosi sulla civilizzazione  umana nell'Occidente che troveremmo già in Bernard de Mandeville (Mandeville, 1987) e in Smith e che dovremmo realisticamente fare nostra. La tesi  generale è che la realizzazione e il consolidarsi delle società dominate dalla logica del mercato rende praticamente impossibile la ricerca da parte di ciascun essere umano di obiettivi non strettamenté autointeressati. Vi sarebbe  quindi, paralletamente al progressivo consolidarsi delle strutture delle società  di mercato, una vera e propria morte dell’etica. In luogo di una spiegazione  pluralistica  ancora legittima nel secolo XVII  dell’azione umana che la  riconduceva a ragioni etiche, economiche, di moda ecc. ora saremmo dunque  costretti a fare nostra una spiegazione monistica per la quale le uniche ragioni  delle scelte e decisioni sono economiche, e tra l'altro quasi mai sotto il controllo dell'individuo. Secondo questa filosofia della civilizzazione sono dunque del tutto scomparse le condizioni che permettono azioni mosse da ragioni  etiche, altruistiche 0 universalistiche. Ancora una volta una spiegazione che  può avere una sua fertilità se tenuta su di un terreno del tutto limitato finisce  poi con il risultare inaccettabile una volta estesa su di un piano essenzialistico.  Tutte queste concezioni contestano la possibilità dell'etica sulla base di  una pretesa ingiustificata di caratterizzare in termini sostanziali ed essenziali  l'azione umana. La ricostruzione che dell'azione umana viene offerta da chi  ammette l'incidenza delle ragioni etiche è una delle possibili spiegazioni che  restano aperte nella nostra cultura. Certo non l’unica, forse nemmeno quella  più importante e significativa, ma di sicuro una spiegazione fertile sul piano  esplicativo e non priva di forza prognostica. Se si cerca di rendere conto delle  azioni umane sulla base dell'assunzione che gli uomini sono mossi ad agire  anche da ragioni etiche si riesce  come ha recentemente in vari modi mostrato Amartya K. Sen (Sen, 1986, 1988, 1992, 1994)  a rendere conto di  alcuni comportamenti effettivi e a prevedere alcune situazioni future in modo  non diverso (e non meno esteso) di quanto accade con le altre spiegazioni.    3. Fondazione, giustificazione e spiegazione: l’epistemologia dell'etica.    3.1. Dalla meta-etica all'epistemologia.  La ricerca rivolta a identificare  la natura della morale, il senso delle nozioni che operano nell'etica, rappresenta un passaggio preliminare prima di affrontare un altro genere di questioni decisivo per l'etica, quello relativo alle vie disponibili per fondare, giustificare, o eventualmente spiegare, le scelte e i giudizi normativi. Sapere che  tipo di domande ci poniamo quando siamo alla ricerca di ciò che è bene ©  giusto fare in una data situazione è appunto preliminare  da un punto di  vista logico e concettuale  per arrivare a individuare le procedure mediante  le quali si può trovare la risposta adeguata.   Rendiamo dunque conto in questo paragrafo delle diverse linee lungo le  quali si è risposto al problema dei modi in cui si possono conoscere, fondare 0  giustificare le norme e i valori con cui l'etica ha a che fare. Nel corso del secolo XX vi è stato, prima, uno spostamento deciso dal problema di come  sono conoscibili i valori etici, a quello di come sono fondabili i nostri giudizi  normativi e le nostre decisioni pratiche. Successivamente l'elaborazione filosofica ha visto affermarsi una prospettiva che in luogo della tesi della fondabilità delle conclusioni etiche ha preferito limitarsi a sostenere la possibilità di  giustificarli o di argomentare pro o contro i valori in gioco. In questo paragrafo renderemo anche conto di un altro approccio che si è andato sempre  più consolidando nella riflessione etica del secolo XX rivolto non più a fondare o giustificare le conclusioni normative, quanto piuttosto a spiegare la genesi dell'etica e delle distinzioni che in essa vengono istituite. Quest'ultimo  approccio che abbandona le pretese di elaborare criteri gnoseologici ed epistemologicì per passare ad un'analisi propriamente esplicativa non coinvolge  solo le posizioni (di cui abbiamo reso conto nel $ 2.7) di coloro che negano la  validità delle distinzioni etiche. Un analogo approccio esplicativo troviamo in  chi occupandosi dell'etica filosofica si rifiuta di passare sul piano più direttamente prescrittivo e normativo, fissando così i limiti dell'intervento riflessivo  nella determinazione della natura dell'etica, dei tipi di procedure gnoseologiche ed epistemologiche che essa coinvolge e dei meccanismi genetici che  l'hanno costituita.   Nel rendere conto dei diversi modelli gnoseologici ed epistemologici riconoscibili nell’etica moderna e contemporanea mescoleremo ancora la prospettiva storica con quella critica e teorica. Per procedere con questo bilanciamento delle due prospettive le partizioni di questo paragrafo non seguiranno  l'ordine di quelle esposte nel precedente paragrafo, né riprenderanno in  modo esclusivo le distinzioni già fissate a livello di meta-etica. Dal punto di  vista gnoseologico ed epistemologico alcune delle partizioni fatte valere sul  piano meta-etico risultano infatti o troppo strette o troppo larghe, nel senso che  un approfondimento analitico permette di riconoscere diverse procedure epistemologiche alla base della stessa concezione meta-etica o procedure epistemologiche analoghe laddove siamo costretti a tracciare delle distinzioni sul piano meta-etico. Il lettore si accorgerà che il quadro precedentemente delineato di  concezioni meta-etiche trova comunque un riscontro in questo paragrafo.    3.2. La conoscibilità della legge divina.  Come si è già avuto modo di  sottolineare il secolo XVII rappresenta un punto di riferimento essenziale per  chi voglia rendere conto dello sviluppo dell’etica teorica nel senso in cui ne  stiamo trattando in questo scritto. Numerosi pensatori riconoscono che le soluzioni a proposito dell'etica devono essere tali da poter essere accettate da  esserti umani, finiti razionali, che siano in grado di ripercorrere la strada che  viene ad essi indicata per superare coniflitti e disaccordi. Questa prospettiva di  ricerca sull’etica e sulle sue basi epistemologiche e gnoseologiche è ad esempio del tutto operante in Cartesio, che però non la percorre arrestandosi alla  sua soglia. Infatti Cartesio non sottopone anche le verità etiche all’analisi in  termini di dubbio e di ricerca della certezza a cui egli sottopone le altre verità,  e proprio in quanto non intraprende tale indagine si arresta a quella che lui  stesso chiama una «morale provvisoria». Una morale assunta acriticamente  dalla tradizione e che andrà confermata o sostituita dopo che si sarà percorsa  sisternaticamente la strada della ricerca critica sulle verità morali. Questa rinuncia dichiarata a percorrere una strada fondazionale non esclude, del resto,  la presenza nell'opera di Cartesio di una vasta ricerca sulle basi antropologiche della vita morale e una rivisitazione, per molti versi scettica, delle concezioni tradizionali di virtù e felicità (Canziani, 1980).   Una ricerca sulle basi razionali dell'etica viene invece esplicitamente avviata, nel secolo XVII, da pensatori come Hobbes e Locke. Negli scritti di  Locke troviamo in realtà percorse diverse strategie gnoseologiche ed epistemologiche per l'etica e il suo problema fondamentale fu proprio quello della  conoscibilità della legge morale e degli articoli della fede religiosa (Colman,  1983; Fagiani, 1983). Locke dunque affronta sistematicamente la questione di  come sia conoscibile la legge morale naturale in un contesto che assume che la  legge naturale è un comando divino. Dopo avere ricostruito analiticamente  diverse strategie alternative mediante le quali si potrebbe giungere a conoscere tale comando Locke finisce poi però con il dichiarare la loro inadeguatezza. Possiamo quindi ricavare dai suoi scritti sia una indicazione delle diverse procedure epistemologiche a cui può fare appello chi accetta la tesi che  l’etica sia in definitiva un insieme di comandi divini, sia l'indicazione dei limiti  propri di queste procedure e dunque la difficoltà complessiva di dare una  base razionale al tentativo di derivare l’etica da tesi di ordine religioso.   Una prima strategia consiste nel legare la conoscibilità e autorevolezza della  legge morale quale comando divino ad alcuni testi in cui tale legge è rivelata.  Locke si mostra petò consapevole dei limiti presenti in questo appello ai testi  rivelati. Egli riconosce, ad esempio in The Reasonableness of Christianity, as deliver'd in the Scriptures (1695, La ragionevolezza del Cristianesimo), che il ricorso  ai testi sacri per la tradizione cristiana può al massimo valere sul piano pedagogico e retorico. Argomenti analoghi possono essere fatti valere per tutte le  religioni positive. Il ricorso ai testi sacri e rivelati può rappresentare un aiuto e  una facilitazione per chi si preoccupi di convincere 0 persuadere altri, ma non  può però rappresentare una via adeguata per giustificare una conclusione etica per tutti gli esseri umani, Il collegamento della verità etica conoscibile con la  lettura di qualche testo in cui la divinità ha espresso i suoi comandi  oltre il  problema della molteplicità delle interpretazioni possibili della lettera del testo   comporterebbe l’assurda conseguenza di considerare tutta quella parte dell'umanità che è vissuta prima, 0 vive al di fuori, della rivelazione come del tutto  priva di etica. Una ulteriore conseguenza assurda: considerare del tutto privi di  morale coloro che sono in disaccordo con noi su alcuni dei punti caratterizzanti  la religione rivelata che noi accettiamo.   Lo stesso Locke fa valere una obiezione più generale nei confronti del tentativo di ricondurre la base di validità di una tesi etica al fatto che si tratti del  comando di una certa divinità. Si tratta di una critica contro il volontatismo di  quei teologi che considerano invece questa strategia come in grado di fondare  la moralità. La critica generale presente negli scritti di Locke  già negli Essays (Saggi) del 1664 (Locke, 1973)  è che il fatto di trovare un certo comando espresso in un testo che  più o meno fondatamente  crediamo  espressione della volontà divina è del tutto irrilevante sul piano etico; su questo piano il problema che si pone non è tanto se ci si trova di fronte ad un  comando di qualcuno, quanto piuttosto se ciò che viene comandato è giusto. I  sostenitori dell’origine divina dell’etica hanno sempre considerato come necessaria e sufficiente la coincidenza tra volontà divina e legge morale, ma la  riflessione moderna e contemporanea ha invece fatto valere sempre di più  l'autonomia dell'etica. Questa autonomia viene affermata già a livello concettuale distinguendo nettamente le nozioni etiche dalle nozioni che fanno riferimento a ciò che è comandato da qualcuno, sia pure l'Autore della Natura. Il  riconoscimento di tale autonomia ha poi un riflesso sul piano epistemologico  e gnoseologico e porta a fissare con precisione la diversità delle procedure  gnoseologiche con cui si conosce la volontà divina rivelata nei testi sacri rispetto a quelle con cui si conosce la legge morale valida.   Prima di illustrare le vie percorse in positivo da Locke per cercare di fondare razionalmente le conclusioni etiche soffermiamoci invece su una strada  da lui rifiutata. Si tratta di quella concezione che indica in una particolare  coscienza 0 facoltà morale il modo più sicuro per arrivare a conoscere direttamente i comandi mortali della divinità. Una strategia per fondare e conoscere l'etica tuttora molto frequentata e cara ai fautori di una riduzione dell'etica alla religione. Per quanto riguarda Locke nel I libro dell’Essay nega che  alla «coscienza» ci si possa appellare come a una prova valida in morale e la  nozione di coscienza viene fatta rientrare nell'armamentario delle assunzioni  innatistiche che non possono avere alcun riscontro sul piano empirico (Locke,  1971; 92-93). La concezione che Dio stesso ci comanda direttamente  senza  per questo servirsi della rivelazione  la legge morale, e che noi abbiamo una  cognizione diretta di tale legge attraverso la nostra coscienza, è stata sviluppata, nel secolo XVII, da alcuni neo- platonici di Cambridge, e in particolare  da Herbert di Cherbury con la sua dottrina delle notiones comsmunes. La  stessa linea fu poi riproposta nel secolo XVIII su basi nuove da intuizionisti e  sentimentalisti che conservavano un quadro provvidenzialistico. Così Joseph  Butler legava la conoscenza delle verità etiche all’attività intuitiva di una peculiare «coscienza» capace di obbligare e fornita di autorevolezza, e Hutcheson indicava nel «senso morale» la base di quel particolare sentimento che ci  fa cogliere la virtà in un mondo ordinato dall’Autore della Natura. Contro la  tesi che Dio ci rende noti direttamente nella coscienza i suoi ordini morali vi  sono alcune argomentazioni già formulate da Locke. L'appello alla coscienza  non può essere certo un criterio definitivo in etica perché dovremmo disporre  di almeno altre due ulteriori specificazioni. In primo luogo un qualche criterio  che ci permettesse di discriminare quei dettami della nostra coscienza che  sono affidabili da quelli che sono errati. In secondo luogo un qualche fondamento che ci autorizzasse a ritenere  laddove sorgessero disaccordi  che  ciò che ci fa conoscere la nostra coscienza è veramente la legge morale per  tutti gli uomini, anche per quelli che con i loro discorsi e con le loro azioni  testimoniano di non trovare nelle loro coscienze principi analoghi ai nostri.  Rifiutata la via della coscienza Locke invece si impegna positivamente nel  cercare di conciliare una concezione che vede la morale come caratterizzata  da comandi divini con una strategia empiristica. L'accettazione di una epistemologia e gnoseologia empiristiche porta Locke ad elaborare una strada indiretta di fondazione e giustificazione della legge morale naturale come corando divino. Secondo questa via di fondazione indiretta noi giungiamo ad  accettare il comando morale divino espresso nella legge naturale dopo avere  percorso un ragionamento che ci porta a risalire a Dio come all'Autore della  Natura buono che ha creato gli esseri umani in modo tale che essi effettivamente siano in condizione di ottenere la loro felicità. Ovviamente questa strategia comporta l’assunzione che ciò che Dio comanda non può che essere il  bene per gli uomini, un passaggio verso l'accettazione dell’intellettualismo  etico che non vede più nella volontà divina l'unico fondamento del bene e  rende del tutto secondario il valore dei testi rivelati. La strategia di giustificazione della validità della legge naturale morale avanzata da Locke comprende  diversi passaggi: in primo luogo trovando un ordine o un disegno nel mondo  si risale a un autore della natura; poi si postula una natura divina buona e  razionale per cui l’autore della natura non può che volere la felicità degli esseri umani; ancora si crede che l’autore della natura non solo abbia trasmesso agli esseri umani un insieme di leggi naturali, universali ed eterne, per realizzare la loro felicità, ma anche che abbia messo gli esseri umani in condizioni  di conoscere tali leggi con certezza con il ricorso alle loro facoltà naturali del  senso e della ragione; infine si assume che conoscere tali leggi naturali equivale a essere obbligati a obbedire a ciò che ci richiedono. Le lacune e le cir.  colarità presenti in questi vari passaggi risultavano già evidenti allo stesso  Locke che nel corso di tutta la sua vita si affannò a cercare di ovviare ad esse.   In effetti la procedura di giustificazione lockiana della validità delle leggi  naturali come comandi divini comporta il continuo passaggio dal piano empirico a quello sovrannaturale, dal piano dell'essere a quello del dovere. Con  l’aiuto di questa strategia si potrà al massimo disporre di ragioni del tutto ipotetiche a favore di ciò che noi siamo già giunti ad accettare come un comando  divino del tutto indipendentemente e prima del ricorso a queste procedure  gnoseologiche ed epistemologiche. Consapevole di ciò Locke presentava nell’ultima parte della sua vita il suo tentativo di elaborare un'etica dimostrativa  come una via per confermare le opzioni morali trasmesse dalla tradizione cristiana. Una volta che cadono le assunzioni che sorreggono l'argomento del  disegno e le pretese sulla bontà provvidenziale dell'Autore della Natura questa strategia sembra crollare, Non c'è più nessuna divinità da cui far dipendere la validità della legge morale, nulla garantisce che l’autore della natura  sia buono piuttosto che malvagio, nulla è più in grado comunque di farci superare l'abisso tra l'eventuale conoscenza di una norma come comando divino  e il nostro accettarla come obbligante. Locke stesso cercò di superare questo  abisso, ma legando la validità e l'efficacia della legge morale naturale non  tanto al riconoscimento che si tratta di un comando divino in sé giusto,  quanto piuttosto al timore per la sanzione che sarebbe derivata in un'altra vita  in caso di infrazione verso di essa. Ma questo tentativo di agganciare la validità e l'obbligatorietà di un principio etico a una qualche sanzione che segue  una infrazione verso di esso, è una strategia che non possiamo più percorrere   indipendentemente dall’accettabilità o meno delle credenze sull’immortalità dell'anima e sull'esistenza di uno stato futuro  ove riconosciamo l’autonomia dell'etica. Fare appello a qualche sanzione ultraterrena infatti al massimo riesce a giustificare o fondare che noi si faccia qualcosa perché temiamo  la sanzione o cerchiamo i premi che una certa autorità lega a questi comportamenti, Ma percorrere questa strada impedisce di vedere che il piano concettuale investito dall’etica è quello che comporta fare ciò che è giusto o bene  fare e non già quello che comporta fare una certa cosa solo perché teniamo la  sanzione di una qualche autorità (per quanto illuminata} ove non dovessimo  obbedire ai suoi comandi.  La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale.  Un'altra  strada percorsa per fondare l'assunzione di un punto di vista etico è quella  che cerca di riconnettere la ricerca individuale del bene personale con la considerazione pet il bene comune. Naturalmente non si tratta di quelle concezioni che sulla base di considerazioni empiriche e a posteriori concludono che  la ricerca del bene personale risulta essere l’unica via che consente di realizzare un incremento del bene comune. Una concezione del genere è spesso alla  base della difesa dell'economia di mercato e viene attribuita a Smith ed è stata  esposta in modo approfondito da FÀ. von Hayek (Hayek, 1986). Affrontiamo invece in questa sezione la questione se si possa o meno fornire un fondamento razionale all'esigenza di essere morali: dove si considerano razionali  solo le argomentazioni che rinviano alla soddisfazione di propri interessi o  piaceri e con «morale» si intende il rispetto di qualche regola generale o  norma di cooperazione quali  ad esempio  mantenere le promesse, rispettare i contratti e obbedire alle leggi del proprio paese.   Questa impostazione è presente in modo del tutto esplicito nelle pagine di  Hobbes. Così la risposta che Hobbes dà allo «sciocco razionale» nel capitolo  XV del Leviathan, or tbe Matter, Forme and Power of a Common-wealth Ecclesiasticali and Civili (Il leviatano; Hobbes) è rivolta a cercare di mostrare che, calcolando sulla base degli interessi in gioco, la salvaguardia di un minimo di principi etici e cooperativi è vantaggiosa per i diversi  individui. Troviamo dunque nelle pagine di Hobbes il tentativo di elaborare  una giustificazione di ordine prudenziale a favore del riconoscimento dell'opportunità di rispettare i principi dell'etica. La razionalità in gioco nel calcolo  prudenziale è stata sistematicamente delineata  nei suoi assiomi e nelle sue  deduzioni  nel corso del XX secolo dalla «teoria della scelta razionale 0  teoria delle decisioni» (Axelrod, 1985; Resnik, 1990). Proprio tra i teorici  della scelta razionale di questo secolo vediamo ripresentarsi il problema di  Hobbes formulato in un diverso modo (Kavka, 1986). Si tratta cioè di individuare se e in che modo sia possibile provare la razionalità dell’accettazione di  un minimo di regole cooperative anche quando quest’accettazione sembra essere in contrasto con i nostri interessi più immediati e diretti e ci si trovi in  una situazione in cui un’eventuale nostra defezione unilaterale potrebbe sfuggire al controllo altrui.   Già in Hobbes troviamo dunque un tentativo di argomentare a favore  dell'accettazione di regole © principi etici contro le pretese dello «sciocco  razionale» di fare sempre e comunque ciò che è per lui più vantaggioso e  dunque di defezionare o sospendere la propria fedeltà nei confronti della regola o del principio etico quando ciò è per lui più conveniente o quando comunque può sfuggire alla sanzione altrui. Torneremo su queste argomentazioni quando affronteremo i tentativi di presentare come una  vera e propria teoria etica normativa la teoria della scelta razionale. La situazione dello «sciocco razionale» è molto simile a quella di cui si occupano i  teorici della scelta razionale quando affrontano i problemi posti dal «dilemma  del prigioniero», e si impegnano nell’analisi del comportamento del free rider.  Già Hobbes elaborava alcune argomentazioni che insistevano sulla rischiosità di un comportamento di defezione unilaterale e sulla probabilità di ricavare un danno nel momento in cui gli altri  prima o poi  giungeranno a  scoprirlo.   Negli ultimi decenni il paradigma hobbesiano è stato in vari modi interpretato e sviluppato da diversi teorici dell'etica. Particolarmente stringente è  stato il modo in cui David Gauthier (Gauthier, 1986) ha cercato di fondare la  preferibilità di avere una morale in luogo di esserne privi all'interno di quella  posizione che ha caratterizzato come «contrattualismo reale» per distinguerla  dal «contrattualismo ideale» di Rawls (Rawls, 1982). Secondo Gauthier il  quadro concettuale di Rawls con l'assunzione in partenza della validità del  principio di equità implica già l'accettazione di un piano etico e dunque dà  per dimostrato quella che vorrebbe giustificare. Gauthier cerca di elaborare  invece una teoria in cui l'accettazione dell’etica e del contratto sociale originario che garantisce la vita civile e la cooperazione non viene fatta dipendere da  condizioni ideali presupposte, ma piuttosto dal beneficio che ciascuno dei  contraenti ricava in termini di ragioni prudenziali o di utilità personale.   Il programma di Gauthier è quello di riuscire a mostrare all’interno della  teoria della scelta razionale come sia più conveniente e vantaggioso essere un  «massimizzatore vincolato» dall’accettazione di qualche principio etico interpersonale, piuttosto che un «massimizzatore diretto» che tende sempre e solo  alla soddisfazione dei propri interessi immediati. Gauthier elabora tutta una  serie di argomenti che fanno emergere l’ottimalità dei risultati raggiunti attraverso la via della massimizzazione vincolata, una volta messi a confronto con  le disponibilità di partenza o con i risultati raggiungibili attraverso la massimizzazione diretta propria di chi procede come un free rider,   Gauthier sostiene che il modo in cui un agente delibera influenza le opportunità da lui attese. Così se guardiamo al modo di deliberare proprio di un  massimizzatore vincolato potremo aspettarci che egli consenta volontariamente con i termini di un accordo precedente, anche se questo comporta che  egli così vincoli il diretto perseguimento dei suoi interessi. Ma sulla base di  tali aspettative il massimizzatore sarà il benvenuto come partner în progetti  cooperativi reciprocamente benefici. Se invece consideriamo il modo di deliberare proprio di un massimizzatore diretto, da costui non potremo aspettarci  che consenta con i termini dei suoi precedenti accordi a meno che ciò non  contribuisca direttamente a soddisfare i suoi interessi. Ma proprio sulla base  di questa aspettativa sul suo comportamento il massimizzatote diretto sarà  estromesso come partner nelle iniziative cooperative in quanto non si può gemuinamente avere fiducia in lui. La conclusione di Gauthier è dunque che il  massimizzatore vincolato può aspettarsi di godere di opportunità che invece il  massimizzatore diretto può solo prevedere che gli saranno negate. Si tratta di  una differenza che evidentemente opera a tutto vantaggio del massimizzatore  vincolato. Sulla base di questa argomentazione Gauthier conclude che si può  ritenere razionale incorporare nelle proprie deliberazioni i vincoli con cui si è  razionalmente concordato come filtri tra possibili azioni tra cui scegliere, Ed è  chiaro che qui razionale significa un calcolo con un saldo positivo a proposito  della soddisfazione dei propri interessi.   La teoria di Gauthier si presenta come molto potente in quanto presume  di potere dimostrare la razionalità dell'assunzione di vincoli etici come mezzo  per realizzare un surplus di soddisfazione dei propri interessi. Ma l'elaborazione di Gauthier va incontro a una serie di difficoltà che mostrano come sia  ancora irrisolto il tentativo di fondare in termini prudenziali la preferibilità di  una vita etica. Infatti da una parte, legando il saldo attivo che ricava il massimizzatore vincolato alla fiducia di altri nei suoi confronti, Gauthier sembra  dovere fornire un criterio sicuro per discriminare tra situazioni in cui la fiducia è bene riposta e casi in cui invece una tale fiducia è errata. Un criterio del  genere non viene offerto da Gauthier, ma si può ipotizzare che esso non sia  disponibile e che, nel caso in cui si tratti di fiducia da concedere a un qualche  partner, si debba oscillare tra una valutazione diretta, caso per caso, 0 una  assunzione di trasparenza delle motivazioni del partner o una qualche circolarità. L'altra difficoltà di ordine generale dell’argomentazione di Gauthier (e  più in generale di quelle strategie che tentano di giustificare l’etica in termini  prudenziali o di salvaguardia dei propri interessi) sta nella pretesa di potere  dimostrare che il surplus di ottimalità conseguente all'assunzione di un vincolo etico riguardi tutti i possibili contraenti con qualsiasi interesse di partenza. Gauthier si impegna ad elaborare una concezione non riduzionistica di  «interessi» (concerns) non definendoli in termini strettamente economici, ma  lastiandone indeterminato il contenuto mediante un rinvio alle preferenze di  ciascuno. La cooperazione e dunque l'etica secondo Gauthier rende possibile  soddisfare con esiti migliori i propri interessi di partenza  di qualsiasi tipo  essi siano  che vanno quindi vincolati secondo le aspettative degli altri. Resta difficile da capire come si possa mettere su uno stesso piano interessi che esigono soddisfazioni molto differenziate e, ciò che più importa, vincoli ben  diversi. È difficile cioè riuscire a capire come si possa assemblare e considerare vincolabili alla stessa stregua preferenze di partenza per beni diversi (poniamo, beni condivisibili e beni esclusivi). Difficile capire come si possa costruire in modo unitario il «massimizzatore vincolato» tenuto conto che in  genere gli interessi degli esseri umani  si intende dello stesso essere umano  in tempi diversi  sono molteplici e probabilmente bisognosi di un qualche  ordinamento interno. Ma la difficoltà più generale riguarda la pretesa della  teoria di Gauthier di fornire la mossa vincente per convincere chiunque   solo sulla base di un calcolo strettamente interessato  della convenienza  a interiorizzare una disposizione a rispettare gli accordi. Sembra opinabile che  questa mossa possa risultare efficace anche laddove per esempio non si avesse  già una disposizione a rispettare gli accordi o non vi fosse una qualche base  motivazionale, emotiva o psicologica, sulla quale fare leva per radicarla o rafforzarla.   Vedremo poi in una sezione successiva un'altra difficoltà intrinseca all'approccio prudenziale o della teoria della scelta razionale. Vedremo  infatti che per restare coerenti con questo approccio finiamo, in alcune situazioni, con il tendere a risultati niente affatto ottimali.    Vi  sono però strategie per la fondazione dell'etica molto più antiche di quelle  che abbiamo appena ricordato e ad esse si continua a ricorrere anche nell'etica moderna e contemporanea. Ad esempio quelle strategie che ritengono  che nella natura umana siano rintracciabili dei caratteri e delle proprietà che  fondano una particolare considerazione e rispetto per gli esseri umani, conseguenza del riconoscimento di uno status privilegiato e unico dell’uomo nell'universo. Abbiamo visto soprache vi sono cacatterizzazioni dell'etica  che vedono al suo centro una legge naturale razionale e dunque concepiscono  il comportamento morale come realizzazione di alcuni tratti propri delia natura umana. È costitutivo di questa strategia argomentativa il tentativo di derivare ciò che si deve fare da quella che è la natura umana in quanto tale.   Due passaggi sono caratteristici di questa strategia sul piano fondazionale.  In primo luogo questa strategia implica che si abbracci una forma di cognitivismo essenzialistico e può essere percorsa solo da chi ritenga di disporre di  una concezione che coglie in modo assoluto e compiuto la natura umana. In  effetti le etiche che procedono lungo questa strada presentano come loro premessa una qualche definizione sostanziale della natura umana e in genere rendono conto del suo posto nell'universo in termini metafisici o ontologici. Troviamo percorsa questa linea nella tradizione aristotelico-tomistica di cui Jacques Maritain ha reso conto, nel XX secolo, in modo simpatetico (Maritain,  1971). In questa strategia il contenuto dell'etica viene derivato da una definizione dell’uomo concepito come persona con una propria peculiare natura sostanziale che ne garantisce la dignità. La difficoltà per questa strategia sta  nella discutibilità della caratterizzazione della natura della persona, una natura della quale linee di pensiero diverse hanno reso conto in termini dei tutto  alternativi e incompatibili (come argomentano Scarpelli, 1985: 181-203; Preti,  1989: 63-95). Nell'elaborare la concezione della persona morale si procede di  solito o impoverendo l'essere umano di tutti gli elementi concreti, o presentando l'individuo umano in vesti tanto astratte e ideali che una tale rappresentazione finisce con il non avere alcuna presa sul piano delle azioni concrete.  Un'altra via che pone al centro della morale una definizione della natura personale dell’uomo è quella che connota la persona con una serie di tratti che  non sono altro che l’ipostatizzazione di assunzioni di ordine ideologico o religioso. Una tale costruzione  e conseguente uso  della nozione della persona come fondamento dell'etica è ad esempio presente nel XX secolo nei  documenti ufficiali su questioni morali della Chiesa Cattolica.   Un altro limite di questa impostazione sta nel commettere in modo evidente l'errore logico di ridurre ciò che deve essere a ciò che è. Si tratta di  quella «fallacia naturalistica» ovvero di quella offesa alla cosiddetta «legge di  Hume. Infatti le  diverse caratterizzazioni della natura umana in termini ontologici e sostanziali  non fanno che richiamare ciò che è già proprio di tutti gli esseri umani. Ma  allora non si riesce a capire in che modo da ciò che è già proprio dell’uomo in  quanto tale si possa ricavare ciò che l’uomo dovrebbe fare e che in quanto  dovrebbe ancora realizzare non può logicamente già essere. Proprio questa  indebita riduzione del dovere all'essere è stata al centro di una serie di contestazioni contro tutte le forme di riduzionismo dal Settecento in avanti. Tali  critiche sono particolarmente decisive contro quelle forme di ragionamento  che presumono di potere conoscere quale sia il bene 0 il dovere per gli omini  ricorrendo a una definizione di quella che è la loro natura essenziale. In generale va quindi detto che chi procede per la strada di una fondazione ontologica dell’etica compie tutta una serie di errori logici; il tentativo di ridurre i  valori a fatti ovvero a realtà empiriche o metafisiche; il non cogliere la peculiare funzione prescrittiva e normativa che è propria di tutti i giudizi etici;  l'assimilare le procedure mediante cui si può giustificare o argomentare in  etica a quelle seguite dalle scienze empiriche o da presunte discipline metafisiche per descrivere o spiegare il mondo come è.  La natura umana come fondamento dell'etica: la via empirica.  Vi è  stata un'altra strategia che ha cercato di indicare come procedura propria  della fondazione della morale un esame della natura umana. In questa linea  non ci si propone di risalire a una qualche definizione metafisica o ontologica  della natura umana, ma di cercare di cogliere, attraverso l’esperienza e l'osservazione, quale è per gli esseri umani il comportamento più consono ed adeguato. Anche questa via di fondazione epistemologica dell'etica si presenta  come destinata al fallimento. Da una parte la ricerca empirica sulla natura degli uomini ben difficilmente potrà ottenere dei risultati di ordine universale,  ma finirà sempre con l’identificare la natura umana con alcuni tratti propri  degli esseri umani in un determinato momento del tempo e in una ben precisa  cultura. Inoltre questa strategia non può sfuggire alla fallacia tipica di tutte le  forme di naturalismo che riducono ciò che deve essere a ciò che è.   Tra le concezioni che hanno cercato di sviluppare sistematicamente il tentativo di provare attraverso un’indagine empirica che cosa è bene o giusto si  colloca certamente l'evoluzionismo erede di Darwin, specialmente nella forma  che esso ha preso con Herbert Spencer. Berirand Russell agli inizi di questo  secolo negli Elements of Ethics (1910, Gli elementi dell'etica) criticava, in  quanto riduzionistica, la pretesa di ricavare indicazioni etiche da un presunta  linea dell'evoluzione umana empiticamente corroborata. Nella concezione  evoluzionistica, rilevava Russell, la strategia argomentativa procede attraverso  continui passaggi dal piano del riscontro empirico a quello delle definizioni  implicite. Così laddove si identifica ciò che è giusto e ciò che è buono con la  linea evolutiva che si ritiene avere scoperto empiricamente in realtà si è introdotta una definizione etica per cui ciò che è più evoluto è moralmente superiore, Proprio per queste difficoltà generali a cui va incontro l’evoluzionismo  etico dopo l’ubriacatura dei sociobtologi, neo-evoluzionisti epistemologicamente avvertiti come R. Dawkins (Dawkins, 1992; cfr. $ 2.7) rifiutano di presentare le loro concezioni come una fondazione dell'etica. Tra l’altro non è  certo possibile percorrere questa strategia con un minimo di utilità pratica,  ovvero rintracciare in termini empirici la soluzione a un problema etico connettendola con un corso di azioni migliore evolutivamente, ovvero che favorisce la sopravvivenza del genere umano o del gruppo di cui facciamo parte  biologicamente. Non vi sono procedure empiriche che consentono di arrivare  a confrontarsi con un’aliernativa secca tra ciò che favorisce la sopravvivenza  del genere umano e ciò che l’ostacola. Non esistono di certo sicuri metodi  empirici per decidere se una certa linea di comportamento è più o meno in  contrasto con i bisogni della specie umana. Né può rappresentare una fuoriuscita dalle difficoltà etiche con cui ci confrontiamo, sostenere che però a posteriori può essere poi dimostrato  ammesso che ciò sia possibile  che ciò  che gli uomini fanno è quanto rende possibile la loro sopravvivenza. Si tratta  di procedure dubbie perché finiscono con il razionalizzare catastrofi e guerre  e comunque si tratta di ricostruzioni che vengono date dopo che le azioni  sono state compiute e che poco dunque possono aiutarci sul piano deliberativo o della costruzione di una qualche concezione etica.   Difficoltà insormontabili si presentano per tutti gli altri tentativi di ricondurre il bene e il giusto a delle proprietà del mondo che, non diversamente  dalla forza e dall’energia, possono essere verificate, misurate e quantificate.  Ma più in generale e su un piano meno materiale sono destinati al fallimento  tutti quei tentativi di ricondurre le procedure di fondazione dell'etica a quelle  in uso in scienze, quali la psicologia e la sociologia, più direttamente rivolte  allo studio degli uomini. La via di ricondurre l'etica alla psicologia è stata più  volte percorsa nel corso del secolo XX. Così procedeva Moritz Schlick nei  suoi Fragen der Ethik (Problemi di etica) quando indicava nel bene ciò  che è considerato più idoneo ai bisogni di un individuo che vuole mantenere  l'armonia con il gruppo sociale di cui fa parte. Una definizione che, ammesso  sia in grado di suggerire un qualche criterio di valutazione, dà per scontata la  preferibilità  sempre e comunque  dell'armonia rispetto alla disarmonia,  con ovvie implicazioni conformistiche. Un più recente tentativo di ricondurre  le procedure della deliberazione etica a quelle in uso nella psicologia è stato  fatto da Richard Brandt in A Theory of the Good and Right (1979, Una teoria  del bene e del giusto). Brandt si è sforzato di mostrare come il processo deliberativo dell’etica sia assimilabile alla tecnica usata nella terapia psicologica  cognitiva per mettere alla prova i desideri e gli obiettivi sulla base di una valutazione della loro razionalità. Brandt sostiene che nell’etica come nella terapia cognitiva si tratta di valutare razionalmente se i desideri che abbiamo sono  o meno adeguati: ovvero tali che li confermiamo avendo tutte le informazioni  empiriche necessarie, tali che ci propongono obiettivi per realizzare i quali  disponiamo dei mezzi necessari e infine tali che non comportano delle conseguenze inaccettabili. Questi sono certamente passaggi a cui si può ricorrere  quando è in corso una deliberazione etica, ma va aggiunto che parte dell’etica  sembra consistere nel valutare se noi riteniamo che determinati desideri debbano essere accettati da tutti coloro che si trovino in situazioni analoghe. I  riscontri empirici ci dicono quali desideri gli uomini hanno, ci presentano le  distribuzioni statistiche di questi desideri, ma nulla dicono su quali siano i  desideri da privilegiare e quelli da mortificare, quelli da rafforzare e quelli da  controllare ad ostacolare.   Non mancano coloro che non si fanno influenzare da questi dubbi sulla validità conclusiva in etica di un metodo di deliberazione e giudizio che cerchi  di controllare empiricamente come stanno le cose per quanto riguarda gli uomini e le situazioni in discussione. Fautori di un naturalismo ingenuo, sostengono che noi di fatto già sappiamo che certe azioni sono negative e malvagie  (per esempio l'assassinio o il furto) e che certe istituzioni (per esempio i contratti, il mantenimento delle promesse e la fedeltà verso un certo governo)  sono giuste. Si può ammettere che questa strategia naturalistica aiuti a individuare inclinazioni e tendenze ira le più radicate negli esseri umani, ma il  punto è che tali inclinazioni e tendenze non possono essere giustificate con la  mera argomentazione che di esse già disponiamo di fatto, o che sono universalmente presenti tra gli uomini (il che tra l'altro non si riesce a dimostrare).  Ancora una volta si fa appello a predisposizioni o inclinazioni così generiche e  indeterminate che il rinvio ad esse ci può essere di scarso aiuto nel risolvere i  concreti problemi etici di fronte ai quali ci troviamo. Così, ad esempio, nessuna indagine empirica sulla natura umana potrà riuscire a risolvere la questione se vanno considerati o meno come omicidi alcuni casi controversi (per  esempio l'aborto nelle prime settimane dal concepimento, o alcuni casi di eutanasia volontaria). Inoltre forse egualmente naturali e per così dire universali  si presentano inclinazioni all’aggressività e predisposizioni all’odio, al risentimento, e alla gelosia che non risultano certamente giustificate per la loro diffusione e riscontrabilità empirica.    3.6. L'appello a una ragione universale come via per la fondazione dell'etica.  Un'altra concezione epistemologica per l’etica è quella che fonda  le sue conclusioni non tanto genericamente sulla natura umana, quanto più  specificamente sulla ragione umana, ovvero su quello che è considerato il  tratto più peculiare degli uomini. Così larga parte del giusnaturalismo del  XVII secolo si presenta come un vero e proprio giusrazionalismo. Grozio e  Pufendorf si impegnarono, infatti, nel tentativo di edificare il diritto, e più in  generale l'etica come scienza razionale dimostrativa. Questo stesso tentativo è  presente anche  accanto ad altre vie  in Locke. La possibilità di edificare  la morale come scienza dimostrativa viene fatta dipendere da Locke dalla natura del tutto artificiale delle principali nozioni morali (come egli sostiene si  tratta di «modi misti»), ciò che permette dunque di stringere con un collegamento logicamente necessario tutti i giudizi in cui ricorrono nozioni morali  (Locke, 1971: 632-636). Ma questo rigore dell’etica, questa sua struttura dimostrativa, e la sua completa dipendenza dalla razionalità, è possibile solo in  quanto si sono svuotate di qualsiasi portata realistica le nozioni etiche ricavandole integralmente da convenzioni linguistiche che permettono di dare vita a definizioni essenziali di tipo arbitrario. In generale questa forma di razionali  smo etico si unisce con una qualche fondazione contrattualistica dei principi  dell'etica nel senso di un qualche accordo sulla definizione delle sue nozioni  centrali. Ma la procedura contrattualistica può fondare una validità solamente  convenzionale  ovvero limitata a coloro che accettano di sottoscrivere il  patto  e dunque le basi della conseguente scienza etica dimostrativa risultano del tutto esili (cfr. $ 3.8).   Il razionalismo seicentesco ha presentato anche tentativi di dare una portata realistica alle conclusioni etiche scoperte mediante la ragione. Così ad  esempio in autori come Samuel Clarke e William Wollaston la ragione si presenta come la facoltà che permette di scoprire la verità in etica. Questo è possibile solo in quanto si ritiene che il bene e il male, il giusto e l'ingiusto siano  identificabili individuando quali sono le relazioni adeguate alle cose in se  stesse. Nel caso di Clarke il giusto non è altro che una relazione di adeguatezza tra l’azione e lo stato delle cose; per Wollaston il giusto non è altro che  un collegamento veritativo tra l’azione e lo stato complessivo delle cose (così  come l’ingiusto è dichiarare, con la propria azione, il falso). Ma questa prospettiva che riconduce il giusto e l’ingiusto a un giudizio di adeguatezza o  inadeguatezza tra le azioni e lo stato delle cose comporta due assunzioni che  saranno fortemente contestate nel pensiero successivo. Da una parte la convinzione che gli esseri siano ordinati secondo una gerarchia ben definita  la  grande catena degli esseri  che distingue nettamente tra livelli separati ontologicamente e forniti di valore diverso. Solo sulla base di questa assunzione  si può ad esempio, all’interno di questa prospettiva, considerare inadeguata  quella azione in cui l'animale sia preferito a un essere umano, o un essere  umano trattato in modo inadeguato al suo status ontologico. Questa tesi della  gerarchia tra gli esseri è contestata decisamente da tutta la ricerca evoluzionistica del XIX e XX secolo, Non necessariamente la scala evolutiva corrisponde a una scala di valore; non mancano inoltre i casi di confine difficilmente decidibili; nulla vieta di riconoscere valore anche agli esseri che si presume siano al fondo della scala degli esseri. La seconda assunzione dei  razionalisti realisti è che dare un giudizio sulla giustezza o meno di un atto {o  di un evento) si possa identificare con l’individuare una qualche relazione tra  le cose. Questa pretesa è criticata e dissolta da Hume che mostra con chiarezza (Hume) come un giudizio di relazione tra cose non  possa in alcun modo esaurire lo spazio di un giudizio morale. È infatti indubbio che relazioni dello stesso tipo di quelle in gioco nell’incesto sono rintracciabili tra animali, o che tra le piante ritroviamo collegamenti analoghi a quelli  che si hanno nel parricidio, eppure non possiamo certo concludere con un giudizio morale sulle «azioni» degli animali e delle piante. La pretesa di ridurre i giudizi morali a formule matematiche o a conclusioni razionali dimostrative risulta del tutto fallace.   Un tentativo  ma in una forma del tutto diversa dalle precedenti  di  fondare l’etica sulla ragione è stato anche quello di Kant e di coloro che ne  riprendono il razionalismo etico. In questo caso si sostiene che è la stessa ragione pratica o volontà pura, in quanto tale, che implica certi principi morali  che vanno rispettati se si vuole dare coerenza alle nostre conclusioni etiche.  Ciò che è bene e ciò che è giusto può essere quindi individuato conformando  la nostra scelta e decisione alle presupposizioni che vincolano qualsiasi volontà umana razionale. La razionalità pratica in quanto tale implica certi principi formali che sono rispettati solo da coloro che compiono le azioni effetti  vamente giuste o ingiuste (Kant; Landucci). È questa la strategia  fondazionale seguita da Kant per ricavare le diverse formulazioni dell'imperativo categorico (si veda $ 4.6) dalle regole trascendentali che presiedono alla  volontà umana. Critiche alla procedura epistemologica alla base dell'etica  kantiana vengono mosse su due piani. In primo luogo si obietta che la prospettiva kantiana in realtà concepisce la volontà umana in termini sostantivi e  dunque inttoduce fin dall’inizio nelle sue analisi apparentemente formali e  neutrali del volere umano dei tratti che non possono che portare a un ben  preciso esito morale. In secondo luogo viene obiettato che un mero appello  alla coerenza formale è del tutto inefficace in etica perché alla costrizione in  gioco nell’appello alla coerenza si può sempre sfuggire rifiutandosi di considerare come effettivamente insostenibile uno stato di incoerenza.   In questa rivisitazione del razionalismo etico faccio dunque mia la prospettiva critica che rileva che la ragione in quanto tale può solo permetterci di  trarre delle conclusioni che si esprimono in quelle che chiameremo deduzioni  o giudizi analitici. Ma se così stanno le cose ciò che è eticamente rilevante o è  già dato nelle premesse del nostro discorso  e allora occorrerà spostare la  discussione su come sono state costruite queste premesse  o non potrà certo  essere raggiunto ricorrendo al solo aiuto della deduzione razionale. La razionalità e la ragione umana in quanto tali non solo risultano eticamente vuote,  ma se si guarda poi alla ragione come facoltà intellettuale questa presenta l’insufficienza più generale, dal punto di vista fondazionale, di portare a conclusioni © esiti che non risultano direttamente motivanti. Scoprire che vi è una  certa relazione tra le cose, o che date certe premesse se ne ricavano per via  analitica determinate conclusioni è cosa ben diversa dall'essere mossi a fare  ciò che è bene, giusto, doveroso fare. La ragione può dunque solo aiutarci a  identificare ulteriori situazioni a cui estendere i nostri principi etici, una volta che noi già abbiamo  sulla base delle nostre sensazioni, emozioni e passioni  discriminato tra quello che approviamo 0 disapproviamo, apprezziamo o svalutiamo.    Il collegamento con la ragione umana  concepita come la parte migliore e più  alta, quasi una patte divina, della natura umana  è spesso sembrata la via  maestra per garantire alle conclusioni dell'etica sia una strategia peculiare sia  una superiorità rispetto a tutto il resto. Ma nel pensiero moderno e contemporaneo la consapevolezza dell’autonomia della morale ha portato ad abbandonare questa strada. Questa esigenza di riconoscere l'autonomia dell'etica  veniva già raccolta da Kant, sia pure in un quadro generalmente razionali.  stico, attraverso l'identificazione di una peculiare razionalità pratica. Ma altri  pensatori hanno preferito incamminarsi sulla strada di una derivazione dell'etica e delle distinzioni in essa in gioco da una facoltà ad doc del tutto peculiare ed irriducibile sia alla ragione o intelletto sia ai vari sensi che contribuiscono a dare agli uomini il bagaglio delle loro esperienze.   La strada dell'individuazione di una vera e propria facoltà ad hoc per la  vita morale è stata percorsa in modo sistematico e nel dettaglio da Hutcheson. Nei suoi scritti infatti egli presenta articolatamente uno  specifico «senso morale» che permette di cogliere direttamente le distinzioni  morali e che non è riducibile né alle operazioni dell'intelletto, né agli altri  sensi. La ricostruzione che Hutcheson fornisce del senso morale come facoltà  del tutto peculiare che permette di fondare oggettivamente le conclusioni etiche sembra giustificare l'attribuzione a questo pensatore di una concezione  intuizionistica (Norton, 1982). In definitiva il senso morale di Hutcheson è in  grado di cogliere direttamente delle vere e proprie qualità delle azioni e situazioni naturali da giudicare, Hutcheson si impegna anche a ricostruire il modo  in cui proprietà e qualità etiche sono collegate necessariamente con le altre  proprietà oggettive e reali delle cose di cui abbiamo esperienza. Dunque in  Hutcheson possiamo trovare un quadro intuizionistico che vedremo ripreso,  al di fuori di alcune pretese sensistiche, nel secolo XX.   Infatti intuizionisti come Sidgwick e Moore {o in parte H. Prichard,  A. Ewing e D. W. Ross; si veda Hudson, 1980: 74-104) insisteranno nel trovare nel campo dell'etica la presenza di peculiari proprietà non-naturali, ben  distinte dalle qualità naturali ordinarie, che solo una intuizione del tutto speciale può cogliere. La strategia di fondazione propria dell’intuizionismo etico  viene criticata in quanto perde di vista che al centro dell'etica non c'è tanto la  questione di riuscire a cogliere la presenza di questa o quella proprietà non-naturale  sia poi questa proprietà considerata come sopravveniente o come  una accanto a quelle naturali , quanto piuttosto di essere motivati o sentirsi  obbligati a fare certe cose considerate buone, giuste o doverose. Naturalmente questa difficoltà può essere supetata sostenendo che le proptietà nonnaturali con cui l'intuizione etica ci mette direttamente in contatto si presentano come costitutivamente motivanti e obbliganti. Ma un aggiustamento del  genere non sembra nulla di più che uno stratagemma convenzionalistico.   Per ovviare a questa difficoltà è stata elaborata una strategia  già in parte  riconoscibile secondo alcuni interpreti negli scritti di Hutcheson  che concepisce la facoltà in gioco nella conoscenza morale non tanto come uno strumento intellettuale e conoscitivo di registrazione e individuazione, quanto  piuttosto come essa stessa emotiva o sentimentale e dunque motivante e carica di energia attiva. In questa linea si collocano tutte le analisi sviluppate a  proposito dell'etica dai sentimentalisti del Settecento come ad esempio Shaftesbury, Hume e Smith. Ma in questa stessa direzione vanno le analisi di coloro che nel XX secolo sostengono (come è il caso di David Wiggins, 1987 e  John McDowell, 1981) sia rintracciabile nell’etica una peculiare sensibilità che  risponde appunto con una qualificazione di valore a certe azioni o situazioni.  La strategia epistemologica del sentimentalismo sembra però fuoriuscire dal  quadro fondazionale e muoversi piuttosto in quell'orizzonte più moderatamente giustificativo 0 esplicativo di cui renderemo conto nelle successive sezioni di questo paragrafo.   Infatti questa sensibilità peculiarmente morale si presenta come qualcosa  che va ricostruita e delineata nella sua specificità attraverso un esame a posteriori degli esseri umani. L'appello poi a questa base di giustificazione non permette certo di edificare giudizi etici forniti di quei caratteri di necessità e universalità definitiva a cui tendono invece coloro che si muovono in un orizzonte fondazionale.    Rifiutando la strada di una fondazione assoluta e aprioristica dell'etica vi  sono alcune concezioni che considerano le opzioni etiche come esiti a cui si  può arrivare dopo avere seguito una determinata procedura razionale. Percorrono questa strada quei pensatori che sul piano meta-etico considerano l'etica  € la morale come un universo di principi e norme frutto di decisioni 0 scelte  individuali e intersoggettive. Questa linea di giustificazione è propria ad esempio del contrattualismo etico. Il contrattualismo è stato inizialmente presentato  specialmente nel XVII e XVIII secolo da pensatori come Hobbes,  Locke, J. J. Rousseau e Kant  come una teoria mediante la quale rendere conto della genesi della società civile e delle istituzioni politiche (Gough). Ma il ricorso a qualche forma di contratto è stato spesso presentato  anche come una procedura in grado di dirimere in generale i disaccordi pubblici su tutti.i tipi di distinzioni etiche. In particolare nel XX secolo il contrattualismo è stato ripreso e sviluppato, ad esempio da Rawls e Gauthier, come  la teoria etica e la procedura di giustificazione di regole e principi capaci di  impostare meglio le questioni di giustizia sociale. In questa sede ci limitiamo a  presentare sinteticamente le concezioni di Hobbes e di Rawls viste come due  forme tipiche di tentativi di derivare la giustificazione delle conclusioni etiche  da procedure contrattuali. In realtà il contrattualismo si lega strettamente alle  forme di giustificazione prudenziale di cui abbiamo dato conto nel paragrafo  3.3. Le differenze che qui richiameremo non riguardano il tipo di ragionamento  in genere appunto prudenziale  che porta ad accettare il contratto  come una procedura idonea per risolvere i contrasti etici. Le differenze concemono piuttosto il contesto in cui la procedura contrattuale interviene, le  sue implicazioni e le conseguenze che se ne ricavano per quanto riguarda il  carattere vincolante degli esiti.  Nel caso di Hobbes il ricorso a una procedura contrattuale in etica si sviluppa dopo la presa d’atto dell’impossibilità di trovare una fondazione del  bene e del giusto in termini di rinvio al piacere di ciascuno e ai desideri e alle  « passioni individuali. Fare riferimento ai piaceri e desideri individuali non permette di superare quella condizione di guerra di tutti contro tutti che è propria dello stato di natura in cui ciascuno definisce bene, male, giusto e ingiusto, appunto a suo modo. Se si vuole mantenere uno stato di pace e convergere su qualche bene considerato comune (che certo comunque non potrà  essere trattato come un bene assoluto) bisognerà limitare la completa discrezionalità naturale concordando sull’accettazione di una procedura che permetta di realizzare patti condivisi. Secondo Hobbes, dunque, solo un contratto è in grado di vincolare i singoli individui all'accettazione di principi  etici che non siano direttamente riconducibili agli interessi egoistici di qualcuno. Nel fare ricorso al contratto come risolutivo Hobbes delineava tutta  una serie di condizioni che presiedono alla sua genesi e alla sua efficacia. Da  una parte il contratto incorporava tutta una serie di principi  secondo Hobbes le «leggi naturali»  che venivano considerati giustificati razionalmente,  in linea esclusivamente strumentale, come mezzi idonei alla conservazione in  vita dei contraenti e al mantenimento della pace tra loro. Dall'altra parte la  necessità di rendere vincolanti gli equilibri che vengono identificati mediante  la procedura di contrattazione porta a un completo trasferimento della forza  coercitiva a un potere che in nome della sua funzione di garantire il rispetto del contratto non è sottoposto ad alcun limite. Anche questa è una conseguenza derivante dalle assunzioni generali di Hobbes che vede appunto gli  esseri umani come del tutto egoisti e mossi da un irrefrenabile impulso possessivo in una condizione di scarsità di beni. Infine va rilevato che laddove in  Hobbes il potere non può avere limiti esterni, esso ha un ampio limite interno. Ciò dipende dalla convinzione di Hobbes che leggi contrattualmente  definite possono valere solo per i corpi di coloro che stipulano il patto, mentre sentimenti, emozioni e pensieri sono al di fuori della portata dell’applicazione di principi e regole create con la procedura condivisa.   AI modello di contrattualismo hobbesiano sono state mosse numerose critiche. In particolare è la sua peculiare derivazione artificialistica dei principi  etici ad essere oggetto di diverse obiezioni. La prima linea di obiezioni viene  da coloro che ritengono necessaria una fondazione assoluta dell'etica e che  rilevano la parzialità e la limitazione di una derivazione da un qualche contratto di regole e principi etici. Le leggi concordate mediante il patto possono  valere solo quando si è sotto il controllo di un potere totale e completo come  quello appunto ipotizzato nel Leviafazo di Hobbes, ma non riusciamo così ad  escludere defezioni quando il potere è inefficace. Hobbes sembra tentare una  risposta a queste critiche quando ammette la validità delle leggi naturali anche  «in foro interno» {Hobbes, 1976: 150-154; ma si veda Warrender, 1974), ma  risulta difficile capire qual è la base di obbligatorietà in questo caso delle leggi  naturali. Una seconda linea di obiezioni viene da quei pensatori che  come  ad esempio Hume  pur condividendo una spiegazione artificiale della genesi di principi e regole etiche, prendono poi le distanze da Hobbes e dal suo  contrattualismo per il particolare tipo di artificialismo razionalistico in gioco.  L’obiezione in questo caso è che il «costruttivismo razionalistico» hobbesiano   il considerate cioè i principi etici come il frutto di una scelta consapevole  di una serie di individui razionali  risulta del tutto inadeguato quando si  tratta di rendere conto della genesi di regole e principi etici. Vedremo nelle  ultime due sezioni di questo paragrafo în che senso il convenzionalismo etico  di Hume presentava un modello artificialistico di spiegazione dell'etica del  tutto alternativo rispetto a quello di Hobbes.   Un altro modello di giustificazione procedurale dell'etica è quello presentato nel modo più sistematico ed argomentato da Rawls.  Si tratta di un modello che viene ora abitualmente chiamato «contrattualismo  ideale» per distinguerlo da quello di Hobbes e da quello detto «contrattualismo reale» sviluppato da Gauthier,   Il modello epistemologico del «contrattualismo ideale» sostiene pur sempre che i principi giusti dell'etica possano essere individuati attraverso accordi, ma poi fa valere tutta una serie di vincoli relativamente alla procedura  considerata idonea per realizzare accordi equi. Rawls delinea tale procedura  come una «posizione originaria» del tutto artificiale. In primo luogo, gli individui che entrano nella posizione originaria da cui si scelgono i principi di  giustizia vanno considerati come individui rappresentativi e non già come singoli individui concreti. In secondo luogo, gli individui rappresentativi scelgono tra le diverse opzioni a loro aperte in una condizione caratterizzata da  «un velo d’ignoranza», ovvero si immagina che gli individui nella posizione  originaria non debbano sapere quale sarà la loro condizione effettiva e il loro  status concreto nella società. Infine Rawls ritiene che le scelte nella posizione  originaria debbano essere ispirate da un principio generale, che egli chiama  del maxinmin, secondo il quale si debba sempre preferire quell’alternativa che  permette di massimizzare le esigenze degli individui rappresentativi dello  stato peggiore.   La linea argomentativa di Rawls in realtà non si presenta come un tentativo di giustificare o fondare il nucleo centrale dell'etica, ma piuttosto come  un tentativo di decisione o risoluzione dei conflitti una volta assunta una determinata definizione della morale. Troviamo che fin dalla delineazione della  «posizione originaria» sono presenti alcune opzioni morali sostantive che  vengono incorporate nella procedura prevista per l'individuazione dei principi di giustizia. Ad esempio è fuori discussione fin dall’inizio che le soluzioni  da preferire saranno quelle più imparziali ed eque. Rawls non spende nemmeno un’argomentazione a giustificare queste opzioni di fondo che sono costitutive del suo contrattualismo. Ancora, in quanto Rawls si preoccupa principalmente di questioni di giustizia sociale o di distribuzione delle risorse, troviamo che egli fa valere il citato criterio di waxiziz. Contro questo criterio  numerosi studiosi di etica (ad esempio Harsanyi, 1988: 109-136) hanno obiettato che esso ha delle conseguenze controintuitive. Infatti il criterio del maximin ci costringe a preferire sempre e comunque quel corso di azione che può  migliorare sia pure di pochissimo le condizioni di chi sta peggio senza minimamente tenere conto di quanto questo corso d'azione peggiori le condizioni  di tutti gli altri o senza minimamente instaurare un confronto tra i diversi  corsi d'azione possibili ad esempio sulla base della probabilità effettiva che si  realizzi ciascuno di essi,   Dunque la procedura epistemologica a cui si richiama Rawls, ben lungi dal  giustificare le opzioni etiche, in realtà dà già per acquisita la natura dell'etica e  il suo ambito. Del resto questo è ampiamente ammesso dallo stesso Rawls che  ha riconosciuto che la sua ricostruzione della natura dell’etica è adeguata a  rendere conto delle intuizioni morali di un cittadino di una società caratterizata, come quella statunitense, dalle istituzioni liberal-democratiche. Spiega  Rawls che la sua etica è tale da non avere una portata metafisica, ma che si  presenta come prevalentemente rivolta a rendere conto di un ben preciso contesto storico e dunque politico (Rawls, 1994: 155-182). La procedura giustificativa delineata da Rawls può dunque operare solo presupponendo una serie  di intuizioni o credenze morali già date. La linea argomentativa del contrattualismo ideale è rivolta ad ottenere un risultato che Rawls stesso presenta  come una sorta di «equilibrio riflessivo» tra le nostre intuizioni di partenza e  i risultati più equi e giusti raggiunti attraverso una correzione delle distorsioni  e parzialità di tali intuizioni.   Caratteristico di questo modello è la caduta della pretesa di una fondazione assoluta e compiuta dei principi etici. Il contrattualismo ideale di Rawls  in definitiva riesce a generare accordi solo in quanto parte già da un accordo  dato in partenza tra tutti i membri della stessa società. Nulla può essere fatto  per convincere ad accettare l'etica da parte di coloro che non sono già cittadini della stessa società ideale che condivide il contratto. Laddove la posizione hobbesiana sembrava incapace di generare accordi se non presupponendo il ricorso a uno strumento extra-teorico quale la forza; la posizione di  Rawls è sterile perché si limita a ricostruire il modo in cui già di fatto si realizzano accordi, nelle società liberal-democratiche, tra coloro che accettano  politiche progressiste e nulla dice per dirimere i contrasti tra individui rappresentativi di società profondamente diverse (quali, poniamo, quelle del mondo  occidentale e quelle dei paesi dell’Africa o dell'Asia). La procedura contrattualista di giustificazione etica ha sicuramente un ampio spazio laddove contrasti e conflitti sorgano tra individui già vincolati a un certo patto e all’accettazione di una certa procedura per dirimere i contrasti. Ma poco o nulla può  offrire laddove si affrontino le questioni più sostanziali: da una parte di come  giustificare la scelta di avere un contratto da rispettare in luogo di non avere  nessuna forma di contratto; dall'altra di come giustificare l'opzione di continuare a rispettare il contratto, in luogo di defezionare, anche quando ciò danneggia i nostri interessi personali.    3.9. Il non-cognitivismo e la giustificazione logico-argomentativa del punto  di vista etico.  Una teoria della giustificazione © argomentazione etica è  stata messa a punto anche dai teorici del non-cognitivismo (cfr. $ 2.6).   Laddove gli emotivisti consideravano del tutto fallace la convinzione che si  potesse avere una reale discussione su questioni etiche, i teorici del non-coBnitivismo trovano possibile indicare una serie di procedure come peculiari  del ragionamento etico. Vale la pena di fermarsi brevemente sulle differenze    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    56 ETICA    sul piano della giustificazione e dell’argomentazione, dunque sul piano epistemologico, tra le posizioni degli emotivisti e quelle dei non-cognitivisti. Infatti  lo sviluppo di questa differenza rappresenta una delle vicende centrali dell'etica del XX secolo che viene completamente trascurata da quanti  come  ad esempio A. MacIntyre (MacIntyre, 1988)  assimilano rigidamente emotivismo e non-cognitivismo,   Nel caso degli emotivisti occorre distinguere tra le posizioni di Ayer e di  Stevenson. È appunto nelle pagine di Ayer (Ayer, 1961) che troviamo la posizione più radicale che ritiene che l’unico punto di dibattito effettivo in una  discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come sono  andate le cose e, per il resto, sia da considerare comeeffettivo in una  discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come sono  andate le cose e, per il resto, sia da considerare come del tutto illusoria la  pretesa di aprire una qualche discussione criticamente valutabile sulla rilevanza etica di ciò che è accaduto, In definitiva connotando eticamente qualcosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è  noto, sui gusti non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Stevenson, 1962; cfr. qudo eticamente qualcosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è  noto, sui gusti non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Stevenson, 1962; cfr. qui sopra $ 2.6) è meno riduttiva, ma finisce con il sostenere  che tutto ciò che possiamo fare da un punto di vista argomentativo o epistemologico in morale è divenire pienamente consapevoli del come usare nel  modo appropriato, come un potere causale, la forza emotiva presente nelle  nozioni etiche, vuoi per persuadere altri ad accettare i nostri standards, vuoi  impedendo che altri ci persuada con il mero ricorso a delle definizioni persuasive, Ma non resta nessuna possibilità pet discutere in una qualche forma argomentativa l'appropriatezza etica di un determinato giudizio morale. Laddove consideriamo l’etica come un linguaggio emotivo  sia pure, come fa  Stevenson, come un linguaggio guidato da regole nel suo uso  tutto ciò che  possiamo fare sul piano epistemologico è richiamare l’attenzione sulla presenza di tecniche di persuasione che possono essere utilizzate sia da una persona che voglia fare passare dei valori giusti, sia da chi invece voglia imporre  dei valori ingiusti, L'argomentazione etica, così come ce la presenta Stevenson  con il suo emotivismo moderato, non ci permette di discriminare tra questi  valori, ma solo di sostenerli nel modo migliore ed egli quindi riconosce in  questo campo solo uno spazio per procedure di tipo retorico o propagandistico.   Nel caso invece del non-cognitivismo, come sostenuto ad esempio da Hare  (Hare, 1971 e 1989), troviamo l'impegno a elaborare un'epistemologia per  l’etica che fornisca criteri di discussione e critica anche per il nucleo peculiare  di valori che è in gioco nel discorso morale. Come si è già spiegato (cfr. sopra,  $ 2.6) secondo questa concezione meta-etica la morale è costituita di prescrizioni universalizzabili soverchianti. Partendo da questa caratterizzazione della natura della morale un non-cognitivista ha di fronte a sé due problemi distinti. Si tratta, in primo luogo, di esaminare se vi sono vie argomentative per  convincere razionalmente a farsi guidare nelle proprie azioni da una morale  così intesa chi non la vuole fare propria preferendo un completo amoralismo.  In secondo luogo si tratta di delineare quali procedure argomentative sono  disponibili per sottoporre a controllo le diverse opzioni mortali possibili al fine  di individuare, per la situazione in cui ci troviamo, quale è la migliore prescrizione universalizzabile soverchiante. Esponiamo qui di seguito le due diverse  strategie argomentative così come vengono delineate da Hare.   Per quanto riguarda il livello di discussione che si apre nei confronti di chi  non intende in alcun modo ispirarsi a regole morali, sul piano argomentativo  non c'è molto da fare. Non si può cioè costringere logicamente qualcuno a  usare il linguaggio della morale; si può solo, una volta che egli lo usi, mostrare  che lo ha usato in modo inadeguato rispetto alle regole che ne governano  l'uso. Hare dunque sembra voler fissare come limite invalicabile per l’argomentazione morale il confine al di lì del quale si collocano tutti coloro che  non fanno in alcun modo uso del linguaggio morale. Nei confronti di costoro  si potrà fare qualcosa solo collocandosi da un punto di vista non strettamente  argomentativo. L'educazione e l’uso della forza sono due diverse strategie cui  si ricorre per far si che le persone facciano propria la forma di vita che include la morale.   All’interno della prospettiva non-cognitivista di Hare si può invece argomentare contro chi pretende di formulare giudizi morali ed invece in realtà  non rispetta le condizioni logiche necessarie perché un proferimento faccia  parte del linguaggio etico. Come sappiamo un'espressione linguistica farà  parte del discorso morale solo in quanto si presenta come una prescrizione  universalizzabile soverchiante. Possiamo identificare con chiarezza coloro che  pretendono di dare una portata morale alle loro affermazioni, ma compiono  degli errori logici (oltre che morali}. Le analisi di Hare sono rivolte a delineare  il tipo di argomentazione che può essere sviluppata contro il più comune  errore nell'uso del linguaggio morale, quello proptio dei fanatici morali. Le  posizioni dei fanatici morali nascono in quanto si prescrivono dei principi che  non vengono fatti valere  come la loro natura di principi morali esigerebbe  in modo analogo per tutte le situazioni simili indipendentemente dal  posto occupato da coloro che sono coinvolti. Un tentativo, coerente con la  concezione della morale propria del non-cognitivismo, può essere fatto per  contrastare il fanatismo morale ad esempio nella forma più ricorrente che è  quella del razzista (Hare, 1971; ma Hare più recentemente ha trattato anche  del caso di un medico che in nome dei suoi doveri professionali fa proprio    l’accanimento terapeutico: Hare). Si tratta di chiedere al fanatico di immaginarsi in una situazione in cui egli occupa il posto di colui nei confronti  del quale egli vuole fare valere in modo diseriminante i suoi pretesi principi  morali. Che cosa fa il razzista anti-semita quando una nuova informazione fornisce le prove che lui stesso è di origine ebraica? Il non-cognitivista può con.  siderare l'articolazione di un esperimento mentale del genere come un’estensione epistemologica della sua concezione meta-etica.   Si badi infine che l’argomentazione propria dell'etica che viene individuata  muovendo dalla concezione della natura dei giudizi morali avanzata da Hare  non si limita  come nel caso del formalismo kantiano  ad avanzare la richiesta di una mera coerenza formale, ma enuncia un requisito contenutistico.  In linea del tutto pregiudiziale un giudizio potrà essere incluso nell'universo  dei giudizi propri del discorso morale solo se prescrive un qualche principio  che si è pronti a far valere in modo analogo per tutti i casi simili indipendentemente dalla propria collocazione nelle situazioni investite. Lavorando su  questa condizione epistemologica della concezione che vede la morale come  insieme di prescrizioni universalizzabili soverchianti, più recentemente Hare  ha elaborato ulteriori passaggi critici a cui sottoporre le prese di posizione etiche. Nello sviluppare queste implicazioni epistemologiche si è incamminato lungo una linea che giunge a presentare come adeguate  su basi sostantive  quelle conclusioni che vengono ricavate dall’utilitarismo dell’atto.  In quanto ci troviamo di fronte ad un’argomentazione che ricava da una meta-etica una ben precisa etica normativa, ce ne occuperemo in un prossimo    paragrafo. Dalla giustificazione allo spiegazione dell'etica.  Proprio nel nostro secolo la riflessione filosofica sull'etica ha elaborato una serie di analisi  conseguenti a un radicale mutamento di approccio. L'effetto di questo cambiamento è che anche per quanto riguarda le procedure argomentative in uso  in morale l’obiettivo cui si tende è di ricostruirne il complesso delineando anche il contesto in cui si sono formate. Con questo approccio non ci si propone  dunque di fondare o giustificare aleunché 0 di modellare al meglio strutture  argomentative, quanto piuttosto di presentare spiegazioni complessive rivolte  a comprendere qual è il posto che l’etica occupa nella nostra vita. In definitiva  è la prospettiva che Hume aveva sviluppato nella sua scienza della natura  umana che viene recuperata, tradotta nel linguaggio del nostro secolo e resa  più rigorosa e determinata. L'etica viene così considerata come un presupposto della nostra forma di vita che non tanto va giustificato o fondato quanto  piuttosto spiegato nella sua concretezza. Si tratta dunque di un programma esplicativo che considera l'etica e le sue distinzioni come costitutive della  nostra esperienza del mondo, con un approccio in parte analogo a quello  kantiano impegnato a identificare le forme generali della nostra esperienza.  Ma questo approccio esplicativo non percorre poi la linea aprioristica kantiana dell'analisi trascendentale, proponendosi piuttosto di avanzare ipotesi  empiriche sulla natura dell'etica e le forme di argomentazione in essa correnti  (Preti, 1986). ;   Questo tipo di ricerca ha avuto nel nostro secolo una notevole espansione  parallelamente al tentativo della filosofia di trasferirsi dal piano fondazionale  a quello esplicativo (cfr. Gargani, 1975 e Nozick, 1987). Una prima differenza  tracciabile in questa linea filosofica, come si è detto, è relativa al tipo di spiegazioni, ovvero alla natura logica delle presupposizioni a cui ci si richiama,  caratterizzate o in una direzione trascendentale oppure come ipotesi empiriche.   Su basi kantiane un tentativo di spiegare l'etica è presente nelle analisi di  Putnam. La tendenza a esprimere giudizi morali è secondo  Putnam un modo del tutto aprioristico e comune al genere umano di categorizzare; in modo analogo va spiegata la stessa predilezione sostantiva per certi  contenuti (benevolenza, giustizia ecc.). Invece sul piano empirico si trovano,  tra le altre, le seguenti spiegazioni della morale. Da una parte abbiamo una  concezione come quella di Mackie che ritiene che l'etica  sia una produzione artificiale della cultura umana con cui gli vomini cercano  di fare affermazioni su specifiche proprietà del mondo, ovvero i valori o le  qualità etiche; ma queste affermazioni sono tutte false in quanto tali proprietà  non sussistono realmente. Dall'altra abbiamo le posizioni proiezioniste, quale  ad esempio quella di Blackburn, secondo le quali invece  si guarda all’etica come un prodotto della nostra cultura che ci consente di  fare riferimento a qualità o proprietà quasi reali (le proprietà morali) che noi  abbiamo proiettato sulle cose e sul mondo. Sono ancora da ricordare le analisi  sensiste di Wiggins e McDowell i quali ritengono viceversa che si debba considerare l’etica come il campo che gli esseri umani  costituiscono in quanto forniti di un peculiare senso o sentimento che li mette  in grado di cogliere delle proprietà nel mondo (appunto ciò che rende moralmente rilevante una qualche situazione) che hanno poi su di essi una forza  motivante e vincolante. Infine in un contesto più evoluzionistico Gibbard  indica nella morale un insieme di norme che gli uomini   anno elaborato nel corso di una loro attività peculiare che li muove a discutere pubblicamente sul come condurre le loro vite e come sentire a proposito  delle scelte fatte nel corso delle loro vite. Tutti questi diversi modelli esplicativi dell'etica e della sua genesi come si può vedere ne rendono conto in ter.  mini universalistici; l'etica si presenta cioè come un'istituzione del genere  umano che include al suo interno il ricorso a procedure pubbliche pet controllare la validità delle opzioni privilegiate. Larga parte di queste concezioni  esplicative sono rivolte a trovare una collocazione per la credenza che il controllo fattuale giochi un ruolo importante nella discussione etica. Una credenza del genere sussiste anche se i fatti morali non esistono, 0 sono solo delle  nostre proiezioni o tali che noi li cogliamo perché forniti di una peculiare attrezzatura percettiva.    In questo secolo un ampio dibattito si è sviluppato intorno a due nuclei problematici centrali per chiunque si  ponga l’obiettivo di una fondazione o giustificazione di conclusioni etiche. In  primo luogo hanno avuto un’ampia diffusione le discussioni relative alla cosiddetta «legge di Hume» che coinvolgono tutti i tentativi di fondare una  conclusione etica su basi scientifiche, osservative o empiriche. Il punto di partenza per questa linea di riflessione viene indicato in un passo del Treazise di  Hume (Hume, 1987: I, 496-497), il cosiddetto «is-ought paragraph», in cui si  richiama l’attenzione sulla differenza tra proposizioni in cui è presente la copula è {:5) e quelle in cui compare la nozione deve (ough)). A questo passo si  sono richiamati tutti coloro che hanno criticato come logicamente inaccettabile la derivazione di una conclusione normativa, e in generale etica, da premesse descrittive, assertive o in generale non-etiche (cfr. Hudson, 1969; Carcaterra; Oppenheim; Scarpelli; Celano). Sul  piano storico occorre precisare che è molto probabile che Hume non fosse  direttamente impegnato a formulare un vero e proprio principio logico relativo all’inderivabilità del dovere dall'essere, quanto piuttosto a segnare con  precisione la «grande divisione» concettuale tra conclusioni con l'è e quelle  con il deve. Importa però qui richiamare che nel XX secolo invece si fa rilevare che proprio da un punto di vista strettamente logico-formale e sintattico  si deve ritenere del tutto scorretto qualsiasi ragionamento o argomentazione  che pretenda di ricavare una decisione, una scelta o un giudizio etico da considerazioni che riguardano lo stato dei fatti o delle cose.   Questa posizione è stata ampiamente sostenuta nel corso del XX secolo  con articolazioni lievemente diverse. Così ad esempio Max Weber insisteva  con decisione sulla differenza di piani tra fatti e valori e dunque tra conclusioni avalutative e scientifiche sulla natura e sulla società e decisioni o assunzioni di responsabilità intorno a ciò che si deve fare (Weber, 1958; Rossi,  L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 61    1971: 249-315; Hennis, 1991). Partendo dalla stessa tesi della inderivabilità  dei valori o doveri dai fatti si sono rifiutate numerose concezioni spesso accusate di essere cadute nella «fallacia naturalistica» (Moore). Così da una patte vengono denunciate come frutto di un errore logico tutte quelle posizioni riduzionistiche o conformistiche che concludono  che ciò che si deve fare è o ciò che è naturale per l'uomo o ciò che è già  indicato dai valori accettati più o meno diffusamente nella società. Non diversamente viene considerata fallace quella specie di argomentazione etica propria dell'approccio consequenzialista che considera come completamente risolvibile un qualche problema morale ricostruendo con precisione  ammesso che tra l'altro questo sia fattibile  quali sono le conseguenze delle  diverse opzioni tra cui dobbiamo scegliere. In realtà sapere con precisione  quali sono le conseguenze delle alternative che ci sono davanti non basta per  ricavare una conclusione su ciò che dobbiamo fare perché una tale previsione   se attendibile  ci dirà solo ciò che ci sarà nel futuro, ma nulla ci dice sul  punto se certe conseguenze che ci saranno vanno poi preferite o meno ad altre  e dunque approvate o disapprovate. Tra l’altro era proprio questa l’argomentazione che faceva valere Hume nella sua Exquiry concerning the Principles of  Morals (Ricerca concernente i principi della morale; Hume)  contro i tentativi di derivare le distinzioni etiche dal principio di utilità.   