Luigi Speranza --
Grice e Re: ragione conversazionale ed implicatura conversazionale – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Calitri). Filosofo italiano. Calitri, Avelino, Campania. Alfonso Del Re Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Alfonso Maria Del Re (Calitri, 9 ottobre 1859
– Vico Equense, 5 settembre 1921) è stato un matematico italiano. Figlio di
Raffaele e Rosa Margotta, si trasferì a Napoli all'età di quindici anni e vi
compì gli studi superiori. Si laureò a Napoli nel 1886 dove iniziò anche la sua
carriera accademica quale assistente universitario. Nel 1889 fu nominato
professore di Geometria analitica e proiettiva alla facoltà di Matematica
dell'Università di Roma, e nel 1892 passò per la stessa cattedra all'Università
di Modena e Reggio Emilia. Nel 1899 fu infine richiamato presso la facoltà di
matematica dell'Università di Napoli per insegnare Geometria descrittiva.
Intorno al 1910 fu anche professore di matematica presso la Scuola Militare
Nunziatella[1]. È stato autore di più di
un centinaio di lavori di geometria, di statica e di logica matematica, la
maggior parte in forma di pamphlet. Note
^ Francisco Protonotari (1935) Nuova antologia: Volumi 381-382 Bibliografia
Omografie che mutano in se stessa una certa curva gobba del 4. ordine e 2.
specie e correlazioni che la mutano nella sviluppabile dei suoi piani
osculatori, Torino, Loescher, 1887 Sulla struttura geometrica dello Spazio in
relazione al modo di percepire i fatti naturali. Discorso pronunziato in
occasione della solenne inaugurazione degli studi presso la R.Università di
Modena il d 16 novembre 1896, 3ª ed., Napoli, Lorenzo Alvano Edit., 1901
Lezioni di algebra della logica, dettate nella R.Università di Napoli, Napoli,
Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1907 Lezioni sulle forme
fondamentali dello Spazio rigato, sulla dottrina degli immaginari e sui metodi
di Rappresentazione nella geometria descrittiva, Napoli, L.Alvano, 1906 Sulla
indipendenza dei Postulati dell'Algebra della Logica, Rendiconti dell'Accademia
napoletana di Lettere Scienze ed Arti, 1911, pp. 450 -458 La matematica ha un
carattere universalmente unitario?, Roma, Tip. Unione Ed., 1912 Sulla visione
stereoscopica e sulla stereo fotogrammetria, Napoli, Tip. R.Accademia delle
Scienze Fisiche e Matematiche, 1914 Sulle posizioni di equilibrio dei corpi
solidi ad n dimensioni soggetti ad un sistema astatico di forze, Napoli, Tip.
R.Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1914 Le equazioni generali per
la dinamica dei corpi rigidi ad n dimensioni ed a curvatura costante
nell'analisi di Grassmann, Napoli, Tip. R. Accademia delle Scienze Fisiche e
Matematiche, 1915 Nuove ricerche di astatica per gli spazi ad n dimensioni,
Napoli, Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1915 Sopra
gl'integrali delle equazioni della dinamica dei corpi rigidi negli spazi ad n
dimensioni ed a curvatura Costante, Napoli, Tip. R.Accademia delle Scienze
Fisiche e Matematiche, 1915 Sopra certe formule fondamentali per la
Rappresentazione di omografie fra forme estensive, Napoli, Tip. R.Accademia
Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1915 Formule fondamentali per trasformare,
con omografie estensive, formazioni d'ordine qualunque, Napoli, Tip. R.
Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1916 Hamiltoniani e gradienti di
formazioni estensive nell'analisi generale di Grassmann, Roma, Tip. R.
Accademia Dei Lincei, 1916 Hamiltoniani e gradienti rispetto a formazioni non
interamente libere, Napoli, Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e
Matematiche, 1916 Gli hamiltoniani ed i gradienti del prodotto di due funzioni
estensive, Roma, Tip. R.Accademia Dei Lincei, Sopra certe Relazioni di identità
fra determinanti e matrici, Napoli, Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e
Matematiche, 1916 Sopra una formula del Betti relativa alla propagazione del
calore, e sopra gli ellissoidi principali e di conducibilità del Boussinesq e
del Lame. Formule fondamentali per trasformare, con omografie estensive,
formazioni d'Ordine qualunque, Napoli, Tip. B.De Rubertis, 1916 Sopra una
formula del Betti relativa alla propagazione del calore e sopra gli ellissoidi
principali e di conducibilità del Boussinesq e del Lamé, Napoli, Tip.
R.Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1916 Voci correlate Giovanni
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dedicata a Alfonso Del Re Collegamenti esterni Franco Rossi, DEL RE, Alfonso,
in Dizionario biografico degli italiani, vol. 38, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1990. Modifica su Wikidata (EN) Alfonso Del Re, su MacTutor,
University of St Andrews, Scotland. Modifica su Wikidata Alfonso Del Re, in Biografie
di matematici italiani, PRISTEM (Università Bocconi) (archiviato dall'url
originale il 30 maggio 2009). Biografia sul sito del Comune di Calitri, su
calitri.net. Portale Biografie Portale
Matematica Categorie: Matematici italiani del XIX secoloMatematici italiani del
XX secoloNati nel 1859Morti nel 1921Nati il 9 ottobreMorti il 5 settembreNati a
CalitriMorti a Vico Equense[altre]HARVARD COLLEGE LIBRARY > FROM THE LIBRARY
OF PEIRCE, Harvard, LOGICIAN INVESTIGATOR OF THE HISTORY OF SCIENCE CONTRIBUTOR
TO THE PHILOSOPHY OF EVOLUTION .n • THE Gin OF MSS. PEIRCE THROUGH THE HARVARD
COLLEGE LIBRARY . I mmmmtm^'mm f { "^ I -m^ ) LEZIONI \DI ALGEBRA DELLA
LOGICA AD USO DEGLI STUDENTI DELLE FACOLTÀ DI MATEMATICA E DI FILOSOFIA E
LETTERE DETTATE NELLA R. UNIVERSITÀ DI NAPOLI TIPOaRAFIA DELLA R. ACCADEMIA
DELLE SCIENZE FIS. E MAT. DIRETTA DA EUOBNIO DB RUBERTIB FU MICHELE Largo S.
Marcellino airUniversità» y . f LEZIONI
DI ALGEBRA DELLA LOGICA AD USO DEGLI STUDENTI DELLE FACOLTÀ DI MATEMATICA E DI
FILOSOFIA E LETTERE DETTATE NELLA R. UNIVERSITÀ DI NAPOLI, NAPOLI TIPOaRAFIA
DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FIS. E MAT. DIRETTA DA BUOBNIO DB RUBERTIB FU
MICHELE Largo S. Marcellino airUniversità, 6. l LEZIONI DI \U DELLA LOGICA ìli
studenti delle facoltà di matematica E DI filosofia e lettere TK NELLA R.
UNIVERSITÀ DI NAPOLI ^ ». IO -«NAPOLI lA DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FIS.
E MAT. DIRETTA DA BDOBNIO DB RDBERTIB FU MICHBLB Largo S. Marcellino
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i n V H » LEZIONI DI ALGEBRA DELLA LOGICA t AD USO DEGLI STUDENTI DELLE FACOLTÀ
DI MATEMATICA E DI FILOSOFIA E LETTERE I DETTATE NELLA R. UNIVERSITÀ DI NAPOLI
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ACCADEMIA DELLE SCIENZE FIS. E MAT. DIRETTA DA EUOBNIO DB RUBERTIB FU MICHBLB (
Largo S. Marcellino airUniveriiUt, (^Jul
bcS-'/'K^ i Z> cQ^it non munite della
firma dell’Autore sono contraffatte. LUIGI CREMONA PER LA VASTITÀ DELLA MENTE
PER l'equilibrio MORALE DEL CARATTERE NEL MOMENTO IN CUI I METODI DELL'ALGEBRA
DELLA LOGICA SEVERAMENTE RICOSTRUENDO I FONDAMENTI DELLE MATEMATICHE GETTANO
VIVIDA ED INASPETTATA LUCE' SUI PRIMI PRINCIPII DELLA « GEOMETRIA QUESTO LIBRO CON GRATITUDINE ED IN MEMORIA
DEDICO. Harvard College Library June 28,
i9i6. Gift of Mrs. Charles S. Peirce. In questo volume è
con^gnata quella parte delle lezioni suir
da me date a NAPOLI, che, a mio avviso, più delle altre, presenta nei
suoi procedimenti, la forma e la consistenza degli ordinari i procedimenti
algebrici. Partendo da un gruppo di postulati fondamentali, diverso da quelli
che altri ha dati), ed introducendo la nozione del UMo in senso assoluto, l’algebra
qui svolta viene a ricevere una immediata interpretazione nel campo delle così
dette classi, e si presenta nel maneggio, assai più facile dell'algebra
ordinaria, dalla quale è, del resto, indipendente. Più volte sono stato tentato
a pensare che questa faciltà ed indipendenza, consentendo all’algebra della logica
di essere studiata appena dopo gl’elementi dell'aritmetica, riescirebbe a
renderla assai più utile dell' ordinaria quando portata, in luogo di questa,
nell'insegnamento secondario. Mi piace qui rammentare il nome di alcuni
studenti che, a preferenza degli altri, seguirono, con zelo e profitto, le mie
lezioni, prendendo anche i relativi esami. Essi sono: db IR.OSIS, LicopOLi,
Durante, FANELLI.. È da ratntttenture anche il mio amico Majii, che avendo ascoltato
le mie lezioni per due anni successivi, maneggia ora, con distinta abilità, il
calcolo logico. Dei gruppi completi di postulati propriamente detti per l'algebra
della logica non vennero dati che d’Huntington nell'articolo : Seta of
tndipendent postulates for the (Ugebra of logie (Transactions fo the American
MathemoAical Society). Cfr. pure Vbblrn, fosse impartita a quei studenti, in
ispecie, pei quali lo studio delle matematiche propriamente dette, serva più
per conferire una forma maggiormente organica alla costituzione della mente che
pei bisogni tecnici professionali. E mi sembra improbabile che io m'inganni a
questo riguardo quando penso all'ufficio che compie nelle nostre scuole secondarie
lo studio della logica classica, ai tentativi persistentemente fatti per
tradurne in simboli i varii procedimenti, allo sviluppo che, portata in una logica
più generale), ha preso ai nostri giorni, ed in fine al carattere eminentemente
deduttivo, e proprio delle matematiche, che informa i procedimenti dell' algebra
della logica. Tre sono le operazioni fondamentali sulle quali è basata tutta la
tecnica dell' algebra della logica: l’addizione, la moltiplicazione, e la
negazione logica. Una qualunque di queste può essere definita mediante le altre
due. Cosi, a differenza di quanto avviene nell' algebra ordinaria, non si
presentano qui le operazioni analoghe a quelle chiamate di sottrazione e di
divisione ed in grazia delle leggi di unità e di semplicità, non si riscontrano
qui né coefficienti numerici, né esponenti, peroni tutte le espressioni, e le
equazioni, logiche si presentano come di primo grado. Il modo di esposizione
qui tenuto, come il lettore ha occasione di rilevare, ha una impronta tutta personale.
Primi principii, maniere d’eduzioni, collegamenti delle varie parti, etc. sono
qui pre.sentati in forma affatto diversa da quella seguita d’altri. Anche
alcune nozioni, nel modo come qui trovano il loro posto, apparvero
diversamente, o non apparvero affatto, in altri scritti; e qualche problema non
parve essere stato addirittura presentato. Coloro che si occuparono dell’algebra
della logica, in tutta la sua estensione, a cominciare da Boole, che deve
essere [La logica classica non riconosce che delle forme sillogistiche di
deduzioni. Cosi, comunemente si dice. Ma, meglio si direbbe, dicendo che nell'algebra
della logica manca l'elemento analogo al grado delle espressioni e delle
equazioni che si presentano nell’algebra ordinaria.] considerato come il vero
fondatore di essa, sono, fra gli altri, i seguenti: BooLE, liei col suo saggio An
investigation oftìie Laivs of Thought, Jevons con la sua Pare logie, Peirce con
articoli iuseriti nei Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences,
e con articoli posteriori apparsi nell’American Journal of Piiì^es and Applied
Mai/iematics, Clifford, con articoli sui Tfjpes of compound Statements,
inseriti nelle Memoirs of the Literary aud Philosophical Society of Mancester e
nelle Mathematical Papers; ScHRODER con l'articolo Ope7^ationh?'eis des Logihlialhulus,
e poi con la pubblicazione di tre grossi volumi col titolo « Vorlesungen uber
die Algebra der Logik; McCoLL, con articoli iuseriti nei Proceedlngs of the
London Mathematical Society e nell’Enseignement Mathèmatiqxie, nel Congres
international de Philosophie, e col saggio Symbolic Logic and its appiications,
London; Maofarlane, con il saggio Pì'inciples
of the Algebì'a of Logic; Venn, con la sua Symbolic Logic; Ladd, Mitchell e
Peirce con articoli inseriti in Studies in Logic by Members of the Johns
Hopkins University. Qui io cito soltanto i filosofi dei cui saggi mi è stato
possibile prendere visione durante la pubblicazione di questo saggio, e che mi
sono riusciti di utilità nella sua compilazione. A questo riguardo mi è anzi
grato di dichiarare che le pubblicazioni le quali maggiormente mi sono state di
guida e sprone a scrivere queste Lezioni sono quelle di Whitehead che ho citate
; e penso anche io, con r autorevole filosofo e matematico inglese, che un
largo campo d' investigazioni viene aperto all' algebra della logica con la
nozione di sostituzioni da lui introdotta, e con gli sviluppi che egli stesso
ha dato a questa nozione. Penso' inoltre che, molta utilità deve seguire per la
geometria dalle relazioni messe in luce da Kbmpe e Royce fra i prinoipii della
Logica ed i fondamenti della Geometria stessa. PEANO, col suo saggio OPERAZIONI
DI LOGICA DEDUTTIVA j messo come introduzione al calcolo geometrico secondo
l'Ausdeh" nungsleJire di Grassmann, e poi successivamente con altri saggi
e principalmente con la pubblicazione della Rivista e del Formulario di
Matematica; i quali, a giudizio di persone molto competenti in materia -cfr. p.
es. Russell, Principles of Mathematics e Revue de Méthaphysique et de Morale -hanno
potentemente contribuito al progresso della logica simbolica, specialmente dal
punto di vista delle applicazioni alla matematica. L'egregio amico e ollcega,
mi permetta che io colga questa occasione per associarmi agl’elogi che gli
vengono resi, e per rinnovargli qui, in iscritto, i miei rallegramenti.
Johnson, con articoli inseriti in Mind, e nella Bibliothèque du Congrès internationale
de Philosophie. Whitehead, con la pubblicazione della sua Universal Algebra, e
con memorie apparse nell’Americaìi Journal etc, come risulta dalle citazioni
fatte nel testo. PoRETSKY, con
gli articoli: Sept lois fondainentales de la théorie des ègalités logiques;
Quelques lois ultériores de la théorie des égalités logiques, Bulletin de Ift
Société Physico-Mathématique de Kasan; Vedi anche Revue de Méthaphysique et de
Morale, per l’art. : Espose élémentai^'^e de la thèorHe des égalités logiques à
deux termes a e^ b; ed La Bibliotèque du Congrès international de Philosophie,
per l'art. Théorie des égalités logiques a trois termes a, b et e). Couturat con la pubblicazione h'
Algebre de la Logique, Scientia). Napoli.R. VW-AlV-W-VlrA/Vaf VA/V-VV-'UV-A/V
AnrA/V--\r-V\r-ViHV;VAAr AVA/VAfV ^/^^ArVVA. ome affermare X e T insieme è
affermare z perchè T è sempre affermabile, sicché da a;T segue x ; così, dato
al SEGNO posto fra due tei-mini x,y il SIGNIFICATO
che l'affermazione di x porti seco l'affermazione di y ed inversamente, ne
segue essere verificati i postulati 11^,11^. La scrittura X -^ y -\-z afferma ^
-\-y o u, epperò e x-\-{y'\-x) afferma a; o y-|-s, e perciò pure j-, o i; la
scrittura. Le due scritture [Io dico che UNA PROPOSIZIONE È AFFERMABILE, indipendentemente
dall'essere vera o falsa, allorché essa non è in contraddizione con le leggi
fondamentali del pensiero; non affermabile nel caso opposto. Ei in questo caso
si dirà pure assurda. Cosi, una proposizione assurda è falsa universalmente,
cioè in tutto il dominio del pensiero. Una proposizione falsa IN UN CERTO
DOMINIO può non esserlo in un altro. Per es., la proposizione secondo la quale
la summa dei tre angoli di un triangolo non é due rotti È FALSA NEL DOMINIO
DELLA GEOMETRIA EUCLIDEA, ed è vera nel dominio più. ampio della geometria non
euclidea.] rappresentano dunque la stessa afiermazione ed è quindi verificato
il postulato. Similmente, la scrittura ac(y-|-z) afferma contemporaneamente 05
ed y o z. La scrittura xy -|ajz afferma o a; ed y contemporaneamente o contemp.
a; e e ; essendo identiche le due affermazioni resta verificato il postulato. Sono,
evid., verif. pure i post. IIIa, IIImPer ogni dato termine x si assuma come
termine x la classe di tutte le proposizioni appartenenti a T che non sono x;
allora, affermare x o x, indifferentemente, è come affermare T ; ed affermare x
o Xj simultaneamente, è come affermare T assurdo, perchè x contiene le
proposizioni che sono le negazioni delle proposizioni x, e che perciò non
possono essere affermate simultaneamente ad esse. DUNQUE x-\-x=T ed a;x==N, e
rimane cosi verificato pure il postulato. Alla interpretazione di x -|1/, data
in I, come classe minima che abbraccia x ed y corrisponde l'interpretazione
consìstente neìVaffermare x o y: ed alla interpretazione di xy quale classo
masaima comune ad x, y corrisponde l'interpretazione consistente nell’affermare
simultaneamente x ed y. Le due interpretazioni precedenti provano la CONSISTENZA
dei postulati del gruppo proposto, e pure la loro COMPATIBILITÀ, perchè nessuno
dei postulati del gruppo è escluso dalla presenza degli altri. Tal
interpretazione non corriifponde esattamente a quella che generalmente vien
data nel campo delle proposizioni. La INDEPENDENZA dei postulati del gruppo si
prova seguendo la via indicata da PEANO, PADOA, E PIERI. Sono conseguenza
immediata dei postulati nella sezione precedente, le seguenti proposizioni. Non
esiste alcun termine di T cite abbia la proprietà espressa dal post. IL, ed un
solo termine N esiste che abbia la proprietà espressa dal postulato IL. In
fatti, esistano due termini N, Ni con la proprietà IL; alsss:. ^•Z^ • • ^ M '
colora dove aversi, per essere N, Nj tepiniai di T, e per IL : N, + N = N,, N +
Ni = N, e per III4 : Ni=N. Analogamente si pruova che SE un Tj esiste con la
proprietà IIm di T, è T, = T. Prop. Per
ogni termine x un solo termine x esiste pel quale è x + x = T, xx = N. In
fatti, esista oltre a x, un altro termine a?, pel quale sia a? + ^j = T,a?irj =
N. Allora si ha x^=^T!x^=^{x-\-x) x^=a:x^-hxx^^ìs-{'XX^^.vx-{-xx^=x
(X'W^)^=ocT!^x .Il termine x di cui questa
proposizione si chiama termine supplementare del termine x, ovvero NEGAZIONE di
X, Si dice anche che x q x sono termini contradittori. Come osservare Ladd, il
solo principio di contraddizione (n.® 3 in fine) non basta a definire due
termini contraddittorii, occorre ancora IL PRINCIPIO DEL MEDIO ESCLUSO, il
quale merita anch'esso di ricevere quel primo nome (cfr. CouTURAt). MacColl
chiama legge del medio escluso la combinazione delle due relazioni -The
CaZculus of Equivalent StatemenU and Integration Limits, Proceedings of the
London Mathematica! Society. L'unicità del supplemento a; di x permette di
dedurre dall’EGUAGLIANZA x = y V altra us == y. Vale a dire si possono negare
entrambi i memori di un'EGUAGLIANZA senza che l’eguaglianza cessi di a'oer
luogo, £ cosi, allorché si vuol dimostrare un'EGUAGLIANZA, si può dimostrare l’EGUAGLIANZA
logica supplementare, se ciò è più conveniente. La negazione del tutto è il
nulla, la negazione del nulla è il tutto. In fatti, per IIm e per IL
rispettivamente, si ha TN = N, T + N = T; dunque, per la prop. 2.% N = T, T =
N. Il termine supplementare del supplementare di un dato è lo stesso termine
dato. Vale a dire x=^x {LEGGE DELLA DOPPIA NEGAZIONE – reduzione all’assurdo
introdutta da Zenone di VELIA. In fatti, dato x, soltanto x (prop. 2.^)
soddisfa alla doppia relazione Prop. Qualunque siano i termini x, y si ha
sempre xy = x{y + x) . (1) In fatti, xy=-(vy + '!>l = ooy'j-xx = x(y + x).
Ponendo i/ = N dalla (1) si deduce a?N = a;(N + ^) = (per post. IL ) o?^ = N ;
(2) cosi il prodotto del termine nullo per un termine arbitrario è il termine
nullo. Ponendo y==^Xy dalla (1) si deduce a:x = x{x -{x) = xT = x, ovvero xx =
x . Questa relazione è conosciuta col nome di legge di semplicità, o dì
tautologia (Jevons, Pure Logic; Johnson, The Logicai Calculus). Osservazione.
Qualunque siano x,y si ha sempre x + xy = x(x + y), (3) giacché per la (y') x +
xy = xx -\xy = x(x + y) . Per y = x, tanto il 1.*^ che il 2.^ membro della (3)
prendono il medesimo valore, e, in virtù della (t)>(y')» si può osservare,
che la stessa cosa avviene per |/ = N e per ^ = T (dopo di avere eseguito la
moltiplicazione per x). Ora dimostreremo che x è il valore comune dei due
membri della (3) qualunque sia il valore di y, cioè dimostreremo la seguente
Prop. 4.^ Qualunque siano x ed y si ha sempre x = x + xy = x(x + y) . (4) In
fatti, X + xy = xT + xy = x{y + y) + xy = xy + xy + xy = = (per IIIa )xy + xy +
xy= [per (y)] xy + xy — x(y+y)=x . — 11 — La relazioDe (4) è conosciuta col
nome di legge di assorbimento, e si distingue in legge di assorbimento per
l'addizione^ quando si ha riguardo air uguaglianza x=^x-\'Xy y ed in legge di
assorbimento per la moltiplicazione, quando si ha riguardo air uguaglianza x =
x(x + y). Corollario. Essendo x,y,z,...,t dei termini qualimque si ha
x=x-\-xy'\'Xyz-\... '\'Xy ... t=x(x+y) (x+y+z) ... (x+y"\... + • Con
l'aiuto della precedente proposizione e della legge associativa per
l'addizione, si dimostra ovviamente la Prop. 5.* Qualunque siano x ed y si ?ia
sempre x + y = x + yx . (1') In fatti, x + y = (x + y)T = (x + y){X'{'X) = =
per la (4) x + (x + y)x = x + (xx + yx) ovvero (senza l'impiego del post. IV),
per essere 070? = N, X ■{-y = x + yx . Si può pure ragionare così
x+y=x-\'y{x-\-x) = (per post. IV) x+ayy+yx=: [per (4)] x+yx . Corollario.
Ponendo T al posto di y in (1') si ha x-JrT = x + Tx = x + x = T ; così la
somma di un termine e del tutto è il tutto. Col medesimo aiuto che per la
dimostrazione della prop. precedente si dimostra la seguente Prop. 6/ Qualunque
siano x,y,z si ha sempre x + yz = (x + y){x + z) . (p') In fatti, x-\-yz =
x-\-xy'{-yz = x + y{x + z) = = x{x + z) + y(x + z) = (x + y) {x + z) . La
proprietà espressa dalla relazione O') si chiama legge distributiva dell'
addizione rispetto alla moltiplicazione. Per rappresentare il termine
supplementare di una somma. ] di un prodotto, porremo in parentesi la somma ed
il prodotto, e poi a sinistra, fuori della parentesi ed in alto, un piccolo
tratto; scriveremo, in altri termini, per indicare rispettivamente il termine
supplementare di quello che risulta dalla somma x -{y, e di quello che risulta
dal prodotto (vy. In ordine al modo di formare il termine supplementare di una
somma, o di un prodotto, si ha la seguente Prop. 7.* Il supplemento della somma
di due ter^nini è il prodotto dei supplementi di questi termini^ ed il
supplemento del prodotto è la somma dei supplementi; vale a dire '-{x-\-y) = xy
(5) -{xy) = x-\'y . (6) In fatti, cc + y + xy = x + xy'\'y==x-^y-\-y = X'\-T =
T (x + y)xy = X . xy + y . xy ; e per essere in generale z.zt = ìi + z,zt = zz
+ z,zt = z{z + zt) = zz = '!>i, ... (7) è pure dunque la (5) è vera. Per
pruovare la (6) si osservi che, per la (5), ~{x + y) = xy = xy, e che perciò _
_ _ _ ~(^y) = "["(^ + y)] = oo + y La (6) può essere dimostrata
direttamente in modo analogo a quello tenuto per dimostrare la (5), poiché si
ha c(^y + (à) + y) = x + yx + y = x-['y + y = x + T = T (vyix + y)=(x + y)xy=x
.xy-\-y,xy=[]^ev la (7;] N + N=N . Le formole (6), (7) sono generalmente
conosciute col nome di (prmule di De Morgan. Con l'aiuto della proposizione
precedente si può ora dimostrare che la moltiplicazione, come l'addizione, gode
nell'Algebra della Logica, della proprietà associativa; cioè si ha: Prop. 8.*
Qualunque siano x, y, z ha luogo la relazione xy,z = x,yz . («') In fatti,
-[xy,z]=~{xy) + z={x-\-y) + z= (per post. IV) a? + (y + '2^) 5 dunque xy,z='-[x~\-{y -\-z)\ =
xr{y-\'Z) = x.yz . Dai postulati Isegue che si può
variare comunque l'ordine dei termini di una somma logica senza cambiare la
somma stessa. Dal postulato IIIm, e dalla proposizione precedente segue che la
medesima proprietà ha luogo per un prodotto. Dalle medesime sorgenti deriva
pure che la prop. 7.* è vera non soltanto per la somma, o pel prodotto, di due
termini, ma per una somma, o per un prodotto, di un numero qualunque di
termini; giacché, per es. -{po + y + z + t)='[x + {y + Z'\-t)\ = xr{y + z + t)
= = x.~[y + {z -{-()]=:= xy~{z + t) — xy zi . ~{xyzt) = '{x . yzt) = x+
"(yzt) = ==0(;+''{y.zt) = x + y +''{zt) = x + y + Z'\'l . Prop.
S."" Se X + y = N è j/f^re Se xy = T, è pu7^e x = T, 2/ = T. In fatti,
in virtù della (4), dopo di avere moltiplicato per ^, si ha x{x + y)==x = ìix =
]a? (1, 2) la prima delle quali sarà letta 4: x è incluso, è contenuto in {fa
parte, è una sottoclasse di) y », ovvero « X IMPLICA ^ », e la seconda sarà letta « y include,
contiene {ha come parte, è una sopì^aclasse di) x », ovvero « t/ È IMPLICATO DA
x ». La RELAZIONE (1, 2) si chiama INCLUSIONE, o IMPLICAZIONE (ma non
conversazionale – vide: H. P. GRICE: “Il profferente IMPLICA che p”], ii%verse
l'una dell'altra. Imitando Poretsky *) la xy... (7) ; 5? + |/ = T... (8) sano
tali che avendo Itwgo una qualunque di esse avranno luogo le rimanenti. Poiché
le (6), (7), (8) sono le relazioni supplementari rispettiv. delle (3), (4), (5)
è evidente (prop. 2.*, osserv.) che basta limitare la dimostrazione della
proposizione soltanto a queste tre. Ora si ha: «) Se x=^xy, addizionando y ad
ambo i membri, sarà: X + y = xy + y^=y, che è la (4); moltiplicando ambo i
membri per y sarà in vece: ccy = xyy^='^y che è la (5). p) Se y=a) + y y
moltiplicando ambo i membri per a?, si ha: ooy = x(a) + y) = x, che è la (3); e
da questa, per a), segue la (5). Y) Se a?2/ = N, aggiungendo ad ambo i membri
ary, si ha: an^ + xy = oo{y + y)=xT===x = ìi + an^=xy, che è la (3); e da
questa, per a), segue la (4). Si osservi quanto segna : 1.^ Se è x=:^xy,
aggiungendo x ad ambo i membri si ha X -{x = x -\xy j ovvero T = x -\yx = x '^y
j che è la (8). 3.^ Se è ysstx^yj moltiplicando ambo i membri per y si ha yy =
y(x -^-y), ovvero N=rya;, che è la (6); aggiungendo, invece, x si ha
a;-|-y=a5+*"i'y=T+3/=T, che è la (8). 3.^ Se xy = 'N, aggiungendo ad ambo
i membri os, si ha 1/ -|ocy = N + y, ovvero a: + y = «, tasche è Ift (4);
prendeudo i supplementi d*ambo ì membri, si iui la che è la (8). 4.^ Se è
x^^y^atT f moltiplicando ambo i membri per x si ha xy = Tx = X, che è la (8);
moltiplicando per y e prendendo poi i supp}. dei dq^ prodotti : as -fy = y, che
è la (4) ; prendendo 1 supplementi d' ambo i membri: xy = N. Cosi,
limitatamente alle (3), (4), (5), (6) cba fra le sei relazioni disll* prop.
precedente hanno forma effettivamente differente, questa proposizione tenuto
pur conto di quanto si è detto in a), p), y) resta dimostrata, per ogni caso,
direUamente, nel senso che da ciascuna delle 4 relazioni si fa, direttamente,
discendere la verità delle altre tre. Osservazioni. Dalla prop. 13.* e dalle
(1, 2) segue che è la medesima cosa scrivere ^oo, (9) ovvero scrivere una
qualunque delle sei relazioni cc = 0(Ty, y=x-\-y, ^ = N J a? = a? + i/, y = !vy,
a) + y = T ] Corollario 1.® Poiché N = Na?, ed x = Tx qualunque sia a?, si ha,
per ogni termine x CoROLL. 2.^ Ogni prodotto di due, più ^ termini logici x, y,
. . ., t è incltiso in eiasouno dei fattori. CoROLL. 2.^ Ogni somma di due » o
più, termini logici x, y, . . ., h include ciascuno degli addendi. In fatti,
dimostrando la sola proposizione a sinistra, abbiamo^ per ia legge di
assorbimento ^ + (^y ... /i) = a?, ^ -f {xy ... h)==y, ..., t/i -f {xy ... h) =
h; e quindi, per la 2** delle (IO) osy ..,hy (H) hanno luogo simultaneamente.
Esse dicono che dalla negazione dei due membri di una inclusione logica nasce
l'inclusione logica inversa (l'inclusione diventa opposta alla data). In questo
enunciato, o meglio nelle formule, consiste il così detto principio, o legge,
di contrapposizione, 10. Proposizioni diverse sulle inclusioni. Una serie di
proposizioni sulle inclusioni, che ora daremo, permette un rapido maneggio di
queste nel CALCOLO [cf. H. P. GRICE, FIRST-ORDER PREDICATE CALCULUS WITH
IDENTITY] logico, e di presentarne un'applicazione a tradurre in formule le
quattro proposizioni tradizionali della Logica deduttiva, e la teoria del
Sillogismo. — he 9 proposizioni sono le seguenti. Prop. 14.* Se x se wy ...hA; dunque, sommando, o moltiplicando.
Prop. 17.' Se z x, z>y, ..., z>h z> xy ...h . In fatti, dal coroll.
2." prop. 13.% e dal coroll, della prop. 18." a sinistra, si ha rìsp.
1 a dritta, si ha risp. xy ...h a?, ..., x+y-\-...-\ A> h icy ... A irj/...ft ; quindi, pel princìpio del
sillogismo (prop. 14,') segue la verità. dell'assorta Prop. 18.' Se z(u + x) (v
+ y) sarà :C>xy, z>uy, C^v . In fatti, per la addizione, è ! distributiva
della [ moltiplicazione, zxi/-\-uy-\-xv-\~ui:i ; d'onde, per la proposizione
precedente (a sinistra ed a dritta rispettivamente), segue la verità
dell'asserto. N.B. — La prop. 18.' è pure vera se le ipotesi sono; z^ux + vy,
Prop. 19.' Se b a sarà (a + u)f) = (a +
u)(b + u). In fatti, au + b = au •{b{u + u) ^={a-\-h)u-\'ì)u = au-^ìni, giacché
da &a segue ab=^a. Prop. 20.* Se b
a&, e quindi au + bù'^ b . Ravvicinando i due risultati, si ha, in
fine, b x . (2) Il binomio a secondo membro è lo sviluppo normale della funzione
f{x) nel termine logico x. Data Aa?), e ridotta alla (1), il processo indicato
mostra come si costruiscono i coefficienti a, et dei termini a? e a; del suo
sviluppo normale. Però, è interessante vedere come essi si determinano
direttamente dalla f{x) nella forma nella quale è data, cioè senza ridurla
dapprima alla (1) e poi senza seguire il procedimento tenuto per ricondurla
alla (2). Poiché la (2) deve essere vera per qualsiesi valore di x, allorché,
in essa, al posto di x si pone una volta T ed un'altra N, si avrà
rispettivamente /•( N) = aN + ftN = aN + &T = ft ; opperò, i coefficienti
cU x e di x nello sviluppo normale di f{x) sono rispettivaìnente ciò che
diventa, f(x) quando ai pasto di x si pothe una volta T ed un' adira N ; vale a
dire si ha Esempio. Sia A^) = AT)..; + /-(N).5 . (3) fix) = (l + x)(m -{x)h -{px{q
-{x) + r ; poiché /(T) = (; + T) (m + N)A +pT(5 + N) + r = w»A 4-2?g + r
/(N)=(Z + N)(m + T)A+i>N(5 4-T)+r = iA + r ; smtk f(x) =• {mh 4i?? + ^) * +
(^* ~h ^) a? • Corollario. Dalla nx)=nT).x+m).x, moltiplicando una volta per x
ed un'altra per Xy si hanno le r — 83 — segueuti fopmole (di Mac Coli.) ccfXx)
= xf(T), xf{x) = xm) . (4) h) Sia ora f{Xyy) una funzione di due termini logici
x,y. Considerando la f(x,y) come funzione della sola ^r, si ha per la (3) ax,y)
= nT,y).x -\r(^,y)x . (5) Ora è, per la stessa (3): AT,z/) = AT,T).i/ + AT,N)^
AN,2/) = AN,T).2/ + AN,N)^; dunque, sostituendo ia (5), si avrà f{x, i/)=AT,
T).^2/ + AT, N).r^ + AN, T)xy^f(f{, ì^)~xy, (6) In questa formula consiste lo
svilupiH) nonaale di f{x, y) nei due termini logici x^y. I varii addendi dello
sviluppo sono formati coi varii costituenti di T moltiplicati rispettivamente
per ciò che diventa la f{x,y), allorché al posto ^ì x &à y si pongono T ed
N secondochè, in essi, x ed y figurano direttamente, coi loro supplementi. e)
Sia ancora una funzione f{x,yiZ) di tre termini logici x,y,z. Dalla (6) si
deduce che Aa?,l/.2:)=AT,T,2:).^l/-t-AT,N,^)^^+AN,T,^):^i/+/^N,N,2:)^^, (7) e
dalla (3) che AT,T,^) = AT,T,T)^ + AT,T,N)^ AT,N,;^) = AT,N,T)^ + AT,N,N)^
AN,T,^) = AN,T,T)^ + AN,T,N)^ AN,N,^) = AN,N,T)^ + AN,N,N)5 ; sostituendo nella
(7), si avrà:
A^,y,^)=AT,T,T)^(/^+AT,NTT)a;i;^+AN,T,T)^i/^+AN,N,T).^^2:+AT,T,N)r7'2/^+AT,N,N)^^z+AN,T,N)à;i/5+AN,N,N)^]/5.
In questa formola consiste lo sviluppo normale di f(.v,y,z) nei tre termini x,y
yZ. — l varii addendi, si presentano anche A. Dbl Rb ~ qui come formati dai varii costituenti di T
moltiplicati ciascuno per ciò che diventa f{x,y,z) quando al posto delle x,y ^z
si ponga T od N secondochè, nel costituente che si considera, x, yyZ entrano
direttamente, o per mezzo dei loro supplementi. d) Il procedimento precedente è
generale; esso può essere seguito per una funzione di un numero qualunque di
variabili. Si arriva allora a ciò che si chiama lo sviluppo normale di questa
funzione; ed esso si comporrà, se n è il numero delle variabili da cui dipende
la funzione, di 2** addendi, formati coi 2** costituenti di T corrispondenti a
tali variabili, moltiplicati rispettivamente per ciò che diventa la funzione,
allorché al posto delle variabili stesse si pongono i termini T ed N secondochè
queste, nei costituenti in considerazione, entrano direttamente, o col mezzo
delle variabili supplementari. Cosi, ades., data una funzione f{x,y,z,t,u) di 5
variabili, considerando il costituente xyztu, per avere un addendo dello
sviluppo normale della funzione si deve moltiplicare xyztu per /"(T, N, T,
N, T). In pratica, quando si vuole ottenere lo sviluppo normale di una funzione
in n variabili data come somma di più addendi, giova, il più delle volte,
moltiplicare ogni addendo nel quale manchino r variabili per lo sviluppo di T
in queste r variabili, e poi fare le riduzioni opportune. Cosi da f{x,y)=ax
'\-by -^ e sì passa ad f{oo, 1/) = aa;(2/ + 2/) + hy{x + x)'\-c{xy + xy '\xy +
xy) = (a + et + c)a7i/ + (a4-c)a?i/ + {l) + c)xy -\cxy, moltiplicando i tre
addendi della t\x,y) data rispettivamente per gli sviluppi di T in x, in y, ed
in x,y, e) Da quanto precede risulta che ciò che caratterizza lo sviluppo
normale di una funzione logica sono i termini che moltiplicano i varii
costituenti di T nei varii addendi dello sviluppo. Essi saranno chiamati
discriminanlì della funzione *); così i discriminanti di una funzione logica
sono i valori che assume la *) Adoperando un modo di discorrere usato nel!'
Algebra ordinaria si può dire che i discriminanti di una funzione sono i
coefficienti del suo sviluppo normale.] funzione allorché al posto delle
variàbili si sostituiscono i terììiini T ed N in tutti i lìiodi possibili',
cosi ancora una funzione logica dì ii vaìHabili possiede 2** discriminanti.
Quando un discrimiuante di una funzione f{u;,y,...) risulta dal porre per x il
termine T, il discriminante si dirà positivo rispetto ad a? ; e quando in vece
risulta dal porre per a: il termine N, si dirà negativo rispetto alla x; cosi
fra i 2" discriminanti di una funzione logica in u variabili ve ne sono
2""* jpositivi rispetto ad una ìuedesima variabile^ ed altrettanti
negativi ; ed in generale, rispetto ad r variabili simultaneamente ve ne sono
2^'' positivi^ ed altrettanti negativi. La forma generale che può essere data
al discriminante di una funzione f{x,y,...,t) di n variabili a;,y,...,t è la
seguente allorché per t,,t,,...,t„ si prende una combinazione qualunque, n ed n,
dei 2n termini n volte n Tolte T,T,...,T, N,N,...,N . I discriminanti di T, o
di N, o di un termine qualsiasi a, considerati come funzioni logiche di un
numero qualunque di variabili, sono tutti eguali a T, o ad N, o ad a. Ciò
risulta evidente da quanto or ora si è detto, e direttamente per T ed a
(incluso N) dagli sviluppi già dati di questi termini. f) Lo sviluppo normale
di una funzione si dirà pure sviluppo di BOOLE. Nel caso di sviluppo in un sol
termine x, in luogo di dire sviluppo normale, o sviluppo di Boole, in x, diremo
pure espressione binomia in x, 15. Proprietà dei discriminanti e delle funzioni
sviluppate, a) Se una funzione f{x,y,,..) risulta dalla somma, o dal prodotto,
di due altre 9(07,2/, ...), 4^(^,1/, . ..)» sicché si abbia per tutti i valori
delle x,y,. . . o /*( (37, 1/,...) = 9 (a?, 1/,...) + 4; (a?, 1/, ... ) /•(a;,
2/, . . .) = 9(07, 2/, . . .) . 4;(a?, y, . . .), — 36 — ponendo al posto delle
x,y, ... supposte in numero di n, ì valori Tj,Tj,,..., T^ di cui nel n.^
precedente e), in fine, si avrà o Ora /'(t,, f,, ...) è un discriminante di f{x,
y, ...) e 9(t,, Xg, ...), ^(t,,Tj,...) sono i discriminanti ad essi omonimi
(cioè positivi negatiti rispetto a variabili dello stesso nome) di 'fs » • • •) • Ora 9(Tj,t,,...) è un
discriminante della 9(0^,2/,...) ed ~/'('r,,Tj,...) è il supplemento di f{r^,
Tg, . . .) che è il discriminante omonimo delle f{x,y,.-.)', dunque Prop. 26.^
Il supplemento di un discriminante di una funzione logica è il discriminante
omonimo della funzione logica supplementare. e) Dal teorema in a), e dal modo
di presentarsi dei discriminanti di una funzione nello sviluppo normale della
funzione stessa segue la Prop. 27. Nello sviluppo della somma, del prodotto, dì
più funzioni logiche, i coefficienti dei varii addendi si ottengono sommando,
moltiplicando, i coefficienti degli addendi omonimi (che moltiplicano lo stesso
costituente) delle singole funzioni. Dal teorema dato in b) segue poi la Prop.
28.*" Ia) sviluppo della funzione logica supplementare di una funzione
logica data si ottiene prendendo i supplementi dei coefficienti dei singoli
addendi nello sviluppo della funzione data. Cosi, ad esempio, le l'unzioni
supplementari delle f{30, y) = axy + l^Joy + cxy + djoy, sono rispettivamente
le funzioni: ~f{x) = ax + àx ~f(3o, y) = aotry + hxy + cxy + dxy Osservazione.
La proposizione può dimostrarsi direttamente sommando, o moltiplicando, due a
due gli addendi omonimi, degli sviluppi delle funzioni date, ed osservando che
nella moltiplicazione di questi sviluppi, il prodotto di un termine dell'uno
per un termine non omonimo deir altro è nullo. La proposizione può pure
dimostrarsi nei due modi seguenti: 1/* modo. Limitiamoci al caso di due
funzioni di due variabili. Le due funzioni _ _ /(^ > y) = «^y + ^^y + ^^y +
^y 9(x . y) = axy + bxy -f cxy -f "dxy sommate, membro a membro, danno
/(aJ » y) + 9 (•'^ > 2/ )=(« + a) ^y + (^ + ^) ^y +(c -f e) a;y 4(d +5) ay
=T . xy+T . j:y +T . ij/-f TÌy=T {xy -\^xy+xy-\'~xy)='ì! ; moltiplicate, in
vece, membro a membro, danno f{x, y) . ^(x ^ y) = aa, xy -\bb, xy -{ce, xy -\dd,
xy = ^ ; dunque è 9(^,y) = "/(^,y)2.^ modo (Whitehead, n.® 29, 6). Per una
funzione di una sola variabile _ f{x) = ax 46x, si ha ___ _ ~f{x) = {a -\x) {b
-[x) = ax -^ bx -{ab, ~/{x) = (a -|ab)x + (^ + *^)* = ax -fftas, — 38 — e
quindi la proposizione enunciata è vera. — Supponiamo ora che la proposizione
stessa sia vera per una funzione di un numero n di variabili x,2/,...,^^y +
(^'^y + ^«^'^z ~f{x,y,z)=axyz-\-hxyz -\cxyz-\-dxyz -\exyz-\-~fxyz~\'
gxyz-\-/ixyz, Ora, prendendo i supplementi d'ambo i membri di ciascuna di
queste relazioni, con le formule di De Morgan (prop. 7.^ ed oss. dopo prop. 8.^), si ha /'(.^,y) = (ct + x +
y) (& + a? 4y) {c + x + y) (rf + a? + y) r{x,y,z) =
(a\x\y\-z) {b\x-\-y^^) (^+.^+'^+'3:) {d^rOsAry\z)
{e-\-^ì)\-y^z){r'\'X^y^z)(g\x^y\'Z){n-\-x-]ry-\-z\ che sono appunto gli
sviluppi domandati di f{x,y),f(x ^y,z), N. B. — Il Sig. PoRETSKY {Bulle tin de
Kasan, 2.* serie, t Vili, n.® 2) propone pei discriminanti della funzione f(x,
y, ...) che figurano nel suo sviluppo reciproco del normale, la denominazione
di CO-OPERANTI (cf. H. P. GRICE), quale correlativa dell'altra di coefficienii,
già adoperata allorché di f sì ha lo sviluppo normale. ValoìH e doniinio di
estensione di una funzione logica. Una funzione logica /'(.x*, 2/, . . ., ^) di
un certo numero n di variabili X,y,,.,,t, assume, in generale (cioè quando non
dipenda formaUnente dalle .t, 2/, ..., ^, come nel caso in cui essa si riduca
ad un termine determinato a) valori diversi in seguito ad una diversa scelta
delle j?, 7/, ..., /. La collezione di tutti i valori possibili per la f{x, 2/,
. . ., /) in conseguenza di tutte le possibili scelte delle x,y,,.,,t si chiama
il dominio, o il campo di estensione della f{x, 2/, . . ., /). Sitfatto dominio
si dice illimitato se tutti i valori sono possibili perla f{x,y,...,t); si dice
limitato nel caso contrario. Le parole illimitata, limitata si applicano pure
conHspondentemente alla funzione /'(j:;,!/,..., ^),— Di-oendo che il valore a
di una funzione è inferiore, più piccolo del valore ^ allorché è soddisfatta la
inclusione a • • • > B « > • • • > H « Un'equazione in cui uno dei due
membri è nullo e l'altro è presentato col suo sviluppo noì'male si dirà in
forcina noì'niale. Così la forma normale dell'equazione proposta è la seguente
A a A a 072/. . . ^ + Bp B p cry .. .t-\.. . ■\Hx xy...t = ^, (3) Esempii. 1.^
Sìa data l'equazione ax -{bx =:z ox -\dx ; i suoi discriminanti sono i
determinanti formati, nel modo sopra indicato, con ì termini delle due
orizzontali ab ed m ab od cioè a e a e :=ac -\a>c, b d bd = bd i-bd ] e r
equazione, in forma normale è la seguente (ac -{ac)x -{{bd -fbct)x = N . 2.^
Sia ancora data l'equazione ax -|bx = cx ; siccome può scriversi cx=:cx -{Nx,
cosi questo caso vien ricondotto al precedente ponendo (i = N ed osserv. che rf
= T. Trattandolo direttamente, i suoi discriminanti si caveranno, nel modo
sopra indicato, dal quadro e saranno, perciò a b a 6 e N e* T ac'4-ttc,
òT4-òN==6 L' equazione, in forma normale, sarà {oc 4ctc)a; + òx = N . 3.° Sia
l'equazione ax '\bx == e. — Potendosi scrivere c = ca;-jcas, i discriminanti
dell'equazione, e la forma normale di questa, si otterranno facendo
corrispondentemente e dappertutto d = c nell' es. 1.*^, ovvero, direttamente,
cavandoli dal quadro a b a b e e e e I discriminanti sono ac -}oc ^ bc -{ bc j
e la. forma normale dell'equazione è _ _ _ _ _ {cLc -{ac)x -f{bc -fbc)x = N .
Sia l'equazione ax-{'b=cx] poiché b==bx-{-bx e cx=cx~{-ì^x ^ i discriminanti
saranno cavati dal quadro a + b b ab b e N e saranno perciò (a -}6)c -|afte, 6.
L' equazione in forma normale sarà [(a + b)c -\abcjx -\bx = 'N . 6.*^ Sia
l'equazione axy -f bxy + cxy + dxy = exy + fxy + gxy -\hxy ; i discriminanti di
essa, cavati dal quadro a b e d a b d e / g h saranno e f g k ae-^ae, bf-\-bf^
cg -^^ cg, dh -\-dh : e l'equazione, in forma normale, sarà (oe -f ae)ajy + (V
+ hf)xy + {cg + cg)xy + {df + d/)xy = N, — 46 — 6.*^ Sia ancora l'equazione axy
+ xy + dxy = xr/ + gxy ; se la scriviamo come segue ricadiamo subito sul caso
precedente ; cioè troviamo che i discriminanti sono da farsi col quadro: a T N
rf a N T d T N ^ N N T // T } e sono, perciò _ a, T, ^, d ; sicché l'equazione,
in forma normale, sarà axy + jry + r/xy + dxy = N . OsservazioThe, Quando nello
sviluppo normale di una funzione logica manca in un addendo il coefficiente del
relativo costituente, allora è da intendersi per esso il termine T. Cosi, se
manca addirittura l'addendo che porta un dato costituente, esso si considererà
come presente e col coefficiente N. Questa osservazione è stato appunto tenuta
presente nel trattare il precedente esercizio 6.® h) Quando sia data una
inclusione contenente termini variabili, si diranno discriminanti della
inclusione, i discriminanti di una qualunque delle equazioni che equivalgono
alla inclusione. Così, data la inclusione Aa;, 1/, . . ., e per massimo a + P + ... + XOra, perchè
l'equazione sia possibile per una medesima scelta delle x,y,...,t ^ è
necessario .. che questi due dominii non siaAB...H A+B+...+H «P...X «+P+...+X
no mutuamente esclusivi, ^^^' ^'" cioè che il loro prodotto, in senso
logico, non sia nullo, e però è necessario che si abbia (fig. 7.% 8.^). AB.,.H
-^^] tende che debbono essere soddisfatte coatemporaneamente, scegliendo per
tutte in uno stesso modo le incognite da cui dipendono. È proposizione
fondamentale per lo studio dei sistemi di equazioni la seguente Prop. 3L* Ogni
sistemjx di equazioni è equivalente ad una sola equazione i cui discriminanti
sono le somme dei disoHminanti omonimi delle singole equazioni del sistemai. In
fatti, siano /,(^,2/,...,0 = N, /;(a7,2/,...,0 = N, ..., ^»(a?,|/,...,0 = N (6)
m equazioni costituenti un sistema. Per quelle determinazioni delle a?, 1/, . .
., per le quali queste equazioni sono soddisfatte simultaneamente, è
soddisfatta pure la equazione che risulta dal sommarle membro a membro; vale a
dire la /; + /; + . ..+/;.=N . o) Viceversa, ogni determinazione delle x,y,,..,t
per la quale è soddisfatta la (6), in virtù del CorolL della prop. 9.% a sinistra,
soddisfa pure alle /;=N,/;=N, ..., /:,=N -, cioè simultaneamente alle
equazioni. Dunque, il sistema e la equazione sono equivalenti. Ora, per la
prop. 25.* e per la def. data al n.° 18, a), essendo i discriminanti della (7)
le somme dei discriminanti omonimi delle (6), la proposizione enunciata risulta
dimostrata. I discriminanti dell'unica equazione, equivalente alle equazioni di
un dato sistema, si chiamano discriminanti del sistema. — Così, se i
discriminanti delle /; = N, /i = N, ..., ^ = N sono rispettivamente Aj, B^, . .
., H^ ; A,, B,, . . ., H, ; . . . ; A^, B^, . . ., H^, i discriminanti del
sistema saranno A = SA,, B = 2B,, ..., H = SH,, e l'equazione (in forma
normale) che sostituisce il sistema stesso Kooy . . . ^ 4Bxy . . . ^ + . . . +
H^i/ . . .^ = N . (8) 21. Sistemi di inclusioni. La definizione di sistema si
estende al caso in cui in luogo di equazioni siano date delle inclusioni,
ovvero delle inclusioni ed equazioni insieme; e la proA. Dbl Rb — Algebra della
Logica, 7 — 50 — posizione 31.* regge pure in questi due casi. — In fatti,
siano A (^, 2/, . . ., Yt i
discriminanti delle f^ e 9,(e = 1, 2, . . ., m) rispettivamente omonimi, per
essere [n. 18.% ì))] A,a,, B,p,, . . ., H,x. quelli della /Jqp^., saranno A^a^
+ A,a, + . . . + A^a^ = 2Aa B,P, +B,p, + ...-hBX=2Bp" • • • • • • • quelli
dell'equazione unica che rimpiazza il sistema (10), epperò il proposto (9). La
forma normale dell'equazione equivalente a (9) è la seguente SAà,ODy..A-\SB^ .
0?^ . . . ^ + . . . + 2Hx . ^'^ . . . ~t = N . Se un sistema contiene
inclusioni ed equazioni, ciascuna di queste ultime può essere considerata come
inclusione possedente per termine maggiore il termine N. Definizione, I
discriminanti della (11) si chiamano pure discriminanti del sistema. P. e., sia
a formare P equazione equivalente al sistema oas -|6a; • • • > ^9 + ^9. La risultante dell’eliminazione
delle (v,y,... yt dalla (10) sarà perciò la _ _ « _ » _ («9 + «9) (&9 4^9)
. . . (^9 + /29) = N, ovvero la _ __ _ e scrivendo 9 e 9 per disteso, la
ab...h\ aS.„hu-\'{a+S-^...'\'Ji)u\ +a&...^j(a-f&...+^)t«+a&...^w|=N
; e questa è, evidentemente, soddisfatta indipendentemente dal valore di u,
poiché sono nulli i coefficienti di w e di u. Corollario 1.° Se nella (10)
facciamo i^ = T, con che w = N, avremo f{a),2/,...,^) = a~|-^ + --+ ^; se
facciamo, in vece, te = N, con che w = T, avremo f{x, 1/,...,/) = a& ...
/z. — Gli estremi ab . . . h, a + b -|• • • + h del dominio di estensione della
f (x, y, . .,, t) sono quindi valori effettivamente raggiunti dalla funzione
(cfr. prop. 29.). Corollario 2.° Poiché la (a-\b +,,.-{h)u -\-ab ...u
rappresenta tutti i valori compresi fra ab,.,h ed a+&+... +/^ (prop. 18.%
oss. in fine), la prop. 26.* si completa affermando che i valori di cui una
funzione logica è suscettibile sono tutti i valori compresi fra ilpr^odotto e
la somma dei suoi discriminanti. Corollario 3.° Una funzione logica è
illimitata se il prodotto e la somma dei discriminanti valgono rispettivamente
il nulla ed il tutto \ cioè, riferendosi alle indicazioni di sopra, se contemporaneamente
aì)...h = ^, a + et + ... + ^ = T, ovvero od anche _ _ Corollario. Perchè due funzioni f(x, y, ..., t), 9(x, y,
..., u) dello stesso > di diverso, numero di variabili abbiano eguale
estensione è necessario e basta che il prodotto e la somma dei discriminanti
dell'una siano rispettivamente eguali al prodotto ed alla somma dei
discìHminanti dell'altra. ^ Corollario 5.® Se il prodotto dei discriminanti di
una funzione logica eguaglia la loro somma, la funzione ha un sol valore (sì
riduce ad un termine indipendente dalle incognite). In fatti, in tal caso, per
essere sarà (prop. 10.^) a = et = ... = ^ ; epperò si avrà : f(x, 2/, ..., f )
= a{xy ... t + xy .,.t-{... + xy ... ^) = aT = a . Si puo trovare, col mezzo
della precedente proposizione 33.% la condizione data al n.^ 19 [eguagl. (4)]
per l' esistenza di valori comuni ai dominii di estensione delle funzioni
/(a;,y,...,«), 9(05, y,...,«) . Detti A, B, . . ., H i discriminanti della
/> oc } P 7 • • ^X quelli della 9, ed ii un termine assolutamente
arbitrario, poiché i dominii di estensione della /, 9 sono quelli stessi delle
due funzioni (A + B + . . . 4H) w + AB . . . Hw = Sm + Pt4 del termine w, vi
saranno valori comuni alle /, 9 tutte le volte che è possibile scegliere u in
modo che sia Sw -jPw = aw -{*Ku . Ora^ essendo Sa + Sa, Pit + Pw i
discriminanti di questa equazione, ciò avviene tutte le volte che si abbia (Sa
+ Sa)(Pit + Pw) = N ; ovvero, essendo SPàir=(A + B + ... 4-H) AB...Hfltp...Y
(à+p +-...+x)=AB...H . flìp...x SPait = SPap . . . xap . . . x = N SPaw = AB .
. . H . AB . . . H . a« = N SPait=AB ... H(À-f B+ ... +H) (a+p +... +x)»P X=ÀB
... Hotp ... x, -57 — quando sia AB . . . Hap . . . X -f ap . . . ^ÀB . . . H =
N, che è appunto la (4) citata. 24. Equazioni limitate ed equazioni i/^^meto^e.
Un'equazione logica fra più variabili x,y,.. .,z,t si dice illimitata rispetto
ad una variabile t, allorché scegliendo comunque la f, la equazione sia
possibile per valori da determinarsi delle altre variabili a?, 1/, ..., ^ ; e
si dice illimitata rispetto a più variabili, separatamente considerate, quando
una tale proprietà ha luogo per ciascuna di dette variabili. Un'equazione
logica si dice illimitata simultaneamente rispetto a più variabili quando,
facendo di queste una scelta arbitraria, la equazione sia possibile per
un'opportuna scelta delle altre variabili. Un'equazione non illimitata si dice
limitata. Un' equazione illimitata rispetto a tutte le variabili da cui dipende
ha, evidentemente, tutti i suoi discriminanti nulli ; giacché, scritta, p. es.,
in forma normale, . . . + L^ • • • zt-^. . . = N, se è ljxy...zt un suo termine
qualunque, ponendo T al posto delle variabili che figurano in esso
direttamente, ed N al postodi quelle che vi figuraflo coi supplementi, il
termine stesso si riduce al suo coefficiente L, mentre con l'analoga
sostituzione gli altri si annullano. Dovendo, intanto, l'equazione, per
ipotesi, essere soddisfatta si ha L = N. b) Sia f{x, t/, . . ., ^, = . . . (11)
un' equazione logica, nelle variabili a?,2/,...,z,^, e supponiamo dato a ^ un
arbitrario valore, sicché essa diventi equazione nelle sole variabili
a?,t/,...,z. Scrivendo questa equazione nella sua forma normale, sia essa kxy .
. . z + Vixy ... ^ 4... -h Vi.xy . . . .s: = N ; (12) saranno A,B,...,H
funzioni della sola t che potremo pensare scritte come segue k = a,t + aL~t, B
= Pj^-hp/, ..., H = x\^-hx/; (13) *) Whitehbad, l, e, n.® 32, pag. 59 e 60. A.
DfCL Rb ~ Algebra della Logica. . 8 \ — 58 — sostituendo nella (12) avremo la
(11) nella forma a^xy .. .zt-\p^a^,, . zt -{-,., -f Xi^ . . . ^^ + oL^xy . . .
^7 + ?iXy ... ^7 + ... + Xì^y . . . ^^ = N ; dalla quale si vede che «i, Pj, .
. ., Xi so^^ i discriminanti della /* (pensata come funzione dell'intero numero
di variabili) positivi rispetto alla f, e che ai,p8,...,Xi sono i discriminanti
negativi rispetto a t. Ora, perchè la (12) sia possibile deve aversi AB... H=N,
cioè (aj + a,ì) (^,t + p^O . . . (x,t + X J) = N, ovvero aiPi---Xi-^ +
a8p8...Xi-^ = N (14) pel dato valore di ty e per ogni altro arbitrariamente
preso; vale a dire, in grazie di quanto si è detto in a), deve aversi «iPi • •
• Xi = N, a,pj . . . Xg = N . Cosi : Prop. 34.^ Affinchè un'equazione logica
sia illimitata, rispetto ad una delle incognite da cui dipende, devono essere
nulli il pròdotto dei discriminanti positivi rispetto a quella incognita, ed il
prodotto dei discriminanti negativi. Per trovare le condizioni di illimitazione
rispetto a più variabili occorrerà scrivere per ciascuna variabile le due
condizioni che risultano dalla proposizione precedente. e) Sia ancora la (11),
e supponiamo fatta una scelta arbitria di alcuu'e ...z,t delle variabili;
sicché la (11) diventi una equazione nelle sole variabili rimanenti a?,?/,...
Allora, scritta in forma normale, la (11) sia aan/ * . . + ^(vy + . . . + xooy
. . . = N . (15) Le a, p, . . ., T conterranno le . ..z,t, e perciò nel loro
sviluppo normale rispetto a queste, .,z,t si presenteranno come espressioni
della forma et = fltj . . . Zt -p . . . -|(Xm • • • zt p = p^,,, zt -|. . . -p
p„ . . . /2^f T =T^ . . . zt -\., . -\-T^ . . . zt . — 59 — Sostituendo questi
valori nella (15), potremo scrivere la (11) come segue
...+(T,...s:^-f-...-fTjj,...^0^-=N ; (16) e da questa si vede che a^,. . .,a^,
Pj, . . ., p^, . . ., t,, . . ., t^^ sono i discriminanti della f considerata
come funzione di tutte le date variabili, e precisamente che «1, pj, . . ., T^
sono positivi rispetto a tutte le ..,zt «j, Pj, . . ., Tj » » » alle,„Zf e
negativi risp. a t •»•>•••>• • • • • •• • • • • • •• • • •• «pk » P^ >
• • . » T'i^ » negativi rispetto a tutte le . . . zt Ora, perchè la (15) sia
possibile per valori da trovare di a;,2/,..., . dovrà aversi «p . . . t = N,
cioè (a^. .zt-{-...-j-a^.,.zl) (Pi...-3:^+...+pjj... (^ 4" ^)^ 4" ^^^ > orf 4"
^^ > e quelli negativi (pj^c)d + hk, hd-\-bd, cd4-cd, Nd4-Td = d . Il
prodotto dei primi (tenuto presente che sono tutti nel loro sviluppo normale
rispetto a d) è (a 4" ^ 4" ^) (^ 4" ^) (^ 4" ^)^ 4"
*^^ . ca . ah . ad^=^ ad '\abc . d ed il supplemento di questo prodotto (a + d)
(a + 6 + e 45). Il prodotto dei secondi è, in vece, ho,d, mentre è ab ed il
prodotto di tutti i discriminanti. Dunque, il dominio di estensione della x è
6c . rf ropomamooi ài trovare: 1,^ la risuUamiU (oondìzìoae per la sua
possibilità); 2.^ % damimi di estensione deUe x j y, z, 1.^ Le tre equazioni
del sistema possono essere scritte x^ome segue xyz -|Nosyz -fxyz -[Hixyz -|l^xyz
-[Nojyz -jNasya + ì^xyz = a xyz -jxyz -|ÌHxyz -j. . = è '^ ; (31) 05^2 -|'Nxyz
-f-\xyz -|Nojyz -|d'onde segue che i loro discriminanti sono rispettivamente
b,b,b,b,b,b,h,b\, (32) e quelli del loro sistema a + 6-|-c, a-{-b-^c, a -{b -^
e, a-|-6-{-c, a + 6 + c, a-f-ft + c, a-|-6«-}-c, a + ^ + c(33) La risultante
sarà, dunque (a + 6 + e) (à + 6 + e) (a 46 + e) (a 46 + e) (a + 6 + e) = N ;
ovvero, per essere (prop. 6.% pag. 11) (a -^ b -\e) (a -\b '\' e) =^ a -\b -]ce
= a -{b {a -\b -\e) (a -{b -{e) z= e '\{a '\~ b) (a '{' b) = e -\ab -{ab, e poi
pure (a -}^) (e + «^ + «&} = ca -f" ^'^ ~l~ ^^, sarà (a 46 -Ie) (6c +
ca -|oò) = N ; o. in fine 1 aòc -j6ca + ca^ = N . (34) 2.° Dal gruppo (33),
confrontato col modo come sono state scritte le (31), si scorge che i
discriminanti del sistema positivi rispetto ad x hanno per prodotto {a -^ b -{e)
(a -{b -{' e) (a -{b -\e) (a -\b -\e) = a(b -^ e) -^^ a,bc e quelli negativi
per prodotto (o 4è -[e) (a + ò 4e) = ò + e, ^ f-^ — 67 — ne segue che il
dominio di estensione della x è h '\e
-\'~c) . In vista della simmetria che presentano le equazioni del
sistema rispetto ad una permutazione ciclica delle xyz ed alla corrispondente
permutazione ciclica delle a ^h ^c ^ si può affermare che i dominii di
estensione delle y, z sono rispettivamente ^ • (86') a 4" ft ^ a6c -|e (a
+ 5) ) Visto che dalla (34) seguono le ahG'=.hGa^=.cab'=il che danno ohe = bc =
ca = ab e tenuto pure presente la prop. 5.*, le (36), (35'), possono pure
scriversi come segue b -\e ^bc -{a ' e -{a^ca-^-b a'{' b^ab ^ e x — > «I» ^
* * * ^ Q ^®orisp. ad y, Pj, ..., Pv » » » ^^S' * ^ ® pos. risp. ad y, Pv+i » »
PpL » * » >> ^ ® ^^S' risp. ad y ; perciò, il prodotto dei discriminanti
negativi rispetto ad y nella data equazione è QS e la somma dei supplementi dei
discriminanti positivi rispetto alla stessa y è P-f-R ; da che segue essere QS
Qa?-f-S^ ovvero PRo? + PRiZ? = N, si vede che per ogni valore di x del dominio
RP ad 1/, con E,F i prodotti analoghi rispetto a. z, e cosi via via con L,M i
prodotti analoghi rispetto a ^, si può scrivere Sostituendo questi valori nella
(1), o soltanto un gruppo di essi, si avrà, come risultato della sostituzione,
una equazione nella quale entrano come incognite le Wj, t^j, ...,u^o un gruppo
di queste, e tale equaz. è illimitata risp. a ciascuna delle nuove incoga. [Una
equazione ad una incognita sia stata ricondotta alla sua forma normale aw + b.v
= ì!i ; (11) poiché è a l'unico discriminante positivo deir equazione, e ?j l'unico
discriminante negativo, sarà al) = la risultante dell'equazione stessa, e
t) -|cd(d -|-«)^t) -|cd(d'{-cb)ìw= =ab .
uv^buv -fo>cduv -fcd6 . wv, sicché bxy=abGduv=iN ; a;y=a6(a-|-ftc)uv -fo con
l'adoperare le notazioni del n.® 25, rf), conduce ad a? = (P + Q)u + RSw = {aà'
+ W)u, + cc\ ùdu^, (16) e quindi [form. (5) prec. e form. (46) n.° 25, d)'\ ad y=A^(wJw,+B,(Wj)w,= = {aà! + ed, dd)
u^u^ + W (aà' + dd') u^u^ + (ce' + aa'. dd') u^^ + dj^ (ce' + W) u^u^, (17)
essendo _ A (Mj) = {aa' + ed. dd') u^ + {ed + aa!. dd')u^ — 77 — d'onde _ A(Wi)
= aa'(6v' -f (id')u^ + cc'(aa' + M)u^, e _ B{u^) = bb'(aa' + dd')u, + M' {ed +
ftft') ti^ . Dallo stesso quadro di cui sopra si
vede anche subito che, per continuare ad applicare lo stesso procedimento
tenuto in h), si deve osservare che il dominio di estensione della z, essendo
a'c\ b'd' ^) • ^ » ^(tt, t>) = (a 4hd)uvi
4d{h -\a)uv f (6 4" clcì)uv 4" (^ + cd)iM3, ^{u, 1?) = (a 4"
c(i)wD 4" ^(^^ 4" ^c)w'u -|c{a 4&)«*v 4* ^(* 4" «,) = N (a^
+ b,) {a, + b,) {a, + bj (a, + &J = N Cosi, visto pure che le x^y, con
formule analoghe alle (39), in vece che in funzione di due sole variabili
indipendenti u^, u^ possono esprimersi iu funzione di un numero n u^yU^,., .,u^
di siffatte variabili, e che ciò fatto si arriva a conclusioni analoghe alle
precedenti, abbiamo: 1.® che due variabili di assegnate estensioni soddisfanno
ad una infinità di equazioni non contenenti altre variàbili; 2,^ che due
variabili di estensione illimitata possono essere indipendenti^ o collegate da
una infinità di equazioni illimitate rispetto a ciascuna delle vaìHabili e non
contenenti altre variabili. Ciò viene a significare, in sostanza, il fatto da
ritenersi evidente, che esistono infinite equazioni in due variabili che sono
illimitate rispetto a ciascuna di esse). Questi risultati possono essere estesi
al caso di un numero qualunque di variabili. Le (43) contengono le (42) e contengono
inoltre le seguenti, come si rileva sviluppando i prodotti e sommando,
l^fl^afi^,, + ^.u^flK + 2à,«,àA..+ ^o.pypm = N (44) Sa.^.^A. + ^fl^K + ^dflAK +
2«À¥«. = N, (45) e quella che si deduce dalla (44) scambiando le a con le b. La
(44) e quest'ultima possono scriversi pure come segue 2« ^a, + 2à,a^àj = N, 2^?
A^, + 2^À^, = N ; (46) e poiché da (47) afl^a, -f afl^a^ = afl^ (a, + a^) = N
«i«m^t + «i«À = ^m (ài + a J = N seguono rispettivamente afl^ i^i + (s » ^ J ^
» y)^i^i + (a^, 6^ ; a:, y)u^u^ = N . (62) Ora, la condizione perchè questa
equazione abbia una soluzione sola è, in virtà della (31) 2~(a.,h.]x,y) r{a^, \
; ^, 2/) = N, (e, A; = 1, . . ., 4 ; i z|= ^^ ovvero, per essere ~(a.,h^',x,y)
=~\{a., x) + {h., y)\ = (a., x) (6., y) : 2(ai, x) {b., y) (a^, x) (b^, y) =
l{a.a^x + a.a^x) {h.h^y + ò.6"^y)= N, od anche Sa.a^ò.ò^ . xy -f ^a.aj^.\
. xy + 2a.a^6.6^ . xy +2a.a^6.ò^ . xy = N ; e questa è soddisfatta
identicamente in virtù, della (49). 88 — Rammentando quanto si è detto nel n.^
28 in ordine ai valori delle incognite che risolvono un'equazione provvista di
una soluzione sola, si ha pei valori di w^, u^ che soddisfanno alla (62) le
espressioni segu. ; (63) epperò, siccome, per tutti i valori dell'indice /, da
1 a 4, si ha -(a.,b^]x, y)={u., x) {h., y)=afi. . xy+afi. . xy+a.b. . xy + afi.
. xy (a., b. :x,y) = {a. + b.) xy + {a. + ò .) xy + (a . + b.) xy + (a . -f b.)
xy, se si scrivono le (53) nella forma Mj = (x^xy -f fltgjjy -}«gay -fa^xy '^2
= ?^xy + p,xy + p3xy + p^xy (54) si avranno, fra le a^, . . ., a^, p^, . . .,
P^^ e le a,, . . ., ^4 ? ^i » • • • r ^4 » 1® relazioni seguenti «1 = K + ^) K
+ \) = a,6, + «A «2 = («3 + ^3) («4 + **) = «1^1 + «2^2 «3 = («3 + ^) («4 + h)
= «1^1 + «2^2 «i = ^«3 + ^3) («4 + ^4) = a,^ + aÀ l / (65) Pi = («2 + ^) («4 +
b^) = ttjò, + ajò, P2 = («2 + ^) («4 + ^4) = «1^ + «3^ P3 = («2 + ^2) K + K) =
~^i\ + «3^ Pi = (^'a + ^2) («4 + ^4) = «1^1 + «8^ Il Sig. WiiiTEHKAi) ha
chiamato sostituzione l'assieme delle due relazioni (39) quanio è soddisfatta
la condizione (61), cioè quando sono possibili le relazioni inverse (53), che
allora costituiscono la sostituzione inversa della data. Con le formule (65) da
una data sostituzione [la (39jJ si passa alla inversa [la (54)]. Indicata con
t§ una data sostituzione, con tB~* si indicherà la sostituzione inversa ;
trasformare con tB le x, y nelle Wj, Uj, e poi trasformare le Wj, Wj con t§~*
equivale a ritornare alle x,y ^ vale a dire, a lasciare invariate le x, y.
Chiamando, perciò, prodotto t?,t§j| di due soatHuaioni t^i^t^^r ^^ ^^
dìr&nrìo fcUtorij Toperasione che cotisiste nel cambiare dapprima i due
termini logici a;, ^ nei termini logici x^, y^ per messo di tS, j e poi x^ ^ y^
in x^, y^ per mezzo di t?,, operazione che^ evidentemente ò, a sua volta, una
sostituzione, si chiama bosHiu9Ùme identica il prodotto tStS~^. Tutte le
sostituzioni formano, cosi, quando vi ai include la sostituzione identica, una
classe tale che il prodotto di due individui della classe è ancora un individuo
della stessa classe; vale a dire (vista pure la proprietà cumcicUiva del prodotto:
Le eoatituzioni formano un gruppo. Se si indica con t§* la sostituzione t§t§,
con t?' la t3*t§, etc. con la ©** la t§**~*t?, per un certo valore di m la
tS"* coincide con la sostituzione identica. Giacché, dai simboli logici che
figurano in t^, come costanti, si passa a quelli che, come tali, figurano in
t^, per n qualunque, per mezzo delle operazioni di somma e di moltiplicazione
logica che non introducono nuovi simboli logici. Epperò, dopo un numero finito
di tali operazioni, si dove tornare alle costanti di partenza. //€ sostituzioni
neW Algebra della Logica, sono, dunque, tutte periodichr (cfr. Whitehbad,
Memoria cit., part. II, § 3). § X. li problema generale di Booie. Metodo
simmetrico di Schroder per risolvere le equazioni logiche. 30. Problema A Btole
*\ Allorché è data una funzione logica di più variabili a?, y, . . ., ^
r{pD,y,...,tì (1) se si lasciano arbitrarie le a;, y, . . ., ^, i valori della
f sono quelli del dominio che si estende dal prodotto alla somma dei
discriminanti della /(prop. 33.*). Ora, se in qualche modo si impongoQO alle
a?, !/>..•, 8. A. Dkl Rb " Algebra della Logica. 12 00 — di una
funzione logica V imporre alle variabili da cui la funzione dipende certe
deterraìnale condizioni. Le condizioni da imporre alle Xyy,>..,t nell'algebra
che studiamo, si riducono tutte ad obbligare le variabili a soddisfare ad un
certo sistema di equazioni, poiché, quando, in vece di questo sistema, fosse
prescritto per ogai variabile un proprio dominio di estensione, si potrebbe
sempre costruire [n.** 29, b) prec] un'equazione che collegherebbe le
variabili, e che, mentre prescriverebbe per queste come dominii di estensione i
dati, le lascerebbe arbitrarie in tali dominii Si supponga perciò che le
variabili oo,y,,..,t soddisfacciano alle equazioni, tutte possibili, del
sistema 9j(ir, 1/, ..., 0=N, 92^07, 1/, ..., t)=N, ..., 9,(0?, 1/, ..., 0=N,
(2) in numero di r, supponiamo. Indicando con «j, Pj, . . ., X, ; otg, Pg, . .
., X2 ; . . . ; a^, p^, . . ., X,, rispettivamente i discriminanti omonimi
delle 9,, 92, . • . » 9^ » ^ ponendo a = 2a,, p = 2p,,, ..., X = 2X,, (3) al
sistema (2) è possibile sostituire l'unica equazione 9 (a?, i/, . . ., = ^^y
" ' t -\^^-^y . . . ^ + . . . + ^J^ . . . 7, (4) ed il problema di cercare
come si restringe il dominio di estensione della f{x,y,. .,,t) vien ridotto a
quello di trovare il do[*) Ad es., se si tratta delle due vai'iabili ac, y per
le quali siano stati assegnati rispettivamente i dominii di estensione B^,
quando^ ed x,y^...,t si trovano collegate dal sistema delle due equazioni
9(07,1/, ...,0 = N ] Ora, se si suppone che i discriminanti della f nelle a?, y,
..., ^, omonimi agli a, p, . . ., X, siano rispettivamente a,&,..., ^, i discriminanti
della prima delle (5) saranno le funzioni prime ap -\ap, hp -\-l)p, .,., Ip
+7/;, e quelli del sistema (5) le espressioni »-[■ ap + ap = (a'\a)p + (a -f
a)p ^^ì)p+hp = (^ + b)p -f (p + &)p (6) X + /!> + /p =(X + /)i> + (X
-{l)p sicché la condizione per la possibilità di un tal sistema, cioè la
condizione perchè p rappresenti valori della f{x,y f. ..yt) corrispondenti a
valori della ;r, t/, . . .,
soddisfacenti al sistema proposto, vede espressa dall' uguagliare ad N
il prodotto dei -secondi membri delle (6). Si ha dunque per i? l'equazione (a +
à)(p-f-&)...(X + ÒP + (a + a)(P + &)...(X j l)p = ìi ; e questa mostra
che il dominio di estensione della p è (a + a) (p + &)... (X 4-, + 6rfM,=
(a + e) (m, -jbdu^) xy + xy = x = {o + rf)w, + aòù^ = {c + d) (w, + oòw,) ;
(14) asy + ajy = y = (6 + T{oc, y) = kxy
+ ^xy -fCxy + \)xy = N (15) la data equazione, e proponiamoci di soddisfare ad
essa per mezzo di valori delle x, y dati dalle formole X = a^uv + a^uo -\a.^v +
a,;av y = })^x> ■\b^uv -\h^uv -fb^uv dove u, 'V sono termini arbitrarli, ed
indipendenti. (16) --Gola virtù di quanto si è detto nel n.® 29, b), le cD,y
date dalle (15) sono legate dairequazione Ìl(ài'\-b,)ayy
\-n{à,+b,)a^+n(a,+b,)xy, (17) se dunque si scelgano le a,, a,, flj, a*, &,,
&,, &8, b^ in guisa che i coefHcienti della (17) siano rispettivamente
eguali a quelli della equazione data (15), cioè in guisa che sia (18) a fi, + a
fi, + afi^ + a fi, = À afi, + afi^ + afi^ + afi, = B f O'fii + «A + ^«^ + «A =
^ a fi, + «A + afi^ + a fi, = D saranno le (16) la soluzione dell'equazione
(15).Le (16) sostituite nella (15), a riduzioni eseguite, danno f(a,, b,)uv\-f{a^, /;,)t«i?+Aa,, b^)uv\'f{a,,
6Jwt5=N, (19) e perchè questa sia soddisfatta qualunque siano le w, v occorre
che sia f(a,, &,)=N, Aa,, &,)=N, f(a,, «^,)=N, fia,, ^)==N . (20) Ora,
quando sono verificate le (18), le (20) lo sono egualmente, poiché dalle (18)
si deducono le (21) kafi, + AaA + A^s^s + Afl A = N B«. A + Ka A + BaÀ + Ba/, =
N Càfi, + Ca A + ^fi^ + Ca4&4 = N Da fi, 4Daj/7, + Dafi^ + Da fi, = N e da
questa per* somma na,, b,) + Aa,, b^) + Aa,, b,) + /*(«,, ^) = N . (22) Abbiamo
in ciò una pruova che le (16) rappresentano la soluzione generale
dell'equazione (15) subordinatamente alle condizioni (18) ed altresì
all'informazione che a,yb,\ a^,b^ ',a^fb^ ; ^4,^4 sono quattro soluzioni
particolari della stessa equazione. Non per ogni quaterna di soluzioni
particolari dell'equazione sono soddisfatte le (18); giacché, supposte le (20),
queste danno AaA=N, BaÀ = N, CàA = N, DàÀ = N {^=1,...,4), e quindi pure aA,=-C,
SaÀ = D ; cioè appunto le [Il nostro problema della ricerca della soluzione
generale rappresentabile con le formole della equazione, è dunque ridotto a
quello della ricerca di una soluzione sola per ciascuno dei 4 gruppi di
equazioni /'(iP,2/)=N ) /•(^,2/)=N; Aiz?.y)=N 1 Aa?,y)=N ) _ (24) _ _ (25), _
(26) — (27) xy=^k 1 xy==Q j xy=C ] a?i/=D ] Siccome i discriminanti delle
seconde equazioni dei vari gruppi sono rispettivamente
A,À,À,À;B,B,B,B;C,C,C,C;D,D,D,D, cosi, al posto di tali gruppi vanno
considerate le equazioni, iso\ — orlatamente prese Aa;i/ + (B4-À)a;j/ + (C +
À)^j/ + (D + À)afyB=N (24) (A + B)a7V + ft»i)+(C + B)^l/ + (D + B)^ = N (25) (A
+ C)(Bv + (B + C)a-y + Cxy+(D + C)xy = i:i (26) (A + D)iPj/ + (B + 5)a^ + (C +
D)^ -f-D^=N (27) le quali, per essere ABCD = N, sono tutte possibili. Poiché
queste equazioni sono palesamente limitate, trasformiamole in equazioni
illimitate. Eseguendo il calcolo per la sola prima, dovremo porre nella (24)
(28.) ar=(A+B)I,-KA+CD)X, a^=ABX,4-A(C+D)X, j/==(À+C)|»,+(À+BD)|I, '
i;=AC|x.+A(B4-Ì)K ove Xj,|i, sono termini arbitrarli; avremo
A{(À+BC)X,|t,+ÀX,ii, +ÀX,,i, + À.X,ii.l4+(B+À)|ABC . X,|i,,+Am,ii[,
+ACDX,|i,,+ABCD . X.ji,)+ +(C+À){ACB . X.ji.-f-ABDXjjI.+AC . X,|i,+ARDC .
X,ii,H+(D+À)|ABC . X,|t,-|-ABDX,p.+ACr)X,ji,+A(f) f BC)X,|i,J=0 ; ovvero, fatte
le riduzioni: ABC . X,fi, + DABCX.jI, = N . (24') In modo analogo, trasformando
le (25), (26), (27), si hanno rispettivamente le BAD . X.|i, + CBÀDX^. = N
(25') CAD . X,|i, -1BCÀDXjI, = N (26') DBC . Xji^ 4ADBCXaT» = N (27') ove Xj,
|i, ; X,, (1,, ; X^, ja^ sono termini arbitrarli, sottoposti alla sola condizione
di soddisfare a queste equazioni. Scrivendo le espressioni delle 0B,y,
analoghe, con le quali si passa alle ^i=N,fi.,=A ; X2=B,jji2=C ; X3=B,;i.3=(3 ;
X,=D,|i^=N, — 99 — e quindi un'altra forma di soluzione generale
dell'equazione, quella data dalle formule x= (A + CD)wy + (B + QXy)ui + C(B +
D)wì; + CDwr ì/ == (A + G)uv + B(C + \y)ux) + (C + BD)^!; + D(À + G)ùv. Se si
osserva che quando le m, v, x sono legate dalla 1.^ delle (16), il dominio di
estensione di y quale è dato dalla 2.* di queste formule, calcolato con la
regola data nel n.° 80, b) si estende da un minimo rappresentato dal prodotto
delle espressioni a^x + ttjX + ^1 = («1 + ^i)^ + («1 + ^i)^ a^x + a,x + 6, =
(a, -f 6,)x -f (a, + 6,)x a,x + a,x + 6, = (a, + 6,)x + (a, + 63)x ad un
massimo rappresentato dalla somma cioè, rispettivamente, da n(o'^. -|6^.) . X
-[n (a^. -f6^ . X, 2 aJb^ . x + 2 a^A^ . x. Si trova che un tal dominio è
quello stesso che ha la y considerata quale incognita soddisfacente alla
equazione (15), se [n.^ 26, d), pag. 68] n(a, + 6^ = B, n(a. + 6,) = D, 2a.A, =
A, Zàfi, = C ; vale a dire se sono soddisfatte le (18). Si arriva cosi a queste
condizioni nel modo stesso che si trova seguito da Whitehead. Cosi può
giustificarsi pure perchè il metodo di Schrodbr, che, come risulta dalla
esposizione fattane, è indipendente dal problema di Boole, si trova qui presentato
dopo della soluzione di questo problema. Il metodo precedente si può estendere
ad una equazione con un numero qualunque di variabili, che supporremo scritta,
in forma normale, nella maniera seguente f(x, y, . . ., = Aooyz .,,t + Bocyz .
. . ^ + . . . + K^l^ . . . ^ ; (30) sicché ne sono a,b,c,, ., yh i
discriminanti. Supponiamo di volere soddisfare alla equazione con valori della
— 100 — forma X =s a^uvw . . . T +
d^vw . . . T + . . . + QJ^'cw . . . T \ y = b^umo . . . T + b^uvw . . . T + . .
• + h^uvw . . . T f t = k^UVW . . . T + h^UVW . . . T + . . . + hJULVW . . . T (31) ove w, t?, t^?, . . ., T sono termini logici arbitrarii ed è |ji
= 2** ; bisogna, fatta l’eliminazione delle te, i;, ..., t da
quest'espressioni, che l'equazione in ^, 2/, . . ., ^ risultante, sia identica
alla equazione proposta. Ora, poiché i discriminanti del sistema delle (31),
considerate come relazioni in w, i^, ..., t sono, per 1 = 1, 2, . . . w. _ _
(«i,a7)-f(&,,2/) + --+ (AtJ) ; così l'equazione cui soddisfanno le
x,y,...,t date dalle (31) sarà S(a,,a?)(6,,i/)...(/2,,0 = T ; ovvero lapfii ...
hi . xyz... t-\^apf^ ...h^. xyz.,. ^-f +Sa,^^c,... ^^ . (vyz„.ì=T ; e questa
equazione coincide con la proposta, se uJOaC^ ... fit ""p Cl^O^C^ ...
rJj ~j— ... ~p" ^nPttyn^ ... n>^ ^— A. ttàO^Cà ... ria "X*
C»|L/jC| ... rtji ""Y" ... ~p* dfx Ut Uf • • • JA "^ > .
(32) 111 • * • ^i i" CtJDuC^ ... /vj ~j~ ... "Y* ^lìPtx u» • • • ^ui
— xV. Ora, per soddisfare a queste relazioni, con valori delle a^.,&^, ^i,
. . •, ^i > basterà prendere queste, per modo che siano soddisfatte le
seguenti relazioni dtO^C^ • • • Ht — ^ Jx., CL^O^C^ ... /vj ^, JD, . . *,
Cu^O^C^ ... /vj ^^ xv CL^O^C^ ... ^j ^^ A, (Z^O^O^ • • • ^j — * ìj, . . •,
Clt^O^C^ ... ^j ^^ Jl\. ' . (33) poiché, sommando queste per colonne si
deducono appunto le — 101 — (32); ed inversamente. Alle (33) si possono
sostituire le ka^hyC^ ... /Ji = N, Ba,&iC, ... /^^ = N, ..., KaJ)fi^,..li^
= N Aajì^c^ ... /{, = N, Ba,&,c, ... 7e, = N, ..., Ka,&,c, ...\ = N ;
(34) e queste, sommate per orizzontali, danno Queste si ottengono pure se si
fanno le sostituzioni (31) nella (30) e poi si esprime che l'equazione
risultante deve essere soddisfatta indipendentemente dalle w, ^, ..., t ;
perciò le a^,b^, ..., h^ ; ag,&j,...,^j ;... ;aj^,&^,...,ftjj^ sono,
rispettivamente, soluzioni dei sistemi di equazioni (35,), _ _ (35,),..., -_ ;
(35^) xy ... t =A ] xy,.,t =B ) xy ... t =K j ovvero delle equazioni,
equivalenti a tali sistemi, kooy... ^
+ (B + K)xy... ^ -f ... + (K + À)a72/...7 = N (A + Wjxy ... t + Bxy.,. ^ +... +
(K + B)i^... ì= N, (36) (A + K)xy ... ^ + (B + ^)xy ...
^ + ... + KiT^... F= N tutte le volte che le (31) soddisfanno alla (30)
indipendentemente dalle w, i;, . . ., T. Indichiamo con V^^Q^ rispettivamente
il prodotto dei discriminanti positivi ed il prodotto dei discriminanti
negativi rispetto ad X, nella prima delle (36), con P^, Qy i prodotti analoghi
rispetto ad 2/, e così successivamente, con P,,Qj i prodotti ana- loghi
rispetto a t ; per mezzo delle relazioni X = V^u^ 4- Q^w,, y = V^u^ + QyU^, ...,
t = V,u^ + Q,^^, (37) la prima delle (36) verrà trasformata in una equazione
illimi- tata rispetto alle t^j, tt,, . . ., t*^ . — In modo analogo verranno —
102 — trasformate in equazioni illimitate tutte le rimanenti equazioni (36); ed
allora, per mezzo di gruppi particolari di soluzioni di tali equazioni
illimitate in u^,u^,, . . ^u^ e per mezzo delle re- lazioni (37) e delle
analoghe non scritte, si troverà, come si è fatto pel caso di n = 2, la forma
che assumono le (31) allorché rappresentano una soluzione generale
dell'equazione proposta. (Cominciato a stampare il dì 12 Ottobre 1906,
Terminato il dì 15 Gennaio 1907), ERRATA-CORRIGE A pag. 12, penultimo verso, in
luogo di «(6), (7)» leggi «(5), (^6)» A pag. 19, verso 6.®, in luogo di «§ I»,
leggi «§ II». A pag. ì>7, sestultimo verso, a pag. 43 (l.*^, 4.°, ultimo
verso della Nota) ed a pag. 64, verso G.^ della prop. 33.% in luogo di « AVi-
THEAD leggi « WniTBHEAD ». A pag. 76, verso 2.°, prima del segno =, in luogo di
« a; »' leggi « x ». A pag. 80, verso 4.°, in luogo di «soluzioni» leggi
«equazioni». A pag. 83, ultimo verso, cambia le due A in due B. A pag. 94,
verso 6.°, togli « (12) » dopo la parola « relazioni ». Come comincia ogni
conoscenza capace di deduttivo trattamento — Consi- stenza, compatibilità,
indipendenza di postulati — No- zione di classe e di relazione — Calcolo di
classi o di proposizioni e calcolo delle relazioni. Come qui si in- tende
svolta l'Algebra della logica ....... » 1-5 § II. Primo sistema di postulati e
concreta interpreta- zione di essi. — Addizione e moltiplicazione logica — Il
tutto, il nulla — Leggi commutative — Legge asso- ciativa per l'addizione —
Legge distributiva della mol- tiplicazione rispetto all'addizione — Legge
dell'unità. . » 5-8 § IH. Proposizioni fondamentali. Termine supplementare di un termine dato Legge del medio escluso Legge di semplicità o
di tautologia Leggi di assorbimento Legge distributiva dell'addizione rispetto
alla moltipli- cazione — Formule di De Moruan — Legge associativa della
moltiplicazione » 8-16 § IV. Legge di reciprocità di Peirce e Schroder— Enun-
ciazione della legge — Osservazioni — Secondo sistema di postulati » 16-20 § V.
Le inclusioni logiche — Delìnizioni ed uguaglianze co- me equivalenti ad
inclusioni — Operazioni sulle inclu- sioni — Legge di contrapposizione —
Osservazioni — Altre proposizioni — Teorema di Poretsky — Esercizi . » 20-28 §
YI. Le funzioni logiche. I loro sviluppi. I loro discri- minanti. — Definizioni
— Sviluppi di Boole e sviluppi reciproci — I minima ed i maxima di un discorso
in n termini — Osservazioni — Proprietà dei discriminanti e delle funzioni
sviluppate — Valori e dominio di esten- sione di una funzione logica — Esempii
» 28-41 — 104 — » 61-71 § VII. Le equazioni logiche — l loro sistemi —
Definizio- ni — Equazioni logiche equivalenti — Discriminante di equazioni e di
inclusioni — Condizione per la possibi- lità di una equazione logica o di una
inclusione — Si- stemi di equazioni — Sistemi di inclusioni — Esercizii^ esempi
pag. 41-51 § Vili. Il processo di eliminazione— Le risultanti. — Il processo di
eliminazione come equivalente a quello che PoRBTSKY chiama problema delle conseguenze
— Teorema di ScHRODER, e conseguenza per la possibilità di un'e- quazione
logica — Nozioni complementari sul dominio di estensione di una funzione logica
— Esercizio — Equa- zioni limitate ed equazioni illimitate — Eserapii — Do-
minii di estensione per le incognite che verificano una equazione, ed esempii —
Caso di un sistema di equa- zioni, ed esempio — Come si restringe il dominio di
estensione di unMncognita per un valore assegnato, nel proprio dominio di
estensione, ad un'altra incognita — Esempio corrispondente — La risoluzione
delle equazioni logiche. — Procedi- mento generale — Trasformazione di
equazioni limitate in equazioni illimitate — Soluzione delle equazioni con una
incognita e delle equazioni con due incognite — Verifica — Soluzione di un
problema di Jonhson — Equa- zioni con tre incognite — Metodo di Jonhson per la
so- luzione delle equazioni con un numero qualunque di incognite, limitato al
caso di due sole — Equazioni con una sola soluzione — Funzioni w'** lineari
prime e sepa- rabili prime (Whitbhead) — Il problema inverso della soluzione
delle equazioni — Le sostituzioni. Il problema generale di Boole •— Metodo
simmetrico di Scbrdder per risolvere le equazioni logiche — In che consiste il
problema più. generale di Boole per l'Algebra della Logica, e soluzione di
questo problema — Esempio— Come un'equazione condiziona i minima d'un discorso
in n termini — Metodo di Schrodbr per la soluzione delle equazioni logiche. Insegnamento
di Geometria descrittiva nella Università di Napoli. Fascicolo stampato per uso
degli studenti. Coutiene : oc) Il programma del corso ed il programma di esame
per Tanno 1906-1907. P) L'elenco dei modelli geometrici donati dal prof. A. Del
Re. Y) L'elenco dei modelli geometrici eseguiti dagli studenti nel pe- riodo
1901-1906. d) L' elenco dei modelli geometrici acquistati dal prof. A. Del Re
sui fondi assegnati alla sua scuola. L' indice dettagliato delle materie
contenute nelle Lezioni di Geometria Descrittiva. La Astàttca e le sue
rappresentazioni prospettiche -- presentata alla R. Accad. di Napoli, ed
inserita nei Rendiconti della medesima. Alfonso de Re. Keywords: implicatura.
Luigi Speranza, “Grice e Re”. Re.
Luigi Speranza -- Grice e Reale: la ragione
conversazionale del capretto di Kant -- erote
demone mediatore, o del gioco delle maschere nel convito – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Candia
Lomellina). Filosofo italiano. Candia Lomellina, Pavia, Lombardia. Ho la ferma
convinzione che l’ACCADEMIA e la più grande associazione o gruppo di gioco filosofico
in assoluto comparso sulla terra, e che il compito di chi lo vuole comprendere
e fare comprendere agl’altri, pur avvicinandosi sempre di più alla verità, non
può mai avere fine. Studia a Casale Monferrato e Milano sotto OLGIATI. Insegna
a Parma e Milano. Fonda il centro di ricerche di meta-fisica. La sua tesi
di fondo è che la filosofia antica dei romani crea quelle categorie e quel
peculiare modo di pensare che hanno consentito la nascita e lo sviluppo della
scienza e della tecnica dell'occidente. I suoi interessi spaziano lungo
tutto l'arco della filosofia romana antica e i suoi contributi di maggior
rilievo hanno toccato via via APPIO, CICERONE, ANTONINO, Aristotele, Platone,
Plotino, Socrate e Agostino. Studia ognuno di questi filosofi andando, in un
certo senso, contro corrente e inaugurandone una lettura nuova. La
ri-lettura che da di Aristotele e del LIZIO in generale – tanto influente a
Roma -- contesta l'interpretazione di Jaeger, secondo il quale i saggi del
LIZIO seguirebbero positivisticamente un andamento storico-genetico che
partirebbe dalla teo-logia, passerebbe per la meta-fisica, per approdare
infine alla scienza. Reale sostenne invece la fondamentale unità del pensiero
metafisico del LIZIO. Ne “La filosofia antica”, mette in evidenza come la
filosofia di Teofrasto nel LIZIO si diffuse per l'aspetto scientifico con
un'ampiezza del tutto paragonabile a quella del maestro Aristotele, rivelando
però uno scarso spessore nella speculazione filosofica. Da Stratone in poi, ciò
provoca un ripiegamento della scuola del LIZIO verso l'ambito della fisica e
delle scienze empiriche. Per quel che riguarda L’ACCADEMIA, importando in
Italia gli studi della scuola accademica di Tubinga, mette in crisi
l'interpretazione romantica di Platone stesso, che risale a Schleiermacher, e
rivalua il senso e la portata delle dottrine non scritte, vale a dire gli
insegnamenti che gl’accademici hanno tenuto solo oralmente all'interno della
villa al ginnasio dell’Accademia e che conosciamo dalle testimonianze dei
discepoli. In questo senso, l’accademia risulterebbe essere il testimone e
l'interprete più geniale di quel peculiare momento della civiltà che passa dalla
cultura dell'oralità a quella della scrittura. Negli studi su Plotino,
contesta la tesi di fondo di Zeller che vede nel grande accademico il
principale teorico del pan-teismo e dell'immanentismo. Al contrario, R. ri-legge
Plotino come il campione della trascendenza metafisica dell'uno.
L'interpretazione che ha dato di Socrate, analogamente, si propone di risolvere
le aporie della cosiddetta questione socratica, entrata in un vicolo cieco dopo
gli studi di Gigon, secondo cui di Socrate non possiamo sapere nulla con
certezza. R. inaugura, invece, un nuovo modo di interpretare Socrate, non solo
cercando di risolvere dall'interno le testimonianze contraddittorie degl’allievi,
ma soprattutto guardando al contesto della filosofia italica prima di Socrate e
dopo Socrate. In questo modo, balzerebbe agl’occhi la scoperta socratica del
concetto di ‘animo’ (greco – animos) o anima come essenza e nucleo pensante
dell'uomo. Socrate dice che il compito dell'uomo è la cura dell'anima o
dell’animo: la psico-terapia, potremmo dire. Che poi oggi l'animo e interpretato
in un altro ‘senso’, questo è relativamente importante. Socrate per esempio non
si pronuncial sull'immortalità dell'animo, perché non ha ancora gl’elementi per
farlo, elementi che solo con emergeno coll’Accademia. Ma, nonostante ancora
oggi si pensa che l'essenza dell'uomo sia l’animo. Molti, sbagliando, ritengono
che l’animo e una creazione semitica: è sbagliatissimo. Per certi aspetti il
concetto di ‘animo’ e di immortalità dell'animo è contrario alla dottrina semitica
che parla invece di risurrezione dei corpi degl’uomini. Che poi i primi filosofi
della patristica utilizzano categorie della filosofia antica, e che quindi il
suo apparato concettuale sia in parte basato sulla filosofia antica non deve
far dimenticare che il concetto dell’animo è una concezione aria. L'Occidente
viene da qui. Infine, per quanto riguarda all’africano Agostino, tende a ricollocarlo nel contesto dell’Accademia dell’antichità e
quindi nel momento dell'impatto del dell’ebraismo con filosofia aria italica
cercando di scrostarlo di tutte le successive interpretazioni dell'agostinismo
medioevale. Ritiene, poi, che la cifra spirituale che caratterizza la
filosofia d’Occidente sia costituita dalla filosofia italica. È
stato infatti il logos a caratterizzare le due componenti essenziali della
filosofia d’Occidentre e precisamente a fornire gli strumenti concettuali per
elaborare l’ebraismo, dando luogo, così, a quella peculiare mentalità da cui
sono scaturite la scienza e la tecnica. Ma se la cultura d’non si capisce senza
la filosofia aria degl’italici, questa a sua volta non si capisce senza la meta-fisica
come studio dei veliani dell’unità dell'essere. Il lavoro che svolge, studiando
i filosofi italici – CROTONE, VELIA, GIRGENTI, ecc. -- vuole anche servire a un
confronto fra la meta-fisica antica e quella moderna. La preferenza che accorda
all’accademia dipende dal fatto che la scuola di Atene è, con la seconda
navigazione di cui parla nel Fedone, la creatora di questa problematica. Si
fa così porta-voce di un meditato ritorno alle radici della nostra cultura attraverso
la riproposta dei classici filosofi italici. E in sintonia con la Scuola di
Tubinga rinnova l'interpretazione, mettendo in luce la primaria importanza
delle dottrine non scritte di cui riferiscono gli allievi del fondatore stesso dell’Accademia
-- Aristotele del Lizio in primis. In
“Per una interpretazione dell’Accademia” fa affiorare l'immagine di una
accademia diversa, una accademia orale e in certo senso dogmatica. Del resto,
non è forse l’accademia stessa (ad esempio, nella Lettera VII) a garantirci che
la sua filosofia dev'essere ricercata altrove rispetto agli scritti? Lo stesso
corpus degli scritti dell’accademia, giuntoci nella sua interezza (circostanza,
questa, unica nella storiografia della filosofia antica), non presenta, invero,
quell'unità sistematica che ci si dovrebbe attendere, il che, ancora una volta,
depone a favore della tesi secondo cui l’accademia cerca altrove, e
precisamente nelle dottrine non scritte. Studia anche la metafisica del Lizio,
smaschererebbe la tesi fatta valere da Jaeger, secondo cui l'opera non presenta
un'unitarietà ma sarebbe piuttosto una sorta di zibaldone filosofico -- e, in
particolare, il libro XII risalir ebbein forza del suo spiccato interesse
teologico alla didattica del Lizio. Lungi dal risolversi in un coacervo di
scritti risalenti a differenti epoche e contesti, la Meta-fisica del Lizio rileva
R. è profondamente unitaria. Al centro c'è la definizione della meta-fisica
come scienza della causa e del principio, dell'essere in quanto tale, della
sostanza, dei dei e della verità. In “La saggezza antica”, R. sostiene che
tutti i mali di cui soffre l'uomo d'oggi hanno proprio nel nichilismo la loro
radice e che un'energico questi mali implicano il loro sradicamento, ossia la
vittoria sul nichilismo, mediante il recupero di un ideale e di un valore supremo,
e il superamento dell'a-teismo. Ma quello che egli propone non è affatto un
ritorno a-critico a certe idee della antica filosofia italica, ma
l'assimilazione e la fruizione di alcuni messaggi della saggezza antica, che,
se ben recepiti e meditati, possono, se non guarire, almeno lenire i mali degl’uomini,
corrodendo le radici da cui derivano. In una siffatta prospettiva, può
acquistare un valore eminentemente filosofico anche la filosofia in lingua latina
in Seneca, a suo parere ingiustamente trascurato da una lunga tradizione che
non gl’ha riconosciuto alcuna cittadinanza filosofica, per il fatto di non avere
nato romano. In “La terapia dell'anima” (Bompiani, Milano) riprende, ancora una
volta, l'idea che la filosofia degl’antichi in questo caso, quella di Seneca puo
costituire un farmaco per l'animo dilaniato degl’uomini. Oltre al campo
specifico della filosofia antica, si occupa a vario titolo anche della storia
della filosofia posteriore. Per esempio, nella stesura del noto “Manuale di
filosofia” per i licei edito dalla scuola oltre alla direzione delle collane
filosofiche classici della filosofia, Testi a fronte della Bompiani e I filosofi
per Laterza. Oltre a questo, i suoi principali scritti sono: “ Il
concetto di filosofia prima e l'unità della Meta-fisica del LIZIO” (Vita e
Pensiero, Milano); “Il Lizio” (Laterza, Bari); Storia della filosofia antica (Vita
e Pensiero, Milano); “Il pensiero occidentale dalle origini (Scuola, Brescia); Per
una nuova interpretazione dell’Accademia” (CUSL, Milano); “Proclo” Laterza,
Bari); “Filosofia antica” (Jaca, Milano); “Saggezza antica” (Cortina, Milano);
“Eros demone mediatore. Il gioco delle maschere nel "Simposio" dell’Accademia”
(Rizzoli, Milano); “L’accademia: alla ricerca della sapienza segreta” (Rizzoli,
Milano, Bompiani, Milano, La nave di Teseo, Milano); “La Meta-fisica del Lizio”
(Laterza, Bari); Raffaello: La "Disputa", Rusconi, Milano); “Corpo,
anima e salute: il concetto di uomo" (Collana Scienza e Idee, Cortina, Milano)
– cf. Grice, ‘urina sana, corpo sano, medicina sana – scremento sano -- “Socrate.
Alla scoperta della sapienza umana” (Rizzoli, Milano); “La filosofia antica” (Vita
e Pensiero, Milano); ““Radici culturali e spirituali dell'Europa” (Cortina, Milano);
“Storia della filosofia romana” (Bompiani, Milano, Collana Il pensiero
occidentale, Bompiani); “Valori dimenticati dell'Occidente” (Bompiani, Milano);
“ L'arte di Muti e la Musa accademica” (Bompiani, Milano); “Agostino” (Bompiani,
Milano); “Wojtyla: un pellegrino dell'assoluto” (Bompiani, Milano); “Auto-testimonianze
e rimandi dei Dialoghi dell’Accademia alle dottrine non scritte" (Bompiani,
Milano); “Storia della filosofia” (Scuola, Brescia); “Salvare la scuola
nell'era digitale” (Brescia, Scuola); “Responsabilità della vita: un confronto
fra un credente e un non credente” (Milano, Bompiani); “Mi sono innamorato
della filosofia” (Milano, Bompiani); “Romanino e la «Sistina dei poveri» a
Pisogne” (Milano, Bompiani); “Filosofia” (Scuola, Brescia); Introduzione,
traduzione e commentario della Meta-fisica del Lizio, su archive. Bompiani, Traduzioni
e commenti R. ha tradotto e commentato molte opere dell’Accademia, del Lizio e
dell’Accademia romana -- la sua nuova edizione delle Enneadi è stata
pubblicata nella collana "I
Meridiani" della Mondadori. Pubblica per Bompiani il poderoso volume I
presocratici, da lui presentato come la prima traduzione integrale. Nonostante
in Italia ne è già uscita una traduzione da Giannantoni edita da Laterza. Sostene
la presenza di lacune e manomissioni nel Giannantoni, lacune e manomissioni che
sarebbero dovute, a parere di R., all'ossequio all'ideologia e all'egemonia
culturale marxista, secondo cui in quel periodo gl’intellettuali di area
comunista dominano la scena in campo editoriale. CANFORA, in risposta alle
accuse di R., sostene la natura pubblicitaria e l'inconsistenza del
ragionamento. Si sostene che, se influenza c'è stata nel Giannantoni, essa è
stata di matrice idealistica, hegeliana e crociana – CROCE (si veda). Qualsiasi
omissione è da evitare, specie se non è segnalata nel testo. Con riguardo alla
presunta irrilevanza di taluni tagli operati da Giannantoni sottolinea come i
capretti a volte segnano la storia della filosofia più di alcuni filosofi e
togliere questi animali dai frammenti, così come far sparire dei cavolfiori, si
tasformarsi in una censura. Di Seneca, cura le opere in "Seneca. Tutti gli
scritti". Interprete dell’Accademia, La Stampa, Ripensando l’Accademia e
l’accademicismo” (Milano, Vita e Pensiero). Dimostra la profonda unità
concettuale di questi saggi di filosofia prima, mettendo in luce come Jaeger e
condizionato dal positivismo e dalla teoria dell'evoluzione della cultura
secondo le tre tappe di teologia-metafisica-scienza. Il concetto di filosofia
prima e l'unità della "Meta-fisica" di Aristotele” (Milano,
Bompiani); Storia della filosofia antica. La fondazione della botanica e il suo
guadagno essenziale. Verso una nuova immagine dell’accademia, Milano, Vita e
Pensiero, Cfr., in particolare, Il paradigma romantico nell'interpretazione dell’accademia,
di Krämer, Napoli, La filosofia antica,
Milano, Jaca. Ha ragione, bisogna
imparare ad accettare la morte, Corriere della Sera. Il concetto di filosofia prima (cf. Grice) e
l'unità della meta-fisica di Aristotele, Milano, Vita e Pensiero, La filosofia
di Seneca come terapia dei mali dell'anima, Milano, Bompiani, In memoriam. Pur riconoscendo
a Giannantoni una statura di studioso di prim'ordine, sostiene che molti
marxisti non presentano talune cose nella loro effettiva realtà. Pur non
potendosi parlare di complotto, nel testo di Laterza curato da Giannantoni
mancano in un'edizione chiamata l'unica integrale italiana decine e decine di
passi che elenco in 4 pagine all'inizio della mia traduzione dei veliani e
crotonensi. Ci sono inoltre indebite aggiunte assenti nell'originale. Una
raccolta di tal fatta, nata assemblando anche vecchie versioni e tagliando pure
molte note di queste ultime, ha l'effetto di svuotare le idee forti di codesti filosofi.
Svuotare, ironizzare, occupare uno spazio e toglierlo ad altri, evitare un vero
confronto. Ecco la vecchia tattica che rimane ancora molto viva. Naturalmente,
sul piano pubblicitario, si comprende la auto-esaltazione. La mia traduzione è
più completa della tua, come il mio bucato è più bianco del tuo. Ma anche la
pubblicità bisogna saperla fare. Ci sono lauree brevi da poco istituite in proposito.
Particolarmente inconsistente appare il ragionamento. Eccolo nella sintesi
fornita dal suo intervistator. Giannantoni e molto bravo, e questo lo
sapevamo anche senza il supporto di R., Laterza è innocente del sopra
menzionato reato ideologico. La colpa è della penetrazione comunista. Sembra
quasi di sognare. Ma questa è la caricatura dell'antica cantilena sui comunisti
padroni dell'editoria italiana. Per confutare questa sciocchezza BOBBIO si
limita a trascrivere i titoli del catalogo Einaudi. E infatti come negare
l'affiliazione bolscevica di BOBBIO? Che pena. Si fa riferimento
all'osservazione secondo la quale le omissioni di Giannantoni riguardano
aspetti poco rilevanti per un marxista come il frammento di Orfeo -- un mal-ridotto
frustulo papiraceo in cui si fa cenno ad un rituale misterico. Queste, e
consimili, sono le omissioni rimproverate dal neo-presocratico R. Sembra del
tutto irrilevante sapere se Kant, quando scrive la Critica della ragion
pratica, mangia capretto o una particolare minestra. Alla storia della
filosofia questo poco interessi. Ma sapere se un *orfico* o un crotonese mangia
capretto è MOLTO significativo dal punto di vista filosofico. Se l’orfico
crotonese s’astene, allora e vegetariano e, come tale, non ha condiviso la
ritualistica italica in cui si consumeno le carni offerte ai dei e si lasciano
ai dei gl’aromi per segnare la distanza tra gl’uomini e i dei. In sostanza,
l’orfico crotonese crede, evitando il capretto, in una filosofia in cui gl’uomini
e i dei sono legati. Non è un capretto né una vacca quello che manca in Giannantoni.
Mancano in un'edizione chiamata l'unica integrale decine e decine di passi che elenco
in 4 pagine all'inizio della mia traduzione dei Presocratici. Ci sono inoltre
indebite aggiunte assenti nell'originale. Una raccolta di tal fatta, nata
assemblando anche vecchie versioni e tagliando pure molte note di queste
ultime, ha l'effetto di svuotare le idee forti di codesti autori. Svuotare,
ironizzare, occupare uno spazio e toglierlo ad altri, evitare un vero confronto.
Ecco la vecchia tattica che rimane ancora molto viva. Laudatio. Radice, Tiengo,
Seconda navigazione. Omaggio (Vita e Pensiero, Milano); Grampa, "Ritornare
a Crotone: intervista a sulla sua «Storia della filosofia antica»", Vita e
Pensiero. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La mia
accademia bocciata. Il cattolico amico dell’accademia. Critico l’accademia di R.
il marxismo non c'entra. La dittatura culturale del marxismo, in Corriere della
Sera, Treccani Storia della filosofia antica. Dalle origini a Socrate. Ospitato
su gianfranco bertagni. R. Storia della filosofia antica. Platone e Aristotele.
Storia della filosofia Come Filone e Antioco sono i
più tipici rappresentanti dell’Eclettismo greco, così CICERONE è il più
caratteristico rappresentante dell’Eclettismo romano. Antioco si colloca
decisamente a destra di Filone, diremmo con metafora moderna, mentre CICERONE
prosegue piuttosto sulla linea di Filone. Il primo elabora un Eclettismo
decisamente dogmatico, il secondo un Eclettismo cautamente e moderatamente
scetticheggiante. Non c’è peraltro dubbio che, dal punto di vista
speculativo, CICERONE resti al di sotto sia dell’uno che dell’altro, non
presentando alcuna novità che sia paragonabile alle formulazioni del
probabilismo positivo del primo o alla sagace critica antiscettica del
secondo. Se, in sede di storia della filosofia greca e romana, ci
occupiamo di Cicerone è soprattutto per motivi culturali più che
speculativi. ! Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino. Si accostò
fin da giovane alla filo- sofia, che coltivò con interesse e costanza.
