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Thursday, January 23, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z R RE

 

Luigi Speranza -- Grice e Re: ragione conversazionale ed implicatura conversazionale – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Calitri). Filosofo italiano. Calitri, Avelino, Campania. Alfonso Del Re Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Alfonso Maria Del Re (Calitri, 9 ottobre 1859 – Vico Equense, 5 settembre 1921) è stato un matematico italiano. Figlio di Raffaele e Rosa Margotta, si trasferì a Napoli all'età di quindici anni e vi compì gli studi superiori. Si laureò a Napoli nel 1886 dove iniziò anche la sua carriera accademica quale assistente universitario. Nel 1889 fu nominato professore di Geometria analitica e proiettiva alla facoltà di Matematica dell'Università di Roma, e nel 1892 passò per la stessa cattedra all'Università di Modena e Reggio Emilia. Nel 1899 fu infine richiamato presso la facoltà di matematica dell'Università di Napoli per insegnare Geometria descrittiva. Intorno al 1910 fu anche professore di matematica presso la Scuola Militare Nunziatella[1].  È stato autore di più di un centinaio di lavori di geometria, di statica e di logica matematica, la maggior parte in forma di pamphlet.  Note ^ Francisco Protonotari (1935) Nuova antologia: Volumi 381-382 Bibliografia Omografie che mutano in se stessa una certa curva gobba del 4. ordine e 2. specie e correlazioni che la mutano nella sviluppabile dei suoi piani osculatori, Torino, Loescher, 1887 Sulla struttura geometrica dello Spazio in relazione al modo di percepire i fatti naturali. Discorso pronunziato in occasione della solenne inaugurazione degli studi presso la R.Università di Modena il d 16 novembre 1896, 3ª ed., Napoli, Lorenzo Alvano Edit., 1901 Lezioni di algebra della logica, dettate nella R.Università di Napoli, Napoli, Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1907 Lezioni sulle forme fondamentali dello Spazio rigato, sulla dottrina degli immaginari e sui metodi di Rappresentazione nella geometria descrittiva, Napoli, L.Alvano, 1906 Sulla indipendenza dei Postulati dell'Algebra della Logica, Rendiconti dell'Accademia napoletana di Lettere Scienze ed Arti, 1911, pp. 450 -458 La matematica ha un carattere universalmente unitario?, Roma, Tip. Unione Ed., 1912 Sulla visione stereoscopica e sulla stereo fotogrammetria, Napoli, Tip. R.Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1914 Sulle posizioni di equilibrio dei corpi solidi ad n dimensioni soggetti ad un sistema astatico di forze, Napoli, Tip. R.Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1914 Le equazioni generali per la dinamica dei corpi rigidi ad n dimensioni ed a curvatura costante nell'analisi di Grassmann, Napoli, Tip. R. Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1915 Nuove ricerche di astatica per gli spazi ad n dimensioni, Napoli, Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1915 Sopra gl'integrali delle equazioni della dinamica dei corpi rigidi negli spazi ad n dimensioni ed a curvatura Costante, Napoli, Tip. R.Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1915 Sopra certe formule fondamentali per la Rappresentazione di omografie fra forme estensive, Napoli, Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1915 Formule fondamentali per trasformare, con omografie estensive, formazioni d'ordine qualunque, Napoli, Tip. R. Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1916 Hamiltoniani e gradienti di formazioni estensive nell'analisi generale di Grassmann, Roma, Tip. R. Accademia Dei Lincei, 1916 Hamiltoniani e gradienti rispetto a formazioni non interamente libere, Napoli, Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1916 Gli hamiltoniani ed i gradienti del prodotto di due funzioni estensive, Roma, Tip. R.Accademia Dei Lincei, Sopra certe Relazioni di identità fra determinanti e matrici, Napoli, Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1916 Sopra una formula del Betti relativa alla propagazione del calore, e sopra gli ellissoidi principali e di conducibilità del Boussinesq e del Lame. Formule fondamentali per trasformare, con omografie estensive, formazioni d'Ordine qualunque, Napoli, Tip. B.De Rubertis, 1916 Sopra una formula del Betti relativa alla propagazione del calore e sopra gli ellissoidi principali e di conducibilità del Boussinesq e del Lamé, Napoli, Tip. R.Accademia Delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1916 Voci correlate Giovanni Di Pirro Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Alfonso Del Re Collegamenti esterni Franco Rossi, DEL RE, Alfonso, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 38, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1990. Modifica su Wikidata (EN) Alfonso Del Re, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland. Modifica su Wikidata Alfonso Del Re, in Biografie di matematici italiani, PRISTEM (Università Bocconi) (archiviato dall'url originale il 30 maggio 2009). Biografia sul sito del Comune di Calitri, su calitri.net. Portale Biografie   Portale Matematica Categorie: Matematici italiani del XIX secoloMatematici italiani del XX secoloNati nel 1859Morti nel 1921Nati il 9 ottobreMorti il 5 settembreNati a CalitriMorti a Vico Equense[altre]HARVARD COLLEGE LIBRARY > FROM THE LIBRARY OF PEIRCE, Harvard, LOGICIAN INVESTIGATOR OF THE HISTORY OF SCIENCE CONTRIBUTOR TO THE PHILOSOPHY OF EVOLUTION .n • THE Gin OF MSS. PEIRCE THROUGH THE HARVARD COLLEGE LIBRARY . I mmmmtm^'mm f { "^ I -m^ ) LEZIONI \DI ALGEBRA DELLA LOGICA AD USO DEGLI STUDENTI DELLE FACOLTÀ DI MATEMATICA E DI FILOSOFIA E LETTERE DETTATE NELLA R. UNIVERSITÀ DI NAPOLI TIPOaRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FIS. E MAT. DIRETTA DA EUOBNIO DB RUBERTIB FU MICHELE Largo S. Marcellino airUniversità»  y . f LEZIONI DI ALGEBRA DELLA LOGICA AD USO DEGLI STUDENTI DELLE FACOLTÀ DI MATEMATICA E DI FILOSOFIA E LETTERE DETTATE NELLA R. UNIVERSITÀ DI NAPOLI, NAPOLI TIPOaRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FIS. E MAT. DIRETTA DA BUOBNIO DB RUBERTIB FU MICHELE Largo S. Marcellino airUniversità, 6. l LEZIONI DI \U DELLA LOGICA ìli studenti delle facoltà di matematica E DI filosofia e lettere TK NELLA R. UNIVERSITÀ DI NAPOLI ^ ». IO -«NAPOLI lA DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FIS. E MAT. DIRETTA DA BDOBNIO DB RDBERTIB FU MICHBLB Largo S. Marcellino airUniversità, 6  -•..s,.-^«>.; { .1» i n V H » LEZIONI DI ALGEBRA DELLA LOGICA t AD USO DEGLI STUDENTI DELLE FACOLTÀ DI MATEMATICA E DI FILOSOFIA E LETTERE I DETTATE NELLA R. UNIVERSITÀ DI NAPOLI i V. I  NAPOLI TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FIS. E MAT. DIRETTA DA EUOBNIO DB RUBERTIB FU MICHBLB ( Largo S. Marcellino airUniveriiUt,  (^Jul bcS-'/'K^ i  Z> cQ^it non munite della firma dell’Autore sono contraffatte. LUIGI CREMONA PER LA VASTITÀ DELLA MENTE PER l'equilibrio MORALE DEL CARATTERE NEL MOMENTO IN CUI I METODI DELL'ALGEBRA DELLA LOGICA SEVERAMENTE RICOSTRUENDO I FONDAMENTI DELLE MATEMATICHE GETTANO VIVIDA ED INASPETTATA LUCE' SUI PRIMI PRINCIPII DELLA « GEOMETRIA  QUESTO LIBRO CON GRATITUDINE ED IN MEMORIA DEDICO. Harvard College Library June 28, i9i6. Gift of Mrs. Charles S. Peirce. In questo volume è con^gnata quella parte delle lezioni suir  da me date a NAPOLI, che, a mio avviso, più delle altre, presenta nei suoi procedimenti, la forma e la consistenza degli ordinari i procedimenti algebrici. Partendo da un gruppo di postulati fondamentali, diverso da quelli che altri ha dati), ed introducendo la nozione del UMo in senso