Contro l’uso di questa critica come ghigliottina decisiva per numerose  concezioni etiche si sono schierati quei pensatori  particolarmente numerosi nell'ultirna parte del XX secolo  che hanno negato che si potesse nettamente distinguere un piano di descrizioni neutrali del mondo da un piano  di opzioni valutative su di esso. Questo tentativo di superamento del quadro  concettuale che sorregge la cosiddetta «legge di Hume» è stato principal  mente rivolto a contestare la concezione della scienza dei neopositivisti che  sembra sorreggere una forte divaricazione tra fatti e valori, essere e dovere.  Questa divaricazione è stata criticata e giudicata superata da numerosi pensatori pragmatisti, tra i quali in particolare Putnam. In secondo luogo indubbiamente rilevante per il problema della fondazione e della giustificazione dell’etica è tutto il dibattito  specialmente vivo  nella seconda metà del XX secolo  relativo alla possibilità di costruire una  logica delle norme. Collocandosi dunque sul piano della ricerca di una sintassi di un discorso etico che voglia fare valere al suo interno principi di coerenza e non-contraddizione è stata contestata la stessa possibilità di enunciare  una logica delle norme. Una posizione del genere è presente nelle conclusioni  a cui era giunto H. Kelsen nell'ultima parte della sua vita (Kelsen, 1985). Rilevando che le norme sono, dal punto di vista del significato, dei comandi, e che dunque come tali non possono essere valutati in termini di verità e falsità,  Kelsen negava che si potesse costruire un sillogismo logico in cui premesse e  conclusioni fossero degli asserti normativi. Le implicazioni della sintassi logica  possono valere solo in presenza di proposizioni empiriche o asserzioni scienrifiche, ovvero laddove premesse e conclusioni si collocano sul piano della verità e dunque da premesse vere (o false) si traggono conclusioni vere (o false).  Ma un enunciato normativo non è in alcun modo vero 0 falso e dunque non  può funzionare da premessa di nessuna conclusione logicamente derivata,  Così se presentiamo nella premessa maggiore un enunciato normativo di caratrere universale, laddove nella premessa minore troviamo l'individuazione  di una fattispecie rilevante sulla base della norma generale enunciata nella  premessa maggiore, secondo Kelsen non siamo autorizzati a presentare come  una conclusione logicamente necessaria una qualche azione o omissione {con  relativa sanzione). Coloro che contestano la possibilità di una logica delle  norme obiettano infatti che comunque il linguaggio normativo esige sempre  che ci sia un qualche comando effettivo ripetuto subito prima del compimento di qualsiasi azione.   Sia le «legge di Hume» sia le obiezioni alla possibilità di elaborare una  «logica delle norme» risultano particolarmente rilevanti nei confronti di chi si  muove all’interno di un contesto fondazionale e pretende dunque di dare una  qualche fondazione assoluta o conclusiva dell'etica. Ma se ci collochiamo sul  piano dell’argomentazione o della giustificazione (per non dire del piano della  spiegazione delle procedure effettivamente adottate) le cose risultano più  complesse. Per quanto riguarda, ad esempio, la cosiddetta «legge di Hume»,  sembra difficile non ammettere l'efficacia di quelle critiche rivolte al tentativo  di ricavare le proprie conclusioni etiche semplicemente da una ricostruzione  dei fatti in gioco, o da una mera raccolta di informazioni, o dall’accumulo di  una congerie più o meno estesa di previsioni. Dovrà introdursi prima o poi la  nostra preferenza per un qualche principio da fare valere in modo analogo in  tutte le situazioni simili, una preferenza che sia radicata nelle nostre emozioni  e che siamo pronti a mettere in pratica quando starà a noi agire facendola  prevalere su nostre opzioni non strettamente etiche. Questa ammissione di  una qualche frattura, divisione o salto tra il piano delle ricostruzioni empiriche della situazione e quello di una valutazione  e conseguente decisione   delle diverse opzioni che ci stanno di fronte non deve essere spinto però fino  ad esiti eccessivi. Così risulterà insostenibile sul piano metodologico una ricostruzione della natura dell’indagine empirica e scientifica che non tenga conto  di quanto le nostre osservazioni e le nostre esperienze siano dipendenti dalle  teorie, ipotesi e opzioni (anche valutative) da cui muoviamo. Né sarà accettabile un divisionismo spinto fino all’estremo di non riconoscere la rilevanza   in un certo senso come condizione necessaria anche se non sufficiente di  un’argomentazione etica  dell'impegno sia a verificare come stanno realmente le cose nella situazione in esame, sia a immaginare quali conseguenze  seguiranno una volta incamminatici lungo l’uno o l’altro corso di azione.   Non diversamente a proposito della questione della possibilità di costruire  una logica delle norme è difficile negare la nostra capacità sia di squalificare  certe prese di posizione etiche perché in contraddizione con principi già assunti, sia di estendere i nostri principi a situazioni nuove sulla base della tesi  logica che esse sono del tutto simili a quelle che abbiamo già giudicato. È  probabile che nel riconoscere questo ci muoviamo a un livello che non è esattamente quello della sintassi logico-formale, ma piuttosto  come ha suggerito Nowell-Smith delle implicazioni di una logica pragmatica che dà vita a una valutazione dei giudizi in gioco in termini di stranezza  logica. Ma la rilevanza e la portata di strategie di tipo sintattico o logico resta  innegabile se si abbandona la pretesa di muoversi sul piano di un'etica dimostrata in modo assiomatico e geometrico.   Va, infine, sottolineato che  malgrado le obiezioni di fondo dei puristi  della logica  larga estensione hanno avuto nella seconda metà del XX secolo  i tentativi di elaborare simbolismi e formalismi idonei al trattamento di  norme. Ben al di là dei tentativi o delle enunciazioni di principio si sono spinti  tutti coloro  da Wright a Alchourron e Bulygin  che si sono impegnati a elaborare la logica deontica e la logica delle  norme. I risultati raggiunti con tutta la loro complessa articolazione mostrano  la fertilità di un tentativo di dare vita a un trattamento simbolico della sintassi  delle norme e di inserire in un contesto logico le relazioni tra obbligazioni etiche. Difficile peraltro che tali modelli di linguaggi perfetti o ideali per le norme  o le valutazioni etiche possano essere di aiuto per ciascuno di noi quando, nella  vita comune, siamo alle prese con i nostri problemi etici concreti. Tali linguaggi  invece illuminano certamente il lavoro di giuristi, politici, scienziati sociali impegnati nel mettere a punto sistemi di norme più o meno stabili, efficienti, chiari  e comprensibili da tutti coloro per cui tali norme debbono valere.    4. Le etiche normative: concezioni in contrasto.    4.1. Eriche conseguenzialiste e deontologiche: principi, mezzi e fini nell'etica.  Quando si tratta di classificare le diverse concezioni etiche possiamo ricorrere a differenti criteri formali che si intersecano. È quanto faremo  n questo paragrafo, esponendo le differenti concezioni normative esistenti usando diverse strategie di classificazione. In primo luogo distingueremo le  etiche normative in generale sulla base di una loro struttura di fondo che col.  lega la valutazione etica 0 a un riferimento a principi 0 a una considerazione  delle conseguenze. Renderemo così conto della differenza tra etiche deontologiche o tuotanti intorno a principi ed etiche teleologiche o rivolte principalmente alle conseguenze, e accenneremo anche ad alcuni tentativi di elaborare  etiche miste. Passeremo poi a rendere conto delle diverse etiche normative  classificandole sulla base di un diverso criterio formale che ritiene essenziale  la distinzione tra etiche che fanno uso di una nozione di valore intrinseco, in  quanto contrapposta a quella di valore estrinseco, ed etiche che invece rifiutano tale distinzione. Esamineremo, infine, alcune concezioni normative che  identifichiamo come le più diffuse e vitali nelle discussioni di etica teorica nel  secolo XX. Ovviamente di pari passo con l’esposizione cercheremo sia di fornire le ragioni delle inclusioni ed esclusioni nella lista, sia della nostra preferenza critica per una di queste etiche.   Un modo ricorrente per distinguere tra le diverse concezioni normative è  dunque quello che contrappone l’etica che ruota intorno a un appello ai principi a quella che tiene piuttosto conto delle conseguenze dell’azione. Si tratta  di una distinzione che è centrale, ad esempio, nella riflessione di Max Weber,  che però se ne è valso non tanto per distinguere due tipi diversi di etica  quanto piuttosto per richiamare l'attenzione su due piani diversi della vita  etica: quello proprio del moralista che fa appunto appello alla rilevanza dei  principi e quello di chi  come il politico o chi sia comunque impegnato in  una dimensione tecnico-pratica  invece, muovendosi nel quadro di un'etica  della responsabilità, deve badare principalmente alle conseguenze dei diversi  corsi di azione in cui si impegna (Weber, 1966). Dietro queste due diverse  strategie possiamo anche ritrovare  come subito vedremo  un diverso  modo di considerare il rapporto mezzi-fini nella vita pratica.   Sono state presentate concezioni deontologiche dell'etica diversamente  strutturate. Avremo così diversi tipi di etiche dei principi a seconda che pongano al loro centro uno o più principi, e a seconda che concepiscano tali principi o come assoluti e aprioristici o come ricavati dall'esperienza e in generale  rivedibili. È così chiaro che l'etica kantiana si presenta come un'etica deontologica che ruota intorno a un solo principio di fondo, assoluto e a priori, dato  dall'imperativo categorico, e le diverse formulazioni offerte, dell'imperativo  categorico, non presentano in realtà principi diversi (Kant, 1970a). Nel caso  di alcune etiche del comando divino (come ad esempio l’etica cristiana o cartolica) vi è invece una tendenza a presentare come costitutivi della vita morale  diversi principi tutti assoluti (i vari comandamenti divini o le norme che costituiscono la legge naturale). Un'etica deontologica pluralista si trova di  fronte al problema (quasi mai invece affrontato esplicitamente in queste etiche) della necessità di disporre di un criterio chiaro per ordinare i diversi  principi e risolvere quei casi in cui più principi assoluti entrano tra di loro in  conflitto. Ma una concezione etica deontologica non è logicamente costretta a  considerare i principi al centro della vita morale come assoluti, immutabili e  di derivazione non empirica. Non mancano infatti analisi della vita etica (ad  esempio quella dell'evoluzionismo filosofico di H. Spencer  H. Spencer,  1893  o di certe forme contemporanee di intuizionismo  si vedano ad  esempio W. D. Ross, 1930 e A. C. Ewing, 1948) che pur ritenendo costitutivo  della vita morale l’appello a principi, non rendono conto del costituirsi di  questi principi lungo l’asse dell’impostazione kantiana o di quella religiosa. I  principi dell'etica vengono piuttosto considerati o come regole fissatesi nel  corso dell'esperienza quali abitudini o come assunzioni  più o meno convenzionali  preliminari, o anche come ipotesi più o meno rischiose da avanzare in situazioni risolvibili difficilmente con gli strumenti ordinari.   La questione centrale per una valutazione critica delle etiche deontologiche è quella di chiederci fino a che punto le si possa seguire nella loro assunzione che i principi e la coerenza sono il criterio determinante della vita morale senza che st debba tenere conto delle conseguenze di un'applicazione di  questi principi. Le etiche deontologiche incontrano in realtà difficoltà insormontabili in quanto si presentano come la struttura di riferimento di tutte le  forme di fanatismo morale, ovvero di quelle concezioni che ritengono che  l'unico modo per elaborare decisioni e giudizi eticamente validi sia quello di  dedurre coerentemente le implicazioni suggerite da principi considerati come  indiscutibili e non modificabili. Il fanatismo nasce laddove si spinge la fedeltà  ai principi fino a non tenere in alcun conto le eventuali conseguenze disastrose di questa fedeltà. Le etiche deontologiche partoriscono quindi spesso  moralisti che riaffermano continuamente vecchi principi che, in realtà, non  sono più in consonanza con la vita effettiva degli esseri umani, Paternalismo e  rigidità sembrano essere sul piano pragmatico alcune delle possibili implicazioni delle etiche deontologiche. Tali conseguenze sono evitate attraverso l’impegno a formulare elaborate casistiche che prevedono un'ampia gamma di  condizioni in cui si può fare un'eccezione alle regole, Mentre sul piano psicologico non è infrequente che tali etiche generino forme più 0 meno estese di  ipocrisia per cui regole e principi assoluti sono enunciati solo verbalmente e  in pubblico, ma non seguiti nelle scelte effettive e in privato.   Proprio come correttivo di questi eccessi formalistici e rigoristici sono  state presentate come più adeguate le teorie etiche che mettono al centro della vita morale una considerazione delle conseguenze delle azioni. Si tratta di etiche in cui è centrale la considerazione per la dimensione della responsabilità.  In luogo di una stretta fedeltà ai principi l'atteggiamento etico è quello di chi  è impegnato in una continua valutazione dei risultati. Si tratta di quelle concezioni dell'etica che già nel mondo antico, ad esempio con gli stoici, richiamavano l’importanza della prudenza per rendere conto del nucleo centrale  della vita morale, Queste posizioni conseguenzialiste hanno avuto un grande  sviluppo dalla fine del secolo XIX in quanto sono divenute la struttura portante delle etiche utilitaristiche. Sul piano logico non è però corretta un’assimilazione tra conseguenzialismo e utilitarismo. Infatti l'utilitarismo è una  delle varie forme che può prendere il conseguenzialismo, quella che considera  come criterio di valutazione dei risultati la realizzazione del massimo bene per  il maggior numero. Altre forme di conseguenzialismo possono assumere,  come criteri di valutazione dei risultati, concezioni del bene o del valore da  realizzare del tutto alternative rispetto a quella felicifica dell'utilitarismo.   Però proprio la possibilità di distinguere tra utilitarismo e conseguenzialismo richiama quella che sembra essere la difficoltà principale delle concezioni  conseguenzialiste, ovvero la loro incompletezza. Infatti una concezione che  mette in primo piano per la valutazione morale la considerazione delle conseguenze delle nostre azioni non sembra in grado di rendere conto pienamente  del giudizio etico, in quanto tale giudizio non può limitarsi a esaminare quali  saranno le conseguenze di certe scelte, ma dovrà anche valutarle sulla base di  ben precisi criteri di valore. Ci troviamo dunque di fronte alla difficoltà che  già richiamava Hume (Hume, 1987: II, 301-311), ovvero che una considerazione delle conseguenze può informarci solo relativamente ai mezzi e resta poi  da valutare del tutto indipendentemente l'accettabilità dei fini. Ma per quanto  possa essere incompleta, un'etica conseguenzialista richiama su quello che è  un passaggio necessario per le nostre valutazioni e decisioni; la considerazione  appunto di ciò che la loro accettazione comporta. Anche se poi questo approccio non può esimerci da una valutazione dell’accettabilità o meno dei risultati che si raggiungeranno. La concezione conseguenzialista dell'etica riesce  a rendere conto delle nostre valutazioni su ciò che è giusto o ingiusto ed esige  di essere integrata con una teoria della bontà o del valore dei risultati.   Per quanto riguarda poi l’uso della distinzione tra mezzi e fini in etica va  anche detto che specialmente nell'ultimo secolo varie forme di naturalismo  etico si sono impegnate nell’approfondire e render meno semplicistica una  considerazione esclusiva dei mezzi come passaggio obbligato verso i fini, riflutando così di considerare i mezzi come una dimensione incompiuta della vita  pratica. In questa linea si collocano le analisi di John Dewey nella sua Theory of Valuation (1939, La teoria della valutazione) che ha insistito nel richiamare  l'attenzione sul processo mediante il quale gli stessi mezzi possono trasformarsi in fini e nel mettere quindi in crisi una concezione che vede i fini come  un risultato finale, per sostituirvi una prospettiva che nella condotta umana  trova un conzinuute di azioni che da mezzi si trasformano in fini che a loro  volta si trasformano in mezzi ecc. Dall'altra parte vi sono stati teorici che  hanno concepito il conseguenzialismo come autosufficiente laddove non si  considerino i fini come valori intrinseci o valori in sé, ma piuttosto come valori estrinseci. Il valore intrinseco nell'etica.  Dal punto di vista normativo le diverse etiche possono essere differenziate anche sulla base del ricorso o meno  alla nozione di valore intrinseco. La nozione di valore intrinseco trova un uso  centrale nell’etica di Moore, ma anche ad esempio sul versante fenomenologico nell'opera di F. Brentano e poi di Max Scheler (Scheler, 1944: 121-130).  Nella seconda metà del XX secolo l’uso di tale nozione nella teoria etica è  stato più volte fatto oggetto di critiche in particolare da pensatori pragmatisti  {su questa discussione è da vedere G. Pontara, 1974, che presenta anche una  difesa dell’uso in etica di tale nozione). Vi sono stati altresì tentativi di delineare una nuova caratterizzazione della nozione ad esempio da parte di  R. Nozick (Nozick, 1987).   La nozione di valore intrinseco è legata al tentativo di dare all’etica una  dimensione oggettiva. Infatti in questo senso Moore (1964) collegava la nozione di valore intrinseco con quella di «unità organica». Le cose fornite di  valore sono uniche in quanto presentano una unità organica che non è definibile riducendo l’intero alle sue parti. In questo senso il valore intrinseco è la  contropartita a livello ontologico della tesi gnoseologica che riconosce nel  bene una qualità del tutto unica, semplice e indefinibile. D'altra parte il riferimento al valore intrinseco fa sì che si consideri il bene come qualcosa che  viene conosciuto come presente nel mondo oggettivo e non già come un  modo di sentire soggettivo. In questo senso Moore riteneva che le proprietà  etiche avessero una loro realtà e sussistessero indipendentemente dall'essere  percepite,   La tesi che vi sono degli interi forniti di valore intrinseco (come ad esempio per Moore le relazioni personali e le cose belle) permette di identificare il  normativo e l'etico con qualcosa che ha uno statuto peculiare e che dunque  non può essere ridotto a nessuna altra realtà. La posizione che ammette l’esistenza del valore intrinseco nega che ogni azione possibile sia fornita solo di  valore estrinseco e strumentale e che possa essere sostituita da qualsiasi altra azione. La concezione del valore intrinseco si accompagna dunque all’elaborazione di una teoria normativa che riconosce l'autonomia dell’etica e ritiene  anche che vi sia un modo compiuto e definitivo per fondare le conclusioni  dell'etica.   Anche Nozick (1987) usa la nozione di valore intrinseco come mezzo teorico per arrivare a riconoscere alle realtà al centro dell'etica un'oggettività e  una forza vincolante indipendenti dalle motivazioni individuali. Nozick, come  Moore, collega la nozione di valore intrinseco con quella di unità organica e  anzi propone una gerarchia delle realtà sulla base del diverso grado di valore  intrinseco, nel senso che sarà fornito di maggiore valore intrinseco quell’intero che connette in modo più organico, ovvero più stretto e unitario, un  maggiore numero di parti differenti. In questo senso la nozione di valore  intrinseco secondo Nozick può essere attribuita a un gran numero di esseri e  permette misurazioni e graduazioni. La moltiplicazione di esseri forniti di  valore intrinseco nella teoria etica di Nozick è confermata dalla tesi che  questo valore può essere creato o costituito (in quanto «valore contributivo»  alla totalità di valore intrinseco già esistente nel mondo). Nozick poi delinea  una precisa lista di realtà fornite di valori, suggerendo che in particolare sono  le persone e i sé ad avere una maggiore quantità di valore intrinseco e a  poterne creare di nuovo. Riprendendo la gerarchia degli esseri della tradizione aristotelico-tomistica Nozick indica nella persona umana il vertice tra le  realtà fornite di valore intrinseco nel senso che i sé personali possono scegliere di costituire unità organiche molto originali e strette, unificando l’insieme  molto differenziato di parti rappresentato dal fluire delle loro vite. Nozick  sembra dunque essersi impegnato a riproporre su una base laica e empiristica  la concezione religiosa e spiritualistica che indicava negli esseri personali  realtà fornite di un valore intrinseco e non sottoponibili a una valutazione  strumentale.   Un'etica che faccia uso della nozione di valore intrinseco va incontro alla  difficoltà di coinvolgere chi la sostiene in una serie di pretese metafisiche dif  ficilmente accettabili una volta sottoposte a controllo empirico. Così nel caso  di Moore la nozione di valore intrinseco in definitiva rinvia a una struttura  essenziale e sostanziale delle cose buone che può essere direttamente conosciuta solo ricorrendo a una intuizione niente affatto empirica. Nozick riesce  in parte a depurare la sua utilizzazione della nozione di valore intrinseco da  queste implicazioni ontologizzanti e metafisiche in quanto colloca tutta la sua  teoria non già su di un piano fondazionale, ma piuttosto su quello esplicativo,  Ma procedendo per questa strada non si capisce più perché sia strettamente  necessario usare in etica la nozione di valore intrinseco. Infatti se rale nozione viene introdotta solo per spiegare alcune assunzioni e intuizioni che si dà per  scontato siano presenti nel nostro modo di vivere la dimensione etica, potremmo rifiutarla negando di trovare in noi tali assunzioni e intuizioni, oppure  sottoponendo le assunzioni e intuizioni presupposte a una critica che ne faccia risultare l’artificiosità e l’inaccettabilità.   La nozione di valore intrinseco può avere un suo uso nel campo dell’estetica quando si tratta di spiegare il valore di cui una certa opera d’arte come un  tutto è fornita, valore che non è riconoscibile nelle diverse parti che la  costituiscono. Ma sembra difficile accettare come pacifica un'estensione di  tale nozione alla vita morale, In realtà affermando l'imprescindibilità dell'etica  dalla nozione di valore intrinseco si ripropone sotto una nuova forma l’obiezione che contro le concezioni conseguenzialiste muove chi fa appello all’ineliminabilità dei principi. Il sostenitore dell'etica  dei principi rimarca che la considerazione delle conseguenze esige comunque  una loro valutazione ticorrendo a principi. In modo analogo chi ritiene  ineliminabile dall’etica l’uso della nozione di valore intrinseco rimarca che  una considerazione etica in termini di valore strumentale rinvia sempre a  qualcosa che è fornito invece di valore intrinseco 0 finale. Con questo lessico  la critica al conseguenzialismo si carica di allusioni ontologiche, metafisiche e  oggettivistiche che è difficile possano avere un riscontro sul piano dell’analisi  empirica,  L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. Passando al piano più  sostantivo un'etica normativa chiaramente identificabile è quella giusnaturalistica o della legge naturale. Abbiamo già avuto modo (cfr. $ 3.4) di sostenere  come il giusnaturalismo e la concezione della legge naturale vadano incontro a  profonde difficoltà epistemologiche, ma resta fermo che anche nel corso del  XX secolo  benché con minore fortuna che nel passato  sono riconoscibili dei sostenitori di un concezione giusnaturalista o della legge naturale (ad  esempio Finnis, 1983), Si tratta di quella posizione etica che ritiene che gli  uomini hanno per natura determinati doveri e obblighi e che tali doveri e obblighi siano determinabili prima e indipendentemente dal costituirsi di qualsiasi istituzione giuridica o politica.   La tradizione giusnaturalistica ha avuto, dopo la presentazione da parte di  Tommaso d’Aquino di un’etica cristiana della legge naturale, una ripresa e  una formulazione sistematica nel corso del XVII secolo da parte di autori  come Grozio e Pufendorf. La concezione della legge naturale è stata poi varie  volte ripresentata nei secoli successivi e tuttora costituisce l'etica prevalente  nelle visioni cristiane e religiose. Le concezioni della legge naturale ruotano intorno al riconoscimento di una serie di obblighi e di doveri propri della natura umana. Proprio conseguentemente a questo riconoscimento i teorici  della legge naturale fanno ampio uso del linguaggio dei diritti, anzi possiamo  ritenere che la diffusione nell'età moderna e contemporanea di tale linguaggio  sia una ricaduta del giusnaturalismo del XVII secolo. Va però sottolineato  come sia del tutto differente il ruolo che i diritti hanno nelle concezioni giusnaturalistiche rispetto a quello che essi hanno nelle teorie etiche dei diritti  propriamente dette. Infatti i diritti affermati da un'etica giusnaturalistica non  sono mai illimitati e assoluti, ma trovano una delimitazione nell’obbligo o  dovere che occorre comunque rispettare facendo valere il proprio diritto. Le  diverse classificazioni dei diritti rinviano quindi a un contesto di leggi, doveri  e obblighi che resta primario.   I teorici della legge naturale concordano nel ritenere che gli uomini in  quanto tali hanno tutta una serie di diritti e doveri paralleli: ad esempio, l’esistenza di un diritto alla vita da parte di qualcuno sì accompagna al dovere del  rispetto della vita di costui da parte degli altri. Tra gli obblighi più frequentemente richiamati dai teorici della legge naturale ricordiamo i doveri verso se  stessi, i doveri verso gli altri (distinguendo in questo ambito tra i doveri verso  i propri familiari e i doveri verso i propri concittadini) e i doveri verso Dio. I  doveri verso se stessi sono spesso identificati con tutta una serie di massime di  tipo prudenziale, sulla base di un più generale principio che considera la vita  umana  più specificamente la propria vita  come non disponibile. All’interno del quadro delle etiche giusnaturalistiche infatti il suicidio è general  mente considerato inaccettabile.   Per quanto riguarda poi la dimensione dei doveri verso gli altri una prima  proposta è quella che distingue tra i doveri in senso più stretto nei confronti  dei propri familiari e i doveri in senso più generale verso i propri simili.  Un'altra distinzione ricorrente tra i teorici del giusnaturalismo è quella tra  doveri perfetti e imperfetti. Ci si trova di fronte a doveri perfetti laddove a  questi doveri non si può disattendere in quanto sono legati a un corrispondente diritto da parte degli altri e dunque con una qualche codificazione. Così  in questa classe rientra il dovere di non ledere gli altri o di ottemperare a una  promessa o patto sottoscritto. Nella nozione di lesione si fa spesso rientrare  non solo il danno fisico, ma anche il danno relativo ai beni ovvero alla  proprietà. Vi sono invece tutta una serie di doveri imperfetti: essi riguardano  azioni che non siamo sempre tenuti a realizzare perché gli altri non le possono  pretendere da noi come un loro diritto (ad esempio le azioni mosse da  generosità 0 beneficenza); oppure si tratta di doveri speciali legati al partico.  lare posto che si occupa, ovvero al ruolo professionale, o al ruolo nella famiglia (padre, madre, figlio ecc.), o alla carica che si ricopre nella società.  Non mancano tentativi fatti dai teorici della legge naturale specialmente  nel XVII secolo con Grozio, Pufendorf, Althusius e Thomasius (Bobbio,  1980) di esporre in forma compiuta e sistematica tutto il codice di obblighi e  doveri.   I teorici della legge naturale riconoscono uno statuto del tutto peculiare al  dovere nei confronti del governo o dello Stato, ovvero al dovere di obbedienza 0 lealtà nei confronti delle leggi del proprio paese. Ma proprio la riflessione intorno a questo dovere, alla sua assolutezza o ai suoi limiti, segna nel  corso del XVII secolo il processo di crisi per l'etica della legge naturale. Infatti Hobbes mette in luce la difficoltà di conciliare all'interno di un'etica  della legge naturale due distinte esigenze entrambe considerate essenziali: da  una parte il dovere di obbedienza al governo e dall'altra un qualche diritto a  resistere al governo ingiusto. Hobbes indicava la soluzione nel rimettere al  governo attraverso il patto tutti i diritti e dunque complessivamente anche il  diritto di resistenza, lasciando però all'individuo la possibilità di salvare con la  fuga la propria vita quando in pericolo.   La concezione giusnaturalistica dunque è entrata in crisi non solo sul  piano epistemologico (cfr. $ 3.4), ma anche per la sua incapacità di fornire  soluzioni pratiche effettive ai problemi etici che di volta in volta si sono presentati agli uomini. Quanto più le condizioni di vita degli esseri umani sono  andate collocandosi in un ambiente artificiale, tanto meno il richiamo alla natura è risultato decisivo e chiaramente comprensibile. Non solo il dovere di  resistenza del cittadino nei confronti dei governi ingiusti o delle guetre ingiuste è risultato inderivabile da una presunta legge naturale, ma molti dei doveri  a cui rinviava la legge naturale sono apparsi desueti o inutili o lacunosi  quando le condizioni di vita si sono andate trasformando radicalmente nel  corso di un processo di civilizzazione che ha segnato il prevalere di condizioni  artificiali di vita. Si pensi, ad esempio, alle profonde trasformazioni che hanno  subito le relazioni familiari. Da queste trasformazioni deriva la vuotezza di  quelle concezioni che pensano di potere risolvere i conflitti facendo appello a  ciò che è naturale. Le questioni legate alle relazioni familiari o ai rapporti tra i  sensi non trovano certo più una soluzione ovvia e condivisa rinviando a una  presunta famiglia naturale ideale o a un comportamento appropriato e lodevole secondo un qualche modello naturale di padre, madre, figlio e dei rispettivi doveri. Ancora, per cogliere le difficoltà a cui va incontro il giusnaturalismo si pensi come al suo interno sia arduo trovare risposte per i problemi che  nascono con le nuove professioni o le nuove responsabilità etiche (pensiamo a  chi si occupa di gestione o trasmissione delle informazioni o delle immagini, o a chi si occupa di terapia delle malattie mentali). L'etica della legge  naturale pretende di trovare nella natura umana da sempre e per l'eternità  doveri e diritti relativi a condizioni e situazioni che solo cinquant'anni fa  erano inimmaginabili. Né una riduzione a una presunta essenza della condizione umana può risolvere queste difficoltà in quanto per questa via le norme  ricavate dalle leggi naturali si presentano con una formulazione tanto astratta  e generica da risultare del tutto inefficaci. Proprio perciò la tradizione giusnaturalistica si è andata sempre più svuotando della sua forza pratica e l'appello  alla legge naturale è divenuto solo uno strumento retorico e ideologico, unito  alla reiterazione di regole (spesso del tutto incapaci di guidarci) molto generali quali «non uccidere», «non rubare» ecc.    44. L'etica contrattualistica e le sue forme.  Il contrattualismo come  teoria etica fu elaborato inizialmente nel corso del XVII secolo proprio come  superamento del giusnaturalismo cristiano e medievale. La possibilità di indicare nella natura umana un fondamento adeguato per l’etica veniva messa in  crisi da Hobbes indicando la completa assenza, nella natura originatia degli  uomini, di tendenze che rendessero possibili la pace, l'ordine e la cooperazione sociale. Proprio in quanto la natura umana immaginata in uno «stato  di natura» è incapace secondo Hobbes di dare fondamento alla distinzione  tra il bene il male, tra il giusto e l'ingiusto, queste distinzioni vanno collegate a  una procedura artificiale che coincide con il contratto. Il contratto fu ampiamente usato nel corso del XVII secolo come criterio etico decisivo da  autori  molto diversi tra loro  come Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Locke  {Gough, 1986).   Un tratto tipico comune del contrattualismo del XVII secolo sta nel fatto  che il contratto è presentato come un criterio che può riuscire a fondare solo  una parte del contenuto dell'etica  quello che ha a che fare con le leggi  giuridiche e con le istituzioni politiche , ma non la totalità dell'etica e în  particolare non può rappresentare un criterio adeguato per fondare la morale  nel senso stretto in cui ne trattiamo in questo scritto. Proprio perciò i teorici  nel XVII secolo, al di lì dello spazio garantito dal contratto, rinviano a una  diversa base come fondazione per la morale propriamente detta. Ad esempio  nella teoria di Hobbes troviamo che o  secondo la maggior parte dei suoi  interpreti  vi è una completa assenza di morale nello stato di natura e prima  del patto che dà vita all’ordine civile, oppure  ad esempio secondo H. Warrender (1974)  la morale viene fatta dipendere dagli ordini di Dio, o infine   ad esempio secondo Bobbio (1989)  la si fa dipendere da un calcolo  prudenziale. Pufendorf e Locke invece ritengono che il contrattualismo per quanto riguarda l'obbligo giuridico e politico possa (e debba) essere accompagnato dall'accettazione del giusnaturalismo per quanto riguarda l’obbligazione morale propriamente detta. Una prospettiva che restringe la portata  della procedura artificialistica del contratio è presente anche in un autore  come Jean-Jacques Rousseau che pure indica, nel contratto sociale (Rousseau,  1966), l’unica via per correggere le distorsioni generate dalla corruzione prodotta dallo sviluppo della società e ricostituire così condizioni etiche più consone alla natura degli uomini (Rousseau, 1988).   Solo con il XX secolo il contrattualismo si è presentato come criterio etico  generale non ristretto alle situazioni di pertinenza del diritto e della politica. È  infatti con Rawls e la sua «teoria della giustizia» (Rawls, 1982) che la concezione contrattualista viene proposta come strategia adeguata per individuare i  principi etici in generale. Va però rimarcato che il «contrattualismo ideale» di  Rawls riesce a funzionare da criterio generale per l’etica solo in quanto si delinea come una procedura che ha incorporato in sé un altro requisito ritenuto  caratteristico dell’etica: quello dell’imparzialità o dell'assunzione di un punto  di vista generale. Abbiamo già indicato (cfr. $ 3.8) i limiti del contrattualismo  di Rawls per quanto riguarda le procedure epistemologiche a cui si richiama;  sul piano normativo va rilevato che tale criterio è in grado di indicare soluzioni  ad esempio nella distribuzione dei beni disponibili  solo in quanto  tutti coloro che sono coinvolti accettano già alcuni vincoli. Perché la procedura contrattualistica possa risultare decisiva bisogna, dunque, ritenere che ci  sia già un qualche accordo nel considerarsi cittadini di una stessa comunità;  oppure, in alternativa, bisogna ritenere che ci sia un’armonia prestabilita (un  residuo del provvidenzialismo settecentesco) che garantisce la confluenza degli interessi individuali nel bene generale. Proprio come correttivo di queste  limitazioni Gauthier ha presentato una procedura delineata come una forma  di «contrattualismo reale» (Gauthier). Questa strategia si sforza di mostrare che un certo esito identificato come un equilibrio di contrattazione risulta per tutti coloro che sono coinvolti più conveniente in termini di soddisfazioni personali. Resta però da dire che in questo caso il criterio etico decisivo sembra presentarsi  al di lì del contratto  in una sorta di «egoismo  razionale» che accetta i vincoli di una contrattazione come mezzo migliore  per l'ottimizzazione di risultati anche dovendo fare conto su eventuali sostegni o ostacoli da parte degli altri (cfr. $ 3.3).   In generale dunque il contrattualismo presenta un criterio normativo che  non è in grado di esaurire nella sua interezza lo spazio dell'etica, ma che ha  bisogno di rinviare a criteri aggiuntivi (imparzialità o egoismo razionale) ove  lo si voglia fare valere al di là del piano giuridico e politico. Un'etica dei diritti.  Anche l'etica dei diritti si è andata sviluppando nella cultura moderna e contemporanea come un correttivo della concezione giusnaturalistica. Una prima fase dell'etica dei diritti nel corso del  XVII secolo fu la via attraverso la quale si cercò dì garantire la sfera di autonomia delle persone nei confronti dell'intervento della legge e del potere politico. I diritti che vengono fatti valere sul piano etico si presentano dunque  prevalentemente come diritti negativi e di libertà contro l’ingerenza di un potere esterno. Così, da una parte, autori come Hobbes e Locke si fermarono a  lungo sui diritti negativi alla autoconsetvazione e alla proprietà dei beni ed  altri autori  come ad esempio Anthony Collins (1990)  e in generale i  free-tbinkers  cercarono di far valere il diritto alla libertà di pensiero. Il processo teso a garantire i diritti negativi ebbe esito sul piano storico con le varie  Dichiarazioni dei diritti degli Stati Americani (1776-1789) e con la Dichiarazione dei diritti della Rivoluzione francese (1789; cfr. Cassese, 1988).   Nel corso del XIX secolo e nella prima metà del XX vi è stata una contestazione della teoria etica dei diritti, da una parte dagli utilitaristi sul piano  epistemologico e, dall'altra, dai marxisti sul piano di una critica storico-sociale. Ma  come rileva Brenda Almond (Almond, 1991}  una ripresa dell'etica dei diritti si è avuta dopo la seconda guerra mondiale in particolare  come reazione alla soluzione finale e al penocidio voluto dai nazisti. Si è così  assistito a un progressivo ampliamento dell'etica dei diritti fino al punto che  Bobbio ha potuto indicare come adeguata per la nostra epoca l’espressione di  «età dei diritti» (Bobbio, 1990). Infatti più recentemente hanno fatto ricorso  al linguaggio dei diritti anche quelle concezioni che in precedenza lo avevano  criticato, come ad esempio l’utilitarismo  che l'aveva riftutato come del  tutto privo di sensatezza  o l'etica cattolica  che l’aveva attaccato come  espressione del trionfo di una mentalità moderna anarchica e priva di eticità.  Nella seconda metà del secolo XX si è altresì assistito a una espansione della  sfera dei diritti affermati come degni di salvaguardia. Infatti la più recente  etica dei diritti non si limita più a rivendicare i tradizionali diritti negativi ma  ha esteso le pretese anche a tutta una serie di diritti cosiddetti positivi (ad  esempio alla salute, all'educazione, ad un lavoro ecc.). Ma in questa sede non  possiamo limitarci a prendere atto della larga diffusione a livello di opinione  pubblica del linguaggio dei diritti; dobbiamo piuttosto impegnarci a identificare e valutare criticamente le concezioni teoriche che hanno visto nell’affermazione dei diritti il criterio etico fondamentale.   Nel corso del secolo XVII laddove i sostenitori della legge naturale preferivano richiamare sul piano etico il primato dei caratteri essenziali della natura umana intesi in modo complessivo, o per così dire olistico, i sostenitori di un'etica dei diritti  pur conservando la convinzione di una legge naturale o  divina che fonda in modo assoluto l’etica  facevano proprio  sia pure in  modo grezzo e schematico  il quadro teorico dell'individualismo metodologico. Muovendo da questa prospettiva, almeno per una parte della storia dell'etica dei diritti possiamo accettare il quadro esplicativo proposto da autori  come L. Strauss (1990) e C. B. Macpherson (1973) che identificano questa storia con quella della lotta di una nuova classe in ascesa  la borghesia 0 ceto  medio, ovvero il ceto di produttori  per giungere a un ticonoscimento delle  sue esigenze da parte della legge o del potere politico. Dunque una prima fase  dell'affermazione dei diritti fu rivolta a far valere pretesi diritti naturali degli  uomini contro lo strapotere della legge e dello Stato. Si tratta di quella fase  che possiamo ritenere conclusa con le Rivoluzioni americana e francese in cui  si affermano i diritti negativi alla vita, alla libertà, all'autonomia, alla resistenza, alla proprietà ecc. In questo quadro, oltre ai teorici del liberalismo  settecentesco, possiamo collocare anche autori che, come Rousseau, sono impegnati a recuperare una serie di esigenze naturali degli uomini contro le limitazioni progressivamente delineatesi nella storia della corruzione umana.   Nel corso del XX secolo invece i fautori dell'etica dei diritti hanno cercato, sempre su un piano morale o pregiuridico e prepolitico, di argomentare  a favore del riconoscimento di una serie di esigenze minime che gli esseri  umani avrebbero in quanto tali e che le collettività dovrebbero garantire con  le loro istituzioni e forme di vita organizzate. Tra questi diritti positivi rientrano ad esempio quelli alla salute, al lavoro, a una casa o più genericamente  alla liberazione dalla povertà o addirittura al benessere o alla felicità. Laddove  nella prima fase erano i diritti dell’individuo o del cittadino che si cercava di  considerare come criterio decisivo dell'etica, nella fase più recente si prendono a guida piuttosto i diritti della persona umana più ampiamente intesa.  Va però rilevato che ci si trova di fronte a una sorta di contrasto 0 incompatibilità tra l'affermazione dei diritti negativi e quella dei diritti positivi. Come  ha più volte sottolineato Bobbio (1990) l'espansione dei programmi di difesa  dei diritti sociali o positivi (a parte le difficoltà di concordare una lista precisa  dei diritti da includere in questo programma e di convergere su una loro gerarchia) non può che essere realizzata dando al potere politico e giuridico una  qualche autorità per limitare eventualmente i diritti negativi individuali che,  se illimitati, non permettono il raggiungimento per tutti i membri di una società dei diritti sociali.   Dal punto di vista teorico nel nostro secolo l'appello ai diritti è stato collegato, sul piano fondazionale, non solo con la legge naturale, ma anche con  altre strategie etiche. Non è mancato chi ha cercato di fondare i diritti in un quadro generalmente contrattualistico (ad esempio Rawls, 1982), o di recupecarne un qualche riconoscimento anche in un quadro utilitaristico (ad esempio Hare, 1989), anche se in queste concezioni i diritti non hanno più una  collocazione primaria e originaria ma solo un ruolo sussidiario e derivato.  Non sono poi mancate profonde divaricazioni per quanto riguarda il tipo di  tradizione etico-politica al cui interno sono state calate le affermazioni dei diritti. Da una parte si è fatto ricorso alla tradizione liberale che ha piuttosto  insistito sui diritti negativi degli individui nei confronti della società civile e  spesso contro lo Stato (così da I. Berlin, 1989, fino alle posizioni anarchiche di  R. Nozick, 1981). Dall'altra si colloca la strategia  che ha trovato espressione nei movimenti democratici e socialisti e in forma più totalitaria nei regimi comunisti  che in nome della realizzazione dei diritti sociali dei cittadini ha proposto limitazioni più 0 meno estese delle libertà negative.   Una storia del progressivo espandersi e modificarsi delle rivendicazioni dei  diritti può essere una strada molto fertile per ripercorrere la storia della morale e del costume sociale nelle società occidentali, ma non permette di arri.  vare a identificare un preciso criterio etico. In questa direzione già Bentham  mostrava le fallacie e le insufficienze di una teoria etica dei diritti che a suo  parere non poteva che confluire in un'etica della legge naturale e dunque in  una forma di etica autoritaria o dell’ipse dixit {Bentham, 1981). Un'alternativa  alle concezioni giusnaturalistiche che può essere percorsa dall’etica dei diritti  è quella che, secondo alcuni interpreti, sarebbe propria di Hobbes, il quale  identifica i diritti con le prerogative che ciascuno individuo si trova di fatto ad  avere a ragione delle sue condizioni storiche, del suo status sociale, delle sue  capacità, forza ecc. Una impostazione che però rende praticamente impossibile un qualche bilanciamento dei titoli che qualsiasi individuo può far valere  come decisivi. Ovviamente si presentano qui come insolubili pretese confliggenti di diritti in una condizione come quella umana nella quale per la scarsità  delle risorse e i vincoli emotivi degli esseri umani non sono contemporaneamente soddisfacibili tutte le esigenze di tutti.   L'etica dei diritti manifesta la sua maggiore inadeguatezza sul piano critico  e teorico proprio nella seconda metà del XX secolo, quando realizza il maggiore successo dal punto di vista della sua diffusione come forma di discorso  prevalente nell'opinione pubblica. Infatti proprio in questo periodo vi è stato  un fiorire di nuovi diritti ed un indubbio processo di democratizzazione (ovvero di allargamento della base di coloro che avanzano le pretese di diritti),  fenomeni che ben lungi dal risolvere problemi etici ne hanno fatto sorgere di  nuovi. Abbiamo assistito, proprio come conseguenza del prevalere della  forma di rivendicazione etica che fa appello ai diritti, a un riacutizzarsi dei contrasti in campi quali quelli della nascita, della morte, della cura, dell’ambiente, del trattamento degli animali, della considerazione delle generazioni  future ecc. Da un punto di vista puramente descrittivo  e lasciando sospeso  il giudizio di merito su questi fenomeni  si può rilevare una crescita esponenziale di nuovi soggetti di diritti e di diritti che ciascun soggetto avanza con  la pretesa che siano riconosciuti da tutti e salvaguardati dalle istituzioni politiche e giuridiche. Dietro questo diffondersi delle pretese ai diritti, invece, da  un punto di vista teorico e fondazionale restano valide le strategie del passato  con cui si era già cercato di giustificare il primato dei diritti presentandoli, di  volta in volta, come una pretesa di verità (White, 1984), uno strumento emotivo particolarmente persuasivo (Hagerstròm, 1953), una sorta di «asso di briscola» (Dworkin, 1982), un titolo richiamato come valido (Nozick, 1981), Ma  il tentativo di costruire una qualche etica dei diritti come risolutiva va incontro a difficoltà insuperabili quando si tratta di fornire criteri sicuri per decidere quali nuovi diritti riconoscere effettivamente come meritevoli di codificazione giuridica o di tutela morale. Non diversamente, il contesto teorico  dell'etica dei diritti non è in grado, di fronte a casi concreti, di offrire una  strada argomentativa per superare contrasti e conflitti proprio relativamente a  diritti da riconoscere convergentemente. Per questi suoi limiti epistemologici  l’etica dei diritti si presenta, più che come una teoria valida e coerente, come  una retorica pubblica largamente usata oggi nella nostra cultura.    4.6. L'etica kantiana e la persona umana.  Un modello del tutto peculiare di etica normativa è quello che si trova negli scritti di Kant. Come ha  sottolineato Frankena, nel caso di Kant ci troviamo di fronte a una ben precisa forma di «deontologismo della regola» {Frankena, 1981). L’universalità  richiamata dall’etica kantiana si collega, su un piano epistemologico, con una  forma di intuizionismo che attraverso la via del trascendentalismo sfocia in un  realismo etico che esclude la possibilità di conciliarlo con una meta-etica noncognitivistica. Va così rifiutato il tentativo di Rawls {Rawls, 1980) di trovare in  Kant un'etica sostanzialmente costruttivistica e puramente procedurale.   La legge etica di fondo dell’etica kantiana  ovvero l'imperativo categorico «agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere nello stesso  tempo come principio di una legislazione universale» (Kant, 1970a: 167)  si  presenta come decisiva e capace di indicare le soluzioni dei diversi conflitti e  disaccordi etici. Ma è proprio questo universalismo dell’etica di Kant che è  stato più frequentemente criticato. L'etica kantiana si presenta secondo i critici come una mera etica della coerenza formale e propria di una volontà che  per rendersi il più universale possibile si depotenzia, si svuota di contenuti e si rende del tutto incapace di incidere in qualche modo sulle effettive opzioni  presenti nelle situazioni reali.   La comprensione della proposta etica kantiana passa attraverso una più  precisa individuazione della natura dell'imperativo categorico. In Kant si  tratta di una massima che è universalizzabile solo se può essere voluta senza  contraddizione come legge universale, cioè se e solo se qualcuno può volere,  senza incoerenza nella volontà, che ognuno adotti questa massima e agisca  secondo essa. L’universalizzabilità in questo senso «è la prova dell’accettabilità morale di una massima dell’azione e conseguentemente della condotta»  (cfr. M. G. Singer, 1985: 55). Per Kant l’universalità è un principio morale e  come tale non ha molto a che fare con l’universalizzabilità che Hare riconosce  come carattere proprio dei giudizi morali, in quanto tale carattere, almeno  nelle prime affermazioni che ne fa Hare (cfr. $ 2.6), si presenta come una tesi  sulla logica del discorso morale.   Ma per rendere conto adeguatamente dell’etica normativa kantiana non ci  si può limitare alla componente universalistica. Vi sono altri tratti che la rendono storicamente riconoscibile, e almeno altre due tesi ne rappresentano il  nucleo essenziale: il complessivo approccio rigoristico a preferenze, desideri e  passioni umane; l'affermazione della centralità morale della persona.   Nel caso dell’etica kantiana la legge morale e gli imperativi categorici nascono proprio negando  in nome della libertà  interessi egoistici e desideri individuali e non già rendendo possibile, con il fare valere punti di vista  imparziali e generali, una loro conciliazione. Uno degli aspetti caratteristici  dell'etica normativa kantiana sta nel riprendere il discorso delle etiche ascetiche cristiane che indicavano un'incompatibilità tra la ricerca del proprio benessere e il piano morale. In questa linea l’etica kantiana non si spinge solo a  fissare una distinzione tra il cosiddetto piano prudenziale e il piano etico, ma  procede fino a prescrivere la salvaguardia di un piano morale che nega recisamente  contrapponendovisi  tutta l'impostazione delle etiche eteronome  che fanno del benessere il fine delle azioni umane. Proprio in questo senso  l'etica di Kant si presenta come un'etica del dovere e della scelta responsabile  e razionale della legge universale, in contrasto con qualsiasi tendenza a considerare la felicità individuale come obiettivo finale dell'etica. La posizione kantiana si presenta, dunque, come del tutto alternativa rispetto a quella fatta valere sempre più decisamente nella tradizione empiristica  da Hume all’utilitarismo, al prescrittivismo universale  secondo la quale solo desideri,  sentimenti e preferenze sono in grado di motivare le scelte (etiche o non etiche) e la ragione invece risulta inefficace su questo piano, Non bisogna per  dere di vista questa componente dell'etica kantiana che rende del tutto eccentrici aleuni tentativi contemporanei  ad esempio quelli di J. Rawls e R. M,  Hare  di conciliare l’universalismo kantiano con un bilanciamento dei desideri e delle preferenze effettive di coloro che sono coinvolti.   Kant rifiutava tutte quelle etiche che facevano discendere la determinazione della moralità da motivi diversi da quelli propriamente etici. La sua teoria è del tutto in linea con l'affermazione nella cultura moderna e contemporanea dell'autonomia della morale. In particolare Kant rifiutava come eteronome tutte quelle etiche che assimilavano il bene morale a qualcosa che  dipendeva o dall'educazione (Montaigne), o dalle leggi civili (Mandeville), o  dal sentimento fisico (Epicuro), o dal senso morale (Hutcheson), o dalla perfezione oggettiva (Wolff e gli stoici), o dalla volontà di Dio (Crusius e altri  moralisti teologici; Kant, 1970a: 178). Secondo Kant l’amore di sé, i sentimenti e le preferenze personali non sono in grado di costituire il punto di  vista morale: laddove l’azione è motivata da questi scopi essa è chiaramente  eteronorna e dunque non morale. Solo una legge della ragione può motivare  autonomamente. Nel primo caso si hanno solo imperativi ipotetici e precetti  prudenziali, mentre nel secondo caso si giunge agli imperativi categorici morali nella loro peculiarità.   La concezione etica kantiana infine riconosce un posto centrale alla persona. Kant presenta una caratterizzazione della persona umana in termini essenzialistici e semplici ovvero come qualcosa che ha una sua realtà sostanziale  continua e inconfondibile {tra l'altro che sopravvive alla stessa morte}, anche  se questa realtà sfugge alia nostra conoscenza e si presenta come collocata sul  piano noumenico. Ecco ad esempio una definizione dell’essere umano, non  priva di implicazioni assiologiche, offerta da Kant nella Axtoropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst (1798, Antropologia dal punto di vista pragmatico): «Che l’uomo possa avere una rappresentazione del proprio io, lo innalza  infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Perciò egli è  una persona e, grazie all'unità della coscienza in tutti i mutamenti che subisce,  una sola e stessa persona» (Kant, 1970a: 547). Malgrado alcune limitazioni  epistemologiche nell’affermazione di un personalismo essenzialistico Kant  considera decisamente come tratto definiente della persona umana  che è  l'unico soggetto-oggetto dell'universo morale  la sua razionalità. La centralità della nozione di persona nell’etica kantiana risulta esplicita in una delle  formulazioni dell'imperativo categorico che suona: «agisci in modo di trattare  l'umanità nella tua persona come nella persona di ogni altro sempre come fine  e mai soltanto come mezzo» (Kant, 19704). Proprio sulla base della persona è  fondata la tavola dei doveri presentati in Die Merapbysik der Sitten (1797, La  metafisica dei costumzi). Kant riprendeva le distinzioni avanzate dai giusnaturalisti (in particolare Pufendorf e Thomasius) tra doveri positivi e negativi (che  si intreccia con quella tra doveri verso Dio, verso gli altri e verso se stessi),  riformulandola come una distinzione tra doveri perfetti {quelli verso se stessi  stabiliti da massime universali per le quali persare un'eccezione equivale a una  contraddizione) e doveri imperfetti (doveri verso gli altri in cui la contraddizione si presenta laddove vogliazzo un'eccezione) (Kant, 1970b: 269-374).   Le critiche alla concezione kantiana dell'etica sono state mosse lungo diverse linee. Ricordiamo quelle che ci sembrano più decisive: la mera forma  dell’universalità o è vuota 0 può essere soddisfatta dalla coerenza e fedeltà  verso qualsiasi valore anche negativo; l’uso dell'autonomia dell’etica in chiave  rigidamente rigoristica rende del tutto astratta e ininfluente la norma kantiana  che non potrà includere nessuno dei desideri effettivi di esseri umani concreti.  Inoltre, l'ancoraggio dell'etica da parte di Kant alla persona razionale comporta per la sua prospettiva alcuni limiti: non può essere estesa a rendere  conto di situazioni etiche in cui siano presenti esseri non razionali (animali,  ambiente ecc.); resta pur sempre un residuo di colorazione egoistica in una  prospettiva che si muove esclusivamente in un contesto di persone in qualche  modo distinte e separate l'una dall'altra. Quest'ultima critica è stata fatta valere in particolare da Parfit (1989). La tesi è che solo un quadro concettuale  che  come quello elaborato da Parfit  dia una spiegazione riduzionistica e  complessa per quanto riguarda la natura dell'io e della persona potrà permettere di non considerare le singole persone umane come unità di misura finale  pes l'etica. Dunque solo chi sappia liberare la morale dai confini ontologici  della persona umana potrà porre le basi per la costruzione di un'etica effettivamente universalistica e altruistica.    4.7. Le etiche utilitaristiche.  Una concezione etica molto diffusa e fortunata è quella utilitaristica. Si può trovare un appello generico all’utilità  come criterio di scelta etica in molti pensatori dall’antichità ai giorni nostri.  Ma prendendo in esame l’utilitarismo propriamente detto facciamo riferimento a quelle concezioni che riprendono da Bentham lo sforzo di sviluppare, in termini precisi e rigorosi, un criterio di scelta e valutazione morale  con al centro l'utilità, a sua volta definita ricorrendo a nozioni quali piaceredolore, felicità-infelicità, soddisfazione di preferenze ecc. La storia dell’utilitarismo, anche in questo senso più stretto e determinato, è molto ampia e non si  può qui ripercorrerla se non in modo sommario limitandosi a delineare alcuni  dei filoni principali in esso riconoscibili.   Nel rendere conto delle varie forme di utilitarismo proviamo a differenziarle sulla base della diversa caratterizzazione che viene offerta della nozione del bene che alla fine si deve ottenere. La nozione di utilità è, infatti, sempre  ricondotta ad una più determinata nozione di bene che identifica con più  precisione in che cosa risiede l'utilità che va massimizzata. Un'altra linea di  distinzione che sviluppererno in questo paragrafo è quella tra le concezioni che applicano il criterio utilitaristico alle singole azioni o agli atti particolari e quelle che viceversa fanno valere tale criterio per le regole o norme in  generale.   Occorre precisare preliminarmente  una precisazione particolarmente  necessaria in una cultura come quella italiana in cui l’utilitarismo, ben lungi  dall'essere studiato e discusso, è aprioristicamente liquidato e stigmatizzato  come una forma di egoismo del tutto inconciliabile con la moralità (è ancora  l'atteggiamento avanzato da Alessandro Manzoni nelle sue Osservazioni sulla  morale cattolica nel 1819 a fare testo)  che l'etica utilitaristica va tenuta nettamente distinta dalle cosiddette concezioni egoistiche. È tipico dei fautori  dell'etica utilitarista fare riferimento a un’utilità che non riguarda mai il singolo agente, ma che riguarda  a seconda della formula privilegiata  la  massima utilità generale, l’utilità del maggior numero, l’utilità di tutti, l'utilità  di tutti coloro che sono coinvolti ecc. Si possono individuare diverse concezioni dell’utilitarismo anche tenendo conto della prospettiva sottoscritta per  quanto riguarda l'universo dei soggetti da tenere presente nel calcolo utilitaristico. Vi è la tendenza a considerare la massima utilità che va cercata come  coinvolgente tutti coloro nei quali può essere rintracciato il tipo di stato mentale che va massimizzato, che si tratti di piacere, dolore, preferenze, desideri o  altro. Proprio in questo senso è tipico dell'utilitarismo il presentarsi come una  concezione della morale che estende la sua portata anche al di là dell’ambito  delle persone umane, fino a coinvolgere tutti gli esseri viventi in cui si trovi lo  stato mentale (ad esempio la sofferenza o il piacere) che il criterio deve minimizzare o massimizzare con il corso di azione prescelto. Già in Bentham  {Bentham) era presente quell'apertura a una considerazione  etica del mondo animale che troviamo poi largamente sviluppata nell’utilitarismo contemporaneo.   Per quanto riguarda la caratterizzazione del bene che va massimizzato una  differenza classica è quella tra concezione edonistica che distingue tra i piaceri  solo su basi quantitative e quella che riconosce differenze qualitative. Così in  Bentham troviamo sviluppata l’idea che la misurazione quantitativa del piacere € del dolore è l'unico criterio in grado di dare una base esterna, valida e  pubblicamente discutibile, alle prese di posizione etiche. Bentham quindi critica tutte le etiche alternative all’utilitarismo in quanto inclini a far valere un  criterio del rutto arbitrario in morale. La formulazione di un criterio di misurazione della quantità del piacere, in gioco in corsi di azione che coinvolgono  più esseri senzienti, non è priva di difficoltà. Proprio sull’inadeguatezza, ad  esempio, del criterio offerto da Bentham si sono concentrate le critiche degli  avversari dell’utilitarismo. Si è rilevata tra l’altro l'impossibilità di ridurre a  una base unica piaceri diversi e l'impraticabilità di quei confronti interpersonali di piacere e dolore che sarebbero necessari. Resta poi anche costante la  critica che la ricerca del solo obiettivo della massimizzazione dei risultati sembra lasciare completamente da parte le esigenze di una distribuzione giusta  del bene massimizzato. Considereremo eticamente preferibile un corso di  azione che realizza un incremento della quantità di piacere, anche se questo  risultato si accompagna a una distribuzione del tutto iniqua di tale piacere o  benessere e addirittura accentua la distanza tra individui che ottengono  grandi quantità di piacere e individui che ne ottengono una ridottissima.  Dunque vi sarebbe un’opacità di fondo dell'utilitarismo rispetto a questioni di  giustizia distributiva, e più in generale a questioni di diritti.   Una diversa forma di utilitarismo fu delineata da John Stuart Mill in Ut  litarianism in parte già come risposta a queste critiche e difficoltà del  particolare edonismo di Bentham (Mill, 1981b). Le variazioni più significative  riguardano l’introduzione di una distinzione qualitativa tra piaceri e un'insistenza sul principio che ciascun individuo è sovrano nella determinazione  delle proprie gerarchie di piacere e che le sue opzioni  laddove non procurino danno agli altri  vanno incorporate nel criterio utilitaristico. Mill nei  suoi scritti non si limita ad assumere come rilevante la distinzione qualitativa  tra piaceri più elevati e più bassi, ma sviluppa anche una tecnica con l’aiuto  della quale risolvere eventuali contrasti, e ciò che più conta usa questa distinzione per proporre sostanziali innovazioni del costume morale a proposito del  trattamento delle donne, della questione dei lavoratori manuali, della povertà  e della scelta responsabile delle nascite. Per quanto riguarda i contrasti relativi  ai piaceri qualitativamente diversi coinvolti Mill ritiene che essi possano essere  risolti facendo appello all'opinione  che si esprime nella discussione pubblica con l'approvazione o la disapprovazione morale  di coloro che conoscono tutte le forme di piacere in gioco. La posizione di Mill per quanto riguarda la distinzione qualitativa dei piaceri è stata spesso criticata e denunciata come contraddittoria, in quanto mescolerebbe due differenti criteri di  valutazione (cfr. Musacchio, 1981). Occorre ammettere che Mill presenta  un’etica mista, ovvero che unisce due diversi criteri di scelta e di decisione,  ma non.va data come ovvia e scontata l'inaccettabilità di una posizione normativa che cerchi di conciliare due distinti principi ad esempio facendoli  valere a diversi livelli etici. Ma la grande svolta nella storia dell'utilitarismo è segnata da quel momento in cui il criterio passa a prendere in considerazione non tanto le componenti del piacere e del dolore, quanto, più genericamente, le preferenze di  coloro che sono coinvolti nelle situazioni in esame. L'utilitarismo delle preferenze che si sviluppa in particolare nel secolo XX realizza uno spostamento  decisivo del criterio che non pretende più di fare riferimento a una unità di  misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto accettando  come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti coinvolti e dunque identificando come giusto quel corso di azione che massimizza la soddisfazione delle preferenze quali che siano. Le preferenze possono tendere  verso oggetti completamente diversi e dunque l’utilitarismo delle preferenze  dispone di uno strumento di valutazione etico più flessibile, recuperando e  ampliando  in un senso ancora più liberale e individualistico  quell’esigenza di pluralismo fatta valere da Mill contro il riduzionismo oggettivistico e  paternalistico dell’utilitarismo di Bentham (Harsanyi, 1988 e Hare, 1989).   L'utilitarismo delle preferenze è stato poi elaborato nel tentativo di trovare  una risposta per numerose questioni dell’etica teorica; in particolare sono stati  messi a punto criteri per distinguere preferenze di ordine diverso, quali quelle  antisociali di un sadico e quelle benevole o altruiste. Così John Harsanyi (Harsanyi, 1985: 75-126} ha considerato rilevanti per l'etica solo le preferenze benevole considerate imparzialmente, mentre Hare ha identificato come eticamente significative le preferenze universalizzabili (Hare, 1989). Infine non  sono mancati utilitaristi che hanno proposto complesse tecniche di valutazione critica delle preferenze: ad esempio Brandt ha proposto di accettare,  dopo averle sottoposte a una sorta di vaglio terapeutico, le sole preferenze  razionali ovvero basate su desideri non egoistici e pienamente informati  (Brandt, 1979). Anche la storia dell’utilitarismo mostra dunque come, a livello  teorico, prevalga l’elaborazione di concezioni miste. Nel caso specifico al criterio della massimizzazione si affianca quello della selezione delle preferenze  in base alla loro universalizzabilità formale o imparzialità sostanziale.   Malgrado questi tentativi di evitare il riduzionismo, l'utilitarismo è stato  insistentemente attaccato (Smart e Williams, 1985; A. Sen e B. Williams,  1984) contestando la legittimità di un approccio che considera come decisive  le preferenze che di fatto un certo individuo si trova ad avere. Procedendo in  questo modo l’utilitarista non terrebbe conto che le preferenze esistenti possono essere indotte dall'esterno o comunque niente affatto adeguate ai bisogni  reali degli individui che di fatto le rivelano. In particolare A. Sen (1986) ha  obiettato che la mera registrazione delle preferenze rivelate finisce con il consolidare le distribuzioni di beni inique di fatto già istituzionalizzate. Gli utilitaristi hanno cercato di rispondere a queste critiche indicando che l'esigenza  della massimizzazione delle soddisfazioni delle preferenze può essere ottimiz.  zata solo laddove si accetti l’esistenza di una soglia per ciascun individuo al di  là della quale un incremento della soddisfazione delle sue preferenze realizza  risultati meno validi di quelli realizzabili incrementando la soddisfazione delle  preferenze di individui che stanno peggio (Pontara, 1988).   Nella storia dell’utilitarismo, specialmente nel XX secolo, si è proceduto  anche su di un altro piano nel cercare un correttivo che permettesse di fare  valere nella massimizzazione una qualche regola o principio distributivo. In  questa linea si sono sviluppate ad esempio varie forme di utilitarismo della  norma © della regola. Sul piano storico vi è stata una tendenza a considerare  Bentham come un tipico esponente dell’utilitarismo dell’atto e a trovare invece in Mill una posizione che anticipa le esigenze dell’utilitarismo della regola o della norma (J. Urmson, 1953). Il problema principale affrontato da  questa parte della riflessione teorica interna all’utilitarismo è stato quello della  possibilità o meno di ricondurre l’utilitarismo della regola all’utilitarismo dell’atto. Nel caso poi in cui si è concluso per la specificità dell'utilitarismo della  regola, la questione è stata se una teoria che fa valere un qualche riferimento a  regole, principi e norme non comporti una fuoriuscita dal quadro conseguenzialista proprio dell’utilitarismo (Lyons, 1965). Nella riflessione sullassibilità di conciliare l'accettazione primaria dell’utilitarismo dell’atto con un riconoscimento di un qualche ruolo nella vita etica a principi e norme, partico  larmente interessante risulta un tentativo come quello di Hare. Hare ha  presentato una teoria dei due livelli di pensiero etico: uno, più intuitivo e  di senso comune, all’interno del quale valgono le regole e le norme, e l'altro   che si colloca invece sul piano della riflessione critica  nel quale, viceversa, si applica ditettamente alle singole azioni il criterio utilitaristico della  massimizzazione della soddisfazione delle preferenze di tutti coloro che sono  coinvolti (Hare, 1989). Più fertili sono da ritenere però quei tentativi di presentare un utilitarismo della norma e della regola come itriducibile  sul  piano normativo  all’utilitarismo dell'atto. Così ad esempio procede Brandt,  che ha più volte fatto valere la sua posizione come una forma di utilitarismo  della norma ideale. In questa teoria il criterio etico decisivo è quello che identifica le soluzioni rappresentandosi le norme da accettare in una società ideale rivolta a soddisfare massimamente i desideri razionali dei suoi cittadini  (Brandt, 1992).   Nel rendere conto delle varie specie di utilitarismo va infine ricordato  quell’utilitarismo che è sembrato preoccupato non tanto di realizzare un saldo  attivo di piaceri, quanto di minimizzare le sofferenze e i dolori (R, N. Smart, LE ETICHE NORMATIVE). Questo tipo di utilitarismo negativo è stato spesso criticato  ad esempio da J. J. Smart (Smart, 1985)  come paradossale in quanto implica che  la soluzione migliore è quella che riduce al massimo il numero di esseri senzienti esistenti, in quanto per questa via si procede certamente a una riduzione della quantità delle sofferenze. Ma se si va al di là del piano speculativo  sul quale si muove l’etica teorica sembra chiaro che proprio il criterio di una  riduzione delle sofferenze inutili ha avuto un ruolo decisivo nei dibattiti più  recenti sull’etica pratica. È stata questa la via principale mediante la quale si è  allargato l'ambito del discorso etico anche alle questioni del trattamento degli  animali ed ancora è questa la via mediante la quale  riprendendo le critiche  di Bentham nei confronti delle etiche ascetiche  si continua a fare emergere  l'inaccettabilità di quelle soluzioni fittizie ricavate dall’imposizione di antropologie astratte.    4.8. La scelta razionale come criterio normativo.  Consideriamo poi  quella concezione normativa che sostiene che ciò che è bene o giusto fare, in  una qualsiasi situazione che ci presenta diverse alternative, può essere deciso  cercando ciò che è razionale o ragionevole fare, nel senso di ciò che soddisfa  massimamente i propri interessi e bisogni. Una concezione etica della scelta  razionale è riconoscibile in particolare negli scritti di alcuni teorici che difendono l'economia di mercato, sostenendo che proprio la ricerca da parte di  ciascun individuo della massima realizzazione delle proprie esigenze consente  di ottenere i risultati migliori per la società nel complesso (Arrow, 1977 e  Buchanan, 1989). Naturalmente un punto decisivo per questa concezione  normativa sta nell'impegno a definire con maggiore precisione la natura di ciò  che è razionale massimizzare nella ricerca di una soddisfazione personale. In  questa luce si presentano come nettamente distinte: da una parte, una posizione che tende a ritenere razionale qualsiasi scelta che ciascuno consideri  come massimizzante la propria utilità interpretata in termini di benessere o  vantaggio economico personale  una teoria etica che muove dal riconoscimento di una qualche sovranità del consumatore; dall’altra una posizione che  interpreta la scelta razionale come quella che massimizza, ad esempio, i bisogni più profondi ed elevati della persona che sceglie.   La teoria che ritiene eticamente preferibile come criterio per le scelte pubbliche il comportamento che tende a massimizzare l’utilità attesa da ciascuno  degli agenti negli ultimi decenni è stata attaccata lungo due linee: una rivolta a  mostrarne le difficoltà interne laddove venga presentata come teoria normativa da adottare per identificare l'alternativa di azione ottimale; l’altra rivolta a  farne risaltare la scarsa portata analitica e esplicativa. Il primo ordine di difficoltà si esprime specialmente osservando che, col.  locandoci all’interno della teoria della scelta razionale e regolandoci non diversamente da giocatori che cercano di vincere la partita contro avversati  egualmente razionali, finiamo con il trovarci di fronte al ben noto dilerzizza del  prigioniero (Axelrod, 1985 e Resnik, 1990). Se più individui razionali in una  situazione che li coinvolge in competizione si fanno guidare per decidere la  via da seguire dalla ricerca del migliore risultato prevedibile  sulla base del.  l'attribuzione di un calcolo eguale agli altri individui  saranno costretti a  privilegiare corsi di azione che porteranno a un risultato niente affatto ottimale. Ll risultato migliore a cui tenderà ciascuno cercando di garantirsi la massima utilità attesa, presupponendo anche da parte degli altri un analogo comportamento, non garantirà affatto quel buon esito che si potrebbe realizzare  solo introducendo l'accettazione di qualche vincolo cooperativo da parte di  tutti gli individui presenti nella scena.   L'altro tipo di critica  avanzato ad esempio da Sen (1986)  è rivolto a  mostrare i forti limiti esplicativi presenti nella teoria della scelta razionale in  quanto risulta del tutto incapace di rendere conto di tutte le nostre scelte in  situazioni che coinvolgono beni pubblici. Infatti se pensiamo a scelte che riguardano la disponibilità di beni quali strade, servizi ecc. ci rendiamo conto  che ciò che di fatto facciamo laddove privilegiamo una decisione che porti alla  creazione o all'uso regolato di uno qualunque dei beni pubblici  creazione e  uso regolato che risultano costitutive della nostra forma di vita  non può  essere in alcun modo spiegato come esito di una scelta ispirata dalla teoria  della scelta razionale. Infatti ispirandoci a tale criterio dovremmo sempre tutti  regolarci come free riders, ovvero come battitori liberi che si preoccupano  esclusivamente dei propri interessi, e ciò renderebbe impossibile la convergenza sulla creazione e l’uso regolato di un bene pubblico, Tale teoria non  riesce dunque a rendere conto dell’esistenza di una larga fetta della nostra  realtà sociale.   Va però segnalato che i teorici della scelta razionale sono tuttora impegnati a elaborare modelli, coerenti con le loro assunzioni, con cui rispondere a  tutte queste obiezioni. In particolare si sono sforzati di mostrare come nel  quadro teorico della cosiddetta teoria della scelta razionale o dei giochi  ovvero in una situazione in cui sono presenti più agenti razionali con obiettivi in  competizione  è possibile spiegare l'insorgenza di norme e regole cooperative che permettono di convergere sui risultati ottimali. In questa linea si è  mosso ad esempio R. Sugden {Sugden, 1986) che ha molto lavorato nel cercare di mostrare come una teoria della scelta razionale che preveda scelte ripetute, con la ricerca da parte degli agenti di un aggiustamento reciproco in vista di un equilibrio più stabile, permette di arrivare a rendere conto dell’accetrazione sociale di norme con un minimo di contenuto cooperativo. Questo  modello cerca di rendere conto dell'ordine sociale in generale sviluppando  alcuni tratti della ricostruzione della genesi delle istituzioni cooperative già  presente in Hume (Magri, 1994). Questi modelli esplicativi valgono solo in  quanto a posteriori rendono conto di quello che si è già realizzato, ma è difficile usarli come criteri normativi per scegliere comportamenti rivolti al futuro. I modelli della scelta razionale sono stati adottati in modo indubbiamente fertile per rendere conto, all’interno di un generale quadro evoluzionistico, di come tra gli animali superiori si rafforzano abiti cooperativi in  alternativa a quelli o del tutto egoistici o assolutamente benevoli (Dawkins,  1992). Ma questa teoria nulla può dirci quando si tratta di decidere quale, tra  le differenti alternative di comportamento che ci sono davanti, dobbiamo  scegliere.    L'esistenza  di differenti concezioni etiche  il loro conflitto sempre risorgente  non  solo fa nascere la questione della disponibilità o meno di criteri per affrontare  razionalmente i contrasti, ma fa sorgere anche il problema di come conciliare  la presa d'atto di una pluralità di concezioni etiche con il riconoscimento all'etica di una qualche validità.   In primo luogo il riconoscimento del pluralismo etico sembra essere ineliminabile nella società attuale. Non solo si tratta di una constatazione di fatto,  ma il pluralismo etico è considerato anche un valore. Viene cioè considerata  più apprezzabile una società pluralistica che una società che in forme più o  meno coercitive impone il prevalere di una sola etica. Quest'ultima assunzione valutativa non è però condivisa dalle cosiddette concezioni comunitarie  (Ferrara, 1992) che invece privilegiano società in cui si realizzi una forte convergenza sui valori e anzi al limite siano caratterizzate da un'unica morale  {MacIntyre, 1988). Ma al di là dei timori per un pluralismo etico eccessivo e  delle tentazioni per una società segnata da una forte uniformità, vi sono argomentazioni e distinzioni che sorreggono una preferenza per situazioni caratterizzate da una pluralità di etiche in competizione.   Tutta la tradizione liberale trova nella fioritura pluralistica una condizione che favorisce lo sviluppo di tutte le differenti potenzialità creative  presenti nella natura umana. Tale posizione  presente ad esempio in  pensatori come W. von Humboldt (Humboldt, 1974) e J. S. Mill (Mill,  19814)  ritiene che solo un'effettiva libertà per gli esseri umani di vivere  Îl tipo di vita che essi ritengono giusta, libertà garantita anche accentuando le differenze, permette che vi sia una piena realizzazione e un progresso  delle capacità umane. L’uniformità porterebbe invece a una completa atrofizzazione di queste capacità.   Una posizione a favore del pluralismo etico presuppone che si riescano a  tenere ben distinte due dimensioni dell'etica: da una parte, quella che riguarda quel minimo comune denominatore di principi e regole cooperative  che sembrano essere una condizione necessaria perché vi sia una qualche stabilità della vita associata; dall'altra parte invece quella che ha a che fare coni  modelli e gli ideali che ciascuno può assumere per quanto riguarda lo stile di  vita da preferire. Proprio sul piano che riguarda i valori e gli ideali etici un  confronto tra progetti anche alternativi può segnare un arricchimento e uno  sviluppo della cultura umana. Sul piano più ristretto dell'etica minima in  gioco laddove si tratta delle basi della convivenza è invece difficile ritenere  adeguato un pluralismo di fondo. Ritorna qui dunque una distinzione già presente nella tradizione giusnaturalistica tra il piano dei diritti o doveri perfetti e  quello dei doveri imperfetti.   