Tuttavia l’amore della filosofia fu lungi dall’assorbire per intero tutte
le energie e gli interessi di Cicerone. Egli, infatti, si sentì
prevalentemente portato alla vita pubblica, alla vita forense e alla vita
politica. Perciò la sua scelta di fondo fu per la retorica, ossia per
l’oratoria. La sua carriera oratoria inizia pronto; e inizia la sua
attività politica, con la sua elezione a questore. Da allora in poi
Cicerone legò spesso il suo nome a clamorosi processi e a importanti
avvenimenti politici. Morì ucciso dai soldati di Marc’Antonio. Dei suoi
maestri di filosofia abbiamo già detto, e diremo ancora nel testo. I numerosi saggi
di filosofia di Cicerone pervenuteci furono da lui scritti nell’ultimo
periodo della sua vita: i Paradoxa Stoicorum; gli Academzica, due
dialoghi intitolati a Catullo e a Lucullo, di cui fece una seconda
redazione, in cui comparivano come interlocutori Attico e Varrone (degli
Acaderzica priora ci è rimasto il libro II Lucullus, degli Academica
posteriora il libro I e frammenti); il De finibus bonorum et malorum. Sono
pubblicate le Tusculanae disputationes, il De natura deorum e il De
offictis. A queste opere vanno inoltre aggiunte: il De fato, il De
divinatione, il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Da ricordare,
infine, sono le opere politiche De re publica e De legibus. Del De re publica
ci sono giunti i primi due libri, non completi, frammenti del III, del,
IV, del V e gran parte del libro VI, che già nell’antichità ha vita
autonoma col titolo Sognum Scipionis. Diamo dettagliate indicazioni in
Schedario, s.v. Per i rapporti fra Cicerone e Platone, cfr. l’eccellente
raccolta di testi in Dòrrie, Bausteine. In primo luogo, Cicerone offre, in
certo senso, il più bel paradigma di pensiero eclettico, che è come dire
il più bel paradigma della più povera delle filosofie, e, in certo senso,
la più antispeculativa delle speculazioni. In secondo luogo,
Cicerone è di gran lunga il più efficace, il più vasto e il più cospicuo
ponte attraverso il quale la filosofia greca si è riversata nell’area
della cultura romana e, poi, in tutto l'Occidente. E anche questo è un
merito non teoretico, ma di mediazione, di diffusio- ne e di divulgazione
culturale, e comunque di altissima classe. Ciò non toglie, però, che
Cicerone abbia intuizioni felici e anche acute su problemi particolari,
specie su problemi morali. Il De officiis è, probabilmente, la sua opera
più vitale. Inoltre, presenta anche ana- lisi penetranti. Tuttavia, si
tratta di intuizioni e di analisi che si collocano — per così dire — a valle
della filosofia; sui problemi speculativi che stanno a monte egli ha poco
da dire, come del resto in questo ambito hanno poco da dire quasi tutti i
rappresentanti della filosofia romana. Già i maestri frequentati da
Cicerone indicano chiaramente la ge- ografia del suo pensiero. Da giovane
udì l’epicureo Fedro e, più tardi, anche Zenone epicureo; sentì anche le
lezioni dello stoico Diodoto, conobbe a fondo il pensiero di Panezio e
allacciò stretti rapporti di amicizia con Posidonio; fu influenzato da
Filone di Larissa in modo decisivo e, inoltre, udì per un certo tempo
anche le lezioni di Antioco di Ascalona. Inoltre, lesse
Platone, Senofonte, le opere pubblicate di Aristotele, alcuni filosofi
della vecchia Accademia e del Peripato, ma sempre con i parametri della
filosofia del suo tempo. Da tutti prese e in tutti cercò conferme su
determinati problemi, eccettuati forse i soli epicurei, coi quali
polemizzò accesamente. Egli stesso si autodefinì espressamente come accademico,
e come accademico della corrente filoniana. Anche per lui, infatti, la
probabilità positiva è alla base della filosofia. Nell’operare la fusione
eclettica delle varie correnti, dunque, Cicerone non diede contributi
essenziali, perché tale fusione era già stata operata dai maestri che
egli aveva udito. Cicerone si limitò a ripropor- la in termini latini e
ad amplificarla non qualitativamente — giacché questo non era possibile —
ma quantitativamente. CICERONE respinge il tipo di eclettismo di Antioco e
assume, invece, una posizione simile a quella di Filone di Larissa: il dogmatismo
eclettico d’Antioco gli sembrava alquanto incauto, mentre il «probabili-
smo» filoniano lo appagava pienamente. Come avevano fatto molti dei nuovi
Accademici, CICERONE adotta il metodo della discussione del pro e del
contro su ogni questione. Questo metodo gli offre grandi vantaggi: in
primo luogo, gli offre la possibilità di far conoscere le varie posizioni
dei filosofi in materia, facendo largo sfoggio della sua erudizione; in
secondo luogo, gli offre la possibilità di valutare la consistenza delle
opposte tesi; in terzo luogo, il raffronto di opposte idee gli offre la
possibilità di scegliere la soluzione più probabile; infine, da buon
oratore e avvocato, trova che questo metodo costituisce un perfetto
esercizio di eloquenza. Dunque, il raffronto non deve portare alla
«sospensione del giudizio, bensì al ritrovamento del probabile e del verosimile
e anche all'esercizio retorico. Ecco le precise parole del
nostro filosofo che mettono bene a fuoco questo punto. A me è sempre
piaciuta la consuetudine dei Peripatetici e degli Accademici di discutere in
ogni problema il pro e il contro: non soltanto perché questo sistema è
l’unico adatto per scoprire in ogni questione l'elemento di
verosimiglianza, ma anche per l'ottimo esercizio che ciò costituisce per
la parola. Ma il passo ci permette di fare anche un’altra
riflessione. Cicerone pone e risolve i problemi filosofici sempre
in chiave prevalentemente culturalistica e mai direttamente, ossia in maniera
puramente teoretica. Le questioni che egli imposta sono quelle che già
altri hanno sollevato, e anche le soluzioni che sceglie sono per lo più
quelle già proposte in tutto o in parte da altri. E così si
spiega perfettamente come il suo moderato scetticismo — per sua stessa
confessione — non derivi tanto dalle difficoltà che intrinsecamente sollevano i
problemi della conoscenza e del criterio della verità (per esempio gli errori
dei sensi, e simili), quanto dalle diffi- [Tusc. Disput., Dérrie; ed. Virginio.]
coltà che scaturiscono dal dissenso circa le soluzioni di quei problemi
che sono state proposte dai vari filosofi. Di conseguenza, risulta
anche chiara la ragione per cui, da un lato il «dissenso» dei filosofi
sconcerti Cicerone, mentre dall’altro lo conforti in pari modo il «consenso»,
quando ci sia, al punto che egli non esita a fare di tale consenso ur
criterio di probabilità. Il vero, dunque, è irraggiungibile, come
prova il dissenso dei filosofi; tuttavia restano il probabile e il
verosimile, che sono se non il vero stesso, ciò che tuttavia al vero più
si avvicina. Dice Cicerone nel De natura deorum. Non siamo di quelli che
negano in assoluto l’esistenza della verità. Ci limitiamo a sostenere che a
ogni verità è unito qualcosa che vero non è, ma tanto simile a essa che
quest’ultima non può offrirci alcun segno distintivo che ci permetta di
formulare un giudizio e di dare il nostro assenso. Ne deriva che ci sono
delle conoscenze probabili le quali, benché non possano essere
compiutamente accertate, appaiono così nobili ed elevate da poter fungere
da guida per il saggio. Nel De officiis Cicerone ribadisce. Mi si chiede però,
e proprio da uomini di lettere e colti, se io creda di agire con
sufficiente coerenza, quando, mentre osservo che nulla può essere
conosciuto con certezza, tuttavia e soglio disputare di altre que- stioni
e in questo stesso momento cerco di dare regole sul dovere. A costoro vorrei
che fosse abbastanza noto il mio pensiero. Giacché io non sono di quelli
il cui animo vaga nell’incertezza e non ha mai un principio da seguire.
Quale sarebbe infatti la nostra mente, 0, piuttosto, la nostra vita,
quando fosse tolta ogni norma non solo di ragionare, ma anche di vivere?
Come gli altri affermano la certezza di alcune e l'incertezza di altre
cose, noi invece, dissentendo da loro, sosteniamo la probabilità di
alcune cose e l’improbabilità di altre. Che cosa, dunque, mi può impedi-
re di seguire ciò che mi sembra probabile e di disapprovare ciò che mi
sembra improbabile, e di fuggire così, evitando la presunzione di recise
affermazioni, la temerarietà, che è lontanissima dalla vera sapienza. E a questo «probabile» si perviene non
legandosi dogmaticamente ad alcuna Scuola, ma restando liberi di
scegliere ecletticamente ciò che pare più verosimile. Nelle Tuscolazze
leggiamo: De nat. deorum, ed. Pizzani; cfr. Acad. pr., De offictis, ed. Cataudella.
Esiste libertà di pensiero, e ognuno può sostenere ciò che gli pare; per
me, io mi atterrò al mio principio, e cercherò sempre in ogni que- stione
la probabilità massima, senza essere legato alle leggi di nessuna scuola
particolare che debba per forza seguire nella mia speculazione. Il probabilismo
di Cicerone è, in tal modo, strutturalmente con- giunto col suo
«eclettismo»: l’uno sta a fondamento dell’altro e vice- versa, e ambedue
hanno radice, più che teoretica, culturale e storica, come sopra
dicevamo. Questo ben spiega — tra l’altro — come, a seconda dei
problemi che Cicerone tratta, il probabile si assottigli fino a diventare
dubbio, oppure, per contro, si consolidi fino a diventare quasi
certezza. Anche Cicerone, come tutti i filosofi del suo tempo,
ritiene che il compito precipuo della filosofia consista nello stabilire il
«fine dell’uomo», e quindi la natura del sommo bene, e che, per poter far
questo, occorra stabilire quale sia il criterio del vero:
Queste sono le questioni massime in filosofia: il criterio della verità e
il fine dei beni, né può essere sapiente chi ignori o il principio del
conoscere o il termine dell’appetizione, così da non sapere da dove si
debba partire o dove si debba arrivare. Iniziamo dall’esame del «criterio del
vero», che è il punto di partenza. In primo luogo, CICERONE accoglie
positivamente la testizzonianza dei sensi. Non l’accoglie a livello
di certezza assoluta, ossia a livello di certezza tale da meritare l’assenso
totale, ma 4 livello di probabilità (si ricordino le posizioni di Filone
e di Antioco). L'evidenza dei sensi e dell’esperienza è, dunque, un primo
criterio: chi nega queste evidenze, sovverte la possibilità stessa della
vita.” Un secondo criterio Cicerone lo trova nel «senso comune»,
nel «consenso universale degli uomini» (nonché nel consenso dei
dotti). Egli usa anzi espressioni che riecheggiano una certa forma di
«inna- tismo», che si rifà, molto alla lontana, all’innatismo platonico
e, più [Tusc. disp., Acad. pr. Cfr. Acad. Pr.] da vicino, alla dottrina
della prolessi che — come abbiamo visto — è comune sia al Giardino sia al
Portico. Così Cicerone — per limitarci all'ambito che maggiormente
interessa — ammette non solo che la natura umana ci abbia dato serzina
innata delle virtù, cioè naturali disposizioni alla virtù, ma che abbia
altresì ingenerato size doctrina notitias parvas rerum maximarum, per
raggiungere le medesime virtù. Ed è precisamente questo generico innatismo
la vera motivazione che gli fa ritenere come probante il senso comune e
il consenso di tutti gli uomini. Naturalmente, Cicerone non
ci sa dire di più a questo proposito: risale dal senso comune e dal consenso
universale a nozioni da- teci naturalmente, cioè innate, e con questo
crede di aver raggiunto un criterio dotato di evidenza tale da non aver
bisogno di ulteriore fondazione. Per i problemi fisici — cioè per
il grosso dei problemi cosmo-ontologici che le filosofie ellenistiche
includevano nella dottrina della NATVRA — Cicerone mostra pochissimo interesse.
Ciò è ben conforme al sentire squisitamente romano, il quale solo se vede
una precisa valenza pratica si interessa ai problemi speculativi. Naturalmente,
egli fa eccezione per i problemi di Dio e dell’anima, che sono
strettamente legati all’etica, nel senso che condizionano, in ultima
analisi, il senso ultimo della medesima. Per quanto concerne la
soluzione dei problemi metafisici e ontolo- gico-cosmologici egli nutre
uno scetticismo molto più spinto che per tutto il resto. Non li sa
impostare e risolvere, soprattutto per il motivo che non gli interessano
esistenzialmente. Perciò gli è anche più como- do affermare che sulla
natura delle cose è molto più facile dire corze non sia la verità che non
come sia, e che tutto è circonfuso di tenebre che non si possono
squarciare: Tutte queste cose ci restano nascoste, occultate e
circonfuse di dense tenebre, al punto che nessun acume di umano ingegno è
così grande, da saper penetrare nel cielo o entrare dentro la
terra.!° Tuttavia egli prudentemente non ritiene che siano da
bandire del tutto le questioni fisiche, perché la considerazione della
natura è, in [Tusc. disput., De finibus, Acad. pr.] ogni caso, cibo e
sostentamento della mente, forza che ci sorregge e che ci porta in alto
e, portandoci così in alto, ci permette di guardare con nuova ottica le
cose umane e quindi di ridimensionarle. Considerando le cose celesti e sublimi,
si comprende come le cose terrestri siano piccole e meschine. Senza
contare, poi, la gioia spirituale che noi proviamo allorché ci
imbattiamo, se non nell’irraggiungibile vero, in qualcosa di verosimile. Non
penso che si debbano bandire queste questioni dei fisi- ci. Infatti la
considerazione e la contemplazione della natura è come naturale pascolo
degli animi e degli ingegni. Ci innalziamo, ci sembra di diventare più
grandi, disprezziamo le cose umane, e pensando alle cose superiori e
celesti, disprezziamo queste nostre come piccole e vili. La stessa
indagine di cose grandissime e occultissime ci dà dilet- to. Se poi
accade che qualcosa ci sembri verosimile, allora l’animo si riempie di
piacere umanissimo.!! Come si vede, è sempre in chiave etica e
antropologica che Cicerone affronta i problemi. Sull’esistenza del divino
Cicerone non sembra nutrire dubbi. Il consenso di tutti i popoli è per lui la
prova più solida: Quanto all’esistenza degli dèi, la prova più
solida che se ne possa addurre è questa, a quel che pare: non c’è popolo,
per quanto barba- ro, non esiste uomo al mondo, per selvaggio che sia,
che non abbia nella mente almeno un’idea della divinità. Sugli dèi molti
hanno delle convinzioni errate, e questo fatto normalmente è dovuto all’influenza
corruttrice dell’abitudine: ma tutti quanti credono nell’esistenza di una
forza e di una natura divina, e questa convinzione non è effetto di un
precedente scambio di idee fra gli uomini e di un accordo generale, né ha
trovato appoggio in istituzioni o leggi: ora, in ogni questione, il
consenso dei popoli si deve considerare legge di natura.!
Analogamente, Cicerone non ha dubbi sulla Provvidenza: sia le cose
esterne dimostrano di essere state finalizzate in funzione dell’uo- mo,
sia la forma e la struttura dell’uomo stesso e dei suoi organi ricon-
fermano una organizzazione finalistica. E dire organizzazione
finalistica è dire Provvidenza. Acad. pr. Tusc. disput. Cfr. De nat. deor. Nulla
ripugna a Cicerone più della concezione meccanicistica pro- pria
dell’atomismo epicureo: un casuale e meccanico accozzamento delle lettere
dell’alfabeto non potrà mai — dice sensatamente Cicerone — generare gli
Arzali di Ennio: Come non provare meraviglia, a questo punto, se qualcuno
ritiene che corpi solidi e invisibili siano trascinati dalla forza del
loro peso e che dalla loro fortuita unione sia derivato il mondo con
tutti i suoi splendori e le sue bellezze? Chi fosse disposto ad ammettere
una cosa del genere non vedo perché non dovrebbe anche ritenere che, se
si raccogliessero da qualche parte in un numero molto elevato di
esemplari le ventuno lettere dell’alfabeto foggiate in oro o in altro
materiale e le si gettassero a terra, dovrebbero ricostituirsi tutti gli
Armati di ENNIO ormai pronti per la lettura: un risultato che il caso non
riuscirebbe forse a realizzare neppure limitatamente a un solo verso. Più
incerto si mostra, invece, Cicerone quando deve prendere posizione circa la
natura del divino. Egli, in primo luogo, crede all’unità del divino.
Ma come concepiremo, dal punto di vista ontologico, questo divino-uno? Chi
fin qui ci ha seguito non può aver dubbi sul fatto che alla do- manda non
potremo avere se non risposte ambigue e oscillanti fra spi- ritualismo e
materialismo. E, questo, non già per ragioni contingenti, ma per motivi
strutturali. In effetti, o si recuperavano i risultati della seconda
navigazione platonica e il senso del trascendente, oppure le affermazioni
sulla spiritualità del divino dovevano rimanere senza alcun fondamento
teoretico. Nelle Tuscolane leggiamo. E il
divino stesso, quale noi ce la rappresentiamo, non può essere concepita
che come uno spirito indipendente, libero (vers soluta quaedam et libera), e
privo di ogni elemento corruttibile: uno spirito che tutto sente e tutto
muove, ed è a sua volta dotato di eterno movimento. Ma l’espressione «7ens
soluta quaedam et libera» non ci deve trarre in inganno, perché questa z2ers
soluta et libera non può essere pen- sata da Cicerone in funzione della
categoria del soprasensibile, tant'è che egli finisce per accettare l’ipotesi
stoica che si tratti di aria e fuoco, oppure anche dell’aristotelico
etere. De nat. deor., Tusc. disput. Analogamente CICERONE non dubita
dell'immortalità dell’anima, giacché è la natura stessa che ha posto in
noi questa convinzione, tanto è vero che tutti si preoccupano di quello che
sarà dopo la morte.!8 Questo è per Cicerone il più valido
argomento a favore dell’immortalità, anche se non esita a riprendere, di
rincalzo, le tradizionali prove di estrazione platonica.! L'anima è ciò
che ci congiunge al divino ed è quasi il punto di tangenza che l’uomo ha
col divino. Niente di quello che sta sulla terra può spiegare l'origine
dell’ani- ma, perché in essa non c’è nulla che sia misto o composto,
nulla che si possa considerare derivato o formato dalla terra, nulla che
abbia la natura dell’acqua, dell’aria o del fuoco. In effetti, nella
composizio- ne di questi elementi, non rientra nulla che abbia la
proprietà della memoria, dell’intelligenza, del pensiero, che possa
ritenere il passato, prevedere il futuro, abbracciare il presente: questi sono
attributi esclusivamente divini e non si potrà mai trovare per loro altra
provenienza che non sia la divinità. L'anima, insomma, ha un’essenza e
una natura del tutto speciali, e ben distinte da quelle degli altri
elementi comuni e a noi noti. Pertanto, qualunque sia la natura di
quell’entità che sente, che conosce, che vive, che agisce, essa deve
essere necessa- riamente celeste e divina, e di conseguenza eterna. E la
divinità stessa, quale noi ce la rappresentiamo, non può essere concepita
che come uno spirito indipendente, libero, e privo di ogni elemento
corruttibile: uno spirito che tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta
dotato di eterno movimento. Di questa specie e di questa medesima natura
è l’anima umana.? Naturalmente, anche a proposito del
problema della natura dell’a- nima si notano le stesse incertezze e le
stesse oscillazioni che abbiamo notato a proposito del problema della
natura del divino. E la radice di queste incertezze è la medesima: la
natura dell’anima è filosoficamente determinabile solo in funzione della
categoria del soprasensibile. Altrimenti si cade inesorabilmente nel
materialismo. E, infatti, poco prima del passo letto, Cicerone
scrive: E certo, se la divinità è aria o fuoco, come lei è fatta
l’anima dell’uomo: quella sostanza celeste non ha in sé né terra né
liquido, e ! Cfr. Tusc. disput.] questi due elementi sono egualmente assenti
dall'anima umana. Se poi esiste una quinta essenza, quella introdotta da
Aristotele, essa rientra sia nella divinità sia nell’anima.?!
Ma aria, fuoco e la stessa quinta essenza sono, appunto, sempre e
solo materia. La parte della filosofia che di gran lunga più
interessa Cicerone è l’etica. E non è quindi senza ragione che le sue due
opere più vive siano quelle Suz doveri e Sul fine dei beni e dei
mali. Più che mai è vero per Cicerone che non la aristotelica pura
attività contemplativa, ma la attività pratica e sociale è regina. Ecco
un passo molto eloquente. Ritengo siano più conformi alla natura quei
doveri che promanano dal sentimento sociale, che non quelli che promanano
dalla sapienza, e questo può essere affermato dal seguente argomento, che,
se a un uomo sapiente toccasse una condizione di vita tale che, affluendo
a lui le ricchezze più varie, egli potesse dedicarsi in piena
tranquillità allo studio e alla contemplazione di tutte quelle cose che
sono degne di essere conosciute, tuttavia, se la solitudine fosse così
grande che non potesse vedere nessun uomo, egli preferirebbe morire.
Infatti, la conoscenza e la contemplazione (della natura) sarebbero in
certo modo manchevoli e imperfette, se non dovesse seguir loro alcuna
attività concreta; e questa attività si manifesta specialmente nell’assicurare
l’utilità degli uomini; riguarda, dunque, la società del genere umano;
perciò questa deve essere anteposta alla scienza. Ma, anche in questo ambito
specifico, si cercano invano delle novità di fondo in Cicerone. Egli
discute le etiche dei sistemi epicureo, stoico, accademico e peripatetico;
respinge in blocco la morale epicurea e procede a eclettici accomodamenti
fra le altre. Da un lato, egli è portato ad ammirare soprattutto la morale
stoica, da un altro lato fa concessioni alla morale accademica e a quella
peri- patetica (che egli considera sostanzialmente identiche. Tusc.
disput., De offictis, (nel passo omesso dopo i puntini Cicerone parla
della superiorità della sophia sulla phroresis, ma autocontraddicendosi
in modo impressionante). Cicerone non può, infatti, accettare il principio
stoico che solo il sapiente è buono e tutti gli altri sono viziosi,
perché — egli rileva — la sapienza dello stoico sapiente è tale che alcun
mortale ancora non ha raggiunto, e perciò egli propone di considerare ciò
che è nella con- suetudine e nella vita comune, non quello che è nelle
pure aspirazioni e nei puri desideri. Anche per lui il principio
fondamentale della morale è seguzre la nostra natura individuale nel
rispetto della generale natura umana. Questo richiamo alla natura
dell’uomo, che è anima e corpo, permette a Cicerone di temperare la morale
stoica e rivendicare anche i diritti del corpo, giacché è necessario
vivere biologicamente, ossia soddisfare alle esigenze del corpo, proprio
per poter ulteriormente soddisfare alle esigenze della ragione. E, così,
per questo aspetto, egli si schiera dalla parte dei Peripatetici, come
già Panezio e Posidonio avevano in parte fatto. Ma poi torna agli
Stoici nel riportare la virtù interamente alla ragione, dissentendo dalla
tipica concezione aristotelica della virtù etica come via di mezzo fra
opposte passioni. E come gli Stoici, egli ritiene la virtù autosufficiente
e bastevole per la vita felice. E sembra allearsi con gli Stoici anche
nel concepire il saggio come privo di passioni e imperturbabile.
Infine, anche le rivendicazioni dell’umana libertà nell’opera Sul Fato vanno ben poco oltre la pura affermazione
di una libertà intuitivamente colta: i moti volontari dell’anima non hanno
cause esterne ma dipendono da noi, nel senso che ne è causa la natura
stessa della nostra anima. Quando Cicerone dai prin- cìpi
scende all’analisi dei doveri intermedi (quelli che gli Stoici chiamano
kathekonta), allora mette in evidenza tutta la sua intelligenza e
assennatezza pratica. Ma qui siamo, ormai, non più nel campo della
filosofia in senso stretto, ma piuttosto in quello della fenomenologia
morale. D'altra parte è inevitabile che tutte le notazioni e i rilievi
originali che si ritrovano in Cicerone nell’ambito delle analisi morali
non va- dano oltre il piano fenomenologico e restino teoreticamente in
certo senso un poco informi. De amicitia Cfr. De officiîs. Le ambigue
risposte ai problemi ontologici e antropologici dell’eclettismo non gli
permettono — proprio per ragioni strutturali — di spingersi
oltre. Come giustamente scrive Marchesi, Cicerone non da nuove idee
al mondo. Il suo mondo interiore è povero per la ragione che dà ricetto a tutte
le voci. Il suo contributo maggiore sta, dunque, nella fusione e
divulgazio- ne della cultura antica e, in questo ambito, egli è veramente
una figura essenziale nella storia spirituale dell'Occidente. Anche qui —
è ancora il Marchesi che scrive — si manifesta la forza divulgatrice e
animatrice dell’ingegno latino: perché nessun Greco sarebbe stato capace
di diffondere, come ha fatto CICERONE, il pensiero greco per il mondo. La
figura di uomo dalle conoscenze enciclopediche di Varrone. Uomo di vaste
conoscenze filosofiche come Cicerone, e anche VARRONE (si veda). Egli fu
propriamente un enciclopedico: già i suoi con- temporanei lo giudicarono
il più colto dei Romani. Più che di una filosofia di Varrone si può
parlare di implicanze filosofiche della sua cultura
generale. Contrariamente a Cicerone, che come abbiamo visto segue
Filone di Larissa, egli si schiera dalla parte di Antioco, e gli resta in
larga misura fedele. La sua concezione dell’anima come pneuma
e del divino come anima del mondo sono in perfetta sintonia appunto con
l’ecletti-smo stoicizzante antiocheo. E le sue idee morali non
presentano novità di rilievo. La dottrina filosofica per cui egli è
più noto consiste nella distin- zione delle tre forme di teologia (una
distinzione che ha radici molto antiche: la teologia favolosa o mitica dei poeti;
la teologia naturale propria dei filosofi; la teologia civile, che si
esprime nelle credenze e nei culti delle Città. Marchesi, Storia
della filosofia latina, Milano. Per uno sta- to della questione, una
dettagliata analisi del pensiero filosofico di Cicerone e per
aggiornamenti bibliografici, si veda l’opera citata supra, che contiene la
trattazione del nostro autore a cura di Gawlick e Gòrler. E nato a Rieti] VARRONE
È fuori dubbio che Varrone ritenesse la seconda forma di teologia come la
più vera. Tuttavia, Boyancé rileva quanto segue: «da tempo alcuni
filosofi si sforzavano di dare un posto alla teologia dei poeti e delle
Città. Si trattava della tradizione storica dei Greci e di Roma e Varrone
aveva un rispetto tutto romano di questa tradizione. L’erudito, in lui,
rispettoso in particolare della storia delle parole, credeva di poter fondare la
verità dei filosofi. Tutto ciò non avveniva in Varrone senza esitazioni,
dubbi e scacchi, di cui aveva consapevolezza. Ma egli era sostenuto dal
fervore delle sue convinzioni e dalla vastità delle sue conoscenze. Boyancé, Les
implications philosophiques des recherches de Varron sur la re- ligion
bumaine, in «Atti del Congresso Internazionale degli Studi Varroniani», Rieti. Cfr. Schedario, s.0 Giovanni Reale. Reale. Keywords: Crotone,
Velia, Crotonensi, la scuola di Crotone, la scuola di Velia, I veliani,
Parmenide, Girgentu – filosofia siciliana – magna Grecia non e Sicilia --. I
confine della magna Grecia – filosofia italica, filosofia italiana – la
filosofia nella peninsula italiana in eta anticha – filosofia Latina, filosofia
romana. Catalogo di Nome di Filosofi Italici, il poema di Parmenide, il poema
di Girgentu, il poema di Velia, la porta rossa di Velia, Zenone di Velia,
Filolao di Taranto, Gorgia di Lentini, Archita di Taranto, studi degl’antichi
italici da I romani, Etruria e Magna Grecia, le radice etrusche della filosofia
romana, fisiologia, teoria dela natura, uomo, la moralia, la colloquenza o
dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Reale” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Reghini: la ragione
conversazionale -- numero tri-angolare, numero qua-drato, numero pi-ramidale --
l’implicatura del numero sacro crotonese, e il simbolismo duo-decimale del
fascio littorio etrusco – la scuola di Firenze -- filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano.
Firenze, Toscana. Grice: “It’s difficult to call Reghini a philosopher; yes, he
was interested in Pythagoras – but to what extent can, in spite of Russell,
number GROUND a whole philosophy?” Studia
a Pisa. Insegna a Roma. Promotore della setta di Crotone, è affiliato a vari
gruppi dell'esoterismo italiano. Entra nella società teo-sofica e ne fonda la
sezione romana. Fonda a Palermo la biblioteca di teo-sofia filo-sofica. È iniziato
a Memphis di Palermo, rito massonico di supposta origine egizia. Entra a
Firenze nella loggia Lucifero, dipendente dal Grande Oriente. Adere al martinismo
papusiano, diretto da SACCHI, verso le carenze della cui maestranza e
pubblicistica apporta una demolizione magistrale. È chiamato d’ARMENTANO, che
lo avvia allo studio della scuola di Crotone. Entra nel supremo consiglio universale
del rito filosofico italiano, dal quale però si dimise, non havendo infatti
un'alta opinione dello stato della massoneria in Italia. Insignito del XXXIII massimo
grado del rito scozzese antico e accettato, entra a far parte come membro
effettivo del supremo consiglio, di cui è cancelliere e segretario. Gl’anni
della grande guerra vedeno discepoli e maestri della schola italica pitagorica partire
volontari per il fronte. Non rimase inerte innanzi al sorgere dell’istanze
interventiste. Partecipa attivamente alla manifestazione romana del maggio,
culminata in Campidoglio, tesa ad ottenere la dichiarazione di guerra. Accolto
nell'accademia militare di Torino come allievo ufficiale di Genio, parte volontario
per il fronte, ottenendo sul campo il grado di capitano di Genio. Lui ed
il suo maestro ARMENTANO creano a Roma l'associazione pitagorica, che riprende
le fila di precedenti esperienze e si richiama operativamente al sodalizio
pitagorico. Fonda e anima varie riviste, con interventi sagaci e ricchi di
dottrina. Scrive sul papiniano “Leonardo”, dando vita ad “Atanór, Ignis, e UR,
con COLAZZA, EVOLA (si veda) come
direttore, PARISE, ed ONOFRI. Contrasti d'idee e caratteriali prevalser nel
rapporto di collaborazione fra lui ed EVOLA, provoca la scelta evoliana di
allontanamento di questi, assieme a PARISE, dalla rivista “UR” -- rivista sórta
a esprimere al pubblico della cultura l'intento dell'occulto Gruppo di Ur -- dove
il maestro fiorentino pubblica con l'eteronimo di ‘Pietro Negri’. E se ne ha
anche strascichi giudiziari. Infatti EVOLA tenta di farlo incriminare per
affiliazione massonica -- affiliazione che costituiva reato dopo l'imposizione
di scioglimento dell’associazioni segrete decretata dal regime fascista. Ma il
potere giudiziario opta infine per un accordo tra i due onde evitare uno scandalo.
Per via del condizionamento repressivo fascista volto all'emarginazione di
tanti esponenti dell'esoterismo italiano – ARMENTANO parte per il Brasile --, ormai
isolato si ritira dalle attività pubbliche e a Budrio si dedica
all'insegnamento nel circolo quirico filopanti, alla meditazione in chiave
pitagorica delle scienze matematiche. Ottenne riconoscimenti dei lincei e dall'accademia per la sua opera
sulla restituzione della geo-metria pitagorica. Il Crepuscolo dei Filosofi regalato
dal suo autore, Papini all’amico Arturo al suo ingresso nella loggia fiorentina
‘Lucifero.” Nel fronte-spizio una dedica ad inchiostro, scolorito dal tempo, ‘Al
fratello R. il suo PAPINI’ in R., pitagorico, su il manifesto Rito filosofico italiano, Massa, “Pagine esoteriche”
(Finestra, Trento). In questa qualità firma il decreto del suo scioglimento (riprodotto
in Sessa, I sovrani grandi commendatori e storia del supremo consiglio d'Italia
del rito scozzese antico ed accettato, Palazzo Giustiniani (Bastogi, Foggia), in
seguito all'approvazione alla camera dei deputati del progetto di legge sulla
disciplina delle associazioni, presentato da MUSSOLINI, mirante allo
scioglimento della massoneria. Iacovella, "Il barone e il pitagorico”, Vie
della Tradizione, Cfr. la recensione fatta ne da Guénon. Altri saggi: ““Parola
sacra e parola di passo dei gradi”; “Il mistero massonico” (Atanor, Roma); “Geo-metria
pitagorica” (Basilisco, Genova); “Il numero sacro nella tradizione pitagorica”;
“Il numero sacro e la geo-metria pitagorica”; Il fascio littorio, ovvero il simbolismo duo-decimale”;
Il fascio etrusco” (Basilisco, Genova); “Il numero sacro nella tradizione crotonese”
(Ignis, Roma); “Del numero”; Prologo Associazione culturale Ignis, Dell'equazione
indeterminata di secondo grado con due incognite” (Archè/pizeta); “Della soluzione
dell'equazione di tipo Pell x2-Dy2=B e del loro numero” (Archè/pizeta); “Il
numero tri-angolare, il numero qua-drato, il numero pi-ramidale a base tri-angolare, il numero piramidale a base
qua-drata” (Archè/pizeta); “Dizionario filologico” (Associazione culturale
Ignis"), Cagliostro, ("Associazione culturale Ignis"), “Considerazioni
sul rituale dell'apprendista libero muratore” (Phoenix, Genova); “Paganesimo, scuola
di Crotone, Massoneria” (Mantinea, Furnari, Messina); “Per la restituzione
della massoneria crotonese italica (Raffaelli, Rimini); “La tradizione crotonese
massonica” (Melita, Genova); “Trascendenza
di spazio e tempo”, Mondo Occulto (Napoli, ASEQ). Cura “De occulta philosophia”
di AGRIPPA (Fidi, Milano); I Dioscuri,
Genova; La Sapienza pagana e crotonese (La Cittadella. I Libri del Graal. Geminello Alvi, R., il
massone pitagorico che ama la guerra, Corriere della Sera; Paradisi, Il pitagorico
che sogna l’impero, L’Indipendente, Luca, "Un intellettuale neo-pitagorico
tra massoneria e fascismo" (Atanòr, Roma); Parise, "Nota su R.",
in calce a “Considerazioni sul rituale dell'apprendista libero muratore” (Phoenix,
Genova); Sestito, “Il figlio del sole” (Ancona, Associazione Culturale Ignis); Via
romana agli Dei Amedeo Rocco ARMENTANO, Evola
Parise, Schiavone, a metà strada tra fascismo e massoneria, su archivio storico.
Centro Giorgi Scuola Normale Superiore di Pisa, Breve biografia su mathematica.
Boni, Omaggio su rito simbolico; Un pitagorico dei nostri tempi; Bizzi, La
Tradizione occidentale. Grandi massoni. Illustre matematico e anti-fascista --
grande oriente. Pitagorico, su ilmanifesto. Derivo
l’espressione di «corrente tradizionalista romana» dal po¬ deroso
(e ponderoso) lavoro di P. DI VONA, Evola e Guénon. Tradizione e civiltà,
Napoli, in cui, nel VI cap., intitolato appunto Il tradizionalismo romano, l’A.
studia la «corrente romana del tradizionalismo, ad opera di R., Evola e GIORGIO.
È evidente che col termine «corrente» noi non intendiamo riferirci (se
non in singoli casi, che ben preciseremo) ad una linea di pensiero omogenea,
bene organizzata in un gruppo unitario e compatto dalle caratteristiche
comuni, ideologicamente e politicamente parlando, ma ad una tendenza che
potè as sumere aspetti e sfaccettature diverse, come proprio i casi
di R., Evola e GIORGIO (e non sono certo gli unici) sono a dimostrare.] zioni
e che non mancherà di ulteriori sviluppi. In questa sede sarà
sufficiente fare rapido riferimento a quell’epoca gravida di grandi e decisive
trasformazioni che fu il Rinascimento italiano. È soprattutto nel corso del XV
secolo che tradizioni oc¬ culte, sopravissute per secoli nel più grande
segreto, paiono ricevere nuova linfa e l’impulso ad una nuova
manifestazione dal contatto con personalità dell’Oriente europeo di altissima
rilevanza intellettuale, come quella di PLETONE, il grande
rivitalizzatore della filosofia platonica negli ultimi anni dell’Impero
d’Oriente e fondatore di un cenacolo esoterico a Mistra, la medievale erede
dell’anti¬ ca Sparta, all’interno del quale, oltre a conservare
testi dell’antichità pagana (come le opere dell’impe¬ ratore Giuliano,
che vi venivano trascritte), si celebravano veri e propri riti e si elevavano
inni in onore degli dèi olimpici. La figura e la funzione di PLETONE
sono ancora troppo poco note in generale e, in Italia, non ancora
studiate. In genere, ci si limi- [Cfr. ad esempio: R. DEL PONTE, Sulla
continuità della tradizio¬ ne sacrale romana, Arthos; vedi anche:
SIMMACO, Relaziones sull’altare della Vittoria, con un’introduzione di R. del
Ponte su Simmaco e isuoi tempi. Edi¬ zioni del Basilisco, Genova] Si
tenga conto che nel sud del Peloponneso sono attestati, a livello
popolare, culti nei confronti degli dèi classici. In lingua italiana
mancano ancora del tutto studi approfonditi.] ta a citare, a proposito di lui,
la sua partecipazione al Concilio di Firenze e l’istituzione
dell’Accademia Platonica Fiorentina, che ebbe sede nella villa di Careggi
(o delle Cariti, o Muse), concepita da Cosimo il Vecchio e realizzata da
Lorenzo il Magnificosu suggestione del Pletone. Ma gli effetti dovettero
essere ancora più interessanti e gravidi di conseguenze, se si considerino i
legami, ad esempio, PLETONE e MALATESTA. Signore di Rimini: colui che ne
sottrarrà il cadavere agl’Ottomani, i quali avevano occupato Mistra, onde
deporlo pietosamente in un’arca marmorea del suo famoso Tempio
Malatestiano. Lo stesso Malatesta dovette pure essere in rapporto con la
ben nota Accademia Romana di Pomponio Leto, propugnatore, scrive Pastor,
del romanesimo nazionale antico. Il capo [Ci si dovrà pertanto limitare a
rimandare a: KIESZKOWSKI, Studi sul platonismo del Rinascimento in
Italia, Sansoni, Firenze; FENILI, Bisanzio e la corrente
tradizionale del Rinascimento, in Vie della Tradizione, (ci viene
comunicato ora, che a cura dello stesso P. Fenili è in corso di stampa
un’antologia di brani di Pletone, dal titolo Paganitas, lo squarcio nelle
tenebre, per Basala Editore di Roma). Di recente, ci è capitato di leggere in
un’insolita pubblicazione, una rivistina satirica di sinistra, un reportage da
Mistra singolarmente informato e documentato su PLETONE e la sua scuola
(cfr. .LOSARDO, La repubblica dei Magi. Da Sparta alla Firenze, in
Frigidaire. Per mezzo del Platina (definito da Pomponio pater sanctissi-
mus), 1 ’Accademia Romana intratteneva rapporti col Malatesta, il quale
dell’Accademia Romana, riporta il von Pastori spregia la religione
cristiana ed usciva in violenti discorsi contro i suoi seguaci venera il genio
della città di Roma. Quale rappresentante di queU’umanesimo, che
gravitava verso il paganesimo, si schierarono ben presto attorno a Pomponio un
certo numero di giovani, spiriti liberi dalle idee e dai costumi mezzo
pagani. Gli iniziati consideravano la loro dotta società come un
vero collegio sacerdotale alla foggia antica, con alla testa un pontefice
massimo, alla quale dignità fu elevato Pomponio Leto. Si noti che
sembra certa l’adesione alla cerchia del Leto del principe Francesco
Colonna, Signore di Palestrina, l’antica Praeneste, dai più ritenuto
l’autore della celeberrima Hypnerotomachia Poliphili, un testo molto
citato, ma molto poco letto e soprattutto compreso, dove, in ogni modo,
una sapienza ermetica si sposa all’esaltazione, non tanto filosofica. E notoriamente
nemico dei papi e ammiratore del movimento pagano di Mistra (cfr. F.
Masai, Pléthon et le platonisme de Mistra, Paris] L’opera del Masai è a
tutt’oggi la più completa esistente sulla dottrina e la figura di PLETONE).
Si noti che Platina e allievo a Firenze d’Argiropulo, discepolo di Pletone, e
che un altro antico discepolo, Bessarione, si prodigò per la liberazione
da Castel Sant’Angelo dei membri dell’ACCADEMIA ROMANA, dopo che furono
accusati dal papa Paolo II — non senza fondamento — di paganesimo. 11
Masai si domanda se l’Accademia Romana non fosse in qualche modo una filiale di
quella di Mistra. PASTOR, Storia dei Papi, Roma] quanto mistica, del
mondo della paganità romano¬ italica, culminante nella visione di Venere
Genitrice. Se si rifletta al fatto che Francesco Colonna, realizzatore dell’imponente palazzo
gentilizio eretto sulle rovine del tempio di Fortuna Primigenia (ancora
oggi ben identificabili nelle strutture originali), vantava discendenza
diretta dalla gens Julia e quindi da Venere, si potrà allora intravedere
come l’apporto vivificante della corrente sapienziale reintrodotta in
Italia da PLETONE si fosse incontrato col retaggio gentilizio di una
tradizione antichissima, gelosamente custodi¬ to nel silenzio dei secoli
col tramite di alcune famiglie nobiliari italiane, in ispecie laziali,
generosamente fruttificando: nel senso di spingere ad un rin¬ novamento
tradizionale non solo l’Italia, ma persino, ad un certo momento, lo stesso
papato, se avventi [Risulterà forse sorprendente apprendere come i Colonna
possedessero ancora fino ai nostri giorni il feudo originale di Giulio Cesare,
Boville (Frattocchie d’Albano). É visibile nel giardino Colonna al
Quirinale l’aitare antico dedicato al Vediove della gens Julia (notizie
ricavate da: P. COLONNA, I Colonna, Roma). Tolomeo 1 Colonna
ostentava il titolo di Romanorum consul excellentissimus e Julia stirpe
progenitus -- cfr.FEDELE, s.v. Colonna, Enciclopedia Italiana. Ha compiuto
un’attenta analisi deWHypnerotomachia Poliphili (editio princeps, presso
Manuzio) come opera di COLONNA, M. CALVESI, Il sogno di Polifilo prenestino,
Roma. Si veda anche: OLIMPIA PELOSI, Il sogno di Polifilo: una quéte
dell’umanesimo, ed. Palladio. Ambesi, in considerazione della dimensione
iniziatica dell’opera di COLONNA, la considera come un’anticipazione cifrata
del movimento dei Rosacroce (/ Rosacroce, Milano). ne che poco mancò che
salisse al soglio pontificio quel BASSARIONE che e discepolo diretto
di PLETONE (si veda) Pletone, da lui giudicato, come scrisse in una
lettera privata ai figli del maestro dopo la sua morte, il più grande dei Greci
dopo Platone. Ma altri tempi tristi dovevano giungere, tempi in cui
sarebbe stato più prudente tacere, come dimostra il bagliore delle fiamme in
Campo dei Fiori, il corpo, ma non l’animo, di BRUNO (si veda) rivivificatore generoso, ma impaziente,
di dottrine orfico-pitagoriche, che trovavano analoga eco — frutto di una
linfa non mai del tutto estinta nell’Italia Meridionale — nella
poesia e nella prosa dell’irruente frate calabrese CAMPANELLA (si veda),
lui pure oggetto di odiose persecuzioni. Bisogna giungere sino
all’unità d’Italia, parzialmente realizzatasi con la fine della millenaria
usurpazione temporale dei papi, per trovare una situazione mutata. A
questo punto bisogna chiarire una volta per tutte, con la maggiore
evidenza, che dal punto di vista del tradizionalismo romano l’unità
d’Italia — indipendentemente dai modi con cui [Si dovrà ricordare che BESSARIONE
(si veda) raccolse cum pietate nel suo studio le opere e i manoscritti
del maestro, in particolare alcuni frammenti apertamente pagani delle Leggi,
dotandone poi la Biblioteca Marciana da lui fondata, a Venezia.] potè in
effetti verificarsi (modi spesso arbitrari e prevaricatori della dignità
e delle sacrosante autonomie di diverse popolazioni italiche) e dall’azione
di certe forze sospette (Carboneria, massoneria e sette varie) che
per i loro fini occulti poterono agevolarla — era e rimane condizione
imprescindibile e necessaria per ritornare alla realtà geopolitica dell’Italia
au- gustea (e dantesca): quindi per propiziare il rimanifestarsi nella
Saturnia tellus di quelle forze divine che ab origine a quella realtà
geografica — consacrata dalla volontà degli dèi indigeti — sono legate.
È un dato che si dovrà tenere ben presente, per meglio intendere
certi fatti che avremo modo di esporre in seguito. Intanto è
nell’aria qualcosa di nuovo e antico insieme, che verrà avvertito dalle anime
più sensibili. Fra queste, il grande PASCOLI (si veda)i, con un
equilibrio ed una compostezza veramente classici, valendosi di una sensibilità
non inferiore a quella con cui in quegli stessi anni conduceva l’esegesi
di certi lati occulti della dantesca Commedia, con il seguente sonetto (e
col corrispondente testo in esametri latini, da noi non riprodotto) celebrava
in una semplice aula scolastica la solennità. L’aratro è fermo: il toro
d’arar sazio, leva il fumido muso ad una branca d’olmo; la vacca
mugge a lungo, stanca, e n’echeggia il frondifero Palazio. Una mano
sull’asta, una sull’anca del toro, l’arator guarda lo spazio: sotto
lui, verde acquitrinoso il Lazio; là, sul monte, una lunga breccia
bianca. È Alba. Passa l’Albula tranquilla, sì che ognun ode un
picchio che percuote nell’Argileto l’acero sonoro. Sopra il
Tarpeio un bosco al sole brilla, come un incendio. Scende a larghe
ruote l’aquila nera in un polverio d’oro. É un fatto nuovo di
ordine archeologico il punto di riferimento importante ed essenziale per il
secolo che sta per aprirsi: la scoperta nel foro da parte da BONI (si veda) (un
nome che non dovremo scordare) del cippo arcaico sotto il cosiddetto
Lapis Niger, in cui l’iscrizione in caratteri antichi del termine RECHI ( =
regi) attesta documentariamente l’effettiva esistenza in Roma della monarchia
e, con quanto ne consegue, la sostanziale fondatezza della
tradizione annalistica romana, trasmessa nel corso di innumerevoli
generazioni, dai primi Annales Maximi dei pontefici sino a LIVIO (si veda) e,
al termine del- [PASCOLI (si veda), Antico sempre nuovo. Scritti vari di
argomento latino, Zanichelli, Bologna. Il lettore esperto potrà
notare come in pochi versi il poeta abbia saputo sapientemente
concentrare particolari nomi evocativi di determinate realtà primordiali
dell’Urbe.] l’Impero d’Occidente, alle ultime gentes sacerdotali ed a
quegli estremi devoti raccoglitori e trasmettitori della sapienza delle
origini, come poterono essere un Macrobio ed un Marziano Capella nel V
secolo. È come se, fisicamente, una parte di tradizione romana si
esponesse improvvisamente alla luce del sole a smentire l’incredulità e
l’ipercriticismo della scuola tedesca, che, in nome di un presunto
realismo scientifico, aveva respinto in blocco le più antiche
memorie patrie, e soprattutto dei suoi squallidi seguaci italiani, come
quell’Ettore Pais che nella sua Storia di Roma (ristampata innumerevoli
volte fino in piena epoca fascista) aveva negato ogni tradizione da
una parte, costruendo dall’altra fantastici castelli in aria, senza
alcuna base, né storica, né filologica. Risulta che BONI (si veda)
fu in corrispondenza con un altro principe romano, pioniere degli
studi islamici e deputato al parlamento nei banchi della sinistra:
Leone Caetani duca di Sermoneta, principe di Teano, marito di una
principessa Colonna. Suo nonno, Michelangelo Caetani, era stato
l’au¬ tore di un fortunato opuscolo di esegesi dantesca, dove si
sosteneva l’identità d’ENEA col dantesco messo del cielo che apre le
porte della Città di Dite con l’aurea verghetta degl’iniziati d’Eleusi:
quello stesso che nel 1870, già vecchio e quasi cieco, fu il latore a
Vittorio Emanuele II dei Cfr. M[. CAETANI di SERMONETA, Tre chiose nella
Divina Commedia di Dante Alighieri, II ed., Lapi, Città di Castello] risultati
del plebiscito che sanciva l’unione di Roma all’Italia.
Proprio Leone Caetani sarebbe stato l’autorevole tramite attraverso
cui si sarebbero manifestate all’interno della Fratellanza Terapeutica di
Myriam (operativa proprio negli anni della scoperta del Lapis Niger)
fondata da Giuliano Kremmerz (cioè Ciro Formisano di Portici) — che la
definì talvolta come Schola Italica — determinate influenze
derivanti dall’antica tradizione romano-italica se, come
scrive l’esoterista DAFFI (si veda), alias il conte Libero Ricciardelli --
(è lui il misterioso Ottaviano, altro riferimento alla gens Julia! -- autore nella rivista Commentarium diretta dal
Kremmerz di un articolo sul dio Pan e di una lettera di congedo
dalla redazione in cui egli riafferma in tali termini la proti?) Sotto
tale pseudonimo si nasconde persona veramente autorevole, autorevolissimo
collega di ricerche ermetiche di Kremmerz tanto da potere essere ritenuto
portavoce di sede superiore Don Leone CAETANI (si veda). Duca di
Sermoneta, Principe di Teano (M. DAFFI, Giuliano Kremmerz e la Fr+Tr+ di
Myriam, a cura di G.M.G., Alkaest, Genova). Gli scritti firmati d’Ottaviano in
Commentarium sono tre: La divinazionepantéa, Per BORRI (si veda), Gnosticismo e
iniziazione. In quest’ultimo scritto, consistente in una lettera di congedo
come collaboratore della rivista, si rimanda all’opera di un altro personaggio
che, come Ottaviano, dove riconnettersi allo stesso ambiente iniziatico
gravitante alle spalle dell’organismo kremmerziano: l’avvocato Giustiniano
Lebano, autore di un curioso libretto intitolato Dell’Inferno: Cristo vi
discese colla sola anima o anche col corpo? (Torre Annunziata), in cui
nuovamente si accenna al RAMOSCELLO DORATO del segreto, ossia la voce
mistica di convenzione che ENEA presenta a Proscrpina. ] pria fede
pagana: non sono che pagano e ammiratore del paganesimo e divido il mondo
in volgo e sapienti volgo, che i miei antenati simboleggiavano nel cane e lo
pingevano alla catena sul vestibolo del Domus familiæ con la nota scritta: Cave
canem; cane perché latra, addenta e lacera. Comincia l’attività pubblicistica
ed iniziatica di R.. La sua importanza fra i più autorevoli esponenti
europei della tradizione, e del filone romano-italico in particolare,
risiede certamente non tanto nel tentativo, vano e fatalmente destinato
all’insuccesso, per quanto disinteressato, di rivitalizzare la massoneria
al suo interno, quanto nell’attenzione da lui portata allo studio
ed [OTTAVIANO, Gnosticismo e iniziazione. Tentativo che si concretizzò
soprattutto con la creazione del Rito Filosofico Italiano, fondato da R.,
FROSINI (si veda) ed altri (vi e accolto come membro onorario Crowley),
ma dall’esistenza effimera, dal momento che si fuse con la massoneria di
Rito Scozzese Antico ed Accettato di Piazza del Gesù. R. segue le sorti e
le direttive di Piazza del Gesù di Raoul Palermi, molto favorevole nei
confronti del fascismo, sino ai provvedimenti contro le società segrete. PAPINI
(si veda) dedica alcune pagine nel
contempo pungenti e commosse a R. di cui e amico negli, cosi concludendo: R. vive,
povero e solitario, una vita di pensiero e di sogno: anch’egli difese e
incarnò, a suo modo, il primato dello spirituale. Nessuno di quelli che
lo conobbero potrà dimenticarlo» (Passato remoto, ed. L’Arco, Firenze] alla
riscoperta della tradizione classica e romana, che gli era stato dato in
compito di rivitalizzare «in segreto», così come egli stesso si esprime
in una lettera inviata ad AGABITI (si veda) e pubblicata nell’Ultra: sai bene
come il nostro lavoro, puramente metafisico e quindi naturalmente esoterico,
sia rimasto sempre e volontariamente segreto. In tal modo R. ben
si inseriva nel filone della corrente tradizionalista romana, in quella
sua variante che si può legittimamente definire orfico-pitagorica), col
contributo di numerosi scritti, soprattutto sulla numerologia pitagorica,
sparsi fra molti articoli e opere impegnative, come Per la resti¬
tuzione della geometria pitagorica; rist.), I numeri sacri della
tradizione pitagorica massonica, Aritmosofia R., La tradizione itala, Ultra. Allo
stesso modo, di tradizione ermetica egizio-ellenistica si potrebbe
parlare per il filone essenzialmente seguito dalla corrente kremmerziana.
È chiaro come nessuna di queste correnti possa preten¬ dere di
identificarsi con il filone centrale deWa tradizione romana (come
vorrebbero, ad esempio, certi continuatori del Reghini dei nostri
giorni), rappresentandone, semmai, corollari concentrici ed espressioni
validissime, ma essenzialmente periferiche. Il nucleo della tradizione
romana è altra cosa: può includere tutto ciò, ma al tempo stesso ne è al
di sopra nella sua essenza originaria. Per cercare di comprendere la
cosa, si dovrà riflettere sul simbolismo e sulla funzione del dio Giano,
non per caso divinità unica e propria della sacra terra laziale.] ed il
tuttora inedito Dei numeri pitagorici. Con questa attività egli avrebbe
perseguito la missione affidatagli da un’antica scuola iniziatica di tra¬
dizione pitagorica della Magna Grecia allorché, ancora giovane e studente
a Pisa, fu avvicinato da colui che sarebbe divenuto il suo maestro
spirituale: ARMENTANO (si veda), ufficiale dell’esercito all’epoca
in cui lo conosce R. Ad ARMENTANO (si veda) appartene [Per il
quarantesimo anniversario della scomparsa del R. è stata edita una
raccolta di suoi scritti vari: Paganesimo, pitagorismo, massoneria, ed.
Mantinea, Fumari, cur. Associazione Pitagorica, un gruppo costituitosi con un
poco iniziatico atto notarile (sic), ma che vanta diretta discendenza dal
gruppo di R.. La raccolta è stata purtroppo eseguita con dilettantismo,
senza criteri ed inquadramenti storico-filologici e gli scritti
reghiniani (uno addirittura incompleto) non seguono nè un ordine logico, nè
cronologico. Il saggio sull’nterdizione pitagorica delle fave si potrà leggere
ora completo in Arthos. DIOGENE LAERZIO ricorda come il pensiero di Pitagora di
CROTONE in Calabria avesse trovato accoglienza presso gl’itali della Magna
Grecia. Come dice Alcidamante tutti onorano i sapienti. Così i Pari
onorano Archiloco, che pur era blasfemo, e i Chii Omero, che era d’altra
città e gl’itali Pitagora -- Die fragmente der Vorsokratiker, a cura di Diels-Kranz;
Bari. Per alcune notizie su Armentano (ed una sua foto), cfr. SESTITO, A.R.A.,
il Maestro, in Ygieia, bollettino interno dell’Associazione Pitagorica. Di
Armentano si vedano le Massime di scienza iniziatica, commentate dal Reghini in
vari numeri d’Atanòr ed Ignis. Negli anni Trenta Armentano lasciò l’Italia per
il Brasile, dove morì. È sintomatico come anche Ottaviano in quel periodo
si sarebbe allontanato dall’Italia stanziandosi a Vancouver in Canada] quella
misteriosa «torre in mezzo al mare. Una vedetta diroccata, su di uno scoglio
deserto dove, con gran dispiacere di Sibilla Aleramo, il giovane
protagonista del romanzo Amo, dunque sono (Mondadori, Milano), Luciano {alias PARISE
(si veda), avrebbe dovuto diventare mago in compagnia di un amico non
nominato, vale a dire proprio R. Fu proprio nella torre di Scalea,
in Calabria, che R. rivide il testo della traduzione italiana
deirOccw//flr Phylosophia di Agrippa, a cui premise un ampio saggio di
quasi duecento pagine su E.C. Agrippa e la sua magia. Vi scriveva, fra l’altro.
E perciò, in noi, il senso della romanità si fonde con quello
aristocratico e iniziatico nel renderci fieramente avversi a certe
alleanze, acquiescenze e deviazioni. Forse si avvicina il tempo in cui
sarà possibile di rimettere un po’ a posto le cose, e noi speriamo
che ci venga consentito, una qualche volta, di riportare alla luce qualche
segno dell’esoterismo romano. Quanto alla permanenza di una “tradizione
romana”, si vorrà ammettere che se una tradizione iniziatica romana
pagana ha potu¬ to perpetuarsi, non può averlo fatto che nel più assoluto
mistero. Non è quindi il caso di interloquire con affermazioni e
negazioni» SALERAMO, Amo, dunque sono, cit., p. 15. Cfr. Luciano, Luciano, e tu
vuoi essere mago! M’hai detto d’aver già operato fantastiche cose,
fantastiche a narrarsi, ma realmente accadute». R., E.C. Agrippa e la sua
magia, in: AGRIPPA, Il 1914 è un anno molto importante, sotto
diversi aspetti, per i tentativi di rivivificazione della tradizione itala.
Nella Salamandra, in un articolo dal titolo fortunato, poi ripreso da Evola,
Imperialismo pagano, il R. coglie occasione, scagliandosi contro il
parlamentarismo ed il suffragio universale che favoriva cattolici e
socialisti, di riaffermare l’unità e l’immutabilità della tradizione pagana in
Italia, che, sempre ricollegata nella sua visione al pitagorismo, si
sarebbe trasmessa attraverso le figure di alcuni grandi iniziati sino ai nostri
giorni. Dalle pagine d’Ultra, precisa in un importante articolo
dottrinario, che LA LINGUA LATINA e la razza romana non sono le cause
della superiorità metafisica, essa appare connaturata al luogo, al
suolo, all’aria stessa. Roma, Roma caput mundi, la città eterna, si
manifesta anche storicamente come una di queste regioni magnetiche della terra.
Se noi parleremo del mito aureo e solare in Egitto, Caldea e Grecia prima di
occuparci della sapienza romana, non è perché questa derivi da
quella, ché il meno non può dare il più. Lm Filosofia occulta o la
Magia, voi. I, rist. Mediterranee, Roma. L’articolo fu poi ripubblicato in
Atanòr, oggi nella ristampa anastatica a cura dell’omonima casa editrice di
Roma. R., Del simbolismo e della filologia in rapporto alla sapienza
metafisica, in Ultra] Intanto, nella notte del solstizio d’inverno, si era
verificato un insolito episodio, gravido di future conseguenze: in
seguito a misteriose indicazioni, nei pressi di un antico sepolcro
sull’Appia Antica era stato rinvenuto, a cura di Ekatlos,
accuratamente celato e protetto da un involucro impermeabile, uno scettro
regale di arcaica fattura e i segni di un rituale. Ed il rito —
riporta Ekatlos — e celebrato per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta. E
noi sentimmo, meravigliati, accorrervi forze di guerra e forze di
vittoria; e vedemmo balenar nella sua luce le figure vetuste ed auguste degl’eroi
della razza nostra romana; e un segno che non può fallire e sigillo per
il ponte di salda pietra che uo¬ mini sconosciuti costruivano per essi
nel silenzio profondo della notte, giorno per giorno. Il significato, le
vere intenzioni e le origini di tali [Lasciamo ogni responsabilità circa
l’identificazione d’Ekatlos con il principe Leone Caetani, già da noi
incontrato, all’anonimo autore -- si tratta, peraltro, certamente di
Mutti, fanatico integralista islamico -- di una postilla alla parziale
traduzione francese della rivista evoliana «Krur» (TRANSILVANUS, A propos
de l’article d’Ekatlos, seguito da una Note sur Leone Caetani, in: J. EVOLA,
Tous les écrits de «Ur» et «Krur» [Krur], Arché, Milano). Ancor più lasciamo
all’autore di tali tristi note (in cui ancora una volta si dimostra come
tra fanatismo religioso e via iniziatica esista un divario invalicabile)
la pesante responsabilità delle poco ragguardevoli espressioni usate nei
confronti del benemerito principe romano. EKATLOS, La Grande Orma: la
scena e le quinte, in Krur, in: GRUPPO di UR, Introduzione alla Magia,
Roma] riti pongono un problema», osserva VONA (si veda), ma il loro fine
immediato fu esplicito, e come tale è stato dichiarato. Esso fu compiuto
nel dovuto modo da un gruppo che si propose di dirigere verso la
vittoria italiana la Grande Guerra. Ma l’episodio ha un seguito. Il
giorno in cui cade la festa romana del Tubilustrium, o consacrazione
delle trombe di guerra e fondato a Milano, nella famosa riunione di
Piazza Sansepolcro, il primo FASCIO di Combattimento, piu tardi denominato
Partito Nazionale Fascista. Fra gli astanti vi fu chi, emanazione dello
stesso gruppo che aveva riesumato l’antico rituale, preannuncio a
Benito Mussolini: «Voisarete Console d’Italia». E fu la stessa persona
che, qualche mese dopo la Marcia su Roma, vestita di rosso, offrì al capo
del governo un’arcaica ascia etrusca, con «le dodici verghe di betulla
secondo la prescrizione rituale legate con strisce di cuoio rosso» Con tale
atto dal sapore sacrale, come è evidente. [VONA, Evola e Guénon. EKATLOS. La notizia è riportata con
altri particolari nel «Piccolo» di Roma. Particolare curioso: la sera
stessa del 23 maggio Mussolini parti in aereo alla volta di Udine, onde
potere inaugurare il giorno dopo, nell’anniversario dell ’entrata in guerra, il
monumentale cimitero di Redipuglia, alla presenza del Duca d’Aosta. La
sera, sulla via del ritorno verso Roma, l’aereo fu costretto, da un
inspiegabile guasto, ad un atterraggio di fortuna nei pressi di
Cerveteri, cioè l’antica etrusca Cere, donde forse proveniva l’arcaico
fascio.] le correnti più occulte portatrici della tradizione romana avrebbero
voluto propiziare una restaurazione in senso «pagano» del fascismo.
Altri episodi concomitanti concorrono a rafforzare questa supposizione. E
rappresentata sul palatino la tragedia Rumori: Romae sacrae origines, col
beneplacito e la presenza plaudente di MUSSOLINI. La tragedia -- o,
meglio, alla latina, il carmen solutum -- risulta opera di un certo Ignis
(pseudonimo sotto cui si celerebbe l’avvocato Musmeci Ferrari Bravo), che
risulta godere di appoggi assai influenti, come quello di SOFFICI (si veda) Soffici,
e appare, specialmente in quel terzo carmen che fu recitato, più che una
semplice rappresentazione scenica, un vero e proprio atto rituale: un rito di
consacrazione, certamente denotante nell’autore, o nei gruppi restati
nell’ombra di cui egli era emanazione, una conoscenza non solo filologica
della tradizione romana (si pensi che in intermezzi scenici vengono
cantati, al suono di flauti, i versi ianuli e iunonii dei Fratres
Arvales), ma anche di certi suoi lati occulti, come lascia intendere il
rito di incisione su lamine auree dei nomi arcani deU’Urbe e l’esegesi,
volutamente incompleta, dei significati del nome di Roma. Quest’azione,
occulta e palese, sulle gerarchie fasciste affinché i simboli da esse evocate,
come l’aquila o il fascio, non restassero puro orpello di facciata,
continuerà sino all’anno in cui Rumon verrà pubblicata, in splendida
edizione uffi¬ ciale, dalla Libreria del Littorio, con i frontespizi
ornati di caratteri arcaici romani, disegnati appositamente da BONI (si veda),
lo scopritore del Lapis Niger già da noi incontrato, il quale avrà il
privilegio poco dopo, alla sua morte, di essere inumato sul Palatino
stesso Ancora noteremo come sintomatica l’uscita, della Apologia del paganesimo
(Formiggini, Roma) di Giovanni Costa, futuro collaboratore delle
iniziative pubblicistiche di Evola. Uscirono le due riviste di studi
iniziatici, Atanòr ed Ignis, dirette da R., e in cui inizia una collaborazione
Evola: affronteranno con un rigore ed una serietà inconsuete, per
l’eterogeneo ambiente spiritualista dell’epoca, tematiche e discipline
esoteriche di parti¬ colare interesse: vi comparvero, per la prima volta
in Italia, scritti di René Guénon, fra cui a puntate, prima ancora che in
Francia, L'esoterismo di Dante. È peraltro evidente come il contenuto di
queste riviste non avesse un valore puramente speculativo, come
dimostrano gli scritti di Luce suirO/7M5 magicum (Gli specchi - Le erbe)
negli ultimi due numeri di [E proprio BONI che, risalendo ai modelli
d’origine, mise a punto il prototipo del fascio romano, oggi al Museo
dell’Impero, per il Regime Fascista: è quello che compare sulle monete da
due lire di quel periodo (cfr. V. BRACCO, L’archeologia del Regime,
Volpe, Roma. Ignis, che preludono a quelli del successivo gruppo di Ur. Ma
intanto l’auspicata svolta in senso pagano da parte del fascismo sperata dalla
corrente tradizionalista romana non solo stenta a verificarsi, anzi
è messa pericolosamente in forse dalle mene de¬ gli ambienti cattolici e clericali.
Nell’Atanòr R. con parole di fuoco depreca alcune espressioni pronunciate da MUSSOLINI
in occasione del natale di Roma. Il colle del Campidoglio, egli ha detto, dopo
il Golgota, è certamente da secoli il più sacro alle genti civiir.
In questo modo l’On. MUSSOLINI, invece di esaltare la romanità, perviene
piuttosto ad irriderla ed a vilipenderla. Noi ci rifiutiamo di
subordinare ad una collinetta asiatica il sacro colle del
Campidoglio. E, dopo il delitto Matteotti: ecco un clamoroso delitto
politico viene a sconvolgere la vita della nazione, ad agitare gl’animi.
Investito da popolari e da ogni gradazione di democratici, a MUSSOLINI non
resterebbe che battere la via dell’imperialismo ghibellino, se non
esistesse un partito che già lo sta esautorando tengano ben presente i nostri
nemici che, nonostante la loro enorme potenza e tutte le loro prodezze, esiste
ancor oggi, come è esistita in passato, traendo le sue radici da quelle
profondità interiori che il ferro e il fuoco non tangono, la stessa
catena iniziatica pagana e pitagorica, inutilmente e seco¬ larmente
perseguitata. L’ordine del giorno Bodrero e le successive leggi sulle
società segrete tolgono ulteriore spazio all’attività pubblicistica del R., che
peraltro confluisce nel gruppo di Ur, formalmente diretto da Julius
Evola. A noi qui non interessa tanto esaminare il lavoro di ricerca
esoterico svolto dal Gruppo di Ur, cui partecipano, come è noto, personalità
appartenenti alle principali correnti esoteriche operanti in quegli
anni in Italia, dai pitagorici ai kremmerziani, dagli steineriani
(antroposofi) ai cattolici eterodossi come il De Giorgio, quanto
sottolineare come in quella sede dovesse essere stato, almeno in parte, ripreso
il programma di influenzare per via sottile le gerarchie del
fascismo, nel senso già voluto dal gruppo mani¬ festatosi con la
testimonianza d’Ekatlos (che, non lo si
dimentichi, viene riportata proprio nel terzo dei volumi che raccolgono
le testimonianze di tutto il gruppo — in apparenza slegata da esse
— successivamente apparse col titolo di Introduzione alla Magia).
In un inserto per i lettori comparso in Ur, Evola poteva scrivere: possiamo
dire che una Grande Forza, oggi più che mai, cerca un punto di sbocco in
seno a quella bar¬ barie, che è la cosidetta civilizzazione contemporanea
— e chi ci sostiene, collabora di fatto ad una opera che trascende di
certo ciascuna delle nostre stesse persone particolari». Del
resto, molti anni più tardi, Evola stesso di¬ chiarerà piuttosto
esplicitamente nella sua autobiografia spirituale che l’intento del Gruppo era
stato quello, oltre a «destare una forza superiore dr servire d’ausilio
al lavoro individuale di ciascuno», di far sì che «su quella specie di
corpo psichico che si voleva creare, potesse innestarsi per evocazione, una
vera influenza dall’alto», sì che «non sarebbe stata esclusa la
possibilità di esercitare, dietro le quinte, un’azione perfino sulle forze
predominanti nell’ambiente generale. Un’indagine ben più approfondita, come si
vede, meriterebbe di essere svolta sugli evidenti tentativi di
rivitalizzazione, all’interno del Grupo di Ur, delle radici esoteriche e
dei conte¬ nuti iniziatici della tradizione romana: a parte i contributi
dello stesso Evola (che firmerà come «EA» e, pare, anche come AGARDA e
lAGLA), di cui ricordiamo l’importante saggio Sul sacro nella
tradizione romana, ancora una volta fondamentale resta l’apporto di R. (che
firma come PIETRO NEGRI: egli, nella relazione Sulla tradizione
occidentale, sulla scorta di un’attenta esegesi delle fonti antiche
(soprattutto Macrobio) e di personali acute intuizioni, nonché di
probabili «trasmissioni» iniziatiche, non esiterà ad indicare nel
mito di Saturno il luogo ove è racchiuso il senso e il massimo mistero
iniziatico della tradizione [EVOLA, Il cammino del cinabro, Milano] Un
esame generale, storico-bibliografico, sul Gruppo di Ur è stato da me compiuto
in lingua tedesca, come studio introduttivo alla versione tedesca del I volume
di Introduzione alla Magia (Ansata Verlag, Interlaken). Si tratta del
notevole ampliamento, riveduto e corretto, di un mio precedente studio già
apparso in «Arthos] romana, un’indicazione utilizzata e sviluppata
ulteriormente nel nostro recente Dèi e miti italici. Intanto, una
serie di articoli polemici sui nuovi rapporti tra fascismo e chiesa
cattolica, che Evola aveva pubblicato in Critica fascista di BOTTAI (si veda) e
in Vita Nova d’ARPINATI (si veda), e la successiva comparsa di Imperialismo
pagano, che quegli articoli raccoglieva e sviluppava, riversarono proprio
sul Gruppo di Ur pesanti attacchi clericali, fra cui è interessante
segnalare quello particolarmente violento e ambiguo, del futuro papa
Paolo VI, MONTINI, allora assistente centrale ecclesiastico della Federazione
Universitari Cattolici Italiani, che aveva come organo culturale la
rivista Studium (redazione a Roma e a Brescia). Dalle pagine di
«Studium» il Montini accusava i maghi riuniti attorno a Evola d’abuso di
pensiero e di parola di aberrazioni retoriche, di rievocazioni fanatiche e di
superstiziose magie. G.B.M., Filosofia: una nuova rivista, Studium. Oltre che
del futuro Paolo VI (certamente il più nefasto fra i papi), apparvero in
Studium anche gli attacchi del futuro ministro democristiano del
dopoguerra Gonella {Un difensore del paganesimo; Il nuovo colpo di testa di un
filosofo pagano), cui Evola replica — dopo averlo definito un tale il cui
nome esprime felicemente che vesti gli si confacciano più che non quelle
della romana virilità — nell’Appendice Polemica di Imperialismo pagano.
Contro Imperialismo pagano (le nostre citazioni sono tratte dalla
ristampa, presso Ar di Padova) si scomodò tuttoe l’ntourage del
giornalismo clericale, dall’Osservatore Romano a L’Avvenire, Imperialismo
pagano fu l’ultimo deciso, inequivocabile e tragico appello da parte di
esponenti della corrente tradizionalista romana, prima del triste
compromesso del Concordato, affinché il fascismo, come si esprimeva
Evola, «cominciasse ad assumere la romanità integralmente e a permearne
tutta la coscienza nazionale», così che il terreno fosse «pronto per
comprendere e realizzare ciò che, nella gerarchia delle classi e degli
esseri, sta più su: per comprendere e realizzare il lato sacro,
spirituale, iniziatico della tradizione. A questo scopo Evola non
risparmia taglienti critiche alle gerarchie del Regime. Il fascismo è
sorto dal basso, da esigenze confuse e da forze brute scatenate dalla
guerra europea. Il fascismo si è alimentato di compromessi, si è
alimentato di retorica, si è alimentato di piccole ambizioni di piccole
persone. L’organismo statale che ha costituito è spesso incerto,
maldestro, violento, non libero, non scevro da equivoci. Di più: Evola prevede
addirittura gli al Cittadino di Genova, nonché tutta la pubblicistica
fascista fautrice dell’intesa col Vaticano, d’Educazione fascista a
Bibliografia fascista, sino alla stessa bottaiana Critica fascista che aveva
ospitato i primi articoli evoliani.] esiti e gli sviluppi della Seconda
Guerra Mondiale. L’Inghilterra e l’America, focolari temibili dei
pericolo europeo, dovrebbero essere le prime ad essere stroncate, ma non
occorre di certo spendere troppe parole per mostrare che esito avrebbe
una simiie avventura sulla base dell’attuale stato di fatto. Data la
meccanizzazione della guerra moderna, le sue possibilità si compenetrano
strettamente con la potenza industriale ed economica delle grandi
nazioni. Era dunque necessario che il fascismo, che bene o male ha messo
su un corpo. Ma non ha ancora un'anima, si rivolgesse senza esitazioni
a quella della Roma precristiana prima che fosse troppo tardi, sì da
«eleggere l'Aquila e il fascio e non le due chiavi e la mitria a simbolo
della sua rivoluzione. Il nostro divino italiano può essere quello
aristocratico dei Romani, il divino dei patrizi, che si prega in piedi
e a fronte alta, e che si porta alla testa delle legioni vittoriose
— non il patrono dei miserabili e degli afflitti che si implora ai piedi
del crocifisso, nella disfatta di tutto il proprio animo. Il governo di MUSSOLINI
firma a nome del Re d’Italia, considerato dai papi un «usurpatore», il
cosiddetto Coneordato con la Chiesa Cattolica e nasce il monstrum
giuri- [Che il cosiddetto Concordato abbia sortito un effetto a dir
poco nefasto sulle sorti, non solo dello stesso fascismo (come le vicende
stori- dico della Citta del
Vaticano. Veniva con ciò tolta ogni speranza residua di azione
all’interno degli’ambienti ufficiali, sia da parte di Evola che di R. e di
altri autorevoli esponenti, restati per lo più in ombra, del
«tradizionalismo romano»: alcuni di loro, come già si è accennato in
nota, abbandonarono per sempre l’Italia per il Nuovo Continente nel corso
degli anni Trenta. Resta il programma minimo indicato ancora d’Evola
in Imperialismo pagano, secondo cui il fascismo avrebbe dovuto: promuovere
studi di critica e di storia, non partigiana, ma fredda, chirurgica,
sull’essenza del cristianesimo. Contemporaneamente dovrebbe promuovere
studi, ricerche, divulgazioni sopra il lato spirituale della paganità,
sopra la sua visione vera della vita] che successive ben presto
dimostrarono, avvalorando i timori di R. e di Evola), ma della stessa Italia
del dopoguerra, lo sperimentiamo ancora oggi sulla nostra pelle, dopo che un
quarantennale dominio clericale-borghese ha provveduto, quasi in ogni
campo, ad addormentare la coscienza delle «masse» ed a stroncare, con un
autentico terrorismo di stato, qualsiasi velleità di reazione delle minoranze
coscienti della necessità di mutare uno stato di cose ormai
incancrenito. MUSSOLINI non si e reso conto che prima di lui uomini non
solo autoritari, ma dal potere assoluto — gl’Ottoni, gli Svevi, perfino
Carlo V ecc. — si erano dovuti pentire di ogni intesa, patto e transazione con
la Santa Sede.] ogni intesa tra Santa Sede e Stato italiano avrebbe
significato unicamente il riconoscimento giuridico della validità [Chi
avesse pensato che la scuola di mistica fascista, fondata significativamente
poco dopo la conciliazione nell’ambito del G.U.F. di Milano per
opera di GIANI (si veda), avrebbe svolto una funzione del genere, avrebbe
dovuto ben presto ricredersi amaramente. In realtà, il sentimento
religioso dichiarato di quella che avrebbe voluto costituire Vélite
politico-intellettuale del fascismo si configura con precisione come
cattolico. Lo dichiara, in una maniera che non potrebbe essere più
esplicita, lo stesso fratello del duce, MUSSOLINI (A), in un discorso tenuto
alla Scuola. La nostra esistenza deve essere inquadrata in una marcia
solida che sente la collaborazione della gente generosa e audace, che
obbedisce al comando e tiene gli occhi fissi in alto, perché ogni cosa
nostra, vicina o lontana, piccola o grande, contingente od eterna, nasce e
finisce in Dio. E non parlo qui del Dio generico che si chiama talvolta
per sminuirlo Infinito, Cosmo, Essenza, ma di Dio nostro Signore,
creatore del cielo e della terra, e del suo Figliolo che un giorno
premierà nei regni ultraterreni le nostre poche virtù e perdonerà,
speriamo, i molti difetti legati alle vicende della nostra esistenza terrena.] dei
principii su cui si fonda l’ingerenza della Chiesa nelle questioni dello stato
italiano (SERVENTI, Dal potere temporale alla repubblica conciliare.
Volpe, Roma. Cfr. Il Popolo d’Italia] Sulla scuola di mistica fascista, si
veda: MARCHESINI, La scuola dei gerarchi, Feltrinelli, Milano. E CARLINI
(si veda), discutendo della nuova mistica, ravvisa la nota più originale
del fascismo proprio nel suo presupposto religioso, anzi cristiano, anzi
cattolico; perché il DIVINO di MUSSOLINI vuol essere quello definito dai
due dogmi fondamentali della nostra religione: il dogma trinitario
e quello cristologico. Quel programma che abbiamo detto minimo cerca
Evola in parte di compiere con l’organizzare il lavoro di alcuni suoi
insigni collaboratori attorno al diorama filosofico, la pagina speciale
che, con uscita irregolare e alterna, quindicinale e mensile, cura all’interno
del quotidiano cremonese di Farinacci, Il Regime Fascista. La tematica della
tradizione romana, esaminata nei suo simboli, nei suoi miti, nella sua
forza spirituale, ritorna qui frequentemente negli scritti dello stesso Evola,
di COSTA (si veda), di SCALIGERO (si veda) e di diversi collaboratori
stranieri, come Dodsworth, appartenente alla famiglia reale britannica) e lo
storico tedesco Altheim. Analoghe collaborazioni sono fornite da BRELICH
(si veda), destinato a ricoprire degnamente l’impor- [CARLINI, Mistica
fascista, Archivio di studi corporativi, Saggio sul pensiero filosofico e
religoso del fascismo, Roma] tante cattedra, che e di PETTAZZONI (si veda)i, di
Storia delle Religioni a Roma, e da GIORGIO (si veda), già collaboratore
di’Ur e di altre iniziative evoliane. Nel contesto della corrente da noi
definita del tradizionalismo romano GIORGIO (si veda) occupa una posizione
piuttosto anomala e tale che il Reghini avrebbe visto con sospetto: egli
infatti concepisce in Roma la sede eterna, geografica e storica, ma
soprattutto metafisica, in grado di unire in sé stessa la religione pagana
e il cristianesimo, tesi elaborata soprattutto ne La tradizione romana. D’altra
parte, è lo stesso De Giorgio a ribadire con sorprendente sicurezza
la persistenza del culto di Vesta in un misterioso cen¬ tro,
nascosto e inaccessibile. Il fuoco di Vesta arde inaccessibilmente nel
Tempio nascosto ove nessuno sguardo profano sa- [L’uscita alle stampe di
questa edizione (presentata come Flamen, Milano) offre contorni alquanto
misteriosi. In ogni caso, il manoscritto dell’opera sarebbe stato
consegnato all’autore della nota introduttiva, ASILAS -- che
corrisponderebbe ad uno degli ispiratori del gruppo dei Dioscuri e nel
contempo autore di due dei fascicoli omonimi, da un antico componente del
Gruppo di Ur, che noi sappiamo corrispondere al TAURULUS, cioè Reginelli.
L’uscita della Tradizione romana, in ogni modo, è stata 1 ’occasione per
una salutare riflessione sul tema da parte dell’ambiente tradizionalista nella
prima metà degli anni Settanta, sia da parte cattolica (si vedano il bollettino
Il rogo, e la successiva rivista
Excalibur, sia da parte propriamente «pagana» (si veda la nostra recensione
dell’opera di GIORGIO (si veda), confortata da un parere di Evola, in
Arthos: essenziale come punto di ripresa del discorso sulle origini della
tradizione romana). prebbe penetrare e a lui deve l’Europa intera la
sua vita e il prolungamento della sua agonia. Da questo fuoco
occulto partono scintille che alimentano le crisi e risollevano
periodicamente l’esigenza del ritorno alla romanità attraverso le varie vicende
di cui s’intesse la storia delle nazioni europee considerata
geneticamente, internamente e non sul piano li mitatissimo della contingenza
dei fatti e degli uomini. Queir immane conflitto, già previsto da Evola,
e che anche GIORGIO giudica del tutto inefficace, se non addirittura
letale per lo spirito e il nome di Roma, avrà in effetti come
risultato più manifesto, per i fini dello studio che qui andiamo
conducendo, di occultare del tutto le fila della corrente di pensiero di
cui siamo andati ripercorrendo la trama. Solo piu tarde è proprio la
ristampa dell’evoliano imperialismo pagano (e la scelta pare
significativa), curata dal Centro studi ordine nuovo di Messina, a tentare
GIORGIO. L’edizione, ciclostilata, con copertina stampata in azzurro,
venne tolta subito dalla circolazione in quanto non autorizzata da Evola:
la si può considerare oggi una vera rarità bibliografica] di riannodare i
termini di un antico discorso: «L’angoscioso grido d’allarme
rivolto dall’autore a MUSSOLINI per metterlo in guardia contro il
ventilato proposito della cosiddetta conciliazione si afferma nell’anonima introduzione — risuona
oggi con inusitata attualità e fa si che Imperialismo pagano venga guardato
come un oracolo. Ed è proprio provenendo dalle fila di ordine nuovo,
un’organizzazione che lo stesso Evola ha tenuto in buona considerazione —
almeno fino a che la sua ala borghese-modernista, condotta da Rauti, non
confluì nel MSI che comincia ad
agire, tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta, il
Gruppo dei Dioscuri, con sede principale a Roma e dirama¬ zioni a
Napoli e Messina. Pare assodato che all’interno del Gruppo dei Dioscuri
venissero riprese [Cfr. EVOLA, Il cammino del cinabro. L’unico
gruppo che dottrinalmente ha tenuto fermo senza scendere in compromessi è
quello che si è chiamato AeWOrdine Nuovo. L’interesse dei «tradizionalisti
romani» nei confronti di «Ordine Nuovo» si esaurisce sin dall’inizio
degli anni Settanta, allorché, da una parte, la frazione rautiana
rientrata nei ranghi del MSI si isterilì in fatui ed estenuanti giochi di
potere (!?) all’interno del partito e in declamazioni
populistico-giovanilistiche (non a caso la cosiddetta nuova destra
proviene quasi esclusivamente da quell’ambiente torpido ed ambiguamente
compromissorio), dall’altra, la frazione movimentista ed extraparlamentare
condotta d’Oraziani ed altri si smarrì nelle velleità inconcludenti e
pericolose della lotta di popolo, con conseguente ed inevitabile suo
annientamento da parte del Potere vero.] tematiche e pratiche operative già in
uso nel gruppo di Ur ed è perlomeno probabile che lo stesso Evola ne
fosse al corrente. Fatto sta che nei Fascicoli dei Dioscuri, usciti
in quel torno di tempo, l’idea di Roma da una parte e di un Centro
nascosto dall’altra, a cui il tradizionalismo dovrebbe far riferimento,
ritornano con grande evidenza. Per l’anonimo autore del primo
Fascicolo dei Dioscuri, intitolato Rivoluzione tradizionale e sovversione
(Centro di Ordine Nuovo, Roma), il più grande dei meriti di Evola è
quello: «di avere rammentato il destino di Roma quale
portatrice dell’Impero Sacro Universale e di avere tratto da tale verità
le necessarie conseguenze in ordine alle idee-forza che devono essere
mobilitate per una vera rivoluzione tradizionale. Qualche anno dopo, al
termine del Fascicolo intitolato Impeto della vera cultura (tradotto poi
anche in francese), il mito di Roma viene additato come l’unico che sia in
grado di condur¬ re ad una superiore unità gli sforzi di tutti i tradizionalisti
italiani: a tutti i tradizionalisti, anziché proporre uno dei tanti
miti soggetti a rapido e facile logoramento, si può ricordare la presenza
di una forza spirituale perennemente viva e operante, quella stessa che
il mondo classico ed il medio-evo definirono l’ÆTERNITAS ROMÆ. Il Gruppo
dei Dioscuri ha notevole importanza come cosciente riconnessione alle
precedenti esperienze sapienziali e come indicazione, per taluni
elementi particolarmente sensibili dell’area della de¬ stra radicale, di
possibili indirizzi e sbocchi futuri del tradizionalismo romano, anche se
la partico¬ lare via operativa scelta e, soprattutto, la mancata
qualificazione di taluni componenti, porterà ben presto alla distruzione
dall’interno del Gruppo stesso, di cui non si sentirà più parlare già prima
della metà degli anni Settanta (ci viene detto che frange disperse
del gruppo continuerebbero a sussistere so¬ prattutto a Napoli). È
tuttavia da supporre che alcu¬ ni dei gruppi periferici, sia pure
trasformati, ne abbiano continuato il retaggio se, ad esempio, a Messina, molto
probabilmente nell’ambito di alcuni dei vecchi membri del «Gruppo dei Dioscuri»
viene elaborato un testo dottrinale ed operativo, a circolazione interna,
sotto forma di «lezioni» di un maestro a un discepolo, piuttosto
interessante. La via romana degli dèi. Diremo anzitutto dell’essenza
della tua religiosità, fornendo alla tua mente profonda gli argomenti per una
serie di esercizi di meditazione affinché con saldo cuore, tu possa
prepararti all’assolvimento del rito [La via romana degli dèi. Istituto di
Psicologia Superiore Operativa, Messina. E certamente non priva di
connessioni genetiche col gruppo romano appare la sortita,
improvvisa, verso la fine degli anni Settanta, nella stessa Messi¬
na, del «Gruppo Arx», successivamente editore del periodico «La
Cittadella» e degli omonimi quader¬ ni, in cui senza alcuna attenuazione
i possibili itinerari di approccio alla «via romana degli dèi» sono
indicati attraverso la cosciente riappropriazione del- Vanimus
romano-italico, rivissuto nel rito stesso, e nel rigetto, sostanziale e
formale, di ogni adesione a forme anche esteriori del culto
cristiano. Quanto segue è storia dei nostri giorni, dal mo¬ mento
che proprio con l’inizio degli anni Ottanta vi è stata una nuova
cosciente ripresa del moderno «movimento tradizionalista romano», una cui
rimanifestazione pubblica si estrinsicherà in una data ed in un luogo
alquanto significativi. Infatti nella data in cui iniziava l’anno sacro
romano, a Cortona, donde in epoca primordiale Dardano, figlio di Giove,
si sarebbe mosso alla volta della Troade, si tenne un importante Convegno
di studi sulla tradizione itala, che, a [Gli’atti sono stati
pubblicati nel numero speciale triplo d’Arthos dall’omonimo titolo. Per una
sintetica analisi sulla diversa valenza del termine “italo” nei vari
interventi, cfr. PONTE, Che cos’è la tradizione itala, Vie della Tradizione] parte
l’emergenza di differenti prese di posizone dei tradizionalisti presenti,
ebbe il merito di riproporre la questione — non puramente dottrinale o
formale — di una cosciente riconnessione all’aurea catena Saturni
della tradizione indigena da parte di chi, pur in quest’epoca di totale
dissoluzione di ogni valore, intenda coscientemente riassumere il fardello
delle proprie radici etniche e spirituali. Successivamente ad un
nuovo Convegno, tenutosi a Messina, sul Sacro in VIRGILIO (si veda), la
rielaborazione dottrinale e la ridefinizione concettuale dei valori
difesi dagli attuali esponenti del tradizionalismo romano (di cui è parte
cospicua anche l’apparire alle stampe di alcune collane di libri
specifiche) si è spostata su un piano più interiore, ma la loro presenza
è destinata a riaffiorare a livello di influen¬ za sottile e indiretta di
gruppi o ambienti eticamente sensibili di un’area superante i limiti
stessi del mon¬ do della «destra politica». Il futuro
dimostrerà se la funzione di questa mi¬ noranza (ben cosciente di
esserlo) si limiterà ad una [Gli Atti sono stati pubblicati in buona parte
nel numero speciale di «Arthos» n. 20 (uscito successivamente al n.
22-24), daH’omonimo titolo. Ci limiteremo a ricordare la collana «1
Dioscuri» per le ECIG di Genova, in cui figurano L’oltretomba dei pagani
di C. Pascal, il mio Dèi e miti italici. La religiosità arcaica dell
’Eliade di N. D’Anna e Arcana Urbis di M. Baistrocchi (in stampa); o quella di
«Studi Pagani» del Basilisco di Genova, in cui sono comparsi testi di
antichi (Giuliano Augusto, Giamblico, Simmaco, Porfirio) e di moderni (Guidi,
De Angelis, Beghini, Evola ecc.). pura e semplice azione di
testimonianza, sia pure «scomoda» per molte cattive coscienze. Il mito
capacitante di Roma, come l’antica fenice, è destina¬ to a risorgere
continuamente dalle sue ceneri, poiché riposa nella mente feconda degli
dèi archegeti di questa terra. Il Piccolo» di Roma, Il fascio
littorio a Mussolini. Presentata dall’esimia prof.a Regina Terrazzi, e
dall’on. Mussolini ricevuta la dott.a prof.a Cesarina Ribulsi, che
offriva al Presidente del Consiglio come augurio un fascio littorio da lei
esattamente ricostruito secondo le indicazioni storiche e
iconografiche. L’ascia di bronzo è proveniente da una tomba
etrusca bimillenaria ed ha la forma sacra col foro per la legatura al
manico: alcuni esemplari simili so¬ no conservati nel nostro Museo
Kircheriano. Le dodici verghe di betulla, secondo la prescrizione rituale,
sono legate con stringhe di cuoio rosso che formano al sommo un cappio
per poter appendere il fascio, come nel bassorilievo per la scala del
Palazzo Capitolino dei conservatori. Il fascio ricomposto con
elementi antichissimi e nuovissimi è stato offerto al Duce come simbolo
della sua opera organica di ricostruzione dei valori del¬ la nostra
stirpe allacciando le vetuste origini alle forme più vibranti dell’attività
gagliarda e rinnovata che prende le mosse. La rudezza
espressiva del Fascio è ingentilita dal contrasto tra il verde della
patina bronzea e il rosso del cuoio che ricorda la stessa armonica
tonalità che producono le colonne di porfido presso la porta di
bronzo àcWheroon di Romolo, figlio di Massenzio, al foro romano. L’offerta
era accompagnata da una epigrafe latina dedicatoria composta
dall’offerente, la quale nell’università popolare fascista svolge una
fervida opera di propaganda di romanità viva. Il Duce gradì
l’augurio ed il voto accogliendoli colla sua consueta serena nobiltà, non
senza un segno della vivacità del sorridente suo spirito latino: «Lei mi
ha dato una lezione di storia» — osserva in tono scherzoso. Singolari
parole in bocca di chi dà e darà non poco a fare agli storici
futuri. (La notizia è riportata in una rubrica dedicata a «I
solenni riti del XXIV Maggio», senza indicazione di paternità). IGNIS,
Rumori. Sacrae Romae origines, tragedia in carmi. Libreria del Littorio,
Roma, dopo il frontespizio. LETTERA DI ARDENGO SOFFICI A S. E. MUSSOLINI.
Mio caro Presidente, permettimi ti dia, scritte e sottoscritte anche da
me, che ne resto garante, al¬ cune prove di pregi eccezionali della
tragedia, che, in fondo, in un vero poema epico delle origini, è
l’esaltazione di oggi della nostra stirpe. Comincio da un mio giudizio,
già a te noto; Rumori è tragedia romana che può stare a paro col Giulio Cesare
di Shakespeare ti fo osservare che il titolo di Poeta di Roma, dato da Jean
Carrère ad ignis, si è dato solo a Virgilio e ad Orazio: Augusto, vive,
oggi, tra noi tutti in ispirito, più per questi due poeti, da lui
protetti, che per la sua politica imperiale. E tu vedi come
Rumori sia stato giudicato, prima ancora che esistessero l’idea e la
forza fascista, tragedia degna di Roma quando competenti — dai nostri a
Carrère, ed a me che sono l’ultimo al giudizio corrono all’iperbolico per
lodare Rumori di ignis bisogna concludere che ci si trova da¬ vanti ad
un’opera d’arte somma, e per fortuna nostra, d’arte italiana — opera che è,
anche per se stessa, di alto significato politico, e di spirito fascista. Mi
rileggo, e mi credo, caro Presidente ed amico carissimo, di averti
scritto una lettera storica. Fai che non sia stata scritta invano, ma
invece il tuo no¬ me vada unito a quello della tragedia Rumori, al
poema di Roma e degno di Roma: e di questo legame in avvenire, spero che tu
possa essere un po’ gra¬ to al tuo affezionato amico e devoto
ARDENGO SOFFICI pag. successiva non numerata: IL
MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI Caro Soffici, bisogna
assolutamente far marciare Rumori. Il governo appoggia fervidissimamente
l’iniziativa perché essa rientra nel grande quadro della rinascita
nazionale. Saluti fascisti e cordialissimi. f.to
MUSSOLINI Roma (Carme terzo): AUGURE Manifesto è dunque:
amor — essere — ROMA. Se tutte move, ed incende, le create cose...
legge si è — Amor — dell’universo vita... così, un tanto Nome, a noi
predice: dono di regno e potestà sovra ogni terra, e dello spirito,
e d’imperio. Confirmato si è, per te, prodigioso il
vaticinio. Non pronunciati mai più sien i Nomi occulti su la Città
terribili chiamerebbero fortune. Li trasmettano, oralmente, i Pontefici ai
Pontefici. Né mai più, tu, l’eccelso pronuncia Nome palese, se
concluso non avrai, prima, il solco sacro. Permesso e commesso mi è:
Nunziare, allora, in gran letizia, al Popolo... quel Nome che
licito non più mi è dire quando, già per tre volte, qui, in tre
diversi suoni, de la gran Madre nostra il Nome risonò.
{Dispiega le dita della sinistra, ad una ad una, per numerare i
significati del nome). Di significati cinque: È’l Nome palese,
latore, con l’occulto. Chiama la Città: Valentia... Ròbure... Virtù! e
ancor: Madre. Mamma. Alma Nutrice! Vostra nei nomi vostri oh Re! suoi
fondatori... Come del grande Rumon: URBE: la Città del Fiume (Pausa) Ammirate!
se gli Dei saputo abbiano addensare, in così breve Verbo, sì pieni...
tanti arcani. Mirifici! donando Nomi nove: in quattro occulti
ed un — Medio — palese, e quando, nove, siamo al Rito. Ili Da:
COSTA, Apologia del paganesimo, Formìggini, Roma. Il pagano è, per definizione,
buono. Né un greco, né un romano avrebbero concepito che l’uomo potesse
esser qualcosa di diverso da ciò, che in lui litigassero per così dire due
nature, che la manifestazione esterna fosse diversa dall’interna, che né nella
vita individuale, né in quella sociale vi fossero mezzi termini,
transazioni, compromessi. Esso è quello che naturalmente è, cioè buono,
come ideale supremo della vita, come dovere, come necessaria
fatalità insita nelle cose umane. Egli vive quindi la vita interamente,
dolorosamente, gioiosamente a un tempo, con un pragmatismo sano e forte
che non ammette ipocrisie, doppiezze, scuse. Solamente all’uomo
cosiddetto moderno è stato concesso, per virtù di dottrine religiose e
culturali che si sono formate a lui d’intorno, una distinzione ed
una separazione del suo essere intimo, spirituale, psicologico, dal suo
essere apparente, esteriore, materiale. All’antico quando di questa scissione
apparve per un momento la possibilità, egli ne cacciò da sé l’idea, ne
biasimò perfino la concezione. La concezione pagana della vita ha fatto
perciò l’uomo tutto d’un pezzo, ne ha affermato il carattere, ne ha
provocato 1 ’azione. Ecco perché la vita nel paganesimo ha avuto tutto il
suo massimo sviluppo ed è stata accettata non come un male, ma come
un bene che bisognava con interezza di carattere vivere interamente
e sanamente per sé e per gli altri. Per stabilire l’equilibrio l’uomo
deve tornare al paganesimo poiché il cristianesimo si è mostrato divina
opera cui le sue spalle non sanno sottostare. Ma paganesimo è sincerità e
l’uomo deve ritornare ad essere sincero. Il cozzo a cui l’ha costretto
per due millenni il suo desiderio di seguire il messaggio cristiano
e la sua manifesta impotenza di non saperlo fare, deve risolversi in armonia se
egli vuol sanare in sé l’eterno dissidio. Lo spirito e la carne
debbono avere il medesimo valore ed il loro prevalere non può essere
determinato che da circostanze speciali di individuo, di momento e di luogo che
l’uomo può intravvedere, non deve violare con convinta testardaggine.
L’equilibrio di queste forze, l’esteriore e l’interiore, quindi, deve essere
nella dottrina, come nella vita, assoluto. Da: Im via romana degli
dèi, ciclostilato anonimo, Messina. L'immagine di un dio è lo stemma
della Forza che essa rappresenta. A tutti i fini pratici tali
immagini sono personae, perché qualsiasi cosa possano essere nella
realtà esse sono state personalizzate e forme di pensiero sono state
proiettate su un altro piano. Alcune di queste immagini e le loro
attribuzioni sono così antiche e sono state costruite con tanta
ricchezza di lavoro sottile da essere capaci di ricostruirsi da se stesse,
durante l’eventuale lavoro di meditazione, che l’allievo può fare su una
divinità. Resta un minimo «invito», un minimo stimolo, perché il
meccanismo scatti e l’immagine si ricompon¬ ga, sia pure su un piano
semplicemente psichico. Così, della limatura di ferro, dispersa su un
piano, si raccoglie intorno ad un magnete che venga posto in mezzo.
Se il magnete è forte esso attirerà i granelli anche se essi sono pochi e
molto distanti. AMKDKO R(K ( ARMKM ANO (im - da
«Ygieia», Piscio littorio a
Mussolini n florno If »cor*o. pr^eniaU dalla tsl- bjU prof.»
Rcidna Trmiizl. fa rtalTon. Maa. aOltnl rlotwta la doti.» pmf.» Osarina
RI- baiai cba offriva al Proatdanta dr’. Contiguo romo aufurln la data
de) Mabfio «n falcio littorio da lei eaattamcDte licoatndto lecoudo la
lodicaslonl atorictie e leooograflclia. l.‘aicla di bronra k prorenlenU
dm aoa tomba etmaca hlmtneoarta ed ba la forma aorra eoi foro per
la Vantura hi manico: alcool eaamplan slmili sono coosenrat: il nostro
Ma.*«o Klrcberiamo. é La dodict verace di l>ctulla. ascondo
la prescrizione rit'iale. sono legala con tirisele ^ cuoio rosso cba
formano al tonimo ua cappio per poter appendere fi fascio, conta
nel ba.MorUiero per la acala del Pa lazzo Capitolino dd
Conaenalori. Il Fascio ricomposto con elementi antl- fhlHilmt
a nuoTltaUnl k stato offerto al Dora come simbolo della saa opera
onra- ntea di rieoatruztona del valori della no- Mra attrpa
allacciando le veia«ie origini alla fonn* più vibranti dell'attività
ga- giarda a rinnovata cha prendo la mosse ^ XXIY Maggio 19t8
Là rudezza espressiva dal Fascio è in- gantlHta dal contrasto tra (I
verde della patind bronsea e U rosso del molo che ri¬ corda la
stes.aa armonica tonalità che pm- doeono le colonne di porfido presso la
por¬ ta di bronzo deD'brroon di Itomdlo, figlio 41 Massenzio al
Foro Romano. L'oflerla efa accompagnata da ani epl- graia
latina dedicatoria composta dall'or- farente. la quale nell'UntvcnUtà
Popolare faartsta avolga una fervida opera di pro- pafgada di
romani Ih viva. n Duca gradi raugorto a fi voto acro-
Mlaodoll colla sua consueta serena nobiltà. 2«m senza tm segno della
vivacità del sor> ridaots ano spirito latino: • Let mi ba dato
nna testone di storia • — osservò In tono aehanoao. Btngolart parole In
bocca di r.hl db a darà non poca a fare agli storici fu- tnrl
Riproduzione da «11 Piccolo». V. pag. 55. 65 Arturo
Reghini. Reghini. Keywords: implicature, il fascio etrusco, scuola di Crotone, il
fascio littorio, simbolismo duodecimale, Cuoco, il fascio etrusco – Pitagora
dell’Etruria, Evola, numero tri-angolare, numero qua-drato, numero pi-ramidale,
la logica del numero – il concetto di numero in Frege – Austin, Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Reghini” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Regina: la ragione
conversazionale dell’esse e dell’inter-esse, o degl’uomini complementari, la potenza
e il valore – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sabbioneta). Filosofo italiano. Sabbioneta, Mantova, Lombardia. Grice: “When Urmson said that for Prichard,
duty cashed out in interest, he was right! But we must wait for Regina to
emphasise Kierkegaard’s punning on interest – which literally means, ‘being in
between’! The interesting (sic) thing is that Kierkegaard exploits the old
Roman aequi-vocation between the alethic (being in between) and the practical
(Prichard, ‘duty as interest’). Studia
a Milano sotto SEVERINO, laureandosi con una tesi su Lavelle e Heidegger. Insegna
a Macerata, Verona, e Cagliari. Progetto «Tempus», relativo all'organizzazione
presso Sarajevo e Mostar di un master sulla tolleranza religiosa. Saggi: “Ripresa,
pentimento, perdono” (Verona); “L'essere umano come rapporto: l’antropologia filosofica
e teologica di Kierkegaard.” Forum, Conferenza Episcopale Italiana, Progetto
culturale della Chiesa. Insegna a Verona. Si basa su Kierkegaard, Nietzsche e Heidegger (“the
greatest living philosopher” – Grice). In Heidegger evidenzia l'importanza del ruolo sapienziale assegnato alla
finitezza dell'uomo. In Kierkegaard vede invece da cui partire per costruire
una ontologia e una antropo-logia basate su una concezione dell'essere: l'esse
come “inter-esse.” L'essere come inter-esse -- nella doppia valenza ontologica
ed etica -- pone il pensante in rapporto con un'ulteriorità che, nel
trascenderlo, ne accentua e personalizza il differire. La metafisica fondata
sull’ “inter-esse” cessa di essere onto-teologia, ossia nient'altro che
proiezione idola-trica della logica umana.
Sarajevo; “Dal nichilismo alla dignità dell'uomo” (Vita e Pensiero,
Milano); “Esistenza e sacro” (Morcelliana, Brescia); “L'arte dell'esistere” (Morcelliana,
Brescia); Romera, “Acta Philosophica”, recensione a Noi eredi dei cristiani e
dei Greci (Poligrafo, Padova). Il termine è stato acquisito da Heidegger. “Gesù e la filosofia” (Morcelliana,
Brescia); “L'uomo complementare: potenza e valore” (Morcelliana, Brescia);
“Servire l'essere” (Morcelliana, Brescia); “La differenza viva: per una nuova
concettualità” (Sentiero, Verona); “Noi eredi dei Greci” (Il Poligrafo,
Padova); “La soglia della fede: la domanda su Dio” (Studium, Roma); “L'arte
dell'esistere” (Morcelliana, Brescia). Umberto Regina. Regina. Keywords: uomini
complementari – potenza e valore, essere ed interesse, esse ed interesse, Heidegger
(? – il termino, acquisito da Heidegger), Prichard, duty and interest, Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Regina” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Renda – the power
structure of the soul – la struttura di potere dell’anima -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Prego di perdonare qualche omissione. Una sopratutto debbo
segnalarne: quella del nome di Antonio Renda che per la finezza dei suoi studii
di psicodissociazione psicologica, Torino; Le passioni, Torino; L oblio, Torino),
è tra i migliori positivisti. Nella seconda fase del suo pensiero il Renda si è
accostato all’idealismo assoluto e alla filosofia dell’azione del Blondel col
suo libro La validità della religione, Città di Castello. Prego di perdonare qualche omissione. Una sopratutto
debbo segnalarne: quella del nome di RENDA (si veda) che per la finezza dei
suoi studii di psico- dissociazione psicologica, Torino; Le passioni, Torino; L
oblio, Torino, è tra i migliori positivisti. Nella seconda fase del suo
pensiero Renda si è accostato all’idealismo assoluto e alla filosofia
dell’azione di Blondel col suo libro La validità della religione. LE PASSIONI DEL
MEDESIMO AUTORE. Del fattore religioso nella vita e nétte opere di T,
Tasso Caserta, Tip. sociale, L^ideazione geniale. Un
esempio : A. Comte — Con prefazione di
C. Lombroso — Torino, Bocca, 1 La
questione meridionale. Inchiesta — Palermo,
Sandron, — n pensiero mistico — Palermo, Sandron, — n
destino delle dinastie. L'eredità morbosa nella storia — Torino, Bocca, La
dissociazione psicologica — Torino, Bocca, Psicologia Shakespeariana (dalla ''
Rivista Abruzzese,) — Teramo, 1895. Folie criminélle en Calabre — Rapporto al V
Congr. Intern. D’Antrop. Crimin. (in
collaborazione con Sqnillace) Amsterdam.
Le pazzie sociali (dalla ' Rivista di Filosofia,) Bologna,
Agli albori della psicopatologia (dalla '^ Gazzetta Giudiziaria,) Catanzaro, La nostalgia (dalla ' Rivista di
Psicologia,) Bologna, LE PASSIONI TORINO BOCCA, EDITORI UILAKO • BOBA - nsENSEB colta intellettuali, febbre intermittente.
In \ tutte sono frequenti le insonnie,
la denutrizione, le dispepsie, turbamenti vasomotori, ecc. Le malattie
medesime, che tengono dietro a certe passioni, non sono forse, più che
effetto di esse, sviluppo di alterazioni
fisiologiche ed anatomiche, che
coesistevano all'abnorme attività passionale?
Altrettanto può dirsi dell' anatomo-patologia delle passioni.
Qualcheduno a creduto di poter additare lesioni anatomiche nei nostalgici (Larrey, Bógin, Haspel);
ma si è osservato all' incontro che esse
erano fatti secondari, oppure che erano
da attribuirsi ad altre malattie (Benoist de la Grandière). Documento indiretto
dell'esistenza di lesioni anatomiche
nelle passioni può essere l'autopsia dei
suicidi, che sono per tre quarti dei
passionah. Vi accenniamo. Sopra 544
cadaveri studiati nel Wurtemberg si sono
riscontrati 265 volte (45*^/0) lesioni del
cervello e delle membrane; 98 volte (16°/o) lesioni degh altri organi; fra le prime predomiaavano
la menengite cronica, le aderenze della pia alla sostanza grigia,
l'ascroma delle arterie, la varicosità
delle vene, l'iporostasi endocranica; fra le altre, posizione anormale degh intestini e dello stomaco, tumori
addominah, degenerazioni del fegato, poi
ancora malattie genito-urinarie, e da
ultimo cardiopatie (Morselli).
In altri casi furono trovati: ipertrofia del ventricolo sinistro, aracnoide diffusa, divisione
della circonvoluzione frontale media,
sclerosi eburnee, ecc. (Tane, Pawloski). Quasi tutti gli omicidi-suicidi — condotti al
triste proposito dalla violenza d'una
passione — studiati dal Casper, dal
Krafft-Ebing, dal Berti, avevano
presentato durante la vita affezioni
cardiache ed epatiche. Non trascurabile
ci pare il fatto che agli stati
passionah si accompagnano fatti psichici morbosi e vere e proprie
psicopatie. Abbiamo già visto qualche
esempio di illusioni e di allucinazioni. Non infrequenti sono le fobie e le ossessioni. L'Antonini à
studiata l'azione delle idee ossessive
nell'amore. Ma ogni passione è, dal
punto di vista conoscitivo e affettivo, ricca di idee ossessive, con le quah spesso si può confondere.
Sentite quale specie di fascino dominava
l'animo d'un giuocatore, il Durand :
" Per me le carte erano sirene: la
vista d'un fante di cuore mi faceva un
senso magico, mi «ra più dilettevole di qualsiasi pittura. Quando più ardeva il
giuoco, io, stringendomi la mano sopra
il cuore, me lo sentiva tentennare di
ansietà; e se la sorte mi andava avversa, io, senza averne sentore, mi trovavo
d'essermi confìtto le unghie entro la
carne viva „. H simbohsmo, che è tanta
parte dell'espressione artistica dei fatti passionali, e l'antropomorflsmo,
sono anche sintomi d'una abnorme
attività mentale (Nordau). Aggiungiamo lo stato continuo doloroso (psicalgie) e
quello abbandono alla tristezza, quel
compiacersi di fermare quasi il dolore,
di tener sempre aperta la piaga, di
abbandonarsi alla depressione melanconica, che si riscontra in tutte le passioni, e avremo un altro gruppo di
fatti che ne attestano TanormaUtà. Ve poi non solo un rapporto generico
tra passione e foUia, ma delle
colleganze speciah, di cui ci occuperemo nel capitolo seguente, che attestano
esservi un fondo comune ai due ordini di fatti. Vediamo la gelosia apparire, nella sua forma più
schiettamente morbosa, per
l'intossicazione alcoohca. I casi sono
frequenti : nel manuale di psicopatologia
del Krafft-Ebing se ne trovano parecchi.
Spesso essa è concomitante a mania persecutoria, e in ogni modo offre
sintomi così comuni, che la pazzia
gelosa fu generalmente ritenuta una
forma di delirio persecutorio, n Venturi
ed il Pellegrini da poco anno tentato di dare al delirio geloso
un'individuahtà clinica a parte. Nel
nostro saggio psicopatologico sulle famighe reaU abbiamo riscontrato tale
concomitanza in molti casi: Giovanna la Pazza, malinconica e gelosa, il
figlio Carlo V, Enrico IV di Lancaster,
manìa di persecuzione e gelosia, Enrico VII idem, Elisabetta e Maria,
malinconiche e gelose. In un caso da noi
pubblicato, la nostalgia si manifestava su un fondo persecutorio. L'amore si mostra connesso con misticismo
morboso. L'odio, il giuoco con la
criminalità e la follia morale. Nell'insieme abbiamo una serie di fatti
che distinguono le passioni, anzi
meglio, la personalità passionale da quella normale; mancanza di utilità,
alterazioni dei dati psichici e dei
principali processi, manifestazioni morbose che l'accompagnano, malattie
organiche e mentah che ne formano
l'esito frequente. Vi è più d'una
distinzione; v'è la prova che ci troviamo
in presenza di un processo morboso e che
l' analogia tra passione e mlattie
mentah, intravista anche da osservatori antichi (Zenone, Ippocrate, Platone, Galeno)
e riconfermata, sebbene indeterminatamente, dai psichiatri (Lélut, Trólat,
Moreau, Maudsley e molti contemporanei),
è un fatto. Resta a vedere che valore
abbia la morbosità passionale, qual posto debba occupare nel quadro triste dei fatti psicopatologici. Bisogna
distinguere tre gruppi di fatti psichici affini: momenti passionali,
psicopatie passionali, passioni vere e
proprie. Per quanto le passioni non
siano tali fatti che possano attuarsi in
ogni personahtà, come avviene invece per
le emozioni, per i desideri, per le volizioni, ecc., nondimeno la storia di ogni coscienza offre esempi di atteggiamenti
passionali, rapidi, superati senza che
Tattività psichica abbia assunta l'orientazione necessaria a costituire una passione. Un
morso acuto di gelosia, un breve Hvore
d'invidia, il fascino transitorio d'un
tappeto verde, la carezza triste d'un
pensiero nostalgico, un raptus amoroso,
una fiammata d'odio, la lusinga d'un sogno ambizioso s'insinuano nella placida corrente dei nostri pensieri e
dei nostri sentimenti, improvvisi e
passeggieri come emozioni, e ne
arrestano per poco il córso, o per poco
lo deviano verso altre direzioni. Sono spunti passionali, che non vanno confusi con le passioni. Sono oscillazioni
della personalità, alle quali manca la
forza di trasformarla e di alterarla. Non abbiamo forse del pari nella coscienza normale fobie passeggiere,
fugaci idee impulsive, istanti di
abbandono a pensieri di ingiuste persecuzioni subite o a scrupoK irragionevoli ? Non
siamo forse talvolta tormentati da un
ritmo musicale, da una frase sorta improvvisamente nella nostra coscienza e che vi permane automaticamente
? Non per ciò ci troviamo in presenza
della follia del dubbio, della mania di
persecuzione, del delirio malinconico, delle
idee incoercibih. Per ciò questi
albori di passioni, che illuminano per poco della loro luce l'orizzonte della coscienza normale, non sono i fatti
dei quah vogliamo cercare il posto in
mezzo ai processi morbosi dello
spirito. n secondo gruppo, che con
espressione assai larga diciamo delle
psicopatie passionah, abbraccia quei fatti che si distiuguono dalle passioni per la loro natura più schiettamente
morbosa, si che sembrano forme speciali
delle ordinarie malattie dello spirito,
psicopatie che polarizzano la loro attività in un circolo di rappresentazioni e di
affetti, in modo da assumere la
fìsonomia di un fatto passionale
esagerato. Anzi è opportuno notare che accanto alle passioni, che per noi costituiscono la forma tipica di tale serie
di fatti, c'è una serie di forme
corrispondenti, più chiaramente morbose.
In queste l'automatismo associativo è dehrio, le illusioni divengono
allucinazioni, l'incoercibihtà psichica
è al suo massimo, l'esito è sicuramente fatale, la passione ahmenta sé
stessa con U contenuto e U processo di
altre morbosità spirituali concomitanti.
Notiamo accanto alla gelosia la foUia
gelosa o il cosi detto delirio
dell'infedeltà com'ugale ; accanto all'odio la vendetta criminale; accanto all'avarizia ordinaria
quella folle e dehttuosa di Fihppo IV e
Fihppo VI di Francia, per esempio; accanto aUa passione collezionistica la
cleptomania ; accanto all'ambizione l'ambiziosa criminahtà di Riccardo HI. Tale
distinzione però serve a distinguere
empiricamente due gruppi di fatti assai affini. I caratteri differenziah
non ci pare si possano riportare a
differenza di natura, e le
manifestazioni tanto chiaramente morbose forse si debbono attribuire a fatti
estrinseci, al dinamismo della passione,
a resistenze o a caratteri speciali
dell'ambiente, a una differente valutazione etica del contenuto rappresentativo,
che forma lo stato passionale. In ogni
modo, distinte le passioni dai raptus
passionali, che non arrivano a costituirle, e da quelle forme, che, almeno in
apparenza, sembrano sorpassarle, sono esse fatti morbosi da accomunarsi senz'altro con le malattie
dello spirito? L'origine e la natura di
molti fatti psichici non si intendono se l'analisi si limita all'esame
dell'individuahtà pura e semplice.
Oramai s'è capito che l'individuo, considerato in sé e per sé, al di
fuori dell'ambiente naturale e sociale
in cui vive, é un' entità irreale e
incomprensibile. È necessario che nella
psicologia si faccia strada la convinzione che é parimente incomprensibile
gran parte della vita psichica, se si
prescinde dal fatto che ogni individuo é
un anello d'una catena d'esseri, la cui
storia ereditaria, sia specifica, sia
familiare, influisce sulla genesi i di
molti fatti psichici. Né ciò solo per la psicologia cosi detta " delle
differenze individuali „, ma anche per la psicologia generale, schematica, poiché non pochi fatti
psichici sono conclusioni o aurore o
crepuscoh di processi, che si svolgono
interi al di fuori del breve ciclo d'una
personahtà, nell'evoluzione filogenetica, e in quella più ristretta della famigha, che potremmo dire oichigenetica.
n dato ereditario, in rapporto aUa specie,
é già entrato nell' esperienza del psicologo con benefici effetti : gii istinti, le forme
della sensibilità e dell'intelletto,
tutti quei fatti un tempo ritenuti
innati, né ora del tutto riducibili all'esperienza, sono spiegati come formazioni
ereditarie. Per quei fatti più complessi, che dovrebbero formare oggetto dell'etologia,
importa tener conto d'un processo
ereditario più diretto, immediato, quello familiare, che é qualche cosa
di diverso, non solo una parte, del
processo ereditario della specie.
Inutile aggiungere che ciò è poi indispensabile per la psicopatologia, che si
trova di fronte a fatti più individuah,
più concreti, meno agevolmente riducibili a schemi tipici.
Ora considerando le passioni in sé stesse e attraverso il processo ereditario famiKare (oichigenesi) possono farsi tre osservazioni.
Nello svolgersi d'una diatesi familiare
impressiona l'alternarsi delle manifestazioni schiettamente degenerative con
individualità passionali. Accenniamo ai
risultati di nostre osservazioni,
esposte, per altri fini, più largamente altrove. La degenerazione della famiglia Plantageneto
comincia con individui, che son preda di
passioni ereditate in parte dal capostipite
Guglielmo (avarizia, dissolutezza, ambizione, accidia); un breve periodo di malinconia,
nel terzogenito, Enrico I. Procede
offrendo in una generazione medesima
casi di passioni e casi di malattie
dello spirito, tanto in individuahta diverse, quanto in un medesimo individuo,
o alternando nello svolgersi del processo ereditario passioni con psicopatie.
Sopratutto prevalgono personahtà con stati passionah variabili per contenuto.
Ad Enrico II, in cui la degenerazione si
eccentua senza dar luogo a forme
chiaramente morbose, succede Giovanni senza Terra, imbecille morale, dissoluto, criminale, con accessi epilettici;
Riccardo I, agitato da passioni diverse. Dei figh di Giovanni uno è caratterizzato dall'avarizia
e dalla vanita ; Enrico III è debole, deficiente, collerico, e procrea figli
deformi e morti precocemente. Da Edoardo
I, di cui ben dieci nati muoiono
bambini, discendono due deficienti, Edmondo ed Edoardo II. Il figlio, Edoardo IH, principe valoroso e intelligente,
à un amore senile per Alice Perrers,
dalla quale è così dominato da oscurare con debolezze continue la fama della sua gioventù. Nelle altre generazioni: Riccardo II,
tisico, deficiente ; Enrico IV,
epilettico, gelosissimo, ambizioso,
allucinato ; Enrico VI, folle, imbecille; Edoardo IV, dissoluto,
criminale; Riccardo III, foUe, morale,
ambizioso, crudele, deforme, eroico ; Enrico VII, avaro, geloso ; Enrico VILE, criminale sino alla
follia, geloso; Maria, crudele,
malinconica; Elisabetta, avara, gelosa, che muore dopo due anni di malinconia con stupore. La stessa vicenda di passioni violente, sopratutto
erotiche e di psicopatie, si trova nella
famigha reale spagnuola; nella
famigha Giuha; nei Medici; nella dinastia francese. Qualche altro caso
tratto dalla storia di quest'ultima. A
Luigi IX, allucinato, crudehssimo, e a Fihppo IH, valoroso e vendicativo,
succede Fihppo IV, avaro come Carlo II,
che vende sua figha " come fanno i
corsar dell'altre schiave „, falso monetario. H nipote Fihppo IV ne segue
gh esempi. La degenerazione ereditaria,
che si manifesta neUa mancanza di
vitahtà dei membri di questo ramo, si accentua con Carlo V, da cui discendono allucinati, persecutori
(Carlo VI), malinconici (Carlo VII,
Luigi XI), deficienti e deformi (Carlo VITE, Giovanna). Le passioni dominanti sono avarizia,
ambizione, amore dei piaceri. 2. Vi
sono stretti rapporti tra speciali
malattie deUo spirito e speciali passioni, si che non solo esse si trasformano l'una nell'altra
attraverso il processo ereditario deUa
famiglia, ma nello stesso individuo.