assoluto, l’algebra qui svolta viene a ricevere una immediata interpretazione nel campo delle così dette classi, e si presenta nel maneggio, assai più facile dell'algebra ordinaria, dalla quale è, del resto, indipendente. Più volte sono stato tentato a pensare che questa faciltà ed indipendenza, consentendo all’algebra della logica di essere studiata appena dopo gl’elementi dell'aritmetica, riescirebbe a renderla assai più utile dell' ordinaria quando portata, in luogo di questa, nell'insegnamento secondario. Mi piace qui rammentare il nome di alcuni studenti che, a preferenza degli altri, seguirono, con zelo e profitto, le mie lezioni, prendendo anche i relativi esami. Essi sono: db IR.OSIS, LicopOLi, Durante, FANELLI.. È da ratntttenture anche il mio amico Majii, che avendo ascoltato le mie lezioni per due anni successivi, maneggia ora, con distinta abilità, il calcolo logico. Dei gruppi completi di postulati propriamente detti per l'algebra della logica non vennero dati che d’Huntington nell'articolo : Seta of tndipendent postulates for the (Ugebra of logie (Transactions fo the American MathemoAical Society). Cfr. pure Vbblrn, fosse impartita a quei studenti, in ispecie, pei quali lo studio delle matematiche propriamente dette, serva più per conferire una forma maggiormente organica alla costituzione della mente che pei bisogni tecnici professionali. E mi sembra improbabile che io m'inganni a questo riguardo quando penso all'ufficio che compie nelle nostre scuole secondarie lo studio della logica classica, ai tentativi persistentemente fatti per tradurne in simboli i varii procedimenti, allo sviluppo che, portata in una logica più generale), ha preso ai nostri giorni, ed in fine al carattere eminentemente deduttivo, e proprio delle matematiche, che informa i procedimenti dell' algebra della logica. Tre sono le operazioni fondamentali sulle quali è basata tutta la tecnica dell' algebra della logica: l’addizione, la moltiplicazione, e la negazione logica. Una qualunque di queste può essere definita mediante le altre due. Cosi, a differenza di quanto avviene nell' algebra ordinaria, non si presentano qui le operazioni analoghe a quelle chiamate di sottrazione e di divisione ed in grazia delle leggi di unità e di semplicità, non si riscontrano qui né coefficienti numerici, né esponenti, peroni tutte le espressioni, e le equazioni, logiche si presentano come di primo grado. Il modo di esposizione qui tenuto, come il lettore ha occasione di rilevare, ha una impronta tutta personale. Primi principii, maniere d’eduzioni, collegamenti delle varie parti, etc. sono qui pre.sentati in forma affatto diversa da quella seguita d’altri. Anche alcune nozioni, nel modo come qui trovano il loro posto, apparvero diversamente, o non apparvero affatto, in altri scritti; e qualche problema non parve essere stato addirittura presentato. Coloro che si occuparono dell’algebra della logica, in tutta la sua estensione, a cominciare da Boole, che deve essere [La logica classica non riconosce che delle forme sillogistiche di deduzioni. Cosi, comunemente si dice. Ma, meglio si direbbe, dicendo che nell'algebra della logica manca l'elemento analogo al grado delle espressioni e delle equazioni che si presentano nell’algebra ordinaria.] considerato come il vero fondatore di essa, sono, fra gli altri, i seguenti: BooLE, liei col suo saggio An investigation oftìie Laivs of Thought, Jevons con la sua Pare logie, Peirce con articoli iuseriti nei Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, e con articoli posteriori apparsi nell’American Journal of Piiì^es and Applied Mai/iematics, Clifford, con articoli sui Tfjpes of compound Statements, inseriti nelle Memoirs of the Literary aud Philosophical Society of Mancester e nelle Mathematical Papers; ScHRODER con l'articolo