Questa posizione di apprezzamento per un contesto sociale e culturale  segnato dal pluralismo etico o pluralismo dei valori va tenuta però distinta da  una concezione che sottoscriva un completo relativismo. Va, infatti, tenuta  chiaramente distinta una posizione che, sul piano descrittivo, prenda atto che  si confrontano diverse concezioni etiche, dunque tutte relative e non assolute,  da una posizione che assuma da un punto di vista normativo le conclusioni  del relativismo. Il relativismo normativo infatti sostiene che non abbiamo  ragioni per ritenere che nelle questioni etiche sia preferibile una posizione a  un'altra. Il relativista dunque, in definitiva, non riconosce alcuna validità alle  distinzioni morali o etiche tra bene e male, giusto e ingiusto. È invece caratteristico del nostro tempo il fatto che si riesca a sostenere con decisione e  forza di convinzione la propria soluzione etica ai problemi pur rispettando è  tollerando quelle diverse dalla nostra. Ma in questo caso l'ammissione di altre  posizioni etiche non equivale a ritenere che l’una vale l’alira. Come si è ben  detto (in particolare da parte di Berlin, 1989 e Rorty, 1989, ma a livello  teorico la posizione era stata già illustrata da Juvalta, ed è stata più  recentemente derivata da una meta-etica non-cognitivista, da Scarpelli, 1982)  la situazione è  per paradossale che possa sembrare  quella di chi si  impegna con decisione a fornite ragioni a favore del proprio punto di vista  etico pur riconoscendo, ammettendo e rispettando un interlocutore che fa  valere un altro punto di vista e differenti ragioni. La consapevolezza che il  proprio punto di vista etico non è quello assolutamente giusto e buono  consente di tollerarne altri. Ciò non toglie che, comunque, è il nostro punto di  vista a valere di più  ad essere più buono e più giusto  fin quando non ci  verranno presentate ragioni o non faremo esperienze che ci costringeranno ad  abbandonarlo.   Le distinzioni che stiamo suggerendo partono dal presupposto che si sia  completamente abbandonata la pretesa di un'assolutezza dei valori in generale e dunque anche del proprio punto di vista etico. Una condizione  propria del nostro tempo che M. Weber esprimeva con l’espressione «politeismo dei valori» (Weber, 1958). Viceversa risulterà impossibile conciliare  pluralismo, relativismo empirico, tolleranza e impegno per il proprio punto  di vista se si muove dalla convinzione che l’etica deve avere a che fare con  qualcosa di assoluto. Ma quest’ultima prospettiva nel XX secolo è largamente inattuale e perdente, in quanto certamente non può essere conciliata  con una meta-etica che pretenda di avere dalla sua una qualche verità e  capacità di rendere conto della nostra effettiva esperienza morale. Proprio  la persistenza di questa prospettiva assolutistica dell'etica continua a generare confusione e conflitti e contrasti etici spinti fino a mettere in pericolo  la coesistenza, in quanto mossi da forme di fanatismo morale che non  tollerano le differenze. La trasformazione che stiamo vivendo con il passaggio da un contesto etico caratterizzato dall’aspirazione all’assolutezza ad  uno che accetta la finitezza e mutevolezza dei punti di vista morali può  essere vissuta in due diversi modi. Da una parte ci sono i nostalgici che  vivono il tempo e la società presente come caratterizzati da una perdita e  da un regresso; sono coloro che identificano il passaggio da valori assoluti  a valori frutto delle scelte umane come l’atto di nascita di un completo  nichilismo e di una cultura del tutto irrazionalistica. Per costoro non vi è  alternativa tra un fondamento assoluto e la più completa irrazionalità e  mancanza di senso. Dall'altra  e chi scrive si riconosce in questa seconda  linea  vi sono coloro che vedono la nuova condizione come un guadagno  in quanto ci si è finalmente liberati di miti e illusioni. La credenza in valori assoluti è stata, ed è tuttora, all'origine di pericolosi e insanabili contrasti. L'alternativa non è il nulla o la perdita di senso della nostra esistenza ma piuttosto un'etica che muove da un piano più realistico e empirica.  mente fondato. I valori derivano quindi da scelte e decisioni che gli uomini  assumono responsabilmente tenendo conto delle loro emozioni, delle loro  limitate capacità intellettuali e delle loro condizioni effettive. Credere questo non equivale ad avere perso qualcosa, ma viceversa ad avere puadagnato una prospettiva che permette agli esseri umani di muoversi, su un  piano di parità, verso soluzioni realizzabili e adeguate per i loro problemi  pratici.  Dall’etica teorica all'etica pratica. Dall’etica teorica all’antropologia: motivazione e obbligazione. La  storia dell'etica è ricca di pensatori che uniscono alle tesi normative, specifiche concezioni antropologiche relative alle motivazioni, i bisogni, i desideri e  gli interessi degli esseri umani. Potremmo anzi sostenere che è comune che a  un'etica teorica si accompagni un’etica antropologica, ovvero una psicologia  della morale che su basi più o meno empiriche pretende di descrivere come  gli uomini sono fatti e procedono nelle loro scelte. Questa commistione tra  piano normativo e piano descrittivo ed empirico risulta largamente praticata  specialmente dal secolo XVII in avanti, dopo che è entrata in crisi Ja conce.  zione innatistica della legge naturale, che riteneva la legge morale naturalmente obbligante in quanto presente originariamente nella coscienza di tutti  gli esseri umani. Il quadro filosofico del XVII secolo segna il tramonto di questa soluzione innatistica nel collegamento tra legge morale obbligatoria e base  motivante negli esseri umani e dunque per l’etica moderna e contemporanea  diventa essenziale non solo la questione di ciò che è bene o giusto, ma anche  di ciò che rende effettivamente obbligante per gli uomini il bene e il giusto  (cfr. Fagiani, 1983). Si avvia quindi una ricerca sistematica sulla motivazione e  la base psicologica che rende obbligatoria una condotta etica,   Nel pensiero moderno è ricorrente, per quanto riguarda la motivazione  morale, una concezione che nega che ciò che viene scoperta 0 trovato con  l’aiuto della sola ragione possa avere di per sé forza obbligante o motivante,  Un residuo di attribuzione di forza obbligante alla ragione in quanto tale si può trovare nella concezione di giusnaturalisti come Grozio (Grozio,  1625) o in quei pensatori che  come ad esempio Joseph Butler (Butler,  1970)  nel corso del Settecento indicano nella coscienza non solo un principio in grado di trasmettere la consapevolezza della legge morale, ma anche  di obbligare ad essa. Ma la via percorsa dai teorici dell'etica è piuttosto quella  alternativa di negare alla ragione la capacità di motivare all’azione e dunque di  negare forza obbligante alle norme e leggi scoperte attraverso l’uso del solo  intelletto. Muovendo da questa premessa è dunque necessario procedere a  uno studio empirico della natura umana e in particolare della condotta per  vedere che cosa muove ad agire. Viene così ampiamente ripresa nel corso del  XVII secolo la tesi edonistica secondo la quale solo il piacere e il dolore muovono all'azione (cfr. $ 2.2). Sia Hobbes che Locke, quando fanno riferimento  al piacere e dolore come cause motivanti guardano, in modo del tutto esclusivo, alla persona che agisce. Proprio su questa base tanto Hobbes quanto  Locke sembrano appoggiare la forza obbligante della legge naturale esclusivamente sul potere di sanzione. Nel caso di Hobbes il potere sanzionatorio  viene legato a un calcolo prudenziale relativo ai benefici e ai danni che nel  corso della vita terrena si ricevono uniformandosi alle leggi naturali. Locke  lega invece il potere sanzionatorio della legge naturale, e dunque la sua forza  obbligante, alla considerazione del premio e delle pene che si potranno ottenere in un’altra vita (Locke, 1971). La concezione che lega la forza obbligante  e la capacità di motivare della morale e dell'etica in generale a qualche sanzione viene spesso riproposta nel pensiero moderno e contemporaneo, ad  esempio rinviando alla forza sanzionatoria data da qualche piacere o dolore  fisico comunque in gioco. Erede di questa tradizione può essere considerato  Bentham con il suo tentativo di agganciare al potere sanzionatorio del sovrano  la forza della legge giuridica. Non diversamente in questa linea va collocato il  positivismo giuridico del secolo XX.   Proprio l’approfondimento della conoscenza della natura empirica degli  uomini porta tra la fine del XVII secolo e la metà del XVIII a elaborare una  concezione della forza obbligante dell’etica che, pur non riconducendola a  una capacità automotivante della ragione o delle facoltà intellettuali, non la  tiduce però al sanzionamento in termini di piacere e dolore fisici, genericamente intesi. Questa ricerca di una base specifica di motivazione per la morale  è già presente alla fine del secolo XVII in Shaftesbury, che proprio dall'osservazione empirica degli uomini fa derivare la scoperta di un peculiare «senso  morale» che non solo porta gli uomini ad approvare le azioni virtuose, ma  anche a sentirsi spinti a compiere tali azioni e ove tali azioni non sono compiute a provare emozioni di disagio e sradicamento da ciò che è più proprio  del genere umano, È dunque la struttura passionale degli uomini a presentare  un'inclinazione  in parte già colta dall’antropologia aristotelica  a compiere azioni in generale cooperative.   Questa stessa linea analitica verrà sviluppata ancora nel corso del XVIII  secolo da Hutcheson e Hume. Il nucleo distintivo di questa ricostruzione  della forza obbligante del comportamento etico sta nel mostrare nella psicologia degli esseri umani una base motivazionale del tutto autonoma e specifica  che spinge a fare azioni eticamente rilevanti. Questi autori poi si differenzieranno tra loro in quanto presenteranno o meno come motivazione universalistica tale base psicologica. Così mentre da una parte troveremo pensatori  come Shaftesbury, Hutcheson e Smith che rinviano a un altruismo o benevolenza più o meno universali, dall’altra troveremo chi, come Hume, riconoscetà come motivante solo una benevolenza limitata che si estende piuttosto  ai legami familiari. L'idea di tutti questi autori è comunque comune. Il senso  morale approva determinate azioni perché esse risultano motivate non solo da un esclusivo amore di sé, ma da una benevolenza più o meno estesa. La stessa  approvazione del senso morale costituisce poi una motivazione aggiuntiva al  comportamento virtuoso.   Risulta dunque chiaro in questa strategia analitica che la condotta etica  trova una sua base motivazionale in inclinazioni naturali degli uomini per una  forma più o meno estesa di altruismo e interessamento per gli altri. Un  aspetto teorico significativo per il quale questi autori si distingueranno sarà il  loro modo di rendere conto della naturalità della motivazione etica. Accanto a  coloro  come ad esempio Shaftesbury o Hutcheson  che considereranno  la motivazione a fare azioni cooperative come originaria per la natura umana,  vi saranno coloro che la presenteranno piuttosto come risultato o prodotto di  un processo evolutivo o di civilizzazione piuttosto lungo. Nel corso del XVIII  secolo la spiegazione delle basi motivazionali del comportamento morale sarà  inserita sempre di più in un quadro artificialistico ed evolutivo,   Una spiegazione genetica evoluzionistica e artificialistica della motivazione  alla condotta etica è, ad esempio, già presente in Mandeville e viene sviluppata estesamente da Hume e poi  in una direzione ancora più ampia  da  pensatori come J. J. Rousseau, A. Smith e A. Ferguson. Questi ultimi sono  impegnati nel progetto, che sembra centrale per gli intellettuali del XVIII secolo, di ricostruire la storia della civilizzazione umana avvalendosi della teoria  stadiale, ovvero di quella concezione che scandisce in quattro stadi diversi  (della caccia e pesca, dell’allevamento, dell’agricoltura, e del commercio) la  storia dell'umanità (Meek, 1981). La prospettiva impegnata a delineare il processo artificiale attraverso il quale gli uomini giungono a disporre di una base  psicologica e motivazionale specifica per il comportamento etico (0 coopera  tivo) viene realizzata nel corso del XVIII secolo anche lungo una diversa linea  associazionistica. In questa chiave il costituirsi delle motivazioni propriamente  etiche viene spiegato come un risultato di ripetute associazioni. Significativo   anche per un lettore del XX secolo  il contributo analitico di David  Hartley, il cui associazionismo è propriamente fisiologico, e poi di alcuni  esponenti dell'Illuminismo francese (ad esempio Claude-Adrien Helvétius,  Etienne Condillac, Paul Heinrich Dietrich D'Holbach ecc.) e ancora di utili  taristi come James Mill e J. S. Mill. Nel XIX secolo la genesi delle motivazioni  cooperative sarà collocata in un quadro più esplicitamente evoluzionistico  da Darwin e Spencer (Ruse, 1986). Questa linea di spiegazione evoluzionistica   che coinvolge il livello biologico  della genesi di una base motivazionale  ad hoc per il comportamento morale è stata ampiamente ripresa nel corso del  XX secolo. Abbiamo così chi, come E. Wilson (1975), ha presentato una vera  e proprio concezione socio-biologica, o chi, come K. Lorenz (1990), si è piuttosto impegnato a mostrare analogie e differenze tra gli istinti cooperativi presenti negli uomini e quelli rintracciabili negli animali.   La ricerca rivolta a individuare una base motivazionale nella natura emotiva degli uomini a cui agganciare l'obbligazione etica si estende ben al di là  delle concezioni che abbiamo appena delineato. Non sono mancati coloro che  hanno indicato come carattere distintivo della specie umana la capacità di essere motivati a compiere azioni degne di apprezzamento per il solo gusto o  senso del dovere da compiere, e dunque per il solo essere richiamati da ciò  che vale: una strategia che risulta percorsa da Kant e da coloro che a lui si  richiamano come ad esempio K. O. Apel {Apel, 1977). Al polo opposto si  colloca la strategia di analisi, scettica e riduzionistica, che ha del tutto negato  che negli uomini sia rintracciabile una qualche capacità di auto-motivarsi o  scegliere liberamente, e dunque tanto meno una inclinazione a partecipare ai  piaceri e ai dolori degli altri esseri umani.   Nel XX secolo entra in crisi la pretesa di disporre di una antropologia universalistica che sia in grado di indicare con nettezza passioni e sentimenti presenti in tutti gli uomini o viceversa di negare agli esseri umani generalmente  intesi una qualche motivazione. L'analisi antropologica, piuttosto che rinviare  a una base motivazionale comune, si impegna ad elaborare più strategie mediante le quali si può spiegare la forza obbligante delle regole morali. Risulta  pur sempre difficile riuscire rendere conto del ruolo obbligante dell'etica laddove si ritiene che gli esseri umani siano mossi dal più rigido egoismo; stanno  a dimostrarlo la crisi e le difficoltà a cui è andata incontro la teoria della scelta  razionale (cfr. $ 4.8). In positivo, dunque, risulta del tutto acquisito che  per  dirla con Williams (Williams)  nessun discorso può riuscire a rendere motivante per un essere umano un principio etico cooperativo  se nella struttura emotiva di questo essere umano non è già presente (probabilmente come frutto della sua formazione e iniziazione alla cultura umana)  un minimo di interessamento per i piaceri e i dolori di un altro essere urnano.  Da questa prospettiva come da altre il contesto dell'etica coinvolge direttamente non solo la capacità di chi agisce di presentarsi come essere fornito di  una sua identità, ma anche di riconoscere l'identità degli altri. Passiamo dunque a rendere conto della portata delle analisi sulla natura dell’identità personale nell’etica teorica.    5.2. Il ruolo dell'identità personale nell’etica.  Nell’etica medievale il  rinvio all'anima sostanziale rappresentava un fondamento e un preciso criterio  per risolvere le questioni morali. Infatti, da una parte, proprio al fondo della  sostanza spitituale si presentavano le norme da applicare in etica e dall'altra l'individuazione dell'universo di esseri forniti di sostanza spirituale metteva a  disposizione un chiaro criterio di applicazione ed estensione dell’ambito mo.  rale. Questa concezione semplice dell'etica che ruota intorno a una sostanza  che è la persona umana e che non è riducibile ad altro, nello stesso tempo  oggetto e soggetto esclusivo della vita morale, è entrata in crisi tra il XVII e il  XVIII secolo quando l’identità personale non è più risultata riconducibile a  una sostanza.   Alla filosofia di Locke prima e a quella di Hume poi si può far risalire il  superamento critico della concezione sostanzialistica della persona umana e  dell'identità personale e l'avvio di quell'approccio che concepisce tali realtà  come complesse e cerca di spiegarne la natura riconducendola a qualcosa  d'altro. Ma sulla strada dell’elaborazione delle concezioni complesse e ridu  zionistiche dell’identità personale si presenta la difficoltà di riuscire a rendete  conto del soggetto morale con quel minimo di stabilità necessaria per dare  una base a nozioni essenziali per l'etica  quali responsabilità, merito, demerito ecc. Un altro problema a cui vanno incontro le concezioni riduzionistiche  e complesse dell'identità personale sta nella difficoltà con cui riescono a rendere conto del valore morale senza farlo dipendere esclusivamente da una  considerazione degli atti di per sé stessi, ma riuscendo a collegarlo anche con  una considerazione del carattere e dei motivi dell'agente. La connessione tra  la considerazione del carattere e dei motivi e i giudizi morali è al centro, ad  esempio, dell’analisi delle virtù e dei vizi delineata da Hume e Smith e sembra  tanto profondamente radicata nel senso comune morale da non poter essere  soppiantata da una qualche teoria che indica come eticamente rilevanti le sole  azioni. La riflessione di marca empiristica e analitica sulla natura dell’identità  personale si è dunque sempre più impegnata dal Settecento a oggi nell’elaborazione di una spiegazione della continuità e stabilità dell’io che, senza dover  ricorrere alla nozione sostanzialistica e semplice di io, fosse conciliabile con  l’uso di categorie centrali del linguaggio etico-giuridico quali responsabilità,  merito, demerito, punizione, condotta virtuosa ecc.   Un’estensione dell'analisi complessa e riduzionistica dell'Io anche a livello  di ricostruzione della vita morale  oltre che sul piano conoscitivo  viene  avviata da Henry Sidgwick nel 1874 con i suoi Methods of Ethics (I metodi  dell'etica), ed è stata poi sistematicamente realizzata nella seconda metà del  secolo XX da pensatori come Nagel, Parfit, Nozick ecc. Si può ipotizzare che  questa recente fortuna di un'analisi dell'etica che muove da una concezione  complessa dell'identità personale sia un riflesso, a livello filosofico, di quel fenomeno più generale a cui si allude sinteticamente con l’espressione «perdita  del Soggetto». La rapidità delle trasformazioni nelle società occidentali, la grande quantità di novità che quotidianamente ciascun essere umano deve  raccordare con l’esperienza passata e con i punti di equilibrio in essa raggiunti  hanno reso sempre più frammentaria la continuità della vita interiore e difficoltosa l'operazione di recuperarne una qualche stabilità. Va peraltro sottolineato che le concezioni complesse e analitiche dell'identità personale più che  essere impegnate in lamentele e declamazioni sulla «Perdita del Soggetto»  cercano di elaborare una concezione dell’essere umano eticamente responsabile che sia adeguata alle trasformazioni culturali degli ultimi secoli, trasformazioni che hanno reso il rinvio a un qualche Soggetto sostanziale solo un  mito privo di qualunque fondamento empirico.   Le analisi di Parfit sfociate nel volume del 1984 Reasons and Persons (Ragioni e persone) presentano lo sforzo più approfondito di sviluppare gli spunti  presenti nell'opera di Sidgwick e di ridefinire, muovendo da una nuova concezione  appunto riduzionistica e complessa  dell’identità personale nozioni come quelle di responsabilità morale, merito e demerito ecc. Se tuito ciò  che troviamo dietro la soggettività e l'identità di una persona umana è una  qualche continuità psicologica più o meno stretta, ne consegue che i nostri  giudizi morali © giuridici dovranno essere del tutto a posteriori e investire interrogativi quali: «quanto la persona che ci sta di fronte è la stessa di quella  che ha compiuto l’azione? », «quanto l’azione che la persona ha compiuto si  inserisce nel flusso più continuo e stabile delle sue abitudini e del suo carattere e quanto invece ne rappresenta una rottura?» ecc. L'approccio empiristico all’identità personale comporta dunque non già l’eliminazione delle nozioni etiche tradizionali dal nostro lessico morale, ma una loro ridefinizione in  modo tale da presupporre connessioni più deboli e meno definitive: tra le  azioni e la persona che le ha compiute; tra la persona come attualmente è e la  sua storia passata; tra il tipo di intervento che possiamo fare sulla persona  attuale e la sicurezza che, utilizzando determinati mezzi, potremo ottenere  certi risultati che coinvolgono il suo io futuro. In generale ci si muove verso  una concezione meno assolutistica e necessitante dell'etica di quella che accetta chi crede nella persona come sostanza. Ed è ovvio che una prospettiva  del genere risulta del tutto in linea con l’epistemologia empiristica, ma  e si  tratta di ciò che più conta  anche forse, oggigiorno, fertile sul piano esplicativo e predittivo,   L’approccio all'identità personale che la considera come una successione  di io che hanno tra di loro una connessione psicologica più o meno stretta è  ben lontano dall'essere diventato «senso comune» e ranto meno sembra corrispondere intuitivamente a quella concezione della persona che troviamo radicata nella parte morale del nostro «senso comune», una parte che tende a trasformarsi con più lentezza e prudenza di quella intellettuale. Vanno però  messe in luce le implicazioni normative che accompagnano le analisi di tipo  complesso e riduzionistico dell'identità personale, anche se per ora occorre  confinatne la portata solo alle premesse intellettuali di un sistema morale che  pretenda di essere costruito su credenze vere.   Un approccio all'identità personale che metta in secondo piano una concezione sostanzialista e semplice della persona umana favorisce anche un  complessivo riassetto normativo. In primo luogo questa linea epistemologica  porta al rifiuto di una concezione statica e sostanziale del bene morale, la  presa di distanza da un modo di intendere la responsabilità morale come legata a colpe, peccati o meriti che solo un Essere Assoluto, in grado di conoscere la struttura sostanziale della persona e i più riposti pensieri degli esseri  umani, può giustamente distribuire. La responsabilità morale in questa prospettiva ha invece a che fare non già con riposte intenzioni, ma principal.  mente con ciò che effettivamente si compie in un campo di azioni pubblicamente osservabili.   In secondo luogo poi tale approccio contribuisce anche a scalzare le basi  analitiche che sorreggono l’impianto normativo dell’egoismo razionale. Ancora a Parfit si devono dettagliati argomenti che mostrano, una volta assunta  la prospettiva complessa e riduzionistica dell'io, quanto risulti ingiustificata  una preferenza per le parti future della propria vita nei confronti delle vite  attuali di altri esseri umani. La ragionevolezza ed evidenza di una preoccupazione esclusiva  su base egoistica e prudenziale  per i nostri io futuri non  risulta affatto giustificata una volta che si diventi consapevoli della complessità di passaggi che muovendo dal nostro io attuale porta ai nostri io futuri  laddove non si postuli più la persistenza di una stessa sostanza semplice. Tra il  nostro io attuale e quello che saremo fra numerosi anni vi sono connessioni  più dubbie  e dunque relazioni più deboli  rispetto a quelle che possiamo  istituire oggi con i Sé degli altri esseri umani. L'impegno nella costruzione di  un'etica più imparziale e meno rigidamente egocentrica sembra dunque avere  tutto da guadagnare dalla revisione dell'identità personale intrapresa dalla filosofia empiristica.   Infine risulta del tutto indebolito il ruolo della nozione di persona come  categoria essenziale per la determinazione dell'universo di esseri per i quali  valgono le nozioni etiche. Se ciò che conta in morale non è più solo la presenza di qualche peculiare sostanza semplice di natura spirituale, ma gli atti  che si compiono più o meno responsabilmente, nulla vieta che divengano eticamente rilevanti anche atti che non coinvolgono persone umane. Passando  attraverso atti responsabilmente connessi con dimensioni quali la sofferenza e il danno o il piacere e la soddisfazione di bisogni e desideri, possono diventare rilevanti per l’etica gli animali, o gli oggetti che costituiscono l’ambiente,  o realtà  di certo non personali nel senso di essere effettivamente presenti  ora come sostanze semplici con una loro propria individualità  quali, ad  esempio, i membri di generazioni future molto lontane. È questa dunque la  via epistemologica che porta ad abbandonare quella concezione ristretta dell'etica che si ha quando si è costretti a passare sempre attraverso la cruna  d'ago fornita dalla persona. In particolare sono le etiche utilitaristiche e conseguenzialiste che si sono impegnate in questo sforzo di fornire indicazioni  normative congruenti con le concezioni di derivazione empiristica dell'identità personale e dell’universo degli esseri moralmente rilevanti.    5.3. Etica del carattere 0 dell’azione.  Come abbiamo visto le diverse  concezioni etiche si distinguono sulla questione di quale sia da considerare  l'oggetto proprio di una valutazione. Su questo piano la differenza più rilevante è quella tra chi ritiene che l’unico oggetto peculiare di valutazione etica  sono le azioni e le loro conseguenze e chi invece ritiene essenziale il riferi  mento al carattere 0 comunque a qualche qualità interna (intenzione ecc.) di  chi agisce. Le due diverse concezioni hanno entrambe dei punti a loro favore.  Si può anzi suggerire che la concezione più adeguata sia quella che non ricorra in modo esclusivo o all'uno a all’altro approccio  o azione o tratti del  carattere  ma piuttosto sappia integrare entrambe le esigenze.   A favore della concezione che ritiene esclusiva l’attenzione per le azioni vi  è l'esigenza  fatta valere in modo decisivo non solo dall’utilitatismo, ma anche dal garantismo giuridico (Fetrajoli, 1989)  che ciascuno possa essere  ritenuto responsabile solo di quello che ha effettivamente compiuto e non  possa essere giudicato negativamente sulla sola base di presunte predisposizioni 0 inclinazioni ad agire, che tra l’altro rinviano a una pretesa capacità di  cogliere l'essenza o vera natura di una persona. Il riftuto della concezione sostanzialistica della persona umana è tra l’altro accompagnato dallo sforzo di  ricollocare l'etica su un piano più esterno e comportamentale. La considerazione prevalente delle azioni effettivamente compiute segna anche il tramonto  di valutazioni che investono i piani del peccato o della colpa.   Considerando come positivo il superamento di un approccio etico che  pretenda di presentare valutazioni assolute basate su di una presunta conoscenza finale del carattere o della natura di una persona, va però segnalato un  limite di questo approccio. Un'etica che pretenda di derivare in modo esclusivo le sue valutazioni dalla considerazione dei comportamenti esterni degli  esseri umani sarà costtetta a omologare azioni criminose e incidenti colposi e non sarà comunque in grado di discriminare tra azioni compiute in contesti  motivazionali e intenzionali differenti. La valutazione etica non sembra potere  prescindere dall'esame di quanto le azioni in gioco siano responsabili e dunque frutto di intenzioni e non del tutto casuali o determinate da costrizioni al  di là della portata di chi agisce.   Proprio la necessità che l'etica riesca a coinvolgere anche la responsabilità  delle azioni considerate rappresenta un argomento a favore delle concezioni  che pongono al centro della loro considerazione il carattere di chi agisce. In  questo si sono impegnate le cosiddette etiche della virtà. Una tradizione  che  diversamente da quanto è stato recentemente sostenuto (MacIntyre,  1988)  non è certo confinata alla cultura antica e medievale, ma ha trovato  anche nella cultura moderna e contemporanea dei sostenitori.   La concezione dell'etica che ritiene centrale la considerazione del carattere  sembra salvaguardare alcune esigenze essenziali per una adeguata teoria della  valutazione morale. Anche questo approccio ha però bisogno di correttivi,  ÎNon solo risulta dubbia un'attenzione per il carattere tanto esclusiva da giudicare una persona condannabile per il solo fatto che ha determinate intenzioni, ma una considerazione etica esclusivamente attenta al carattere può  portare a considerare virtuoso anche chi si limiti a manifestare certi principi o  convinzioni etiche e poi di nascosto agisce in modo completamente diver:  gente. Un’etica dell’intenzione può anche portare a ritenere giustificati atti  gravemente dannosi rinviando a presunte intenzioni benefiche di chi li compie. Un'etica dell'intenzione o del carattere corre il pericolo di sottoscrivere  posizioni morali esclusivamente predicatorie o addirittura ipocrite, alle quali  comunque non corrisponde alcun effettivo comportamento.   Nella conciliazione, tutt'altro che semplice, delle due concezioni sull’oggetto della valutazione morale sono impegnati in particolare i fautori dell’utilitarismo della regola o delle norme (cfr. $ 4,7). Nel senso di un'integrazione  delle considerazioni etiche sugli atti con quelle relative ai caratteri e alle intenzioni vanno anche molte delle discussioni di casi concreti nelle quali si sono  impegnati  specialmente nella seconda metà del secolo XX (cfr. $ 5.4) gli  esponenti dell'etica contemporanea.   Ad esempio, larga parte della discussione etica contemporanea su situazioni concrete quali quelle legate alla nascita  e in particolare all'aborto  €  alla morte  e in particolare all’eutanasia  è legata alla riflessione sul ruolo  più o meno decisivo delle intenzioni in gioco. Proprio la tesi di un ruolo essenziale delle intenzioni nelle valutazioni delle scelte relative all'inizio e alla  fine della vita umana ha portato ad elaborare la dottrina del «doppio effetto»  (Anscombe, 1958 e Foot, 1978). Con questa dottrina si è ritenuto di potere distinguere tra diverse ricorrenze della stessa azione, considerandola rispettivamente o come una conseguenza diretta e voluta dell'intenzione di ottenere  questo risultato o viceversa come effetto secondario e non direttamente voluto dell'intenzione rivolta a un risultato benefico. Laddove l'effetto diretto  della nostra intenzione è, ad esempio, garantire la nascita di un bambino, solo  un doppio effetto non voluto è la morte della madre; o  all’altro confine  della vita  laddove effetto diretto della nostra intenzione è l’azione rivolta a  un'attenuazione delle sofferenze di un morente, è solo un effetto secondario  non direttamente voluto la morte della persona, quale conseguenza dell’uso di  farmaci per attenuare il dolore. Ma questa concezione va incontro a un’insormontabile difficoltà di ordine epistemologico, in quanto ovviamente non sono  disponibili procedure affidabili per discriminare tra una dichiarazione di intenzione del tutto ritualistica o ipocrita e una dichiarazione veritiera. In questo senso la prospettiva che ruota intorno alla centralità dell’intenzione si presenta come il residuo di una fase in cui l’etica teorica era impegnata a far valere per il giudizio sulle azioni umane un punto di vista ideale o divino.  Un'’etica fatta su misura per le esigenze della specie umana, pur riconoscendo  la rilevanza delle motivazioni delle azioni, indebolisce però la portata delle  intenzioni considerandole come componente aggiuntiva e sussidiaria del giudizio etico e non già come aspetto decisivo ed esclusivo.   Fa parte della riflessione sull’oggetto proprio delle valutazioni etiche anche la discussione sulla possibilità di distinguere nettamente da un punto di  vista assiologico tra azioni e omissioni. Questa distinzione viene considerata  sempre meno influente per l'etica (Glover, 1977; Singer, 1989) proprio da  quelle concezioni che  come l’utilitarismo  hanno messo al centro della  valutazione le azioni e la considerazione delle conseguenze. L’utilitarismo  contemporaneo fa propria in realtà una nozione non riduttiva di azione, data  la quale risulta chiaro che il non fare qualcosa quando si ha la possibilità di  farlo è eticamente rilevante non meno del compimento effettivo di un atto.  Ciò che conta è la nostra responsabilità  che si agisca o non si agisca  per  conseguenze nella situazione futura, in quanto esse dipendono comunque da  nostre scelte e decisioni.   Si può avanzare l’ipotesi che nel corso degli ultimi secoli della storia della  cultura occidentale la struttura del nostro discorso morale si sia trasformata  nel senso di un'estensione della portata del lessico legato primariamente alle  azioni e di una correlativa riduzione dell'incidenza di quella parte del lessico  legato a emozioni, sentimenti, stati d'animo, intenzioni, caratteri ecc. Da questa ipotesi si ricava che per quanto forte possa ancora essere, al livello della  predicazione, la riaffermazione di un’etica di tipo agapistico o dell'amore universale (un’etica cristiana genericamente intesa), tale etica risulta poi in secondo piano, quando ci si impegna in una riflessione critica rivolta a indivi.  duare regole e principi etici concreti a cui ispirarsi. L'appello a sentimenti  quali l’amore o una benevolenza universale sembra essere del tutto irrilevante  quando siamo impegnati a identificare il migliore comportamento effettivo  nelle situazioni eticamente rilevanti che ci sono di fronte. Certamente tale appello può continuare a mantenere un ruolo decisivo laddove siano in gioco  concezioni super-erogatorie e ideali sul dovere (che coinvolgano ad esempio  la santità e l’eroismo), che hanno però un ruolo sempre più marginale nella  morale di senso comune di società altamente complesse e popolate come  quelle nelle quali viviamo. La nostra ricerca etica è piuttosto rivolta a regole  più modeste e limitate che incidano però effettivamente sulle azioni o omissioni della nostra vita quotidiana, in modo tale che le conseguenze dei nostri  stili di vita siano benefiche  o quanto meno non disastrose € dannose  per  le generazioni future.    54. La svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata.  Nel corso del  XX secolo l'orizzonte di riflessione che muove dai problemi pratici concreti  degli esseri umani è stato riafferrmato come primario e decisivo da una serie di  pensatori che hanno contestato l'utilità di una ricerca esclusivamente metaetica e astratta. Si è soliti fare riferimento a questa svolta, realizzatasi nella  riflessione sulla morale specialmente a partire dagli anni Settanta, con  l’espressione «l'irruzione dell'etica applicata» (De Marco e Fox, 1986). Questo appello all'etica applicata è stato fatto valere, successivamente, con due  diversi obiettivi critici. In un primo periodo l'appello era rivolto a fare sì che  punto di partenza e punto di arrivo della riflessione etica fosse considerato  non già la conoscenza della natura della morale e delle forme di ragionamento in essa valide, ma la ricerca di soluzioni normative. In un secondo periodo   a partire dagli anni Ottanta  si sono contestate le stesse risposte normative offerte dalle opere sistematiche degli anni Settanta e la richiesta avanzata  è stata che in luogo di criteri normativi generali validi per tutte le questioni  etiche la riflessione critica fosse rivolta a delineare soluzioni più determinate e  settoriali in grado di risultare rilevanti per una delle diverse dimensioni problematiche riconoscibili all'interno dell'etica pratica.   La prima esigenza fatta valere negli anni Settanta è stata dunque quella di  trasformare la teoria etica in modo tale che in essa l’obiettivo principale fosse  non già quello logico-conoscitivo di mettere a punto una meta-etica e dunque  una conseguente epistemologia, quanto piuttosto lo sviluppo sistematico di  un risposta esplicitamente normativa. Il neo-contrattualismo di J. Rawls e  Gautbier, il neo-utilitarismo di }. Harsanyi e poi di R. M. Hare e R. Brandt,  le diverse teorie dei diritti di R. Nozick e di R. Dworkin ecc.  tutte concezioni a cui abbiamo già fatto riferimento specialmente nel paragrafo 4  sono  alcuni dei tentativi più influenti di elaborare teorie etiche impegnate prevalentemente sul piano normativo.   Le differenti teorie etiche normative presentate nel corso degli anni Settanta sono, di volta in volta, la riproposta sotto una nuova veste di opzioni già  formulate a partire dal secolo XVIL Il neocontrattualismo di Rawls e Gauthier tiene largamente conto dell'elaborazione contrattualista precedente da  Hobbes a Kant. Il neo-utilitarismo ha largamente discusso e riproposto le precedenti impostazioni di J. Bentham e J.S. Mill. I teorici dei diritti non hanno  mancato di tenere conto delle analisi di Locke ecc. Restano dunque in larga  parte operanti le stesse concezioni che nel corso dell'età moderna e contemporanea sono state indentificate come utilizzabili da chi fosse alla ricerca di un  criterio generale per risolvere i problemi pratici degli esseri umani. Al livello  dei principi o procedure più generali non sembra si possa segnalare la nascita  di nuove etiche, ma si assiste solo allo sviluppo e all'approfondimento delle  linee etiche normative già disponibili.   La novità principale nell’«etica teorica» {e qui si intende una teorizzazione etica con obiettivi esplicitamente normativi) del XX secolo sta dunque  nelle forme che prendono le diverse concezioni normative, una trasformazione che in realtà era stata già anticipata da H, Sidgwick con i suoi Methods  of Ethics (Sidgwick, 1963). In primo luogo le diverse proposte normative non  fanno più parte di una ricerca filosofica generale. Chi si occupa di etica e contribuisce ad essa non colloca la sua ricerca in una più ampia prospettiva che  ad esempio affronti questioni generali sulla conoscenza umana, la natura  umana ecc. Si parte dando per scontata una sorta di specializzazione per cui  chi si occupa di etica e di problemi normativi guarda esclusivamente a questi.  I teorici dell'etica contemporanea sono dunque eredi dei professori di filosofia morale come Hutcheson o Smith, più che di filosofi come Hobbes, Locke  € Hume (per non dire che nulla hanno a che fare con personalità quali quelle  dei fondatori di morali come Cristo, Budda o Gandhi}. Laddove Hobbes,  Locke e Hume  ma ovviamente anche Kant  collocavano la loro attenzione per i problemi etici in un contesto filosofico generale, i teorici dell'etica  contemporanea limitano invece le loro analisi ai soli problemi pratici. Questo  si accompagna non solo con la specializzazione che abbiamo sottolineato, ma  anche con un più limitato orizzonte critico che viene fatto valere nelle proposte etiche contemporanee. Tutti i diversi teorici dell'etica muovono nelle  loro analisi assumendo la validità di tesi più generali sulla conoscenza, la ragione ecc. In questo senso le diverse etiche teoriche acquistano senso solo vi.  ste sullo sfondo delle diverse prospettive filosofiche generali elaborate dai  pensatori  che abbiamo più volte richiamato  del XVII e XVIII secolo,   Questa più marcata limitazione del contesto dell’etica teorica contemporanea è in molti di questi pensatori esplicitamente riconosciuta e programmati.  camente affermata anche per quanto riguarda il piano dei valori di riferi.  mento. Così molti dei teorici dell’etica contemporanea ammettono di muoversi in contesti storici e culturali ben definiti identificando lo sfondo che dì  validità alle loro teorie normative con quello delle credenze etico-politiche  condivise nelle società liberal-democratiche occidentali (Rorty, 1989; Rawls,  1994). Emerge dunque in molti teorici contemporanei la tesi che l’etica è una  riflessione critica che non solo muove da intuizioni 0 credenze morali di par  tenza che sono già date, ma che in realtà non può operare al di fuori di un  qualche contesto di credenze condivise. Questo orientamento segna di fatto  non solo una specializzazione dell’etica teorica, ma anche l'abbandono in essa  del quadro universalistico in cui si muovevano i filosofi del XVII e XVIII  secolo.   Parallelamente con questo restringimento della base del discorso dell’etica  teorica troviamo viceversa  e specialmente nelle opere sisternatiche elaborate negli anni Settanta  uno sforzo di approfondimento analitico molto più  marcato, con la pretesa di realizzare un'elaborazione coerentemente sistematica e un’argomentazione persuasiva di ampio respiro. Se ci volgiamo infatti  alle opere principali dell'etica teorica contemporanea vediamo che la loro.  mole e complessità rispetto agli scritti dell'etica tradizionale è fortemente cre.  sciuta. La base di partenza è più ristretta ma la pretesa di approfondimento  analitico è maggiore. Le nozioni che la tradizione etica precedente trovava del  tutto comprensibili vengono ora sottoposte ad analisi dettagliate. In questa  direzione contributi del tutto nuovi vengono offerti, ad esempio: o con una  dettagliata tassonomia  dovuta in particolare agli utilitaristi  delle diverse  forme di preferenze; o con una classificazione  che troviamo principalmente  negli scritti dei neo-contrattualisti e dei teorici dei diritti  delle principali  differenze tra bisogni e interessi; o con lo scavo  e qui sono i teorici della  scelta razionale ad offrire il maggiore contributo  delle diverse forme di ragionamento con cui possiamo valutare le linee di azione che coinvolgono conseguenze future più o meno lontane e più 0 meno sicure. Ll terreno dell'etica  teorica appare dunque certamente come più limitato e ristretto  un campo  che si cerca di tenere distinto da quelli confinanti  ma esso viene scavato  con una profondità maggiore che nel passato in tutte le sue parti. La convinzione che muove questo approccio è che le radici delle questioni etiche possano essere raggiunte non già derivandole da un altro campo di ricerca, ma  andando sempre più a fondo nello scavo dell’area dell’etica considerata come  autonoma e autosufficiente. Quello che lascia particolarmente insoddisfatti è  che i tratti generali del paradigma della ricerca si trovano messi in pratica e  ripresi acriticamente senza nessuna elaborata valutazione della loro adeguatezza. Né vi è una sensibilità per la questione  a mio parere decisiva  di  come la vicenda dell'etica teorica contemporanea possa essere raccordata   acquistando con questi raccordi senso e rilevanza  con i lasciti e i residui  della passata elaborazione.   Molto più accentuata che nel passato è poi la pretesa di sistematicità e di  coerenza interna, così come della massima completezza possibile. In questo  senso l’etica teorica si muove prendendo a modello le teorie scientifiche in  generale. Proprio per questo tentativo di strutturarsi in analogia con gli universi scientifici prevale tra le diverse concezioni normative una tendenza al  monismo etico e nello stesso tempo assistiamo ad un progressivo allargamento  dell'ambito di casi e fenomeni investiti. Una tendenza verso il monismo normativo era presente anche nelle etiche tradizionali che insistentemente andavano alla ricerca di un solo principio fondamentale. Una volta caduto l’orizzonte fondazionale il monismo etico si presenta come la ricerca di un unico  criterio di decisione per tutte le situazioni problematiche nella convinzione che  la presenza di più criteri non può che originare conflitti e disaccordi insanabili.   Nei sistemi normativi degli anni Settanta troviamo infine approfondito lo  sforzo di argomentare in modo persuasivo e convincente a favore della posizione fatta valere. La dimensione per così dire retorica e persuasiva diviene  esplicita e diventa primario l'impegno a fornire già all'interno di ciascuna teoria una risposta alle critiche avanzate dalle concezioni alternative. Prevalgono  quindi nell’etica teorica contemporanea le esigenze di una discussione pubblica. Le diverse etiche si presentano infatti in primo luogo come discorsi sistematici e razionalmente giustificati nel modo più compiuto, sviluppati per  convincere gli interlocutori nella discussione pubblica a proposito della preferibilità delle opzioni normative proposte. Questi tratti spiegano nello stesso  tempo, da una parte la maggiore concretezza delle etiche teoriche contemporanee rispetto a quelle tradizionali e, dall'altra, il loro minore respiro e la loro  collocazione in un contesto storicamente più limitato.    5.5. I principali campi dell'etica applicata.  Ma come si è detto un’ulteriore svolta ha segnato l'etica teorica a partire dagli anni Ottanta. Vengono  contestate ora le stesse teorie impegnate nella presentazione di grandi sistemi  normativi, denunciando la loro astrattezza e la loro irrilevanza per i problemi pratici effettivi. L'impegno in una riflessione etica che abbandonasse il piano  delle concezioni astratte veniva a caratterizzare sempre di più gli anni Ottanta. Anzi in questa direzione era la medicina a salvare l'etica  come si  esprimerà Toulmin {$. E. Toulmin, How Medicine saved Etbics, in De Marco e  Fox)  nel senso che i nuovi problemi etici generati dagli sviluppi della medicina e della biologia ponevano in modo urgente una richiesta  di soluzioni che non poteva essere soddisfatta dai grandi sistemi normativi  classici o contemporanei. Laddove infatti i sistemi normativi degli anni Settanta avevano al loro centro i problemi della giustizia sociale e della cittadinanza, le questioni della guerra giusta e delle relazioni internazionali, viceversa i nuovi problemi posti dalle mutate condizioni nella nascita, morte e  cura degli esseri umani coinvolgevano dimensioni etiche completamente diverse,   Inizia così un processo di articolazione e sviluppo di una miriade di settori  nuovi nell’etica applicata che, in parallelo con la tendenza della cultura americana alla specializzazione e alla professionalizzazione, porta al consolidarsi e  istituzionalizzarsi di vari campi dell'etica pratica considerati come autosufficienti. Compare così la nuova figura professionale dell’eticista, ovvero dell'esperto dei problemi di un particolare settore. Certamente la riflessione etica  guadagna così in concretezza, ma una ricerca esclusivamente impegnata nell’evidenziare i criteri ed i principi etici validi per specifici e peculiari problemi  applicativi va incontro ai limiti del settorialismo e della iper-specializzazione.  Dopo lo sforzo di scomposizione e di indagine ravvicinata dei singoli campi  problematici che ha accompagnato il fiorire delle varie dimensioni dell'etica  pratica è ora auspicabile un lavoro di sintesi e di ricomposizione che identifichi i principi e i criteri etici validi in generale e che sappia fornire visioni d'insieme della vita etica.   La maggior parte dei diversi settori dell'etica applicata consolidatisi negli  ultimi decenni del secolo XX ha a che fare con i problemi pratici del tutto  nuovi che sono sorti con lo sviluppo della tecnologia e detta ricerca medicobiologica. Tutta una serie di azioni e pratiche umane che risultavano neutre da  un punto di vista etico o che comunque erano affidate quasi integralmente a  processi naturali e biologici, e dunque considerate al di là delle decisioni responsabili, sono entrate a far parte dell’universo di eventi influenzati dai diversi criteri per discriminare tra scelte giuste e ingiuste.   In primo luogo si sono andate consolidando come aree largamente indipendenti dell’etica applicata alcune dimensioni problematiche già colte dalla  riflessione del secolo scorso, Laddove nel Settecento trovavamo solo degli accenni in Bentham sulle sofferenze degli animali, nella seconda metà del XX  secolo si è assistito al fiorire di una vera e propria etica impegnata nel realizzare la liberazione degli animali (Singer, 1992). St sono sviluppate diverse concezioni generali rivolte a giustificare un trattamento non discriminante per le  sofferenze degli animali: da posizioni mistiche o religiose, a quelle utilitaristiche a quelle che ruotano intorno all'elaborazione di una teoria dei diritti anche per gli animali (T. Regan, 1990). In questo caso la presentazione di una  risposta normativa alla questione del trattamento degli animali va di pari  passo con una ridescrizione della loro condizione. I libri dei teorici della liberazione animale sono infatti insostituibili per la ricchezza di dati e esemplificazioni che forniscono sulle pratiche invalse  il più delle volte inutilmente  crudeli  per quanto riguarda l'uso degli animali nella ricerca medica e farmaceutica, nell'industria cosmetica a dell’abbigliamento, nella produzione industriale di cibo ecc. (Singer, 1992).   Una grande fioritura, in quest'ultima parte del XX secolo, hanno avuto i  tentativi  già presenti ad esempio in uno scritto del 1869 di J. S. Mill su The  Subjection of Women (La soggezione delle donne)  di affrontare in modo  esplicito e sistematico i problemi etici legati al differente trattamento  nelle  istituzioni e nelle pratiche sociali  di persone di sesso diverso. Il dibattito  critico sulle discriminazioni legate alle differenze sessuali ha assistito non solo  a una ricerca rivolta a ricavare soluzioni giuste dalle diverse concezioni normative disponibili, ma anche alla presentazione di tesi femministe che hanno  insistito sulla radicale inconciliabilità tra l’elaborazione di un'etica delle  donne e le concezioni tradizionali. Così da una paste si è discusso sull’alternativa tra l’universalismo che sarebbe proprio dell'etica maschile e l'assunzione  delle differenze di genere come orizzonte decisivo che è proprio dell'etica  femminile {Irigaray 1985). Dall'altra si è insistito sulla tesi che il recupero del  punto di vista femminile farebbe emergere valori del tutto peculiari e in luogo  di una centralità del valore della giustizia tipicamente maschile segnerebbe  l'affermazione del valore della cura (Gilligan, 1982).   Molti altri tradizionali problemi etici sono stati rivisitati alla luce della situazione contemporanea e coloro che se ne sono occupati hanno dato vita a  un'ampia produzione specialistica. Tra i campi più significativi per la costituzione di un'ideale «Enciclopedia Pratica» del nostro tempo ricordiamo le riflessioni dedicate a: le guerre giuste e l'uso  lecito o no  della violenza  {Walzer, 1990); le particolari regole che governano le relazioni internazionali  tra stati (Bonanate, 1992); le questioni più strettamente legate alle discriminazioni di tipo razziale e culturale (Walzer, 1987); i problemi del trattamento  della povertà anche riconoscendone le articolazioni geografiche (Sen, 1981); il  tuolo della pena nel diritto (Ferrajoli, 1989). Una ben precisa area di etica degli affari si è costituita per i problemi morali posti dall'attività economica e  produttiva, e qui i maggiori avanzamenti sono venuti dall’uso di una tecnica  del tutto nuova fornita dalla «teoria della scelta razionale» (Sacconi, 1991).   Infine un incremento notevole hanno avuto le riflessioni morali  già presenti in Ar Essay on the Principles of Population del 1798 di Thomas Robent  Malthus (Saggio sul principio di popolazione) e nei Principles of Political Economy del 1848 di J. S. Mill (Prizcipi di economzia politica)  relative alla questione etica di una procreazione responsabile. Tali riflessioni hanno forte  mente approfondito le questioni collegate al contesto di decisione costituito  dall’intreccio tra le previsioni sullo sviluppo demografico e quelle sulla disponibilità di risorse. Tutta questa tematica ha portato ad elaborare una vera e  propria etica delle generazioni future. Le questioni della giustizia tra generazioni, della regolazione delle nascite in previsione della presenza nel 2050 di  oltre dieci miliardi di esseri umani, dei rischi dello sviluppo tecnologico per  gli esseri umani futuri sono al centro di riflessioni che hanno anche contribuito a modificare il quadro complessivo delle etiche tradizionali (Parfit; Jonas, 1990).   Del tutto nuovi sono invece due settori di etica applicata. Da una parte  abbiamo il consolidarsi e determinarsi della bioetica come disciplina autonoma che affronta sistematicamente i problemi etici posti dallo sviluppo della  medicina e della biologia. Non possiamo qui fare altro che accennare ai principali tra questi problemi del tutto nuovi che coinvolgono la nascita, la morte  e la cura degli esseri umani: la fecondazione artificiale ix vitro: l'uso nei reparti di terapia intensiva di strumenti vicarianti le funzioni essenziali della  respirazione, alimentazione e idratazione; il ricorso ai trapianti; la diagnostica  prenatale; la ricerca sul DINA e l’ingegneria genetica; l’accresciuta conoscenza  dello sviluppo embrionale e la possibilità di realizzare in laboratorio le prime  fasi di questo sviluppo con eventuali conseguenti sperimentazioni ecc. Vita  umana, persona umana, sanità, malattia, benessere, diritti dei malati, dignità  della morte, doveri dei medici ece. sono solo alcune delle nozioni che vengono sottoposte a riesame nella riflessione bioetica che si è concretizzata in  una sterminata letteratura e nella nascita di una ben precisa disciplina. Nel  corso di questa ricerca sono emerse tendenze a far valere alcuni nuclei tema:  tici specifici come nucleo della discussione (ad esempio la contrapposizione  tra un’etica che si impegna principalmente nel sostenere la non disponibilità e  sacralità della vita umana e un'altra che ritiene invece centrale la preoccupa  zione per una buona qualità della vita umana; Kuhse, o a enucleare  principi più specificamente rilevanti per le problematiche della nascita, morte  e cura degli esseri umani (in questo senso è, ad esempio, frequente il richiamo a un principio di beneficenza o ad un principio di autonomia: Engelhardt,  1991, ma anche Gracia, 1993).   Infine le conseguenze devastanti che sull'ambiente hanno avuto gli sviluppi scientifici e tecnologici e l'incremento demografico a livello planetario  hanno reso eticamente rilevante una serie di azioni umane con effetti più o  meno diretti, immediati o futuri sulla natura. La riflessione di etica ambientale  è stata caratterizzata da una molteplicità di concezioni (Bartolommei, 1989):  quella più religiosa e sacrale rivolta a dare un valore intrinseco alla natura;  quella utilitaristica tesa a calcolare le differenti conseguenze (in termini di  danno e beneficio) sull'ambiente di differenti strategie operative; quella che  cerca di estendere il linguaggio dei diritti anche a oggetti naturali ecc.   Non abbiamo fatto altro che elencare le differenti dimensioni dell'etica applicata. Infatti dalla prospettiva complessiva da cui muoviamo dobbiamo limitarci a rilevare la fertilità di questo recente dibattito, sia nel senso di un arricchimento delle nostre conoscenze sui problemi pratici effettivi degli esseri  umani, sia nel senso di un incremento del processo di democratizzazione dell'etica (al centro di tutti i diversi settori dell'etica applicata troviamo individui  umani che affrontano autonomamente i loro problemi). Il pericolo che sta  dietro questo specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell'etica applicata è quello della frammentazione. Ciò che fa questione non è tanto il fatto  che ciascun individuo elabori da sé la propria etica, quanto piuttosto quella  confusione che nella vita pratica di ciascuno può derivare dall’appello, in situazioni diverse, a principi o criteri etici differenti come risolutivi. Una frammentazione in questo senso può spingersi fino a esigere dallo stesso individuo  comportamenti incompatibili. In contrasto con questa tendenza l’obiettivo di  una unificazione richiede un recupero di tutte le diverse dimensioni dell'etica  teorica di cui abbiamo reso conto nei paragrafi precedenti. Un contesto unitario per le riflessioni etiche può infatti essere offerto da teorie generali che   sul piano meta-etico, epistemologico e normativo  identificano quel nucleo  comune valido per qualsiasi approccio o discorso che pretenda di farsi valere  come etico.  Nel corso dei paragrafi precedenti abbiamo reso conto dei problemi generali al centro dell'etica in modo  unitario non tracciando distinzioni al suo interno. Così finora in modo unitario si sono affrontate le questioni di una caratterizzazione, definizione, giustificazione o fondazione, applicazione e formulazione sistematica dell’etica. Ma le norme e i valori con cui ha a che fare l’etica complessivamente intesa vengono in vari modi distinti in campi più o meno nettamente differenziati nei  nostri discorsi e nelle forme di vita. In questo paragrafo renderemo conto brevemente della distinzione più comune e consolidata che vede l'etica comprendere i diversi piani della morale, del diritto e della politica.   Ricorrendo all'aiuto della storia dell'etica possiamo rilevare che nell’età  moderna e contemporanea vi è una certa convergenza nel discriminare tra  morale, diritto e politica, mentre notevoli differenze vi sono per quanto riguarda i criteri a cui ci si è richiamati per tracciare queste differenze. I differenti  criteri risultano  come vedremo nelle pagine seguenti — in definitiva funzionali alle diverse opzioni meta-etiche, epistemologiche e normative da cui sono  mossi coloro che hanno proposto una ricostruzione dei campi dell'etica.   Un primo modo per caratterizzare il campo dell'etica che proponiamo di  chiamare morale in senso stretto è quello di considerarlo come quel settore in  cui sono in gioco principi e norme che guidano, 0 dovrebbero guidare, azioni  che producono negli altri conseguenze positive o negative diverse dal danno  in gioco con le azioni di rilevanza giuridica e dai benefici o danni provocati  dalle azioni di rilevanza politica. Proprio in quanto diverso è il raggio di influenza con cui ha a che fare la morale strettamente intesa essa ha anche a che  fare con una sanzione del tutto particolare che va tenuta distinta da quella in  gioco con la legge giuridica e con quella politica: una sanzione semplicemente  in termini di disapprovazione pubblica piuttosto che di concrete pene 0 multe  o di allontanamento dalla cittadinanza politica. Questa caratterizzazione dei  vari campi dell’etica è largamente corrente tra gli utilitaristi ed è stata delineata già in On Liberty di J. S. Mill (Saggio sulla libertà).   La caratterizzazione così avanzata della natura delle regole e dei principi  specificamente morali  ovviamente nel senso meta-etico di cui qui ci occupiamo  è in realtà pur sempre carica di normatività in quanto si presenta  come una ridefinizione stipulativa. Alcuni avvertiranno in questa caratterizzazione un limite dato dal fatto che essa esclude comunque una qualunque rilevanza etica per quelle regole e principi che riguardano stati d'animo o azioni  del tutto privati, ovvero tali che non hanno nessun tipo di conseguenza  né  benefica, né negativa  sugli altri. Possiamo offrire un chiaro esempio di questo campo di azioni del tutto private e che non sarebbero di pertinenza della  morale così intesa rinviando ad atti di auto-erotismo o al modo in cui impieghiamo il nostro tempo libero.   È così chiaro che stiamo proponendo una caratterizzazione della morale  più stretta rispetto a quella a cui giungono coloro che, muovendosi all’interno  di una tradizione spiritualistica e giusnaturalistica, trovano l'etica complessivamente intesa come un insieme di doveri verso Dio, se stessi e gli altri. Anche all'interno di questo approccio all’etica, comunque, il livello della moralità per così dire del tutto privato si presenta come diverso rispetto a quello  della moralità che coinvolge altri; nel complesso poi l’insieme della morale va  tenuto distinto dalle azioni con cui hanno a che fare il diritto e la politica. Il  piano delle regole morali del tutto private e personali può essere considerato  come campo di applicazione di principi e regole super-erogatorie che hanno a  che fare con una vita santa, eroica o perfetta (Urmson): una forma di  vita che solo cedendo al fanatismo può essere prescritta universalmente. La  morale super-erogatoria va dunque tenuta distinta dalla morale che ha a che  fare con azioni di benevolenza o generosità che per quanto considerate doverose e obbligatorie non lo sono certo nello stesso senso delle azioni che evitano il danno fisico per gli altri. Vediamo così ricomparire una distinzione tra  diversi piani della vita etica, sia pure su basi differenti.   Muovendoci all’interno dell'approccio utilitaristico già delineato suggeriamo però di collocare al di fuori dell'etica generalmente intesa non solo le  azioni strettamente interessate a obiettivi economici, ma anche molte azioni  del tutto indifferenti moralmente che ciascuno di noi può compiere nel modo  che preferisce laddove queste non coinvolgano in alcun modo gli altri. In questo senso questa concezione dell'etica si presenta come fornita di limiti anche  per quanto riguarda l'ambito della moralità strettamente intesa (Williams,  1987). i   Possiamo dunque collocare l'ambito della morale nel campo delle azioni  benevole e generose che non siamo tenuti a compiere con la stessa coercività  dei nostri obblighi giuridici e politici. La morale cioè ha a che fare con un  universo di azioni  che saranno poi distinte in buone e cattive a seconda dei  diversi valori sottoscritti  che gli altri non si aspettano da noi come soddisfacimento di loro diritti giuridicamente o politicamente riconosciuti. Le nozioni di obbligo, dovere, diritto possono avere un uso nel contesto della morale, ma con un significato che va tenuto nettamente distinto da quello che tali  nozioni hanno nel contesto giuridico e politico. Molte confusioni e conflitti  sociali nascono dall’incapacità di tenere distinti questi diversi livelli dell'etica,  In un campo della morale così inteso le diverse concezioni dei valori potranno  confrontarsi presentando appunto diversi modelli e stili di vita virtuosa. La  vita virtuosa si distinguerà poi, da una parte, dalla vita santa o eroica e dall'altra da quel tipo di vita che è richiesto a ciascuno di noi dalle leggi del suo  paese e dalle regole politiche della sua società. :   In un approccio del genere diventerà decisivo riuscire ad individuare, e  tenere ben distinto, un ambito di danno o offesa che è coinvolto dalle azioni di pertinenza della morale strettamente intesa. Si tratta di sviluppare l’idea   messa a punto dagli utilitaristi e più recentemente da Hart e Feinberg che ci sono alcune aree delle nostre  azioni interpersonali in cui non sono in gioco danni di rilevanza giuridica, ma  solo danni e offese morali. Gli altri si aspettano da noi un certo comportamento anche se questo comportamento non è sanzionabile mediante l’intervento della legge. Il piano di questi obblighi morali coinvolge principalmente  le relazioni più strettamente personali ovvero quelle relazioni che riguardano i  rapporti familiari, i rapporti tra persone di sesso diverso, le relazioni tra persone di diversa età, le relazioni collegate a diverse responsabilità professionali  o di status sociale ecc, Tutta un'area di relazioni personali coinvolgono per  ciascuno di noi obblighi relativi al suo status (figlio, padre, marito, amico, medico, docente ecc.) che non fanno riferimento a danni giuridici, ma a danni  morali. Possiamo provare a suggerire l'estensione e l’importanza di un ambito  della morale così determinato pensando al rilievo che nelle relazioni umane  hanno le promesse che non siano state codificate in un contratto, o alle aspettative che ci legano con gli altri esseri umani con cui abbiamo istituito più  strette relazioni personali. Proprio quest'ambito della moralità è quello che  rende possibile la convivenza civile. Infatti laddove cerchiamo di ancorare la  permanenza di una qualche forma di società civile o ordine sociale al riconoscimento di obblighi e danni esclusivamente legali non riusciamo a rendere  conto di niente altro che di uno stato di polizia. Senza basi morali la convivenza può essere garantita solo da uno Stato ossessivamente preoccupato che  nessuna azione dei suoi cittadini sfugga al controllo delle sue sanzioni. E si  tratterà comunque di uno stato di polizia la cui accettazione come legittimo  da parte di coloro che si riconoscono come suoi cittadini risulterà del tutto  incomprensibile a meno che  con un ragionamento circolare e vizioso   non si voglia fare appello alla autorità derivata dalla sola forza. Il divitto e î sistemzi codificati.  Un ambito dell'etica completamente  diverso da quello in gioco nella morale è quello in gioco nel diritto e nell'insieme delle norme giuridiche. Qui  come peraltro con la politica  ci muoviamo nel campo dell’etica pubblica, laddove con la morale abbiamo a che  fare con l’etica privata (Veca). Largamente condivisa è la tesi di una  marcata differenza tra piano delle regole morali e piano del sistema giuridico,  nel senso che quest’ultimo rinvia necessariamente a un momento di codificazione. Anche i teorici del giusnaturalismo, che pur vedono la sfera giuridica  come strettamente correlata con la legge morale naturale, accettano Ja distinzione  sia pure cronologica 0 tecnica  tra il piano naturale della morale €  quello civile proprio delle procedure che caratterizzano il diritto e la politica,  Significativa in questa luce la posizione espressa da Locke nel 1690 nei Two  Treatises of Government {Due trattati sul governo; Locke).  Locke vede già presente nello stato di natura il diritto di punire come diritto di ognuno, ma individua nel passaggio alla società civile la realizzazione  di una completa delega di questo diritto a un magistrato che potrà usare   unico autorizzato  la forza e fare rispettare le sue decisioni, che non saranno più caratterizzate dagli inconvenienti che accompagnano nello stato di  natura l’uso del diritto di punizione da parte di ciascuno.   Uno dei grandi problemi al centro dell'etica è proprio quello delle connessioni tra morale e diritto. La questione preliminare è quella di spiegare in che  senso le norme del sistema giuridico  ovvero le norme che si occupano della  giustizia penale e pubblica e che sono sanzionate con l’uso della forza  sono  collegate con le norme morali (ovvero pre-giuridiche o non-giuridiche). La  soluzione più semplice è quella del positivismo giuridico che ritiene che di  vero € proprio diritto non si possa parlare se non dopo il costituirsi di un  governo riconosciuto, legittimato e autorizzato a promulgare norme giuridiche. Queste norme saranno poi valide giuridicamente laddove siano state promulgate osservando le procedure previste nello Stato  dalla Costituzione o  dalle sue leggi fondamentali  per l’amministrazione della giustizia (Scarpelli). La posizione del positivismo giuridico non è priva di difficoltà in  quanto confonde due nozioni etiche concettualmente diverse, ovvero la legge  promulgata correttamente, e cioè nei modi previsti dalla Costituzione, e la  legge giusta. Norme del tutto in regola dal punto di vista  della validità formale richiesta dal positivismo giuridico  come quelle promulgate dal regime nazista  possono risultare del tutto ingiuste e tali da  esigere un obbligo di resistenza da parte dei cittadini (Dworkin).   Alcune posizioni che si presentano come alternative al giusnaturalismo si  distinguono dal positivismo giuridico proprio in quanto riconoscono un collegamento tra morale e diritto. Questo è ad esempio vero per l'utilitarismo fin  da Bentham. Infatti Bentham riconosceva l’ineliminabilità di questa connessione rappresentando la morale e la legge come due sfere concentriche, l'una  più ristretta costituita dal diritto e l’altra più ampia costituita dalla morale.  Questa immagine permette di capire sia in che senso la morale condiziona la  sfera giuridica, sia in che senso l'ambito del diritto debba essere considerato  più ristretto di quello proprio della morale. Questa stessa linea di analisi è  stata elaborata in modo compiuto da Mill,   I collegamenti tra queste due dimensioni dell'etica  la morale e la legge  giuridica  sono complessi e ineliminabili, Non solo i limiti di applicazione della legge giuridica  ovvero la distinzione tra l'ambito di pertinenza della  sanzione giuridica e quello in cui c'è completa libertà dalle sanzioni e in cui  dunque vale la sola critica che si manifesta nella discussione pubblica , ma  le stesse procedure mediante le quali vanno accertate le azioni che sono rilevanti dal punto di vista della responsabilità giuridica e infine gli stessi modi in  cui va articolata la sanzione e la pena giusta esigono un rinvio continuo a considerazioni di ordine morale (Ferrajoli, 1989). Il riconoscimento di un’effertiva responsabilità giuridica rientra anch'esso in un discorso che esige il ricorso ad assunzioni di ordine morale. Non diversamente assunzioni di ordine  morale sono in gioco laddove si discute la questione della pena adeguata o  giusta o meritata pet un determinato reato. Tutta la discussione sull’uso della  tortura, della pena di morte e dell’ergastolo da parte di sistemi penali sta lì a  mostrare questo intreccio.    La politica e i fini del governo.  L'ambito dell’etica che invece possiamo denominare «politica» è quello che rinvia ai principi e alle norme che  all’interno di una società riguardano non tanto i rapporti giuridici, quanto  l’azione del governo e il riconoscimento della sua legittimità. Una parte della  dottrina etica che coinvolge la politica riguarda dunque l'individuazione dei  principi che sono in grado di dare ai governanti l'autorità per governare, e  conseguentemente gli obblighi di lealtà dei cittadini nei confronti dei loro governanti (e di riflesso gli obblighi dei governanti nei confronti dei loro cittadini) e infine l’esistenza o meno (e in quali limiti) di un diritto dei cittadini a  resistere alle leggi dello Stato.   Basta volgersi alla riflessione di filosofia politica per vedere quanto già in quell'epoca fosse centrale la ricerca di una base morale che  desse validità alla pretesa dei governanti di avere un'autorità sui loro cittadini,  Il primo dei Tivo Treatises di Locke rappresenta un chiaro tentativo di contestare la pretesa avanzata da Filmer nel Patriarca che i sovrani potessero ricavare il loro diritto ad un'autorità assoluta sui loro sudditi da una investitura  diretta da parte di Dio ad Adamo che era poi stata trasmessa  secondo una  linea diretta, di successione  ai suoi eredi. La cultura filosofica presenta non solo l’attacco più radicale alla concezione assolutistica del  potere politico come di origine divina, ma anche i primi decisi tentativi di  ricavare da principi più mondani il potere dei governanti. Così Hobbes e  Locke percorrevano la strada del contratto come base del potere politico, ma  le due forme di contratto a cui si richiamavano erano tali da condurre a due  diversi tipi di potere politico, l’uno totalitario ed illimitato e l'altro invece determinato e limitato dal rispetto di una serie di diritti che comunque il cittadino deve salvaguardare. Perciò, mentre Hobbes non sembra riconoscere un  vero e proprio diritto di resistenza, Locke lo accetta, come del resto dopo di  lui faranno tutti i teorici dello stato liberale.   Quasi tutta la filosofia politica contemporanea, da J. Rawls a R. Dworkin,  da A. Downs a R. Dahl, si muove elaborando le basi etiche di una teoria liberal-democratica (Brown). È oramai fuori discussione che solo l’investitura popolare mediante votazioni democratiche può giustificare il potere politico. Così come è largamente accettata la convinzione che il potere politico  deve limitarsi nelle sue leggi in modo tale da non toccare i cosiddetti diritti  negativi dei suoi cittadini. Non viene nemmeno posto in discussione  specialmente dopo l’esperienza dei regimi totalitari del XX secolo quali il nazismo e lo stalinismo  il riconoscimento del diritto dei cittadini di resistere ai  comandi ingiusti dei loro governanti, anzi addirittura viene riconosciuto il  loro dovere di boicottarli e di lottare contro di essi.   Per quanto riguarda poi la riflessione etica sugli scopi del governo essa ha  subito a partire dal XIX secolo una radicale trasformazione laddove si è considerato come uno dei compiti primari dei governi garantire ai cittadini non  solo la pace sociale, la vita, la salvaguardia dei diritti di proprietà, ma anche il  benessere, la salute, la qualità della vita ecc. Quando sono entrati in gioco  quelli che si considerano più propriamente i diritti positivi (cfr. sopra, $ 4.5)  dei cittadini si è posto il problema di quanto si dovesse ritenere autorizzato  il potere di un governante che, ad esempio, ponesse dei limiti ai diritti  negativi dei suoi concittadini al fine di far progredire i diritti positivi della  maggioranza. Si tratta di questioni etiche che la riflessione sul potere politico si è trovata davanti in particolare all’interno della questione sociale e  sulla base delle lotte sostenute dalle classi operaie e dal movimento socialista (Bobbio).   Molte delle questioni etiche in gioco nella politica coinvolgono direttamente le relazioni internazionali tra Stati. È oramai del tutto superata la posizione considerata ovvia nel XVII secolo per esempio da Hobbes, ma anche da  Locke, che riteneva i rapporti tra Stati come costitutivamente collocabili nella  sfera di uno «stato di natura». Nel corso dell'età moderna e contemporanea  non solo è cresciuta l’esigenza di una valutazione etica delle motivazioni che  ispirano le azioni internazionali dei governanti (Bonanate), ma si è anche affermata sempre più la spinta a far valere anche tra Stati una serie di  principi consensualmente accettati che garantissero, nei limiti del possibile, la  pace. È stato Kant {Kant) che ha fatto valere con decisione  l'esigenza di estendere anche alle relazioni internazionali quel requisito della  pace che si riteneva necessario per i rapporti all'interno della società civile. Le Filosofia_in_Ita3 riflessioni etiche sull'uso della forza nelle relazioni internazionali tra Stati nel  XX secolo hanno poi dovuto affrontare le questioni nuove segnate dalla creazione di armi nucleari. Molto insistita è stata la conclusione che l’uso di armi  che, come quelle nucleari, mettono a rischio l’esistenza della stessa umanità,  non può essere giustificabile al di lì della sola funzione deterrente (Kavka,  1987; Pantara, 1989).   Anche sul piano delle relazioni internazionali si è poi ripresentata in questo secolo una riflessione etica che non investe solo quei fini dei governi esclusivamente rivolti a salvaguardare o difendere i diritti negativi dei cittadini del  mondo, ma ancor più i cosiddetti diritti positivi. In particolare l'incremento  della popolazione mondiale, una differenza sempre più incolmabile tra qualità  della vita nei paesi ricchi e sviluppati dell'Occidente e povertà nei paesi sottosviluppati dell’Africa, dell'Asia e dell'America del Sud hanno posto come  problema etico primario per la politica la questione di quanto si debba ritenere obbligatoria una qualche forma di giustizia sociale internazionale (Pontara; Singer; Sen),   Da un punto di vista teorico generale, così come si è assistito a un allargamento dello spazio per l’etica nel senso di una progressiva democratizzazione  delle responsabilità e decisioni che essa richiede in modo paritario a tutti i  cittadini del mondo, si assiste altresì a un analogo allargamento di questo spazio nella direzione di un incremento delle questioni che ad essa si demandano.  L’ipotesi che avanziamo  ovviamente carica di un’opzione normativa  è  che ci si muova verso un allargamento delle aree problematiche che vengono  affidate alla discussione pubblica e dunque a una regolamentazione pacificamente concordata, sottraendole al terreno in cui si fa ricorso alla forza. Così  sul piano internazionale vediamo sempre più riconosciuta  almeno al livello  del dover essere  l'esigenza di un governo mondiale  democraticamente  costituito e rispettoso della libertà dei suoi membri  impegnato a garantire  pace e giustizia sociale a livello planetario. Oggigiorno sembrano quindi privilegiate quelle teorie etiche normative in grado di rendere conto in modo  adeguato delle nuove estensioni problematiche presenti nella situazione storica degli esseri umani, Una competizione con le sole armi dell’argomentazione razionale e della conoscenza tra concezioni normative può favorire l’in-  dividuazione di soluzioni giuste ed efficaci. In generale poi una richiesta di  maggiore riflessione sull’etica può trovare una sua giustificazione in quanto  questa riflessione  sia pure in modi più o meno indiretti  contribuisce a  rendere più realizzabili gli obiettivi della pace, della libertà e della giustizia  sociale per l'insieme dell'umanità senza dovere ricorre alla forza delle armi 0  alla violenza. Filosofia_in_Ita3  Testi    ArisToTELE, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano, Rusconi, .   J. BentHam, An Introduction to the Principles of Moral: and Legislation, a cura di J. H. Burns e Hart, London, Methuen.   In., If fibro dei sofismi, a cura di Formigari, Roma, Editori Riuniti,   J. BurLen, Analogia della religione, a cura di A. Babolin, Firenze, Sansoni, Cottins, Discorso sul libero pensiero, Macerata, Liber Libri, Faeuo, J/ disagio della civiltà, in Opere, a cura di Musatti, Torino, Boringhieri,  Grozio, De lure Belli ac Pacis, Paris.   T. HossEs, Opere politiche. 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Shaftesbury Alchourron Crusius Almond Althusius Dahl Anscombe Darwin Apel Davidson LIZIO Dawkins Arrow De Marco Austin Descartes Austin Desmond Axelrod Dewey Ayer D'Holbach Downs Baier Dumont Bartolommei Dworkin Bentham Engelhardt Berlin Epicuro L’ORTO Blackburn Ewing (CITED BY GRICE) Bobbio Bonanate Fagiani Brentano Feinberg Brown Ferguson Buchanan Ferrajoli Buddha Ferrara Bulygin Filmer Butler Finnis Foot Canziani Fox Carcarerra Frankena Cartesio, v. Descartes R. Freud Cassese Clarke Gandhi Collins Gargeni Colman Gauthier Condillac (Etienne Bonnot de), 92. Gibbard om/Filosofia_in_Ita3 Gilligan Glover Gough Gracia Grice, H. P., Grice (Welsh) G. R. Grozio Habermas Hagerstròm Hare Hart Hartley Hayek Helvétius Hennìs Herbert di Cherbury Hobbes Hudson Humboldt Hume Hutcheson Irigaray Jonas Jonsen Jules Jung Juvalta Kant Kavka Kelsen Kuhse Landucci Locke Lorenz Lyons Mackie Macpherson Magri Malthus Mandeville Manzoni Marirain McDowell Melniyre Meek Mill Mill Montaigne Moore Moore Musacchio Nagel Norton Nowell Smith Nozick Oppenheim Parfit Pontara Preti Prichard Pufendorf Putnam Rawls Regan Resnik Rorty Rass Rossi Rousseau Ruse Sacconi Scarpelli Scheler Filosofia_in_Ita3    INDICE DEI NOMI    Schlick Sen Shaftesbury Cooper Sidgwick Singer Singer Smart Smart Smith Snare Spencer Spinoza Stevenson Strauss Sugden Thomasius Aquino Toulmin Urmson Veca Viano Walzer Warrender Weber White Wiggins Williams Wittgenstein Wolff C., Wiollaston Wright .com Filosofia_in_Ita3 Introduzione  La natura dell'etica si ci. Fondazione, giustificazione e spiegazione:  l’epistemologia dell'etica CRA ERA Le etiche normative; concezioni in contrasto  Dall’etica teorica all’etica pratica Di Le dimensioni dell'etica Nota bibliografica Indice dei nomi ..  po. Eugenio Lecaldano. Lecaldano. Keywords: simpatia, simpatico, antipatico, compassione, compassivo, empatia, impassibile, transpatia, patia, patico, il patico, diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler uses ‘transpathy,’ but then he would use anything!” filosofi italiani della simpatia, croce, l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia, impassibile, im- negative, im- enfatico – teorie della simpatia morale in Italia, illuminati e illuministi --. Refs.: transpatia, dia-pathia, trans-passione – trans-passio. Luigi Speranza, “Grice e Lecaldano” – The Swimming-Pool Library. Lecaldano.