I casi nella letteratura psichiatrica sono molti. Ne riportiamo uno da noi
raccolto. Prof. L. P, d'anni 29, geloso,
sino a tentare il suicidio, trasferito ad Imola, diventa preda di idee persecutorie ed è
ricoverato in un manicomio. Il padre era
anch'egK cosi geloso, che pochi giorni
dopo le nozze, per un improvviso
sospetto, lasciò, durante un ballo, la
giovine sposa, come per abbandonarla.
La trasformazione della gelosia in mania
persecutoria e malinconia è frequentissima ; né occorre illustrarla nell'individuo. Dell'avvicendarsi
di essa con le forme malinconiche nel processo ereditario f amiKare, diamo un esempio, che ci sembra tipico, nella tavola
annessa. E un caso specifico dell' alternanza generica di passioni e di
malattie notata sopra, e insieme un
interessante documento di eteromorfia ereditaria, logica, per dir cosi, comprensibile,
non capricciosa, come per lo più
apparisce nella storia delle famiglie nevrotiche. Un'osservazione della medesima natura abbiamo
raccolta per l'avarizia. L'avv. B. G.
(collaterali sani), sposa a 48 anni una vedova quasi ricca, di anni 57. La sua avarizia
era proverbiale in G Entrato in
possesso del patrimonio della moglie,
con abili mene, pratica l'usura. Dopo qualche anno diventa cleptomane. Dal
tribunale sottrae una volta una sedia,
un'altra un vaso di fiori, che tenta di
portar via, nascondendo sotto U soprabito. Si fu costretti di inviarlo in
manicomio, dove è morto. 3. Le passioni non solo anno talvolta, quando specialmente sono contrastate,
come esito una vera e propria malattia
dello spirito, ma spesso sono segni prodromici di profonde alterazioni della personaKtà normale,
quasi le prime oscOlazioni che la coscienza, spostata dal suo centro, à
attorno allo stato morboso. Gli studi intomo alle cause della
follia anno raccolte alcune significanti
statistiche della nefasta efficacia delle passioni; ma non essendosi ben distinti i fatti emotivi da
quelli passionali, esse non hanno per
noi quel valore probativo, che a prima
vista parrebbe che dovessero avere. D'altra parte le difficoltà di avere complete
storie cliniche degh individui, e spesso
la trascuranza dei raccoglitori, rendono scarsa la messe di prove, che noi crediamo dovrebbero
essere abbondantissime. In ogni modo
molti, e tra i primi il Maudsley e U Moreau, anno notato che fatti passionah
segnano la fase d'incubazione di una
malattia dello spirito ; anzi la scuola della Salpètrière attribuisce all'epilessia uno
stadio nel suo sviluppo di atteggiamenti
passionali. Si che v'è da pensare che
quelle sorti di traumi psichici, che
sono interpretati come cause di
psicopatie, sono più tosto la fase
iniziale del processo morboso.
Le passioni su fondo erotico, la dissolutezza, la passione degli
acquisti, delle costruzioni, delle speculazioni, la gelosia, precedono spesso
la paralisi progressiva, la malinconìa, la mania. Prima che le tristi
tenebre della follia avvolgano la
coscienza, il carattere subisce delle alterazioni, le quali talvolta assumono
appunto la fìsonomia di fatti
passionali, emersi quasi dai bui fondi della vita psichica, dove li
ratteneva il dominio di sé. Ed ecco
prodigalità improvvise, sogni ambiziosi
mai prima carezzati, piani di conquiste, che sorridono all'animo che vi si abbandona
nella sicurezza della vittoria immediata, conversione maniaca delle
proprie sostanze in beni immobili nella
speranza di guadagni favolosi, impeti d'
amore spesso abnormi... Sono le prime
disgregazioni della personalità, che si
sprofonda lentamente negh abissi della
follia. Queste tre osservazioni
conducono a un unico concetto, che
stretti rapporti, ora generali, ora speciali, vi sono tra passioni e psicopatie. L'analisi intrinseca dei fatti
paissionali lo riconferma. Non solo le passioni
sono, come le psicopatie, alterazioni della personahtà ; non solo il loro meccanismo psicologico
è affine a quello delle malattie dello
spirito, ma v'è una corrispondenza di tendenze, di orientazione, di
contenuto affettivo e rappresentativo
tra speciah passioni e speciah forme morbose. Più volte abbiamo notato come
tipica la somiglianza tra gelosia e
mania persecutoria: il medesimo processo
iniziale (sospetto), il medesimo svolgimento (persecuzione), le medesime reazioni
(impulsi distruttivi). Nella gelosia v'è
tutto il quadro del delirio
persecutorio, ma con tinte più deboli, n contenuto del delirio è
polarizzato in un gruppo distinto di
rappresentazioni. Perfino la nostalgia,
che è qualche cosa di più tormentoso e
di più grave di quello che non si
imaginino coloro, i .quali sono abituati
a scorgere in essa il triste abbandono ai dolci ricordi, un ansioso
rapimento dello spirito ai fantasmi di
luoghi e persone care lontani, assume
l'aspetto di una psicopatia persecutoria. Riproduciamo un caso, pubbhcato già da noi. V. G., studente, di anni 18; madre neurastenica.
E nato e dimora in un paese molto
infelice, sito in luogo poco ameno. Carattere anormale. Giovinetto ancora, abbandonò
la famigha per seguire una donna da
teatro: fu però subito ricondotto a
casa. Ogni lontananza, anche breve, dal paese natale produce una vera
rivoluzione nel suo spirito, si che è
costretto a fare alla megho colà i suoi
studi, pur essendovi*- a tre ore di ferrovia il capoluogo della Provincia con
buoni istituti d'istruzione. Lontano, à
tutta la fenomenologia estema della passione nostalgica. Deve essere scortato sempre dai suoi compaesani,
perchè manifesta idee suicide. In ognuno
che non sia del suo paese vede un
nemico. Saluta umilmente tutti i suoi condiscepoK e le conoscenze che fa
; sospetta e teme impossibili
persecuzioni. Intelligentissimo e discretamente studioso, quando si reca al capoluogo per dare gli esami
perde, nel tormento dello spirito, le
cognizioni acquisite e vive in uno stato di semicoscienza. Commette non poche stravaganze,
informate alle idee persecutorie e
nostalgiche — come improvvise fughe al
paese natale — di cui poi à ricordo
confuso e indeterminato. Tra i timori
che più lo tormentano v'è quello che sua
madre sia ammalata e muoia: parlanr done
piange. Mi si dice che invece in paese
abbia condotta normale. Le
passioni coUezionistiche differiscono
poco dalla cleptomania: l'impulso irresistibile al possesso dell'oggetto
desiderato, la inutiUtà di alcune
collezioni ravvicinano queste due forme. Né mancano casi in cui la mania coUezionistica spinga al furto. Qualche
esempio si troverebbe nei casi del cosi
detto crimine estetico. Cosi,
per dirla in breve, l'ambizione ricorda la megalomania ; l'odio la
criminahtà; l'avaro assume spesso le
parvenze d'un melanconico e di persona turbata da delirio di piccolezza; e l'amore rassomigha tanto
ad una di quelle follie d'esaltazione,
senza contomi nosologici precisi, che i cento pretesi fisiologi che r anno studiato, manifestano sempre
il dubbio che noi ci troviamo innanzi a
una forma morbosa. In conclusione i
fatti passionali anno gli stessi
caratteri delle psicopatie, ma attenuati, si che ci sembra di poter trarre
due conseguenze sulla loro individualità
morbosa. 1. In sé stesse le passioni
sono equivalenze psicopatiche. La concezione, imphcita nella teoria degli equivalenti epilettici
(Samt, Lombroso), così feconda di
risultati per la conoscenza di molti
fatti morbosi, deve estendersi dal campo dell'epilessia a tutta la attività patologica dello spirito umano.
È noto che gU equivalenti epilettici
sono quei profondi disturbi della
coscienza che, quasi preludio di un vero
e proprio accesso, spesso lo
sostituiscono senza che appaiano altri disordini motori, vasomotori, ecc. E una
riduzione nella sfera psichica del quadro clinico dell'epilessia, quasi un' attenuazione dei fenomeni
che questa presenta. Ora appunto le
passioni sono per le psicopatie ciò che gli equivalenti epilettici sono per l'
epilessia. Esse preludiano e
sostituiscono, sia nell'individuo, sia nel processo ereditario, le classiche
forme morbose; esse ne presentano i
fenomeni attenuati e anno talvolta gK stessi esiti. La lacuna tra l'attività normale e
quella morbosa dello spirito, colmata
vagamente con confusi riferimenti a tipi
pazzeschi, à cosi una soluzione precisa,
e che risponde non solo alle recenti
vedute sull'arbitrarietà di netti quadri
clinici, chiusi nei sintomi classici
delle varie forme morbose, ma ancora alla natura dello spirito umano, che
à nella sua storia lente gradazioni di
forme normali e di forme morbose. Lo stato passionale può dunque, secondo noi, considerarsi un equivalente
psicopatico in doppio senso : generico,
in quanto ogni passione preludia o
sostituisce un qualsiasi stato
psicopatico; specifico, in quanto determinate forme passionah, ad esempio la gelosia,
preludiano e sostituiscono determinate
forme psicopatiche, ad esempio la malinconia e la manìa di persecuzione. 2. Le passioni, guardate nello svolgimento
d'un processo ereditario, appariscono
forme di passaggio, casi di eteromorfìa ereditaria. Noi abbiamo avuto altrove occasione di enunciare il nostro parere intomo alle trasformazioni
che subiscono le forme morbose nel
processo ereditario. Ci pare che il mito
delle entità psichiche, perdurando, consapevolmente o no, anche neUe
ricerche biologiche e psichiatriche,, abbia nello studio delTeredità prodotto
un errore: la negazione della
trasmissibilità delle malattie mentali, e
un problema fondato su un'illusione: l'eteromorfismo. Gli avvenimenti psichici non sono
oggetti, ma processi, formazioni
comphcate, attuali, individuah. Le forme
morbose parimenti sono manifestazioni,
che si attuano in date individuaKtà alla stregua e in base alle varietà morfologiche di ciascuna persona. Come
tah non si ereditano : quel che si
trasmette è al più una serie di
disposizioni psicofisiche, dalle quaK
esse emergono, assumendo per contingenze attuah, individuah, una
determinata fisonomia psicopàtologica.
Dato questo concetto, in armonia con le recenti interpretazioni dell'
ereditarietà patologica, la similarità delle forme trasmesse diventa un
caso, e la metamorfosi la logica e
naturale espressione che deve assumere una diatesi nervosa quando diventa un avvenimento
individuale. In tal senso noi diciamo
le passioni forme di passaggio o
trasformazioni ereditarie di un processo
degenerativo. Esse, come tutti gK
avvenimenti psichici, sono deviazioni di
una personaUtà, la quale resta il termine di ragguagho per intenderne la formazione e lo sviluppo; ma presuppongono una somma di
dati morfologici e di disposizioni psicofisiche ereditate e tali, che possono
volta a volta provocare un processo
psicopatico o un processo passionale,
come suo surrogato. Cosi intesa la natura morbosa delle passioni, è
implicitamente delineato il posto che
esse debbono occupare tra le manifestazioni normah e anormah dello spirito. Da una parte distìnte per una serie di caratteri
dagh ordinari processi psichici,
dall'altra distinte dalle psicopatie, di
cui appariscono forme prodromiche o
attenuate, equivalenti che le
sostìtuiscono, esse occupano il vasto campo intermedio tra la sanità e la follia. L'aUenazione mentale, sia considerata
nella varietà infinita di forme che
riveste tra gli uomini, sia considerata
nel suo sviluppo individuale, apparisce una deviazione lenta, insensibile, ricca di sfumature
difficilmente notabih, dallo stato sano.
Il normale e l'anormale sono come un binario, di cui lo sguardo distingue le due parallele sino ad lai
certo punto, al di là del quale queste
par si confondano in una linea sola. Questa
zona grigia, indistinta, fu notata dai
psichiatri e battezzata con nomi diversi:
è la zona media del Maudsley, quella degli ereditari del Morel, dei tipi misti del
Moreau, dei cerebrali del Laségue, dei
psicastenici del Benedikt, delle
costituzioni psicopatiche dello Schiile,
dei mattoidi del Lombroso, dei degenerati in generale ; zona che raccoghe grandezze e miserie, dalla quale
sbocciano talvolta i fiori del male e i
fiori più belli dell'attività umana,
eroi, santi, criminah, genii. Il MorseUi enumera alquante categorie
di tipi che vi appartengono:
insufficienti (imbeciUi), incompleti (criminaloidi), irrogolari (mattoidi), instabili (isteriche e
neurastenici), incoerenti, irreflessivi,
impulsivi, e poi ancora i distratti, i fantastici, gh spostati, i pervertiti, gh eccentrici, gli abuhci, gU apatici,
ecc. E nota che la enumerazione potrebbe allungarsi, sì che noi vedremmo passarci
davanti tutte le disposizioni illogiche
dell'inteUigenza, tutte le perversioni del sentimento, tutte le tendenze
antisociah delle voKzioni, tutte le
eccentricità del carattere, tutte le
bizzarrie della condotta, che la proteifonjae individuahtà umana ci può presentare.
E il campo più suggestivo e più fecondo
per la psicologia e per la psicopatologia. Queste forme intermedie, che discoprono
il meccanismo della personalità, senza
distruggerla, che offrono alterazioni di singoli processi su un fondo
indistinto di morbosità diffusa, danno tutti i benefizi riconosciuti al metodo
patologico senza gli inconvenienti da
qualche psicologo notati. Eppure, tranne
la classica opera del Moreau, e a parte
gli studi su casi speciali, come i
mattoidi del Lombroso, i mostruosi del Venturi, ecc., nessuna concezione
sintetica à tentato l'arduo compito di
determinare, ordinare, illustrare questa grigia zona dell'attività umana. Non tenteremo di sostituire all'elenco
del Morselli una classificazione che
ordini in gruppi la varietà
indeterminata di queste manifestazioni
intermedie. Osserviamo che, messe da
parte quelle che presentano una
deficienza di attività, come gli apatici, gli accidiosi, i distratti, i deboli, i
suggestivi e così via, nelle altre anno
gran parte e importanza notevole i fatti passionali, siano essi neUa forma specifica di passioni a contomi netti (gelosia, amore, ecc.),
siano nella forma generica di stati
passionah mute voh per contenuto affettivo e conoscitivo. Le passioni ci sembrano per ciò stati
della personaUtà caratteristici deUa
zona intermedia e atti, più che altri, a farci conoscere la fase di passaggio dell'attività
psichica normale in quella morbosa, e
indirettamente a proiettare gran luce
sulla conoscenza della psiche sana e
delle psicopatie. Poiché nelle passioni,
mentre si accentuano alcuni caratteri della normale personalità e si rende
più agevole lo studio di questa, si
profilano le prime linee delle
psicopatie, in modo che si può meglio
secondare il giusto criterio della
ricerca moderna, la quale considera le forme morbose come turbamenti dell'intera personahtà,
comprensibili a pieno quando si scorgano i legami che li congiungono insensibilmente
allo stato sano. tristezza, alcune passive, altre attive. Lo Spi noza fa
derivare per mezzo dell'associazione, I
dell'immaginazione, della simpatia, tutte le
passioni dal desiderio, dalla gioia, dalla tristezza. \ Con Kant abbiamo una classificazione,
la quale non solo esclude i fatti
emotivi, ma tralascia di assumere come
criterio distintivo l'oggetto delle passioni. " Esse, dice il Kant, debbono essere classificate, non
in quanto agli obbietti del desiderio,
ma in quanto al principio dell'uso e
dell'abuso, che gU uomini fanno della
loro persona e della loro libertà „. Le
divide in naturah, che riguardano la libertà e la sessuahtà, e di cultura
(ambizione, avarizia, dominazione); ardenti le prime, fredde le seconde. H Lélut ne fa parecchie distinzioni: corporah
e spirituah, dolorose e hete, calme e
Benda, Le Passioni. 16 ^
1 >dbi la tri
ito bert, Descuret), pur
partendo da criteri più accettabili, non
colgono i caratteri fondamentali delle passioni. Queste sono bene singolari
gruppi di rappresentazioni e di sentimenti, diversi per tono e per
significato, come l'amore, il fanatismo,
l'ambizione, la gelosia, l'odio, ecc. ;
ma quel che più importa è la forma di
personalità su cui esse s'adergono, come indici o come specializzazioni rappresentative e affettive di processi
più profondi e fondamentali. E in una
classificazione bisognerebbe tener conto non di ciò che è un esponente o un episodio, non
delle singole passioni, ma dello stato
passionale, e vedere se di questo vi
sono più forme e quaU. La classificazione del Ribot, che
potrebbe ravvicinarsi a quella del Kant,
merita migUore accogUenza delle altre, ma non è soddisfacente. L'intensità è
carattere certo importante, ma non proprio, né principale; quindi non può essere elevato a dignità
di criterio di una classificazione. Noi
siamo convinti che questa deve essere
corollario di una più profonda
conoscenza del temperamento e del carattere, una conseguenza della classificazione dei diversi tipi di
personaUtà ; per ciò di là da
venire. Come tentativo provvisorio ci
pare che si potrebbe ordinarle, tenendo conto di due fatti: il rapporto che le passioni anno
con la personalità normale, di cui sono
deviazioni o alterazioni, e ÌI carattere psicofìsico di càascheduna. Tenendo presente il
primo, a norma delle osservazioni fatte,
avremmo tre classi distinte: 1"
Passioni^ per dir così, costituzionali,
le quali non anno il carattere d'un
trauma psichico, non nascono in una fase
di sviluppo della personalità, ma ne
sono l'espressione originaria; esempio: l'ambizione, l'avarizia,
l'invidia. Sono le passioni pili
temperate, più croniche. 2" Passioni antagonistiche, le quali presentano
il carattere d'una deviazione o
alterazione del carattere normale, e lo
conservano lungo tutto LI loro decorso.
Esse non distruggono la personaUtà j :
promanano; si sovrappongono ad essa,
nano quel conflitto classico di sentiche è sembrato il carattere
proprio itati passionah. Esempio;
l'amore, la le del giuoco. 3"
Passioni sostitutive, li, dopo un periodo
d'incubazione e di dominano senza
contrasti la coscienza La personalità
preesistente è da esse ::to sostituita,
se non distrutta. Sono le passioni più
cieche, più irresistibili, e quelle più
vicine alle vere psicopatie, io: il
fanatismo, l'odio, la gelosia.Come abbiamo fatto osservare iimanzi, le passioni facilmente passano daUa fase di contrasto a quella di dominio assoluto;
si che alcune del secondo gruppo possono
anche appartenere al terzo. A noi pare
che a preferenza di un ordinamento, che le distingua e le divida nettamente per tipi rappresentativi
e affettivi, importi una classificazione che, tenendo conto del loro
carattere fondamentale, cioè dell'
essere espressioni della personalità,
indichi più tosto il raggio della loro
influenza su di questa, alla stregua del
processo dissolutivo, per cui, alienandola
dalla normalità, la ravvicinano alle malattie dello spirito. Ognuna di queste classi va poi suddivisa, in base ai caratteri psicofisiologici delle
passioni, in tre gruppi: A) Passioni espansive;
sono quelle che imphcano un inclinazione
positiva, con colorito affettivo predomiaante gaio, e che anno per carattere V
attività. Esse ricordano le manie e i
dehri d'esaltazione. Esempio : ambizione, amore, fanatismo. B) Passioni depressive ; sono quelle, che
per lo più implicano un'avversione, con
colorito affettivo predominante triste,
e che non anno ordinariamente una forza
espansiva.Ricordano la malinconia.
Esempio: avarizia, nostalgia, odio. C)
Passioni miste ; sono quelle che consistono in un continuo avvicendarsi di
stati di depressione e di esaltazione.
Questo carattere, che non manca nei due gruppi precedenti, è qui più accentuato
e forma la fisonomia psichica della
passione. Esempio: invidia, passione del
giuoco, gelosia. La ricerca della responsabilità nel campo giuridico, quando le passioni anno un
esito criminale, deve essere in parte
fatta in rapporto alla classificazione ora data. L'attuale periodo di transizione tra i
vecchi concetti giuridici, non scalzati
e sovente imbastarditi dalla rinnovellata coscienza scientifica, e i nuovi
orizzonti del diritto, che danno alla
responsabilità una base nuova,
iudipendente dalla valutazione etica, derivata dalla temibUità del
dehnquente e daUa sua adattabilità,
diversa secondo le circostanze speciali dell'individuo, dell'atto compiuto e
della società in cui vive (Ferri, Garofalo, Lombroso, Colajanni), danno luogo
a una contraddizione. E cioè spesso si
giudica irresponsabile il delinquente,
ad esempio, in cui è visibile anche per
i profani la follia morale, che è
temibUissimo e inadattabile all'ambiente
sociale, e si condanna il delinquente per passione, meno pericoloso e
quasi sempre correggibUe ; e inviando il
primo tutt' al più in un manicomio
comune (i manicomi criminali può dirsi
non esistEino) e il secondo in carcere,
che conserva ancora gli odiosi caratteri
di un luogo di vendetta e di pena, si fìnisee
col colpire più gravemente chi à minori
caratteri d'antisocialità. Anzitutto
occorre fare una distinzione. Tranne il
Severi, che distingue tre classi di
delinquenti (emozionali, passionali, aUenati o nati) gli altri confondono in un sol
gruppo, con il nome di delinquenti
passionali, coloro che sono spinti al
dehtto da un'emozione improvvisa e
transitoria, e coloro nei quah il
delitto è l'episodio finale e quasi sempre
la conclusione d'uno stato passionale. Certo, considerando solo il momento del
delitto, par non vi sia differenza tra
chi uccide o ferisce in un impeto d'ira
e chi uccide o ferisce in un impeto di gelosia, poiché la passione esplode in
un atto criminoso durante e per effetto
d'un'emozione. Ma la fisionomia
psicologica e il significato sociale dei du" dehtti è diverso. I delinquenti emotivi e i delinquenti
paf sionali anno bene in comune i
caratteri de servati dal Lombroso {Uomo delinquente, II, 204), dal Ferri {Sociologia criminale^ 240) e
da altri: la mancanza delle stimmate
criminali, l'onestà dell'animo,
l'esagerata affettività, il pentimento
immediato e sincero, la sproporzione tra il delitto e la causa, e così
via. Però accanto a questa affinità,
quale differenza nel loro dinamismo psichico e nel loro valore sociale ! La criminalità emotiva è un raptus^
senza preparazione cosciente, improvvisa,
rapida; la criminalità passionale è
l'esito d'un processo lento di alterazione della personalità, è un atto, talvolta preparato con la
parvenza di volizione libera, sempre
effetto d'una accumulazione incessante di motivi subcoscienti e spesso illusori. Non v'è un
ragionamento puramente emozionale; o
l'emozione à una logica istintiva, quasi
una attività teleologica fissata
dall'eredità (Tarde), o tutt'al più una
parvenza di ragionamento rapido, embrionale, fatto d'un gruppo di idee e
consistente in una costruzione
immaginativa (Ribot). V'è invece un
ragionamento passionale, importa poco
ora se falso, contradditorio, fondato su
illusioni. Ciò distingue la fisonomia psichica di chi delinque stimolato da un'emozione (ira, paura), la quale rompe momentaneamente
l'equihbrio affettivo, e di chi, assillato dal martoro d'un dubbio geloso o
incalzato dalla disperazione d'un
abbandono, orienta poco la volta ranimo
verso il delitto, che si perpetra,
quando un impeto emotivo fa da
scintilla, che produce l'esplosione d'una mina. In breve, un fatto emotivo può agire su
una personalità normale, in modo da
spingerla al delitto, la cui causaUtà si
esaurisce nell'emozione provocatrice; abbiamo il delitto emozionale. Può agire
su una personalità dominata daUa passione; allora l'emozione è solo la causa occasionale del delitto
provocato, la cui preparazione è nel
processo psicopatologico della passione: abbiamo il delitto, passionale. Inoltre: la passione si
esaurisce in quella scarica antisociale
che è il delitto, compie con essa il suo
ciclo evolutivo, come può compierlo con
il suicidio, con una malattia, con una psicopatia. Una recidiva criminale è
inconcepibile, né la statistica ne dà
esempi, poiché la personalità umana é
capace d'una sola passione, che raggiunga tale massimo di violenza. Quindi, tranne
il caso in cui il dehtto rimanga
incompiuto o la passione sia piuttosto
il pretesto aU'esplicazione di tendenze criminose, il dehnquente passionale cessa d'essere temibile con
l'atto che chiude il ciclo del processo
passionale. Il rimorso, il pentimento,
le conversioni radicali, osservate dagli studiosi nei rei per passione, provano questa rapida
riadattabilità loro all'ambiente
sociale. Non così avviene per il
delinquente emozionale. Se il delitto
non è proporzionato aUa causa — valutata
anche in base ai principi etici della società in cui quello si perpetra — fa sospettare
un temperamento emotivo, incline alle
improvvise rotture dell' equilibrio psichico, capace di ricadere in .nuove violenze e per ciò
più temibile. Qui i mezzi riparatori non
sono suf- ficienti a tutela della
società; occorrono i mezzi repressivi,
temporanei, a tempo inde-
terminato. Un'altra ragione di
minore temibLlità del delinquente
passionale è riposta nel rapporto di
dipendenza, già notato, della passione da
speciali gruppi rappresentativi. Questa è le- gata al suo obbietto cosi, che non ne
esiste indipendentemente. Il geloso è
geloso di una determinata persona e non
di altre. Si che, mentre un impeto
emozionale, ad esempio l'ira, travolge
seco anche persone ed oggetti che non
dovrebbero esservi connessi (si è irati
con tutti), la passione colpisce oggetti o per- sone determinate. L'esilio è garanzia suffi- ciente per un tentativo di defitto passionale
; non sarebbe sufficiente nel caso d'un
delin- quente emozionale. Trovandoci poi
innanzi a un delitto per passione,
occorre ancora procedere a un'altra
distinzione: può trattarsi d'un caso di crimi- nalità, per cui la passione è solo una
causa determinante; può trattarsi d'un
caso, in cui cooperano insieme la
passione e una i)sico- patia o un
disordine momentaneo, che agisce come
fattore supplementare; può trattarsi
infine del delitto passionale vero e proprio. La reazione sociale deve essere diversa
nei tre casi; diversa anche nel terzo, a
seconda che la criminalità passionale
prorompe da una passione antagonistica,
o sostitutiva, o costituzionale, poiché
il grado di responsa- bihtà è diverso, essendo
diverso il grado di dissoluzione della
personalità, diverso il grado di
adattabihtà, diversa la fisonomia psichica.
Da così complesse e difficUi distinzioni
deve concludersi che occorre sempre, nel
delitto passionale, l'analisi e il giudizio del- l'uomo di scienza. Né l'impressionismo
psico- logico, né una formula a priori,
antropolo- gica o giuridica, né il buon
senso d'un'accoz- zaglia fortuita di
gente spesso non nata pei pensare,
possono risolvere il problema deUi
responsabilità d'un individuo, che si dibal dolorando nella zona grigia, dove non
splendi la luce della coscienza sana, né
sono ancor^ scese le tenebre della
follia. piccbibl.dj scieu.mod. Fi^'BOCCRED Pieeola Biblioteea di Seieoze
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Baddba 70. SouBBTx. Iie oriolai del
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Spirlttaoia 72. Clodd. Starla
deU'AIflàbeta. — Ckm figoxe 78. Bkl
Luiroo. Claeiiie e Héladiala 74. Furor.
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76. Fbacxubolx. Ii'lrraalanale aella leMeraiara, 77. Oonr. I^ meecaaUma della vita 78. LsYi. l>ellMo e pena aél penalero del
Oreel 70. Bkl Gibbo. Fra le «alate della
Starla . . . 60. YxAczL Paleolecla del
mmaà 8L Sbboi. BTOloBlaae amaaa
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rlTdoslaae 86. LoMBBOSO. Iia rlta del
bamblal. — Goii Agore -86. Emkbboh.
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moderaa . . . 80. LoMBBOSO. I TaatacBl
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PBGBABn. Iie lUoBloBl ottlelte. — Gon Agore
98. MoBASflO. lA aaoTa anaa (I<a auMelilaa) 86. MavosB. I<o stato soelalteta 94. GAinESTBon. CHI amori desìi aalmall. —
Gon Agore . . . 06. BizzATTx. IHdla
pietra flloeofUo al radio. — Gon Agore .
86. Gabltlx. PawMito e preeeate
97. Gouorar. D Teatro del popoli
98. BizKABBi. lA iMMe flalea del audo
90. Gapfellxtti. Storie e leggende
100. Glodd. Storia della firgert— e. — Gon Agore 101. ZAHOTn-BKABOO. Astrologia ed
aetronoaida lOB. Hall. H snolo lOB. Babatta. Gnrioeità Tlaeiame. — Gon
Agore 104. Fbaccabou. Ia «aeetlone
della «enola 106. Eyavs. Iiao-tee e U
libro della via e della Tirtdi . . .
106. Glodd. Miti e aogal 107.
Lababca. D papato 106. Villa. 1/
ideolltiMO moderao lOO. Fahoiulli.
Ii'iadlTidBo aei saoi rapporti soeiall . . .
110. DncLAUx. Igieae Sociale
111. Bavizza. Peieologia della lingoa
112. Glodd. Fiabe e illoeolla primitiTa
118. Oappbllvtti. PriaeipeaM e graadi
114. KicxroBO. Fona e ricebeani ....
ne. Bbitda. Iie paartOBi 116.
BOMAVO. I<a peieologia pedagogiea MB. — I Tolomi di qoesta serie esistono
pore elegantemente legati in tela oon
fregi artistioi, oon «laa Ura d'aomento sol presso indicato. Antonio Renda.
Renda. Keywords: High Church. Speranza,
“Grice e Renda”. Renda.
Luigi Speranza -- Grice e Renier: la ragione
conversazionale e l’implicatura – filosofia veneta -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Treviso).
Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Essential Italian philosopher. Studia in Camerino,
Urbino, ed Ancona, a Bologna, sotto CARDUCCI, Torino, e Firenze, sotto BARTOLI.
Insegna a Torino. Fonda il “Giornale storico della litteratura e la filosofia
italiana”, «profonden dovi, negli studi particolari, nelle rassegne, negli
annunci analitici e in un ricchissimo notiziario, un vero inesauribile tesoro
di cultura, di notizie, di rilievi. Cura importanti edizioni critiche e
monografie. I suoi saggi critici spaziano attraverso tutta la letteratura e la
filosofia italiana. “Il tipo estetico della donna nel medio evo” (Ancona,
Morelli); Isabella d'Este Gonzaga” (Roma, Vercellini); “Mantova e Urbino” (Torino,
Roux); “La cultura e le relazioni letterarie d'Isabella d'Este Gonzaga (Torino,
Loescher); “Svaghi critici” (Bari, Laterza); Luzio, La coltura e le relazioni
letterarie di Isabella d'Este Gonzaga, Sylvestre Bonnard. Vendittis, Letteratura
italiana. I critici, Milano, Marzorati, Renda,
Operti, Dizionario storico della letteratura italiana (Torino, Paravia); Letteratura
italiana. Gli Autori, Torino, Einaudi. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. SVAGHI CRITICI.
Tuttociò senza che vi siano se non pochissime tracce si 1
1 Flamini, Studi
ili «torta letter.
Hai. e straniera,
Livorno, im. A c.
115 r. Vedi
A. Zardo, Petrarca
e i Carraresi,
Milano. In quest'ultimo
luogo lo Zardo
afferma che le
terzine, da lui
non riferite perché
non ne inlese il
senso, sono forse
« scritte in
linguaggio furbesco ». Il dr.
Ferdinando Neri ebbe
la cortesia d'inviarmene
una esatta trascrizione,
che mi convinse
non esservi alcuna
frase veramente gergale.
(3i Si consulti
la lettera del
rimpianto Gaetano Milanesi
da me edita
nella prefazione alla
mia versione del
Slnduy, Br. [Mini,
pp. XIX-XX. (ij
Sono parole di A. Borgognoni,
nella Rassegna settimanaie, cure di
vero gergo furbesco
(*); come una
parte delle rime
del Burchiello e
dei Burchielleschi. Per
qupl che ho
potuto veder io,
tanto nel caso
del Burchiello quanto
dei Burchielleschi, la
cosa più difficile
è decidere quanta
parte della loro
poesia sia veramente
senza senno e
rientri in quel
giuoco di spirito,
che ha una
storia ben lunga
e (convien confessarlo)
poco edificante, per
cui non si
dice nulla facendo
le viste di
dir qualche cosa
(*); ma in
questa poesia alla
burchia, da cui
il barbiere di Calimala
trasse il suo
soprannome (3), I
critici, veramente, credettero
di ravvisarvelo, e
già il Del
Fujjia vi trovò
? A parer
mio, la parte
che vi ha
il furbesco non
è molta. Vedi il
sonetto invettiva contro
un ignoto poeta,
che dal celebre
ms. Magi. II,
II, 75 trasse
A. G. Spinelli,
Poeaie inedite di
Galeotto del Carretto,
Savona, 1888, p.
38. Ivi calcagni •
compagni » e
truccare e cerre
« mani »
sono sincere parole
furbesche, ed altre
forse se ne
ravviserebbero, se il
testo non fosse
guasto. L'invettiva acerba
richiama l'uso del
gergo, come può
persino scorgersi nei
sonetti scambiati fra
Dante e Forese,
sebbene di furbesco
deciso là non
sia il caso di parlare. Vittorio Bossi,
che ebbe il
merito d'illustrare quel
notevolissimo documento
storico e letterario,
mise insieme anche un
elenco delle parole
di gergo usate
dallo Strazzòla. Vedilo
nel Oiorn. stor. Quello
£ gergo veneto
della più bell'acqua.
i4.i Uno spoglio
della nostra poesia
giocosa e delle
commedie antiche darebbe, a
questo proposito, frutti
eccellenti. Il Lii-hi
nel Malmantile, II,
5 fa che
un suo personaggio
fin 12 censi
sull'uso dell'antico gergo
furbesco continuato del
gergo, vale a
dire dai componimenti gergali da
capo a fondo.
E di questi
(quando se ne
eccettui il Pulci,
la cui produzione
furbesca rimase pressoché
ignota), fu forse
il primo Antonio Brocardo a
dare esempio, conseguendovi
una certa celebrità
attestata dalle parole
del Villani (').
Per questa parte
il Brocardo terrebbe
fra noi il
posto che occupa
rispetto all'uso letterario del gergo
francese Francesco Villon
(•). tosi baro
vada chiedendo un
po1 di bene
« per Sant'Alto
». Sani' Allo è
designazione notissima di
« Dio »
nel parlare furbesco. Il
Lastri nel luogo
sopra menzionato dell'
Osservatore fiorentino cita un
passo delle Storie
fiorentinede] Varchi ove
è detto: «
Appariscono più lettere,
non in cifra,
ma in gergo,
ad uso «
di lingua furfantina,
molto strano ».
G. B. Gitakixi
termina con una
battuta furbesca la se. X
dell'Atto III della
sua Idropica. Vi
occorrono note parole
di gergo come
contrapunto, cordovano, sbasire,
lenza, fratengo, cosco,
monello, canzonare, grimo.
Vedi a p.
89 dell' ediz. veronese
del 1734. Il
cui giudizio fu,
senza citarne l'autore,
ripetuto dal Crescimbeni
e poi dal
Del Furia, in
Alti Accad. Crusca,
ove scrisse che Brocardo fu
l'inventore della lingua gerga
o furbesca . Su questo
ingegnosissimo scapigliato criminnlp
del sec. XV
è ora da vedere il
bel libretto di
G. Paris, Francois Villon, Paris,
1901. Le sei
ballate in gergo,
che sono veramente sue, e
le cinque altre
d'un ms. di
Stocolma, che gli
furono attribuite, costituiscono
il più antico
patrimonio gergale francese. Quell'antico
materiale fu studiato
senza troppo metodo,
ma con informazione
larghissima da A.
Vrrr nel volume notevole Le
jargon du X V siècle,
Paris, 1884, che ho consultato
più volte con
profitto. Ma di
capitale importanza pel
gergo del Villjy^e
per gli altri
documenti scritti nel
furbesco francese è il
libro di L. Schòne, Le
jargon et jobelin
de Francois Villon
sitivi du jargon
au thèàtre, Paris,
1888. Ben
altrimenti che in
Italia fu studiato
in Francia Vargot,
del quale si
compiacquero anche i
romanzieri moderni (V.
Hugo, Sue, Ad
attestarci la facilità
ch'egli aveva a
scrivere in gergo
sta una delle
tre lettere alla
cortigiana Manetta Mirtilla;
quella che il
Brocardo le diresse da
Padova, dove studiava
leggi. In essa
lettera sono due
periodi furbeschi, che
riferisco ed interpreto.
Sono fatte le
vacationi nello Studio,
et io fornirò
il libro et
lo vi mandaró
tanto più con
ordine et meglio scritto, quanto
più vorrò mostrarvi che
non è fede
pari alla mia,
non restando però
dall'esservi quel inimico che
io vi sono,
dannosa rubuina, che se
mi rifondo un lustro
alla bolla della
lenza, ve la
martinerò coi merli
che non potrete
più amarezar contro,
di Simon. Se
contrapontizatt in amaro
col cornifico, che
farete coi tjaii
di vostrisef Gli
dovete ammartinare et
carpir la perpetua
dal fusto con
quelle cerette fratenghe, le
quali Versione. lingua
diabolica, che se
mi reco un
giorno a Venezia,
ve la trafiggerò
con i denti,
che non potrete
più ingiuriarmi. Se voi
mormorate del fratello,
che farete con
gli amanti vostri?
Li dovete pugnalare e
strappar loro l'anima
dal corpo con
quelle buone manine,
le quali con
le ginocchia in
terra bacio di
tutta anima. Rai
zac, Zola), che
ne lardellarono talvolta
certi loro libri.
La Bildiographie
raisonnée de l'argot
et de la
langue verte en
Frnnce du X
V (in XX
siede di E. Yve-Plessis,
Paris, 1901, comprende ben
865 numeri!! DeìVargot
moderno parigino, che
è in continua
evoluzione, si hanno
parecchi dizionari. Per
quel che spetta
al gergo francese
più antico, é
pur sempre prezioso e
fondamentale il volume
di Fr. Michel,
Eludei de philologie
comparie sur l'argot,
Paris, 1856. Cfr.
ÌIazzuchelu, Scrittori, II,
IV, 21:20. con le
seste alla calcosa
morfisco di tutta
perpetua. Volea tornare
al nostro parlare, ina
come si dice
che chi sta
furfante tre eli
soli, mai più
non può lasciare
quella vita, coni
chi comincia a scrivere
cella loro lingua, da
virtù furfantesca sforzato,
convien, se ben
nonvolesse, finire in
quella. Vostrodeno, dunque,
rifonderà breviosa per breviosa,
se sbasirete così
per lo cornifico, come il
carni fico per vostrise. Del
quale vi potrà
poi dannezzar l'osmo
rifonditor di questa.
Vostrise rifonda morfa
et morfa, per
nome del cornifico,
a l'osino della
bolla dei tuferi,
cornifico et inazo
mio fratengo, et
a tutti i
gali di vostrodeno
Rifondo stanga al
burlante et ri morfisco tutta
da chietina a calchi.
— Di
vostrise, maza sant'alta
Ant. Brocardo cornifico et
falconissimo con cera
comprante viole (').
V. S., dunque,
risponderà con una
lettera a questa
lettera, se morrete
cosi pel fratello,
come il fratello
per voi. Del
quale potrà poi informarvi
l'uomo latore di
questa. Voi date
bocca e bocca,
per nome del
fratello, all'uomo di Vicenza,
fratello e signore
mio ottimo, e a
tutti gli amanti
di V. S.
Do stanga all'uscio
(idest finisco) e
vi bacio tutta da
capo a piedi.
— Di voi,
divina signora, Ant.
Brocardo fratello e
servitorissimo, con mano
fuggevole (*). Vedi
Lettere volgari di
diversi nobilinsimi homini
ecc., race, da
P. Alamijj^^ L.
II, p. ili
e anche la
Xuova scelta di
lettere race, da
±S. Pino, p.
336. Cfr. pure
Cian nel Oiorn.
degli eruditi e
curiosi, 1 1 . 629-30. La
mia interpretazione coincide
quasi interamente con
quella che diede
V. Eossi a
p. 30 «. del libretto
del Vitaliani, che
citerò tra breve
e che fu edito quando
questi miei cenni
erano già stesi. In
questo gergo furfantesco
veneto avrebbe il
Brocardo, secondo Alessandro
Zanco, scritto un
Capitolo in rima,
e probabilmente non
quello solo, se
in questo genere
di composizioni egli
si guadagnò reputazione
siffatta, da esser
creduto l'inventore di quel
linguaggio. Nulla sinora
sape vasi della
produzione letteraria furbesca
del Brocardo; ma io credo
di non ingannarmi
supponendo ch'essa ci sia
in parte conservata
da un codicetto
anonimo cinquecentista, già
posseduto dal marchese 6.
Campori, ed ora
depositato all'Estense. Sono già
passati molti anni
che il rimpianto
marchese, con la
liberalità eccezionale
ond'era dotato, accondiscese
al mio desiderio di
avere in prestito
quel codicetto ('),
sicché io ebbi agio
di ricopiarmelo tutto.
E un zibaldoncino
di 55 carte,
evidentemente dovuto ad
un dilettante di
poesia furbesca, che
potrebbe anche essere
il Brocardo medesimo.
Le prime 26
carte sono occupate
da uno spoglio
copioso di parole
e frasi gergali,
ad alcune delle
quali è messa
accanto la spiegazione
(2), il che accade
pure in
un altro elenco
finale, che empie
fi) Xe rinvenni
dapprima notizia nel
Catalogo dei mss.
Campori compilato da
E. Vaxdwi. Il
nostro codicetto ha
il n. 425
nella Appendice I,
Modena, 1886, p.
151. C2) Noto
la nomenclatura dei
vari dragoni, cioè « dottori e
quella interessante, e
solo in parte
nota, delle Mie,
cioè • città
». la questa
parte è pure
svelato il segreto
dei ■ nomi
da intendere quello
ha il compagno
quando si gio«
cha alle carte
», vale a
dire il frasario
convenzionale dei bari.
16 censi sull'oso
dell'antico gergo furbesco
le carte 52-55
del ras. (').
Nel mezzo sono
scritte (ce. 29-51)
parecchie poesie (vale
a dire due capitoli
o ternari, trenta
sonetti ed una
stanza) tutte d'una
stessa mano, ma
alcune scritte accuratamente, altre affrettatamente. Le
cancellature e correzioni della
mano medesima mostrano
che il codicetto
è autografo e
che almeno alcune
di quelle rime
sono fattura della
persona stessa che
quivi le scrisse.
Certamente questo ras.,
dal quale forse
mi avverrà di trarre
in seguito altre
comunicazioni, è d'interesse
capitale per chi
voglia studiare il
furbesco del nostro
Cinquecento. La ragione
per cui inclino
ad attribuirlo al
Brocardo non sta
solo nella coincidenza
perfetta di questo
gergo con quello
che il Brocardo
usò nella riferita
lettera, nè solo nella
fama ch'egli ebbe
di maestro nel
linguaggio furfantino, ma
anche in un
altro fatto che
mi pare significante.
Tutti sanno che
l'episodio capitale della
vita del Brocardo
sta nella sua
ribellione alla dittatura
letteraria di Pietro
Bembo, ribellione che
produsse un vero
scandalo, che tirò
addosso all'infelice giovine
le ire di
molti, fra cui
quelle di Pietro
Aretino, e che
forse contribuì al
suo spegnersi immaturo
(2). Quivi
è una lunga
e interessante lista
di rase iUUi
furbi, cioè dei
diversi inganni dei
vagabondi, nelle loro
espressioni di gergo,
ed inoltre ijriomi
furbeschi di molti
santi. Per questo
episodio vedi Mazzuchki.i.i, II,
IV, 219; Vmoiu,
F. Berni, Firenze, 1881,
pp. 229-36; V.
Ci an, Decennio,
pagine 178-183; C.
Bertaxi. Pietro Aretino
e le sue
opere, Sondrio, 1901,
pp. 92-98. Come
accennai, erano già
scritte queste mie pa
Il chiasso fu
tale, che in
Padova si formarono
due fazioni: quella
dei Brocardiani e
quella degli anti-Brocardiani (').
Le ire dovettero
sfogarsi particolarmente in versi,
e si deplora
che di quei
versi ben pochi
siano giunti a
noi (2). Quelli
atroci con cui
l'Aretino da vasi
vanto d'aver ammazzato
il Brocardo, non
li conosciamo: nè
si conoscevan finora
le risposte con
cui certo non
mancò di dargli
addosso il Brocardo
(3). Quale cosa
più probabile che
in quelle invettive
il giovine poeta usasse
il gergo, che
gli era famigliare
e che all'invettiva
particolarmente riusciva acconcio? Il
modo con cui
Bernardo Tasso, in
una lettera all'Aretino,
cercò scusare l'amico
suo d'uno di
quei sonetti non
esclude davvero ch'essi
fossero scritti in una
lingua incomprensibile (*).
Ora, nel codicetto
Campori esistono per
lo meno due
sonetti diretti contro
l'Aretino, nè è
detto che non
ve ne sia qualche altro
in cui non
appaia il nome
di lui e che pur
lo abbiano in
mira. gine quando
comparve il libretto
di D. Vitaliahi
su Antonio Brorardo,
Lonigo, 1902, ove
i fatti sono
estesamente narrati ed
esaminati. Cfr.
Ciak, Op. tit.,
p. 179, n. 3. Vedi Vitamani,
Op. cit., pp.
99-100. Il sonetto del
ms. ci. IX,
n. 300 della
Marciana, che ■si
dice essere stato
scritto dal Brocardo
contro l'Aretino (v.
Vitaliani, pp. 42-44),
è certo minima
parte di quella
diatriba velenosa. Dice
il Tasso che
quel sonetto «
fra Taltre cose,
non • s'intende
che si voglia
dire; e par
più tosto fatto
contra ■ una
puttana • (Lettere
scritte a Pietro
Aretino, ed. Landoni,
I, I. 1H8-139).
Doveva essere ben
oscuro, se era
possibile un dubbio
siffatto ! Renikh
Sruffhi Critici ì
18 CENNI SULL'OSO
DELL'ANTICO GERGO FURBESCO
Ecco i sonetti,
che sono oscurissimi,
volutamente oscuri: La
ludovica calca vii
baceone masca che
il eapuan Pietro
Aretino, con il
suo canzonar vago
e. divino, l'altrui
fama imbrunisca da
Marone. Amor per
che il cavato
e ver dragone
d'ogni osmo di
campagnapellegrino fratengamente travaglia
e il lodesino
al sfoglioso di
.grandi s'il rippone.
Però di salso
lui canzona e
frappa di maggi
loi ch'hanno già
smarrita la calca
d'ogni virtude et
fatti goi. Acciò
ch'a più fratenga
et onta vita
ritracchi ognun, li
loffiosi suoi errori
imbianca con la
mista unita (l)
Pietro Aretin, che
la tua serpentina
Sant'Alto l'ha riffosa
in si furore
per il qual
speglia e tartisse
ogni signore che
contra lor non
trucchi alla marina.
Fratenga sorte bella
e pellegrina che
mancando in amor
et in ardore
in alto sbigni si
ch'a grande onore
di cavi liniator
sei posto in
cima. A vostriso
si riffonde dell'albume
d'ogni fiorita cerra
nella bolla che
batte la gran
lenza a la
marina. Ivi Simon
il preggiato rosume
spande al sono
di fiori e
poi per fola
con guaschi cavi
solazzi Pedrina (!).
Il sonetto
è irregolare nelle
rime e ha
parecchi versi che
non tornano. Coi
mezzi di cui
dispongo se ne
intendono bensì diverse
parole e frasi,
ma non il
senso generale. Solo
l'ultima terzina parmi
sia da interpretare
così: « Perchè
« ognuno ritorni
a vita più^dfona
e bella, [l'Autore]
con l'unita «
lettera scopre la
nefandità degli errori
di lui [Aretino]
» Mi è chiara
solo la prima
terzina: ■ A
voi si dà
del « denaro
da ogni bella
mano nella città
che batte la
gran ; Lii
presenza di questi
due sonetti, che
possono offrire un
saggio del più
puro furbesco vèneto,
rende assai verosimile,
a me sembra,
che al Brocardo
appartenga, in tutto
od in parte,
la raccoltimi del ìus.
Campori. Nella quale
raccoltina ricompaiono pure
la stanza, il
capitolo in lode
del contrappunto o
parlar furbesco (l),
ed i quattro
sonetti, che sono
stampati in fondo
al Modo novo
da intendere la
lingua serga (2):
tutti componimenti che
non ri ■
d'acqua a la
marina ». Non
si creda che il vocabolo
Pedrina, con cui il sonetto
si chiude, accenni
a Perina Riccia,
una delle amanti
dell'Aretino a Venezia.
Se è vero
che nel 1537
essa avesse soli
14 anni (cfr.
Bertasìi, Op. cit.,
p. 147), non
poteva il Brocardo
alludere a lei
nel '31. Inoltre
v'è la frase
furbesca satirizzar Pedrina, che
vale « darsi
buon tempo ».
Essa ricorre in
un altro sonetto
del codice Campori
: ■ Et
se in la
rasa sguazzare Pedrina
». (1) Contrappunto
dice « farsetto
• nel gergo
del Pulci e
■ linguaggio ■
nel gergo veneto.
Il passaggio ideologico
è il medesimo
per cui i
Sardi chiamano il
gergo cobertanza. Due di
quei sonetti passarono
anche nei cit.
Studii sulle lingue
furbesche del Biondelli,
a pp. 169-70.
Riferisco la stanza
correggendone gli errori
con l'aiuto del
codice; Chi tuoI
far l'arte del
buon calcagnante attenda,
che monel vi
farà cima. Vostriso
il tappo anelle
e le tirante,
il basto sodo
e gualdi nella
lima. Se tu
vuoi aste a
morrizar raspante, riffbndi
il talian a
qualche grìitia. Sul
burchio truccarsi per
la calcosa e avrai sempre
gonfiata la sfoiosa.
Interpreterei cosi :
« Stia attento
eh*" vuol fare l'arte
del buon ■
compagnone, che lo
farò diventar perfetto.
Bucati (?) siano
• il vostro
mantello e le
brache; la giubba
sucida; pidocchi «
nel! a camicia.
Se vuoi denari
per mangiar capponi,
dà l'e ■ sca
(?) a qualche
vecchia. -Tu n'andrai
a cavallo per
la terra «
e avrai sempre
piena la borsa
». 20 CENNI
sull'uso dell'antico gergo
furbesco salgono all'autore
di quell'antico lessico,
perchè il lessico
non serve ad
intenderli compiutamente, e
perchè l'editore vi
lasciò correre molti
errori manifesti, che
nel ms. Campori
sono. Quindi la
raccolta del codice
Campori è anteriore
alla edizione principe rarissima
del Modo novo,
che. è del
1549. Quel libretto,
che ci rappresenta
la lingua dei
hianti e dei
pitocchi nell'Italia superiore
(') fu Bitinte,
come ci insegna
la Crusca, vale
vagabondo, « che • va
intorno birboneggiando e
cercando di truffare
il pros« simo »
. Questi
pericolosi individui, nelle
loro numerose suddivisioni in mendicanti,
mercenari, cerretani, ladri,
merciaioli ambulanti, avventurieri,
scrocconi, ecc., che
popolarono in Francia
le corti dei
miracoli, si costituirono
in Parigi, fin
dal Quattrocento, in
una corporazione avente
la sua gerarchia,
i suoi statuti,
la sua lingua.
Vedi pp. 3
sgg. dell'Op. cit.
di A. Vitu,
e l'articolo di
Fh. Micukl nel
I voi. dell'opera
Le mot/en-age et
la renaissance, ove
alle categorie dei
vagabondi francesi sono
accostate quelle dei
vagabondi italiani, quali
furono noverate da
Raffaele Frianoro. Questo
Frianoro è pseudonimo
del padre Giacinto
de' Nobili, romano,
che nel lò!)4
fu ascritto ai
domenicani di Viterbo
e dettò varie
opere di religione
e riguardanti la
storia del suo
ordine (cfr. QukriF-EcHAKD, Script,
ord. praedicatorum, II,
408). Per trastullo
egli pubblicò nel
1621, col pseudonimo
di Frianoro, un
libretto dal titolo
II vagabondo, ovvero
Sferza de' bianti
e vagabondi, che
ebbe varie edizioni
antiche ed una
moderna, procurata da
Alessandro Torri in
Pisa pel Capurro
nel 1W28, con
le false indicazioni «
Italia, F. Didot
=• e col
titolo di Trattato
dei bianti. Vedi
per la bibliografia
Passalo, Xovell. Hai.
in prosa -,
I, 392 sgg.
e le aggiunte
di A. Tkssieu
nel Oiom. degli
ermi, e curiosi,
li, 555 sgg.
Sono trentaquattro le
categorie di vagabondi
che il Xobili
registra, esemplificandone con
acconcie novellette le
gesta. Quivi talora
essi parlano con
qualche termine del
loro misterioso linguaggio,
e persino alcuni
dei loro nomi
ritraggono dal gergo:
p. es. morghigeri
da Morgana «
campana ristampato molte volte
(4) ed è
finora il principale, quantunque defieentissimo, strumento
che ci sia
concesso per intendere,
alla peggio o
alla meglio, l'antico gergo
furbesco italiano (*).
Intorno a quel
primo nucleo si
potranno raggruppare molti
altri vocaboli da
chi sappia convenienteniente trar
partito dal codice
tto Cam pori
e dai e ruffiti, bruciati,
da ruffa «
fuoco ». Interessante
è ciò che
scrive di codesti
furfanti T. Garzoni
ne] disc. 72
della sua l'iazza
universale, ove riferisce
anche parole del
loro gergo, evidentemente
dedotte, insieme con
la prima quartina
d'un sonetto furbesco, dal
Modo novo. Vedil'ediz.
citata della Piazza,
Venezia, 1592, a
pp. 582 e
584. (li Del
Modo novo, dal
1549 in poi,
si ebbero una
quindicina di edizioni, tutte
oggi rare. Si
possono vedere annoverate dal Biicket,
Manuel, 111,1784 e dal Pitrè,
Bibliografia delle tradiz.
popolari, Torino-Palermo, 1894,
pp. 172-73. Il
piccolo lessico, come
dice un sonetto
proemiale, fu fatto
con lo scopo
pratico di far
intendere ai galantuomini,
per loro difesa,
il gergo dei
birbanti. Il Modo
novo fu dal
Torri accodato, con
ottimo pensiero, all'ediz.
pisana del Trattalo
dei bianti, ed
è questa la
ristampa meno difficile
a trovarsi, sebbene
il libretto sia
stato tirato a
soli '250 esemplari. Con poche
aggiunte, tutte da
qualche testo furbesco,
il Modo novo
ritorna, in forma
più rigorosamente alfabetica,
negli Studii sulle
lingue furbesche di
B. Biondelli e
nel menzionato volume di
Elude» sur l'argot
di Fu. Michel,
app. 425 sgg.
L'Ascoli, Studii critici,
I, 102 n.
menziona come cose
diverse dal Modo novo
suddetto due pubblicazioni
di Pietro e
Giov. Maria Sabio,
che i bibliografi
registrano, il Vocalmlario
della lingua zerga,
Venezia, 1556 e
il Libro zergo
de interpretare la
lingua zerga, Venezia,
15G5. Io cercai
indarno di vedere
questi due libretti,
che non esistono
neppure nella Marciana.
Il Michel pure,
che li cita
a p. 424,
non credo li
abbia veduti. Ilo un
fiero dubbio che
siano, sott'altro titolo,
ristampe del Modo
novo, e in
questo dubbio mi
conferma anche una
not3 sgg. Sul
gergo dei pastori
del Bergamasco si
trattenne re 28
cenni sull'uso dellUnttco
gergo FURBESCO e
criminalisti ('). Prescindendo
dall'enorme varietà della terminologia
oscena, che si
rinnova e si
arricchisce di continuo
molti termini del
plicate volte, in
speciali memorie, A.
Tirabosciu, che tornò
ad occuparsene in
appendice a] suo
Vocabolario bergamasco. Un
saggio di gergo
torinese fu messo
insieme da A.
Vihiglio nell1 opuscolo
Come si parla
a Torino, Torino,
1897, pp. 38
sgg. Un elenco
di vocabili furbeschi
palermitani si trova
nell'opera del Pitrè, Usi
e costumi siciliani,
II, 319-36. Per
altre piccole raccolte
vedi la Bibliografia
del Pitrè. stesso
ed anche K. Sachs
nel Literaturblatt far
gemi, und roman.
Pliilotogie, XX, 414.
(1) Alcuni fra
i contributi dei
criminalisti, sebbene non abbiano
scopo filologico, sono
preziosi. Pei gerghi
della bassa mafia e
della camorra, vedasi
il Pitrè, Op.
ci/, e Archivio
di psichiatria, 111,448-50; X.
271-76: XXI. 9b-101.Per
quello toscano, Ardi,
cit., XI, 220;
per quello romano,
Xicufuro e Sighele,
La mala vita
a Roma, Torino,
1898 passim, ma
specialm. 107-72; per
quello piemontese, oltre
il cit. Viriglio,
Ardi., Vili, 125130;
per quello veneto,
Ardi., I, 204-12.
Il Soranzo ed
il Pitrè registrano
un Vocabolario dei
gerghi veneziani più
oscuri di L.
Pasto, Venezia, 1803.
ma a me
non riuscì di
averlo fra mani.
Questi ed altri
materiali pone a
profitto, con osservazioni non tutte
inutili, C. Lombroso,
nell'ultima ediz. dell' Uomo
delinquente*, I, 531
sgg. 11 libro
di A. Xicefoko,
// gergo nei
normali, nei degenerati
e nei criminali,
Torino 1897, mantiene
assai meno di
quel che il
titolo prometta e
gli studiosi del furbesco
italiano avranno ben
poco da apprendervi.
(2j Nel linguaggio
erotico le parole
di gergo passano
spesso nella lingua
o viceversa. Vedasi
la ricchezza delle
denominazioni date alle meretrici
secondo gli scrittori
napoletani dal sec.
XV al XVII
in S. Di
Giacomo. La prostituzione
in Napoli nei
sec. XV-XV1I, Napoli,
1899, pp. £H>-97.
Più d'una volta
il Lombroso ha
ripetuto dal Dufodr,
Histoire de la
prostitution, che nella
lingua erotica francese
del sec. XVI
l'atto venereo aveva
300 sinonimi, le
parti sessuali 400,
le prostitute 103.
Nel furbesco torinese
recentissimo, p. es.,
dice « prostituta
» anche bicicletta,
forse per analogia
con pietà (bicia)
che ha il
medesimo senso. gergo antico
ricompaiono tali e
quali nelle parlate moderne dei
truffatori e dei
ladri ('), e
vi sono voci
gergali che riescono
a penetrare nei
dialetti e a
farsi accogliere persino
nella lingua letteraria
("'). Chi consideri
questo, vedrà age Lenza,
lima, maggio, perpetua,
dragone, ecc. sono
ancor vivi e
comunissimi in varie
parlate furbesche d'Italia,
nel si-nso stesso
che avevano nel
Cinquecento. Cosi pure i prouomi
mascherati, come mamma
per « io
» (nel gergo
antico mia madre
■ io •,
tua madre *
tu », accanto
a simone, monello ecc.
per ■ io
»; vostriso, vostrodeno
ecc.). Cfr. Lombroso,
Op. cit., I,
542-43 e 550.
Lustro dice ■
giorno » nel
gergo veneto odierno; Instic
nel piemontese. Del
gergo piemontese è
pure calcusana per
« terra >,
l'antico calcosa; magruna
per ■ morte
», l'antica magra;
sfóióse per «
carte >; riaro
pungent per ■
aceto », antico
chiaro ■ vino
» ; viprósa
per « lingua
■, analogo all'ant.
serpentina (Ardi, di
psirhialria, Vili, 125
sgg.). E a
Firenze oggi pure
è detto in
furbesco ridarò il ■ vino », Itnxa
l'« acqua »,
raspanti i «
polli », fangose
le « scarpe
»; a Torino
fangóse ecc. (Arch.
cit., XI, 220).
Un giuoco di
carte fatto per
ingannare i gonzi
è ancora detto
dai bari ■
trucco delle sfogliose
» (..IrcA. cit.,
XIX, 874). In
Valsoana si usa
hriina per ■
notte »; chiarir
per « bere
»; romene per
« bastone », ant.
ramengo ; rUf
per ■ fuoco
» ; barar
per « guardare »,
ant. Ixdcare, ed
il bellissimo marconar
per ■ maritarsi
», che risponde
agli antichi marca
« donna »
e quindi ■ meretrice
» e
marcane « rumano
». La mala
vita di Roma
conosce tuttora I ih
iosa per «
prigione » ;
sgrondare per «
rubare », ant.
grand/re, e grane-io
« ladro »;
bianchetto « argento
» analogo all'ant. albume;
forntica ■ soldato
»; grimo «
vecchio » ecc.
Invece il furbesco
dei manosi e
quello dei camorristi
non presentano alcuna
somiglianza col gergo
antico. Vedi in proposito
l'arguto, ma in
qualche parte paradossale, articolo di
F. Brcxktiéhk, De
la deformation de la languc
par l'argot, in
Heiuc de* deux
mondes, voi. 47, 1881.
pp. -134 sgg.
Nulla di simile
s'è fatto per
l'Italia e converrebbe tentarlo. Cito
solo qualche esempio.
11 veneto odierno
ha sbasir per
« svenire »
e sbasto nei
vari significati che registra
il Boerio: il
che richiama lo
sbasire « morire
» del volmente che
lo studio del
gergo può divenire
qualcosa più che
una semplice ricerca
di curiosità erudita. Nota
aggiunta. — Comjjarso
la prima volta
nella Miscellanea- di studi
critici in onore
di Arturo Grraf,
Bergamo, Istituto d'arti
grafiche, 1908. Dopo
uscito il mio
studietto, comparve in
Francia un dotto
volume, che sarà
d'ora innanzi il
vero fondamento per
ogni ulteriore ricerca
sui linguaggi furbeschi
d'un tempo, Lazark
Saisean. L'argot ancien,
Paris, Champion, 1907.
Il Sainéan, straniero,
profittò del mio
scritto, sebbene lo
riguardasse solo fino
ad un certo
punto; noi conobbe
invece, o ne tacque,
Dino Provenzal, italiano,
che sui gerghi
cittadini fece alcune
considerazioncelle nel suo
articolo 1 nuovi
orizzonti del folklore,
Bologna, 1906, pp.
25 sgg. gergo
antico. Nel veneto
occorre pure spessegar
per « camminare in
fretta », e
parrebbe frequentativo di
spcssar « andare »,
che è gergale,
da cui il
bello lustro sposante
« oggi »,
quasi « giorno
corrente » (cfr.
Ardi, di psichiatria,
I, '210). Pel
volgo dell'Italia centrale
marchese dice «
mestruo », il
che ci richiama
al furbesco marca
« donna». Su
ciò cfr. marque
nel Michel, Op.
cit., p. 960.
Gaia di Gherardo
da Camino. Rammentate
la chiesa di
S. Nicolò a
Treviso? Il superbo
tempio dei padri
predicatori, che maestosamente domina" i
piccoli edifìci circostanti,
s'erge grandioso, semplice
ed elegante sugli
svelti colonnati, che
sopportano gli archi
acuti, mentre dalle
grandi finestre ogivali
penetra eternamente giovine
il sole, e
gli ex voto
frescati nel Trecento
ridono nella gaiezza
delle loro tinte
dalle colonne e dalle
pareti, ed a
destra un colossale
ti. Cristoforo, pure
dipinto a fresco,
guarda sempre ingenuo e
stupito il piccolo
Redentore che reca
in ispalla. L'edifìcio,
tra i più
belli e puri
del Veneto, è
in gran parte
dovuto alla munificenza di quel
dotto e pio
monaco, di cui
in quest'anno Treviso
s'appresta a celebrare
il centenario della morte,
Nicolò Boccasini domenicano, che per
pochi mesi, in
sugli albori del
XIV secolo, portò
la mitezza della
sua santa anima
sulla cattedra pontificale,
succedendo col nome
di Benedetto XI
al fiero papa
Caetani, e s'ebbe
poi aureola di
beato e presso
i suoi concittadini tanta estimazione,
che qualcuno di
essi avrebbe augurato,
a ricordo di
lui, il nome
di Benedetto XV all'attuale
pontefice, pure trevisano. Grande venerazione
nutrirono i signori
da Camino per
S. Nicolò. Il
vecchio Guecello dei
Caminesi di sotto,
già nel 1272,
quando l'attuale tempio non
era ancor sorto,
volle essere sepolto
apud ecclesia m
sancii Nicolai, la
modesta chiesa di
S. Nicolò, detta
dei pescatori, che
un giorno appartenne
ai Domenicani; e
con ogni verosimiglianza le
sue ossa furono
poi trasportate nella tomba
che presso la
porta maggiore del
nuovo S. Nicolò
ordinò fosse a
sè costrutta il
figliuolo di Guecello,
Tolberto (1317). Là
presso riposava ormai
da sei anni
la sua prima
moglie, Gaia, figliuola
di Gherardo da
Camino, la nobilis,
prndens et honesta
domina Gaia, come
la chiama il
notaio che rogò
il suo testamento
nel castello di
Portobuffolò il 14
agosto 1311, la
quale aveva lasciato
cinquecento lire di
piccoli prò opera
et laborerio della
nuova chiesa. E
nel mausoleo materno,
posto a sinistra
di chi usciva
dal tempio (nel
sec. XVIII se
ne vedevano ancora
gli avanzi), mentre
la tomba di
Tolberto era a
destra, volle esser
tumulata l'unica figlia
nata da Gaia,
la virtuosissima Chiara,
che fu moglie
al nobil conte
Rambaldo Vili di
Collalto e fece
testamento il 7
settembre 1348. Presso
la madre e
la nonna dormi
l'eterno sonno anche
Ailice, una delle
figliuole di Chiara,
morta nel 1381.
Queste ed altre
cose molte largamente
espone e documenta,
in un recentissimo
libro, Angelo Marchesan
(l), il quale
alle attestazioni recate
Gaia da
C'amino nei dorumenli
trevisani, in Sanie
e nei commentatori
della Die. Commedia,
Treviso, tip. Turazza. dall'antico storico
della Marca trevigiana,
il Verci ('),
altre ne aggiunge
dedotte da documenti
sinora inediti, custoditi
in depositi pubblici
e privati. Non
molto aggiungono i
documenti nuovi a
quello che di
Gaia già si
sapeva; ma invece
sono preziosi per
farci meglio conoscere
le persone che furono
a lei più
strette di affinità,
particolarmente il marito e
la figlia. Gaia
nacque, secondo le
probabili congetture del
Marchesan, fra il
1265 ed il
1270 dal magnanimo
Gherardo e da
Chiara della Torre.
Siccome questa mori
solo nel 1299,
passò Gaia la
giovinezza sotto l'amorosa
vigilanza materna, e la madre
potè condurla all'altare,
allorché verso il
1293 essa impalmò
Tolberto dei Caminesi
di sotto. Questi
fu uomo di
non comune autorità,
prode nell'armi, accorto negoziatore.
Va da sè che i
documenti ufficiali non ci dicono se
siano stati buoni
i suoi rapporti
con la moglie;
ma il fatto
che egli testò
di voler esser
sepolto non lungi
da lei, morta
nel 1311, non
sembrerebbe certo indizio
di malevolenza. Indubitato è
poi l'affetto figliale
tenerissimo di Chiara,
la quale non
solo dispose d'essere
riposta nell'arca stessa di
Gaia, ma in
una sua figlia
ne rinnovò il
nome, e forse
chiamò Gaia di
Del Verci, per
quel che concerne
i Caminesi, s'era
particolarmente giovato il
Mawiiesan nell'altro utilissimo
suo volume, che
cosi bene illustra
la storia più
gloriosa di Treviso e
che contiene assai
più di quel
che dica il
titolo, L'università di Treviso
nei secoli XIII e XIY,
Treviso, 1892. Re
.1 KB Svayhi
Critici. pure una sua
figlioccia, ed a
suffragio dell'anima della madre
destinò un legato
a' poverelli nel
suo testamento. Per
quanto la pratica
degli atti legali
antichi ci premunisca
dal dare loro
un peso soverchio
per quel che
spetta alle condizioni intime dei
personaggi a cui si riferiscono,
e per quanto
nel frasario e
nelle disposizioni di
quelli atti molto
si debba alla
convenzione inveterata, sta il
fatto che il
complesso dei numerosi documenti fatti
conoscere dal Marchesati
è tale da
farci credere Gaia
gentildonna esemplarmente
intemerata, e che
non si conosce
pure un atto
della sua breve
vita onde sia
lecito trarre qualche
legittimo sospetto in
contrario. O come
va, dunque, che
ormai nella critica
dantesca predomina opposta
sentenza ? Nella
terza cornice del
Purgatorio, quella fumosa
degli iracondi, s'imbatte
l'Alighieri in Marco
Lombardo, che spiegatagli la
funzione del libero
arbitrio nelle operazioni umane,
assorge da questa
considerazione psicologica ed
etica alla teoria
politica, svolgendo il
principio tanto caro
a Dante delle
due autorità necessarie
al regolato consorzio umano, l'imperiale
e la pontificia,
operanti divise ma
concordi; lamenta la
degenerazione di quella
larga zona della
superiore Italia che
francescamente chiamavasi Lombardia,
e dice che
tre soli vecchi
ancor vivono, «
in cui rampogna
l'antica età la
nuova », Corrado
da Palazzo, il
buon Gherardo, e
Guido da Castello.
Noti sono a
Dante il bresciano
Corrado ed il
reggiano Guido; ma
chi sia il
buon Gherardo ùnge
d'ignorare. E allora
Marco a stupirsi
di siffatta ignoranza ed
a replicare: O
tuo parlar m'inganna
o e' mi
tenta, chè, parlandomi
tosco, Par che
del buon Gherardo
nulla senta. Per
altro soprannome io
noi conosco, s"io
noi togliessi da sua figlia
Gaia ('). Dopo
quest'accenno, tronca il
discorso bruscamente: « Dio
sia con voi,
che più non
vegno vosco » .
Ora, l'oscurità voluta
di quest'accenno indusse
i dantologi a
lunghe discussioni; ma
ormai i più
autorevoli inclinano a
ritenere che Marco,
dopo aver così
esaltato il vecchio
Gherardo da Camino, abbia
voluto pungere la
degenerata figliuola
tristamente celebre per
la libertà de'
suoi costumi. A
non dilungarci in
citazioni che riuscirebbero interminabili e
uggiose, basti il
dire che la
scostumatezza di Gaia
parve certa ad
un filologo come
il Rajna (*)
e ad uno
storico e dantista come
il Del Lungo
(3), e che
ormai passò in
giudicato nelle più
pregiate opere di
consultazione e di complesso
come il Dante
DicUonary del Toynbee
fpp. 113 e
255) ed il
Dante dello Zingarelli
(p. 635). Sarà
fuor di strada
la maggiore e
più autorevole parte dell'esegesi
dantesca, rispetto al picei»
Purgai., XVI, 136-140.
iSI (fai-a da
C'amino, in Arch.
star, italiano, serie
o», voi. IX
. 103-104. Cfr.
i>. lir>. 42
• GAIA DI
GHERARDO DA CAMINO
ricerca storica intorno
ai fotti della
sua patria ('),
avendo rinvenuto nell'archivio
notai-ile di Treviso un
documento in cui
Gaia è detta
Goya Soprano, de
Camino, suppose che
a Dante non
fosse ignoto quel
secondo nome dato
nel rogito alla
contessa, e che
quindi con la
circonlocuzione di Marco
il poeta venisse
a chiamare Gherardo,
oltreché buono, anche
sovrano. L'ipotesi potrebbe
quadrare se il
secondo nome di
soprano, ricorresse
abitualmente nei documenti;
ma la raccolta
del Marchesan ci
dimostra che ciò
non avviene e
che l'atto notarile
fatto conoscere dal
Bisca ro è un'eccezione.
Di solito la
contessa caminese è
indicata senz'altro col
nome di Gaia.
Ma pur concedendo, e
volentieri lo concedo,
che l'Alighieri non
sapesse punto esser
quel nome (latinamente
Caia) una specie
d'anagramma di Atea
("), non è
forse vero che
Gaia molto si
presta a foggiarne
un soprannome? È
questo uno di
quei nomi significativi
di donna che
occorrono cosi di frequente
presso i
poeti dello stil
nuora e la
cui singolare ricorrenza
fece pensare al
sempre rimpianto Bartoli ch'essi
avessero quasi il
valore di quei
senhals, con che
i trovatori di
Provenza artificiosamente celavano
i nomi veri
delle donne da
loro amate in
rima. E Dante
aveva un gran
gusto, da uomo
medievale che era,
d'arzigogolare sui nomi, come
tutti sanno, e
sui nomi di Gerolamo Bisc.aro,
Dante e Gaia
ciò Camino, nella
Gazzetta di Treviso, fin.
XV (1878), n.
282 CI) Vedi
Ra.jna, Ardi, r.it,
pp. 291 e
sgg. GAIA DI
GHERARDO DA CAMINO
43 donna in
ispecie. Quindi io
non vedrei proprio
difficoltà alcuna ad
ammettere che abbia
colpito nel vero
il march. Domingo
Fransoni, il quale
levatosi fra i
primi a difendere
l'onore di Gaia
(.'/, sostenne che
il secondo soprannome
appropriato dal Lombardo
al vecchio Caminese
fosse quello di
gaio; opinione alla
quale, senza sapere
di chi 10
avea preceduto, mostrò
di propendere anche
11 mio carissimo
Novati (*). E
si noti che
la parola gaio ha
nel linguaggio nostro
antico una estensione
di significato ben
maggiore che nel
moderno, forse per
influenza di quella
specie di camaleonte
degli epiteti che
fu il gay
di lingua d'oc.
Dal più comune
senso di lieto,
che è dantesco nel
Farad. XV, 60
e XXVI, 102,
si giunge a
piacevole, a gentile,
a nobilmente giocondo.
Quest'ultimo significato è
forse nel luogo
nostro il più acconcio.
E mestieri, infatti,
tener fermo anzi
tutto un principio,
a parer mio,
sicuro: Dante nel XVI
del Purgatorio, deplorando
la decadenza del
valore e della
cortesia, dicendo l'età
sua divenuta selvaggia,
non intende alludere propriamente ad
una degenerazione etica,
come non ha
punto valore ristrettamente etico
l'epiteto buono che
accompagna il nome
di Ghe (lj Lo
scritto del Fransoni,
rimasto generalmente ignoto
a chi si
occupò della questione
nostra, è nel
volume de' suoi
Studi cari sulla
Dio. Commedia, Firenze,
1887. Io pure
lo avrei ignorato
se non era
il rinvio del
prezioso catalogo americano
del Kocli e
poi il resoconto
che ne diede
il Marchesan, pp.
105 e sgg. Giornale
storico della letteratura
italiana, rardo da Camino.
Buono per Dante
ha senso ben
più largo che
buono pei' noi;
tanto è vero
che egli chiama
buono, uè certo
per ironia, il
Barbarossa nel Pitrg.,
XVIII, 119 i,1).
Rispetto al costume
non fu buono
Gherardo, del cui libertinaggio
abbiamo indizi sicurissimi,
certo non ignoti
al poeto, che
potè verificarli coi
propri occhi a
Treviso, quando vi
andò (*), e
Gherardo era vecchio
e Rizzardo ormai
camminava con la
testa afta. Qualunque
portata abbia la digressione
dottrinale, di carattere
psicologico e politico,
che occupa tanta
parte del Purgatorio XVI (3),
è indubitabile che la bontà
di Gherardo, come quella
dei due vecchi
suoi compagni, è
bontà cavalleresca, è
curialilas. Fu già
da parecchi osservato che
Dante fa qui
parlare un uomo
di corte, vale
a dire uno
di quei curiosi
tipi, in cui
il poeta sentiva
qualcosa di sè medesimo,
costretto per tanti
anni a salire
le altrui scale,
uno di quei
tipi che a
seconda delle loro
qualità personali potevano
elevarsi dal basso
mestiere del buffone
all'altissimo del diplomatico; ma che
tuttavia vivevano della
magnanimità dei signori e
dovevano quindi tenerla
in altissimo conto,
non meno di
quel che facessero
(1; Cfr. il
volume Con Dante
e per Dante,
Milano, 1899, pp.
82-83. Basserjiaxn, Orme, trad.
Gorra, pp. 437
e 447; Zixgareli.i,
Dante, p. 204. Sul
valore di questa
digressione, vedasi l'opuscolo
di M. Los
aito, Xel terso
rerchio ilei Purgatorio,
Torino, i poeti
girovaghi di Provenza
(')• La perfetta
curialitas equivaleva alla
perfetta nobiltà, che
secondo Egidio Romano
(il cui De
regimine principimi non
fu ignoto all'Alighieri) consisteva
in quatti'o virtù:
la magnanimità, la
magnificenza, V ingegnosa dolcezza,
l'affabilità (*). Della
nobiltà l'Alighieri parla
a lungo, con
molte e sottili
distinzioni scolastiche nel
trattato IV del
Convivio, ed ivi
cerca l'accordo fra
la nobiltà del
sangue e quella
dell'animo. Ora è cosa notevolissima che in
quel trattato appunto,
nel cap. 14,
egli invoca l'esempio
di Gherardo, siccome quello d'uomo
senza possibilità di
contestazione tiobilissimo:
« Pognamo che
Gherardo « da
Camino fosse stato
nepote del più
vile vil« lano
che mai bevesse
dal Sile o
dal Cagnano, « e la
obblivione ancora non
fosse del suo
avolo « venuta,
chi sarà uso
di dire che
Gherardo da «
Camino fosse vile
uomo? e chi
non parlerà «
meco, dicendo quello
essere stato nobile?
Certo nullo, quanto
vuole sia presuntuoso,
perocché « egli
fu, e ha
sempre la sua
memoria ». E però
Vedi specialmente la
felice indagine di
F. Colagrusso, Gli
uomini di corte
nella Dio. Commedia,
ove sulla cortesia
del buon Gherardo
sono osservazioni degne
di nota. Studi
di letteratura italiana, II,
51-55. f2) Sull'evoluzione del
concetto di nobiltà
nei tempi di
Dante ai leggano
le belle pagine
di K. Vossler
nel suo libretto
or oia uscito
in luce, Die
philosophiachen Grundlagen ztim
• aflsSUI Heidelberg.
1904, pp. 24 e sgg.
Sulla parte che
aveva l'amore in
questo concetto della
nobiltà cortese, vedasi
Covati nel voi.
Arte, scienza e
fede ai giorni
di Dante, Milano. a
buon diritto Benvenuto
cosi intende l'epiteto
buono! «
Hic fuit viitotus
benignus, bumanus, «
curialis, liberalis et
amicus bonorum: ideo
an * tonomastice dictus
est bonus ». Le
qualità cavalleresche sopra
indicate il poeta
riconosceva tutte nel
degno signore trevisano,
al cui palagio
si recava ancora
per antica simpatia,
sebbene a motivo
della vecchiaia non
andasse più altrove,
maestro Ferrarino, il
gran conoscitore della poesia
trobadorica ; e
Gherardo ed i
figliuoli suoi (fra
cui Gaia) «
li fasian grand
« honor e'1
vesian voluntera e
molt l'aquliau *
ben e li
donavan voluntera » (x). Ma
a differenza dagli altri
due vecchioni una
prerogativa avea il
Caminese che agli
altri non era
propria, la gaiezza,
la giocondità. E
per dir questo
il poeta ricorre
allo spediente ingegnoso
di far rammentare la
sua figliuola, la
quale Gaia appunto
chiamavasi, ed incline
com'era (non meno
del padre) alle
« delegazioni amorose
», chissà non
rispondesse a ciò
che un giullare
del tempo scrisse
delle concittadine di
lei: De le
donne da Treviso:
queste soii cavalcareselie ;
sempre con allegro
vitto, tutte quante
zentilesche: Su Ferrarino
e sul svio
famoso florilegio, recpiitemente
edito, cfr. G.
Bertoni nel Giorn.
stor. della leti,
italiana, XLII, 378
sgg. Vedi Casini,
/ trovatori nella
Marca Trevigiana, in
Propuynalore. lei liei balli
e delle tresche
limino ben ile
saver fare, e
poi san bea
solazare con ognun
gentil barone [}).
irfliezza e giocondità
codeste, che erano
in piena relazione
con la vita
tradizionale nella Marca,
tanto conforme ai
gusti degli uomini
di corte. Cosa
notissima è infatti
che segnatamente nel
sec. XIII fu
Treviso ricetto di
bella e fresca
coltura, teatro di feste
amorose, di giostre,
di tornei. Non è
certo d'uopo di
rammentare ai lettori
colti la festa
del castello d'amore,
bizzarra, elegante, fastosa, di
cui ci serba
memoria il cronista Rolandino (2).
Noi troviamo Trevigi
nel cammino, che
di chiare fontane
tutta ride, e
del piacer d'amor
che quivi è
fino, scrive l'autore
del Ditt amondo (III,
2). Là sulle
rive del limpido
Sile parve che
rivivessero in una
primavera italica le
tradizioni cavalleresche d'oltralpe,
e insieme al
canto dei trovatori
echeggiarono le leggende classiche
e carolingie nella
* jojose marche
del cortois trivixan
>. Questo verso
appartiene al poema
franco-veneto della Entrée
de Spagne, al
quale poema, ed
all'arguto (l) Versi
editi da T.
Casini nel Propugnatore
del 1882 e
rammentati, nel libro
sull'università, dal Marchksax
e poi anche
dallo Zenatti. C2\
Per questo e
per altri particolari
della vita nella
Marca, vedansi i
capitoli 111 e
IV della citata
opera del Marchesa»,
L'università di Treviso. lai
d'Aristote, che è
una specie d'apoteosi
della potenza d'amore,
pare certo s'inspirasse
un pittore venerando in
certi suoi freschi
preziosi della fine
del dugento o
del principio del
trecento, che, scoperti
in una casa
privata di Treviso,
furono nel 1902 allogati
nel museo di
quella città dal
dotto e benemerito
cittadino che risponde
al nome di
Luigi Bailo (').
Quelli affreschi, e
gli altri ugualmente
antichi di cui
si conservano i
resti nella loggia
de' cavalieri, ove
i nobili si
accoglievano a sollazzo,
ammirandovi ritratte le
leggende di Troia,
stanno a dimostrarci
che nella terra
de' Caminesi tutte
le arti si
davano la mano
per render gioconda
e raffinata la
vita. * E
ora ammainiamo le
vele. Che Marco
Lombardo, trattato male,
a quanto sembra
da Rizzardo da
Camino, abbia potuto
riguardare come una
tentazione la dimanda
di Dante rispetto
al buon Gherardo,
e non abbia
voluto, per non
abbandonarsi all'ira, biasimare
nei figli di
lui la natura
parca che altrove
(Farad., Vili, 82)
Carlo Mai-fello lamenterà
discesa in Roberto Angioino,
il re da
sermone, non è
improbabile. Di ben
altro che d'avarizia
era Su quelli
affreschi veramente notevolissimi
abbiamo sinora solo
una relazione del
Bailo stesso e
la nota di
V. GiiEStwi negli
Atti dell'Istituto veneto,
voi. LXII. P.
II, pp. 267
e sgg. GAIA
DI GHERARDO DA
C'AMINO 49 tacciabile
Rizzardo, ed il
poeta infligge a
lui In condanna
in luogo più
acconcio, e per
altra bocca. L'intemerato
e sdegnoso uomo
di corte, invece,
che deplora la
degenerazione penetrata nei
nobili della Marca,
integra con la
sua seconda designazione la
prima. Gherardo non ha soltanto
in sè tutte
le doti della
curialitas, per cui fu detto
antonomasticamente buono; gli si può
appropriare un altro
soprannome, togliendolo da
sua figlia Gaia,
ed allora egli
apparirà qual'è, non
solamente generoso, liberale,
arrendevole, affabile, ma
anche giocondo, della
bella ed artistica giocondità della
sua patria. Nessun
dato serio di
fatto ci consente
di credere che
la gaiezza di Gaia
(seppure ella fu
gaia non solamente nel
nome) abbia oltrepassato
i limiti dell'onestà: tutti i
documenti cospirano a
farcela invece ritenere figliuola
amorosa, moglie esemplare,
madre teneramente amata;
la cruda attestazione
dell'Imolese più che
con l'esagerato desiderio
di contar fatterelli
piccanti, di cui
Benvenuto fu ghiottissimo,
più che ad
una amplificazione maligna del
nome della gentil
donna e della
chiosa del Laneo,
è forse dovuta
ad un equivoco.
Ma se anche
qualcosa di vero
vi fosse nella
imputazione di « tota
amorosa » inflitta
a Gaia; se
anche, nella giovinezza,
i suoi costumi
fossero stati alquanto
leggieri, come certamente
furono quelli del
padre e quelli
dei fratelli, non
è il caso
di credere che
a ciò volesse
accennare il poeta
divino. Molto indulgente
ei fu sempre
ai peccati d'amore,
massime in donna
nobile e per
altri Rfmrr Svaghi
Critici i rispetti stimabile.
L'altro requisito, che
meglio serviva a
caratterizzare Gherardo, era
la giocondità. Nessun
soprannome onorevole poteva
venirgli da una figlia
scostumata; ed il
cognome della figlia
era, in questo
caso, quello del
padre, sicché chi
avesse ignorato l'uno
non poteva ricever
lume dall'altro. Nota
aggiunta. — Nel
Fmiftdla della Domenica,
24 gennaio 1904. L'opinione
qui sostenuta, che
Dante non volesse
punto infamare Gaia,
fu, dopo quest'articolo mio,
patrocinata da L.
Bailo nel Nuovo
Archivio veneto, N.
S., VII, P.
II, pp. 433-38;
da Luigi Colktti
nello scritto Gaia
e Rizzardo da
Camino, Treviso, Zoppelli,
1904; da G-.
B. Picotti in
un articolo su Gaia
da C'amino che si legge
nel Giornale Dantesco,
an. XII, quad
6°, e quindi
nel volume /
Caminesi e la
loro signoria in Treviso,
Livorno, Giusti, 1905;
da Mario Cevolotto,
Dante e la
Marca trevigiana, Treviso,
tip. Turazza, 1906;
da F. Torraca
in enti-ambe le
edizioni del suo
ottimo commento al
poema dantesco; da
A. Medix nella
Ras», bibl. della
Ietterai, italiana, XIII,
'210-11. Invece ritornò
all'antica credenza che
Dante nominasse Gaia
a vitupero Pio
Eajsa nel Bullelt.
della Società Dantesca
italiana, X S.,
XI, 349 sgg.
Egli non mi
ha persuaso: ma
d'un particolare di
fatto conviene tener
conto: che la
sgualdrina caminese menzionata
da Giovanni da
Non non si
chiamava Gaia (vedi
le pp. 355-56
del Rajnaj. Ed
un secondo particolare
di fatto voglio
richiamare. Secondo una
dimostrazione inoppugnabile di M. Barbi
nel citato Bullett.,
X. 8., XV,
213 sgg., il
commento del cosidetto
Talice da Eicoldone,
che io fui
il primo a
studiare, mostrandone l'affinità
con quello di
Benvenuto, non è
sostanzialmente altro che
l'esposizione del poema
fatta a Bologna
da Benvenuto medesimo.
Il Vànnozzo. Chi
era costui? La
domanda, da parte
del pubblico anche
non mediocremente colto,
è davvero più
giustificata di quella
che rivolgeva a
sè medesimo il
più celebre dei
curati a proposito
d'un filosofo antico
punto oscurissimo. Di
Francesco di Vaunozzo
non da molti
nè da molto
tempo si bisbiglia.
E ben vero,
che già nel
1825, Niccolò Tommaseo,
con quel suo
ingegno acuto, di
pensatore edi artista, ravvisava l'importanza
di certe rime
politiche del Vannozzo edite
per nozze dall'abate
Andrea Coi e
minuziosamente le commentava
('). È ben
vero che dopo
d'allora, attingendo a quel preziosissimo
cimelio che è il codice
n. 59 della
biblioteca del Seminario
di Padova, ove
si conserva per intero
il patrimonio poetico
del rimatore spontaneo e
bizzarro (2), parecchi
eruditi fecero conoscere
qualcosa di lui,
massime il ghiNon
pago di quello
studio giovanile, tornava
il Tommaseo sul Vaunozzo
nel Dizionario d'estetica
(1860), I, i'27
sgg. La tavola del
codice è già
nell1 Indire delle
carte dì P. Bilan edizione
il907). — Tal
quale nella prima
edizione, del 1898. Gescli.
der ital. Liti.,
II (1888>, p.
80; nella traduzione.
2=> ediz., II,
1, 79. !p.
1G9). Sapeva di
musica più che
mediocremente; adattava a'
suoi versi le
melodie popolari ovvero
quelle dei musicisti
stranieri; sonava con
maestria più d'uno
strumento. Sciolte e gaie,
tutte conteste d'allusioni
mordaci e talora
d'espressioni gergali, gli
fluivano dalle labbia le
rime. Al pati
del suo più
tardo confratello, il
Pistoia, con cui
ha vari punti
di simiglianza, di
tutto ciò che
gli capitava sott' occhio
faceva sonetti, canzoni,
frottole. Souetti e
canzoni, che dai
motivi tradizionali burleschi,
dalle movenze proprie
ai buffoni, dalla
satira personale sguaiata,
assorgevano talora ad
alti argomenti politici, s'ingentilivano in
rime d'amore d'un
petrarchismo cosi vivo
e sano e
sentito, quale poche
altre volte al
Trecento venne fatto
d'udirne. Esemplari di
ciò i due
magnifici sonetti al
giardino, uno dei
quali, d'una freschezza
mirabile, malgrado qualche lombardismo
nella dizione, voglio riferire
per saggio: Gaio
e zentil zardino
adorno e fresco,
dove per suo
piacer la Dea
s'asconde, inclina verso
me tue fresche
fronde se per
parlar un poco
non t' incresco. Io
sono il cor
del tuo frate-I
Francesco, quel che
sì crudelmente Amor
confonde; da te
mi parto e
non so veder
donde, mia morte
fuggo, in cui
tanto m'adesco. Sol
un rimedio trovo
a la mia
doglia, che, se
'1 fie mai
eh' a te costei
si stenda, tu
faccia lagrimar ciascuna
foglia e gli
arbor tutti mia
rason difl'enda. Perfin
ch'ella non è
mossa de voglia
i fiori e
l'erba sta giudea
riprenda, e s'ella vi
domanda: « A
che piangete? »
ognun risponda: «
Pietà non avete.
» (') Il
poeta, che sapeva
trovare accenti così
aristocraticamente soavi
nella poesia d'amore;
il poeta che
con balda prosopopea
faceva, inv ocare
dalle città italiane
il conte di
Virtù a redentore
d'Italia e con
verace inspirazione accomiatava
quella manatella di
sonetti dicendo: Dunque
correte insieme, o
sparse rime, e
gite predicando in
ogni via che
Italia ride e
ch'è giunto il
Messia; il poeta
capace di questi
e d'altri sentimenti
gentili e generosi,
come s'incanagliava talor
nelle bettole e
nei bordelli, attratto
dalla follia del
dado e dal
fascino dei mali
compagnoni e delle
male femmine, cosi
si sbizzarriva nelle
frottole saltellanti e
procaci, vere orgie
poetiche. Una di
quelle frottole, la
frottola del mariazo,
è una specie
di farsa popolare
in embrione, riflesso senza dubbio,
come il Levi
dimostra dottamente, d'altre consimili
rappresentazioni profane,
che per
non esser state
fissate con la
scrittura il tempo c'invidiò.
Strano, dunque, mutevole,
randagio, questo Vannozzo;
un po' cantampanca,
un po' uomo
di corte, un
po' confidente di
principi e gran signori;
riproduzione, debitamente modificata
in conformità alla
temperie italiana, Seguo
la lezione data
dal Levi a
p. 420, solo
modificando l'interpunzione
nelle terzine. Il
sonetto fu molte
volte stampato. E
desideratissima l' edizione critica
di tutte le
poesie del Vannozzo,
che il Levi
ha già pronta. dell'antico giullare
francese; senza speciale
coltura, ma tutto spontaneità
e brio, tutto
vita, tutto arte
non riflessa. In
altri termini, un
rappresentante sincero di quella
scapigliatura, che all'età nostra critica
piace tanto, perchè
vi ravvisa riflesso
più genuinamente il
vario atteggiarsi dell'anima umana. Documenti
rintracciati permettono al
Levi di ricostituire
la biografia del
personaggio bizzarro, rispetto
alla quale sinora
s'era brancolato nel
buio. Non veronese
egli fu, nè
trevigiano di Volpago,
sì bene padovano,
figlio a Giovanni
di Bencivenne d'Arezzo,
detto Vannozzo, fido
cortigiaao di Francesco
I da Carrara
e da lui regalato
d'una casa in
Padova. Erano codesti
Vannozzi, o Vannucci
che dir si
vogliano, telaroli toscani,
di cui alcuni
fecero quattrini, comprarono terre, divennero
prestatori e banchieri.
Non cosi il
nostro Francesco, cui
tormentava l'assillo della
irrequietezza e fors' anche
la tendenza a
quell'onesta pigrizia che
le Muse tanto
volentieri consigliano. Egli
fu povero in
canna e della
miseria sua ebbe a
lamentarsi in rima
più volte, piacevoleggiandovi sopra
per meglio intenerire
i potenti e
stuzzicarne la vanagloria
munifica. Per quanto
ingegno e buona
volontà ci abbia
messo, non riusci
al Levi di
diradare del tutto
quel tenebrore che
avvolge le vicende
del Vannozzo; tuttavia, mercè
sua, parecchia luce è entrata là
dove prima era
buio pesto. Congettura
plausibilmente il novello
critico che sino
al 1358 messer
Francesco non si movcsse da
Padova, ove era
nato fra il
'30 e il '40. Da
Padova s'allontanò forse
la prima volta
nel 1363, ma
la abbandonò solo
nel '73, per
motivi politici, caduto
in disgrazia al
Carrarese dominante. Dopo quel
tempo si stabili
a Verona presso
gli Scaglieri; ma
caduti gli Scaglieri
nel 1387 e
poco appresso anche
i Carraresi, si
volse a quella
meta a cui
sembrava che Fortuna
avesse diretto la
sua ruota, la
corte di Milano.
Fu composto intorno al
1389 quel canto
con cui il
conte di Virtù,
Giangaleazzo Visconti, è
invocato come messia
d'Italia, e con
esso si chiude
il codice del
Seminario ed il
Vannozzo ammutolisce. Non è improbabile
che poco appresso
sia morto, chissà
dove. Da Padova
e da Verona
fece frequenti escursioni a
Venezia, a Ferrara,
a Bologna. A Bologna,
tra il 1377 e il
1378, gli saltò
persino il ticchio
di frequentare lo
Studio; ma ben
presto fu travolto
dai bisogni aspri
della vita e
se ne ritrasse.
Se lo si
chiamò maestro, fu
per l'arte dei
suoni, in cui
davvero si formò
reputazione. A Bologna
ebbe un processo,
per violenze, la
moglie del Vannozzo,
Orsolina, una parmigiana,
di cui non
ci è rimasta
se non quella
traccia criminale, sebbene
di criminalità non
obbrobriosa, ma che
pur sembra non
facesse cattiva compagnia
al rimatore girovago,
perchè morta giovine
egli la pianse
in un sonetto
alquanto rugginoso ma efficace.
Stima il Levi
non impossibile che
il Vannozzo passasse
qualche tempo, con
Marsilio da Carrara,
in Avignone e
che in Francia
si trattenesse, imparandovi
la lingua del paese
o desumendo dalla
poesia e dalla
musavi francesi elementi
ohe trasferì nelle
proprie. Pollando su d'un
accenno ili certo
sonetto di Antonio
Del d'aio diretto
al Vanuozzo [).
"14*0, ritenne pure
il Levi che
questi siasi recato
in Catalogna ed
in Fiandra: ma
a vero dire
su tutti codesti
viaggi fuori d'Italia
avrei diverse, e non tutte
spregevoli, ragioni da
accampare. Comunque sia, che
facesse un gran
girare non è
dubbio, ed il
fatto ch'egli esercitò
per qualche tempo
la dura professione
del corriere vale
a persuadercelo più d'ogni
altra cosa. Mentre
i suoi famigliari,
più pratici di
lui. s'arricchivano col
traffico, il povero
poeta snodava le
membra poco impedite
dalla polpa e
s'inzaccherava i calzari,
con la borsetta
a lato ed
il bordone in
mano, sotto pioggie
e sotto nevi,
ovvero s'impolverava dardeggiato
dal solleone, sulle
poco comode strade
del tempo. E
ben volentieri, talvolta,
trattenevasi a conversare
nelle osterie mal
frequentate, ove non poteva
resistere alla tentazione del dado,
fatale ad altri
poeti suoi contemporanei. E là
e per le
piazze, quand'era di
umor lieto, buffoneggiava. Amato,
per la vena
faceta, per certa
accortezza nativa, pel
dono di verseggiatore
e di musicista,
dai signori, prestava loro
servigi ora umili
ora onorevoli. Che
fosse addetto ai
falconi, come il
Levi sospetta per
un momento, non
v'è ragione plausibile
che induca a
crederlo: ma invece
è certo che
l'occasione lo trasmutò di
corriere in soldato
e che fu
ferito ad una
coscia. Vuole il
Levi che ciò
IL VAXNOZZO seguisse
nel novembre del
1372. allorché alle
l'rcntelle fu combattuta
tr;i Padovani e Veneziani
una battaglia. Così
gli fu presto
tronca la rarriera
d'anniderò, che, forse,
al suo inesaurihile
talento d'avventure non
ispiaeeva. E siccinui'
nell'eccitabile fantasia di
lui tutto prendeva vita
e parola, ne
vennero i piacevoli
sonetti a dialo.no tra
lui e la
rem'lfu. cioè il giavellotto
che l'avea colpito.
Le peregri nazioni
del Vannozzo, come
misero alla prova
l'infaticabile e non
ordinaria abilità ili
ricercatore del Levi,
così gli concessero
eli tracciare, con
un bel gruzzolo
di dati nuovi
di t'alio, la
storia politica e
letteraria delle città
in cui dimorò
e delle quali
son vestigia nell'opera
sua. Questo praticò
con estrema larghezza,
che non è
prolissità di parole,
ma è, se
cosi fosse dato
esprimersi, prolissità di
fatti. Peccato giovanile perdonabilissimo, di
cui egli, con la seconda parte
del titolo dato
al libro, cercò
di produrre anticipata giustificazione. Meniamogliela
buona, giacché in
vero questo studioso
ci sa dire
di gran cose
anche recondite. La
prima città in cui il
Levi si trattiene
è, naturalmente, Padova,
ove il Vannozzo
ebbe a goderò
le poche gioie
ed i non
pochi travagli (iella
giovinezza spensierata e
pur melanconica. La
città, suntuosa e
sucida, i signori
che vi dominavano in
quel tempo, il
palazzo carrarese, lo
stato della coltura,
la bella schiera
di umanisti e di
uomini di lettere
che vi trassero,
richiamati dalla presenza del
Petrarca, gli uomini
di corte e
i giullari che
vi bazzicavano, principe
fra essi quel
messer Dolcibene celebrato
dal Sacchetti, tutto
è qui rammentato,
descritto, documentato.
Balza fuori specialmente
una figura pressoché
nuova, quel Niccolò
Beccari da Ferrara, fratello del
poeta Antonio ('),
che in gioventù era
sceso nel purgatorio
di San Patrizio,
e poi fu
precettore di Francesco
Novello da Carrara,
amico del Petrarca
e famigliare di
Carlo IV imperatore.
A Ferrara il
Vannozzo non si
fermò a lungo:
non gli piaceva
la città allora
meschina, senza nessuna,
se ne togli
la vetusta cattedrale,
di quelle attrattive
edilizie onde la
ornarono i principi del
Kinascimento ed in
ispecie Ercole I:
non gli piaceva
l'aria bassa ed
insalubre; non gli
piacevan gli uomini,
millantator pomposi e
gran busardi, nei
fatti vili e
nel parlar gaiardi.
La vita di
corte allora v'era
parsimoniosa: i signori, anzichenò grossi,
più si dilettavano
di giuochi d'armi e
di buffoni che
non di artisti
e di letterati.
Lo Studio solo
nel 1891 divenne
genefi) Su l'uno
e su l'altro
Beccari s'aggirerà una
monografia del Levi
che ormai si
viene stampando. Questo
lavoro sarà di
grande interesse per
le relazioni della
coltura italiana con
Carlo IV e
i Boemi. ì ale.
Tuttavia a Ferrara
erano stati il
Petrarca, Donato degli
Albanzani, Benvenuto da
Imola; e dei
letterati che il
Vannozzo potè conoscervi,
o sicuramente vi
conobbe, tiene il
Levi lungo ragionamento. A
Verona il Vannozzo
era stato più
volte ed aveva
carteggiato in rima
con l'oscuro rimatore
Pier della Rocca,
allorché lo chiamò
a quella corte,
a nome del
Signore, l'umanista Antonio
Del Gaio da
Legnago. Colà fissò
radici nel 1382,
presso Antonio della
Scala, bastardo fratricida,
che ai piedi
della bionda Samaritana
da Polenta, di
cui era pazzamente
innamorato, profondeva ricchezze,
circondando d'ogni maniera
di sfarzo e
d'ogni raffinatezza d'arte
la donna godereccia
e perversa. Colà
vide, e segui
rimando, il tramonto e
la rovina della
superba dominazione scaligera.
Colà visse intensa
vita d'intelletto coi
dotti che vi
soggiornavano, Gaspare Broaspini,
Leonardo da Quinto,
Taddeo del Branca,
Guglielmo da Pastrengo e
altri non pochi.
Tra gli ufficiali
della cancelleria scaligera
ebbe amico Niccolò
degli Scacchi; ma
gli furono avversi
quattro altri tra
i quali i
più noti sono
Alberico da Marcellise
e maestro Marzagaglia.
Curiose novità ci
sa dire il
Levi di quelle
battaglie a punta
di penna, e
non meno curioso
è l'osservare come in
Verona lo spontaneo
bohémien padovano
s'acconciasse alla moda
favorita dal trattatista e
rimatore Gidino da
Sommacampagna e dietro
il suo esempio
si lambiccasse il
cervello con gli
acrostici, le poesie
trilingui ed altri
giocherelli eli sapor
medievale, finché un
bel giorno, infastidito,
mandò al diavolo
tutta quella zavorra.
Assai interessante è
quanto il Levi
ci sa dire
del Vannozzo a
Venezia. Qui non la corte
di un mecenate,
ma la opulenta
regina delle lagune,
prodiga d'ogni maniera
di sollazzi. I
venturieri vi trovarono
sempre il fatto
loro, e non
meno dei venturieri
i poeti. Neil
incantevole città il
nostro rimatore immergevasi
nei bagordi e
nei giochi, frequentava
gente gaia e
senza scrupoli, ma
al tempo stesso
s'inebbriava di quella
vita fulgida e
satura d'arte, e
osservava. Le sue
frottole veneziane sono scritte
durante la guerra
di Chioggia; qualcuna,
come quella lunghissima
« Perdonime ciascun
s'io parlo troppo
>, che fu
edita, e infelicemente, dal
solo Grion, ha
intento politico e
si sviluppa talora
con solennità epica
dal saltellio usuale
frottolesco; quella del
mai-iaso invece è
un quadro magnifico
di costume. Il
Levi è meraviglioso
nella illustrazione di
quei difficili componimenti
e delle altre
rime vaunozziane, che
burlescamente o satiricamente
rappresentano tipi veneziani
allora noti quanto
oggi oscurissimi. Il
soggiorno del Vannozzo
presso il conquistatore di Verona
e di Padova,
Giangaleazzo Visconti, al
quale i poeti
del tempo inneggiavano
come a rivendicatore
d'Italia (dovevano pure
i poeti, due
secoli dopo, ubbidire
ad un miraggio
non dissimile intorno
a Carlo Emanuele
I di Savoia), il
soggiorno, ripeto, presso
Giangaleazzo, offre occasione
al Levi di
rappresentare in un quadro
ampio e finito
la vita materiale
ed intvllettuale sfoggiata,
che in Milano
si conduceva, non
solo a' tempi
del conte di
Virtù, ma anche
a quelli de'
suoi antecessori immediati,
Bernabò e Galeazzo.
Con felice industria
raccoglie e conserta il
nuovo critico le
molte notizie già
note specialmente per le fruttuose
ricerche del Nbvati
e del Medin,
e molto aggiunge
di suo, e
figure e figurine
di gran signori,
di umanisti, di
letterati d'ogni genere fa
spiccare su quello
sfondo. Sfoggio grande
d'erudizione senza dubbio
intorno agli otto
sonetti patriottici bene
immaginati ed alla
tediosa canzone morale,
gli uni e
l'altra al conte
di Virtù, che
il Vannozzo compose;
ma sfoggio non
vano. Segue nel
libro lo studio
interno, anzi intimo
del verseggiatore. Osservatisi
in esso elementi
francesi, ma non
tali, a parer
mio, da esigere
che il poeta
li attingesse in Francia.
La gran valle
padana era tutta
irrigata di costumanze
e d'arte francesi;
e non era
mestieri varcare le
Alpi per esserne
imbevuti (';. Maggior
peso hanno forse
i riscontri musicali.
Che, in teoria
ed in pratica,
abbiano '1.» Con
la massima cautela
voglionsi interpretare certi
accenni a viaggi
remoti, che occorrono
nelle rime del
VannoEzo. Questo dei
viaggi, per lo
più imaginari, è
accenno tipico dei
vanti giullareschi e se ne
ha esempio celebre
anche nel contrasto di
Cielo d'Alcamo. per
questa parte influito
sul padovano il Machault ed
il Deschamps, sembrami
ben dimostrato; ma dubito
se anche per la musica,
in cui fu
maestro, il Vannozzo
dovesse proprio recarsi
all'estero. Le nostre
raccolte di liriche
musicali hanno testi
e melodie francesi
in quantità, testi
e melodie che
durarono per secoli,
e di cui,
a traverso alle
intavolature del Petrucci
e d'Andrea Antico, s' hanno
vestigi fin nel
seicento. Ciò nondimeno
le indagini che
il Levi pratica
intorno alle cognizioni musicali
del Vannozzo sono
una delle parti
più belle e
nuove del poderoso
volume. Credo ch'egli
colpisca nel segno
allorché viene a concludere
che il nome
alquanto misterioso di
ciciliana, dato a
certi componimenti musicali, riguardasse
la melodia più
che la forma
poetica. Le canzoni,
le ballate, i rondelli che
il Vannozzo avea
(e pei' far
ciò di recarsi
in Francia con
la persona non
aveva proprio bisogno), egli le
eseguiva su vari
strumenti musicali, massime sul
liuto e sull'arpa.
Se veramente azzecca giusto
il Levi in un suo
ragionamento sottile quanto ardimentoso,
il padovano nostro
avrebbe anche inventato
uno strumento da
fiato, la calandra.
Non meno fruttifero
è l'insieme degli
elementi popolari che
il Vannozzo fece
suoi con inesauribile franchezza di
assimilazione. La tendenza
giullaresca, che si
sfoga in lui
nel cinguettìo e
scintillio della frottola,
e nel tempo
medesimo l'abito democratico
conseguito per nascita
e l'invigorito per
elezione, lo indussero
a trar molto
della sua vitalità
artistica dal popolo,
ch'egli osservava ed amava,
nonché dalla borghesia,
ch'era popolo grasso.
Echeggiano nelle sue
rime varie leggende;
fan capolino tipi
comici che forse
erano appartenuti ad
un teatro popolare
perduto per noi
C1); variamente risuonano
e talora riddano
fragorosamente termini dialettali
senza numero, specialmente
veneziani e pavani,
che mettono a
dura prova le
nostre cognizioni glottologiche; si
fan sentire di
tanto in tanto
le note aspre
e chioccie del gergo usato
nelle taverne fra
giuocatori arrabbiati, fra
compagnoni alticci, fra
scozzoni di scuderia,
fra femmine allegre
e sciolte; s'allarga
e si scompone
la cerimonia di
rito nel gustosissimo
mariazo. Accanto a
tutto questo vive
la tradizione letteraria, vive e
frutta. Non è la tradizione
classica, ma quella dei
due maggiori toscani,
saputi e ammirati
anche nel nord
dell'Italia, Dante e
Petrarca. Quanto di
Dante e quanto
del Petrarca risuoni
anche nelle poesie
del Vannozzo è
dal Levi benissimo
dimostrato. Col Petrarca
aveva il padovano
comune l'origine aretina;
erano contemporanei;
s'amarono e poi
per ragioni non
chiare ruppero la
loro amicizia. Avea
famigliarità col Petrarca il
padre del Vannozzo,
e Xon ne] Vannozzo,
ma in un
imitatore di lui.
posteriore di poco, Giovanni
de Bonis, il
Levi ha scovato
un accenno a pulcinella,
d'importanza straordinaria, perchè
sconvolge tutte le ipotesi
recenti sul]' origine
di quella maschera.
Vedi p. 381
nota. Bemer Svaghi
Critici 5 6
del Camposanto pisano,
le riproduzioni presenti
rifuggono costantemente
dalla banalità, che
suol essere la
malattia consueta degli
illustratori da strapazzo.
Più che all'arte
si bada al
carattere; e pel
carattere sono notevoli
le storie raffigurate
in certi antichi
cassoni nuziali e
le figure desunte dal
Tacuinum Sanitatis del
Hofmuseum di Vienna
e da quello
non meno rilevante
della Casanatense. Se in questa
larga maniera di concepire
e d'integrare la
critica il maggior
merito è del
giovine e perspicace
autore, conviene pure
assegnarne qualche parte
alle scuole onde
è uscito, l'Università
di Pavia, ove
compì il corso
normale, e l'Istituto
superiore di Firenze,
ove completò ed
affinò la sua
educazione scientifica. Era,
in origine, questo
volume, un capitoletto
alquanto smilzo d'uno
studio destinato a
considerare i poeti borghesi
del sec. XIV,
tema caro al
Levi, su cui
egli si propone
di ritornare quanto
prima. Il capitolo
prese consistenza ed
estensione d'opera a
sè, dopoché all'autore
balenò l'idea di
fare del Vannozzo
quasi il centro
ed il rappresentante della letteratura
lombarda. Veneto, veramente
il Vannozzo era,
e nel Veneto
trascorse la maggiore
e miglior parte
della vita sua,
e veneti furono
i vernacoli a
lui più famigliari;
ma il Levi
ch'i alla regione
lombarda quella larghezza che
le era propria
nella nomenclatura medievale
e trecentesca. Lombardia
chiamavasi in quel
tempo il vasto
territorio dominato dalle
più splendide signorie,
disposte attorno al
corso medio ed
inferiore del Po,
quelle di Milano,
Verona e Padova al
nord, di Ferrara,
Bologna, Ravenna e d'altre
terre di Romagna
al sud. Nella
vita spirituale del
Trecento quest'ampia regione
ebbe un'importanza che
sinora non le
fu riconosciuta e di
cui la storia
delle lettere perdette
ogni chiara visione,
dopoché l'aveva intuita
l'intelletto penetrante del Tiraboschi.
Rivendicare il Trecento
lombardo (p. 425)
divenne l'intento del
libro, il quale
intento ne spiega,
anzi in parte
ne giustifica, la
larghezza. Raccogliendone i risultati
nella conclusione, il
giovine filologo, che
è sempre garbato
e spesso vivace
espositore, scrive pagine
calde di vera
eloquenza. L;i gran
luce raggiata dalle
tre corone indusse
il generale convincimento
che il Trecento
letterario fosse toscano. Il
Levi, invece, ritiene
che debba essere
distinta la prima
dalla seconda metà
del secolo: predominò
la Toscana nell'una,
prevalse la Lombardia nell'altra.
Di fronte al fiorire
delle signorie altitaliane,
il primato fiorentino decadde. Altre
correnti culturali entrarono
nella vita italiana
e l' animarono variamente;
altri ideali furono
proseguiti, e la
lirica attinse alle
sempre fresche sorgenti
popolari, si rinsan
(j-iiò al contatto
della poesia musicale
francese. Tra queste
nuove tendenze ed
il tradizionalismo conservatore
del centro toscano
sarebbe accaduta una vera
e rude scissura
se non l'avesse
impedita una energia
latente, ma formidabile,
* il eulto
e l'amore per
i due grandi
randagi « del
Trecento, Dante e
il Petrarca »
(p. 385). Questo
culto impedì lo
sdoppiarsi della letteratura italiana; e
quando, nel territorio
lombardo, sbocciò il
più bel fiore
della poesia ribattezzata
nel classicismo, i
Libri degli amori
del conte di
Scandiano, tutta la
freschezza degli elementi
lirici lombardi vi
ravvivò l'imitazione petrarchesca. Non altrimenti
la pittura, spentosi
il grido che
intorno a Giotto
sonò cosi alto,
rinvenne nelle botteghe
degli artisti padovani,
ferraresi e veronesi quelli instauratori
robusti e vitali
la cui arte
naturalista dovea metter
capo al grande
Ma u taglia.
Che la dimostrazione
d'una tesi tanto
importante e nuova sia
piena ed incontrastabile nel
libro del Levi,
non dirò certo.
Ma il contributo
di fatti che
egli recò a
sostenerla è dei
più ragguardevoli, e l'elaborazione e
l'interpretazione di essi
delle più oculate
e sapienti. Nota
aggiunta. — In
Fanfnila della Domenica,
21 febbraio 1909.
Nulla ho da
aggiungere sul Vannozzo,
ma bensì qualcosa ho
da dire sa
pulcinella. La canzone
di Giovanni de
Bonis in cui
si trova l'accenno,
è a c.
279 a del
codice Trivulziano 861
(cfr. E. Cabraka,
Giovanni L. de
Bonis d'Arezzo e
le sue opere
inedite, Milano, 1898,
p. 80), e
reca la didascalia
' Cantilena moralis
de laudibns .lacopi
da Appiano et
gene' logia |*ic]
aquile Johannis L.
de Bonis de
Aretio ». Io he copia dell'intero
componimento, brutto e
scorretto, per la
gentilezza di Ezio.Levi.
Il principio della
quinta scrofe suona
così : Quest'alta
ucella nobile e
decora che fu
da questi divi
si orata per
tucto era scacciata
co' nibio perseguendo
i pulcinelli per
che voltan mantelli
e mutansi di
senno in ora
in ora. Il
passo é oscuro,
massimamente per la
parola cornino, che
non può essere
letta diversamente. Quindi,
io non mi
arrischierei più a
vedervi una sicura
allusione a pulcinella,
trovando gravi le riflessioni
fatte in proposito
da B. Croce,
nella sua Critica,
VII (1909), 142,
che interpretò pulcinelli
con piccoli pulcini. Quel
loro voltar mantelli
resta tuttavia misterioso,
tanto più che
una erudita comunicazione
di Vittorio Fainei.i.i
nel Giornale storico,
LI X, 59 sgg.
ha posto in
chiaro di qual
nominanza godesse un
Pulcinella dalle Carceri,
illustre voltafaccia
politico del sec.