Ope7^ationh?'eis des Logihlialhulus, e poi con la pubblicazione di tre grossi volumi col titolo « Vorlesungen uber die Algebra der Logik; McCoLL, con articoli iuseriti nei Proceedlngs of the London Mathematical Society e nell’Enseignement Mathèmatiqxie, nel Congres international de Philosophie, e col saggio Symbolic Logic and its appiications, London;  Maofarlane, con il saggio Pì'inciples of the Algebì'a of Logic; Venn, con la sua Symbolic Logic; Ladd, Mitchell e Peirce con articoli inseriti in Studies in Logic by Members of the Johns Hopkins University. Qui io cito soltanto i filosofi dei cui saggi mi è stato possibile prendere visione durante la pubblicazione di questo saggio, e che mi sono riusciti di utilità nella sua compilazione. A questo riguardo mi è anzi grato di dichiarare che le pubblicazioni le quali maggiormente mi sono state di guida e sprone a scrivere queste Lezioni sono quelle di Whitehead che ho citate ; e penso anche io, con r autorevole filosofo e matematico inglese, che un largo campo d' investigazioni viene aperto all' algebra della logica con la nozione di sostituzioni da lui introdotta, e con gli sviluppi che egli stesso ha dato a questa nozione. Penso' inoltre che, molta utilità deve seguire per la geometria dalle relazioni messe in luce da Kbmpe e Royce fra i prinoipii della Logica ed i fondamenti della Geometria stessa. PEANO, col suo saggio OPERAZIONI DI LOGICA DEDUTTIVA j messo come introduzione al calcolo geometrico secondo l'Ausdeh" nungsleJire di Grassmann, e poi successivamente con altri saggi e principalmente con la pubblicazione della Rivista e del Formulario di Matematica; i quali, a giudizio di persone molto competenti in materia -cfr. p. es. Russell, Principles of Mathematics e Revue de Méthaphysique et de Morale -hanno potentemente contribuito al progresso della logica simbolica, specialmente dal punto di vista delle applicazioni alla matematica. L'egregio amico e ollcega, mi permetta che io colga questa occasione per associarmi agl’elogi che gli vengono resi, e per rinnovargli qui, in iscritto, i miei rallegramenti. Johnson, con articoli inseriti in Mind, e nella Bibliothèque du Congrès internationale de Philosophie. Whitehead, con la pubblicazione della sua Universal Algebra, e con memorie apparse nell’Americaìi Journal etc, come risulta dalle citazioni fatte nel testo. PoRETSKY, con gli articoli: Sept lois fondainentales de la théorie des ègalités logiques; Quelques lois ultériores de la théorie des égalités logiques, Bulletin de Ift Société Physico-Mathématique de Kasan; Vedi anche Revue de Méthaphysique et de Morale, per l’art. : Espose élémentai^'^e de la thèorHe des égalités logiques à deux termes a e^ b; ed La Bibliotèque du Congrès international de Philosophie, per l'art. Théorie des égalités logiques a trois termes a, b et e). Couturat  con la pubblicazione h' Algebre de la Logique, Scientia). Napoli.R. VW-AlV-W-VlrA/Vaf VA/V-VV-'UV-A/V AnrA/V--\r-V\r-ViHV;VAAr AVA/VAfV ^/^^ArVVA. ome affermare X e T insieme è affermare z perchè T è sempre affermabile, sicché da a;T segue x ; così, dato al SEGNO  posto fra due tei-mini x,y il SIGNIFICATO che l'affermazione di x porti seco l'affermazione di y ed inversamente, ne segue essere verificati i postulati 11^,11^. La scrittura X -^ y -\-z afferma ^ -\-y o u, epperò e x-\-{y'\-x) afferma a; o y-|-s, e perciò pure j-, o i; la scrittura. Le due scritture [Io dico che UNA PROPOSIZIONE È AFFERMABILE, indipendentemente dall'essere vera o falsa, allorché essa non è in contraddizione con le leggi fondamentali del pensiero; non affermabile nel caso opposto. Ei in questo caso si dirà pure assurda. Cosi, una proposizione assurda è falsa universalmente, cioè in tutto il dominio del pensiero. Una proposizione falsa IN UN CERTO DOMINIO può non esserlo