 

Luigi Speranza -- Grice e Lelio: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  (Roma). Filosofo italiano. Ha fama soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. Conosce i tre filosofi inviati a Roma, ma e attirato principalmente da Diogene, del Portico. In seguito L. ha rapporto con Panezio e ne diffuse la dottrina nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. L. partecipa alla guerra contro i punici e si distinge nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la pretura. Appartenne agl’auguri è diviene console. Nelle lotte civili determinate dall'azione di Tiberio GRACCO (si veda), L. si schiera contro questo e i suoi fautori. E  ammirato, se non come oratore, come uomo politico, e dove il soprannome di "sapiente" datogli dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Console della repubblica romana. Filosofo del portico, politico e militare romano. E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio Cornelio SCIPIONE (si veda)  Africano, che segue durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e questore.  Si distingue particolarmente nella conquista di Cartagine e in seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Dopo un viaggio di XXXVII giorni, partito da Tarraco in Spagna, in seguito alla presa di Carthago, raggiunse a Roma. Quando entra in città insieme ad una grande schiera di prigionieri attira l'attenzione del popolo che si riversa lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato, dove racconta che Cartagine e presa in una sol giorno. Oltre a questa notizia rifere che sono state riprese alcune delle città che si sono ribellate ai romani, mentre altre sono state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si sta preparando per passare con un grande esercito in Italia, tanto da destare preoccupazioni nei senatori, visto che a stento si e riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. L. rifere degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di ringraziamento a GIOVE CAPITOLINO per l'esito felice della guerra e ordina a Lelio di far ritorno dal suo comandante SCIPIONE il prima possibile, con le stesse navi con cui e venuto. Dopo la fine della guerra e edile plebeo, pretore e console e fornisce importanti informazioni sulla vita dell'amico SCIPIONE Africano, a Polibio. L. è il padre di L. SAPIENTE, console insieme a Quinto Servilio Cepione.  Smith, Dictionary of greek and roman biography and mythology, The Ancient Library.Polibio, Livio. Polibio. Appiano di Alessandria, Historia Romana. Livio, Ab Urbe condita libri. Polibio, Storie, Strabone, Geografia. Brizzi, Storia di Roma, dalle origini ad Azio, Bologna, Patron; Piganiol, Le conquiste dei romani, Milano, Saggiatore; Scullard, Storia del mondo romano. Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, Milano, BUR, L,, in Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, Romanzi storici Posteguillo, L'Africano, Casale Monferrato, Piemme; Posteguillo, Invicta Legio, Casale Monferrato, Piemme, L., Enciclopedia Britannica. Predecessore Console romano Successore Manio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica con Lucio Cornelio Scipione Asiatico Gneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio Nobiliore; guerra punica, guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Antica Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani Militari romani Militari. Consoli repubblicani romani Laelii Persone della seconda guerra punica. A statesman and orator who takes a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the nickname ‘sapiens’ (know it all). According to CICERONE, this was not because L. knew it all, but because of his self control in matters of judicial sentencing. Cicerone greatly admires him and featured him in a number of his philosophical works. Gaio Lelio. Lelio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Leocide: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone. Roma – filosofia basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Luigi Speraza -- Grice e Leofronte: la ragione cnversazionale e la setta di Crotone – Roma – filosofia calabrese – scuola di Crotone -- filosofia italiana– Luigi Seranza (Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.

 

Luigi Speranza -- Grice e Leone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). FIlosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide. Alcmaeon di Crotone dedicates a ‘saggio’ to him.

 

Luigi Speranza -- Grice e Leonzio: all’isola -- la setta di Leonzio -- Roma – filosofia siciliana – filosofia leonzia – scuola di Leonzio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo italiano. Filosofo siciliano. Filosofo leonzio. Leonzio, Sicilia. Pupil of Girgenti. He seems to have written one essay on philosophy. In it, he argues that nothing exists, or that if anything did exist, there could be no knowledge of it, or if there could be knowledge of it, that knowledge could not have passed from one person to another. Poche e scarne le notizie relative a L. sotto il dominio di Roma. Inquadrata in primo momento tra le città decumane, sottoposte al pagamento della decima parte del raccolto, si trasforma a poco a poco in città censoria, il cui territorio viene dato in affitto a cittadini di altre città dietro pagamento di un canone prestabilito. Alla fine del I secolo a.C. il territorio di Leontini viene usato per i donativi agli alleati dei triumvirato.  La città entra in un periodo di grande decadenza, scompare praticamente come città, mentre la popolazione preferisce trasferirsi nelle campagne e nelle fattorie sparse nel territorio. Quasi del tutto assenti le notizie relative alla città in periodo imperiale. Le poche informazioni giunte fino a noi sono inserite nel contesto delle vicende dei santi martiri Alfio, Filadelfo e Cirino, chiaramente leggendarie e quindi di poca utilità. Secondo la tradizione, la chiesa leontina è una delle prime ad affermare che Maria è madre di Dio, prima che questa verità di fede venga ufficialmente proclamata dal concilio di Efeso.  La riscoperta tra studi e scavi  Paolo Orsi, R Carta, R Santapaola in una foto degli anni 30 Dopo un secolare abbandono del sito, torna l'interesse per la storia del luogo grazie ai primi studi favoriti da vari studiosi. Le prime indicazioni sull'antica L. provengono da C.M. Arezzo, Fazello, Alberti, Maurolico e Cluverio. Nel XVIII secolo Vito Amico identificò la valle S. Mauro come l'agorà e la Valle S. Eligio come sede dell'antico fiume Lisso. Nel 1781 Ignazio Paternò Castello evidenzia lo stato di decadenza della città. Schubring studiando il testo di Polibio sulla città ne identifica la struttura assieme alla strada citata anche da Tito Livio per la morte di Geronimo nel 215 a.C.   La testa del kouros della collezione Biscari Le prime segnalazioni in merito alle necropoli di Leontinoi risalgono al 1879 ad opera di Giuseppe Fiorelli, con tombe nella zona nord di Lentini. Nel 1884 Francesco Saverio Cavallari rinviene un ipogeo cristiano e nel 1887 una necropoli sicula nella Valle Ruccia. Nel 1891 il Columba presenta uno studio sulla topografia della città con un rilievo del Castellaccio.  Le ricerche effettuate misero in evidenza l'esigenza di mettere ordine al patrimonio per bloccare i traffici illeciti di materiali verso collezioni private. Lo stesso Paolo Orsi evidenzia questo problema suggerendo già nel 1884 la fondazione di un museo archeologico. Sono proprio gli studi di Paolo Orsi a dare impulso alle ricerche tramite gli scavi condotti in varie parti del sito. Nel 1902 viene ritrovato il kouros di Lentini, oggi al Paolo Orsi cui viene associata la testa della collezione Biscari. Nel 1925 lo Ziegler pubblica una sintesi sulle conoscenze di Lentini.  Gli scavi riprendono nel 1940 con Pietro Griffo presso le fortificazioni del S. Mauro e ulteriori indagini relative alla topografia. Dal 1950 al 1955 viene messa in luce la porta sud (la cosiddetta porta siracusana) e viene esplorata la necropoli esterna. Ulteriori ricerche di Adamesteanu e Rizza mettono in luce altre strutture. Mentre nel 1960 viene rinvenuta casualmente una stipe votiva ad ovest del colle della Metapiccola. Vengono scoperti dei blocchi in Piazza Vittorio Veneto, nel 1971 e nel 1974 vengono esplorate delle tombe presso la Valle di S. Eligio, e nel 1977-78 si riprende l'esplorazione della necropoli di contrada Piscitello.  In contrada Crocifisso viene riportata alla luce un'abitazione che rispecchia le descrizioni di Polibio. Tra il 1981-82 le ricerche vengono effettuale a sud della porta meridionale in contrada Pozzanghera, mettendo i luce delle tombe di età arcaica sino a quella ellenistica. Si prosegue con scavi nel 1986 sul colle Metapiccola, nel 1987 sul Castellaccio da cui emergono anche le strutture murarie della porta nord. Gli scavi sono proseguiti su varie aree sino al 1989, poi nel 1993 in Piazza Umberto è stata rinvenuta una necropoli musulmana sopra a quella greco-arcaica, sino ad arrivare agli ultimi anni con ulteriori aggiornamenti.  Il sito  Mappa di Leontinoi «La città di Leontinoi è interamente rivolta verso settentrione: vi è nel mezzo di essa una valle piana, nella quale si trovano le sedi dei magistrati e dei giudici e tutta l'agorà. Da un lato e dall'altro della valle vi sono alture scoscese: I ripiani di queste alture sopra i colli sono pieni di case di templi. Due porte ha la città, di cui una è al termine della valle anzidetta verso mezzogiorno e porta a Siracusa, l'altra, al Nord, porta ai campi detti Leontini e alla regione coltivabile. Sotto uno degli scoscendimenti, quello verso Occidente, scorre un fiume che chiamano Lisso. Parallele a questo, E la maggior parte sotto lo stesso pendio, giacciono delle case contigue, tra le quali e il fiume vi è la strada anzidetta.»  (Polibio, Historiae)  Il sito di Leontinoi è stretto tra Carlentini a sud e Lentini a nord. L'area dell'agorà si trova in una vallata circondata a sud est dal colle della Metapiccola e a sud ovest dal colle San Mauro. Mentre a nord vi è l'area del Castellaccio. Il parco archeologico copre parzialmente l'intera estensione dell'antica città ed è accessibile da sud, con ingresso dalla porta siracusana, una porta a tenaglia di cui sono ben visibili i tratti murari.  Sull'ingresso sono rintracciabili anche dei monumenti funerari e delle vicine necropoli del IV e III sec a.C. Le prime tombe di questa zona risalgono al VI sec a.C. L'agorà si trova al centro della vallata. Le fortificazioni arcaiche sul monte S. Mauro Sul colle della Metapiccola è presente un villaggio preistorico identificato con l'antica Xouthia. Gli scavi hanno evidenziato la presenza di capanne rettangolari col basamento infossato. Le capanne erano di legno, difatti sono visibili anche i segni dei pali sul terreno. La cinta muraria La cinta muraria ha un andamento complesso e mostra quattro interventi costruttivi. La più antica risale al VII sec a.C. e circondava solo l'acropoli, sono emersi dei tratti sul lato est del colle S. Mauro con incisioni che distinguono la cava di estrazione.  La seconda cinta è degli inizi del VI sec a.C. e dal fondovalle risaliva sino al colle della Metapiccola. La fortificazione ben visibile a piccoli blocchi presenta una torre circolare. Un restauro delle mura avvenne nel III sec a.C. durante la guerra tra Roma e Siracusa.  Lentini nell'Enciclopedia Treccani, su Treccani. LENTINI Enciclopedia dell' Arte Antica, Treccani. Bibliografia Massimo Frasca, M. Congiu, C. Miccichè e S. Modeo, Tucidide e l’archaiologhìa di Leontinoi, in Dal mito alla storia. La Sicilia nell'Archaiologhia di Tucidide (Atti del VIII Convegno di Studi, Caltanissetta). Massimo Frasca, Leontinoi. Archeologia di una colonia greca, Roma 2009 Massimo Frasca, Interazione tra Greci e Indigeni nella Sicilia orientale Il caso Leontinoi. Maltese, I Tetradrammi di Leontinoi. Dinamiche produttive e storico-artistiche, Trieste Sicilia, Touring Club d'Italia, Voci correlate Monte San Basilio Storia di Lentini Museo archeologico di Lentini Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Leontinoi Leontinoi, su sapere. Agostini. Leontini, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Leontinoi, su sicilia fotografica Filmato audio Leontinoi. Memorie da una città dimenticata. Frasca, Leontinoi, città dei Calcidesi in Sicilia. Città della Magna Grecia Siti archeologici della Sicilia greca   Portale Antica Grecia   Portale Sicilia   Portale Storia Categorie: LeontinoiSiti archeologici del libero consorzio comunale di SiracusaCittà della Sicilia grecaCittà romane della SiciliaLentini [altre]. L. Se stai cercando altri significati, vedi L. (disambigua).  Busto di L. ad opera dello scultore lentinese Caracciolo. L. (in greco antico: Γοργίαςs; Leontini – Larissa), retore e filosofo siceliota.  Discepolo di Empedocle di GIRGENTI (si veda), è considerato uno dei maggiori sofisti, teorizzatore di un relativismo etico assoluto, fondato sulla morale della situazione contingente, spinto fino al nichilismo. Figlio di Carmantida, nasce a LEONZIO, Leontini (odierna Lentini, nella provincia di Siracusa), città greca della Sicilia. Fu discepolo del filosofo Empedocle di GIRGENTI (si veda) e dei retori siracusani Corace e Tisia, inventori della retorica, ma subì anche l'influenza delle scuole pitagorica ed eleatica. Prese parte ad un'ambasceria ad Atene per richiedere aiuti militari nella guerra contro Siracusa e riscosse un grande successo per la sua eloquenza (vedi Prima spedizione ateniese in Sicilia). Viaggiò anche in Tessaglia, in Beozia, ad Argo (dove fu fatto divieto di frequentare le sue lezioni), a Delfi e a Olimpia, dove gli furono erette statue. Vendendo i propri insegnamenti di città in città, pare guadagnasse ingenti ricchezze facendosi pagare fino a 100 mine ad allievo, anche se in realtà alla sua morte lasciò una somma piuttosto modesta. Muore in Tessaglia, dove soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere, pare ultracentenario[8]; a chi gli chiedeva il motivo di tale longevità, egli rispondeva: «il non aver mai compiuto nulla per far piacere ad un altro. Di sicuro visse con sobrietà dominando le passioni, lontano da simposi e incurante di tutto ciò che potesse turbarlo. Tra i suoi numerosi discepoli si ricordano Polo di Agrigento, Crizia, Alcibiade, Tucidide, Alcidamante, Isocrate e Antistene. Pare inoltre che intrattenesse ottimi rapporti di amicizia con Pericle. Tipico dell'oratoria di L. era l'ampio uso di complesse figure retoriche, desunte dal linguaggio poetico ed epico. Si prendeva gioco, inoltre, di quanti sostenevano di poter insegnare la virtù, e vantava di saper tenere un discorso su qualsiasi argomento, come testimoniato anche da Platone. Insieme a Protagora, Prodico e Ippia di Elide, viene tradizionalmente ricordato come uno dei grandi sofisti. Contenuto delle opere principali Opere conservate sono l'Encomio di Elena e In difesa di Palamede. Solo frammenti, invece, abbiamo del Sul non essere o sulla natura di un Epitafio per i morti della guerra del Peloponneso, di un Encomio degli Elei, di un Discorso Olimpico e Discorso Pitico.  Encomio di Elena  Lo stesso argomento in dettaglio: Encomio di Elena.  L'amore di Elena e Paride, olio su tela di David, oggi esposto al Louvre (Parigi) Nell'Encomio L. difende Elena dall'accusa di essere stata causa della guerra di Troia, con la sua decisione di tradire il marito Menelao e seguire Paride. Elena è innocente, perché agì o mossa da un principio a lei superiore (che si tratti degli dèi o dell'Ananke, la Necessità), o rapita con la forza, o persuasa da discorsi (logoi), o vinta dall'amore. In ogni caso il movente rimane esterno alla sua responsabilità. Schematizzando, l'argomentazione L.na è ricondotta a quattro argomenti: Elena si era innamorata di Paride; era stata rapita da Paride; fu persuasa da Paride; fu rapita per volontà divina.  Nel primo caso Elena è una vittima, poiché Afrodite promise a Paride che in cambio della Mela d'Oro avrebbe fatto innamorare di lui la donna più bella al mondo, appunto Elena. Nel secondo caso Elena viene rapita, quindi è una vittima e la colpa è da assegnare a Paride. Nel terzo caso se è stata la potenza della parola a convincerla anche in questo caso non è colpa sua poiché la parola è una grande dominatrice. E se fu per l'ultimo caso non fu per sua volontà ma per quella degli dei i cui progetti non possono essere impediti con la nostra precauzione o provvidenza.  Sul non essere o sulla natura Nell'opera Sul non essere G. dimostra, tramite la reductio ad absurdum, tre ipotesi, volutamente opposte alla scuola di Elea. Il suo argomentare svolge il seguente percorso logico:  Nulla è; Se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; Se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri. Questi tre punti fondamentali della filosofia di L., secondo la testimonianza di Sesto Empirico, vengono delucidati attraverso una sequenza di ragionamenti che portano ad una conclusione ultima. Che niente esista G. dimostra in questo modo: se qualcosa esiste, esso sarà o l'essere o il non-essere o l'essere e il non-essere insieme. Ora il non-essere non c'è, ma neppure l'essere c'è. Ché, se ci fosse, esso non potrebbe essere che o eterno o generato o eterno e generato insieme. Ora, se è eterno, non ha alcun principio e, non avendo alcun principio, è infinito e, se è infinito, non è in alcun luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma neppure generato può essere l'essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o dall'essere o dal non-essere. Ma non è nato dall'essere, ché, se è essere, non è nato, ma è già; né dal non-essere, perché il non-essere non può generare.  Se le cose pensate non si può dire siano esistenti, sarà vero anche l'inverso, che non si può dire che l'essere sia pensato. È giusta e conseguente la deduzione che “se il pensato non esiste, l'essere non è pensato”. E che le cose pensate non esistano è chiaro: infatti, se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si pensino; ciò è contrario all'esperienza, perché non è vero che, se uno pensa un uomo che voli o dei carri che corran sul mare, ecco che un uomo si mette a volare o dei carri si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero che il pensato esista. Di più, se il pensato esiste, il non-esistente non potrà esser pensato, perché ai contrari toccan contrari attributi. Ma ciò è assurdo, perché si pensa anche Scilla e la Chimera e molte altre cose irreali. Dunque l'essere non è pensato.  Posto che le cose esistenti sono visibili e udibili e in genere sensibili e di esse le visibili sono percepibili per mezzo della vista e le udibili per l'udito, e non viceversa, come dunque si potranno esprimere ad un altro? Poiché il mezzo con cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è l'oggetto, la cosa, non è realtà esistente ciò che esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola, che è altro dall'oggetto. Al modo stesso dunque che il visibile non può diventare audibile, e viceversa, così l'essere, in quanto è oggetto esterno a noi, non può diventar parola, che è in noi. E non essendo parola non potrà esser manifestato ad altri.»  (Sesto Empirico, Contro i matematici)  Interpretazione dell'opera  Lo stesso argomento in dettaglio: Relativismo etico sofistico  Il nichilismo di G. E' decoro allo Stato una baldanzosa gioventù, al corpo la bellezza, all'animo la sapienza, alla parola la verità.  (G. Encomio di Elena)  Le interpretazioni di G. si possono dividere fondamentalmente in due tipi, a seconda che si considerino le sue opere scritte con intento serio o ironico. Nel secondo caso, il trattato Sul non essere sarebbe unicamente una parodia delle dottrine e dello stile argomentativo tipico di Parmenide e della sua scuola e non, piuttosto, una presa di posizione convinta che invece farebbe di G., secondo alcuni, un precursore del nichilismo.  Nel Sul non essere G. giunge alla conclusione (secondo l'interpretazione dello Pseudo-Aristotele) che solo il nulla è. Di conseguenza, l'essere non esiste: poiché se è infinito nessun luogo potrebbe contenerlo, e non può essere finito poiché gli stessi eleati lo negano come tale. Ancora, se anche esistesse, non sarebbe conoscibile: chi è all'interno dell'Essere, dello Sfero parmenideo, non può conoscerlo. Infine, se anche fosse conoscibile, non sarebbe dicibile né comunicabile ad altri: mancherebbero le parole per esprimerlo, e anche se fosse esprimibile non si potrebbe comunicare se non ciò che è oggetto d'esperienza, sicché per L. appare una conoscenza espressa in termini negativi: la verità non esiste, ogni sapere è impossibile, tutto è falso perché tutto è illusorio.  Se la verità non è raggiungibile né con i sensi ingannatori né con la ragione, su quali princìpi certi si reggerà la morale dell'uomo? L. risponde che non esistono valori, princìpi immutabili di comportamento, ma che ognuno dovrà affrontare la situazione in cui si trova e semplicemente reagire ad essa. È questa la «morale della situazione» per cui il comportamento di ognuno varierà a seconda del soggetto, della sua età, della sua cultura, delle circostanze.  Significativo è il fatto che, quando G. fu incaricato dal governo ateniese di celebrare i caduti della guerra del Peloponneso, egli disse che questi non furono eroi, ma che erano da onorare perché accettarono la situazione in cui si trovarono e seppero agire come le circostanze richiedevano – seppero cioè rispondere all'occasione (kairós) offerta dalla situazione. Di fronte al dramma della vita, l'unica consolazione è la parola (logos), che acquista valore proprio perché non esprime la verità ma l'apparenza (doxa). La parola, afferma nell'Encomio di Elena, è magica: essa è «un potente signore, che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a compiere le imprese più divine. La parola esprime al meglio le passioni che guidano la vita dell'uomo, è in grado di evocarle e modificarle, e così di sottomettere chiunque. Essa è dunque onnipotente e addirittura in grado di creare un mondo perfetto dove vivere. L'uomo è una pedina nelle mani del caso (tyche), il quale domina ogni vicenda umana. Egli, però, sarà felice se sarà in grado di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità (kairoȋ) che la tyche gli offre: è per questo, in ultima analisi, che Elena merita un elogio, in quanto ha saputo sfruttare a proprio vantaggio ciò che le assegnava il destino.  In conclusione, un'interpretazione filosofica del pensiero di G. tenta di tracciare un percorso che, partendo dal naturalismo proprio di Empedocle, conduce alla cosiddetta crisi eristica, di stampo nichilista, sino a uno sbocco in un più sereno scetticismo del linguaggio. Resta tuttavia dubbio se L. avesse un'effettiva sfiducia nelle possibilità conoscitive dell'uomo o non, piuttosto, un'enorme fiducia nelle possibilità del linguaggio, in grado di dimostrare tutto e il contrario di tutto, svincolato da ogni criterio di verità. D'altra parte, resta anche incerto quanto G. fosse cosciente dell'onnipotenza della parola o se essa non fosse piuttosto un ovvio corollario della sua attività retorica.  Infine G., a differenza di alcuni filosofi di epoca successiva come Platone, ha una buona opinione dell'arte: sostiene che se esistesse l'essere, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta, ma siccome l'essere non esiste, l'artista è un creatore di mondi. Quindi il bravo artista è colui che riesce ad ingannare gli spettatori facendoli partecipi delle proprie opere, mentre lo spettatore più "saggio" è colui che sa farsi ingannare.[18]  Note Fazello, Della Storia di Sicilia, Palermo, Assenzio, Quintiliano DK Diodoro Siculo, XII 53, 1-3. ^ Olimpiodoro, commento a Platone, G., Pausania, VI 17, 7 per Olimpia; X 18, 7 per Delfi. ^ Probabilmente il prezzo di 100 mine d'oro, testimoniatoci da Isocrate nell'Antidosis, si riferiva non a singole lezioni ma all'intero ciclo di insegnamento. A riprova di ciò vi è il fatto che lo stesso Isocrate testimonia che alla morte del maestro non si trovarono le ingenti ricchezze che tutti si aspettavano, ma solo 1000 stateri. Cfr. Antidosis, 155-156. ^ Le fonti riportano un'età variabile tra i 107 e i 109 anni. Cfr. Apollodoro di Atene, FGrHist 244 F33. ^ DK 82 A11. ^ Filostrato, Vite dei sofisti, I 9, 3. ^ Filostrato, Vite dei sofisti, I 1. ^ Forse provenienti da manuali di retorica (frr. 12-14 D.-K.) contenenti numerose orazioni da memorizzare come esempi. ^ La scuola eleatica, a differenza del suo fondatore Parmenide, concepisce l'essere come infinito, soprattutto a seguito delle considerazioni di Melisso. ^ M. Sacchetto, La morale della situazione, in L'esperienza del pensiero. Le polis e l'età di Pericle, p. 72. ^ DK 82 B6. ^ DK 82B11 ^ J.C. Capriglione, Elena tra L. e Isocrate ovvero se l'amore diventa politica, in L. Montoneri-F. Romano (a cura di), L. e la sofistica, numero monografico di «Siculorum Gymnasium» Cfr. DK82 B23. Bibliografia L., Testimonianze e frammenti, a cura di Roberta Ioli, Roma, Carocci, 2013. L. di Leontini, L. "Su ciò che non è", edizione critica, traduzione e commento a cura di Roberta Ioli, Hildesheim: Georg Olms, 2010. Barbara Cassin, Si Parménide. Le traité anonyme De Melisso, Xenophane, L., Lille: Presse Universitaire de Lille, 1980. I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006 ( = DK) Stefania Giombini, L. epidittico. Commento filosofico all’Encomio di Elena, all’Apologia di Palamede, all’Epitaffio, Presentazione di Livio Rossetti, Passignano, Aguaplano, 2012. Giuseppe Mazzara, L.. La retorica del verosimile, Sankt Augustin, Academia Verlag, 1999. Maurizio Migliori, La filosofia di L., Milano: CELUC, 1973. Mario Untersteiner (a cura di), Sofisti: testimonianze e frammenti, Milano: Bompiani, Voci correlate L. (dialogo), il dialogo platonico di cui è protagonista Ippia di Elide Prodico Protagora Relativismo etico sofistico Sofistica Gòrgia di Leontini, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Calogero, L. di Leontini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, L. di Leontini, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Gòrgia (sofista e retore), su sapere.it, De Agostini. L.s of Leontini, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. L., su Internet Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata (EN) Opere di L., su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di L., su LibriVox. Modifica su Wikidata (EN) L., su Goodreads. Modifica su Wikidata Registrazioni audiovisive di L., su Rai Teche, Rai. Modifica su Wikidata (EN) C. Francis Higgins, L.s (483—375 B.C.E.), su Internet Encyclopedia of Philosophy. Taylor, Mi-Kyoung Lee, The Sophists, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. V · D · M Presocratici V · D · M Sofisti Portale Biografie   Portale Filosofia   Portale Letteratura   Portale Magna Grecia Categorie: Retori siceliotiFilosofi siceliotiFilosofi del V secolo a.C.Sicelioti del V secolo a.C.Morti a LarissaFilosofi greci antichi del V secolo a.C.SofistiCentenari greci antichiMagna Grecia[altre]L.. L. o Leonzio? Cf. Empedocle o Girgentu. Cf. William or Occam? L.. Conversational reason as a PRESUPPOSITION for conversation. Trascendental argumentation. L. as a character in Plato’s dialogue where Socrates and L. argue that, unless understanding that the other is abiding by a principle of conversational helpfulness, it is not worth conversing! Or even POSSIBLE! L.. Grice e Leonzio. Grice e Lionzio. Grice e Lionzo. Grice e Lionzi Grice e Leonzi: l’arte dell’implicatura – filosofia siciliana – la scuola di Leonzio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo siciliano. Filosofo italiano, Leonzio, Sicilia. Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi L. (disambigua).  Busto di L. ad opera dello scultore lentinese Salvatore Caracciolo. L. (in greco antico: Γοργίας?, Gorghías; Leontini, 485 a.C. oppure 483 a.C. – Larissa, 375 a.C. circa) è stato un retore e filosofo siceliota.  Discepolo di Empedocle, è considerato uno dei maggiori sofisti, teorizzatore di un relativismo etico assoluto, fondato sulla morale della situazione contingente, spinto fino al nichilismo.  Biografia Figlio di Carmantida, nacque intorno al 483 a.C. a Leontini (odierna Lentini, nella provincia di Siracusa), città greca della Sicilia.[1] Fu discepolo del filosofo Empedocle e dei retori siracusani Corace e Tisia[2], inventori della retorica, ma subì anche l'influenza delle scuole pitagorica ed eleatica.[3] Nel 427 prese parte ad un'ambasceria ad Atene per richiedere aiuti militari nella guerra contro Siracusa e riscosse un grande successo per la sua eloquenza (vedi Prima spedizione ateniese in Sicilia)[4]. Viaggiò anche in Tessaglia, in Beozia, ad Argo (dove fu fatto divieto di frequentare le sue lezioni)[5], a Delfi e a Olimpia, dove gli furono erette statue[6]. Vendendo i propri insegnamenti di città in città, pare guadagnasse ingenti ricchezze facendosi pagare fino a 100 mine ad allievo, anche se in realtà alla sua morte lasciò una somma piuttosto modesta.[7]  Morì in Tessaglia, dove soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere, intorno al 375 a.C., pare ultracentenario[8]; a chi gli chiedeva il motivo di tale longevità, egli rispondeva: «il non aver mai compiuto nulla per far piacere ad un altro»[9]. Di sicuro visse con sobrietà dominando le passioni, lontano da simposi e incurante di tutto ciò che potesse turbarlo. Tra i suoi numerosi discepoli si ricordano Polo di Agrigento, Crizia, Alcibiade, Tucidide, Alcidamante, Isocrate e Antistene. Pare inoltre che intrattenesse ottimi rapporti di amicizia con Pericle.[10]  Tipico dell'oratoria di L. era l'ampio uso di complesse figure retoriche, desunte dal linguaggio poetico ed epico. Si prendeva gioco, inoltre, di quanti sostenevano di poter insegnare la virtù, e vantava di saper tenere un discorso su qualsiasi argomento, come testimoniato anche da Platone. Insieme a Protagora, Prodico e Ippia di Elide, viene tradizionalmente ricordato come uno dei «grandi sofisti».[11]  Contenuto delle opere principali Opere conservate sono l'Encomio di Elena (415 a.C.) e In difesa di Palamede[12]. Solo frammenti, invece, abbiamo del Sul non essere o sulla natura di un Epitafio per i morti della guerra del Peloponneso, di un Encomio degli Elei, di un Discorso Olimpico e Discorso Pitico.  Encomio di Elena  Lo stesso argomento in dettaglio: Encomio di Elena.  L'amore di Elena e Paride, olio su tela di Jacques-Louis David, oggi esposto al Louvre (Parigi) Nell'Encomio L. difende Elena dall'accusa di essere stata causa della guerra di Troia, con la sua decisione di tradire il marito Menelao e seguire Paride. Elena è innocente, perché agì o mossa da un principio a lei superiore (che si tratti degli dèi o dell'Ananke, la Necessità), o rapita con la forza, o persuasa da discorsi (logoi), o vinta dall'amore. In ogni caso il movente rimane esterno alla sua responsabilità. Schematizzando, l'argomentazione L.na è ricondotta a quattro argomenti: Elena si era innamorata di Paride; era stata rapita da Paride; fu persuasa da Paride; fu rapita per volontà divina.  Nel primo caso Elena è una vittima, poiché Afrodite promise a Paride che in cambio della Mela d'Oro avrebbe fatto innamorare di lui la donna più bella al mondo, appunto Elena. Nel secondo caso Elena viene rapita, quindi è una vittima e la colpa è da assegnare a Paride. Nel terzo caso se è stata la potenza della parola a convincerla anche in questo caso non è colpa sua poiché la parola è una grande dominatrice. E se fu per l'ultimo caso non fu per sua volontà ma per quella degli dei i cui progetti non possono essere impediti con la nostra precauzione o provvidenza.  Sul non essere o sulla natura Nell'opera Sul non essere L. dimostra, tramite la reductio ad absurdum, tre ipotesi, volutamente opposte alla scuola di Elea. Il suo argomentare svolge il seguente percorso logico:  Nulla è; Se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; Se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri. Questi tre punti fondamentali della filosofia di L., secondo la testimonianza di Sesto Empirico, vengono delucidati attraverso una sequenza di ragionamenti che portano ad una conclusione ultima.  «Che niente esista L. dimostra in questo modo: se qualcosa esiste, esso sarà o l'essere o il non-essere o l'essere e il non-essere insieme. Ora il non-essere non c'è, ma neppure l'essere c'è. Ché, se ci fosse, esso non potrebbe essere che o eterno o generato o eterno e generato insieme. Ora, se è eterno, non ha alcun principio e, non avendo alcun principio, è infinito e, se è infinito, non è in alcun luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma neppure generato può essere l'essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o dall'essere o dal non-essere. Ma non è nato dall'essere, ché, se è essere, non è nato, ma è già; né dal non-essere, perché il non-essere non può generare.  Se le cose pensate non si può dire siano esistenti, sarà vero anche l'inverso, che non si può dire che l'essere sia pensato. È giusta e conseguente la deduzione che “se il pensato non esiste, l'essere non è pensato”. E che le cose pensate non esistano è chiaro: infatti, se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si pensino; ciò è contrario all'esperienza, perché non è vero che, se uno pensa un uomo che voli o dei carri che corran sul mare, ecco che un uomo si mette a volare o dei carri si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero che il pensato esista. Di più, se il pensato esiste, il non-esistente non potrà esser pensato, perché ai contrari toccan contrari attributi. Ma ciò è assurdo, perché si pensa anche Scilla e la Chimera e molte altre cose irreali. Dunque l'essere non è pensato.  Posto che le cose esistenti sono visibili e udibili e in genere sensibili e di esse le visibili sono percepibili per mezzo della vista e le udibili per l'udito, e non viceversa, come dunque si potranno esprimere ad un altro? Poiché il mezzo con cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è l'oggetto, la cosa, non è realtà esistente ciò che esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola, che è altro dall'oggetto. Al modo stesso dunque che il visibile non può diventare audibile, e viceversa, così l'essere, in quanto è oggetto esterno a noi, non può diventar parola, che è in noi. E non essendo parola non potrà esser manifestato ad altri.»  (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 65 ss)  Interpretazione dell'opera  Lo stesso argomento in dettaglio: Relativismo_etico_sofistico § Il_nichilismo_di_L.. «E' decoro allo Stato una baldanzosa gioventù, al corpo la bellezza, all'animo la sapienza, alla parola la verità.»  (L., Encomio di Elena, 1)  Le interpretazioni di L. si possono dividere fondamentalmente in due tipi, a seconda che si considerino le sue opere scritte con intento serio o ironico. Nel secondo caso, il trattato Sul non essere sarebbe unicamente una parodia delle dottrine e dello stile argomentativo tipico di Parmenide e della sua scuola e non, piuttosto, una presa di posizione convinta che invece farebbe di L., secondo alcuni, un precursore del nichilismo.  Nel Sul non essere L. giunge alla conclusione (secondo l'interpretazione dello Pseudo-Aristotele) che solo il «nulla è». Di conseguenza, l'essere non esiste: poiché se è infinito nessun luogo potrebbe contenerlo, e non può essere finito poiché gli stessi eleati lo negano come tale.[13] Ancora, se anche esistesse, non sarebbe conoscibile: chi è all'interno dell'Essere, dello Sfero parmenideo, non può conoscerlo. Infine, se anche fosse conoscibile, non sarebbe dicibile né comunicabile ad altri: mancherebbero le parole per esprimerlo, e anche se fosse esprimibile non si potrebbe comunicare se non ciò che è oggetto d'esperienza, sicché per L. appare una conoscenza espressa in termini negativi: la verità non esiste, ogni sapere è impossibile, tutto è falso perché tutto è illusorio.  Se la verità non è raggiungibile né con i sensi ingannatori né con la ragione, su quali princìpi certi si reggerà la morale dell'uomo? L. risponde che non esistono valori, princìpi immutabili di comportamento, ma che ognuno dovrà affrontare la situazione in cui si trova e semplicemente reagire ad essa. È questa la «morale della situazione» per cui il comportamento di ognuno varierà a seconda del soggetto, della sua età, della sua cultura, delle circostanze[14].  Significativo è il fatto che, quando L. fu incaricato dal governo ateniese di celebrare i caduti della guerra del Peloponneso, egli disse che questi non furono eroi, ma che erano da onorare perché accettarono la situazione in cui si trovarono e seppero agire come le circostanze richiedevano – seppero cioè rispondere all'occasione (kairós) offerta dalla situazione[15]. Di fronte al dramma della vita, l'unica consolazione è la parola (logos), che acquista valore proprio perché non esprime la verità ma l'apparenza (doxa). La parola, afferma nell'Encomio di Elena, è magica: essa è «un potente signore, che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a compiere le imprese più divine»[16]. La parola esprime al meglio le passioni che guidano la vita dell'uomo, è in grado di evocarle e modificarle, e così di sottomettere chiunque. Essa è dunque onnipotente e addirittura in grado di creare un mondo perfetto dove vivere. L'uomo è una pedina nelle mani del caso (tyche), il quale domina ogni vicenda umana. Egli, però, sarà felice se sarà in grado di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità (kairoȋ) che la tyche gli offre: è per questo, in ultima analisi, che Elena merita un elogio, in quanto ha saputo sfruttare a proprio vantaggio ciò che le assegnava il destino[17].  In conclusione, un'interpretazione filosofica del pensiero di L. tenta di tracciare un percorso che, partendo dal naturalismo proprio di Empedocle, conduce alla cosiddetta crisi eristica, di stampo nichilista, sino a uno sbocco in un più sereno scetticismo del linguaggio. Resta tuttavia dubbio se L. avesse un'effettiva sfiducia nelle possibilità conoscitive dell'uomo o non, piuttosto, un'enorme fiducia nelle possibilità del linguaggio, in grado di dimostrare tutto e il contrario di tutto, svincolato da ogni criterio di verità. D'altra parte, resta anche incerto quanto L. fosse cosciente dell'onnipotenza della parola o se essa non fosse piuttosto un ovvio corollario della sua attività retorica.  Infine L., a differenza di alcuni filosofi di epoca successiva come Platone, ha una buona opinione dell'arte: sostiene che se esistesse l'essere, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta, ma siccome l'essere non esiste, l'artista è un creatore di mondi. Quindi il bravo artista è colui che riesce ad ingannare gli spettatori facendoli partecipi delle proprie opere, mentre lo spettatore più "saggio" è colui che sa farsi ingannare.[18]  Note ^ Tommaso Fazello, Della Storia di Sicilia, vol. I, pp. 198-200, Palermo, Giuseppe Assenzio, 1817. ^ Quintiliano, III 1, 8 ss. ^ DK 82 A2. ^ Diodoro Siculo, XII 53, 1-3. ^ Olimpiodoro, commento a Platone, L., 46, 11. ^ Pausania, VI 17, 7 per Olimpia; X 18, 7 per Delfi. ^ Probabilmente il prezzo di 100 mine d'oro, testimoniatoci da Isocrate nell'Antidosis, si riferiva non a singole lezioni ma all'intero ciclo di insegnamento. A riprova di ciò vi è il fatto che lo stesso Isocrate testimonia che alla morte del maestro non si trovarono le ingenti ricchezze che tutti si aspettavano, ma solo 1000 stateri. Cfr. Antidosis, 155-156. ^ Le fonti riportano un'età variabile tra i 107 e i 109 anni. Cfr. Apollodoro di Atene, FGrHist 244 F33. ^ DK 82 A11. ^ Filostrato, Vite dei sofisti, I 9, 3. ^ Filostrato, Vite dei sofisti, I 1. ^ Forse provenienti da manuali di retorica (frr. 12-14 D.-K.) contenenti numerose orazioni da memorizzare come esempi. ^ La scuola eleatica, a differenza del suo fondatore Parmenide, concepisce l'essere come infinito, soprattutto a seguito delle considerazioni di Melisso. ^ M. Sacchetto, La morale della situazione, in L'esperienza del pensiero. Le polis e l'età di Pericle, p. 72. ^ DK 82 B6. ^ DK 82B11 ^ J.C. Capriglione, Elena tra L. e Isocrate ovvero se l'amore diventa politica, in L. Montoneri-F. Romano (a cura di), L. e la sofistica, numero monografico di «Siculorum Gymnasium» n. 38 (1985), pp. 429-443. ^ Cfr. DK82 B23. Bibliografia L., Encomio di Elena, testo greco a fronte, a cura di Giuseppe Girgenti, Milano, Alboversorio, 2014. L., Testimonianze e frammenti, a cura di Roberta Ioli, Roma, Carocci, 2013. L. di Leontini, L. "Su ciò che non è" , edizione critica, traduzione e commento a cura di Roberta Ioli, Hildesheim: Georg Olms, 2010. Barbara Cassin, Si Parménide. Le traité anonyme De Melisso, Xenophane, L., Lille: Presse Universitaire de Lille, 1980. I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006 ( = DK) Stefania Giombini, L. epidittico. Commento filosofico all’Encomio di Elena, all’Apologia di Palamede, all’Epitaffio, Presentazione di Livio Rossetti, Passignano, Aguaplano, 2012. Giuseppe Mazzara, L.. La retorica del verosimile, Sankt Augustin, Academia Verlag, 1999. Maurizio Migliori, La filosofia di L., Milano: CELUC, 1973. Mario Untersteiner (a cura di), Sofisti: testimonianze e frammenti, Milano: Bompiani, 2009. Voci correlate L. (dialogo), il dialogo platonico di cui è protagonista Ippia di Elide Prodico Protagora Relativismo etico sofistico Sofistica Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a L. Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su L. Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su L. Collegamenti esterni Gòrgia di Leontini, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Guido Calogero, L. di Leontini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933. Modifica su Wikidata L. di Leontini, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Gòrgia (sofista e retore), su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) L.s of Leontini, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) L., su Internet Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata (EN) Opere di L., su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di L., su LibriVox. Modifica su Wikidata (EN) L., su Goodreads. Modifica su Wikidata Registrazioni audiovisive di L., su Rai Teche, Rai. Modifica su Wikidata (EN) C. Francis Higgins, L.s (483—375 B.C.E.), su Internet Encyclopedia of Philosophy. (EN) C.C.W. Taylor, Mi-Kyoung Lee, The Sophists, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. V · D · M Presocratici V · D · M Sofisti Portale Biografie   Portale Filosofia   Portale Letteratura   Portale Magna Grecia Categorie: Retori siceliotiFilosofi siceliotiFilosofi del V secolo a.C.Sicelioti del V secolo a.C.Morti a LarissaFilosofi greci antichi del V secolo a.C.SofistiCentenari greci antichiMagna Grecia[altre] Gorgia di Leonzi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leonzio”. Leonzio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Leonzio: la ragione conversazionale la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to The Vita di Pitagora di Giamblico di Calcide.

 

Luigi Speranza -- Grice e Lettine: all’isola – la diaspora di Crotona – Roma – filosofia siciliana – scuola di Siracusa -- filosofia italiana – Luigi Spearnza (Siracusa). Filosofo italiano. Siracusa, Sicilia. A Pythagorean, according to “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Luigi Speranza -- Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia marchese – scuola di Ancona -- filosofia italiana – il vincolo mi fa libero -- Luigi Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Ancona, Marche. Grice: “I love Bruno Leoni; my balance between the principle of conversational self-love and the principle of conversational benevolence is what all his philosophy is about!” – Grice: “Leoni has technical concepts here: his is an individualism, i. e. subjectivisim, and he believes that the ‘scambio’ or ‘inter-subjective,’ inter-individual exchange’ is ‘spontaneous – he calls it ‘ordine spontaneo.’ He doesn;’t see it necessarily as ethical or meta-ethical – but descriptive; similarly I speak of conversational maxims as different from ‘moral’ maxims!” “La situazione paradossale del nostro tempo è che siamo governati da uomini non, come pretenderebbe la classica teoria aristotelica, perché non siamo governati dal diritto, ma esattamente perché lo siamo. Vive a Torino, Pavia, e la Sardegna. Per la sua filosofia, viene associato ad un modello liberale e anti-statalista della società. All'interno della filosofia,  si inserisce nella tradizione del liberalismo classico. Allievo di SOLARI, di cui e pure assistente volontario, e collega di Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del conflitto, fa parte di A Force, un'organizzazione segreta alleata incaricata di recuperare prigionieri e salvare soldati.  Insegna filosofia e ricoprendo l'incarico di preside della facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze tragiche, ucciso. Un collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione tipografo ma che svolge amministrazioni di condomini e palazzi, ha perpetrato truffe e sottrazioni di denaro. Quando se ne accorse e minaccia di denunciarlo, Quero lo assassina colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo in un garage, inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli anni della ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si affermavano politiche economiche di stampo statalista, anda contro-corrente sostenendo il liberalismo, che ormai quasi più nessuno e pronto a difendere. L. critica la logica dell'intervento pubblico mentre esalta la superiore razionalità e legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del concorso delle volontà dei singoli individui.  Fondatore di Il Politico, svolge ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per Il Sole 24 ORE. Membro della Societa Mont Pelerin di cui fu segretario e poi presidente, il filosofo torinese e pure molto impegnato nel Centro di Studi Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e Documentazione Einaudi. Filosofo poliedrico (giurista e filosofo, ma anche appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che della storia delle dottrine politiche), L. Promuove le idee liberali all'interno della filosofia italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della rivista da lui diretta, Il Politico, in cui da spazio ad autori spesso a quel tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche.  Con i suoi saggi, inoltre, L. apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta pubblica all'Analisi economica del diritto -- filoni di ricerca che esaminano la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia -- fino all'indagine interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso.  E stato quasi dimenticato: soprattutto in Italia. Il suo saggio più conosciuta (frutto di lezioni ). L’ndividualismo integrale di L. risulta ben poco in sintonia con la cultura del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è pervaso da quella cultura che egli assimila in profondità grazie all'intensa frequentazione di alcuni tra i maggiori filosofi di quell'universo intellettuale.  Inoltre, segue sempre con il massimo interesse i protagonisti della scuola austriaca -- Mises e Hayek, soprattutto -- cheanche se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi. In questo senso, bisogna rilevare che il percorso filosofico di L. e stato molto differente senza la Societa Mont Pelerin, nei cui convegni egli ha l'opportunità di entrare in contatto con filosofi e scuole di pensiero estranei al clima dominante nell'Italia. In effetti, l'associazione fondata da Hayek ha rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercano interlocutori radicati nella cultura del liberalismo. Dimenticato o quasi in Italia, la filosofia di L. continua a vivere fuori dei nostri confinigrazie alle iniziative, ai saggi dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i suoi saggi suscitano nelle nuove generazioni di studiosi liberali. La situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere sulle pagine del  torinese, dando vita ad una vera e propria riscoperta che sta producendo numerosi frutti e grazie alla quale si va finalmente riconoscendo a L. la sua giusta posizione tra i maggiori filosofi del liberalismo. Oggi.  non è più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore delle sue tesi.  In questo senso, è interessante rilevare che perfino filosofi lontani dalle posizioni liberali e libertarian di L. avvertano sempre più il carattere innovativo della sua filosofia, che nell'ambito della filosofia del diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre il diritto è stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al potere, uno dei contributi maggiori di L. è quello di aver indicato un altro modo di guardare alla norma giuridica, sforzandosi di cogliere ciò che vi è oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa ragione, si guarda alla teoria di L. come ad una radicale alternativa rispetto al normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da L.. Quella di L., per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della tradizione libertariana, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro potenzialità.  Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato fondato l'Istituto L., con sedi a Torino e a Milano, animato da Lottieri, Mingardi e Stagnaro, che si propone di affermare, all'interno del dibattito filosofico, i principii liberali difesi da L, stesso e di promuovere la conoscenza della filosofia di L. e, in generale, delle teorie liberali e libertariana.  Altri saggi:“Lo stato” (Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Mannelli, Rubbettino); “La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza politica e teoria del diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le radici individuali del diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La sovranità del consumatore” (Roma, Ideazione);  “La libertà del lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”, Treviglio Mannelli, Facco Rubbettino,  “Il diritto come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico moderno e contemporaneo, Masala, Bassani, Macerata, Liberi libri,  Istituto L.. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione  Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di O. Quero, su in mia memoria. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato a sviluppare le ricerche di L. è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu, che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana.  E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek, rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia coerente con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il liberalismo (Mannelli, Rubbettino); saggio su L.. Masala  La teoria politica (Mannelli, Rubbettino); Lottieri, “Libertà e stato” in Masala, cur., La teoria politica; Mannelli, Rubbettino; Lottieri, Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico”, Mannelli, Rubbettino; Approfondisce il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in L., ma già ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, L.. Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della Collana “L'ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e politico italiano”, Napoli, ESI, Gulisano, Tra positivismo e gius-naturalismo. Il diritto evolutivo, Foedrus. Gulisano, La teoria empirica di L. La centralità dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. riscoprire.bruno.l.Bruno Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo --  Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library.  

 

Luigi Speranza -- Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia umbra – scuola di Spoleto – filosofia perugiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Spoleto). Filosofo italiano. Spoleto, Perugia, Umbria. Grice: “In Italy, they like ‘renaissance men,’ but there’s a peril in that: Leoni was a philosopher and a physician (to Medici) – when he died, Medici did, Leoni was accused of malpractice (poisoning), strangled to death, and thrown into a ditch. Categorie: philosophers in ditch – Thales, Leoni.” Di famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e Pisa.  E qui che ha modo di entrare in contatto con la cerchia di filosofi che gravitano attorno a Lorenzo de’ Medici, a Firenze. Ha contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico. Venne considerato uno dei più valenti filosofi. I più illustri personaggi e sovrani dell'epoca, come il duca di Calabria, il re di Napoli, Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo VIII, richiedeno le sue cure, tanto che divenne il medico personale dello stesso Lorenzo de Medici.  All'indomani della morte di Lorenzo de Medici venne ingiustamente sospettato di essere stato il responsabile del suo avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in un pozzo il giorno seguente. Diverse fonti dell'epoca  sostengono che il mandante dell'uccisione di L. e il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F. Bacchelli, Dizionario Biografico degl’Italiani, riferimenti in.  Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Era adpresso del dicto Lorenzo uno excellentissimo et famosissimo medico de grandissima scientia in FILOSOFIA, nominato magistro Pierleone de leonardo da Spolitj, reputato el più singulare valente homo in dicte scientie che ogie dì viva. E questo uomo in tanto prezzo adpresso del dicto Lorenzo che, senza quisto clarissimo doctore, non podiva stare. E conducto ad Pisa ad legere, ha mille ducatj de provisione per anno: poj e conducto ad Padova, ha mille et ducento ducatj per anno. Ad Pisa stecte annj ad legere e similemente ad Padova. Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Lorenzo se amala, mandò per luj, e anda a Firenze. E questo mastro L. de tanta scientia, che predisse la morte sua essere infra IV misi. E anda mal voluntierj ad Firenze. Tandem jonto ad Firenze trova Lorenzo stare male: sono lì clarissimj medicj et valentj et excellentj: poj ce venne el medico del duca de Milano: et predice mastro L. la morte de Lorenzo. Ipso non presta mai et non se mestecù in alcuna medicina ne potione sue. Il cronista forse vuol dire che L, non s'ingerì affatto in ciò che riguarda l'assistenza sanitaria dell'infermo, limitando l'opera sua alla pura DIAGNOSI della malattia ed a consultazioni astrologiche. E con ciò vuole, forse, velatamente intendere che niente ha a che vedere L. con quelle strane pozioni a base di gemme e perle triturate somministrate da un altro medico, il Piacentino, le quali, attese le lesioni viscerali che tormentano il paziente, servirono forse ad accelerarne il tracollo -- ma solo ipso in consulendo et predicendo. Tandem venendo alla morte Lorenzo, Perino, figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato homo bestiale e senza prudentia, ordina che el dicto mastro L. fosse morto. Lorenzo e in villa ad uno suo casale, e lì tucto dì sta mastro L. Essendo morto Lorenzo, et lì insino alla sera stando mastro L., volendo tornare luj allu solito loco, e menato per uno Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale, et lì e strangulato dicto mastro L., et buctato in uno pozo. Poj e retracto e portato in Firenze, e retenuto il suo corpo con guardia et veneratione assai. Et de tanto tradimento et iniusta morte se ne dolse tucta la città, perché la bona memoria de Lorenzo ama questo uomo più che uomo vivesse, et tucti li secretj soj sapiva, savio, sapientissimo e pieno de verità, bontà et integrità."  Nella sua "Storia della Letteratura Italiana" Tiraboschi, Firenze, Landi, riporta fonti dell'epoca, fra cui Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se medesimo ma si rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice Cambi, da due famigliari di Lorenzo. Lo stesso testo riporta le affermazioni di Sanazzaro, il quale non nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei parla di Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo, e di Allegretti, storico senese contemporaneo di L., che riporta. L. da Spoleto, che lo medica (si riferisce a Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'avvelena, nientedimeno si conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti: Sannazaro. Branca V: Dizionario critico della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta, Klien: I Medici in rete, Olschki, Firenze, C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della Letteratura italiana, Mauro, Opere volgari, Laterza, Bari; Montevecchi, Storie fiorentine, Rizzoli, Milano; Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria della carta de' dintorni di Roma, Belle Arti, Roma, Orio, Le iscrittioni poste sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere, Torrentino, Firenze, Pesenti, Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova,  Repertorio bio-bibliografico, Radetti, Un'aggiunta alla biblioteca di L. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e opere di un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Sansi: Storia del comune di Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori.  Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier Leone. Leone. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library. Leoni.