XIII. Secondo il
Fainelli, la fama
di quel personaggio
popolare sarebbe passata
dall'Italia superiore in Toscana
e quindi nel
Napoletano, sino a
fissarsi sul teatro
quando Silvio Fiorillo
ne fece una
maschera. La psicopatia
di Benvenuto Cellini.
Il credito di cui godono
le indagini intorno
alla psicopatia degli
uomini di genio
panni abbia fortuna
non diversa da
quella della cosidetta
teoria mitologica, invocata
a spiegare le
origini delle novelle
tradizionali e dell'epope
a. Fuvvi un
periodo di gran
voga dell'interpretazione mitologica. Intorno alla
metà del secolo
passato e nei
due decenni che
seguirono molto se
ne discorse e se
ne discusse: da
alcuni si giunse
ad arditezze ed
esagerazioni siffatte, da
legittimare la parodia
di chi negò
l'esistenza di Napoleone,
facendo toccare con
mano che egli
fu un mito
solare. Ne venne
una acerba reazione,
per cui oggi
filologi e storici
e filosofi hanno
a fastidio ogni
interpretazione che pur di lontano
accenni a rapporti
col mito. Del
pari, or e
un decennio era
in auge presso
di molti l'idea
prima formulata in Francia
dal Moreau de
Tours e divulgata in
seguito ovunque, ma
più specialmente nella
penisola nostra, da
Cesare Lombroso, che
il genio sia
squilibrio, degenerazione, follia,
epilessia. Ribellavasi,
bensì, a siffatta
conclusione frettolosa e
paradossale, per cui
« il tempio
delle glorie italiane
> vedeasi trasformato
« in un nosocomio e
parzialiuciito in un
manicomio » (' .,
qualche spillilo elei
lo di conservatore
attaccato agli antichi
sistemi; ma i
giovani si sentivano
trascinati verso le
nuovi' teorie e
inolia confusione f'acevasi nei
loro cervelli. Se non clic,
intorno al in ispecie
per le intemperanze
clic seguirono alla
celebrazioni' ilei centenario
Ieopanliano, pai've ai
sensati che ormai
li psichiatri varcassero i
contini della ragionevolezza e
mettessero a nudo
una deplorevole leggerezza
nei loro procedimenti
critici. E anche
questa volta venne
la parodia, col
libro di Paolo
Bellezza sul Xanzoni, od
alla parodia sentii
la disistima e la
conseguente reazione. Da
allora in poi,
si voglia o
non si voglia,
la equazione ormai celebre
del genio con
la follia, che
all'anima esuberante di
fede del Lombroso
era sembrata un
« vero monumento
granitico elio le
molli unghie «
dei pedanti e
dei teologizzanti non
possono toccare » r*i,
andò perdendo terreno
ogni giorno più,
sicché oggi, con
la vertiginosa rapidità
di sviluppo ideale
della società moderna,
.sembra quasi passata
alla storia. Contro
quella equazione non insorgono
solamente i conservatori
e gli spiritualisti
di ogni genere
e specie leggi
navichiamo in pieno spiritualismo, con
in poppa un
soave venticello di
idealismo che ne
sospin gi La frase
è eli A.
D'Ancona, in uu
discorso sul Leopardi che
contiene una vera
carica a t'ondo
contro gli studi
psichiatrici applicati al
senio. — L'ir.
liaimp.ijim hihhmjraliia ilrlla
I rilevai il
ra italiana, VI,
1S2 sjjg. i'2t
Ari'htcio ili pxirhtal rio,
XIX, IJTiO, ],\
l'SlL'Ill'ATI.V 1)1 HKXVKXrTII
CKLUNI --a opera
d'arre fu prodotta
e ipiindi anche
Ielle speciali nonnaliià
od anomalie della
psiche lei suo
creatore. L'estetismo può
ancia1 ti vere,
dal suo punto
i visra. ragione:
ma non mi
sembra abbia raj ii me
chi è seguace
del metodo storico
quando dell'estetismo sottoscrive
in questo 'caso la rinuncia.
Non son
passate molte settimane
dacché un maestro
solenne di metodo
storico, che tutti
veneriamo, togliendo occasione
da certa polemica, abitatasi nel
d-inntnle d'Haliti del
settem190U e altrove
intorno alle ricerche
del fisiologo Patrizi sul
Leopardi, ha scritto
che quelle indagini,
anche avessero la
sicurezza che s'arrogano, non giovano
ad avvalorare la
ricerca letteraria «
ed a formare
il l'etto apprezzamento
estelieo dell'opera d'arte
» e quindi
sono « allo
scopo dei nostri
studi assolutamente estranee
» ''). A
me pare che
questo non si
possa dire. I seguaci
del metodo storico,
come si erodono
in olililigo, per
spiegai'si l'opera d'arte
o di scienza,
di studiare accuratamente
la temperie in che l'artista
o il pensatore
è cresciuto, la
sua educazione, la sua
indole, la sua
biografia, giacché li
JiiiM*. lìihlfdiir. ilclla
Ietterai lira italiana, XI
V, Il g'm•
Wy.'tt* ìion i'
firmato, ina attrilnu'ndolo al
D'Ancona eri-ilo «li
non inanimarmi. da particolari
siffatti può ricevere
luce la sua
produzione, cosi non
debbono essere indifferenti
alle qualità fisiche
dell'individuo che studiano,
alle sue anomalie
morali ed intellettuali, ai
suoi vizi ed
alle sue debolezze
di uomo. Si
potranno approvare in
parte ed in
parte disapprovare, a
mo' d'esempio, i
parecchi studi recenti
sulla malattia nervosa
e mentale di
Torquato Tasso; ma
non si avrà
davvero il diritto
di asserire, movendo
dai principi su
cui la critica
storica si fonda,
che al retto
apprezzamento dell'opera letteraria
del povero recluso
di Sant'Anna è inutile
di sapere se
per buona parte
della vita sua
egli sia stato
savio o mentecatto.
Per parte mia
confesso che rispetto
alla portata degli
studi psichiatrici nei
rispetti della storia
letteraria non ho
mutato parere e
potrei scrivere oggi
quello che sci'issi
anni sono, quando
ancora le ricerche
di questo genere
non erano cadute
in discredito Sinceramente deploro
il preconcetto con
cui taluni biologi
hanno condotto innanzi
le loro ricerche,
la incredibile fatuità
con cui credettero
di poter concludere
in materia tanto
delicata, la grossolanità
dei loro procedimenti
fondati Rimando a
ciò che mi
avvenne (li scrivere
nel Giornale storico
della letteratura italiana,
XXVII. 442, a
proposito del saggio
psico -antropologico sul Leopardi
del Patrizi, e
più specialmente a
quello che dissi
nel Giornale stesso,
XXXIV, 397 sgg.,
prendendo posizione nell'arduo
dibattito intorno al
fatto della genialità.
Si vedano pure
le asserzioni e
le riserve di
V. Rossi nella
Haas, bihlìogr. della
letteratura italiana. spesse volte,
anziché su esplorazioni
dirette ed oculate,
su articoli di
enciclopedia e persino
su riferimenti pettegoli
di cronaca cittadina;
ma lutto questo
non deve indurci
al dispregio assoluto dell'indagine in
sè, che fatta
prudentemente e con le
cognizioni volute, può
offrire alla storia
delle lettere, delle
arti e delle
scienze, elementi considerevoli
per completare, o attenuare,
o anche
modificare sostanzialmente il suo giudizio.
* Se v'è
tipo d'uomo che
presenti caratteri di
singolarità grande, il
cui esame è
essenziale nel raffigurarcelo, gli
è Benvenuto Cellini.
Oso dire, anzi,
che ii coefficiente
primo della sua
fama non sta
punto nelle opere
di plastica e
di cesello, poveramente
rappresentate all'età nostra
da pochi campioni sicuri,
ma sta nel
carattere. Lo intuì
il Goethe; lo
riconobbe il Baretti.
Il Goethe, che
su di una
cattiva stampa e
con imperfetta cognizione
della lingua nostra
ridusse, in tedesco
l'autobiografia celliniana, pubblicandola intera a
Tubinga nel 1803,
s'innamorò del Cellini
perchè in lui
riconosceva uno di
quei « geistige
Flùgelmanner » che
meglio rappresentano nei suoi
tratti tipici la
natura umana ('). Fra i
vari scritti intorno
al Goethe traduttore
del Cellini, è specialmente
raccomandabile quello di K. Vossi.er,
Goethe'» Cellini - 1.
berseteung, nella Beilaye
zur Ali yemeinen Zeilunt). Il
Ba retti scrisse del
grande orafo autobiografo:
« Si dipinse...
còme si sentiva
d'essere: cioè animoso come
un granatiere francese,
vendicativo come una
vipera, superstizioso in
sommo grado, e
pieno di bizzarrie
e di capricci,
galante in un
crocchio di amici,
ma poco suscettibile
di tenera amicizia,
un poco traditore,
senza credersi tale,
un poco invidioso
e maligno, millantatore
e vano senza
sospettarsi tale, senza
cerimonie e senza
affettazione, con una
dose di matto
non mediocre, accompagnata
da ferma fiducia
d'esser nTolto savio, circospetto
e prudente. Di questo
bel carattere l'impetuoso
Benvenuto si dipinge nella
sua vita, senza
pensarvi su più
che tanto, persuasissimo
sempre di dipingere
un eroe »
(M. Non per
nulla il più
benemerito studioso del Cellini
che abbia avuto
la nuova Italia,
Orazio Bacei, riconoscendo
nella Vita «
un prezioso documento psicologico
», uscì a
dire: credette di
dare Giovanni Bovio: «
Quel grado supremo
della sintesi, onde
il pensiero, originalmente
ed in un
rapporto lontano, scopre
il vero ■ .
Vedi Bovio, Il
genio, Milano, 1899,
p. 32. In
questo concetto vi è certo
molto di vero,
e con esso
si viene a limitare
alquanto il numero
dei geni, che
dando retta ai sintomi
di nevrosi diventano
legione. Schierare fra
gli uomini di
genio il Cellini
sarebbe un vero
assurdo.la impressionabilità estrema
del fratello e
della sorella. L'orafo,
generato da genitori
ormai quarantenni, ebbe in
sè esagerate le
tendenze paterne,
l'emotività, la instabilità,
l'impulsività e ad
acuire siffatte tendenze
cooperarono le malattie
onde fu affetto
nel corso della
sua vita travagliata.. Una
delle stimmate degenerative
più ragguardevoli che il
Courbon riconosce nel
Cellini è la
incostanza nelle occupazioni.
Vi si gettava
dentro con gran foga,
ma poi non
meno subitamente se ne
scostava; il che
accadeva pure nelle
amicizie, dalle quali,
per cordiali che
fossero, si ritraeva
alla minima ombra,
e quasi sempre
passava dall'affetto ardente
all'odio, dall'adorazione
alla denigrazione. Alla
ombrosità malata di
quella natura passionale
contribuiva una forma di
mania di persecuzione.
Ben è vero
che di invidie
e di gelosie
gliene pullularono intorno
moltissime e che,
ad esempio, il
Bandinelli era emulo
subdolo e velenoso;
ma è altrettanto
indubitato che nelle accuse
del Cellini contro
altri personaggi (sia
nominato Pier Luigi
Farnese), egli oltrepassava
le frontiere del
reale e vedeva
persecuzioni e pericoli
ed agguati dove
non erano. Benvenuto
è tratto dall'indole
sua a vedere
dovunque malevoli,
invidiosi, maneggioni, calunniatori vilissimi. A
ciò contribuiva anche
in sommo grado
l'alto sentimento che
aveva di sè,
anzi quella specie
di megalomania degenerante
talora in volgare
jattanza, che colpisce,
ogni lettore della Vita
ed assume spesso
tali proporzioni da riuscire
esilarante. Per ragioni che
assai poco mi
persuadono, nvde il
Courbon di poter
ravvisare nel Cellini
anche la eosidetta
dromomania, cioè lo
spasmodico desiderio di mutar
soggiorno. Tutti sanno
(pianta importanza assegnino
gli psichiatri al
sintomo del nomadismo;
ma nel Cellini
a me non
sembra vi siano
gli estremi per
riconoscerlo. Tutt'al più
si può notare
che la stessa
impulsività del suo carattere
dava spesso alle
sue partenze una repentinità
così violenta da
farle somigliare a vere
fughe. Maggior gravità
hanno i deliri
e le allucinazioni, a cui
il nostro artista
aveva una innegabile predisposizione neuropatica.
Non si tratta
solo di deliri
in istato febbrile,
provocato dalla malaria
devastatrice, poiché in
questo caso ci
troviamo di fronte
ad una condizione
patologica dell'organismo;
ma si tratta
di visioni che
egli dice di
aver avute nella
dura prigionia di
Roma e d'una
vera e propria
allucinazione durante l'intenso
lavoro del Perseo.
Fu in conseguenza d'una, la
più grave, di
quelle allucinazioni che il
Cellini pretese che
una lingua di
fuoco, visibile a
tutti, permanesse sulla
sua fronte, a
ricordo della visita
fattagli da Dio
('). L'esame Vedi
Vita, I, 128.
Per maggior comodità
dei lettori, uso
della l'ila la
buona edizione. di Brunoue
Bianchi, uscita in
luce la prima
volta nel 185*2
e poi tante
volte ristampata dalla
Casa Le Mounier.
Delle edizioni integre
è la più comune,
ed ha
il vantaggio su
quella scientifica del
Bacci di avere
la divisione in
libri e paragrafi,
i primi dei
quali indico con cifra
romana, i secondi
con cifra araba.
Tale e quale
80 la psicopatia
m benvenuto cellini
di questi fenomeni
è la parte
migliore dell'opuscolo (del resto
un po' tirato
viti) del dottore
francese; solo sarebbe stato
desiderabile che a rincalzo
delle idee da
lui espresse intorno
alle tendenze mistiche del
Cellini avesse invocato
anche, il sussidio
delle rime di
lui, molte delle
quali hanno contenuto
religioso. I fatti
delle visioni e
delle all ucinazioni, ai
quali non abbiamo
ragione di negar fede,
accusano certamente perturbamenti nervosi non
ordinari. Anche quella
specie di aureola
sul capo, che
all'orafo cinquecentista
sembrava cosa «
meravigliosa » e
tale da fargli
credere ad un
prodigio divino, non
è poi, al
lume delle odierne
scienze biologiche, la
inverosimile cosa che
taluno la reputò,
giacché può essere
stata una di
quelle irradiazioni luminose che
furono costatate più
volte in certi
neuropatici e
particolarmente negli affetti
d'isterismo. Il connotato
psichico più caratteristico del
Cellini è peraltro
quella impulsività, che
così spesso lo
conduceva alle querele,
alle liti, alle
risse, ai ferimenti,
agli omicidi. Questa
impulsività costituzionale,
venutagli per via
ereditaria e cresciuta
in lui per
le agitazioni dell'esistenza che
condusse, è la
fonte a cui
si lasciano ricondurre moltissimi fra
gli atti del
nostro soggetto. In
que' momenti di
furore nessuna potenza
inricompare codesta
partizione nella comunissima
edizione stereotipa Sonzogno curata
dal Camerini, in
quella del Biagi
(1883,1 e con
lievi variazioni in
quella di Gaetano
Guasti. tima d'inibizione volitiva
era in grado
di vincere l'impulso manesco
e sanguinario. La
sincerità con che Benvenuto
confessa e documenta
quei casi è
davvero preziosa per
lo psichiatra, ed
il Courbon sa
trarne conveniente partito.
Un caso, fra
tutti, a me
fa gagliarda impressione,
e mi sembra
tale da provare
anche da solo
lo stato di
malattia del Cellini:
l'uccisione a tradimento di
quel tal «
archibusiere » che,
per difendere la
propria vita, gli
area morto il fratello
Cecchino ('). Quella
« cosi bassa
impresa e non
molto lodevole »,
come lo stesso
violento autore la
chiama, non è
dovuta ad un
impeto di collera;
ma è premeditata
in condizioni eccezionali. Dopo hi
morte di Cecchino,
Benvenuto vive in
uno stato di
vera ossessione: egli
ha giurato al
fratello spirante di
vendicarlo; egli sa
che il soldato,
tirandogli quel tal
colpo d'archibugio che l'ha
ferito sopra il
ginocchio, agiva per
difendersi: ma ciò
non pertanto non
può liberarsi da
quell'imagine, da quell'idea,
da quel proposito,
che gli son
sopra notte e
giorno come incubi;
egli prende a
vagheggiare queir « archibusiere
» come
la sua innamorata,
e solo quando
l'ha freddato si
sente tornare la
tranquillità dello spirito. Tuttociò
ha i caratteri
dell'ossessione impulsiva
studiata dai criminalisti,
che implica il
ritorno della imagine
della vittima e
dell idea di
doverla punire, la
coscienza piena e
netta della condizione
delle cose e
del proprio Vita. torto,
la inutilità della
resistenza nella lotta
intima, il sollievo dopo
compiuto il delitto.
La più mirabile
analisi d'uno stato
psicopatologico come questo
si trova nel
fosco romanzo di
Feodor Dostoiewski II
delitto e il
castigo. Rispetto agli
stimoli sessuali, è
indubitato ohe il
Celimi li sentiva
violentemente, come tutto
era violento in
quella tempra duomo;
è anche vero
che la donna
fu per lui
un semplice strumento di
piacere; ma il
Courbon va più
in là e
vorrebbe ammettere pervertimenti
del senso che
pur troppo nel
Cinquecento erano tanto
più frequenti quanto
più minacciati da
gravi punizioni. In questo
apprezzamento non credo
prudente il seguirlo per
ragioni che dirò
tra breve. Tuttavia,
in conclusione, reputo
io pure che
i sintomi constatati,
sebbene, presi isolatamente,
abbiano poco valore,
siano tali nel
complesso da far
considerare il Cellini
« cornine réalisant
le type menta!
du dégénéré ».
* * *
Ciò premesso, e
data al Courbon
la lode che
gli spetta per
aver compiuto uno
studio sinora non
tentato e per
averlo anche condotto
innanzi senza preconcetti
e senza leggerezze,
mi si conceda
di accodargli per
mio conto qualche
obiezione. Una pregiudiziale
deve andare innanzi
ad ogni altro
ragionamento, ed il
Courbon, nonché risolverla, non ha
neppure pensato a
proporsela. Fondandosi
esclusivamente sui dati
di fatto porti dalla
Vita celliniana, siamo
certi di lavorare
sul solido? In
altri termini, è
la Vita sicuramente
ed in tutto
veridica? L'obiezione speciale
si perde in
una più generale. Qua
l'è il valore
storico delle autobiografie, sulle quali
i signori psicologi
ed i signori
psichiatri hanno la
abitudine di giurare?
Nessuna cosa più difficile
che essere veritieri
parlando di se stessi:
anche quando si
abbiano i migliori
propositi di sincerità,
troppo spesso l'amor proprio ne
induce a tacere
certi fatti ed
a colorirne altri
nel modo che
ci torna più comodo.
Se l'autobiografo è
un artista, accade
anche di peggio. L'artista
possiede in alto
grado qualità di
fantasia, che lo
tentano, per non
dire 10 costringono,
ad atteggiarsi, e
codesti atteggiamenti sono più
o meno adulterazioni
del vero. 11
Bertana lo ha
dimostrato egregiamente per
l'Alfieri, alla cui
pienissima sincerità si
è creduto per tanto
tempo. L'artista crea
di sè un
tipo, e scrivendo
la propria vita
elabora quel tipo.
Ciò è umano,
nè giova la
volontà di fare
diversamente. Non dice male
una recente studiosa
delle autobiografie, parlando
appunto del Cellini:
« Egli si
rappresentò con grande
ingenuità, tal «
quale si credeva
di essere, se
non sempre qual
« fu veramente,
onde più che
ingannare il let«
tore, ingannava sovente
se stesso »
('). Il Plon,
fi) Jonk Pomi-ki,
L'autohion rafia nella
letteratura italiana, Macerata, 1!J0G, p.
61. Vedo lodato,
ma non potei
conoscerlo direttamente, lo studio
di Emilia Lwokati,
Benvenuto Cellini e
la sua autobiografia, Fireuze,
1!XX). nella nota e
sontuosa sua opera
sull'orafo nostro, ha
bensì cercato di
controllare i fatti
della Vita e
in molta parte
gli è accaduto
di confermarli; ma
restano pur sempre
infiniti particolari non
controllabili e restano
incongruenze patenti con
ciò che il
Cellini narra di
sè nei Trattati.
Si deve inoltre
riflettere che l'opera
fu di sua
mano presa a
scrivere (in un
manoscritto ora mediceo-palatino della
Laurenziana di Firenze,
e poi dettata
ad un garzonettoj,
quando aveva già
compiuto 58 anni;
quindi gli errori
mnemonici, che nelle
Memorie goldoniane si
riscontrano cosi frequenti,
non possono mancare,
neppure qui. Per
tutte queste ragioni non
mi sembra abbia
torto il Symonds
nell'applicare alla Vita
celli ninna la designazione
celebre del Goethe
Dichtung uncl Wahrheit
('), ed il
Courbon non fece
bene procedendo sempre sicuro
nella sua analisi
senza pur l'ombra
d'un dubbio sulla
assoluto veridicità dei fatti
che egli prendeva
in esame. Ho
già notato che
il Courbon è,
del resto, abbastanza spregiudicato e
non si lascia
sedurre, come tanti
suoi compagni di
studi, dalla fìsima
di trovar dovunque
sintomi di degenerazione. Tuttavia
avrei le mie
riserve da fare
intorno al valore
ch'egli attribuisce alle
infermità del Cellini, la
cui diagnosi può
essere fatta a
puntino da un
medico, per i
gran particolari che il pa ci)
La citazione è
del Baci-i, nell'introduzione al
suo citato testo critico,
p. LSLXVIII, ove
sono dette cose
sensate intorno alla
veridicità della Vita. ziente
stesso ne fornisce.
Ninna di quelle
malattie ha particolare valore
diretto per le condizioni
mentali del nostro
soggetto, ed il
dire che la
gotta, sofferta a
65 anni, siccome
manifestazione dell'artr itismo
« s'associe au
terapérament nerveux »,
panni un fuor
d'opera, perchè può anche
non associarvisi. Cosi
pure non riveste
punto il carattere
di morbosità l'incostanza del Celimi
nelle occupazioni. Se da orefice divenne scultore
(fatto allora non
straordinario, perchè il passaggio
dalle arti minori
alle arti maggiori
era frequente per
non dir quasi
abituale) e pei*
necessità anche un
po' meccanico ed ingegnere,
e più che un po'
bombardiere c musicista,
per certa tendenza
che anche nolente aveva
ereditata dal padre,
e letterato, e
nel 1558 per
una bizzarria ricevette
persili gli ordini
ecclesiastici minori; ciò
non vuol dire
che veramente cangiasse
di occupazione. Bisogna
richiamare alla* memoria quali
erano quelli spiriti del
Rinascimento italiano, multilaterali
per eccellenza, aborrenti
dalle morse dello
specialista odierno; e bisogna
tener presente il
tatto che il
più delle volte
fu la necessità
del momento che indusse
Benvenuto ad occuparsi
in modi diversi.
In realtà, peraltro,
chi legge la
Vita ha l'impressione
d'una costanza unica
del suo pi'otagonista
nel proseguire certi
ideali di arte
e nel perfezionarsi
continuamente nell'esecuzione
artistica; costanza, che
culmina nel fatto
eroico della fusione
del Perseo. La
megalomania, invece, è
innegabile e si
manifesta sin dalle prime
l'itili' della Vitti,
ove Ben vomito
vir-onoscinuli uomini *
che hanno tallo
H U'iSA già
rosiaim. clii' priniii
si poteva percorrere
con niella iiiciTU'Xiiii, sorretti
e guidali da
congetture più (i
niciio ingegnose. .Ma
ciò clic più
inolila, ipirlLc lettore
gli fornirono l'Achille
degli argomenti per statare
ima delle più
notevoli ed accredilate
legende hiogra lidie relative
al Uosa: die
t'irli, cioè, nel
H>47. prendesse parte
in Napoli alla rivolta
di Masaniello e. con altri
pittori napoletani, formasse la
eosidetta Compagnia della
morte, armata contro
irli Spaglinoli e vendicatrice
dei loro
obbrobrii. Bella certamente
era questa leggenda,
che, creata dapprima
dal malfido Bernardo de'
Dominici, trovò sviluppo
sotto la penna
della fantastica lady
Morgan ed eccitò
l'alto senso civile
del Carducci, clic
ne trasse occasione
per dettare le
pagine più calde
ed eloquenti della sua
biografia del Rosa.
Ma al cimento dei
fatti e d
una critica circospetta
non regge quella
leggenda, ignota ai
primi biografi, contraddetta
anziché confortata da
un passo frequentemente allegato delle
satire. Nelle lettere
ai Maffei. che
precedettero e seguirono
la rivolta di
Masaniello, non v'ha
pur un accenno,
nò che il
Uosa partecipasse a quei casi
cruenti, nò che
in quel tempo
si recasse a
Napoli: cosa che,
s'egli realmente vi
fosse stato, sarebbe
inesplicabile, sovratutto
con un'indole della
sua tempra, non
certo schiva dalla
millanteria. 11 Cesareo
batte in breccia,
a parer mio
definitivamente, quell'episodio della
vita del Rosa
e mostra eziandio come, con
ogni probabilità, sia
una favola la
stessa Compagnia della
morte, quale divenne
"•U.VATiiK UOSA sinora
tradizionale nella srori;i
del seicento napoletano '
. Questo è
il più rilevante
tra i riunirmi storici del
libro. Se di ciò i
non tepidi amici
del vero debbono
rallegrarsi, gli è pur «l'uopo
eoli venire die
la figura del
Uosa viene a
perderne il suo
più bell'ornamento. Quel tipo
cosi idealizzato nei romanzi,
nelle commedie, nei
libretti d'opera (lady
Morgan ebbe in
queir idealizzazione una
parto cospicua, perche essa
fu la prima
a rappresentare, eome.il
Cesareo ben nota,
« un Salvator
Rosa byronianamente romantico
» l. «pici
tipo di. avventuriere
elefante, artista nell'anima,
pronto a tutte
le più nobili
iniziative, aperto ai
manieri ideali, ■he
lascia le tele
adorate per cospirare
e combattere a prò
della patria oppressa,
che altel-na le
occupazioni della .scena
con quelle ili
dia tavolozza, i versi
con la musica,
gli amori con
la politica: quid
tipo bizzarramente eroico
vien pure ridotto
a proporzioni pici-ole,
piccole assai! Ter
valutarlo ancora, per
quello che è,
e non _ua
per quello che
ne hanno fatto,
è mestieri considerarlo,
non già isolato,
ma allato agli
uomini dei tempi suoi.
In questo modo
egli guadagna assai, perchè
al paragone di
quelli uomini, >e
non è adirittura
un gigante, non
i' neppure ili
statura comune. In
mezzo alla cortigianeria
qiagnolesca. che tutto
invadeva, ed allo
infiaechimeulo generale delle
tempre, egli sa
serbarsi indipendente, altero,
anzi nero, immune
da qual ■ !
' V,.,li voi.
I, pl>. 17-.">li. RfcviEu
Sunijhi frittosi 1
SALVATOR ROSA siasi
bassezza. E un
gran pregio senza
dubbio, anche se,
in ultima analisi,
esso germoglia da
un cumulo di
difetti. A guardar
bene, infatti, mi
sembra che molta
parte di quella
fierezza derivi dal
concetto altissimo che il
Eosa aveva di sè, e
che andava congiunto
ad una grande
vanità e ad una prosopopea ciarlatanesca da
matamoros, d'onde procedeva una
prodigalità senza limiti
ed una maldicenza cosi ostinata
e linguacciuta, come
solo i gran
vanitosi soglio»» averla.
Di tutto ciò
la sua vita
e gli aneddoti
copiosi che ne
raccontano il Passeri
ed il Baldinucci
sono sicura testimonianza. Prontezza e
versatilità d' ingegno, spirito arguto e
caustico, bizzarria, talor
naturale, tal 'altra voluta,
velano, non nascondono,
queste qualità morali
non buone, alle
quali ne va congiunta
una peggiore di
tutte, che il
Cesareo stesso non
dissimula, la poca
o nessuna delicatezza del sentimento.
Se il Eosa
ebbe pochi ed
oscuri discepoli, la
ragione è forse
da richiamarne a
ciò; perchè a
far dei discepoli
non basta l'ingegno e
la maestria, occorre
anche il cuore.
E di cuore
il Eosa ne
aveva pochino. Le
lettere ai Maffei
sono piene d'eff,usione
e talvolta fin
di tenerezza: ma
un osservatore non
mancherà di notarvi
dei tratti grossolani,
che indispongono. Con
Giulio Maffei il
Rosa è spesse
volte sgarbato: un animo
gentile non sarebbe
mai sceso ad
insolenze come queste:
« In fatti
voi siete «
pontuale: promettesti mandare
il terzo delle
« cose e
così felicemente è
sortito. Si desidera
SALVATOR ROSA 09
« sapere se
le forchette mandate
da voi habino
da .servire per
vangare la terra
o la minestra,
« chè per
la minestra non
sono il caso,
atteso « che,
per quest'uso, doveva
V. S. mandarle
« alla Ruota
prima d'inviarle a
noi. Ha perchè
« la nostra
prudenza sa trovar
ripiego a tutte
« le cose
(toltone però l'accomodare
il vostro «
cervello) procureremo di
servircene per la
« prima caccia
che si farà
dei porci o
altra « bestia
grossa più di
voi » (*).
E la volgarità
di modi che
predomina sempre nelle
sue lettere e
che si palesa
in genere nello
sboccato turpiloquio di tutti
i suoi scritti.
All'altro grande amico
suo, Giambattista Ricciardi,
il professore pisano,
poeta burlesco, osceno
ma spiritoso, quanto
lirico serio indigeribile
(s), mostrò bensì
il Rosa benevolenza sincera, ma
appena al malcapitato
avvenne di stuzzicarlo, gli
piombò addosso una
lettera di quelle
che non si
dimenticano (3). Tuttavia il
Rosa, come amico,
non può dirsi
cattivo, ed a
Lorenzo Lippi, l'autore
del Malmantile, sembra
fosse abbastanza largo
di favori. (li
Voi. II, p. 46
i'2) Cfr. il
voi. di Rime
burìenche ili G.
B. Mù Ciardi, edito
ila E. Toci.
Livorno, 1881, nella
cui garbata prefazione
si troveranno copiose
notizie del Ricciardi
ed anche della
sua famigliarità col
Eosa. A p.
XXXI il Toci
parla di molte
lettere inedite del professore
pisano esistenti in
casa Maft'ei ed
altrove. Chissà che,
scovandole, non vi
si trovino nuove
notizie anche del Uosa.
(3i Voi. II.
pp. 122-23. Al
Ricciardi sono dirette
tutte le lettere
del Rosa che
mise in luce
il Bottari. Una
fastidiosa canzone del
Ricciardi al Rosa
pubblica il Cesareo
nel volume II, p.
138. sALVA'l'oH Peg-gioro
tu invoce nei
rapporti famigliari. S'inveitili
in Firenze d
una fanciulla di
nome Lucrezia l'aolini.
secondo il Cesareo,
che irli aveva
servilo da modello,
ne beneficò i
congiunti e se
la tenne in
casa, allora e
poi sempre, come
moglie. Xei tivnt'niini
elle visse con
lei. non sembra
avesse mai a
lamentarsene: eppure non la sposò
se non agli
estremi della vi costrettovi quasi
dal l'ani ieo
Baldovini. alle cui
istanze, narra il
Pascoli, cli'ei rispondesse
con giuoco inopportuno di spirito:
« Se andare
non si può
in paradiso senza
essere cornuto, converrà
tarlo ». E
agevole immaginare quali
drammi si agitassero
nel petto della
povera donna, allorché
Salvafere, ogni qualvolta
ella gli partoriva
un figliuolo, ne
taceva un mostruoso
presente» alla ruota
degli esposti! a lui
bastava ili allevare
presso di sé
il primogenito. Rosai
vo; degli altri
si sbrigava in quella
maniera molto spicciativa.
Solo quando Rosalvo
venia» a morirgli
di contagio, si
decise a tenere
presso di sé
un altri) figliuolo.
Augusto. Ma più
d'uno non mai.
checché avvenisse! Le gravidanze
di Lucrezia ci le chiamava
impicci. « La
signora Lucrezia i
partecipava nel «
ltiòl a (tÌuIìo
iiaft'ei ' oggi
son otto giorni
ohe « mandò
alla luce un
figliuolo maschio, copia
« spiccicata di
Salvatore Rosa a
Imre f) ili
notte, « con
più facilità di
quello ch'ha sinora
fatto por «
la Dio grazia.
Il parto il
giorno dopo, con
La figura di
quest'uomo stravagante Intlaìiilc,
latin s/ji/'i/n. full')
fuoco, com'egli medesimo
i lilie a
dire di sé
in una lettera
al Ricciardi, simpatica
non riesce davvero.
1 biografi stessi,
i rendercela tale,
dovettero lavorare di
fantasia ed appiopparle
per loro conto
delle doti che
non aveva. Del
resto, la simpatia
importa ben poco
allo storico, il
quale nel Rosa
è pur costretto
ad ani mirare
l'ingegno ed a
riconoscere in lui 1
1 . v..i. n,
|>. ss. iJ ì
Ve.]. II. y.
70. 102 SALVATOR
ROSA » uno
dei più caratteristici tipi
di quello squilibrato e
tipico seicento, ch'egli
vituperò tónto a
parole. ^ Nelle
sue linee fondamentali,
la vita del
Rosa resta, dopo
la pubblicazione del
Cesareo, tal quale
la si conosceva
per gli studi
antecedenti, onde basterà
richiamarla con pochi
cenni, rettificandone col nuovo
libro la cronologia.
Nato — all'Arenella
presso Napoli, nel
1615, di famiglia
poco agiata, in
cui l'amore per
la pittura era
ereditario, SAlvatoriello palesò
ben presto inclinazione al disegno
ed alla musica.
In Napoli ebbe
la fortuna di
riscuotere l'ammirazione di
Giovanni Lanfranco e
di potersi giovare
degli anmaestramenti del
Ribora e del
Falcone, ai quali
peraltro non professò
mai gratitudine. Recatosi
a Roma nel
1635, v'ammalò, onde
dovette tornarsene a Napoli.
Ma presso questa
nazìoìi di gran
fumo e poco
arrosto (a detta
del Rosai, non
potè resistere a
lungo: ivi le
tre chiesuole artistiche del
Ribera, del Caracciolo,
del Corenzio, «
accanite tra loro
in ogni altra
cosa, « scrive
il Carducci, in
questa si trovavano
d'ac« cordo, allontanare
i forestieri, calcare
gl'iu* gegni crescenti
». Però Salvatore
prese di nuovo
la via di
Roma in sul
principio del 1637.
Da Roma si
recò col cardinale
Brancaccio a Viterbo, e
di là novamente,
ma per poco,
a Napoli. Partitosene col
proposito di non
più ritornarvi, si stabili
a Roma nella
primavera del 1638,
in mezzo a
quella fioritura artistica
che v'avea procurato
papa Urbano Vili.
Il Rosa ebbe
campo SALVATOR ROSA
103 d'acquistarsi fama
come pittore, d'esercitarsi
nel toccare il
liuto e nel
l'improvvisa re poesie,
nel far bella
mostra di sè
recitando farse e
commedie a braccia, ed
anche di procurarsi
non pochi nemici
con la sua
lingua tagliente. Nel
1640 si riduceva
in Firenze, terra
promessa per lui.
ove si congiunse
alla signora Lucrezia,
strinse amicizie gioviali e
simpatiche, continuò ad
istruirsi, a dipingere,
a recitar commedie,
fondò con altri capiscarichi l'Accademia
dei Percossi. Il suo amico
Lippi [Malmantile, IV,
1-1) dice di
lui: . . . pittar,
passa chiunque tele
imbiacca: tratta d'ogni
scienza, ut ex
professo: e. in
palco fa sì
ben Coviel Patacca,
che sempre ch'ei
si mova o
eh'ei favella fa
proprio sgangherarti la
inascella. Stretta relazione
coi signori Maffei
di Volterra, si
recava spesso nelle
loro tenute. Sembra
anzi i^he in
casa loro si
sgravasse Lucrezia del bambino Rosalvo, nel
1641. Nel 1649
il Rosa si ridusse
di bel
nuovo a Roma,
ove si trattenne
il resto della
sua vita, allontanandosene solo
per qualche tempo,
nel 1661, per
recarsi a Strozzavolpe,
villa del Ricciardi,
e quindi a
Firenze, in caso
Paolo Mi micci,
il commentatore del
Malmantile. La sua attività
di pittore diede
in quegli anni
i frutti migliori:
alle esposizioni di
S. Giovanni decollato
e della Rotonda
aveva sempre qualche nuova
tela da mettere
in mostra, e
l'ammirazione dei contemporanei
giungeva al colmo.
Gli acciacchi della
vecchiaia lo assalsero precocemente; nel
1666, a 50
anni, già se
ne doleva. Continuò
tuttavia a lavorare
di pittura e
di poesia, finché
non infermò di
un' idrope, che
Io spense nella
primavera del 1673.
In Salvator Rosa
l'artista fu senza
dubbio superiore all'uomo: ed
è appunto dell'artista
che mi propongo
ora di discorrere.
II L'artista. Il
16 settembre 1662,
Salvator Rosa scriveva
all'amico Ricciardi: «
Lessi subito la
vita d'Ap« pollonio,
composta da Filostrato,
con mia par«
ticolar sodisfazione per
quel che s'appartiene
« alla curiosità;
ma non ci
ho trovato quello,
« ch'ella mi
significò che ci
avria trovato, di
« singolare e
stravagante per la
pittura, essendo «
fatti, che quasi
tutti darebbono in
una cosa *
medesima, onde vi
prego a propormi
qualche « altra
cosa, acciò vi
potessi trovar cose
più « fuori
dell'ordinario, avendovi però
notato al« cuni
fatti per servirmene
» ('). Grammatica
a parte, queste
linee, o m'inganno,
sono abbastanza
significative nello esprimere
il concetto che
il Rosa si
era fatto della
pittura. Egli andava alla
ricerca del singolare,
dello sh'avagante: non
per nulla viveva
in quel secolo
in cui il cav.
Marino avea apertamente
dichiarato: k del
poeta il fui
la meraviglia. Aveva
molte letture e di esse
amava far sfoggio
nelle sue tele,
il cui soggetto,
di per se
stesso, era atto
a colpire. La
storia vi dava
la mano all'allegoria
filosofica. Cadmo e
gli uomini che
sorgono armati dai
denti dell'atterrato serpente;
Socrate che beve
la cicuta: Democrito in
contemplazione tra le
tombe e gli
scheletri; Pitagora che
parla ai discepoli
stupiti dell'Eliso, e
altrove, circondato dalla
sua scuola, offre
denaro ai pescatori
perchè lascili liberi
i pesci; Catilina;
l'ombra di Samuele
innanzi a Saulle, ecc.
ecc.; e poi
personificazioni allegoriche in
gran copia, con
largo sviluppo del
concetto simbolico, la
Fragilità, la Fortuna,
lo Spavento, la
Giustizia, la Pace,
ed altre ed altre:
ecco i
soggetti che prediligeva.
Quando era di
vena, e lo era quasi
sèmpre, lavorava con
meravigliosa sollecitudine. In
poco più d'un
mese consegnò finita
una grande battaglia,
che doveva essere
regalata al re
di Francia e che oggi
si vede tuttora
al Louvre. Le
battaglie si prestavano alla sua
fantasia sbrigliata, e però gli
piacevano. Fu infatti il
Rosa, anzitutto, un
pittore fantastico: gran
parte della sua
potenza consiste nel modo
imaginoso e bizzarro
in cui vi
si vede il soggetto, quasi
sempre ben scelto.
Per questa parte
pochi pittori più
ricchi di lui
vanta la storia
gloriosa delle nostre
arti del disegno.
Nella satira La
pittura, ch'è una
specie di prò',
gramma teorico d'arte,
ove Salvatore monta
sui I trampoli,
fa la lezione
e trincia giudizi
e dà la
S W.V ATOR UOSA stui'ii
;i invettive, egli
deplora l'ignoranza ilei
pittori, tallio più
biasimevole in clic
tal vii Itti
inliliti lilttrt>fan;iti i
palazzi di principi
cristiani. .Sul di
t'emminc igiiude i
re. fregiati hanno
i lor jrabinetti,
e quindi nasce
che divengano anch'essi
effeminati. Ve li
figurate quelli innocentini
di principi secentisti,
che macchiano la
purità delle loro animucee
di tortora al
cospetto delle Veneri
Tizianesche? È il falso,
che giunge al
grottesco: il falso
di tutto quel
secolo ipocrita e
vile, in cui
moraleggiala col pennello,
fino a non
osare di far
comparir Frine ignuda
innanzi a Senocrate,
e più con
la penna, chi
viveva gran parte
della vita in
concubinato e mandava
i figliuoli a'
trovatelli! Quantunque il
Rosa avesse a
sdegno d'esser chiamato
paesista, la sua
vera gloria è
la pittura di paesaggio.
Chi farà un
giorno la storia
di questa pittura
dovrà assegnargli un
luogo eminente. Egli
aveva il sentimento
vivo, ardente della
natura. Basta osservare,
per accorgersene, il
desiderio immenso che
gli lasciava sempre
la campagna, la
vera sete di
ritornare a Barbaiano
e a Monterufoli,
che si palesa
nelle sue lettere
ai Mafifei. Basta
por mente a
quella lettera significatissima al
Ricciardi, in cui
gli dà conto
d'un suo viaggio
da Roma nelle
Marche, attraverso
l'Appennino c E
un misto, diceva
egli, « così
stravagante d'orrido e
di domestico, di
« piano e
di scosceso, che
non si può
desiderare * di
vantaggio per lo
compiacimento dell'occhio ».
E ammirava le
tinte delle montagne,
i cupi orridi
« da far
spiritare ogni incontentabile cervello
», i romitori
solitàrissimi di quei
luoghi « di
stra« ordinario diletto
per la pittura
». Maniera questa tutta
moderna di considerare
le cose esteriori, che si
trova riflessa nella
modernità dei paesaggi
Rosiani, sapienti nelle
tonalità elei colori,
pregevoli per l'aria e
gli sfondi, felici
nelle prospettive, pieni di
rilievo, di vita,
di robustezza nel
tocco. Senza punto
atteggiarsi a critico
d'arte, il Carducci
disse in proposito
egregiamente: « Nel,
appartiene alla vecchiaia
del Rosa ('),
ed ha della
vecchiaia tutti i
difetti: querimoniosità ancor
cresciuta, cicaleccio sempre
più prolisso, pessimismo arcigno,
inclinazione al bigottismo. Qualche terzina
robusta, qualche strale
ben diretto non
valgono, a parer
mio, a salvare
questo componimento. Eppure
è proprio qui
che il poeta
esclama: Bastami solo
in quest'età corrotta,
senza adulnzion, nè
falsi orpelli, in
Pindo aver la
verità condotta, dato
a le tosche
satire i modelli,
a Parnaso il
suo Elia e
il suo Tirteo
(s). No, no;
è troppo, è
troppo! Le tosche
satire avevano ben
altri modelli: fu
ben altro poeta satirico
l'Ariosto, e seppe
esserlo quando volle,
ben altrimenti plastico
e rovente, anche
Dante. La satira
del Rosa, tutta
invettiva e sarcasmo,
dettata dall'ira, anzi
dal furore, come
tante volte egli
dice, non era
di quelle che
possano produrre buoni
frutti. Le lungaggini,
la pesantezza dei
continui richiami classici,
addotti a pompa,
infiniti, per cui, come
il Carducci notò,
« a questo
La cronologia delle
satire fu dal
Cesareo fissata con
molta cura ed
ingegnositì di osservazioni.autore ò
necessaria l'illustrazione più
forse « che
a qua lehc poeta
latino », lo
stile disuguale e spesso
sciatto, l'espressione troppo
di frequente plebea,
non sono qualità
che si addicano a
componimenti esemplari. Il
cardinale Pallavicino, che senti
quei componimenti dalla
bocca del loro
autore, disse che
gli sembravano bellissimi solo in
alcuni squarci: e
disse bene. K
il Giusti, rammentato
già dal Carducci,
ancora meglio: « sorridono
d'una certa scioltezza
gaia e «
ciarleria: vi sentì
il brio pronto
e loquace del
« Napoletano: il
fare dell'uomo avvezzo
in palco «
a spassare la
brigata; ma io lo scorgo
povero « in
mezzo a quel
lusso erudito: declamatore,
« pieno di
lungaggini, si lascia
e si ripiglia
per « tornare
a lasciarsi e
ripigliarsi cento volte:
« vanga e
rivanga uno stesso
pensiero, e te lo «
rivolta da tutti
i lati, come
se faccettasse un
« brillante; si
sente insomma che
lo scrivere non « era
l'arte sua naturale,
ma un di
più del suo « ingegno
» ('). E
nobile talvolta la
sua ira, ma non sa conservarsi
nella misura e
dà botte da
orbo a diritta e
a mancina. La
ragione forse per
cui la satira
sulla poesia è
riuscita migliore delle
altre è appunto
questa, a parer
mio, che in
essa il Rosa
ha voluto e
saputo determinar meglio
il suo concetto,
additar meglio i
bersagli contro cui
scoccava le sue
freccio. Onde (piando
lo ve (li
Discorso premesso al
l'armi, eiliz. Le
Mounier. ISiiO, li.
XXIX. SALVATI >K
KOSA lló 1 1 i ; 1 1 1 1 > > porro
in canzone, ad
esempio, le accademie ed
il v liuto della
poesia roboante di
quello versaiuolo. e
quando, attediandosi a
fiero .iiiiiiiiai inista,
lo troviamo ridere
di quelle ima- i ni
sbalorditole e di
«incile ridicoli' ampollosità ilei
suo seicento, non
possiamo a mimo
di battergli le mani,
e di ammirarlo
immune, quanl inique
non solo ad
esserlo, da quella
lebbra, cozzante coni ro il
mal gusto clic
dilagava. * Bello
scrittore il Rosa
non fu. Xella
prosa ancor meno che
nei versi. Nelle
lettere, che il Cesareo
seppe raccogliere abbastanza
copiose, stile e
liniaia sono incerti,
ortografia incertissima. L'editore
avrebbe usato cortesia
al povero Salvatore non
riproducendole con sì
scrupolosa fedeli;!, come se
si t'osse trattato
d'autografi del fingente.
Regolare quella selva
selvaggia di maiuscole fuor ili
luogo, raddrizzare qua e là
la grafi;i. collocare
un po' meglio
la punteggiatura, non
rispettare persino i
trascorsi di penna,
sarebbe stato torse1
pietà. Almeno quella
prosa, bella non
mai. sarebbe riuscita
più leggibile, come
più leggibili sono le
lettere al Ricciardi
le migliori per
contenuto che si
abbiano del Rosa)
edite dal Bottali. Ciò
peraltro che l'editore- non avrebbe
in nessun caso
potuto mutare è
la volgarità dell'espressione, la libertà
sboccata degli scherzi
indecenti. .Strana, invero,
tanta trivialità in
un pittore qualche
volta così elegante, in
un uomo SALVATOR
UOSA d'animo, se
non altissimo, certo
non del lutto
ignobile, che protese
coi Tevere i
vizi de' suoi
simili nel costume
e nelle arti!
Nota aggiunta. —
E'Iitn nella Gazzetta
letlrrmiti ilei ."J
. L invilenti!
mniinirralin su] lìnsn
pi 1 1 >, ]ier Olii
si veila riò
rhe ne scrissi
nel II ioni,
storiro, LUI. l'il.
Sulle satire è
semine cmisiileraliile il
ijiuiliy.io de] Bki.i."XI. //
Srirrutn, Milano lsìtìl.
'2iU ■ Si ai
i i 4.'»
anni) il conte
liiulio Perticali. Si
spegneva dopo una
malattia Pinna ed
oscura, accompagnata da
n'eri abbati imcnti inorali,
da preoccupazioni angosciose
e misteriose. Si
spegneva fuori di
casa sua, a
San t'usiaiizo di
Pesaro, presso il
cugino Francesco i'a»i.
Aveva intorno parenti,
amici, la moglie,
accorsa tardi al
suo capezzale perchè
trattenuta altrove da
gravi cure, ma
desiderala. Quella donna
aveva pianto amaramente,
s'era data in
preda alla disperazione
(piando vide esanime
il marito, ma
nello sfogare l'ambascia
aveva pur a -l'usato
se medesima, quasiché
non avesse avuto
pi'l suo (iiulio
l'affetto e la
premura ch'egli meritava.
Poscia s'era allontanata,
senza pur recarsi
a visitare in
Pesaro la buona
suocera, quasi si
vergognasse di comparirle
d innanzi. Kd
ecco una voce
farsi strada in
mezzo all'universale
rimpianto per la
perdita dell'insigne letterato:
una voce dapprima
bisbigliata da qualche
parente, poi propagata
dai fratelli dell'i .-liuto, finalmente
accreditata da molti
amici presso il
pubblico. La contessa
Pertieari era stata una
cattiva moglie; il
conte Giulio era
morto di crepacuore
per i mali
portamenti di lei;
lo aveva pur
detto ella stessa
che si sentiva lacerata dai
rimorsi, s'era pur
vergognata ella stessa
di presentarsi alla
suocera, da cui
con materna tenerezza
era amata. Le
accuse furono concretate
in un libello,
che « alcuni
amici del vero
» scrissero in
risposta a certa
necrologia del Perticari
uscita nel Giornale
delle dame. Il
libello anonimo, che
fu largamente diffuso
a penna e
letto avidamente dai
dilettanti di scaudali, tacciava
la contessa Perticari
di colpe gravi
e la additava
come responsabile della
morte di Giulio.
Nessuna cosa più
facile che il
far penetrare nel
pubblico simili sospetti,
massime quando si
tratti di persone
illustri e perciò
osservate ed invidiate.
Le accuse ottennero
fede anche presso
coloro che avrebbero
potuto e dovuto
procedere con maggiore cautela
nel crederle. Il
Giordani, in un paio
di lettere, deplorava
la mala azione
e se la
pigliava (mancomale!) con
l'utero e con la
perfida razza umana.
Il Niccolini, scettico
e sboccato come
al solito, vi
ghignava sopra scrivendo:
« Io non
lo posso credere,
« perchè il
Perticari era uomo
dottissimo e di
«•molta perizia nella
lingua; ma non
fatto da « natura a
sentire fortemente ed
affliggersi per «
le corna, necessità
antica ed eterna
di tutti '
i mariti ».
Persino il Mustoxidi,
che dapprima aveva inorridito
alle accuse lanciate
contro la vedova Perticari
da lui un
giorno idolatrata, qualche
mese appresso, scrivendo
ad Antonio Papadopoli,
trattava di lei
con sprezzante malevolenza e
la chiamava « una donna
» di cui
si vantano, false
o vere che
siano, « mille
galanterie ». Ma
la voce sparsa
dal libello, accortamente esagerata,
doveva ben presto
figliarne un'altra, mostruosa.
Non solo la
Perticar! aveva trafitto l'animo
del marito co'
suoi disordini morali,
ma lo aveva
anche materialmente ucciso. La
morte misteriosa era
dovuta a veneficio;
e a riprova
si adducevano certe
macchie che i
medici rinvennero nelle
membrane del ventricolo di
Giulio allorché ne sezionarono
il cadavere. In
pieno secolo decimonono,
Costanza .Monti Perticali,
la bella, la
dotta, la inspirata
figliuola di Vincenzo
Monti, aveva avvelenato
il marito e
(si aggiunse persino)
con la complicità
del padre celebratissimo, geloso
della fama crescente
del genero! *
• * Tanta
enormità chiedeva solenne
smentita. E la
smentita venne dal
celebre clinico Giacomo Tommasini, che
aveva assistito (troppo
tardi chiamato da
Bologna) alla fase
estrema della malattia
di Giulio. Il
Tommasini, in un
suo opuscolo stampato
a Bologna nel
1823 col titolo
Storia della malattia
per la quale
mori il conte
Giulio Perticati, attestò
solennemente che si
trattava di morte
naturale dovuta ad
una « lenta
infiammazione di fegato
». Da parte
120 LA FIGLIUOLA
DEL MONTI sua,
Vincenzo Monti, fieramente
irritato contro i
denigratori della figliuola
dilettissima, li pungeva in
un'ode stampata nel
1823, e quindi
in un'apostrofe eloquente
della Feroniade lamentava la
loro freddezza per
Giulio, accostandola al
dolore profondo della
« derelitta sua
misera sposa ».
Spettava alla critica
moderna il vagliare
coteste voci e
testimonianze
contraddittorie. Ernesto
Masi (l), mentre
produceva una lettera
di Costanza Perticari
diretta a Paolo
Costa nel novembre
del 1822, difendeva
la misera vedova,
facendo intravvedere quanto
calunniose fossero le
dicerie sparse a
suo carico; e
un paio d'anni
dopo la difesa
era avvalorata da
altre preziose lettere
di Costanza scovate
in Fano da
G. S. Scipioni
tra le carte
di Filippo Luigi
Polidori e da
lui, con giuste
considerazioni, fatte conoscere
(!). Tanto il
Masi quanto lo
Scipioni, ma specialmente quest'ultimo, riuscirono
a ricostruire la
tristissima guerra di
cui la contessa
Perticari fu vittima,
indicandone, come principali
attori i fratelli
di Giulio e
più specialmente due
corteggiatori delusi della bella
figliuola del Monti,
letterati entrambi, il pesarese
conte Francesco Cassi,
noto traduttore della
Farsaglia, ed il fanese conte
Cristoforo Ferri. Oggi
una signorina buona,
intelligente e colta
toglie ogni velo
a (X) Parrucche
e sanculotti, Milano,
188G, pp. 239
sgg.Giornale storico della
letteratura italiana, voi.
XI (1888), pp.
74 sgg. LA
FIGLIUOLA DEL MONTI
121 quella specie
di congiura e
chiarisce in ogni
punto la biografia
di Costanza con
un libretto vivace
e simpatico ('),
che si basa
su di un numero
ragguardevole di documenti
amorosamente ricercati in
vari depositi, ma
in ispecie nella
Oliveriana di Pesaro,
e sulle lettere
tutte, in grandissima
parte inedite sino
ad ora, della
Per ticari (!),
che costituiscono un
volume istruttivo e
valgono meglio d'ogni
altro discorso a
farci leggere nel
cuore e nella
mente della donna
infelice. La signorina
Maria Romano, con
una franchezza che le
fa onore, non
dissimula che il
suo libro ha
una tesi. «
Desiderava, scrive, di
« scoprire la
verità intorno alla
vita di que *
sta donna, ero
però decisa a
non pubblicare j7
sgg. Zaiotti, perchè
quelle pagine ebbero
successo e diffusione
veramente grandi rlett.
197, 198). Lo
Zaiotti, a. sua volta,
la cui figura
letteraria attende d'essere degnamente
tratteggiata (')serbò costante
la stima e
l'affetto per la
sventurata figliola del
grande amico suo,
e quand'ella fu
liberata dalle pene
dell'esistenza fece incidere
sulla sua tomba
ferrarese una bella
iscrizione, che si
chiude qualificandola «
sempre buona |
ora anche felice
». E davvero
la bontà di
Costanza rifulge nel
suo epistolario e
nella biografia che
seppe scriverne la Romano
con delicatezza squisitamente
e caldamente amorosa.
È una bontà
robusta, senza sdilinquimenti, oserei
quasi dire classica;
ma è una
bontà che vale
a scusare qualsiasi
debolezza, perchè proviene
veramente da un
cuore ben fatto
e retto. Quando
il cugino Luigi
Cassi languiva in
terra straniera dopo
aver partecipato alla disastrosa
spedizione di Russia,
fu lei, Costanza,
che cercò in
tutti i modi
di averne novelle,
mentre la famiglia
si baloccava nella
più vergognosa apatia.
E dopo la
morte del il)
Nocque grandemente allo
Zaiotti la sua
qualità di fervido austriacante e
la parte avuta
nei processi contro
i cospiratori italiani, nonché
quel libretto della
Semplice rarità, che
fece fremere tanti
onesti patrioti, sebbene
di cose vere
ne dica parecchie.
Non certo il
politicante d'idee strette
e malsane, ma
il letterato meriterebbe
qualche studio, non
foss" altro per
le molte ed
alte relazioni che
ebbe. Speriamo che
possa un giorno
farcelo conoscere appieno
il Luzio, il
quale si valse
sinora del suo
carteggio col Salvotti,
massime nel recente
volume sul Processo
Peìliro-MaroncelH. Rkniek Svaghi
Critici 0 130
LA FIGLIUOLA DEL
MONTI marito, la
nobiltà d'animo di
Costanza si mostrò superiore ad
ogni elogio. Solo
preoccupata di rendere
onore al defunto
pubblicando i suoi
scritti, perdonò ai
propri calunniatori, serbò
sempre affetto alla
suocera, prese cura
di Andrea, rampollo illegittimo
di Giulio (lett.
132). Allorché nel
febbraio del 1824
mori l'archeologo bolognese Giuseppe
Tambroni, al quale
Costanza era singolarmente
affezionata, la vediamo piangere e
desolarsi (lett. 158),
sebbene avesse tante
ragioni di cruccio
per le faccende
sue personali. «
Sul mio cuore
l'amicizia stampa «
caratteri indelebili »
(lett. 71) scrisse
un giorno, ed
era vero. Da
questa maniera di sentimento
non la
distrassero i molti
e gravi disinganni, nè valsero
i dolori suoi a renderla
indifferente ai dolori
altrui. Allorché le
mori la seconda
persona ch'ella amava
di più sulla
terra, il padre,
provò più cupo
il dolore, solo
lenito dalla fede
religiosa (lett. 192).
Come avea fatto
per Giulio, cosi
anche del padre
curò la fama
procurando la stampa
delle sue opere
inedite, e fu
afflitta al vedere
che la madre
voleva immischiarsene lei e
cercava il lucro
nell'impresa pietosa (lett. 197
e 199). Sebbene
anche alla madre
chiudesse gli occhi
con figliale pietà
(lett. 210) e
per la sua dipartita rimanesse
sinceramente addolorata
(lett. 211), non
vi fu mai
vero affiatamento tra
Costanza e Teresa
Pichler (*). Cosi
va scritto il
casato della moglie
del Monti, sebbene
ossa firmasse, secondo
la falsa pronunzia
italiana, Pilcler, LA
FIGLIUOLA DEL MONTI
131 Erano troppo
diverse. La Pichler
era vana, superficiale, ma in
fondo calcolatrice ed
egoista; la generosità,
lo slancio ed
il disinteresse Costanza li
aveva ereditati dal
padre. * *
• Se v'ha
una deficienza nella
biografia di Costanza dettata dalla
Romano, questa si
riferisce alle occupazioni
intellettuali della figliuola
del Monti. In
estremo grado assorbita
dal quesito inorale
propostosi, la Romano
non consacrò a
questa parte molta
attenzione. Sarebbe utile
che un giorno
altri vi si
indugiasse; ma a
farlo convenientemente sarà necessario
che prima si
abbia quello studio
definitivo, che ancora
manca, sugli scritti
e sul valore
di Giulio Perticari.
Tutta l'educazione e
l'attività di Costanza
dipendono direttamente dall'indirizzo che
le diede il
padre e dalla
consuetudine col marito,
che nel campo
intellettuale fu più
fervida e simpatica
che in quello
affettivo. In una
lettera del 1818
la contessa gli scrive:
« te lontano,
io non posso
più * nulla.
Una prova te
ne sia che
i miei studi
« languiscono, ho
mille dubbi che
nessuno mi «
solve, perchè nessuno
ha la pazienza
tua e «
d'altronde in nessun
altro potrei porre
la fidu crane pure
si legge sulla
sua fede battesimale
(cfr. Vici hi,
Primo *aygio su
V. Monti, p.
5), e in
altri documenti. Però
nella fede di
battesimo (9 giugno
ITtfii di Costanza
è detta Pichler
(Viccui, op. cit.,
p. 52; e
tale dovette essere
la forma del
cognoDe, comunissimo nelle
province tedesche dell'Austria.eia, perchè
so die nessuno
così mi anici
come « tu
fai Per ora
non ti dico
di più, se
non che «
i miei libri
son chiusi e
non li riaprirò
se non «
all'apparire del mio
Apollo. » (lett.
58). Musa leggiadra
e vivace nel
gruppo letterario pesarese,
che aveva in
casa Pertica ri
il suo centro,
Costanza non riuscì
solamente artista squisita
ne' versi, tra'
quali eccelle quel
poemetto su L'origine della
rosa, che alla
fluidità ariostesca dell'ottava
rima accoppia l'urbanità
molle e gentile
del sentimento virgiliano
('); ma diede
anche opera, sovvenendo
il marito, a
severi studi filologici
nel modo che
a quel tempo
s'intendevano. Alla retta
lettura e all'interpretazione dei testi
classici essa mostrò
una passione che in
donna non è
comune, occupandosi con predilezione
della Commedia, tanto
cara al suo
genitore. Come appare
dall'epistolario, ella era sempre
in traccia di
codici del poema
dantesco e dei
migliori testi a
penna studiava le
varianti con buon
discernimento critico, sebbene
con un criterio
soggettivo che non
sarebbe più approvato
a' di nostri.
Una parte delle
sue fatiche fu
fatta conoscere nel (!)
Achille Monti, pronipote
di Vincenzo, accostò
alcune odi proprie
ai versi di
Costanza, ed il
volumetto usci nel
18H0 in Firenze,
per cura di
L. F. Polidori.
Altri versi di
Costanza pubblicò lo
Scipioni ne] menzionato
volume XI del
(riornale storv;o. Ma
abbiamo ragione di
credere che buon
numero di sue
produzioni letterarie siansi
perdute per malevolenza dei parenti,
che gliele ritolsero
in modo indegno,
come appare da
una sua lettera
a Laudadio della
Ripa (lett. 149).
LA FIGLIUOLA DEL
MONTI 133 l'edizione
De Komanis del
commento del Lombardi. Sovvenne anche
il marito nella
revisione del Convivio
e nella restituzione
critica del DitI a
mondo, opera che
al Pertieari stava
molto a cuore,
e che dopo
la morte di lui fu
dalla vedova curata (lett.
131) e servi
alla nota edizione
ventisettana del Silvestri
('). In queste
fatiche, come nell'attendere alla
fama letteraria di
Giulio, pose Costanza
quell'impegno e quell'ardore
che erano propri
del suo carattere.
Degna tigli noia
del Monti, essa
era innamorata dei
classici ed oltre
a Dante aveva
studiato a fondo
e chiosato il Petrarca,
l'Ariosto, il Poliziano,
il Tasso. Non
meno del padre,
che chiamava epizoozia
il romanticismo, anzi
la ro mantice
ria (f), detestava Costanza i
romantici e col
solito fuoco flava
sfogo a tale
suo odio scrivendo
a Urbano Lara
predi: « queste
tue lodi che
non merito mi
« saranno stimoli
perchè io studi
a meritarle «
quando che sia. E di
questa sola ed
alta spe« ranza
mi vo pascendo.
Questa mi tiene
di (li II
Perticali in una
lettera del 16
marzo 1818 a
G. Antonio Roverella dice
che la «
buona Costanza... gli
si è fatta
■ un grande
aiuto nei suoi
penosi studi Vedi
la mia edizione delle Liriche
di Fazio degli
l'berti, p. CCLXXVII.
Rispetto agli studi del
Perticali su] Diltamondo
sono da vedere le
recenti comunicazioni dei
dottori Pelaez e
Nicolussi; cfr. (riorn.
star, lìella leti,
italiana, XXX, 333
e XXXI, 4li2.
Intorno all'edizione milanese
del Conririo ed
alla parte che
v'ebbero le correzioni
del Pertieari, è
da consultare uno
speciale articolo di R.
Murari nel (Giornale
dantfuro, V, 11.
2i Ciò è
detto in una
lettera inedita del
Botta a G.
Grassi, per cui
si veda la
memoria di Emilia
Rkois, Studio intorno
alla cita di
Carlo Bolla, Torino,
1903, p. 30.
LA FIGLI TOLA DEL
.MUNTI « continuo
fra i diletti
miei libri e
specialmente « fra
quelli de' latini
divinissimi peni ri
nostri, spregiati solo
da quella vigliacca
pk'be di ro«
marnici, che squarciano
la bocca a
bestemmiare ciò che non
intendono, anzi elle
non « sono
né pur degni
d'intendere. Kd è
caso « veramente
non tollerabile che
idi uomini del
« settentrione cerchino
ora di farsi
barbari culla «
penna, come già
negli anelali secoli
il fecero «
colle spade. E
che v'abbiano de'
nostri così vili,
cosi dimentichi di
loro stessi che
s'in« chinino a
tanta servitù! 0
mio Lamprcdi, il
mio cuore è
ponilo d'ira: toccando
di queste *
cose, tu mi
fai bollir l'animo.
Qui è ueces«
sai'ia una interra
seenni : tu
puoi, tu devi
os« seme gran
campione: e fare
che almanco in
« Napoli e
in Roma non
penetri questa pesti«
lenza di che
già in Lombardia
ammalano « molti
e molti: e
sarà grave il
danno ove non
« si metta
pronto il rimedio
» lett. 47..
Tale misoneismo intemperante,
ma spiegabilissimo, in fatto
a letteratura, non
impediva in altre
pertinenze idee più
larghe improntate a
sentimenti moderni. Così
rispetto all'educazione delle
donne, reputava Costanza
essere « bestiale
pregiudizio » quello
che le allontana
da ogni coltura
dello spirito, giacché,
aggiungeva, « Pini«
imaginazione essendo generalmente
più viva «
nelle donne, fa
d'uopo maggiormente di fer« mare
questa nostra troppa
fervidezza in cose
« di severa
applicazione, perchè i
lavori ma« nuali
non bastano a
tenere occupato lo spiri
ro »
(lett. -JOx .
Cosi pure nel
vagheggiare un'Italia libera
ed una, essa
si accostava agli
odiati romantici e
partecipa va alle
aspirazioni del marito
'). Xello lettei'e
scritte da Roma
e manifesto il
disgusto che le
ispira la città
papale, in cui
\i sono tante
cose che la
« arrabbiano » ilett.
&2). Essa si
trova colà quando
vi giunge, t'esteiigiatissiino. Francesco
I d'Austria, e
([nelle gazzarre, lungi
dal rallegrarla, le
danno dispettosa melanconia,
come scrive al
fido Alitatili: « troppo
alti sentimenti mi
bollono nel« l'anima
per poter essere
spettatrice fredda «.
della vergogna italiana.
E quindi inutile
che ti dica
non aver ancora
veduta neppure una
festa pel cos'i
detto imperatore: anzi
al suo inuresso
in Rom a, quando
tutta la città
era spopolata tranne
il corso e
la via di Ponte Molle,
la tua Costanza
passeggiava mestamente per
Campo Vaccino, maledicendo
il Cielo e
la nostra iniqua
fortuna. Io sola
fra quelle rovine
piangeva mestamente la
nostra perduta patria;
e forse troppo
alto orgoglio era
il mio, ma
in quid giorno
io mi sentiva,
quantunque isolata, assai
più grande dei
grandi che ci
rovinano » dott.
79). Benedetta colei
che in te
t'iiiciiise.' verrebbe voglia
di sciamare. Eppure
essi era fervidamente
religiosa, e in
moltissime lettere dice
e ripete che
senza quella religiosità
limi avrebbe esitato
un istante a
troncare la I
Vi'dasi il discorso
di Gr. S. ìS
i li di
due settimane se
ne smalti un'edizione
copiosa, e mentre
scrivo si lavora
febbrilmente per farne
uscire presto una
seconda. Non malsana
curiosità del pubblico
spiega questo successo
d'un volume che
si direbbe a
prillisi giunta vivanda
da eruditi: anzi,
l'avere il pubblico
italiano, cosi poco
facile a prendere
fuoco pei libri
clic non sieno
d'occasione, ili scandalo o
di lettura anienissima,
inteso subito l'importanza di questo,
gli torna per lo meno
a tanto onore
quanto ridonda a
disdoro di pochi
letteristi scontrosi l'averne
.n'indicata inopportuna la pubblicazione. E
ciò non solo
perchè, come disse
un buon s'indico
i 1 1, cotesti Bruii/
« contendono gemmo
di rara bellezza
», ma specialmente perchè, fu
aggiunto a buon
dritto dalla medesima
persona, « nel
confronto che possiamo
« fare è
un elemento di
studio, per scrutare
e « indovinare
la paziente opera
del genio». Confronto di
svaria tissima natura:
studio d'importanza tale che
da molti anni,
oso dire, la
critica non ebbe
occasione di farne
uno più significante
nò più proficuo.
È noto con
quanta pena e
con quale industria
sottile l'arte incontentabile del
Manzoni raggiungesse
nell'edizione del 1840
la perfezione formale
che difettava in
quella del 18*27.
Le due edizioni
furono stampato a
fronte e furono
studiate comparativamente da parecchi,
con speciale acume
i ti A.
FouAzzAim nel (liofiia/c
ti 'Italia 'IH. e fortuna
segnatamente dal D'Ovidio.
Anche da questo
punto di veduta
i Brani, stesi
tra la primavera del
1 Si? 1
e l'autunno del
ltòS, offrono a rgoniento
ad osservazioni preziose,
giacché ci fan
vedere quanto miserella.
disuguale, taloi'a persino
sciatta e mal
contesta t'ossela primissima
veste die il
pensiero manzoniano si
mise addosso. Ma
non di ciò
io mi propongo
di qui discorrere:
■4 bene del
contenuto, richiamando l'attenzione
dei lettori sulla
fisionomia che il
romanziere milanese diede
dapprima a eerti
suoi personaggi e
sullo sviluppo primitivo
di certe scene.
Ammetto senz'altro che
ognuno abbia presente
nelle sue particolarità
quel libro meravigliosamente fresco, che
doveva dapprincipio intitolarsi
Vcrmo e Laviti,
più tarili (Hi
Sposi Promessi e
finalmente si chiamò
/ Promessi Sposi.
Quindi, ■icnz altri
preamboli, vengo al
buono, e considero
anzitutto Gertrude. In
altro articolo esaminerò
l'Innominato ed in
un terzo rivolgerò
la mia attenzione a
figure e ad
episodi minori. Cenni
fugaci saranno questi miei,
ma mi terrò
pago se per
essi nascerà in
altri la voglia
di uno scandaglio più profondo
e se questi
altri troveranno nella
lettura e nel
lavoro il diletto
spirituale *q insito
che a me
venne dal confronto
dei Brani con le (luti
redazioni del romanzo.
■.^ Senza pur
conoscerne il nome,
attinse il Manzoni la
tragica storia di
suor Virginia Maria,
al "croio Marianna
de Lev va.
dal Ripamonti. Ripamonti
aveva conosciuto di
persona la Signora di
Monza ne' suoi
ultimi anni. In
quella vecchierella curva
per la grave
età, macilenta e
torrefatta dai patimenti
e dalla espiazione,
veneranda per santità di
pensieri e di
opere ('), inai
si riusciva, dice
egli, a figurarsi
quale doveva essere stata
un tempo, bella,
altera, procace. In tutto
il racconto latino,
elegante e pomposo, i
personaggi sono anonimi,
ail'infuori del seduttore,
Giampaolo Osio; ma ciò gli
concilia certa vaga
solennità, suggestiva in
sommo grado pei1
un artista. Sebbene
nell'annalista milanese si
scerna manifesto il
proposito di togliere
anche da quella
storia esempio edificante
e di farvi
risplendere la parte di
sant'uomo che anche
in essa ebbe
il cardinal Federigo,
v'ha senza dubbio
materia più che
sufficiente per tesserne
un romanzo saturo di
forte drammaticità. E il Manzoni lo
fece: ma in
entrambe le redazioni
del romanzo la sua attenzione
fu volta in
particola!1 guisa alla
psicologia della fanciulla,
spinta contro ili
Dopo la condanna,
suor Virginia stetto
13 anni murata
in una cella
oscura, poi passò
alle convertite di
Santa Valeria, ove fu
soccorsa dalla carità
del cardinale Federigo
Borromeo. Xata nel
1575, mori nel
IliòO. A noi
è consentito di
leggere nella sua
anima pervertita col
sussidio degli atti
processuali, che conosciamo
mutili, come ce
li diede in
due edizioni il855
e D-W4) Tullio
Dandolo. Lo Sforza
mi dice che
per buona ventura
il processo integro
fu rintracciato a Milano.
Del periodo espiatorio
conosciamo sue lettere
pd altri documenti,
per via del
nutrito lavoro di
Lrioi Zkriii, La
f)'iipiora ili Monza
nella aloria, ili
Ardì. star, lomliartlo,
an. XVII, 1HH0,
fase. voglia nel chiostro
(argomento pel quale
non mancavano a
lui reminiscenze personali
e letterarie W), ed
alla psicologia della
monaca forzata (s), e
tirò via sulla
seduzione e sulle
conseguenze atroci della seduzione.
Privatamente informato, tra
la prima e
la seconda edizione,
dell'esistenza del processo,
e avutane fors'anche
cognizione diretta, egli
non modificò affatto
nella sostanza il
lungo episodio, e
del nuovo elemento
onde si precisava
in lui la
nozione del soggetto
ci lasciò una
spia quasi impercettibile in
un solo particolare
aggiunto nella stampa
del '40. Quivi
è detto che
dopo la sparizione
della conversa uccisa nel
monastero di Santa
Margherita perchè non
riferisse gli amoreggiamenti della
Signora, « si
fecero gran ricerche
in Monza e
nei con« torni
e principalmente a
Meda, di dov'era
* quella conversa»
(3). Il nome
dell'oscuro villaggio in quel
di Monza non
sarebbe certo passato per
la niente dell'autore,
se egli non
avesse il) Per
le reminiscenze personali
e famigliari leggasi
Cu. Faiihis, Memorie
manzoniane, Milano, 1SK)1,
pp. 57-58. Quanto
ai ricordi letterari,
essi possono esser
diversi, oltre al
libretto Jel Diderot,
perchè, nelle molte
letture del Manzoni
di libri del
sec. XVII e
del VXIII, di
violenze fatte a
fanciulle nobili perchè prendessero il
velo non v'era
penuria. Vedasi in
proposito una calzante
comunicazione di E.
Beiitana, nel (ìiorn.
slor. ■Iella leti,
ila!., voi. XXXV,
p. 172. Il migliore
esame psicologico della
Signora lo dobbiamo sinora ad
un filosofo, Giovanni
Viuaki, Suor Oertriule,
l' Innominato e Fra
Cristoforo, Firenze, 18!I5.
C&) Vedi p.
239 (cap. X)
nell' ed. col
commento del Petrocchi, Firenze, 1S)8,
alla quale sempre
mi attengo per
questi articoli. 142
ì promessi sitisi
ix formazione: appreso
che la conversa
violentemente soppressa ehiamavasi
Caterina Cassini dn
Mrrftr, come risulta dai
constiluti processuali. Oli
non' rammenta la tragica
e misteriosa terrihiiilii
con cui quel
primo delitto è
accennato nel roman/.oV
La conversa più
non si trova:
una buca praticata
nel muro dell'orto
la fa supporre
fuggita; si fan
congetture: la Signora
di quella storia
non ama sentir
discorrere: ma vi
pensa di e notte e
rimugino di quella
donna le compare nella
fantasia come uno
spettro. Nella prima
minuta il fatto
è narrato invece
per disteso, con
evidenza mirabile pp.
li'0-127'. Come si
può imporre silenzio
alla conversa, che
in un momento
d'ira avea minaccialo
la delazione? Eiridio '(die
così si chiama
anche qui l'Osio)
si stringe a
consulta con le
tre sciagurate da
lui sedotte, la
Signora e le
due suore a
lei addette e
sue complici, qui
innominate ('). «
Il modo fu « pensato
e proposto da
lui con indifferenza
e « acconsentito
dalle altre con
difficoltà, con resi
di 111 realtà
chiamava usi Ottavia
Ricci e Benedetta
Ornati. Esse fufrjiirono
poi amliedue dal
trai vento con
1" Osio, clic
cercò sbrigarsene, gettando
1' una nel
fiume Larabro, e
V altra in
un pozzo. All' uccisione della
conversa Caterina, per
mano dell' Osio. realmente
assistevano, oltreché Virginia.
Ottavia e Benedetta,
anche due altre
monache. Silvia Casati
ed una Candida,
ch'era la druda
del laido prete
Paolo Arrisone, mezzano
dell' Osio. dopo aver
invano tentato la
de Ij^vva. In
quel convento delle
Umiliate la disciplina
era a tali
termini, da farlo poco
dissimile da un
lupanare. 11 Ripamonti
tacque di molti
abusi; il Manzoni,
a sua volta,
in questa parte
idealizzò. i promessi
sposi ix formazione
143 sieuza, ma
alla line acconsentito
». Geltrude ■
•he nel romanzo,
con maggiore conformità
al.'I imo fermali ico,
è invece Gertrude'
l'esiste più .[rlle
altre, ma alfine
cedi1 essa pure
e pattuisce ehe
non si sarebbe
impacciata di nulla,
od avrebbe lasciato
fare ». Presa
da parte la con•ersa, le
dui1 suore le
propongono di farla
assilere a qualche
scena che ronda
più sicura la
-uà delazione. A
tale scopo la
nascondono nella im
o cella, e di notte,
al dubbio chiarore
che veniva dalla stanza
vicina, una di
osse la finisco
dandole un colpo
di sgabello sul
capo, impacio i
'tccijì"t scnìt/'Uo, come
scrive il Ripamonti.
I -nccessivi portamenti
dell'Osio e di
Gcltnule, ;. sottrazione
del cadavere celato
in una cantina,
u -.bigotti monto pauroso
delle tre monache
rimasto solo, tutto magnifico,
tutto degno del
stanzoni ne' suoi migliori
momenti. «Le duo
serventi partirono; Geltrude
le segui fino
alla porta, aspettando
che tornassero col
lume. I.o deposero sur
una tavola, lo
spensero, e sedettero
di nuovo attorno
a quello che
ardeva da prima.
Slavano così tacite
guardandosi furtivamente «
ili tratto in
tratto; quando gli
sguardi s'incontravano,
ognuna abbassava gli
occhi, come se
« temesse un
giudice, e avesse
ribrezzo d'un colpevole. Ma
l'omicida, più agitata,
o agitata in
modo diverso dalle
altre, cercava ad
ogni mo"iciiio di
cominciare un discorso,
voleva par« lare
del fatto e
del da. farsi
come di cosa
co« mime, parlava
sempre in plurale
conio per tenero afferrate le
compagno nella colpa,
per es* seve
nulla più che
una loro pari».
141 I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
Anche Egidio, il
fosco, facinoroso, volgare
Giampaolo della realtà
storica ('), è
un'ombra nel romanzo
ed è una
figura concreta nell'abbozzo. Quel «
giovine, scellerato di
professione », la
cui caratterizzazione sommaria
mi ha fatto
pensare tante volte
all' « uomini
poi, a mal
più eh' a bene
tisi » di
Piccarda, è qui
rappresentato, se non
con finezza di
particolari, almeno con sicurezza
di tratto; e
l'episodio degli amori,
condensato nella redazione definitiva
in quel solenne
«la sventurata rispose»,
che per la
sua pregnante concisione fece
andare in visibilio
più di un
critico, è narrato
per disteso (pp.
107 segg.). Della
scelleratezza d'Egidio s'indagano
le origini, trovandole
nelle condizioni e
nelle idee dei
tempi, non che
in certe tradizioni
famigliari, che al Manzoni
offrono il destro
a considerazioni svariate;
i primi rapporti
con la Signora,
succeduti a quelli
non colpevoli con
una educanda da
lei sorvegliata ('), sono
descritti con cura,
ed è con
la consueta vivezza intuitiva
che il gran
romanziere sorprende i
primi commovimenti dell'anima
di Gelt-rude, le
prime esitazioni, la
prima dedizione. Pagine
davvero osservabili, nelle
quali unica Per
la storia dell'
Osio, oltre la
citata memoria dello
Zkiiiii sulla monaca,
vedasi di lui
l'opuscolo L'Eyìdio dei
Promessi Sposi nella famiglia
e nella storia.
Como, 1895. Se
pure quello Zerbi
scrivesse un po'
da cristiano! Quind' innanzi la
cognizione integrale del
processo potrà forse
gettare nuova luce
anche sul maggiore
colpevole. A questi amoreggiameli
con un' educanda
accenna anche il
Ripamonti. Dalle carte
processuali apprendiamo che
essa chiamavasi Isabella
degli Ortensi, di
Monza. I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
1J5 note, forse
un poco stonata,
è l'aver dato,
anziché al sangue
giovanile ed alla
passione incalzante, una
parte ragguardevole a
certo pervertimento teoretico
« Ella fu
dunque una docile
e cieca di«
scepola, e conobbe
e ricevè tutte
quelle idee ge«
nerali di perversità
a cui l'ignoranza
e la irri*
flessione di quei
tempi permetteva di
arrivare » ip.
119). Se il
Manzoni avesse conosciuto
in tempo il
constituto di Virginia
de Leyva, egli
ne avrebbe per
avventura tratto partito
per far predominare
invece un elemento
assai meno razionale:
il fascino irresistibile; ciò
che la povera
Virginia, caduta
nell'abisso, chiamava malia,
stregoneria ed altro
di simile, quasiché
attratta nell'orbita del
peccato, a lei
non fosse più
dato di pensare
con la testa
propria e forzatamente
precipitasse al delitto.
Per quanto certe
teorie moderne fossero
assai remote dai
principi e dal
modo di concepire
la vita e
l'anima umana da
cui il Manzoni
non usava mai
dipartirsi, credo chela
confessione della povera
suora d'innanzi ai
suoi giudici lo
avrebbe indotto a
renderle ancora più
debole la volontà
di contro alla
passione e meno
attivo l'intelletto. Altro
particolare, che nel
romanzo difetta, è
una motivazione adeguata
del tranello in cui la
Signora fa cadere
Lucia ('). Dire
che « la
sven ti) È un
vecchio appunto del
Tommaseo, ripreso dal
Borgognoni e dal Luzio,
ed è un
appunto eh' io
trovo giusto, malgrado la
difesa del Finzi,
Lezioni di storia
della lett. italiana,
IV, I, 407
segg. e quella
di Giov. Negri,
Commenti sui Promessi
Spori, Milano, 1903,
I. 184 n.
Anche il Vidari
(Op. ci?., p.
34) sentì cotesta
lacuna. Rkmkk Svayh
i Critici 10
I PROMESSI SPOSI
IX FORMAZIONE «
turata tentò tutte
le strade per
esimersi dal« l'orribile
comando »; sentenziare
che « il de« litto
è un padrone
rigido e inflessibile,
contro « cui
non divien forte
se non chi
se ne ribella
« interamente.» (cap.
XX), son cose
giuste e ben
dette; ma non
vediamo in esse
raffigurata la maniera come
una delinquente per
passione può trasformarsi in una
traditrice cosciente. Nella
prima minuta Geltrude
vive sotto l'ossessione
di quella morta
deposta in cantina
sotto un mucchio
di sassi, la
povera conversa di
Meda. Egidio, di ritorno
da un
colloquio avuto col
Conte del Sagrato (che
sarà poi l'Innominato), le
promette che, se
ella consente ad
ingannare Lucia, caverà
il cadavere da
quel luogo e
lo porterà lontano.
La Signora, che
non ama Lucia,
perchè quel candore le
è quasi un
perpetuo rimprovero, repugna
e resiste. Ma
il giovinastro la
circuisce con arte
infernale, si tinge
adirato e pronto
ad abbandonarla, le fa
balenare l'idea di
quella trucidata che
rimarrà là sotto
se ella non
cede, chiama in
soccorso le due
complici, più volgarmente
perverse di Geltrude, ed
ottiene ciò che
vuole, anzi ottiene
più di quel
che vuole. «
Gertrude, avvezza «
ad essere strascinata,
e a far
sempre qualche « cosa di
più di ciò
che sul principio
aveva ri« casato
di fare, rispose
tosto che pigliava
essa « l'impegno,
che ne aveva
i mezzi più
di chic« chessia
» (p. 185).
Persuasa al tradimento,
la sua natura
superba vuol esserne,
non solo compiacente intermediaria, ma
artefice diretta. In
questa parte l'abbozzo
completa magistralmente l'azione
del romanzo. Non così
si può dire
dello altre parti
do" Urani ove
ricompare la Signora.
Oziose le cautele
di lei colle
compagne e col
Guardiano dei cnppuceini
il'amico di padre
Cristoforo) dopo il
ratto ili Lucia
(pp. 208-10); poco
opportuna la dimanda
che a Lucia
medesima, liberata, muove
intorno alla Signora
il cardinale Federigo
(p. ;i'22ì. 11 rimanente
della lugubre storia,
fino al pentimento
dell'infelice monaca, anzi
sino alla morte
di Egidio, non è
nell'abbozzo (e l'autore
lo confessa) che
un compendio della
narrazione del Ripamonti
(pp. 192-95) talora
quasi tradotto alla
lettera; nè mette
conto di occuparsene.
Val meglio il
fugace accenno inesso
in boccanel romanzo(cap.XXXVII) alla
mercantessa vedova, che
Lucia conobbe nel
lazzaretto. Quei fatti
posteriori non avevano
che vedere con
l'azione principale del
romanzo. Che in
origine gli ultimi
casi della suora
fossero « intrecciati agli ultimi
dei due promessi
», e che
in nne del romanzo, in
luogo del signor
marchese, ricomparisse Geltrude
pentita a chiedere
perdono a Lucia,
sono stranezze che
poterono essere asserite con
sbalorditola sicurezza ('),
ma che pel
cervello di don
Alessandro non passarono,
la Dio mercè,
mai. * *
La penna del
romanziere corse troppo
nel riferire gli strani
discorsi che la
Signora usava fare
il) Da F.
P. Cesta un,
La storia nei
Proni. Sposi, uel
volume Studi storici
e letterari, Torino-Eonia,
1804, pp. 288
e 810-11. I
PKliMJOsKl Sl'nsi IX
KUKMAZIOXK con Lucia.
Ve a questo
proposito un dialogo
singola rissimo nei Umili
p|). ji)2-o9, ove
la Signora s'abbassa
al pili ributtante
cinismo prendendo a
difendere Don Rodrigo
e dicendo alla
semplice conUidinella affidata
a lei :
« convien dire
che voi non
abbiate mai avuio
chi vi volesse
male, fiacche sentite
tanto orrore per
chi vi ha voluto
bene ».
Par di sentire
il Pisistrafo dantesco
rispondere alla moglie,
che si lagnava
di chi aveva
abbracciato in pubblico
la loro figliuola:
Clic t'areni noi a chi
nini ne (lenirà
Se ; ma,
conclude con sopraffina
malizia, « si
« parla soltanto
di questo fatto,
perchè può dar
« luogo ad
una osservazione piccante:
ohe vi ha
« talvolta delle
leggi che non
sono eseguite » (pagina
80). Spiace pure
alquanto che il
Manzoni abbia dato
di frego al
discorsetto con cui
la badessa di Monza
rispose alla domanda
della giovinetta Geltrude d' essere
ammessa nel chiostro:
discorsetto breve, ma
forbito, che le
era stato dato
in iscritto «
da un bell'ingegno
di Monza »
e che fece
sorridere di compiacenza
le suore, perchè
« la gloria
del capo si
diffonde sugli inferiori »,
e lasciò il
popolo minuto, che
pure fu messo
alla porta poco
dopo senza cerimonie,
pieno d'ammirazione (p.
18). In quanto
a psicologia, il
Manzoni, ammonito più
di una volta
dall'amico Ermes Visconti,
le cui postille
all'abbozzo danno spesso
nel seguo ed
ebbero, di regola,
esaudimento, ha quasi
seni I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
151 pi e
e con mano
sicura migliorato nella
redazione stampata. Il
padre di Geltrude
è nell'abbozzo un
marchese Matteo, più
bonaccione, più ignorante,
più asservito ai
pregiudizi che il
principe del romanzo.
Il principe ha ben altra
austerità imperiosa ed esercita
pei1 mezzo di
essa ben diversa
efficacia sulla figliuola
e sui lettori.
Maggior risalto che nel
romanzo hanno invece
nei Brani (pp.
02-63 e 72-73)
la marchesa ed
il marchesino; i
quali poi, divenuti
la principessa ed
il principino, perdettero di
significato pei' lo
meno quanto avevano
guadagnato di grado.
Nè fu gran
male: cosi campeggiano
meglio le due
figure capitali, il
principe e la
figlia. Del resto,
quella marchesa era
tale pupattola, da
non sentirne punto
la mancanza : figuratevi
che nel ritorno
da Monza, dove
Geltrude era stata
con tanta pompa
presentata al convento,
essa riuscì a
dormire placidamente «
malgrado i trabalzi
che una carrozza
di quei c
tempi dava in
una strada di
quei tempi». Di
materno non le
era rimasto assolutamente
nulla. Il prete
esaminatore e nei
Brani (pp. 92-93)
troppo buon uomo,
e forse in
virtù d'una giusta
osservazione del Visconti
divenne l'uomo dabbene
del romanzo, che
è più a
suo posto. Geltrude
è, nè più
nè meno, ciò
che sarà Gertrude nel
romanzo: lo scrittore
la concepì di
getto sull'arido fondamento
di poche frasi
latine del Ripamonti.
Solo nell'abbozzo è
più spiegata la
vanità di Geltrude,
e là dove
il romanzo condensa tutto in
una frase dicendo
« idolatrava insieme e
piangeva la sua
bellezza », qui
invece è detto come
la idolatrasse e
come la piangesse
(pp. 101-103). Fu
osservato che il
Manzoni, cosi sobrio
e riguardoso nel
descrivere donne giovani,
solo della monaca
scrisse che avea
la persona ben
formata La tormeutatissima descrizione
dell'abbozzo (pp. 21-24)
dice poco di
più, ma si
trattiene sul muoversi
e sul gestire
di quella infelice, che
alla fantasia del
Manzoni richiama certe
parodie di monache
sulla scena, in
paesi non cattolici.
Un vizio, invece,
che la Signora
ha nell'abbozzo, e
che le fu
tolto con ragione,
è di alludere
continuamente a sè, ai propri
casi, alla propria
vocazione forzata. Sin
dal primo momento
in cui parla
ad Agnese e
a Lucia, completamente
estranee, esce in
una sfuriata con
amarissimi accenni al
destino proprio (pp. 29-30),
e poi seguita
su questo tono
spessissimo, il che
è fuori del
verisimile. In luogo
più acconcio che
nei Brani è
posta nel romanzo
la guerricciuola pettegola
fra educande, nella
quale le compagne
di Geltrude si
vendicano della sua
superiorità, vantando il
proprio avvenire nel
secolo e spargendo
il ridicolo sul
suo futuro impero di
badessa ; ma
qui è andata
perduta una perla
d'osservazione psicologica, racchiusa
in questi termini:
« Geltrudina non
poteva rivol« gere
le stesse armi
contro le avversarie,
perchè « le
ricchezze e la
voluttà non sono
di quelle «
cose delle quali
si ride in
questo mondo. Si
« ride bensì
di chi le
desidera senza poterle
ot ti) F. Romani,
Ombre e carpi,
Città di Castello,
tpnere, e di
chi ne usa
sgraziatamente; e questo
ridere mostra l'alta
estimazione, in cui
sono « tenute
le cose stesse.
Quei pochi che
non le c
stimano, non esprimono
il loro giudizio
con la derisione
» (p. 39).
* • In
conclusione, adunque, nella
prima stesura dell'episodio
della Signora sono
sviluppate due scene,
quella dell' uccisione
della conversa di
Meda e quella
del dialogo con
Egidio, che giovano alla
motivazione intima del
tranello teso u
Lucia e potevano
rimanere, sia pure
modificate, nel romanzo. Il
resto si può
dire quasi tutto
ridotto in meglio
nella redazione definitiva,
e i tagli
della storia ulteriore
di Gertrude, compendiosamente esposta nell'abbozzo,
sono pienamente giustificati. Certamente
i casi di
Virginia de Leyva,
quali risultano dal
processo, sono d'una
drammaticità prepotente (*).
Quella specie di
tristissima suggestione che esercita
l'Osio su di
lei; l'agonia di
quell'anima, che vorrebbe
ribellarsi e non
può; il peso
di complicità abominevoli
e di delitti
orrendi; la tabella votiva
inviata, dopo il
primo aborto, da
Virginia alla Madonna
di Loreto perchè
la liberasse dalla colpa
ruinosa; le ripetute
ansie della maternità;
quella bambina, legittimata
po (1) Sintesi efficace
ne dà il
Luzio, Manzoni e
Diderot. scia dall' Osio con
un sotterfugio giuridico
nel ItiOO, che
veniva al convento
ed era colmata
di carezze dalla
Signora, presenti e non ignare
le monache; sono
tutti particolari di
altissimo valore
psicologico, da tentare
un artista. Il Manzoni
dapprima li ignorò:
in seguito, saputili,
non se ne
valse. L'episodio, di
cui s'era invaghito,
aveva già troppo
il carattere di
un romanzo nel
romanzo; e perciò
l'amico Fauriel consigliava
di sopprimerlo. A
questo partito radicale
l'autore non seppe
decidersi, ma ne
eliminò una parte,
ne eliminò anche
troppa parte. Perchè?
Possibile che il
romanziere non siasi
avveduto essere quelle
due scene rappresentate
con plasticità geniale,
più utili all'azione
principale che quella lunga
preparazione remota, per
cui Geltrude divenne
monaca contro voglia
e spergiura e
complice d'omicidio? Se
si doveva adoperare
il ferro chirurgico
sulla carne viva
del magnifico episodio,
perchè rispettare tanto
ciò che era
più lontano dalla
storia dei due
sposi, il lento
ed inevitabile pervertimento, mentre
spietatamente si recidevano le
circostanze essenziali del
primo delitto e
gli stimoli irresistibili
al secondo ? Bisogna
pur pensare che
gli scrupoli religiosi
di mons. Tosi
avessero qualche presa
sull'animo del Manzoni.
E vero che
nella prima stesura
aveva messo le
mani innanzi dicendo
: « il Ri« pamonti
racconta di questa
infelice cose più
«forti di quelle
che siano nella
nostra storia; «
e noi ci
serviamo anzi delle
notizie che egli ci ha
lasciate per render
più compiuta la
storia « particolare
della Signora. Queste
cose però, *
quantunque rese più
che probabili da
una tale «
testimonianza, e quantunque
essenziali al filo
« del nostro
racconto, noi le
avremmo taciute; «
avremmo anche soppresso
tutto il racconto,
se « non
avessimo potuto anche
raccontare in proli presso
un tale mutamento
d'animo nella Si«
guora, che non
solo tempera e
raddolcisce l'im« pressione
sinistra che deggiono
fare i primi
fatti « della
Signora, ma deve
creare una impres«
sione d'opposto genere
e consolante »
(p. 33). Questa
giustificazione etica, ricercata
nella esemplarità finale di
quell'intermezzo storico, indusse
forse la coscienza
del Manzoni a
non sopprimere di
sana pianta quei
due capitoli che
tanto gli piacevano;
ma rimaneva pur
sempre il pericolo
di eccitare soverchiamente, con
rappresentazioni vivaci, il
raccapriccio dei lettori
per scene pur
troppo seguite in
un luogo sacro,
tra quelle che
avrebbero dovuto essere
le spose del
Signore. Chi sappia
ciò che il
Manzoni pensava a
questo proposito troverà
per avventura in
questo timore la
ragione sufficiente della
mutilazione. I successivi portamenti della
Signora non avevano
relazione diretta con
la favola principale
del romanzo, e furono
eliminati; le due
scene di cui
non si poteva
far senza furono
ridotte con tanta
arte, che la
fantasia dei lettori
potesse colmare la
loro misteriosa indeterminatezza. Così
si tacitavano gli scrupoli
e si ubbidiva
anche un poco
alle esigenze dell'economia
del libro, alle
quali per altro don
Alessandro non era
disposto a sacrificare troppo lesile
personali inclinazioni e i suoi
gusti. Si tenga
presente che, malgrado
tutti i consigli ed
i consiglieri, il
vero od assoluto
arbitro nell'opera propria
rimase pur sempre
lui. II. L'Innominato. Francesco
Bernardino Visconti di
Brignano fu senza
dubbio una gran
canaglia; ma una
canaglia che avea certa
signorile alterezza, per
cui non tollerava
uguali ma voleva
soggetti, anche fra i suoi
alleati di scelleraggini, presso
i quali, come
presso i veri
sudditi, esercitava il prestigio
di un
coraggio a tutta
prova e di
quella specie di
magnanimità che non
mancò talora ai
più feroci briganti.
Tale il Ripamonti,
senza nominarlo, lo descrive;
e dice di
aver conosciuto lui,
come la Signora,
già vecchio e
volto a nuovi
pensieri per l'eloquenza,
narravasi, del card.
Federigo, che avea trovat o
la via del
suo cuore, pervertito,
non guasto. Anche
in quella sua
verde vecchiezza, fa
capire l'annalista, serbava
i vestigi dell'antica imperiosità;
ma questa sembrava
piegata a forza,
da un'altra volontà
intima, a mansuetudine.
Nelle frasi incisive
del Ripamonti, l'Innominato
v'è già tutto;
e si delinea
persino quella specie
di sdoppiamento spirituale
che il Manzoni
sviluppò in un
cosi splendido saggio
di analisi. I
PKOMKSSI SPOSI IN
F0K.MAZ1ONK lf>7 Ma
non subito trovò
la sua via,
e, caso singolare, dapprima si
scostò dalle linee
severe tracciate dal Ripamonti,
poi vi tornò
grado a grado.
(Questa tigura fu
una delle più
tormentate del libro:
don Alessandro la
rifece tre volte,
perdendosi nella seconda a
contare di molte
prodezze delittuose dell'Innominato e a sciorinare
considerazioni storielle
generali su quella
specie di tiranni,
che la dominazione
spagnuola in Lombardia era
costretta a tollerare
('). Nel primo
abbozzo, l'Innominato ha un nome,
o, meglio detto,
ha un nomignolo,
datogli per certa
sua ribalderia brigantesca
riinasta celebre, l'aver
freddato di pieno
giorno, di piena
festa anzi, sul
sagrato d'unii chiesa,
mentre ne uscivii
con altri, Vedasi
lo squarcio della
seconda minuta opportunamente riferito in
appendice dallo Sforza,
Brani, 591 segg.
Anche là il
Manzoni era costretto
a scusarsi per
le digressioni generiche, e
nella scusa fa
capolino il suo
solito esagerato scrupolo di
storico, che se in tanti
casi giovò alla
grandezza del suo
libro, in altri,
è forza ammetterlo,
gravemente gli nocque: «
Vorrei poter risparmiare
al lettore tutte
■ queste notizie
e riflessioni generali
su le opinioni,
gli usi, ■
le istituzioni di
que' tempi, e
condurlo speditamente di
fatto ■ in
fatto fino al
termine della storia;
ma i fatti
che mi tocca
■ di raccontare
sono talvolta cosi
dissimili dall' andare
co ■ mune dei
nostri giorni, così
estranei alla nostra
esperienza, « che,
a dar loro
un certo grado
di chiarezza, mi par pure
indispensabile di spiegare
alquanto lo stato
di cose nel
quale ■ e
pel quale potevano
essere. Altrimenti, a
quelli che non
■ hanno fatto studi
particolari sopra quell'epoca,
sarebbe come presentare
un osso di
questi animaloni di
razze perdute, senza dare
un. po' di
descrizione dello scheletro,
o di ■
quel tanto che
si è potuto
trovare e mettere
insieme, per ■
la quale si
vegga come quell'osso
giaceva • (p.
GCM). 11)8 I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE untale elio
aveva usato resistere
alla sua prepotenza. Quel delitto,
compiuto con truce
sangue freddo (pp.
144-149), gli guadagnò
la designazione di
Conte del Sagrato.
Il Conte del
Sagrato differisce assai
dall'Innominato: di gran lunga
più turbolento, egli
manca quasi interamente
di generosità; è
un delinquente triviale,
una specie d i
Egidio elevato alla
terza potenza. Quando
il timido cappellano
crocifero chiama nel
romanzo l'Innominato «
appaltatore di delitti»
(*), c'è da
giurare che tale
designazione colorita
spettava al Conte
del Sagrato, meglio che
quella d' «
intraprendi tore di scelleratezze », che
è nei Brani
(p. 150). II
Conte vende la
sua potente mediazione
delittuosa a suon
di doppie, e
guai a chi
non paga con
scrupolosa puntualità! Egli
non ammette dilazioni;
presso un abile
mercante della sua
risma, quelle son
cambiali che vanno
in protesto, e
l'avviso del protesto
potrebbe anche essere
un'archibugiata nella schiena.
Pel ratto di
Lucia, impresa piena
di pericoli, chiede
dugento doppie; e don Rodrigo, se
anche a malincuore,
deve striderci. L'idea
del mercato fa
capolino ogni momento
e volgarizza tutto.
Volgari, sebbene efficaci
sono i colloqui
del Conte con
don Rodrigo e
con Egidio, ridotto
il primo ad
un breve cenno,
l'altro soppresso nel romanzo
nel pensiero e
nell'espresEdiz. Petrocchi, p.
552, cap. XXIII. In
fondo al colloquio
con Egidio trovi
un tratto umoristico, che va
rilevato. Dice il
Manzoni che «
uno dei molti
« vantaggi dei
lettori di storie
» è «
il sapere certe
cose igno I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE 159 sione
il Conte è
un vero soldataccio,
e tale resta
anche al cospetto
del card. Borromeo,
sebbene vada a lui (cosa
estremamente inverosimile) con
mezza voglia di
convertirsi (p. 235).
Figuratevi clic appena
introdotto al suo
cospetto, prende a
dir ira di
Dio dei preti
e poco manca
non gli esca
dalla strozza un
moccolo! (pp. 258
59). Anche dopo
la conversione, nella
celebre cavalcata con
don Abbondio, il
Conte appare alquanto
rozzo, e non
ancora del tutto
spoglio dall'abito consueto
della violenza. Bellissima,
pur nel primo
getto, la scena
del Conte che
notifica il suo
mutamento ai bravi
e ai domestici;
ma ben lontana
dalla solennità sublime
che la medesima
scena assume nel
romanzo, ove la
superiorità tutta morale
dell'Innominato su quella ciurmaglia
risplende luminosa. Poco mi
garba veder nei
Brani quel povero
Conte che si
sottopone a una
specie di vili
crucis, e non
contento del colloquio,
che è qui
duplicato, col cardinale,
non pago alle
refezioni che prende secolui,
lo segue in
ogni sua tappa,
sicché nel più
bello lo troviamo
(indovinate?! nella cucina di
Perpetua! Decisamente quel
povero Conte non
sa essere signore,
nè prima della
conversione nè dopo.
In luogo del
semplice e toccante
«perdonatemi», pronunciato quasi
timidamente da quel
potente, nella stesura
defi ■ rate dai
personaggi più importanti
di esse ;
il veder chiaro
■ dove i
più accorti ed
oculati personaggi camminano
all'o ■ scuro :
vantaggio che dovrebbe
ispirare ad ogni
lettore ben ■ nato
molta riconoscenza a
coloro che glielo
procurano, che ■
alla fin line
sono gli scrittori
di quelle storie
• fp. 1&>). ItiO
I PROMESSI Ml'OSI
IN FORMAZIONE nitiva,
quando va a
liberare Lucia; nella
prima minuta il
Conte va in
piena forma a
chiedere perdono a
Lucia nella sua
casetta natale, e
in persona regala
alle donne dugento
scudi d'oro, mentre
nel romanzo ne
manda cento con
una lettera. Meno
liberale del suo,
ma più dignitoso.
Altra umiliazione, che
nel romanzo fu
tolta a buon
diritto, perchè non
ha punto punto
del signorile, è che
quando, per fuggire
l'invasione dei lanzi,
tre dei personaggi
del romanzo, che
tutti sanno quali
siano, si ricoverano
nel castello del
Conte, questi è
costretto, per mancanza
di posto, a
cedere il proprio
letto ad Agnese
e ad andare
lui a dormir
sulla paglia (p.
456). Inoltre, quel
Conte convertito dà
talora un po'
troppo nel semplice. Con
don Abbondio egli
aveva bazzicato assai
più di quel
che facesse l'Innominato,
eppure, sembra, non s'era
per nulla accorto
con che razza
di pulcin bagnato
egli avesse a
che f are. Infatti,
quando il povero
prete viene pien
di sospetti al
suo castello per
ricoverarvisi con le
due donne, egli
non esita, il
Conte, a pregarlo
di « animare
questa buona gente
alla difesa della
* vita di
tanti deboli, della
pudicizia di tante
« donne »,
e di *
assistere quelli fra
noi che la«
sciassero la vita
in questa impresa
di miseri« cordia»
(p. 4oò). Che
dica per burla,
non consta, e
non sarebbe in
carattere; se dice
da senno, deve
avere avuto chiusi
gli occhi e
gli orecchi, tutto
assorto nella sua
santità nova, quell'uomo
ch'era pur avvezzo
a praticare con
tanti e a
legger loro nell'anima.
Allorché don Abbondio,
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE 161
nel suo segreto,
gli risponde «
un corno »
; non sappiamo
se sia più
comica la situazione
di chi risponde
a questo modo
o quella di
chi avea fatto
proprio a lui
la strana proposta.
Nè si creda
che questa diversità
d'indole, di modi
e di educazione
del Conte del
Sagrato sia solo
limitata a fatti
secondari. Essa viene
ad intaccare la
compagine stessa di
quel carattere, in
quella crisi massima
della sua esistenza,
che è la
conversione. Nella prima
minuta il Conte
ha 50 anni,
mentre nel romanzo
l'Innominato ne ha
60. Dieci anni
sono molti quando
il mezzo del
cammino è oltrepassato
da un pezzo.
Infatti nei Brani
non hai quella
specie di malaise
nel delinquere, che
proviene dall'età e
dal conseguente appressarsi della
morte ('), e non hai
neppure quello sdoppiamento dell'io,
meravigliosamente dipinto
nel romanzo, che
prepara la conversione, e su
cui il Graf
scrisse parole d'oro
(*). « Quel
nuovo lui, che
cresciuto terribilmente a
« un tratto,
sorgeva come a
giudicare l'antico »
(3), è il
vero autore della
conversione; la presenza
di Lucia, il
discorso eloquente del
mite Federigo, (T)
Ciò avrebbe garbato
al Finzi, Lezioni,
IV, I, 40i,
a cui sembra
■ inn attirale nel
rispetto dell'arte» quell'Innominato che già
sin dalla presentazione
è « prossimo
a battere la via
di Damasco • .
Non si può
negare che qualche
ragione possa averla anche
il Pinzi; ma
della psicologia della
conversione, rispetto alla
quale il Manzoni
aveva principi suoi
ed era maestro,
quell'egregio critico non
si è curato.
c2) Foscolo, Manzoni
e Leopardi, Torino,
1898, pagine 118,
l'20, 130. Cól
Ediz. Petrocchi, p.
515, cap. XXI.
Ee.iier Svaghi Critici
11 liC' I
PROMESSI Sl'DSJ IX
FORMAZIONI-: non sodo
causo, ma occasioni.
Sono occasioni volute dalla
Provvidenza, la quale
opera il miracolo in
quell'ordine appunto che
è consono alla
icona della (inizia,
online chiaramente rappresentalo nella Scrittura
('>. Che l'operazione
della (ìrazia corrisponda
appieno alle esigenze
della psicologia, non
è meraviglia: ma
pel i-redente la
conversione non può
esser altro che
un miracolo: ed il
Manzoni più d'ogni
altro se lo
sapeva, egli che
d un miracolo
siffatto credeva d'aver
ricevuto la ( ìrazia.
Ora la lettura
di quelle importantissime pagine della
minuta, che ritraggono
i pensieri e
le operazioni del
Conte del Sagrato,
ci svelano un
particolare degnissimo di
nota. Questo. Che
il Manzoni, nella
trattazione alquanto grossolana
del personaggio che
gli usci dalla
mente e dalla
penna nella prima
stesura, non pensò
a motivare secondo
gli studi scritturali
il gran mutamento
del Conte. Solo
in seguito, col
continuo pensarci su,
egli s'avvide della
minor logica della
trasformazione, e ci
diede quella conseguente e
vivissima rappresentazione di
una coscienza morale che
si ridesta, per
cui la storia
dell'Innominato è tra
le più profonde
concezioni dei PromessiSpasi. ili
Alquanto prolissi e
talora sin troppo
sottili, ma sostanziosi e
d'innegabilivalore sono in
proposito i due
saggi recenti di Gimv.
Xkivki, La cOìtrerxioHe
iìe/PJtiuominnto e il ronfilo
ilclln Uraz'w e
Se la eonfc
salone il eli'
Iiinomhia'o fu prr
il Manzoni mi
miwofo, nei citCommenti,
voi. II. Panni
cIih il Negri
abbia ben risolto
il quesito, intornu
a cui erano
discordi il Graf
e il D'Ovidio.
I l'Ko.MtlsSI smisi
IN I che
quella lolla benediva
acciò se ne
andasse ed era
troppo -.alito per
mandarla, invece, a
tarsi benedire) fu
costretto a rompere
il digiuno in
pubblico con mi
lezzo di pane
ed un bicchiere
d'acqua. Per un
principe della Chiesa
non c'era male!
Il Manzoni non fece
forse benissimo trascurando,
per isiudio di
brevità, quest'aneddoto: mentre
operò -augii-unente troncando
l'indagine dei motivi
per cui Federigo,
pur avendo scritto tante
opere, non .■i.iiM'gui
celebrità letteraria. Chi
voglia, può leggere quei
motivi nei Brani
pp. 241 e
segg.ì, ma non
vi apprenderà nulla
di peregrino. Lucia
è in questa
parte della prima
minuta meno soavemente
mansueta che nel
romanzo, anzi a
volte ò un
po' imperiosa e
stizzosetta. specialmente con
la vecchia a
cui il Conte
l'ha ci Dimessa
in custodia. Curioso
è il notare
che in quel
forzato sodalizio di
Lucia con la
vecchia, il Manzoni
si era del
tutto scordato di
far portare un
po' di cena,
di che lo
avverti il Visconti
(p. 224 il),
ed egli ne
fece poi quella
squisita minia turi
uà eh' è nel
romanzo. La vecchia,
del resto, è
qui più sordida
che nel romanzo,
più volgare essa
pure, come il
suo padrone; il Manzoni
ha tratti di
crudo realismo quando
più tardi la
fa pacchiare e
trincare (pp. 285-87),
ma c'è da
averne rivoltato lo
stomaco. Una persona
che si può
dir nuova è
il curato di
Chiuso, giacché il
paese ove segui
la conversione del Conte
(paese che nel
romanzo non ha
nome) è veramente
Chiuso, come suppose
il bravo Bindoni
(l). Nella redazione
definitiva quel curato è
un prete dabbene,
zelante, ma molto
comune, al punto che
lo scrittore lo
chiama una volta
scherzosamente « guastamestieri »
perchè non ò
atto ad intendere
la sublime umiltà
del cardinale (2).
Nella prima minuta
era addirittura un
mezzo santo, tantoché
la sua riputazione
era diffusa ed
esaltata nei villaggi
circonvicini. Appena Lucia, liberata
dalla prigionia del
Conte del Sagrato,
sente dire che
si va a
Chiuso : «Chiuso,
esclama, dov'è quel
buon curato ! andiamo,
andiamo » (p.
295). Difatti il
Manzoni, con insolita
solennità, ci dice
che si chiamava
don Serafino Morazzone
(p. 267) (3), « uomo
che fi) La
topografia dei Promessi
Sposi, voi. I,
Milano, ltìOo, pp.
145 segg. Ediz. Petrocchi,
p. 62fi, cap.
XXIV. Altrove Merazzoni. «
La Tigna di
quel liuou prete
Me■ razzoni era
tanto ben coltivata,
che aveva poco
bisogno 7 protezione
f1). A un
certo punto del
dialogo il Conte
perde la pazienza
e scatta: « Al diavolo
« anche V amparo... .
tenga queste parolacce
per « adoperarle
in Milano con
quegli spadaccini im«
balsamati di zibetto,
e con quei
parrucconi impostori, che
non sapendo essere
padroni in «
casa loro, si
protestano servitori d'uno
spa • gnuolo infingardo Intendiamoci fra
noi da «buoni
patriotti, senza spagli
uolerie » . Il
(ìraf, rammentando questo
passo (2), osserva:
« Chi •
ha orecchie intende;
e la censura
austriaca, « se
non aveva molto
cervello, aveva ottime
« orecchie ».
Vero; ma non
questo certo fu il motivo
per cui il
Manzoni soppresse il
colloquio. Sentimenti patriottici
erano assai mal
collocati in bocca
a uomini come
il Conte del
Sagrato e sarebbero
stati altrettanto male
in bocca all' Innominato. La censura
austriaca ne avrebbe
riso maliziosamente, come
d'una mossa poco
accorta, e l'avrebbe
reputata, per gl' italianamente pensanti, un
tirar sassi in
colombaia. Il Manzoni
vide a tempo
la poco opportunità
di quell'atteggiamento, e lo
tolse. L' exjMiinoì de
Manzoni, in Bulletin
i/alien, voi. I,
1901, pp. 20G
sggVedi anche Eugenio
Memì, Spegnitoio, Spagnolismo
e Spagna nei
« Promessi Sposi*,
in Fan filila
della domenica, l'i
e 19 luglio
1908. Cll La
voce amparo è
rimasta anche nell'arguta
introduzione al romanzo «sotto
l' amparo del Re
Cattolico nostro Signore
». i'2i In
un articoletto del
giornale La Stampa
di Torino, G
nov. 1904. 168
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE Così
pure soppresse la
morte del Conte
di peste, «
contratta uelì'assistere i
primi appestati » (pagina
558). Sarebbe stato
un doppione della
morte d' un
altro convertito, padre
Cristoforo, e ciò
che stava bene
al cappuccino disdiceva
alqua nto ad
un laico gran
signore, per quanto
inoltrato sulla strada
del paradiso. *
Angelo De Gubernatis
scrisse anni sono
che l'episodio dell'Innominato « poco mancò
non diventasse il pernio
di tutta l'opera
», e affermò
più oltre, rincarando
la dose, che
quella figura doveva
essere, in origine
« il centro
di tutto il
poema o romanzo
» (')■ Questa
ipotesi assunse maggiori
proporzioni nel noto
scritto del Cestaro,
ove si legge:
« Il voto
è la catastrofe
religiosa « dei
Promessi Sposi. Forse
n'era veramente la
« catastrofe, insieme
con la conversione
dell' In« nominato, che,
nel primo abbozzo
del romanzo, «
ne doveva essere
il protagonista. E
forse allora «
i casi dei
promessi non formavano
che l'azione «
secondaria; il ratto
di Lucia doveva
se rvire « alla
grande opera della
conversione; e, l'In«
nominato un santo,
Lucia votata alla
madonna, «Renzo, chi
sa? converso nel
convento di tra
« Cristoforo, tutto
finiva con grande
consolazione « del
vescovo Tosi, ad
majorem dei gloriarti
» (*). C'è
da trasecolare! (lj
Alessandro Manzoni, Firenze,
1879, pp. 221
e 228.Nei cit.
Sludi storici e
letterari, p. 28fl.