in un altro. Per es., la proposizione secondo la quale la summa dei tre angoli di un triangolo non é due rotti È FALSA NEL DOMINIO DELLA GEOMETRIA EUCLIDEA, ed è vera nel dominio più. ampio della geometria non euclidea.] rappresentano dunque la stessa afiermazione ed è quindi verificato il postulato. Similmente, la scrittura ac(y-|-z) afferma contemporaneamente 05 ed y o z. La scrittura xy -|ajz afferma o a; ed y contemporaneamente o contemp. a; e e ; essendo identiche le due affermazioni resta verificato il postulato. Sono, evid., verif. pure i post. IIIa, IIImPer ogni dato termine x si assuma come termine x la classe di tutte le proposizioni appartenenti a T che non sono x; allora, affermare x o x, indifferentemente, è come affermare T ; ed affermare x o Xj simultaneamente, è come affermare T assurdo, perchè x contiene le proposizioni che sono le negazioni delle proposizioni x, e che perciò non possono essere affermate simultaneamente ad esse. DUNQUE x-\-x=T ed a;x==N, e rimane cosi verificato pure il postulato. Alla interpretazione di x -|1/, data in I, come classe minima che abbraccia x ed y corrisponde l'interpretazione consìstente neìVaffermare x o y: ed alla interpretazione di xy quale classo masaima comune ad x, y corrisponde l'interpretazione consistente nell’affermare simultaneamente x ed y. Le due interpretazioni precedenti provano la CONSISTENZA dei postulati del gruppo proposto, e pure la loro COMPATIBILITÀ, perchè nessuno dei postulati del gruppo è escluso dalla presenza degli altri. Tal interpretazione non corriifponde esattamente a quella che generalmente vien data nel campo delle proposizioni. La INDEPENDENZA dei postulati del gruppo si prova seguendo la via indicata da PEANO, PADOA, E PIERI. Sono conseguenza immediata dei postulati nella sezione precedente, le seguenti proposizioni. Non esiste alcun termine di T cite abbia la proprietà espressa dal post. IL, ed un solo termine N esiste che abbia la proprietà espressa dal postulato IL. In fatti, esistano due termini N, Ni con la proprietà IL; alsss:. ^•Z^ • • ^ M ' colora dove aversi, per essere N, Nj tepiniai di T, e per IL : N, + N = N,, N + Ni = N, e per III4 : Ni=N. Analogamente si pruova che SE un Tj esiste con la proprietà IIm di T, è T, = T. Prop.  Per ogni termine x un solo termine x esiste pel quale è x + x = T, xx = N. In fatti, esista oltre a x, un altro termine a?, pel quale sia a? + ^j = T,a?irj = N. Allora si ha x^=^T!x^=^{x-\-x) x^=a:x^-hxx^^ìs-{'XX^^.vx-{-xx^=x (X'W^)^=ocT!^x .Il termine x di cui  questa proposizione si chiama termine supplementare del termine x, ovvero NEGAZIONE di X, Si dice anche che x q x sono termini contradittori. Come osservare Ladd, il solo principio di contraddizione (n.® 3 in fine) non basta a definire due termini contraddittorii, occorre ancora IL PRINCIPIO DEL MEDIO ESCLUSO, il quale merita anch'esso di ricevere quel primo nome (cfr. CouTURAt). MacColl chiama legge del medio escluso la combinazione delle due relazioni -The CaZculus of Equivalent StatemenU and Integration Limits, Proceedings of the London Mathematica! Society. L'unicità del supplemento a; di x permette di dedurre dall’EGUAGLIANZA x = y V altra us == y. Vale a dire si possono negare entrambi i memori di un'EGUAGLIANZA senza che l’eguaglianza cessi di a'oer luogo, £ cosi, allorché si vuol dimostrare un'EGUAGLIANZA, si può dimostrare l’EGUAGLIANZA logica supplementare, se ciò è più conveniente. La negazione del tutto è il nulla, la negazione del nulla è il tutto. In fatti, per IIm e per IL rispettivamente, si ha TN = N, T + N = T; dunque, per la prop. 2.% N = T, T = N. Il termine supplementare del supplementare di un dato è lo stesso termine dato. Vale a dire x=^x {LEGGE DELLA DOPPIA NEGAZIONE – reduzione all’assurdo introdutta da Zenone di VELIA. In fatti, dato x, soltanto x (prop. 2.