 

Luigi Speranza -- Grice e Leopardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del favoloso – Leopardi fascista – filosofia maceratese – la scuola di Recanati -- filosofia marchese – scuola di Recanati -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice: “Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative; admittedly, he is wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks, pretty much like the first Vitters, that language is a prison. Man has a need for ‘non-linguistic thought,’ to think without naming – without conceptualizing! The oddest philosophy of language for Italy’s greatest poet, one would first think!”  -- Grice: “One could write a whole dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite expression would be ‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a philosophical griceianism, seeing that my theories were stolen by non-philosophers, there is ‘leopardismo filosofico,’ seeing that he wasn’t one!” -- essential Italian philosopher, and founder of a whole movement, ‘leopardismo.’  L.  Al dibattito sulle lingue universali partecipò anche Giacomo L. nello Zibaldone de' pensieri.  Sostenne che a rendere internazionale una lingua non è la potenza della nazione che la parla o la diffusione dei suoi domini, e nemmeno il suo prestigio letterario: se così fosse la lingua italiana, che per molto tempo fu intesa e letta nelle corti di tutta Europa e oltre, sarebbe assurta a lingua  utilizzata da più nazioni, ma così non è stato.L. spiega che invece ciò che fa di una lingua universale è un aspetto ad essa intrinseco, ovvero la sua capacità di essere geometrica e regolare e di possedere una struttura semplice e ideale. Esattezza, precisione, chiarezza i suoi punti costitutivi fondamentali:  Quello poi che ho detto che una lingua strettamente universale, dovrebbe di sua natura essere anzi un'ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente anzi esattamente conviene a quella lingua caratteristica proposta fra gli altri dal nostro Soave I...I, la qual lingua o maniera di segni non avrebbe a rappresentar le parole, ma le idee, bensì alcune delle inflessioni d'esse parole (come quelle de' verbi), ma piuttosto come inflessioni o modificazioni delle idee che delle parole, e senza rapporto a niun suono pronunziato, né significazione e dinotazione alcune di esso. Questa non sarebbe lingua perché la lingua non è che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole.linguaggio (così nominiamola) la quale giustamente si è riconosciuta per quella maniera di segni ch'è meno dell'altre impossibile ad essere  strettamente universale. 63  Ella sarebbe una scrittura, anzi nemmeno questo, perché la scrittura rappresenta le parole e la lingua, e dove non è lingue né parole quivi non può essere scrittura. Ella sarebbe un terzo genere, siccome i gesti non sono né lingua né scrittura ma cosa diversa dall'una e dall'altra. Quest'algebra delLa proposta L.ana si avvicina alle idee di Soave e crede realizzabile un progetto di lingua universale solamente qualora questa sia rappresentata da segni matematici, algebrici. Conscio però della forza implacabile del mutamento linguistico, a cui tutte le lingue sono soggette,  L. aggiunge:  Resta dunque provato che la lingua strettamente universale, per cagione di quelle stesse condizioni ond'ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e senza cui l'universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi, dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente l'occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua universalità, la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle medesime condizioni che a tal durata  indispensabilmente richieggonsi.oIn sostanza quindi, dopo aver individuato il miglior tipo di linguaggio universale auspicabile, cioè quello composto matematicamente da segni e caratteri, L. rimane scettico sulla possibilità, se non d'adozione di una tal lingua, della sua resistenza al cambiamento. Di questo  tratta anche Stefano Gensini quando spiega che per L.  In termini teorici l...] un'autentica universalità è impossibile, perché quand'anche i dotti riuscissero a convenire su un sistema artificiale di comunicazione esso, una volta calato nell'uso, inevitabilmente comincerebbe a mutare In questo modo, spiega Gensini - (L.]  anticipa a livello teorico l'idea saussuriana che tempo e massa parlante sianostrettamente universale. books.google.it/ books?id=hnS1DwAAQBAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad  =0#v=onepage&q&f=false consultato in data 06/05/2020.  La proposta L.ana si avvicina alle idee di Soave e crede realizzabile un progetto di lingua universale solamente qualora questa sia rappresentata da segni matematici, algebrici. Conscio però della forza implacabile del mutamento linguistico, a cui tutte le lingue sono soggette,  L. aggiunge:  Resta dunque provato che la lingua strettamente universale, per cagione di quelle stesse condizioni ond'ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e senza cui l'universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi, dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente l'occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua universalità, la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle medesime condizioni che a tal durata  indispensabilmente richieggonsi.otIn sostanza quindi, dopo aver individuato il miglior tipo di linguaggio universale auspicabile, cioè quello composto matematicamente da segni e caratteri, L. rimane scettico sulla possibilità, se non d'adozione di una tal lingua, della sua resistenza al cambiamento. Di questo  tratta anche Stefano Gensini quando spiega che per L.  In termini teorici (.../ un'autentica universalità è impossibile, perché quand'anche i dotti riuscissero a convenire su un sistema artificiale di comunicazione (...] esso, una volta calato nell'uso, inevitabilmente comincerebbe a mutare In questo modo, spiega Gensini - (L. anticipa a livello teorico l'idea saussuriana che tempo e massa parlante siano elementi 'interni' dell'organismo linguistico, svuotando di senso, fra l'altro,  ogni atteggiamento normativo di tipo puristico.5STEFANO GENSINI, «Sul campo semantico del linguaggio nello Zibaldone», in Lo «Zibaldone» di L. come ipertesto. Atti del Convegno internazionale, a cura di Marìa de las Nieves Muñiz Muñiz, Barcellona, 2012, pp. 162-163.Il conte Giacomo L., al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro L. (Recanati), filosofo.  È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi ispirazione sensista e materialistane fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto oltre la sua epoca.  L., intellettuale dalla vastissima cultura, inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto, Luciano ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialistederivate principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla lettura di FILOSOFI come il barone d'Holbach, VERRI e Condillac, a cui egli unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di una grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto sistema filosofico. Muore di edema polmonare o scompenso cardiaco, durante la grande epidemia di colera di Napoli. Il dibattito sull'opera L.ana, specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che L., al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un precursore dell'Esistenzialismo. L. nacque a Recanati, nello Stato pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle più nobili famiglie del paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono all'età adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. I genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del conte Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli studi e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna energica, molto religiosa fino alla superstizione, legata alle convenzioni sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo di sofferenza per il giovane Giacomo che non ricevette tutto l'affetto di cui sentiva il bisogno.  In conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte dal marito, la marchesa prese in mano un patrimonio familiare fortemente indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia domestica. La rigidità della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane Giacomo.  Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro, giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere con racconti ricchi di fervida fantasia.  La formazione giovanile  La casa natale Ricevette la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori, Torres e Sanchini che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della teologia e della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon livello contenutistico e metodologico. Nel Museo L.ano a Recanati è conservato, infatti, il frontespizio di un trattatello sulla chimica, composto insieme al fratello Carlo. I momenti significativi delle sue attività di studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione delle feste natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed accurati e qualche composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione della Congregazione dei nobili.  Il ruolo avuto dai precettori non impedì, comunque, al giovane L. di intraprendere un suo personale percorso di studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei Roberti e probabilmente da quella di Vogel, esule in Italia in seguito alla Rivoluzione francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale della cittadina. Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui stesso scrive nell'Indice delle produzioni di me L. è da considerarsi una composizione. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati puerili. La produzione dei puerili  Puerili e abbozzi vari Il corpus delle opere cosiddette puerili dimostra come il giovane L. sapesse scrivere in latino fin dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di versificazione italiana in voga nel Settecento, come la metrica barbara di Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore e ai fratelli. Iniziò lo studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi della sua formazione giovanile, scrisse le Dissertazioni filosofiche che riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità, eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima delle bestie. Con la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti ad esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può far concludere il periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato gusto arcadico. Si immerse totalmente in uno "studio matto e disperatissimo" espressione da lui stesso coniata, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni alla sua salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerasse sempre "poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e, senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più sommario apprese anche altre lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco (nello Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue antiche, come il sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, diversi discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai rappresentate durante la sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta incompiuta). Per quanto riguarda la compilazione della Storia dell'astronomia L. si avvalse di numerose fonti: il testo di base fu sicuramente la Storia dell’astronomia di Bailly, ridotta in compendio dal signor Francesco Milizia, a partire dalle Histoires del celebre astronomo francese Jean Sylvain Bailly. L'opera termina con la scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel. Invece il lavoro di L. presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio la scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del suo testo, L. fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande (presente nella biblioteca di casa L.), del Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel Wolff. Inoltre L. adoperò diverse opere generali come la Storia della letteratura italiana di Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e varie raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i francescani, Quétif e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi testi dimostra l’erudizione raggiunta dal giovane L.. Nella Storia dell'astronomia L. lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per la matematica. Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali invece il Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e sull'argomento si limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la invenzione de’ logaritmi fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo. Probabilmente infatti L. non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò alla geometria cartesiana e al calcolo differenziale.  Iniziò nello stesso periodo anche le prime pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre da Frattini di Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano», gli idilli di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione letteraria: dall'erudizione al bello Tra Si avverte in L. un forte cambiamento, frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a maturare la sua sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo L. inizia a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno a Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, indirizzata ai redattori della rivista milanese, in risposta alla lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica per la sua fragile salute, rifiuterà di intraprendere questa strada. Fu colpito da alcuni seri problemi fisici di tipo reumatico e disagi psicologici che egli attribuì almeno in partecome la presunta scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia esordì con affezione polmonare e febbre e in seguito gli causò la deviazione della spina dorsale (da cui la doppia "gobba"), con dolore e conseguenti problemi cardiaci, circolatori, gastrointestinali (forse colite ulcerosa o malattia di Crohn) e respiratori (asma e tosse), una crescita stentata, problemi neurologici alle gambe (debolezza, parestesia con freddo intenso), alle braccia ed alla vista, disturbi disparati e stanchezza continua. Era convinto di essere sul punto di morire. Il marchese Filippo Solari di Loreto scrive poco dopo a Monaldo L.i: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di veramente orribile.»  Egli stesso si ispira a questi seri problemi di salute, di cui parlerà anche a Giordani, per la lunga cantica L'appressamento della morte e, anni dopo, per Le ricordanze, in cui ripensa a questo e definisce la sua malattia come un "cieco malor", cioè un male di non chiara origine, che gli fa pensare al suicidio assieme all'angusto ambiente: «Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi più accreditata per lungo tempo (diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da Citati) è che L. soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano la diagnosi dell'epoca, più volte riproposta anche nel Novecento, di una normale scoliosi dell'età evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite tubercolare, oppure dalla spondilite anchilosante (secondo Sganzerla), una sindrome reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei legamenti vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi disturbi infiammatori sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi gravi, il tutto unitamente a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno predisposizione genetica, derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei genitori. Tutti i fratelli L. furono deboli di salute, con l'eccezione di Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale presentava solo una leggera asimmetria del viso. Citati afferma che avesse anche dei disturbi urinari e di probabile impotenza, e sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a cui poteva ovviare essendo un nobile benestante) la causa del suo rapporto difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici consultati in gioventù, a parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in maniera erroneache numerosi disturbi del L. erano dovuti a neurastenia di origine psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica), come lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori.  «Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.»  (Lettera dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla, propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, L. non mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come ribadito spesso da L.), influenzarono comunque il suo pessimismo filosofico e lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il significato della vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato dal critico Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento conoscitivo".  Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E per L., che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la sua intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti. Consapevole ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto confine in cui, fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della "teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da L. nel corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale concezione è contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero L.ano in questi termini avviene. Scrisve al classicista Giordani che aveva letto la traduzione L.ana del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere scritte al nuovo amico, il giovane L. sfogherà il suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo. Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia»  Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della cugina, provando per la prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di scrittura di L. e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare al dibattito culturale tra classicisti e romantici. L. difende la cultura classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!»  (Il primo amore, v.3)  Geltrude Cassi Lazzari con i figli, illustrazione di Chiarini per la Vita di Giacomo L.. Inizia a compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei "Canti" con il titolo "Il primo amore". La posizione di L. verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va maturando e se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone ed in due saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana", in risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano l'avversione, sul piano più strettamente concettuale, al Romanticismo. La posizione di L. rimane fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come si vedrà, quello che professava sulla pagina critica si rivelerà, poi, profondamente diverso dai risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo spirito saranno, invece, perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva, intanto, scritto le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e Sopra il monumento di Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Il suo materialismo ateo si pone in contrapposizione al Romanticismo cattolico predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche il suo rifiuto di ogni speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell'unità nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione storicistica del passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei contenuti e nella lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.»  (L., L'infinito. Si riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da un amico di famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il L. elaborò le prime basi della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso. Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera del giorno festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento notturno. Sono i cosiddetti "primi idilli" o "piccoli idilli". Qui confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa di coscienza dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il permesso di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici. A L. Roma apparve squallida e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata studiando i classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di prostitute che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come scrive in una lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso il Tasso, che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore a livello stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi componimenti, come Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente culturale romano L. visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen (poi ministro del regno di Prussia e fondatore dell'Istituto di Archeologia a Roma) e Niebuhr; quest'ultimo si interessò per farlo entrare nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma L. rifiutò. Ritorna a Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non era quello sperato. Tornato a Recanati, L. si dedicò alle canzoni di contenuto filosofico o dottrinale compose buona parte delle Operette morali. Lontano da Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta, invitato dall'editore Antonio Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico di dirigere l'edizione completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici latini e italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il clima gli era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti, gli recava noia. Ritratto di L. a metà degli anni '30, da alcuni indicato come una realistica proto-fotografia, probabilmente una riproduzione in eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in alternativa realizzata con la tecnica della camera oscura da artista: tramite bulino oppure immagine fissata secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o bitume e lunga esposizione). Recanati, casa L.. Decise, così, di trasferirsi a Bologna dove visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente bolognese L. conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al quale dedicò un'epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse nell'Accademia dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una "Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si innamorò senza essere corrisposto. L. frequentò i Malvezzi per quasi un anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.L. si sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la casa del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta, patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. L. in un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del ritratto di L. sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più fedele e realistico dei ritratti di L., con l'aspetto che aveva verso la fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli non vide mai L. dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze, dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i quali Capponi, Niccolini (amico e corrispondente di Foscolo allora esiliato a Londra), Colletta, Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a Firenze per rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu invece conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte avversione per L., attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare L. per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private rivolte ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). L. risponderà nel 1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che nell'ottava strofa della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Si recò a Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e L. tornò alla poesia, che tace (con l'eccezione della poco riuscita epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del Coro di lo studio di Ruysch contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie delle Operette morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane Il Risorgimento e il canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici che si basano su appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo, alla figlia del cocchiere di Monaldo, morta giovane, Fattorini), inaugurando il periodo creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche "grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone libera o L.ana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro Guidi, dalla cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi»  (Le ricordanze) Il periodo di benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici: Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e Zoologia a Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle conoscenze di L.; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a Bonn o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. L. allora progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati, dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco prima, Maria Belardinelli, da L. chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti pisano-recanatesi".  In questo periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei.»  (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei "Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di Recanati, ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta) che gli austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine di concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere; L. accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a Recanati. Risale sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti (terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi Lazzari e la Malvezzi), moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti e forse amante di Ranieri, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie che contiene: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora positivamente), la drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa raccolta si manifestò il L. più disilluso e disperato, orfano anche di quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo). Aspasia, seppur piena di rancore e sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia d'amore (seppur per un amore ormai finito) scritta per una donna che egli frequentò realmente e intimamente, anche se solo in maniera romantica e intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la morte come una persona "disgraziata" a cui non voleva dare alcuna illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la descrizione fisica e caratteriale della Targioni, presentata come una "donna fatale", si nota anche una tensione erotica molto rara in L., il quale ribadisce ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione della donna con l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di L., dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni polemici e misogini, in cui L. si dice felice di essersi perlomeno liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono né belle né degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro.»  (Lettera da Roma) «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte. All'una il ciel mi guida / in sul fior dell'età; nell'altro, assai / fortunato mi tengo.»  (Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei Canti molto precedenti al ciclo, avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare che il personaggio di Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non solo a Fanny. Per circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando di avvicinarsi alla padrona di casa procurandole moltissimi autografi di scrittori e personaggi famosi, che lei collezionava. In questo periodo L. diviene amico anche della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano, affascinata dalla grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri per ritornare a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle "Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a corrispondere epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure in maniera più fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra L. e Ranieri vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò:  «Quivi L., mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse cacciarli, per timore che L. fosse portatore di tubercolosi polmonare infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse. «L. ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei näherer Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die Feinheit seiner klassischen Bildung und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein. L. è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e viceversa conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo più da vicino la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare dispongon l'animo in suo favore.  Busto del poeta presente a Villa Doria d'Angri Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti dopo la censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni "dialoghi". L. così ne parlava in una lettera a Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei Pensieri, che raccolse probabilmente riprendendo molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già L. aveva tradotta in gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo canto. Ranieri affermò sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto dettatura del L.. Le ultime ottave sarebbero state dettate da L. morente poco dopo aver terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna. Qualche dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte del poeta per farli pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, L. si recò con Ranieri e la sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo affetto, L. nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore fraterno. A Napoli L. lavora incessantemente, nonostante la salute in peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati), talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve moltissimi caffè. La morte  L. sul letto di morte, ritratto a matita di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. L. aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque decidere il suo destino. In una lettera al conte L., una delle ultime di Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute.  L. si sentì male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita fredda) verso sera.  Fu colpito da malore poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, L. si spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio, Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto "alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata analizzata da studiosi di medicina. Molte sono state le ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con conseguente scompenso, oppure scompenso cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare e cardiomiopatia, seguite a problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle più fantasiose[146], fino al colera stesso.Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio Ranieri: idropisia polmonare ("idropisia di cuore" o idropericardio), il che è comunque verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla deformazione della colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una delle conseguenze dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa principale fosse un problema cardiaco, forse accelerata da una forma fulminante di colera che avrebbe ucciso il debilitato L. (che notoriamente soffriva di disturbi cronici all'apparato gastrointestinale, i quali potevano mascherare la gastroenterite colerosa) in poche ore. L. era morto all'età di quasi 39 anni, in un periodo in cui il colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spogliequesta la versione accettata dalla maggioranza dei biografinon furono gettate in una fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una breve riesumazione alla presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio della chiesa di San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di Pozzuoli presso Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro Giordani:  «Al conte Giacomo L. recanatese filologo ammirato fuori d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto all'amico adorato.” Il ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo dopo che un chirurgo, non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta di sommaria autopsia per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera. In realtà fin dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue versioni furono molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo sospettare che il corpo del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366 Fosse), destinati in quel periodo ai morti per colera o per altre cause, come attesta il registro delle sepolture della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca di Napoli (riportante la dicitura "cimitero dei colerosi" e "sepolto id.") o addirittura occultate nella casa di vico Pero, e che Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un funerale a bara vuota, con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e di un parroco compiacente a cui avrebbe regalato dei pesci freschi.   La lapide originale, traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri continuò ad affermare che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e che il certificato d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta del ministro di Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di epidemia. Nel 1898 avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore Mariotti, smentito da altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima, un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità, frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse gettati nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti con altre ossa.  La tomba di L. (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del comune di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del recanatese e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino dai fratelli Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui delle costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era plausibile che quelli fossero parte dei resti di L.. Il medico parla esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di L., e donata alla città di Recanati. Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del passato, la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta dell'Accademia d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che ne stabiliva l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora sorge appunto il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei pressi venne traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento venne portata a Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal Centro Nazionale Studi L.ani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi resti fossero davvero di L. tramite l'esame del DNA e del mtDNA, comparato con quello degli attuali eredi dei conti L. (Vanni L. e la figlia Olimpia, discendenti diretti del fratello minore del poeta Pierfrancesco) e dei marchesi Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla Soprintendenza sia dalla famiglia L. (tramite la contessa Anna del Pero-L., vedova del conte Pierfrancesco "Franco" L. e madre di Vanni). La posizione ufficiale della famiglia L. (esplicitata dal 1898 in poi) e della Fondazione Casa L. da loro presieduta (presidente fino al  conte Vanni L.) è invece che i resti nel parco Vergiliano non siano comunque del poeta e Ranieri abbia mentito, che il corpo si trovi alle Fontanelle e che quindi la riesumazione sia inutile, occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio lì situata. Un altro membro della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco, si è invece detto disponibile. Tale esame non è stato finora autorizzato. «Cantare il dolore fu per lui rimedio al dolore, cantare la disperazione salvezza dalla disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e non per gioco di parole, l'unica felicità. n quei canti veramente divini il L. trasformò l'angoscia in contemplativa dolcezza, il lamento in musica soave, il rimpianto dei giorni morti in visioni di splendore.»  (Papini, Felicità di Giacomo L.) Il pensiero di L. è caratterizzato, attraverso le fasi del suo pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge a credere nelle «illusioni» e lusinghe della natura, e la razionalità speculativo-teorica presente nelle sue riflessioni filosofiche, che invece considera vane quelle illusioni, negando ad esse qualunque contenuto ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e disillusione, tra sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no,  era del resto ben presente allo stesso L., il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la poesia. Come ha rilevato De Sanctis. L. non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e L.,Luoghi L.ani A Recanati  Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo L.: è la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai discendenti e aperto al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali dall'architetto Carlo Orazio L. verso la metà del XVIII secolo. L'ambiente più suggestivo è senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre 20.000 volumi, tra cui incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del poeta, Monaldo L.. Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si affaccia Palazzo L.. Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa Maria in Montemorello, nel cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo L. nel 1798. Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un panorama vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta dal poeta a soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale della Poesia e della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e manifestazioni culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai aperto a tutti.  Palazzo Antici-Mattei: casa della madre di L., Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San Leopardo): venne fatta edificare dalla famiglia L. insieme e nei pressi della villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch. La cripta, a cui si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia L.. Chiesa di Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i Minori Osservanti insieme al Convento annesso, cacciati i frati e abbattuti due lati del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico cimitero di Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca ed affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei L. ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della Posta (corso Garibaldi),  Palazzo Antici Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna ("ospitalissima"), convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano ("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al teatro del Corso (oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e niente magnifico"). Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna (qui si vive quietissimi), ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze, "sporchissima e fetidissima città", Locanda della Fonte, nei pressi del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di L. a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi), Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora"). "Una certa strada deliziosa" da lui battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa (lettera a Paolina L.). Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso), con Ranieri. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada nuova di Santa Maria Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti affittati con Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa delle Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello "sterminator Vesevo". Opere di Giacomo L..  Copertina della prima edizione dello Zibaldone di pensieri. Epistolario Di L. ci sono rimaste oltre novecento lettere, composte nell'arco di una vita e indirizzate a circa cento destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al padre e al fratello Carlo). L'intero corpus epistolare di L. è raccolto dall'Epistolario, che malgrado le origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta di prose private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per seguire le vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione del suo pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali. L. prese parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del saggio Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa polemica vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica.  L., amico del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per iscritto il proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca italiana e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti entrambi inediti sino al 1906. Nella prima L., pur riconoscendo la bontà dell'intervento dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle istanze della lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi alle nuove letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si tratta di un «vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più vicina alle uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e quella latina. Nel Discorso, invece, L. approfondì la sua riflessione poetica in merito al dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali della poesia L.ana, come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione. Zibaldone Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle quali L. depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari. Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario, essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: L. iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve trattato filosofico dove L. analizza le peculiarità che contraddistinguono la società italiana, e le compara con il carattere, la mentalità e la moralità delle altre nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera L. giunge all'amara conclusione che l'Italia, dilaniata da un esasperato individualismo, è troppo poco civile per godere dei benefici del progresso (come in Francia, Germania ed Inghilterra), ma troppo civile per godere dei benefici dello «stato di natura», come accadeva nelle nazioni meno sviluppate, quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo manoscritto autografo dell'Infinito Le Operette morali, per usare le parole dello stesso poeta, sono un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici»: è ancora L. a descrivere la propria opera in una lettera indirizzata all'editore Stella, sottolineando «quel tuono ironico che regna in esse» e specificando che Timandro ed Eleandro sono una specie di prefazione, ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni». Le Operette, oggi considerate la più alta espressione del pensiero L.ano, racchiudono l'essenza del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura. I Canti, considerati il capolavoro di L., racchiudono trentasei liriche composte da L.. Tra i componimenti poetici inclusi nei Canti ricordiamo Sopra il monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, La sera del dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra e infine L'infinito, uno dei testi più rappresentativi della poetica L.ana.  Le ultime opere Durante gli anni napoletani L. scrisse due opere, i Paralipomeni della Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è un poemetto in ottave con protagonisti animali: «Paralipomeni», infatti, significa «continuazione» mentre Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane, ovvero un'opera pseudoomerica che L. aveva tradotto in gioventù. Dietro la finzione comica L. qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari, mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i granchi-austriaci, feroci e stupidi.  nuovi credenti, invece, sono un capitolo satirico in terza rima dove L. esprime una spietata satira contro gli esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo L. si devono numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio colto e sorvegliato), come "erompere", "fratricida", "improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa di L. non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento purista che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici, di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un caso, un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò accuse postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della lingua italiana.  Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di L., musica di Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di morti, versi di G. L. (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, Operette morali), musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre liriche di Goffredo Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di L., Foscolo e Montale. Epistolario di Giacomo L.. L. nell'immaginario collettivo Il fatto che l'opera di L. sia stata e sia ogni anno oggetto dello studio di migliaia di studenti ha determinato (come per Dante) che molte locuzioni delle sue opere siano divenute d'uso corrente. Fra le principali:  studio matto e disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani  e Zibaldone di pensieri); passata è la tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna... (in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito). Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12 pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano, Napoli.  Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva anche altre opere di Trubbiani dedicate a L.:  10 disegni originali realizzati sul tema "L. figurativo", 8 incisioni a colori, una scultura in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in osservazione di un gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede greggi”, ispirata al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione scultorea sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane") ispirata ai Paralipomeni della Batracomiomachia L.ani. L'ispirazione prodotta in Trubbiani dall'opera L.ana è raccontata dall'artista nel breve documentario "Le Marche di L.", patrocinato dalla Regione Marche.  L. nella musica pop italiana L. è citato nella Canzone per Piero di  Guccini e in Stai bene lì di Renato Zero; i suoi versi sono citati anche nei titoli di Canto notturno (di un pastore errante dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto di Saffo), entrambe di Roberto Vecchioni.  Giorgio Gaber, nella canzone "Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album "Gaber" del 1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il luogo "dove i poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su L. Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi. Pisa, donne e L. (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è interpretato da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. L. è interpretato da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma televisivo"L., il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia"; "Le Marche di L.", breve documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche. Video in rete su L. "L., il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con Massimo Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo L. e l`importanza di Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo L. nel commento del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore Umberto Ceriani legge: L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria; "Ecco il vero Colle dell'Infinito descritto da L."]: Guzzini del Centro Studi L.ani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai all'infinito", spot turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari; "A casa di Giacomo L.", intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia L. all'interno del Palazzo L. di Recanati; "Un L. inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome L. può salvarti la vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose letture/interpretazioni dei principali canti L.ani da parte dei più importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Gassman: L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra (o Il fiore del deserto) Alla luna,  La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà: L'infinito, Passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia: L'infinito,  Lavia dice L.; Alberto Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la prima parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima parte di Aspasia. L. "testimonial" della Regione Marche La Regione Marche, dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese per la promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria offerta enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso un video, per la regia di Solari, trasmesso sui principali canali televisivi italiani ed anche esteri, con protagonista il noto attore statunitense Dustin Hoffman[236], già conoscitore delle Marche per aver interpretato ad Ascoli Piceno il film di Germi "Alfredo, Alfredo", assieme ad una giovane Sandrelli.  Questa la descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della stagione turistica:  «Un uomo legge una delle poesie più note della letteratura italiano, l’Infinito di Giacomo L., la cui emozionalità è strettamente legata alle visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana. L’uomo legge la poesia camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua non stando fermo, dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha visto nascere questo capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare la lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi di Rossini, che accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo cerca per sé: l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova, formidabile, ma difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine sorridere, la poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente conosciuta, capita e raggiunta.»  (dal comunicato stampa della Regione Marche) Nello spot Hoffman tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano "condito" dal suo marcato accento californiano. Un accento tanto forte e straniante da suscitare numerose critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di Mina[239], che nella sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a scrivere:  «L. bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche Oliver Hardy. Al quale, paradossalmente, in questa demoralizzante «performance», mi sembra che assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non peggio, credo... Sentire la nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal pur bravo divo americano mi ha rigettato giù nella nostra condizione di sempiterna colonia... il mondo della pubblicità è un mondo di matti. A volte geniale, ma più spesso volgare e irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los Angeles, sarà pure un nome che tira, ma non li avevamo noi degli attori al suo livello? E che parlano l’italiano? E che conoscono la musica dell’andamento di un’esposizione poetica?»  (Mina Mazzini) Al contrario, l'operazione promozionale fu elogiata da Rienzo, linguista e critico letterario, da Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente presidente onorario e presidente emerito dell’Accademia della Crusca; quest'ultimo commentò lo spot con queste parole: «Sprovincializza la lingua italiana» Comunque sia, lo scopo perseguito fu raggiunto: anche grazie alle polemiche, la versione non definitiva del video della Regione Marche, inserito su YouTube, totalizzò quasi 21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella prima settimana.  Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la campagna promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi L.ani, ma, come sottolineò Grasso sul "Corriere della Sera", nella nuova edizione «il volto del testimonial diventa più importante dell’oggetto da reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un racconto tutto personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito amore per le suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la gastronomia, l’arte, la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna promozionale del  Dustin Hoffman fu sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè.  Continuò comunque l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di L.: sull'onda del successo del film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario Martone e interpretato dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie di iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del territorio marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un "movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un breve documentario, "Le Marche di L.", diretto da Alessandro Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta recanatese. Seguono una breve biografia di L., con le immagini di Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che, rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione (Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani, Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su L. Giacomo L., Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza et f.i,Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Milano-Napoli: Ricciardi, 1920; poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia (Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa L., Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, L.. L'infanzia, le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album L., Milano: Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con L., Bologna: Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo L., Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il mistero della conversione e della morte di L., Piemme,. Pietro Citati, L., Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi L.ani nel primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di Studi L.ani.  Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi su Giacomo L. in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico, artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo L., Effettivamente il titolo di conte con cui L. veniva talvolta appellato, e che egli stesso usava, in quanto primogenito dei conti L., era un "titolo di cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a Monaldo, finché fu in vita.  Uno sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ).  Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo L., su emsf.rai).  Forse la malattia di Pott o la spondilite anchilosante.  Erik Pietro Sganzerla, Malattia e morte di L.. Osservazioni critiche e nuova interpretazione diagnostica con documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia a un uomo che soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non felice e una cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro decorso temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei problemi visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e ambientali nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la diagnosi di Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che L. «affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e possibile miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è male»  (L., Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)  Renato Minore, L.. L'infanzia, le città, gli amori, Milano, Lettera di G. L. (Recanati) a Pietro Colletta (Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de' maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti.  Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia della letteratura italiana. Milano L'Ottocento  Zibaldone  «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si spegne la contessa L., erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti vari inediti di Giacomo L. dalle carte napoletane, Firenze, successori Le Monnier, Maria Corti in «Giacomo L.. Tutti gli scritti inediti, rari e editi», Milano, Bompiani 1972  Citati20-25.  Cecchi, Sapegno, oGiuseppe BonghiBiografia di L., su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano, Recanati,in Epistolario di Giacomo L. con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte e lettere di Giordani e Pietro Colletta all'Autore, raccolto e ordinato da Prospero Viani,  I, Napoli, Lettera all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in Epistolario di L. con le iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con sorpresa, in questa lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato dallo storico Lucio Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di Massimo Bernardini (puntata "L., il rivoluzionario", 15 ottobre, RaiTre-RaiStoria)  Sarà la lingua utilizzata nelle lettere allo Jacopssen  Il programma delle celebrazioni L.ane, su giornale. regione. marche. Il sanscrito nella teoria linguistica di Giacomo L., in L. e l'Oriente. Atti del Convegno Internazionale, Recanati  a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, L. e le scienze matematiche,  5-8.  Aimé-Henri Paulian su data.bnf.fr.  Un episodio della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria  Cecchi, Sapegno, Spesso nell'epistolario afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una coperta di lana.  C 33 esegg.  Giuseppe Bortone, Il "morire giovane" in L.i, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo  Alessandro Livi, giacomo L., le malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico, Paolo Signore, Giacomo L.: il genio di Recanati favoloso e malato, su Rotari Club Fermo,  «Di contenti, d'angosce e di desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella giovanezza, e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna poetando, / Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me stesso / In sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su torreomnia. Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la malattia, "diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e considerata probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di L. anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici pediatri recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece.  Es. sindrome della cauda equina  Alcuni propongono altre diagnosi: diabete giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di Scheuermann alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che L. morì vergine (cosa dibattuta), Sette anni di sodalizio con L.i che avesse contratto la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre. cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo L., Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto contestata poiché basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi affermarono che L. aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi.  Prof. M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su L. e la sua famiglia, Torino, Fratelli Bocca Editori, Patrizi. G. Chiarini, Vita di G. L.453.  E. Galavotti, Letterati italiani Lettera di Paolina L. a G.P. Vieusseux, G. L., Lettera ad Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. L., Zibaldone, autografo, Scritti vari inediti di Giacomo L. dalle carte napoletane, cUn'analisi critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla Batracomiomachia si trova in: Riccardo Bonavita, L.: Descrizione di una battaglia, Nino Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e scrittori della letteratura italiana,  3, tomo 1, Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia  infelicità in un modo assai più tenebroso. Cecchi, Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani, poiché troppo esplicito ("non la danno"); cfr. Il senso di L. per la donna di città. Pierluigi Panza, La casa di Silvia (amata da L.) restaurata e aperta, in Corriere della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a punto da Joseph Nicéphore Niépce fu da questi usato per la prima fotografia (precedente di 13 anni il dagherrotipo).  Bonghi, Biografia di L., su classicitaliani. La donna nelle parole di L., su casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti  Citati 226 e segg.  Bortolo Martinelli, L. oggi: incontri per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e Pensiero,  Fotografia della maschera (JPG), Centro Nazionale di Studi L.ani Recanati. 1º gennaio  (archiviato il 1º gennaio ).  Donatella Donati, L. a Napoli, Centro nazionale di studi L.ani Centro mondiale della poesia e della cultura "G.L."Recanati Città della poesia, Per lui scrisse la celebre Palinodia al marchese Gino Capponi  Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani delle Ultime lettere di Jacopo Ortis  «Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux)  Una stroncatura per L. Archiviato   in.; mentre fu più meditato e indulgente il giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su L. stesso.  Introduzione alla Palinodia  L., Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani. Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo L. così ricordava, su ilgiardinodigiacomo. wordpress.com. Cfr. lettera di G. L. (Recanati) a Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver percepito venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese.  Lettera aColletta dcome citato in Marco Moneta, L'officina delle aporie: L. e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30.  Gente che m'odia e fugge, per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo L.: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. L., in Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca. CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione Garzanti  Donne fatali 2:  L. e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...", su sulromanzo.  "Tu vivi / bella non solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti e link in.  Giovanni Mèstica, Gli amori di G. L., in Fanfulla della domenica,  (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio nel commento ai Canti, edizione Signorelli, Roma. L.: dama invaghita del poeta non fu ricambiata ma evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo Abbate, La vita erotica di L., C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu, pubblicato in "Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's who in gay and lesbian history,  1, ad vocem  L. gay? Vietato dirlo, su ricerca. repubblica. Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario, BrioschiLandi, Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, Milano. D'Orta12. Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo L. in L. Epistolario, Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle abitudini del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari irregolari, va a letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser longeva per i complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece, appresso a poco, della notte giorno, e viceversa."  Traduzione in Michele Scherillo, Vita di Giacomo L., Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. L. e le donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro, Ranieri Paola (Paolina), su treccani. 2 D'Orta25.  L. Il poeta della sofferenza, su archivio storico. corriere. Teorie alternative sulla morte del conte L. sono state trattate e documentate negli studi condotti da Cesaro (cfr. Sfrondando gli allori della poesia)  Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta anche Citati, L., Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di morte di L., su dl.antenati.san.beniculturali.  Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia Plautina,  cfr. anche Notizia della morte del Conte Giacomo L. Angelo Fregnani Ad esempio cibo avariato, congestione, coma diabetico o indigestione  Cenni storiciFu un'indigestione a causare la morte di L.?, su spaghettitaliani.com. Napoli e L., su ildelsud.org. Ecco i confetti che uccisero L.. Al Suor Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere. in Lettera di Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di A. R. a Monaldo L., Napoli, in Opere inedite di Giacomo L., G. Cugnoni,  I, Halle, Max Niemeyer Editore, Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo L., G. Piergili, Firenze, Le Monnier,   in.; "Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di petto" dice Paolina L. in una lettera a Marianna Brighenti  Biografia sulla Treccani, su treccani. are LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano, McGraw-Hill, Picchi, Storie di casa L., BUR, Dalla foto pubblicata qui, su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro Giordani,  Scritti editi e postumi di Giordani, pubblicati da Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di Giacomo L., edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore, da Antonio Ranieri,  Firenze, Successori Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre  in..  Pasquale Stanzione, Giacomo L.Una tomba vuota a Fuorigrotta, su pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale stanzione. Ingrandimento (JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su L.? Occorre cautela in. da Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni, Vinceti Delitti e misteri del passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio di Pier Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA, MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO?  Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi, L., strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”, recensione a: Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo L., Guida, Picchi, Storie di casa L. Si riporta anche il verbale ufficiale delle persone presenti.  E' vuota la tomba di L.. Guerra sulla riesumazione dei resti, su ricerca.repubblica. La Vita  L., sito gestito dal CNSL  Si torna a parlare dei resti di L., nato comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su ilcittadinodirecanati. Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia, Milano, Mondadori,  Cfr. in proposito anche gli studi che il filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare: Manzoni e L.: saggi critici (Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo L. (Firenze, Sansoni).  Paolo Emilio Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo L., pag. 26, Tipografia del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al Novecento,  Roma, Ed. di Storia e Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo L. e la percezione estetica del mondo  Peter Lang, In Saggi critici, Russo, Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc.  Per L., su pergiacomo L..altervista.org. Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In viaggio con L., Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di L., tratte da sue lettere.  Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da L. a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da L. a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali, su internetculturale. Sambugar, Sarà, Visibile parlare, da L. a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano (), Istituto dell'Enciclopedia italiana.  Catalogo della mostra "Viaggi e transiti opere L.ane di Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione dell'inaugurazione del Centro culturale "Pergoli" di Falconara Marittima Comune di Falconara Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la scheda dedicata al CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea, su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".   "Le Marche di L.", breve documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg  ascolta la canzone nel sito della Fondazione Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il- luogo-dove-testo Archiviato il 6 settembre  in.  vedi il testo dell'Operetta morale in Operette _morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il corto metraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBK JZNaU  Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno del programma "L., il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia" con Massimo Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/ articoli/l.- il-rivoluzionario/default.aspx "L., il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio Villari://raistoria.rai/ articoli/ L. -il-rivoluzionario/ default.aspx in.  Rai Storia, "Giacomo L. e l`importanza di Recanati"://raiscuola.rai/articoli/ giacomo-L.-parte-prima/3205/default.aspx Archiviato l'8 settembre  in.  Nel sito web de "La Stampa", Guzzini del Centro  Studi L.ani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/ multimedia/ societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito- descritto-da-giacomo-L.-fncjkba7 fEJyVoUSrazy1H/ pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman con la regia di Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo L.", intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia L. all'interno del Palazzo L. di Recanati: youtube. com/watch?v=oNlkBu0E  "Un L. inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch? v=KwFnKv0T BaI  Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere fragilicome L. può salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oX Gh3g6lQsM Gassman interpreta L'infinito, su youtube.com. Gassman interpreta A Silvia:  youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il 29 marzo  in.  Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di festa: youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4  Bene interpreta L'infinito: youtube.co  Bene interpreta Passero solitario: youtube. com/ watch?v=IZz Qbnzpaok  Bene interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube. com /watch?v=ZqzVXF3Fx4Y  Bene interpreta Alla luna: youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk Bene interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/ watch?v= qydGUiV1wwI  Bene interpreta Il sabato del villaggio:  youtube. com/watch?v=vI9PJfCtWw4 Bene interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch ?v=jyB0eM9AOoM  Bene interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane: youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE  vedi su Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista Archiviato   in.  leggi il testo di Inno ad Arimane init.wikisource.org/wiki/ Puerili_(L.) /Ad_Arimane Archiviato il 15 settembre  in.  Bene interpreta Amore e Morte: youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw  Foà interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario: youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg  Foà interpreta A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=kmk_gd-48XE  Foà interpreta La sera del dì di festa: youtube. com/watch?v=a WOJfMZeCVo  Foà interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v= hL 855FC_juA Foà interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/ watch?v= zB nDqu8X5fk  Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN HqhHiIqok  Arnoldo Foà interpreta Alla luna: youtube. Com /watch?v=oxzCzwR05WE Albertazzi interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=  BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º giugno  in. Gazzolo interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=Te8tyDDsh2A Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao  Lavia discetta sull'opera di L., prima della "dizione" delle opere di L.: youtube Alberto Lupo interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube   Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvz Qvi75rQ  Germano, nel film Il giovane favoloso di Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4  Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di M.n Martone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4  Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e Morte: youtube Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/ turismo.marche/ Portals/1/L./ L.%2 0nel%20mondo.pd Il backstage dello spot promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM  La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su "La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati, "Il Resto del Carlino" Ancona, "L. bisogna meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino,"Il Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora sponsor delle Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6 settembre  (archiviato il 6 settembre ).  vedi la serie di spot "Le Marche non ti abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè, con la regia di Rovero Impiglia e Cagnelli: youtube Minnucci, La regione Marche rispedisce Hoffman in America e pone fine allo stupro di L., su qelsi,  su Giacomo L.. Edizioni delle opere Giacomo L., [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario Epistolario di Giacomo L., Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere, Solmi e Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi «Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo L., Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano: Adelphi «Biblioteca» Brioschi e Landi, Torino: Bollati Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri, Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano: Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino: Pomba  scelto e annotato con introduzione e indice analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento letterario, pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda», Roma: La Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere: Zibaldone scelto, Robertis, Milano: Rizzoli,  Francesco Flora, Milano: Mondadori, in Antologia L.ana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi, «Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni, saggi introduttivi di Solmi e Robertis, Milano: Mondadori «Oscar» (con uno scritto di Ungaretti) e edizione fotografica dell'autografo con gli indici e lo schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola normale superiore, Il testamento letterario, pensieri dello Zibaldone scelti annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli, Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli: Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I Libri della Spiga», Damiani, Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e postfazione di Vincenzo Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica stabilita sugli indici L.ani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete, Roma: Donzelli Editore, Lucio Felici, premessa di Trevi, indici filologici di Marco Dondero, indice tematico e analitico di Dondero e Marra, Roma: Newton Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni, Milano: Rizzoli «BUR», edizione critica Ceragioli e Ballerini, Bologna: Zanichelli, Canti con note per cura di Francesco Moroncini, L., Giacomo, Canti: commentati da lui stesso, Palermo: R. Sandron, Gallo e Garboli, Torino: Einaudi, Poesie e prose. Poesie, Mario A. Rigoni, Milano: Mondadori «I Meridiani», n Tutte le poesie e tutte le prose, Lucio Felici, Roma: Newton Compton, «Mammut», Canti e poesie disperse, ed. critica Franco Gavazzeni (con C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini), Firenze: Accademia della Crusca, Giacomo L., Canti, Bari, G. Laterza e Figli, Operette Morali L. Operette morali; edizione critica di Francesco Moroncini, Bologna: Cappelli, 1929 introduzione cura di Prete, Milano: Feltrinelli «Universale economica classici», Milano: Mursia, in Poesie e prose. Prose, Rolando Damiani, Milano: Mondadori «Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le prose, Emanuele Trevi, Roma: Newton Compton, «Mammut»,  poi da sole nella collana «GTE», Giacomo L., Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri Giacomo L., Pensieri, Bari, G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana Giulio Bollati e G. Savoca, Torino: Einaudi, «Nuova Universale Einaudi», Memorie del primo amore Galimberti, Milano: Adelphi, Epistolario di Giacomo L. L. (famiglia) Opere Pensiero e poetica di L. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo L., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giacomo L., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. L., su The Encyclopedia of Science Fiction. L., Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca.  L., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Giacomo L., su Liber Liber.  Opere di L., su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Progetto Gutenberg. Audiolibri di L., su LibriVox. L., su Goodreads.   italiana di L., su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. 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Angelini, "Sereno in L.", su cesareangelini. Buonofiglio, "L'inquietudine ritmica dell'in(de)finito", su academia.edu. Il primo di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica della  letteratura italiana d’Ancona,. Il secondo nella  Critica. Il terzo nella stessa Critica. Tutti e tre furono riprodotti nei Frammenti di  Estetica e Letteratura, Lanciano, Carabba, Si ha alle stampe un’ Esposizione del sistema filosofico  di Giacomo L. *. E una dissertazione di laurea, e  reca infatti l’impronta comune a tutti i lavori giovanili.  L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro, un  po’ troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro,  che non vuol essere propriamente un’esposizione fatta  dall’autore del sistema filosofico del L.; ma appunto questo sistema, portato innanzi al lettore con le  stesse parole del L.; non volendo l’autore da parte  sua aggiungervi se non prefazione, note ed epilogo.  Metodo anche questo alquanto ingenuo e da scrittore  che non vede ancora la necessità, chi voglia rappresentare nella sua unità logica e nell’organismo delle sue  parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo  pensiero, entrarvi dentro, mettendosi allo stesso punto di  vista del filosofo, e quindi in grado di rielaborare il suo  pensiero, chiarendolo con le attinenze storiche a cui è  legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui logicamente è suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la  inconsistenza: in modo che l’esposizione riesca una vita  nuova del sistema filosofico nella mente dell’espositore. GATTI, Esposizione del sistema filosofico di L., saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro difficile, certo, e che non riesce felicemente se  non agli scrittori provetti; ma che nessuno ordinariamente crede di potere schivare, se non limiti il proprio  ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne escono  alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno li  ha intesi.   L’autore di questo libro, invece, ha voluto mettere  insieme i passi dello Zibaldone L.ano, mostrando  come fil filo un pensiero si svolgesse dall’altro; e dove  la connessione non appariva evidente nelle parole del  testo, ha supplito di suo i legamenti opportuni, ma continuando a parlare, in prima persona, a nome del L.: proprio come se questi avesse riordinata e organizzata quella copiosa congerie di riflessioni già via via  segnate sulla carta a schiarimento del proprio pensiero  e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il rischio, e stavo per dire la responsabilità, a  cui andava incontro, facendo parlare per la sua bocca  lui, il L.. Ha creduto che nello Zibaldone stesse,  pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo resistere al seducente disegno d’innalzare, con la semplice  composizione degli stessi materiali L.ani, la statua  del filosofo sul piedestallo finora vuoto. Laddove è chiaro  che, se anche nei pensieri inediti del L. fosse implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di ritro-  varvelo e dimostrarvelo non poteva essere questa scelta  dall’autore.   Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già altri,  ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il L. poeta, questi inediti Pensieri di varia filosofia e  di bella letteratura venuti ultimamente in luce, ci scoprissero il L. filosofo. Questa era anche la tesi dello  Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui  il nuovo studioso manifestamente prende le mosse, distinguendo due fasi principali della filosofia pessimistica del L.: nella prima delle quali il dolore sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa  natura; donde prima una concezione storica del pessi-  niismo, e poi una concezione cosmica. Ma lo Zumbini  non insisteva sul valore sistematico di questa filosofia  L.ana; e, d’altra parte, nel secondo volume dei  suoi Studi su L., esaminando le Operette morali,  veniva in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle  riflessioni dello Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che L. aveva fatto seco stesso  per iscritto, fossero appunto condensate nelle Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello  Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze  cronologiche, che lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è noto, dal L.) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli  pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema  logico. Ora, lo Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si formavano giorno per  giorno nella mente del L. attraverso ben (juindici  anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo  per quella del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse  meno che il Manzoni in 78. Esso è anzi il diario degli  anni in cui si svolse la vita morale del poeta, e offre  perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose  da lui stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi  sette volumi abbiamo, per dir così, i segreti documenti  di tutto il lavorìo intimo di quello spirito, non potremo  apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo dalle  loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le  proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel  giorno: e quel lavoro di sistemazione e organizzazione,  per cui di tutti i pensieri slegati si possa fare un tutto  coerente, manca.   Gentile, ifa» 2 ont e L..  Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca  accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a  rilevarsi, che qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente  molto lontani fra loro ». E la sua ragione sarebbe questa : Tali salti, mentre da un lato ci forniscono ancora una  prova evidentissima e incontrastabile della profonda ripugnanza.... provata da L. per una concezione  cosmica del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il  proposito nell’Autore di rifare spesso a ritroso coll’ immaginazione la via già percorsa dal pensiero allo scopo  di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa strada,  e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino,  allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli  avrà mostrata altra via da battere per giungere alla mèta  prefìssa». Cioè, se ho capito bene; a dilucidazione di pensieri anteriori Gatti stima di poter addurre  pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra  ammettere avvenuto nell’ intervallo un cambiamento  sostanziale di pensiero, iierché L. rifà talvolta  con l’immaginazione la via già percorsa col pensiero, e  già superata. Ci sarebbero certi « pensieri di ritorno », o  « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti, non  bisogna credere che il L. contraddica al suo pensiero posteriormente acquisito, anzi lo lasci intatto, ma,  per certa ripugnanza sentimentale alle più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi temperamenti,  torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza  filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un  ritorno siffatto nella mente del L., se noi crediamo di poter fissare questa nella coerenza di certi pensieri definitivi, è evidente che non può essere altro che  una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è costretto,  quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria. Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a  pretendere dal L., nelle sue stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non era nella natura  di tali confessioni.   E non era neppure nella natura dello spirito del L., che fu un poeta, un grande, un divino poeta, ma  non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia  tante volte protestato di possedere una sua filosofia ?  Allo stesso modo del L., più o meno, chiunque  si ritiene in grado di giudicare dei sistemi dei filosofi,  ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di sopra di  costoro, e insomma di affermare una filosofia propria  che possa aver ragione di quei sistemi. E dal proprio  punto di vista chiunque, così facendo, ha ragione; e aveva  ragione il L. ; perché in fondo a ogni mente umana,  sopra tutto in fondo a quella dei grandi poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito parlare così di una filo.sofia del L., come di una filosofia del Manzoni, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero.  Ma questa filosofia dei poeti non è la filosofia dei filosofi,  e bisogna trattarla, per non snaturarla e non distruggerla, con molta delicatezza.   Una delle differenze più notabili tra la filosofia dei  poeti e quella dei filosofi è che il poeta può averne una,  se è capace di averla, in ogni singola poesia; laddove  il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina, non ha nessuna dottrina. Il L. è in pieno  diritto, come poeta, di affrontare il problema del dolore,  sempre da capo, con nuovo animo, con considerazioni  nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla virtù,  ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve  stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa di L. è infatti una situazione d’animo nuova; quindi  una nuova vista dello stesso dolore che domina l’anima  del poeta; un nuovo concetto, una filosofia nuova, che  solo trascurando le differenze essenziali, che in una  poesia e in una prosa del genere di quelle del L. son tutto, si può rappresentare come sempre  identica.   Egli è che il poeta, checché si proponga e dica di  aver fatto, non espone propriamente una filosofia: ma  esprime soltanto un suo stato d animo, occupato, determinato e quasi colorito da certi pensieri dominanti.  Abbozza in se medesimo (e quindi in un diario intimo)  una filosofia provvisoriamente sufficiente ad appagare  i bisogni della propria ragione (che non sono poi grandi  in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in quanto profondamente sentita, in quanto vita  della propria anima, diventa materia di poesia. Di poesia  anche in prosa; perché, in sostanza la prosa L.ana  è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi stati  d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti per lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il  L. fa di costringere il sentimento spontaneo dentro  r intenzione ironica, satirica, che gli fece appunto pre-  f0rire la prosa al verso. Ma in realtà, nelle Operette come  nei Canti c’ è L. con la sua filosofia tetra e col  suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo  grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni,  che altri ha studiosamente cercate in lui, e che sono il vero  segno caratteristico del suo spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver niente dell’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della  soggettività; è una contemplazione, diciamo così, d’una  verità eterna, in cui il filosofo, come persona particolare,  si dimentica di se stesso, e dei suoi dolori, e di tutte le  tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di Spinoza, la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di  somiglianza con quelli del L. non presenta nes-  Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza, nella Rivista d’ Italia,  asuna traccia, non offre nessuno indizio di sentimenti  personali. K veramente una visione del mondo sub specie  aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del  filosofo scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire,  scompare nell’animo dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia. Onde una volta  noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in  tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un sistema di concetti, in sé.   Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il pessimismo L.ano è, come è stato tante volte osservato, così imprgnato di elementi ottimistici, così logicamente frammentario e contradittorio, e d’altra parte così poeticamente  coerente e vivo, che lo scambio non è possibile. Noi possiamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita  del suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto,  molto delicato; perché in esso non bisogna mai lasciarsi  sfuggire che la realtà vera, a cui bisogna aver l’occhio,  non è questa filosofia in se medesima, astratta materia  della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella filosofia  è per acquistare la vita che uno spirito poetico è capace  di comunicarle. La filosofia quindi va studiata per intendere la poesia, e valutata in quanto poesia, per quella  vita poetica che riuscì a vivere nello spirito del Poeta.   La pubblicaizione dello Zibaldone ha fortemente contribuito a fare smarrire questo criterio. Ci s’ è trovata  innanzi la materia grezza della poesia L.ana, quella  tal filosofia, che il L. rimuginava dentro se stesso,  e che, per quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva  pregato nessuno di mettere in pubblico: quella filosofia,  che egli destinava a far materia di espressione più perfetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne in  parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osservato, ma merita di essere particolarmente studiato).  E dimenticando che pel L. tutti questi materiali  non avevano valore per sé, ma l’avrebbero acquistato  soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno  s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del  L.! No, questi sono i detriti della sua poesia:  tutto ciò che la sua forza poetica non avvivò, non trasfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e trasfigurandolo nel suo canto e nella sua satira.   E produce davvero una strana impressione il procedimento seguito dal dott. Gatti, che riferisce nel testo  certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a sussidio  di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti,  in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica. Il  perfetto fatto servire all’imperfetto; la poesia ridotta  a documento d’un suo documento!   Ecco un esempio di filosofia documentata con poesia.  In un pensiero L. S’era  domandato. Che vale per noi questa «miracolosa e  stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente  che artificiosa macchina e mole dei mondi? A che  serve, dunque, questo infinito e misterioso spettacolo  dell’esistenza e della vita delle cose », se « né resistenza  e vita nostra, né quella degli altri esseri giova veramente  nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed essendo per noi l’esistenza, così nostra come universale,  scompagnata dalla felicità, eh’ è la perfezione e il fine  dell’esistenza, anzi l’unica utilità che resistenza rechi a  quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e tutta la Idosofia  del L.. Ma che significano queste sue interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo,  che, non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana  [ Zibald.,  Queste giunture frapposte alle parole del L. sono del  Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi leggermente  il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e non vedendo, d’altronde,  che tal fine sia o possa mai esser raggiunto, egli, Giacomo  L., finisce col non sapersi più spiegare quale possa  essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa costruzione e nella sua vasta armonia farebbe  pensare a un’ intima finalità. Qui non è affermata una  verità obbiettiva; è bensì manifestata la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente  espressa quando il L. ci dirà tutta la risonanza  che questo suo ondeggiare tra il concetto di una finalità  eudemonistica universale e il dubbio suUa validità di tal  concetto ha neU’animo suo; quando da questo suo perpetuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento  filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli  sarà ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a confronto e conforto  di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno L. dice con l’energia della fantasia commossa quello  che nelle note fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del canto.   E quando miro in cielo arder le stelle.   Dico fra me pensando:   A che tante facelle ?   Che fa l’aria infinita, e quel profondo  Infinito seren ? che vuol dir questa  Solitudine immensa? ed io che sono?   Cosi meco ragiono: e della stanza  Smisurata e superba,   E dell' innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti  D’ogni celeste, ogni terrena cosa. Girando senza posa. Per tornar sempre là donde son mosse;  Uso alcuno, alcun frutto  Indovinar non so.   Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio  che non ci sia un fine nel mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio che irrompe neH’anima di  un poeta, che mira in cielo arder le stelle, quasi tante  faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità dell’aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande  commozione, com’ è noto, per L.), e l’immensità  della solitudine attorno alla propria persona non dimenticata {ed io che sono P) né dimenticabUe perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia,  ma l’uomo L., intero, con l’ansia e il terrore che  gh desta lo spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al  dolore di lui che vi si sente dentro smarrito. C’ è anche,  innegabilmente, un dubbio filosofico : semphce dubbio  («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse  s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero  b mio pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi  nasce il dì natale); ma come elemento o momento della  lirica grande.   La pubblicazione dello Zibaldone, badiamo bene, è  stata, in fondo, una certa quale indelicatezza, che nessun  onesto avrebbe giustificato, vivo L., e che non  si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio  deUe sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno che scriva e stampi, pubblica soltanto  queUo che gli par compiuto secondo il fine a cui, più o  meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta non  beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.  Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa sua personale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene  appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo,  r interesse storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio, mediante la conoscenza più  larga che sia possibile della sua anima, bastano a giustificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come degb    epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più gelosi  segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce  col credere che appartengano agli altri più che a se stesse.  Ma questa giustificazione non deve farci dimenticare che  gli abbozzi del poeta, sono abbozzi delle sue poesie, come  gli appunti provvisori del filosofo sono antecedenti spesso  superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni modo non  si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore  che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresentano la conclusione definitiva del poeta e del filosofo.   Tutto questo, si potrebbe osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna vedere  al fatto, se il L., dopo gli studi di Gatti,  ci apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei rispondere con un altro discorso astratto, sostenendo che  è ben difficile che uno stesso genio possa essere insieme  poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia un’attività, che  la filosofia necessariamente combatte e mortifica. Ma  penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre,  quasi costantemente mirabilissimo esempio dell’energia,  onde è capace lo spirito umano, di individualizzare e  stringere nella fantasia e nel sentimento di un’anima  singolarmente potente il sistema più intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della filosofia  ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre  perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico  di fantasmi che son pure astratti concetti: unità, che non  si finisce e non si finirà mai di studiare nella Divina  Commedia ». E preferisco perciò una risposta particolare  e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso generale  io r ho fatto appunto a proposito del L., dopo Alla quale per questo rispetto non credo si possa paragonare,  ma a distanza grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera,  come arte e come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta.   aver letto attentamente il saggio di Gatti. Libro, che  non ò certo inutile, perché molti schiarimenti particolari  a concetti del L. da uno studio così attento e  minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raffronti, oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi  sono opportunamente istituiti tra pensieri del L.  e luoghi di Helvétius, di Rousseau, di Maupertuis e degli  altri autori del Poeta; ma insufficiente a dimostrarci la  tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del L. si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi  a dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato  che ci dà dei Pensieri L.ani con l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è. C’ è la travagliosa  meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le accorate  riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che furono  il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non  più di questo. Il L. lo ritroveremo sempre nel  disperato lamento de’ suoi canti e nel sorriso amarissimo e pur soave delle prose. 11 materialismo della sua metafisica, il sensismo della  sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono  nei pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti,  i motivi costanti del breve filosofare leoparebano : ma  sono spunti filosofici, anzi che principii d’un pensiero  sistematico; sono credenze d’uno spirito addolorato, anzi  che veri teoremi di un organismo speculativo. Le sue  pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osservazione empirica; e non servono ad altro che a dirci  come vedev^a le cose Giacomo L..   In lui non trovi né anche una critica della ragione,  come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi  somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni  contestabili, e accettarle come verità assiomatiche e  principii di deduzioni pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il L. non ebbe mai. Non studiò  nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e studioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pensiero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filosofia antica ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o  altri dossografi. Del Medio Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce  neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come Voltaire, non sospettando in alcun modo la profondità del suo pensiero  Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano  allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma  la sua vera indole, quella che noi dobbiamo guardare  in lui, è r indole poetica, convinti che fuori della sua  poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica  edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette  in rilievo di contro alle conseguenze negative della sua  filosofia teoretica, non ha niente che vedere coll’odierna  filosofia prammatistica, a cui egli studiosamente la raccosta, per dimostrare così la modernità del pensiero  L.ano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello  scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto  sempre la vita alla scienza, e salvata almeno quella dal  naufragio di questa. Salvataggio operato ora con la natura, ora col sentimento, ora con la volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come tale,  che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo  fondamentale. L. ricorre all’ immaginazione e a  un certo qual senso dell’animo, che fan contrappeso agli  argomenti dolorosi della ragione e bastano a confortarci  a vivere. Né anche questo principio, del resto, è sviluppato. Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese un precursore del James e degli altri pram-  matisti d’oggi, i quali non sono scettici, benché in realtà  abbiano una dottrina negativa del conoscere; non vedono  nell’attività pratica un surrogato dell’attività teoretica:  ma unificano le due attività, e immedesimano la verità  con l’utile, in modo che quel che giova credere, sia  esso stesso il vero; laddove quel che gioverebbe credere,  secondo L., sarebbe né più né meno che un’ illusione. La differenza tra L. e James è la differenza  profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo  prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente  dommatica e positiva. Gli studi del Gatti furono ripresi da Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini tra  gh studiosi di letteratura italiana, e dei più valenti e  competenti interpreti del pensiero L.ano; ma con  altro criterio e altro intendimento. E io son lieto di leggere al principio del suo libro le seguenti parole; «Fu  tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente dal Cantella,  di ordinare e comporre in un sistema filosofico i pensieri  dello Zibaldone L.ano; con esito che non poteva  essere altro che infelice; quando si pensi che sono riflessioni scritte giorno per giorno, senza disegno prestabilito,  per lo spazio di circa quindici anni, da quando prima  il poeta adolescente cominciò a voler pensare col suo  cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno degli  argomenti principali che a suo tempo io opposi al tentativo di GATTI. E sono interamente d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con gli ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di cui ci conserva i documenti, può esser materia alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero del  poeta, la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei  prodotti più maturi, dove parve all’autore d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e nelle  Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del saggio  del Levi, e conferma pienamente il mio giudizio sul valore e sull’ interesse dello Zibaldone.   Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce  netta e ferma quanto si potrebbe desiderare, costretta  com’ è dall’autore ad andare in compagnia di certi prin-  cipii direttivi, che oscurano, a mio avviso, la visione  esatta di taluni momenti dello sviluppo del pensiero L.ano e turbano il giudizio sulla sua forma ultima. Cosi, quando comincia a notare che io ho ecceduto « negando a priori allo Zibaldone ogni interesse speculativo,  per la qualità stessa dell’autore; il quale sarebbe bensì  un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta,  dominato interamente dal sentimento, e perciò di pensiero incoerente, mutevole e spesso contradittorio », egli,  da una parte, esagera e àltera il mio giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su tutta l’opera del L.;  e dall’altra, accenna a un concetto (che non manca subito dopo di dichiarare esplicitamente), il quale non gli  può consentire una ricostruzione storica non arbitrariamente soggettiva, ma razionalmente giustificabile del  pensiero L.ano. In primo luogo, non è esatto che io abbia negato o  voglia negare ogni interesse speculativo allo Zibaldone e  tanto meno alle poesie e alle Operette morali', anzi sono  disposto a riconoscere che tutta la poesia di L.  non abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in  tutti i suoi gradi, che il problema speculativo, nei termini,  s’intende, in cui egli poteva e doveva porlo. Quel che  ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia del  pensiero del L. qualche cosa di più che non fosse  negli scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto  di vista del L., fosse già pervenuto a quel punto  di maturità spirituale, di verità, in cui il L. s’acquetò, a giudicare dalle opere con cui egli stesso volle  entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che possa  nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva  licei componere magnis) da quelle note, onde ognuno di  noi si prepara ai suoi lavori, e che, compiuti questi,  quando ci pare d'averne spremuto bene tutto il succo,  si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando dalle  note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano  venute correggendo e integrando in più logica compattezza ' ; 2) che si possa adeguatamente valutare la grandezza di L., facendogli il conto del tanto di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a prescindere da ogni dottrina sulla natura della poesia, basta  considerare le critiche profonde e ineluttabili, onde quella  verità fu superata da uno spirito, che ebbe inizialmente  una profonda simpatia congeniale col L., il Gioberti (specialmente nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: « Fii detto che la pubblicazione del Diario  sia stata un'indelicatezza, quando il L. medesimo di questa  pubblicazione non aveva pregato nessuno. Oh si, sarebbe un indelicatezza esporre quelle cose agli occhi bene aperti d’un pubblico di  pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo gli errori del grand'uomo  che si viene formando. Ma chi ha già imparato ad amarlo e a venerarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante le sue reliquie.  Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel che scrissi io nella  Rass. bibl. tett. U.,  mi rincresce  di dovergli rispondere che egli non ha inteso lo spirito della mia affermazione. La quale mirava soltanto a chiarire che dello Zibaldone non  ci si può servire se non come di documento della formazione del pensiero del L., la cui forma ultima dobbiamo per altro cercare  sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse l'autore, e pubblicò  egli stesso come sole degne di sé.  nel Gesuita e nella Protologia), in pagine che il Levi non  anteporrebbe di certo né pur a quelle dello Zibaldone. L vero che « nei sistemi filosofici le parti più caduche  sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema ». Ma  ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi dimostra che è: perché gli errori di questo genere non si  scoiarono dal critico se non come errori della costruzione  del sistema, ossia come divergenze dalla costruzione che,  secondo lui, sarebbe più conforme alle verità fondamentali intuite d<al filosofo. E se U critico non rifacesse per  suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe modo  di discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato  dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché  un giudizio che affermasse immediatamente : questo è  vero, e questo è falso, senza dimostrazione di sorta, non  credo che pel Levi sarebbe un giudizio per davvero.  E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non  è privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi  s’intende i filosofi storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc., e per poeti quelli che sono realmente  vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare, ecc.  Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos  intra muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie  rotte nel sistema, ce n’ è state, e ce ne sarà sempre, da  una parte e dall’altra. Ma noi non possiamo parlare di  Omero poeta e di Platone filosofo senza un concetto  del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filosofia: le quali, come funzioni dello spirito, trascendono  la storia, che è la concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla poesia e alla filosofia come funzioni  trascendentali dello spirito si possono assegnare caratteri  distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto  tale non sarà della filosofia, e per converso.   Nella storia tutte le funzioni concorrono in un’unità  concreta, in cui il poeta, essendo anche filosofo, partecipa  del carattere dello spirito che è filosofia; e il filosofo,  essendo pure poeta, partecipa del carattere dello spirito  che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle  funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della storia, che fa essa stessa la divisione dei  grandi spiriti nelle due schiere dei poeti e dei filosofi,  secondo che negli uni prevale il momento poetico e negli  altri il momento filosofico; onde la distinzione e però  la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni  volta, funzioni di giudizio storico, concreto.   Perché il L. va considerato come poeta, e  non come filosofo ? Perché, se conosco il L. storico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto,  io ci vedo bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia  la vedo chiusa, compressa, fusa e assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha della sua personalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che  egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e  poiché il suo occhio è tutto intento alla risonanza tutta  soggettiva, in cui vive per lui un certo, oscuro, vago e  frammentario concetto del mondo, la verità è per lui,  e dev’essere per me che lo giudico, non in questo concetto, ma nella vita di esso, in quella tale risonanza,  nella sua Urica. Beninteso che, per quanto oscuro, vago  e frammentario, quel concetto sarà pure un concetto,  che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente  alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta.  E non ci sono principii astratti ed estrastorici che possano segnare a priori i limiti della filosoficità del concetto  che vive neUa Urica del poeta. Ma ciò non toglie che la  distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e che  non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a  volta, il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es-  senziaU ed assolute.  Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme  è in fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se  è suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione,  ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo nei poeti, di  cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di  più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare e cercare un’attività etica con un suo  senso determinato e costante ». Ond’egli si propone di  cercare negli scritti del L. «per quah vie egli giunse  alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteggiamento interiore costante e sicuro di fronte all’universo Ebbene, tutto questo è molto vago perché  possa servire di criterio alla storia del pensiero di un  poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una sola  soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le  differenze tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che quello che è in fondo venga su, e si manifesti,  e assuma così una forma storica determinata. E se è  suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione,  posto, com’ è necessario, che le suddette forme della  I grandezza, o, più modestamente, dello spirito, siano più  d’una, oltre la suprema esigenza etica, ci saranno (dato  pure c non concesso che questa sia la radice di tutte)  altre esigenze supreme : come quella che la vita sia poesia,  e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci riflette  bene, s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per  la sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un  ^ atteggiamento dell’uomo di fronte all’universo : poiché; quest’atteggiamento o è un pensiero, o l’imphca; e questo   pensiero, dovendo essere una filosofia, non può non essere anche una poesia.  In realtà, quel che cerca il Levi nel poeta, non è la   ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì una metafisica,  I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o del regno  soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa mèta. Gentile, Manzoni e L.] pur accennando qua e là all’ identità del valore poetico  e del valore del contenuto filosofico della poesia, egli  non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro,  il problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira  quasi mai al giudizio estetico dell’arte L.ana; ma  si restringe a tracciare la linea di svolgimento del pensiero  che c’ è dentro, e che egli crede abbia assunto la sua  forma finale in una specie di individualismo romantico  corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò bensì  che la distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire  nel pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente  estetico, più che etico, di questa filosofia romantica a  cui egli aderisce: quantunque pur in questo concetto la  differenza permanga e obblighi il Levi a far violenza,  qua e là, al pensiero del L. per dargli queUa sistematicità, che è necessaria anche a una filosofia individualistica.   Il risultato degli studi del Levi, in breve, è questo.   Nel pensiero del L. si devono distinguere due periodi; uno come di distruzione e dissoluzione dell’uomo,  l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo stesso;  il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- !  mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo  periodo, e si aderge in tutta la sua grandezza, che è la j  sua stessa infeUcità, o piuttosto la coscienza della sua p  infelicità. 11 primo periodo terminerebbe verso la fine |  del 1823, e sarebbe rappresentato, sostanzialmente, dallo 1  Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a poco, nel J  gennaio 1824, quando il L. pose mano alle Operette morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta- #  mente ; « Fa onore al buon gusto e al senso critico del 1  L. l’aver lasciato da parte tutto quello ch’egU l  sentiva estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS  alla storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?.  e l’aver esposto definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi pensieri intorno alla virtù  e alla felicità umana. Insomma, anche pel Levi, lo Zibaldone è il periodo  jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi sette volumi i  primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in cui  il L. cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ritrova qual era nella sua giovinezza e all’ inizio del suo  speculare: «pieno d’ardore per la virtù, e assetato di  felicità, di bellezza e di grandezza ». La riflessione, in  questo periodo, che comincia intorno al ’20, si stringe  addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito  L.ano; e non riesce a giustificarli, anzi h corrode  e distrugge. Che cosa è il bello ? e il bene ? e il vero ?  e il talento ? Movendo dal sensismo, che negava lo spirito e non vedeva altro che la natura, tutti i valori dello  spirito si dileguano facilmente dagli occhi del giovane  pensatore, poiché perdono tutti la loro assolutezza, la  loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende  in lui il dolore di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta  nell'esser suo di coscienza, e prorompe in una espressione  ingenua della verità disconosciuta: espressione, che ferma  giustamente l’attenzione del Levi; e giustamente gli fa  segnare questo momento come principio d’un nuovo periodo  dello svolgimento del L., ma comincia ad essere  interpretata alla stregua del difettoso concetto che  egli ha delle attinenze della poesia con la filosofia,  e a far deviare quindi tutta la sua interpretazione del  secondo periodo.   11 L., il 27 novembre 1823, scriveva nel suo  Diario : « Bisogna accuratamente distinguere la forza  dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede  neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente  quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama    Storia, anima. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò  per se medesimo non fa ch’egli sia più infelice, né accresce il suo amor proprio. Nel totale e sotto il più  dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono in ragione  inversa della forza propriamente corporale.... La vita è  il sentimento dell’esistenza. La materia (cioè quella  parte delle cose e dell’uomo che noi più pecuharmente  chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può  esser vivo e non ha che far colla vita, ma solamente  coll’esistenza, la quale, considerata senza vita, non è  capace di amor proprio, né d’ infelicità. Quello che in questo luogo il L. chiama sentimento vitale, o vita», avverte esattamente il T.evi,   « è manifestamente la coscienza ». Ma continua : Di qui  innanzi egli negherà ancora in astratto la nozione metafisica dello spirito (al che egli ha  avuto cura di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale ’ e  ' quella parte delle cose e dell’uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia'). A questo lo movevano il suo  bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato  e il falso ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei  romantici. Ma, praticamente, rispetto a sé e rispetto  all’uomo in generale, egli ha fermato con sufficiente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di  natura spirituale e della sua dignità». Ora qui è il piincipio  del maggiore equivoco, in cui si dibatte poi il Levi in tutta la  sua interpretazione del L.. Nel luogo citato del Diario  c’ è la coscienza della vita, ma non c è la coscienza (il  concetto) di questa coscienza; il L. sente la propria grandezza come uomo sugh animaU e sugli esseri  inferiori, e la propria grandezza come L. sugli  uomini comuni, come potenza di essere infehce. ma non  pone mente che egli è grande, non perché infelice, ma  perché conscio della sua infelicità ; cioè non vede 1 esser  cuo nella coscienza che si eleva al di sopra del dolore,  e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun patto  asserire che possegga la nozione della propria natura spirituale e della propria dignità di contro alla natura. Infatti  il possederla praticamente (e soltanto praticamente)  come vuole il Levi, che significa se non che non la possiede come nozione, bensì con quella immediatezza onde   10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza  di sé ? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il contenuto della sua poesia (attualità  reale del suo spirito), sarebbe superato; poiché sarebbe  risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto od  oggetto dello spirito consapevole della propria vittoria  sulla natura, come opposizione e limite dello spirito, e  quindi sorgente dell’ infelicità.   Il pessimismo è assolutamente inconciliabile col concetto del valore dello spirito; e questa è la vera e profonda ripugnanza che prova il L., pur quando  intravvede nella vivacità stessa della sua spiritualità  l’essenza propria del reale, che è sentimento, com’egli  s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà che  non ha posto nella visione pessimistica del mondo in  cui si chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle  circonlocuzioni « quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni, che sono la patente documentazione del fatto, che il L. non si  solleva al concetto dell’essenza dello spirito. Che se questo  concetto si fosse rivelato comunque alla sua mente, con  tutta la sua « avversione all’accattato e al falso che ei  sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici »,  con tutto « il suo bisogno di concretezza », come avrebbe  potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che   11 sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non  è materia, e che la presunta concretezza della materia  come tale non è altro che un’astrazione, dal momento che essa non ci può esser nota altrimenti che pel sentimento che ne ha il vivente? Orbene questa contraddizione intrinseca tra il sentimento, non elevato a concetto, dell’umana grandezza, e  il concetto (contenuto della poesia L.ana) della  nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fatalità assoluta del dolore, questa è la grande situazione  poetica di L. rappresentata così splendidamente  dal De Sanctis nel saggio su Schopenhauer:  L. produce l’effetto contrario a quello che si propone.  Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede  alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore,  la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio  inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore;  e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire al suo  cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede  possibile un avvenire men tristo per la patria comune,  ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma  a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la  sua anima alta, gentile e pura la onora e la nobilita ».  Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto  e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua  poesia: ma non perviene mai a distinta coscienza degli  opposti motivi che vi concorrono senza scoppiare dentro  il contenuto (astrattamente considerato come filosofia) in  manifesta contraddizione logica, come avviene nella  Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so.  Certo, la forma L.ana si regge sull’equilibrio di  questi opposti motivi, che sono la personalità del poeta  e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si mantiene  perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo,  Saggi critici, à  nel canto A Silvia, nel Canto notturno e, in modo tipico,  nei versi All' infinito, dove la personalità si dimentica  nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma poetica : laddove,  appena vi si contrapponga, come parte di contenuto (che  qui coscienza che il poeta ha di se medesimo) accanto all'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a spezzare  l’unità del fantasma, che è la logica del pensiero poetico. Di tale contrasto il Levi, poeteggiando anche lui per  interpretare il L., non vedo abbia chiara coscienza;  e però scambia la forma col contenuto dell’arte L.ana, e vede una filosofìa (quella con cui piace a lui  d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima,  e cioè la poesia del L..   