I PROMESSI SPOSI
IV FORMAZIONE 109
Dicesi che le
bugie, in genere,
hanno le gambe
corte; ina per
opposito, in letteratura
pare le abbiano,
anzichenò, lunghe. Cotesta,
infatti, dell'Innominato
primo protagonista dei
Promessi Sposi, sebbene
di per sè
inverosimilissima e non
confortato da veruna
prova di fatto,
si fece strada
e fu ripetuta
da diversi, persino
in libri scolastici. Sembra che
ad arrestarne la
voga non servissero neppure attestazioni
in contrario venute
da persone che
col Manzoni convissero
o conversarono, e dalle
sue labbra udirono
qual fu e
come gli venne
la prima idea
del romanzo. La
grida del ló
ottobre 1627, firmata
da don Gonzalo
Fernandez de Cordova,
governatore di Milano,
quella stessa che
il dottor Azzeccagarbugli mette
«otto gli occhi
al buon Renzo
e in cui si parla,
tra l'altro, di
pene comminate a
chi impedisca matrimoni
e al «
prete non faccia
quello che è
obbligato per l' ufficio
suo », gli
fece balenare alla mente
l'idea d'un racconto
storico, avente per
soggetto un matrimonio
contrastato « e
per finale grandioso
la peste che
aggiusta ogni cosa»
('). Il caso
dell'Innominato, come quello
della Signora, gli si
fece innanzi più
tardi, studiando il
Ripamonti, e sin
da principio l' uno
e l' altro dovevano entrare nella
storia come narrazioni
episodiche. Oggi il fatto,
attestato da testimoni
de audita, è
luminosamente confermato dalla
conoscenza che abbiamo fatta
con la prima
stesura del libro.
E questo fia
suggel, con ciò
che segue. (li
S. Stampa. Alessandro
Manzoni, I, (iO,
II, 87 e 141; Faiihis,
Memorie manzoniane, p.
102. 1. Nella
minuta vi giunge «
a notte già
fitta », e
la sgridata se
la busca. IL
(iuardiano, sebbene fosse
« con« tento
in fondo del
cuore che il
padre Cristo« foro
avesse commesso un
mancamento », gli
fece il viso
serio e gli
indisse una penitenza.
« Un lettore
di otto anni
(aggiunge argutamente «
il Manzoni^ potrebbe
qui domandare: perchè
« faceva il
volto serio, se
era contento? e
gli si «
risponderebbe, che appunto
era contento perchè
« il padre
Cristoforo gli aveva
dato il diritto
di EJiz. Petrocchi,
j>. 128. cap.
VII. I PROMISI
SPOSI IN" FORMAZIONE
171 « fa rirli
il volto serio
». Tutta la
scenetta (pagine
.")li5-ii9i è deliziosa,
e non si
può pensare i-ho
Io scrittore l'abbia
elimina fa se
non per un
corto scru polo religioso.
Che non rutti
i religiosi t'(isscr«i
della tempra ili
patire Cristoforo, eirli
lo taceva capire
abbastanza con altre
figure fratesche assai meno
elevate della sua:
spinger rocchio di linee
nelle invidiuzze pettegole
che allignavano alla sordina
tra le cocolle
ed a cui
non si sottraevano
i superiori, gli
sembrò forse libertà
soverchia. Bastava la
scena indimenticabile del cull0(]uiu
tra il conte
zio ed il
padre provinciale u-ap.
XIX i, colloquio ch'ebbe
per effetto di
far andare fra
Cristoforo a piedi
da Pescarenico a
Rimini « che
è una bella
pas-i ggiata »:
ma in origine
troppo era maggiore,
perché il monaco
venia sbalestrato a
Palermo i, per mostrale
la pieghevolezza ossequiosa
dei frati posti
più in alto
verso la mondanità
potente. Padre Cristoforo
guadagna sempre più
in diluirà ed in
fervore nelle successive
elaborazioni ■ Iella
materia. La grandiosità
santa della sua tiirura silicea
particolarmente là nel
lazzaretto, presso don
Rodrigo agonizzante. Scena
molto diversa india
prima minuta, ove
quel prepotente non
è lasciato nel
suo giaciglio di
dolore, mentre il
cappuccino e gli
sposi promessi pregali
por lui: ma
invece appare in
un momento d'insensato furore, seminudo
e coi capelli
rabbuffati, e si
slancia su d'un
cavallaccio dei monatti,
e fugge fugge
pazzamente, tinche precipita
morto. Fosca scena, satura
di terribilità tragica,
che attrasse l'attenzione
dei manzonisti sino
da quando poterono
conoscerla nel primo
volume degli Scritti
postumi. Se il
Manzoni si decise
a mutarla di
sana pianta, lasciandone
appena una traccia
in altro luogo
('), dovette certo
avere i suoi
buoni motivi. Più
d'uno cercò* d'indovinarli. A me pare
che anche qui
prevalessero una ragione estetica
ed una religiosa
: la ragione
estetica è che
quella molte, sebbene
poeticamente trovata, avea troppo
del colpo di
scena, e don
Alessandro aborriva dagli
effetti, da ciò
che chiamava «
battere la gran
cassa » la
ragione religiosa è
che quella morte
da disperato non
lasciava adito alla
speranza di pentimento
negli ultimi istanti,
pent imento che poteva
essere impetrato da Dio
per mezzo di
coloro appunto a cui
quel prepotente vigliacco
aveva fatto più
male (3). Chi
sin del primo
getto fu quell'impagabile tomo
che tutti conoscono,
ò don Abbondio.
Egli Allorché Renzo
entra nel lazzaretto,
vede un cavallo
fuggente spinto da
un cavaliere frenetico
(capitolo XXXIX). Come
nota lo Sforza
(Sfrìtti pontumi di
A. Manzoni, I, 124
1, quella scena
si ficcò nella
mente di Emilio
Zola, cosi incline
al terribile e
al raccapricciante, e
non ne usci
più. Il Previati
(p. 555 della
edizione maggiore hoepliana)
cercò ridarla; ma Ti riusci
poveramente. Parole del Manzoni
riferite dallo Stampa,
I, 57. Bene sviluppò
questo concetto A.
Eòndani, in un
articolo ove parla di
più altre cose
: Una variante
del Manzoni circa
la morte di
don Bodrigo, in
Natura ed arte,
XII, 1903, nn.
4 e 5.
Cfr. specialm. p.
311. I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
173 ebbe intorno
molto meno concieri
di ogni altro,
sebbene all'artista sommo
che lo creò
sia avvenuto dapprima di
caricarlo un po'
troppo. La più
parte dei tratti
tolti via hanno
essi pure gran
sapore di comicità,
perchè quella figura
il Manzoni non riusciva
a toccarla senza
farne sprizzare le
più amene trovate
che imaginar si
potessero. Ameno è
don Abbondio alla
mensa del Conte
del Sagrato, allorché
il territorio circostante
è tutto invaso
dai lanzichenecchi, ed
il povero curato, con
quel po' po'
di tremerella addosso,
è costretto a fare il
disinvolto, a mangiare
ed a ridere
(p. 458j. Più
ameno è don
Abbondio predicatore, con tutte
le sue cautele
di dire e
non dire, e con l'abile
conciliazione degli interessi
dell'anima e dei
parocchiani con quelli
del corpo e
della sua particolare
tranquillità d'uomo timido
p. 464). La
conversazione di Renzo
rimpatriato, dopo vinta
la peste, e
don Abbondio, che
pur n'è scampato,
è nel cap.
XXXIII del romanzo
un gioiello; ma
non lo era
punto meno nell'abbozzo, anzi arricchiva
don Abbondio di
qualche tratto d'egoismo
e di comicità
poi scomparso (pp.
49Ó-99). Qui Fermo
(che sarà poi
Renzo) non incontra
il suo curato
per via «
portando il bastone
come chi n'è
portato a vicenda
»; ma lo
vede ad una
finestra della canonica.
Nel vano egli
scorge « un
so che di
bianco giallastro in « campo
nero, una figura
immobile, appoggiata *
ad un lato
della finestra. Era
don Abbondio «
in persona, e
"ad una certa
distanza poteva « pa
i-ere un
vecchio riti-atto di
qualche togato, 174
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONI? «
scialbo per natura,
per l'arte del
pittore e per
« l'opera del
tempo, appeso di
traverso fuori al
« muro, perla
buona intenzione di
ornare qualche «
solennità ». Il
dialogo segue tra
il prete che
è alla finestra
e Fermo che
è sulla via.
Questa scena inette
capo ad un'altra
variante segnalabile. Nel
romanzo Renzo non
trova Agnese nel
villaggio natio, perchè
essa si è
recata presso certi
suoi congiunti, a
Pasturo nella Valsassina,
sicché il bravo
giovinotto la rivede
solo dopo che
ha trovato Lucia
e può recarle
la buona novella
(cap. XXXVII). Nella
minuta invece Agnese
non s'è mossa,
ed avendo fino
allora evitato il
contagio, vive con
grandissime precauzioni.
Fermo la
rivede ed ha
secolei un colloquio i
pp. 499-505;, di
cui nel testo
definito dovea sparire
ogni traccia. Qualche
diversità nel carattere
di Lucia ho
già notato. Il
i-atto di lei
è rappresentato con
perfezione di gran
lunga minore nei
Brani. Con singolare
inverosimiglianza, i falsi
forestieri invitano Lucia ad
accompagnarli in carrozza
per meglio indicare
loro la strada
di Monza (p.
201), e quel
che più importa,
lo strillo acuto
della fanciulla rapita
è udito da
contadini che lavorano nei
campi circostanti, e
se ne fa
poco appresso un gran
cicalare pei' Monza,
e le fantasie
riscaldate ne inventano
di carine. Anche
in questo sviluppo del
fatto, che al
Manzoni sembrò meno
opportuno in seguito,
sicché lo tolse,
v'è quel senso
vivo e sperimentale
della realtà, che
in lui siam
soliti ad ammirare.
Le esagerazioni I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE 175 e
le .storture della
voce pubblica furono
delle più buffe
(J); sinché un
cagnotto di Egidio
non ebbe rimesso
le cose a
posto, facendo credere
in piazza che
la giovine fosse
d'accordo e che
l'avesse portata via
il suo innamorato.
Si tini col
« ragionare profondamente
sulle astuzie delle
« donne che
fanno la semplice,
sulla dabbenaggine della Signora
che aveva raccolto
quella « mozzina
» (p. 208).
La diversa ubicazione
del castello dell'Innominato, costringe l'autore
a far comparire
prima la vecchia.
Il contegno di
Lucia coi manigoldi
non differisce molto
da quello del
romanzo; solo in
principio essa è
più fiera ed
i bravi più cinici
e sguaiati. Maggiori
sono le varianti
nella breve dimora
di Lucia a
Chiuso. Tommaso Dalceppo
(p. 316) è
un personaggio tanto
insignificante, quanto
diventerà gustoso in
seguito, quando si
trasformerà nell'anonimo sarto,
che sa di
lettere. Il Manzoni
qui teorizza, alquanto
fuor di luogo,
sui sentimenti di
chi ha scampato
un pericolo e
sul valore del
voto. Inoltre non
è il cardinale
che visita la
casa del sarto,
dando luogo alla
scenetta indimenticabile del
cap. XXIV; m»
son le tre
donne che si
recano dal prelato,
per invito di
lui. Tanto il
curato di Chiuso
(quel sant'uomo), quanto
Federigo, sono con le donne
il) Probabilmente l'autore
si ricordò in
tempo che di simili
mascheramenti della verità
nel pettegolezzo popolare
egli si era
burlato altrove, dove
parla d'un altro
ratto, fallito, quello di
cui ebbero incarico
il Griso e
gli altri bravi
di don Rodrigo.
Vedi cap. XI,
a p. 253
dell' ediz. Petrocchi. 17»;
I PROMESSI SPOSI
IX FORMAZIONE stranamente
impacciati (pp. 321-22;
cfr. p. 341).
11 Borromeo «
in quella canizie
conservava la purità
ombrosa di una
fanciulla » . In
un uomo dell'indole sua, ciò
dava nel ridicolo;
e infatti il Manzoni
se ne
avvide e soppresse
del tutto quel
tratto di carattere,
sebbene nel romanzo
egli abbia ringiovanito di parecchio
il nobile personaggio,
sempre rappresentato nei Brani
come un vegliardo.
Non mi tratterrò
qui ad osservare
che nella prima
minuta il Manzoni
aveva ceduto ancor
più che nel
romanzo alla tentazione
di divagare nella
storia, sicché le
digressioni sulla carestia
del 1628 e
sulla peste successiva
erano ancor più
lunghe di quelle
che si conoscono
(*). Dirò, invece,
che la tìne
del romanzo era,
nell'abbozzo, schematica, fredda,
lontana dalla bella
e bonaria efficacia
del cap. XXXVIII.
Anche là. in
origine, la mente
di don Alessandro
si palesava più ragionatrice che
rappresentatrice. Inoltre, nel
banchetto dato agli sposi
nel palazzotto già
appartenuto a don Rodrigo,
il « parente
lontano » che
ne è l'erede,
non mangia con
loro « alle«
gando che il
pranzare a quell'ora
non si eoli«
faceva al suo
stomaco » . «
Ma (osserva il
Mali ci) In queste
pagine soppresse, non
posso trattenermi dal
cogliere un'osservazione umoristica
tutta manzoniana: Il
« tempo è
una gran bella
cosa: gli uomini
lo accusano, è
vero, ■ di
due difetti: d'esser
troppo corto e di esser
troppo lungo: ■
di passare troppo
tardamente, e d'
essere passato troppo
in « fretta;
ma la cagione
primaria di questi
inconvenienti è «
negli uomini stessi,
e non nel
tempo, il quale
per sè è una «
gran bella cosa
; ed è
proprio un peccato
che nessuno finora
• abbia saputo
dire precisamente che
cosa egli sia » (p.
402;. I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
177 « zoni)
la vera cagione
fu... che quel
brav'uomo c non
aveva saputo risolversi
a sedere a
mensa « con
due artigiani: egli,
che si sarebbe
recato * ad
onore di prestar
loro i più
bassi servigi, «
in una malattia.
Tanto anche a chi è
esercitato « a
vincere le più
forti passioni, è
difficilé il vin«
cere una piccola
abitudine di pregiudizio,
« quando un
dovere inflessibile e
chiaro non «
comandi la vittoria
» (p. 557).
Invece, nel romanzo, il
marchese aiuta a
servire li sposi
invitati; ma li tiene
a tavola separata.
Ed il malizioso romanziere, commenta:
c A nessuno
verrà, « spero,
in testa di
dire che sarebbe
stata cosa «
più semplice fare
addirittura una tavola
sola. « Ve
l'ho dato per
un brav'uomo, ma non per
« un originale,
come si direbbe
ora; v'ho detto
« ch'era umile,
non già che
fosse un portento
« d'umiltà. N'aveva
quanta ne bisognava
per « mettersi
al disotto di
quella buona geute,
ma * non
per istare loro
in pari ».
Parole che per
l'estrema finezza dell'ironia
riuscirono equivoche, tanto che
a qualcuno parve
che la sostenutezza del marchese
fosse lodata, ad
altri che fosse
biasimata, perchè non
conforme alla schietta
umiltà evangelica. Questi
ultimi aveano ragione
ed il passo
è chiarito nella
forma, meno arguta
ma più esplicita,
che la chiosa
manzoniana ha nell'abbozzo
('). Vien così
ad essere dichiarata
s e nz altro vera
l'interpretazione del passo che
con la sua
ingegnosità consueta propose
nel 1900 G-iov.
Negri. Quelle sue
considerazioni uscirono a Pavia
in foglio volante,
e il Petrocchi
fece benissimo riferendole
integralmente nel suo
commento, pp. 1102
sgg. Krnieb Scaghi
Critici 12 178
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE *
Or ecco avanzarsi
la « coppia
d'alio affare »,
don Ferrante e
donna Prassede. Nei
Brani non è
per impulso spontaneo
di quella faccendona
delle buone opere
di donna Prassede
che Lucia entra
in quella casa;
ma perchè ve
la manda in
custodia il cardinale.
E ci va
a fare la cameriera,
perchè quella «
coppia » non
è soltanto una «
coppia », ma
ha seco una
figliuola e la
sorella del capo
di casa, rimasta
vedova. Una famiglia,
dunque, in tutte
le regole, che
poi nel romanzo
sarà ridotta ai
soli due coniugi
rispettabilissimi. La figliuola,
unica, di quei
due (') chiamavasi
Ersilja, famigliarmente Silietta,
» personaggio «
non troppo facile
da descriversi, nò
da detì« nirsi.
Le sue fattezze
erano senza difetti
e « senza
espressione; i suoi
due grandi occhi
* grigi non
si movevano che
quando si moveva
« tutta la
testa; teneva la
bocca sempre semi«
aperta, come se
ad ogni momento
sentisse « una
leggera meraviglia: rideva
spesso e sorri«
deva di rado;
parlava lentamente e
placida« mente, ma
volentieri e a
lungo tutte le
volte « che
alcuno dei suoi
parenti non fosse
presente Xel romanzo
(cap. XXVII) le
figliuole erano state
cinque, ma son tutte
fuori di casa,
tre monache e
due maritate, sicché
donna Prassede ha
« tre monasteri
e due case a cui
sopraintendere ». I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE 171» «
il darle su
la voce »
(p. 417). Si
potrebbe dipinger meglio quella
pacifica scimunitella, destinata al
monastero, ove entrò
poi senza slancio
e senza repugnanza ?
Perchè il Manzoni
più non la
volesse, non è
chiaro: forse gli
diede ombra l'idea
che ne venisse
nuovo sminuimcnto di
stima ai monasteri
femminili, quasi che
fossero additati come ordinario
ricetto di simili
pupattole; forse quella
figurina gl'impacciava l'azione.
Pei" quest'ultimo motivo
deve, senz'altro, aver
abolito donna Beatrice, la
sorella di don
Ferrante (p. 363),
severamente e sentitamente
pia, quanto donna
Prassede era pinzocchera
ed inframmettente; e il
procacciante maggiordomo Prospero
« faceto e
rispettoso, disinvolto e
composto, dotto «
a tutto fare
e a tutto
soffrire » ;
e la donna
di governo Ghitina,
che il servitorame
chiamava * la
signora Chitarra »
perchè « il
suo collo «
lungo, la sua
testa in fuori,
le sue spalle
sehiac« ciate, la
vita serrata dal
busto e le
anche alc largate
» la facevano
« somigliare alla
forma di quello
strumento », il
cui suono, ricavato
da mano inesperta,
somigliava alla voce
di lei, «
cicuta, scordata e
saltellante » (pp.
418-19). Questi personaggi,
che promettevano bene
davvero e che pur
di primo acchito
ci balzano innanzi vivi
e parlanti, scomparvero.
Ma, anche i
due onesti coniugi
erano nel primo
getto alquanto diversi
da ciò che
furono nel libro
definitivo. Più maligna
donna Prassede, tiranneggiava, per le
sue fisime, Lucia
e la faceva
spiare da Ghita:
essa avrebbe voluto
che la mite
Imi [ PROMESSI
sposi JN KUH.M
AZIoNK contadina prendesse
il velo con
la sua Krsilia.
Don Fori-ante, anche
qui, dotto d'una
cloUrina senza luion
senso, che degenera
nella pedanteria: ma oltracciò
sudicio nella persona
e nel vestire, e.
non meno che
pretensiosi), pitocco. Viveva di
prestiti: e chi
armeggiava sapientemente con
gli usurai per
trovare i quattrini
indispensabili al tasto della
casa spiantata, ora
quel mellifluo e pieghevoli»
Prospero. Del resto,
già nell'abbozzo era ideata
quella libreria di don Ferrante, che
nel romanzo fu
condotta a perfezione,
ed è uno
dei tratti più
finamente umoristici del
libro (''). In
questo luogo abbiamo
anzi una curiosità
da notare. Nella
redazione definitiva il
Manzoni, avendo di
molto arricchita la
descrizione della libreria nelle
parti che a
lui parevano secentescamente sostanziali
e, per dar la misura
dell'uomo e dei
gusti del tempo,
essenziali, omise la sezione
delle « lettere
amene » i2).
I n critico
morto giovine, in
certa sua conferenza,
volle colmare codesta
lacuna e imaginò
che vi figurassero
« fra i
più graditi, i
nomi del Tasso,
« del Marini,
del Tassoni, del
Bracciolini, del Cfr. D'i.
Non vi sarà
forse fra i
ilici lettori chi
non rammenti che
appunto da 1111,1
lettera dell'Achillini è
tolto quasi di
peso i kirocco
ragionamento con cui
nel romanzo i
Ferrante viene a
dimostrare che il
contagio della peste
è una chimera
(cap. XXXVII) I.
Stui'I'.mii. La hiblioteia
ili ilun Ferrante,
Milano, 1SM7.,•. I.-..
Ji li. Haiti,
in Sanai letterari.
Firenze. 1KH p.
109. i La
telaxiime de] passo
manzoniano con la
lettera dell' tu indicata
nel 1S7!I da O. (irKBtiixi.
nella liax&ei/ìia 'nuli
III. Vii. La
distanza fra i
due passi none
punto un lini rahite.
come sostieue con
poca critica il
Petrocchi anzi es:-i
sono molto simili;
il (die non
vuol dire Manzoni
alibia commesso un
plagio. Questa è una Già nella
minuta si leggevano
quelli sgangherati dilemmi (pp.
469-70); ma essi
facevano parte d'un
dialogo, di cui
sopravvisse appena lo
spunto, tra don
Ferrante e un
don Lucio, figurina
ben trovata di
« professore d'ignoranza
e dilettante d'enciclopedia »,
che non aveva
mai studiato, anzi
si vantava di
aver tutti i
libri in gran
dispillo perchè «
fanno perdere il
buon senso e
« tuttavia pretendeva
decidere d'ogni cosa
». Che gioia!
Di codesti sensatissimi
faciloni v'ò chi
dice che se
ne trovano anche
fuori del seicento; ma
io non lo
credo. * I
Brani (pp. 3
sgg.) ci fanno
conoscere intero un
intermezzo di cui
era nota solo
una parte, per
via del discorso
pronunciato dal Bonghi
in Milano nel
1885, quando s'inaugurò
nella Braidense la
sala manzoniana. Finge
il Manzoni in
quell'intermezzo di discutere
e di ribattere
le obiezioni di
un personaggio ideale,
che gli fa carico
di presentarci nel
romanzo due fidanzati
senza descrivere «
i principi, li
aumenti, le comunicazioni del loro
affetto ». Egli
si professa «
del parere di
coloro i quali
dicono che non
« si deve
scrivere d'amore in
modo da far
con appropriazione lecita ed
opportuna, e mi
par più probabile
ch'ei sia ricorso
all'Achillini, anziché ad un opuscolo
di Massimiliano Viani di
Pallanza, stampato nel
1630, ov'è fatto
il medesimo ragionamento
(Stoppato, pp. 48-49).
Due sonetti politici
dell' Achillini cita il
Manzoni. sentire l'animo eli
chi legge a
questa passione »,
perchè d'amore al
moudo ve n'ha
quanto basta, nè
v'è bisogno che
altri s'industri a
coltivarlo ed a
fomentarlo con gli
scritti, d'amore «
ve n'ha, «
facendo un calcolo
moderato, seicento volte
« più di
quello che sia
necessario alla conser«
vazione della nostra
riverita specie». Strana
teoria senza dubbio,
che provocò ben
presto una rispettosa,
ma energica confutazione
del Fogazzaro. Questi non
può ammettere un
concetto cosi materialistico dell'amore,
e convenendo che
gli amori di
puro senso non
vanno descritti, ritiene
vi sia nell'amore
un elemento idealistico
elevatissimo, atto a sublimare
le anime e
a completarle, sicché l'indurre
i mortali a
quell'amore, che ha
qualcosa d' immortale, è
opera meritoria^). Nella
quale interpretazione dell'amore
fa capolino il poeta
idealista, non alieno
dallo spiritismo, che fece
giuocare cosi bene
in un suo rooianzo la
sempre risorgente imaginazione
dell'amore dopo la morte
(2), rappresentata dall'adagio antico «
Hyeme et sestate,
et prope et
procul, usque dum
vi vara et
ultra » (3).
Sta bene: ma
il Manzoni voleva
dire altra cosa.
L'ha dimostrato con
molta diffusione, ma
insieme anche con
molto ingegno, Giovanni
Ne (li Un'opinione di
A. Manzoni, in
Fouazzaho, Discorsi, Milano, 1898.
Il discorso fu
letto a Firenze
nel marzo de]
1887. C2) I
numerosissimi indizi concreti
di questa credenza
o imaginazione furono
raccolti da A.
Giìaf in un
recente articolo della X.
Antologia, 16 novembre
1904. i'ò) Daniele
Cortis, Torino. 1885,
p. 61. 184
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE gri
(')■ L'autore dei
Promessi Sposi fu
ben lungi dal
disconoscere l'amore ideale
e puro, anzi
quest'amore egli fa sentire
di continuo nel
suo libro, non
evitandone neppure qualche
tratto passionale. Ma
egli sapeva che
in ogni amore,
anche il più
puro, vi sono,
in quanto è
umano, elementi di impurità,
e a
questa impurità non
avrebbe voluto che
la letteratura provocasse
il consenso, cioè
l'adesione del cuore per
mezzo dell'eccitamento dei
sensi. A chiarire
siffatto consenso aggiunge
una esemplificazione, che il Bonghi
non fece conoscere
e che non
potrebbe essere più
calzante: « Ponete
« il caso
che questa storia
venisse alle mani,
per « esempio,
d'una vergine non
più acerba, più « saggia
che avvenente (non
mi direte che
non « se
n'abbia), e di
angusta fortuna, la
quale, per« duto
già ogni pensiero
di nozze, se
ne va cam«
puechiando quietamente, e
cerca di tenere
oc« cupato il
cuor suo coll'idea
dei suoi doveri,
« colle consolazioni
della innocenza e
della pace, «
e colle speranze
che il mondo
non può dare « nè
torre, ditemi un
po' che bell'acconcio
po« trebbe fare
a questa creatura
una storia che
« le venisse
a rimescolare in
cuore quei senti«
menti che molto
saggiamente ella vi
ha sopiti. «
Ponete il caso,
che un giovane
prete, il quale
* coi gravi
uffici del suo
ministero, colle fatiche
« della carità,
con la preghiera,
con lo studio,
« attende a
sdrucciolare sugli anni
pericolosi che L'opinione
del Manzoni e
quella del Fogazzaro
intorno all'amore, nel I
volume dei cit.
Commenti. I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
»185 « gli
rimangono da trascorrere,
ponendo ogni « cura di
non cadere, e
non guardando troppo
« a diritta
uè a sinistra,
per non dar
qualche * stramazzone
in un momento
di distrazione, «
ponete il caso
che questo giovane
prete si «
ponga a leggere
questa storia (giacché
non « vorreste
che si pubblicasse
un libro che
un t prete
non abbia da
leggere), e ditemi
un po' «
che vantaggio gli
farebbe una descrizione
di « quei
sentimenti ch'egli debba
soffocar ben bene
« nel suo
cuore, se non
vuol mancare ad
un « impegno
sacro ed assunto
volontariamente, se « non vuol
porre nella sua
vita una contraddi«
zione che tutta
la alteri ».
Fuvvi chi si
meravigliò che tenesse
questo concetto dell'amore
nei romanzi chi
avea provato replicatamente e
potentemente quella passione, sino ad
averne « spossata
l'anima d'ogni forza
», come scrisse
un giorno al
Fauriel ('). Nessuna
meraviglia meno giustificata.
Gli è appunto perchè la
natura del Manzoni
era una natura sommamente, e
non platonicamente, amatoria, che
la sua rigorosa
morale cristiana gli
imponeva di evitare
ad altri quegli
stimoli, di cui
gli eran ben
noti i pericoli
e contro cui
aveva dovuto lottare
egli stesso. Tanto
è vero ch'egli
fin da principio
si guardò da
quegli scogli, e
nella prima minuta
non occorre nessuna
di quelle descrizioni
che nell'intermezzo sull'amore
volle (li Stampa,
II, 18. I
l'ROMRSsr SPOSI IX
FORMAZIONE far credere
d'aver messe in
carta l'i. Ora.
che • ■levando
a teoria generalo
l'idea del Manzoni
si venga a
sacrificare l'arte alla
morale, e che
silfatio sacrificio, per
motivi estranei alle
ragioni intime dell'opera
letteraria, sia ingiusto,
non sarò certo
io a negarlo:
ma movendo dai
principi etici che
il gran romanziere
poneva a baso
di ogni pensiero
e ili ogni
operazione, l'opinion sua
era perfettamente logica.
Che volete farci?
Createvi un Manzoni
di vostro gusto,
se vi garba:
quello • •he
tu al mondo
e vestì panni
era fatto cosi.
Lo studio della
prima minuta ci
convince, adunque, che
nel lavorio di
perfezionamento dell'oliera sua
il Manzoni si
studiò in ispecie
di ridurre a
giusta misura la
materia, di resecare da
essa // froppn
f il l'ano.
Menfe dialettica ebbe il
Manzoni quant'altri mai ed all'opera
d'arte si preparava
con lunghissimo studio
di storia, perche
nell'uomo gli piaceva
di osservare non
solo le attitudini
e i moti
spirituali del presente, ma
anche quelli del
passato. Quindi il so
ili Ad
un imaginario interlocutore, che
gli rimprovera di
aver trascurato nel
libro i particolari
dell'amore. Unge dori
Alessandro di rispondere: Trabocca,
invece (il liìiroi
di queste cose,
e deagio confessare
che sono anzi
la parte più
• elaborata dell'opera;
ma nel trascrivere,
e nel rifare,
io . Ciò
non risponde al
vero, se pure
non si tratti
di abbozzi parziali,
anteriori alla prima
minuta, dei quali
ignoro l'esistenza, ovvero
della storia secentesca
che finge di
avere scoperta. T
PROMESSI SI-OSI IX
FORMAZIONE 187 verchio
od il meno
utile elio gli
uscì dalla pernia
nella prima foga
ilei comporre consistono
in abuso ili
ragiona mento ed
in abuso di
storia. Per quel
i-Inspetta alla sostanza
del libro, la
sua maggior preoccupazione fu di proporzionare
all'insieme questi due
elementi, e nel
tempo stesso di
ottenere maggior tinozza d'osservazione psicologica
maggiore efficacia rappresentativa. A
togliere ilei tutto
l'abuso della storia
non riuscì: e questo
restò il
difetto massimo del
romanzo, rilevato da
molti, a principiare
dal (ioethe e
a finir col
De Sanctis ('
. Riuscì invece
a temperare l'inclinazione dello spirito
raziocinante, intensificò l'osservazione e la
rappresentazione, aguzzò l'umorismo bonariamente ironico.
Ma già nella
prima minuta, se
non è tutta
l'arte, è tutta
l'anima sua. Se
per lo innanzi,
mediante il raffronto
delle due edizioni,
potevamo farci un'idea
del lavoro immenso
che costò al
Manzoni quella sua
forma sempre limpida
e sempre acconcia;
ora possiamo in
oidio valutare, per
mezzo dei Brani,
l'opera sua di
artefice squisito nel
trattare la sostanza
del libro. Ed
è mirabile la
cura da lui
posta nelle minuzie.
Vedete, ad esempio,
quanto è incontentabile fin
nei nomi dei
suoi personaggi. Ai
nomi egli annetteva
importanza grande, e non senza
rati Lp parole ilei
fioptlie all' Eekermarm.
riferite anche stiirza
nella prefazione ai
Brani, p. XLIV.
sera notissimi'; quelle ilei
De Sanetis si
possono leggere, ne'
suoi Hrrilli ivi
e»'/, ed. Croce.
Xapoli. 1898. 1,
52 n. 188
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIÓNE gione:
si direbbe gli
echeggiasse sempre nella
memoria la vecchia
sentenza, che Dante
pur fece sua,
nomina sunl consequentia
rerum. Nel fissare
quello di Lucia,
più che la
martire siracusana del IV
secolo, può darsi
gli risonasse dentro il
dantesco « Lucia
nimica di ciascun
crudele ». Il suo
fidanzato aveva in
alto grado la
virtù della costanza,
rara nei giovinotti:
quindiFermo. Ma questo
poi gli sembrò
nome troppo aulico,
troppo poco comune,
e sostituì il
popolare Renzo, che dà
pure indizio di
fermezza, perchè rammenta un
santo, il cui « volere
intero » resistette
al supplizio della
« grada ».
Il casato di
Lucia era in
origine Zarella; ma
non gli piacque: sostituì Mondello,,
ove l'aggettivo mondo
non entra a .
caso ('). Fermo
era di cognome
Spolino; poi divenne
Renzo Tramaglino, vocaboli che
richiamano l'uno l'arte
tessile e l'altro
la pesca. Potrà
fare qualche meraviglia
che il padre
Cristoforo fosse in
origine Galdino, nome
che desta il
riso pel ricordo
di quel semplice
e golfo cercatore
delle noci; ma
una vecchia cronaca rappresentava eroicamente
un frate Galdino
della Brusada, ed
a costui pensò
dapprima il Manzoni
(s). Don Ferrante
e donna Prassede,
Che v'abbia anche
parte quella Lucia
Mantella, che il
Ripamonti nomina (cfr.
Nkgri, Commenti, I, 27, n.
2), non è
escluso. Xe avrà conforto
il dabben Luigi
Lucchini, che nel
suo Commentario dei
Promessi Sposi, ovvero
la rivelazione di
tutti i personaggi
anonimi, Bozzolo, 1902,
male era riuscito
a conciliare rimanine di
quel monaco austero
con quella dell'umile
laico. I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
189 prima d'avere
questi due nomi
altosonanti, spagnolescamente
e lombardescamente eletti
e nobiliari, rispondevano a
quelli di don
Valeriano e di
donna Margherita, il
primo assai probabilmente suggerito da
quel Valeriano Castiglione,
il cui Statista
regnante sarà fra
i libri politici
quello che meglio
tornerà accetto al
pedantesco personaggio. L'avvocato
imbroglione, prima d'immortalarsi col nomignolo
di Azzeccagarbugli, era
detto il Duplica,
ma di primo
getto il Pèttola,
vocabolo che in
milanese vale viluppo,
intrigo. La governante del
prete, prima di
ricevere quel battesimo di
Perpetua, giusto premio
alla sua fedeltà,
dal padrone cosi
mal compensata, si chiamò
per breve tempo
Vittoria, certo perchè
col padron suo,
tranne quando la
paura lo rendeva
ostinatamente ribelle, essa
la vinceva sempre.
« So quello
che posso fare,
la padrona * sono io
qui >, dice
nei Brani al
Conte del Sagrato: e
quel qui vuol
essere la cucina,
ma tutti v'intendono
sotto l'intera casa.
Gli otto nomi
di bravi che
nel romanzo occorrono,
son tutti trovati con
finissimo accorgimento; qualcuno
suggerito dal Grossi, qualcuno
peravventura scovato nei gridart
del tempo (').
Nella prima minuta
ve n'erano altri,
foggiati con sistema
non diverso, come
il Nato in
casa e lo
Spettinato (p. 288). ili
Vedansi le comunicazioni
del Tamassia e
del Bellezza nel
(ìiorn. storico, XXX,
352 e 516,
ed anche il commento del
Petrocchi a p.
469. ino I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE La cura
grandissima dei particolari
minimi, l'assiduo infaticabile
lavoro della lima,
si unirono nello scrittore
lombardo (ne abbiamo
qui una riprova)
alla pronta percezione
del reale, alla
facoltà di ridarlo
con una evidenza
mirabile, all'intelletto
sollecito nel giudicare
rettamente di tutto e
di tutti. Non
errerebbe davvero chi dicesse
che il genio
del Manzoni fu
metà intuito e
metà pazienza, pensarci
su. Nota aggiunta.
— Questi tre
articoli furono i
primi di qualche
estensione che vedessero
la luce, nel
Fanfulla della Domenica,
15, 22, 29
gennaio 1905, appena
diffusa la prima
edizione dei Brani inediti.
Nel medesimo anno
1905 venne fuori
la 2a ediz.
dei Brani suddetti
: in che
cosa essa differisca
dalla prima indicai
nel Giorn. storico,
XLVII, 159-ltìl. Fra
gli altri articoli
dettati quando comparvero
i Brani son
segnalabili in particolar
guisa quello di
Fedet.k Bojiani, La
prima minuta dei
Promessi Sposi, nel
Marzocco, XI, 5
ed anche a
parte in un
elegante estrattino, e
quello di Vittorio
Osimo, La prima
stesura dei Promessi
Imposi, nell'Acanti della
Domenica, 27 agosto
1905, ristampato nel
volumetto Studi e
profili, Milano-Palermo, Sandron,
1905, pp. 54
sgg. La .più
estesa, peraltro, e
rilevante di tutte
le analisi dei
Brani inediti, resta
quella che F.
D Ovidio inserì nel
volume dei Xuori
studi manzoniani, villano,
Hoepli, 1908. —
Tra le molte
particolari considerazioni suggerite da
quel libro, vogliono
essere ricordate ed
apprezzate quelle di
Attilio Momigliano, Perchè
Don Bodrigo muore
sul suo giaciglio?,
negli Atti della
B. Accademia delle
scienze di Torino, XL
(1905 j e La
rivelazione del roto
di Lucia, nel
Giornale storico, L,
116 sgg. e
l'altra di Luigi
Fassò, Padre Cristoforo
balordo, nel Giorn.
storico, LI, 257
sgg. — Le
obiezioni che mi
furono mosse non
hanno menomamente alterato
i miei convincimenti
rispetto alle ragioni,
alquanto complesse, per
cui il Manzoni
abbreviò l'episodio della
Signora. Vedi Achille
Pellizzaki, 77 delitto
della Signora, Città
di Castello, 1907
e Antonietta Cajafa,
La Signora di
Monza nella storia
e nell'arte, Eoma,
1907, e ciò
che io ne scrissi nel
Giornale, storico, L,
223-24. Si confronti
pure l'esame che
fa del quesito
G. Bito I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE IDI liNnuu'j
nella Bass. crit.
della letter. italiana,
XII, 202 sgg.
— Per Don
Ferrante è da
vedere Giuseppe d'Ansa,
L'umorismo di Don
Ferrante ìlei «
Brani inediti ■,
in Fan filila
della Domenica. XXIX (1907),
n. 31, nonché
AKTtrno Pompeati, A
proposito rli Don
Ferrante, nella Rirista
abruzzese, XXII 11907),
52J) sgg. Dell'
opuscolo di Evabisto
Marsili, Don Ferrante
nei Promessi Sposi,
Città di Castello,
Lapi, 1907 conosco
solo il titolo.
— Per lo
studio dei nomi
dati dal Manzoni
a' suoi personaggi,
eccellente lo studio di
Felice Scolari, Xomi,
cot/nomi e soprannomi nei Promessi
Sposi, Milano. De
Mohr, 1908. La
vecchia " Antologia
... Anche alla
storia del giornalismo
italiano si cominciano
a porre seriamente
le basi. Di questa
che a'
tempi nostri diventò
una forza cosi
poderosa, i veri
precursori son noti
; spiriti bizzarri e
scapigliati del cinquecento,
Pietro Aretino, il Giovio,
il Doni. Ma fu nei
due secoli successivi, principiando dal
romano Giornate dei
letterati, apparso nel
1668, che il
giornalismo ubbidì alle
tendenze positive scientifiche
ed erudite, passate dallo
sperimentalismo galileiano nelle
indagini di storia
e di critica.
Vi rifulsero uomini
del valore di
L. A. Muratori,
dei due Zeno,
di Scipione Maffei,
dello Zaccaria, del Tiraboschi. La
storia esterna di
quel giornalismo erudito
accademico fu già
tracciata ('). Ma
quella non era
ancora rivelazione di spinti
nuovi, a
provocare la quale
giovarono particolarmente
nuove visioni del
progresso e nuovi Da
Luigi Piccioni nel
I volume dell'opera
7/ giornalismo letterario in
Italia, Torino, Loescher,
1804, su cui
son da vedere
A. D'Ancona nella
sua Rassegna bibliografica, II,
27H e V.
Gian nel (riorn.
storico della leti,
italiana, XXV, 98.
11 II volume
dell'opera non venne
mai, perchè il
Piccioni, datosi, a motivo
di esso, a
studiare il Baretti,
s'invaghì di quel
soggetto e scrisse
un grosso e
utile libro di
Studi e ricerche
su ti. Baretti,
Livorno, Giusti, 1899.
Rkxier Svaghi Critici
13 LA VECCHIA
ANTOLOGIA indirizzi della
critica, maturatisi segnatamente
in Francia ed
in Inghilterra. Nella
seconda metà del
diciottesimo secolo ecco
abbiamo l'Osservatore di Gaspare
Gozzi, atteggiato su
modello inglese ad arguta
moralità e civiltà
di costumi (');
la Frusta letteraria
del Baretti, tutta
fremiti di rivolta
ai vecchiumi arcadici,
alle erudizioni insulse,
alle vanità ciarliere
degli accademici, tutta
presentimenti, pur di
mezzo a qualche
solenne cantonata,
d'innovazione salutare del
pensiero letterario; il Caffè
milanese dei Verri,
che, pur non
scostandosi fondamentalmente dal
tipo inglese dello
Spectator, dava particolare
risalto alla filosofìa
pratica ed all'economia,
intonandosi a parecchie fra
le idee che
in Francia avrebbero maturata la
grande rivoluzione (*).
Per tal guisa
la rivista letteraria
si veniva sempre
meglio preparando ad essere
agone di lotte
intellettuali ed a rispecchiare
le aspirazioni politiche
e sociali dei
tempi nuovi. Nei
primi decennii del
secolo decimonono, ogni
cosa in Italia
diventava politica, perchè alla
politica s'appuntavano le aspirazioni
di tutti gli
ingegni più eletti,
di tutti i
cuori più fervidi.
La lotta tra
il foglio azzurro
dei romantici, il
Conciliatore, I rapporti dell'
Osservatore col suo
modello britannico, lo
Spectator di G.
Addison, furono dapprima
studiati da Giacomo Zanella, poi
da Pia Treves
(ora signora Sartori;,
finalmente da Carlo Segrè.
(2.) Egregiamente vagliò
le idee di
quel giornale Luigi
Ferrari, nella dissertazione Dei
■ Caffè', periodico
milanese dei sec.
XVIII, Pisa, bistri,
ltf&t. LA VECCHIA
ANTOLOGIA 105 vissuto
nel 1818-19, e
La biblioteca italiana,
cominciata a venir
fuori nel 1816
e diretta da
Giuseppe Acerbi, è
lotta eminentemente politica; ma
sarebbe tempo ormai
di riconoscere che,
come organismo di
giornale ed all'infuori
della santa causa
da esso patrocinata,
il Conciliatore non valeva
gran che ('),
mentre la Bililioteca
italiana, quando si
faccia astrazione dall'indirizzo politico
asservito all'Austria, fu
una rivista notevolissima
ed egregiamente redatta (*.).
Con ben altro
intuito giornalistico, con
ben altra abilità
e profondità che
il Conciliatore, fu diretta
e scritta la
nuova rivista che
un ginevrino di
larga coltura fondò
a Firenze nel
1821 e intitolò
Antologia. La tenacia
singolare, lo spinto di
abnegazione, la prudenza
e CI) Nonostante
l'innegabile arruffio di
idee e di
cose, resta però sempre,
per ciò che
spetta ai fatti,
una fonte ragguardevole il volume
di Cesare Cauti
;, II Conciliatore
e i carbonari, Milano, Treves,
1878. Senza aggiungere
novità quanto ai
fatti, analizzò gli
spiriti del foglio
azzurro Edmondo Clehicì
nella sua memoria
11 Conciliatore periodico
milanese, Pisa. 3s it-tri,
1903, memoria condotta
con diligenza, ma
che sa ancora troppo
di lavoro scolastico. Una vera
storia della Biblioteca
ancor si desidera,
e la naturale
antipatia che inspira
la sua tendenza
fece velo anche ull'apprezzamento di
studiosi bene informati
e autorevoli. I
migliori e più
obbiettivi contributi a
codesta storia sono
quelli dati da
A. Luzio nel
1806, con l'inserire
nella S. Antologia e
nella cessata Biviata
storica (lei Risorgimento
italiano articoli e
documenti che illustrano
in ispecie l'attività
dell'Acerbi e ce la
mostrano sotto una
luce diversa da
quella che sinora
prevalse. Vedi anche
Eugenia Montanari, Per
la atoria della
■ Biblioteca italiana
», nella Miscellanea
di studi critici
pubblicati in onore
di Guido Mazzoni,
Firenze, 1907, II,
361 sgg. l'oculatezza (li
quello straniero che
divmnc per elezione
italiano, fecero vivere,
in mezzo ad
ostacoli di 012,11
i genere. Y Aiìtolngin
per dodici anni.
Le vicende di
quella rivista, sorta
come per incanto
in una regione
di antica civiltà,
ma frolla e
pettegola, in mezzo
alla sciopera tagline
miserevole di quei Stigcjiafori.
di quei Jiarcac/lHnri, di
quei Yufitintorì. o come altro
.si chiamassero; le
vicende, dico, di
quella rivista sbozzò
già col suo
fare nervoso e
concettoso uno dei
massimi suoi cooperatori.
Niccolò Tommaseo, commemorando Gian Pietro
Vieusseux; ma nessuno
finora ne aveva
discorso paratamente e
con la debita
cura f>. Questo
ha fatto testé,
in un volume
sommamente encomiabile per il metodo,
per il giudizio
e per l'economia.
Paolo Prunas 2, autore,
anni .sono, di
una meli matura
opera sul Tommaseo
i3), hi (piale
certo gli inspirò
l'ottimo proposito di
tessere una buona
volta e definitivamente la storia
della rivista fiorentina
i . Dico
1 1 1 Giova rammentare
che uh capitoletto,
il nono, ile
Ilo scritto citato
elei Clerici sul logia considerata
come continuarne»? delle
idee che il
foglio lombardo propugnava.
i'2t L'Antologia ili
Gian Pietro \'ieits*nt.r,
Roma-Milano. Società
editrice Dante Alighieri,
liKUi. Il volitine
appartiene alla Hihlio/rra
s/ori'-a dei rinorgimento
italiano, e come
tutta quella collezione
benemerita lascia non
poco a desiderare
nella correzione
tipografica. i3) /.fi
rrìtira. l'arte e
i'ith.a sociale, ili
Xirrotò Tontmaseo, Firenze. Seeher. I!l01.
i li 11
primo capitolo di
questa storia, in
forma alquanto diversa
da quella che
ha oggi, comparve
già nella Jiaxsegna
nazionale del 1"
luglio 1SJ03, col
proposito di trattare
le origini dell' Antologia.
■fìititir(tiitente con la
maggiore soddisfazione i-oii
piena sicurezza, fiacche
se anche avliga
(e sani facile)
clic altri aggiunga
qualche ■miiento nuovo
i ') o
chiarisca con nuove
in— idilli qualche
particolare mcn noto,
il liei li-,
i del Prunai
resterà sempre la
prima e l' ulula storia complessiva
dv\Y Antologia di Firenze,
indotta non solo
sullo spoglio coscienzioso
ed ! ■■Iligente
dei 4S volumi
del periodico, ma
sulle le del
Yieusseiix. sui suoi
appunti, sui donneati numerosissimi dell'Archivio
di Stato fiondilo, su
esplorazioni di più
archivi privati, -ii
trentamila lettere di
amici (scusate se
son n-hine! indirizzate
all'infaticabile ginevrino che
I .ini" e
diresse il grande
periodico. E quel
che urna a massima lode
del Prunas, in
tanta con. i
ic ili materia
prima, pericolo più
che beneficili a lauti
a u torelli inesperti o mal dotati
o male avviati,
egli volle e
seppe orientarsi in
umili i del tutto
plausibile, volle e
seppe dar ri>
ho ai tatti
essenziali, giovandosi dei
secondari a lumeggiarli: in
una parola, fece
un libri organico
come pochi san
fare, esauriente senza
essere stucchevole, minuto
senza essere prolisso.
I IJ l'ima ili
licenziare r ili'l
liuim profitto che
già trasse, per
completare la stoini ilt-H'
litluìiìt/iti. l'amico mio
Vittorio C'iau dal
carteggio del in
col |it-iinlista e
letterato di Pisa
Giovanni Carini ■ruuili. si
: imbuiti lo
scritto La prima
rifiuta italiana, nella
\ittuu Antuìoijiti. J-1
agosto lilOb. 198
I„4 VECCHIA ANTOLOGIA
L'idea di dotare
l'Italia di una
rivista di coltura emulante i
celebri modelli inglesi,
particolarmente la gloriosa Edimburgh
Heview, fu dapprima concepita a
Londra nel 1819
da Gino Capponi,
il quale ne
aveva anche steso
il progetto che, come
dimostra il Pruaas,
equivaleva nelle linee
essenziali a quell'abbozzo
di programma di giornale
letterario che fino
dal 1815 aveva
redatto Ugo Foscolo.
Ma nel Capponi,
idealista irresoluto, difettava
una gran dote
per fondare e
continuare una rivista,
l'intelletto pratico deciso e
tenace; sicché fu una fortuna
che egli non
giungesse a colorire
il suo disegno,
ma anzi con
nobile disinteresse si
acconciasse ad appoggiare
quello del Vieusseux,
che appunto nel
1819 aveva fondato
in Firenze il
celebre gabinetto di lettura
nel vecchio palazzo
dei Buondelmonti sulla
piazzetta di Santa
Trinità, ed amava
di farsi editore
di una rivista,
che raggruppasse intorno a
sè le forze
intellettuali d'Italia, le mettesse
in comunicazione fra
loro, e, facendo conoscere il
buono ed il
meglio di ciò
che si pensava
presso i popoli
europei più evoluti,
desse efficace incremento
alla coltura della
penisola, preparando
idealmente quella unificazione
a cui miravano
politicamente gli intelletti
più elevati. Spirito
equilibrato e colto,
anima innamorata d'ogni cosa
buona, liberale e
mite, il Vieusseux
fece il miracolo
di smercanteggiarsi diventando
editore, forse perchè
dell'origine mer LA
VECCHIA ANTOLOGIA 199
fantesca possedeva le
qualità pratiche, ma
non la caratteristica sete
del guadagno. L' Antologia, il
cui programma ebbe
divulgazione nel settembre del
1820, differiva dal modulo
ideato dal Capponi.
Il tipo di
essa non era
inglese, ma piuttosto
francese, come voleva
l'origine e l'educazione del
Vieusseux. L'esemplare più
imitato era la
Reme encyclopèdique fondata di
fresco a Parigi
da Marcantonio Jullien,
con la differenza
che dapprima il
periodico italiano si proponeva
di trattenere il
pubblico sulle questioni
più ardenti per
via di versioni
e di riassunti
d'articoli e di
libri stranieri. Tenuta
entro questi limiti
modesti, anzi umili,
{'Antologia non avrebbe certo
potuto rappresentare quello
che. dipoi rappresentò
nel pensiero italiano; ma
ben presto, fin
dal terzo quaderno,
cominciarono gli articoli originali,
che in sul
principio s'aggirarono sulla questione
della lingua, alla
quale gli italiani
presero sempre interesse,
e poi si
estesero ad altre,
svariatissime materie: arti,
scienze, geografia, storia,
questioni sociali, agricole,
economiche, letteratura, istruzione,
educazione. Il periodico guadagnò
sempre più una
personalità propria distinta
od originale, tantoché nel
1830 il direttore
ne escluse le
traduzioni. Uomini di
opinioni svariatissime erano
chiamati a scrivervi,
e l'abilità somma
del Vieusseux consisteva nel fare
in modo che di mezzo
a quel vario
pensare e scrivere
un principio unico
prevalesse, quello della italianità.
Tale intento nazionale del
periodico fu la
sua vera gloria.
Esso ■200 LA
VECCHIA ANTOLOGIA rappresentava veramente
tendenze più elette,
i bisogni, la
vita letteraria e
scientifica della nazione, abbracciava in
un solo affetto
i vicini e
i lontani, era
strumento di conciliazione
assai più di
quello che il
Conciliatore, nella sua
vita breve ed
effimera, avesse, potuto
neppur sognare di
essere. Timidi parevano
all'anima agitatrice di
Giuseppe Mazzini gli
scrittori dell'Antologia, nè
si può dire
che, in fondo,
avesse torto. Ma
in questa medesima
timidità era un
punto di programma
nella mente accorta
del fondatore e
direttore, il quale
ben vedeva che
una maggiore arditezza avrebbe
sollevato subito sospetti
e sarebbe stata
motivo di una
disastrosa catastrofe. Non evitò
morte violenta neppure
a quel modo,
ma pur potè
l'esistere dodici anni.
Inoltre, quel medesimo intento
di provvida conciliazione lo costringeva
a schivare ogni
scritto troppo ardito
e violento, che
avrebbe potuto alienare
cooperatori disposti, nelle
loro idee, a
temperanza, e quella
gran pai-te di
pubblico a cui
non son date
le ali per
seguire i voli
troppo eccelsi e
che si ricantuccia
imbronciata, seppure indispettita
non indietreggi, a
tuttociò che le
sappia di paradosso.
Modernità amava il
Vieusseux, e nell'organo
da lui diretto
se ne scorgevano specialmente i
principii in quel
che riguarda la storia,
l'economia pubblica, l'incremento dato al
danteggiare, siccome ritorno
ad un grande
scrittore degnamente raffigurante
la patria; ma
la modernità non
voleva sconfinasse nè
antivenisse le esigenze
dei tempi: basta,
a questo proposito,
l'osservare in quali
limiti si mantenesse
rispetto al romanticismo,
che era ammesso
si e riconosciuto,
ma in quel
modo temperato, con
quasi tutte quelle
restrizioni che poneva
nello accoglierlo il
Manzoni. Voleva il
mite ginevrino che
l'Italia s'avviasse al suo risorgimento con l'estendersi
della coltura moderna,
col comunicarsi degli
spiriti, con l'affratellarsi delle
regioni lontane e
politicamente divise, non
coi mezzi violenti
uè delle sette
nè delle rivolte.
Bello è poi
l'osservare come alla
vitalità sempre crescente di
quell'organo di divulgazione
intellettuale cooperassero i
convegni del palazzo
Buondelmonti. Nelle sale
di quel gabinetto
di lettura, che il Prunas
ci riapre d'innanzi
con la scorta
dei numerosi carteggi
e delle Memorie
inedite del Pieri,
si raccoglieva non
solo quanto avea
di più eletto
Firenze, ma convenivano
i molti italiani
e stranieri, che
in quella città
erano di passaggio,
attrattivi dalla fama
'del luogo e
dal tatto squisito
e dalla cortesia
non mai smentita del
fondatore. Molte volte
le radunanze del
circolo (alcune delle
quali, come quella
del settembre 1827 in
cui fu festeggiato
il Manzoni, riuscirono solenni) erano
il primo incentivo
a scrivere articoli, ovvero
erano palestra in cui nobili
ingegni discutevano ciò
che nel 1'. 4 litologia si
stampava; dimodoché al
sodalizio delle anime
contribuivano in ugual
misura i convegni
e la rivista. Raro
accadde che un
periodico avesse l'onore d'esercitare una
così alta e
benefica influenza d'affiivtellamento e
di scambio intellettuale. 202
LA VECCHIA ANTOLOGIA
TI Prunas passa
in rassegna tutti
gli scrittori dell
'A n tolng
irì e di tutti sa
darci informazioni preciso,
e nou di
rado nuove e
curiose ('). Ci
passano d innanzi
i più bei
nomi che in
quelli anni onorassero
gli studi fra
noi; a trattenerci
più specialmente sui
letterati, Gino Capponi,
Enrico Mayer, Urbano Lampredi,
6. B. Niecolini
(che scrisse poco,
perchè nell'immenso suo orgoglio
gli parve di
non essere abbastanza
apprezzato dal Vieusseux, al
quale usò, come
a tanti altri,
degli sgarbij, Ugo
Foscolo, Giuseppe Montani (colonna e
cireneo dell'Antologia dal
'2'2 in poii,
Cesare Lucchesini, Sebastiano
Ciampi, Pietro Giordani (alla
cui pigrizia i
pungoli del direttore non
bastavano), Pietro Colletta,
Andrea Mustoxidi, Carlo
Botta, Giovanni Carmignani,
Silvestro Centofanti, Raffaele
Lambrusehini, Terenzio
Mamiani. Luigi Fornaciai!,
Giuseppe Grassi, Giacomo
Leopardi, Niccolò Tommaseo,
Giuseppe Mazzini. Quest'ultimo
onorò l'Antologia con quel
suo mirabile scritto
Di una letteratura europea, troppo
alto per essere
inteso dalle menti
comuni dei letterati
d'allora (fossero anche
della stregua di
quella del Giordani),
ma che in
sè chiudeva il
presagio d'un'intelligenza divinatoria.
II Leopardi diede
all' Antologia tre
dialoghi delle sue
Operette morali, di cui i
buoni intenditori riconobbero
il profondo significato
filosofico, celato sotto l'ironia
apparentemente leg Cl)
In un utile
elenco, che è
a p. 435
del volume, egli
spiega anche le
sigle, le iniziali
e gli pseudonimi
con cui sono
contrassegnati molti
articoli. LA VECCHIA
ANTOLOGIA 203 gera.
Il Tommaseo, chiamato
a Firenze dal
Vieusseux e divenuto suo
cooperatore assiduo, si
valse d'ordinario nella
rivista della sigla
K. X. Y.,
e vi scrisse
molte cose significanti,
esercitandovi quella sua
critica penetrante e
caustica, anzi acida,
che talvolta dava
in fallo, ma
più spesso, anche
esorbitando e pungendo,
sapea dire con
esemplare schiettezza tante
verità. Con lui
il Vieusseux era
spesso rudemente franco,
come richiedeva l'indole
dell'uomo; ma lo
stimava assai e non
si formalizzava punto
se altri collaboratori, irritati dai
suoi giudizi recisi,
lo chiamavano bestia o
bue, o, con
maggiore novità spiritosa
di epiteto, onagro.
Gran pazienza, del
resto, quella del
Vieusseux, a procurare
che non si
sbranassero a vicenda,
a maggior gloria
dell'Italia unita futura,
tutti quelli illustri
campioni dell'irritabile génus!
Solo chi abbia
diretto una rivista
letteraria, e più
specialmente critica, può
formarsi idea giusta
delle pene a
cui andava incontro,
tanto maggiori quanto più
egli voleva, in un certo
senso, serbare al suo giornale
un certo carattere
eclettico. Quando una rivista
ha un programma
ben definito e
non decampa da
certi principii e
da certi metodi,
vi collaborano coloro
che a quei"
principii e a
quei metodi aderiscono,
e gli altri
stan fuori, e
poco importa se
applaudano o fischino. Ma
allorché una rivista,
come era il
caso dell'Antologia, intende
riunire sotto una
mededesima bandiera e
far cospirare allo
stesso intento forze e
tempre del tutto
diverse, e non
204 LA VECCHIA
ANTOLOGIA vuole (come
oggi fanno le
più tra le
riviste divulgative)
rimpannucciarsi nella veste
comoda di Arlecchino,
offrendo lo spettacolo
dei magazzini inglesi, aperti
ad ogni merce
purché sia di
moda, ad ogni
nome purché accresca
i proventi con lo
stuzzichino deWattuatità; quando
non si voglia
abbassare, in una
parola, una rivista al
livello volgare d'un'intrapresa industriale, ma serbarne
sempre alto il
carattere di propagatrice
della buona coltura,
di vindice di
idee temperatamente moderne,
d'organo sincero e
imparziale di censura
e d'encomio, oh
allora c'è da
trovarsi fra i
triboli d'una lotta
incessante, ora a
mazzate, ora a
colpi di spillo.
Da buon schermitore
il Vieusseux sapeva
parare le une
e opporre ai
secondi un'epidermide di
rinoceronte. Contro la sua
longanimità fenomenale le
mille bizze», i
mille risentimenti degli
scrittorelli e degli
scrittoroui finivano con
lo spuntarsi, fossero pure,
nonché le ridicole
contumelie di una
pretensionosa nullità come
il Rosini, o
d'una ciana sghangherata
e maligna come
il Pieri, anche i
veleni dell'irritabile e
arcigno Niccolini. Ma
a quel martirio
il pover'uomo pur
non era corazzato
al punto da
non sentirne talvolta
fiera, nel più
segreto dell'animo, la
ferita sanguinante. L'aver saputo
sempre resistere e
tirare innanzi, senza
far motto, col
sorriso sul volto
argutamente bonario, senza
piegare, con l'occhio fisso al
grande ideale della
patria da ricostituire, questo, questo
è un merito
che pone il
Vieusseux al livello
dei più insigni
fattori dell'unità italiana. LA
VECCHIA ANTOLOGIA 205
* E avesse
solo avuto a
combattere con la suscettività
esagerata e con
le bizze irragionevoli
degli scrittori! Ben
filtri e non
minori ostacoli gli
opponevano l'apatia egoista
del pubblico mal
preparato, la sospettosità
dei governi, le
difficoltà delle
comunicazioni, e, segnatamente
negli ultimi anni,
la censura. Di
queste delizie i giornalisti
d'oggi, per loro
fortuna, non hanno
ad assaporarne. Senza
grandi mezzi, egli
si mise all'opera
costosa con un coraggio
ammirevole. Complimenti gliene
vennero molti, sin
dai primi quaderni
dell' Antologia, dai letterati
d'Italia; ma quattrini
pochi. Per quanto
la mano d'opera
tipografica non costasse
allora gran che
fnè la veste
dell'.-ljitologia era certo
suntuosa), con meno
di cento associati
non si giungeva
a fronteggiare le
spese. L' Antologia, nei
primi tempi, non
ne contava di
più. E si
noti che le
spedizioni ed i
dazi importavano aggravi di
cui noi oggi
non abbiamo neppure
l'idea: s'imagiui che
ogni quaderno spedito nel
Belgio costava più
di cinque lire,
ed il dazio
per gl'invìi nel
Regno di Napoli
era cosi grave
che l'editore avea
dovuto ricorrere allo
spediente di non
mandarvi la rivista
se non a
volume finito. Neppure
nei giorni più
doridi della sua
esistenza V Antologia non
oltrepassò i 530
associati, sicché il
Vieusseux, con tutta
la fatica che
vi spendeva intorno,
anziché ricavarne utile,
ci rimetteva quasi
del suo. Nel
Napoletano an 206
LA VECCHIA ANTOLOGIA
davano cinque copie;
nel Lombardo-Veneto quaranta. Di
questo strano disinteresse
la colpa principale l'aveva la
censura. Ogni momento
gli associati non ricevevano
l'uno o l'altro
quaderno, perchè le
censure diverse lo
intercettavano. In Piemonte
si giunse addirittura
a proibire V Antologia, e solo
lunghe insistenze fecero
togliere la proibizione.
Frattanto la rivista
era sequestrata a Palermo.
Insomma, vessazioni tali e così
continue in ogni
parte, che il
giornale non poteva espandersi liberamente.
In Toscana dapprima
la censura fu
mite, ma dopo
il '30 rincrudì
e poco appresso
infieri, per le
pratiche caritatevoli proseguite
da governi vicini,
meno remissivi di
quello di Leopoldo
IL Un miserabile
spione posto dalla
polizia ai fianchi del
Vieusseux, Pietro Brighenti,
riuscì a conquistarsi la sua
fiducia come si era cattivato
l'amicizia del Leopardi.
Quel malvagio ascoltava
e rifischiava. Egli
era giunto a
formarsi l'idea, e
ad esprimerla, che
il Vieusseux fosse
« centro del
liberalismo di tutta
Firenze ». Non
avea torto davvero
il mariuolo; ma
questa voce, giunta
agli orecchi di
chi stava vigilando
pauroso di tutto,
doveva acuire sempre
maggiormente gli sguardi
dei censori toscani.
Allora si cominciò
a scorgere quali sentimenti
e quali ideo
covassero in articoli
apparentemente innocui. «
Non v'ha quasi
pagina in cui
non si parli
dell'amor di patria,
della libertà, ecc.
», scriveva inorridendo
un corrispondente milanese del
Parenti. Si cominciarono pertanto a
sopprimere dalla censura
mezzi articoli e talora
articoli interi, con
quanto dispendio del povero
editore ognuno può
imaginare. Alcuni fogli
reazionarii modenesi, segnatamente la famigerata
Voce della verità,
considerarono come una loro
nobile missione il venir
smascherando ogni allusione
liberalesca che nell'Antologia si
celasse, il che
provocò richiami polizieschi
e diplomatici da
parte dell'Austria. Finalmente
gli ambasciatori d'Austria
e di Russia chiesero solennemente
la punizione di due scrittori
anonimi dell' Antologia,
che avevano ardito
accennare, sotto molti
veli, alle condizioni deplorevoli del
Lombardo- Veneto e della
Polonia. Furono fatte
pratiche presso il
Vieusseux perchè svelasse
i nomi di
quelli scrittori. Il
Vieusseux non volle
dirli, e nel
marzo del 1833 V
Antologia era soppressa.
Per quante pratiche si
facessero, per quante
intei'posizioni si usassero,
la soppressione fu
mantenuta; il debole governo toscano
aveva troppa paura
degli artigli dell'aquila
bicipite. A che
non risorgesse la
nobile rivista fiorentina,
malgrado gli sforzi
d'ogni genere fatti
dal povero Vieusseux,
contribuirono poi ancora con
velenose insinuazioni i
giornali legittimisti di
Modena, la cui
azione fu davvero
delle più svergognate
in questa feroce quanto
insidiosa demolizione Il
Vieus (1) Purtroppo in
quelle brutte mene
ebbe parte anche
un valentuomo, di
cui è molto
rispetftibile la dottrina,
Marcantonio Parenti. Leggasi in
proposito l'articolo di
Eumosiio Ci.kkici, Le
polemù-Jie intorno all''
Antologìa », nel
Giornale storico della
letteratura italiana, XLVIII
(1906), 387 sgg.
208 LA VECCHIA
ANTOLOGIA seux dovette
rimaner pago a
proseguire il suo
gabinetto ed a
tenere in vita
il Giornate agrario. Miracolo che
i governi, divenuti
ormai infantilmente
sospettosi, non scoprissero
la serpe del
liberalismo anche in
mezzo a' cavolfiore
ed alle carote!
La narrazione documentata
del Prunas è feconda
di utili
ammaestramenti e ricostruisce
una bella pagina
di quella storia
del Risorgimento nostro politico,
che si viene
a grado a
grado svelando sempre
più manifesta ed
intera agli occhi
nostri. Non è
una pagina di
eroismo sfolgorante sul
campo di battaglia,
non è una.
pagina di trame
pericolose, non è
una pagina di
sommosse cruenti; ma
ormai tutti gli
esperti e i
sennati sono convinti
che a combattere
nel modo come
ha combattuto il
Vieusseux, in una
battaglia di intraprendenza, di
tenacia, di accortezza, di sacrifìcio,
col proposito di
fare gli italiani
prima che fosse
fatta l'Italia, ci
vuole un eroismo
più calmo, ma
non meno vivo
e fecondo, di quello
che spinse tanti
generosi a congiurare, a
battersi con forze
disuguali col nemico, a
cimentarsi sulle barricate.
Nota aggiunta. —
Nel Fanfulla della
domenica, 19 agosto
1D06. A rappresentare
la temperie intellettuale
e morale in
che nacque e
visse V Antologia valgono
le conferenze, di
valore diverso, raccolte
nel volume La
Toscana alla fine
del Granducato, Firenze. Barbèra.
15KX). Gegia Marchionni.
« Due occhi
cilestri, una bocca
ridente, un «
naso epigrammatico, una
fronte serena, una
« bionda chioma
ed una bianchissima
carnagione « da
far invidia a madonna Laura;
tutto questo «
animato da una
favella toscana la
più pura, «
da un discorso
ridondante di vezzi
poetici, che t
in lei erano
naturai dono, da
un'amabile schiet« tezza
che talvolta si
vestiva di frizzante
im« pazienza, da
una rara bontà
di cuore che
in « ogni
suo atto si
rivelava. » Cosi
descrive il Brofferio
la Teresa Bartolozzi,
la quale amava
chiamarsi e farsi
chiamare Gegia Marchionni
per l'affetto che
portava alla sua cugina
materna, la celebre
Carlotta Marchionni. Le
notizie più diffuse
che sinora si
abbiano, anzi, a
dir propriamente, le
uniche notizie riguardanti
questa bizzarra figura
della Gegia, sono
quelle che si
leggono neh' ottavo
volume dei Miei
tempi, da cui
il Masi trasse
profìtto in un
articolo del Fan
fui la della
domenica ('). Il
Brofferio, curioso di
conoscere qualche particolare
intorno alla Gegia
ed al Pellico,
amico di famiglia,
s'era riAn. V,
1883, n. 1.
Kkmsh Svaghi Critici
II UEKIA MARC
rlIONNI volto a
Carlotta. che In
compiaceva subito inviandogli alcuni preziosi
documenti, vale a dire duo
lettore innamoratissime del
Pellico alla Gegia,
1 una del
22 inumilo, l'altra
del 20 luglio
]X20, e ([uatfro
lettore piene di
ammirazione e di affetto
alla Carlotta medesima.
Di, si lamenta
poi osservando che Gigliola,
in qualche parte,
oscilla, ondeggia, è dubitosa. Ciò
non mi par
ragionevole; anzi, per
me, Gigliola è
fin troppo greca,
specialmente nell'atto del suicidio
espiatorio, che a noi moderni
pare un controsenso.
Non per niente
i secoli trascorsero
e l'età di
re Borbone Ferdinando
I non è
nè quella di
Edipo nè quella
degli Atridi. Sulla
Orestiade passò Amleto,
nè poteva un
poeta d'oggi, sforzandosi
di risentire tragicamente
un fatto antico
e di rappresentare
tragicamente una figura
antica, spogliarsi interamente
della sua qualità
di uomo moderno.
La volontà ferma
e diritta di Antigone, che
contro l'empio decreto
di Creonte dà
sepoltura alla misera
spoglia del fratello
Polinice, è passata
sin troppo in
Gigliola, quando oltre
al resto si
pensi che Antigone
esercita l'inflessibilità
del suo volere
nel compiere un'opera
pietosa, mentre Gigliola
nel commettere un'uccisione. Articolo
della .V. Antologia,
lfi aprile 1905.
LA FIACCOLA 249
E sia pure
l'uccisione di ima
mala bestia, d'una
bestia selvaggia senza
nome, che tutto
insozza e corrompe,
Angizia Fura, la
femmina di Luco.
Trascinata dal suo
perverso istinto ambizioso,
essa ha suscitato
nelle carni flaccide
del padrone Tibaldo
de Sangro la
libidine ardente di possederla,
s'è disfatta della
padrona, Monica, facendole
cadere sul collo,
tagliuola orrenda, il
coperchio massiccio d'un
cassone nuziale e cosi
soffocandola in quell'ordegno
di morte (');
e ora delinque
col cognato sanguigno
e brutale, e
ora mina con
le misture venefiche
la tenue esistenza
dell'adolescente Simonetto. In
una parola; un
mostro. Non giusto
ini sembra l'appunto
del Corradini che
trova in queir
Angizia una specie di
« dilettantissimo criminale
» e non
sa spiegarsi perchè
essa voglia la
morte (inutile, egli
dice) del giovinetto.
Data la natura mostruosa di
quella bestia, tutta
la sua delittuosità procede a
fi 1 di
logica. Essa vuole
spiantare la famiglia
intera dei Sangro,
e comincia con l'erede,
che è legato
d'un sol filo
alla terra; poi
si può giurare
che attenterà a
Gigliola ed al
marito, perchè vuole
arricchire sè Codesta
morte è d'un
genere che potrebbe
piacere ai romanzieri
ed ai drammaturghi
russi. Dicesi, del
resto, che non
sia sconosciuta nelle
leggende abruzzesi. II
D'Annunzio medesimo ne
avea già fatto
una crudissima rappresentazione in
certo suo vecchio
bozzetto, La madia,
Cfr. oggi Le
nocelle ilella Peni-ara,
Milano, 1902, p.
381. [Un riscontro
antico, di Masuecio,
additò il mio
caro discepolo M.
A. Garrone, nella
Rivìnta d'Italia del
1908]. e far
ricco e potente
il suo drudo,
Bertrando Acclozamóra. Se non che
questa figura non
ha di greco
nulla; essa ci
richiama ad altre
fonti, ci richiama,
anzi, ad una
fonte che non
so se sia
stata avvertita altrove,
ma che a
me, sin dalla
prima audizione, apparve
manifesta. Alludo ad uno
dei capolavori del
dramma borghese nordico, Fuhrmann
Henschel di Gherardo
Hauptmann. Si giudichi.
In casa del
vetturino Henschel, la
saggia e mite
moglie di lui
si ammala, langue
per alcun tempo
e poi muore,
lasciando una iìgliuola,
Gustla. Il marito,
che alla domestica
sana, florida, energica,
Hanne, avea già
fatto l'occhiolino dolce,
tantoché Frau Henschel
se n'era impensierita;
il marito, reso
vedovo, un paio
di mesi dopo
che la moglie
era sotterra sposa
la serva. Questa
trionfa nell'amor proprio appagato, nella
sete di dominio
soddisfatta, e ben
presto si palesa
fredda, egoista, poco
deferente verso il marito.
La piccola Gustla,
non molto appresso,
viene a spirare.
Il povero vetturale affranto, ridotto
a mal partito,
materialmente e moralmente, vuol
prendere in casa
una bimba che
Hanne ha avuto
illegittimamente prima di
congiungersi a lui,
Berthla. Ma Hanne
non vuol saperne
d'impicci, impietrata com'è
nella sua nequizia.
Un brutto giorno,
in una bettola,
lo Henschel si
sente dire in
faccia dal proprio
cognato, con cui
viene a parole,
che sua moglie ha
una tresca e
che probabilmente a
lei si deve
la morte della
sua prima compagna
e LA FIACCOLA
251 quella dì
Gustki. Ciò conduce
alla catastrofe: il
vetturale tornato a casa si
appende per la
gola. Questa lugubre
storia non ha
veri antecedenti drammatici,
salvo in una
novella del medesimo
Hauptmann, Bahnwàrter Thiel:
le affinità che
si vollero vedere
con drammi scandinavi
e russi sono
troppo vaghe (').
In quella parte
della produzione dello
Hauptmann che è
sinceramente e rudemente
realistica, Fuhrmann Renschel
è l'opera più
poderosa, non solo
per logicità serrata di
condotta, ma anche
per originalità. Nulla
di più agevole
ad intendersi che
sul temperamento recettivo del
D'Annunzio essa abbia
lasciato gagliarda
impressione e ch'egli,
nella sua facoltà
assimilativa non ordinaria,
abbia innestato quella favola
germanica sul vecchio
tronco greco delle
nitrici fatali. Angizia
è una variante di
Hanne; serva che
si fa padrona,
seducendo il padron
suo ed ammazzandone
la moglie; vipera
che attossica l'aria
nella casa diventata
sua, e senza
scrupoli, insidiosamente, tende
a sbarazzarsi d'ogni
ostacolo; bestia che
procura la rovina
di quanto la
circonda, con l'intento
di sedersi poi
essa sui ruderi,
trionfando e gavazzando immonda.
Per tal guisa,
all'impostatura greca della
tragedia s'allaccia il dramma
moderno, saturo di Per siffatte
affinità e per l'
analisi più particolareggiata del
dramma, è da
vedere il garbato
libretto di C.
De Lolms, Geranio
Haiiptmann e l'opera
sua letteraria, Firenze,
1899, pp. 170
sgg., ed anche
nn suo articolo,
L'ultimo dramma di
(1. Hauptmann, nella
A. Antologia del
Iti dicembre 1898.
252 LA FIACCOLA
patologia. Esso influisce
anche su altri
personaggi, sulla stessa Gigliola,
che ha l'ossessione
d'una monomaniaca, come
certe donne dell'Ibsen,
come certe ligure
del maggiore fra
i seguaci scandinavi dell' Ibsen,
lo Strindberg. A
questo gli antichi
non pensavano; erano
troppo sani. Ed
è pure ricorrendo
a quest'ordine di
fatti che si
spiega Tibaldo de
Sangro, un cardiopatico floscio, che
trova la violenza
del nativo Abruzzo e
la cattiveria acre
degli istinti primitivi
pervertiti nella sola
scena terribile, pur
tanto evidente nella
sua fierezza, dell'alterco col fratello
Bertrando. Nel resto,
Tibaldo è un
indeciso, è, come
fu detto assai
felicemente dal Corradini, «
la materia frolla
che sta fra
le due eroine,
tra la volontà
del delitto e
quella della vendetta
» . Ma io
che non parto,
come il Corradini,
dal preconcetto per
cui nel teatro
tragico dovrebbe esservi
solamente « scultura che
si muove »,
io non posso
scandalizzarmi al cospetto di
quel disgraziato adiposo,
senza sangue e
senza muscoli, che
si vede crollar tutto
d'intorno, tutto, tutto,
irrimediabilmente. Non so
come qualcuno abbia
potuto sospettare ch'egli sia
complice nel delitto
per cui Monica lasciò
la vita nella
tagliuola. Quest'è una
sopraffina e premeditata
calunnia, che gli
lancia in volto
Angizia, sicura del
potere che ha
su di lui.
* Sono coperta
dal tuo padre;
due siamo, due
fummo », esclama
ella al cospetto
di Gigliola esterrefatta, e
così pensa, la
scellerata, di LA
FIACCOLA 253 farsi
scudo della complicità
altrui nel delitto.
E da quel
momento la pace
di Tibaldo è interamente
perduta; egli si
vede sospettato e reietto,
dalla figlia, dalla
madre; la sua
meschina anima n'è
martoriata, n'è trascinata
alla disperazione. La disperazione
sola può fare
il miracolo di armargli
la destra e d'
indurlo a prevenire sulla selvaggia
bestia, cagione di
tutti i mali,
la vendetta che
dovea compiersi per
le mani pure
di Gigliola. Il
vetturale Henschel ammazza sè:
Tibaldo uccide altri;
ma nella inderisione, come nell'infelicità, hanno
molti punti di
somiglianza, per quanto
può essere simile
un barone abruzzese
ad un popolano
tedesco. I parenti più
prossimi di Tibaldo
non sono certo
da ricercarsi in
Italia e molto
meno in Grecia;
ma tra le
brume del nord,
nel teatro ibseniano.
* * #
Un terzo elemento,
complesso e non
trascurabile, cooperò alla formazione
della Fiaccola, la
tradizione, la topografia,
gli usi paesani.
Anche qui il D'Annunzio
ha saputo profittare,
con senso d'arte
insuperato, dei tesori
offertigli dal suo
Abruzzo, e ciò
contribuisce a formale
lo sfondo del
suo quadro e
a dar vita
a un personaggio che anche
i più scontenti
dovettero ammirare. Lo
sfondo, che talor
si anima e incombe
col gravame solenne
dei secoli, è
il palazzo dei Sangro;
il personaggio è Edio Fura
di Forco, il
serparo, padre sconfessato
e maledicente d'Angizia.
254 LA FIACCOLA
Oli quella casa
baronale dei Sandro,
dominante il paesello di
Anversa, nella regione
degli antichi Peligni,
a mezzodì, oggi,
nella provincia dell'Aquila!
Le casupole di
Anversa, appollaiate sulla
rupe, sembrali pulcini
intorno alla chioccia, paurose di
precipitare nel burrone
li presso, ove
scroscia rabbioso e
spumeggiante il Sagittario; in lontananza
si profila la
Maiella nevosa (').
Gran predilezione ebbe
sempre il D'Annunzio
per le case
signorili vetuste, deserte,
cadenti. Rammenterete, nel
Trionfo della morte,
la casa degli
Aurispa, a Guardiagrele,
pure al cospetto
della Maiella, meno
grandiosa certo e meno consunta di
quella dei Sangro,
ma ricettacolo essa
pure di brutture,
di violenze, di
malattie, d'insidie, ove pure
scoppia un alterco
fra due fratelli, Giorgio e
Diego, che si
detestano. Rammenterete,
nelle Vergini delle
rocce, la gran
villa trasformata di
rocca feudale che
prima era, conservante «
tuttavia l'enormità formidabile
delle « sue
mura e delle
sue volte su
cui le epoche
« successive avevano
lasciate impronte varie
di « arte
e di lusso,
talora in contrasto
e talora j?8,
duna bambina, quella
Jeanne d'Albret, che.
doveva essere un giorno
madre di Enrico
IV. Margherita. « donna
di talento e di saldezza
rara », com'obbe
a qualificarla l'ambasciatore veneto*
!iustiniani. s'adoperò in
tutte guise perchè
la pace domestica
non tosse turbata,
ed all'amore verso
il fratello sacrificò,
insieme, il suo
stesso affetto materno e
consenti che quell'unica
figliuola (un fanciullo, nato di
poi. non visse
che due mesi)
le fosse strappata
ancor tenera, e
clic, educata lontana di
lei. servisse ai
disegni politici del
re di Francia.
Lungi dal serbargli
rancore per quell'alto crudele, la
donna sublime continuò
ad essere il buon
genio del re
Francesco, lo sovvenne
nella fondazione del
Collegio di Francia,
lo indirizzò nella scelta
dei professori, si
studiò d'inspirargli, come sempre,
quella tolleranza religiosa
che era in
cima ai suoi
pensieri e da
cui i credenti s'allontanavano allora,
come ora, cosi
di frequenti*. Quando
era lasciata libera
dalle occupazioni presso la
Corte grande, si
rifugiava volentieri nella
sua pacifica Corte
minuscola del Bea
mese, nei castelli
di Nenie e
di Pan, ove
si abbandonava all'antico
amore per la
produzione poetica, e
conversava d'arte, di
lettere e di filosofia
con illustri personaggi,
ovvero esercitava le
agili dita nei
più squisiti ricami
istoriati. La morte
del fratello Francesco
fu un colpo
di fulmine che distrusse
quella pace. Dopo
l'infausto avvenimento, Margherita
non stette più
bene di LA
MARGHERITA DELLE l'HINCII'ESNE salute:
una gran stanchezza
la opprimeva, contro la
quale tentava ormai
indarno ili reagire
la sua volontà
eccezionalmente energica. Il
colpo d'apoplessia, clic
la colse il
21 dicembre lf>4^,
fu per lei
una liberazione; per
quanti, amandola, la
circondarono, una irreparabile
sventura. Con Mitezza
di penetrazione psicologica
femminile, la (iarosci ha
rinarrato in tutti
i più minuti
particolari questa vita,
di cui qui
son tracciate solo
le linee capitali.
E una vita
d'operosità, d'abnegazione,
di pensiero, di
sentimento, che non
ha pari nel
periodo della Rinascita.
Invano il pettegolezzo cortigiano, di
cui fu uno
dei principali interpreti
il Hrantòme, cercò
di spruzzare del
fango su quella
candida ed eletta
figura. Essa resta,
alla luce dei
documenti, immacolata: e
tale, nel suo
misticismo soave, nell'amore
disinteressato per ogni cosa
bella, della natura
e dell'arte, nella
sete perpetua di
verità e di
poesia, nella pratica
indulgente e sagace
della vita, è
rappresentata nel libro della
signora G-a rosei. En
po' di grafomania
potrebbe non ingiustamente essere rimproverata
a Margherita d'Angoulóme.
Ila scritto troppo,
e non sempre
bene. La Garosci
passa in rivista
tutta intera la
sua produzione e
sa distinguervi ciò
che vale e
ciò che significa
da quel molto
clic è vanità,
lungaggine, cicaleccio. La regina
di Navarra non
è una grande
scrittrice, ma una
scrittrice rapprese
illativa. 270 LA
SU ARflHERITA DELLE PRINCIPESSE
Già Alfredo de
Musset nota che
in Margherita ci
sarebbe stata la
stoffa di una
romanziera; ma invece
Elle aima mieux
mettre en lumiere
Une larine qui
lui fut ehère,
Un bon mot
dot elle avait
ri. Codeste sue
osservazioni, ora gaie,
ora malinconiche, affidò, quando
ormai l'età le
consentiva ogni libertà
di linguaggio, ad
un libro di
novelle, imitante il
Decaìneron, che per
la sua educazione
mezzo italiana potè conoscere
nel testo prima
che, per sua
iniziativa, fosse tradotto,
nel 1543, in
francese. Il libro,
rimasto interrotto per
la morte di
Francesco I 1.1547),
fu in gran
parte composto in
lettiga, nei frequenti
viaggi di Margherita. Le novelle
non raggiunsero il
numero di cento,
come avrebber dovuto;
se n'ebbe un
Heplamèron. Se l'inspirazione prima
è nel Boccaccio, si
può ben dire
che molto vi
si sente il
Cortegiano del Castiglione,
libro che alla
regina piaceva in
sommo grado. A
differenza dal Boccaccio, la
nostra gentildonna vi
narra quasi sempre fatti
accaduti; a differenza
dal Boccaccio, la
satira che v'è
frequente e pungente
contro il clero
corrotto, non si
estende mai dalle
persone alle istituzioni, per
le quali Margherita
nutriva sommo rispetto; a
differenza dal Boccaccio,
pur mostrandosi l'autrice
del tutto spregiudicata
nel narrare fatterelli
scabrosi, non ha
punto quella compiacenza
del lubrico che
caratterizza l'oscenità
della coscienza. Scagionandone
Margherita, la Garosci ha
fatto in proposito
distinzioni giustissime: « Questa
raccolta di disgrazie
coniu« gali (conclude),
di tragedie galanti
e di stra«
nezze antiraonastiche è
immorale solo secondo
« le convenienze
del nostro secolo;
e le conve«
nienze sono, si
sa, cosa estremamente
varia* bile ».
La pudibonda schizzinosità
femminile dell'età nostra,
che non è
punto indizio di
vera e sentita
verecondia, non era
nelle consuetudini nò
del medioevo, nè
del rinascimento (*).
L' Heptamèron, chi lo
consideri a fondo,
è libro di
indiscutibile moralità, pensato
e scritto da
chi aveva nobilissimo
il sentimento dell'amore
come quello della
religiosità. L'aver apprezzato
giustamente, nel suo valore
biografico, psicologico e
dottrinale, questo libro
« parlato e
vissuto » ;
l'avervi per la
prima volta in
Italia, additato la
« profonda e
sottile e compiuta
conoscenza della psicologia
femminile »; l'averne giudicato
rettamente il valore artistico, rilevandovi la
mancanza della lima,
la soverchia prolissità
dei ragionamenti filosofici e
teologici, « di una teologia
ch'è « troppo
femminina per non
essere più diffusa
« che profonda
», la deficienza
d'ogni sentimento della
forma, che pur
non toglie efficacia
all'opera, giacché Margherita
« non ha
affatto bisogno di
« essere una
scrittrice per scrivere
eccellente« inente »;
tutte queste cose
ed altre fanno
del (li Su
questo argomento sono
da vedere i
fatti e le
chiose di F.
Novati, nello scritto
I detti d'amore
d'ima contessa pisana,
in Attraverso il
medioevo, Bari, capitolo
dedicato all' Heplaméron la
parte forse più
interamente riuscita e più vivacemente
spigliata del libro della
Garosci. I molti
scritti in poesia,
liriche, poemi, poemetti, drammi, si
dispongono in due
grandi raccolte: quella delle
Marguerites, edita la
prima volta nel
1547, e riprodotta
in quattro volumi,
coi migliori sussidi
della critica, da
Félix Frank nel
1873; e quella
delle Demières poésies,
fatta conoscere nel
1896 da Abel
Lefranc. Se a
tali due raccolte
si aggiungono le
due commediole satiriche:
Le malade e L'
inquhiteur, pubblicate dal
Le Roux de
Lincy e dal
Jlontaiglon in appendice all' Heplaméron, si
avrà tutta intera
la produzione della
regina di Navarra
('). II valore
delle Marguerites è
più specialmente sentimentale
e religioso. Se
nel poemetto La coche
è presentata una
sottile disputa d'amore,
nella quale è
chiamata a pronunciare
verdetto Renata di
Fi-ancia; se nella
Complainte, tutta costellata
di concetti biblici,
è difeso Clemente
Marot, profugo per ragion
di fede; se le epistole
poetiche spirano tutto
l'affetto che la
nostra verseggia trice
aveva sempre desto
nell'anima per il fratello
monarca: le chansons
spirituelles esprimono con
lirismo entusiasta il
fervor religioso della
grande credente ed
i lunghi componimenti
che I non
molti componimenti poetici
che restano ancora
inediti nel ms.
Bouhier, e dei
quali diede qualche
conto il Paris
nel menzionato articolo
del Journal des
savanti, hanno importanza
minima. s'intitolano Miroir de
l'dme pecheresse e
Triomphe de VAgneau
implicano discussioni dottrinali
di fede e
tripudio di un'anima
mistica. Malgrado la
vivezza del sentimento,
in tutti codesti
versi vi è
di rado poesia:
Margherita ragiona troppo
e troppo sottilmente:
lo slancio del
suo cuore entusiasta avviva spesso
i suoi ragionamenti,
ma a renderli
poesia questo non
basta. Lo dice
non male anche
la signora Garosci:
« Tutta questa
* poesia delle
Marguerite?, non può
dirsi, salvo «
l'are eccezioni, della
grande poesia: elevatis«
sima per il
contenuto e scritta
in lingua lim«
pida e sana,
manca troppo spesso
di ciò che
' distingue la
poesia: il rilievo,
il canto, il
ritmo, « lo
slancio, che solleva
non solo, ma
sostiene il «
pensiero ». Nelle
Demières poésies predomina
la filosofia. Frammezzo
alle epistole, alle
liriche ed a qualche
componimento dialogato, spiccano
qui due poemi:
il poemetto in
terzine Le Navire,
in cui Margherita
piange per l'ultima
volta la morte
del fratello, e
la cosa più
rilevante che la
principessa abbia scritto in
versi, l'esteso poema
allegorico Les Prisons. Nel
Navire è imitata
la terzina di Dante;
nelle Prisons è fusa in
una visione di sapore
dantesco quella filosofia
platonica, che fu
l'ultimo rifugio dello
spirito combattuto, esulcerato
e passionale di
Margherita. Ivi assistiamo al
progressivo liberarsi dell'anima
umana, condotta da
guide simboliche, dalle
prigioni dell'amore, della mondanità,
della scienza: la
liberazione viene dal lume
divino, partecipato per
via Renier Svaghi
Critici 18 274
LA MARGHERITA DELLE
PKINIIPE8SE della fede,
ed è esso
la verità a cui l'anima
anela ed in
cui finalmente s'acqueta.
Dante e Platone
furono l'ultimo conforto
di Margherita, eda lei
pervennero entrambi dall'Italia.
11 platonismo della
dama d'Angoulème era
passato a traverso
il Ficino ed
il Landino, era
il platonismo del
nostro Quattrocento (').
La Commedia di
Dante fu uno
dei libri che
potè avere tra
mano fin da
giovinetta, e non
è impossibile che
la madre, la
quale insegnò a
lei ed al
fratello l'italiano, e lo spagnuolo,
gliene facesse sin
d'alloragustare qualche
episodio. L'alta società
francese di quel
tempo era tutta
satura d'italianismo: è
noto quanto le
arti e le
lettere italiane campeggiassero alla
Corte del re
cavaliere (!), dal
desiderio di compiacere
il quale sembra
che il nostro
Castiglione abbia avuto
la prima mossa
a scrivere il
Corlegiano. Margherita, che
non solo intendeva,
ma anche parlava
e forse scriveva
persino in versi
la lingua nostra (3),
informò, come vedemmo,
a quell'impareggiabile libro di
cortigiania le sue
novelle, per cui
aveva dal Boccaccio
solo attinto l'idea
e l'ordinamento, e
di altri scrittori
nostri, come ad
esempio del Sannazaro,
si mostrò buona
cofi) Vedi Lkfranc,
Marguerite de Xararre
et le platonisme
de la Renaissance,
nella Bib1iotli*que de
l'école dea chaHes
del 1897 e
del 1898. Tutti ormai
hanno letto il
buon saggio di
F. Flamlni, Le
lettere italiane allacorte
di Francesco I
di Francia, nel
suo volume di
Studi di storia
letteraria italiana e
straniera, Livorno, 1895. Vedi I'»
ot, I^es Francois
ilalianhant* aie XVI
siede, I, Paris,
190U. p. 11
e sgg. LA
MARGHERITA DELLE PRINCIPESSE
275 noscitrice. All'ostico
ma salutare nutrimento
della poesia dantesca
sembra tornasse nell'ultima
fase del suo
pensiero; ma le
traccie che ne
rimasero nell'opera sua
sono delle più
significanti, ond'è che
questo soggetto, prima
che ne trattasse
nel suo volume
la signora Garosci,
aveva già attirato l'attenzione di
critici come l'Hau vette
(') ed il
Farinelli (*). *
Tre periodi riconosce
la Garosci nella
vita e nel
pensiero di Margherita:
« un periodo
di mi« sticismo
giovanile, un periodo
di più decisa
(li Margherita delle
Dernières poesìe» è
l'argomento principale di cui
tratta I'Hauvette nella
sua conferenza su
Dante nella poesia
francese del Rinascimento,
trad. it., Firenze,
1901. È noto che
il Farinelli attende
ad una grande
opera in due
volumi su Dante
in Francia, di
cui vedemmo, per
cortesia dell'autore, molti fogli
di stampa, e
che si spera
esca in luce
entro l'anno 1906,
editor* lo Hoepli.
Tra i saggi
di quest'opera egregia,
che sono già
comparsi, uno riguarda
Dante nell'opere di
Christine de Pisan
(Halle, 1905, nel
volume giubiliare dedicato
ad Enrico llorf
i ed un
altro Dante e Maryherita di
Xacarra, nella lìii-ista
d'Italia del febbraio
1902. Se Cristina,
specialmente nel poema
Le chemin de
long elude (1402),
fu la prima
imitatrice francese dell'Alighieri, Margherita fu
la seconda; il
culto di essa
per Dante va
collegato col suo
desiderio sempre vivo
di scrutare i
problemi religiosi e
con l'elevazione costante
dell'anima sua nel
proseguire la verità.
Si noti che
la prima versione
francese AelVInferno Dantesco,
fatta sugli inizi
del sec. XVI,
è giudicata opera
d'un abitante del
Berri : e
siccome Margherita era
nel 1517 creata
dal fratello duchessa
di Berri, si
suppose che il
traduttore fosse uno
dei suoi cortigiani.
La supposizione, ardita
ma non iuverosimile,
è di G.
Camus, nel Giornale
storico della letteratura italiana, voi.
XXXVII, p. 92.
27(5 LA MARGHERITA
DELLE PRINCIPESSE «
partecipazione alle dottrine
e agli ideali
della « Riforma,
un ritorno al
misticismo giovanile con«
fortato di elementi
platonici: tutto ciò
su un «
fondo stabile di
catolicismo non mai
aperta« mente sconfessato
nelle linee dogmatiche,
as« sidua mente praticato
nelle cerimonie del
culto « e
nelle relazioni eccellenti
con la Santa
Sede > (p.
342). Questo convincimento
intorno alla posizione
della regina di Na
varrà rispetto al
moto riformista rampolla da
tutto il libro
di cui ci
occupiamo, e ne è
il risultato più
notevole. Il Lefranc,
e, dietro a
lui, il Rasraussen,
considerarono Margherita
come decisamente protestante;
opinione, del resto,
già antica per
la costante simpatia
da essa dimostrata
ai riformisti, per
la protezione accorda
taad alcuni diloro,
per Je opinioni
espresse con tanta
insistenza nella parte
maggiore dell'opera sua. Sin
dalla giovinezza la
nostra gentildonna aveva stretto
relazione con quel
Guglielmo Brigonnet, vescovo di
Meaux, spirito nobilissimo, mistico, aspirante
al rinnovamento del
clero, che accolse
poi nella sua
diocesi i principali fautori della
riforma religiosa in
Francia, Guglielmo Farei,
Gherardo Roussel, Michele
d 'A rande, e il
Lefòvre d'Etaples (';.
Al centro intellettuale di Meaux
aderì con tutta
l'anima la giovine
duchessa dalla vicina
Alencon. Si badi, I
rapporti di Margherita
col Brigonnet sono
oggi meglio noti mercè
la pubblicazione fatta
nel 1900 da
Ph. A. Becker.
LA MARGHERITA DELLE
PRINCIPESSE 277 peraltro,
le dottrine di
elevatezza e larghezza
religiosa, professate dal
Lefèvre d'Etaples erano
anteriori a Lutero
e a Calvino.
Quando la Sorbona ed
il governo di
Francia presero e
reagire violentemente contro
ogni idea di
riforma ecclesiastica e religiosa,
Margherita fu presso
il fratello titubante
ed opportunista la
maggiore alleata del
Bri5per chi scende
dal Cenisio (XIX,
;V), e quell'Ancona
mezzo orientale, abitata
per un buon
terzo da Greci,
come non fu mai (I,
4), e via
dicendo. Ma in
fondo, anche per la Stael,
l'Italia è la
terra dei morti
; solo essa
ha uno strano
presentimento che possa risorgere
come nazione moderna,
e di questo
presentimento si fa
interprete Corinna, che sente
l'italianità con vero
fervore. Tutti sanno
che Cornine è
per tre quarti
una specie di
Baedeker anticipato: le
città visitate dall'autrice,
Roma specialmente, poi
Napoli, Milano, Venezia, Bologna,
Firenze e altre
minori, ci sfilano
d' innanzi coi loro
monumenti, sui quali
molto, anzi troppo
si ragiona. Ma
son ragiona ri) Leggasi
il libro di
U. Mknoix, ÌJ
Italie dei romantìtjites, Paris,
1902, ov' é
pure un capitolo
sulla Stael. 294
CORINNA nienti -che
quasi sempre rivelano
più dottrina e
pensiero che gusto.
Osservazioni come
quella calzante fatta
sul Correggio, «
le Corrège est
peut-ètre le seul
peintre qui sache
donnei' aux yeux
baissés une expression
aussi pénétrante que
s'ilsétaient levés vers
le ciel »
(XIX, 6), sono
rare. Sente la Stael il fascino
delle rovine a cui l'aveva
iniziata Guglielmo Schlegel,
suo compagno di
viaggio, che sapeva
a memoria i
principi del Winckelmann
e del Lessing
e le osservazioni
del Goethe sente
anche la suggestione
dei luoghi deserti
e delle catacombe,
che parlano all'anima;
ma vivo senso
della natura non
ha (*). Alle
cose inanimate preferisce
pur sempre gli
uomini; ma gli
uomini e le
donne d'Italia conosce
troppo imperfettamente, sicché
i suoi tipi
d'italiani sono astrazioni.
La preferenza che
Osvaldo dà a Lucilla
Edgermond in confronto
a Corinna, sia
pure sospintovi dal
culto per la
memoria paterna (un
tratto anche questo
che il lord
scozzese ha comune con
la Stael), è
un disconoscere le
qualità di spirito
italiane. Osvaldo, in
ultima analisi, al
pari della scrittrice
di Corintie, al
pari del volubile conte d'Erfeuil,
ama, si e no, l'Italia
accademica, ma non ama
l'Italia degli italiani,
perchè non la conosce.
Piaceva alla Staèl
segnatamente la poesia
italiana: cita (talora storpiandoli)
versi di Dante,
(1; Cfr. Blesnerhasset, Op.
cit., Ili, 168
sgg. Vedi pure
di lei l'articolo
Frati voti Stael
in Italien, nella
Deutsche Iiunrfschau del
1888, voi. 56,
pp. '267 sg#.
(2,1 Vedi ciò
che osserva il
Saixte-Bei:ve, Op. cit.,
p. 127 «.
CORINNA 21)5 del
Tasso, del Metastasio;
loda specialmente il
Monti e l'Altieri;
ma s'ingannerebbe a
partito chi reputasse
profonda la sua
cultura nelle cose
letterarie nostre. Prima
di scendere nella
penisola, la Staci sapeva
assai poco di
letteratura italiana. Nei
mesi che vi
trascorse nel 1804
e nel 1805
sfogliò molti libri
italiani, si entusiasmò
più volte, perchè
la sua indole
era facile all' entusiasmo; ma non
ebbe il tempo
necessario per approfondire
i suoi studi.
Chi le fece
gustare la nostra
poesia fu Vincenzo Monti. Oggi,
meglio che un
tempo, conosciamo le relazioni
della Staèl col
Monti ('). E
risulta sfatata da
questa miglior conoscenza
la leggenda, accreditata
specialmente dal Cantù
('), che la
gentildonna francese fosse
intensamente innamorata del
Monti, e che
questi non le corrispondesse.
Nulla di
simile alla relazione,
veramente amorosa, che avvinse
per quasi tutta
la vita mad.
de Stael a
Benjamin Constant, il
quale ne subiva
il giogo. È
ben vero che
la scrittrice nostra
dirigeva lettere molto
espansive al Monti,
Alle 36 lettere
della scrittrice francese
al poeta italiano note
sin dal 1876
per un volumetto
ormai divenuto assai
raro, la sig.
Ilda Morosini volle
aggiunte le altre,
che si trovavano inedite a
Ferrara, e su
tutte compose un
garbato articolo del Qiorn.
stor. Mia leti,
italiana, voi. XLVI
(1905). Poco appresso
Julien Lxichaire ottenne
di poter estrarre
dall'archivio di Coppet
le lettere del
Monti alla Staèl
e le inserì nel
Bulletin italien, voi.
VI (1906,). Così
si può studiare
intero quel carteggio,
e le nostre
idee ne guadagnan
chiarezza. Monti e l'età
che fu sua,
pp. 99-101. 296
CORINNA e che
questi, non sempre,
ma spesso, la
ricambiava con uguale espansione
; è anche
vero che tra
le cose ammirate
in Italia la
Stael soleva porre
il Monti in
prima linea, accanto
al mare, a S. Pietro,
al Vesuvio; ma
conoscendo i due
personaggi, entrambi sensitivi
e pieni di
fuoco, è agevole
capacitarsi che tutto
ciò si potea
conciliare con una semplice,
affettuosa amicizia. Di
ricorrere all'ipotesi dell'amore,
dall'una o dall'altra parte, non
v'è necessità alcuna
anzi se ne
ha smentita. La
Staèl desiderava che
il poeta italiano
la riguardasse come
una sorella e
il Monti voleva
esserle fratello (').
Queste designazioni
commentano i loro
rapporti vicendevoli e
ci spiegano l'affettuoso
interessamento reciproco,
anche se
in qualche lettera
la frase colorisca il
sentimento. Giacché, come
accennai, la fonte
principale della grande
amicizia della Staèl
pel Monti era
letteraria. Ammirasi in
Corintie il Monti
come un impareggiabile dicitore
di versi: il
sentirlo recitare squarci
come l'Ugolino, la
Francesca, la morte
di Clorinda è
« un des
plus grands plai*
sirs dramatiques * .
Infatti il Monti,
a Milano, lesse
alla dama, che
poco sapeva di
lettere italiane e se
n'era foggiata idea
storta (!), molti
fi) Bulletin ilalien
cit., pp. 164
e 354. Vedasi specialmente
la sua opera
La littérature ronsidèrèe
dans spu rapporta
avec leu inatitutions
socìales e ciò
che ne dice
il Dejob. Op.
cit., pp. 25-41.
V CORINNA 297
brani di classici
nostri, segnatamente di
Dante ('); lesse
come sapeva legger
lui, sicché la
Stael ne fu
commossa sino alle
lagrime. A Luigi
Hossi, che gliela
aveva presentata, scrisse
il Monti il
9 gennaio 1805,
d'essere soddisfatto d'averle
inspirata « una migliore
idea dell'italiana lettera«
tura, facendola piangere
largamente alla recita
« di qualche
bel pezzo de'
nostri classici, e for« zandola
a confessare di
a ver errato
nei suoi «
giudizi, de' quali
mi ha promesso
la ritratta« zione
» (*). E
il Monti continuò
sempre ad essere per
la Stael il
miglior consigliere in
fatto a poesia
italiana, sebbene essa
conoscesse altri letterati
ben più disposti
di lui ad
incensarla, specialmente il
Cesarotti. Quell'amicizia era cementata
di letteratura e,
malgrado le espansioni,
continuò sempre ad
essere letteraria, mentre
verso la cara
figliuola di Germana.
Albertina, il Monti
sentiva tenerezza paterna
e ne era tìglialmente corrisposto.
Intercedeva (nè fu
abbastanza considerato) tra
gli spiriti del
Monti e della
Stael diversità non
piccola, specialmente nel
modo d'intendere la Per
Fuso che là
Stael fece di
Dante cfr. Counson,
Dante en Franr.e,
Erlangen, 1906, pp. 111-115. E
notissimo il passo
d' vi ria lettera
al Monti del
23 giugno 1905
: « J'
étudie le Dante
• avec ardeur,
pour qu'à votre
arrivée à Còppet
vous me ■
trouviez plus avancée
encore dans Titalieu
■. Nell'autunno
di quel medesimo
anno il Monti
fu nel castello
di Coppet, ospite
desideratissimo della Stael.
Cfr. Il libro
e la stampa,
I. 53-54. G. BiADEGn,
Vincenzo Manti e la baronessa
di Stael, Verona, 1880,
p. 7. 298
CORINNA letteratura. Il
Monti piegò al
romanticismo solo in
qualche occasione, per
quella sua duttilità
singolare, ma in fondo
rimase sempre classicista
fervente; la Staél
era, per indole
e per cultura,
una romantica. *
* * Assai
prima d'affermare col
famoso libro De
VAllemagne (1810) le
sue simpatie per
la Germania dei filosofi
e dei letterati,
la cui conoscenza fu
per quell'opera particolarmente diffusa
oltre il Reno,
la Stael, svizzera
d'origine e cosmopolita per educazione,
avea mostrato decisa
tendenza al rinnovamento
delle lettere. Essa
partì dal Rousseau,
il cui influsso
è patente nel
romanzo epistolare Delphine
(1802), e con
la meditazione dei pensatori
tedeschi, e con lo studio
della propria anima
passionale affinò l'arte
propria in Corintie, che
è scrittura, malgrado
incertezze e contraddizioni, eminentemente
romantica ('). In Italia
Corintie fu bene
accolta dai novatori,
e quando, per
curar la salute
del secondo marito Alberto de
Rocca, sposato clandestinamente nel
1811, la scrittrice
francese scese fra
noi una seconda
volta, negli ultimi
mesi del 1815,
si trovò in
un ambiente tutto
romantico. Conobbe il Con ci) Il
Leapardi trovò più
volte nel libro
un'implicita condanna di massime
professate dal romanticismo.
Con l' usata precisione
è qualificato il
romanticismo della Stael
in Laxsiix, Liti,
francatile, pp. 865-9".
Ivi su C'orinne
l'eccellente p. 860.
CORINNA 299 falonieri,
il Pellico ('),
il Nìccoliin,«-+! ab. di Breme
ed altri molti.
Fu anzi il
di Breme che
prese caldamente le
difese della Stael,
autrice di un
articolo sulle traduzioni
inserito nella Biblioteca
italiana, a llorché divamparono
le polemiche su
quel soggetto scottante
(*). Il di
Breme, come fu
recentemente dimostrato, venne
ad essere con
quella sua difesa
della Staci il
primo aperto avvocato italiano del
romanticismo, perocché il suo articolo
precede di qualche
mese la notissima
Lettera semiseria di
Grisoslomo, per la
quale il Berchet
è solitamente considerato
come il nostro più
antico annunciatore del
nuovo verbo letterario
(3). Il quale
verbo letterario era
tale da adattarsi
all'indole dei vari
paesi e quindi
era logico che
la fisionomia da
esso assunta in
Italia diversificasse parecchio
da quella di
altri luoghi. Temerario
l'asserire per ciò
non solo che
fra noi romanticismo
non esistette (4):
può darsi, E strano
che il Dejoh.
il quale diffusamente
nana la seconda
dimora italiana della
Stael, affermi che
il Pellico non
la conobbe (pag.
124). Il Pellico
medesimo nel cap.
50 delle Prigioni,
dice di averla
incontrata in casa
Porro. Di quelle polemiche
riassunse bene le
vicende Eugenia Montanari,
Per la storia
della « Biblioteca
Italiana », in Miscellanea
in onore
di G. Mazzoni,
II, 3(i3 sgg. Se
ne veda la
dimostrazione in (ìuuxrinne
con rispettosa riconoscenza. Nota
aggiunta. — Già
nel Fanfulla della
Domenica del 14
marzo 190i). sunse
in Germania ed
in Francia. Se
il Trezza allargò
oltre ogni misura
il valore del
romanticismo, panni che
questa signorina, tutt1
altro che poco
intelligente del resto,
lo restringa
ingiustificatamente. Il soggetto,
delicatissimo, non vuol
essere trattato a
sciaholate. Dovréhbe servire
di monito e
di modello la
cautela con che
procedette il Graf
nello studiare il romanticismo
del Manzoni. il)
AH" ipotesi del
romanticismo considerato come
pianta indigena italiana
accenna G. Perai.k,
a p. 87
del suo libretto
su L'opera di
(Gabriele Rossetti, Città
di Castello, 190ti.
L'idea fu sostenuta
dal Flamini in
un corso universitario. Scorrendo
il carteggio dello
Stendhal. Per Enrico
Beyle, lo confesso
subito e sinceramente, io non
ho alcuna particolare
ammirazione. Poco simpatico lo
scrittore; meno simpatico l'uomo. Ho
assistito con stupore,
e non senza
qualche disgusto, al
gran da fare
che si diedero
gli stendhaliani di
Francia per pubblicare e
pubblicare e pubblicare
tutti gli abbozzi
e frammenti di
suoi lavori rimasti
inediti a Grenoble, per
raccogliere tutte le
briciole cadute dalla
sua mensa, per
chiarire le innumerevoli
sue bizzarrie e
svelare il mistero
dei molti pseudonimi con che
designò sè medesimo
e gli amici
suoi. S'è costituito
un club stendhaliano;
vi sono più
raccoglitori specialisti di
autografi stendhaliani e di
memorie di lui
: tutte cose
ottime quando si
avesse a fare
veramente con una
individualità eccelsa; ma trattandosi
invece d'un uomo,
vivace innegabilmente d'ingegno,
ma sregolato, paradossale,
sconclusionato e più
che un poco
mattoide, sembrano tanto
esagerate, da confinare col
grottesco. Il fenomeno,
per altro, di
questa contagiosa montatura
entusiastica, che ha
prodotto ormai mezza
biblioteca, non cessa,
per questo, d'esser
cleono di
noto, anzi lo
è tanto più,
quanto meno sembrerebbe,
a persone equilibrate,
degno d'incenso e d'adorazione
quell'idolo. Non fu,
quindi, senza interesse
che appena uscita
in buon assetto, ordinata, annotata
la Corrispondance dello
Stendhal, mi diedi
a scorrerla con
gran curiosità, per
vedere se i
miei preconcetti, leggendo
nell'anima dello scrittore come
prima non s'era
potuto fare, si
dileguassero. La Correspondance infatti,
che ora ha
veduta la luce
in tre grossi
volumi ('), consta
di ben 700
lettere, mentre i
primi due volumetti
della Correspondance inedite, editi nel
1855, con una
prefazione di Prospero Mérimée, ne
contenevano solo '212.
Quel libro, inoltre,
divenuto ormai quasi
irreperibile, recava le
lettere in gran
parte mutile e
deformate. La nuova edizione
le dà intere,
perchè rivedute quasi
tutte sugli autografi.
Essa aggiunge e pone al
loro luogo, secondo
cronologia, le lettere già
edite nel 1892
col titolo di
Lettves inlimese nel
1893 in seguito
ai Sourenirs d'égotisme,
quelle officiali od
officiose rintracciate negli archivi
dei Ministeri di
Francia, ed un centinaio
circa di
lettere inedite e
sconosciute. Giovarono
massimamente alla nuova
raccolta gli autografi
stendhaliani posseduti dal
Cheramy, sicché oggi
si ha un
epistolario nutrito e
ben curato. Di
esso ho profittato
per rivivere col
fi) Corresponrìanne de
Stendhal (lXfx)-1842), pubi,
par Ad. Paupe
et P. A.
Cheramy, Paris, Oh.
Bosse, 1908; tre volumi
in-8 gr. DELLO
STENDHAL 303 Beyle;
ed ho richiamato
alla memoria quel
molto di autobiografico, che
v'è negli scritti
editi da lui,
sia viaggi, sia
romanzi; e mi
son servito, con
la debita circospezione, delle
tre opere postume più
ragguardevoli, fatte conoscere
da quel gran
beylista che è
Casimiro Striyenski ed
aventi carattere autobiografico: il
Journal, che va
dal 1801 al
1814 la Vie de Henri
Brulard, che narra
i fatti dal
1878 al 1800
(2), i Souvenirs
d'ègotisme, che dal
1821 giungono al
1830 (3> Della
ormai grande letteratura
critica sull'autore
delfinatese potei consultare
i prodotti più
notevoli, facendo tesoro
in ispecie del
laborioso e sensatissimo
volume di Arturo
Chuquet (*), che
è e resterà
l'opera capitale scritta
sul Beyle (5).
Fatto ciò, la
mia coscienza non
mi rimorde di
aver trascurato nulla
per addentrarmi nella
cognizione d'uno scrittore,
di cui troppi
ragionano e scrivono senza
conoscerlo. Le spigolature
critiche, che qui
seguono, non sono
frutto di una
escursione superficiale e
molto meno di
ricerche indirette e
frettolose. Se da
esse lo Stendhal
non uscirà in
paludamento eroico nè con l'aureola
dovuta ai sovrani intelletti,
la colpa non
sarà mia. (I)
Paris, Charpentier. 1888.,
non hanno prodotto
che un grand'uorao
ed un pazzo:
« le grand
nomine est Shakespeare,
le fou Milton »
(I, 93). Sdegnava
il Pope e
credeva che il
Lutrin del Boileau
valesse cento di
quei ricci perduti
(I, 245). Quando
si recò, nel
1826, in Inghilterra,
quella vita gli
piacque pochissimo e
trovò da biasimare,
con poco giudizio,
precisamente ciò che altri
lodano, le istituzioni
giudiziarie e la condizione
della donna (II,
436). Per lo
Scott provò dapprima
entusiasmo (II, 195,
227, 272, 302; ;
ma poi gli
venne in uggia
e ne disse
corna t1). Nell'autunno
del '16 conobbe
a Milano il
Byron nel palchetto
di Ludovico di
Breme (II, 501)
(*), e desinò
poi con lui
(II, 13) e si compiacque
di scriverne ad una dama
inglese nel '24 (II,
341-43); ma da
quella lettera importante
e dallo schizzo
Lord Byron en
Italie che è
nel volume lìacine
et Shakespeare, risulta che
gli piaceva più
la sua bella
ed espressiva fisionomia delle
sue opere e che quella
inamidatura di lord gli
dava ai nervi.
Tuttavia, meglio gli
inglesi che i
tedeschi. Sebbene più
d una biondina
formosa gli piacesse
in Germania, non
ebbe mai buon
sangue nè con Hod,
p. 80; Chuqitet,
p. 30f>. Quivi la
data 1812 è
un errore di
stampa, o di
gTafia, o di
memoria. Vedi II,
342. DELLO STENDHAL
313 quella gente,
nè con quella
lingua, nè con
quella letteratura. I
maschi gli sembravano
sgraziati, le femmine
* agréables »
prima del matrimonio; ma dopo
il matrimonio «
faiseuses d'enfants, «
en perpétuelle adoration
clevant le faiseur
» (*). La
lingua e la
letteratura tedesca faceva
le viste di conoscerle,
ma ne sapeva
poco e male
(*), come in
genere sapeva imperfettamente ogni
lingua all' infuori della
sua. A Vienna
solo se la
godette davvero, sebbene
vi fossero sin
troppe belle donne
(I, 343). Vienna
era notoriamente la
città tedesca che
più talentava ai
francesi. Oltre al
resto, v'era per
lui anche l'attrattiva
della musica. Descrive
un Tedeum sentito
nella cattedrale di
Santo Stefano nel
novembre del 1809,
alla presenza dell'imperatore Francesco,
che fa pensare
a tante cose
(I, 350 e
sgg.). Annoiato di
Civitavecchia, nel 1835
chiese qualche consolato
in Spagna, ma
non l'ottenne (III,
147). Di quel
paese poco seppe:
non andò mai
più in là
di Barcellona; la
Spagna rimase per
lui sempre un
paese fantastico, che
vedeva traverso ai libri
(I, 128). Non
dimentichiamo che nel
1840 carteggiava con
la bellissima signorina
Eugenia Guzman y
Palafox, poi contessa
di Montijo, a
cui la sorte
riserbava la corona
di imperatrice di
Francia, corona di
spine (III, 253).