Tralascio i bei capitoli, che il Levi consacra alla storia  della concezione storica del pessimismo, quale si disegna  già nella critica dello Stato e della civiltà, della scienza  e della filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso   10 stesso Zibaldone per trovare in fine la sua espressione  nei primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A un  vincitore nel pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo,  Alla primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al secondo  periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della coscienza che il  L. comincia ad acquistare della propria grandezza  dopo la dimora che fa in Roma: coscienza culminante da ultimo, in questa nota del Diario: «Ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano  intelletto, che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza....  E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale  sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono più  capaci della conoscenza, e del sentimento della propria  piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo periodo, il cui  Zibald.] pensiero il Levi vede maturarsi tutto nelle prose {Storia del genere umano, Dialogo della  Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e di un  Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e nelle note  sincrone dello Zibaldone. In questo secondo periodo  dall’uomo L. ritrae la causa del dolore universale  nella natura; alla concezione storica del pessimismo sottentra quella cosmica; ma di fronte alla natura inesorabile artefice del nostro doloroso destino e imperscrutabile prosecutricc di fini divergenti dai fini dell’uomo  s’accampa questo con la coscienza del proprio valore:  dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo,  e pur creatore del suo valore nel virile disdegno d’ogni  illusione, nella magnanima sfida al Potere ascoso: nell’affermazione, insomma, di sé come coscienza del dolore.  Onde il L. acquista una serenità, una sicurezza  ignota a quell’angoscioso piegarsi e stridere dell’anima  sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo jieriodo.  Questo mi pare, se ho bene inteso il cenno più che esposizione del Levi, il suo modo d’intendere questa forma  suprema dello spirito L.ano.   Ma contro questa interpretazione vedo due princijiali  difficoltà, la prima delle quali confesso di proporre con  qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere  interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i  documenti dell’ interpretazione del Levi per ciò che  riguarda l’individualità dell’uomo, che in questo secondo  periodo starebbe di contro alla natura. Nell’allegoria  dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la designazione dei « cuori più teneri e più gentiU, delle persone più generose e magnanime », che vengono a provare  « piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine »,  comprende bensì il L., anzi rappresenta soltanto  il L.: ma non come individuo che crea se stesso,  col suo valore. Non è coscienza del dovere dell’ individuo.    che può nello spirito vincere l’avversa natura e toccare  (juindi la beatitudine da questa contesagli ; ma è l’im-  niediata condizione spirituale del Poeta, la cui serenità  estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il dolore.  11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di  ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura  dell’universo, e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della  beatitudine che spira intorno al nume, figliuolo di Venere  celeste, non v’ è giustificazione, né quindi concetto.  « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili  a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla  consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per  questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né  potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è l’anima  che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come  concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce  serenità che si diffonde per tutta la prosa: ossia la forma,  la poe.sia, non il contenuto, la filosofia, del pensiero L.ano.   Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella individualità che il Levi vede nelle varie  prose al di sopra del pessimismo cosmico, fino a Tristano  che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il capo  al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri  uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto negazione:  E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni  cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta  credo fermamente che non sia desiderata al mondo se  non da pochissimi. In altri tempi ho invidiato.... quelli  che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri  mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio  più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con  loro mi cambierei. In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura,  perché e come potrà farsi una caratteristica del secondo  periodo se nel primo periodo resta, per esempio,  il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che  guerreggia teco   Guerra mortale, eterna, o fato indegno;   e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge  magnanimo contro i numi e l’empia sorte, e, conscio  della propria grandezza al di sopra del « velo indegno »,  emenda il crudo fallo del cieco dispensator dei casi ?   Però credo che nell’esame dei canti del secondo periodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e  suggestivo studio del Levi, la poesia L.ana sia più  d’una volta tormentata affinché risponda docilmente ai  preconcetti filosofici costruttivi dell'autore. Nel Risorgimento sarebbe celebrata « con gioconda sicurezza la superiorità della vita affettiva sulla conoscenza e su tutto,  e la forza invitta con cui l’io profondo si afferma, non  ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il  L. canta:   Proprii mi diede i palpiti  Natura, e i dolci inganni;   Sopire in me gli affanni  L’ingenita virtù.   Non l’annullàr, non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura  L'infausta verità. Pur sento in me rivivere  Gl’ inganni aperti e noti;   E de’ suoi proprii moti  Si maraviglia il sen. la chiave, l’intonazione della poesia è in questo mera-  vigharsi dell’animo di fronte al risorgimento dell’ ingenita  virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché tale.   j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità  della vita affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza,  perché meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia,  questo stupore innanzi al subito rianimarsi del mondo  al risorgere del vecchio cuore, la poesia è svanita.   Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se stesso,  secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando,  disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’assoluta solitudine della sua grandezza » ; e cita i versi; Non vai cosa nessuna  I moti tuoi, né di .so.spiri è degna  La terra. Amaro e noia   La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.   Ma dov’ è qui la solitudine della grandezza, se il L. vi nega ogni finalità ai moti stessi del cuore, se  cioè non crede che il cuore possa aspirare a nulla, e tutti  i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco sotto  r immane fatalità ?   Infine : « La Ginestra », dice il Levi, « è da taluni,  non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo contenuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A me sembra una cosa grande, anche per quella  maschia e dantesca sprezzatura, onde il poeta non rifugge,  per rispetto all’ intento morale, dall’ interrompere la sua  melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti in  versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno  all’ immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo,  eppoi la straordinaria descrizione delle eruzioni vesuviane. La bellezza di questa nasce da cosa molto più  alta che non sia l’eccellenza espressiva : e questa è l’intensità tragica del pensiero universale simboleggiato, e  la potenza di una personalità, che si colloca di fronte  alla natura, e ne abbraccia e comprende la terribile grandezza senza lasciarsene opprimere ». Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa grande  per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la  poesia con pagine di ragionamenti. Se vi sono ragionamenti che interrompono davvero la poesia, il L.,  mi pare, sarebbe stato più grande non interrompendo la  sua poesia; dato che la grandezza della poesia non possa  essere altro die il carattere eccellente di una poesia,  tanto più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e  tutta poetica. Vero è che soltanto la retorica può persuadere ad esaltare la Ginestra per il suo contenuto morale;  poiché questa parte appunto (oltre che la polemica contro  la filosofia e contro Mamiani ROVERE (si veda)) è quella  in cui è compromesso l’equilibrio lirico della poesia;  ma mi pare anche un errore staccare la bellezza delle  meditazioni sul contrasto tra la grandezza sterminata  dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila della  descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di  tutta la ])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le  altre particolari sono irradiate: e che è, credo, la bellezza della ginestra, del fior gentile, immagine del L., che, mentre tutto intorno una mina involve,   al cielo   Di dolcis.simo odor manda un profumo.   Che il deserto consola:   l'espressione più delicata della divina poesia leojìardiana.  E dove il Levi afferma con intenzione, che la bellezza  non so se della descrizione delle eruzioni vesuviane o se  di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta che  non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina  estetica, che dice altrove di non poter accettare, noterò  che egli mostra di non aver forse compreso che s’intende  in questa dottrina per espressione : perché l’intensità  tragica che egli vi contrappone non è niente di diverso  dalla espressione, se di questa intensità tragica intende    parlare in quanto la vede nella Ginestra] poiché l’espressione va cercata nell’atteggiamento individuale che lo  spirito assume di fronte a una certa materia, e questa,  quindi, in lui.   Ma c’ è poi quella personalità, che si colloca di fronte  alla natura senza lasciarsene opprimere? Qui sarebbe il proprio della interpretazione del Levi. Né supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra  non supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo,  non crede sue stirpi immortali, e sa pertanto che supph-  cherebbe indarno al futuro oppressore. Non c’ è, dunque,  né pur qui, l’individuo che si contrappone alla crudel  possanza, ma la serenità pacata della coscienza della  sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che  affermazione romantica dell’umana personalità.   In conchiusione, anche al nuovo schema filosofico la  poesia L.ana si sottrae e repugna, per richiudersi  sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos lirico.   ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con alcune  osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente  lettera: Egregio Professore, Mi par difficile discutere delle interpretazioni particolari di questa o quella poesia o altro documento del  pensiero L.ano senza rimettere in discussione il  concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro.  Perché le mie osservazioni singole non miravano a confutare singole opinioni e determinati giudizi, né a mostrare piccole infedeltà ed inesattezze, sì bene a far vedere in atto r illegittimità del criterio fondamentale con  cui aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito leo- [Si possono leggere nella Critica,] pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune delle  mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire  r intento generale e il significato complessivo del mio  articolo. Per esempio, perché, pur consentendo che nel luogo  citato dello Zibaldone con vita o sentimento  dell’esistenza H L. intenda la coscienza,   10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto,  della coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale,  in quanto parte di una generale intuizione del mondo,  era ciò di cui Ella aveva bisogno per cominciare a vedere  nel L. la filosofia individualistica, in cui Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia L.ana.  Con ciò io non dovevo attribuire al L. soltanto   11 possesso immediato della coscienza (com’Ella mi fa  dire), che sarebbe stato invero troppo poco: ma solo un  senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o magari  un concetto, che però non era un vero concetto, della  coscienza. Il Leoparch insomma vede lì la coscienza, ma  non la pensa; sicché per lui pensatore questa coscienza  è come se non fosse ; e non può dirsi perciò, che « praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale,  egli ha fermato con sufficiente sicurezza la nozione di  ciò che in esso è di natura spirituale e della sua dignità ».  Il senso della spiritualità e della dignità spirituale di sé  e dell’uomo in generale sì; e questo appunto io dicevo  essere non il contenuto (la filosofia, il concetto) della  poesia L.ana, ma la forma (la poesia, la lirica,  l’espressione della personalità del poeta, superiore alla  sua filosofia).   Così, sarà verissimo che il L. si creda infelice  perché grande, piuttosto che grande jierché infelice.  Ma questo non ha che vedere con la mia osservazione  che, se egli avesse avuto il concetto della coscienza,  avrebbe veduto la propria grandezza in un grado spirituale che è al di sopra del dolore e della infelicità. La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza  vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia del  dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e visione sub specie aeterni del dolore stesso, non può non  liberare da esso il soggetto. Nel Dialogo della Natura e  di un Anima il L., phi che far dipendere l’infelicità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra. L’Anima  domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordinaria sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando  sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l’una  dall’altra?» e la Natura risponde; Nelle anime degli  uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi  di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi  il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa  maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento dell’ infelicità propria ; che è  come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove è chiaro  che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè  eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale  in quanto è sentimento di essa, cioè quella vita, nella  cui intensione consiste l’eccellenza dell’animale. E però L. deve ad ogni modo commisurare la propria  grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non avrebbe  fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure praticamente, la nozione della vera realtà spirituale,  che in lui spontaneamente s’afferma quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i « maggiori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi  annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori, e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con  altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al  mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è quel dolore impietrato, di cui io parlavo come  dell’unica forma possibile del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza, e quindi di  quella vita del dolore che non è più dolore nella vita  dello spirito il L. non ha coscienza.   E però il contrasto interiore che io vedo nella poesia  del L. è identico a quello che ci vedeva il De Sanctis,  anche se, nel passo citato da me, rappresentato da un  solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della  personalità del poeta e la povertà, per non dire negazione, di ogni sostanzialità spirituale, propria del contenuto della sua poesia.   Del Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto  che il primo periodo citato da me sia; E ardisco desiderare la morte ecc. ». Le parole precedenti erano state  pur da me riferite immediatamente prima fino a  Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né  piega il capo al destino, né viene seco a patti, come fanno  gli altri uomini » Ma queste parole non potevano impedirmi di vedere in quel che segue, e in cui confluisce  il pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il Dialogo, una negazione piuttosto che un’affermazione: e negazione non soltanto, come Ella dice, della propria persona empirica; perché la morte, pel L., non distrugge soltanto la persona empirica, ma tutto l’essere  dell’ mdividuo.  Mi piace ricordare la felice osservazione di Sanctis {Studio  sul L.). L. ha la forza di sottoporrei  il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche  la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e  fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il .suicidio, e  appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare]  Bruto e Saffo, non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se ci sono  stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del  poeta o del filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima, attirata nella  contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina  la faccia. Quanto alla differenza di disposizione spirituale tra  ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino e  Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma  la si attende serenamente, deposto ogni disperato pensiero di suicidio, non occorre negarla per non vedere  né anche nei componimenti più tardi quella coscienza  jel valore della propria individualità, che Ella ci vede.  ^'el detto Dialogo non si cela, almeno io non riesco a  scorgere, « quella robusta fede nella grandezza umana,  riconosciuta possibile sempre, perché bastevole a se  stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si dice  che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo,  in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né  di ritenerla né di lasciarla. E, se non m’inganno, la  nota fondamentale del dialogo è nelle ragioni della tollerabilità della vita, per misera che sia: le quali ragioni  sono bensì la critica del pessimismo materialistico del  L., ma restano nella forma di sentimento, bastevole a conferire al dialogo quell’ intonazione affettuosa  che gli è propria, e sono veramente l’opposto di quella  affermazione dell’ individualità dello spirito, di cui si va  in cerca : « Aver per nulla il dolore della disgiunzione e  della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni;  0 non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno;  non è di sapiente, ma di barbaro. Non far ninna stima  di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante  di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso  non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca  se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro  alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto  che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il  più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men  liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.  Se prendessimo atto di questa critica del suicidio — che.  risolvendosi in una serie di asserzioni, vale certo come  effusione di stati immediati deU’animo, ma non come  filosofìa che filosofia diverrebbe questa del Poeta che  ha ragionato sempresul presupposto che la vita dell’uomo  sia racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il mondo  all’uomo non si rappresenti se non nella breve sfera del  piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte,  senza questa contraddizione interna tra la filosofia dominante nel dialogo e il senso affettuoso onde il poeta  è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere umano (cfr.  la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione intima  di Plotino con Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia  del commovente dialogo ?   Nell’ intendere come ho inteso il Risorgimento posso  sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella crede si debba  intendere altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giudizio. Ma la ragione che mi oppone non mi riesce molto  persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia una risposta alle  domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete or mi  ridesta ? Che virtù nova è questa ? Chi mi ridona il  piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ;   Da te, mio cor, quest’ultimo  Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto mio  Solo da te mi vien;   ed è vero che nella quartina precedente l’accento maggiore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa risposta è la soluzione del problema, in cui consiste la  poesia : l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del vecchio cuore. E quindi il sentimento che regge tutta la  poesia mi pare la meraviglia. Ragione, invece. Ella ha  certamente nel correggere il significato da me attribuito In un periodo ora non più ristampato dello scritto precedente. agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur dopo la  correzione, il significato del canto non è punto favorevole alla tesi dell’affermazione della propria grandezza,  gi a quella del grido della disperazione, comune a quasi  tutta la poesia L.ana. E nella Ginestra chi negherà il motivo da Lei richia-  luato, della personahtà del Poeta che non si lascia opprimere dalla crudel possanza della natura ? Ma bisogna  vedere quanto questo motivo sia attenuato qui dall’umile  coscienza delle proprie sorti («che con franca hngua. Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato  e frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver  le stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e  sciolto nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli  uomini fra sé confederati, e nella poesia consolatrice che,  commiserando i danni altrui, manda al cielo, come la  ginestra, un profumo di dolcissimo amore, che consola  il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo  innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla alla gentilezza  del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante,  né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente  cantata da L. Certamente, tutte queste cose meriterebbero di essere  chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti L.ani; e io voglio sperare che questa discussione possa  invogliar Lei, che ha studiato tutte le cose del nostro  grande Poeta con tanto acume e con tanto amore, a non  staccarsene senza prima avervi gittate su la luce di  nuove ricerche. Maestro di vita L.? Bertacchi >  si è proposto appunto di « raccogliere dagli scritti di  Giacomo L. e di comporre in multiforme unità  gli elementi dell’opera sua nei quali parlino più alto le  feconde ragioni della vita»: «quanto di sereno o di mcn ;  triste ricorre neUe pagine del Nostro; quanto di attivo  e di energico, pur nello stesso dolore, risulta dal senti- j   mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar, ^  se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per dire la '  cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- | j  strare tutti gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1   L.ana. 1; Elementi che non mancano certamente nella detta 'i  poesia; e costituiscono la singolare caratteristica del suo j  pessimismo, come già osservava sessant’anm fa il De San- '  ctis nel suo dialogo sullo Schopenhauer (dopo che allo  stesso concetto aveva accennato un ventennio prima Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita);,  e conferiscono infatti agli scritti di questo dolente e de- I  solato pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. E molti studi diligentissimi furono fatti in questo senso i  da Negri, nelle sue Divagazioni, che pare siano t  rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è ottimismo e ottimismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J  direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il,  carattere dello spirito L.ano, attribuendogli un ot- l  timismo edonistico od estetico, che solo un lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un rft   vita-. Sag^o L.ano, Il poeta e la natura, Bologna, /a  nichelli, igi?- stratto e superficiale può vedere in alcuni aspetti della  sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del L. è  la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della  lenza dello spirito, di quelle necessarie illusioni, come  egli le chiama, a cui non trova posto nel mondo, guardato come cieco crudele meccanismo naturale; ma che  non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più  vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo purificato e rasserenato in questa  intuizione schiettamente spiritualistica. La quale, d’altra  parte, non a\Tebbe il suo proprio particolar significato,  disgiunta dalla negazione pessimistica della vita dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il  contenuto. In questa contraddizione intima tra la natura  cattiva e lo spirito buono che in sé accoglie la visione  di cotesta natura, consiste proprio la radice, da cui trae  alimento tutta la poesia del L.; per intender la  quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro  dei due elementi contradittorii.   11 Bertacchi invece crede di poter quasi cogliere  in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bellezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia  il Poeta in rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro  ai suoi canti una sensazione di letizia; per modo che,  contro r intenzione del Poeta, la sua poesia tratto tratto  scoprirebbe nella stessa realtà naturale ravvivata dall’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita; ossia  una fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur  seppe attingere. Poiché, per lui, « vita è sentire e far  sentire il bello e il sereno di natura; vita ravvisare e  creare le fide corrispondenze con essa », e poi « l’uscirle  incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o impregnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o  contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di  atteggiamenti e di modi, circuirla di umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso sensibile le conchiusioni jiiù nostre  e i significati inattesi » ecc., e il Poeta studiato « ne’ suoi  fedeli commerci con la natura esteriore » apparirebbe  maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a fecondarsi d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia  e ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma  la vita di cui sarebbe maestro il L. è una vita di  piacere | del piacere procurato dalla intuizione estetica  della natura. Tesi in parte ingenua e oziosa, in parte falsa. Perché  se si volesse dire soltanto che il L. insegna a guardare esteticamente la natura e in generale a dar vita  estetica al mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma  così del L. come, più o meno, di ogni grande poeta;  e non c’ è nessun bisogno di dimostrare questa tautologia,  che un’opera d’arte, qualunque essa sia, è rappresentazione estetica; e quel che può avere un interesse e un  significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo  un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in più la pretesa d’indicare attraverso questo  vagheggiamento fantastico della bella natura una vita  diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi che questi  ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra  squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne  accorgesse, fossero attratti più dalla prima, e la luce  di questa s’effondesse sull’altra. Che è una pretesa affatto  erronea; e giustificabile soltanto col criterio dal Bertacchi  candidamente esposto fin dalla prima pagina del suo  libro, come norma fondamentale del suo metodo critico.   Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che  l’opera d’uno scrittore non valga solo per sé, ma anche  per il modo diverso ond’essa, quasi, si adatta a ciascuno  di noi », poiché « spesso dalla parola d’un autore, acco-  r   stata alle anime nostre, si svolgono sensi ulteriori che  l’autore non previde, ma che le affinità degli spiriti e le  somiglianze dei casi vi sanno naturalmente ritrovare. Il creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via di  significazioni e di uffici ». Sicché L. maestro di  vita è il L. dei sensi ulteriori e non il L. storico; L. creato più che il creatore: creato,  s’intende, in questo caso, dal Bertacchi. 11 quale, una  volta sul punto di creare, non è più legato da nessuno  dei vincoli onde ogni critico e storico è legato alle opere  che intende interpretare; e può scegliere tra gli scritti  L.ani quelli soli o di alcuni di essi quelle parti  soltanto, in cui meglio può vedere adombrata l’imma-  I gine del maestro di vita che desidera raffigurare.   Così comincerà con lo scartare le prose ; perché « nella  voluta terribile aridità » di queste, « il pensatore sinistro  svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo agio  di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ;  «egh non suscita in noi altro moto che non sia d’attenzione a quella sua logica amara ». E il Bertacchi vuol  dire che lì c’ è il pensiero del L., e non c’ è la natura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il che  non è poi vero, se si considerano almeno la Storia del  genere umano, il Dialogo della Natura e di un Islandese,  La Scommessa di Prometeo e V Elogio degli Uccelli. Pel  Bertacchi le Operette morali sono filosofia e non poesia.  Da scartare poi le poesie in cui il Poeta «trasferisce  nel canto quella materia medesima», malgrado «la maggior seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar  musicale, dalle pur rare imagini che infiorano il discorso  qua e là ». E con questi caratteri il Bertacchi non si perita di designare, oltre 1 ’ Epistola al Pepoli, la Palinodia  ed / miovi credenti, canti come II pensiero dominante.  Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di bella  donna ; definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di sentimento » ! Scartate, almeno questa volta, le  poesie in cui il L. parla bensì diretto al nostro  cuore {Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma cantando se stesso non esce dall’ambito umano e sdegna  ogni elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal  caso, è legato alla parola del poeta, e solo la rielabora  in sé in quanto essa gli desti nel cuore un moto di passioni consimili che il cuore abbia provato esso stesso ».  Da escludersi infine i canti civili {AW Italia, Monumento  di ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un vincitore nel pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che « si  resta, sebbene con ampiezza maggiore  nell’ordine  voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il L. « canta all’aperto » ed effonde il canto dell’anima  al cospetto della natura: «vive con la natura, o almeno,  nella natura. E questa natura, poi, è quasi sempre serena ».   Qui il ])oeta Bertacchi, creatore del creatore, può  spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi ulteriori.  Ecco; 1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi  in cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta,  sono sempre evocati nei loro aspetti più belli ; soleggiati sono i suoi giorni; le sue notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica in  un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro,  riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza mattutina,  attraversata dal sole che entro vi trema sorgendo».  E questa presenza della natura « non è senza effetto per  noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà bene, contro  ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune, o  le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano  terribile dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei vuole,  seguirlo nei suoi tristi argomenti, veder quella bella  natura velarsi del dolore di lui, sentir vivo il contrasto  che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi, non  possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel  sereno che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e  festi in noi quasi a sé, quasi distinto dai sensi che il poeta  vi associa, congiungendosi, anzi, dentro di noi con quante  visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi si  raccolsero negli anni ». Che sarà anche, come si sarà avver-  t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana,  un senso ulteriore, che L. non ci mise (come ALIGHIERI (vedasi) della novella sacchettiana), ma non ha più niente  che vedere colla poesia del L. E dove pare si  accenni a un giudizio critico, non può essere altro che  una vaga e soggettiva impressione priva d’ogni valore.   Così il Bertacchi ci dirà che nel Sabato del villaggio  e nella Quiete dopo la tempesta « il poeta ha compromesso  il filosofo versandoci con troppa pienezza nel cuore  tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che trabocca dalle ore descritteci. Che, come giudizio, è un  errore, perché tutta quella poesia traboccante è l’incarnazione deU’ idea stessa del filosofo, che nel Sabato non  si esibisce già nella sentenza finale (« Questo di sette è  il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia; Diman  tristezza e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la  rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la  gioia d’una speranza guardata coi mesti occhi della provata delusione: è la soavità della fanciullezza ma non  quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange l’uomo  già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dileguate le speranze lusingatrici della prima età. E bisogna  non vedere questa pietosa malinconia, che prorompe da  ultimo, ma s’annunzia già dalla malinconica donzelletta  tornante dalla fatica dei campi sul calar del sole, cioè  chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un  dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende  la mano al filosofo. O. c., p. IO.  Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e 1 altro La vtla,  solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza, lasciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere  a queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una sospensione fluttuante, nella quale diresti che il poeta sia  perplesso sul proprio stato » >. Ora, il breve idiUio Alla \  luna non fluttua punto, ma esprime nettissimamente il  piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare l’età del  proprio dolore; il grato «rimembrar delle passate cose,  ancor che triste, e che l’affanno duri». E la Vita solitaria  fluttua soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e  la sintesi che ne è tema (neU’anima, s’intende, del poeta,  e quindi in ogni parte della sua poesia) tra la fresca c  solenne beUezza della natura e il sospirante solingo muto,  che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai miseri  lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni,   alla reina FeUcità servi, o natura »).   Ma in tutto il volumetto non si trova una pagina in  cui propriamente il Bertacchi affisi la poesia del L. invece di vagare nei suoi cari sensi ulteriori.   Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi, dicendo  per esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito col poeta, «poi è naturale, è umano che noi, da parte nostra,  riviviamo tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione  di rimpianto, quivi il poeta rievoca; che essi nell’anima  nostra, non afflitta da quelle cagioni, lascino pure qualcosa  della originaria dolcezza; è umano che le stelle dell Orsa  e le lucciole del giardino e il canto della rana remota e  j viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come sorte da noi, alle sensazioni già  nostre, ai retaggi deU’essere nostro»». Umano, troppo  umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà poesia sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la  poesia, per dir la verità, non so vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del Ber-  tacchi. « Ma il dono che L. fece a se stesso ed  a noi, godendo e mettendoci a parte di tante scene serene, non è il significato maggiore della complessa sua  opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa di  vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne  siano gli aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui, che era in se stessa, per lui,  elemento e ahmento di vita ». « Quelle mitologie che, sia  pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi la  visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura  d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme  all’ inconscio e aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa  la fanciullezza dei singoli, la giovinezza dei popoli ».  «Momenti e motivi reali, più che di pura idea, sono que’  tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi  di canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad  avvolgere in aura di poesia i temi son temi e temi  che, comunque, ci attestano come la stessa malia delle  sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio indugiar  sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri » ».   Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi  ama troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove  forse i sensi ulteriori gli soccorrono più lenti alla fantasia. Ecco, per un esempio, la chiusa d’un capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi  liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle  notti medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di  noi certamente, in qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi in cuore un’eco  di quei canti stellati, e ripensando al poeta congiunto  da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli  è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi  di oratoria ritmica ; alla quale potranno non mancare  gli ammiratori; ma in cui non direi che sia ricreato i]  L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio che  quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture L.ane che il Comitato della  Dante Alighieri di Macerata istituì nel 1927 presso quella Università;  nella cui Aula Magna questo discorso venne pronunaiato; quindi pubblicato nella Nuova Antologia. A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di  letture L.ane c’ è da essere assaliti da un certo  sgomento, per la responsabilità che si assume. E ciò  per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si rajjpresenta generalmente come un maestro di  pessimismo; ed alzare una cattedra a illustrazione del  suo pensiero e della sua poesia può parere perciò tutt’altro  che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire a  vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetticismo e di allargare il petto ad energici sentimenti di  fiducia nelle proprie forze e ad alte convinzioni di fede  nella vita che è chiamato a vivere. Oggi sopra tutto,  che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di grandi  doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare  nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella  educazione della gioventù a maschi propositi e metodi  di vita l’antica fibra del carattere nazionale. E sarebbe  questo il momento di diffondere nei giovani e nel popolo  gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui poesia  non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di questa  vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla?   Motivo grave di esitazione e titubanza; ma che, lo  confesso, non turba tanto l’animo mio quanto l’altro  che vi si aggiunge a far temere un pericolo nella istituzione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia anche una  elementare conoscenza della poesia L.ana, sa bene  che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e lungi dallo spegnere, ha infiammato nei cuori la fede nella vita, nella virtù e negl’ ideali  che fanno degna e feconda la vita umana degl individui  e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L., come già altri poeti e sopra tutto Dante, argomento di letture pel pubbhco, diventi anche lui materia  di quel malfamato genere letterario che troppo è stato  coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi  delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto  il suo tempo, e potesse ormai relegarsi tra le smesse abitudini dell’anteguerra. Giacché bisogna che gl’ Italiani si  persuadano che, se si vuol far davvero, e stare tra le  grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio, temibile,  realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla  testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e  morale, bisogna romperla col passato. Dico col jiassato  dell’accademia e della «letteratura», dei sonetti e delle  cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame e  colti signori in cerca di onesti passatempi, più o meno  noiosi; in cui ogni argomento era buono purché leggermente, discretamente, spiritosamente trattato, o agitato  con oratoria adatta a mover gli affetti e guadagnare  gli applausi: ma in cui né dicitore mai, né ascoltatori  debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di parlare o  di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con  tutta l’anima, e a pensare, a trarre da quel che si dice  o si apiilaudisce, conseguenze che siano norme di condotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si  dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un discorso da comizio, in cui oratore e pubblico, in buona  fede, e anche in mala fede, compiono un’azione e si preparano a compierne altre; e non vuol essere una predica,  che debba edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che  nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio,  nessuno vi si riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno  Si    ge ne torni a casa con lo stesso animo — vuoto con   è venuto alla conferenza.   Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si sviluppò  durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne  fuori il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapidamente per tutto il suolo del bel Paese, tutte quelle  accademie dai nomi strani e burleschi che attestavano  es«i stessi la frivolezza dei propositi e la spensieratezza  jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano; accademie,  che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia dalla  nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resistono al sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti  nioderni e alla storia, e vivacchiano oscuramente sul  margine dei bilanci dello Stato nelle provincie e anche  nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a danno  delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle accademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime  e priva d’un profondo contenuto e interesse religioso,  morale, filosofico, umano; poesia senza ispirazione, filosofia alla moda, erudizione per l’erudizione, scienza per  la scienza, nessuna fiassione, né anche nella letteratura  politica, che legasse il pensiero alla persona e la persona  al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui l’uomo  non era cittadino della sua patria, né padre della sua  famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito  innamorato di astratte forme, senza attinenza con la  pratica della vita e con la realtà degl’ interessi personali.  Cultura intellettualistica, di cervelli magari pieni zeppi  di notizie peregrine e di squisite nozioni e raffinatezze  di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né amori.  Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura,  cioè senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini  proni alla frivolità e agl’ interessi particolari, chiusi ad  ogni alto e generoso sentimento e ad ogni idea la cui  attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile, MaiXrZoni e L..  Chi non conosce queste debolezze dello spirito italiana  nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^  risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella  cultura e di quella letteratura, e con Parini ed Allieri  ha cominciato a sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo  e che poesia, come ogni altra forma d’ingegno, vuoi  dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa che  j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra  le genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe  stata una creazione effimera ed insignificante senza gl;  Italiani ? Cioè senza Italiani che cominciassero a unire  e a fondere insieme quel che avevan sempre diviso, l’in.  teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la scienza  e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola  finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica  e con tutta la vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il  dire e altro è il fare », per cominciare a prender sul serio  tutto, a lavorare tenacemente, a sentire come proprio  r interesse comune, a stringere la propria sorte a quella  della patria, a sentirla perciò questa patria come intima  a sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei  si muoia ? Chi non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori  si doveva pur rifare di dentro? Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma  venuto meno lo slancio morale di quell’età eroica, tale  aspirazione si attenuò e fu meno sentita; e nei riposati  tempi di pace e di raccoglimento succeduti al periodo  agitato della rivoluzione e della formazione del Regno,  certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla;  nel rifiorire della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del secolo scorso, in cui  r Italia parve godersi le prospere condizioni acquistate  con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed  elegante; e da Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le conferenze prima sulla vita italiana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu imitato  jn tutte le principali città, e i conferenzieri più brillanti  f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando  j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro  pagine patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva,  del lor^^ pubblico di dilettanti di cultura a buon mercato.  Perché a certe conferenze, con certi nomi, di dire che  l’ora é lunga a passare pochi hanno il coraggio.   L. non può esser materia di conferenze. Vi si  ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilissima, che cerca i luoghi solinghi e i silenzi della notte  dove il suo canto possa spandersi in una religiosa elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito; dove  il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a  fronte della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi  segreti del suo cuore. Vi si ribella la religiosa austerità  del suo spirito tormentato dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo com’era e orgoglioso  della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico e far  suonare la sua voce esile e tremante di commozione in  mezzo a un numeroso uditorio distratto e proclive a  mondani pensieri e a cure di frivola oziosità o di vanità  letteraria.   No, quanti amano il Poeta, non tollereranno che  anche L. venga alle mani dei pedanti, dei letterati,  dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto di  vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi  che fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla  sua vita con vigilante coscienza morale. E io inizio questo  corso formulando il voto e, per cyuanto è da me, fermando  il programma, che qui sia sempre vivo e presente  L. poeta, che è il L. degli uomini, e non L. dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pettegoli e dei perditempo. Giacché L. fu anche un erudito ap.  passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la comples.  sione e si precluse la via a ogni godimento della vita per  la furia con cui nella età più giovanile si gettò sugli studi  per puro amore di sapere. Per molti anni aspirò, finché  la perduta salute e la vista indebohta non gli ebbero  create difficoltà insormontabili, ad essere un filologo  consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia  degli accademici, fu anche lui studiosissimo, ancorché  ironicamente guardasse dall’alto, per la coscienza che  ebbe del suo più squisito gusto e della sua più perfetta  dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma  la sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella  letteratura. Se ne servì come di strumenti a vedere e  sentire più addentro nel proprio animo, e di grado in  grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la prova  più manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse  sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando  la vita, studiando gli uomini, speculando sulla natura e  sull’anima umana, indagando i destini dei mortali e le  forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel suo iiensiero  la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il suo  pensiero è una continua, commossa meditazione su se  stesso, in forma che ora rimane un filosofema, ora assurge a fantasma, e vibra e rifulge agli interni occhi  trepidanti.   L., con diversa temperie spirituale e cultura  diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio di  quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e  ne sente il valore e la serietà; profondamente differente  da quella anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti  italiani cominciarono ad accorgersi che nella stessa poesia  c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo; l’uomo, che è legaio    da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti della sua vita    a una divina realtà, governata da leggi che domano e  annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una  realtà, in cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo  da cui si diparte morendo, ma in cui deve inserire e  jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni sua azione,  ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o sentimento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello  jella morte. Anche L., razionalista e irrisore di  superstizioni e di dommi, è uno spirito profondamente  religioso, sempre faccia a faccia del destino: incapace di  abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di  prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso  è sempre un sorriso di austera, solenne mestizia, e si  scorge il pacato accoramento dell’uomo che non riesce  a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel mondo subbiettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso  dalla considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in particolare, si sforza di vincere il dolore. Per  questa sua costituzionale religiosità L. non fu  soltanto un poeta, ma fu anche un filosofo, allo stesso  titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam  così, di professione, ai filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini, essi vi risponderanno che  L. filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le idee  speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti  più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta personale, perché non furono fecondate da una sua speciale ispirazione. Accettò, riecheggiò,  Ria senza elaborare quel che accettò, senza svilupparlo,  ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità. In una storia della filosofia ei perciò non può trovar  posto; quantunque di lui non si possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura filosofica della  prima metà del secolo passato. In questo senso, d’accordo, L. non fu un filosofo.   Ma c' è un altro senso in cui si deve parlare della  filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia dei  filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può interessare  tutti gli uomini, e non essere una malinconica fantasticheria di gente che viva fuori del mondo. Ed è quello  per cui c’ è la filosofia di quelli che inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh che,  senza inventarne, li cercano questi sistemi nei libri dove  sono esposti, e leggono questi libri, li studiano, ne fanno  prò, li gustano, han bisogno di farsene nutrimento e  forza dello spirito, in cerca di risposta a domande che  sorgono spontanee dal fondo della loro anima, insistenti,  invincibili, e che essi perciò non saprebbero reprimere e  far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa  intorno a costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da  cui sono senza tregua assillati. Giacché, insomma, la filosofia, come la poesia, non è privilegio né monopoho dei  pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in fondo allo  spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto,  c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ interessi esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto  nelle esteriorità da non portare in tutto l’accento, per  quanto leggiero, della sua personalità; e c’ è chi si ripiega  e raccoglie in sé, e dentro di sé cerca, trova e coltiva il  germe della sua vita e del suo mondo.   In questo senso più largo e fondamentale il L.  fu squisitamente filosofo: e stette sempre anche lui con  gli occhi intenti, ansiosi, sopra il mistero della vita, quale  ad ogni uomo che sente e che pensa esso si presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il confuso agitarsi  passioni svariate che gli tumultuano incessantemente  pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può vivere  così spensierato e abbandonato all’ istinto da non avvertire che la sua vita non scorre tranquilla com’acqua  sopr^ un letto già scavato e terso. Sono sempre ostacoli  da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora  appagati e ondeggianti tra la speranza e il timore; e la  gioia offuscata sempre dal dolore, che, vinto, risorge in  mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna vicenda di vittorie  e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e disinganni,  giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire  totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo della  sorgente stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue  labbra assetate; il nulla, la morte. La morte, che ci atterrisce prima di colpirci, toghendoci per sempre e annientando intorno a noi tante delle nostre persone care,  con cui ci era comune la vita, in guisa che la morte loro  ci pare la morte di una parte di noi. E che è questa  morte ? e che questa vita che precipita fatalmente nella  morte ? Che è questo bisogno di cui viviamo, di non  arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad una  tutte le nostre speranze, disperde tutte le nostre gioie,  ci priva di tutti i nostri beni, ci chiude dentro mille ostacoli. ci combatte, c’ insegue, ci sbarra la via, e non ci  concede tregua finché non ci abbatta per sempre ? Nascere  è entrare in una lotta, che di giorno in giorno richiede  sempre nuove e maggiori forze, e una volontà sempre  più agguerrita, per vincere una battaglia sempre più  aspra. Svegliarsi ogni mattina è, presto o tardi, pronti  0 lenti, rispondere all’appello delle cose, della natura, del  destino, che ci attende, e ci spinge a nuove fatiche per  soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta la nostra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o men  difficile: ma per tutti è una scala, che bisogna salire;  salire sempre; da un gradino all’altro: sempre più  senza fermarsi mai.   Ma, appena l’uomo che ha un cuore, sente quest  affanno e scorge, anche da lungi, la tragedia e la catastrofe”  non può non interrogarsi e riflettere se a questa lotta ché  par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia forz.  sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi  confida a volta a volta di poter affrontare la lotta stessa  per conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita  sua, quale ei la vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia  mette in moto la sua attività; e se egli non debba aprire  gli occhi, e riconoscersi vittima del giuoco inesorabile  della natura, granello di polvere sperduto nel turbine, o  ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato  movimento non s’arresterà né devierà mai, e dentro i]  quale ogni sforzo di volontà non può essere, esso medesimo, al pari delle idee e dei sentimenti che lo sollecitano, se non un necessario effetto di una causa necessaria  predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in cui  si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa  neUa sua natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi  dentro di esso, tutt’uno con tutte le altre cose, anche  noi mossi dalla forza irresistibile del destino ? 0 siamo  noi veramente capaci di metterci di fronte a ciuesto  mondo, modificarlo con la nostra opera, con la nostra  volontà, e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo  naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo nostro innamorato dell’ ideale, instaurare una legge che sia  la norma del bene e di un mondo spirituale dotato di  un valore assoluto ? E se non fosse possibile questo  mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male,  e c è una verità che si oppone all’errore, come si potrebbe  pensare lo stesso mondo inferiore e quella natura spietata tutta chiusa nel suo meccanismo, la cui affermazione implica che si ritenga vera? E se a questo mondo superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera dello  spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità resping^n*^ contrario, se ne contrappone un altro che è  la nepzione della hbertà, come si farà ad ammettere  che sia libera la natura umana, circondata e condizionata da una natura che è l’opposto della hbertà ?   Pensieri, che il filosofo più esperto mette in formule  stringenti, e scruta a fondo; ma che confusamente, e  non perciò meno tormentosamente, affiorano in ogni  umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono la fede di cui ogni uomo ha bisogno per non  fermarsi e cadere. Giacché 1 uomo non dà un passo senza  credere di poterlo dare; senza pensare che c’è una mèta  innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona  per giungervi. E quando questa convinzione gli manchi,  e gli manchi del tutto, allora non gli resta che rifugiarsi  nell’ Èrebo, come la misera Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che pensano e sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno  invece sentì mai cosi acutamente come il nostro L.. nessuno vi pensò mai con tanta insistenza, e ne  trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il L.  se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta  in senso stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni  filosofiche non gli rimasero nella testa; ma gli scesero  al cuore, e \'i si abbarbicarono, e furono la sua persona,  lui stesso, la sua anima, 1 immediato sentimento, in cui  \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La sua concezione  della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche idee,  ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma  della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in  accenti e fantasmi di poesia. La quale questo ha di proprio, a differenza della scienza ragionata e del sapere  speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e  si stende in una tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e far sua, e viverne anche, ma elevandosi  sopra di sé e quasi uscendo da sé, e mediandosi, cioè  svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo vivente  della sua individualità, in guisa da parere che non senta  più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta  nella contemplazione del suo oggetto. Laddove la poesia,  lungi dall’alienare da sé il soggetto, lo stringe a se stesso,  e lo fa vedere immediatamente così come esso è, dentro  di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente nel  brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere  e nel suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato,  riflesso, ragionato e disindividuato. Lo scienziato cerca  e trova la verità che è di tutti, astrattamente obbiettiva,  in guisa che non par più né anche spettacolo di occhi  umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa;  e il poeta in^’ece non cerca e non trova se non se stesso:  l'amore o qual’altra passione gli detta dentro le parole  in cui egli si esjirime. In questa immediatezza, spontaneità e quasi naturalità dello spirito poetico è il segreto della miracolosa  potenza della poesia, raffigurata dagli antichi nella virtù  incantatrice della lira di Orfeo, che traeva a sé e trascinava non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere che  solo sentono. Perciò la poesia, quantunque richieda  anch’essa cultura e finezza spirituale, risultato di studio  e di educazione, s’appiglia al cuore dei semplici e delle  moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non  per virtù di persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, appunto, d’un tratto, immediatamente, quasi per divino  miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù diffusiva dell’arte  è senza paragone superiore a quella della filosofia.   Perciò quella filosofia, che fu nel L. sentimento  e diventò sublime poesia, ha una potenza infinitamente  maggiore di qualunque più sistematica filosofia; e se si  chiudesse nel gretto circolo di una concezione pessimistica della vita, non sarebbe, a dir vero, prudente accorgimento di educatori del popolo italiano erigere qui una  cattedra a commento ed esaltazione di essa. I filosofi,  per raggiungere la loro verità, devono salire l’erta faticosa del monte; e giunti alla cima, vi restano per solito  in una solitudine magnanima, anche a malgrado della  moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti  si traggono dietro il popolo, toccandone il cuore anche  lievemente, con quella loro arte che « tutto fa, nulla si  scopre ». L. è tra essi; ma materia del suo  canto è la sua filosofia.  E qual è dunque il contenuto di questa sua filosofia ?  Quello che abbiamo già detto dei problemi filosofici, che  spontaneamente sorgono dal fondo del pensiero umano,  ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita intellettuale e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei  problemi martellò il suo pensiero; e di quei problemi  vagheggiò soluzioni, che scossero profondamente il suo  animo. E sono i problemi fondamentah o massimi della  filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno  di assicurare all’uomo la fede che gli è indispensabile  per vivere: la fede nella propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha, e deve avere, di esercitare un suo  giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi un  suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi  ideali e non dibattersi vanamente in una rete di illusioni  e di sforzi infecondi. Bisogno, rispetto al quale ogni filosofia materiahstica, evidentemente, è una filosofia fallita;  la quale, logicamente, se l’uomo non si risolvesse da  ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad abbandonarsi all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come  ho detto, al suicidio.  Ora Giacomo L., ogni volta che si trovò a fare  di proposito una professione di fede, fu esplicito nel  manifestare la sua adesione alla filosofia sensualistica e  materialistica; e il Frammento apocrifo  di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è  una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per  altro, si ripercuote in una buona metà de’ suoi scritti  in prosa e in verso. Poiché da per tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente rappresentata nel  Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa  e non si cura dei desiderii né delle sofferenze umane;  natura grande, enorme, infinita, la quale racchiude in  sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che pretende di  contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla alle  proprie tendenze, conformarla a quei fantasmi di una  vita bella ideale, che egli si finge e pretende di far valere  in concorrenza della dura, quadrata realtà che lo fronteggia. Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni  umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio universale  delle leggi di natura: dove non c’è bene né male, ma  tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa  che lo determina, non può non accadere; e la stessa necessità ha ogni umano pensiero o volere, che non deriva  da un principio autonomo, che si faccia centro di una  vita superiore e indipendente, avente in sé la propria  misura, ma è effetto del generale meccanismo, che si  abbatte sulla così detta anima umana attraverso le sensazioni e gh appetiti che queste producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa, in  conclusione, la filosofia del L. ? Io \’i invito a riflettere che c’ è due modi di giungere a conclusioni materialistiche : uno proprio degh spiriti poco sensibih, che,  raggiunte quelle conclusioni, vi si rassegnano: le trovano  inevitabili, e si fanno un dovere, il cui adempimento  non costa a loro grande fatica, di accettarle senza reazione  di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che se  non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore  e la manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro,  e vi si ribellano con tutta la forza del loro sentimento,  che ò come dire della loro stessa personalità. I secondi  non riescono ad affisarsi tanto nella visione di quella  natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da restarvi come assorbiti, dimenticandosi affatto di queste esigenze, e cioè della lor propria natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce appunto da questo  stridente contrasto, di cui essi infine vengono a fare  l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto  vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una  parte, la natura disumana, in cui tutte le luci onde s’illumina la via dello spirito si spengono; e dall’altra,  questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde dentro  di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano  e vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di  una affermazione, in cui lo spirito umano manifesta la  fede che ha nelle proprie forze e nella propria capacità  di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al primo  in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì  di fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale,  meccanica, chiusa e impervia ad ogni idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi dello  spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata di  attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra.  E per ammettere questa, bisogna ammettere prima quella ;  senza la quale mancherebbe lo stesso pensiero, a cui si  chiede tale ammissione. E chi dice pensiero, dice libertà.  Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col nostro pensiero,  con la nostra volontà, crearci il mondo che ci sorride  alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose  belle e buone, a cui il nostro cuore tende con irresistibile  slancio ? E come spiegar l’ali, onde noi vorremmo innalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse urtano sul  muro di bronzo di questa materiale natura, che ci attornia e stringe da tutte le parti, dalla nascita alla morte ?   Ecco l’esperienza del L., ecco la sua lìlosofìa,  che è molto ]ùù complessa del semjjlicismo materialistico;  ed essa è il reale contenuto della poesia L.ana:  quella filosofia fatta sentimento e persona, che ho detto  esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale non  si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché  la ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il  cuore, è la negazione del materialismo; e poi perché egli  è un poeta, e come ogni poeta crede nel suo mondo, lo  prende sul serio; e questo suo mondo è la ])rova più  luminosa della sua capacità creatrice e della sua libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri principali  dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato, l’uomo  religioso, lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà  che prcesiste alla sua azione, alla sua ricerca scientifica,  alla sua preghiera o alla sua speculazione, che è in sé  quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo deve arrendersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e, prescindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente,  celebra la sua assoluta libertà, arbitro della nuova realtà  che egli si finge, e in cui vive, e si aliena dal mondo naturale dell’uomo comune e della sua stessa vita ordinaria:  sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga a  orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno e  del divino. La poesia del L. ribocca e freme di trepidante tenerezza per le vaghe immagini figlie dell’arte  sua: per quelle dolci parvenze che un po’ gli sorridono  e poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla corrente di quella disumana realtà, che ignora il dolore  che essa cagiona ai cuori teneri e gentili. E insieme con  le immagini belle, gli arridono tutte quelle che una volta egli dice le « beate larve », familiari agli uomini non ancora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non  ancora spinti dalla malsana riflessione alla disperazione  (ji quella mezza filosofia, che è il materialismo: le beate  lar\e, che allietano e confortano la vita agli uomini,  nelle antiche età, e nei primi anni della fanciullezza e  della gioventù quando non ancora si sono appressate le  labbra all’amaro calice della vita; e nelle prime ore del  mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha  riassaporato per anco la realtà, e se ne foggia con 1’ immaginazione una che lo anima e alletta alla nuova fatica.  Le beate larve delle illusioni naturali e necessarie : di tutte,  cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che quella  filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate  di un legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare  dallo spirito umano.   Perche illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea  onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita che noi conosciamo, risponde il L., ne è la negazione. Ricordate  il dialoghetto di un venditore d’almanacchi e di un passeggere? L’almanacco promette per l’anno nuovo tante  cose belle; ma il passeggere è scettico; «quella vita eh’ è  una cosa bella non è la vita che si conosce, ma (jueUa  che non si conosce; non la vita passata, ma la vita futura ».  La quale però un giorno sarà passata, e allora si conoscerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta sperimentata; brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro  è il mondo che vi finge lo spirito; il mondo, dice L., delle illusioni. Lì è la virtù che vince il male e  trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì è l’amore;  lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello non  è il mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga,  e diventi passato. La realtà realizzata, quale noi possiamo  averla innanzi a noi, ed effettivamente conoscerla, quella  ci disillude, e ci dimostra che la virtù è un nome vano.  e che tutte le più vaghe speranze e gl’ ideali più cari  finiscono nel nulla.   Tant’ è che Tuomo conchiuda o per condannare come  semplici ombre fallaci tutte le illusioni, e dire che la  vita non si può governare se non in rapporto al reale  all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o  per risolversi animosamente a dir no a questo mondo  reale (che è il passato senza futuro) e a governarsi con  l’occhio all’avvenire, dove lo trae la sua natura di essere pensante, e perciò creatore di ideali e vagheggiatore  di una vita superiore a quella puramente naturale. E L. dice questo no con tutta la forza del suo animo,  con tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto  proteso verso il futuro, verso l’ideale, e torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla legge fatale che  incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata necessità di morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il  brutto poter che ascoso a comun danno impera e V infinita  vanità del tutto. Per lui   Nobil natura è quella  Ch’a sollevar s’ardisce  Gli occhi mortali incontra  Al comun fato. E quanto a sé non cederà certo ; e alla morte può dire:   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato.   I.a man che flagellando si colora  Nel mio sangue innocente  Non ricolmar di lode. Non benedir. Solo aspettar sereno   Quel dì eh’ io pieghi addormentato il volto  Nel tuo virgineo seno. Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima umana  pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima jn uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e infelice.  Infelice perché grande; perché sentire la infehcità è solo  jelle anime grandi, che con la loro gagharda natura si  jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e regnano sovrane in quella superiore realtà che è propria  dello spirito. L. sa che la grandezza del suo dolore  si commisura alla grandezza del suo pensiero che lo sente  e analizza e ne fa materia al suo altissimo canto; e che  un’anima volgare e torpida non saprebbe provare tutto  il dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e irride.  L. sa che la coscienza dell’umana miseria è già  segno di grandezza. Sa che ancor che tristo, ha suoi diletti il vero: che l'acerbo vero, a investigarlo, dà un amaro  gusto che piace. E poi quando l’anima, disillusa e stanca  della vita che non mantiene mai le sue promesse, si riduca infatti all’estremo della infelicità, che non è la disperazione, ma la noia >, la morte ncUa vita, non dolore  né piacere, ma il sentimento della nullità, questo terribile privilegio degli uomini, a cui la natura non ha provveduto perché non ha neppur sospettato che l’uomo vi  potesse cadere; quella noia che, a simiglianza dell’aria  «la quale riempie tutti gl’intervalli degh altri oggetti,  e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri  oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi  de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche  allora l’anima non cade, non è vinta. Giacché, secondo  L., « la noia è in qualche modo il più sublime dei  sentimenti umani. Il non potere essere soddisfatto da ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della noia.  La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili,  anche i più crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha misto del  bene, a tutti fuorché alla noia» (Zibald.).  Zibald., Giuntile, Manzoni e L..  alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera;  considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che  tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio;  immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo  infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe  ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accu-  sg^re le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vóto, e pero noia, pare a me il maggior segno  di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura  umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le delusioni, su tutti i dolori, su tutte le  miserie, al di sopra della mole sterminata di quest’universo, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spengono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la  hbertà, quindi la possibilità di crearsi una vita superiore  degna delle più nobili aspirazioni connaturate all’animo  umano. Anche pel L., poca scienza pregiudica e  mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce la  fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura,  che la mezza filosofia del materialista ci rappresenta  in voley mutyignu, è pur quella natura che mette nell’animo nostro le illusioni; e se non sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo non  più contento delle condizioni naturali della vita che egli  dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore,  con la pietà, con tutti gli affetti gentili che riempiono  il cuore di dolci consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura che governa Tuomo, madre benigna e pia  nell’età dei Patriarchi, nei tempi oscuri e favolosi del  genere umano, e risorge amorosa nella prima età di  ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro immaginare la speranza nel futuro a cui egli va incontro;  questa natura, che nell’amore torna sempre a rinverdire  le speranze, e che ci fa conoscere una « verità piuttosto  che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,  quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuotato il calice amaro, torna a confortare l’uomo, amica e  consolatrice. La natura del materialista è via; ma non  è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11 savio torna  fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è alla  presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo, che tutto travolge e distrugge quanto a lui è più  caro, ma quello del pensiero, dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici della  filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indurrebbe il filosofo al suicidio, Plotino può rispondere :  <iPorgiamo orecchio piuttosto alla natura che alla ragione»'.  alla natura primitiva « madre nostra e dell’universo »,  la quale ci ha infuso un certo senso dell’animo, che è  amore degli altri e che ferma la mano al suicida ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero  della sua morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe  togliersi la vita, il filosofo più savio, il maestro, Plotino  dirà:   Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita dei mali della  nostra specie ! Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un  l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso  scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica   della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo : e   anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, cosi  molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò Sanctis paragonando Schopenhauer a  L., notava questo grande divario tra n filosofo  tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette  in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto  più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù,  tanto più ce ne accende vivo nel petto il desiderio e il  bisogno. Perciò la lettura del L. non sarà mai  pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà leg-  gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso  per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero,  è uno dei più sani e vigorosi ottimisti che ci possano  apprendere il segreto della vita operosa e feconda.   La morte, anche la morte, il simbolo della fatalità  avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare minacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni  speranza e d’ogni fatica, e della nullità della vita a cui  ci sentiamo tutti legati, la stessa morte al Poeta, nella  maturità piena della sua poesia, quando il suo animo  ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la  sua verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa  germana di Amore, che è pel L., come s’ è veduto,  ciò che dà verità più che rassomiglianza di beatitudine.   Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte   Ingenerò la sorte.   Cose quaggiù si belle   Altre il mondo non ha, non han le stelle.   Morte diviene una bellissima fanciulla, dolce a vedere; e gode accompagnar sovente Amore:   E sorvolano insiem la via mortale.   Primi conforti d’ogni saggio core.   Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica, come  merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo L.ano, Treviso, bongo e Zoppelli,  Il Poeta sente che   Quando noveUamente  Nasce nel cor profondo  Un amoroso affetto.   Languido e stanco insiem con esso in petto  Un desiderio di morir si sente:   Come, non so: ma tale   D’amor vero e possente è il primo effetto.   Il Poeta vuol rendersi ragione di questa coincidenza,  e non vi riesce. Ma ben sente che quando si ama, non ha  più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso nei suoi  limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che  fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore  scopre che la sua vera vita è di là da questi hmiti; e che  bisogna ch’egli perciò muoia a se medesimo, e spezzi  r involucro della sua individuahtà naturale, centro di  ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte  opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte  è liberatrice, affrancando lo spirito umano dai vincoli  onde ogni uomo è da natura incatenato a se medesimo,  chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e forze naturali,  incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi, entrare nel mondo morale, che è il mondo della libertà.   Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa  la materia del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che  attraverso il corso di queste letture, che inauguriamo,  tale concetto apparisca in luce sempre più chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane (Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali  di G. L., da me curata, Bologna, Zanichelli, Se si volesse considerare le Operette morali come una  raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso, sarebbe  tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non  sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite  con perentoria precisione dallo stesso autore innanzi alla  terza edizione iniziata a Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate la  prima volta a Milano, ristampate in Firenze coll’aggiunta del Dialogo di un Venditore di  almanacchi e di un Passeggere, e di quello di Tristano  e di un Amico; tornano ora alla luce  ricorrette notabilmente, ed accresciute del Frammento  apocrifo di Stratone da Lampsaco, del  Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio.  Intanto, non tutte le Operette furono pubblicate la prima volta a Milano; giacché tre di  esse, come « primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’ Antologia e quell’anno  stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione  di quelle che nella notizia testé riferita sono assegnate  dall’autore furori composte; perché l’autografo originale, che è tra le carte  L.ane della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed. Mestica, li,  fa sicura testimonianza con le date apposte alle operette  singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al 13 dicembre  di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo  in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima  fu concepito, o ne cadde il motivo fondamentale e inspiratore nell’animo del L.. Giacché con qual fondamento si toglierebbe l’una o l’altra delle Operette a documento di quel periodo spirituale che si suole infatti atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di Simonide (appartenenti probabilmente a quello stesso tempo), e l’epistola  Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se quei pensieri che sono caratteristici delle  Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già osservato j  che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che  sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti  staccati senza indicazione di tempo » 3, è segnato un  Ecco le singole date, già in parte pubblicate dal Chiarini, Vita  di G. L., Firenze, Barbèra, e da  me riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva tra  le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e della Morte; Proposta  di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e di Sallustio; Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ;  Dialogo di Malamhruno e di Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico; Dialogo della Natura  e di un Islandese; Dialogo di Tasso e del  suo Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro; Il Parini, ovvero della gloria; Dialogo di  Ruysck e delle sue Mummie; Detti memorabili di Ottonieri. Dialogo di Colombo e di  Gutierrez);  Elogio degli Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note,  Da N. Serban, L. et la France, Paris, Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle carte  napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo, sul proposito di quella  parlata della natura, all’uomo, che Volney le mette in  bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » dialogo, che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo  della Natura e di un'Anima) il quale, dunque, al tempo  di quell’appunto non era scritto. Pure nello stesso foglietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari degli  antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa  cosa del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e riflessioni sopra diversi luoghi di diversi autori, sull’andare  di quelle ch’io fo in un capitolo del F. Ottonieri»; ossia  nel penultimo capitolo dei Detti memorabili, che è delle  ultime operette del '24. Ora, se questi appunti sono pertanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in  qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura  e di un’Anima l’autore parlasse come di opera da comporre ? O egli non aveva neppur composti i Detti memorabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe messi  a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ?   Comunque, in altra serie di appunti, relativi, come  par probabile, a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti  segnati nel medesimo foglietto, s’incontrano, tra gli  altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade) Egesia  pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galantuomo e mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco,  da capo, il Dialogo della Natura e di un’Anima, ma accanto a un altro dialogo. Galantuomo e mondo, che l’autore  abbozza, per tornarvi sopra nel '24, senza condurlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto  deve risalire. E secondo lo stesso documento, contemporanei sono i disegni primitivi di altre  [Vedi abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto relativo,  riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte L.ane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12. quattro operette, due del '24 e due del '27. Giacché,  oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico,  qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia pisitanato  la prima idea del Dialogo di Plotino e di Porfirio > ; e nel  Salto di Leucade quella del Dialogo di Cristoforo Colombo  e di Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore quella  del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il documento  certamente dimostra che del Plotino e del Copernico,  scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo il  concetto, ma anche la forma in cui il concetto si ])re-  sentò alla mente del L., non è posteriore alle  Operette.   E c’ è altro. Stando alla cronologia dataci dai documenti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate  del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli Detti,  riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, ha dimostrato, in modo incontestabile, che in  questo scritto « liberamente il L. raccolse dal suo  Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici; certo  intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispecchiamento delle proprie opinioni, ma più col fine di  pubblicare qualche parte del materiale  accumulato giorno per giorno». Sicché s’è  creduto poter conchiudere che nell’ Ottonieri al L.  « venne fatto un centone, non un’operetta come le altre  organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti un paio  d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap.  Ili dell’ Ottonieri si legge :    > Egesia infatti è ricordato nel Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo e Pensieri.  Questo dialogo infatti originariamente recava il titolo di Dialogo di Filénore e di Misénore.   Luiso, Sui Pensieri di L., nella Rassegna Nazionale.  Dice che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa di  commettere infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno  apparenza di malvagità o crudeltà; come, a cagione di esempio,  in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo,  lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per  animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando  colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’inconsideratezza sia molto più comune della malvagità, della inumanità e simili; e da quella abbia origine un numero assai maggiore di cattive opere; e che una grandissima parte delle azioni  e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a qualche  pessima qualità morale, non sieno veramente altro che inconsiderati.    Idee che fin dall’ ii settembre 1820 L. aveva  sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri, scrivendo:   La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e  produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di esser  considerata come una delle principali cagioni della tristizia degli  uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo  c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so bastone,  passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo  a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir  nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel  giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa molte  volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui, senza  che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e  giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci penare il suo servitore alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole;  molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene  quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo e lo facciamo cosi alla buona; considerandolo bene, noi non lo faremmo.  Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e produce lo stessissimo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni  volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di produrre  quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia che  fare col tuo carattere Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, no  Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a  leggere;   Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo  inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene di  conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi  veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o  qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora  molta profondità, ed un abito grande di meditare, e molta memoria, per considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sempre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non  iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra  noi di scoprirvele.   E anche questo pensiero, quantunque in forma compendiata a mo’ di appunto, era già nello Zibaldone;   Noi supponiamo sempre negli altri una grande e straordinaria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari  che sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando  anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto a  qualunque altra cosa.   E il numero di simili riscontri è tale che pochi sono  i luoghi dell’ Ottonieri di cui non si trovi la prima prova  nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà dunque da dire  che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma definitiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sembrato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro  anni prima ?   Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri.  Anche del Parini è stato notato che la sostanza è già  nei Pensieri [ b Caratteristico  questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini;   Come città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi  onde altri venga all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e   V. tra gli altri B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, -  04, II, 42; e Losacco, in Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città  grandi; perciò le piccole sogliono tenere tanto basso conto,  non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa fama  che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e l'altre  in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per caso  qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e  di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica,  non tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse  volte, quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine  di quegli uomini, la più negletta e oscura persona del luogo. E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili luoghi,  che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti,  né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io  mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la  terra eh’ io soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun  poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano poeta, filosofo,  fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito di tutte le  lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una menoma  differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o favella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per  questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano  minore assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io  li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un  poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora  moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo si persuadevano che  essa mia dottrina non si stendesse niente più che la loro.   Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae origine  da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal L.  segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820;   Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio,  se ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò la  stima che ne faranno sarà infinitamente minor del giusto, sicché  relativamente considereranno quel tal pregio come molto minore.  Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero dedito agli studi,  credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e m’interrogavano  indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc., insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran  cosa, e per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano paragonabile ai letterati forestieri, malgrado  la detta opinione che avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo  lodarmi, un giorno mi disse: A voi non disconverrebbe di vivere  qualche tempo in una buona città, perché quasi quasi possiamo  dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro stima  scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno  del loro grado   Né soltanto la cronologia diventa un problema di  difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.  I quali però non sono possibili se non dove si consideri  ciascun elemento del pensiero del L. astratto dalla  forma che esso ha nelle Of erette. Che se si guarda a questa,  è facile scorgere, per esempio, la superficialità del giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri non  sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si badi, d’altra parte, a non prendere né anche  questa forma in astratto, quasi la forma speciale del  tale passo delle Operette, il quale abbia un antecedente  più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur  così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente  diversa). Anche questa è una forma astratta; perché  la vera forma assunta in concreto da ciascuna parte di  un’opera è quella tal forma soltanto in relazione con  tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale,  ossia di quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore  si trovò componendola. Sicché un centone si può certamente trovare anche in un’opera che abbia una salda  e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si prescinda da questa unità, e si cominci a indagarne il contenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, Pensieri, dalla cui somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare  che l’opera risulti. Che è quello che è stato fatto per le  prose L.ane da tutti i critici che se ne sono occupati, ora considerando e giudicando le singole operette  ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse  in una serie di frammenti facilmente rintracciabili in  altri scritti, in verso e in prosa, dello stesso L.  (dando l’idea d’un L. che ripeta inutilmente se  stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi del  secolo XVIII (in confronto dei quali poi tutta l’originalità dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che il  L. abbia avuto, il De Sanctis; se ha sdegnato  ogni ricerca analitica e mortificante di fonti e confronti,  fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’ inseparabilità  del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò della  necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera  nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde ogni  vero artista trasfigura la sua materia; non s’è guardato  tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti, la cui  serie forma il contenuto del libro, anzi che nel tutto,  nell unità, dove soltanto può essere l’anima e l’originalità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per  così dire, un L. in ciascuna delle operette, presa  a sé, invece di cercare il L. di tutte le operette,  che sono un’opera sola.   In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del  Venditore di almanacchi e del Tristano, con cui nel '32  l’autore volle tornare a suggellare il pensiero delle Operette, tutte le altre pullularono dall’animo del L.  nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e di  sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il  Copernico e il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei  vagheggiava il suo Tasso, il Colombo e fin lo stesso Ti-  mandro; e meditava insomma quegli stessi pensieri, che  presero corpo nelle Operette del '24; con le quah infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano  accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner,  che gh chiedeva scritti inediti da potersi pubblicare a  Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere aggiunti  alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il suicidio,  l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.  Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a  vostro piacere: solo bisogna eh’ io abbia il tempo di  farle copiare, e di rivedere la copia. Esse non potrebbero  facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma avvertiva subito,  che da soU questi dialoghi non potevano andare; e tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che  le mie due prose inedite abbiano un interesse sufficiente  per comparir separate dal corpo delle Operette morali, al  quale erano destinate»*. Quanto al Frammento  apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente posteriore alle altre prose compagne;  anteriore ad ogni tentativo fatto dall’autore per pubblicare le Operette. Alle quali, nelle edizioni parziali e totali  fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore non  potesse pensare ad includerlo a causa del crudo materialismo che vi è professato, c che le Censure non avrebbero lasciato passare.   Ma, lasciando per ora da parte queste cinque operette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi  e Tristano) che vennero successivamente ad aggiungersi  alle prime venti, è certo che queste venti, composte tutte  di seguito in un anno di lavoro felice, furono dall’autore  scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E quando  ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che  le singole operette potessero venire in luce alla spicciolata. Nel novembre del ’25 sperò poterle pubblicare  Epistolario, Firenze, Le Monnier,  * Epistolario, nella raccolta delle sue Opere, che un editore amico voleva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel disegno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani,  al quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un  editore: con tanto desiderio di vedere stampata la sua  opera, che scrive impaziente  a Papadopoli : « I miei Dialoghi si stamperanno presto,  perché se Giordani, che ha il manoscritto a Firenze, non  ci pensa punto, come credo, io me lo farò rendere, e lo  manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il Vieus-  seux il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli, mi passò il bel manoscritto che gli avevate confidato,  dal quale abbiamo estratto alcuni dialoghi, che troverete  riferiti nel n. 61 dell’Antologia, ora pubbhcato, eh’ io ho  il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio  fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato  del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccellenti scritti. Sento che queste Operette morali verranno  probabilmente pubbhcate costà, e ne godo assai pel  pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio fatte  per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un  giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu  altro che un saggio. Del quale L. scrive all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi stampati  ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio,  e però furono così pochi e brevi. E soggiungeva 1 « La  scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia saputa mise  l’ultimo per primo; affermando così che tra i dialoghi  c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo posto. Proponendo pertanto la stampa dell’opera intera all’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella veduto  [Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47.  » Nell' Epist. del L.   3 Epist., II, 142-43. il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ? E penetrato, ed ha avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella veduto il Saggio delle mie Operette morali ? Le parlai già.  in Milano di questo mio manoscritto. Ne abbiamo pubblicato questo saggio in Firenze  per provare se il manoscritto passerebbe in Lombardia.  Giudica ella che faccia a proposito per lei ?... Tutte le  altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve  ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto,  in quel manoscritto consiste, si può dire, il frutto della  mia vita finora passata, e io 1’ ho più caro de’ miei occhi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di quel  mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella  ha ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto.  11 fascicolo dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, ma l’editore non credeva di poterne tuttavia sperare  altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe provato:  intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il  L. subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi  sento molto lusingato e superbo del voto favorevole che  ella accorda alle predilette mie Operette morali. 11 manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma del  ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente  fitta di mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse  e potesse esserne l’editore.... La prego a darmi una risposta concreta in questo proposito tosto ch’ella potrà » i.  Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo Ricoglitore i dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali »,  scriveva all’autore il 1° aprile, « poi formerò un opuscolo  a parte che mi farà strada a pubblicar tutte queste, da  0 . c., Lei chiamate Operette, che lo saranno per la mole, non  pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il L. affret-  tavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella  stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella  assumesse Tedizione del libro intero ; che il 26 si disponeva  a inviargli : « Debbo però pregarla caldamente di una  cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i  manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più  di perder la testa che questo manoscritto, e però la supplico a non avventurarlo formalmente alla Censura senza  una assoluta certezza, o che esso sia per passare, o che  sarà restituito in ogni caso » ^ E il prezioso manoscritto  partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo Stella  j)oté  informare l’autore d’averlo ricevuto.  poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi  restano, vo leggendo le Operette sue morali, le quali  quanto mi allettano.... altrettanto temo che trovar debbono degli ostacoli per la Censura. Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore, per poi  stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di  tutte in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento  delle care Operette ? La proposta ferì al vivo l’animo del  L., che, a volta di corriere, il 31 rispose: «Se a  far passare costì le Operette morali non v’ è altro mezzo  che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante-  mente la prego ad aver la bontà di rimandarmi il manoscritto al più presto possibile. O potrò pubblicarle altrove,  o preferisco di tenerle sempre inedite al dispiacer di  vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubblicata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume     l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava,  conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti operette, nate come venti capitoli di un’opera sola.   All’unità della quale ei certamente mirò nell’ordinamento definitivo che fece delle singole parti, quando le  ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come  tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione  avvenuta nei tre dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti-  mandro doveva essere l’ultimo, egli avA^erte. Infatti era  stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure scritto  prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era  quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente  fin da principio era destinato al ventesimo o, comunque,  ultimo posto, che tenne nella edizione milanese del '27.  È invero un’apologià del libro; e l’apologià non poteva  essere se non la conclusione e il giudizio, che, nell’atto  di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma,  nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che L.ebbe da ultimo ragione di preferire, non soltanto il Timandro venne spostato. Infatti tra il Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico e il Dialogo della Natura  e di un Islandese, scritti successivamente, con un solo  giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno  frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio  familiare, a cui il L. pose mano appena finito  quello della Natura e di tm Islandese. È ovvio che senza  una ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed  è ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se non  negli scambievoh rapporti da cui questi dialoghi eran  legati, agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che i vari  scritti devono per lo più esser nati già con questi rapporti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero germoghava via via nella sua spontaneità organica; ma dove Cfr. sopra, p. io6, n. i.  una ripresa di idee già non sufficientemente svolte, e il  risorgere di un’ ispirazione che era parsa esaurita, traeva  l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che l’ordine  cronologico non corrispondesse più allo svolgimento e  alla coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto appena  levata la mano dall’ Islandese, nasce come un anello che  salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico;  e se l’autore scrive il Timandro,  bisogna pensare che, saldato così l’ Islandese agli antecedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere  esaurito il suo tema; credere perciò di potersi arrestare  a quella fiera rappresentazione finale AtW Islandese: e  quindi volgersi indietro a giudicare e difendere il libro.  Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse riattirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni,  e condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando  fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ; altre sei operette  in tutto, che s’ è condotti a pensare formino un gruppo  distinto, nato da questo risorgimento, seguito al Timandro, del motivo ispiratore delle operette. Ma tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’organismo e unità dell’opera L.ana, se questa unità  non si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero.  Com’ è pur vero che quando tale unità fosse messa bene  in luce con lo studio interno del hbro, potrebbe anche  apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato ad  argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine  non meno vero che non si trova quel che non si cerca;  e che l’unità delle Operette L.ane, ritenute generalmente una semplice raccolta, aumentabile (con la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto,  come tutti fanno), o riducibile (come pure han creduto gli autori delle varie scelte di prose L.ane) non si  è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti  questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne  essenziale.   Intanto, lo spostamento osservato del Timandro  epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scorgere un gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli  scritti, così come vennero quasi rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro, destinato ad epilogo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo distacco  formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia  la forma di un mito), e la sua rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di tutto il destino del genere umano  a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si può  a ragione considerare come un prologo; le diciotto operette intermedie, formanti il corpo del libro, si distribuiscono naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come  tre ritmi attraverso i quali passa l’animo del L..  Innanzi al terzo, nato, come s’ è veduto, da una ripresa  dell’ ispirazione originaria, si spiega il secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie,  (]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo  della Natura e di un Islandese. Precede, e inizia la trilogia, un primo grujipo, aperto dal Dialogo d’Ercole e  di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui  all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sottentra un eroe della potenza dello spirito immaginato  dalle superstizioni moderne, un mago, Malambruno, dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo. Farfarello.  Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo  insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o  fortuita quando si osservino gl’ intimi rapporti spirituali  onde sono insieme congiunte e connesse, in tale ordinamento, le diverse operette.   Ascoltiamo dalle parole stesse del L. la nota fondamentale di ciascuna operetta; e vediamo se le varie  note degli scritti appartenenti a ciascun gruppo non forniino per avventura un solo ritmo. Cominciamo dal  primo gruppo.   Ercole va a trovare Atlante per addossarsi qualche  Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi  secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco.  j(a la Terra da allora è diventata leggerissima; e quando  Ercole se la reca sulla mano, scopre un’altra novità più  nieravigliosa. L’altra volta che l’aveva portata, gli « batteva forte sul dosso, come fa il cuore degh animali; e  metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio.  Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un orinolo che  abbia rotta la molla »; e quanto al ronzare, Ercole non vi  ode uno zitto. E già gran tempo, dice Atlante, « che il  mondo finì di fare ogni moto o ogni romore sensibile;  e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse  morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse  col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre. È lo stesso  grido, come si vede, de La sera del dì di festa'.   Kcco è fuggito   11 dì festivo, ed al festivo il giorno  Volgar succede, e se ne porta il tempo  Ogni umano accidente. Or dov’ è il suono  Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il grido  De’ nostri avi famosi, e il grande impero  Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio  Che n’andò per la terra e l’oceano ?   Tutto è pace e silenzio, e tutto posa  li mondo, e più di lor non si ragiona.   Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la  Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa  questo perché alla Morte stessa: poiché i soh frivoli e  accidiosi costumi dei nuovi tempi possono spiegare i  « lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non stringono  soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol  morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e pgj.  cui il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e riscoperti dai filologi, « se in tutto non siam periti » t  La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per volta  ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi  che giovano al ben essere corporale, e introdottone o  recato in pregio innumerabih che abbattono il corpo in  mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo  nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa,  così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta  che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità  che sia proprio il secolo della morte ».   Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi, infranto  il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano macchine, e H secol morto può dirsi «l’età delle macchine».  L’Accademia dei SUlografi ne fa la satira nel suo bizzarro  bando di concorso per l’invenzione di tre macchine, che  restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta  costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa,  quale fu una volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna: quella donna, che fu  r ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata come  la « sua donna » da esso il L. :   Forse tu l’innocente   Secol beasti che dall’oro ha nome.   Or leve intra la gente   Anima voli ? o te la sorte avara   Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti ornai  Nulla spene m’avanza 3 .  Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv. 3-4.   » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna. fbbene, una macchina ne adempia gli uffici, essendo  «espedientissimo che gh uomini si rimuovano dai negozi  jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco diano  luogo, sottentrando le macchine in loro scambio. Questa  I la morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore,  la morte degh ideali che già fecero virtuoso e magnanimo l’uomo antico, finito con Bruto minore; il quale  non può sopravvivere alla maledizione scaghata alla  stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e  nei campi dell’ inquiete larve. Onde se un romano, e  5Ìa Catihna, può credere, secondo Sallustio, d’infiammare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo delle  ricchezze, ma dell’onore, della gloria, della libertà, della  patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore d’umanità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo  di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo,  a norma di rettorica, richiederebbe. La patria ? Non si  trova più se non nel vocabolario. La libertà ? Guai a  proferir questo nome. Di essa, dice il L., che ne  sa anche lui qualche cosa « non si ha da far conto ».  La gloria ? Piacerebbe, se non costasse incomodo e fatica.  Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa  «che gh uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni  occasione la patria, la hbertà, la gloria, l’onore ». Sicché  il testo è da restituire, per travestirlo alla moderna, facendo dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis, memi-  neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea spectacula,  epulas, scorta, animam denique vestram in dextris vestris  portare. Animam vestram, la vita: quella vita, che non hanno !  Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della vita   [Ancona, nel Fanfulla della domenica del 29 novembre  *895: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L.,  Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-08. e della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un  pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra  uno spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi  rito dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti che «gjj  uomini sono tutti morti e la razza è perduta ». Mancati  tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando  parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi nori  pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte  stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e  disordinando in mille cose; in fine, studiando tutte le vie  di far contro la propria natura » ; studiandole tutte con  queir « irrequieto ingegno, demenza maggiore » che « (juel-  l’antico error, di cui « grido antico ragiona », onde fu  negletta la mano dell’altrice natura, come il L.  aveva appreso dal Rousseau. Oh contra il nostro  Scellerato ardimento inermi regni  Della saggia natura ! Morto l’uomo; e «le altre cose.... ancora durano e  procedono come prima ». E l’uomo che presumeva il  mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto  invece crede fosse fatto e mantenuto per i folletti; come  lo Gnomo per gli gnomi ! La vanità umana pareggia essa  la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti spariti,  la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono  stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano  di nascere e di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura  non si commuove allo sterminio di sé a cui l'uomo è  tratto dal suo ardimento. Fu certo, fu {né d’error vano e d’ombra  L’aonio canto e della fama il grido  Pasce l’avida plebe) amica un tempo Inno ai Patriarchi. Al sangue nostro e dilettosa e cara  Questa misera piaggia, ed aurea corse  Nostra caduca età. Non che di latte  Onda rigasse intemerata il fianco  Delle balze materne, o con le greggi  Mista la tigre ai consueti ovili  Né guidasse per gioco i lupi al fonte  Il pastorei; ma di suo fato ignara  E degli affanni suoi, vota d'affanno  Visse l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta contento della vita spontanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura.  Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è  il principio della perdizione. E invano l’uomo cercherà  col pensiero di restaurare la sua vita e riconquistare la  dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo sa* *;  Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano  con piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo  servigio, lo riapprende da Farfarello, impotente a farlo  felice un momento di tempo. La felicità è la vita che si  V’iva sentendo che mette conto di viverla: è la vita col  suo valore. E il L. pare la intenda come un diletto  infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che ogni  uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai,  perché nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che  appaghi il nostro desiderio naturale. Onde il vivere sentendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta se non  dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda  l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra  vita ; e se vivere è sentire, « assolutamente parlando », il  non vivere è meglio del vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima conclu- [Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d' intendere  il Losacco, L.ana, in Giornale storico della letteratura italiana,  sione di quella premessa, che la felicità o valore della  vita consista nel diletto; il quale non può essere altro  che limitato, e quindi mai mero diletto, senza mistura  di amarezza.  Tale il concetto del primo gruppo delle Operette, che  pone l’animo del poeta in faccia alla morte e al nulla:  ossia al vuoto della vita, non più degna d'esser vissuta:  poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo  è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e  l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con  r irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma. Ed ecco il problema e il tormento dell’anima di  L.: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è  quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo,  che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo  avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere quello che  egli penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi  quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uomini morti e la natura viva, muta, indifferente. Problema affrontato nel Dialogo della Natura e di un’Anima,  il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima,  dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale  sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi,  e sii grande e infelice ». Giacché, come poi le spiegherà, nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle  di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e l’altra  cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle    I Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre co.se, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come  prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto  per loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna).   jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità proria; che è come se io dicessi maggiore infelicità»; e  l’uomo « ha maggior copia di vita, e maggior sentimento,  che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il  niù perfetto; e però è il più infelice. E il meglio è per  l’anima spogliarsi della propria umanità, o almeno delle  (loti che possono nobilitarla, e farsi « conforme al più  stupido e insensato spirito umano » che la natura abbia  jjjai prodotto in alcun tempo.   