(lj Chequi-, pp.
94-95. Questo giudizio che
mi formai sulla
Correiipondance, godo di
vederlo condiviso dallo
Chuqi-et, p. 299,
buon conoscitore di cose
tedesche. 314 SCORRENDO
IL CARTEGGIO Resterebbe,
a provare il
famoso cosmopolitismo del Beyle,
la nostra Italia.
E qui non
certo io negherò
che egli l'abbia
amata, anzi amata
molto, amate come
pochi stranieri. Dalla
prima volta che
vi mise piede
fino ai suoi
di estremi, egli
ebbe per l'Italia
e per gli
Italiani una grande
simpatia, e le
prove, come da
tutte le altre
opere, cosi pure
dall'epistolario, potranno esserne
agevolmente raccolte a
centinaia. Ma che
l'abbia capita molto
e bene questa
patria nostra, che si sia
veramente reso ragione
de' suoi bisogni,
de' suoi pregi
e delle sue
miserie materiali e
morali, dubitavo dopo
aver letto Home,
Naples et Florence
(l) e gli
altri viaggi, e
ancor più dubito
oggi dopo percorso
il carteggio. Incanto
impareggiabile hanno per
lui, in Italia,
le bellezze naturali;
ma solo in
qualche lettera vi
s'mdugia; mentre gli
pare più conveniente
occuparsi in pubblico
delle arti, cosi
solennemente rappresentate
nel nostro paese.
I due volumi usciti
nel 1817 col
titolo troppo pretensioso
di Hifttoirie de la peinture
en Italie sono
certo curiosi, ma
affogano le osservazioni
personali in un
mare di discussioni
teoretiche, e per
quel fi) Questo
libro usci la
prima volta nel
1817; nel 1818
se n'ebbe a
Londra una traduzione
inglese; la seconda
edizione francese fu
del 1826; la
terza, postuma, del
1854, sulla quale
furono condotte le
successive ristampe stereotipe.
L'esemplare del 182(7 che
è nella Vittorio
Emanuele di Roma
ha postille autografe,
di non grande
momento. Le comunicò
il dott. Paolo
Costa nella Xuova
Antologia del lfXDC. che
è dei particolari
di fatto, rappresentano
un vero saccheggio
di nozioni date
da altri. Se
si volessero distinguere,
nelle innumerevoli osservazioni d'arte di
cui lo Stendhal
ha seminato i
suoi scritti, quelle
che hanno vero
valore d'originalità, se ne
ricaverebbe un libretto
di pochi fogli.
Di artisti contemporanei, egli
ammirò con fanatismo
il Canova; ma
non si rileva
troppo perchè veramente
lo amasse tanto,
egli che pure
a certe idealità
canoviane sembrava così
estraneo. Non diversamente dal
Montaigne, tanto più
arido di lui
('), gli piace
studiare in Italia
specialmente gli uomini, che
gli si presentano
con quella spontanea
schiettezza e con
quella fiera e
primitiva energia, onde
è innamorato. Ma
anche qui cade
nel suo solito
difetto, il plagio;
giacché fu assai
giustamente osservato che
senza la Corinne
della Stael, di
quella povera Stael
su cui esercitò
tanto la sua
maldicenza (cfr. Ili,
81-87), egli sarebbe
difficilmente riuscito a valutare
l'anima italiana e
a leggervi dentro
(s). Il più
delle volte, peraltro,
egli ci appare
un gran cronista,
curioso, anzi ficcanaso,
parecchio pettegolo, ma
superficiale. Sia nei
viaggi, sia nelle
lettere, rileva in
gran copia gli
aneddoti, se ne
compiace, li accarezza,
li gonfia: raro
è che assorga
a vedute originali
e larghe; raro
è 9 Mi sia
concesso di richiamare
in proposito il
mio vecchio articolo Montaigne
in Italia, nella
Gazzetta Letteraria del
25 maggio 1889. Chuqckt, che
s'immedesimi nella vita
italiana, come seppe
fare, nei rapporti
artistici, il Goethe,
che dal viaggio
in Italia tornò
rinnovato. Massone sin
dal 1806 e
ribelle per indole,
frequentatore a Milano
dei palazzi e
dei salotti, ove
fermentavano le idee liberali,
cadde in sospetto
(ci voleva tanto poco!)
alla polizia austriaca,
che lo sfrattò
dalla Lombardia (';;
e quando, più
tardi, fu nominato
console a Trieste,
ove si annoiava
a morte, il
principe di Mettermeli
non ce lo
volle. Eppure, pochi
uomini politicamente meno
pericolosi di lui. Non
capi affatto la
poi-tata politica del
Conciliatore, nè seppe
vedere che cosa
in Italia importasse
il romanticismo. Un suo scritto
italiano sul romanticismo
fu, con ogni
probabilità, solo annunciato e
non mai eseguito
(!); e, del
resto, non concepisco
come ei potesse
scrivere in italiano un'opera
da dare alle
stampe, mentre fu
sempre così imperfetto
conoscitore della lingua
nostra (3). Si
hanno di lui
alcune il) Vedi
i documenti prodotti
dal D'Ancona in
quella parte delle
sue Spigolature nell'archìvio
della polizia austriaca
di Milano i yuova
Antologia. 10 gennaio
1899), che concerne
il Beyle. Il dilingentissimo Chuquet
non lo conosce;
il D'Ancona ne fece
indarno ricerca. Io
stesso, che pure
ebbi la fortuna
di disporre, per
lo Stendhal, d'un
ricco materiale, quale
è quello che
venne alla Biblioteca
Nazionale di Torino
pel munifico dono
della raccolta, in
gran parte napoleonica,
del barone Alberto
Lumbroso, non potei
vederlo. Tuttavia anche
recentemente H. P.
Thiemk. nella sua
Guide bibliografiiiue de
la littérature franqahe
de 181MJ à
19, Paris, 1907,
pagina 394, registra dello
Stendhal come stampata
a Firenze nel
1819, un'operetta Del
Romantismo nelli arti!
Cos.!! (8) La
sua mostruosa lettera
italiana alla sorella
Paolina, DELLO STENDHAL
317 pairine francesi,
Qu'est-ce que le
vomantìhmeì, nel volume
Racine et Shakespeare;
ma attestano solo una
gran confusione d'idee.
Il romanticismo, per lui,
era solo naturalezza
e verità contrapposte
all'accademicismo
convenzionale; quindi in
una lettera, dice
arciromantici Dante e
l'Ariosto (II, 124)
e altrove professa
che tutti i
grandi scrittori furono
romantici al tempo
loro ('). iSiamo,
evidentemente, fuori di
strada. Se pei'
il Pellico, di
cui stimava oltre
il merito la
Francesca, si adoperò
con sincera amicizia
presso il Bvron
ili, :$03-4 e
338-40), gli è
solo perchè quella
soave e quasi
femminea natura di
iioino^ lo aveva
stranamente soggiogato. Quali
siano stati i
giudizi del Beyle
su lette dei
23 dicembre 1800
(I. 17-18;, è
cosa giovanile; ma
anche in seguito
i suoi progressi
non furono grandi.
Si può esser
sicuri che ogni
qualvolta gli accade
di citare una
frase italiana la infarcisce
di spropositi. Cfr.
I, 153, 294.
381, ecc. In
una importante lettera
alle sorelle, del
1827. in cui
dà loro utili
consigli pratici per
\m prossimo viaggio
in Italia e
le raccomanda al
Vieusseux, « libraire
et homme d'esprit
qui rassemble à
un épervier »,
commette il comico
errore di scrivere
spezzate invece di
spesate (II, 471). Aveva proprio
ragione il Beyle
quando diceva: «
Je crois qu'il
y a peu d'hommes qui
aient aussi peu de disposition
que moi pour
■ appvendre les
langues » CI,
55.). I nuovi editori
dell'epistolario gareggiano
col loro autore
nello spropositare l'italiano.
Sono essi, ritengo,
e non l'autore,
che convertono l'ufficio
del bollo in
ufficio del botto
(Ill.»153-154) e costantemente
mascherano Sinigaylia in Sivigaglia.
A p. 57
del voi. Ili
il B. si
chiede: « permettra-t-on la
force de Sivigaylìa?
* E ovvio
che si doveva
leggere « la
foire de Sinigaylia
>, la fiera
celebratissima a quel
tempo. Siamo nel
1831.Rod, rati italiani
indicarono parecchi espressamente, specie
il D'Ancona e
lo Chuquet. Con
l'epistolario non vi è
molto di nuovo
da aggiungere, ma
parecchio da completare.
Per quanto i suoi apprezzamenti
di critica letteraria
siano molte volte
di discutibil valore,
s'ha almeno il vantaggio
di trovarsi qui
d'innanzi impressioni immediate e
genuine, non già
rifacimento di pareri altrui, come
avviene altrove, ove
parla del Metastasio
e dell'Alfieri (').
Di scrittori nostri
antichi, i più
graditi gli sono
sempre l'Ariosto ed
il Tasso. Anche
il Bandello gli
piace e lo
rammenta nell'avvertenza proemiale
alla Chartreuse de Parme,
libro in cui
l'influsso bandelliano mi
sembra innegabile. La
lettura del Goldoni lo
rasserena a Berlino
nel 1807 e
gli ricorda giocondamente l'amata
e remota Italia
(I, 299). Legge
pure Carlo Gozzi,
ma non lo
stima (I, 319).
Il Monti è
una « girouette
», ma nel
medesimo tempo «
le Racine de
l'Italie » (II,
65). Nel Jacopo
Ortis non sa
vedere che «
une copie du
Werther » (IL
286). Curioso è
il paragone che
istituisce fra i
Sepolcri ed il
carme in morte
dell'Imbonati, dando la
preferenza a quest'ultimo (II, 408).
Il suo fanatismo
irreligioso gli fa
considerare come antisociali
e venefici gli
inni sacri del
Manzoni; ha certa
deferenza per le
sue tragedie, ma
le giudica più
letterarie CI) Dei
plagi nella critica
letteraria dello Stendhal
s'occupò a varie riprese
A. Lumbroso. Vedi
indicazioni nella Rivista
d'Italia, VI (1903),
II, 669 sgg.
che teatrali
(II, 165, 168,
295-96Ì. Va in
solluchero pel Cinque maggio;
ma non sembra
che i Promessi
Sposi lo abbiano
colpito eccessivamente (II, 515;
III, 91). Si
scompiscia dalle risa
al leggere la
satira del Giraud
intitolato Cetra spermaceutica
e chiama il
conte « petit
Mirabeati de Rome
» (II, 171).
La poesia dialettale
italiana lo esalta:
tuttavia ci fa
cader le braccia il
notare che mentre
ignora il Belli
e appena cura
il Porta, i
versi vernacolari del
Gross^ e del
Buratti dice che
saranno vivi quando
più non si
rammenteranno i Sepolcri
ili, 416). La
Prineide del Grossi,
di cui dà
un riassunto, gli
pare . 244
sgg. Per questa dolorosa
istoria è da
consultare Chco.uet, pp.
233 a 214. 10
coglieva la morte
(M. Con una
profezia che lusingava
il suo amor
proprio, egli aveva
detto che solo
verso il 1880
i suoi libri
avrebbero avuto fortuna:
i critici della
seconda metà del
secolo XIX colsero
a volo questa
curiosa profezia e cercarono
di dargli ragione.
L'elogio sperticato che
della Chartreuse de
Parme fece il
Balzac, conciliò al
Beyle le simpatie dei
veristi, ultimo dei
quali scese in
campo ad esaltarlo,
ma con più
criterio e più
moderazione del Balzac, lo
Zola. Il caustico
SainteBeuve vide in
lui un eccitatore
suggestivo; Ippolito Taine un
gran psicologo, sicché
più tardi al
Bourget parve doveroso
riconoscerlo precursore del romanzo
psicologico. Non senza
ragione fu osservato
da altri che
il creatore di
Julien Sorel e
di Fabrizio del
Dongo, i due
volitivi che pongono
il proprio piacere
al di sopra
di tutto e
« la ragion
sommettono al talento
», personazione di
quella energia che
affascinava 11 Beyle,
potrebbe anche essere
rivendicato a precui-sore
del moderno nitschianismo
penetrato nell'arte, degli
ammiratori del superuomo
e dell'uomo che vive
al di fuori
della morale. Presentimenti di
modernità, germi d'avvenire
sono certamente nei
tre romanzi del
Beyle: Armance, Le
rouge et le
noir, La Chartreuse
de Parme (!).
Il migliore dei
tre è Le
rouge et le Vedi
l'ultima lettera dell'epistolario, III,
285. c2) Pei
due romanzi abbozzati
e pubblicati postumi
uon mi curo.
Rrnirr Svaghi Crìtici
SI noir,
che ha pagine
bellissime, piene di
osservazioni psicologiche
fini e felici.
Ma, nell'insieme, né quello
nè gli altri
sono libri tali
da resistere al
tempo e da
riuscire da capo
a fondo soddisfacenti. V'è
prolissità, pesantezza, inesperienza. Non ebbe
del tutto torto
chi definì lo
Stendhal « moins
un romancier qu'un
collectionneur
d'observations psicologiques »
('). Il soggetto dell'Armance, in
mano ad un
grande analizzatore d'anime, poteva
riuscire un capolavoro:
un giovine visconte,
bello, ricco e
bizzarro, che ha
il difetto dell'impotenza fisiologica
e che si
innamora perdutamente di
una fanciulla russa,
povera e gentile,
da cui è
passionatamente corrisposto.
Tema tragico, cui
sovrasta il pericolo
di scivolare nel
comico, che il
Beyle trattò in
maniera assai maldestra,
sebbene egli avesse
sempre un debole
per quel suo
libro. La Chartreuse de
Parme dovrebbe interessare
maggiormente a noi, perchè
la scena è
in Italia, e italiani
ne sono
i personaggi. Ma,
ahimè! Quale Italia
e quali italiani!
L'autore non ha
saputo fare di
meglio che camuffare
gli italiani del secolo
XIX incipiente, che
aveva conosciuti, con
i costumi dell'età
dei Borgia e
dei Farnesi, sicché ne
è venuto fuori
il più miserando
cibreo che immaginar
si possa. Tocchi
realistici eccellenti non mancano
qua e là, ed eran
quelli che facevano
andare in visibilio
il Balzac; ma
nel Georges Pellissier
nell'tìwtoire del Petit
de JuUeville, VII,
445. 3 suo
complesso il libro
è illeggibile. Non
posso dire mi
appaghi neppure quella
battaglia di Waterloo vista in
iéeorcio, perchè essa
si riduce ad
una serie di
scenette tragicomiche. Può
darsi che una
battaglia napoleonica vista
da vicino (ed
il Beyle ne
sapeva qualcosa) fosse
cosi; ma noi
stiamo piuttosto con
la grande visione
epica del fatto
quale seppe rievocarla
Victor Hugo. Nel
romanzo, più che
negli altri scritti
suoi, il Beyle
ha il merito
della sincerità, merito
riconosciutogli anche da Emilio
Faguet, che fu
forse il più
penetrante e sicuro
e imparziale tra
quanti critici letterari
di lui parlarono
sinora (*). Sincero
nel l'osservare, nel
ritrarre, nel comporre;
sincero e personale.
I suoi protagonisti
finiscono col riuscire
tutti poco simpatici,
perchè ritengono del suo
beylismo, nella ricerca
sfrenata del piacere,
nell'egotismo straripante. Ma
sono anche, come
lui, mobili, intraprendenti, curiosi,
disuguali; sono uomini
che vivono. Aver
fatto vivere nell'arte
delle creature umane
è già una
fortuna che non
tocca a tutti.
Nata aggiunta. — '
Già nel Fanfuìla
della Domenica del
14 giugno 1908.
La letteratura stendhaliana
si viene di continuo-aumentando, ma
poco v'è che
direttamente riguardi lo
scopo dell" articolo mio.
Lo scritto più
importante che ho
da segnalare, occasionato
dalla C'orrespondance, è
di H. Mosix,
Stendhal educateti); nel
Mercure de France,
voi. 78", p. 392 sgg.
(1» aprile 1909).
Ivi sono studiati
i rapporti di
Enrico Beyle fi)
Articolo su Stendhal
nella Berne dea
deux monde», Serie IJI.
an. H2"
(1892), pp. 594
sgg. . con
la sorella Paolina,
e vi pi
dice giustamente che
« Henri «
Beyle a voulu
fture de .sa
seur préférée, à
l'insu et à
« l'encontre du
pére, la fille
de son esprit,
de son coeur
• 4>. SiT). Conchiude
il Monin ohe
l'influsso di lui
sulla sorella fu influsso
di pervertimento. Chi
voglia approfondire quella
relazione fraterna, nonché
certi rapporti del
Beyle con l'Italia,
non deve trascurare
la seconda serie
dello Soirée» du
.Stendhal Club. Paris.
1908, tutta gremita
di documenti inediti. Ne
sono editori Casimiro
Striyenski e Paul
Arbalet. Dello Striyenski,
che è notoriamente
imo dei più
passionati e benemeriti
beylisti, vedasi una
severa critica della
Correnponiìanre nella Revue.
critiqne ristoro nella
campagna, che amava
tornare ai tranquilli
ritiri della sua
Normandia, che passeggiava volentieri con
gli amici, che
s'abbandonava alle salutari fatiche
del canottaggio sulla
Senna, o ai
salutari riposi della
navigazione sul mare,
sempre da lui
adorato; ma troppo
spesso que' medesimi
riposi e sollazzi
implicavano consumo di forze.
Siccome egli era un vero
« gourmand de
la vie »,
facendo a fidanza
sulla propria robustezza, s'immerse
sin da giovine
nei piaceri, sicché
già nel 1878
gli si fecero
palesi quei disturbi
nervosi, per cui
lo ammoniva il
suo Flaubert. Non
diede retta, anzi
fece peggio. Inebbriato
del successo, produsse
in un decennio una
formidabile quantità di
novelle e di romanzi,
sino a
procurarsi l'agiatezza, anzi
la ricchezza. Nè smise
per questo le
male pratiche, giacché
ebbe la suprema
sventura di non
innamorarsi mai sul serio
d'una donna. Sarà
verissimo ciò che disse
di lui la
madre: « il
fut sou« vent
un séducteur, jamais
un dépravateur »
('); ma è
cei'to, nel tempo
stesso, che nella
donna egli vedeva
solo uno strumento
di piacere e
che ne abusava
(*), perchè la
coscienza sua non
aveva nessuna forte
base di moralità
su cui poggiare.
Lasciamo qui nell'ombra
un'altra considerazione, che
avrebbe pure importanza
capitale nella diagnosi del
suo male; se,
cioè, quella vita
sessuale (l.i Lumiiroso,
pp. 321-25. (2|
AI AYNIAT. sregolata
gli lasciasse qualche
ricordo rovinoso (.'):
sta però sempre
incrollabile il fatto
che uno strapazzo
tisico unito ad uno strapazzo
intellettuale continuo non poteva
che trascinarlo alle
più sinistre conseguenze.
Infatti, ben presto
gli s'indebolì la
visto, l'olfatto pati
d'una iperestesia malata, l'umore
divenne tetro, le
notti tormentosamente
insonni; fu preso
da un desider io
di solitudine assoluta,
che acuiva il
suo male; non
tardarono le allucinazioni, a
cui successero i
tenori della mania
persecutiva, la megalomania,
il lento ma
progressivo ottenebrarsi delle
facoltà intellettive, fino
al tentato suicidio
del gennaio 1892
ed alla morte,
nel 1893, nella
casa di salute
del dott. Bianche
a Passy, dopo
18 mesi di
follìa. Avea cercato
distrazione nei viaggi;
forse troppo tardi,
certamente non in
.guisa da conferir
vigore ài suo sistema
nervoso tanto scosso.
Sin da giovinetto
Guy mostrò inclinazione
a far versi,
e forse, se
fosse vissuto il
suo zio materno Alfred Le
Poittevin, che mancò
giovanissimo nel .1848, e
se non avesse
avuta corta vita
anche lo squisito
rimatore Louis Bouilhet,
che fu il
suo primo maestro
quando studiava a
Rouen, chissà ch'egli
non si fosse
dato esclusivamente alla
poesia. Non sarebbe
stato un vantaggio,
giacili II medico Louis
Thomas. nell'opuscolo ì4a
malattie c/la mori
ile Manjmftìtrrnt i Bruges,
190fì), cerca dimostrare
la parte ch'elibe
la sifilide nella
precoce rovina di
quell'esistenza. Nel primo
saggio d'analisi, uscito
nel fascicolo 1«
giugno 1905 del
Mentire de France,
egli non dava
alla sifilide tanta
importanza. chè
i saggi poetici
che abbiamo eli
lui son molto
lontani dal valore
delle prose. La
madre e lo
zio erano stati
compagni d'infanzia di
Gustavo Flaubert: avviamento
alle lettere Guy
l'ebbe in famiglia,
uno dei primi
autori che la
madre gli lesse
fu Shakespeare. Il
giovinetto era insofferente d'ogni disciplina,
amante della vita
semplice e libera, della
campagna, del mare,
degli abitatori della
campagna e dei
frequentatori del mare.
Malgrado avesse l'aspetto
vigoroso d'un torello, era
un sensitivo non
meno che un
volitivo. Passato a
Parigi per guadagnarsi
da vivere nei
ministeii, s'ebbe dal
Flaubert, amico di
famiglia, il gusto
e l'indirizzo della
prosa narrativa. La
prima novella il
Maupassant la pubblicò
nel 1875, a
25 anni, con
lo pseudonimo di
Joseph Prunier. Il
Flaubert non ne
fu contento. La disciplina
del Flaubert era
delle più austere:
« Un «
artista, egli diceva,
deve avere un
solo pro« posito
: sacrificare tutto
all'arte » (').
Con questa specie d'ascetismo
artistico venne su il Maupassant osservatore e
rappresentatore. Il Flaubert volle anche
insegnargli praticamente i processi
della sua arte
e in certa
guisa lo chiamò
a cooperare a
quel Bouvnrd et
Pècuchet, di cui
Guy doveva, morto
il maestro, sorvegliare
la stampa postuma.
Introdotto nei circoli
letterari più in
voga, l'impiegato ai
ministeri venne sempre meglio
sviluppando le sue
eccezionali qualità di
scrittore. Si provò
nella drammatica, ma
senza Correspondance de
Flaubert, IV, 302-3.
MAUPASSANT 351 buon
esito; abbozzò più
di un racconto,
che il Flaubert
gli cincischiò spietatamente; alfine
riusci ad ottenere un
grande successo presso
il maestro e
presso il pubblico
con Bou.lt de
saif, novella introdotta
nella raccolta miscellanea
delle Soù-àes deMedan.
S'era intorno al
1880: l'8 maggio
di quell'anno il
Flaubert passò di
vita ('). Botile
de suif dà
allo scrittore normanno
la coscienza della
sua forza. Lascia
l'impiego per consacrarsi
tutto alle lettere,
e in un
decennio pubblica sedici
volumi di novelle,
sei romanzi, tre
volumi d'impressioni di
viaggio: in qualche
anno, come nel
1885, riesce a
pubblicare da quattro
a cinque volumi
nuovi, oltreché accudire alle
ristampe e seminare
d'articoli non so
quanti giornali. Guadagnava
con la penna
non meno di
ventotto mila franchi
l'anno. Non si
lasciò prendere quasi
mai dal desiderio
di scrivere pel solo
guadagno; si mantenne
coscienzioso, anzi fin scrupoloso;
ma, amante della
vita e dei
godimenti, apprezzava il
denaro, era oculatissimo
affinchè i suoi
editori non profittassero
Nella Correspomlance, IV,
351, il Flaubert
dice del Maupassant:
« C'est mon
disciple et je
l'aime comme un
fila ». A
sua volta, il
Maupassant dedicò al
Flaubert il volume
Des eers, che
coutiene una scelta
delle sue poesie,
e fu per
la prima volta
pubblicato nel 1880. Lo chiama
€ l'illustre et
paternel ami, que
j'aime de toute
ma tendresse »
e 46. Egli, del
resto, come tutti
i naturalisti francesi,
è povero critico.
L'articolo su L'évolution
da roman au
XIX siede, che
inseri nella Sevue
de l'exposUion universdle
del novembre 1889,
è miserrima cosa.
(4) Un erudito,
che modestamente firma
con le sole
iniziali (Lumbroso, pp. 586-90), ma in
cui riconosco l'amico
L. Or. Pélissier
di Montpellier, colpisce
nel segno dicendo
del Maupassant: « Moins
copieux que Balzar,
il est plus
précis de «
contour; moins profond
que Flaubert, il
est plus spon«
tanè; moins puissant
que Zola, il
est plus humain
•. MAUPASSANT
355 Le l'Oman,
che va innanzi
al suo Pierre
et Jean, e
si vedrà che
nei principi dell'aite
egli fondamentalmente non
si scosta dalle
teorie del Flaubert,
con la differenza
che a lui,
natura più benigna,
aveva concesso una
felicità rappresentativa e sintetica,
che il maestro
non ebbe, una
felicità nell' imbroccare a
prima giunta l'espressioni' e l'epiteto,
che il maestro
era ben lungi
dal possedere (').
Nel primo e
più fortunato periodo
della sua operosità,
lo scrittore normanno
non si allontanò
mai dal proposito
di far vedere
la psicologia in
azione, di considerare
la psiche come « la
carcasse de l'oeuvre
», la quale
deve rimanere invisibile
« cornine l'ossature
invisible est la
carcasse du corps
humain » (2).
Potrà quindi sembrare
ardita, ma non
è punto falsa,
anzi è ingegnosamente indovinata
l'espressione di ehi
lo designava «
un grand paysagiste
d 'àmes » (3). Non
diversamente dal Flaubert,
egli ammetteva nell'artista il
procedimento di scelta
e quello di
composizione, perchè «
faire vrai consiste...
« à
donneil'illusion complète du
A rai, suivant
« la logique
ordinaire des faits,
et non à
les Specialmente dalla
Corresporulance rilevò le
teorie artistiche del solitario
di Croisset. con diligenza
e perspicacia, Antonio
Fusco, nell'eccellente libretto
La filosofia dell'arie
in Gustavo Flaubert
(Messina. 1907 1, che
è uno dei
pochissimi saggi pregevoli
usciti in Italia
sulla letteratura francese
modernissima. Le roman. in
Pierre et Jean,
44a ediz., Paris,
Ollendorff, 1891, p.
XXI. (3j Henri
Fouquier. Vedi Lcmbroso,
p. -20ij MADPASSANT «
transcrire servilment dans
le pèle-mèle de
leur « succession
» ('). Ora è
appunto in questa
scelta che appare
la sua indole
d'uomo sensuale e
scettieamente burlone. Aveva
un gran gusto
a « mystifier
le bourgeois »,
come dimostrò in
varie occasioni (%
dividendo anche in
questo certa tendenza
del suo maestro,
che odiava le
menzogne convenzionali della
società per bene,
non meno di
quanto Ai-rigo Heine
odiasse le abitudini dei
philister tedeschi (3).
Quando poteva sollevare
scandalo, andava a
nozze; e a
ciò si deve
gran parte della
crudezza di certe
sue novelle. Ma si
deve anche, lo
ripeto, alla natura
disposta ai piaceri
del senso. Il
sensualismo fu tutta
la filosofia e
tutta la morale
del Maupassant (*).
Vi ritorna di
continuo, in tutti
i modi, e talora ne
fa, con ironia
atroce, la caricatura,
o meglio ne
promuove la caricatura
per effetto spontaneo
di casi. Singolare
indulgenza ha per
le mogli infedeli
e specialmente per
le femmine da
conio. Il romanticismo
sentimentale avea creato
in Francia il
tipo fortunatissimo di Marguerite
Gautier, la cortigiana
redenta dall'amore, uccisa
dall'amore. In alcune
novelle celebri come
Binde rie suif,
come La maison
Tetliev, Guy si
diverte a presentarci
la cortigiana boa
enfant, che ha
le sue fierezze,
le sue abnegazioni,
i suoi Le
roman, p. XVII. Mav.mai., pp.
J7-Ì8 e (il. Prcfaz.
cit. alle Lettre*
de li. Flaubert
à fi, .Santi,
pagine LXXIV sgg. (4)
Petit de Jii.i.kvillk,
Liti, francaine, tenerumi.
Messa in scena,
ha fatto trionfalmente
il giro dei
teatri, tolta da
una sua novella,
quella soave grisette,
che è tutta
un alito di
poesia, cui fu
dato il nome
di Musotte (').
Sino ad un
certo punto è
vero ch'egli ha
« la grande
sensuali té »,
ch'egli ama, a
differenza d'altri suoi
connazionali letterati, più cinici
o più corrotti,
« le geste
animai cìans toute
sa beau té
» (s); ma
è pur anche
verissimo che la
sua predilezione per la turpitudine,
la sua impassibilità
nel rappreseli tare
la turpitudine, sono
qualità non belle,
inerenti al suo organismo
e al suo
spirito. Carnalità,
peraltro, convien riconoscerlo,
non mai volgare, che
trova sovente nella
sua anima di
artista una forma
di idealizzazione. Significativi
sono, per questa
parte, i suoi
viaggi. Vedansi quelli
in Italia descritti
nel volume La
vie errante. Lasciata Parigi
e la Francia
perchè la torre
Eiffel avea finito
con l'annoiarlo orrendamente, egli costeggia
l'Italia percorrendo col
suo yacht il
Mediterraneo, e si
ferma in vari
luoghi delle due
Riviere e poi
va in Sicilia.
Del paesaggio ha
senso squisito: sente
anche l'architettura, ma a
modo suo. Per
apprezzare il paese
nostro gli manca
un grande elemento,
la coltura. È
agevole l'accorgersi che
quando parla di
monumenti che non
sieno archi tetto
ilici, non ha
l'attitudine ad" intenderli.
Due sole opere
di Rappresentata la
prima volta il I marzo
novella è nella raccolta
t'Iair tle lune.
Mavxiai., p. 290. M
Lombroso, p. 590.
358 MACPASSANT l
plastica suscitano la
sua ammirazione, gli
fanno sentire ardente
il desiderio di
rivederle: il capro di
bronzo del Museo
di Palermo e
la Venere di Siracusa
('). Perchè quel
capro e perchè
quella Venere? Il
capro per la
sua potente espressione animalesca; la
Venere per la sua balda
carnalità bella. « Ce
n'est point la
fera me poetisée,
« la femme
idéalisée, la fera
me divine ou
maje« stuense corame
la Vénus de
Milo, c'est la
femme « telle
quelle est, telle
qu'on I'airne, telle
qu'on « la
désire, telle qu'on
la veut étreindre
». Su quella statua
senza testa, e
che gli piace
di più perchè
manca di quell'accessorio troppo
spirituale; su quella statua
piena di pudore
e d'impudicizia e che,
velando e svelando,
attirando e sottraendosi,
« semble definir
toute l'attitude de
la femme sur
la terre »:
su quella statua
che è «
le symbole de
la chair », il Maupassant
ha scritto pagine
calde ed eloquenti,
in singolar modo
significative. L'artista è
là. Ma a
Palermo volle visitare
puranco la necropoli dei
cappuccini e non
si lasciò distogliere
dalla macabra fissazione.
Anche questo spettacolo di
morte ei descrive
e si sente
fremere nella sua
descrizione il terrore
Ecco il Maupassant del secondo
periodo, il fantasticante, il
visionario, l'atterrito, l'allucinato,
cui la paralisi
preme, incubo orrendo.
La vie
errante, Paris, OUendorff,
1890, pp. 117-123. La
vie errante, pp. 67-73.
MAUPASSANT Nel secondo
periodo scema la
nitidezza incisiva, che ò
pregio massimo delle
prime novelle, ma
scema pure la
brutalità; si ha
un Maupassant più
morbido, più amabile
e che perciò
piace di più
al signor Brunetière.
Eppure, quella maggior morbidezza è
decadenza; quella maggiore
amabilità implica l' intrusione
dell'autore nell'opera
d'arte e
quindi una divergenza
dalla formula iniziale del
rigido naturalismo. Ripensiamo
le parole che
un altro insigne
scrittore francese, J. M. de Heredia,
disse di lui
nel 1900, quando
fu inaugurato il
suo busto a
Rouen: « La
dernière fois que
je le vis,
il me dit
lon« guement sa
mélancolie, l'ennui de
la vie, la
« maladie grandissante,
les défaillance» de
sa * vision
et de sa
mémoire, ses yeux
cessant « tout à coup
de voir, la
nuit totale, l'aveugle«
ment persistant un
quart d'heure, une
demi« heure, une
heure... Puis, la
vision revenue, «
dans la hàte,
la fièvre du
tvavail repris, un
* arrét subit
de la mémoire
et (quel supplice
« pour un
tei écrivain!) l'impuissance
à trou« ver
le mot juste,
sa recerche acharnée,
la « rage,
le désespoir. Il
ne prenait plus
plaisir « à
rien, raèrae à
taire le bien.
Il medisait en«
core l'angoisse où
le tenait le
dédoublement « maladif
de sa personalité
» (*). Ldibroso La
tragedia intima di
quella povera anima
si dipinge nell'opera,
ove entra sempre
più la personalità dello scrittore,
col suo pessimismo
e i suoi
terrori. Notre cceur,
lo sappiamo ormai
con sicurezza, è
quasi un romanzo
autobiografico ('). Frammezzo
ai facili amori
di Bel ami
s'insinua terrifico lo
spettro della morte:
si rileggano le
amare considerazioni di
Norbert de Varenne
e tutto ciò
che circonda la
fine di Forestier
('). Questo spettro
non abbandona più
il Maupassant: ed
egli ce lo
farà ricomparire in
altri suoi racconti.
Perchè, ed è
questa una strana
bizzarria della nevrosi, quanto
più quella visione
gli riusciva paurosa,
tanto più si
sentiva fascinato da
essa e voleva
ritrarla. Con l'amore
della solitudine cresce in
lui e si
fortifica una specie
di amore e
quasi di culto
per la paura
(3). Ancor più
tormentose sono le
allucinazioni vere e proprie,
di cui
la massima ed
insistente consiste nello
sdoppiamento della personalità
ritratto nelle novelle
che s'intitolano Lui?,
Le Eorla, Qui
sait? (4). Queste
condizioni patologiche di spirito
e di
corpo danno all'arte
di Guy una
singolare propensione alla tenerezza
e talvolta una
finezza d'osservazione psicologica
meravigliosa. Abbiamo in
proposito indicazioni precise
della madre. Vedi
Lcmbroso, p. 331. Nell'edizione illustrata
Ollendortf di Bei-ami
vedi le pp.
159-G4, -204, 215. Belle
sono su questo
soggetto alcune pagine
del Maini al; pp.
239-44; cfr. pp.
257-58. (4) Mavhiai-,
Gli balena
a volte anche
l' idea del divino,
ma lo spirito
suo irreligioso ed
educato fuori della
religione non riesce a
trovarvi i conforti
impareggiabili che altri vi
rinvenne. Cosi prosegue
senza bussola, nella
vita e nell'arte,
ed egli ricco,
egli glorioso è
un grande infelice.
« La
folie de Mau«
pausa ut, scrive
il suo biografo,
ne fut constatée
« par son
entourage et rendile
presque publique «
qu'à la fin
de 1891, dans
les mois qui
précé« dèrent sa
tentati ve de
suicide. Mais on
peut « relever
les prémiers indices
de troubles nerveux
« dès l'année
1884, dans les
pages de da
ir de «
lune, d'Au soleil,
des Soeurs Rondoli...;
le mal «
s'accentue en 1887-1888,
et nous avons
pu en « suivre revolution
dans Le Hnrla
et dans Sur
« l'eait; en
1890, certaines nouvelles
de l'Inutile «
beauté, certains chapitres
de La vie
errante lais« sent
deviner le dètraquement
irrémédiable» ('). Sulla tomba
dell'amico perduto, Emilio
Zola, pronunciando un
discorso memorabile, deplorava la
sparizione di quella
« bornie tòte
limpide et solide
» e aggiungeva
che quanti di
persona non lo
conobbero a v l'ebbero amato
nelle sue opere
« l'éteruel chant
d'amour qu'il a
chanté à la
vie » (2). E. de
Goncourt, costantemente a lui malevolo,
lasciava scritto nel
Journal: « Maupassant
est un tròs
remarquable novelliere, «
un très charmant
conteui' de nouvelles,
mais « un
styliste, un grand
écrivain, non, non!
» (=>). Mav.mai., p.
256. Lusibroso p. 103.
(3; Cfr. Mavnial,
p. 208. maupassanV S'inganna.
Nelle novelle del
primo periodo il Maupassant raggiunse
spontaneamente una cosi
mirabile evidenza, riuscì a
toccare tale perfezione
espressiva, che può
a buon diritto
essere chiamato stilista e
scrittore grande. Tra i romanzi
il migliore, a
parer mio, resta
il primo in
ordine di tempo
(usci nel 1883
dopo lunga preparazione), Une
vie, che è,
in fin dei conti, un'estesa
novella, o meglio un
gruppo di novelle
concatenate. Nessun altro
romanzo suo può
gareggiare in perfezione con le
novelle. Ho inteso
da più d'uno
dar la preferenza
a Bei-ami; ma
io non posso
piegarmi a questo
giudizio. Su Bel
ami ò passato il
Daudet; su qualche
altro romanzo è passato
il Bourget. Confesso
che nella produzione
del secondo periodo,
ove ormai predomina
quel romanesque senza
cui la Santi
non credeva potesse
esistere romanzo, le
mie simpatie sono
tutte per Fort
corame la mori,
il più profondo,
forse, tra i
libri del Man
passa nt, certo
quello che lascia
nell'animo dei lettori
solco più duraturo.
Del resto, il
difficile argomento delle
parentele letterarie e
degli influssi è,
rispetto al nostro
autore, ancor vergine,
e chi si
metterà a trattarlo dovrà procedere
con delicatezza e
ponderazione. Sarà bello anche
il vedere quanto
debba al Maupassant
la moderna novella
italiana. Ne risenti
il soffio potente
Giovanni Verga; lo assimilò
talora, insieme con
tante altre cose,
il D'Annunzio nelle
Novelle della Pescara
('). E Nel
volume del Lombroso
(pp. 519 sgg.)
v'ha uno speciale capitolo su
Maupassant et les
plagiata de G.
D'Annunzio. MAUPASSANT 3t)3
le imitazioni portate
in altra terra
e cementate con l'osservazione diretta
d'altri costumi, furono
opere d'arte anch'esse
ragguardevoli. Il buon
seme, caduto in
terreno fecondo, produce
buoni frutti. Nota
aggiunta. — Nel
Fanfulla della domenica,
1» marzo 1903.
Un1 grosso libro
venne fuori in
Germania dopo la comparsa
del mio
articolo, Pai l
Mann, (rui/ de
Maupassant, sein Leben
nnarone di Milnchliausen, Ancona,
Morelli bizzarre avventure,
fu il compito
che il Poe
si propose. (Jiovossi
il Venie di
parecchi argomenti suoi,
ma li rìcostrusse
su base scientifica
e li rese
verisimili: giovossi pure
di certi procedimenti, ma ne
mitigò l'inclinazione americana
all' intemperante, allo
sconfinato, al paradossale,
sparse poi dovunque
la gentilezza dell'indole
sua latina equilibrata,
mentre nel Poe,
randagio infelice, troppo traspira
l'acidità della vita
scontento. Il Poe. talora può
sembrarci più polente;
il Venie è
sempre più amabile,
e sovratutto più
sano ('). Il
romanzo scientifico ha nel Venie
il suo creatore: non
v'è quesito arduo
d'applicazione scientifica
ch'egli non abbia
affrontato. Cominciò con
l'aereo nautica. Il
suo primo romanzo è
del 1803, Cinq
semaines en ballon:
l'Africa tenebrosa traversata
nella sua maggiore
ampiezza, da est
ad ovest, dal
dottor Samuele" Fergusson
e da due
suoi compagni montati
sul pallone Victoria.
L'aereonautica anche fra
noi era ormai
da tre quarti
di secolo argomento
di viva discussione;
sin dal chiudersi
del Settecento se
n'era impadronita la
poesia: parecchi poeti,
tra i quali
vola come aquila
Vincenzo Monti, se
n'erano dimostrati entusiasti,
con lui il Betel)
Sensatamente dimostrò questo
il Tcrikli.o nelle
citate Kttules de
critit/tte lettéraire. Anche
in un articolo
del Tempn, che
il Cernire riferisce
(cfr. p. 100),
è fatta ben
rilevare la differenza
tra il Terne
ed il Poe.
Ma le migliori
considerazioni stigli
antecedenti tutti del
nostro romanziere son
quelle che fa
il Popi tinelli, il
R,ozzbjii(5o, la Grisraondi:
perplèsso era rimasto
il Parini, incredulo
e schernitore il Pienotti
('). Una
ipotesi effettuata rende
possibile il viaggio
del dottor Fergusson:
l'ipotesi che si
possa conseguire la
dirigibili tà alzando od abbassando
il pallone con
uno speciale spediente,
sicché esso trovi
sempre la corrente
d'aria che gli
conviene. Ma in
realtà il Verne,
nel 1863, considerava come impossibile
il diligere i
palloni; venti anni
dopo, quando pubblicò,
nel 1886, Robur
le conquJrant egli
aveva seguito i
progressi della navigazione
aerea, ed era
venuto alla conclusione che si
dovesse sostituire il
principio più pesante
dell'aria all'altro, fino
allora predominante, più leggero
dell'aria. h'Albalros di
Robur è una
macchina volante complicata
ma ingegnosa. Siamo già
agli inizi dell'aviazione per
aerooplano, di cui
si tien parola
nel romanzo Deux
ans de vacances
del 1888 (*).
Da ciò si
rileva che il
Verne non campa
ipotesi del tutto
in aria; ma
procede, anche nel
suo lavoro fantastico, con certa
scientifica ponderatezza, si da predire
quanto un giorno
potrà essere verità
dimostrata. Più arditi,
ma estremamente ingegnosi,
i due romanzi
lunari (1865, De la Terre
à la Lune;
1870, Autour de
la Lune), basati
sui progressi Si
consulti in proposito
un buon articolo
del Buriana nel
Giom. stor. della
leti, italiana, XXX 1
1897), pp. J14
sgg. e a
complemento Ciro Trabalza
nel voi. di
Sludi e profili,
Torino-Roma, 1903, pp. 86
sgg. Vedi Popp, Op.
cit., pp. 101-114.
RICORDANDO GIULIO VKRNE
373 dell'astronomia e
della balistica. Nel
primo di ossi,
Barbicane, il presidente
del Orni Club,
fa la storia
dei viaggi anteriori
alla volta del nostro
satellite, col quale
tanti, non escluso
Lodovico Ariosto, han fatto
all'amore in varia
guisa. .San tutti
viaggi fantastici, mentre
quello del Venie
ha un fondamento
di possibilità reale,
ed il francese
che lo provoca,
Ardali, è l'anagramma
d'un personaggio veramente
esistito, amico dell'autore, Nadar, pseudonimo
dell'ardito navigatore aereo Felice
Tournachon Non solo.
Con singolare ideazione,
il romanziere francese
fa che i
suoi tre ardimentosi
viaggiatori non raggiungano la luna,
perchè il gran
proiettile che li
ospita non sfugge
abbastanza alla forza
dell'attrazione terrestre da subire
quella lunare; quindi
essi possono osservare
la luna da
vicino, e quel
che ne dicono
non è prodotto
di fantasia, ma
è conforme ai
risultamenti scientifici dei
tempi moderni in cui
fu reso possibile
il tracciare cai-te
descrittive della superficie
lunare. Persino in
quell'ardimentoso romanzo che
è Hector Servadac
(1877), più conosciuto
fra noi sotto
il titolo di Attraverso
il mondo solare,
il Venie, traendo
profìtto dalle cognizioni
astronomiche dei tempi
in cui scriveva,
si guarda bene
dall'abbandonarsi alle orgie
fantastiche del Poe.
E in quel
mirabile libro, ch'è
uno dei suoi
primi, il Voyage
au centre de
la terre, uscito
nel 18U4, egli
mette a base
della straordinaria spedizione Lumi re,
p. lOli; Popp. del professor
Livenbrok e di suo nipote
i progressi della geologia
in quel periodo
ed in ispecie
la teoria del
chimico Davy. Chi
non rammenta quello
stupefacente sottomarino
e.h'è il
Nautilus e quella
specie di mago
misterioso che ne
è l'ideatore ed
il signore, il
capitano Nemo? Ebbene,
quelle Vingt mille
lienes sous les
mers (1870; costituiscono
una delle prove
migliori, non solo
della facoltà inventiva, ma
delle cognizioni di
chimica, d'elettrotecnica e d'ingegneria
navale del Venie.
Con vero occhio
profetico egli intravvide
gli immensi vantaggi
che l'umanità poteva
trarre dalle applicazioni della forza
elettrica: non poche
sue profezie si
sono avverate, altre
troveranno nel secolo
in cui viviamo
non difficile attuazione.
Le meraviglie della
meccanica sono rappresentate in Lea
cinqcents milions de la Iiègum,
romanzo scritto nel 1879,
quando ancora la
Francia sanguinava per
la catastrofe di
nove anni prima.
Là il Venie,
che non cessò
mai d'essere intimamente francese, francese
sino alla punta
dei capelli,
nell'antagonismo fra il
potente ma brutale
professor Schultze ed
il geniale ed
umanitario dottor Sarrazin,
rappresentò idealmente il conflitto
tra la
Germania e la
Francia, tra la
scienza che distrugge
e la scienza
che con serra
ed allieta ('). Tra
le molte altre
concezioni in cui
ha Il Verne,
quanto dimostrò la sua simpatia
per gli Inglesi e
gli Americani del
Nord, altrettanto non
dissimulò V antipatia
per i Tedeschi,
nemici della sua
patria. Su questo
RICORDANDO GIULIO VER
NE 375 parte
la chimica segnaliamo
quella sulla tanto
ricercata produzione artificiale
del diamante, per
cui è da
vedere la sua
Etoile du Sud
del 1884. Ogni
progresso scientifico, ogni
problema scientifico
infiammava quella fantasia
che ne traeva
argomento a libri attraentissimi; peccato
non abbia potuto
giovarsi delle più
recenti scoperte sulle
proprietà del radio
e intorno alla
telegrafia senza fili.
Chissà quante belle
cose egli avrebbe
dette e profetate.
Scienze predilette del
Venie furono la geografìa
e l'etnografia: ad
esse tornava continuamente e gli
offri van sempre nuova
materia ai suoi
libri. Egli ha
anche opere strettamente
geografiche, quali la sua
geografia della Francia
e la storia
delle scoperte geografiche;
ma la più
gran parte de'
suoi romanzi ha
per soggetto viaggi
in lontane regioni.
Percorre quasi intero
il nostro pianeta
nei viaggi della
sua fantasia, dall' un
polo all'altro, con
predilezione spiccata per
l'Africa e per
l'America. Delle bellezze
naturali e delle costumanze
dei popoli è
descrittore tasto batte
di frequente. Egli
ha una istintiva
avversione per ogni
maniera di tirannia
e di sopruso.
L'tle myatérieuse si
riattacca alla guerra americana
per l'abolizione della
schiavitù e termina
con la morte
del capitano Kemo
(il costruttore del
Xautilus), che è
un grande indiano
ribelle. La guerra
americana del 1861-65 è
rappresentata in Xord
contre Sud (1887);
nella Famille sans
nom (1889) rivivono
le inquietudini del Canada;
nell' Archipel en feti
(1884) troviamo la
guerra per l'indipendenza greca; nello
sfondo della Maison
à capeur (1880),
preannunciante l'
automobilismo odierno, s'
agitano le lotte
degli Indiani contro
gli Inglesi. Cfr.
Popp, Op. dt.,
pp. 160-102. HlC«>Kli.\Nli (.11
l.ln VKHNK brevi'
ma vivaci.': in
particolari di zoologia
e di botanica
non s'indugia, come
sogliono tare i Rubinsonisti. Ad
accrescere la T-ultura
ii,t'. Per quella
ferita il romanziere
ebbe a soffrire
assai tìsicamente, e più
moralmente. Si narra
che durante le
lunghe notti insonni
di febbricitante egli
si distraesse componendo
indovinelli, logogrifi, ed
altri giuochi di
spirito complicatissimi: ne
mise insieme da
tre a quattro
mila, si che
se ne potrebbe comporre un
volume. Ciò non è inutile
ad essere avvertito;
si vede quanto
in lui potesse l'attività fantastica.
D allora in poi egli
si abbandonò tutto
al ragionamento ed
alla fantasia. La sua operosità
fu spesa tutta
nei libri, nelle
soavi cure della
famiglinola diletta, nell'amministrazione di Amiens,
ove fu consigliere
comunale assiduo ed ascoltato,
nelle tornate dell'Accademia di Amiens,
ove diede saggio
del suo inalterabile
buonumore. Viaggi non
più. Vendette il
suo secondo yacht,
il San Michele
che ora è
posseduto dal principe
di Montenegro. Con
esso, e prima
con un altro
yacht, di ugual
nome, ma più
piccino e primitivo,
aveva di frequente
costeggiato la Francia e
anche la Spagna,
s'era spinto fino
alle coste africane,
aveva visitato la
(li Lkmiiìt-:. 55-àrt:
Porr, \ C).
Nell'azione e nella
tipificazione è facile
scorgere una certa
fìcelle. Ei ritorna
sovente e volentieri allo
schema delle Cinq
semaines e delle
Arentures du cajntaine
Hatteras. Un esploratore
di gran risolutezza,
coraggio e sapere,
di solito più
d'un tantino eccentrico,
di solito inglese
o americano, è
l'eroe principale dell'impresa.
Esso ha un
servo fedele, intelliLettera riferita
dal Lemihe gente, servizievole,
gaio, animosissimo. Lo accompagnano
un amico
o più amici,
di attitudini e
di gusti diversi
dal protagonista. S'aggiunge
o interviene talvolta
un traditore o
un malevolo, che
attraversa la via
all'eroe, suscita difficoltà,
minaccia di mandare
tutto a male,
ma alla fine
ha la peggio.
Esempio tipico il
detective Fix nel
Le tour du
monde. Ma quest'azione
semplice e fin
povera s'arricchisce per
una miriade di
episodi svariatissimi e
vivi, s'ingarbuglia in
modo che sembra
inestricabile, si direbbe
dovesse finire con una
catastrofe, quando, alla
fine, tutto si
scioglie per il
meglio. Non irragionevolmente fu accostata
questa tecnica a
quella usata nei
suoi drammi dal
Sardou ('). In
mezzo ai rigidi
inglesi ed americani
spunta qualche francese,
e vi fa
sempre la parte
più nobile e
bella. Francese è
quel godibilissimo tipo
di Passepartout (felicemente
tradotto in italiano con
Gambalesta), che è
una delle più
riuscite macchiette di servo
che il Verne
abbia tracciato, da
mettere in compagnia
col semplice ed
ardito Joe, servo
del dottor Fergusson,
e con Ben-Zuf,
l'ordinanza fida del
capitano Servadac. Questi
ed altri servi
del nostro scrittore
rimontano originariamente al tipo
di Venerdì nel
più antico Robinson.
La donna ha
nei libri del
Verne parte accessoria
ed è delineata
con certa superficialità. Non già
che non vi
siano tipi teneri
o eroici di
donne, come Ilulda,
come Nadia, Popp,
p. 86. 384
RICORDANDO GIULIO VKKNK
come Hadjine, come
AliceWatkins, come mistress
Branieau ; ma
di consueto le
donne occupano nel quadro
il secondo piano,
servono a lumeggiare
l'uomo, offrono esempi
di pietà, di
tenerezza, di abnegazione
a vantaggio dell'uomo.
La loro psicologia,
come in genere
tutta la psicologia del Venie,
è delle più
semplici. La passione non
le agita: il
Venie era, in
fatto a donne,
un gran semplicista.
Egli voleva che i suoi
libri potessero esser
letti senza turbamento
dai giovinetti e dalle
giovinette, e inoltre,
confessò un giorno
egli stesso, «
l'amour est une
passion « absorbante
qui ne laisse
que fort peu
de place «
pour autre chose
dans le coeur
de l'homme; «
mes héros ont
besoin de toutes
leurs facul« tés
» ('). Se
manca l'amore passionato,
abbonda l'umorismo, nei caratteri
e talora anche
nell'azione. Sui tratti
umoristici del Verne
ci sarebbe da
scrivere un articolo
speciale; tutta umoristica
è quella gustosa
novella del Docteur
Ox (1874), la
cui singolare trovata
mi ha fatto
sempre pensare all'antica
faida del poeta
provenzale Peire Cardenal (!),
alla quale vanno
accostate lestrane avventure
d' un veggente
nell7so/a dei ciechi
del Fraccaroli. Se
non che qui
tutto è satira,
mentre nel Venie
v'è solo umoristica
e bonaria caricatura.
Parole del Verne
inserite nella Recite
ile Brelaijne del
190(5, che il
Lemiue riferisce a
p. 111. Vedasi in
proposito un articolo
di V. Cian
nel Fanfulla della
Domenica, 22 ottobre
1905. RICORDANDO OIULIO
VERNK 385 Fu
detto ohe Philens
Fogg è una
specie di D'Artagnan
in costume di
viaggiatore moderno (1). È
un avvicinamento che ha solo
l'apparenza del vero. L'eroe
del vecchio Dumas
è una creazione
fantastica, materiata bensì
di certi elementi
reali, ma che
è fuori della
vita; mentre Phileas
Fogg è tanto
nella vita che
il viaggio di
lui, profetato dal
Venie, potè essere
compiuto realmente, non
solo in quelli
ottanta giorni, ma
in molto minor
tèmpo (*). Soavi
alcuni racconti del
nostro autore, specialmente
quelli di tipo
robinsoniano, che s'aggirano
nell'impossibile; ma i
più, quelli che
hanno maggiore consistenza
e vitalità, si
contengono nell'orbita del
verisimile e con
la poesia volgarizzano
il sapere. Si potranno
far valere contro
di essi le
sottili ragioni che
il Manzoni ricamò
contro "il romanzo
storico; ma come
il romanzo storico
iiqh è morto
per quei ragionamenti,
così non muore
ormai, nò morrà,
il romanzo scientifico.
Il Popp nel
suo libro pregevole
raccolse una gran
quantità di indicazioni
sugli imitatori del
Verne, sorti in
* ogni parte
d'Europa e d'America.
Le scoperte fatte
in Marte dall'astronomo nostro
Schiaparelli hanno già
prodotto una vera
fioritura di romanzi
intorno a Marte,
ed a' suoi
abitatori, ed a'
suoi rapporti con
la nostra Terra.
E cosi accadrà Popp,
p. 41. i'2i
Xel 1!K)1 certo
Stiegler compi il
giro de] mondo
in (i5 giorni
e nel 1907
certo Canipell, giovandosi
della ferrovia transiberiana, in il giorni.
Cfr. Porr, d'ogni
altra scoperta scientifica
atta a stuzzicare
e ad esaltare
l' imaginazione. Ma purtroppo
i seguaci non
hanno, di consueto,
l'equilibrio, la sensatezza,
la ponderatezza del
maestro. Troppo spesso
a loro accade,
come all'italiano Salgali,
di subordinare ogni
esigenza scientifica filla
fantasia più sbrigliata e,
mirando solo a
far colpo, di
sottomettere le esigenze
della scienza e dell'arte
e le
limitazioni del buon
senso al gusto
d'interessare e d'impinguare
la borsa interessando. In questo
caso, il romanzo,
divenuto pseudo-scientifico, non
serve se non
a provocare una
iperestesia fantastica, dannosa
a tutti e segnatamente
ai fanciulli. Di
siffatta degenerazione non diede
certo Giulio Venie
l'esempio. Nota aggiunta.
— Pochi giorni
dopo pubblicato questo
articolo (nel Fanfulla
della domenica del
"2 maggio 1909)
fu scoperto ad
Amiens il monumento
di Oiulio Verne,
dovuto a quel
medesimo scultore Alberto
Roze, che già
effigiò, a spese
della famiglia, la
robusta statua della
tomba del Venie
nel cimitero dello
Maddalena ad Amieus.
Il nuovo monumento consiste in
un bel busto
poggiante su di
una stela elegante
a" piedi della
quale un giovane
viaggiatore sdraiato, in
attitudine di riposo,
consulta una carta
geografica, mentre dall'altro
lato un giovinetto
legge con gran
attenzione un volume
del Verne e
la giovane madre
gli sta a
fianco assistendo alla lettura.
L'inaugurazione segui il 9 maggio
1909 e le
feste ed i
discorsi di quell'occasione possono
leggersi nel Mémorial
d' Amiens di quel
giorno e del
successivo. * Patriottismo e
socialismo di Arrigo
Heine. Dacché nou
rivedevo il Walhalla,
fatto edificare tra il
1830 ed il
1842 dal re
Ludovico I di
Baviera, molt'anni erano
trascorsi. Volli visitarlo in
una giornata precocemente
autunnale e ne
ritornai con un
senso di profonda
tristezza. Quel gelido
simulacro del Partenone
impicciolito biancheggia su d'una
collina boscosa non
lungi da Ratisbona:
a' suoi piedi
si svolge a
larghe spire il
Danubio. Ira fantasia
regale di Ludovico
rievocante, nel neoclassicismo dell'arte
germanica di quel
periodo, i più
solenni monumenti di Grecia
e d'Italia, intese
fare di quel
tempio una specie
di famedio sacro
alla memoria dei più
celebri personaggi tedeschi,
i cui busti
sono allineati lungo
le pareti della
sala jonica interna.
Il busto di
Arrigo Heine non
ve lo trovai;
non già per
una specie di
vendetta postuma contro
il gran flagellatore,
che canzonò così
neramente il re
Ludovico I nei
Zeitgedichte e parodiò
lo « stile
bavarico » delle
sue iscrizioni del
Walhalla ('). rna
per una deplorevole
noncuranza d'ogni grandezza
spirituale, per cui
nessun busto nuovo
fu collocato là
dentro da circa
mezzo secolo, ali 'infuori
di quello di Guglielmo
I imperatore, «
der Siegreiche »
come lo chiamano
i Tedeschi. C'è
da scommettere, peraltro,
che se anche
la Baviera d'oggi
fosse meno volta
di quel che
è agli interessi
materiali, il poeta
di Dusseldorf non
troverebbe la sua
nicchia tra gli
ospiti del Walhalla.
Troppo è tenace
l'avversione contro di
lui d'una gran
parte dei suoi
connazionali,
quell'avversione, in cui
non riesco neppure
ad ammirare la
rigida disciplinatezza ch'altri
vi ravvisò non
a torto r),
perchè mi appare
meschina ed iniqua. Com'è
risaputo, gli si
rifiutò finora un
palmo di terra
germanica, ove i
suoi ammiratori potessero
erigergli una statua:
l'umile sepolcro di
lui, nel cimitero
di Montmartre, fu
abbellito da una
donna fantasiosa ed
infelicissima, Elisabetta
d'Austria, che già
gli aveva costruito un
tempietto presso il
suo Achilleion di
Corfù (3); il
monumento che un
gruppo di Rc 2. Elisabetta, sul
cui bellissimo capo
il triste fato
degli Absburgo non
pesò meno dall'ereditaria psicosi
dei Wittel DI
ARRIGO HEINK 389
nani voleva erigergli,
dovette migrare oltre
l'Atlantico. Di Arrigo Heine
la Francia ha
le ossa; Corfù
e New York
he serbano le
sembianze effigiate; la Germania
nulla. A noi
individualisti di razza
latina codesto »
ostracismo inflitto al
genio dà senso
di pena e
d'irritazione. E più
ancora ci irrita
l'asprezza con che
lo Heine Viene
giudicato, non solo
dal volgo partigiano
ed incosciente, ma
da critici e
storici rispettabili e
rispettati, in opere
serie e diffuse.
Non esitano costoro
a riconoscere in
lui un poeta
lirico eminente ed
a porlo a
fianco del Goethe
per lo sviluppo
tutto personale che
diede al lieti
germanico; ma non
sanno perdonargli la nascita
israelitica, la simpatia
per la Francia,
la leggerezza nel
giudicare, e specialmente nel mettere
in caricatura, tanta,
parte dello spirito
tedesco, la scorrettezza
della vita libertina,
la mancanza di
carattere fermo, la
perpetua ironia, degenerante
talora in cinismo
volgare. I Tedeschi
si sentono offesi
dallo Heine in
ciò che hanno
di più caro e di
più sacro; i
sentimenti della famiglia,
della religione, della
patria, della razza.
Compresi della loro
attuale grandezza, vedono
in lui un
profeta fallito, che
dei germi di
quella grandezza non
intese nulla e
all'entusiasmo e alla
rude tendenza tradizio
snach. amava nello
Heine specialmente la
profonda tristezza pessimistica,
se dice vero
il libro saturo
di sentimentalismo del
suo confidente greco.
Cfr. C. Christomakos,
Iìeyhia di dolore, Firenze, 1901,
pp. 240 41. naie della
nazione contrappose il
dileggio beffardo
demolitore. All'ebreo rinnegato
per farsi eristiano,
al cristiano rinnegato
per divenire ateo,
al tedesco rinnegato
per infranciosarsi, oppongono
un dispregio acre
e pungente; non
mitigato neppure dalle
melodie dello Schubert
e degli altri
interpreti musicisti dell'anima
lirica heiniana. In
molte parti questo
loro giudizio sembra
ragionevole; eppure sostanzialmente essi
hanno torto e
riescono ingenerosi. Abituato
a leggere con
simpatia e diletto
le opere heiniane,
da molti anni
io lo penso;
ma non ero
mai riuscito ad
averne convinzione chiara
e fondata, come
ne ho oggi,
dopo aver letto
il volume recentissimo d'uno squisito
scrutatore d'anime, Henri
Heine penseur di
Enrico Lichtenberger (').
Dello Heine fu
scritto non poco,
in Germania e
fuori, senza che
con ciò siasi
ottenuta piena chiarezza
sul soggetto. Ciò
che meglio di
lui si conosce
ò l'arte. Sui
particolari della sua
vita, breve ed
infelice, si accumularono
notizie contraddittorie, radendo
non di rado
nell'indiscrezione
pettegola, lasciando nella
storia delle sue
relazioni non poche
dubbiezze. Il suo
pensiero fu, di
solito, trascurato, ovvero
trattato in modo
sbrigativo movendo dal
preconcetto che, in
ultima analisi, di
pensiero ne albergasse
pochino in quel
cervello, e quel poco
senza radici e
a dir così
fluttuante. In ciò vi
ha, per lo
meno, molta esageParis,
Alcan, lflOn. razione,
e. non s'è
tenuto conto, com'era
giusto e necessario,
di elementi che
in un giudizio
siffatto dovevano avere parte
precipua, le condizioni somatiche dell'individuo c
la sua essenziale
qualità dit poeta.
* Arrigo Heine
fu un sensitivo
ed un sensuale:
la sua poesia
rampolla dafla sensività
e dalla sensualità:
ma è in
parte fecondata da
un certo numero
di idee politiche,
religiose e sociali,
che non è
lecito trascurare. Quando,
nel 1830, poco
più che trentenne,
egli varcò l'amato
Reno, che lambisce
la sua città
natale, por esiliarsi
volontariamente a Parigi, era
un uomo fallito,
materialmente e moralmente. Avvocato senza
vocazione, negoziante inetto,
con la testa
piena di grilli
e la tasca
vuòta, senza educazione
morale solida, con
inolto ingegno ed
una sensitività morbosa,
egli andava incontro
all'ignoto, in una
gran" metropoli, sedotto da
un fantasma di
libertà. Ci andava
pur essendo ancora
cosi giovine, con
una gran dose
di pessimismo nell'anima,
dovuta, oltreché a
condizioni fìsiche, a
delusioni amorose. Tempra
eminentemente erotica, egli
s'era invaghito due
volte in Amburgo,
nella casa dello
zio milionario, Salomone Heine,
prima della cugina
Amalia, creatura fredda e
speculatrice, più tardi
della sorella minore
di lei. Teresa,
che i parenti
calcolatori destinarono ad
altre nozze. La massima
parte delle liriche
del Bach der
Lieder fu I'ATKIuTTIsMii K Si n.
1 A Usili
i inspirata da
questi din» amori
e da queste
due crisi amorosi»,
allo quali successero
ben presto passionacci»
libertine, i-hi» lasciavano
il poeta stremato
di forze e
melanconico. Quantunque non
volesse ron venirne e
sebbene alla prima
apparenza non sembri,
la sua sensitività,
a traverso le stesse
orgie sensuali, menava
all'idealismo. Più tardi a
Parigi, dopo disordini
d'ogni genere, di
mezzo al bizzarro
e degradante connubio, legittimato dal
matrimonio per compassione, con quella
magnifica statua di
carne da lui
comperata, (die fu
Matilde Mirnt i';,
spunta l'amore fragrante
por la signora
Krinitz. la poetica Monche, cosi
variamente giudicata dagli. studiosi delLo Heine
' ). Lo
spirito di lui
ora soggetto ai più
stridenti contrasti: ora
angelo, ora demonio,
e pur troppo
i molto malevoli
videro il demonio
e non vollero
vedere l'angolo. Il
peggio è (die
da se medesimo
fece di tutto
per calunniarsi o
por mostrarsi diverso
da quello (die
in realtà era.
Il suo pessimismo
lo portava all'ironia,
e l'ironia sapeva
armare di tutte
le punte della
117/ 'sigia' il germanica. Accortosi
delti j Le l>'"
curiose notizie su
Ini flirtino date
-lo un tv(jUPIitatore ili
casa Heine. Alessandro
AVeill. Voli I'iiiaiiim.
Stilili e ritratti
letterari, Livorno, liXXI,
[in. 17:2 sir;r.
\'Ai E sia
[une stata un'avventuriera colei
che in Francia
amò chiamarsi Camilla
tSelilen e con
questo nome [mlihlici'i
un libro siurli
ultimi giorni dello
Heine: non è
meli vero ch'ella
riuscì a penetrare
come ragjllo ili
luce nella tornila
di materassi i
Àtatrazen^rut't i in cui il
poeta languì ]>er
otto anni i lK4H-|S:Vli
e che i]uiuili
non pot ■
essere un avventuriera
vulvare. Il] AKKtlìI
l HKIXK l'effetto
die faceva quel
suo spirito indici
volato, ne abusò
lino al inailirrismo.
ne divenne la vittima
.'). Disse male
dei romantici ed
in fondo civi
un romani ico
egli pure; sparlò
dei Tedeschi, e la
>u»-i anima restò
tedesca fondamen1,'ilnienie sempre:
mise in burletta
il rraseendentalismo della
lilosotia germanica, e le sue
teorie politiche e
sociali germinavano dallo
hegelismo. Kcco perche,
pur essendo assai
migliore di quel
che parve, egli
riuscì a farsi
sprezzare e odiare
da tanti. Tali
enunciati avrebbero mestieri
d'una lunga (limosi razione, che
non è qui
il caso di sciol inare. IO
già mollo se
riuscirò a far
vedere clic lo
Heine fu. anelli'
contro voglia, tedesco,
e clic in
politica egli si
spinse di molto
oltre al liberalismo comune e
giunse al più schietto
socialismo, pur rimali 'lido
aristocraticamente poeta. La
Germania filistea gli
riusciva detestabile, è
vero: ma (pianta
dolcezza, quanta alterezza
gli ispiravano la
terra tedesca, la
lingua tedesca, i cosi
unii tedeschi! Chi
non le sente
codeste tenerezze di tìglio
leggendo «pici suo insuperabile
f)eit/sf]ifiiin1 V Dopo tredici
anni di esilio
volontario, nel 1
9| col
contrabbando delle idee
più ardite rincantucciato nel cranio.
Eccolo al confine
: il cuore
gli batte più
torte, gli occhi
gli si inumidiscono,
si sente riconfortato;
le stelle sul
patrio suolo brillano
d'una luce più
viva. Poco appresso
si commuove a
rivedere il vecchio
Reno (mein Vater
Rhein) al quale
pensò ognora con
sentimento nostalgico. Nello
scherzoso saluto a
quelle quercie sentimentali
che sono gli
abitanti dell'antica Westfalia.
v'è un mal
celato compiacimento; nella
splendida allocuzione ai
lupi germanici egli
si proclama ancor
sempre lupo: « Ich bin
einWolf geblieben, mein
Herz | Und
meine Zanne sind
wolfisch ». La
tipica cucina tedesca,
a ventricoli latini cosi
poco confacente, gli è gradita
come il saluto
della madre; nei
letti tedeschi di
piuma più dolce
gli sembra il
riposo f1). Altrove, nelle liriche,
confessa che talvolta
il pensiero della patria
lontana lo muove
alle lacrime, e
quando la notte
si desta l'imagine
di essa non
gli consente più
il sonno. «
Io credo, dice
egli « stesso,
che questa ardente
e pazza bramosia
« si chiami
amor di patria
» (s). E
così era veramente.
Il flagellatore di
tante idee tedesche, di
tanti sentimenti tedeschi,
non riuscì a Per tutto
ciò si vedono
i capit. I,
V, VII. Vili,
IX, X, XII
del Deutschlaml. Deutsrhlaud, caput
XXIV. Fra i
molti che svelarono,
con più numerose
attestazioni, questo sentimento
dello Heine, cfr.
CniARiNi, op. cit.,
pp. 329-32; Legbas.
op. cil., pp.
283-**) e Ed.
Esoel nella sua
prefazione alle Memorie
postume di Enrico Meine,
Firenze stedescarsi giammai; la
Francia, per cui nutriva
tanta simpatia e
a cui lo
legava gratitudine per ospitalità
e benefìci di
ogni genere che
ne aveva ricevuti,
fu sempre per
lui un paese
straniero. D'altro lato
ragioni ideali lo
sospingevano verso Parigi
e dalla Germania
lo staccavano. Sotto
il vento de'
cantici immortali Piegavano
crosciatiti Le selve
delle vecchie cattedrali
Con le lor
guglie e i
santi. Rintoccava, dai
culmini ondeggiando, A
morto ogni campana,
E Carlo Magno
s'avvolgea tremando Nel
lenzuol d'Aquisgrana (').
Disse un poeta
nostro della poesia
giacobina del biondo
Arrigo, e non
disse falso, perchè
realmente nei poemetti
e nei Zeitgedichte,
fra lo scoppiettare
dei frizzi e
le bollature roventi
del sarcasmo, freme
e geme l' idea
politica e sociale
di un ribelle.
Qui talora l' inspirazione heiniana
trova note inusate
di solennità formidabile,
come in quella
gran lirica dei
tessitori che instancabili e maledicenti
tessono il lenzuolo
funebre della Germania
(2). Quella poesia,
come parecchie altre, come
la più parte
degli articoli che
lo Heine mandò
all' AUgemeine Zeitung di Augusta,
riflette l'idea" capitale
politica che alliCaupitcci, A
un heniano d'Italia,
nei friambi ed,
epodi. (2; Abbiamo
di questa lirica
una versione del
Carducci nelle Rime
nuove. gnò
per tanto tempo
nel suo cervello
e per cui
erti così poco
tedesco e tanto
francese, l'idea rivoluzionaria. Noi
oggi, dopo tanti
studi storici e
politici, ci siamo
formati un concetto
più sicuro di
quel gran fatto
che fu la
rivoluzione francese; ma
nei primi decenni
del XIX secolo
non v'era via di mezzo
nel considerarla, o
l'obbrobrio o l'ammirazione. Arrigo Heine
fu della rivoluzione
francese vero ammiratore.
Sin dalla sua
giovinezza, quando diede il
primo bacio alla
rossa Peppina, la
nipote del carnefice
tedesco, che si
schermiva con la
mannaia onde erano
stati decapitati cento poveri
furfanti, sin d'allora,
dice egli, . T sliauesimo
la dottrina principale,
l'amore del prossimo,
ma se ne
togliesse l'autaii'onismo tìa
la vila terrena
e quella dello
spirito, fra la
terra e il
ciclo, quell'antagonismo con
«-ni i prcli.
predicando acqua in pubblico
e bevendo vino
in seirrcto, hanno
cantate la ninna
nanna al tripiante
popolo, al grosso
minchione. Noi vogliamo
l'ominiqui sulla temi
Il ri'amc (ti
Dio. Quniiji'iù i|iiaj;'{iiù
voiiliaino essere l'elii-i.
Non \oj;li;uii più
stentare; Ciò che
il braccio iniadafnia,
il pi^-ro ventre
Non si' lo
dee pappare. Cresce
pani' iiua^ii'i clic
basta a noi
Ed a' nostri
fratelli; Ed il
piacere e la
bellezza; r tose,
E mirti anelie
e piselli, Si,
piselli per tutti
escono fuori Dai
usci appena rotti.
Lasciamo il cielo
azzurro ai vagabondi
Angeli e ai
passerotti'1' Idea semplice,
senza dubbio: ma
nella sua semplicità sta la
sua forza. Sono
unicamente le idee
semplici, che conquistano
il mondo. Legittimismo, bonapartismo,
assolutismo, democrazia,
repubblica erano tutte
cose per cui
lo l'I) Trad.
Chiarini (Iella iirrmnnìa.
Di Ilrìnr p
Ir Salril-Srmonisme tratta
egregiamente il Lichtenberger
uel cap. UT
dell'opera sua. Heine
si sfaldava solo
fugacemente, prò o contro.
Ossili contingenza ed
ogni lolla politica
iì"1 i sembrava secondaria di
fronte alla importanza
massima (lolla (picstione sociale,
l'irai (li questo
concetto >oil piene
le carte, e
i tribuni delle
nielli vi pnppagalloggiano .sopra
i loro roboanti
discorsi: ma il
pensarlo intorno al
1S40 non era
di lutti uè
era senza pericolo
allora il bandirlo
« a' quattro
venti. Il poeta
divenuto giornalista di
straordinaria efficacia, osò
tarlo, e prosegui
por anni, su
quella via, incurante
di stringere alleanze opportunisti' e
poco sincere, incurante
di lauti guadagni,
egli che puro
aveva sempre tanto
bisogno di quattrini.
Tale atteggiamento della
sua attività non
è abbastanza conosciuto
nò a sufficienza
apprezzato. Lo apprezzarono
solo alcuni fondatori di
sistemi socialistici, come
Carlo Marx, che
strinse con lo
Heine amicizia, e
fu suo compagno
nella redazione del
]~ot'i. 1# 8-1X5
e o99-408. e
H. BAituiEitA, La
prinHpps^a Belgioioso^ stilano.
eminentemente parata
e conservatrice, tre uomini,
tutti tre di
origine giudaica tutti
tre spuntati, per
logica propaggine, dallo
hegelismo, disciplinavano nel
cervello dal mondo
le idee rivoluzionarie francesi dello
spirato secolo XVIII,
dando loro sviluppo
di cai-attere sociale
e dignità di
scienza. Non passera
molto e ne
verrà fuori, nel
18(57, l'opera economica
più importante del
socialismo europeo nel
suo primo periodo,
Das KapitaL Ma
allora il povero
Heine riposerà orinai da
undici anni nella
tomba modesta del
camposanto di Montmartre.
A lui che
pur vide così
addentro nei destini
dell'umanità futura e
che combattè con
ardire e pertinacia
una battaglia pericolosa,
senza spirito di setta,
senza speranza d'alcun
guadagno uè prossimo" uè
remoto, uè materiale
nò morale: a lui
banditore di uguaglianza,
il mescolarsi tra la
folla spiaceva e non arrossiva
di confessarlo. Amico
sincero del popolo,
rivoluzionario più che democratico,
schivava i contatti coi
molti e coi
rozzi. E un
altro dei tanti
contrasti già osservati
nella sua natura.
Pochi furono al
pari di lui
aristocraticamente schivi della
folla, forse perchè
egli era, a
differenza de' suoi
compagni nelle idee,
un poeta. Al
poeta ripugnano molte
cose che al
freddo ragionatore fi)
Bispetto alla grande
parte che gli
israeliti ebbero nella
prima propagazione del
socialismo, molte e
curiose osservazioni si potrebbero
fare. Vedi notato
e commentato il
caso anche dal
Laveleve, he socìcUimiie
contemporain, !t» ediz.,
Paris sembrano logiche
e naturali. Nell'animo
suo egli aveva
dedicato un tempio
alla bellezza, e
la futura tragedia sociale,
a cui gli
sembrava che l'Europa
andasse incontro, sarebbe
stata sacrilega verso le
manifestazioni più alte e più disinteressate
del bello. Dal
fondo del suo
pessimismo, avea pur sempre
levato gli occhi
azzurri e penetranti
verso il sole
dell'ideale ed i
beni mondani avea
apprezzati solo in
quanto gli riuscivano necessari. Invece
la potenza uguaglia
trìce del socialismo
portava a collocare
il benessere materiale
al primo luogo
e ad aspirarvi
come al maggiore
diritto, cacciando in
disparte le aspirazioni dello spirito
alla cultura ed
alla scienza. Ciò
riconosceva fatale; ma
siffatta fatalità della
rivoluzione lo riempiva
di angoscia secreta.
La sua forte
individualità di artista
non s'adattava ad
essere pecora in
una greggia (').
Se la crudele malattia che
lo consunse non lo avesse
inchiodato a letto per
tanti anni, logorandogli
l'energia di ogni lavoro
che non fosse
poetico, chissà come
si sarebbe risolto
il dramma della
sua anima, chissà
se in lui
avrebbe prevalso la sincera
tendenza socialista o
l'individualismo prepotente
del genio solitario.
Forse quella tempra
tedesca di sognatore,
balsamo e martello alle
sue piaghe, non
avrebbe vinto in
un organismo sanò,
come vinse, per
quel che riguarda
le idee religiose,
nel lento sfasciarsi
della gracile persona.
Il panteista ir ci)
Lichtknhekgeh, pp. 151,
169-71, 173-74, 186,
201-5, 231-38. Rjsnibr
Svaghi Crìtici ìli
402 PATRIOTTISMO E
SOCIALISMO riverente e
sarcastico, tra i
patimenti inenarrabili e la
disperazione cupa d'una
infermità senza ristoro,
ridivenne credente nello
spiritualismo nazzareno, riprese
in mano la
Bibbia e vi
si compiacque. Ma
non si infeudò
a nessuna chiesa
positiva. Il poeta
(gli sembrava) è
già di per
sè in istato
di grazia: a
lui si aprono
spontaneamente le porte del
cielo, senza bisogno
uè delle chiavi
di san Pietro
nè di quelle
di ver un
altro portinaio delle
Chiese costituite (').
* * *
In questo poeta
ed in questo
martire noi uomini moderni troviamo
tutti qualche parte
di noi medesimi.
I contrasti della
sua anima sono
quelli delle nostre
anime; non altrimenti
che nei contrasti
dello spirito altissimo
di Francesco Petrarca
gli uomini dell'incipiente rinascita
sentirono l'età nuova lottante
col medioevo. Senza
essere come il
Petrarca un genio
universale, Arrigo Heine
fu non meno
di lui uu
genio rappresentativo. Vizi
e difetti ebbe
senza dubbio; ma
amò assai e
assai sofferse, ed
a chi amò
e sofferse va
perdonato molto. Oltre
la fresca e
limpida vena del
poetare, oltre la
generosità del pensiero umanitario, oltre
il coraggio nel
combattere per le sue
idee, egli ebbe
un pregio che
(1; LtCUTBNBEBGEB. nessuno può
contestargli e di cui va
tenuto gran conto,
la sincerità. Oggi,
nella superba capitale
della Germania unita,
movendo dalla colossale
colonna su cui
si libra dorata
al sole la
Vittoria glorificante la
gran conquista tedesca
del 1870, s'apre
fra la verzura
e le piante
annose del Tiergazten
la cosidetta Siegesallée.
Disposte simmetricamente ai due lati
del viale, ergonsi
trentadue statue di
grand'elettori, di principi,
di monarchi, dall'alto
medioevo all'età modernissima;
dietro a ciascuna
statua marmorea stanno
a corteggio due
erme, coi busti
di due personaggi
ragguardevoli che fiorirono
nell'età di ognuno
di quelli eroi
e ne sovvennero,
col consiglio o col braccio,
la potenza. Idea grandiosa
certamente, ma non
tale da suscitare
entusiasmo, giacché pur
troppo più d'uno
di quei vindici
superbamente atteggiati vale
meglio nel marmo
di quel che
valesse in carne
ed ossa, ed il visitatore
anche coltissimo deve
non senza stento
ripescarne le notizie
grame nei recessi
più oscuri della
memoria. Sfarzo, dunque,
di compiacenza dinastica,
monumento d'imperialismo,
che non ha
eco nel mondo.
Un'altra Siegesallée piacerai
prevedere che la
Germania contrapporrà un
giorno a quella
berlinese, ove siano effigiati
altri trionfatori, ben
altrimenti noti e
civili e benefici;
i trionfatori del
pensiero e dell'arte,
tutti raccolti insieme,
senza esclusioni partigiane,
senza predilezioni regionali, senza male
prevenzioni politiche o religiose. Questi
sono i vittoriosi
di tutti i
tempi, i cittadini
di tutti i
luoghi, ai quali
il mondo s'inchina.
E tra costoro,
ben meglio onorati
die nel Walhalla
di Ratisbona, penso
che sorriderà la
fiiccia arguta e
splenderà l'alta fronte
geniale di Arrigo
Heine, redento dalla
potenza ultrice del
tempo, riconciliate col
suo popolo, ch'egli
amò sempre, tra
la ironia scettica
della sua travagliata esistenza, di
cosi fido e
tenero affetto. Nota
aggiuiTìa — Xe]
Fan f itila della domenica,
26 novembre l!)0ò. L'imperatore
di Germania, che
acquistò l'Achilleiou di
Corfù, ne tolse
il simulacro di
Arrigo Heine, che fu venduto
al banchiere Cainpe.
Costui, fino ad
oggi, non ha
trovato modo di
farlo accettare da
nessun sodalizio tedesco. Su
queste storia poco
edificante vedi ciò
che scrive G.
A. Boiuìesk nel
volume La nuova
Germania, Torino, 1909,
pp. 164 sgg.
Adalberto Stifter novellatore. Nell'autunno del
190.T i paesi
di lingua tedesca
echeggiarono in ogni
parte delle lodi
d'uno scrittore austriaco, di
cui in Italia
neppure si bisbiglia. A
questo scrittore furono
consacrati articoli,
opuscoli, volumi: le
edizioni popolari delle
sue opere, dopoché
nel 1898 fu
terminato il trentennio di
proprietà esclusiva, che
dalla Casa editrice Ileckenastdi Pesterà
passato alla Casa
Amelang di Lipsia,
si moltiplicarono rapidamente:
all'obelisco eretto sin
dal 1877 in
suo onore sul
Blockenstein dell'amato Bohinerwald
fu aggiunto nel
maggio del 1902
un monumento a
Linz, nel quale
lo si rappresentò
adagiato presso ad una rupe
in atto d'intenta
e tranquilla osservazione
delle bellezze naturali;
un altro monumento
gli si eresse
pel centenario nella
sua patria, Oberplan
di Boemia, ed
un terzo ne
vedrà presto sorgere
l'antica e grande
capitale dell'impero d'Austria,
mentre già a
Vienna stessa, e
a Budweis, e
a Linz alcune
vie sono chiamate
col suo nome;
il sodalizio costituitosi
per l'incremento della
cultura tedesca in
Boemia fondò in
Praga uno Stifter-Archiv, destinato
a raccogliere i manoscritti
delle sue opere,
i suoi carteggi,
i documenti tutti
che in qualche
modo si riferiscono
alla sua vita,
alla sua attività,
alla sua reputazione; quel medesimo
sodalizio ha dato
opera alla stampa
d'una edizione critica
definitiva di tutti
gli scritti, editi
ed inediti, dello
Stifter, che, assunta
dall'editore Calve sotto
l'alta direzione di
Augusto Sauer di
Praga, consterà di
ventun volumi. E
cosa singolare davvero
che di questo
scrittore, di cui suona
ormai cosi alto
il nome in
Germania e sembra
che col volger
degli anni la
fama acquisti sempre
nuovo vigore, l'Italia
non siasi mai
occupata con qualche
cura, sicché tra
i maggiori scrittori
tedeschi dell'Austria egli
è certamente il
meno noto. Per
studi e per
traduzioni sono conosciuti abbastanza
nel paese nostro Niccolò Lenau,
Francesco Grillparzer e Roberto
Ilamerling; nò si
può dire che
alla cognizione diretta dello
Stifter s'oppongano difficoltà
idiomatiche o difetto
di famigliarità con
gli usi locali,
come accade per
l'umorista fantasiosamente
insuperabile, che risponde
al nome di
Ferdinando Raimund. Ad
intendere le produzioni
sceniche del Raimund,
che fanno ancor
sempre la fortuna
del Volks-Theater di
Vienna, occorre esser
addentro nello spirito
del popolo e
del vernacolo viennese; mentre
a leggere e a gustare
10 Stifter è
unicamente mestieri di
conoscer bene 11
tedesco, cognizione che
ormai non deve
difettare a nessuna persona
colta non mediocremente. Alieno
dalle esagerazioni, io mi guarderò
bene dall' innalzare lo
Stifter su d'un
piedistallo più elevato di
quello che gli
competa, e mi
terrò lontano dall' infatuamento a
cui si abbandonarono
certi suoi ammiratori;
ma non è
esagerazione ne è
frutto di infatuamento
l'asserire ch'egli è
il maggior prosatore
tedesco dell'Austria. Vale
quindi la pena
che in breve
se ne discorra
la vita e
se ne tratteggi
l'indole, ponendone in evidenza
l'opera letteraria ('). Questo articolo
risulta non solo
dalla lettura attenta
delle principali opere
narrative dello Stifter,
ma anche dallo
studio della parte
più notabile di
quella assai larga
letteratura storico-critica
che in Germania
fu a lui
consacrata. A Praga
uscì nel 1904
intorno a lui
un volume di
Litigi Raimondo Hkh (Adalbert
Stifter, seiu Lehen
und seine lleite),
che quasi tocca
le 700 pagine
in-8» grande. È
un'opera bio-bibliografica
di estrema minuziosità,
corredata di un
ragguardevole numero di documenti,
condotta su molti
carteggi inediti e col
sussidio dei riferimenti
di quanti amici
dello Stifter poterono
essere consultati. Accrescono
pregio al volume,
farraginoso invero assai,
ma pure preziosissimo, la
riproduzione di tutti i
ritratti noti dello
scrittore, nonché di
una parte dei
suoi quadri e
schizzi, le vedute
dei paesaggi che
gli furono più
famigliari e di
cui scrisse, i
disegni delle case
da lui abitate
e fin dei
suoi mobili prediletti.
Più di cosi
non si potrebbe
fare! Fra gli
scritti critici intorno
allo Stifter trovo
segnalabile sempre un
libro ormai vecchio:
Enti. Kuh, ZweiDichter
Oesterreiclis, Franz Grillparzer
und Adalbert Stifter CPest,
Heckenast, 1872;. Buono
nella letteratura recentissima
il volumetto di
W. Koscn, Adalbert
Stifter eine Stadie
(Leipzig, Amelang, 1905), che
fa seguito ad
un'indagine letteraria del
Kosch medesimo, uscita
a Praga, Adalbert
Stifter und die
Bomantik. Nella alluvione
di articoli ed
opuscoli che portò
seco il centenario,
merita il primo
posto il numero
speciale (an. IV,
n. 12, settembre
1905 1 che allo
Stifter consacrò la
rivista mensile Deutsche
Arbeit di Praga,
perchè vi sono
parecchi articoli con nuovi
documenti, massime intorno
alle amicizie dello
scrittore di Oberplan.
4 L Siete
mai passati dalla
Boemia in Baviera?
11 confine occidentale
della terra boema
è naturalmente segnato da
un succedersi di
monti boscosi, che ha
il nome di
Bòhmerwald. Nella parte
più meridionale di
quella regione montagnosa
scorre limpida nella
sua giovanilità presaga
di grandezza la
Moldava, e dove
la valle prima
angusta di quel fiume
czeco si allarga,
giace in pittoresca
posizione, adagiato sulle
pendici erbose, il villaggio
di Oberplan, e i boschi
gli fanno corona.
In una di
quelle tranquille casette
dal solo pianterreno,
che tanto piacciono
alle popolazioni rusticane dei
piccoli Slavi, in una casetta
che dai restauri
in fuori, imperiosamente imposti
dal tempo roditore,
si conserva oggi
ancora tal quale,
vide la luce
in Oberplan il
23 ottobre 1805
Adalberto Stifter, da
un agricoltore che
avea dapprima esercitato
l'industria della tessitura
e dalla figlia
d'un macellaio. Non
la madre, creatura soave, «
lago senza fondo
d'amore », ritrasse
egli nella sua
lunga opera descrittiva
di uomini e
di cose, ma
l'ambiente domestico e
specialmente la nonna, Frau
Ursula Kary, nel
racconto Ileidedorf, da
lui già abbozzato
in ginnasio. Come
il Felice di
quel racconto è
in gran parte
l'autore medesimo, cosi ritrae
la figura idealizzata
dell'ava veneranda quella
vecchia nonna di Felice,
che nella sua
vita laboriosa ha
letto un libro
solo, la Bibbia,
e per 70
anni lo ha
elaborato nella vivace fantasia,
sicché le voci
della sua anima
austera e mite
trovano spesse volte
nel suo umile
discorso di popolana
la'solennità sacra dell'espressione scritturale.
Nell'infanzia dello Stifter
le narrazioni fantastiche
di quella vecchia,
non dissimili da
quelle della nonna
di Katsensitber, influirono
assai ad atteggiargli
all'arte rappresentativa l'anima
tenera e pronta,
come sul giovinetto
Goethe potè non
poco la gioconda
madre Elisabetta, inesauribile
narratrice di fiabe
e di leggende.
Se non che
sul capo del
povero Adalberto, che
faceva ormai progressi
sotto la guida
intelligente del maestro
del villaggio, Giuseppe
Jeune, s'addensava un nembo
procelloso. Nel 1817,
a 12 anni,
un tragico infortunio
lo orbò del
genitore; l'infelice madre
di lui rimase
vedova, senza mezzi,
con cinque figliuoletti.
Energicamente venne in
soccorso il nonno
materno, la cui
onesta figura è
ritratta in Granii-,
e malgrado i presagi
di qualche corvo
di malo augurio
e difficoltà materiali d'ogni
genere, egli volle
che il fanciullo
proseguisse gli studi
e lo allogò
a percorrere il ginnasio
nella non troppo
remota abbazia benedettina di
Kremsmunster nell'Alta Austria, asilo di
cultura molte volte
secolare, ricca di
libri, di quadri,
di raccolte antiquarie
e naturalistiche. Quivi il
giovinetto, sebbene strappato così precocemente
alla famiglia, vinse
ben presto il
troppo naturale sentimento
nostalgico e si
trovò, negli studi,
come un pesce
nella sua acqua.
A Kremsmunster compi
con onore l'intero
corso classico medio,
e per quel
ch'è della letteratura
influì colà massimamente
sull'animo suo il
padre Placido Hall,
che si dice
sia ritratto nel
candore dell'anima, nella
vita parsimoniosa e
segnatamente nell'amore intenso
ai fanciulli, in
quel parroco singolare
che è protagonista
del bel racconta
Kalkstein. Sin d'allora
lo Stifter si
senti prepotentemente attratto
all'arte, e gli
studi di scienze
naturali, condotti innanzi
con fervore nelle
raccolte dell'abbazia, non
intiepidirono punto in lui
l'ammirazione per la
natura bella e
grande, che gV ispirava
versi e lo
induceva a dipingere i
suoi primi acquarelli.
Cosi tra le
brune tonache benedettine,
nell'austerità d'un glande
monastero, si venivano
maturando nello ►Stifter
quelle tendenze ideali,
che dovevano costituire la
gioia ed il
tormento della sua
esistenza. Passato nel
1826 all'Università di
Vienna, fu indotto
dalle esigenze pratiche
della vita a seguire
il corso
giuridico; ma nel
tempo stesso frequentava
lezioni di scienze
naturali, di fìsica,
di matematiche, e
per impinguare un
po' il borsellino, ch'era sempre
magramente fornito, dava
lezioni private in
case signorili. Ciò
gli permetteva di procurarsi
il godimento di
frequentare concerti e
teatri, che costituivano
per lui, insieme con
le raccolte di
pittura, la massima
attrattiva. Fra gli autori
drammatici era specialmente lo Shakespeare
che gli incatenava
l'attenzione e gli commoveva
gagliardamente l'animo
sensitivo; nel suo
romanzo Nachsommer è
descritta coi colori
dell'esperienza propria la recita
del King Lear
e l'effetto che
può fare sui
giovani. La Vienna
di que' tempi
non era la suntuosa
metropoli de' giorni
nostri: la vita
vi si svolgeva
àncora semplice, bonaria,
gioconda, d'una giocondità
e d' una bonarietà
che avevan bensì
qualcosa di borghesemente
ristretto, ina tuttavia
erano tipicamente caratteristiche. Le
impressioni di que'
giovani anni, tutti
dati alla spensieratezza e
all'arte, sono descritte
nel racconto Leben unti
Hanshalt*dreier Wiener Studenten,
ove lo Stifter
narra di sè
e de' suoi
due fidi compagni,
Anton Mugerauer e
Franz Schift'er. La
Vienna di que'
giorni fu ritratta
con mirabile efficacia negli
scritti Aus dem
alien Wien, editi
dalPAprent nel voi.
II delle Vermiscìite
Schriflen; più generalmente
nota è, tra le Erzàhlungen,
quella intitolata Ehi
Gang durcìi die
Kalakomben, che descrive
una visita nei
sotterranei del tempio viennese
di Santo Stefano,
destinati a cimitero,
la cui solitudine
tetra di sepolcreti
stride con la
vita multiforme e
assordante che si agita
di sopra, nella
piazza e nel
vicino Graben, che
erano allora, e
sono in parte
anche ora, il
cuore della metropoli
austriaca. Sulla cattedrale
di Santo Stefano
meditava un libro
intero. In parecchi
altri scritti lo
Stifter ritrae con
la sua impareggiabile perizia
descrittiva qualche recesso della
vita o della
topografia viennese; ma
in nessun luogo
forse più felicemente che nella
seconda parte del
Tur mal in,
ov'è quell'aristocratico, ma
remoto, triste, deserto, cadente «
Perronsche Haus», che
nell'evidenza de' suoi tratti
ha la precisione
d'una miniatura. Cade
nel periodo di
quel soggiorna viennese
dello Stifter il
suo primo, fervidissimo,
non mai estinto
amore per la
giovinetta Fanny Greipl,
nata essa pure
nel Bóhmenvald e
precisamente nell'amena borgata
di Friedberg. Quando
quel legame si
strinse, Adalberto aveva
23 anni e
Fanny 20. S'amavano
passionata mente, con
tutto lo slancio,
con tutta la
devozione d'un primo
amore in anime
nobilmente disposte, ma
all'eccesso infiammabili. Se non
che la fanciulla
era abbastanza agiata
e lo Stifter
era povero e
senza prospettiva d'una
carriera soddisfacente. La madre
di Fanny
gli fece intendere
che non era
prudente continuare ima relazione
di cui pel momento
non si
vedeva esito alcuno,
ed il giovine
addoloratissimo si ritrasse,
pur sempre sperando
di potersi un
giorno presentare con un impiego
decoroso. Nel Nachsommer
l'amore infelice del
barone di Risach
e di Matilde
rispecchia questa condizione
psicologica; come in
Heidedorf è rappresentato lo strazio
della rottura. Giacché
la rottura definitiva
venne in una
lugubre giornata del
1833: Fanny pregava
Adalberto di non
scriverle più perchè s'era
fidanzata ad un
serio ed onesto
impiegato, che avea
la compostezza e
la borghesia grassa
fin nel nome,
Josef Fleischanderl. Si
sposarono il 18
ottobre 1836 e
la bella Fanny
moriva di parto
il 12 settembre
1839. Allora lo Stifter
era già coniugato,
perchè il 15 novembre
1837 aveva condotto
all'altare una vezzosissima
morava, Amalia Mohaupt,
poverissima, che a
Vienna faceva la
sartina c la
modista, ed il cui padre,
ufficiale a riposo,
viveva lontano, in
Ungheria, La bellezza
femminile, che potè
sempre tanto sui
sensi e sullo
spirito del nostro
scrittore, lo indusse
a stringere rapporti
con la signorina
Mohaupt, la quale
non si lasciò
sfuggire l'occasione d' un matrimonio
civile. Sinché visse
Fanny il cuore
dello Stifter continuò
ad essere con
lei: dopo si
volse maggiormente ad
Amalia ed egli
in molte lettere
disse la sua
unione felice, e
manifestò per la
moglie vivissimo affetto. Nò
si può dire
che questa non
lo ricambiasse, anzi è
generalmente riconosciuto che negli
anni infermi della
vecchiaia lo assistette
con esemplare premura.
Ma ad essa
mancarono le doti
d'intelletto e di
cultura necessarie per intendere
un uomo
di spirito non
ordinario, un artista
nato; e l'essere
rimasto quel matrimonio
senza figliuoli non
permise la comunità
d'interessi e d'affetti, che
molte volte cementa
unioni matrimoniali non
bene assortite. Vissero
insieme più di
trent'anni senza urti
e senza scosse;
l'abitudine rese tollerabile e
financo gradito un vincolo
che s'era stretto,
da una parte
per attrattiva fisica, dall'altra
per interesse. La
descrizione della visita
fatta dal maggior
biografo dello Stifter,
lo Hein, alla
vedova di lui,
sopravvissutagli sino al
1888, non ce
la mostra certo
sotto la luce
migliore. V'ha poi
in quella donna
qualche tratto, che si direbbe
tradire grossolanità di
sentimento: ad esempio,
la vendita, per
800 fiorini, all'editore
Heckenast delle lettere
a lei dirette
dal marito. Le
speranze d'un impiego
nell'insegnamento pubblico, che
lo Stifter aveva
vagheggiato nei primi
anni del suo
matrimonio, andarono deluse.
Egli viveva meschinamente
dando lezioni in
case sovratutto patrizie.
Quella del principe
di Mettermeli, di cui
istruì i figliuoli,
gli si doveva
aprire più tardi,
nel 1844. Allora
era già noto
come scrittore, poiché
il suo primo
l'acconto, il Kondor,
uscì nella Wiener
Zeitschriff del 1840,
e nel medesimo
anno comparve lo
studio Feldblumen nella
rivista Iris di
Pest. Cosi si
avviava la preziosa
amicizia dello Stifter
con l'editore intelligentissimo Gustavo
Heckenast, senza del
quale forse il
novellatore boemo si
sarebbe dato alla
pittura anziché all'arte
dello scrivere. Lo
Heckenast di Pest,
che non valeva
meno come suscitatore
d'ingegni e giudice
di produzione letteraria di
quel che valesse
come abile amministratore ed accorto
mercatante, diresse e
consigliò lo Stifter, sovvenne
ai suoi bisogni
materiali, che spesso lo
angustiavano, rinfrancò il
suo coraggio, aiutò
a diffondere la
sua reputazione di
scrittore. Abituati a
vedere troppo spesso
negli editori non
altro che sfruttatori
del lavoro intellettuale altrui, impresari
materiali e gretti
dell'opera dell'ingegno, una
specie di Medebac
sempre solleciti a mortificare
ogni slancio che
non torni d'immediata
utilità alla cassetta,
ci impone ammirazione
e quasi tenerezza
questa amicizia di
due uomini così
variamente dotati. Lo He ADALBERTO
STIFTER NOVELLATORE J1Ó
ckenast si procurò
molte simpatie presso
parecchi scrittori tedeschi; tutti
i biograti dello
Stifter ne parlano
con sincero encomio,
e di recente
A. Schlosser, col
sussidio di carteggi
inediti, ha illustrato
quella nobile esistenza.
Lo straordinario successo
che ebbero i
primi racconti dello
Stifter disseminati per
le riviste, incoraggiò
nel 1844 l'edizione
dei primi due volumi
degli Studien. Cosi
la t'ama dello
scrittore restò fissata
definitivamente e si
sarebbe'anche estesa con
maggiore rapidità, se
non venivano a
trasformarla i gravi
avvenimenti del 1848.
Lo Stifter non
era un rivoluzionario; anzi
l'insurrezione viennese di marzo
lo costernò profondamente. 11 suo
spirito mite rifuggiva
dalla violenza; le
sue convinzioni religiose
informate al cattolicesimo
gli imponevano ossequio
all'autorità costituita.
Tuttavia esagerano il
Kosch ed altri
quando lo dipingono
coinè un reazionario.
Sebbene bazzicasse, per
necessità di pane,
nelle famiglie più
aristocratiche di Vienna,
egli fu sempre considerato da
esse come un
parvenu: in quella
classe sociale trovò
una sola amica
veramente fida, la baronessa
Luisa di Eichendorff,
sulle cui lettere
al nostro autore
il Kosch ha
di recente dettato
un'interessante memoria. Nel
suo petto egli
sentiva battere un
cuore di popolano,
e sangue di
popolo era quello
che gli scorreva
nelle vene ;
sicché se della
rivoluzione, deplorava le violenze
e gli eccessi,
non era cieco
ad alcuni suoi
giusti moventi. L'uomo
che, a quanto
ci attesta Emilio
Kuh, aveva fatto
oggetto di Ilf.
speciali stadi Ja
rivoluzione francese e
area in animo
di scrivere un
romanzo su Massimiliano
Robespierre, non poteva
schierarsi inflessibile fra i nemici
della libertà e
chiudere a questa
il suo gran
cuore di artista
e di educatore.
Fondamentalmente il suo indirizzo
era di conservatore,
ma conservatore illuminato,
non arcigno, nè
intollerante, conservatore
amante del progresso
ed in ispecie
della soda educazione
popolare. Tanto è
vero che nel
decennio di reazione,
prodotto dai moti
del '48 in
Austria, una sua
antologia scolastica, ch'egli
aveva messa insieme
con l'amico Aprent, fu
dal Ministero dell'istruzione austriaco vietata in
tutte le scuole
austriache perchè troppo poco
ortodossa. I trambusti
politici mal si
convenivano al diffondersi dei suoi
racconti, sicché d'allora
in poi, tratto
dall'imperiosità degli avvenimenti
non meno che
dall'indole propria, si
diede con fervore all'educazione e
all'istruzione del popolo.
Per questa via
pervenne finalmente ad
ottenere un posto,
che gli assicurò
una posizione finanziaria, se non
lucrosa, almeno decente.
Il ministro dell'istruzione pubblica,
Leo Thun, lo nominò
ispettore per le
scuole popolari dell'Alta
Austria, con residenza
a Linz. Nel
giugno del 1850
quell'ispettorato gli fu
conferito provvisoriamente,
quasi a
modo di prova
: con decreto
del 5 febbraio
18òò l'ufficio si
trasmutò in stabile,
e nello stesso
tempo Linz, la
piccola ma ridente
città sul Danubio,
divenne la sua
seconda patria, d'onde
il nostro Adalberto
non s'allontanò, se non
temporaneamente, e dove
lasciò le sue
ossa. Nei tredici
anni ch'egli visse
colà, la sua
vita fu divisa
tra l'ufficio e
l'arte. L'ufficio lo occupava
immensamente: egli pose
ogni suo zelo
nel fare il
bene e, come
sempre accade, si
trovò impigliato in
brighe molestissime e fu amareggiato da gravi
dispiaceri. L'anima impressionabile di lui
si sentiva sopraffatta
della marea montante delle piccole
animosità, delle meschine
codardie, degli interessucci personali
molteplici, che d'ogni
parte gli facevano
ressa e gli
impedivano l'operosità
benefica nel campo
dell'istruzione. L'ufficio
in cui aveva
portato tanto entusiasmo e
tanti nobili propositi,
gli divenne poco
per volta catena
quasi insopportabile, che
rodeva il suo
fisico e deprimeva
il suo morale.
Parecchie sue lettere
ci sono conservate,
in cui dà
sfogo all'interna amarezza.
Unico conforto, nei
giorni desolati, l'arte.
Non lasciò in
pace mai nè
la matita, nè
il pennello, nè la penna.
Disegnò, dipinse, scrisse, con
crescente fervore. Accrebbe
il numero dei
suoi Studien, compose
in un volume i
Bunte Steine, donò
a riviste qualcuna
delle sue Erzahlungen,
diede opera ad
iin romanzo singolare, Nachsommer.
L'ala della sventura colpì di
nuovo, e ben
sinistramente, la sua
povera casa. Dolorosa,
sebbene attesa, riusci
allo Stifter la
morte della madre
adorata, £he segui
il 27 febbraio
1858; ma ben
più amara dovette
parergli la sparizione
tragica della sua
figliuola adottiva Giuliana
nel marzo del
1859. A 18
anni quella giovinetta
bizzarra abbandonò la
casa che Be.vier
Svaghi Critici 27
US U> AI
.Hi: li Tu
sTIK'l Kl! XoVEI.I.ATOUK In
aveva ospitata, lasciandovi
un biglie! to tor1*1 1
»1 1 1 n i
m i ti»
., p. 3. Bald.,
II, pp. 24849. Bald..
p. 161. 1-18
glie di
lui, ohe diverrà
un giorno la
protagonisti della novella
Frau Regel Amrain
(*). Fra quella
buona gente egli
si consolò alquanto
della mortificazione
sofferta; ma non
si che non
cominciasse fin d'allora quell'amarezza nel
suo spirito, che
doveva accompagnarlo per
gran parte della
sua vita e
che si suole
ravvisare quasi sempre
negli autodidatti. Là
si decise pure
a voler divenire paesista ed
ebbe la sventura
d'imbattersi in un
maestro convenzionale e
senza criterio, Pietro
Steiger che è
lo Habersaat del
Heinrich f\ Lo
jcor resse poscia di
molte viziature Rodolfo
Meyer, che è
il Roemer del
romanzo; ma Goffredo non
potè profittarne quanto
avrebbe voluto perchè
quel poveretto nel
1838 impazzì (3).
Così egli rimase
novamente abbandonato a
se medesimo e ai
suoi ideali, non
ancora ventenne. Fu
allora, dopo avere
accompagnato al cimitero
un'esile e gentile amica
d'infanzia, Enrichetta Keller, suo
primo amore, che
è la piccola
Anna del romanzo
(*); fu allora
che decise di
recarsi nella metropoli
artistica della Germania,
Monaco, per trovare
avviamento e fortuna.
Vi trovò invece
qualche ebbrezza momentanea,
la compagnia diversa di
artisti scapigliati, ma
nessun profitto serio,
anzi la convinzione
di essere un
pittore Bald., p. 27.
Bald., p. 30. Bald.,
pp. 38-39. (4)
Bald., pp. 40-41.
Anche, la Giuditta
de] romanzo ha
un fondo di
vero, ma che
si lascia meno
precisare. Cfr. Bald.,
p. 42. ALC'UNC'HK
VI GOFFRp:r>0 KELLKK
J40 mancato l'i.
Questo fa il
dramma della sua
giovinezza, descritto con tcaftrheit
unti diclitung nelle
pagine deìVJùirico, rappresentato
nella più inde
schiettezza dalle lettere
alla "madre, che
il Baechtold ha
fatto conoscere. Quella
povera madre si legava
il pan di
bocca per soccorrere
il figliuolo, che continuamente
le chiedeva danaro
e danaro, ed
era ingolfato sino
agli occhi nei
debiti. Finalmente, nel
1842, battè melanconicamente la
via del ritorno,
senza trovare sulla
sua via nessun cónte
benefico e romanzescamente mecenate,
ma, in compenso,
trovando ancor viva
ed arzilla la
genitrice con la
sorella. Dal 1842
al 1848 stette
a Zurigo, in
famiglia. Viveva fra
gli stenti, ma
almeno non pativa
la fame. E
a poco a
poco si venne
allora svegliando .
in lui lo
scrittore; anzitutto il
lirico, al contatto
dei commovimenti politici
del tempo, poi
il narratore e descrittore.
Non potè gran
fatto su di
lui un secondo
amore, pure sfortunato,
per Luisa Rieter
di Winfcerthi.tr, la
amabilissima Figura Leu
del Landvogt von
Greifensee^): ormai egli
aveva Ben lo dice
Max Koi'H (ffeseh.
der deutxchen Lite-rat»
r, Stuttgart, 1895)
« gleich Scheffel,
ein verungl iickter Maler
» (p 255).
Questa è pure
l'opinione di C.
Brcn, (*). Cominciò
anche a pensare
al romanzo del
pittore mancato, al
Grune Heinrich, che condusse
a termine in
mezzo ad incertezze, a
pentimenti, ad interruzioni,
e poi rifece
durante una lunga
serie d'anni (3).
Intendeva, peraltro, il
Keller che a
divenire scrittore gli
era mestieri di
allargare e consolidare la propria
cultura. Ottenne, pei1
buona sorte, un
sussidio dalle autorità
cantonali e con
esso potè recarsi
e vivere prima
a Heidelberg, poi
a Berlino. A
Heidelberg giocondamente, freBald.,
I, p. 193. Bald.,
I, p. 89.
Non era dir
poco, perchè al
K. la birra
ed il vino
piacevano assai. Cfr.
B., II, pp.
320-21 e III,
p. 124. L'abitudine
teutonica del kneipen
non la smise
mai. Cfr. Bald.,
pp. 219, 227,
316-17. In B., Il,
pp. 33 sgg.
è narrata e
documentata la storia
del Grane Heinrich.
quentando l'università
e stringendo relazione
col filosofo Feuerbach,
che influì massimamente
sul concetto religioso
del nostro scrittore
('); a Berlino, ove
dimorò dal 1850
al 1855, con
grandi privazioni, messo
di nuovo per
una strada che
non era la
sua, quella della
drammatica (*)• Per
buona ventura se
n'accorse in tempo
e non vi
si incaponì, come
nella pittura. Egli
aveva ormai la coscienza
della propria potenzialità
artistica e sorretto da
essa tornò di
nuovo a Zurigo, dopo
sette anni non
infruttuosi di dimora
in Germania. Aveva
cominciato a scrivere
novelle, e tra novelle
e liriche prosegui
per il resto della
sua vita. Dal
1856 al 1861
visse tranquillo nella sua
città svizzera, che
non era ancora
il fiorente centro
industriale d'oggigiorno, conoscendo molti spiriti
eletti, tra cui
Riccardo Wagner, ch'egli ammirava
(3). Nel 1861
un colpo di
buona fortuna gli
procurò l'agiatezza con
la nomina di
primo cancelliere del
cantone di Zurigo, impiego che
egli tenne con
zelo ed intelligenza pei1 quindici
anni. Quell'occupazione, che
non era puramente
materiale (*), valse
a disciVedi B.,
I, pp. 832-38.
3ti3, J07-8. La
religiosità del K.,
conforme al suo
ideale repubblicano, scostavasi
da] cristianesimo come da
qualsiasi altra religione
positiva. Cfr. O.
Fikjmmei.. (iottfr. Ketlers
relitjitìse Entirickluni), iu
Deutsehe liunclschau. voi.
Ili (1802i, pp.
367 sgg. In appendice
al II voi.
de] B. souo
pubblicati gli abbozzi drammatici delK.
Teresa è l'unico
condotto abbastanza innanzi.
Cfr. anche Bali».,
pp. 104-7. B., II,
pp. 307 sgg.
i li lUus,
p. 211. .
plinare il suo
spirito, che fino
allora non ora
stato costretto da
veruna disciplina (').
La madre vecchierella,
chiudendo gli occhi
nel 1864, aveva
la consolazione di
lasciare il figliuolo,
che le aveva
costato tanti sacrifizi,
in buona condizione
materiale e generalmente onorato.
Nel 1869 l'università di Zurigo
lo creava doclor
honoris causa. Per
poter attendere con
maggior lena a'
suoi scritti, si
dimetteva nel 1876
da cancelliere, e
con la sorella,
che gli fece
da massaia, visse
per dodici anni vita
semplice e quieta.
Regala gli mori
nel 1888 ed
egli ne fu
afflittissimo, sebbene il carattere
di lei
(e specialmente la sua levatura)
molto differisse da
quella del novellatore.
Nel 1889, quando
la Svizzera e
la Germania commemorarono il suo
settantesimo natalizio, gli fu presentata
una medaglia disegnata
dall'amico dei suoi
vecchi anni, il
celebre pittore Bocklin
('). Egli l'ammirò
senza dir parola,
ma le lacrime
gli spuntarono sul
ciglio e concluse:
« Signori, «
è la fine
della canzone, das
Elide rom Lied!
« Sento che
non ne avrò
più per lungo
tempo » (3).
Un anno dopo,
il 15 luglio
1890, egli non
era più di
questo mondo. (li
B., II, pp.
817-1». L'effigie della medaglia
è riprodotta uell' Eniporium, li
(1*4*5.1, p. lt>4,
ed ivi a
p. loft é pure la
bella incisione dello
Staiiffer che rappresenta
il K. seduto,
in età già
avanzata. Per l'amicizia
col Bocklin vedi
B., Ili, p.
315. Bami., p. 368.
L'ultimo anno della
vita del K.
è descritto de
L'ita da Adolfo
Frey nella Deutsche
Rundschau Vigorosa, se
non molto simpatica,
natura d'uomo; diritta, rude,
sincera, con gli
altri e, quel
eh' è più raro,
con sè. Uomo
talora, nella sua
irascibilità, alquanto
grossolano: diffidente e
acido negli ultimi
anni, ma non
mai vano uè
fatuo. Semplice, solido,
ordinato come un
perfetto borghese,
senz'averne né la
pedanteria uè il
filisteismo. Patriota,
liberale, larghissimo nelle
idee. Innamorato della
sua arte: multiforme
nell'umorismo: svizzero. * Sopratutto
svizzero. L'elvetismo di
Goffredo Keller è
la sua gran
forza: si percorra
la storia letteraria della
Svizzera tedesca (') e si vedrà
ch'egli ne raccoglie
l'eredità intellettuale e
molale. Egli è
perfetto rappresentatole, paesista
della penna, ora
idillico ora umorista,
ora pensatore oia fanciullo.
Ha degli svizzeri
tedeschi l'ingenuità primitiva
e giuliva, ed
a tempo e
luogo la causticità
e la riflessività
melanconica. E uno
scrittore tipico della
sua razza e
come tale vuol
essere studiato ed
amato. S'è detto
e 'ripetuto ch'egli subì
gl'influssi del Richter
(Jean Paul) e
dei romantici tedeschi.
Tieck, Brentano, Amadeo
Hoffmann; fu accostato
remotamente allo Sterne, prossimamente
a quel suo
connazionale pastore d'anime
ch'ebbe in letteScrìsse
egregiamente questa storia
J. Baechtolh, (lescltichte
der ileulnchen Litentlur
in rìer Hrhiceiz,
Frauenfeld, 1892. ratura
il nome di
Geremia Gotthelf e
che, con intento
di moralità, osservò
e rudemente ritrasgg
tanta parte della
vita popolare svizzera
('). Non dirò
che codesti avvicinamenti
siano fuori di
luogo; ma in
realtà il Keller
ha una personalità
artistica tutta propria,
che si stacca
da ogni modello. Romantico nel
fondo, come ogni
buon tedesco, ha talora
crudezze di realismo
che lo avvicinano allo Zola,
ha talora ironie
e stridori di
contrapposti che fan
pensare allo Heine
(*). Ingegno lirico
il Keller non
fu, sebbene scrivesse gran numero
di poesie, alcune
tra le quali
felici, ma le
più mediocri (3).
Manifesta anche nella
lirica un senso
vivo della natura;
ma è troppo
ragionatore, troppo epico,
se cosi fosse
lecito esprimersi. Questa medesima
tendenza epica gli
fu d'intoppo a
riuscire nel dramma.
Ne gli valse
abbastanza pel romanzo:
notai già i gravissimi
difetti di composizione
dett' E)i>-ico il Verde:
difetti non dissimili
si possono ravvisare
Quest'ultimo confronto è
di J. BnritnKAC
in un articolerò, npl resto
superficiale e poco
sensato, intorno al
IC, che si
legge npl volume
Po°le.i et humorisleit
tip V Alleniityne,
Paris, Hachette, 1H0(>. Sui
rapporti del K.
con lo Heine
vedi B., 11,
pp. 32.~> sgg.