Di guisa che quella morte dell’umanità, che nei dialoghi del primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco, apparisce il destino dell’uomo : la  cui storia non può avere altra conchiusione che la rinunzia alla propria umanità. La quale, dice il poeta col  suo amaro sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia  e raccoglie nella Luna, come immaginò l’Ariosto di tutto  ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la  Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne domanda,  non solo la convince che l’immaginazione ariostesca è  semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo dimostra  che il linguaggio umano e relativo allo stato degli uomini,  che la Terra usa, non ha significato fuori di questa: e  che insomma non ha base in natura quello che gli uomini  considerano pregio della loro ^^ta, e che, non trovandolo  fondato in natura, riconoscono quindi mera illusione.   Ma il concetto più direttamente è trattato nella  Scommessa di Prometeo: scommessa perduta con Momo  (che è lo stesso spirito satirico pessimista con cui  L. guarda la \'ita nella sua vanità).'Perduta, perché  Prometeo deve confessare che alla prova il suo genere  umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto genere  dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali, gli era  fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro-  pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio della  vita, il più sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più oltre, quando a Londra  vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una porta  ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso su!  pino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto  e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti»: sciagurato padre, che per dispera-  zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso: (juan-  tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di  amore, e favorito in corte: ma caduto in disperazione  «per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto. Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è fatta  andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i  due seguenti dialoghi hanno questo argomento. Il Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico dimostra la vita non essere bene da se medesima, e non esser vero che ciascuno  la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama  come « istrumento o subbietto » della felicità, che è ciò  che veramente vale. E questa, guardata più da vicino,  consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle  affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non nel  puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far  essere (come ben si può dire) l’essere stesso. Non l’inerzia  e la vuota durata, ma la mobilità, la vivacità, il gran  numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il tempo  pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita  degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto meno  infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior  parte occupata, senza dolore né disagio ». La vita vacua,  che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte; anzi  peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso  Metafisico (che ha cominciato negando che la felicità sia  vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicita,  in fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il L. così sente)  non è vita; è la morte; quella morte di cui s’ è acquistata la certezza nelle operette del primo gruppo; e che  non è pura morte, ma la morte sentita; la morte nella  coscienza dell’uomo che non conosce altra realtà che  l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare  perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore  perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere il pieno;  la morte al posto della vita.  E questo tedio è la malattia, il segreto tormento del  Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal  ’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso  al L. come suo spirito gemello, al par di lui « miserando esemplo di sciagura: O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa  Tua niente allora, il pianto  A te, non altro, preparava il cielo.   Oh misero Torquato ! il dolce canto  Non valse a consolarti o a sciorre il gelo  Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda.   Cinta l’odio e l’immondo   Livor privato e de’ tiranni. .Amore,   Amor, di nostra vita ultimo inganno.  T’abbandonava. Ombra reale e salda  Ti parve il nulla, e il mondo  Inabitata piaggia.  Tasso medesimo, che non trova nel mondo  altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago  inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno  alla realtà; questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso  e del suo Genio ', e non si lagna già del dolore, ma della  noia, che sola lo affligge e lo uccide. La quale gli pare  abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli spazi  interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti  in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro  non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente.  Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai  piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però.  come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si  dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto»;  e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte  di dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona  del povero prigioniero immagine d’ogni uomo di fronte  alla immutabile natura — si viene via via votando cosi  del piacere come del dolore, e riempiendo tutta della  tristezza soffocante del tedio.   L’uomo prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio  dialogo del gruppo, in cui si presenta da capo la Natura  a render conto di sé all’uomo: al povero Islandese, che  la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se la  vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e  l’ha innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di  forme smisurate, seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva, di  volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi, con   10 sguardo fisso e intento. Perché, le chiede il povero  errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’  tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue  viscere », e « per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto o vi benedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita dell’universo è un circolo perpetuo di produzione e distruzione. Ma, riprende 1’ Islandese, poiché chi è distrutto  patisce, e chi distrugge sarà distrutto, « dimmi quello  che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova  cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con  danno e con morte di tutte le cose che lo compongono ? E prima di aver la risposta 1’ Islandese è  mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri dall’ inedia,  che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel  giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo, è la Natura che al principio ha detto  aU’anima: Sii grande, e infelice. La vita infatti   È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché vuota;  e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa  Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza valore, non appena con la sua  coscienza si stacchi dalle cose, e vi si contrapponga.  L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto  nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima,  il sentire) non ha posto nella natura, che è poi tutto.  Perciò l’anima è vuota, e la vita è tedio. E qui potè parere al L., come osservammo,  di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le facili  critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso  libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro.   Ma poi considerò che la sua dimostrazione non era  veramente perfetta. Il dolce canto non era valso a consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare  Panimo addolorato ? Gino Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al grande  Recanatese b scrisse una volta. L.comincia  uno de’ suoi Dialoghi, inducendo la natura che scaraventa nel mondo un’anima con queste parole:  Vi\d  e sii grande ed infelice.  Io per me credo proprio il  rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non  in quanto sono esse piccole £ cosa facile esser grandi  uomini, se basti a ciò essere infehci, ed L. insegnò a molti la via della infelicità; ma non l’aveva  imparata egh quando produsse quelle canzoni per cui   Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene sensazioni  profonde di alcuni aspetti dell'arte L.ana, raccolto nel volume  La donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della  nuova Italia, Lanciano, Carabba,  Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il De Sanctis doveva osser\’are  più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e nei lini della  vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riempiuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca immaginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa,  cevano materia di diletto quello stesso soffrire. Egli aveva  la forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione  e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato  conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza  di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie,  e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino  il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua  anima di artista e immaginare Bruto e Saffo, non c’è  pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice  del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? Ma né  il Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita  al L.. È suo questo pensiero vero e profondo ; L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento  vivo della noia universale e necessaria ». E suo è ciuesto  altro che lo precede ; « Hanno questo di proprio le opere  di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente  e facciano sentire 1 inevitabile infelicità della vita, quando  anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad  un animo grande, che si trovi anche in uno stato di  estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere  disgrazie servono sempre di consolazione, raccendono  l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro  che la morte, gh rendono, almeno momentaneamente,  quella vita che aveva perduta » I Studio su L.. Napoli, Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo  ora bene che, spente che sieno le passioni, non resta negli studi aura   Ebbene, sentire ripullular questa vita, che il raziocinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il bisogno  (ji riprendere la dimostrazione. L. non affronta  nelle Operette, né in altro dei suoi scritti, il problema di  questa vita incoercibile che risorge dalla sua più fiera  negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà, non  superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto  l’argomentare della sua filosofia non genera la convinzione che ne dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma  la mano di Bruto contro se stesso, e fa gittare dalla misera Saffo « il velo indegno », per rifuggirsi ignudo animo  a Dite, e così emendare il crudo fallo del destino. L’amor  della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima  che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno incontro  i grandi, « sono ricompensate abbondantemente dalla  fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi  spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricordanza che essi lasciano di sé ai loro posteri.   Ebbene, questa gloria, che già non arride all’anima,  quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure  agli occhi del L. questo mondo di morti, in cui  gli sembrava di vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso,  potrà esser « vissuto ozioso e disutile, e morto senza  fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa gloria,  che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto  più sentiranno la loro infehcità, e più quindi saranno  infelici, è la lode che nell’animo degli altri e pei secoli  riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli alla loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la soddisfazione  della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per Taddietro,  finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non potevo comprendere, Epist,,-- propria grandezza nella coscienza felice del suo genio.  La sua sostanza è veramente in questa lode interna e  soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e ferma, e pare consolidi il valore onde  il genio vede illuminata la propria opera. L.,  nudrito la mente dei concetti classici e delle idee materialistiche, cerca la realtà di questa gloria,  in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte  le miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in  fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza. E  perciò si trova in faccia al problema del valore tuttavia  superstite della grandezza spirituale, veduto in questa  forma; l’anima grande e infelice è destinata essa alla  gloria ? o la speranza è fallace, come tutte quelle che  ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze? ' Ed ecco il  Farmi, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto  di questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel  mondo presente, da farla apparire mèta inattingibile.  Talché vien meno anche questa aspettazione, e al grande  non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga,  con animo forte, adoprandosi nella virtù, perché la natura stessa lo fece nascere alle lettere e alle dottrine.   Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si  possa chiedere alla stessa eccellenza dell’animo, quando  altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si vegga  da quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual  porto rimane allo stanco spirito umano? Vivere infeUce ?  Dovecanterà: O speranze, speranze; ameni inganni  Della mia prima età ! sempre, parlando.  Ritorno a voi; ché per andar di tempo.  Per variar d'alletti e di pensieri,  Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,  Son la gloria e l’onor; diletti e beni  Mero desio; non ha la vita un frutto.  Inutile miseria. E sia; ma se non si può né anche farsi un monumento  della propria infelicità ?   Sola nel mondo, eterna, a cui si volve  Ogni creata cosa.In te, morte, si posa  Nostra ignuda natura.   Lieta no, ma sicura Dall'antico dolor.   La risposta viene dai morti, che si sveghano per un  quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descrivono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale  vivono immortah; senza speme, ma non in desio, come  le anime del limbo dantesco:   Profonda notte  Nella confusa mente  Il pensier grave oscura;   Alla speme, al desio, l’arido spirto  Lena mancar si sente:   Così d’affanno e di temenza è sciolto,   E l’età vote e lente  Senza tedio consuma. Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza sentimento. Vero porto, in cui il povero Islandese finalmente  avrà pace, e in cui si può giungere in un languore di sensi  senza patimento, com’ è degli ultimi istanti della vita,  quando sopravvive solo un senso « non molto dissimile  dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del  sonno, nel tempo che si vengono addormentando.  Dolce morte hberatrice ! Ma prima che la morte ci  abbia sciolti dal tedio ? Filosofare, come Filippo Ot-  tonieri, il socratico, che « spesso, come Socrate, s’intratteneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni  suoi familiari, sopra qualunque materia gli era somministrata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre.  non per farne trattati (ché, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la filosofìa in iscritto e irrigidir]^  in formule che non risponderanno piti ai mutevoli bisogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e  senza illusioni la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando  ogni vana querimonia: come aveva detto Spinoza: non  ridere, non liigere, neque detestari, sed intelligere. Questo  r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile e  morrà senza fama, ma « non ignaro della natura né  della fortuna sua »>. E con la sua pacata magnanimità e  la sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate  anche in questa modesta, anzi umile coscienza del sapere, e quindi, per lui, del potere umano. L’ Ottonieri  vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e persona.   Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia ?  Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte vegliata sull’oceano .sterminato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando all’amico  che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, ha posto  la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem-  phee opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli  soggiunge, « quando altro frutto non venga da questa  navigazione, a me ]iare che ella ci sia profittevolissima  in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia,  ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che altrimenti  non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,  come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan-  dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di  Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano,  per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io  non so se egli si. debba credere che ottenessero questo  effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno  per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo,  avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o  pure avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna  pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla  fxipe di Leucade. E navigazione è ogni rischio della  vita, ogni azione eroica. O filosofare, dunque, come Ot-  tonieri; o navigare come Colombo, e far guerra al tedio,  P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce  ne liberi.   E lo stesso giorno * che finiva di scrivere il Dialogo  a Colombo e Gutierrez  L.,  nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza  del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé  l’attività, di questa grandezza felice, mette mano  al bellissimo Elogio degli uccelli: Urica stupenda, sgor-  gatagU dal pieno petto, al guizzo d’una immagine Ucta  e ridente: di queste creature amiche delle campagne  verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e lucenti,  del paese bello e dei soli splendidi, delle arie cristalline  e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e rasserena  e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col  canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena  d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una  gioia. E ci fanno amar la natura, che ebbe un pensiero  d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali il  canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ricreare gU altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario  in luogo alto ; donde ella si spandesse all’ intorno per  maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di uditori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che il  poeta riceve da questa vaga immagine degU ucceUi,  che è già appagato il desiderio finale di questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in  uccello, per provare quella contentezza e letizia della  loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia ? Cfr. Pens.  E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di cui parlano  alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e tocca  colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vibrante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della  vita, attenuando bensì il tono della lirica precedente, c  smorzando l'entusiasmo, al quale mai come in questo  caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e additandogli  anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la morte  a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente,  ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione  del puro e frizzante aer mattutino, ravvivatore e rin-  francatore. Sensazione già nota al Poeta:   La mattutina pioggia, allor che l'ale  Battendo esulta nella chiusa stanza  La gallinella, ed al balcon s’affaccia  L’abitator de’ campi, e il sol che nasce  I suoi tremuli rai fra le cadenti  Stille saetta, alla capanna mia  Dolcemente picchiando, mi risveglia;   E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo  Degli augelli sussurro, e l’aura fresca,   E le ridenti piagge benedico. Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno;  « Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton-  sene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma  della vita : riducetevi dal mondo falso nel vero ». La fiera  soma! Meglio, meglio dormire, e non destarsi; ma verrà  la morte a liberar dalla vita. Ad ogni modo », dice il Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c  canta questa corsa universale alla morte, « ad ogni modo,  il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più  comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella  loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne  La Vita solitaria    producono e formano di presente; giacché gli animi in  quell’ora eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono  disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali.  Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta  uovamente neU’anima la speranza, quantunque ella in  niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la speranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì nella  disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita  dell'universo al giorno, che comincia col mattino ma va  alla notte, e alla vita umana che muove dalla heta giovinezza incontro alla vecchiaia e alla morte: e se termina annunziando che tempo verrà, che la stessa natura  sarà spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima  empieranno lo spazio immenso »; il dolce gusto della speranza mattutina e giovanile non è distrutto: perché  quel tempo è molto remoto e (secondo avvertì più tardi  l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà  mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mattino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo. Le operette dunque del terzo gruppo ricostruiscono,  nella misura e nel modo che si può secondo L.,  quello che le prime dodici hanno abbattuto. Ricostruiscono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche  la speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo  gruppo ai precedenti; e fu ritirato dopo le prime due  edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita del secondo gruppo, poiché tra la Storia del genere umano e  il Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo rifiutò e gli sostituì il Frammento di Stratone, collocato al  diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora il gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e di un'Anima  e il secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine del-  l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’interpretazione metafisica che da ultimo il pensiero, ripiegatosi su se medesimo, diede della propria intuizione  filosofica: concezione, sullo stile delle teorie cosmologiche greche più antiche, di un universo go\'ernato da  pure leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in  fondo a ogni concetto pessimistico del L.; onde  si tenta suggellare, nell’ intenzione del Poeta, l’immagine  di quella Natura che eternamente passa, e che negli ultimi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano mirabile  e spaventoso.   Si noti che il Sallustio fu conservato tra le venti operette primitive anche nell’edizione di Firenze.  quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi dialoghi  del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti che  in questa edizione invece non potè entrare il Frammento  di Stratone molto probabilmente per le difficoltà già accennate, derivanti dalla materia di esso, poiché è il solo  scritto crudamente materialistico, che sia tra le Operette.  11 che, se si pensa pure al fatto che il Frammento fu scritto quando L. aveva tuttavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e a\ rebbe  già fin d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa  aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico  del hbro), dimostra all’evidenza che i dialoghi fiorentini, che sappiamo scritti a Firenze due  anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene  ad aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi:  come avverrà del Frammento, appena l’autore crederà  potere e dover tralasciare il Sallustio, e sostituirlo.   Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde il Mestica    I Cfr. Chi.\rini, O.C., Scritti letter. di G. L., perché gli parve troppo scolastico e di materia non   [ abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso contenuti siano conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha poco  movimento e scarso valore artistico », osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e sull’attrattiva dello  strano e del fantastico prevale nel lettore un senso d’incredulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo,  e forse anche per rispetto a Sallustio medesimo. Forse  anche col passar degli anni, il L. non credè più  che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e per  opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è accostato al  L vero questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si sarà  I pentito delle parole crudissime che usa parlando della  I libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli   f lamenta la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in   modo più vago ». Il Sallustio, in questo cinico pessimismo,  contraddice al motivo fondamentale delle Operette: logico  nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei  sentimenti più profondi, onde la personahtà del poeta  abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva  a un suo particolar significato, siffatti pensieri. I quali  non sono qui un sistema filosofico astratto, ma l’alimento  segreto di un’anima che si riversa ed esprime in una  poesia di grande respiro, la quale in tutta la sua unità  risuona all’anima del lettore come una musica, secondo  che osservò un amico del poeta, il Montani i, appena    I operette morali di L.,   ’ Le prose morali di L.Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaioche incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera d’opera  nuova, di entrare in teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi un  motivo musicale diverso dal vero, trovar men bello e men significante  ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? — Quando VAntologia, or  son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L. ancora inedite....  io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il motivo della  musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette insieme unite,  mi parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne  scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava  potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo rrio  tivo fondamentale facilmente si riconosce nel preI^^]i^^  e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua naturale cor  nice la trilogia delle operette : ossia nella Storia del genere  umano e nel Timandro: due operette, che sono affatto  estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di tutte  le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re  qua e là s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e  d’entusiasmo; a quello spirito, che si può definire con le  parole stesse con cui il L. ritrae se medesimo in  una lettera al Giordani  (del tempo  in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone l’estremo  termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al genere degli studi che io fo, come sono mutato da quel  che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga  di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo  e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché  il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio  di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria  degli uomini e delle cose, e di inorridire freddamente,  speculando questo arcano infelice e terribile della vita  dell’universo ». Lo stesso animo, non altrettanto felicemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tuttavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli :   Ben mille volte  Fortunato colui che la caduca  Virtù del caro immaginar non perde  Per volger d’anni; a cui serbare eterna  La gioventù del cor diedero i fati qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di del  Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla camera del suo  amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette del L. sono  musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più d’una  osservazione notabile.  SuU’amicizia del  L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi L.ani, Firenze, Le Mounier,    (si ricordi il Cantico del Gallo silvestre)]   Della prima stagione i dolci inganni  Mancar già sento, e dileguar dagli occhi  Le dilettoso immagini, che tanto  Amai, che sempre inlino all’ora estrema  Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.   Or quando al tutto irrigidito e freddo  Questo petto sarà, né degli aprichi  Campi il sereno e solitario riso.   Né degli augelli mattutini il canto  Di primavera, né per colli e piagge  Sotto limpido ciel tacita luna  Commoverammi il cor; quando mi fia  Ogni bel tate o di natura o d’arte.   Fatta inanime e muta; ogni alto senso.   Ogni tenero affetto, ignoto o strano;   Del mio solo conforto allor mendico. Altri studi men dolci, in eh’ io riponga  L’ingrato avanzo della ferrea vita,   Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi  Destini investigar delle mortaU  E dell’eteme cose.. In questo specolar gh ozi traendo  Verrò: che conosciuto, ancor che tristo.   Ila suoi diletti il vero.   Questo era stato il suo ideale nelle Operette] speculare,  scoprire, frugare la miseria degli uomini e di tutto, e  inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che  nel '25, nel caldo ancora dell’opera, poteva credere di  aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno dopo  egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consapevolezza, sente che il suo petto sarà forse un giorno, non  è ancora, al tutto irrigidito e freddo; non è eterna la  gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma non è ancora  del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo inorridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso  e di eloquente è un desiderio, un programma, un propo sito; ma non è, né può essere il suo stile, poiché né ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto senso  ogni tenero affetto ignoto e strano. E questo sente liené  e proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di Eleandro; dove a Timandro che, secondo la filosofia di moda  fa alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è capace'  ed è insomma un ottimista, il pessimista, che sente invece  per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della Ginestra  protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia  sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono  nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva Oggi, benché non sono  ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né  forse anco tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non  mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me  stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è possibile ». Dove ognun vede che realmente certo invinciliile  pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza delle  sue dottrine; e si ripigha subito infatti: « Contuttociò  sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che  esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per  poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi  possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si ribella alla negazione che se n’ è voluto fare, e s’appella  all’ intima e irreprimibile attestazione del cuore. Altro  che freddezza e petto irrigidito! E da ultimo Eleandro  conchiude; «Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità  dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per consolarmene  col riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli stessi  libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo studio di  quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte  o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo,  [Ed ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non doverlo più intitolare, come aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli  non era davvero quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero Filénore poteva dirsi l’ottimista. iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi:  laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,  benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,  magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o privato;  quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che  danno pregio alla vdta; le illusioni naturali dell’animo;  e in line gli errori antichi, diversi assai dagh errori barbari; i quali, solamente, e non quelli, sarebbero dovuti  cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da  queste illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si  volgono gh occhi del L., il mondo di Stratone  da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese, come non è  spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza; ma  non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore  del Poeta. 11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro;  e a dispetto di quella natura, che è il vero, ama gli uomini  e la virtù, dichiarandola un’illusione, ma naturale, e  quindi vera, quantunque contradittoria a quell’altra natura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire freddamente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di  sopra della universale miseria, sentita come tale, e non  assentirvi, non semplicemente intelligere, come Spinoza  avrebbe voluto.   Così nella Storia del genere umano, vero preludio  alla sinfonia delle Operette, quando l’uomo è pervenuto  all’ uno fondo di cotesta miseria, rappresentato dall’ap-  parire in terra della Verità, spunta egualmente una  divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei  mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è  mai spenta, commosse, non è gran tempo, la volontà  di Giove sopra tanta infehcità; e massime sopra quella  di alcuni uomini singolari per finezza d’ intelletto, congiunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali  egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più    IO.(‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi.     che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione  di quel genio»: ossia appunto, della Verità. Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità, propose agjj  immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a  visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare  in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente  quelli che dimostravano essere, quanto a se, indegni  della sciagura universale. Tacciono tutti gli altri Deima si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo  massimo iddio », che « non prima si volse a visitare i  mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della  Verità ». Di rado egli scende, e poco si ferma, e perché  la gente umana ne è generalmente indegna, e perché  gli Dei molestissimamente sopportano la sua lontananza.  EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la sua  grandezza. La quale perciò è condannata sì all’ infelicità  del vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore.  « Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri  e più gentih delle persone più generose e magnanime;  e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina  e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti sì nobili, e  di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa  al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che  rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge  due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima  istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non  gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché  la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve  intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere  pieni del suo nume vince per se qualunque più fortunata  condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Ed  ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur freddamente,  allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è calda  (iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità  (quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che né  egli può respingere, né altri egli ha consigliato mai a  respingere. « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già  segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio  riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo  Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque  inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente  offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei  geni di contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra  logica non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta  questa natura, la quale mette in cuore il bisogno della  virtfi, e la fa apparire poi stolta a Bruto. Infine, quella  stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e ringagliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo  Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza  eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli  uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare,  suscita e rinverdisce, per tutto il tempo che egh vi siede,  l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli  anni teneri. Molti mortah, inesjierti c incapaci de’ suoi  diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano  come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non  ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun sup-  phzio ne prenderebbe: tanto è da natura magnanimo e  mansueto.   Qui non c’ è satira, né riso, né fredda anahsi; ma  la più ferma fede e l’anima stessa del Poeta, che con la  pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di Elean-  dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto  amore tutta la infehcità degli uomini e delle cose, e la  purifica e sana nel gran mare tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una perpetua  giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e  della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con  nodi divini, e della bellezza, della libertà, della patria,  e di tutte le cose nobili e alte che fan grande l’uomo.   Questo amore, che dà piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la  vita umana, questo è il vero spirito delle Operette morali. Pessimista, sì, ma alla Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un  roscau, le plus faible de la nature] mais c’est un roseau pen-  sant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser ;  une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour le tuer. d/a/s,  quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore plus  noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et  l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\  sicché la grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU  misérable E il L. nell’agosto del ’23, alla vigilia  delle Operette, e quando il concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza  e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e nobiltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.  Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si sente  essere infinitesima parte di un globo che è minima parte  degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in  questa considerazione stupisce della sua piccolezza e profondamente sentendola e intensamente riguardandola, si  confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito  nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova della  sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua  mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I Pensées, (Brunschvicg).    è jiotuta pervenire a conoscere e intendere cose tanto  superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della  esistenza e delle cose. Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità  sulla trista natura il L. non smarrì mai; ed è  l’anima di tutta la sua poesia, in cui queste Operette  rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro insieme  e in ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio  a questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che  tutte le investe e compenetra. Tutte, ad eccezione del  Sallustio, che è negazione fredda, senza l’orrore, la ri-  beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato da  amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questo  parmi il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo. Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva  ispirazione diede il Copernico e il Plotino, venutisi quindi  ad aggiungere alle prime Operette già formanti un organismo, r ispirazione non era punto mutata. Giacché il  Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso autore,  la nullità del genere umano; e la dimostra ripigliando  un’ idea che contro i Timandri medievali attardati aveano  già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle  ceneri e Galileo nei Massimi sistemi] donde la conclusione necessaria che Porfirio ricava nell’altro dialogo  (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica di  tutta la parte negativa delle Operette) : che sia ragionevole uccidersi. Ed egh vince a furia di argomentare  (movendo da premesse, che son quel che sono, ma a lui  paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino. Ma  Pensieri, Plotino può opporgli una sapienza assai più profonda  più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragion^  1 accomodar l’animo alla vita : certamente quello è u ^  atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuoP  elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostr^'  che secondo natura uomo. Perché contro natura e contro umanità il suicidio  ancorché conclusione di logica inesorabile? Porgiam’orecchio, dice Plotino, «piuttosto aUa natura che alh  ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre  nostra e deU’universo; la quale se bene non ha mostrato  di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata  assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi  coir ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata  ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o  con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia  grande 1 alterazione nostra, e diminuita in noi la jjo-  tenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla  né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in  ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado  che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere  altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile;  pur si commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai  saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha  prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il  raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne.   E credi a me, che non è fastidio della vita, non  disperazione, non senso della nulhtà delle cose, della  vanità deUe cure, della solitudine dell’uomo; non odio  del mondo e di se medesimo, che possa durare assai:  benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,  passato un poco di tempo, mutata leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un  subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a  notare; rilassi il gusto della vita, nasce or questa or  quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella  loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura;  non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,  al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino, questo  senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è  evidente che non la filosofia negativa, che spazia dal  Dialogo d’ Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo  silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel Copernico,  opera di puro intelletto, è la somma della sapienza L.ana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata  stoltezza dalla natura e da questo « senso dell’animo ».   Senso dell'animo, che è sempre amore per L. Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche  un bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare:  « E perché », chiede Plotino, « anche non vorremo noi  avere alcuna considerazione degh amici; dei congiunti  di sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori, della  moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali  siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo,  bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in cuor nostro  dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto  di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona  cara o consueta, e per l’atrocità del caso ? ». E dice la  parola, che si va cercando attraverso tutte le Operette,  ma di cui può dirsi quello stesso che Tacito dell’ imma-  Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato l’importanza che questo  «senso dell'animo» ha nel sistema dello spirito L.ano, come  principio di redenzione dal pessimismo, è stato il prof. Giovanni  Negri, nelle sue Divagazioni L.ane (6 volumi, Pavia, 1894-99),  passim, e specialmente voi. V, pp. lys-yy.  1gine di Bruto mancante ai funerali della sorella: prae-  fulgebat eo ipso gitoci non visebatiir. « E in vero, colui che  si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno  degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta  per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il  genere umano: tanto che in questa azione del privarsi  della vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo  il men bello e men liberale amore di se medesimo, che  si trovi al mondo. Dunque quella grandezza non è infelicità; perché  l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe  se vivesse per la felicità e si attenesse quindi al calcolo  dell’utile. Ma la vera vita è non sembianza, sì verità di  beatitudine se è amore, in cui l’uomo non distingue più  sé dagli altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa  è la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso L., che non è più il dolore incomportabile che ci  fa invidiare i morti, ma questo amore che ci stringe ai  viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di  uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice  al suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda;  non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci  ha stabìhta, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e andiamoci  incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente;  per compiere nel miglior modo questa fatica della vita».  Questo amore, che ci regge e riempie la vita, ci conforta  la morte e ci abbellisce l’idea di questo mondo, da cui  non spariremo senza sopravvivere. « E quando la morte  verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo  momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci  rallegrerà il pensiero che, poi che saremo sjienti, così  molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora ».   Vili.   Amore è la prima e l’ultima parola delle Operette.  Le quali ebbero ancora una ripresa nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Almanacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo  grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che ricomincia, e risveglia le speranze e promette. Ma il passeggero in cui s’incontra oppone la sua fredda riflessione  a quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce a considerare che « quella vita eh’ è una cosa bella,  non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce ; non la vita passata, ma la futura ». La vita che si  conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione  di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla:  vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce,  e che sarà egualmente brutta quando sarà passata; e  sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la vedessimo  venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? L. non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene  dalle Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come  cantava il Gallo silvestre, già si corre alla morte; ma  non sperare non si può; perché, è evidente, il futuro  sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché futuro; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che  non ce ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi  la speranza, o innanzi a cui non possa il Gallo intonare  il suo canto consolatore. E la vita resta sempre con  queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una miseria disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro  cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il nostro amore, una beatitudine divina. Fu per Giacomo l’anno della tragica prova  della sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo; non però luminosa immagine  della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del cuore  stesso di Giacomo.   Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella  Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta  Infinita beltà parte nessuna  Alla misera Saffo i numi e l’empia  Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni  Vile, o natura, e grave ospite addetta,   E dispregiata amante, alle vezzose  Tue forme il core e le pupille invano  Supplichevole intendo   Non meno supplichevole Giacomo guarda ad Aspasia;  onde ricorderà:   Or ti vanta, che il puoi. Narra che prima,   E spero ultima certo, il ciglio mio  Supplichevol vedesti, a te dinanzi  Me timido, tremante (ardo in ridirlo  Di sdegno e di rossor), me di me privo.   Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto  Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi  Fastidi impallidir. E cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile  errore, fu « notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma  Saffo proruppe nel grido disperato ;  Morremo ! -- e violenta cercò l’atra notte e la silente riva. L.  scrisse invece Amore e morte] dove la morte non è più  l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gentilezza fino alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella  d’Amore ; 1 Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima fanciulla,   Dolce a veder, non quale  La si dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo Amore  Accompagnar sovente;   E sorvolano insiem la via mortale.   Primi conforti d'ogni saggio core   £ la morte sospirata dall’amante, nel languido e  stanco desiderio di morire, che si sente   Quando novellamente  Nasce nel cor profondo  Un amoroso affetto,   perché già a’ suoi occhi la vita diviene un deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta  Vede ornai senza quella  Nova, sola, infinita  Felicità che il suo pensier figura;   Ma per cagion di lei grave procella  Presentendo in suo cor, brama quiete.   Brama raccorsi in porto  Dinanzi al fier disio.   Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.   E a questa morte consolatrice, che insieme con amore  è quanto di bello ha il mondo, a questa morte, senza  armare la mano, anzi con umile e mansueto animo, vol-  gesi il Poeta con un sospiro di religiosa preghiera:   Bella morte, pietosa   Tu sola al mondo dei terreni affanni.   Se celebrata mai   F'osti da me, s’al tuo divino stato  L’onte del volgo ingrato  Ricompensar tentai.  Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina  A disusati preghi.   Chiudi alla luce ornai   Questi occhi tristi, o dell’età reina.   Non già che amore e morte abbian potere di cancellare  la fatale infelicità: né che l’uomo e il L. abbiano  mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà  le penne al suo pregare, lo troverà   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato.   La man che flagellando si colora  Nel suo sangue innocente  Non ricolmar di lode.   Non benedir. La morte è consolatrice e liberatrice da questo fato crudele: ma già L. aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi  addormentato il volto nel vergineo seno di lei; e il fato  è vinto nel suo animo gentile da questa aspettazione:  vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di Tristano;  il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia  del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bruciarlo : « non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro  di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici,  ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore»;  perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento  che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in  confidenza, mio caro amico, io credo febee voi e felici  tutti gli altri; ma io, quanto a me, con licenza vostra e  del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo; e tutti i  giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario ».  Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E  di più vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla  mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco  a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare  la morte, e desiderarla sopra ogni altra cosa.... Né vi  parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il  fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho  invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un  gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non in\'idio più né stolti  né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri àzH’antico  dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della  morte, è fiducia confortata da una speranza che non  falhrà, e che già allieta di sé Tanimo sottratto per lei a  quella vita che è dolore: a quella cosa arcana e stupenda,  che i morti di Ruysch possono ricordare senza tema,  poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione  piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come  accade nella mia solitudine, e con cui vo passando il  tempo, consiste nella morte»: che è un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.   In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore  trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine  da quella vita che la natura e il fato danno all’uomo  « di cedere inesperto ». Cederebbe il suicida egoista, non  il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore, e  guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo  sottrae, alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta  differenza tra la morte di cui Ercole ragiona con Atlante  0 quella che s’incontra nella Moda, al principio delle  Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge desioso  alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che dall’una  conduce all altra è già nella Storia del genere umano'.  Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel Messaggero della domenica, poi nei Frammenti  di estetica e letteratura, A proposito di L. toma sempre in campo la  questione delia differenza e del rapporto tra filosofia e  poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo;  ma, d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distinguere una cosa dall’altra, come res dissociabiles, e in un  libro di prosa volle in forma più sistematica e più razionalmente convincente esporre quel suo pensiero da  cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle poesie.  E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie  in cui il L. non ragioni la sua fede e non si sforzi  di dimostrare la verità del concetto ch’egli s’era formato  della vita, e che attraverso una determinata situazione  personale, un paesaggio, un ’immagine, si sforza costantemente di mettere in piena luce. Non importa se nessuna  delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto  la forma di scolastica dimostrazione e scevra di quel  sentimento, di quella viva commozione, in cui \dbra la  personalità del poeta così nelle Operette come nei Canti.  La distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non po-  tenilo altro, se ne fa una questione di quantità e di più  e di meno: affermando che l’elemento filosofico predomina  nelle Operette, e l’elemento hrico nei Canti. E si crede  così di salvare la tesi generale, che bisogna rinunziare  alla filosofia per esser poeti, e viceversa: giacché la loro  natura è così diversa e ripugnante, che l’una non può  esser l’altra e una sempre deve essere sacrificata.   Ma io non voglio ora affrontare la questione, che  potrà sembrare tanto teoricamente difficile e dehcata uanto praticamente inutile e oziosa. Nel caso di L. la questione di principio è priva d’ogni interesse,  perché il L., anche nelle sue prose, è indubbiamente  poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o ragioni,  cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce  se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità  che gli invade l’anima e non gli lascia modo di dubitare  e di assoggettarla a quella più alta razionalità, a quella  critica oggettiva che s’inquadra in un sistema, e in cui  consiste propriamente una filosofia che non vuol  dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una  filosofìa fatta vita e persona, fatta vibrazione e ritmo  del suo stesso sentimento, incapace come tale d’acquistare  intera coscienza di sé, e perciò di superarsi. E, cioè, un  certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde nella  divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore  a quella dottrina che l’autore si sforza consapevolmente  di formulare.   Superiore perché, ormai è noto agh studiosi più  attenti della sua poesia  questa ha pel poeta un contenuto pessimistico, e per noi, invece, ha un contenuto  ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatalmente infelice, è ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi,  vedeva e si proponeva di cantare. Ma poiché quella \nta  che ogni poeta canta non è quella che ha innanzi agli  occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e però ogni  poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il cuore  con cui egli la guarda; e poiché il cuore di L. era, come egli disse una volta, nato ad amare,  ed aveva amato, e forse con tanto affetto quanto ]iuò  mai cadere in anima vdva », così, in realtà, tema del suo    I Vedi ora il mio scritto Arte e religione, nel Giorn. crii. d. filos-  Hai.,  e nel voi. Dante e Manzoni, Firenze, Vailecchi,-- canto non fu mai quella brutta vita, che è piena di dolore, ma quell’altra che egli più profondamente sentiva,  redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità che  rassomiglianza di beatitudine. Poiché appunto qui è il divario tra pessimismo e ottimismo: che il primo vede la vita quale apparisce nella  natura considerata dal punto di vista materialistico,  brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello spirito, chiusa  in sé di contro alle aspirazioni dell’anima umana bisognosa di amore e di consenso, ossia di un mondo conforme  alla sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece crede  nello spirito, nel valore de’ suoi ideali, e nell’energia  dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale valore.  11 mondo del pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui  il dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il mondo dell'ottimista è il mondo in cui la più salda e vera realtà è  quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la verità  è questa: che il L., pessimista di filosofia, e ijuasi  alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo: tanto più acutamente pessimista, col  progresso della riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista. Basta confrontare la canzone All’Italia con La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della  sua poesia, dove la bestemmia e lo strazio della disperazione si smorzano e dissolvono nella commossa e tenera  effusione di un’anima angosciosamente agitata da un  bisogno di amore universale e da un’ incoercibile fede  nella virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filosofia di questo superiore ottimismo in cui rimane assorbita la sua iniziale visione pessimistica; e continua a dire  che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-, ma  l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella storia del genere umano. Lett. al De Sinner -- realtà che è per lei la vera e suprema realtà, raggiungo  bensì la forma poetica della sua espressione in modo  pieno e perfetto.   Se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo scettico,  ironista, materialista piuttosto mediocre nell’ invenzione,  dove riesce facile scoprire quanto egli debba ai libri che  lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti ph,  disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a conferma delle sue idee: mediocre nell'esposizione od elaborazione della materia, per evidente inesperienza del  metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità coi grandi  pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il L. e si  fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né anima  per vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo  ed eterno e grande: ciò per cui anche a chi pedanteggi  la sua poesia s’impone e suscita un’eco solenne nell’animo.  In questo senso bisogna pur dire che in L. non si  deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima, che  rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima umanità. C’ è insomma il poeta.   Anche nelle sue Operette. Le quali io credo di avere  definitivamente dimostrato con argomenti esterni, attestanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di esso L., e con argomenti interni, desunti dallo svolgimento del pensiero e dagli evidenti legami onde le  singole operette sono congiunte tra loro per graduali  passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal  primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma  un organismo, un tutto unico, che si articola dentro di  se stesso e si conchiude. Si conchiude tra un preludio e  un epilogo in una opera, che è un poema, e non è un  trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di contenuto didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente di venti capitoli, scritti tutti in  un anno di lavoro felice, ma con un intervallo tra i primi  quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte,  svolgendosi in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella  prima serie: dalla quale sottraendo il primo e l’ultimo  capitolo, quello perché introduzione e questo perché  apologia e conchiusione di tutta la serie, si ottengono  infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in  due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è  destinato a svolgere un certo motivo, e quindi forma  un ritmo a sé. Sospetto confermato da alcuni spostamenti  dall’autore introdotti nel primitivo ordine cronologico,  e poi costantemente mantenuti, salvo una sostituzione  che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al  posto di un capitolo del primo gruppo: capitolo abolito  allora perché infatti non armonico né col gruppo, né  con tutta l’opera.   La distribuzione, è ovvio, non può avere se non una  importanza relativa. £ ragionevole pensare che fosse  voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non  volle mai rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da  lui curate dei Canti, e diede loro un ordinamento ideale,  che per lui aveva un \'alore, e che per i lettori ed interpreti non può essere perciò trascurabile. Ma il fatto stesso  che tutte e venti le operette furono scritte successivamente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo,  e hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo,  dimostra evidentemente che i loro singoli gruppi non  si possono considerare separatamente, quasi ognun d’essi  formasse un tutto a sé.   La distribuzione del nucleo principale delle Operette  in tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a capo un capitolo introduttivo e in fondo un altro capitolo conclusivo, può servire soltanto a renderci attenti per leggere  le varie parti del libro cercandovi tre motivi fondamentali  che nel pensiero deU’autore si fondo no in un solo ritmj  complessivo, e formano l’unità organica del libro; e in  questo modo può servire quasi di chiave a un libro, che  fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno o l’altro  capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre  dire che ci vuole discrezione, e non bisogna pretendere  un taglio netto tra un gruppo e l'altro, e una soluzione  di continuità che non si sa perché l’autore avrebbe dovuto introdurre una prima e una seconda volta nel  corso della sua unica opera.   Discrezione che non vedo, per esempio, nel professor  Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e Farfarello  che resta collocato alla fine del primo gruppo e da servire quindi come passaggio al secondo, mi domanda:  « Ma non potrebbe stare anche nel secondo, poiché è  una affermazione chiara ed esplicita dell’ infelicità assoluta dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta-  mente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere ? ». Ma io non avevo eretto nessuna muraglia tra il  primo gruppo concluso da questo dialogo di Malambruno  e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura  e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero  dominante nel primo gruppo, additavo in Malambruno  quell’anima che si ritrova di fronte alla Natura al principio del nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi non  un salto, anzi un passaggio naturale e come insensibile  ove non si osservi che quella che nel primo ciclo è una  constatazione, un'osservazione di fatto, diventa nel secondo ciclo il problema.   Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole [Una nuova edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Marzocco -- da me usate incidentalmente, mi fa dire che la differenza tra primo e secondo periodo in questa trilogia  delle Operette consisterebbe, secondo me, in ciò: che nel  primo « r infelicità del genere umano si considera particolarmente nell’età moderna come effetto più che altro  della volontà pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel  secondo invece, « questa infelicità si considera come  legge imprescindibile e ineluttabile dell’umanità o del  mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella prima  ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e  di fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio  di ogni male e di ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo  Zumbini tra la prima fase « storica » del pessimismo  L.ano, e la seconda metafisica o cosmica. Ma non  corrisponde per l’appunto alla distinzione da me indicata, tra il concetto del primo e quello del secondo gruppo  delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo del poeta vien  posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al vuoto  della vita, non più degna d’essere vissuta; poiché degna  sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso,  coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e l’uomo  se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ».   Qui il pessimismo storico è già superato, e Malam-  bruno può dire che « assolutamente parlando » il non  vivere è meglio del vivere. Lo può affermare, perché la  vita umana, fin da principio e per sua natura, è senso,  coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità istintiva e  affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può parere », scrissi io, « che la morte dell’umanità, la sua nul-  htà o infelicità sia, nei dialoghi del primo gruppo, una  colpa dei degeneri nepoti » : poiché infatti civiltà è aumento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in realtà,  fin dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo l’uomo. c’ è già il dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Malambruno perciò è benissimo al suo luogo alla fine del  primo ciclo.   Il secondo ciclo ricava la conseguenza pratica della  verità scoperta nel primo. E si apre infatti col Dialogo  della Natura e di un’Anima, nel quale dalla proporzione  del dolore con la grandezza dell’uomo (il cui progresso  e perfezione consiste nell’acquisto di sempre maggior  copia di sentimento che gli fa sentire sempre più acuto  il dolore dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio  spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la nobilitano, e  farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo. Negare  l’umanità, rinunziare a ciò che fa il pregio della \ùta,  rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente, che  ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi  alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo  ciclo addita aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è  aperto tra lui e la natura, il secondo gli fa sentire il destino a cui gli conviene di rassegnarsi, rinunziando a  quella natura che non è per lui, e a quella vita che soltanto nella natura potrebbe spiegarsi. Il primo ciclo è una negazione, per così dire teoretica; il secondo è la negazione pratica, che consegue  dalla prima negazione. La conclusione dovrebbe essere  quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò però  la conclusione del L., il quale non finisce con  r Ultimo canto di Saffo, ma con la Ginestra. E perché  quella di Bruto non sia la sua conclusione è detto nel  terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge questo motivo:  che quella vita che certamente non ha valore, perché è  dolore e perciò negazione della vita che noi vorremmo  vivere, ripullula rigogliosa e incoercibile dalla sua stessa  negazione. La \àta è abbarbicata aH’anima umana; e questa, attraverso le attrattive e le lusinghe della gloria, la stessa  contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro da  tutte le tempeste, come la cantano i morti di Ruysch,  attraverso una filosofia che sappia intendere e sorridere  con la magnanimità bonaria di un Ottonieri, attraverso  gli stessi rischi in cui la vita si perde e si riconquista  col gusto di una cosa nuova, e in generale attraverso  l’attività, il movimento, la passione e la speranza che  non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore  che ci fa ricercare nell’uomo, neW’umana compagnia,  quello che la natura ci nega anche nella piena coscienza  della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e sente  la gioia d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo  dalla natura.   Una soluzione dunque del problema della vita nei tre  cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evidente che no: perché la via che filosoficamente si dovrebbe seguire per superare il pessimismo radicale dei  primi due cich è, senza dubbio, quella per cui l’anima  dello scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente  procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì   10 slancio naturale dello spirito che risorge con tutte le  sue forze dalla negazione pessimistica. E il pessimismo,  in linea di teoria, rimane la verità assoluta e insuperabile. L. sente bensì e vive la verità superiore, ma  non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli sperimenta in sé ed attesta coi moti del suo animo la potenza dello spirito, che anche nell’uomo che s’immagina scliiavo e vittima della natura, trionfa della forza  tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta  la gioia di questa sua vita in cui consiste la realtà dello  spirito. E in questo balsamo, che il suo animo sparge  così su tutte le piaghe che ha aperte e che ha fissate  inorridito, in questa dolcezza che sana ogni dolore, in  quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione, qui  la personalità, qui è la poesia del L.. Così, ripeto  nelle Operette, come nei Canti.   Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde si  conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di.  scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei.  lato nelle aggiunte posteriori; e si neghi, se è possibile,  che il centro e l’accento principale dello spirito leojiar-  diano è in quel « senso dell’animo », com’egli dice, che,  agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo, e con l’amore, vincolo soave insieme ed eroico, instaura un ordine morale  inespugnabile a ogni riflessione scettica, e superstite  infatti (coni’ è detto nella Storia del genere umano) a  quella fuga di tutti i lieti fantasmi che è prodotta dal  sorgere della verità tra gli uomini. L’animo del L.,  come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi  vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna  d’esser vissuta, per quel che dice appunto Plotino: «E  perché non vorremo noi avere alcuna considerazione  degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei  fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari  e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran  tempo: che morendo, bisogna lasciare per sempre: e non  sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione;  né terremo conto di quello che sentiranno essi, per la  perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del  caso ? ». Questo non è un argomento filosofico, ma un  cuore che trema in ogni parola; e ogni parola si sente  come velata dal pianto dell’anima che il dolore apre ed  espande nell’amore. Ma è proprio vero, torna a domandarmi il professor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola delle  Operette ? Ecco: che la Storia del genere umano faccia  consistere tutto il pregio, la bellezza e la felicità della  vita nell’amore, mi pare sia così chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non vedo  che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto  che amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare che  sia nella prima forma di questo, quando finiva col Dialogo  a Timandro e di Eleandro\ né che sia nella forma definitiva, quando all’ultimo posto fu collocato il Dialogo  di Tristano e di un Amico. La compassione di Eleandro,  egli dice, « non è amore : tant’ è vero che questo dialogo  dovea dapprincipio intitolarsi Misénore e Filénore, e  Mis nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva essere L. ». Ma il Faggi non ha badato che (come avrebbe  potuto vedere da tutte le varianti che io ho tratte dall’autografo) cotesto titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo, non solo fu ideato  quando ancora il dialogo era da scrivere, ma mantenuto  fino alla fine della composizione del dialogo stesso. Sicché  il concetto di Mist'nore è puntualmente quel medesimo  che vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè non si  oppone propriamente all’amatore degli uomini, ma si  oppone soltanto a chi, anzi che Filénore, merita d’esser  detto Timandro, perché eccessivamente valuta, col domma  della perfettibilità progressiva, il potere umano di impadronirsi della feheità. L’uomo del L. non è l’uomo  vantato e millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII  e dai progressisti del suo secolo: l’uomo dalle magnifiche  sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo vittima della  natura e però degno di compassione.   La compassione non è amore; certo. Ma ne è la radice. E perciò Giove, mosso da pietà, nella Storia del  genere umano, manda Amore fra gli uomini. Perché solo  l’amore lenisce i dolori, per cui si commisera l’infelice;  e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido che  gli si sprigiona dal più profondo del cuore: Sono nato  ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva », soggiunge. Oggi non  mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché nie  stesso, per necessità di natura, e il meno possibile»-  l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla coerenza del si'  sterna pessimistico della vita che Eleandro oppone al  dommatico ottimismo di Timandro; ma si smentisce  subito continuando. Con tutto ciò sono solito e pronto  a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimenti ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg  una sorta di amore. Che se Tristano non sa più pensare se non alla morte  questa morte (come credo di aver chiarito abbastanza  col riscontro di quel dialogo con i canti dell’amore fiorentino, Aspasia e Amore e morte), non è la disperazione  della vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma è la  bellissima fanciulla che   Gode il fanciullo Amore   Accompagnar sovente;   la bella morte, pietosa, sospirata in quel languido e stanco  desiderio di morire che sorge col nascere d’un amoroso  affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel Tristano,  non è rivolta contro la vita confortata dall’amore, bensì  contro quel volgare ottimismo che parla il fatuo linguaggio di Timandro e deH’amico di Tristano. Vero è che per leggere L. non bisogna tanto  badare a quello che egli dice, ma al modo piuttosto in  cui lo dice, al tono delle sue parole, in cui propriamente  consiste la sua anima, e quindi la vita e il valore della  sua prosa. Che io perciò desidero considerare più come  poesia che come argomentazione. E perciò non posso  accettare quel che il Faggi dice del Dialogo di Tasso e del suo Genio familiare e dell’ Elogio degli uccelli.   Come mai, mi domanda del primo, «appartiene al  secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è  senza dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato.   vale il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ».  Infatti, egli osserva, « non dee spaventare la differenza  che c’ è fra un uomo chiuso nelle quattro mura d’una  prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’ Oceano  infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo  Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che  il grande Genovese nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due  han trovato la maniera di fuggire la noia, questa compagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro frutto non  ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo Colombo  a Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per lungo tempo essa ci tiene  Uberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte  cose che altrimenti non avremmo in considerazione.  E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla conversazione col suo Genio, che, si può ritenere, il consigUo  da questo datogli di ricercarlo, ov’ei lo voglia, in qualche  Uquore generoso, non andrà perduto. Tutt’e due, tra  fantasticare o navigare, van consumando la vita: non  con altra utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico  frutto che al mondo se ne può avere: e l’unico ‘intento  che l’uomo deve proporsi ogni mattina in sullo svegliarsi ’ ».   Ora tutto ciò, se si guarda alla nota fondamentale  dei due dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo spunto  del Colombo ci è indicato dallo stesso L., che,  come io ho mostrato, aveva prima concepito questo scritto  col titolo di Salto di Leucade\ e il senso o nucleo del dialogo va quindi cercato nel passo che segue alle parole  citate dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU antichi,  come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan-  dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di  Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano  per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io  non so se egli si debba credere che ottenessero questo  effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno  per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo  avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o pm-g  avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna na  vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe  di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(,  durevoli che quello non produrrebbe; al quale, per questo  conto, ella è superiore assai. Credesi comunemente che  gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco in  pericolo di morire, facciano meno stima della vita propria, che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso  rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche persone in tanto amore e pregio come da’ navigatori e  soldati ».   Non il consumai'e la vita è l'utilità del rischio, a cui  Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la gioia di riafferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme sfuggita per sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo  bene, appena ci paia di averlo perduto, se lo riacquistiamo. 11 Colombo è questa gioia del pericolo vinto, ma  che bisogna perciò affrontare per vincerlo.   Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta il  piacere della vista di un cantuccio di terra: ma il povero  prigioniero non conosce né spera mutamento alla sua  sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da parte i dolori,  la noia solo lo uccide. La noia, di cui egli può parlare  perché ne ha esperienza; ma che gh pare il destino universale degh uomini, quasi la sua prigione fosse simbolo  della natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo:  A me pare che la noia sia della natura dell’aria : la  (juale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose  matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro:  e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra,  quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così  nella vita nostra non si dà vóto : se non quando la mente  per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero.  Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche  in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo  da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di  noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il  dolore e il diletto. Che egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio  col suo Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier  confermarsi nella convinzione della sua immedicabile tristezza: «Senti. La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza,  ma questa per la più parte del tempo è come una notte  oscurissima, senza luna né stelle ; mentre son teco, somiglia  al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto.  Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare  quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare. Il Genio risponderà con amara ironia che la sua abitazione è in qualche liquore generoso. Ma il Faggi crede  sul serio che ci sia qui un consiglio da prendersi alla lettera ? « Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che  ebbe pure la strana idea di cercare negh scritti del Tasso  l’eventuale fondamento storico di questo tratto. Il quale,  per chi legga la prosa L.ana con animo sensibile  all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non può  significare altro che un realistico strappo che 1 autore  vuol dare alla stessa poetica illusione consolatrice del-  r infelice prigioniero.   E porgendo l’orecchio all’accento commosso dello  scrittore io credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli  lirica stupenda sgorgata al L. dal pieno petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un canto  di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli  un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj  riflessione; benché questa sia ravvivata dal soffio della  poesia inerente al soggetto. Il L. non intendeva  di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al Passero no  litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto  estrinseco del ravvicinamento, e nota che « anche quello  non è un canto di gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo  il Faggi, il L. è filosofo, e non è poeta. « Non ha  creduto di spogliare del tutto la giornea del filosofo-  che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo solitario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico, scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare  Dante e Tasso. .Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende in una lunga digressione sull’origine e la natura del riso, suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che  fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo suo volea riposarsi, si lascia attrarre  a considerare il riso umano nello scettico, nel pazzo e  nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o spontanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto  degli uccelli ».   Donde s’avrebbe a concludere che il L. abbia  voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, proponendosi una tesi ritenuta da senno per vera, e industriandosi di dimostrarla nel miglior modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera  ci  ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre scandalizzato dalle forme pagane di Giacomo : « Io le giuro che l’intenzione mia fu di far poesia  in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una mitologia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi,  senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. » Senza essere creduti perciò zoologi o filosofi,  possiamo aggiungere noi. E del resto a quella conclusione io non credo che il Faggi abbia voluto andare incontro intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'imaginazione beta o serena in cui l’animo del L. volea  riposarsi » ; e rispetto alla quale gli uccelli non sono davvero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella tessitura  dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze delle  sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui,  della storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine,  simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui espansione  e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene dove a  questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso  quella Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli  a conforto degli uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu  notabile prowedimento della natura l’assegnare a un  medesimo genere di animali il canto e il volo; in guisa  che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla  voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si  spandesse all’ intorno per maggiore spazio e pervenisse  a maggior numero di uditori. E in guisa che l’aria, la  quale si è l’elemento destinato al suono, fosse popolata  di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto  e diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri  animali che agli uomini, l’udire il canto degli uccelli.   La prosa tranquilla e contenuta vuol essere nella  sua forma esteriore l’eloquio didascalico di un filosofo, ma  tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che vi  si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta,  che fa dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento  degli uomini la vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo contrario, pochissimo soprastanno in un medesimo luogo; van- [ I Episiol., lett. no e vengono di continuo senza necessità veruna ; usano T  volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen  tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i]  medesimo in sul vespro vi si riducono. Anche nel piccol  tempo che soprasseggono in un luogo, tu non h ved^  stare mai fermi della persona; sempre si volgono cjua I  là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK  lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità  quella prestezza di moti indicibile. E con la stessa intenzione del contrasto tra l’esposizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’  deve vibrare dentro, si spiegano i ricordi anacreontd  che il Faggi dice eruditi e freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel desiderio  finale di Amelio: Similmente io vorrei, per un poco  di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella  contentezza e letizia della loro vita ». Ultime parole  dell’ Elogio, che ne sono quasi la chiave, e che reca meraviglia non vedere intese esattamente nepjmr dal Faggi  Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo  pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito  ma offuscatore assai più spesso che rischiaratore del nitido pensiero L.ano, postillò: n Per un poco di  tempo. Meno male ! chè dopo la vantata perfezione degli  uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno restrittiva. E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che  Amelio non sia riuscito a convincere pienamente se stesso,  o il suo entusiasmo non sia stato davvero troppo profondo ». Come se si trattasse di convincere!   A me pare ci sia un modo più ragionevole d’intendere quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente  ad ognuno, che rifletta che se il filosofo avesse espresso  il desiderio d’essere convertito per sempre in uccello,  avrebbe fatto ridere. Che diamine, il poeta invidia degh  uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui  sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per  essere disposto a barattarla con esse per sempre. Anche  la morte potrebbe essere per lui, come per Porfirio, la  soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso dell’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero,  colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero  alcuno degh altri; non cerca se non la utilità propria;  si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi,  e tutto il genere umano; tanto che in questa azione del  privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido,  o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo che si trovi al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del  Palazzo Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno-  luglio dello stesso anno del periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di commemorare un poeta è quello  di entrare nella sua poesia, cioè nel suo animo, nel mondo  dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli elementi  della sua biografia, tutti, dalla data di nascita a quella  di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose in  mezzo alle quali questa vita si svolse, le idee stesse che  egh accolse e che professò, le correnti spirituali antecedenti o contemporanee di cui partecipò, sono semplici  generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto; le  quah, ove non si accompagnino e precisino con una fotografia, rimangono appunto generalità, riferibili a migliaia di persone.  Ogni uomo è una determinata personalità in quanto  è un’anima. La quale, quando si conosca da vicino e  cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica.  E la sua singolarità in fondo consiste non nella periferia  del mondo di cui l’uomo fu centro, ma in quello piuttosto  che egli fu, al centro di questo mondo, col suo modo di  reagire a questo mondo che era il suo, raccolto nel suo  pensiero e nel suo sentimento. Due possono nascere nello  stesso anno e nello stesso giorno, vivere nello stesso  luogo e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi,  tra gli stessi uomini e quasi con le stesse voci negli orecchi; e ricevere la stessa educazione, incorrere magari  nelle stesse malattie, e insomma viv'ere tutta materialmente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse  idee, ed essere come due anime gemelle. Eppure ciascuna di queste anime, se vi provate ad entrare nel suo intern  è se stessa, diversa, assolutamente diversa dall’altra  quel certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr  nel timbro della voce o lampeggia nelle pupille, svelane!^  subitamente l’essere dell’indi\dduo : quell’essere eh”  ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a scoprire  atti e nelle parole delle persone che frequenta. Quest  dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce in  verità tutta la vita effettiva dell’uomo non soltanto  quale essa è, ma quale è sentita e perciò nel valore che  ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io: il soggetto, che è  la base d’ogni individualità umana. Qualcosa d’inafferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta  se non in quanto si realizza nelle concrete determinazioni  del carattere, nel complesso degh atti e delle parole,  che formano la trama della vita dell’ individuo. 11 centro non  è rappresentabile se non in rapporto alla sua circonferenza.   Ora questo demone segreto che si cela e si svela nella  vita di ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione  del poeta. Il quale non si distingue dagli altri uomini se  non jierché riesce a stampare una più profonda impronta  di questa segreta potenza nelle espressioni del suo essere.  E pare che per lui innanzi agli occhi meravigliati della  moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine infinita  l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé fa  il suo universo; e quelli che per gli altri sono sogni e  ombre, per la virtù sua onnipossente son corpi saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la immensa scena  del mondo che il poeta sostituisce a quello della comune  esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli  vede e tutto ciò che può dirci è la sua anima, anzi  questo dèmone che si cela nella sua anima.  Nel caso di L., quanto difficile cercarla e trov'arla questa scaturigine della sua poesia: e quanto perciò  s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto della sua grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide  tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che spontaneamente si aprono alle soavi commozioni di essa. Ma  studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da  mille ingegni, alla luce di mille sistemi e sulla base di  mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla pretensiosa volontà indagatrice della critica, impegnata per lo  più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi  frammenti esanimi ottenuti attraverso una fredda operazione anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora  alla intelligenza riflessa, che si sforza di coglierne l’essenza e chiuderla in una definizione.   Negli ultimi tempi vi si son provati critici di grande  levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di cui non  disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti giovano  indubbiamente alla comprensione della poesia L.ana; ma solo in quanto ne scoprono alcuni aspetti.  11 loro comune difetto è quello di trascurare la verità,  che io ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho  creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il cui  effetto è questo: che il critico non sente la necessità di  risalire sino alla sorgente da cui la poesia L.ana  sgorga, e in cui soltanto è possibile scorgere l’unità della  sua ispirazione e rendersi conto della varietà dei motivi  in essa dominanti. Così accade che si aprano i canti e  le prose del L., e si dica. Nelle prose, manco  a dirlo, non c’ è poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è  una filosofia per modo di dire. Lambiccatura di cervello  che si sforza di dimostrare sistematicamente uno stato  d’animo personale; e perciò si mette fuori di questo stato  d’animo; e quindi riesce amaro, falso, estraneo al vero  e profondo sentire dello stesso scrittore, e perciò freddo,  sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o versi  in cui il poeta trova se stesso e parla serio e commosso; e lì è il poeta; il poeta le cui parole non si dimenticano  e tornano da sé a risuonare nell’animo, a commuoverci  col calore e la passione della vita che ogni uomo vive e  sente. Ma ci sono negli stessi canti poesie giovanili rettoricamente patriottiche; ci sono poesie filosofiche non  meno fredde e artifiziate delle prose: ci sono pezzi ora-  torii, in cui il poeta cerca l’effetto e pensa al lettore e  non si dimentica nello schietto moto della sua anima  Manca qua e là negli stessi canti più felici il caldo di  queir ispirazione, che s’apprende immediatamente all’animo di ogni uomo. Risorge il ragionatore a freddo  che vede il mondo dall’angustissimo foro che le sciagure  fisiche e le tristi condizioni personali gli han lasciato  aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta  che accoglie beato nel suo petto la voce naturale del  mondo e il vasto respiro delle cose.  £ fortuna se alla  prova di questa critica si salva qualche frammento della  poesia del L..   Ma si salva davvero ? Io vorrei invitare questi critici  a ristampare L. purgandolo da tutte le scorie  della sua poesia, per darcene il fiore, un’antologia; contenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa grazia.  Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema-  mente difficile, se non impossibile: poiché non solo il  significato di ciascun verso risulta dal contesto a cui  appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel complesso  del componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre  un accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quell’accento non si può sentire se non nel ritmo dell’ insieme.  Isolare una parola è impresa vana ed assurda. E se si  crede il contrario, ciò accade perché in realtà quella  parola che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e la  fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato,  in cui non è più la parola di quel poeta, ma l’espressione  del nostro animo. L. non è soltanto il poeta degl’ idillii, dove  il suo petto si allarga e s’inebria del profumo della natura, e il suo cuore batte all’unisono col grande cuore  del mondo, commosso dal senso della vita che ride a primavera nei campi, brilla a notte nel mite chiarore della  luna, imporpora il viso alle fanciulle innamorate, tuona  tra le nubi nell’ infuriar della tempesta, e ridesta ad ora  ad ora negli animi stanchi e delusi la speranza e la dolcezza dell’amore. Il L. è anche Tristano ed Eleandro; ed è Copernico e Ottonieri; ed è Colombo  e Tasso visitato nel mesto carcere dal suo Genio familiare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto della Natura dal volto mezzo tra bello e terribile; ed è il gallo silvestre che sta in sulla terra coi  piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, e riempie  del suo canto l’universo e dice di questo « arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale » che, « innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi ». E insomma il Leopardi pacato e placato nel  sentimento solenne e religioso del dolore e del mistero  e della vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’ intima soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni  travagho c gustano una beatitudine divina, ancorché  confusa a certo mistico senso del proprio dissolvimento  nella vita universale. Ed è anche il poeta che come italiano vede le colonne e i simulacri e le ruine della grandezza antica, ma non vede più la gloria e le armi dei  padri; e non sa rivolgersi indietro a (juella schiera infinita  d’immortah, che onorarono già la nostra terra, senza  pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore  la disperazione di Bruto per l’impotenza della virtù  sconfitta dalla perversa fortuna e lo strazio della misera  Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei superbi regni della natura bellissima. Ma non sì che l’animo non  gli si esalti nell’ idea della guerra mortale che il prode  di cedere inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno  fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si sentirà  sparso a terra il velo indegno, di emendare il crudo fallo  del cieco dispensator dei casi. E anche l’uomo che si  leva col pensiero al di sopra della ferrea vita e sentendo  che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero, si  compiace d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini delle  mortali e delle eterne cose] e trae gli ozi in questo speculare. E in fine l’uomo che si rifugia con questo altissimo  sentimento della invitta potenza del pensiero umano  nella rocca inespugnabile della noia: di questo che egli  dice « in qualche modo il più sublime dei sentimenti  umani », poiché « il non poter essere soddisfatto da alcuna  cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e  la mole maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è  ])oco e piccino alla capacità deU’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito,  e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora  più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le  cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento  e vóto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. E perciò anche L., nel colmo della sua delusione,  può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e ogni  moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura,  il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V infinita vanità del tutto: e, pur caduto l’incanto che gli  fece vedere e amare in una donna mortale la Dea della  sua mente, pur vedendo ormai nella propria vita una  notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare al suo fato   Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta nella coscienza di  se medesimo:   su l’erba   Qui neglùttoso immobile giacendo,   Il mar, la terra e il ciel miro, e sorrido.   Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi della  poesia L.ana, per restringerci al dolce gusto di  quell’ idillico che è la prima e immediata forma di questa  poesia, noi avremo sì elementi di una poesia squisita,  ma perderemo la poesia propria del L.. Nella  quale quella prima forma è solo uno degli elementi del  dramma e del fiero contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia L.ana per l’appunto consiste. L’i dilli o è certo alla base di L. poeta. Ne  risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario, nello Zibaldone, nei Canti, nelle Operette morali. Se volete rendervi conto della natura dell’ idillio, come L.  r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito, quei quindici versi  che gittano la fantasia del Poeta al di là della siepe in  spazi interminati, sovrumani silenzi e profondissima  quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in  sé e annichilano la voce del vento che stormisce tra le  piante e il suono delle lotte e delle fatiche umane: Così tra questa  Immensità s’annega il pensier mio  E il naufragar m’ è dolce in questo mare.   L’uomo scioglie il suo pensiero, ond’egli riflettendo  si distingue e si oppone alla natura, e si confonde con essa. Ricordate il Canto notturno di un pastore errante  dell’Asia, che dice alla sua greggia:  Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe. Tu .se’ quieta e contenta;   E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,   E un fastidio m’ingombra  La mente, ed uno spron quasi mi punge  Si che, sedendo, più che mai son lunge  Da trovar pace o loco. Nell’ Inno ai Patriarchi il Poeta rammenta l'antico  mito della colpa che sottopose Vuman seme alla tiranna  Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce all’ irrequieto  ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi dolori. La  noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero. Finché  la riflessione non è sorta, e il pastore errante non è ancora in grado di domandare alla luna il fine di tanti  moti, e che sia   Questo viver terreno.   Il patir nostro, il sospirar che sia;   Che sia questo morir, questo supremo  Scolorar del sembiante,   E perir dalla terra, e venir meno  .‘Vd ogni usata, amante compagnia;   egh può esser queto e contento come la sua greggia.  Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene  fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di tutto:  non aver più né contentezza né pace. Il L. intanto  sa bene che senza pensiero non c’ è grandezza. Perciò  in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima. Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e  chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande  e infelice. Perciò il Poeta dice ai « nuovi credenti » che  non credono al dolore: A voi non tocca  DeU’umana miseria alcuna parte,   Ché misera non è la gente sciocca. Dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna  Kon è dagli astri alcun poter concesso.   Non al dolor, perché alla vostra cuna  Assiste, e poi sull’asinina stampa  11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se talor la vostra vita inciampa.   Come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio  Il non sentire e il non saper vi scampa.   Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio  Rompon l’alme ben nate. Ma se il pensiero è la sorgente del dolore, bisogna  pur distinguere tra pensiero e pensiero. E anche questo  è avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è la stessa  natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore  e nella virtù ; che sente e crede nella bellezza della natura  e della vita; che spera e apre l’animo alla gioia delle illusioni, che tali si dimostreranno al cimento della esperienza, ma che la natura stessa risusciterà sempre dal  fondo del cuore umano a rendere amabile o almen sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un altro  pensiero, che si sovrappone a questo primo e lo critica  e lo demolisce e lo irride, e, scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore umano e  lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre pertanto che l’uomo si abbrutisca come il gregge per sottrarsi al dolore. Può essergli simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura e godere del benefizio  di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero naturale,  e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati.  Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva  che è propria di tutti gli esseri naturali, senza che questa  natura sia sconvolta o turbata dal suo irrequieto ingegno.  Così fa il fanciullo, così tutti gli spiriti semplici e sani. Questa è la giovinezza sempre rinascente del genere umano; dell’anima aperta alla speranza e fortificata  dalla fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se  stesso al mattino sul primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni  suo giorno, come d’ogni nuovo periodo della sua vita  « Il primo tempo del giorno », canta anche il gallo silvestre  « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo  svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti-  ma quasi tutti se ne producono e formano di presente  perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia  alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla  giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla  pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione;  destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza  ciuantunque cUa in niun modo se gli convenga. Molti  infortuni e travagli propri, molte cause di timore o di  affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non  parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del  dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in  riso, come effetto di errori e d’immaginazioni vane.  La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario,  il principio del mattino somiglia alla giovanezza. Cresce l’esperienza della vita, sopraggiunge la riflessione, la speranza dilegua: sottentra il dolore e la noia:  tanto più acuto quello, tanto più grave questa, quanto  più viva fu la speranza e ardente la fede nella vita. Quindi  la grande importanza del momento idillico, o giovanile,  spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del  L., accentua poi il momento negativo del distacco  e della opposizione, che è il momento del dolore. Questo  dolore è materiato, si può dire, dalla stessa dolcezza  dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione non avrebbe mai il  suo significato lirico se non corrispondesse a un’affermazione vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così  bella agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel fondo del suo cuore, egli si duole tanto di non  possederla. Al disperato affetto di Saffo non arride spet-  tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto negli  occhi e nel petto;   Placida notte, e verecondo raggio  Della cadente luna; e tu che spunti  Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettoso e care  Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato.   Sembianze agli occhi miei. Del resto questo molle spettacolo non fugge da’ suoi  occhi senza che questi si volgano desiosi ad altri spettacoli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo. Noi r insueto allor gaudio ravviva  Quando per l’etra liquido si voi ve  E per li campi trepidanti il flutto  Polveroso de’ Noti, e quando il carro. Grave carro di Giove a noi sul capo.   Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli  Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta  Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto  Fiume alla dubbia sponda  Il suono e la vittrice ira dell’onda.   Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di  questa natura di cui ella si vede prole negletta:, Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella   Sei tu, rorida terra. A me non ride   L’aprico margo, e dall’eterea porta  Il mattutino albor; me non il canto  De’ colorati augelli, e non de’ faggi  Il murmure saluta: e dove all’ombra  Degl' inchinati salici dispiega  Candido rivo il puro seno, al mio  Lubrico pie’ le flessuose linfe  Disdegnando sottragge,   E preme in fuga l’odorate spiagge.  GkktIx<s, Manzoni e L. Bruto minore, fermo già di morire, percote l’aura  sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se ne odono  di soavi, affettuose, per quanto solenni, come queste:   E tu dal mar cui nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi,   E l’inquieta notte e la funesta  All’ausonio valor campagna esplori. Cognati petti il vincitor calpesta,   Fremono i poggi, dalle somme vette  Roma antica mina;   Tu si placida sei ? Tu la nascente Lavinia prole, e gli anni   Lieti vedesti, e i memorandi allori;   E tu su l'alpe l'immutato raggio  Tacita verserai quando ne’ danni  Del .servo italo nome.   Sotto barbaro piede  Rintronerà quella solinga sede.   Ecco tra nudi sassi o in verde ramo  E la fera e l’augello.   Del consueto obblio gravido il petto. L’alta mina ignora e le mutate  Sorti del mondo: e come prima il tetto  Rosseggerà del villanello industre. Al mattutino canto   Quel desterà le valli, e per le balze   Quella r inferma plebe   Agiterà delle minori belve.   D’altra parte, fin da quando il  Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed  eternamente giovanile della santa natura e del mondo,  contro cui si volgerà sempre più risentito e dolorante,  egli sente nel petto   Nell’ imo petto, grave, salda, immota  Come colonna adamantma,   quella noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte  Carlo Pepoli. E nello stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri piccoli e grandi idilli che altro, infine, si canta se non il dolore ?   Dolce e chiara è la notte e senza vento,  E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti  Posa la luna, e di lontan rivela  Serena ogni montagna. O donna mia.   Già tace ogni sentiero, e pei balconi  Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol soimo  Nelle tue chete stanze; e non ti morde  Cura nessuna; e già non sai né pensi  Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che si benigno  Appare in vista, a salutar m’affaccio,   E l’antica natura onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme  Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro  Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi  e lo stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna  formano lo sfondo del quadro, in cui risalta la personalità  di quest’uomo, a cui la speranza è negata e i cui occhi  non brilleranno mai se non di lagrime. L’amarezza di  questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna  sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a  lei. Fantasmi e sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono  alla mente del Poeta soltanto per fargli sentire che egli  ne è escluso:  non io, non già eh’ io speri,  .à.1 pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna. Si getta per  terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua nella  gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione  che l’inaridisce:  Ahi, per la via   Odo non lungo il solitario canto  Dell’artigian, che riede a tarda notte. Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;   E fieramente mi si stringe il core,   A pensar come tutto al mondo passa,   E quasi orma non lascia.   L’artigiano probabilmente non fa questa malinconica  riflessione. Probabilmente egli, come la donna, rimembra  i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta  tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel  mondo festivo e gorgogliante ancora di sensazioni dilet-  tose il Poeta riversa l’angoscia fredda del suo cuore desolato.   E altrettanto si i)uò osservare di tutte queste sue  poesie, che L. stesso definì idillii, e in cui più  forte risuona la corda dell’animo commosso e vibrante  della stessa vita del mondo.   Citerò ancora il primo periodo della Vita solitaria   che comincia;   La mattutina pioggia, allor che l’ale  Battendo esulta nella chiusa stanza  La gallinella, ed al balcon s’afìaccia  L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce  I suoi tremiili rai fra le cadenti  Stille saetta, alla capanna mia  Dolcemente picchiando, mi risveglia;   E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo  Degli augelli susurro, e l’aura fresca,   E le ridenti piagge benedico;   per rivolgersi subito contro le cittadine infauste mura, e  per concludere;   In cielo.   In terra amico agh infehci alcuno  E rifugio non resta altro che il ferro.   Principio idillico, conclusione tragica. Tragica quanto  è idillico il principio. I due termini si corrispondono e  si congiungono insieme in un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione e l’amore per la natura, per  la vita, per la donna, ])er la bellezza, per la forza magnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er la  patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che  rende amabile e santa la vita, e non intenderete più lo  strazio delle sue delusioni. Prescindete dal fermo convincimento, che la sua filosofìa gli ha piantato nel petto,  della arbitraria soggettività degli ideali in cui l’uomo,  non ancora caduto in preda al pensiero, crede provvidenzialmente; chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto  con cui egli, tornando sempre ad esaminare i suoi pensieri e la vita e il proprio essere e il fato universale degli  uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e non  potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca  a questa vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire  virgineo con cui tutto il suo essere si stringe al mondo,  che non può, malgrado tutto, non amare. Leggete II  pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte del  Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è  gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneggiato, ma il cui incanto è caduto, risorge nella sua memoria e nel suo cuore superba visione, sua delizia ed  erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e presente,  torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale,  che già lo fece per tanto tempo ululare.   L’atteggiamento negativo ed ostile, quando non si  scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e significato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme  di fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in  qualche raro tratto dei Canti e in parecchie delle Operette morali. Di cui si è potuto parlar con sì distratta  intelligenza da vedervi lampeggiare non so che sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama L.,  sa che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici  sono i critici del frammento. Si fermano a una pagina  delle Operette L.ane, e non curano di guardarne  l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente unità  organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una,  sotto la stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento  dell’autore. Così vedono Momo, i sillografi, Stratone;  ma non vedono il principio e la fine del libro. E si lasciano  sfuggire il significato e l’accento del mito iniziale, la  Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-  v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore  gentilissimo; come si lasciano sfuggire le meditazioni  finali di Eleandro e di Plotino, tutte umanità ed affetto.  Non vedono perciò lo spirito complessivo e centrale e  quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia,  che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti  più duri, più pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta  è colpito allo spettacolo del freddo vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei due  opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello  spirito del L. l’impeto della sua lirica sublime.  La quale nel momento stesso che pare prostri gli animi  nel più disperato dolore, li solleva, conforta ed esalta,  aspergendoli di non so che affettuosa soa\ ita. Idilho e  dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la  vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed  estrania; e fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente  dentro di sé un vuoto infinito. Due cuori diversi, ma non  posti l’uno accanto all’altro, bensì unificati in un cuore  solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né ])cssimismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà,  del valore e della superiore letizia della vita, tremenda  insieme e adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 essenza della poesia L.ana.  In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma L. sa, e soprattutto sperimenta in se stesso, che quel  pensiero che ferisce, sana esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di tutte le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo  stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora  rinverdisce di nuove fronde. Non si può negare che esso  faccia guerra continua alla nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la fede  e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ;  e dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna,  la quale tenta d’immergervisi e sentirne il refrigerio,  sottrae disdegnoso le flessuose acque, e fugge e s’affretta  per le piagge odorate.   Se non che questo pensiero devastatore e distruttore  della originaria unità dell’uomo con la natura, è esso  stesso una nuov'a natura: è la natura di quell anima  grande perché infelice, e infehee perché grande, onde il  Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in  verità sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori,  ma si pensi, si attui, si viva, esso non è più nulla di  estraneo alla vita, ma è la vita stessa. E in esso, ancorché  rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più aride, rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia.  Allora, ecco, il L. acquista coscienza della felicità  superiore in cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito  attraverso al pensiero e al canto; poiché (come egli dice)  « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la  potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e nobiltà  dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora egli sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce  naufragare, è contenuto nel suo pensiero, che lo abbraccia  spaziando più oltre. Allora egli, piccolo ed esile fiore  sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore, s’inebria del  profumo della sua poesia, che consola il deserto. Allora  egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna  gli può strappare, nel demone divino e onnipotente che  fa insieme la sua infelicità e la sua grandezza, la gioia  e il fervore della vera vita; in cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende l’amcre  con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riattaccano alla vita e han la forza di vivere e di morire.  A Porfirio che a conclusione d’un rigoroso ragionamento  si vuol togliere la vita, Plotino ammonisce che « non dee  piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere secondo  ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro  chi non cerca se non la utilità propria, e si gitta, per cosi  dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere  umano. Uomo chi l’amore di se medesimo pospone all’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini,  è proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ?  O non ci sono, per dir così, due ragioni: una, inferiore,  che ci trarrebbe al suicidio attraverso il più sordido amore  di noi medesimi, e una superiore, che ci libera dal giogo  di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini che  ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non  è la natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità  che soffre ed ama e canta.   Quale in notte solinga  Sovra campagne inargentate ed acque.   Là 've zefiro aleggia,   E mille vaghi aspetti  E ingannevoli obbietti    1 Operette. Fingon l’ombre lontane   Infra Tonde tranquille   E rami e siepi e collinette e ville;   Giunta al confin del cielo. Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno  Nell’ infinito seno   Scende la luna; e si scolora il mondo;   Spariscon Tombre, ed una  Oscurità la valle e il monte imbruna;   Orba la notte resta,   E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente luce. Che dianzi gli fu duce. Saluta il carrettier dalla sua via;   Tal si dilegua, e tale  Lascia l’età mortale  La giovinezza. La luna è tramontata, e il carrettiere canta. La giovinezza si dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto.  In questo canto, nella sua mesta melodia, è il più alto  segno dello spirito del Poeta. Qui la sua poesia.  