Non é troppo
giusto ciò clip
osserva in proposito
il Tìai-d. a
p. 361. Ampio e
pazientissimo lavoro è
quello di P.vrr.
Bui xsek. Slmììen
unrì BeilrOge zìi
Gotlfr. Krìlers Li/rik.
Zurich. lHOli. Col
confronto dei mss.
vi è studiata
la tecnica della
lirica kelleriana; con
l'aggiunta di poesie
oramai divenute rare
e d'un poemetto
inedito. Sulla lirica
del Keller leggasi
un articolo del Sri-GER
GrEBi.so nella Beilage.
rìer Milm-hener Xeueslen
Ximhrifihle.ii, nel Martin
Salander, romanzo della
vecchiaia, composto fra
il 1881 ed
il 18815 con
intento sociale e con
quella fosca concezione
pessimistica del presente,
che trionfava in
quel tempo nel
romanzo russo e
nel dramma ibseniano.
Dell'opera amara, in
cui prevale la
proverbiosità querula d'un
laudato»' temporis adi,
l'autore stesso fu
malcontento (,'). Prescindendo
dalla tendenza che vi è
palese, lontana troppo
dalla serenità dell'arte e
dall'ottimismo proprio allo
spirito del Keller,
due difetti suoi
vi riescono quasi
insopportabili, la
prolissità e la
ineguaglianza. L'ineguaglianza
che il
Keller aveva nel
carattere è anche
nella sua arte:
questo il motivo
principale per cui la
sua innegabile inclinazione
all'epica non potè svilupparsi
bene nel largo
quadro del romanzo. La
novella, invece, era
il componimento che
meglio gli si
confaceva. Paolo Heyse
lo proclamò un
giorno « lo
Shakespeare della novella*
>, e questa
designazione fu ripetuta
da più di
uno. Non esageriamo
e non tiriamo
in ballo certi
santi, che è
meglio lasciare nel
loro paradiso. Goffredo
Keller era troppo
tozzo per poter
raggiungere in alcun modo
la statura gigantesca
di Guglielmo Shakespeare.
Tuttavia giova riconoscere che come
novellatore egli è
davvero ragguardevolissimo,
uno dei
più ragguardevoli e
significativi e rappresentativi, forse,
che abbia avuto
l'Europa nel secolo
XIX. Bald., p.
320. ALCUNCHÉ DI
GOFFREDO KELLER Lo
tre raccolte di
novelle del Keller
tendono tutte a
raggrupparsi intorno ad un concetto
unico, che funge
in vario modo
da cornice. È
l'antica consuetudine delle
raccolte novellistiche indiane,
di cui i
più insigni documenti
occidentali sono il
Decameron ed i
Canterbury tales; ma
come fu osservato,
per l'intento didattico
della cornice il
Keller s'accosta all'India
più che al
Boccaccio, a' suoi seguitatori
italiani e allo
Chaucer ('). Nella
Gente di Selcila
(Die Leale ron
Seldicyla), raccolta di
dieci novelle, le
prime composte tra
il 1853 e
il '55, le
altre uscite solo
nel 1870, Selvila
è una città
immaginaria, collocata leggiadramente a solatio
« irgendwo in der Schweiz
», in qualche
parte della Svizzera,
sicché le novelle
che s'inquadrano nei
pressi di quella
cittaduzza, cinta di
vecchie- mura epacificamente assaporante
la carezza del
sole, che fa
maturare le sue
uve e fa
sorridere le sue
case, rappresentano vari
aspetti del carattere
elvetico, o meglio
dei campagnoli e dei
borghesi della Svizzera
tedesca (*). Le
Nocelle zurighesi (Zùricher
Norellen), cinque di numero,
uscite in redazione
definitiva solo nel
1876, hanno bensì
tutte uno scopo
storico, quello di
presentare lo spirito
svizzero in varie
età, dall'evo medio
al sec. XVIII,
il periodo fedi Cfr.
W. Scheheh, nella
Deutsche lìuntìm-h^, voi.
17, p. 824.
Non devesi tuttavia
dimenticare che anche
i novellieri nostri avevano
V intenzione di
ammaestrare. (•2) Scrivendo
quelle novelle pensava
il K. che
ne venisse •
ein artiger kleiner
Dekanieron come è
detto in una
sua lettera del
16 aprile 185U.
Vedi B., II,
p. 350. ALCUNCHÉ
DI GOFFREDO KELLER
tó7 lice del
Bodmer e del
Gessner; ma almeno
le tre prime
s'incorniciano nell'ammonimento che
un saggio padrino
vuol impartire al
giovinetto Giacomo, il
quale ha il
ticchio di voler
riuscire ad ogni
costo originale. È,
in altri termini,
una lezione esemplificata
di ciò che
vale e vuol
dire la vera,
la buona originalità.
Anche Vepigrauiìna (I)a$
Sinngedicht), se non
una vera e
propria cornice, ha
un leitmotiv, il
matrimonio ed i diversi
e gravi
problemi matrimoniali, che
trattennero sempre il Keller,
pur tanto ammiratore
del bel sesso
ed amico di
più d'una donna,
dal decidersi ad ammogliarsi.
Se mi si
chiedesse quale di
queste raccolte di
novelle io stirai
la migliore, sarei
alquanto imbarazzato nella scelta,
giacché in tutte
soavi racconti notevolissimi e
di sommo significato.
Tuttavia a noi italiani
le Nocelle zurighesi,
sature d'una storicità
che è lontana
dalla nostra, riescono alquanto pesanti,
e lo stesso
Landvogt con Gveinfensee,
che presenta tipi
di donne e
tii amori con
un umorismo sempre
fresco e vivo,
è tale da
apparirci in qualche
parte alquanto puerile
e grossolanuccio. Il
Sinngedicht è troppo
teoretico, mentre vere gemme
rifulgono nella Gente
di Selcila. Non
già che anche
nella raccolta selvilana
non s'intravveda spesse
volte il desiderio
di dimostrare e di
ammonire; nel Panhras
è l'idealista rinsavito nella
lotta rude per
l'esistenza; in Fvau
Hegel Amrain è
una vera tesi
pedagogica in azione,
una madre retta
e saggia, che
riesce 458 ALCUNCHÉ
DI GOFFREDO KELLER
il condurre al
bene un figliuolo
fantastico ed un
marito stravagante; in
Das verlorene Lachen
s'impone la questione
religiosa fra coniugi
ed è propugnata
la religiosità indipendente
da qualsiasi setta. Ma
per me non
sono le tesi
morali che maggiormente
m'appassionino; anzi di
esse farei volentieri
a meno. La
tesi è sempre
un pericolo per l'artista.
Ma in queste
novelle il Keller seppe
svincolarsi da ogni
preconcetto estraneo
all'arte; e nel
plasmare caratteri, e
nel descrivere paesaggi ed
ambienti, e nel
far muovere le
anime e le
persone, riuscì quasi
sempre magistrale, spesso persino
ammirevole. Ed ammirevole è
pure la varietà
somma di queste
novelle, dal gustoso
apologo del Gatto
Spiegel, graziosissimo scherzo
dei tempi in cui le
bestie parlavano, ove lo
Spiegel è un
onesto campione di
quella categoria di
gatti filosofi a
cui appartiene il
Murr dello Hoffmanu
e lo Hiddigeigei
dello Scheffel; a
quella Storia di
tre giusti (Die
(Irei gerechten Kammacher),
che piaceva tanto
a colui che scrisse
i Maestri cantori,
perchè è una
impareggiabile pittura, grigio
su grigio, di caratteri
borghesi senza slancio
e senza poesia;
a quella poetica
e passionale storia
di Giulietta e
Romeo villerecci (Romeo
und lìdia aufriem
Dorfe), che fra
le novelle del
Keller è forse
la più meritamente
celebre. Questa storia
di amore e
morte fu paragonata,
non bene, ad
altri rammodernamenti di
temi shakespeariani, come
ad esempio, V
André Cornelis di
Paolo Bourget (').
(lj Bai.d, p.
1G8 n. i Non
bene, mi sembra
perchè lo' Shakespeare
c'entra ben poco,
nel titolo e
nello spunto iniziale dei
due giovani, innamorati,
tìgli di genitori nemici. Il
fatto è ispirato
ad un lugubre
stellone di cronaca
giornalistica: un giovine
di 19 anni
ed una fanciulla
di 17, figli
di povera gente,
repugnante alla loro
unione, che, il
12 agosto 1847,
dopo essersi divertiti
in un albergo
e dopo aver
danzato buona parte
della notte si
suicidarono insieme ('). A questo
fatterello cupo c
purtroppo non del
tutto straordinario nel nevrotismo dei
giorni nostri, il
Keller seppe dare
elasticità e grandiosità
epiche. T due
contadini Manz e
Marti, che arano
i loro campi
vicini, e poi
per una di
quelle lotte di
proprietà che i
coltivatori della terra
sogliono proseguire con
tanta cocciutaggine, diventano
nemici, consumano in
querele giudiziarie tutto
il loro, s'immiseriscono e s'incanagliano; sono
figure che potrebbero palpitare nella
rude Terre dello
Zola. Di contro
a tanto realismo,
con un contrasto
strano, spiccano le
due creature, ingenue
fino all'idillio, di
Sali (0 Salomone),
figlio di Manz,
e di V
re lichen o Vreeli,
figliuola di Marti,
che cresciute por
alcunJ*nnni insieme, si
rivedono nell'età critica, e
si amano con
uno di quelli
slanci fulminei verso l'amore,
che è sete
di felicità in
chi si trova,
sul fiore degli
anni, immerso nella
miseria materiale e morale.
A quella felicità
hanno contro tutto,
uomini e cose;
ma essi vogliono
B., II, pure
saggiarne e poi
morire; passano una
giornata da signori, ballano
a perdifiato, e
poi s'adagiano su d'una
barca carica di
fieno, che mentre lenta
va alla deriva
pel fiume è
il loro talamo, e
da cui scivolano
abbracciati, in sul
primo imbiancarsi del
cielo, nell'acqua gelida.
Non molte volte
la prosa tedesca
è riuscita ad
assumere, come in
questa splendida novella,
la grandiosità calma
e solenne dell'epopea.
Ma v'è un'altra
operetta del Keller
a cui io
do una grande
importanza, e che
mi sembra in
tutto degna dell'autore
della raccolta selvilana:
Sieben Legenden. Queste
leggende erano già
scritto nel 1 862
; ma solo
dieci anni dopo
videro la luce
(' ). Da
telluì-ista impenitente, il
Keller vi ha
rinarrate, dando loro significato
e sapore terreno,
certe leggende pie
da lui lette
nella raccolta di Ludovico
Teobulo Kosegarten (*>.
Non sono veramente novelle; ma
alle novelle s'accostano;
tresche, semplici,
adorabilmente scritte. Lo
stile del Keller
non raggiunse altrove
trasparenza siffatta. In
alcune, come nelle
tre leggende mariane
e nel San
Vitale, il sarcasmo
del protestante e
la canzonatura del razionalista
stridono talora un po' troppo
sul fondo armonioso;
ma altre, rome
k'ngenia e specialmente
La danzatrice (Das
Tanslegendchen), sono mirabilmente
svolte, con una
poesia candida ed
olezzante, non turbata,
ma resa piccante,
da qualche inciso
lievemente ironico. La interpretazione terrena
di poetiche tradizioni
cristiane, se anche
nasconda il sorriso
di uno scettico,
non è qui
profanazione, perchè l'arte
vera e delicata
non è profanatrice
mai. Fuori dei
paesi di lingua
tedesca il Keller
è pochissimo noto.
Parecchie sue novelle
furono tradotte, alla
spicciolata, in francese
(.'); nella lingua nostra
si hanno traduzioni
d'un apologo, di
due novelle del
Sekhcyla e di
due canzoni. Con
poca lode registra
queste traduzioni il
prof. Carlo Fasola,
che non senza
certa amorosa diligenza
scrisse del Keller
in un articolo
della sua Rivista mensile di
letteratura tedesca (*).
Ma egli trascura
l'infelice versione e
riduzione italiana del
Grime Heinrich, ch'è
l'unico libro per
mezzo del quale
chi non legga
il tedesco può
formarsi tra noi
una pallida ed
incompiuta idea del novellatore
svizzero (3). Il
Fasola nel 1907
asseriva che da noi
« questo scrittore
veramente grande pare
ancora un Cameade
» ; nel
1876 lui vivo,
la signora Emilia
Ferretti nata Viola,
(1; Vedine l'elenco
in Bald., p.
505. l'2l Voi.
I 11902), pp.
292 sgg. Con
piccole varianti, è
il medesimo articolo ch'era
comparso neWEmporium. voi.
II (1895), pp,
163 sgg. In
quest'ultimo luogo v'è
in più l'illustrazione grafica,
pregevole, alla quale
già rimandai. La traduzione
poco decente usci
anonima nella Bibìioteca
della Rivista Minerva
col titolo Enrico
il Verde, romanzo
biografico, Roma, Società
edit. Laziale lo
diceva « nome
quasi ignoto all'Italia
», e con la buona
intenzione di farlo
conoscere scriveva su
di lui alcune
pagine assai superficiali
ed in parte
false, riassumendo la
novella di Giulietta
e Romeo Sta
il fatto, peraltro,
che il nostro
novelliere non è
tra quelli scrittori
che possano godere
di molta fortuna
all'estero. Le qualità
sue medesime di elvetismo e
di umorismo lo
rendono estremamente difficile
per chi non
abbia famigliarità col
suo paese e
con la sua
lingua. Intenderlo e
gustarlo nelle traduzioni
non si potrà,
se anche le
traduzioni saranno buòne, ciò
che avviene rosi
di rado in
Italia, quando si
tratta di prosatori
tedeschi. Conosceva il
Keller l'italiano, come
provano le letture
ch'egli faceva nel
XWiSò per un
dramma, disegnato e
non mai eseguito,
sul Savonarola (').
Ma di influssi
della letteratura nostra
su di lui
non v'ha traccia,
anzi appare da
qualche lettera ch'egli
non aveva per
gli italiani soverchia
simpatia (*). A Ludmilla
Assing, che viveva
a Firenze ed era
amica del Mazzini
e di parecchi
altri « italiauissimi »,
parla talora di
cose italiane ('i;
ma senza il
minimo interessamento :
anzi, quando quella
povera Assing è
travagliata da sventure
Vedi l'articolo firmato
Emma nella Xuoea
Antologia, Serie II, Voi.
31 (aprile 1876>,
pp. 711 sgg.
11 Jv. s'indignò
per quell'articolo, come
appare da una
sua lettera ad
Adolfo Exner. Cfr.
B., Ili, p.
230. B., II, p. 26.
Vedi B.,
Ili, p. 207
e anche II,
p. 355. coniugali,
ne scrive ad
altri con grossolano
disprezzo, uè per la
sua morte, avvenuta
nel 1880 in
Firenze, dopo accessi
di pazzia, trova
parola alcuna di
rimpianto ('). Ebbe
bensì l'idea di venire
in Italia: ma
non ne fece
nulla. Gli mancava la
grande curiosità del
viaggiare. Si recò
solo in qualche
parte della Germania
e dell'Austria; non percorse
neppure compiutamente la sua Svizzera;
non fu mai
nè nell'Engadina nè
nell'alto Bernese, santuari
del solenne alpinismo:
solo a sessantanni,
nel settembre del
1878, si decise
a salire sul
Rigi! (*) Spirito
chiuso ed alquanto
arido, non aveva
le grandi espansioni
ed i grandi
bisogni comunicativi degli intelletti
d'arte superiori. E sarà sempre
straniero a coloro
che furono stranieri
per lui. Nota
aggiunta. — Inserito
ue.1 Faiifnlla della
domenica del •20
giugno 1909. B..
III. pp. 151,
15tt, J5SI. (-2)
Bald., p. 2X1.
Arlecchino. Verso la
fine di febbraio
del 1899 corse
voce per Bergamo
alta, e ben
presto si diffuse
nelle vie anguste
fiancheggiate da foschi
palagi e tra
i rari viandanti
dei magnifici viali,
che si svolgono sulle antiche
mure attestanti veneta
munificenza, onde l'occhio domina
panorama cosi variato e
grandioso; corse voce
che nella civica
biblioteca scartabellava libri
da più giorni
un tedesco, con l'intento
di mostrare che
Arlecchino non era
bergamasco d'origine. Dove
mai si ficca
codesta nasutissima e
dottissima teutonica oltracotanza?
O che ne
sarebbe dunque di
quel vecchio Alberto Ganassa,
rinomatissimo zanni di
Bergamo, che secondo
incontestabili documenti, avrebbe
ideato il variopinto
folletto, poco dopo
il lóTO, rendendolo
famoso in Francia
ed in Spagna?
(l) E che
avverrebbe d'una tradizione
costante, durata per
secoli, nella commedia
del (1) Il Baschet,
nel suo noto
volume sui comici
italiani in Francia,
dà di Ini
molte notizie. Vedi
anche D'Ascosa, Origini del
teatro italiano, seconda
edizione, II, segg.,
e ora le
Voticias biografica! de
Alberto Ganana, comico
famoso del siglo
XVI di E. Cotaeei.o y
Mori, in Recista
de archimi, bibiotecas
y museos. serie
III, an. XII,
n. 7-8. l'arte
e nel pubblico,
nelle scene goldoniane
e nell'umile baracca
del burattinaio? Tanta
petulanza non si potea
tollerare. E nelle
stanze del bel
broletto gotico ov'ba
sede la biblioteca,
là su quel
piazzaletto delizioso che
è al culmine
di Bergamo alta,
e su cui
guardano le venerande
min a della
chiesa di S.
Maria Maggiore, ed occhieggia
il rinascimento con
la elegante cappella
Colleoni, sfilarono popolani
bene informati, che
misero in opera
tutta la loro
pittoresca eloquenza dialettale,
per distogliere lo
studioso tedesco dall'idea pazza di
dare ad Arlecchino
una patria che
Bergamo non fosse.
Fra le parecchie
curiosità che gli fecero
vedere una ve
ne fu specialmente gustosa: lo
condussero nella bottega
d'un droghiere, ove
gli additarono dietro
il banco, tutto
occupato a servire
i suoi avventori,
l'Arlecchino carnevalesco
della Bergamo d'oggi,
Giuseppe Tironi.
Interrogato, egli espose
con grande semplicità,
senza interrompere le sue faccende,
la propria storia
arlecchinesca: come, cioè,
dal 1874 egli
abbia vestito la
maschera e la
incarni, in fin
di carnevale, non
solo a Bergamo,
ma anche a
Lecco enei carnevalone
a Milano; come
quelle rappresentazioni gli
costino grande fatica
e richiedano agilità
straordinaria, che non
consegue se non chi
abitui le membra
dalla giovinezza a siffatta
ginnastica; come purtroppo
il pubblico cittadino
s'interessi sempre meno
alle arlecchinate (a
quelle almeno popolaresche,
di cui il
Tironi è ingenuo
e rispettabile rappresentante!), sicché si
può avere il
malinconico pre ARLECCHINO
sentimento che tra
qualche anno passerà
in Bergamo il carnevale
senza che Arlecchino
riviva. Lei signora
Tironi, non senza
qualche compiacenza, mostrò allo
straniero il costume
del marito, ed egli
ebbe la degnazione
di dar qualche
saggio dei suoi
lazzi prendendo in
mano la spatola, acconciandosi sulla
testa il cappelluceio
moscio con la
coda di lepre,
e assestandosi sul
volto la maschera
nera, orribile a
vedersi, scimmiesca, col naso
l'incagliato, gli occhi
tondi e infossati, la
barba ispida e
scura. Tale l'Arlecchino
Tironi. E chi
dubiterà, dopo averlo
veduto, che Bergamo
sia la vera
ed unica patria
della maschera gaia, mobilissima,
spiritosa talvolta nella
sua infinita sciocchezza?
La investigazione scientifica
non si tien
paga a codeste
prove, in cui
entra per tre
quarti il sentimento,
e dubita e
scruta ormai da
lunghi anni. A
quelle curiosissime apparizioni
che sono le maschere
della nostra commedia
improvvisa, onde andarono
famose in tanta
parte d'Europa le compagnie
comiche italiaue, si
volse ben presto
l'attenzione degli eruditi. Vi
fu un tempo
in cui prevalse l'idea che
quelle maschere avessero
origini assai remote,
e per analogie
esterne furono richiamate a
certe figure dei
mimi e delle
atellane, che i
Romani avevano in
gran parte ereditate
dai primitivi popoli
italici. Allora negli
zanni si vollero
vedere gli antichi
sanniones, nel dottore
A R LECCHI NO il
vecchio dossenno, nel
pantalone il pappus,
nel capitano il
rnues gloriosus, nel pulcinella
il inaccus atellanico,
nell' 'arlecchino il centunculus
dei mimi, dal
vestito rappezzato (').
Ma ad una
più attenta considerazione non
potè sfuggire che
ben tenui sono
i rapporti tra
le maschere tradizionali e quelle
antichissime figure comiche
di cui si
sa tanto poco;
ed inoltre si
obiettò giustamente che la
continuità di quei
tipi non si
può in modo alcuno provare,
sicché sombrerebbe che
d'un tratto rispuntassero
nella seconda metà
del sec. XVI,
mentre per secoli
e secoli non
se ne ha
veruna memoria. È
ben vero che
delle farse e
commedie popolari dell'età
di mezzo a
noi son giunti
scarsissimi vestigi e
che forse, bene
indagando, certe
caratteristiche di personaggi
comici persistono, variamente
atteggiate nello spirito
medioevale ('); ma è
altrettanto vero che
gli argomenti sinora fatti
valere non bastano
a darci fondata
convinzione d'una continuità
di tipi durata per
un periodo cosi
lungo. Specie per
quel che riguarda
Pulcinella, rimasero senza
confutazione gli argomenti che
tra noi addusse
lo Scherillo in
favore della modernità
di quella iliaci) In
Italia fu rappresentante principale
di questa tendenza il
prof. Vincenzo De
Amicis, di cui
sono conosciute due
pregevoli dissertazioni sulla
nostra antica commedia,
edite nel 1871
e nel 1882,
la prima anzi
ristampata nel 1897
con qualche modificazione
ed aggiunta. Vedasi specialmente
quel che osserva
intorno alla continuità del miles
gloriosus il Xovati,
nel Giornale xtorir.o
della letteratura italiana,
V, 27il segg.
Cfr. pure Gii,
Skniciaglia, Capitan
Spavento, Firenze, 1899.
ARLECCHINO schera (*);
anzi essi furono
rincalzati da Benedetto Croce (2),
allorché il Dietrich
cereo di ravvisare
gli antenati di
Pulcinella nei freschi
pompeiani Se anche,
peraltro, si voglia
ammettere, come 10
inclinerei, che certe
innegabili analogie tra
le nostre maschere
ed i tipi
comici antichi si
spieghino con quella
uniformità fondamentale nelle
manifestazioni dello spirito
umano, che ha
la sua più
eloquente dimostrazione nella
monotonia essenziale dei canti
e dei temi
novellistici, sicché tipi
e spedienti comici
analoghi, se non
identici, si ripresentano
sulle piazze e
sulle scene per
un ricorso spontaneo
necessario, non implicante in
renimi guisa imitazione;
resta pur sempre curioso l'investigare
in qual guisa
ed in qual
luogo la comicità
tipica delle maschere
siasi venuta fissando.
Ora lo studioso
tedesco, a cui
accennavo nel principio
di quest'artìcolo, 11
dottor Otto Driesen,
è già da
parecchi anni occupato
dall'arduo problema della
primitiva formazione di
Arlecchino, e finalmente
ci ha dato
in proposito un
libro pieno di
molta ed in
gran parte originale
dottrina i4), che
emi ri) La ronimeilia
dell'arte in Italia,
Torino, IP&l. (2j
In un articolo
pieno di osservazioni
acute ed originali,
che comparve nel
volume XXIII AeW
Archivio storico per
te Provincie napoletane.
(iJj Non credo
che di molto
si possa modificare
la convinzione degli eruditi
per la dotta
e recentissima opera
di HkhiiAxs Kkich.
Der Mimits, di cui usci
il primo volume
a Berlino nel
1903. i4i Der
T'rsprung des Harlekin,
Berlin. Duncker, 1904.
470 ARLECCHINO ferma
i risultamene a
cai erano giunti,
quasi divinando, altri
studiosi, come il
Littré nel suo
celebre Dictionnaire ed
il demopsicologo russo
Alessandro Wesselofsky (').
La dimostrazione del
Driesen tende a
farci vedere che
il sollazzevole servitore balordo,
i cui lazzi
inducevano un tempo
al riso anche
bocche aristocratiche e
poi lungamente formarono
la delizia dei
volghi; colui che
divenne famoso con
Tristano Martinelli in
Francia ed in
Spagna, e poscia,
in pieno seicento, ingentilito da
Giuseppe Domenico Biancolelli,
ebbe l'onore di
godere la intrinsichezza di
re Luigi XIV,
e nel secolo
successivo in sè
riuniva, per mezzo
di Giov. Antonio
Sacchi, gli elogi
di due grandi
rivali, Carlo Gozzi
e Carlo Goldoni
(*), per finire
straviziando, nel sec
XIX, con Antonio
Papadopoli (s); colui
che ebbe una
storia non lunga,
ma brillantissima, ed
accanto all'astuto suo
compaesano Brighella, contribuì
tanto alla fortuna
del nostro teatro
a soggetto, per essere ora
ridotto al lumicino,
come dicono le
malanconiche confessioni del
bergamasco Tironi, che
forse è l'ultimo
ad impersonarlo in
fi) Di lui
sono specialmente notevolissime
in proposito 1p
pp. 8144-86' del
Giornale storico della
letteratura italiana, volume XI,
1888. Chivoglia specificate notizie
di tutti questi
attori legga la
benemerita opera di
Lumi Rasi, 1
comìrì italiani. I,
48(1 sgg.. II, 95 sgg.
e 490 sgg. Circa
il Papadopoli arlecchino
vedi G. Petkai,
Lo spirito delle maschere,
Torino-Roma, 1001, pp. 10 sggIl
Rasi. Op. cit.,
II, 215, non
accenna punto ch'egli
abbia sostenuto questa
parte. carne ed
ossa, mentre continua
a vivere, umilissima testa di
legno, nelle povere
baracche dei burattini
(!); non è
nato in Italia,
ma in Francia,
ed è la
trasformazione di un
diavolo. * *
Diabolico invero è
il suo ceffo
quale lo conserva il
Tironi, a cui
dobbiamo esser grati
pel prezioso arcaismo
della sua maschera,
resa invece tanto più
leggiera e fin
leggiadra dagli Arlecchini
meno popolari di
lui. Il Driesen
rinvenne nell'archivio del teatro
dell'OjBcVrt in Parigi due
altre antiche maschere
di Arlecchino, che
hanno aspetto ancor
più orrendamente selvaggio e
satanico, e le
riproduzioni fotografiche ch'egli
ce ne offre
sono davvero significantissime. Rimontando
indietro nei secoli,
troviamo narrata dal cronista
normanno Orderico Vitale
una visione occorsa
nel 1091 al
prete Gaucheliu, il
quale vide una
notte « gentem
Ulani fantasticam quae
vulgodieitur/rt»uV/Z/«
Re-t'lequini » . È
questa una Aera
processione di dannati,
che passano tumultuariamente correndo,
in vario modo
tormentati a seconda delle
loro colpe, trasformazione d'un'antica saga. germanica che
imaginava schiere d'anime
volanti per l'aria,
guidate da un
(li Dal 1880
circa Arlecchino è
sbandito dai teatri
francesi di marionette
; ma intorno
al 18(30 viveva
ancora ne) teatro
dei Vaudevilles. rappresentato
dall'ultimo arlecchino celebre
francese, il Laporte.
472 ARLECCHINO dio.
Presso le genti
cristiane, la fiera
caccia diventò strumento di
dannazione, ed il dio guidatore si
trasformò in demonio.
Anche in Italia
vive questa tradizione
delle anime perverse
trascinate per l'aria da
demoni; specialmente vive
ili qualche vallata
alpina, ove i
fantastici e talor
lugubri rumori che
fa il vento
sibilando tra le
gole de' monti
e rompendosi alle
rupi ed alle
macchie, potè ravvivare
nelle menti ingenue
imaginazioni tetre e
paurose ('). Visse
e vive nella
Francia, particolarmente nordica,
ove la masnada
assunse ben presto
il nome di
rnesnie Hellequin, che
sa di germanico
o, come al
Diez parve, di
fiammingo. Le vicende
francesi di questa
strana masnada segue
con cura speciale
il Driesen (*),
e mostra i
vari sensi che assunse,
secondo l'aspetto da
cui la si
considerava. Chrestien de
Troyes, nel 1162,
discorrendo delle abilità
di Filomela nel
ricamo, afferma: Xei's
la maisnie Hellftquin
Seiist eie en
un drap portraire.
Il che si
riferisce all'apparenza multicolore
della masnada, nel
qua! senso ancor
oggi si chiamano
Un riflesso della
caccia selvaggia si
può asservare, nelle
tradizioni medievali, nel
castigo inflitto ai
crudeli in amore,
di cui è cospicuo rappresentante la
novella boccaccesca di Nastagio
degli Onesti. Cfr. W. A.
Neilson, The purgatori! of
cruel beatities, in
Romania, XXLX, pp. 85
sgg. Ci) Del
soggetto s'era già
occupato con vantaggio
(ì. Eavnai'u in
un articolo inserito
nelle Elude* romana
dédù'ti « Gonion
Paria, Paris, 1891.
pp. 51 sgg.
ARLECCHINO 473 avleqnim
i fuochi fatui
nella Champagne. Circa
il I23f> II non
de Meiy, nel
TournoiemeiU Antecrisi, si
rammenta della mesnie
Hellequin, allorché vede sopravvenire
monna Civetteria, accompagnata dal suono
dei campanelli, segno
che alla masnada
non era poi
sempre e solo
attribuito un aspetto
spaventevole. Non tarderà
molto a comparire
il primo diavolo
buffonesco. Eccolo infatti
nel bizzarrismo Jeu
de la feuilìée
di Adam de
la Halle, rappresentato
ad Arras verso il
1262, curioso ed
arditissimo dramma, unico
nella letteratura medievale,
che a ragione
fu paragonato alle
produzioni aristofanesche da un grande
conoscitore della materia
('). Quivi non
solo la masnada
si distingue pel
suono de' suoi
campanelli, quando precede
la venuta delle
fate, ma balza
in scena un
hevlequin (è già avvenuta
la dissimilazione fonetica
da heNequin), che
ha il nome
di .croquesots (maciullapazzi), e
porta alla fata
Morgana il messaggio
del suo signore, il
re degli herlequitis,
che ne è
invaghito. Croquesots non è fatto
nè di nebbia
nè di fuoco;
esso è umano,
è giullaresco, è
mordace. E tali
perdurano gli herìequins
ed il re
degli herleqm'ns, malgrado
il loro terribile
aspetto, nel teatro
religioso dell'età media (*);
tale ci si
presenta il G. Pahis, La liUérat.
franraist au moi/en
age, Paris, 1890,
p. 391. Nella
scena dei misteri
francesi l'imboccatura dell'inferno era chiusa
da un telone,
su cui era
dipinta la 3,
libro cbe, malgrado
deficienze ed errori,
era buona promessa,
felicemente ottenuta, di cose
migliori. ivi accorrevano a
frotte, tratti all'esca
dei tacili guadagni. In
quella sua gustosa
ed inesauribile Piazza universale
di tutte le
professioni del mondo,
il Garzoni, contemporaneo, ci
descrive codesti montanari
seesi dalle vallate
particolarmente bergamasche
nella dominante, grossi
al di fuori,
ma talora sottili
al di dentro,
tenaci, anzi cocciuti,
non di rado
maneschi, volentieri burlati
dal popolino che in quei
laboriosi e robusti giovinotti vedeva,
con mal celata
invidia, concorrenti molesti
e si rifaceva
berteggiandoli per la
loro grossolanità, palese
anche nella parlata
dialettale rude ed
esotica. Quella pailata,
aggiunge il Garzoni
medesimo, « i
zani se e
l'hanno usurpata in
comedia per dar
trastullo e «
diletto a tutta
la brigata, essendo
ella di l'azza
« di merlotti
nella pronunzia e
in tutto il
rima« «ente ».
Xe derivò quella
lingua rustica bergamasca e
facchinesca, che gli
zanni parlarono nella
commedia popolare improvvisa
e quindi anche
nella scritta f1).
Nè ciò solamente.
In quell'antica cariatide
della piazzetta delle
erbe oltre Rialto,
che comunemente si
chiamò il gobbo
di Rialto, ed
alla quale i
Veneziani, per avere
essi pure un
Pasquino, affiggevano satire
e caricature, si volle
non a torto
vedere il tipo
pieSu questo e
su altri particolari
della formazione e
dello sviluppo degli
zanni vedasi un
libretto coscienzioso di
un mio caro
discepolo, il dottor
D. Merlisi, Saggio
di ricerche sulla
satira contro il
villano, Torino, 1894,
pp. 118 sgg.,
di cui il
Driesen avrebbe potuto
giovarsi. trincato
del facchino bergamasco,
in altri termini la
figura dello sanni
(*}. Lo zanni
astuto e lo
sanni balordo, tipi
comici germogliati dalla satira
contro i villani
e divenuti bergamaschi a
Venezia, ottennero nella
commedia improvvisa una
fortuna stragrande, e
si moltiplicarono in
quella innumerevole serie
di figure A-ariamente
grottesche, che ci
è rappresentata dal Callot.
Che uno di
questi zanni, singolarmente elastico e
perciò atto alle
più meravigliose giravolte e
capriole, sia stato
colpito dal gran
fracasso e dagli
eccentrici ghiribizzi ginnici,
non che dalla
grottesca figura degli
herlequins francesi ed
abbia votuto imitarli
sulla scena, non
deve far meraviglia:
e ancor meno
deve far meraviglia
che quella novità
piacesse agli spettatori e
li facesse smascellare
dalle risa. Gli
spettatori francesi, che conoscevano
quel vestito, quella
maschera diabolica e
quei salti ancor
più diabolici, avranno
detto : «
ecco harlequin ; andiamo
a vedere
harlequin » ; ed il
nome, strano e
ghiribizzoso ad orecchio
italiano, avrà garbato
anche allo zanni
inventore, che d'allora
in poi, a
consacrazione della sua
trovata, e senza
sospettare che il diavolo
ci avesse messo
ancor più della
coda, si sarà
battezzato da sè
medesimo harlequin, italianamente
Arlecchino. Chi sarà
stato quello zanni1?
Alberto tìanassa od
altri? Qui sta
il mistero, che
forse non si
chiarirà mai. Cfr.
A. ÌIoschetti, lì
gobbo di Rialto
e le sue
relazioni con Pasquino,
nella terza annata
del Nuovo Archivio
Veneto. Reniek Svaghi
Critici 3J A «LECCHINO Resta
però il fatto,
a parer mio,
che se anche
Arlecchino, coinè tale,
ha origine francese,
molti de' suoi
caratteri distintivi sono
italiani, anzi bergamaschi, e come
tali si svolgono
parallelamente a quello
dello zanni astuto,
del servo procacciante, più direttamente
collegato alle ligure
servili dell'antichità,
Brighella. In Francia
Arlecchino prese il ceffo,
il vestito, il
nome e certe
abitudini sbrigliate di
saltimbanco, ma fondamentalmente egli era
e restò sempre
uno sanni-, anzi
se quello zanni
primitivo non fosse
stato, c'è da
scommettere che la
fortunata figura comica
non avrebbe mai
calcato le scene,
e sarebbe sopravvissuta solo nelle
leggende popolari, nel
gergo teatrale, nel
tenace echeggiare di
qualche proverbio francese, nelle
consuetudini, dalla civiltà
illanguidite e fatte
sempre più rare,
di qualche charivari
pazzaiuolo. Il vanto
d'aver tolto quella
figura dal trivio
spetta all'arte comica
italiana, la quale
assimilandosene vari requisiti
esotici, ebbe pur
sempre il merito
di nou snaturare
il tipo paesano,
anzi di ribadirlo.
Sicché lo zanniarlecchino, se
senza saperlo fu
tinto dalla pece
del diavolo, visse
sempre onestamente uomo
ed onestamente gonzo,
com'era stato in
origine, prima di
assumere veste e
maschera arlecchinesche; e se
diavolo lo si
potè chiamare perle
sue mosse svelte,
per le sue
snodature d'acrobata, per la
insensibilità alle percosse,
per l'inconscia e beffarda
impertinenza, pel ceffo
orrendo prima della
riforma del Biancolelli,
tutti debbono convenire
che in fondo
era un buon
diavolo, degno di godere,
anziché il ghigno
procace delle streghe
e delle male
femmine, il sorriso
malizioso delle sveglie
Coralline. Nota aggiunta.
— Xel Fanfulla
della domenica, '20
marzo 1£K)J. La
mia argomentazione sulla.italianità della
maschera, da me
ribadita nel Giornale
storico, XL1V, 25tì,
fu appoggiata da
B. Cuoce in
La crìtica, II,
388. Dopo di
che spiace il vedere
che Ebmksto Caffi,
in un articolo
su La questione
d'Arlecchino, che si legge
nella Rassegna nazionale
del lfi sett.
1908. nulla sappia
di ciò, e
ripeta l'ipotesi del
Driesen rispetto all'origine prettamente francese
di Arlecchino. Per
quel che concerne
Pulcinella vedasi una
curiosa comunicazione di
V. F^iselli nel
Giornale storico, LIV
(1009;, 59 sgg.
La leggenda dell'
Ebreo errante nelle
sue propaggini letterarie.
I Buttadeo. V'ha
nel lungo e
travaglioso cammino che
il genere umano
percorre una serie
di figure, mitiche o
leggendarie, che sembrano
destinate ad una
singolare specie d'immortalità
spirituale, perchè ogni
età vi ritrova
una parte di
sè medesima, si che
le ravviva nella
sua fantasia e
le chiama a
rappresentare, travestendole variamente, tendenze, bisogni,
dolori, che in
fondo costituiscono quanto
nella natura umana
v'è di immutabile
o di ineluttabile.
Di codeste figure
la più eccelsa
è certamente Prometeo,
il mitico Prometeo
da tanti secoli
rinnovantesi nella rappresentazione dello «
spirito umano che
faticosamente si emancipa dalle
esterne e dalle
interne servitù »
('). Si dispongono
presso a lui
figure mitologiche, bibliche
e leggendarie diverse,
tra Son parole
di Auturo Graf,
che scrisse già
un buon libretto
su Prometeo nella
poeitia, Torino-Roma, 1880.
48 (4). Ma
la più eloquente
storia italiana di
Buttadeo è nello
squisito documento che
Alessandro Gherardi rinvenne
tra le carte
strozziate dell'Archivio di
Stato fiorentino ed
il 11) D'Ascosa,
in Romania, X,
213-15. Paris, Légendes, pp.
191-92. Masskra, 1 sonetti
di Cecco Angiolieri,
Bologna, 1906, p.
51. Cfr. p.
139. (4) Lega,
Il Canzoniere Vaticano
Barlierino lai. 3953,
p. 234. Cft.
p. XXXVII. Joan
Butladio è pure
chiamato l'ebreo errante
in un sonetto
burlesco pubblicato anonimo
per nozze nel
1894. Vedi Giorn.
stor., XXIV, 481.
Ora si sa
che quel sonetto è
del Vannozzo. Cfr.
Ezio Levi, Francesco
di Yannozzo e
la lirica nelle
corti lombarde, Firenze,
1908, p. 359.
Morpurgo egregiamente
pubblicò ed illustrò.
Quel riferimento, dovuto
ad un Antonio
di Francesco d'Andrea,
riguarda le strabilianti
operazioni di Giovanni
Buttadeo, in parecchie
sue comparse in
Toscana nel secolo
XV e prima.
Quel Giovanni sa il
futuro, conosce i
segreti della gente,
fa prodigi, è
pratico in tutte
le lingue ed
in tutte le
scienze, si rende
invisibile quando gli
talenta e chi
più ne ha
più ne metta.
A decine cita
l'autore i testimoni delle
sue abilità, nè
sono esseri inventati
o del tutto
oscuri: il medesimo
illustratore ne appurò quasi
sempre lo stato
civile; e fra
gli ammiratori di
quel fenomeno d'uomo
v'è anche il
dotto e celebre
Lionardo Bruni d'Arezzo.
Interrogato da Antonio
se egli si
chiamasse Giovanili ButatMo, rispose:
«Vuoisi dire «
Giovanni Batté-Iddio, cioè
Giovanni percosse« Iddio.
Quando saliva el
monte dove fu
messo « in croce, e
Ila Madre chon
altre donne chon
« gran pietà
e lamenti e
pianti andaveno drieto,
« allora si
volse per volerle
dire, e fermò
al« quanto e
piedi, onde questo
Giovanni el per«
chosse di dreto
nelle reni, e
disse: Va su
tosto; «e Gesù
si volse a
Ilui: E tu
andrai tanto to«
sto che tu
m'aspetterai!». Parrebbe che
non si dovesse
ormai esitare nella
spiegazione del nome:
l'ha data l'ebreo
stesso! Ma i
dubbi invece sorgono per
l'appunto maggiori a
motivo della narrazione
fiorentina, ove di
solito Giovanni è chiamato
Votaddio, Botaddio, e in un
luogo «Votaddio, altrimenti
Giovanni servo di
Dio » . Ciò
ha fatto pensare
che l'antica interprelazione, a
cui già vedemmo
consentire e il
Bonatti ed il Tizio («impulerat
Deum»), ed a cui s'uniforma
il villico siciliano
( « pirchi
arributtau a Gesù
Cristu»), non sia
che una falsa
etimologia popolare, e
che invece abbia
ragione la egregia
fra le cultrici
odierne di studi
romanzi, Carolina Michaelis
de Vasconcellos, la
quale notando che il
nome consueto dato
all'errante in Ispagna
è Juan espera
en Dios (una
volta anche Juan
devoto a Dios)
e in Portogallo
Joào espera em
Deus, pensò per
prima che il
nome significasse devoto a
Dio, votato a Dio (').
Congetturache diede assai
da pensare al
Paris, il quale
la discusse (*),
arrecandovi una nuova
attestazione preziosa, quella
d'un Liber terre
sancte Jericsalem del
sec. XIV, ove
colui che «
impulit Chrij c stum Dominum....
corrupto nomine dicitur
Jo * hannos Buttadeus,
sano vocubulo appellami'
* Joannes devotus
Deo ». Preziossima
indicazione senza dubbio,
che ci richiama
novamente alla Terra
Santa e di
bel nuovo ci mostra bizzarramente commista nella
memoria dei volghi
la profezia di
lougevità premiante il
discepolo eletto e
la punizione dell'offensore brutale,
del Buttadeo, che
non per nulla
s'ebbe in sè
rinnovato il nome
appunto di Giovanni.
Ma del resto
l'attraente, ma arduo
e forse insolubile, problema delle
origini non deve
distrarci Si- consulti il succoso
articoletto della Michaelis.
0 judeu errante
em Portugal, nella
Revista Lusitana, an. I (1887),
pp. ai sgg. Leijeiidfs, pp.
195 sgg. NELLE
SUE PROPAGGINI LETTERARIE
497 dallo scopo
nostro. Buttadeo, Giovanni
Buttadeo, è il
pellegrino che l'Italia
conosce già nel dugento. Il
suo peccato è
d'aver crudelmente negato un
po' di riposo
al figliuolo di
Dio, che sotto
il carico immane
della croce batteva
]a via dolorosa del
Calvario. Variano le
versioni nelle modalità:
chi (ed è
forse ricordo di
Malco e Cartafilo)
pretende che l'inumano
colpisse la sacra
persona del Redentore
per spingerlo innanzi,
chi crede lo
stimolasse semplicemente con
la voce a
procedere, chi ritiene
gli contendesse di appoggiarsi
alquanto alla sua
casa o di
adagiare un istante
su d'una panca
(mnchiteddu, dice un
testo siciliano) le
povere membra affrante.
La punizione profferita
dal Salvatore suona
non dissimile da
quella presagita a
Malco: solo Malco
deve, attendere in
un luogo determinato,
Buttadeo deve attendere camminando
sempre, come volle
che l'Uomo-Dio camminasse.
Vario è pure
quel peregrinare, da
provincia a provincia,
eia città a
città, da paese
a paese, con
sosta o senza
sosta prestabilita. Anche
qui è l'Italia
che ci dà
la prima determinata
indicazione, conforme alle
narrazioni che verranno
poi. Nel racconto
di Antonio Francesco d'Andrea,
Giovanni Buttadeo «non
può stare più
che tre di
per provincia »,
cammina scalzo, non
ha tasca, mangia
e beve dove
gli capita «
e mai non
vedi donde e'
si vengha e
denari, e mai
non gniene avanza
» . SI preparano
i famosi cinque
soldi, nè uno
più nè uno
meno, perpetuamente rinnovantisi,
che per i suoi bisogni
ha sempre a
mano Asvero. Asvero è
la terza incarnazione
di Buttadeo, che
prima era stato
Maleo-Oartafilo. Asvero è
l'errante su cui
si schiuse, nelle
sue cento forme,
la fantasia trasformati- ice degli
artisti. Le paure
del finimondo, riprodueentisi ad
ogni spirare di
secolo, provocarono la
comparsa di un
libretto tedesco, che
uscì per la
prima volta, con
la falsa data
di Leida, nel
1602. Ivi si narrava
che nel
1542 Paulo di
Eitzen, venuto da
Vittemberga, ove studiava,
ad Amburgo, vide
colà in una
chiesa, intento alla
predica, un uomo
di c i nq uà n fauni circa,
il cui sembiante
ed i cui
atti erano strani.
Alto della persona,
i capelli spioventi
sugli omeri, vestiva
poveramente, con un
lungo mantello, che
gli scendeva sino
a' piedi, e
questi avea nudi,
malgrado i rigori
del verno, Ascoltava
compunto il sermone,
ed ogni volta
che Cristo venia
nominato, si picchiava
il petto e
sospirava. Interrogato, rispose
con semplicità e
modestia ch'egli era
ebreo di nascita
e calzolaio di mestiere,
e che essendo
vissuto in Gerusalemme quando Cristo
vi sofferse passione,
era stato testimonio
oculare di quei
grandi fatti. A
nuove domande soggiunse
che reputando egli
Gesù un seduttore
del popolo lo
trattò duramente allorché
egli passò, gravato
dalla croce, innanzi
alla sua dimora.
Per riposarsi alquanto,
s'era il Redentore
appoggiato alla casa
dell'ebreo, ma questi,
pieno di maltalento
e bramoso di
farsi un merito
presso i suoi
correligionàri, gli imposo
di camminare innanzi.
A tale intimazione
Gesù replicò, guardandolo
fisso in viso:
«Io mi «fermerò
e mi riposerò,
ma tu camminerai
fino «al giudizio
universale». Da allora
in poi tu
sempre in moto.
Assistè sul Golgota
alla tragica crocifissione, ma
non gli fu
concesso di tornare
in Gerusalemme, se
non per vederla
distrutta. Gira continuamente
sulla superficie del
globo, tranquillo, severo,
anzi melanconico, di
scarse parole. Invitato
a desinare, si
nutre sobriamente; se
gli si offre
del denaro, lo
accetta per distribuirlo ai poverelli.
Per sè non ha bisogno
di nulla, perchè
Dio provvede ai
suoi bisogni. In
tutti i paesi
ove arriva, parla
correntemente il linguaggio del luogo.
Tollera pazientemente la
punizione inflittagli, perchè
è pentito del
suo peccato e
spera il perdono.
— Chi sia
l'autore dello strano
libretto s'ignora, perchè
la prima edizione
è anonima. In una
successiva, ove l'incontro
di Paolo col
giudeo è posto
nel 1547, se
ne dà per
autore un Crisostomo
Duduleo di Vestfalia,
pseudonimo di cui
sinora non s'è
potuto scoprire il
segreto. Il libretto
ebbe in Germania
straordinaria fortuna: nelle -elaborazioni
successive la durezza
dell'ebreo verso il
Messia è variamente
rappresentata e giunge persino
all'efferatezza di farlo
percuotere con una
formadi scarpa. La
punizione è sempre la
stessa: il nome
è sempre Asvero,
e solo nella
menzionata opera di
Andrea Liba vio fa
capolino il più
antico Buttadeo (').
(li Rarissime sono
le edizioni antiche,
sicché solamente in
tempi recenti si
è venuti a
chiarezza rispetto alla
loro ÓOO LA
LEGGUNDA DELL'EBREO ERRANTE
È generalmente ammesso
che nel libretto
originario tedesco,
insignificante come opera
letteraria, ma notevolissimo come
prima narrazione seguita
(se si faccia
eccezione per la
relazione fiorentina rimasta
inedita e perciò
inefficace) delle condizioni
e vicende dell'ebreo,
si ha a
vedere con tutta
probabilità la mano
di un prete
protestante. Lo stesso nome
di Asvero, che
ebbe tanta fortuna,
ne è indizio.
Asvero è il
nome che hanno
varii re persiani
dell'antico Testamento;
specialmente noto è
il personaggio che
cosi si chiama
nel Libro cVEsler
('). Nei paesi
protestanti l'apparizione dell'ebreo,
ripetutasi più volte
nel secolo XVII,
divenne oggetto di
dispute teologiche, mentre
nei paesi cattolici
se ne impossessò in
mille guise la
fantasia. Non è
ragionevole il credere che
il misterioso personaggio
veduto nel secolo
XVI e nel
XVII a Madrid,
a Danziea, a
Vienna, a Lubecca,
a Mosca, a Cracovia,
a Bruxelles, a
Lipsia, in Inghilterra;
che ancora nel
secolo XIX meravigliò
di sè i tranquilli
abitatori della Sassonia
e di altre
terre tedesche; che
a Berna lasciò
il bastone e
le scarpe, le
scarpe massicce e
rattoppate del grande
cam bil)]iografia. Aucora il
Paris, nel suo
primo articolo, aveva
in proposito molte
incertezze (cfr. Lcgendes,
pp. 162 sgrg).
Fu il Neubaur,
negli scritti da
me indicati, che
ne diede la notizia
più sicura ed
esatta. Ad esso
rimando siccome a
fonte eccellente. Aliasceros è
denominato nella Bibbia
di Lutero. Vedi
Eira, IV, li;
Daniele, IX, 1;
Ester, I, 1
e passim. Di
là la forma
del nome, che
nella vulgata suona
Assiierii*. minatore ('); che
nel 1868 si
lasciò vedere persino
in America (!);
che in Italia,
a memoria di
uomo vivo, incutè
paurosa venerazione ai
buoni contadini del Veneto,
della Sicilia, del
Canavese; che tornato
dopo mille anni
sul posto alpestre
ove aveva già
veduto fiorire una
città, vi trovò
invece giganteggiare immane
ii Cervino, sicché
dalle lagrime che
quella trasformazione gli
spremette dal ciglio
riarso si formò
il Lago Nero
(3): non è
ragionevole, ripeto, il
credere che alle
molteplici apparizioni e trasformazioni di
questo personaggio non abbiano
contribuito abili ciurmadori e
nevropatici vagabondi. Difficile
il precisarlo oggi, in
tanto succedersi di
fenomeni in cui
le forze della
psiche si palesano
oscuramente, ove termini
in siffatti trucchi
la malattia e
dove cominci la
frode; diffìcile lo
sceverare la verità
dalla menzogna, giacché
ormai siamo tutti
d'accordo nel riconoscere che
non tutto l'inverosimile è bugiardo.
Ma comunque sia di ciò,
i casi come
quelli di Giovanni
Bottaddio, di cui
riferisce Antonio di
Francesco d'Andrea nel
secolo XV, non
posDi solito l'ebreo
cammina scalzo, come
quando apparve nella
chiesa d'Amburgo, e
in questo caso
narra la leggenda
che pel lungo
peregrinare gli si
sono incallite le
piante dei piedi
in modo da
sembrare ferrate. Vedi Nblhaur,
Die Sage cit.,
p. 45. La bellissima
tradizione è riferita
da Mahia Savi-Loi-kz
nelle Leggente delle
Alpi, Torino 1889,
pp. 165-7. Un
garbato libretto che
si legge con
piacere per la
vivace rappresentazione
dell'instancabile israelita nelle
sue varie fasi,
è quello di
Cohbado Rieri, L'ebreo
errante, Roma, Voghera,
sono essere invenzione
pura: riè mera
invenzione saranno stati
la più parte
dogli ebrei eirauii,
di cui narratori
degni di fede
seppero riferire in
diversi paesi. La
tradizione popolare si
meseolò alla realtà;
cervelli esaltati visi
compiacquero truccandosi da
Asvero, abili impostori
sfruttarono la credenza volgare
per loro intenti
loschi. Ma, sostanzialmente, su
questa gran diffusione
popolare della leggenda
influì in ispeeie
il libriccino tedesco
tradotto, ridotto, rifatto,
versificato in tutti
modi, cincischiato e
trasformato nelle varie
parti di Europa.
La prima diffusione
del libretto tedesco
fu in Francia
e nei Paesi
Bassi. Il Discvurs
véri tabi e
d'un juif erratili,
edito nel 1009,
ne è tradii
zione letterale; se
ne scosta invece,
sebbene Paolo d'Eitzen
vi sia nominato,
la Hislnire ad
mi rubi» da
juif errami, uscita
essa pure nella
metà del secolo
XVII e larghissimamente diffusa.
Accanto a questi
due testi, si
hanno, in Francia,
nel Belgio ed in
Olanda, numerose varianti
d'indole popolareggiante, che
qui sarebbe inopportuno
l'enumerare paratamente f1).
In Inghilterra la
figura dell'errante viene
usata a scopo
satirico nel libro
The iccmdering jew
telìing fortune* to
Englishmeu, uscito nel
1640. In Danimarca
il l'acconto tedesco
fu tradotto nel
1621 e s'ebbe
fortuna; non diversamente
accadde in Svezia
nel (1,1 Rimando
per esse e
per tuttociò che
concerne la iortuna
dell'ebreo nella letteratura
popolare d'Europa alla
pi fi volte
menzionata e fondamentale
operetta del Xeubaur.
N'EIjLE SDK PROPAGGINI
LETTERARIE 1643. Non
molto si conosce
circa la diffusione
della storia nei
paesi slavi i/j;
in quelli di
razza latina, ove
già prima serpeggiavano
nel popolo le
tradizioni su Malco
e su Buttadeo,
fu conosciuto Asvero per
mediazione francese. Si
parlò anche, dovunque,
agli occhi del
popolo; e nelle
rozze silografie fu
rappresentato l'ebreo dalla
barba prolissa, in
abito di pellegrino,
camminante perpetuamente col
suo grosso bastone
e avente spesso
alla cintola la
piccola tasca coi
famosi cinque soldi
che si rinnovano
(*). Il soggetto,
per altro, non
inspirò, nelle arti
grafiche, capolavori: i
disegni del fantasioso
artista francese Gustavo
Dorè, comparsi nel
18ó6, si perdono
negli accessorii di
sfondo tratteggiati con
singolare bravura, e
dimenticano quasi il
miserello protagonista; nel
grande dipinto di
quel simbolista scenografo
che fu il
Kaulbach, rappresentante la
distruzione di Gerusalemme,
l'ebreo non ha
che una parte
secondaria, diremo cosi,
episodica; egli fugge
dall'incendio struggitore della
città maledetta scacciato
dalle Furie. Vedremo
ora quale sia
stato il destino
della leggenda asveriana
nei regni multiformi
della poesia. Un lavoro
russo del \Vesselofsky.
uscito nel 1880
in occasione della
prima memoria del
Paris, non fui
in grado di
leggere. Xella Romania,
X, 212 il
Paris medesimo prometteva di
dar conto di
ciò che gli
era stato riferito
intorno alla fortuna
dell'ebreo in Russia,
ma non ne
fece poi nulla. Nel
citato libro del
Ciiami'flel'RY, Histoire de
l'imagerie populaire, sono
riprodotti parecchi di
quei grossolani disegni,
tanto accetti al
popolino. li
Asvero. Col nome
biblico di Asvero,
reso famigliare dai
libretti popolareggianti del
secolo XVII, l'ebreo
errante entrò nella letteratura
ed ottenne singoiar
fortuna segnatamente in
Germania. Pochi autori
lo chiamarono diversamente:
Alessandro Dumas padre, nei
due volumi (1853)
del suo Isaac
Laquedam, dà all'ebreo
questo nome, appoggiandosi
alla aompkiinte francese,
scritta nel Belgio
da persona che
aveva qualche tintura
di ebraico (');
l'opericciuola satirica inglese
del 1640 gli
foggia un nome
semitico a cui
non è estranea
la beffa; il
barone tedesco di
Malti tz lo chiama
Gelasio; il reverendo
ministro inglese Giorgio
Croly Salatine!; Adolfo
Wilbrandt lo trasforma in
Apelle nella filosofica
concezione del suo
Mei ale r
voti Pnlmyra, e
non occorre fermarci sullo strano
poema di Roberto
Buchanan, The -wandering
jew (1893), in
cui l'ebreo è Cristo
stesso, che fa
la figura d'una
specie di salvatore fallito. In
genere, però, è
Asvero che ci ricompare
d'innanzi, nei più
svariati, e spesso
bizzarri, camuffamenti. Dei quali
non è davvero Vedi
Paris, Légeniies dn
moi/en-ót/e, p. 177,
e Xeubaith, Die
Sage coni ewigen
Jtiden, pp. 39 e 123.
Nella leggenda poetica
italiana stampata ad
uso del popolo
da chi segui
passo passo la
complainte, l'ebreo è
detto Ixacco Liquerleinme.
D'Ancona, in Nuova
Antologia, LUI, 42t>.
nelle biblioteche
italiane, cosi povere
tutte di libri d'arte
stranieri, che si
possano aver notizie
dirette e compiute:
ma per buona
sorte abbiamo studi
recentissimi, che ci
aiutano almeno a conoscerli
in via
indiretta. Alla ormai
vecchia, ma pur
benemerita, memoria di
Federico Helbig si
sono venuti ad
aggiungere in questi
ultimi anni i
coscienziosi volumi di
Giovanni Prost (*),
di Alberto Soergel
(3), di Teodoro
Kappstein (*), sui
quali si può
senza imprudenza appoggiarsi.
Di essi feci
tesoro nei moltissimi
casi in cui
non mi fu
dato d'aver fra
mano i testi.
Allo scopo mio
di rapido riassunto
delle principali tendenze
di pensiero, prevalenti
nelle elaborazioni asveriane,
anche la notizia
indiretta riusciva sufficiente. Tenni d'occhio
in particola!guisa la Germania,
ove la
straordinaria fioritura di
composizioni d'arte e di
filosofia su questo
argomento è spiegata
non solo dallo
spirito di quel
paese, tratto di
natura sua alla
speculazione ed al
simbolismo, ma dall'esservi
stato larghissimamente diffuso
il libretto popolare,
come vedemmo, tedesco
d'origine, intonato alla tedesca,
fruttificante nel suolo
tedesco. Tanto il
Goethe, quanto il
Mosen ebbero la prima
spinta a poetare
d'Asvero da ciò
che in gioventù
udirono a riferire
di lui nei
luoDie Sage vom
eiciyeH Juden, ihre
poetische W'andlung nnd
Forlhildung, Berlin, 1874. Die
Sage vom cwiyen
Juden in der
venerai deutsrhen Litteratur,
Leipzig, 1905. \3) Ahasverdirhtuntjen seti
Ooet/ie, Leipzig, 1(105.
(4; Ahascer in
der Wellpoene. Berlin
gin natii Nella
sola Germania il
Prost conta 69
elaborazioni artistiche della
leggenda dell'ebreo ed il
novero è molto
accresciuto dal Soergel,
la cui bibliografia,
la più ricca
che sinora si
abbia conta (non
trascurando i libretti
popolari) 210 numeri. *
* * Presso
le persone illuminate
la fede nella
realtà dell'ebreo errante,
inconcussa nell'evo medio,
andò illanguidendo dal
sec. XV in
poi, e tutti
sanno che dalla
miscredenza al ridicolo
il passo è
breve. Già nella
prima metà del
Seicento, quando era
in piena voga
il racconto tedesco,
compariva il disgraziato
ebreo in un
balletto cortigiano francese del
16:58 a cantarvi
certa sua incomprensibile filastrocca, farcita
di termini esotici,
in parte pseudo-ebraici. Nel
1669 egli fa
una figura tra
seria e faceta
nella commedia spagnuola
di Antonio de
Huerta, Las ciuco
btaneux de Juan
de Esperà en
Dios. Nel sec.
XVIII. in cui maturò
il razionalismo, tutta
la gente colta
stimava favola la
credenza nel longevo
peregrinante, sic (1) Ctr.
Nkpbaib, pp. 28
e 116. Aggiunte bibliografiche, di
non granile entità,
fece Max KocHj
in una sua
recensione degli Sludien
zht ceri/leicfi. Literoturi/fir/iirìile, VI
(lfKXi), p. 389.
Il lavoro del
Soergel è il
più ricco e
meglio organato :
quello del Prost,
tuttavia, riesce più
agevole e chiaro
per la disposizione
cronologica della materia.
Il Kappstein, che
non vuole «
katalogisiereu ma «
anregen », si
trattiene solamente sulle
opere che a
lui sembrano più
significative. NELLE SCE
PROPAGGINI LETTERARIE 507
clìè si facea
strada la satira,
destinata ad infiltrarsi fin nei
concepimenti del Goethe
e dello Schubart,
o dilagava la
beffa in componimenti
burleschi come la
mascherata inglese del
1797 di Andrew
Franklin. Fu per
altro solo il
sec. XIX che
atteggiò la figura
dell'ebreo a seconda
della multiforme energia
che si addensava
nell'anima propria, a
seconda degli indirizzi
vari di pensiero
che turbinavano nella
sua mente di
secolo rinnovatore. In codeste
svariate configurazioni ebbe
parte preponderante il
romanticismo. Sotto l'impero eli
quella nuova tendenza
lugubre e sentimentale, la figura
leggendaria si umanizzò:
narrazioni episodiche o componimenti
lirici espressero il suo
dolore di non
poter morire. In
seguito personificò il
popolo ebreo reietto
e profugo, quindi
la personificazione s'allargò,
e da un popolo
solo venne a
significare l'intero genere
umano, nel travaglio
e nella lotto
del suo continuo divenire. Lo
spirito filosofico se ne impadronì, e
per alcuni l'ebreo
rappresentò le idee
politiche liberali, le
idee religiose più
larghe e tolleranti,
finalmente la ribellione
a tutte le confessioni
positive; per altri,
ortodossi, fu un valletto
dell'anticristo, una figum
diabolica. In conclusione, a quella
larva indeterminata d'uomo
eccezionale, che lasciava
libero il campo
alla fantasia, ognuno
foggiò quella individualità
che più gli
garbava, introducendovi parte
di sè e
delle idee od
aspirazioni proprie. Ritrarre
sotto brevità i
principali aspetti di
siffatte incarnazioni diverse,
è lo scopo
della disamina che
segue. •
« I primi
tentativi d'una figurazione
letteraria di Asvero
si debbono al
Goethe (1 774= i
ed allo Scbubart
(1783). Nelle memorie
(Dichtung und Wahrheit)
il Goethe espose
il piano dell'opera,
che poi modificò
durante il viaggio
in Italia; ma
i frammenti, che
ci pervennero postumi,
del suo componimento,
mal si accordano
col primo disegno e
danno la persuasione
che quel tema
poco gli convenisse
e si prestasse
solo a qualcuno
di quei tentativi
di poema drammatico
simbolico che dovevano
aprirgli la via
al Faust. Sul
canevaccio del vecchio
israelita voleva il
Goethe ricamare le
sue convinzioni politico-religiose; per
lui Asvero era l'uomo
comune, senza idealità,
dato alla vita
materiale, nemico d'ogni
innovazione; lo spettatore
ironico, come fu
detto, delle miserie umane. Pensandoci
su, in appresso,
gli pareva scorgervi l'occhio
aperto della storia
universale; ma il concetto
non si determino
altrimenti. E neppure il
pensiero dello Schubart,
natura focosa ed indisciplinata quanto
altra mai, venne
a maturanza. La
rapsodia rimastaci di
lui, umile frammento
di maggior lavoro,
ci presenta l'ebreo
nell'umana disperazione di non poter
morire. Tutto egli esperimento
per procurarsi la
morte. Si fece
calpestare dagli elefanti,
sfidò gli artigli
della tigre e
le fauci del
leone, provò i
morsi velenosi del
serpente, si cacciò
nelle città incendiate
e rumanti, si
gettò nel cratere
dell'Etna, ma nulla
valse a togliergli
il peso della
vita. Dopo circa
duemila anni di
peregrinazioni angosciose lo
vediamo sul Carmelo,
che getta via
da sè con
terribile cinismo i
crani ammonticchiati dei suoi
congiunti e discendenti
('). Senza questa
particolarità macabra, troviamo
qualche altra volta
raffigurata anche di
poi in Asvero
la gran miseria
del non poter
morire; ma più
spesso da questo
concetto dell'individuo non
mortale si assurge alla
personificazione del genere
umano perpetuamente affaticato
ed errante, al
« vecchierel bianco,
infermo, mezzo vestito
e scalzo »,
che Con gravissimo
fascio sulle spalli-,
Por montagna e por valle,
Por sassi acuti,
ed alta rena,
e fratte, Al
vento, alla tempesta,
e quando avvampa
L'ora, e quando
poi gela, Corre
via, corre, anela,
Varca torrenti e
stagni, Cade, risorge,
e più e
più s'affretta Senza
posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso, infin
ch'arriva Colà dove
la via E
dove il tanto
affaticar fu volto;
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei, precipitando, il
tutto oblia. Questa
allegoria della vita
umana, che all'infuori
da ogui rapporto
con l'ebreo errante
tro (1) Il CiiasipfleCkv, Hìsltiire
de Vimagerie populaire,
p. 42, riproduce
facsimilata nna ÌDcisione
tedesca moderna, che
rappresenta per l'appunto
Asvero in quell'atteggiamento disperato.
villino accennata dal
nostro Leopardi (M,
costituisce l'intima essenza della
maggior parte delle
creazioni poetiche as vedane,
sia che esse
iniaginino l'ebreo pentito
e volto al
bene mediante la
gran luce del
cristianesimo piovuta su
di lui, sia
che lo rappresentino
pertinace nell'empietà e
disperato insidiatore d'ogni
felicità dei mortali.
Così in Halle
und Jertisalem dell' Amim
1 18091, l'ebreo si
dà ad ogni
specie di opere
buone, e, fatto
cristiano, spira placidamente
presso il santo
sepolcro; cosi nella
novella di Franz
Ilorn (,181(1', che
inspirò le due
prime tragedie sul soggetto, quelle
di A. Klingeman
1 1825) e di
W. Iknrrienl (1831),
l'ebreo diventa maestro
della vera vita,
che è quella
dell'anima, di contro
alle a trattative della falsa
vita, che è
queliti del corpo:
cosi nella maggiori1
elaborazione russa ilei
soggetto, il poema
del .lonkoffsky rl852.',
assistiamo al travaglio psicologico di
un uomo che
lentamente, in mezzo
alle tempeste della
vita, muta animo
e si converte;
cosi nell'altro poema,
in un certo
senso parallelo, di
Edoardo (Irenici-, La
inori du juif
erranl (1854), il
peccatore si converte
per una visione
e muore confortato
da Cristo; cosi
nel grandioso concepimento
del danese Paludati Moller 1 1853),
ove è ritratto
Asvero quale simbolo
della umanità pessimista,
nell'estremo conflitto della
fine del mondo;
così nell'ultima produzione
asveriana di alto
stile, il dramma
di il) Il
felice avvicinamento del
Pastore errante leopardiano
si deve al
D'Ascosa, nel cit.
articolo della Xuova
Antologia. Giovanna e Gustavo
Wolff i1899i, ove
Asvero prosegue in
certo modo il
destino di Fausto,
e in compagnia
di una certa
Asvera, che si
chiama Atta, di
fronte all'ideale cristiano
che addita il
cielo, mostra il
progressivo perfezionamento umano
in questa vita
col mezzo della
comunione dei due sessi.
E questo unii
specie di inno
alla vita terrena,
in cui la
lirica predomina. Ma
la lirica, di
solito, fa assumere
ad Asvero altra
tendenza; è il
Weltschmei'c che tutto
lo compenetra: i melanconici
figliuoli del secolo
scettico e sconfortato con
la maschera del
perpetuamente errante davano sfogo
al loro prepotente
desiderio di pace.
Il Song for
the wamlei-ing jew
del Wordsworth i
I8OO1 inspirò probabilmente
la romanza di
Guglielmo Mailer (1822),
che è tutta
affanno per il
gran peso dell'esistenza. Lo
sforzo del Seidl
(1826) di combattere
coi suoi due
Asveri posti di
fronte la malattia
romantica del secolo non
valse. Imitando in
qualche parte la diffusa
poesia su Le
juif errant del
Béranger (1831), l'elegante
Chamisso, in parecchie sue
liriche, rappresentò in
Asvero il proprio amore
non corrisposto ed
i tormenti1 della
propria nostalgia. E
tutto il suo
tetro pessimismo prestò
ad Asvero il
Lenau in quello
dei suoi Heidebilder
(1833) in cui
il vecchio indistruttibile abbraccia
il cadavere del
giovinetto pastore ed
esce in un
inno alla morte
liberatrice, che finisce
con la strana
efficacia di questi
versi sublimi: Las.s
dich limarmeli, Tod,
in dieser Laiche.
Balsamiseh rieselt ihre
frische Kiihle Durch
mein Gebein, durch
meines Hirnes Schwiihle.
Assai meno
potente hi poesia
Der eiKuge Jn.de
del 1839, ma
'nell'ini Luogo e
nell'altro l'ebreo non
è che un
prestanome di Niccolò
Lenau. * Sinora
abbiamo veduto specialmente
l'efficacia che ebbe
sugli spiriti dei
poeti uno degli
elementi della nostra figura
leggendaria, la perpetuità errante. Ma
allato a questo
v'è pur un
altro elemento non
meno osservabile, quello
che è dato
dalla realtà oggettiva
che codesto errante
tante volte secolare
dovè conoscere de
visi'. Asvero entra
nella storia, come
spettatore glaciale, come genio
filosoficamente benefico, come
personificazione d'idee o
tendenze, come simbolo
di ribellione. Il
primo a dare
esempio di questa
maniera di far
funzionare l'errante fu,
già nel 1791,
W. F. Heller,
coi suoi Briefe
rie» eirigen Judeii,
che sono una
scorsa sintetica alle
vicende del mondo
obiettivamente osservate dall'ebreo
longevo. Nel 1832,
J. v. Zedlitz
imagina Asvero sempre
vigile nella tomba e
come in sogno
gli fa passare
dinanzi i maggiori
avvenimenti storici, con
lo scopo specioso
di flagellare Napoleone,
rappresentato come un nuovo
Attila. Due episodi
storici sono pur quelli
che ci mette
innanzi lo Schenk
in due frammenti
epico-lirici sull'ebreo, che
videro la luce
nel 1834 e
nel 1836: due
anni appresso F. F. Franke
con lo pseudonimo
di Ferd. Hauthal
imaginò una Asceviade,
che dovea percorrere
la storia universale
rilevandovi le principali
lotte religiose. Ne
abbiamo solo il
principio, farraginoso e
pesante. Assai più
sembrerebbe che si dovesse
aspettarsi dal grande
novellatore danese Cristiano
Andersen, il quale
nel suo Ahasverus
(1844 e 1847.)
imaginò il fantastico pellegrino come
lo spirito del
dubbio e della
negazione, a convincere
il quale della
grandezza di Dio è
necessario ch'egli assiste
allo svolgersi della storia
umana. Questa impostatura
non era davvero
cattiva; ma l'opera
poetica riusci poco
chiara e poco
grandiosa, perchè cosi
voleva il temperamento dell'artiste,
chiamato ad altro.
Tuttavia quel concepimento
trovò in Germania imitazione neìì'Ahasrer
di Seligmann Heller (1866), esteso
poema filosofico in
terzine, poco noto
anche fra i
tedeschi. Qui Asvero
non è altro che
un'idea: una personificazione astratta
dell"uman genere. Gli
si svolge dinanzi
la storia, dal
giudaesimo all'umanitarismo, attraverso
il cristianesimo. Uomo,
invece, in tutta
l'estensione del termine,
che vive nelle
amarezze e nei dolori
de' suoi
sciagurati nepoti e
assaggia cosi tre
capitali periodi storici,
è 1 "Asvero
di M. Haushofer
'1886), intorno a
cui il suo
ajwtore consumò la
vite e che
qualche critico paragonò
alla Commedia dantesca. Unità
non vi è;
sono tre drammi
accostati, ma la
loro potenza poetica
è grande. Ben
misere cose sono,
al confronto, le
peregrinazioni a traverso alla
storia del personaggio
imaginario, largamente concepite
e solo in
parte eseguite nell'opera prosaica
dal primo Alessandro Dumas (1853i.
Categoria a parte
di componimenti è
quella in cui
Asvero ha spirito
deciso di ribellione,
anche se non arrivò
ad assumere aspetto
diabolico come nel
romanzo di Levili
SchQcking, Der liaaevnfùrst
(1851). La simpatia
per la ribellione
è frutto rivoluzionario del
romanticismo ed ebbe
interpreti in tutti
i paesi d'Europa,
segnatamente, nel nord,
il Byron e
lo Shelley, nel
sud il Carducci ed
il Rapisardi. Giulio
Mosen, nel suo
poema epico Ahmrer
(1838), imaginò l'ebreo
uomo, in vari
periodi della storia,
lottante, nella sua
disperazione di padre
orbato più volte
dei figli, contro
l'inesorabile e crudele
Iddio. È questa
la pugna quotidiana,
tenace, inevitabile, feroce
dell'umano contro il
divino, rappresentata talora
con tocchi di
grande efficacia, ma
in complesso oscura
('). Più perspicuo,
ma più povero,
è l'errante della lirica
di J. (>.
Fischer (,1854), nella
quale assume i
caratteri di Prometeo
e rappresenta la verità
di contro alla
tirannia oscurantista
divina. La regina
Elisabetta di Rumenia
(Carmen Sylva) nel
suo poemetto Jeliova
( 1882) fa
pure di Asvero
una specie di
Prometeo, per non
dire di Capaneo,
che sfida il
Creatore, ma trova
finalmente nell'idealismo filosofico
tedesco la possibilità
d'una fede, e in essa
muore. Anche nell'altro
poema simbolico del
Mosen, Hitter Wahn,
v"ha non poca
nebulosità di concetto.
Fra le
parecchie composizioni, di
che por brevità qui
si tace, ove
l'ebreo entra in
un'episodica narrazione
storica, va annoverata
quella che rese
il nome di
Asvero più noto
plesso il pubblico d'Italia, VAhasrer
in Itom di
Roberto Hamerling iltflió). E
poema di vivissimo
colorito, nella rappresentazione fulgida
dei contrasti dell'età neroniana. Il
Grillparzer già disse
che dovrebbe a maggior
diritto intitolarsi Nerone,
e cosi osò
fare, traducendolo, il
nostro Vittorio Betteloni.
Intorno alle straordinarie
risorse che può
avere il carattere
di Nerone molto
s'è scritto, anche
in Italia, in
questi ultimi anni,
massime dopo la
immensa fortuna del
troppo celebrato romanzo
dello Sienkiewicz ('j.
Il maggior difetto
del personaggio di
Nerone nello Hamerling
è di avere
esso pure, fondamentalmente, funzione
simbolica (:). Tutto simbolo
è Asvero, nuova
incarnazione di Caino, portata
ad operare in
mezzo a persone
storiche: una astrazione
sotto forma umana;
l'umanità eterna, ma
nel suo lato
mefistofelico. Come
concezione asveriana il
poema dello Hamerling
non vale molto
(3i. Notabili sono specialmente
gli scritti di
Gaetano Negri e di
Carlo Pascal. Vedansi
gli articoli sereni
(giacché non sempre
prevalse la serenità
in questa disamina
storica) di Achille
Cokn nel periodico
Atene e Homo,
anno III, 1!KX).
. (2; Leggansi
le osservazioni di
Ko3iUAi.no Giani, //
Xerone di Arrigo
Boito, Torino, 1901.
p. 52. Xel
volumetto del Giani
si ha una
coscienziosa rassegna dell'uso
che fece la
poesia, specialmente quella
drammatica, della figura
di Xerone. (3>
Troppo severo, tuttavia,
gli è il
Soergel (pp. 97
sgg.): il l'rost
scrive su questo
tema le migliori
pagine del suo li Da
questi concetti simbolici
sorti nel seno
della storia è
breve il passo
al simbolismo di
tendenze religiose, politiche,
sociali. E i
primi esempi di
questo sono remoti.
Già nel 1714,
quando non tacevano
ancora le discussioni
sulla realtà dell'ebreo,
Gianjacopo Schud, nelle
sue Judische Merkw'ùrdigkeiten, lo
interpretava come un
simbolo del popolo
israelita vagante sulla superfìcie
del globo, per
la maledizione del
sangue sparso di
Cristo, piovuta sopra
il suo capo,
e l'opinione, poggiante
su alcuni celebri versi
di Prudenzio, trovò
seguitatori (*). Nel
secolo XIX le
condizioni religiose e
politiche mutare fecero
assumere a quest'idea
diversa colorazione: la
posizione economica conquistata dalla razza
semitica nella società
europea produsse lo strano
fatto che Asvero
divenne per molti
bandiera di lotta
antisemitica, mentre altri,
in nome suo,
corsero alla difesa.
Prima del Goethe,
uno scrittore israelita
compose certo Spiel
voti Ahasvei; che
doveva essere cosa
ben cruda se
l'autorità municipale di
Francoforte, bro (pp.
Hl-lMi). Le considerazioni di
L. A. Michki.anueli, Sopra V
Ahascero in Roma
poema di lì.
Hamtrliny, Bologna. 187H,
sono d'una prolissità
spaventosa, ma spesso
colgono nel segno. Cfr.
specialmente le pp.
13D-40. 142 e
ló(>57. ri) Vedi
Xeuhaur. Die Sage
cit.. pp. '22,
118. 15S8. Istruttivo è
nel libro del
Soergel il capitoletto
Ahaseer ah Vertreter
des jttdinclien Voìkes,
pp. 57 sgg.
r»i7 nel
1708, non sólo
ne fece proibire
la reciti), ma
ordinò che se
ne ardessero tutti
gli esemplari a
stampa, sicché noi
ora, purtroppo, non
lo conosciamo più. Molto
tempo appresso un
celebre novelliere tedesco,
israelita di nascita
e di religione, Bertoldo Auerbach,
non tanto in una sua
novella del 1827,
quanto nell'importantissimo Spinoza
(188ó), rappresentò con
Asvero il perseguitato giudaismo, riconciliato
finalmente con l'umanità
dal grande pensatore
olandese ('). Con
siffatto intento di
compassione e di
ammirazione verso gli
ebrei fu interpretato
Asvero anche da
altri; ma più
di frequente egli
servi a sfogare
passioni antisemitiche. HrW Altascerus di Bernardo
Giseke (1868) è
il cieco giudaismo
che odia il
cristianesimo; nel mistero
di Giovanni Lepsius
(1894) raffigura il
tragico conato del popolo
giudeo per trovare
il nuovo Messia;
il poema di
Giuseppe Seeber (1894),
salutato in Germania
con entusiasmo, porta
la tragedia messianica
di Asvero ad
una conclusione, che
è conforme alle
teorie chiliastiche: quel
tipo vagabondo dell'ebraismo antico giunge
a riposo solo
quando tutto Israello
è redento, cioè
convertito. Più ristretto
concepimento, ma sempre
intonato alla questione
semitica, è ne\Y Ahasver
del prete austriaco
Enrico von Levitschnigg (1842),
che con molta
vivezza porta innanzi l'ebreo
moderno da rigattiere fatto banchiere,
che stende la
mano unghiata È
noto che lo
S]>inozn nacque da
genitori ebrei di
culto spagnuolo. sul
mondo intero; nel
romanzo di Fr.
Mauthnef De)neue Ahamer
(1881) nel dramma
asveriano dell'olandese Ermanno
Heijermanns (1893), che
mette in scena
un episodio della
persecuzione degli ebrei
in Russia. Come
alla questione semitica
nei paesi in
cui specialmente si
agitò e si
agita, cosi Asvoro
fu ben lontano
dal serbarsi indifferente
agli altri problemi
che s'imposero al
consorzio umano nel
gran rinnovamento liberale
de] secolo XIX.
D'un Asvero fautore
di libertà, nemico
del medio evo, del misticismo,
della scolastica, è
ovvio l'intendere come e
perchè desse il
primo esempio hi
Francia con le
satiriche Tableltes da
jaif crrant di
Edgard Quinet (\82'2)
('). le cui
tracce sono seguite
in Germania nel
iìelasius del Maltitz
(1820) e nel
New; Aliaaver di
Lodovico Kohler (1841).
Tendenza anticlericale e
rivoluzionaria ebbe il
voluminoso, fortunatissimo romanzo
in dieci volumi
di Eugenio Sue.,
Le jaif erranf
(1844). In esso
Asvero è il
lavoratore diseredato, che si
oppone al clero
sfruttatore, con allato Erodiade, la
malvagia omicida del
Battista. Con slancio di
carità non mai
smentita, Asvero passa
dal nord al
sud, dall'est all'ovest,
per recare soccorso
ove se n'ha
bisogno. Tanto egli
quanto Erodiade finiscono
perdonati ed Disposizione di
spirito in tutto
diversa manifesta il Quinet
dopo un
decennio nel mistero
Ahasvérus del 183B.
Questo é frutto
d'una sentimentalità morbosa
e d"una fantasia
sbrigliata, e troppe volte
dà nell'oscuro e
nell'incongruo. A ragione il
Lanson chiama il
Quinet « faiseur
d'apoealvpses ». M
9 Asvero presagisce
la distruzione del
chiericato egoista e
tiranno, e l'avvento
trionfale della democrazia, in cui
il lavoro sarà,
rispettato, amato, valutato,
compensato. Il successo
di questo romanzo a
tesi, in cui
è scarso il
valor letterario, superò
ogni aspettativa: la
Germania ne smalti
in quattro anni
più di quindici
edizioni, delle quali
una sola contava
undicimila esemplari. Trovò
anche colà imitatori,
tra cui emerge
il romanzo storico
Ahasver di Chr.
Kuffner (184(1), il cui ideale
asveriano di amore
sociale non fu
estraneo alla creazione
dello Hamerling e forsanco neppure
a quello dello
Sienkiewicz. Particolarmente
dal 1880
in poi, i
progressi fatti dal
socialismo provocarono la
nascita di parecchi Asveri più
o meno dottrinariamente socialisteggianti, l'ultimo,
e forse più
notevole, dei quali
è nel poema
Ahasver di Gustavo
Rentier (1902), energica
figurazione del proletariato
che insorge contro
ogni specie di
oppressione sociale e contro
ogni bassezza morale.
Se questa è
l'ultima forma di
Asvero nell'ordine
politico-sociale, ve nha
un'altra, non meno
moderna, nell'ordine filosofico.
Tutti sanno quale
influsso esercitarono le
idee del Nietzsche
sul pensiero europeo.
A quell'influsso non
si sottrae neppure l'antico
errante e l e
teoriche individualiste
trovarono un portavoce
anche in lui(').
Per contro altre
produzioni, come il
poema di M.
E. von Stf.kn,
Die Insel Aluiauer
til31 terminato: tener
desta la fede,
esaltare le anime
nel servigio di
Dio, diffondere la
moralità cristiana ; e
però quelle vecchie
vite di santi
tenevano dtjlla biografìa, del
panegirico e della
le zione moraleggiante. Ingrandire
i fatti perchè
all'elogio meglio
servissero, ritorcerli a
maggior gloria del
Signore e ad
esempio di moralità
e di fede,
non erano punto
azioni che si
giudicassero sconvenienti. Con
questo concetto così
preciso del lavorio
leggendario e retorico,
vuoi popolare, vuoi
individuale, è facile imaginare
come sia restio
il Delehaye nel
concedere ai testi
agiografici il valore di
documenti storici. Importante
e fecondo sembra
a lui pure
lo studio comparato
delle religioni; ma contro
le troppo facili
identificazioni del culto
cristiano col pagano,
contro l'idea che
la devozione ai
santi sia una
concessione fatta dalla
Chiesa alle abitudini
inveterate del politeismo, contro il
presupposto della dipendenza
diretta e immediata
degli onori tributati
ai santi da
quelli con cui
i pagani esaltavano
i loro eroi,
scrive pagine di
ragionamento serrato, nutrite
di meditata dottrina.
Ammette bensì che
la tradizione del culto
degli eroi abbia
conservato negli animi
una migliore disposizione
ad accogliere quello dei
santi; riconosce certi
adattamenti di templi pagani
a uso cristiano
e l'analogia non intenzionale
di certi santi
con certi eroi;
trova non solo
verisimile, ma storicamente
necessario che nella
nuova religione si
scoprano vestigi di
gentilesimo: ma sostiene
che il culto
dei santi
ha un fondamento
essenziale diverso da
quello degli" eroi,
derivando esso dall'onore
reso ai martiri,
incili nato dal
Cristo medesimo i*).
La mitologia comparata,
pur raggiungere certe
identificazioni, ha costrutto
talora a sua
volta delle vere
leggende erudite, come
fece lo Harris
per ravvisare nel
cristianesimo il culto
dei Dioscuri e
altri per identificare
san Luciano con
Dionysos e santa
Pelagia con Venere
Afrodite. In siffatte
identificazioni analogiche bisogna
procedere coi piedi di
piombo, giacché il
lasciarsi trascinare dalla
ingegnosità soverchia o
dal preconcetto impellente è
cosa facilissima. Non minori
cautele son praticabili
nel giudicare sospetti alcuni santi
solo perchè hanno
nomi di divinità
greche ovvero significanti
la personificazione di un
attributo. La buona
critica può riconoscere
bensì in questa
condizione di cose
qualche motivo di
titubanza; ma è
pur d'uopo tener
presente che in
ispecie i Romani
usarono talora imporre
ai loro schiavi
e liberti nomi
bizzarrissimi, di divinità
o di esseri
astraiti, sicché il solo
significato del nome
non dev'essere indizio
di falsità. Siccome
è assurdo l'ammettere
una brusca discontinuità
nella storia, va da sé Siffatto
raginnaniento, condotto con
finezza e con
cau tela, è
ben altrimenti convincente
che le consuete
riflessioni proposte dall'ortodossia cattolica
nel mettere a
confronto il santo
e l'eroe. Quanta
grossolanità vi fosse
nn tempo in siffatti
confronti può vedersi
in una chiacchierata
su L'ayiografia antica
e moderna della
Civiltà Cattolica, Serie
3», voi. \
li (anno 1857),
p. 48. .r»33
* che nella
religione nuova molti
elementi pagani si
continuarono e rivissero
in forma l'innovellata. Il
Delehaye ritiene anzi
che un sempre
più accurato e profondo
studio comparativo moltiplicherà il numero
dei fatti che
riattaccheranno al paganesimo
le leggende di
molti santi; ma
non per questo
si sarà licenziati
a dire, per
esempio, col Ilartland che
in san Giorgio
la Chiesa ha
« convertito e
battezzato l'eroe pagano
Perseo ». L'infiltrazione di
elementi letterari pagani nelle
leggende agiografiche cristiane
è un fatto
talora innegabile, tal'altra
assai verosimile; ma
ciò non dà
ancora facoltà di
distruggere la personalità
reale del santo
e di concludere
ch'egli sia un
dio pagano o
un eroe pagano
cristianeggiato. Massimo errore
è, in materia
agiografica, il non
separare la personalità
del santo dalla
sua leggenda: questa
può essere assurda,
il santo legittimo.
L'atteggiamento, peraltro, dell'indagatore moderno di
fronte ai fatti
biografici recati dalla
tradizione o attestati
dagli agiografi deve
essere, non pur
prudente, ma razionalmente
scettico: per le ragioni
esposte, tanto la
tradizione popolare quanto
il racconto degli
agiografi sono il più delle
volte mendaci; poco
valore hanno le
tradizioni della chiesa
ove il santo
è venerato, ed è
un'illusione il credere
d'aver ricostrutto la verità
storica allorché si
siano eliminati da una
biografia i tratti
inverosimili e si
sia trovata corrispondente a
puntino al vero
la topografia. Anche nei
romanzi del Bourget,
osserva spiritosamente il
nostro Bollandista, la.
to pografia è
talora esattissima. Che
si direbbe di
chi ne concludesse
che quei romanzi
narrano fatti realmente
accaduti? Una cosa
ve eli al Irniente
e solennemente reale
nel complesso delle
leggende agiografiche, e
questa nessuno potrà
negarla: l'ideale concretato
nella santità. Le parole
con cui
il Delehaye chiude
il suo libro
sono nobilmente significative. La vita dei
santi, egli dice,
è « la
réalisation concrète de
l'esprit évan« gélique,
et par le
fait qu elle
rend sensible « cet idéal
sublime, la legende,
cornine toute «
poésie, peut prétendre
à un degré
de vérité «
plus elevé que
l'iiistoire ». « *
Difficilmente, nel seno
dell'ortodossia cattolica,
si potrà
portare a maggiore
elevatezza spirituale il concetto
della santità e
circoscrivere di maggiori
cautele l'accertamento del
vero. In fondo,
non batte diversa
strada neppure uno
studioso nostro del
diritto, che recentemente
sciasse un libro
dotto e arditissimo
sul santo di
Assisi (ri. La
parte più solida,
se vedo bene,
in quel libro,
in cui la
temerità dell'ipotesi non ha limiti
e non scarseggiano
neppure gli errori
di fatto, sta
nell'avere intuito in
san Francesco Tamassia,
San Francesco d'Assisi
e la sua
leggenda, Padova e Verona,
Drucker un tipo,
che già nella
prima biografia del CeIanense è
compiutamente costituito e si contrappone, materiato con
gli elementi della
tradizione evangelica e
con tratti desunti
in massima parto
dalle opere di
Gregorio Magno, al
clero degenerato ed avido
di beni mondani.
E improbabile che
i cultori di
studi francescani si
pei'suadano col^Tamassia della
parte di eretico,
rientrato per via
della leggenda nell'ortodossia, che
vuol far giuocare
a san Francesco;
nè gli meneranno
buono il sistema
di escludere il
fondamento reale di
certi fatti, solo
perchè essi hanno
riscontri negli avvenimenti o
nelle leggende o
nelle dottrine anteriori,
quasiché la tradizione,
specialmente religiosa, non
abbia la tendenza
a ripercuotersi nella
realtà non meno
che nella fantasia;
nè potranno convincersi
della genesi unicamente
letteraria che è
assegnata al fatto
delle stimmate, e
se anche nella
seconda biografia di Tommaso
da Celano vorranno
riconoscere gli elementi dottrinari
che valgono a
farne un «
manuale di perfezione
monastica », non
per questo vi
ravviseranno addirittura « il capolavoro dell'impostura monastica
del secolo decimoterzo
» : ma
ciò non per tanto tutti
dovranno ammettere che l'indagine,
se anche abbia
trascinato l'autore a
conclusioni eccessive, ha
indiscutibile utilità e non rimarrà
senza buoni effetti
nell'agiografia. Lasciata da
parte la fede
(positiva o negativa),
che non è
strumento di ricerca,
si avrà fatto
un gran guadagno
accordandosi tutti nel giudicare
la santità coi
criteri AGIOGRAFIA SCIENTIFICA
psicologici moderni (')
e nel l'in
daga re le
vicende dei santi
eoi metodi severamente
scientifici che già
da molto tempo
si applicano con
profitto alla storia
profana e alle
leggende profane. Lo
spirito del genere
umano è uno
ed opera .
011 leggi costanti:
è puerile il
ritenere che in materia
religiosa esso deroghi
a quelle leggi.
Purtroppo una voragine
intercede ancora fra
lo studioso credente
e lo studioso
non credente: la possibilità
della sospensione delle
leggi naturali nel
miracolo, che il
credente ammette e
l'incredulo nega. Ma
chi tien dietro
spassionatamente ai
progressi grandissimi che
gli studi religiosi
vengon facendo, trova
che insensibilmente codesta voragine
perde di profondità
e di ampiezza.
La parte più
colta del clero
si piega orinai
alla discussione del
miracolo e talora
lo pone apertamente
in dubbio (*).
È vero che
la maggior parte
dei miracoli non
costituisce articolo di fede:
ma è vero
altresì che la
tendenza scettica cosi
lucidamente tracciata dal
Delehaye rispetto all'agiografia non
ha da fare
che un passo
e può essere
applicata ai Vangeli
(3). E La psicologia
del santo non fu perauco
indagata in conformità
alla scienza. Il
troppo fortunato libro
sul soggetto di
Enrico Joly, che
ebbe anche una
traduzione italiana Roma,
Desclée e Lefebvre,
190-1,1, non ha
base scientifica. Per citare
un esempio tra
mille, gravi dubbi
ormai si sollevano
nel clero stesso
su quello che
fu considerato come
uno dei più
angusti fra i
santuari cattolici, la
casa di Loreto.
Vedasi nel presente
volume l'articolo speciale
da me consacrato
alla questione lauretana. Lo
ha detto apertamente,
a proposito del
libro del Deallora?
Non si spaventino
gli ortodossi per
questo. L'esegesi biblica, a
cui teneva tanto
l'illuminato pontefice Leone XIII,
può essere praticata
presso i cattolici
con una indipendenza
di criteri scientifici
non diversa da
quella che giù
da tempo adottarono
certi esegeti protestanti,
per non dire
gli scienziati aconfessionali. Lo
ha provato col
fatto l'abate Alfredo
Loisy, studiando al
lume della critica
storica il quarto
Vangelo (*) e contrapponendo
all'opera teologica del
protestante Harnack, Das
Wesen des Chrisfenlums
(!), il tanto
discusso libretto L'émngile
et l'èglise. A
quel tentativo di
esegesi storica dei
Vangeli i vescovi
di Francia contrapposero
aspre, roboanti parole
e divieti: ma
la loro piccineria,
anche di fronte
alla pura credenza
ortodossa, ha qualcosa
di desolante. La
frase di condanna
trovata dall'arcivescovo di Cambi
ai: «au lieu
d'élever l'hom« me
à la hautaur
mystérieuse des Livres
saints, « certains
auteurs f'ond descendre
ces livres au
« niveau de
la raison et
de la nature
humaine >, è
la decapitazione, in
seguito a giudizio
statario, della scienza
e della ragione
umana is). Uno leha ve,
Maiicki. Hkiikbt, nella
He vite de
l'unicersité de Bruxelles,
voi. XI, 190T), p.
14li. L'Héhert è
autore d'un libro
ili non grande
levatura, ma non
destituito d'interesse, L'évululìo»
de la foi
rittholitjue, Paris, Alcan,
11)05. Le t/ualrième évangile,
Paris, Picard, 1908. Leipzig, 1900.
Versione italiana, L'essenza
del Cristianesimo, Torino, Bocca.
1903. Tutte le condanne
e le loro
motivazioni si possono
leggere, raccolte dal
Loisy medesimo, in
fondo ni suo
volumetto polemico Aulour d'un
peli! licre, Paris,
Picard, 1H03. storico
di grande riputazione,
Gabriel Monod, ebbe
a notare che
dopo il concilio
di Trento e
segnatamente dopo il
concilio Vaticano, la
Chiesa ha smarrito
il senso della
storia ed l al 17(55
sei volumi di
dissertazioni uni culto
di Maria, sbarazzava
la tradizione lauretaua
da quell'ani masso
di favole ond'era
aduggiata e per
primo faceva vedere
l'inutilità dei pretesi
documenti antichi, rutti
falsi. Ad una
negazione decisa del
fatto egli per
altro non giunse,
come non vi
giunse quel dotto
e candido sacerdote
alsaziano lìiiis. Antonio
Vogcl, che rifugiatosi
nella Marca pel
turbinare della rivoluzione
francese, compulsò quanti
documenti d'archivio gli venne
fatto trovare e
scrisse un commentario latino
De ecclesia Recana
tenni Lanretana, pubblicato
postumo solo nel
1859 (il Vogel
mori nel 181 7),
che non oppugna
decisamente la tradizione
per rispetti ovvii,
se non del
tutto giustificabili. Monaldo
Leopardi, tuttavia, ci
assiema esser il
Vogel venuto nella
persuasione « qualmente
la santa cappella
Lauretana poteva venerarsi
per molti titoli,
ma non «
era la Santa
Casa di Nazareth
•. Solo in
tempi a noi
vicini un barnabita,
Leopoldo De Feis,
aveva il coraggio
di dire chiaramente
ed esplicitamente ciò die
molti altri pensarono
prima di lui:
i suoi due solidi articoli
su La S.
Casa di Nazareth
ed il Santuario
di Loreto .('), destinati a
sfatare la tradizione
laure tana, suscitarono
plausi e contumelie,
ma ebbero nello
stesso clero difensori
illuminati, specialmente in
Francia l'abate Boudinhon,
che nella Reme
da clvrgè franrais
sostenne una vera
battaglia contro gii
oppositori. Finalmente venne
in luce il
voluminoso ed eruditissimo libro
del canonico Ulisse
Chevalier, Nolre-Dame de
Lorette, ètwle hi
sto rique sur
l'aatìienticifè de la
Santa Cum ('),
che resterà il
vero punto di
partenza per ogni
ricerca futura. Per
quel che concerne
la portata dialettica, il nerbo
dell'argomentazione contro la
veridicità della leggenda, l'opera
dello Chevalier, condotta più
da bibliografo che
da storico, non
supera in valore
l'opuscolo del De
Feis, perchè l'immensità
del materiale erudito,
sebbene ordinatamente
disposto e bene
riassunto, turba il I
due articoli uscirono
nei volumi 141
e UH della
/?«.«seyha nazionale di
Firenze; ma in
quel medesimo anno
1H0-") comparvero anche,
con aggiunte, in
un opuscolo a
parte. Paris, Picard, 190b\ Lo
Chevalier è notissimo
in ispecie per
la grande benemerenza acquistatasi col
suo Hi'pertoire rfes
sources [ustorique.s du
moi/en-àge. Altre opere
sue principali riguardano
la poesia liturgica
dell'evo medio. Ejrli
suscitò pure rumore
fra noi impugnando
l'autenticità della Sindone
di Torino. procedimento ragionativo
e svia l'attenzione
del lettore; ma
in compenso si
ha qui raccolto
tuttociò ehe in
ogni senso può
interessare gli studiosi
della grande leggenda.
Prima di venire
ad esporre di
volo la sua
argomentazione, mi sia
concesso avvertire ch'egli
ebbe un consentimento
particolarmente autorevole e non
sospetto. Cario De
Smedt, uno di
quelli esperti e
spregiudicati lìollandisti del
Belgio, che altra
volta ebbi già
a lodare ('),
dopo aver con
mirabile chiarezza riassunto le
conclusioni dello Chevalier,
considera il suo
libro « cornine
une oeuvre définitivc.
dont «
anemie déeou verte
de doruments encore
in« comi us ne
pouria ébranler les
solides a.sp. 35fi e
585. «
rito, la qual
è facta de
quadreli o ina
toni et «
è coperta de copi (tegole);
et in quel
paese « non
se trovano tali
cosse. La casaadumque
vera « de
la b. Verzene
è cavata nel
monte, lo qual
« è de
tupho, et è
soto terra, grande
per quadro «
sedpce braza, cum
due stantiolete, l'ima
an« canto l'altra;
in una de
le quale dimoiava
« Joseph et
in l'altra la
b. Verzene. E
quella « casa
medesima che era
in quel tempo,
quando « la
fo annunciata, è al presente.
Nè non se
« poterla apportar
uè levare salvo
chi non pov«
tasse el monte
» . Candida quanto
energica protesta ; ina a
farla il dabben
francescano dovette essere
indotto da ciò
che in Italia
a' tempi suoi si
narrava. E infatti nel
1472 Pietro di
Giorgio Tolomei, detto
dalla città nativa
il Teramano, avea
pei" la prima
volta riferito il
miracolo della traslazione, asserendo di
saperlo da due
vecchioni di Recanati,
che a lor
volta lo tenevano
dai loro avi.
Più che il
silenzio di ogni
fonte trecentesca, compresi
cronisti come Giovanni
Villani, potè questa
pretesa diceria di
vecchi, passata di
bocca in bocca.
Le parole del
Teramano furono riprodotte,
affisse nella cappella
lauretana, tradotte; il carmelita
mantovano Battista Spagnuoli
contribuì a diffonderle
elaborandole in una
operetta latina, ch'ebbe voga.
Papa Giulio II
non tardò a
confermare la leggenda
con una bolla
del 1507, che
è tuttavia assai
circospetta nell'affermare la
traslazione, usando la
forinola « ut
pie credi tur et fama
est. Bili qui
siamo ancora nella
buona fede; più
tardi principia la
intenzionale mistificazione, che
consiste nell'in venta
re circostanze di
fatto, nel precisare
tutto, nel'" tenticare
coi falsi la tradizione
corrente ('i. 1
documenti allora addotti,
siccome rimontanti al
XIII e al
XIV secolo, furono già
dimostrati falsi dal
Trombelli, dal Vogel
e dal Leopardi,
e nessuno ha
potuto salvarli da
quella condanna, che
lo Chevalier ribadisce.
Le bugie si
ammonticchiarono nel racconto
che, togliendo a base
il Teramano, credette
di redigere nel
ìò'òì Girolamo Angelita,
segretario del Comune di
Recanati, e quindi
in quello di
Raffaele Riera, e
finalmente (1594) nell'opera
divenuta celebre di
Orazio Torsellini, di
cui s 'hanno traduzioni in
tutte le lingue.
Con testimonianze false,
inventate di sana
pianta, si cercò
dimostrare il passaggio
della Santa Casa
per la Dalmazia,
di cui nessun
documento di qualche
valore fa motto;
e quindi si
pose ogni industria
nel determinare i
suoi piccoli giri
in Italia, nel
territorio di Recanati. I
pellegrini del seicento
videro in Palestina ciò
che sin 'allora nessuno
aveva veduto: le
fondamenta della casetta,
le cui mura
soprastanti eran volate a
Loreto. Finalmente, nell'opera
sua rara stampata
ad Anversa, Franti) I
valenti sacerdoti che
s'occuparono del soggetto
questo non dissero; ma
appare evidente dai
fatti ampiamente allegati
dallo Chevalier. Nel
Cinquecento e nel
Seicento s'è mentito
sapendo di mentire,
nè giova dissimularlo.
Divido interamente su
questo punto l'opinione
del Delabohde, L'évolution
d'une legende pieuse,
in Journal des
novanta cesco Quaresmio, motivava
la fuga della
Santa Casa con
le strano racconto,
del tutto favoloso,
d'un vescovo che
per paura de'
Maomettani avrebbe apostatato
la fede cristiana,
sostituendo il turbante
alla mitra. Scandalizzata
per questo contegno,
la Vergine avrebbe
intimato il trasloco
della sua abitazione,
non altrimenti da
ciò che avvenne
poscia nella Marca,
ove cangiò di posto
prima perchè i
briganti infestavano la
località prescelta e
quindi perchè erano
sorte discordie tra i due
fratelli Alitici, nel
cui podere era venuta
a posarsi. Essendo
cosi suscettibile alla
buona moralità delle
genti che l;i
circondano, non ò
del tutto insussistente
l'odierna speranza dei
Mariaviti polacchi, i
quali attendono che
da un giorno
all'altro la Santa
Casa prenda il
volo di nuovo
e venga a
collocarsi in mezzo
ad essi. Un
Muratori, credenzone, anzi
haggeo, di tutte
le fandonie spacciate
sino a quel
tempo sulla Santa
Casa fu Pietro
Valerio Martore-Ili nei
tre grandi volumi
in folio intitolati
Teatro /storico della
Santa Cam Nazarena
della lì. Vergine Maria, editi
in Roma dal
1732 al '85.
Questo che lo
Chevalier chiama «
le mare magmi m
de notre legende
» ha il
merito di accogliere
il più gran
numero di tradizioni
leggendarie ed ha
il torto di accettarle tutte
come verità sacrosanta,
senz'ombra di critica.
(1) Per tale
curiosissima aspettazione vedasi
Ciiev.m.ikh. 1>. 11
gran battagliale che
si fece contro
il De Feis
e lo Chevalier
in giornali, in
riviste, in opuscoli,
in libri, non
si può dire
abbia alcun valore
scientifico (*). Trattasi
del solito cicaleccio inconcludente di
persone in cui la coltura e
l'abito della critica
sono di gran
lunga inferiori al
fervore religioso. Ameno
è, in questo
genere di letteratura,
l'opuscolo scervellato d'un
guidatore di pellegrinaggi
francesi a Loreto,
l'untuoso abate J. Faurax
(*). Questo confuso
ed idiota affastellamento di
frasi, condito di
velenose insinuazioni,
rappresenta purtroppo l'indirizzo pietistico di
una buona parte
del clero cattolico,
di che non
c'è da consolarsi.
Meno insensato, ma
non meno inconcludente, è
un libretto italiano
diretto contro il
De Feis da
R. Della Casa,
col titolo pretensioso
di Studio storico documentato sulla
S. Casa di
Maria venerata a Loreto
(3); ma s'ingannerebbe a
partito chi, illuso
dal frontispizio, credesse
di apprendervi qualche
novità di rilievo.
Del resto lo
Chevalier, sempre coscienziosissimo, non
mancò di prendere
in esame qualsiasi
dato di fatto
nuovo che nell'ardente polemica gli
venisse presentato: cosi
(1) Tedi le
indicazioni bibliografiche date
in proposito dall' Ai.i.mano, nel
cit. Histor. Jahrbnch, Tjt
Halnte Maison rie
Sotre Mère à
Loretle. Lyon-Paris,
190f j. ("3)
Siena, Tip. S.
Bernardino mostrò che è
«cura e gotta
falsificazione del seicento
certa bolla pontificia
che volevasi emanata nel
1310 da Clemente
V con accenno
alla Vergine di
Loreto; e cosi,
avendo udito di
una reliquia farfense
del sec. XII
avente la scritta
« de domo
lauretana Virginis ilariae
», non fu
pago se non
quando, appurato bene
le cose, si
persuase che la
scritta appartieni! al
sec. XVI Sarebbe
solenne ingiustizia il
confondere con le
altre cianfrusaglie polemiche
pregiudicate e melense
il bello e
ricco volumetto di
ìnons. Michele Faloci
Pulignani, La Sanici
Casa di Loreto
secondo un a/fresco di
Gvìiltio, Roma, HiOT.
Sebbene, a parer mio,
non t'aggiunga il
suo scopo rispetto alla
dimostrazione del miracolo,
questo libro è
e resterà sempre
un eccellente contributo
alla storia della
fortuna che ebbe
la Santa Casa
nelle arti del
disegno. Le illustrazioni
onde lo scritto
è corredato sono
curiose »\1 alcune
non ovvie; ma
non giovano a
mostrare, come il valente
autore vorrebbe, che
nel rovinatissimo affresco dipinto nell'antico
chiostro di S.
Francesco in Gubbio
sia rappresentata la
traslazione della Santa
Casa. Pare anche
a me, contro
le obiezioni di
altri, che quel
dipinto, per ragioni
stilistiche, non possa
ascriversi se non
alla seconda metà
del sec. XIV;
quindi mostrerebbe la
leggenda formata un buon
secolo prima di
quanto sinora ci
(1) I due
articoli dello Clievalier
sui menzionati soggetti
leggonsi nei Mélanges
d'archeologie et d'histoire
editi dalla Scuola francese di
Roma, ,V>7 risulti,
ila la difficoltà
sta pur sempre
nel provare che quella
cappellaccia portata da
angeli, che la
Madonna, chiusa in
un'aureola a mandorla e
da angeli circondata,
addita dall'alto, sia
veramente la Santa
Casa. Il Faloci
ha posto nella
dimostrazione, col fuoco
consueto della sua
indole, molto acume
e molla dottrina,
non v'ha dubbio.
Tuttavia che l'affresco
d'un chiostro francescano,
primo nella sua
ubicazione e quindi
tale da aprire
una serie di
rappresentazioni francescane,
raffigurasse proprio un
fatto che con
S. Francesco e
con l'ordine suo
non ha nulla,
o quasi nulla,
da vedere, è cosa ostica
a credersi. Inoltre quella
che gli angeli
portano non ò
una casa, ma una chiesa:
e il paesaggio
e i pochi
altri particolari di
fatto che la
gran rovina del
dipinto ci permettono
di scorgere, non
corrispondono, checché ne dica
l'erudito monsignore, a nessuna
particolarità della leggenda
lauretana; e la
Vergine non è
rappresentata con in
braccio il Bambino,
come costantemente pratica l'iconografia della
Santa Casa. L'affresco
eugubino dovrà ancora
essere sottoposto a
studi; ma sinora,
a parer mio,
non è la
tradizione lauretana che
possa rallegrarsene, perchè
con ogni probabilità
si tratta di
un soggetto simbolico
francescano, che esso
ci pone sott'occhio.
Se anche non tutto
sia chiaro, ha
molto maggiore verosimiglianza l'ipotesi
prima sostenuta dal defunto
dottor Lapponi, medico
di Leone XIII
i '), (l)
Rassegna Gregoriana, V
(190fti, oAl sgg.
5 e ora
più ampiamente dal
canonico Vittorio Pa.
gliari ('). che
quel dipinto ingenuamente
ci dica come,
per volontà di
Maria, la chiosimi
della Porziuncula fosse
dagli angeli portata
in terra e
deposta presso Assisi.
Quel simbolo racchiude
quanto v'ò di
misticamente più significativo
nell'opera di S. Francesco;
e però appare
molto probabile che
aprisse, come in
altri conventi francescani
avveniva, la serie
delle pitture. Le
quali, anche per
tradizione di chi
potè vederle ancora
ben conservate, rappresentavano fatti
di 8. Francesco
e non altro,
« varia et
plura gesta «
S. Francisci da
Assisto, singula inter
se di« visa
et depicta rudi
et antiquo modo
», come scrisse
nel suo rogito
del 16.V5 il
notaio eugubino Anton Maria
Valentin! (*). *
Giunti a questo
punto, legittima e
la domanda :
come germogliò la
leggenda, che trovò
hi prima consacrazione
scritta sul cadere
del secolo XV,
e fu tanto
amplificata, e non
sempre onesta mente
elaborata e diffusa
nei successivi? Chi
ha qualche pratica
in siffatto ordine
di indagini sa che c
assai più agevole
segnalarci caratteri specifici
di una leggenda
e indicarne la
evoluzione, di quello
che sia scoprirne
con si Rivista
storico-critica delle scienze
teoloyiche, III 1 1907),
5èB 9gg. Faloci-Pcligxaxi, Op.
cil., p. S. cu
rezza l'origine. Tuttavia
parecchie congetture si
possono fare e
furono fatte (').
Una di esse
è, sopra tutte,
la più calzante
e verosimile. Eccola.
Esisteva in quel
di Recanati un'antica
chiesetta, che pare fosse
gentilizia (*), intitolata
alla Natività di
Maria, ove si
venerava una Madonna che
divenne celebre per
miracoli, cosicché nel
XIV e nel
XV secolo vi
traevano in gran
numero i pellegrini.
Come accadde tanto
sposso nei santuari
medioevali, crebbero intorno
ad essa piccole
case, ad uso
d'ospizio, d'ospedale e
di amministrazione, che
si chiamarono al
plurale dotuus Marine.
Di quella chiesetta
e di quei
pellegrinaggi e dei doni
cospicui accumulati colà
parlano molti documenti,
amministrativi, ecclesiastici
e pontifici, senza
far mai motto
della traslazione. Mentre
ancora nel 1438
si parla delle
case di Maria
(domokum gloriosae Virgiuis
Marine de Laureto),
nel 1438 si
ha il primo
accenno scritto alla casa
di Maria (domum
sacratissimae Sanctae Mariae
de Laureto) (3),
e la confusione
non ò difficile
a spiegarsi quando
si consideri che
domus, appartenendo alla
quarta declinazione, ha
l'uscita uguale nel
nominativo singolare e
nel nominativo plurale.
In questa (1)
Chevamek, pp. 479
sgg. Vedi anche
la lucida esposizione del Journal
ile» garanti cit.,
pp. 372 sgg. Lo
si deduce da
documenti vaticani della
prima metà del
sec. XIV, rimasti
sconosciuti allo Chevalier,
per cui vedi
Burniscile Quarlalschrift, an.
190U, p. 165.
(3; Cubvaliek, pp.
226-2SJ, confusione e
nel fatto attestato
da unii bolla
di Paolo II
del 12 febbraio
1470, clic la
miracolosa, imagine della
Vergine, venerata uella
piccola chiesa, era
stata colà portata
dagli angeli (angelico Gomitante celti
mira Dei clementia
collocata est) (')
si ha con tutta probabilità
da riconoscere il germe
della tradizione leggendaria
ltturetaua. che nell'attestazione del
Teramano ha già portato
i suoi frutti.
Quando il Sai-ehetti,
che conobbe de
risa la Marca
ed in ben
diciassette novelle parla di
soggetti marchigiani, pone
in bocca a
Mauro pescatore di
Oivitatiova il giuramento »
per Santa Maria
de Loreto »
'*), egli senza
dubbio allude alla
Madonna miracolosa, che
come tante altre
dice vasi colà
trasportata dagli angeli.
Tutti intendono quanto
facilmente dalla Madonna
si potesse passare
alh: casa della
Madonna nell'idea di
si {fatto trasporto',
dal momento che in
un darò tempo
casa di Maria
fu detta la
primitiva chiesuccia laurctana,
non diversamente fora* dalia
« casti di
Notlra Donna in
sul lito Adriano
» che nomina
San Pier Damiano nel
cielo di Saturno
(3). (1) Chevamkr,
p. 2CHì. Credo io
pure felice la
correzione proposta dal
Bottari. giacché il
testo ha «
Santa Maria dell'Oreiio
■. I dubbi
dello Chevalier, p.
173, non mi
sembrano fondati. Vedi
anche D. Spadoni,
// santuario di
Loreto e un
novelliere toscano d"l
sec. XIV. in
Rivisto marchigiana illustrata,
IV fl907), n.
4. Anche il ternario
inedito fatto conoscere
da M. Vattasso
nel Giornale Arcadico
del gennaio 1907
invoca unicamente la Madonna
di Loreto, senza
verun accenno nè
alla Santa Casa
n'' alla sua
traslazione. (3) Paradiso,
XXI, 122-123. Ma
Dante con quella
casa designa una chiesa
o un monastero?
Vedi perle controversie I
luoghi di grandi
e frequenti pellegrinaggi
sono singolarmente disposti
a veder nascere
e vigoreggiare le
leggende. Quel pubblico
di devoti, e talor
di fanatici, è
sempre in sommo
grado suggestionab|le, nè
giova tacere che
v'è talvolta chi
tei il massimo
interesse di trar
profitto dalla sua
propensione ad essere
suggestionato. Le leggende di
questa specie hanno
quasi sempre un
periodo spontaneo ed
un altro artificiale;
come vedemmo esser
seguito a Loreto.
La cosa non
deve far certo
meraviglia quando si
pensi che uno
studioso serissimo, dotto
ed acuto, Giuseppe
Bédier, vien consacrando
da anni le
sue fatiche a
mostrare che tutte
o quasi tutte
le leggende epiche
carolingie hanno la
loro sorgente nei
santuari medievali e gli
organi principali della
loro trasmissione nei
pellegrinaggi ('). a
cut dà luogo
quel passo, oltreché
i commenti dello
Scartazzini, dej Casini,
ilei Torraca, anche
C. fiicci, L'ultimo
rifu/fio di Dante Alighieri,
Milano, 1891, pp.
123-1"28 e Suììelt.
»Soc. Dantesca, X.
S., VI, 75-77
e XI, 318.
Monaldo Leopardi, come
mostra nella XIII
e nella XXII
delle sue Discusmoìii
lanretane e ribadisce
negli Annali, si
faceva forte specialmente
del passo dantesco
per sostenere la sua
tesi che la
traslazione della Santa Casa
è anteriore al
1291. Del resto,
l'identificazione, del tutto falsa,
della caaa nominata
da Dante con
quella di Loreto
pare risalga al
Maglia bechi. Cfr.