Conunemorazione centenaria letta alla R. Accademia Nazionale  dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata, oltre che  ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i» lugUo  dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo  L. (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla morte di L. Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno  di grandi eventi ; storia mossa e agitata da fedi e interessi  in massima parte estranei all’animo del L., anzi  osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra filosofia, altro  uomo. E gli effetti sono stati così cospicui, così importanti, anche secondo il modo di vedere del L.,  da riuscire un’aperta condanna delle sue convinzioni e  de’ suoi giudizi storici. Secolo, si può dire, anti-L.ano, culminante in questa Italia, potente, imperiale,  creazione audace della stessa Italia che alla fantasia giovanile del L. apparve inerme, anzi di catene carche  ambe le braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la  faccia nascosta tra le ginocchia, piangente.   Eppure lungo questo secolo la fama del L. è  venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia  ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza della sua poesia, della sua anima ha acquistato  d’anno in anno, e quasi giorno per giorno, di penetrazione, di comprensione e di intima simpatia a mano a  mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una  coscienza più seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze risorgevano a dignità civile e  politica. Scendevano quindi in campo contro gli oppressori e li affrontavano nei congressi, e accordavano rivoluzione e forze conservatrici dimostrando maturità di  accorgimento e di patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva, operante  e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto  sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una  nuova scienza, una nuova cultura, adeguata all’altezza  dell’assunto politico; e creavano un esercito nazionale; e  sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla vita  economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e creavano le scuole, organizzando tutto un sistema  nuovo di pubblica istruzione e portando via via la luce  neUe menti delle plebi abbandonate da secoli all’ignoranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte  le energie individuali si venivano educando al senso e  alla tecnica dello Stato; e infine, in una riscossa della  coscienza nazionale che si era venuta formando negli  animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più  grande guerra della storia; combattevano con grande  onore, e contribuivano più d’ogni altra nazione alleata  alla vittoria finale. E dopo questa prova stupenda dell’antico valore, arditamente si accingevano con una profonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova  Itaha e una nuova Roma. Quanto cammino! E quanta vita  in quella moribonda Italia, di cui parlava L.!   Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di quesb  cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal L.,  r ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua  grandezza. La bibliografia L.ana è una delle più  ricche tra quante se ne siano formate intorno ai maggiori  poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con la dantesca.  Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e suscita la personalità del L. con i suoi scritti e con  i casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi  che soprastano con le loro alte cime al vento, da De San-    ctis a Carducci e a Pascoli, per non citare viventi, e di  fitta boscaglia pullulante per tutto, ai piedi dei grossi  tronchi. Intorno al L. non pure letterati, deside-  sori di esattamente conoscere tutti i particolari della biografia e dello svolgimento graduale del genio, e di risolvere tutti i problemi che lo studio di tal materia fa nascere; ma filosofi e storici della filosofia, poiché il L.  ebbe il gusto degli alti concetti speculativi, e nel suo  stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri di dottrine  celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme scienziati  (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in sospetto  che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta derivino da non so qual limite somatico; sospetto nascente  da improvvisate teorie e appoggiato a improvvisate osservazioni di fatto; ma fecondo tuttavia di costruzioni  e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili tuttavia  a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto  in questo secolo intorno al L.. Fortunatamente,  peraltro, se ci sono state deviazioni ed eresie critiche e  storture di metodi materialistici suggeriti da pigrizia  intellettuale di letterati ottusi, o da presunzione pseudo-scientifica di cervelli rozzi e ignari dei rudimenti di qualsiasi serio concetto intorno ai valori dello spirito, ci sono  stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso  le forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti  della espressione artistica sa scoprire il principio profondo  dell’ ispirazione, che è l’anima del poeta e 1 essenza di  quell’eterna poesia che lo fa immortale. Critica che in  Italia, in questo secolo, da L. a noi, ha avuto  esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato nell’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per  raggiungere il poeta là dove egli e poeta.   Così in questa selva della letteratura L.ana noi  non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo di questo    secolo anti-L.ano si può dire che egli sia stato prima  scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno  dei più grandi spiriti della storia del mondo, e come il  creatore della più intensa poesia che si sia prodotta mai  in Italia. Fu scoperto quando un nostro grande critico,  che lo aveva conosciuto di persona, gentile e mansueto  come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti,  e acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro,  non poteva paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire  la infinita differenza tra il pessimismo amaro del filosofo  tedesco e il pessimismo sui generis del poeta itahano. L., dice, produce l’effetto contrario a quello  che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama  illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in  petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che  non ti senta migliore; e non puoi accostar tigli, che non  cerchi innanzi di raccogherti e purificarti, perché non  abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa  credente; e mentre non crede possibile un avvenire men  tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo  amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così  basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile  e pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse  prolungata la vita infino al Quarantotto, senti che te  l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva confessato  il L. medesimo, in quel libro in cui più freddamente  si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli occhi  dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza  indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e  degna di esser vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove  esce candidamente a dire « che non è fastidio della vita,  non disperazione, non senso della nuUità delle cose, della  vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai;  benché queste disposizioni dell’animo siano ragionevolissime e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,  passato un poco di tempo, mutata leggermente la disposizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un  subito, per cagioni menomissime e appena possibih a  notare; rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella  speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro  apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non  veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire, al  senso dell’animo ».   Benedetto «senso deU’animo», che salva l’uomo dal  sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché  sente di dover affermare, come fa L. Sono  nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva, sohto e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di patimento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire :  <( Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste,  o jier isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e  non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di  deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di (juel  misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o  di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo,  iniquità e disonestà di azioni, o perversità di costumi;  laddove, per Io contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,  benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,  magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato;  quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che  dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e  infine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari;  i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere  per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Così  aveva pensato quando scriveva con animo  di credente il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Così continuava a pensare, da miscredente, sette anni  dopo, nella canzone Alla primavera, o delle favole antiche.   Non si può credere al Poeta, quando, raccogliendo il  succo dell’amarissima esperienza amorosa fiorentina e assaporandone il fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel '33  quegli accenti disperati ed empi;   In noi di cari inganni   Non che la speme, il desiderio è spento. Amaro e noia   La vita, altro mai nulla ; e fango è il mondo. Al gener nostro il fato   Non donò che il morire. Ornai disprezza   Te, la natura, il br\itto   Poter che, ascoso, a comun danno impera,   E r infinita vanità del tutto.   Momento satanico, ma un solo momento: voce sì  dell’anima L.ana, ma che il lettore attento non  può ascoltare se non commista in armonia profonda a  voci più alte che sgorgano da polle maggiori; e che lo  stesso Poeta ascolta dentro il suo petto come espressione  più schietta della sua propria natura. Alla quale egli non  può rinunziare, convinto che sia da fare « poco stima  di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al lettore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mezz’ora gl’ impedisca di ammettere un pensier vile, e di  fare un’azione indegna. Il momento satanico ricorre spesso nel L..  Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di questa  forza incoercibile che egli sente insorgere di dentro a  se medesimo, di fronte e a dispetto della natura, ossia  di questo universal meccanismo che regge il mondo  concepito, come L. aveva appreso a concepirlo,  in maniera rigorosamente materialistica: quel mondo in  cui non c’ è posto per la libertà, né quindi per la virtù,  né per l’immortalità; per nulla di ciò che forma l’essenza    umana dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede, e  la fiducia nella sua forza di contrastare alla natura, di  dominarla e farne strumento di una vita spirituale sempre più ricca. Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta l’immagine enorme e tremenda di quella Natura disumana,  che stritola e annienta l’uomo e tutte le pretese del suo  audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli si presenta  nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove all’uomo  che aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita  per cento parti la Natura e la fuggiva da ultimo nel-  r interno dell’Africa, sotto la hnca equinoziale, in un  luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ecco  che gli interviene qualche cosa di simile che a Vasco  di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura in petto e in persona: «Vide  da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò doveva essere di pietra, e a somiglianza degli  ermi colossali veduti da lui, molti anni prima neh’ isola  di Pasqua. Ma fattosi jiiù da vicino, trovò che era una  forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto,  appoggiato il dorso e il gomito a una montagna; e non  finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di  occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ».  La Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più  che altrove la sua potenza. E alle molte parole con cui  1 ’ Islandese si lagna delle tribolazioni che affliggono  l’uomo in questa vita a cui non egli ha chiesto di nascere,  risponde breve che « la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate  ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo;  il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione ». Intanto sopraggiungono « due leoni, così rifiniti e maceri dall’ inedia, che    appena ebbero forza di mangiarsi quell’ Islandese; come  fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita  per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso,  e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che  r Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò  un superbissimo mausoleo di sabbia; sotto il quale colui  disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato  nel museo di non so quale città di Europa. Ma lo stesso tono malinconicamente beffardo della  prosa dimostra con qual animo il Poeta accolga questa  immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra  una dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace  d’indagare questo mistero enorme delbumverso non per  addolorarsi del disperato destino deU’uomo, anzi per  riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri, filosofo socratico, che con occhi di lince scopre  tutto il vano e il doloroso della vita, ma ne ragiona con  impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al di sopra  e al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo L. non fa la fine dell Islandese; non soggiace aUa natura, pasto dei leoni o còlto  improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda dall’alto e sorride, e sente la propria umanità superiore  nell’ intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di reagire al fato col sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia  n plebeo il quale, non valendo a cessare gli oltraggi del  destino, si consola con la necessità dei danni, quasi fosse  men duro un male senza riparo o non sentisse dolore  chi è privo di speranza. No,  Guerra mortale, eterna, o fato indegno, Teco il prode guerreggia.   Di cedere inesperto.   È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso  luta ad emendare il crudo fallo del cieco dispensator de    casi. A quel modo di emenda a cui s’induce Saffo, L., a pensarci, non potrà consentire, come sappiamo.  Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non devecedere.   Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pensiero si leva al di sopra del fato, intende, comprende  e sorride;   Che se d'affetti   Orba la vita, e di gentili errori,   È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me bastante  E conforto e vendetta è che su l’erba. Qui neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e sorrido.   Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si allarga  allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece  battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità.  Ma questa eroica grandezza non basta; poco stante,  nella piena maturità delle sue esperienze morali, tornata  la calma dopo la tempesta della patita delusione e del  sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su dal  cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator  dei casi. Quando, presso Portici, mirerà i campi  cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti d’ impietrata lava,  là dove erano state liete ville e ricche messi e armenti  e città famose, e ora tutto intorno una ruma involve, il  suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra, che,  quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor  manda un profumo, che il deserto consola: simbolo della  sua poesia, del suo animo, che da questa spietata empia  natura sa che c’ è un conforto e un riparo nella umana  compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro  al destino:   Nobil natura è quella  Che a sollevar s'ardisce  Gli occhi mortali incontra  Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo.   Confessa il mal che ci fu dato in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini, ma contro la natura che sola è rea:   che de’ mortali   Madre è di parto e di voler matrigna.   Costei chiama inimica; e incontro a questa  Congiunta esser pensando.   Siccome è il vero, ed ordinata in pria  L'umana compagnia. Tutti fra sé confederati estima  Gh uomini, e tutti abbraccia  Con vero amor, porgendo  Valida e pronta ed aspettando aita  Negli alterni perigli e nelle angosce  Della guerra comune. Oh l’alta meraviglia del L., dopo circa un  lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel concetto desolato  del mondo che le meditate dottrine gli mettevano innanzi,  e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella speculazione dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a  chi lo gusti, poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta,  ancor che tristo ha suoi diletti il vero) ; dopo avere scritto  le Operette che sono la filosofia del L., ma sono  pure un momento essenziale dello svolgimento della sua  poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della  sua vita avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel freddo bagno nella filologia  italiana, che furono per lui le cure spese intorno alle  Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia  italiana. oh l’alta meraviglia, quando si sentì rifluire  in petto la vita ! Non che risorgesse la speranza; non  che la natura gli apparisse sott’altra luce; non che si  accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi.  Ma insomma. Proprii mi diede i palpiti  Natura, e i dolci inganni.   Sopirò in me gli affanni  L’ingenita virtù ;   Non l'annullàr: non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura  L’ infausta verità.   Dalle mie vaghe immagini  So ben ch’ella discorda;  che natura è sorda. Che miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette:  Pur sento in me rivivere  Gl’inganni aperti e noti;   E de’ suoi propri moti  maraviglia il sen.   Da te. mio cor, quest’ultimo  Spirto, e l’ardor natio.   Ogni conforto mio  Solo da te mi vien. Saffo ha ragione quando afferma;   Mancano, il sento, aH’anima  Alta, gentile e pura. La sorte, la natura.   Il mondo e la beltà.   Saffo però ha dimenticato il suo cuore:   Ma, se tu vivi, o misero.   Se non concedi al fato.   Non chiamerò spietato  Chi lo spirar mi dà.   Ecco, Tanima si calma, torna la vita con le sue attrattive,  con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al cuore del Poeta Silvia, la giovinetta Silvia splendente di bellezza  negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa; toma  l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il petto, al suon della sua voce; quando questa  voce gli faceva lasciare gli studi leggiadri per affacciarsi  al balcone della casa paterna:   Mirava il ciel sereno.   Le vie dorate e gli orti,   E quindi il mar da lungi, e quindi il monte.   Lingua mortai non dice  Ouel eh’ io sentiva in seno.   E pur lo aveva detto la sua lingua, dieci anni prima,  in quel capolavoro che è l’idillio scolpito nei quindici  versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna, della spietata natura, aveva intravvista, sentita,  amata un’altra Natura; l’immensa Natura, verso la  quale dal limite stesso della prossima siepe l’anima è  lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica dolcezza: interminati   Spazi di là da quella, e sovrumani  Silenzi, e profondissima quiete ove per poco  Il cor non si spaura. E come il vento  Odo stormir tra queste piante, io quello  Infinito silenzio a questa voce  Vo comparando; e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente  E viva, e il suon di lei. Cosi tra questa  Immensità s’annega il pensier mio;   E il naufragar m’ è dolce in questo mare.   Di questo momento mistico del L. poco s’è  parlato; ed è momento di grande valore per la comprensione della sua anima, che in quest’atteggiamento religioso placa definitivamente il fiero contrasto tra la sua    indomita soggettività e la realtà onnipotente e infinita,  in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in  una situazione idillica che, riportando l’individuo alla  natura madre, infonde in lui la fiducia rinfrancatrice,  di cui l’uomo ha bisogno per vivere, abbandonarsi all’azione e sentire nel proprio petto il respiro eterno e  r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli perciò,  com’egh stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i grandi  idilli che dal canto a Silvia vanno a quello del pastore  errante dell’Asia, scritti tra il ’zq e il ’30, anni della più  potente espansione e della lirica più piena e felice del  Poeta, è la chiave di vòlta di tutta la poesia L.ana.   Quando si legge la lettera al Giordani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta  la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e  un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi  cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune  immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel  cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla Natura, la cui voce mi parve  di udire dopo tanto tempo »; non si può non essere commossi da questo prorompere di così alta vena mistica la  cui scaturigine evidentemente si cela nel centro vivo  più remoto della personalità L.ana. E allora s’intende l’invocazione ansiosa della canzone Alla primavera:   Vivi tu, vivi, o santa  Natura ?   Allora si ode quasi il lento respiro queto e dolce e l’arcana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in solitaria parte,   Sovra un rialto, al margine d’un lago  Di taciturne piante incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si volve. La sua tranquilla imago il sol dipinge.   Ed erba o foglia non si crolla al vento;   E non onda incresparsi, e non cicala  Strider, né batter peima augello in ramo,   Né farfalla ronzar, né voce o moto  Da presso né da lunge odi né vedi.   Tien quelle rive altissima quiete;   Ond’ io quasi me stesso e il mondo obblio  Sedendo immoto; e già mi par che sciolte  Giaccian le membra mie, né spirto o senso  Più le coramova, e lor quiete antica  Co' silenzi del loco si confonda.   Allora, infine, si scorge il tono vero del Canto del Pastore, così buio e pur così luminoso, così accorato e pur  così sereno, con i suoi perché disperati, e col suo funereo  sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale) e la sua alata  poesia :   Forse s'avess’ io l’ale  Da volar su le nubi,   E noverar le stelle ad una ad una,   O come il tuono errar di giogo in giogo.   Più felice sarei. Poiché il pastore vede che la sua greggia è beata, quasi  libera d’affanno, e che, sopra tutto, tedio non -prova, a  differenza di lui, che non ha pace anche sedendo sopra  l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la  mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia  riposo. E ogni animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si  appaga. Vede il pastore che nel seno della natura è la  felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con l’irrequieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile  intrigo, in una fatica vana senza speranza.   Tutta la poesia del L. attinge in quel punto  mistico del ritorno alla gran madre la pace e la gioia.  Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni che    gli ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della  casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti  azzurri ». Per lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi,  né riso, né amore: ma cantare sì, come ruccellino che  dalla vetta della torre antica va cantando, alla campagna,  finché non muore il giorno; ed erra l’armonia per la  valle, mentre   Primavera d’intorno   Brilla nciraria, e per li campi esulta. Si ch’a mirarla intenerisce il core.   L'uccellino non si tormenta col pensiero della giovinezza che passa e della morte che s’avvicina: poiché  di natura è frutto ogni sua vaghezza e in lei non è affanno :  e da lei sgorga pure il suo canto; il canto che aduna  nel cuore la dolcezza della primavera che fa brillare  l’aria e esultare le campagne. Anche uomini di alto intelletto, come Capponi,  han voluto dar sulla voce al L. per quel suo concetto della infehcità che cresce negli uomini in proporzione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sapere. Come se questo stesso lamento non uscisse dalle  Sacre Carte ! E gli han voluto far osservare che felice  era certo egh stesso mentre componeva i suoi canti, e  riusciva ad essere L.. Come se non fosse questo  il significato di tutta la poesia L.ana, e la sorgente  del suo irresistibile incanto! L. lo sapeva bene,  e sotto la data del 30 novembre 1828 ne’ suoi Pensieri  annotava: «Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia vita,  e nel quale mi contenterei di durare finch’ io vivo !  Passar le giornate senz’accorgermene e parermi le ore  cortissime, e meravigliarmi sovente io medesimo di tanta  facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non aveva  egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza deU’umano  intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza?  Tale il suo canto; il più squisito frutto dell’operare  della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir così,  a far la più alta prova del suo potere dentro il genio  dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova  se stesso, scoperta che abbia la fonte della sua vita:  quel divino, che ha in sé e gli colora il mondo delle beate  larve, e lo solleva da questa vicenda perpetua di nascere  e di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze, al  regno immortale della vita dello spirito. E quando scopre  questa sorgente, egh è veramente lui, il genio; e sente  l’amore che abbellisce e conforta, e crede nella potenza  e nella grandezza dell’umana intelligenza, e torna ad  amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con le dolenti  parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore  in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto  dello spirito che si ritrae in se stesso e nel sentimento  del proprio valore, quale si svela al contatto di quella  natura eterna, in cui è il suo principio e con cui perciò  deve immedesimarsi per trovare le radici del suo proprio  essere. E il naufragar m è dolce in questo mare.   Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua  poesia, che i giovani amano per l’amore della giovinezza  che vi spira dentro; che gh uomini maturi ed esperti  della vita amano non meno per il lucido specchio che  essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso  i quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni  disinganno; che tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti  o ignoranti, considerano come uno dei doni più preziosi  di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un gran cuore  parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono  per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria innegabile della vita e della non meno innegabile azione dello  spirito che affranca da ogni miseria e infonde la fede  per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro, sacro per  gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in  cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò  faciU, com’ è al passero solitario il suo perpetuo canto :  anima della sua anima. Piccolo libro da leggere bensì  non a brani e frammenti, ma intero, affinché non sia  frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi insieme  la sua dolce virtù consolatrice e animatrice. Conferenza tenuta al Lyceum di Firenze e  pubblicata nel volume di letture Giacomo L. a cura di Blasi (Firenze. Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia di  Giacomo L. (Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un poeta, e di un grande  poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del pensiero di  questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per discreto  che voglia essere, si espone al rischio di toccare un tasto  falso e di riuscire uggioso e molesto fin dalle prime parole.  Ripugna infatti al senso poetico di cui ogni spirito bennato è più o meno riccamente dotato, questa ricerca che  ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima e  affatto arbitraria : questa ricerca di mettere quel che  pensa un poeta, sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta,  e cioè un poeta vero, quel che egli riesce a dire, ossia  quello che egli sente, e sente profondamente, al paragone  degh astratti schemi in cui ogni filosofia va a finire.  Non già che i poeti non abbiano anch’essi la loro filosofia,  un loro concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’ hanno !  Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la vivezza  e col vigore del suo sentire la sostanza della propria vita  spirituale, nessuno così fortemente come il poeta afferma  la propria fede e la oppone ad ogni più meditata dottrina  che si esibisca da coloro che passano per gh autorizzati  interpreti della filosofia; nessuno più di lui è convinto  d’avere una sua filosofia capace di sbaraghare tutte le  altre. Ma le battaglie che il poeta combatte e vince, si  svolgono dentro al chiuso della sua fantasia. E gh possono bensì procurare la gioia della vittoria, ma una gioia  tutta soggettiva come di chi in sogno viene a capo del  suo più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del giardino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli individui e le opere loro, perché con la ragione sovrana  prima o poi valuta le ragioni di ciascuno — di fronte  al poeta rimane sempre il filosofo, che scopre le contraddizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito delle  sue asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede;  e insomma i difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene  così a trovarsi nella impossibilità di scorgere la grandezza  della sua personalità se a misurarla non adotti un metro  diverso. E che cosa di più irriverente e ottusamente inumano e brutale che accostarsi ai grandi uomini per guardarli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano scorgere  i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto  in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è  grande uomo per il suo cameriere; e potrebbe parere che  in fine il filosofo sia, per tale rispetto, il cameriere del  poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le scarpe, ma  non lo guarda mai in faccia.   Oh la servitù numerosa che sta intorno al poeta !  C’ è il filosofo; ma c’ è anche l’antropologo e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ; schiere e schiere  di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i quah,  per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti più elementari del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il padrone, per entrargli nell’anima e scrutarne la passione, intenderla, sentirla, parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza!   Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto  tutto questo servitorame, e sta sulle sue, per non confondersi, per salvare se stesso e \fivere la sua vita superiore, di cui è geloso come del suo tesoro. Talora può  concedere un sorriso di umana indulgenza o signorile  degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti  occhi che penetrano negh ascosi pensieri — così laboriosi, così opachi, così grevi; — e negh angoh della bocca  il sorriso diventa ironia, sarcasmo. E allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli uomini che  la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue incessanti inchieste e pretese, diventa materia di satira.   Allora, il L. esce in un’osservazione di gusto  volteriano, come questa che è nello Zibaldone. L’apice del sapere umano e  della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità  se l’uomo fosse ancora qual era da principio; consiste a  correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter  l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato  s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla  filosofia ». Osservazione che ama ripetere, dandola come un «suo principio»: «La sommità  della sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà,  e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella non  fosse mai nata: e la sua maggiore utilità, o almeno il  suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto  umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato in  cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più nitida  forma tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi  delle sue più profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo  di Timandro e di Eleandro: «L’ultima conclusione che si  ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bisogna filosofare ».   Nei Paralipomeni degli ultimi anni, anzi  degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente dirà;   Non è filosofia se non un'arte  La qual di ciò che l'uomo è risoluto  Di creder circa a qualsivoglia parte.   Come meglio alla fin 1 ’ è conceduto.   Le ragioni assegnando empie le carte  O le orecchie talor per instituto  Con più d'ingegno o men, giusta il potere  Che il maestro o l'autor si trova avere.    Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del L. chi si limitasse a leggere questa sola ottava dei  Paralipomeni, come chi si diverte a ripetere col Petrarca.  Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o ignorando  che PETRARCA continua; Dice la turba al vii guadagno  intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il L. infatti si  ripiglia nella seguente, e precisa, compiendolo, il pen-  sier suo in questo modo:   Quella filosofia dico che impera  Nel secol nostro senza guerra alcuna,   E che con guerra più o men leggera  Ebbe negli altri non minor fortuna,   Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera  La mia mente oso dir, portò ciascuna  Facoltà nostra a quelle cime il passo  Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso.   La filosofia, dunque, che il L. schernisce è quella  teologica, come allora si diceva, dommatica, spiritualistica; la filosofia della Restaurazione e del Romanticismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni  filosofia. Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica,  presuntuosa, intollerabile alla mentalità L.ana perché in contrasto coi fatti e con le necessità di ogni libera mente, proveniente, come pur quivi si dice,   da quella   Forma di ragionar diritta e sana  Ch’a priori in iscola ancor s'appella,   Appo cui ciascun’altra oggi par vana.   La qual per certo alcun principio pone  E tutto l'altro poi a quel piega e compone;   cotesta filosofia non è satireggiata qui propriamente  dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o, se si vuole, da  un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è combattuta e debellata dalla vera: ossia da quella che all’autore par vera. Neanche si può dire quel che dice MANZONI degli avversari della filosofia respinta in tutte le sue  forme e in generale, quando osserva che anch’essi, questi  avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro  filosofia, servitori senza livrea. Il L. sa di avere  la sua filosofia; anzi, per cominciare ad intenderci, egli  propriamente professa di averne due. Dico cU più: senza  r intelligenza di questa sua duphce filosofia si rischia  di fare, a proposito del L., di quella esegesi filosofica, ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti fare,  e che s’ è sempre fatta fin dal tempo del L.; una  filosofia infarcita di luoghi comuni e di massiccia pedaneria: filosofia da camerieri che allacciano le scarpe e  non guardano in faccia. Con la filosofia cosiffatta va a braccetto una critica  che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non meno,  tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però  della sua poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una ragione di metodo, che ritengo fonda-  mentale. Ed è questa: che l’essenza della poesia non è  nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta  ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma  negh occhi con cui lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e  vivere nel suo interno. Fuori del quale ogni realtà, sensibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile. Lì,  nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo  ha il suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede  o si pensa, o si può vedere e pensare; e lì è la sorgente  della poesia. Perciò una critica che innanzi alle Operette  morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e reazionario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e  per ciò non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e  cioè di positivo ed eterno, è critica radicalmente sbaghata,  che scambia le ombre con i corpi saldi. Poiché le idee,  una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima assume  verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse    partecipano e da cui traggono il loro significato vivente,  sono pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente,  ma non {lotrà mai abbracciare al suo petto.   Nel caso del L. poi c’ è di più; perché, come ho  accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa, natu-  rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e  che fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì  del suo canto, egli ha la filosofia di cotesta sua filosofia.  E in questa filosofia superiore che è negazione della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito da  Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser quella, che non bisogna filosofare; in questa  filosofia superiore è il senso serio e profondo di quella  che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda della  filosofia, giudicata inutile anzi dannosa.   Lo stesso L., teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima della sapienza, la  chiama, nello Zibaldone, «ultrafilosofia»:  una filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle  cose, ci ravvicini alla natura: filosofia naturale, spontanea, primitiva, barbara; più che alle origini, si trova  nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo da  capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della filosofia L.ana contro la pretensiosa  filosofia ottimistica alla moda di Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle  opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano  allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i più  degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello  solo comporranno e governeranno la loro vita. E queste  cose le dicono poco meno che tutti i filosofi antichi e  moderni ». Timandro ha concesso ad Eleandro che tutti    sono infelici; gli ha concesso la necessità della nostra  miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e piccolezza della specie umana, e la naturale malvagità degli  uomini; gli ha concesso che in queste verità si assommi  la sostanza di tutta la filosofia; ma deplora egh che tali  verità vengano divulgate col solo frutto di spogliare gli  uomini della stima di se medesimi («primo fondamento  della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e distorh  dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle verità che sono la sostanza di tutta la  filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli  uomini; e credo che facilmente consentireste che debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. 11 che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo. Dunque, non bisogna filosofare, come  s’ è detto.   Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia primieramente  è inutile, perché a questo effetto di non filosofare non  fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima, perché cjuella ultima conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e imparata che sia, non  si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli  uomini dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi  più facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare ».   Non si può mettere in opera. Il che significa che  rultrafilosofia — che è la conclusione perfetta e perciò  la vera filosofia — non estirpa e distrugge l’altra, falsa  o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è quella  che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi  resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado,  quantunque insieme con essa e al disopra di essa ci sia  una verità certamente più umana e degna dell’uomo,  diretta a ricostruire quel che la prima ha demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che  si conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto  ragionare che s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa  della filosofia superiore non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda natura,  che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà  mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la verità assoluta, perché messaci innanzi  dalla stessa filosofia quando sia riuscita ad elevarsi fino  alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur non  contraddire alle verità via via accertate e sempre più  strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile  sistema, bisognerà sì rassegnarsi a dire errori in sembianza di verità, illusioni, fantasmi, tutte quelle altre  verità che come tali si rappresentano all’uomo il quale  a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda rivivere  il mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primitiva, felice, ridente, soffusa di una divina aura di giovinezza ignara e fidente. L’uomo L. non può non  filosofare; non può non passare attraverso la prima filosofia; ma non può né anche non giungere infine alla seconda e superiore. Dove egli ritrova tutto quello che ha  perduto. Lo ritrova, s’intende, com’ è possibile soltanto dopo  averlo perduto; poiché dimenticare quel che ha saputo  e sa, non potrà mai ; a quel modo che può tornar fanciullo  un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e le  amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della  virtù chi abbia una volta bevuto al calice del bene e  del male.   Chi distingue nel pessimismo L.ano due fasi o  forme, la prima di un pessimismo storico in cui tutto il  male è frutto dell’ « irrequieto ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai Patriarchi),  e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi uomini  vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è,  ripeto, il segreto della sua poesia; di quella dolcezza che  ci suona dentro alla lettura dei canti dal primo all’ultimo,  e in forma più palese e più sistematicamente determinata,  almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette morali: dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza  che negli uni e nelle altre si riversa nelle più varie forme  dell’anima di quest’uomo, che fu certamente tanto grande  quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta onda della  sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per avvolgere il mondo stesso nella tenebra della disperazione,  anzi per illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella  vita con i suoi ideali e con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene apertamente attestata  nello stesso disegno delle Operette. Le quali cominciano  col mito delle origini della umanità governate dall’amore  e finiscono nella conclusione di Eleandro. Se ne’ miei  scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo  dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro  [e dunque egli ha sfogato, e s’è consolato e ora può parlare  con animo pacato e sereno], io non lascio tuttavia negli  stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio  di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è  fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza  d’animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di  costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle  opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili,  forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane,  che dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo;  e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari.  i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere  per opera della civiltà moderna e della filosofia. E più  tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e di Porfirio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge  della vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto  al fondo della disperazione della sua vita senz’amore.  Prima parola ed ultima, amore. Quella stessa che risuona  in fondo ai Canti, nella Ginestra. E contraddice certamente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello Zibaldone, e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi credenti e insomma a tutto il contenuto  prosaico della poesia L.ana; voglio dire a tutto  quel sistema di filosofia che era, nel vocabolario del L., la verità in opposizione agli errori: a tutto il complesso degli insegnamenti di quella filosofia che, per altro, negli stessi Paralipomeni, dove più espressamente essa viene esaltata, non impedisce al L.  di uscire in quel famoso grido del cuore. Bella virtù, qualor di te s’awede. Come per lieto avvenimento esulta  Lo spirto mio. Cotesta filosofia, non occorre esporla. Tutti la conoscono. E quella concezione del mondo, che giustifica un  empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto quello che  in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico dall’esterno attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il  quale da chi tenga fermo al concetto delle sue esigenze  imprescindibili, non può non raffigurarsi dotato di liberta,  e quindi appartenente a quel mondo dei valori per cui  è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione  al falso, o un volere buono in contrasto col malvagio,  e un’arte creatrice di bellezza che si libri nel puro aere  ideale e sovrasti alla miseria di tutte le cose brutte; lo  stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui libertà  e verità e virtù e bellezza non possono essere, in fondo,  altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione  ingenua e fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa  realtà che si rappresenta a un tratto tutta spiegata ncUo  spazio e nel tempo, materiale, risultante da infinite parti  e particelle che si condizionano a vicenda in guisa che  ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre;  in un meccanismo universale, dove tutto quel che accade,  è fatale di una necessità che schiaccia e stritola ogni  vana pretesa dell’uomo che si ])rovi a mutare il corso  del destino. Tutto. Anche il sentimento che sboccia nel  cuore degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e l’ignoranza ci possono far giudicare buono o cattivo; anche  il giudizio con cui ci s’illude di distinguere il vero dal  falso. Anche la volontà che non sceglie, come si favoleggia, tra bene o male, ma scoppia in un senso o nell’altro con la stessa cieca necessità del fulmine nelle  tempeste della natura.   La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La natura,  perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a  ogni razionalità (perché la ragione è discriminazione,  scelta, libertà). Un mistero.   Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che  essa dice con tanta sicurezza, fosse possibile; come se  cioè fosse possibile un mondo in cui, se non altro, la verità sia una parola vana, e ci sia nondimeno posto per  l’uomo che, in mezzo a questo universale meccanismo,  nel mistero di questa tenebra profonda e per definizione  invincibile, abbia pure il diritto di affermare che la verità sia proprio quella che egli asserisce ! Come se fosse possibile salvare una verità qualsiasi dal naufragio d’ogni verità.   Filosofia dunque essenzialmente contradditoria, che  nei filosofi empiristi, naturalisti, materialisti, tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente contraddizione, tra la ragione che si nega e la ragione che per  negarsi rivendica di fatto il proprio potere e valore.  Filosofia accettata dal L., ma con un’anima che  troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo è  naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito  reagisce ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e quindi  al dolore, per non aver coscienza di tale contraddizione.  E questa coscienza è in lui acutissima. L’uomo, pertanto,  che dovrebbe prostrarsi di fronte alla natura nel senso  angoscioso del proprio niente, non piega, invece, non  s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se battezzate fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione  di tutto il suo spirito nel senso gagliardo e tenace con  cui l’apprende e lo ferma nel cristallo della sua divina  fantasia, si trasfigura: non è più il limite della sua forza  e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è grandezza  umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e  infinita potenza.   Qui l’anima di L., qui il fascino deUa sua  poesia. La quale non trae la sua ispirazione centrale  dall’astratto concetto di quel crudo materialismo, che  annienta l’uomo e fiacca perciò ogni velleità di vivere a  proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un mondo  qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo  senso profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno,  che gli \aene dalla sua « ultrafilosofia », dal bisogno di  respingere come antiumana e contradditoria alla incoercibile natura dell’uomo cotesta filosofia negativa e soffocante. Ora è Bruto minore, nudo di speranza, ma prode,  di cedere inesperti), neUa sua guerra mortale contro il  fato indegno, in atto di sfida magnanima contro il Destino, che egU vince, violento irrompendo nel Tartaro:  e la tiranna   Tua destra, allor che vincitrice il grava.   Indomito scrollando si pompeggia.   Quando nell’alto lato l’amaro ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride.   Ora è la misera Saffo, grave ospite di natura, estranea  alla infinita beltà di questa, consapevole del prode ingegno  che pur le venne in sorte assegnato, delle proprie virili  imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può  vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo  indegno ricevuto da natura, primo principio della sua  infehcità; e morire, ed emendare così «il crudo fallo del  cieco dispensator de’ casi. Ora è il Poeta stesso, che invoca la morte hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia l’ora che tu le penne al mio pregar dispieghi.   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato. La man che flagellando si colora  Nel mio sangue innocente  Non ricolmar di lode. Non benedir, com’usa   Per antica viltà l’umana gente;   Ogni vana speranza onde consola  Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto stolto  Gittar da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in sé spento  anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima disperazione e cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo,  della natura e di questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto poter che, ascoso, a comun  danno impera. Ora invece, il Poeta s’accosta a questa Natura misteriosa, arcana, e si scioglie in un mistico sentimento della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il naturalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente  oppone la realtà all’uomo al punto da non lasciargli più  modo di distinguersene e spingerlo perciò al desiderio  d’immergersi e immedesimarsi col tutto infinito che gli  è davanti e lo attrae. E allora L. ricompone il suo volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo  dolore, ossia quella sua soggettività solitaria e disperata  di uomo che, perduta la giovinezza, vede intorno a sé  il deserto e il buio della sera e deH’orrida vecchiezza,  nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,  dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce  gusto dell’eterno:   Così tra questa   Immensità s’annega il pensier mio;   E il naufragar m’ è dolce in questo mare;   de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe   A pensar come tutto al mondo passa  e quasi orma non lascia;   e il suono delle umane glorie e degl’ imperi più famosi  cede come il canto dell’artigiano che riede a tarda notte  al suo povero ostello poiché la festa è finita:   Tutto è pace e silenzio, e tutto posa  Il mondo;   e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante insieme e viva divenutagli familiare:   ed alla tarda notte  Un canto che s’udia per li . sentieri  Lontanando morire a poco a poco;   de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del meriggio presso all’ immoto specchio del lago di taciturne  piante incoronato gli fa obliare se stesso e il mondo: e già mi par che sciolte  Giaccian le membra mie, né spirto o senso  Più le commova, e lor quiete antica  Co’ silenzi del loco si confonda.   Estasi; estasi mistica che fa risalire dal petto il trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel canto  Alla primavera, 0 delle favole antiche:   Vivi tu, vivi, o santa  Natura ?   e quello anche ])iù antico della stupenda lettera al Giordani, che convien rileggere: «Poche sere  addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia  stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna,  e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano  da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche,  e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi  a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto  tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota nello Zibaldone che  « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,  ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della  sua nota, della FILOSOFIA inferiore. Egli stesso ha il pensiero  a una diversa filosofia quando, sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi  si strisciano sempre intorno e appiedi alla verità; di  rado l’afferrano con mano robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto  della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni,  situato su di una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto  il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si contenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura  o « senso dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della  piccola ragione, poiché ha bisogno della grande. La quale  non s’illude di aver spiegato tutto quando ha spiegato  la natura, e non ha spiegato e si mette in condizioni  di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a  dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita  umana. L’uomo, che è poi colui che si propone il problema della natura, e senza del quale {pertanto il problema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella  mezza filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia  nel meccanismo della natura e condanna alla schiavitù  del nulla, ma che risorge in tutta la sua libertà e nel suo  valore infinito appena la grande ragione gh faccia sentire  la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna  cosa » infatti, come si legge nello Zibaldone « maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire  la sua piccolezza » ; e provare la gioia del comporre, del  cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità, essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa,  è grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non soggiace  alla natura, e può non temere la morte, e può, come la  ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino  alito spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una  forma lapidaria che fa parere il suo detto quasi proverbio,  che « nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco  savio, che voler savia e filosofica tutta la vita. Verità infatti che merita di passare in proverbio  tra i filosofi. E pel L. vuol dire che nella vita non  c’ è soltanto la filosofia : c’ è altro ancora, che è poi sempre  filosofia. La vera però, che afferra la verità con mano  robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto intelletto del filosofo chiuso nel bozzolo del suo intellettualismo.  La quale FILOSOFIA, si ponga mente, una volta, come  s’è veduto, il Poeta la chiama ultrafilosofia; ma non è  poi altro propriamente che la sua personalità, il suo modo  di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù  che prorompe nel Risorgimento, quando l’anima si risvegliò e rivide meravigliata salire su dal profondo i  palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza, e il sentimento della natura. Meco ritorna a vivere, La piaggia,  il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco favella il mar ») : quella ingenita virtù, che gli affanni poterono sopire;   Non l’annullàr: non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura l’infausta verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che è, io dico, la  stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero la  determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle parole,  nelle formule, nei concreti pensieri, come sistematica-  mente si possono comporre ad unità nelle esposizioni che  l’autore non fece delle sue idee, e che, sempre a fatica  e non senza arbitrarie glosse, continuano a imbandirci  quei camerieri di L. che sono i suoi interpreti,  pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla FILOSOFIA di L. i volumi che questi non pensò mai di scrivere;  non vorrei, dico, si ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e orientamenti  Mi perdoni la grande e austera ombra del Poeta questa parola  cara oggi a certi spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno che il  Padre manda in terra, suonano a stormo per adunar gente e catechizzarla tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e disporla  a cercare con essi l’orientamento che essi non riescono mai a trovare. Xtnnznni. No. LE PAROLE, i pensieri più o meno frammentari e  sparsi, le sentenze assai spesso felicemente formulate  non possono essere pel critico altro che accenni, spie  dell’anima del filosofo. La cui individualità è caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo atteggiamento, che è la concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella  che, conferendo all’uomo un carattere, non ci spiega  tanto le sue parole, spesso espressioni di cose pensate e  non sentite, ma le azioni in cui l’uomo opera come sente  nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o no ad  averne coscienza in un sistema chiaro e bene organato  di idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singolare e inconfondibile individualità si mamfesta e si fa  conoscere non per quel che dice ma per il modo in cui  lo dice, non pel contenuto delle sue parole ma pel colore  che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con cui la  sua anima vi suona dentro. Stile, essenza della poesia  d’ogni uomo. Sicché, infine, a parlare degnamente della  filosofia del Leopardi, non bisogna ridursi alla parte del  cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi, dove  la pupilla trema della commozione segreta: ascoltare il  suo canto, dove la sua filosofia è la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi. Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi nella filosofia italiana," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Leopardi: l’implicatura conversazionale – 1150 – implicatura – filosofia italiana – filosofia maceratese -- Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche.  Grice: “We don’t have at Oxford a ‘chip off the old block’ as they have in Recanati!” --  Importante esponente del pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi, targa commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse l'amministrazione della propria eredità.  Dopo un primo progetto di nozze andato a monte, sposa la marchesa Adelaide Antici, sua lontana parente. Il matrimonio fu un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato dalla famiglia di Monaldo, in base ad antiche dispute tra casati e per questioni economiche (mancanza di una dote adeguata), che per manifestare la propria contrarietà non partecipò al matrimonio, che venne infatti celebrato nella sala detta "galleria" di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio di famiglia, dalle mani di Monaldo, passò in quelle della moglie, a causa dei debiti del prozio che il conte non riusciva a ripianare. Frutto di questa unione tra opposti caratteri furono numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età adulta Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. A causa della impossibilità di gestirli (dovuta alla sua indole caritatevole verso i poveri, agli sperperi dei parenti e all'invasione giacobina), l'amministrazione dei beni di famiglia passò nelle mani della consorte, donna energica e severa; Monaldo poté così dedicarsi totalmente alla sua passione, gli studi e le lettere. Tra i suoi molti meriti vi è aver grandemente contribuito alla formazione del nucleo fondamentale della biblioteca di famiglia dei L., nella quale il giovane Giacomo passò i suoi anni di "studio matto e disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per metterli a disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza recanatese, come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima stanza".  L'impegno civico  Angolo della biblioteca di palazzo L. con i ritratti di L., Adelaide e Giacomo  Il medico e naturalista britannico Jenner La sua opera è rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.  Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e delle attività teatrali.  Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che svolgeva personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di "retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe seguito.  Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come scrisse una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le sue idee controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire il mondo per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale»  Morì il celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi, la perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto nella tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a Recanati. Dei molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e filosofici di Leopardi, i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie correnti” usciti con lo pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane, ovvero le iniziali di "Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente un grande successo, ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più lingue e divennero notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma, ne informa il padre in una lettera dell'8 marzo:  «I Dialoghetti, di cui la ringrazio di cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho più in proprietà se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in mano.»  Per umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È probabile che con quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali del figlio, che giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede cristiana. In essi, infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche controrivoluzione). Tra le tesi sostenute, la necessità della restituzione della città di Avignone al papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica a Luigi XVIII di Francia per la concessione della costituzione (che violerebbe il sacro principio dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma viene addirittura da Dio"), la proposta della suddivisione del territorio francese fra Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la difesa della dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella lotta per l'indipendenza.  Risalgono alcune opere di satira politica: Monaldo era infatti ottimo satirico e disseminava le sue opere di scherzi letterari. Tra esse, il Viaggio di Pulcinella e le Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza (versione digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite, ammonimenti ai fedeli cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano «La Voce della Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che Leopardi stesso diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i 2000 abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità. Rimasero inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua Autobiografia: in quest'ultima la prosa di L. si arricchisce di leggerezza, ironia e umorismo.  Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna consistette in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo pontificio e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico svizzero Il Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi storici su Recanati, coltivati in gioventù.  Opere digitalizzate Monaldo Leopardi, La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano, presso Francesco Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in latino con le sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e dilucidata con annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella contrada della poca pazienza. Rapporto con il figlio  ritratto di Giacomo Leopardi. Nonostante la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio illustre appare buono: senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere orgoglioso della precocità del ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad esempio il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, si avverte ancora l'influenza delle idee del padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero strade diametralmente opposte: la crescente autonomia di pensiero di Giacomo preoccupava Monaldo.  La lettura del carteggio fra i due rivela una relazione affettuosa, soprattutto negli ultimi anni. La lettera più sincera scritta da Giacomo al padre è quella che quest'ultimo non lesse mai: si tratta della missiva datata luglio 1819, quando il poeta progettava la fuga, e che non fu mai spedita, perché egli dovette rinunciare ai suoi piani.  «Mio Signor Padre. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Io so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.»  Finalmente, Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo saltuariamente. Da lontano, il padre assiste alla crescita della sua fama nel mondo intellettuale italiano, ma non riesce a comprendere la grandezza del figlio: disapprova la pubblicazione delle Operette morali, scrivendogli in una lettera (perduta) le "cose che non andavano bene", suggerimenti che nella risposta Giacomo promette di prendere in considerazione, ma che di fatto non sono mai accolti. La pubblicazione dei Dialoghetti di L. è causa di attrito fra padre e figlio. Giacomo Leopardi si trovava a Firenze: nell'ambiente iniziò a circolare la voce che fosse lui l'autore dell'opera, espressione delle tesi reazionarie, cosa che egli fu costretto a smentire seccamente sul giornale Antologia di Vieusseux. Si sfogò poi per lettera con l'amico Melchiorri: «Non voglio più comparire con questa macchia sul viso. D'aver fatto quell'infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Quasi tutti lo credono mio: perché Leopardi n'è l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore sono io. Fino il governo m'è divenuto poco amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più nominarmi o essere nominato in nessun luogo, che non sentissi dire: ah, l'autore dei dialoghetti.»  In toni decisamente più miti ne scrive poi a L. il 28:  «Nell'ultimo numero dell'Antologia... nel Diario di Roma, e forse in altri Giornali, Ella vedrà o avrà veduto una mia dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia, e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me. E dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e infine mi son deciso a parlare, per due ragioni. L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è dovuto ad altri, o massimamente a Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. [ L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito, né di essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato mai né irreligioso, né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei principii non sono precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e ch'io rispetto in Lei, ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati però mai tali, ch'io dovessi né debba né voglia disapprovarli.»  Nelle ultime lettere Giacomo esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai toni formali a quelli affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima lettera).  Monaldo sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i due rimaneva però ancora evidente otto anni dopo la morte di Giacomo, non accettando lui le idee areligiose del poeta; la sorella di lui, Paolina, scriveva a Marianna Brighenti:  «Di Giacomo poi, della gloria nostra, abbiam dovuto tacere più che mai tutto quello che di lui veniva fatto di sapere, come di quello che non combinava punto col pensiero di papà e colle sue idee. Pertanto, non abbiamo fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle sue opere, e quando le abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le teniamo ancora, acciocché per cagion nostra non si rinnovi più acerbo il dolore.»  Su richiesta dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, pochi giorni dopo la morte del figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni biografici su Giacomo, con aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore per la rottura fra i due e l'incapacità del padre di capire la direzione intrapresa dal figlio; il Memoriale si interrompe: "Tutto ciò che riguarda il tratto successivo è più noto a Lei che a me", scrive infatti. Nonostante ciò, Monaldo piangerà con dolore la perdita di Giacomo, al punto che quando redigerà il proprio testamento, alla settima volontà scrisse:  «Voglio che ogni anno in perpetuo si facciano celebrare dieci messe nel giorno anniversario della mia morte, altre dieci il giorno 14 giugno in cui morì il mio diletto figlio Giacomo. Manetti, Giacomo L. e la sua famiglia, Bietti, Milano. La famiglia Leopardi è protagonista del romanzo fantastico di Michele Mari Io venìa pien d'angoscia a rimirarti. L., di Sandro Petrucci  Monaldo In viaggio per Leopardi, Leopardi fu chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo fondatore, il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo.  Giacomo Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo Leopardi, Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo Leopardi. La giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo Leopardi, Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana ed., Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed.,  (L'ultimo amico del poeta narra di un suo incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi, Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede et Cultura, L., Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa giudicata da un reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi, Diabasis, Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo Leopardi, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il bicentenario del trattato di Tolentino,  n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, L.. Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli, Gubbio, i Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri editore, Pasquale Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore, Lanciano, Casa Editrice Rocco Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Pierfrancesco Leopardi.  Monaldo Leopardi, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ferretti, Monaldo Leopardi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Corno, L. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Monaldo Leopardi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Monaldo Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi anti-italiano. che dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio, questi sono i doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo, questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi, e non trovo in esso una sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello?  LA CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer. Fin quì non dite male, ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella, ognuno ba i suoi gusti, e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”. Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo, bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo. come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo, e incominciamo le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia, il Cervello e il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi  Cer. Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città, perchè immagino che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non vogliamo un governo all'antica, il quale pretenda di governare davve ro, ma bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra, un simulacro, un brodo di ranocchie e niente di più.  questa è una cosa da nulla, ed è più facile preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer. Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e il più semplice, ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd, oibù ; se fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano diavere ricevuto il loro potere da Dio, e nessuno si azzardava di slendere la mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re falto dal popolo, perchèchipuòfarepuò guastare, ed è più facile sbalzare dal trono un monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di cucina.Sentite dunque signor governo, e imparate bene cosa ha da essere il governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di tutto, il re ha da essere un re di carta, o vogliamo dire che tulta la sua autorilà deve consistere in un pezzo di carta, esso medesimo deve riconoscerla tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e putati, ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi la camera ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza, e per una semplice for malità, sua maestà di carta deve subito pi gliare la frusta e andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del popolo. Gov. Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la giustizia,e deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza essere ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino riceverà una coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare una querela a quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di pane e acqua, il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità della giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere i vostri comandi. Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa, e di toccare un quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla cainera dei deputali, e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se però la camera non vorrà darglieli,lascerà che il governo cammini da per sè stesso, e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il pa drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche volta il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà, ac . compagnandolo con le fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi scacciare il re con tutta la sua maestà e la  Gov. Benissimo. Fil.Siccome poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla, e che egli pad usarne soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua maestà di carta lo dovrà liberare, e se condanneranno ingiustamente un innocente malveduto dal popolo, sua maestà di carta dovrà farlo impiccare. Gov. Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col bordone in mano, e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five dei conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono, il governo, tutto è del popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestito dareper servire di passatempo al popolo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella cillà a preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”. Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia vera mente solida, dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che muova la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino, il quale non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici debbano essere lavorali sopra queslo m o dello, un re dipinlo,ovvero un re di paglia potrebbe servire nello stesso modo.  La Filosofia. Chi siete, e cosa volete? La Giustizia. Io sono la Giustizia e domando di essere ammessa nella vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti, i quali hanno inolla pratica dei tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie presenti, sa rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle cause,ovvero giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri sparmierebbero le spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si confonderebbero il giusto con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo con l'as sassino. Giu . Parlate pura giacchè sono venula a p  La Filosofia, il Cervello, a la Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo senza tribunale e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai lulle queste cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente. Considero però che se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia, gli avvocati e i procuratori resterebbero in camicia, e questo non si ac comoderebbe con le idee filosofiche sulla dif fusione dei godimenti e dei beni.È d'uopo dunque per un altro poco adattarsi al siste ma antico, e perciò venile avanli madonna Giustizia e facciamo i nostri palli.   posta per imparare cosa deve essere la giu. stizia nel paese della filosofia. Fil. Prima di tutto lenetevi bene in m e n te che i liberali tauto palesi come occulli non devono avere mai lorlo,e la giustizia deve essere una vera cortigiana consacrata e ven. dula sfacciatamente al servizio dei liberali. Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi prostituiròin verecondamente per compiacere iliberali.Ma ditemi un poco:come ho da fare per favorirli nelle cause, quando stan no evidentissimamente dalla parte del torto ? Giu. Quei giudici però i quali procederan no con ingiustizia manifesta potranno essere discacciati e puniti.  102 re che questo non è proibilo ; e non manca il modo di stancare e assassinare un povero liligante buttando la polvere sugli occhi al mondo, e sostenendo che si opera per la giustizia.Se però qualcbe volta vi troverelealle strelle, rinunziale pure a qualunque pudo re,invocate ilnome di Dio,egiudicatenel nome del diavolo,purchè la villoria sia sem pre assicurala per i liberali. pu. Fil. Finchè potete conservare cerle appa renze e salvare la capra e l'orto, falelo Fil.Non dubitatediquesto,eigiudicinon temano di niente quando sono protetti dai liberali. Primieramenle nel regno della filo sofia i giudicisono una potenza assolutache non dipende da nessuno ; e poi i liberali si mellono per tutto, e coperlamente, ovvero scopertamente comandano in lulli i dicasteri, sicchè alla fine del conto lutto si fa a modo   loro, e a chiunque la prende con essi toc cano sempre la mazza e le corna. Giu.Ho capilo: e lasciatevi servire.Segui tale pure la vostra lezione. Fil. Inoltre se s'incontrano a litigare un uomo indifferenle e un inimico dei liberali, dale sempre ragione all'uomo indifferente an corchè fosse uù ruffiano, ovvero un capo la dro, e date sempre lorlo agl'inimici dei li. berali, acciocchè quesla capaglia impari a rispettare la filosofia e la liberalilà. Fil. In questi casi potete consollare i vo stri affelli privali, ovvero ilvostro interesse; potete farvi merito con qualche Ciprigna ;e in somma fale pure quello che vi pare, che alla filosofia non gliene importa niente.Cosa ne dile compare Cervello ? Fil.Questo sarebbe un partito troppo gras. so per i galantuomini i quali giuocherebbero alla pari,enelregno filosoficoiliberalihan. no da godere sempre qualche vantaggio. A vete capito bene madonna Giustizia ? Giu. Ho capito anche questo e non mi al lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma come si dovrà procedere in parilà di circostanze o sia quando s'incontrany a litigare due uo. mini indifferenti, ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che hanno ragione quelli iquali desiderano, che ildirillo eiltorlo si estraggano allasorte oppure vengano giuo catiallamorra.Difalliquando la Giustizia non ha da essere veramente giustizia è m e glio ridurla al giuoco della bianca e della nera . Giu. Ho capito benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause criminali come dovrò regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per la parte dei malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si vuole la m a n naia del boia, e piuttosto si gradisce ilcol tello degli assassini. Se la giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb bero le gloriose giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo morire di malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto per la giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce, Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il Sacramento, te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete, un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli, i frali, i vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave re fatto una sconcordanza, caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la testa, e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re, distribuite le pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma regolatevi in modo da far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è permesso fuorcbè toc care colla puola delle dila i liberali e la fi    Giu . H o capitotullo benissimo, e vado a stabilire i tribunali e a portare in trionfo la giustizia nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene compare mio che i miei ordinamenti fondamentali non incontrano trop. po il vostro genio; ma finchè sarele un cer vello all'anlica tullo pieno di pregiudizi, nonvimetterele livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel regno della filoso. fia. Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello perderà il cervello, e allora le dottrine e le pratiche della filosofia si diran no regolale col cervello. Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che vengono per abitare nel. la nostra nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la Proprietà . La Filosofia. Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i proprielari,ma anche 105  1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto umano proferire qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire dominati na. scostamente dai liberali faranno sempre la grazia, e non ci sarà mai pericolo, che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un liberale. La Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro puovo impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni. Pro. Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà, e lulle le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e godere tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire, m a siccome ancora non siamo arrivati al punto, basterà stabilire per adesso alcu ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse che nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja, intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo partito definitivo, l'in civilimento ancora non è giunto al segno, e il mondo non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg gi, tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione uguale ?  106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in mira di spogliare iricchi,i signori   e i benestanti; e di arricchire i cialtroni, e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino, e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer. Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime, e siccome alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca pito,signora Proprietà?   Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo, che bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne; e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia le anticamere, perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a spalle dei mincbioni, se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre preferire i più indegni, i più asini e i più lemerari, e così si deve correre ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il perfezionamento filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo Stalo non si contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil. Messo in molo una volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni, diffusa l'idea che tulli gli sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato, e rotto l'argi ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni, igoverni e i ministri del governo verranno strascinati da quella piena, e non potranno più impedire l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più bella di luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo disordine e sono vera  108   mente affezionati allo Stato, daranno mano al l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno la loro affezioncella pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè in gražia della affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti qualche loro protello, tutti diranno che quella è la eccezione della regola, e tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto, acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato perchè non ebbe mai niente, e non è dovere che nel giorno della cuccagna un galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuo e il bisogno dello Stato non dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni assordiranno l'aria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza, a depositarsi nella pan cia di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare la diffusione dei beni, o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa - tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste nell'acconsentire senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e delle giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da vero poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi, ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta, con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con dottieri nasali dei grandi, e sino le zitelle, le vedove e le vecchie, pericolate, perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi, e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi, e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori, e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra mantenere il livellamento sociale. Fil. Sicuramente;equantunque l'artifi zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste cose dai raccomandatori perpetui della filosofia. Udite. mi, siguor Cervello, e imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in quelle casse, m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti ipoteche sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco depositato nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei propriela rii verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli effetti di questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio avranno un capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie tari e ancora dello stato, allora si manife steranno le forze di questa nuova occulta p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le proprielà, e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è diventata la vera padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con elemosine propor zionate, stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro bisogni,e ricoverarli nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le opere della prudenza e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di talli i pezzenti, aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse di risparmio so no un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni ? a banca per il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla bellola ovvero rubati nelle bolteghe, e aiutare la feccia della plebe, perchè monti a cavallo sul collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli stessi go. verni, questo è propriamente secondo la dol trina della diffusione del potere e dei beni, ed è la vera quintessenza della filosofica malignità. Cer. Confesso il vero che mi avele sor preso, e non credeva cbe la filosofia la sa. pesse tanto lunga, e pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto di fare la carità ai poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi sociali che proveranno da questa dilapidazione universale della proprie tào vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo non cerca di mutar posto, 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti, rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e la buona morale, il deside rio dell'ordine, l'altaccamento al governo e la considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite e degra date dalla miseria, sarà sempre difficile sol levare il popolo, sovvertire l'ordine, distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della nazione. Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio dire quando lulli isignori saranno spiantati; quando le famiglie patrizie e le classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni ; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine tolta la barriera della ricchezza e della nobillà, o vogliamo dire tolta la barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo, e le gloriose giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non altro è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni, o vogliamo dire l'as sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire, ma  Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed il ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà, non potranno es sere permanenti e durevoli, perchè l'egua glianza delle proprietà è in opposizionecon gli ordinamenti della natura.  sfasciata da capo a fondo una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo, sì quando avremo subissata ben beno la società, non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo assicurare il bordello, il susurro, e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai secoli successivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama Proprietà, ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi ai miei be nefici regolamenti, e ricordatevi che nel re gno dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni e delle proprietà, o sia per assassinare tulle quante le proprielà.  La Filosofia, il Cervello, l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro talto smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi sono l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali, e amici tan to sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome, ma bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di corrom pere tulle le cose buone, perchè questi due cbe si avanzano hanno la cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiil regno della Filosofia.Ve nite avanti, signori, facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà.  L'Ins. Parlate pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi è quella appunto con cui si olliene   Fil.Dibò,oibo.Tutti vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società, e che anche i guatleri, i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi, letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia, e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina? la diffusione della civillà.Voi dunque, signor Josegnamento, dovete mettervi in testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi, let terati e saccenti, e di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che dalla natura, dallalorocondizionee. Dagli ordinamentiso. ciali sono destinati a trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol lorosapereallasocietà; ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani, que stinon vorrete che apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli oziosi,indocili e scontenti diseme desimi, e gravosi e molesti agli altri.   rivare alla diffusione generale dei lumi,e al l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai vostri scon siderati seguaci, qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero d'individui, e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di vil lapi ignoranti, e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla società non conviene alla filoso fia, la quale vuole il movimento e non vuole la quiete, vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità. Se predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero giungere alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel do. minio dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe consiste nella m o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi convenevoli al proprio grado, la filoso fia non vorrebbe saperne niente e prediche rebbe contro la diffusione dei lumi e della ci viltà. Siccome però è certo che la grande plu ralità degli uomini non arriva alle perfezio ni, e che ostacoli insormontabili naturali e civili si oppongono alla troppa diffusione dei lumi e della civiltà, così è certa che la propagazione smodera la dell'ammaestramento e dell'incivilimento empirà il mondo solamente di mezzi dolli, di scioli, di sapulelli teme rari e presuntuosi, iqualiappunto ci voglio no per secondare la grand'opera della filoso fia.L'uomo grossolano e di buona fede crede più al curato che alle pappole dei liberali,e rispellando e temendo il sovrano non pensa, neppure quando si trova ubriaco, di essere esso stesso un sovrano.Chi non sa leggere o non presume un poco di letteratura e di ci villà non legge le gazzelte e non modella il suo modo di pensare sui giornali e sui liber coli della propaganda;e senza le gazzelle,senza i libercoli e senza igiornali,come si rendereb bero fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo del Bellarinino ? e dove si trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare le croci,per abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete dunque,carocompare Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che sa ben essa cosa vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della civillà.   L'Inc. Orsù, non perdiamo più tempo perchè io muoro di voglia d'incominciare la mia missione, e di andare a diffondere i lumi e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali scienze vi piace che vengano inse goatea preferenza, equalilibricredeleme glio adattati per affascinare la mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil. Quanto allescienze, generalmentepar:   L'ins. Ho capito bene quanto alle scienze e lasciatevi pure servire;e quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil. Tutti i libri che mettono in ridicolo i preti, i frali, la chiesa e le pratiche della chiesa;tulli quelli che parlano contro l'aulo rità del Papa e dei principi; e lulti quelli che trattano scopertamente ovvero copertamen. te di materie scandalose e lascive lusingando lando, potete secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate sempre di oscurargli la verità e di allerare nel loro cuore igermi della virtù. Parlando poi specialmente, le vostre lezioni più frequenti devono essere sulla m e tafisica e su i dirilli dell'uomo, le quali scienzc adoperate dalla filosofia liberale riescono benissimo adattate per diffondere le dollrine dell’empielà e per suscitare lospiritodellale. merità.Sevoinon capilenientedimelafisica, importa poco; purchè viriesca d'imbrogliare la testa dei vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo fu l'opera di un essere necessario, ovverouscì dai vorlicidelcaso, comeesconoilerniele cinquine del lotto e se essi medesimi sono animali viventi, oppure ciolloli del torrenle o ravanelli dell'orto. Così se di dirillo natu. rale e civile non ne sapele un acca, queslo purenon importa niente, purchèivostridi scepoli ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi che la ragione delle genti consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella sovrani tà del popolo e nel diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le gloriose giornate.L'Ins. Ho capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere in pratica le vostre lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi sempre in lingua volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più usare la lingua latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua già morta è stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo sbandirla affallo non solamente dalle scuole, madatutto il commercio letterario sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi, per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la rigenerazione filosofioa, o voglia mo direl'assassiniodel mondo. Alloraandate a colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e l'esercizio della lingua latina sono mollissime, mavenericorderòdue princi pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo, serve a legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili, commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem proximi sui. In secondo luogo è necessario appunto l'uso di una lingua morta per custo dire le tradizioni, i monumenti e le opere delle lingue viventi,perchè quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli scrilli dei nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre calledre, lad dove le lingue volgari regolate dalla moda, allerale dal mescolamento di voci nuove 0 straniere, e logorate e guastale dall'uso, si mulano e s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per soltrarle all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono il latino di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli italiani, dai francesi, dai goli e dagli arabi, i libri scritti in ilaliano e in francese sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici, e non si possono intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in comoda precisamente per questo, e che vo gliamo levarcela di altorno appunto, perchè è la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco della dottrina ecclesia stica resterà in piedi, vantando diciotto se. coli d’inalterata antichità, i preti e i frati, i vescovi, i papi e i cristiani ce lo sbatte ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la parola di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e allora si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli. E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa diventerebbero i canoni dei concili, i placiti dei pontefici, le opere dei padri e dei dottori, e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari, ma in primo luogo è assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa, e in secondo luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle trame della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di quella lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente per due dozzine di secoli,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso l'ultima sua rovina.  Cer. Questo certamente è stato un passo falso carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e straniero, che presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale concessione rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di quelle riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della filosofia e i danni religiosi e sociali diventi. nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima o poco dopo le ossa si rimelteran no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista bilita nei tribunali, e con questo neppure i litiganti faranno nessuna perdita, essendo   indifferente per essi che gli alli giudiziali si facciano in volgare ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i liberali non lo co noscano e che vogliano la lingua volgare nei tribunali per l'interesse e per ilcomodo dei litiganti? I litiganti stannoin mano degli avvocati e dei procuratori come gli ammalati stanno in mano dei medici e degli speziali ; e siccome per gl'infermi è lull'uno che le ricelte sieno scritte in latino ovvero in vol gare, giacchèin qualunque modo bisogna che prendano il beverone sulla parola del dot tore e sulla fede del farmacista, così litiganti è lo stesso che le citazioni e le cause si scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua, giacchè alla fine dei conti devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei loro cu riali. Abbiamo però altre buone ragioni per desiderare sbandita la lingua latina dal foro : Fil. La prima è quella ragione generale di cui già abbiamo parlato,giacchè tollialla lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il cinquanta per cento della sua importanza e della sua familiarità, si rende sempre più sconosciuta e straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo totale deperi mento. L'altra poi è quella di dilataremag giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra forense, l'accessoai tribunali,a e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli alti giudi ziali si faranno sempre in latino, dove ico. dici e i commentari saranno scrilti in la  per i Cer. E quali sono queste ragioni? tino, e dove il foro sarà chiuso per chi non ha sludiato illatino,icursori,iprocuratori, i curiali, gli avvocati e i giusdicenti nelle proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e di dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango, e somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di quella lingua, gl'impegni, le protezioni e la cabala faranno il resto; il foro, i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a lulli i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon dersi sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che le mie ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre chiacchiere, voi signor Jo segnamento, andate a prostituirvi in volgare nella città della filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra tutteleclassi del popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere la vostra lezione. L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri comandi. Fil. Prima di tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal vostro nome, persuaden dovi, che la civillà di adesso non deve essere come quella di una volta, e che l'incivilimen. tonel regno della filosofia ha da essere ilfra. tello carnale dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della filosofia. L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri precetti. Fil. Una volta adunque la vera civiltà con. e   L'Inc. Ho capito benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la decenza e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no l'indizioelagaranzia dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le vogliamo più, e la civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza e della magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito d'arlecchino, una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.  sistevanell'onesláen el pudore;maoggique ste cose non servono, e al più si deve con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità dichiarata e brutale, predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono il frutto della civiltà, m a rendele poi familiari negli scritti e nei trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc. Hocapito tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per opera della civiltà. Fil. Andate pure, e vi accompagnino cou lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae il Cullo. Fil. Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi, ma oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo, e l'incilimento deve esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i superbi. Voi dunque, andando sempre contro natura,dovele mettere in tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori, e d o vele meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini, siccbè queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe meglio di una città regolata con questi principi e conqueste leggi. Fil. Non lo conosco neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ?  Fil. Voi vi ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue abitudini di una volla,enon glidarà l'animodivederelecose con altri occhiali che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di meglio, bisognerà contentarsi di questo, e verrò provisoriamente al vostro servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere, eliboportati di diversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci libertà amplissima per tutti i culti. Cer. Come! Nel vostro paese voleleammel terci tolti i culii ? Cer. Perchè la veritàèunasola,emet terla del pari con l'errore è lo stesso che ri pudiarla. Il Cullo consiste nel professare una religione enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola religione può esser vera e tutte le altre devono essere false, così un solo cullo può essere sauto e gralo a Dio, e lulli gli altri devono essere allrellanle imposture e mascherate, ridicole agli occhi degli uomini e oltraggiose alla maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in discussioni di leologia e di scandalizzarvi con le doitrine filosoficheintornoalla religio. ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto dovele considerare che il fondamento della filosofia liberale è la libertà, che la principale di tutte le liberlà è quella della coscienza, e che una città dove non ci fosse la libertà della coscienza e del culto non p o  Fil.Giàsisa, olullio nessuno.Percbè si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne uno. facendo torto agli altri ?   trebbe essere la citla della Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate pure nella mia residenza con tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri vestiti: credele quello che vi pare, operate come vi pare, e incensate quel che vipare,che ditutto questo ame non im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo subito ad inca sarmi nel vostro slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi è tutta questa gente dalla quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di diverse religio pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori, accettando la tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta, e venile a ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo stre rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa sua. Fil. Queslo veramente non è necessario, percbè nei paesi della filosofia ci è il datur omnibus, e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio. Nulladimeno questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te della lanterna magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur. lo sono un turco, e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo a mangiare a bere e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo luttuosamente nei nostri serragli, come vi vono i galli nel pollaio e i becchi nel peco rile, e la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo pollaie pecorili ancora nell'altro mondo, e che l'abbondanza delle galline e delle pecore sarà il guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa mi sem bra una religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a dirla schietta, questa, poco più poco meno, è la religione dei fi losofi liberali, i quali non sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli due sessi del genere umano quella libertà che si godono ibruti animali. Esaminate pure e analizzate quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo illuminato, il libertinaggio animalesco libera è il compendio di lulti i voti e lo scopo principale del liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo dire un serraglio, e per l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto l'evangelio della filosofia.Voi dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia nuova cillà, esercitatevi il vostro culto liberamente, e non dubitale che i pollai, i pecorili e i porcili non saranno mai perseguitati dalla fi losofia. E voi che venile appresso chi siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia un Dio, ma siccome non so cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu dizio.  Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più, e non gli volge mai nè uno sguardo, nè una parola ; questo Id dio è come se non ci fosse, si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi, e la dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni, ed entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro. Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo, ovvero se col tempo prenderà qualche altra figu ra, e non so cosa sia l'uomo e se finirà di essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per non vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di Dio, e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini, voglio dire che non c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello che gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia e senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m e desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile, o il sarà quel che sarà, può accomodarsi benissimo con la dottrina della filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione filosofica, e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al contrario di quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni riconosciamo un diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a doriamo il sole e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le divinità di le gno e di cocco, e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le lucerte, è fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un branco dimatli, e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro paese. Fil. E perchè no ? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se la idolatria non è secondo i dellami della filosofia, almeno non riesce molesta alla filosofia. Anzi al Dio M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei filo sofi non mancheranno adoratori,e a quella cara Venere, deessa della voluttà si dovreb bero erigere altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco galantuomo : suppongo che la morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata, e che contro il libertinaggio non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete immaginare cosa debbano es sere la morale e i costumi dove le divinità sono lavorate nelle botteghe dei falegnami e degli sloviglieri. Nulla dimeno il fanalismo e l'imposlura si intrudono per lullo sotto lea p   Ris. Noi siamo riformati e protestanti, lu terani, calvinisti, zuingliani,anglicani, quac queri, puritani, presbiteriani; insomma fra di noi ci è di ogni sorta un poco, é venia mo astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino che sarete tuiti quanti per suasi di essere una gabbia di matli, e co noscerele che essendo una sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse re lontana dalla verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può trovarsi fuorchè in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con indifferenza uno con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di strada. Per que. sto se ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi medesimi e conosciamo di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo parenze della pielà, e anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre vestali, e abbia mo i nostri penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio per essi ; e poi ognuno ha i suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i Bonzi e i Dervis vogliono digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro divinità. Quelle credenze e quelle pratiche religiose che non disturbano la società devono essere accolte e protette nel regno della filosofia. Andale dunque tutti liberamente ; incensate quanto vi pare sorci, gatti, porci e somari, e vivele si cuci della nostra filosofica fraternità. Adesso venga avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta turba di gente ?   Rif. Per ultimo il nostro clero è disinvol. to e sociale e non intende di rinunziare alle soddisfazioni della natura ; perlocchè, abbia mo in abbondanza pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra noi ci fossero il papa e i cardinali avremmo ancora le papesse e le cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi miei compagni vogliamo aprire le nostre sinagoghe nei vostri domini. e l'impegno ci conservano nel nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi venia mo spesso a capelli siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci disertori dalla Chiesa romana. Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo godere i privilegi dell'errore, e non volendo assoggettarsi alle seccature della ve. rità è d'uopo lenersi lontani da quella dot tora che presame d'insegnare essa sola la verità. Rif. Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè frati, nè confessionari, e conoscele bene che questa è una grandissima comodità per la vila. Fil. Sicurissimamente; e levato quel tram pino del confessionale, il libertinaggio non si contrasta più da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi, e questo si chiama essere cristiani a buon mercato: pro priamente secondo il gusto della filosofia. Entrale dunque anche voi col vostro mezzo evangelo, perchè lanto è mezzo quanto è niente, e venga avanti chi resta.  Fil. Senlite, figliuoli miei, nel regno della filosofia ci deve essere senza dubbio il luogo per lulli,ma voi altri giudei avevale tanti pregiudizi e tante pretensioni che non so se starele d'accordo cogli altri, e non vorrei che mi melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni dubbio,perchè gli ebrei di adesso non sono più di quelli di pri m a, e anche noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li patriarchi per arruolarci sollo le in segne della Filosofia. Ci resta un poco di cir concisione, perchè ce la ficcano quando non possiamo parlare, ma questa non si vede,e in tull'altro siamo una vera canaglia, nata fatta per venire a figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene, ma intanto puzzatecenlo miglia lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo a lulli i miei popoli. Eb. Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio civilizzati noi siamo il fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti, portiamo titoli e decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se volessimo degnar. cene faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori. Fil.Quando è così entrale pure anche voi, fate le vostre sinagogbe, circoncidetevi a modo vostro,e non dubitale che non vimanche ranno libertà e protezione nel regno della fi losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat. Io sono un cattolico, e insieme coi miei compagni desideriamo di professare li  137 e per ultimo Cat. Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di ammettere tutte le religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà essere esclusa ? Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò non è vero nel senso in cui voi lo intendele, e non polrete provare in nes sun modo cbe noi siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es sere i soli a credere e insegnare la verità, che fuori della vostra chiesa lulli sono p o veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si chiama essere conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là della verilà non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è persuasodi trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che quelli i quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via dell'orrcre.Anzi perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi dalla verilà basta solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori delle loro dottrine si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo nessuno a farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che vivono in un'altra credenza, e neppure ci vendichiamo quando veniamo oltraggiati e  beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica. Fil. Un cattolico! un cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno dei filosofi la fede e il culto cattolico? e  perseguitati ; perlocchè in luogo di essere in tolleranti, noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e i più tolleranli. Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache, di frati e di claustrali di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non vanno a genio della filosofia. Cat. Ma, se è vero che nei paesi costituiti filosoficamente, ognuno deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni uominiealcune donne unanimi nel pensiero, e animali dallo stesso desiderio, non potranno albergare in una medesima casa,vestire un medesimo abi to, vivere come gli pare e godere anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della vostra tolleranza non podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e dei giappo nesi, e i Dervis dei maomettani, perchè lo vostre esclusioni saranno riservate privaliva mente per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la vostra capaglia di frati vuol vivere senza far niente e campare a spalle degli altri. Cat. I preti e i frati callolici predicano la parola di Dio, istruiscono la gioventù, so stengono il ministero del culto, assistono gli infermi, consolano i moribondi e tutto questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli oc chi della filosofia ; e quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri prelieinostri frati campano per forza, assassinando i pas saggieri in mezzo alla strada ? forse i predi canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il villo e il vestito dalle nuvole e non  1 $   Fil. E non contate per niente il celibato del vostro clero il quale naoce alla socielà col l'impedire la molliplicazione del popolo? Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non consiste nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà, forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è troppo serio, troppo pubblico, troppo pomposo e solenne, e non può essere mai gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione cattolica è la dominante, ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe, epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio. Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat. tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si accordano mai coi cattolici, e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo, perchè accomodata quella piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete accordarci il bru tismo, le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque, i preti e i cat tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città, o la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranità popolare in qualità di signora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle. La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa la sua danza pippando, e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi, e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del potere, dei beni, dei lumi, e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del potere, dei beni, dei lumi, e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello, la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. – the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista – interpretazione fascista da Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Lettieri: all’isola -- la ragione conversazioanle e l’implicatura conversazionale – filosofia siciliana scuola di Messina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Grice: “Lettieri rightly contrasts sensualism in the practical sphere of reason as ‘egoism’ – my ‘principle of conversational self-love’ – but focuses on benfeficence, and solidarity – as ‘rational’ – my principle of conversational benevolence, -- or conversational helfpfulness.” Grice: “I like Lettieri for two reasons: he uses ‘diritto razionale’ which we at Oxford don’t! – He cherishes the ‘dialogo filosofico’ as a genre as we Aristotelians at Oxford don’t – he wrote one on ‘l’intuito’ – While he wrote on ‘sensualism,’ he also explored the idea of ‘man’ and ‘ragione,’ or ragiun, as he put it in his vernacular!” Insegna a Messina. Presidente della Real Accademia Peloritana dei Pericolanti. Molto apprezzato da Mamiani,  Gioberti e Galluppi. Altri saggi: Il sensualismo – cf. Grice, “Some remarks about the empire of the five senses” – Austin, “Sense and sensibilia” --, dissertazione, Messina, Capra; “La fisiologia calunniata di materialismo, Messina, Nobolo; La potenza del pensiero, Palermo, Console; Etica e diritto naturale, Messina, Amico; L’intuito: dialogo filosofico, Messina, Arena; L'omu nun avi l'usu di la ragiuni -- cicalata di lu professuri cav. A. Catara- Lettieri (Messina, Amico; Introduzione alla filosofia morale e al diritto razionale, -- Grice: “I like the idea of ‘rational’ right!” (Messina, Amico; “La cognizione del dovere -- poche nozioni dirette all'operaio e ad ogni classe di cittadini” (Messina, Amico; “Ricordi storici intorno al movimento filosofico in Siciliam Messina, Amico; “L’uomo” Pensieri” (Messina, Amico; Via Lettieri, Messina. Lettieri basis his moral system on rationality – solidarity, beneficence and all the conversational principles appealed by Grice find room in Lettieri’s system – ‘dovere verso l’altri” o “il prossimo” – The fundamental one is that of equality, as when Chomsky says that competence is an ideal natuve speaker with another one --. Grice: “Lettieri would hardly consider hiseself an Italian philosopher, seeing that he wrote a trattarello on ‘filosofia in Sicilia’ meaning that Italy does not belong to him, nor does he belong to her!” –  Antonio Catara Lettieri. Antono Catara-Lettieri. Antonio Catara-Lettieri. Lettieri. Keywords: implicatura.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lettiere: la ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library.

 

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