Chevamer, p. 158.
il) Il I$>dier
ha già pubblicato
in proposito una
bella serie di
articoli, tra i
quali sono per
noi importantissimi quelli
su I^e* rhannonx
de geste et
les routes d'Italie,
inseriti nei volumi della
Romania. Dell'opera d'insieme
che ne risulterà,
Leu légendes épiqitea,
recherches sur la
formation de* channona
de geste, è
già uscito il
primo volume, sul
sottociclo di Guglielmo d'Orange
(Paris, Champion, 1908).
Kknikr Scatj/ti Critici
Oramai la parte
più illuminata ck'l
cloro cattolico, quella parte
che non rinuncia
a pensare col
proprio cervello e
che non ripugna
ai procedimenti scientifici, non
può più prestar
fede a certi
tradizioni destituite d'ogni
solida base storica,
come quella della
traslazione della Santa
Casa. E tuttavia
i vescovi marchigiani,
in una lor pastorale
dell'aprile 1906, asseverano
che le conclusioni negative dei
dotti su quest'argomento suscitano «
l'indignazione
dell'innamorato stuolo « dei devoti
della Vergine (') », e
l'attuale pontefice fa scrivere
a mons. Faloci
che « approva
al« tamente i
suoi studii per
la difesa d'una
tra« dizione venerata
da tanti secoli,
cosi cara alla
« Chiesa ed
alla pietà dei
fedeli» . E quel
eh 'è peggio, un
uomo d'altissimo sapere,
esperto in ogni
accorgimento dalla critica,
autore d insigni studi
sul papato nel
medioevo, il padre
(irisar, discorrendo nel
1900 in Monaco
agli scienziati cattolici riuniti
a congresso, sostiene
che sarebbe sconveniente (ungesiemend)
l'annunciare dal pergamo
al popolo che
la Santa Casa
non fu portata
dagli angeli e
non è quella
di Nazareth, perchè
maxima debetur puero
reverentia, e conviene che
la verità s'infiltri
a poco a
poco dalla cerchia
ristretta degli scienziati
nel pubblico La Ranaerpia
Xazionale, vo\. 157,
p. 137. La
Civiltà Cattolica. largo (l).
E l'illustre bollandista
De Smcdt, pur
riconoscendo con tutti
gli altri che
la Chiesa non
ha punto autorità
infallibile quando non
si tratti dell'interpretazione di
verità rivelate, crede
che sarebbe temerario
il chiedere all'autorità
ecclesiastica d'affrettarsi
a proclamare la
falsità di certe
credenze trasmesse di
generazione -in generazione
(*). Di
cotali asserzioni e
professioni, venute da
ecclesiastici che sono
veri scienziati, potrei
aggiungerne agevolmente un'altra
dozzina. Ora io
trovo che codesta
acquiescenza interessata
all'errore, codesta custodia
conservatrice gelosa di
tante falsità, che
s'ammantano col nome
di pie credenze,
non sono degne
di chi ama
proclamarsi interprete della verità
rivelata. So pormi
facilmente nella condizione
della Chiesa rispetto
a tendenze per
essa pericolosissime come
era il modernismo,
e ne intendo
la condanna. Non intendo
invece, in chi
non muova da
principi utilitari e sia
in buona fede,
questo rispetto malato
per tutte le
mille incrostazioni superstiziose
che il cattolicesimo
ha dal medioevo;
non intendo come
non si veda
che lo sbarazzarsene
risolutamente sarebbe atto salutare
alla stessa purità
e santità della
fede. Maxima debettupuero
reveventia, non c'è
dubbio: ma non
è reverente chi
permette che il
popolo, l'eterno fanciullo,
sia goffamente ingannato
in materia non
dommatica e sulla
quale è possibile
veder chiaro con
la ra ili Hhttor.
Jahrburh, XX Vili, 3u(j.
l'ij Anatrila Boltaiiiliana, gione.
Ammenoché il puer
non sia il
(frosse Lummel dello
Heine, il grosso
babbeo, destinato, in
questa come in
tante altre bisogne,
a lasciarsi infinocchiare. Se non che
considerarlo a questo
modo e profittarne
fu ed è
costume di tutti
i settari, i-ossi e
neri, ma non è da
cristiano. Nota aggiunta.
— Ne] Fanfulla
della lìouienira, 10
inagpio 1908. Sul
soggetto non usci
di importante dopi'
d'allora se non
lo studio di
A. Chkscenzi, Iconografia
lauretana, nella Ri-
vista storico-critica delle scienze
teologicJie, IV (1908i,
pp. 755 sgg.
Il Crescenzi riguarda
come « confutazione
definiti va quella
che il Pagliari
oppose al Faloci
rispetto al sifruitìcato
clel- l'aiiresco di
Gubbio, e ordinato
meglio il materiale
iconogra- fico, propone una
nuova ipotesi rispetto
all'origine della leggenda.
Secondo Ini, il
germe di quella
leggenda sarebbe stato
un affresco, forse
dipiuto bu di
una delle pareti
esterne del santuario,
che fin da
tempo antico si
venerava presso l'attuale
Loreto. La Vergine
ivi sarebbesi veduta
sopra una casa
portata da angeli,
e questo tipo
di 8. Maria
dpgli an- geli avrebbe
prodotto nella tradizione
popolare la credenza
nella casa della
Verdine miracolosamente trasportato,
dagli angeli. Alle
obiezioni rivoltagli dal
padre Esehhaeh nell'O*-
servature romano il
Crescenzi rispose uella
medesima Hivista storico-rritica. Perl' corografia
lauretana vedasi pure
E. Tini nella
Rivista abruzzese, XXIV,
fWO sgg. La
produzione artistica moderna
più ragguardevole sugge-
rita dalla nostra leggenda
è il vivacissimo
affresco di G.
B. Tiepolo nel
soffitto della Chiesa
degli Scalzi in
Venezia. Si veda
P. Molme.n'tx, G.
B. Tiepolo. Milano. LATERZA BIBLIOTECA DI
CULTURA MODERNA. Orano Psicologia
sociale King e Okev —
L'Italia d'oggi Ciccotti Psicologia
del movimento socialista Amadoki-Virgilj —
L'Istituto famigliare nelle
Società primordiali Martin —
L'Educazione del carattere
(esaurito) 6. G.
Db Lorenzo —
India e Buddhismo
antico Spinazzola —
Le origini ed
il cani iu ino dell'Arte
» 3,50 8.
H. i>b Goijhmont
— Fisica dell'Amore.
Saggio sii l'istinto
sessuale Cassola — I
sindacati industriali. Cartelli Pool. - Trust
Marchesini Le finzioni dell'anima.
Saggio ili Etica
jiedagogka Kkich Successo delle
Nazioni Barbagallo — La
line della Grecia
mitica Movati —
Attraverso il Medio
Evo Spixgarn La critica letteraria
nel Kj na- scimento Cariale —
Sartor Resnrtus Carabellese —
Nord e Sud
attraverso i secoli Spaventa Da Socrate
a Hegel Labriola Scritti
vari di filosofìa
e politica a
cura di B.
Croce Balfour Le
basi della fede Freycinet Saggio
sulla Filosofìa delle
Scienze Croce Ciò
che è vivo
e ciò che
è morto della
filosofia di Hegel Hearx
Kokoro. Cenni ed
echi dell'intima vita
giapponese Nietzsche —
Le origini della
tragedia Imbriani — Studi
letterari e bizzarrie
satiriche Hearn Spigolature
nei campi di
Ituddho. Sai.eeby Iju
Preoccupazione ossia la ma- lattia del
secolo Vossi.er — Positivismo
e idealismo nella
scienza del linguaggio Arcoleo —
Forme vecchie, idee
nuove Il pensiero dell'Aitate
Galiani Antologia di tutti
i suoi scrìtti
editi e inediti Spaventa —
La filosofia italiana
nelle sue relazioni con
la filosofia europea
Sohel — Considerazioni sulla
violenza Labriola Socrate.
Nuova edizione Kohler Moderni
problemi del Diritto
Yosslkr La
Divina Commedia studùtta
netta sua genesi
e interpretata Gextii.k —
Il Modernismo e i rapporti
tra religione e filosofia
Festa — Un
galateo femminile italumo
del trecento Spaventa La
politica della Destra Rovck
- Lo spirito
della Filosofia Moderna. R. Svaghi critici. Rodolfo Renier. Renier. Keywords: italiano?
No, la lingua d’Italia -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Renier” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Rensi: TRASEA – l’implicatura
– la scuola di Villafranca di Verona -- filosofia veneta -- filosofia italiana
-- Luigi Speranza (Villafranca
di Verona). Filosofo
italiano. Villafranca di Verona, Verona, Veneto. Grice: “Only in Italy does a
philosopher get his obituary when still alive!” Studia a Verona, Padova, e Roma. Insegna a Genova. Iscrittosi
al partito socialista, si reca a Milano
per assumere la direzione del giornale “La lotta delle classi sociali”,
collaborando assiduamente anche alla turatiana Critica Sociale e alla Rivista
popolare. A seguito delle misure repressive adottate dal governo, e per
sfuggire alla condanna del tribunale militare per aver preso parte ai mossi operai
milanesi, stroncati dall'esercito con la strage del generale sabaudo Beccaris, è
costretto a cercare rifugio in Svizzera. Frutto dell'esperienza ticinese e
la pubblicazione de “Gl’anciens régimes e la democrazia diretta” (Colombi,
Roma) in cui difende il principio della democrazia diretta del sistema
istituzionale federalista. Collabora con numerosi articoli ai fogli radicali Il
Dovere di Bellinzona, la Gazzetta Ticinese e L'Azione di Lugano, nonché alla
rivista socialista e pacifista Coenobium. Ri-entra in Italia per stabilirsi a
Verona dedicandosi alla filosofia del linguaggio – “o semantica.” A seguito
della campagna libica, vi è la rottura col partito socialista, poiché si è schierato con l'interventismo di Bissolati.
Pubblica “Il fondamento filosofico del diritto” (Petremolese, Piacenza). Altri
due volume seguono: “Formalismo e a-moralismo giuridico” (Cabianca, Verona) e “La
trascendenza: studio sul problema morale” (Bocca, Torino), ove sviluppa un
idealismo trascendente. Insegna a Bologna, Ferrara, Firenze, e Messina. L'esperienza
della grande guerra manda in crisi (“alla merda”) la sue convinzione idealistica,
conducendolo verso lo scetticismo – della ‘scessi’, come la chiama --, la cui
prima formulazione sono i “Lineamenti di filosofia della scessi” (Zanichelli,
Bologna). Sostene che la guerra distrue la fede ottimistica nell'universalità
della ragione, sostituendola con lo spettacolo tragico della sua pluri-versalità,
vale a dire dell'irriducibile conflittualità dei diversi punti di vista. Espose
nella “Filosofia dell'autorità” (Sandron, Palermo) la traduzione politica di
questa concezione. Poiché tutti i punti di vista politici sono sullo stesso
piano, quello che anda al potere lo fa con un atto di forza, tacitando tutti gl’altri
punti di vista. In questo saggio si è scorta una prima GIUSTIFICAZIONE dell'autoritarismo
fascista. Tuttavia, dopo una prima simpatia per il fascismo, ne divenne un
fiero avversario quando MUSSOLINI con metodi un po ‘anti-democratici’ comincia
a perseguire un disegno dittatoriale ispirandosi a GIULIO CESARE – o duca/duce.
R., non Mussolini, sottoscrisse il Manifesto degl’intellettuali o filosofi anti-fascisti
di CROCE, pagando questa scelta con la sospensione, dalla cattedra di filosofia a Genova. Arrestato
e rinchiuso in carcere. Solo un abile stratagemma escogitato dall'amico e
collega SELLA, che pubblica sul “Corriere della Sera” il necrologio del
filosofo, diffondendo così la falsa notizia della sua morte, induce il duce a
rimetterlo prontamente in libertà. Il dittatore teme l'ondata di sdegno
sollevatasi per i metodi oppressivi del regime. Per la sua coerenza agl’ideali
di libertà, sube il definitivo allontanamento dalla cattedra, è, comandato, da
vigilato speciale, presso il centro bibliografico dell'ateneo genovese, per la
compilazione della biografia ligure. Nonostante il doloroso distacco dalla
scuola dove insegna, continua la sua attività filosofica e collabora al
quotidiano socialista genovese Il Lavoro, l'unico foglio che accoglie testi di
personalità che non hanno fatto atto di sotto-missione al fascismo. Ricoverato
al ospedale Galliera mentre infuria il
bombardamento della flotta inglese su Genova, per essere operato d'urgenza.
Tuttavia l'azione militare danneggia alcune sale dell'edificio e i medici doveno
rinviare l'intervento, una fatalità che non lascia scampo a R. Ai funerali
pochi amici ed ex allievi poterono seguire per breve tratto il carro funebre.
La polizia, che vieta questo devoto omaggio, dispersa il funerale, schedando
alcuni discepoli. R., anche morto, tura il potere. Sulla tomba nel cimitero di
Staglieno un'epigrafe riassume uno stile di vita ed esprime il suo dissenso, la
sua resistenza e indipendenza filosofica. ETSI OMNES NON EGO. La sua filosofia si
è sviluppata dopo l'approdo alla scessi in
direzione del realismo e del materialismo critico. Un realismo materialistico
quindi, che considera derivato, con una certa libertà interpretative, dal
criticismo. Arrriva ad ipotizzare che Kant puo pensare alla cosa in sé come a
una più nascosta essenza materiale della cosa stessa. La sua filosofia non
e esente da paradossi concettuali e da mutamenti continui che lo hanno portato
a cadere in alcune contraddizioni e incoerenze. Ma va anche considerato che al
di sopra d’esse a dominare è comunque un forte pessimismo, che non è solo
esistenziale, ma anche gnoseologico. Sia il mondo, sia la mente umana sono
irrazionali. Ma supponiamo che un tale fatto esteriore ai nostri orologi,
destinato al controllo di questi, non esiste, e che i nostri orologi
continuassero a discordare. Come potremmo allora, in mancanza di quel fatto
esteriore obbiettivo e nel discordare dei singoli nostri orologi, conoscere
l’ora che è? Ora questo è appunto il caso delle nostre ragioni. Non c’è
l’oggetto esterno ad esse, l’esterno modulo-ragione, su cui controllarle e che
le giudichi, ed esse discordano tra di loro. Come conoscere l’ora che è della
ragione? Per esempio egli ha sostenuto che, siccome la filosofia ha una storia
che si snoda nel tempo, ciò significa che un pensiero vero e unico non può
esistere e che perciò nel suo procedere ed evolvere essa nega continuamente sé
stessa. Contro l'idealismo di GENTILE, allora imperante, che considera la
storia una realizzazione progressiva dello spirito e della ragione, ha una
visione negativa della storia, come assurdo caso e vana ripetizione. C'è
storia dunque perché ogni presente, ossia la realtà, è sempre falsa, assurda e
cattiva, e perciò si vuol venirne fuori, passare ad altro, quel passare ad
altro in cui, unicamente, la storia consiste. C'è storia, insomma, l'umanità
corre nella storia, per la medesima ragione per cui corre un uomo che posa i
piedi su di un sentiero cosparso di spine o di carboni ardenti. La sua critica
della religione si sviluppa poi in un'aperta apologia dell'a-teismo. Sembra
quasi di poter cogliere uno dei tratti dell'a-teismo in un saggio “Sopra lo
amore di FICINO (si veda). FICINO
propone una visione dell'amore come amore eterno che ritorna come
desiderio di ogni grado ontologico di ritornare al bene e al tutto. Propone una
nuova interpretazione di questa tipica teologia dell’ACCADEMIA, vedendo
nell'amore ipotizzato da Ficino in realtà un preludio a quelle che diventeranno
due tra le più influenti correnti filosofiche: l'idealismo e il volontarismo.
L'amore come totalità dei diversi, o come volontà nelle vesti di matrice
essenziale del tutto, mette da parte il bisogno dell’amore trascendente e
sussurra l'ipotesi di un a-teismo, forse professato tra le righe dai più
celebri filosofi. Filosofo profondamente problematico e inquieto, fine però
per approdare a un forte pessimismo ontologico ed esistenziale, che lo spinse
verso derive spiritualistiche, forse latenti nelle sue riflessioni fin dalle
origini nelle “Lettere spirituali”. In quest'opera, come anche nell “La morale
come pazzia” (Guanda, Modena), delinea una sorta di mistica dei valori e
un'etica concepita come l'azzardo dell'uomo che scommette sul bene in un
universo cieco e indifferente. Nella sua “Autobiografia intellettuale” suddivide
in tre periodi la sua evoluzione. Un primo misticismo idealistico. Un secondo
relativismo scettico materialistico e ateo. Un terzo misticismo spiritualistico
come ultimo approdo della sua filosofia. Il primo è un misticismo di tipo
platonico dell’ACCADEMIA, in cui sono presenti anche elementi di San Paolo e di
Malebranche. Scrive “L’antinomie dello spirito” (Petremolese, Piacenza); “Sic
et non: meta-fisica e poesia” (Romaa, Roma); “La trascendenza: studio sul
pensiero morale”. Il secondo periodo nasce dal suo sconcerto di fronte alle
violenze della grande guerra e lo porta alla negazione di qualsiasi razionalità
della realtà. Pensa infatti che se gl’uomini ricorrono sistematicamente alla
violenza per risolvere i loro conflitti, questo significa che la ragione in sé
non esiste, e che si tratta dell'illusione dell'uomo di pensare che si puo dare
ordine al caos. L'irrazionalità della realtà si trova espressa in “Lineamenti
di filosofia della scessi”; “La filosofia dell'autorità”; “La scessi estetica” (Zanichelli,
Bologna); “Polemiche anti-dogmatiche” (Zanichelli, Bologna); “Interiora rerum –
la filosofia dell’assurdo” (Milano, Unitas); “Realismo” (Milano, Unitas); “Apologia
dell'a-teismo” (Formiggini, Roma); e “L’aporie della religione”. Il secondo
periodo è altresì caratterizzato da un avvicinamento al positivismo
materialistico e dal rifiuto dell'idealismo di CROCE e di GENTILE. In esso va
registrata anche una rivisitazione del panteismo di Spinoza, che interpreta
alla maniera dei teologi, quindi come a-teistico perché nega il divino personalizzato del mono-teismo.
Pensa anche di realizzareuna sintesi di scessi e realismo perché se solo la scessi
è il modo reale e utile di porsi di fronte al mondo, essa è anche l'unica
verità possibile. Si tratta anche del momento di punta del nichilismo, perché
si afferma che siccome l'unica cosa certa e stabile è la morte, ed essa è il
nulla, solo il nulla possede una verità. Prevale una forma di misticismo
che non sorge, però, improvvisamente, essendo già chiaramente presente nelle
opere maggiormente influenzate dalla scessi. Quest'ultima è, infatti, sempre
sollecitata da un'innata, profonda religiosità, sicché non stupisce che il
filosofo si apra alla voce del divino, poiché cerca nella negazione assoluta un
criterio positivo che consenta la negazione stessa. A questo periodo appartengono:
“Critica della morale”; "Critica dell'amore e del lavoro”; “Paradossi di
estetica e dialoghi dei morti” (Corbaccio, Milano); “Frammenti di una filosofia
del dolore e dell’errore, del male e della morte” (Guanda, Modena); “La
filosofia dell'assurdo” e “GORGIA (si veda) -- Autobiografia intellettuale – la
mia filosofia – testamento filosofico” (Corbaccio, Milano). Isolato in vita nel
mondo filosofico italiano, nel quale domina l'idealismo crociano-gentiliano, trova
la comprensione di pochi intellettuali a lui affini. È stato quest'ultimo a
creare la formula della scessi credente, che in forme diverse ha dominato i
pochi studi sulla sua filosofia. Oggi trova la collocazione nell'ambito del
nichilismo. Per alcuni, tale collocazione resta comunque riduttiva rispetto
alla vastità della sua filosofia, che andrebbe ancora approfondito. La
trascuratezza nei suoi confronti sta nel fatto che la cultura italiana è stata
dominata dall'idealismo e dall'esistenzialismo. Legato alla cultura socialista,
si caratterizza per una certa dose di eclettismo e per una forte componente
umanitaria, distante dal materialismo storico marxiano e riconducibile, più
agilmente, nel novero dei filosofi vicini al socialismo utopista. Se durante
l'attività politica in Italia aderisce all'idea della lotta delle classi
sociali, l'esperienza svizzera lo porta a ri-considerare tale concezione dei
rapporti di forza nella storia, ri-dimensionandone la portata. Infatti, l'ant-agonismo
tra proletariato e borghesia è circo-scrivibile ad alcune realtà contingenti e
non costituirebbe un'invariante delle relazioni socio-politiche. E se, da un
lato, il suo realismo politico lo porta ad apprezzare le teorie elitistiche del
conservatore MOSCA (si veda), dall'altro, la matrice umanitaria e socialista
emerge nell'esaltazione degli istituti della democrazia diretta,
caratterizzanti il sistema costituzionale svizzero, considerati come l’unico in
grado di far emergere la volontà popolare e di permettere l'emancipazione delle
classi lavoratrici. L'elogio ai regimi federalisti appena citati, e il
contingente recupero di CATTANEO sono sintomatici di un altro aspetto del suo orizzonte
culturale: la feroce critica dell'istituto monarchico -- tanto nell'accezione
assolutista, quanto in quella temperata del costituzionalismo borghese
ottocentesco -- appannaggio di una vicinanza con il programma del partito repubblicano.
Mostra un pessimismo storico verso il risorgimento, la disapprovazione
intransingente del ruolo, ritenuto ambiguo e ostile al riscatto sociale del
proletariato, della casa regnante dei Savoia e l'appartenenza alla massoneria.
Influenze "Atomi e vuoto e il divino in me", queste parole di Rensi
hanno ispirato Lobaccaro nella composizione della canzone Rosa di Turi dei
Radiodervish. Altri saggi: “Una Repubblica italiana: il Canton Ticino, "Critica
sociale", Milano), “L'immoralismo di Nietzsche” (Carlini, Genova); “Il
genio etico ed altri saggi” (Laterza, Bari); “Sulla risarcibilità del danno morale”
(Cooperativa,Verona); “L’istinto morale” (Riuniti, Bologna); “L'orma di Protagora”
(Treves, Milano); “Principi di politica im-popolare” (Zanichelli, Bologna); “Introduzione
alla scessi etica” (Perrella, Napoli); “Teoria e pratica della re-azione
politica” (Stampa, Milano); “L'amore e il lavoro nella concezione della scessi”
(Unitas, Milano); “Dove va il mondo?, «Inchiesta fra gli scrittori italiani» (Libreria
Politica Moderna, Roma); “L'irrazionale, il lavoro, l'amore” (Unitas, Milano); "Terapia
dell'a-teismo" (Castelvecchi, Roma); “Apologia della scessi” (Formiggini, Roma); “Autorità
e libertà: le colpe della filosofia” (Politica, Roma); “Il materialismo critico”
(Sociale, Milano); “Spinoza” (Formiggini, Roma); “Scheggie: pagine di un diario
intimo” (Bibl. Ed., Rieti); “Cicute: dal diario di un filosofo” (Atanòr, Todi);
“Impronte: pagine di un diario” (Italia, Genova); “Raffigurazioni: schizzi di
filosofi e di dottrine” (Guanda, Modena); “L’a-porie della religione” (Etna,
Catania); “Sguardi: pagine di un diario” (Laziale, Roma); “Passato, presente, future”
(Cogliati, Milano); “Motivi spirituali dell’ACCADEMIA” (Gilardi, Milano); “Scolii:
pagine di un diario” (Montes, Torino); “Vite parallele di filosofi: l’accademia
e CICERONE” (Guida, Napoli); “Critica della morale” (Etna, Catania); “Figure di
filosofi: ARDIGÒ e GORGIA” (Guida, Napoli); “Poemetti in prosa e in verso” (Ist.,
Milano); "La morale come stato d'eccezione?" (Castelvecchi, Roma); “TRASEA
(si veda) contro la tirannia” (Oglio, Milano) – FASCISMO E STORIA ROMANA – la
critica -- ; “Lettere spirituali” (Bocca, Milano); “Sale della vita -- saggi
filosofici” (Oglio, Milano); “La religione -- spirito religioso, misticismo e a-teismo”
(Sentieri Meridiani, Foggia); “Contro il lavoro -- saggio su L’ATTIVITA PIU
ODIATA DALL’UOMO” (Gwynplaine, Camerano); “Le ragioni dell'irrazionalismo” (Orthotes, Napoli);
“Su LEOPARDI” (Bruni, Torino). – “Il filosofo dissidente, Pastorino, Uomini e
idee della Massoneria. La Massoneria nella storia d'Italia, Roma, Atanor sub
voce (in ordine cronologico), R. Istituto di Studi filosofici, Roma); Untersteiner,
Interprete del pensiero antico (Bocca, Milano); La scessi estetica (Zanichelli,
Bologna); Cuneo, Conti e C., Cuneo); Un moralista, Italia, Resta (SIAG,
Genova); Poggi (Azzoguidi, Bologna); “Il problema generale della giustizia e
della giustizia penale” (Vallardi, Milano); Rossi, “L’deale di Giustizia” (Bocca,
Milano); Buonaiuti, “La scessi credente” (Partenia, Roma); Mignone, “Leopardi e
Pascal” (Corbaccio, Milano); Nonis, La scessi etica, Studium, Roma, Morra; R.,
Scessi e mistica in R. (Ciranna, Siracusa); Tecchiati, Alla mostra del libro
filosofico", La Voce di Calabria, Palmi, Bassanesi, La coscienza tragica” (Filosofia,
Torino); Alpino, La collaborazione di Rensi alla rivista "Pietre" (Marzorati,
Milano); Liguori, “La scessi giuridica” (Giuffrè, Milano); Noce, "Tra
Leopardi e Pascal, ovvero l'auto-critica dell'a-teismo negativo", in Una
giornata rensiana, Marzorati, Milano, Sciacca, “Una giornata rensiana” (Marzorati,
Milano); Perano, Il problema della verità nella scessi di Rensi” (Lateranense,
Roma); Mas, Tra democrazia e anti-democrazia” (Bulzoni, Roma); Santucci, Un irregolare:
Tendenze della filosofia italiana nell'età del fascismo, Pompeo, Faracovi, Belforte,
Livorno; Rognini, “Dal positivismo al realismo” (Benucci, Perugia); L'inquieto
esistere” (EffeEmmeEnne, Genova); Boriani, La questione morale nel positivismo”
(Melusina, Roma); Silva, “La ribellione filosofica” (Genova, Liguori); Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo.
La coerenza critica, Il sentiero dei perplessi. Scetticismo, nichilismo e
critica della religione in Italia da Nietzsche a PIRANDELLO (si veda), La Città
del Sole, Napoli, Gianinazzi, Intellettuali in bilico, Milano, Ed. Unicopli, Emery,
Lo sguardo di Sisifo: R. e la via italiana alla filosofia della crisi: con una
nuova rensiana, Marzorati, Settimo
Milanese, Mancuso, Tra democrazia e
fascismo, Aracne, Roma, Serra, Tra dissoluzione del socialismo e formazione
dell'alternativa nazionalista” (Angeli, Milano); Meroi (Olschki, Firenze); “L’eloquenza
del nichilismo, SEAM, Formello); Pezzino, Scacco alla ragione” (C.U.E.M.C.,
Catania); Castelli, Un modello di
Repubblica; la politica e la Svizzera (Mondadori, Milano); Greco, politica,
autorità, storia, Viaggi di carta, Palermo); P. Serra, “La rivolta contro il
reale, Città Aperta, Enna); A. Montano, “Ethica ed etiche” (Napoli); G. Barbuto,
Nichilismo e stato totalitario: libertà e autorità” (Guida, Napoli); Greco, la
filosofia morale, Viaggidicarta, Palermo, Mancuso; Montano, Irrazionalismo e
impoliticità Rubbettino, Mannelli, Meroi, filosofia e religione (Storia e
letteratura, Roma). Lobagueira, Documenti,
Trento; Mascolo, Il corso infernale della storia. L'influenza di Schopenhauer
nella filosofa, in Ciracì, Fazio, Schopenhauer in Italia, Lecce, Pensa Multi Media,
Bruni, “Il leopardismo filosofico” (Firenze, Le Lettere); “Filosofo della storia,
Firenze, Le Lettere, Bignami E. Buonaiuti, Croce, Ghisleri, Manifesto degli intellettuali
antifascisti Ad. Tilgher, Treccani Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Il contributo italiano alla storia del
Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. R. il filosofo
dimenticato. scomodo nichilista di Volpi l'"irregolare" di
Martinetti. Di qui, con evidenza, un elemento evolutivo nel “Trasea, contro la
tirannia” (Corbaccio dall’oglio, Milano) -- dove R. introduce elementi di giudizio
nei confronti dei regimi statali che pregiano maggiormente le «questioni
materiali e spirituali rispetto all'effcienza dell'amministrazione -- quasi a
dire che non è possibile accettare l'affermazione tirannica del potere, anche
se questo risulta poi operativo ed efficiente, perché essa coarta
eccessivamente lo spazio della personalità individuale. Di qui il limite della
stessa filosofia dell'autorità, la cui estensione trova nel rispetto della
moralità e interiorità un limite; e che tale limite sia valicato si intuisce
dalla crescita dell'im-moralità pubblica -- delazione, adulazione etc. ne sono
i fenomeni rivelatori. Questa vicenda è descritta con riferimento all'impero
d’OTTAVIANO a Nerone inclusi, e, alla data di stesura, intuitivamente e
obliquamente allusiva al fascismo. Cf.
Il CICERONE di Rensi. Spero enim homines mtellecturos quanto sit omnibus
odio crudelitas et quanto amori probitas et clementia. C.
Cassio in Cic., Ad farri. Cicerone era vicino ai sessantanni, quando lo
Stato legale romano, che già precedentemente aveva subito terribili scosse, ma
che mediante una saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul
suo stesso tronco senza frattura o soluzione di continuità, riceveva da GIULIO
(si veda) Cesare il colpo di grazia. Non è più necessario rivendicare la
grandezza di CICERONE contro le denigrazioni di Mommsen e di altri
due o tre storici tedeschi. Egli non e una ràbula e un politico
superficiale. Bensì un uomo di stato dallo sguardo ampio e sicuro,
nel cui animo si radica e vive di vita vigorosissima tutta la grande tradizione
politica romana, [Una bella e vivace confutazione di Mommsen si può
leggere nel saggio di Horncffer, Cicero und die Gegenwarl, contenuto nel
volume Das Klassische Idealm Lipsia, Klinkhardt. Horneffer però rivendica
solo il valore di Cicerone come epistolografo e oratore, non come FILOSOFO.]
e pur senza che l’animo servilmente vi soggiacesse, ma, anzi, insieme,
con la chiara coscienza della nuova direzione che quella tradizione dove
prendere, e della misura e forma in cui dove prenderla, per svilupparsi
fecondamente e superarsi vivificandosi. Accanto a ciò, mente che s’e
impadronita di tutta la più alta cultura dell'epoca: Demostene e Platone
insieme pel suo paese, come riconosce Moellendorf . Accanto a ciò,
una squisitissima sensibilità artistica e una passione vivacissima per le
cose d’arte. Basta vedere quanto “vehementer” com’egli stesso dice,
attende che Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus hoc
est voluptatis rneae” (Ad Att.); e basta aver letto attentamente le sue
orazioni e aver scorto il perfetto senso d’arte con cui
sono costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine, una
sensibilità in generale per le cose, le persone, gl’eventi, gl’affetti,
così moderna, che in lui, nella sua pronta e multiforme impressionabilità,
ritroviamo interamente noi stessi: e il suo dolore erompente e
pieno di accenti passionali per la morte della figlia Tullia, è il
palpito d’un cuore dei nostri tempi. Uomo, in una parola; assolutamente
completo. Un pensatore di così sottile e sicuro buon gusto e di cosi
grande penetrazione storica (e particolarmente [Il rimprovero che gli si
fa di debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri che gl’eroi di
poltrona hanno quasi sempre occasione di rivolgere al grande che si è trovato a
dover davvero vivere avvolto da un gigantesco turbine d’avvenimenti, e che
nemmeno se fosse stato mille volte più grande poteva abbracciarne tutte le
fila, come è invece agevole a quelli che non fanno se
non pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto venti
secoli dopo. Egli non e debole ed incerto nè nella repressione della
congiura di CATILINA (si veda), nè nella lotta per la salvezza della
costituzione contro il cesarismo rinvelenito da MARC’ANTONIO (si veda), lotta
che chiuse cosi gloriosamente la sua carriera mortale. Le sue incertezze
d’altri momenti sono unicamente frutto della sua profonda moralità.
Perché l’uomo fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo a
cataclismi enormi che travolgono gl’individui come fuscelli, quali quelli
in cui CICERONE si trova, mentre non può operare contro coscienza, e
per questa, che pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi o tornare a
grandeggiare, però avverte anche i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1
suoi operando secondo coscienza: e la condotta risultante è necessariamente
quella che tracciano le fluttuazioni di tale angoscioso conflitto
interno.] circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questongiudizio. Ciceron, selon moi, est un
des plus grands espnts qui aient jamais été -- Pensées diverses -- Ab
illis est periculum si peccare, ab hoc si recte fecero, nec ullum in his
malis consilium periculo vacuimi inveniri potest (Ad Att.). Quando i frangenti in cui un uomo si
trova realmente a vivere sono davvero quelli così delineati, si può
domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da lui
coloro che poi spulciano comodamente gl’eventi della sua vita. Sicuro
e diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che non sente
scrupoli: il cinico ed elegante arrivista CELIO RUFO, che a CICERONE dava
questo consiglio (Ad. Di'.). Suppongo che non ti sfugga come nelle
discordie politiche interne gl’uomini debbano seguire, finché si lotta
senz’armi, la parie più onesta, ma la più forte quando vengono in gioco
guerre ed eserciti, e stabilire che è migliore ciò che è più sicuro.
CELIO RUFO, del resto ottimo filosofo, tanto che per molti umanisti ed
altri dotti è ancor oggi il miglior modello di stile. Ma CICERONE e un
uomo di coscienza. Questa soltanto, non la sua incapacità mentale,
la causa della sua rovina. Egli e andato con POMPEO (si veda), non già
sedotto dalla speranza della vittoria, ma quando la causa di costui
era ormai pressoché perduta e con la piena nozione di tale condizione di
cose, e mentre GIULIO Cesare, MARC’Antonio, Celio, per cercar di
trattenerlo almeno neutrale, gli fanno offerte larghissime:
secuti non spem, sed officium (Ad Div.). Vi era andato essendo
consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di
quelli che sono con lui, ma altresi del fatto che poco o nulla c’e da
sperare da essi circa la restaurazione della legalità, animati come
costoro sono da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.), e
chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno che dai cesariani
non si pensa che a far man bassa dello Stato -- regnandi contendo est -- Ad Att. -- dominatio
quaesita ab utroque est, non id actum beata et honesta civitas ut esset. Vi
era andato straziato dall’ idea d una guerra civile e unicamente in
obbedienza a considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza che ci
costringe, scrive ad Attico, a staccarci da Cesare più ancora se vincitore che
se vinto, per non essere solidali con ciò che segue alla sua
vittoria, stragi, estorsioni, violenze -- et turpissimorum honores, et
regnum non modo Romano homini, sed ne Persae quidem cuiquam tolerabile. E
andato da Pompeo, senza illusioni e speranze, unicamente per senso del
dovere. Sed valuit -- scrive a Cecina -- apud me plus pudor meus
quam timor -- veritus sum deesse Pompeii saluti, cum ille aliquando non
defuisset meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum, vel pudore
victus, ut in fabulis Amphiaraus, sic ego prudens ac sciens, ad pestem
ante oculos positam sum profectus -- Ad Div. Egli sa cioè di andare
alla rovina e vi anda in obbedienza a yu principio d'onore (pudor) e di
gratitudine, per quel poco che Pompeo aveva fatto onde richiamarlo
dall’esilio. Pudori tamen malui famaeque
cedere quam salutis meae rationem ducere riconferma a M. Mario. E
ritornando più tardi in una lettera a Torquato, che aveva anch’egli
seguito la parte pompeiana, su quell’episodio a entrambi comune, sente di poter
ricordare in cospetto al correligionario politico -- nec nos victoriae
praemiis ductos patriam olim et liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam
nobis officium iustum et pium et debitum reipublicae nostraeque dìgnitati
videbamur sequi, nec cum id faciebamur tam eramus amentes ut explorata
nobis esset victoria. Ne è questa un’opportunistica configurazione
postuma della sua condotta di quel tempo. Basta percorrere la sua
corrispondenza con il cosidetto “ATTICO” -- suo amico intimo e suo
editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il piede in più staffe e
nella difficile arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti
-- per constatare che tale veramente, cioè il senso del dovere, e il
nobile sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat,
cruciavitque adhuc. Cautior certe est mansio. Honestior existimatur
traiectio (Ad Att). E quando Pompeo è pressoché spacciato e stretto da
tutte le parti, e Cicerone è ritornato in Italia, egli si cruccia
proprio di questo suo atto da cui gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva
quindi essere reputato abile, e si rammarica di non essere stato con
Pompeo sino alla fine -- numquam enim illus victoriae socius esse volui.
Calamitatis mallem fuisse (Ad Att.). Il principio, insomma, che in
un’altra posteriore circostanza, piena di pericoli mortali, nella sua
lotta contro Antonio, egli enuncia a Planco così. Mihi maximae curae est, non
de mea quidem vita, cui satisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me
patria sollicitat -- ( Ad Dio.), questo è il principio che domina costantemente
nell’animo di Cicerone, insieme con l’insormontabile ripugnanza, o meglio
con 1’impossibilità, di venir meno al rispetto verso se stesso. Allorché,
essendo Cesare incontrastato padrone, l’accomodante Attico gli dà
il consiglio di obbedire ai vincitori. Non mihi quidem, egli risponde, cui
sunt multa potiora (Ad Att.). Certo, un uomo mosso prevalentemente da
sentimenti di tale natura, nelle tragiche vicende pubbliche da cui si trova
avvolto Cicerone, va al fondo. Resta a vedere se ciò sia un indice
di inferiorità o se non lo sia piuttosto quel successo che è
raggiunto -- e la cosa è facile -- in
grazia dell’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni freno etico,
dell insensibilità ad ogni scrupolo di coscienza, della nessuna riluttanza
a violare cinicamente ogni principio di diritto e di morale. Nè r uomo che
comincia la sua carriera attaccando coraggiosamente nell’orazione prò
Roselo un favorito potentissimo di SILLA, e un pavido. Dimostra
ancora di non esserlo nel suo consolato. L’apparenza di timidità da lui
talvolta offerta, deriva da ciò che egli, come dice di sè, si preoccupa
grandemente dei pericoli nella rappresentazione e raffigurazione mentale
anticipata di essi, non già che titubasse poi ad affrontarli nella
realtà. Quintiliano narra. Parum fortis videtur quisbusdam. Quibus
optime respondit ipse, non se timidum in suscipiendis, sed in providendis
periculis. E’ press’a poco ciò che egli scrive a Toranio. Mi accusano di essere
timido -- eram piane, timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt. Mi
diceno timido -- quia dicebamus ea futura, quae facta sunt (Ad Dio.). Nè
è giusto accusarlo di non aver saputo intuire con chiarezza le
situazioni e di essersi per questa deficienza di sguardo gettato a corpo
perduto a combattere per soluzioni che la realtà escludeva. È questa la
solita iniqua condanna che ì posteri, aggiungendosi ai contemporanei nell’incensare
i vincitori e nel dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano
contro colui che difende la causa rimasta storicamente soccombente.
Quasiché il fatto che una causa sia rimasta storicamente sconfitta dimostri
anche che e giusto e logico che essa lo fosse. Quasiché il mero fatto, il
fatto del successo, sia anche verdetto di giustizia e logicità, quasiché
assai spesso la causa storicamente prostrata non sia quella che
avrebbe dovuto vincere. Che la cosa stia così nel caso di Cicerone,
lo dimostra il fatto che la causa da lui combattuta e che vinse costituì LA
ROVINA DELLA VITA DI ROMA. Basta per accertarsene constatare che NELLA
STESSA NOSTRA MEMORIA DI POSTERI LA VITA DI ROMA RESTA CHIARAMENTE PRESENTE E
ATTIRA LA NOSTRA APPASIONATA ATTENZIONE APPUNTO SINO AD OTTAVIANO. Ci rimangono
ancora come appendice già torbida i primi imperatori. Poi tutto ci si
confonde dinanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di continui
sussulti sanguigni, in cui -- se non siamo storici di professione -- non
distinguiamo piu ne nomi, nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo, NE
C’IMPORTA RICORDARE, più nulla. Si rammenti come, per es., scorge Roma Massimo
d’Azeglio. Fra tutti gli stati dell’antichità è Roma quello che ho in
maggior stima, FINO ALL’EPOCA DEI GRACCHI, intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi
durante i quali domina la legge -- durante i quali le più bollenti
passioni agitate dai più vitali interessi, non cercano altr armi nè
altre vittorie che un voto ne’ Comizi. E poco prima. Se è giusto e
vero il principio fondamentale delle società moderne, essere la legalità
di un governo dipendente dalla volontà del popolo che vi è governato, vorrei
sapere se l’umanità consultata avrebbe ne’ tempi dei Romani
votato Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera per sostenere la
causa che soccombette, erano inadeguati. Tutto, invece, egli aveva provvisto;
tutto quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva cercato di
assicurare ad essa l’appoggio e la fedeltà dei maggiori personaggi
militari e politici; aveva costituito e messo in campo eserciti poderosi;
con la sua parola tenne altissimo il tono morale del popolo all’ interno.
Se la causa non vinse, lo si deve, non a un fato storico, a
condizioni incoercibili insite nella realtà e sfuggite allo sguardo di
Cicerone, o al logos immanente nella storia. Ma unicamente a due o tre
puri casi, che potevano accadere diversamente e in tal modo
rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo SERBATI che uno de’ mezzi,
co’ quali l’uomo può sciogliere la propria mente da molti pregiudizi e
da’ legami delle consuetudini sensibili, si è l’esercitarsi a considerare
le cose non solo come sono, ma come potrebbero essere. Se vogliamo
applicare questo precetto al periodo di storia in discorso -- come
Renouvier in Uchwnie l’ha applicato in modo grandemente interessante
a tutta la storia occidentale dagli Antonini in poi -- scorgeremo
agevolmente che due o tre futili casi, per l'impero (Miei Ricordi,
Barbera, Antologia Pedagogica cur. di Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali
fossero avvenuti diversamente, sarebbero bastati a cambiare del tutto la
faccia delle cose; se, p. e., LEPIDO non avesse tradito, o se un
giavellotto l’avesse ucciso quando egli si mosse per portar soccorso a
MARC’ANTONIO ormai disfatto, se PLANCO non avesse fatto il doppio giuoco,
ciò sarebbe bastato per far di Cicerone il capo dello Stato romano, e perchè
egli occupasse nella politica di Roma d’allora, e nella storia, il posto d’OTTAVIANO. E
quanto lo stato romano e la posterità sarebbero stati più fortunati se il
potere fosse venuto in mano ad un uomo di rettitudine profonda e di
vivo senso del diritto e del dovere, come Cicerone, anziché ad un uomo la cui
bassezza d’animo è provata luminosamente dal fatto che, avendo cominciato
ancora puer o adolescens, come sempre Cicerone lo chiama -- sed est piane
puer n \Ad Att.-- ad essere qualcosa solo per l’appoggio datogli appunto
da Cicerone e con lo strisciarsi umilmente ai suoi piedi -- a me postulat
primum ut clam conloquatur mecum Capuae vel non longe a Capua... ducem se
profitetur nec nos sibi putat deesse oportere -- binae uno die mihi
litterae ab Octaviano -- deinde ab Octaviano cotidie litterae, ut negotium
susciperem, Capuani venirem, iterum rem publicam servarem » ; mihi
totus deditus. Nobiscum hinc perhonorifice et amice Octavius — Ad Att.,
non si trattenne dal sacrificare ad una propria maggiore ascesa la vita
di colui che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo egli, si,
veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo per mezzo dei suoi
generali e specialmente di Agrippa, e non aveva il coraggio di
presentarsi nel campo se non dopo che Agrippa gli annunzia la vittoria
(Svet. Aug.). Fondamentalmente istrione e poseur come risulta dal fatto,
narrato da Svetonio (Aug.), che non comunica mai nemmeno con sua moglie senza
scrivere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché dall’altro, sempre
narrato da Svetonio, che egli ama stilizzare a particolare espressività e
luminosità i suoi occhi -- quibus etiam existimari volebat inesse quiddam
divini vigoris, gaudebatque. Octave lui, a Sesto Pompeo, fit deux guerres
laborieuses ; et après bien de mauvais succès il le vainquit por i’habilité
d’Agrippa. Je crois qu’Octave est le seul de tous les capitaines romains
qui ait gagné l’affection des soldals en leuv donnant sans cesse des
marques d’une làcheté naturelle „ (Montesquieu, Grandeur et
Dócadence des Romains. Tanto GIULIO
Cesare quanto OTTAVIANO hanno l’abitudine di citare dei versi delle Fenicie
di Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva scelto è
rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare ama citare i versi -- “se
c' è un caso in cui sia bello VIOLARE IL DIRITTO, è quando lo si VIOLA –
cf. H. P. GRICE – FLOUT, VIOLATE -- per
conseguire la tirannide -- citazione signifìcatiice dello spirito
violento e illegale. OTTAVIANO ama citare il versoL è meglio per un
generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che essere ardito (ihf aouc) -- citazione
significatrice della vigliaccheria -- cfr. Cicer. De Off. e Svetonio Aug.]
si qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis vultum summiteret e
infine in modo palmare dalle parole -- ecquid iis videretur mimum vitae
commode transigisse -- e dalla citazione greca richiedente l’applauso per la
commedia ben riuscita, con cu; egli chiuse la sua esistenza. Uomo
che desta particolare antipatia precisamente in grazia del suo proposito
di moralizzare la vita romana; perchè niente è più ripugnante del
dissoluto che si da il compito di costringere gli altri alla virtù e posa
a restauratore della morale pubblica; e OTTAVIANO cambia tre mogli prendendo l’ultima
al manto sotto ì suoi stessi occhi, conducendola con sé in un altra
stanza donde e ritornata spettinata e con gli orecchi rossi, e poi
introducendola in casa propria INCINTA D’UN ALTRO; aveva commesso le oscenità
che narra Svetonio, irripetibili, tranne forse una -- adultena quidem
exercuisse ne amici quidem negant -- e dopo ciò faceva udire le parole
ammonitrici di vita austera e imprende a ricondurre i costumi alla prisca
severità. La
scandalosa condotta di sua figlia e di sua nipote, che condusse -- A cool
head, an unfeeling heart, and a cowardly disposition, promtcd finn al thè
age of nmeieen, to assume thè maske of hypocrisy, which he never
afterwards laid aside. With thè saine hand, and proba’bly with thè
same temper, he signed thè proscription of CICERONE and thè pardon
of Cinna. His virtues, and even
his vices, are artifìcial -- Gibbon, Decime and Fall] all’esilio di
entrambe, e di OVIDIO (si veda) complice o pronubo, dimostra che nella sua
famiglia stessa si ha il senso netto del come si puo prendere sul serio
una riforma morale che pretendeva attuare un individuo di siffatta ìndole e di
siffatti precedenti. Non ostante che all’epoca del trionfo di
Cesare si avvicinasse alla sessantina, Cicerone non era uomo che non
sa comprendere i tempi. Li comprende benissimo, più profondamente e
sapientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente e in pieno vigore.
Subito dopo quell epoca egli poteva scrivere quei suoi saggi di FILOSOFIA
che suscitano l’ammirazione dei contemporanei e sono letti con entusiasmo o
rispetto da tutte [Coglie veramente nel segno Aurelio Vittore: Cum esset
luxuriae serviens erat eiusdem vitii severissimus ultor, more hominum,
qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi veliementer indulgent, acres sunt. E s. può dire d. lui
quel che Boissier dice di Domiziano: 1 ar malheur, ce prince si sevère
pour les defauts des autres, etait lui-mème très vicieux. 11 avait fait des
lois rigoureuses contre l’adultere et il vivait publiquement avec sa
mèce, la bile de Titus, qu’il avait enlevée à son mari et dont il
causa la mort en essayant de la taire avorter. Ce contraste etait
choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne (Tacite).] le
generazioni successive. Poco più
oltre egli svolgeva anzi la sua azione politica più abile,
più decisa, piu energica e più importante, e, insieme, con le
filippiche raggiungeva un’altezza da lui ancora non tocca nella forma
d’arte che gli era propria -- “divina„ chiama giustamente un
giudice certo non facile, Giovenale, la seconda di esse. La sua idea
di portare alla luce del mondo politico, sotto la sua direzione, il
pronipote e figlio adottivo di Cesare, ancora ragazzo -- ha appena diciannove anni --, accordandogli anche
onori che a molti pareno eccessivi, e di riuscire così giovandosi del
nome di Ottavio a far rientrare il ribollente partito cesariano
nell’ordine costituzionale e a dominare in tal modo una situazione
difficilissima, e una idea geniale, abilissima, da politico grandemente
avveduto, l’unica [Sull immensa influenza esercitata da Cicerone sui
a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi ‘'furiente r “, Z r fe,v C f er,
0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte I d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 )
Strachan-Davidson nella sua Vita di Cicerone, Heroes of thè Nations
Series, dice giustamente che se si dovesse decidere quale degli filosofi romani
maggiormente influì sul mondo moderno, la decisione sarebbe in favore di
Cicerone — hrasmo, scrivendo ad un amico, dice che, se da giovane
aonr enVa rf matUra anda sempre più apprezzando Cicerone. Ld è
proprio giusto il noto giud. Z .o di Quintiliano. Ille se profecisse sciat, (e
s. può aggiungere: tanto gusto letterario, quanto in retti Jne
etico-politica) cui Cicero valde placebit. G. Sensi . y ita paratiti « di due
fila.ofi] idea che in quel terribile cataclisma poteva dar buoni frutti.
Non è sua colpa se 1 idea non riuscì, e proprio sopratulto per la
perfidia senza scrupoli del futuro Augusto. Per quanto avveduto e
grandemente intelligente, un uomo di Stato fondamentalmente onesto come
Cicerone, non fa entrare nel suo giuoco la supposizione di una
perfidia enorme, di gran lunga travalicante la media nequizia umana, come
fu quella di Augusto; nè si può accusarlo di incapacità se non ve la fa
entrare, e se essa gli si rizza impensatamente dinanzi mandando a picco i
suoi piani più accortamente e sapientemente elaborati. Cicerone
assume risolutamente, nel momento più pieno di vicissitudini e pericoli,
la parte di leader del Senato e del popolo romano, come egli stesso
scrive a Cornificio -- me principem Senatui populoque romano
professus sum (Ad Dio.). Spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gl’eserciti
quanto rispetto alla situazione interna, per dirigere [Giustamente
Platone osserva (Rep.) che le persone oneste sono facili ad essere
ingannate dai malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei
sentimenti di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; 7
iapaos'y|J.axa óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio,
abilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingannato quando tratta coi
buoni, perchè, giudicando da se, e ignorando le indoli onesti, vede
dappertutto inganni (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la
lotta contro Antonio; getta di nuovo, attesta scrivendo ancora a
Cornificio, 1 fondamenti dello Stato con la prima Filippica: fundamenta
ieci reipublicae (Ad D/v.); e al giocondo Peto conferma quanto abbia
fatto, quanto faccia e come ritenga che se dovesse in tale sua
azione perdere la vita l’avrebbe spesa bene ; “ sic tibi, mi Peto,
persuade, me dies et noctes mini aliud agere, nihil curare, nisi ut mei
cives salvi liberique sint : nullum locum praetermitto monendi, agendi,
providendi : hoc demque animo sum, ut si in hac cura atque admistratione
vita mihi ponenda sit, praeclare actum mecum putem -- Ad Div. In questi
primi mesi del 43, Cicerone fu veramente il princeps, ch’egli idealizza
nel De republica: consigliere, esortatore, ispiratore del Senato, dei
consoli, dei governatori delle provincie. Non è questa la condotta
d un uomo le cui facoltà spirituali siano illanguidite. Ma,
sopratutto, a prova della sua esatta comprensione dei tempi, basta ricordare
come la riforma che occorreva allo Stato romano, pessimamente attuata, secondo
attestò la susseguente vita Amateli, Cicerone, (Bari, Laterza). Jamais Ciceron n a joue.
un plus grande róle politique qu à ce moment; jamais il n’a mieux mérité
ce nom d’hom- me d Etat que ces ennemis lui refusent (Boissier, Cicéron
et ses amis -- dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata
prospettata per primo da Cicerone nel De Repubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più fermo
principio d’autorità sotto forma di un rector rerumpublicarum d’un moderator
reipublicae d’un princeps civitatis (De Ti,ep.). Senonchè Cicerone,
con molto maggior senso della necessaria continuità di sviluppo dello
Stato romano e con molta maggior disinteressata cura di esso, non
intendeva che questa riforma dovesse rivolgersi a distruzione della costituzione
esistente, bensì che dovesse ingranarsi in essa e formarne un naturale
complemento e uno svolgimento spontaneo e logico ; “ homines non tarai
commutandarum quam evertandarum rerum cupidos, egli giudica i
cesariani -- De Off., mentre per lui la costituzione romana, come
esattamente nota lo Zielinski, era “ capace di ogni progresso in
quanto questo conducesse all’accettazione e allo sviluppo di idee
feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La differenza tra il modo con cui
egli concepiva la riforma e il modo con cui la attuarono Cesare ed
Augusto è si può dire scolpito dalle seguenti sue due proposizioni : “ me
nun- quam voluisse plus quemquam posse quam universam rempublicam (jdd
Div.); ego sum, qui nullius vim plus valere volui, quam honestum otium. Ovvero:
la differenza tra la concezione ciceroniana del princeps e la pratica
applicazione fattane da Cesare è resa nel bell’ emistichio con cui Lucano
descrive il modo di operare di quest’ultimo -- gaudens viam fecisse ruina. Basta
riflettere a tutto ciò per scorgere tosto che non solo la mente di CICERONE
era nel suo pieno vigore, ma altresì la sua comprensione dei tempi
(se per questa s’intende, non già furbesca valutazione personalmente
opportunistica delle circostanze, ma avvertimento delle necessità
profonde che ad un dato momento si presentano nella vita sociale e
politica d’un paese) era perfetta. Il
sovversivismo di Cesare è provato dal dolore che per la sua morte
manifestarono sopratutto gl’Ebrei (qui etiam noctibus continuis bustum
frequentabant -- Svet, Caes., cioè precisamente coloro che nel seno nello stato
romano, da essi violentemente odiato, costituivano la catapulta diretta a farlo
saltare, e che, sotto la veste del Cristianesimo, a farlo saltare
effettivamente riuscirono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero romano
si deve agl’ebrei, perchè sono i loro lunghi tetri lamenti intorno
al cadavere di GIULIO Cesare che suscitarono nella plebaglia quella sommossa
per e attorno al rogo del dittatore, la quale fa prender nuova forza al
cesarismo. É noto come per la commozione popolare che lo straziante
rito ebreo provoca colle sue lugubri lamentazioni orientali, se ne
ingenerò quel tumulto che dove mutare la faccia de! mondo, mandando in
fumo i diplomatici accordi con Bruto e Cassio, che dovettero fuggire in
Illirio : sicché ne vennero le lunghe guerre civili e l’Imperio di
Augusto (Ottolenghi, Voci JOriente,
Lugano, Mente possente, senso politico sicuro, comprensione dei tempi piena.
Non si può dunque attribuire a deficienze intellettuali il modo con
cui Cicerone valutò Cesare e il movimento da costui capeggiato. Egli
non vide certamente Cesare come la sua figura si è plasmata nella storia,
che corona con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha trovato in
ogni presente la consacrazione del bruto successo di (atto. Lo vide come glielo
presentava la realtà immediata. Lo vide come lo vide Catullo: Pulcre
convenit improbis cinaedis, Mainurrae pathicoque Caesarique. E
questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare e quel Mamurra (da Catullo
soprannominato Mentula) il suo generale del genio. A permettere al quale
di mangiare (il verbo si usava anche
in latino con questo preciso significato) milioni su milioni, il
commovimento politico aveva principalmente servito. Doveva essere una cosa nota
a tutti, se Catullo la mette correntemente in versi: Cinaede Romule,
haec videbis et feres? Es inipudicus et vorax et aleo. Eone
nomine, imperator unice, Fuisti in ultima occidentis insula. Ut ista
vostra diffutata Mentula Ducenties comesset aut trecenties? Cinaede
Romule Romolo debosciato, impudico, vorace e giuocatore. Cosi Catullo vede
Cesare. E press’a poco così lo vede Cicerone. Egli non scorge Cesare,
quale il fanatismo interessato dei seguaci e poi gli storici l’hanno costruito:
gli storici, i quali (in generale) non fanno mai altro se non aggiungere,
per supino servilismo postumo, la loro adulatrice consacrazione al
successo di fatto e di solito non osano mai, per la paura di passar per
singolari sviscerare il clamoroso successo di fatto ottenuto da un grande
nella età in cui visse, mettendone coraggiosamente in luce le vere molle,
spessissimo casuali, o basse, o vili, ma sempre invece per essi è grande
colui che nella sua epoca le circostanze, o la perfidia, o i misfatti
hanno portato in alto. Si vous avez une vue nouvelle, une idée origi nale, si vous présentez !es
hommes et les choses sous un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur.
Et le lecteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais dans une
histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si vous essayez de
l’instruire, vous ne ferez que l’humilier et le fàcher. Ne tentez pas de
l’éclairer, il criera que vous insultez à ses croyances... Un historien
originai est 1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt
universels. Questo è
l’abituale comportarsi degli storici, secondo la satira, aggiustatissima,
che ne schizza A. France, L’ile des Pingouins. Ci sarebbe solo da
aggiungere che spesso il servilismo degli storici verso i pesonaggi della
storia che scrivono serve al loro servilismo verso i personaggi della
storia che vivono. Cicerone vede Cesare muoversi davanti ai suoi
occhi, nella vita vera, non nella luce abbagliante del mito. Esso
gli appare screditato, corrotto, senza senso di morale nè privata nè
pubblica, uomo la cui vita, i cui costumi danno la certezza che si
condurrà male : e sopratutto la danno la gente che lo circonda. O Dii,
qui comitatus ! in qua erat area scelerum! scrive ad Attico, dopo
uno dei suoi abboccamenti con lui. Egli sa che Cesare aveva cominciato a
costruirsi la sua potenza accaparrandosi e tenendo alle proprie
dipendenze i manigoldi audaci e bisognosi. Egli scorge. Nell'
interessantissima antologia di pagine storiche di Chateaubriand, testé pubblicata
dall’editore Tallandier sotto il titolo Scénes et portrails historiques,
si legge. Tout
personnage qui doit vivre ne va point aux générations futures tei qu’ il
était en réalité: a quelque distance de lui, son epopèe commence : on
idéalise ce personnage, on le transfigure ; on lui attribue une
puissance, des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange
les hasards de sa vie, on les violente, on les coordonne à un
système, Les biographes répètent ces mensonges ; les peintres fixent sur
la toile ces inventions et la posterité adopte le fantóme. Bien fou qui
croit à l’histoire. L’histoire est une pure tromperie. E Montesquieu, dal
canto suo aveva già osservato: “ Les places que la posterité donne sont
sujettes, corame les autres, aux caprices de la fortune. Grandeur et décadence des Romains. Habebat
hoc omnino Caesar : quem piane per- ditum aere alieno egentemque, si
eumdem nequam hominem audacemque cognorat, hunc in familiaritatem libentissime
recipiebat (Fi/.radunata attorno a Cesare tutta la gente equivoca e
sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dannate, vexu (<x (Ad Att.),
omnes damnatos, omnes ignominia affectos, omnes damnatione ignominiaque
dignos, omnem fere inventutem, omnem illam urbanam et perditam plebem (Ad
Att.), tutti i giovani circa i quali pensava che maximas republicas ab
adolescentibus labefactas,, (De Seti.), tutti coloro ch’egli chiamava
perdita iuventus (Ad Att.) e poc’anzi barbatuli iuvenes, grex Catilinae),
feccia di Romolo, i precursori di quella che poi Giovenale
denominerà turba Remi. Cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare
è raggruppato tutto il canagliume della penisola, cave autem putes
quemquam hominem in Italia turpem esse, qui hinc absit; osservazione
identica a quella che è costretto a fare il cesariano Sallustio:
occupandae reipublicae in spem adducti homines, quibus omnia probo ac
luxuria polluta erant, concorrere in castra tua (De Rep. Ord.). Come
Catullo, Cicerone vede con disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al
lusso ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo (altro
comandante del genio di Cesare e sua longa manus in Roma) si costruisce
dei palazzi, “quae coenae? quae deliciae?... at Balbus aedificat
(Ad Att), e Antonio scorrazza l’Italia confi) Val la pena di riportare
tutto il passo perchè esso ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua
amante in un’altra sua moglie, “ septem praeterea coniun- ctae
lecticae amicarum sunt an amicorum? l^/JJ Att.). Tutto ciò desta in
Cicerone una nausea invincibile: “ nosti enim non modo stomachi mei, sed
etiam oculorum, in hominum insocontiene un’osservazione di indole psicologica e
morale eternamente vera e colta da Cicerone dalla vita stessa che
lo circonda. At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij péÀst; Verum si quaeris,
homini non recta sed vuluptaria quaerenti nonne [kfifwTai ? „ Cioè: “ Balbo
pensa a costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E in
verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la coscienza, ma solo il suo
interesse, fa bene a far così : può dire ho vissuto La
ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non solo nelle lettere di
Cicerone, ma, più ancora nelle Filippiche (v. specialmente FU. He.). Pagine
che stanno a dimostrare una volta di più come, in una situazione politica
tirannica ed eslege, anche persone notoriamente turpi possano salire ai
più alti gradi, perchè il controllo dell opinione pubblica e la
possibilità di censure sono soppresse dalla forza e la gente costretta al
silenzio. Non ostante, in un primo tempo Cicerone, usando
l’avveduta prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di persuadere
quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita della legge. Ciò con
la Fil. I, di cui è il caso di citare le seguenti righe. Sin consuetudinem
meam, quam in republicam semper habui, tenuero, id est, si libere, quae
sentiam, de republica dixero; primum deprecor ne irascatur, deinde, si
haec non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi lentium indignitate, fastidium
(Ad Div.). Quanto a Cesare, egli è per Cicerone hominem amentem et miserum
che non ha mai conosciuta neppur l’ombra dell'onestà, che considera la
tirannide come il maggior dono degli Dei, (Ad Alt.), capace di ogni
scelleraggine, omnia taeterrime
facturum, uomo del quale vita, mores, ante facta, ratio suscepti negotii,
sodi fanno ritenere che non potrà comportarsi se non perdite. La
sua condotta sarà anche resa peggiore di quel che per l’indole di
lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella guerra civile deve pur
contro sua volontà operare ad arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a
vincere. Omnia, scrive a Marcello, sunt misera in bellis civilibus ;
sed miserius nihil, quam ipsa victoria : quae etiamsi ad meliores venit,
tamen eos fero- [La stessa ripulsione, e per la stessa ragione, Filippo
destava in Demostene. È circondato (egli dice) da ladri, da adulatori, da
gente che si abbandona a immoralità che non oso neanche ripetere. E Demostene
si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe caduto. Geloso e ambizioso com' è
(egli dice) allontana gl’uomini di valore, che gli danno ombra ; gli uomini
assennati e morigerati, che sono rivoltati dalle sue immoralità (àxpaafav
xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs) sono da lui cacciati e ridotti
a nulla, TrapEwaHa'. xal sv Ò'jSevò; s!va'. |ispei. Ma pur troppo i
fatti hanno sempre provato che è vana speranza contare che queste ragioni
facciano cadere un uomo dal potere. L’esigenza morale non trova sanzione
nella storia e nella politica. ciores impotentioresque (più sfrenati)
reddit; ut etiamsi natura tales non sint, necessitate esse cogantur ;
multa enim victori eorum arbitrio per quos vicit, etiam invito, facienda
sunt„ (Ad Div.). E su questo stesso pensiero insiste anche con Cor-
nificio (Ad Div. ). Bellorum enim civilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium
fiant, quae velit victor, sed etiam, ut iis mos gerendus sit,
quibus adiutoribus sit parta victoria La situazione scaturita dalla vittoria di
Cesare appare a Cicerone un mostruoso sfacelo dell’eticità
pubblica. Tutto allora in Roma precipita a rovina, religione, costumi,
esercito, cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel
rovescio d’ogni cosa umana e divina, poneva i fondamenti sanguinari
la tirannia degli imperatori Cicerone vede come non appena Cesare, annientati
i suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica, ha messo
violentemente le mani sullo Stato, e in Il modo genuinamente italiano di
considerare Cesare è quello che un veramente grande italiano,
Carducci, ci presenta nei due sonetti II Cesarismo, che cominciano
con le parole, estremamente significanti e pregnanti, Giove ha Cesare in
cura. Ei dal delitto Svolge il diritto, e dal misfatto il fatto.
Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente letti, con la nota
al v. 14 del secondo, che li accompagna. Barzellotti, Delle Dottrine
Filosofiche di CICERONE. seguito a ciò “ omnia delata ad unum sunt (jdd
Div.) al punto che Cesare redige in casa sua, a suo libito, quelli che
devono apparire come senatusconsulta (Ad Div.), si formi un’atmosfera di
falsità, di servilismo, di adulazione universale, tanto da parte di privati
quanto di enti pubblici, cosicché non si distingue più il
sentimento sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur, quibus
voluntas a simulatione distingui posset « (Ad Att.); quell’adulazione e
quel servilismo, che, diventati poi a poco a poco oramai di rito, Lucano,
più tardi sotto NERONE, stigmatizza con magnifici versi, facendone
risalire 1' inizio appunto al dominio di Cesare. Cette abjection de la patrie
releva I’ àme de Cicéron par l’indignation et par la honte. La victoire
de Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès, qui
est la raison du vulgaire, est le scandale des grandes àmes (Lamartine,
Cicéron, Calmati-Levy). E’ un saggio,
poco conosciuto, in cui Lamartine, in forma simpaticamente piana e scevra
da ogni erudizione, presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai
elevati, la figura di Cicerone. Ne vogliamo, a conferma di precedenti
osservazioni, estrarre ancora due passi. Les ambitieux, les factieux, les séditieux, les
corrupteurs et les corrompus, la jeunesse, la populace et la soldatesque,
les barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient avec Cesar. Coriolan n’avait rien fait de plus
monstrueux et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a déifié Cesar.
Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui prennent le succès pour juge
de la moralité des événements. Namque omnes voces, per quas iam tempore
tanto Mentimur dominis, haec primum repperit aetas. Qua, sibi ne
ferri ius ullum, Caesar, abesset, Ausonias voluit gladiis miscere
secures, Addidit et fasces aquilis et nomen inane Imperii rapiens
signavit tempore digna Maestà nota. Cicerone vede come, appena risultò che Cesare era
saldamente stabilito al potere, non solo i sovversivi ma anche gl’ottimati le
vecchie figure Si avverte che la parola
imperium qui non significa il nostro impero ma officio pubblico legale
Lucano vuol dire che Cesare copri l’usurpazione, assumendo falsamente il
semplice nome d’un officio pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col
nome di potestà tribunicia che ( usurpazione si effettuò. Nel
libro, ricco di dottrina e di acume, di G. Niccolint, Il Tribunato della
Plebe (Hoepli) si mostra che 1’ impero si costitui deformando e nell’
istesso tempo assorbendo la potestà tribunicia. « L'impero non era, in
ultima analisi, che il trionfo della democrazia [più esatto sarebbe
dire: demagogia], e se chi aveva fondato il suo potere sul partito
democratico, non poteva abolire la pericolosa magistratura, non gli
restava che appropiarsela nella sua sostanza, se non nella forma
esteriore... Cosi la temuta magistratura, nata per difendere la libertà
del popolo, che conteneva perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi
in tirannide costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca. 11
contegno adulatorio e vilmente opportunistico comincia con gli uomini il cui
prototipo è Attico. C’est assurément ce qui nous répugne le plus dans
sa vie ; il a mis un empressement fàcheux à s’accomoder au regime
nouveau (Boissier, Cicéron et ses amis). politiche, abili a restar sempre a galla,huic se
dent, se daturi sint sia pure perchè terrorizzati, sebbene essi ora
dicano che lo erano quando ossequiavano Pompeo (Ad Alt); come essi se venditant
a lui, mentre i'municipi fanno di lm vero Deum, e il grosso del
pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa che alla propria
tranquillità (otium), non rifiuta, come non ha mai rifiutato, nemmeno la
tirannide dummodo otiosi essent, non si occupa che dei campi, delle
ville, dei quattrini, nihil prorsus aliud curant nisi agros, nisi
villulas, msi nummolos suos; atonia che si aggravo ancora più tardi
quando diventa po tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est
populum romanum manus suas non in defendenda YA/I own, plaudendo
consumere (Ad Att. AV| . lU- Ma questa prosternazione e adula- [Anche
qui si riscontra un parallelo nella potente e \ ibrante invettiva di
Demostene per l’inerzia dei Greci del suo tempo. Non e senza ragione
(egli dice) che i Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora
invece hanno a cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi
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ventre el’“7 qUa 'Ì la misura della felicità e il ventre e 1 inguine (xig
yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole V ' l0X ° tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a
libertà fu bevuta alla zione universale, questo continuo panegirismo
ormai diventato di prammatica, non è, per Cicerone, se non un’universale
falsificazione di coscienza, quella stessa per cui più tardi egli
osservava che i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano dato
a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della patria il titolo di
parens patriae: potest cuiquam esse utile faedissimum et taeterrimum
parricidium patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab oppressi
civibus parens nominaretur?,, {De Ojf.) Questa situazione che fa fremere
d’orrore Cicerone, nella quale egli trova che non c e salute di
Filippo e di Alessandro. E, data questa vostra viltà e servilità, (dice
altrove) è mutile che speriate nella malattia o nella morte di Filippo :
anche se muore, vi creerete tosto voi stessi un altro Filippo,
"ay^Éu; upet; gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil.). In questo
stesso luogo, volendo Cicerone dimostrare che l'utile e il giusto non
possono distinguersi, scrive fra l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di
Cesare di voler dominare tirannicamente la patria] si honestam quis
esse dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum,
earumque oppressionem taetram et detestabilem glonosam putat ». Come,
aggiunge, può essere ciò utile all usurpatore? Anche i re legittimi hanno
avversari. Quanto plures ei regi putas, qui exercitu popuh romani populum
ipsum romanum oppressisset? Ricco com’era d’un pathos etico affine a
quello di Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere e dai
suoi scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo
tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità in noi, e che
è per conseguenza un dovere verso noi piu posto“ non modo pudori,
probitati, virtuti, rec- tis studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati
ac Dh ), gli appare sopraia!,„ basata sulla menzogna e sul
falso, perchè sotto l’adesione, l’adulazione, l’apoteosi che
l’atmosfera ufficiale orma, impone, circola larghissimamente quel
malcontento e quell’esecrazione generale verso ì distruttori dello Stato
legale, che egli constatava già precedentemente quando essi avevano
iniziata tale loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium omnium
hominum in eos qui tenent omnia ; mutationis tamen spes nulla Ad Alt.). Questa
esecrazione generale, sotto le parvenze dell’ossequio più profondo, s’è ora
concentrata in Cesare, il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai
in realta persino “ egenti ac perditae multiludini in odium
acerbissimum venerit. Invero, Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di
dover esserlo, sopratutto per la posizione di superiorità e
distanza, così urtante al senso cittadinesco romano, che egli aveva finito per
prendere : dopo la sua uccisione, Mazio racconta a Cicerone che
stess., può esprimersi in modo più o meno chiaro nei seguent,
precetti: non siate schiavi degli uomini: non permettete che, vostri
diritti siano impunemente calpestati „ (Dottr. della Virtù). Che è, del resto,
il precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c- àv&pdmwv (1,
SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs UylCWXw!]) 4Xlv tu r» G. Reati . Vita
parallele di due filosofi avendo dovuto una volta Cesare far fare
anticamera a quest ultimo, aveva detto : se un uomo come Cicerone deve
attendere per essere introdotto da me e non può a piacer suo parlarmi, “
ego dubitem quin summo in odio sim „ ? (Ad Att. XIV, 1 e 2) A
proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti i quali pensano che
perchè Bruto era stato perdonato da Cesare e poi anzi beneficato, egli
dirigendo il tradimento e
l’uccisione del suo benefattore, abbia dato perfido esempio di cuore
ingrato e irreverente (Corradi). Questa opinione è la tipica prova della
completa mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il
fatto che Cesare gli aveva perdonato », doveva essere per Bruto una
giusta ed onesta ragione di più per abbonirlo. Bruto aveva preso le armi
contro Cesare in difesa dello Stato legale : dunque conforme al diritto.
Decidere sul suo caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità
legali (Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già le
leggi o le autorità legalmente costituite, ma l’individuo Cesare, potesse
a suo beneplacito interrompere o far proseguire i processi, ordinare
condanne o assoluzione, assolvere Bruto, perdonare a Bruto (quasiché
condannare od assolvere, e, peggio, « perdonare, supposto si
trattasse di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e
quasiché questo stesso fatto non comprova lo sfasciamento dello
stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più per avversare e
condannare legittimamente l’uomo e il sistema, e per ricorrere ad ogni mezzo
onde liberarsene. Che, per citare un altro fatto, onde far ritornane
Marcello dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un
individuo, gettarsi ai piedi d’un individuo, dell' individuo Cesare,
è un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per Era,
insomma, la situazione che un filologo italiano contemporaneo descriveva di
recente crn tutta esattezza così: La crescente potenza di Cesare,
il quale, dopo la funesta giornata di Farsalo, erigendosi a signore assoluto, e
sopprimendo la libertà della vita politica di Roma, ha, per primo,
inaugurato la lunga e mostruosa serie degli questo individuo, che si
sovrapponeva in tal guisa alle leggi : condanna, anche quando perdonava, perchè precisamente così
dimostrava che dipendeva, non più dalle leggi assolvere o condannare, ma
da lui perdonare o no. Piena ragione ha Seneca quando in un capitoletto
pieno di considerazioni interessanti circa l’atto di Bruto, dice
che egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare, perchè
questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se non violando il
diritto e perchè chi non uccide non arreca un beneficio, ma si astiene da
un maleficio: in ius dandi beneficii iniuria venerai; non enim servavit
is, qui non interficit, nec, beneficiun dedit, sed missionem. De Benef..
Del pari piena ragione ha Cicerone, il quale, ad Antonio, che gli
rinfacciava come un benefizio usatogli di non averlo ucciso al suo sbarco
a Brindisi, rispondeva : questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe
vantarsi un assassino per non aver ucciso taluno. Quod est aliud
beneficium latronum, nisi ut commemorare possint iis se dedisse vitam,
quibus non ademerint? (Fil.). E si
noti ancora che Seneca e Lucano, vivendo entrambi alla corte di Nerone,
il quale, pure, era della casa Giulia, poterono il primo dare a Bruto la
massima delle lodi facendo dire da Marcello a sè stesso: “ tu vive
Bruto miratore contentus (Ad Helviam), il secondo dipingere nel suo
poema con smaglianti colori di grandezza morale “ magnanimi pectora Bruti
mperatori romani ; la viltà degli adulatori, che disertavano il partito
dei vinti per quello più vantaggioso dei vincitori ; le mene degli
ambiziosi, che, r er trar partito dalle circostanze ad accumular potenza
e ricchezze, pullulavano su su dal fondo di quella corrotta società, come
marcida fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante; le crudeltà dei
prepotenti, che volevano, anche a mezzo di violenze e di sangue, aprirsi
un varco nella folla dei concorrenti a quella specie d’albero della
cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello Stato con le loro mille
seduzioni e promesse di dominio e di saccheggio dei beni pubblici e
privati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato in cui vivevano,
nell’esilio volontario o non volontario, le anime dei virtuosi e degli onesti,
fautori del partito repubblicano. Tutto insomma contribuiva a
mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe. Anziché assopirsi, cresce a
dismisura nelle classi non mai dome nel loro caratteristico orgoglio,
il malcontento per il nuovo regime... La miseria intanto cresce
spaventosamente in Roma e nella provincia ; lo spettro della fame
s’aggira nelle campagne desolate e incolte dell’ Italia; le classi
medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed alla disperazione. Torme
di miserabili si vedono per ogni dove languire d’ozio e di fame U.
Moricca, Introd. a Cicer. De Finibus, Torino, Chiantore Ora, tanto appare
a Cicerone falsa e menzognera la situazione che egli è certo che non può
durare. La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie circa la
restaurazione finanziaria (divitiarum in aerario) sono cadute; è
impossibile che egli e i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare,
riescano ad amministrare soddisfacentemente le provincie e lo stato; cadranno
da sè, per gli errori propri, per se, etiam languentibus nobis aut
per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi est adversarius unus
acerrimus. Questa tirannide non può reggere sei mesi, iam intelliges id
regnimi vix semenstre esse posse Probabilmente, ciò di cui Cicerone avrebbe
sopratutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quell’errore che il
Romagnosi descrive così. La temerità e l’intolleranza sono i vizi che
sogliono guastare questo procedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca
di temerità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura o
non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si pecca d’intolleranza
allorché si vuole seminare e raccogliere ad un sol tratto, e però si passa ad
infierire contro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della
riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel mantenere la giustizia, e
nel rimanente lasciate operare il tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri
stimoli artificiali, le vostre correzioni minute, invece di giovare
nuociono, invece di affrettare ritardano; e se per caso avrete un
frutto precoce, ne avrete mille falliti (Dell’ Indole e dei Fattori dell’
Incivilimento, Avvertimento finale). Auree parole d’uno dei nostri massimi
pensatori politici, che andrebbero anche oggi meditate e tenute presenti. Alle Tale
previsione di Cicerone andò incontro ad nna smentita colossale. Quella divinatio
dell’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo studio e dalla
pratica, aveva la coscienza di possedere, qui gli fallì del tutto. E' vero che
Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del sentimento
politico, che, in quelle perturbate circostanze, si sprigionava vivo in
Cicerone, le seguenti: “ guai a quel popolo, nel quale, spento il punto
d’onore, non prevalgono che poteri individuali! „ (/„,/. di Ciò. FU
Giurispr. T e ° r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua
affermazione dei diritti dell uomo, da lui chiamati originaria padronanza
naturale di ogni individuo. Quelli che vennero appellati diritti
dell'uomo formano appunto il complesso di questa originaria padronanza.
L’indipendenza, la libertà 1 eguale inviolabilità e il diritto di difesa
e di farsi render ragione, sono tutte condizioni di questa originaria
padronanza „ (Lett. a G. Valeri, Cu, quidem divinationi hoc plus confidimus,
quod ea nos mhil in his tam obscuris rebus tamque perturbatis
umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura dixissem, ni vererer ne
ex eventis fìngere viderer (Ad Dio. VI, o). Exitus, quem ego tam video animo, quam ea
quae ocuiis cemimus (Ad Dio.). Tamquam ex aliqua specula prospexi tempestatem futuram. Questa
sicura previsione degli eventi, questo sicuro presentimento, Cicerone lo
possedeva in effetto. Anche nella circostanza suaccennata egli prevedeva
giusto, preveveva cioè quello che tutto faceva ritenere dover accadere.
Se i fatti si svolsero in senso del tutto opposto alla sua previsione, si
può, in un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non
Cicerone; cioè che la realtà è irrazionale e casuale, e che mai vi
tu un periodo di storia che sia stato come quello irrazionale e
casuale. fu ucciso poco dopo e
probabilmente lo fu quando e perchè divenne chiara a tutti I’
impossibilità in cui egli era di dominare la situazione, di riordinare
cioè seriamente lo Stato e di soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci,
cosicché Mazio uno dei pochi
cesariani onesti, che, come risulta da una sua nobilissima lettera (Ad
T)iv., non aveva sfruttato Cesare vivo, e che gli rimase fedele anche
morto, e anche durante quel momento in cui, subito dopo l’uccisione
del dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i cesariani in pericolo —
dice, deplorandone la morte: che catastrofe ! non c’è più rimedio ;
se lui, con l’ingegno che aveva, non trovava la via d’uscita, (exitum non
reperiebat), chi la troverà ora? (Ad Att.). Ma dopo la morte di Cesare,
come appunto prevedeva Mazio le cose finirono per peggiorare rapidamente.
Anche Cicerone è costretto a constatarlo. Il tiranno perì, egli dice, ma
vive la tirannia (Ad Att.) Va però tenuta presente anche la profondissima
osservazione di Montesquieu. Il étoit bien difficile que GIULIO CESARE pùt
défendre sa vie; la plupart des conjurés étoient de son parti ou avaient
été par lui comblés de bienfaits : et la raison en est bien naturelle.
Ils avoient trouvé de grands avantages dans sa victoire : mais plus leur
fortune devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part au
malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il importe peu à certains
égards en quel gouvernement il vive -- Grandeur et décadence d siamo
liberali dal re dai regno (yìj Di,. /aj' fi marzo non consolano più
come pnma (Ad Att.): stolta L iZZ Martmrum consolano, animis usi
sumus virilibus cooubs puenbbus ; excisa est arbor, non avulsa
^ i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio l’erede del regno;
si poteva con piu libertà parlare contra illas nefarias
partes xiv r vivo che non uccitó lnfine crebbe meglio che
Cesare vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desideran- dus, Infatti,
la situazione era diventata quale la descrive ad Attico così. Sed vides magistrati ; si quidem illi
magistratus'; vides tyranni satellites m impems; vides eiusdem exercniis;
vides in latere veteranos In conseguenza il sistema di governo che
Cicerone prevedeva non poter durare un semestre, durò invece,
continuamente aggravandosi o peggiorando per quattordici secoli, cioè per
quanto visse l’impero bizantino. Ma la fallacia di questa
previste la torio all. mente di Cicerone. E' la fallacia
propria delle menti profondamente razionali, che hanno una fede
inconcussa nella ragione; e la mente di Cicerone era appunto secondo la
felice dennizione che ne dà Io Zielinski, un Aufkà- rungsvers tand. A codeste menti
è impossibile O. c. .ammettere che la mostruosità, l’irrazionalità, l’assurdo
vengano a tradursi permanentemente nel fatto, si facciano solida e
stabile realtà. Ciò è assurdo, quindi è impossibile; questo è per
siffatte menti un canone assolutamente insopprimibile, sradicando
il quale essa sentirebbero di strappar le proprie medesime radici. A
cagione della stessa forza della loro compagine razionale, è ad esse
impossibile riconoscere che il fatto che una cosa sia assurda non
impedisce menomamente che essa divenga realtà e che anzi quasi sempre
nella storia umana avviene che ciò che all’ inizio la mente
scorgeva come cosa assurda, pazzesca, implacabilmente ciò non ostante si
realizza. Come buon platonico Cicerone non poteva a meno di essere
fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov xoótotj xaxòv
TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed..). Nel logos egli aveva indefettibile
fede. Egli scorgeva dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria
poteva giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per lui una
conquista permanente» della civiltà, la civiltà stessa, la civiltà che non può
perire. Con tale forma di governo il suo spirito si era immedesimato ;
essa faceva parte essenziale della sua coscienza d uomo, forma il cardine su
cui poggiava tutta la sua vita spirituale Pensare che tale
Che tale stato d'animo fosse non solo ciceroniano ma romano, emerge anche
da ciò che l’indignazione per la caduta di quella forma di governo si
formi potesse crollare e permanentemente scomparire, era come pensare che
potesse precipitare tutto ciò che si è sempre visto stabile, la
terra, il sistema solare, ciò che è l’incarnazione di un’eterna legge
della natura. Sempre gli uomini quan- o si sono trovati in una fase di
cangiamento analoga a quella in cui si trova Cicerone_e tanto
più quanto più la loro mente era fortemente razionale hanno emesso la
medesima errata previsione di lui ; ciò è assurdo, quindi impossibile,
quindi non può durare. prolunga sino in S. Ambrogio, in cui, da signore romano
d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, Hic erat pulchemmus
rerum status, nec insolescebat quisquam perpetua potestate, nec diuturno
servitio frangebatur. Nemo audebat alium servitio premere, cuius sibi
successuri in honorem mutua forent subeunda fastidia; nemini labor
gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed postquam do- mmandi libido
vindicare coepit indebitas et ineptas nolle deponere potestates...
continua et diuturna potentia gignit msolentiam. Quem invenias Hominem
qui sponte deponat impenum et ducatus sui cedat insigne, fiatqe volens
numero postremus ex primo? {Hexameron). osa et nota : lo stesso errore,
la stessa illusione— nobilissimo errore ! troviamo, come già
si e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita fa
esattamente riscontro a quello di Cicerone. Anche Demo- j. en „ e . p - e
- ne,,a seconda Olintiaca prevedeva che la potenza di rilippo era alla
fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv teXsut^v t« payiiax aòttji (§ 5). E
questa previsione era per lui principalmente fondata appunto sul fatto
che una potenza costrutta sulla malvagità non può durare. Oò yàp gcmv,
Il dramma, terribile dramma, della vita di Cicerone, è appunto questo. II
dramma dell’uomo oìjy. laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta
-/.al èruop- xoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv j3ej3aiav
XTiqaaad’at... xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig
àX^S-sT; xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei. E nemmeno dieci anni dopo
Filippo trionfava definitivamente a Cheronea. Ad ogni momento troviamo
questi pensieri nelle orazioni di Demostene, che perciò sono cosi
istruttive circa le illusioni in cui il « razionalismo » induce gli
uomini. Ma neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene dal1
illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato, Demostene
comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg, splendidamente vestito,
incoronato: con la morte dell’uomo, secondo lui, la costruzione
improvvisata ed effimera doveva certo crollare. E quando Alessandro si
fece avanti a sorreggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille,
ndsioa xai |ia T txT)V (Plot., Dem.). Ma la costruzione fondata
sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene, non poteva reggersi,
sboccò invece nel trionfo addirittura fantastico ottenuto appunto da
Alessandro. Gli uomini non possono rassegnarsi a credere che una politica
malvaga possa ottenere un successo duraturo, che il male trionfi
permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia illusione; e le
cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti, 1 razionalisti,
gli spiritualisti, non sanno ricavare dal male che sotto ì loro occhi
permanente trionfa, neppure quell unico bene che vi si potrebbe ricavare:
quello cioè di essere definitivamente istrutti dell andamento
assolutamente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita. Chiusi nel
loro mondo dei meri concetti, è a quelli e alle deduzioni da quelli che
continuano a credere, anziché aprire gli occhi ai fatti. < Sapiunt
alieno ex ore petuntque res ex auditis potius quam sensibus ipsis »
(Lucr.). che con disperazione vede rovinare intorno a sè senza
possibilità di salvezza il mondo civile di cui la sua più intima vita
stessa era intessuta, il mondo razionale e trionfare
ineluttabilmente, in causa impia, victoria etiam foedior ( De Off.), l’ingiustizia ed il male,
una forma di mondo umano “ impensabile assurda, il dramma della coscienza
eticamente desta che vede con orrore ciò che essa giudica
aberrazione morale e iniquità acquistare ufficialmente il carattere di
nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi a restare definitivamente
sotto questo aspetto nella storia. Quando si fa a poco a poco chiaro
nella mente di Cicerone 1 ineluttabilità dell’evento, quando egli è
ormai costretto a vedere che non c’è più speranza, a domandarsi: quae
potest spes esse in ea republica, in qua hominis impotentissimi
(violento) atque intemperantissimi armis oppressa sunt omnia? „ (Ad
Div.); quando deve constatare che tot tantìsque rebus urgemur, nullam ut
allevationem quisquam non stultissimus sperare debeat „ (Ad Div.), il suo
strazio non ha confini- Ciò che già precedentemente, quando tale
condizione di cose si delineava, egli cominciava a sentire, civem mehercule
non puto esse qui temporibus his ridere possit „ (Ad. Div.),
diventa ora il suo stato d’animo permanente. La vita non ha più sorriso :
“ hilaritas illa nostra erepla mihi omnis est. Il suo grido è quello
del coro degli Spiriti nel Fausi. Du hast zerstòrt Die schòne
Welt Mit màchtiger Faust; Sie stiirzt, sie zerfàllt! Ein Halbgott hat sie
zerschlagen! Wir tragen Die Triimmern ins Nichts
hinuber Und kiagen Uber die verlorne Schòne. Questo dramma strappa a Cicerone
espressioni di dolore profondamente dilacerante. E la sua
corrispondenza è forse la lettura più viva che l’antichità e probabilmente la
letteratura d’ogni tempo ci offra, appunto perchè, come in nessun altro
scritto, vi si scorge con l’immediata evidenza della vita vissuta e quasi
vedessimo la cosa svolgersi giorno per giorno sotto i nostri occhi, come
sotto quel dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la
terribilità della sua rovina personale affligge gravemente Cicerone. Natus enim
ad agendum semper aliquid dignum viro, nunc non modo agendi
rationem nullam habeo, sed ne cogitandi quidem (Ad Div.) ; ed egli ha
ragione di deplorare di essere stato travolto proprio nel
momento in cui avrebbe potuto e dovuto, cogliendo il frutto dell’opera
della sua vita, toccare l’apice della sua carriera. Omnis me et
industriae meae fructus et fortunae perdidisse Casu nescio quo in ea
tempora aetas nostra incidit, ut cum maxime florere nos oporteret, tum
vivere edam puderet. Certo anche la rovina che incombe sulla sua famiglia
e specialmente sulla sua figlia lo tortura.Quibus in miseriis una
est prò omnibus quod istam miseram patre, patrimonio, fortuna omni
spoliatam relinquam (Ad Att.). Ma ciò che forma il crepacuore di
Cicerone non è la sua situazione personale, bensì il baratro in cui è
precipitato lo Stato. Sed tamen ipsa republica nihil mihi est carius (Ad Dio.). “ Ego enim
is sum, qui nihil umquam mea potius, quam meorum ci- vium causa
fecerim. Ma ora ? Ego vero, qui, si loquor de re publica, quod
oportet, insanus, si, quod opus est, servus existimor, si taceo,
oppressus et captus, quo dolore esse debeo ? (Ad Att.). Due sono sopratutto le note in cui
erompe l’espressione di questo suo strazio. In primo luogo,
andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder più simili cose: “
evolare cupio et aliquo pervenire ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta
audiam „ egli ripete con un tragico antico (ib. VII, 28, 30, Ad
Att.); “ ac mihi quidem iam pridem venit in mentem bellum esso
aliquo exire, ut ea quae agebantur hic, quaeque dice- bantur, nec
viderem nec audirem (Ad ‘Dio. IX, 2); “ longius etiam cogitabam ab urbe
discedere, cuius iam etiam nomen invitus audio. Tu mi sembravi pazzo
(scrive a Curio) quando abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo
che sei “ non solum sapiens, qui hinc absis, sed etiam beatus :
quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc esse beatus potest ? (Ad Db.). E’
il desiderio che si fa strada persino nei suoi trattati, p. e. nelle
Tusculane, dove parlando di Damarato. Io giustifica cosi : “ num stulte
anteposuit exilii libertatem domesticae servituti? O, se andarsene non si
può, almeno ritirarsi in solitudine. Nunc fugientes conspectum
scelerato- rum, quibus omnia redundant, abdimus nos, quamum licet, et
saepe soli sumus (De Off.). In
secondo luogo, morire. Perire satius
est, quam hos videre (Jd Db.) Mortem] quam etiam beati contemnere
debebamus, propterea quod nullum sensum esset habitura, nunc [Che cosa
pensi intimamente Cicerone della vita futura, risulta, non già dal quadro,
avente scopi puramente estrinseci, che traccia nel Somnium Scipionis. ma
dalla sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e due
altri, (Ad Dw.) ricordati più innanzi, basterà citare: Fraesertim cum
impendeat, in quo non modo or,*. v erum finis etiam doloris futurus sit. E
anche in altre opere di Cicerone questo suo vero pensiero si manifesta.
Cosi nelle Tusculane. Mors. aeternum nihil sentienti receptaculum. Cosi
in Pro Marcello Quod (la fine) cum venit, omnis voluptas preterita
prò mhilo est, quia postea nulla est futura» Cosi in Pro Cluentio: quid
ei tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ? sic affecti, non modo
contemnere debeamus, sed etiam optare. La filosofia sembra <
exprobrare quod in ea vita maneam, in qua nihil insit, nisi propagatio
miserrimi temporis ; non si sa <si aut hoc lucrum est aut haec vita,
superstitem reipublicae vivere ; nam
mori millies praestitit quam haec pati (Ad. AH.) ; « eis conficior curis,
ut ipsum quod maneam in vita, peccare me existimem (Ad Div.);
mortem cur con- sciscerem causa non visa est, cur optarem,
multae causae. In uno spirito, così profondamente romano, cioè volto
all’attività pratica e civica, la desolazione dello Stato faceva spuntare
questo pensiero: « Ipsi enim quid sumus ? aut cum diu haec curaturi
sumus? (jdd Att.); quid vanitatis in
vita non dubito quin cogites (Ad Div.). Cosi, pur nell'atto
che prevede la prossima caduta del cesarismo, dice. Allo stesso modo
la pensava Cesare, il quale nel discorso, riferito da Sallustio, da lui
tenuto in Senato circa la pena da darsi ai complici di Catilina, si
oppose alla pena di morte appunto perchè con questa cessa la coscienza
e quindi ogni male. Eam cuncta mortalia dissolvere; ultra neque
curae neque gaudio locum esse (Cat.). Va però notato che Cicerone dà
un’altra interpretazione a questo punto del discorso di Cesare. Cesare
cioè era contrario alla pena di morte. Egli intelligit, mortem a
diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed aut
necessitatem naturae, aut laborum ac miseriarum quietem esse. -- In S.
Catilinam. id spero vivis nobis fore ; quamquam tempus est nos de illa
perpetua iam, non de hac exigua vita cogitare » (Ad. Att.). E il pensiero
della morte come unico scampo e rifugio viene a grandeggiargli dinanzi in
modo, che bene spesso lo vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti
teorici: così, p. e., nel De Oratore. Sed 11 tamen rei publicae
casus secuti sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immor-
talibus vita, sed donata mors esse videatur; e così nelle Tusculane :
multa mihi ipsi ad mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuissem obire
! nihil enim iam acquirebatur, cumulata erant officia vitae, cum fortuna bella
restabant. Morte per sè, morte per coloro che amiamo ; questo soltanto è
ciò che lo status ipse nostrae civitatis ci costringe a
desiderare: cum beatissimi sint qui liberi non susceperunt, minus
autem miseri qui his temporibus amiserunt, quam si eosdem, bona, aut
denique ahqua republica, perdidissent non, mehercule, quemquam
audivi hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum aut
puerum mortuum, qui mihi non a Diis immorta- libus ereptus ex his
miseriis atque ex iniquissima conditione vitae videretur (Ad Div.).
Ne solo nell animo di Cicerone il trovarsi « in tantis tenebris et
quasi parietinis rei publicae induceva il desiderio di sfuggire a questo
sfacelo con la morte ; ma tale sentimento era certo diffuso. Nella
bellissima lettera con cui Servio Sulpicio cerca di consolare Cicerone
per la morte della figlia, 1 argomento principale che egli fa
valere e, nelle circostanze presenti, non pessime cum iis esse actum,
quibus sine dolore licitum est mortem cum vita commutare e che
Tullia visse finché visse lo stato, una cum republica fuisse (Ad Dio.); al che
Cicerone dolorosamente risponde che l’attività pubblica lo consola
dei dolori domestici, l’affettuosa intimità con la famiglia delle
traversie pubbliche, ma ora “ nec eum dolorem quem a re publica capio
domus iam consolari potest, nec domesticum res publica . Ed anche in Catullo,
il disgusto invincibile suscitatogli dai “ turpissimorum honores „,
disgusto che faceva gemere dal suo canto Cicerone, cosi; o tempora ! fore
cum dubitet Curtius consulatum petere? „ (Ad Att., e circa Vatinio) suscita l’aspirazione
alla morte. Quid est, Catulle? quid moraris emori? Sella in curulei struma
Nomus sedet, per consulatum peierat Vatinius; Quid est,
Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge Cicerone qualche conforto
in questa immensa iattura ? Non dal foro che egli (interessante
confessione) dichiara di non aver mai amato e nel quale del resto oggi
non c’è più nulla da tare: quod me in forum vocas, eo vocas, unde,
etiam bonis meis rebus, fugiebam: quid enim mihi cum foro, sine iudiciis,
sine curia? (Jld Jltt.). Era il momento in cui i vincitori della
violenta lotta politica, giravano per Roma baldanzosi ed allegri, e i
sostenitori dello Stato legale, battuti, erano melanconici. Mane salutarne domi et
bonos viros multos sed tristes, et hos laetos victores, qui me quidem
perofficiose et peramenter observant {Ad Div.). Due di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano
messi a prender lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con questo
pretesto, lo sorvegliavano per conto di Cesare. Anche queste lezioni recano a
Cicerone qualche sollievo {yld Di\>.). In maggior misura, egli ne ricava dal
far udire, quando e come era possibile, qualche parola di ammonimento.
Così, pur avendo risoluto di non più parlare in Senato, allorché
sulla universale istanza di questo, Cesare amnistia Marcello (che non
aveva fatto nessun passo per essere richiamato e sembrava non desiderarlo
— e che fu, del resto, assassinato da un suo impiegato nel momento in cui
stava per partire alla volta di Roma), Cicerone prende la pa- [La voce dei
gaudenti sfruttatori di situazioni immorali rinfaccia sempre a coloro che le
condannano, come un torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella
voce si fa udire, secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos
alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos assis ne feceris
» (Ep.) rola per ringraziare il dittatore ; ma sa anche attraverso i
ringraziamenti esporgli il parere più libero e coraggioso che forse mai
Cesare abbia sentito. Quodsi rerum tuarum immortalium (egli ha 1
ardue di significargli) hic exitus futurus fuit, ut devictis adversariis
rem publicam in eo statù relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne
tua divina virtus admirationis plus sit habitura quam glonae (Pro
Marc.). Tu devi, egli incalza, preoccuparti della vera gloria, del
giudizio che daranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare ciò
che tu fai, non cogli occhi abbacinati dei contemporanei, ma con quelli di
coloro che giudicheranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu non
avrai ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sarai certo sempre
ricordato, ma non con giudizio concorde: “ erit inter eos etiam, qui
nascentur, sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii lau-
dibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii for- tasse ahquid
requirent, idque vel maximum, nisi belli cmlis incendium salute patriae restinxeris,
ut illud fati fuisse videatur, hoc consilii. E questo un nobilissimo
linguaggio da cittadino onesto e d’animo forte ; linguaggio che,
bisogna riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben più
vivaci attacchi contro di lui, con tolleranza ed equanimità, civili animo.
-- Svet,, Caes.. Anche Cicerone nella sua corrispondenza talvolta
constata che Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.: L intolleranza,
l’oppressione, l’uso del potere per far tacere censure al detentore di
esso, e persino per impedire di rispondere agli attacchi, comincia
con Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pollione (lo stesso, alla nascita
del cui figlio il servile Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e
a prostituire poi il suo genio a colui che tra questi occupa nella
storia per bassezza e nequizia uno degli “ nam et ipse, qui
plurimum potest, quotidie mihi delabi ad acquitatem et ad rerum naturam
videtur „ Ad Dio. VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa che
accadde con OTTAVIANO) è naturale, perchè, se un uomo non è
straordinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo personale
lo rende incline alla benevolenza verso gli altri, a diffondere anche
intorno il sentimento di felicità che il successo gli dà. Solo un uomo
dal cuore fondamentalmente malvagio nel suo più pieno e grandioso
trionfo, quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più duro
e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo col darsi la
sensazione di poter a suo beneplacito tormentare, perseguitare, far soffrire
altri uomini. Tale era Siila, secondo le parole che Sallustio mette in
bocca ad Emilio Lepido. Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab
externis rapta, tenet, non tot exercituum clade neque con- suhs et
aliorum principum, quos fortuna belli consumpse- rat, satiatus : sed tum
crudelior, curri plerosque secundae res in miserationem ex ira vertunt.
-- Hist. Fragni. Raramente, si, ma però talvolta avviene che un uomo, favorito
dalia più straordinaria fortuna, diventi sempre più bramoso di far del
male agli altri. “ Felicitas in tali ingenio avaritiam, superbiam ceteraque
occulta mala pate- fecit. -- Tac., Hist.. “Itimi posti, Ottavio, dedicò
la sconciamente cortigiana e piagg.atr.ee Egloga IV) nell’elegante
epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4) che non si può più
scrivere dove in risposti si può proscrivere : temporibus triumviralibus
PoIIio cuna fescenmnos,n eum Augustus scripsisset, ait: g
taceo ; non est emm facile in eum scribere qui potest proscribere
(2) Più ampio conforto ricavò Cicerone dagli studi, bbene una
volta fuggevolmente accenni che forse senza la sua cultura sarebbe più
atto a resistale! exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma-
(I) Si vegga nel libro diV. Alfieri D»/ p •, » I J1 '> e la dimostrazione che questa viltà
ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna e ha per base il vero
robusto pensare e sentire tm-,1 niente manca in Virgilio (L. II C VI) “
V -esse avuto nell’animo quella P napesco, assai maggiore
sarebbe stato egli stesso e quindi assai maggiore il suo saggio (L. II C
VI • vegga anche il C. Vili) E il Canti 1 . Ci j ;•, C S ‘ uh. ed. I. 582 n
94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D < ’ VIRGILIO si
lascia traricchire anche Boissier, L’opposition sous tes Césars p.
I3Ì” RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la fonte
il Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente
versione: Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ ™
num est „. (Ad Alt. XII, 46) ; e sopratutto dallo studio della filosofìa,
la passione per la eguale '’quo- tidie ita ingravescit, credo et aetatis
maturitate ad prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia
levare animum molestiis possit. „ (Ad Dio. IV, 4). Le sue lettere di
questo periodo sono piene delle sue attestazioni che non vive se non
negli studi filosofici e non trae conforto che da essi. Ad
aumentare questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero dalle
calamita dello Stato, s aggiunge la sua attività di scrittore. Sono questi gli
anni della sua intensa e feconda produzione filosofica. Nisi mihi
hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae, quo verterem me non
haberem (Jld Alt.) Equidem credibile non est, quantum scribam die, quin
etiam noctibus, nihil enim sommi. Nullo enim alio modo a miseria quasi
aberrare possum. Vero è che le afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza
dell’avvenire, derivanti dal pessimo andamento degli affari pubblici, non
permettono piena pace nemmeno nello studio : Utinam quietis temporibus,
atque aliquo, si non bono, at saltem certo statu civitatis, haec
inter nos studia exercere possemus ! „ Però, appunto in tali circostanze, “
sine his cur vivere velimus? -- d Dio. Così nascono i saggi di FILOSOFIA di
Cicerone, circa i quali si cita sempre per aiutare a deprezzarli la
fuggevole frase “sono copie” cascatagli dalla penna scrivendo al suo amico
e certo come convenzionale espressioni t Xlì Vf fr ° nte j
1Iammiraz ' on e di lui (Ad X ’ I 52 ’ ma 51 dimentica di affrontare
tale fra e con le sue numerose e consuete esternaziom dalle quali
risulta che ben altra era la stima ch’egli off" 3 de ‘ pr0pr ;.
scrltti ' “ Res difficiles „ (ib. XII 38) egli dice di star scrivendo ;
quanto alle Jìc- G Q rto -5 C ° nVInt,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere ne
aVud, cos quidem simile quidquam „ (ib. XIII 1 3)- le chiama “
argutolos libros „ ^ XIli.Y 8,00^ XIII 19? ac n ra ? posset supra ”
r/4. XIII, 9); 1 libri del De Oratore gli sono “ vehementer probati
(ib.) e così il De Finibus ib ?AJ ÀI XvT i, soddisfa Attico
bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M AA- ( ’ 8 ^ eSpnme anehe,a
sua Propria soddisfazione per queste due opere; mihi vakle
pbcent, maHem tibi dice dei libri, perduti d! Giona (Ad Ali). In
particolare, i| e sua opere filosofiche LE TUSCULANE, che
facilmente si prendono per un mero esercizio letterario, sono invece
un saggio profondamente vissuto, rampollato da a tragica realtà di vita i
cui Cicerone si dibatte e che come tale, come idoneo cioè a fornir conforto e
forza in quelle circostanze dove essere
generalmente sentito, e certo da Attico se Cicerone gl, scrive -- quod
prima disputatio Tuscu ana te confirmat, sane gaudeo. Neque enim ndhim
est perfugium aut melius aut paratius. Bel saggio, che in ogni epoca,
nelle medesime circostanze da cui esso è nato, è servito allo scopo per
cui era stato scritto – DIE EROICA DER ROMISCHEN PHILOSOPHIE, come con
calzante espressione lo definisce Zielinski. Ma il supremo conforto di Cicerone
è un altro. Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella FILOSOFIA
come un’occupazione mentale opportuna a distornare il pensiero da quello
che poi Lucano, il grande poeta anti-cesariano, define“ ius sceleri
datum, quanto nel rivivere in sè I CONCETTI DELLA FILOSOFIA come atti a fornire
forza d'animo per affrontare e sopportare le sciagure derivanti da una
situazione politica e sociale particolarmente triste. FILOSOFIA cioè non come
“ostentationem scientiae, sed legem vitae „ (Tusc.). Anche in lui, per
usare l’espressione di cui poi si servì Marco Aurelio zi 5 óypaia.
Giustissimamente il Moricca. Saremmo forse anche noi tentati di ritenere
l’operetta tulliana un’amplificazione rettorica, se non pensassimo
che quelle parole sono scritte per una generazione d’uomini nelle cui
orecchie esse andavano diritte al cuore. Un saggio di morale dell’epoca di
Cicerone è da considerarsi non come una fredda e vuota argomentazione
rettorica bensi come un’eco squillante delle voci del passato, che sale dalle
tombe e vince i secoli. Secondo il testo di Trannoy (Les Belles Lettres).
bisogno di vivere tali precetti A' i,• . ventar succo e sangue e il f T l
d ‘ faHl dl gere a ciò, Cicerone Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun '
maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0 i'I “ na consolazione a se
stesso “ D • Un ^ ro dl profecto anfe me TeZ. ^Z 'T *** consolarer
; que m librum jf . me per i‘ tera s serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3
" 1 S ‘,^'P' esso talem ; totos die® U c °nsolationem
quid, sed t n^sper 1 C ;,b ° 5 T“ qU ° proflci ™ XII 14) p t,sper
im P e dior, relaxor „ (Ad 4tt « 'a ll'Tlzr ™ di r'*
d«„e meditazioni morali!^ e8mam0 le Mslre '4«fr-r v lLStó
et,r°d servire 4 IL PORTICO, di cui poi in,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,,
° e d oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi vid.o
Prisco fornirono ° Peto ed EI ’ e che successivamente si anc ° Ta p
‘ù insigni, .1 hiosofo :z :L: r, ai cristiano, il sacerdnie • ’ p °
SCIa> n el mondo c„i i,Tat'„ e ' „x:; a ” d f molti tenevano
costantemente in d m ° nre ’ anZI rettoredi coscienza e confortatore,
iHoro ZofoOX . Plauto, fatto morire da Neron» • mi istanti assistito
e confortato dai “ / V ‘ ene " ei 3U0 ' u,tl Cerano e Musonio (Tac.,
Ann. XwTv)), Trlse’ O Socrates et
socratici viri! -- esclama Cicerone, qui, veramente riguardo a traversie di
carattere privato). Numquam vobis gratiam referam Un immortales quam m
ihi ista prò nihilo (Ad Alt. ). Attico (egli scrive al suo liberto e
segretario Tirone) mi vide agitato, crede che sia sempre lo stesso, “nec videt
quibus presidii philosophiae septus sim -- Ad Div. La disperata e
rovinosa condizione dello Stato -- quidem ego non ferrem nisi me in
philosophiae portum con- tulissem. “ Equidem et haec et omnia quae
homini accidere possunt sic fero ut PHILOSOPHIAE magnam habeam gratiam,
quae me non modo ab sollecitudine abducit, sed etiam contra omnes
fortunae impetus armat, tibique idem censeo faciendum, nec, a quo culpa
absit, quid- quam m malis numerandum -- Ad Div. E noi vediamo
veramente questo pensiero centrale del PORTICO, cioè lo sforzo di
distornare il proprio interesse da ogni cosa esteriore per concentrarlo
unicamente nel nostro comportamento, e m ciò trovare appagamento e pace
(questo, come si può chiamare, ottimismo della disperazione, che e
il solo che resta nei momenti di maggiormente infelici condizioni
esterne, perchè vuole appunto, riconoscendo tale inguaribile infelicità,
trovare an- Demetrio: e Seneca dice di Cano. dato al supplizio da
Caligola -- prosequebatur illuni Losophus suus -- (De Tranq.
An.). man- phi- i cora una tavola di salvezza),
vediamo questo pensiero centrale dello stoicismo svelarsi sempre più
chiaro agli occhi di Cicerone e proprio come postogli innanzi delle circostanze
di fatto. Sic enim sentio, id demum, aut potius id solum esse miserum
quod turpe est (Ad Att.). Video philosophis placuisse iis qui mihi soli
videntur vim virtutis tenere, nihil esse sapientis praestare nisi culpam --
(Jld Dio.. Cogliamo il procedere di questa appassionante tragedia, per
cui un uomo di indole ilare e disposto a gioire delle cose, degli
spettacoli naturali, delI arte, della letteratura, delle relazioni sociali, dell’attività
pubblica e anche della ricchezza, è, a poco a poco, dal rovinio politico,
risospinto entro se stesso e costretto a vedere e cercare la felicita
soltanto nel proprio retto comportarsi. Le meditazioni filosofiche
(scrive a VARRONE) ci recano ora maggior frutto “sive quia nulla nunc in
re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi tacit, ut medicmae egeamus
eaque nunc appareat, cuius vim non sentiebamus cum valebamus -- Ad
r i0 ’. Naturalmente con questo alto sentimento a cui Cicerone è ora pervenuto,
il pensiero della morte, qui fonte anchesso di consolazione e forza, viene a
intrecciarsi. Nunc vero, eversis omnibus rebus, una ratio videtur,
quicquid e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium rerum mors
sit extremum magna enim consolatio est cum recordere etiamsi secus
acciderit te tamen recta vereque sensisse --Ad Div. Nec enim dum ero
angar alia re, cum omni vacem culpa ; et si non ero, sensu omnino carebo.
Il crollo dello Stato è cosa gravissima -- tamen ita viximus et id
aetatis iam sumus, ut omnia quae non nostra culpa nobis accident,
fortiter ferre debeamus (Jld Div.). E tali pensieri, tali alti ed austeri
conforti ed incoraggiamenti, i grandi spiriti di quel periodo si scambiavano
tra di loro, prova, sia di quanto il dolore per la catastrofe dello Stato
era largamente sentito, sia della estensione che a lenimento di
questo dolore siffatto ordine di pensieri allora aveva preso. Era la
genuina visuale del PORTICO a cui i nefasti avvenimenti politici aveva
tutti guidati -- non aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut male vivendi
suspensas habere rationes -- Ad Div. Se Cicerone ad ogni momento ripete di
sè quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram (Ad
Div.), nec esse ullum magnum malum praeter culpam; sed tamen vacare culpa
magnum est solatium; se per sè pensa fortunato, quam existimo levem et
imbecillam, animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi
oportere; se l’esperienza di quella dolorosissima fase lo fa approdare
alla definitiva conclusione che in omni vita sua quemque a
recta conscientia transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) —
queste sono amici, « a Lucccio7“'“ “ 1 « f'umanas contemnentem et
opule C on^t r 7 "* c„ g „„ vi „ {Ad0 7 casu, et deiicto
h Z,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non veri „ (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una
commo- Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° " “ÌJ* digni et
Ss TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus ’ V. 19 ) : e a
Torquato ‘ ‘ f T Tectl8s '™" (A. praesertim quae absit a
ancora a Torauato • “ ■ P, V1 ’ 2 )> e delio Stato) vereor
ne I ^ n 3 ' (,a rovina teperiri, praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P
°7 “r: e®, atque noTZIt,» questi sentimenti ogni
IralToìtTd' !“l “ 7 ° a anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh - ' 7 ? scrive Sulpicio in morte
di Tullia) Cicerone et eum aui a Ine '
'-',cer °nem esse 9 ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare consilium... quae
alns praecipere soles, ea tute tibi subirne, atque apud animum propone;
vidimus ali- quotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam fac
ahquando intelligamus adversam quoque té aeque ferre posse. Dalle lettere
di Cicerone si potrebbe così ricavare un antologia di massime di vita del
PORTICO da servire efficacemente in ogni tempo al ripresenarsi di
analoghe circostanze (e tale è forse sopratutto la ragione per cui queste
lettere suscitarono in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto di nobili
animi), pm efficacemente ancora che non i suoi trattati, come le TUSCULANE
e il DE OFFICIIS, ove egli da sistemazione teorica alle medesime
idee 1 qual, però appunto perchè non contengono se' non quelle .dee
morali che, suscitate in Cicerone dalle vicende di ogni giorno, riempiono
la sua corrispondenza, ci si ridimostrano, non mere esercitazioni letterarie,
ma anzi saggi cresciuti su dalla vita vera e scritti col sangue che le
ferite inferte da questa fanno stillare dal suo cuore. Herzenphilosophen
chiama giustamente Cicerone Plutarco racconta che un giorno OTTAVIANO essendosi
accorto che un suo nipote scorgendolo nasconde impaurito un saggio sotto
la (1)0. dt., 112 toga, glielo prende, e visto che e di
Cicerone ne legge un tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo uomo
dotto e amante della patria, Xó r,o : *vl' ?. «rat, io T,o £ *«l Tardo
(come al so’ hto) riconoscimento del meriti di colui che egli ha
raggirato, tradito, abbandonato al carnefice Ma Cicerone e qualcosa di
più. Spirito altissimo e st'anzetn m n “'T'? 1 "”'’ da »! le
circo- ero \ „ j " 6 r 1 ' **' vivere, espres. sero, m
ragione di tale sua sensibilità, una soma d dolore enorme, egli
seppe da questa esperienza d, dolore trarre un-espenenza morale di
elevazione e di purificazione del dolore stesso nel fuoco
della filosofia intesa come via, di cui molti,„ e b dTrendl'
' aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò che rende
appassionatamente attraente la sua grande figura alla quale
veramenle-secondo un penTero che trova eco sino m Giovenale e
Roma' ltf !a u la 8erva arl
“lazione lo dava Sr p a,t a, a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad
- Sed Roma parentem, Roma patrem patriae Ciceronem libera
dixit. Altri saggi: Pesco Piente
Fu, un [Mi|an0i CogliariJ. f? Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna
1 Motwl Spirituali Platonici [Milano, Gilardi e Noto] nSTT, d
' W Jr aZl0nalim0 |N«poli. Guida], Materialismo C„„ c0 [R om ., CaS a
Pagine di Diario: Scheggio [Rieti, Biblioteca Editr.J, Cicute
[Todi, Atanórj. Impronte [Genova, Libt. Ed. Italia] Sguardi [Roma.
La Laziale], Scolli [Torino, Montes, ], Imminenti:
Critica deir Amore e del Lavoro [Catania. Critica della Morale
[Catania, “ Etna Etna J. Giuseppe Rensi. Rensi. Keywords: filosofia
dell’autorita, autorita e liberta, Gorgia, Gorgia ed Ardigo, Santucci, Tendenze
della filosofia italiana nell’eta del fascismo, Gentile, necrologio, Ardigo,
Platone, Cicerone, Ficino, Bradley, Bosanquet, diritto e forza, filosofia della
storia, Gogia, Elea, Velia, Elea ed Efeso, Gorgia. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Rensi” – The Swimming-Pool Library. Rensi.
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