^) soddisfa alla doppia relazione Prop. Qualunque siano i termini x, y si ha sempre xy = x{y + x) . (1) In fatti, xy=-(vy + '!>l = ooy'j-xx = x(y + x). Ponendo i/ = N dalla (1) si deduce a?N = a;(N + ^) = (per post. IL ) o?^ = N ; (2) cosi il prodotto del termine nullo per un termine arbitrario è il termine nullo. Ponendo y==^Xy dalla (1) si deduce a:x = x{x -{x) = xT = x, ovvero xx = x . Questa relazione è conosciuta col nome di legge di semplicità, o dì tautologia (Jevons, Pure Logic; Johnson, The Logicai Calculus). Osservazione. Qualunque siano x,y si ha sempre x + xy = x(x + y), (3) giacché per la (y') x + xy = xx -\xy = x(x + y) . Per y = x, tanto il 1.*^ che il 2.^ membro della (3) prendono il medesimo valore, e, in virtù della (t)>(y')» si può osservare, che la stessa cosa avviene per |/ = N e per ^ = T (dopo di avere eseguito la moltiplicazione per x). Ora dimostreremo che x è il valore comune dei due membri della (3) qualunque sia il valore di y, cioè dimostreremo la seguente Prop. 4.^ Qualunque siano x ed y si ha sempre x = x + xy = x(x + y) . (4) In fatti, X + xy = xT + xy = x{y + y) + xy = xy + xy + xy = = (per IIIa )xy + xy + xy= [per (y)] xy + xy — x(y+y)=x . — 11 — La relazioDe (4) è conosciuta col nome di legge di assorbimento, e si distingue in legge di assorbimento per l'addizione^ quando si ha riguardo air uguaglianza x=^x-\'Xy y ed in legge di assorbimento per la moltiplicazione, quando si ha riguardo air uguaglianza x = x(x + y). Corollario. Essendo x,y,z,...,t dei termini qualimque si ha x=x-\-xy'\'Xyz-\... '\'Xy ... t=x(x+y) (x+y+z) ... (x+y"\... + • Con l'aiuto della precedente proposizione e della legge associativa per l'addizione, si dimostra ovviamente la Prop. 5.* Qualunque siano x ed y si ?ia sempre x + y = x + yx . (1') In fatti, x + y = (x + y)T = (x + y){X'{'X) = = per la (4) x + (x + y)x = x + (xx + yx) ovvero (senza l'impiego del post. IV), per essere 070? = N, X ■{-y = x + yx . Si può pure ragionare così x+y=x-\'y{x-\-x) = (per post. IV) x+ayy+yx=: [per (4)] x+yx . Corollario. Ponendo T al posto di y in (1') si ha x-JrT = x + Tx = x + x = T ; così la somma di un termine e del tutto è il tutto. Col medesimo aiuto che per la dimostrazione della prop. precedente si dimostra la seguente Prop. 6/ Qualunque siano x,y,z si ha sempre x + yz = (x + y){x + z) . (p') In fatti, x-\-yz = x-\-xy'{-yz = x + y{x + z) = = x{x + z) + y(x + z) = (x + y) {x + z) . La proprietà espressa dalla relazione O') si chiama legge distributiva dell' addizione rispetto alla moltiplicazione. Per rappresentare il termine supplementare di una somma. ] di un prodotto, porremo in parentesi la somma ed il prodotto, e poi a sinistra, fuori della parentesi ed in alto, un piccolo tratto; scriveremo, in altri termini, per indicare rispettivamente il termine supplementare di quello che risulta dalla somma x -{y, e di quello che risulta dal prodotto (vy. In ordine al modo di formare il termine supplementare di una somma, o di un prodotto, si ha la seguente Prop. 7.* Il supplemento della somma di due ter^nini è il prodotto dei supplementi di questi termini^ ed il supplemento del prodotto è la somma dei supplementi; vale a dire '-{x-\-y) = xy (5) -{xy) = x-\'y . (6) In fatti, cc + y + xy = x + xy'\'y==x-^y-\-y = X'\-T = T (x + y)xy = X . xy + y . xy ; e per essere in generale z.zt = ìi + z,zt = zz + z,zt = z{z + zt) = zz = '!>i, ... (7) è pure dunque la (5) è vera. Per pruovare la (6) si osservi che, per la (5), ~{x + y) = xy = xy, e che perciò _ _ _ _ ~(^y) = "["(^ + y)] = oo + y La (6) può essere dimostrata direttamente in modo analogo a quello tenuto per dimostrare la (5), poiché si ha c(^y + (à) + y) = x + yx + y = x-['y + y = x + T = T (vyix + y)=(x + y)xy=x .xy-\-y,xy=[]^ev la (7;] N + N=N . Le formole (6), (7) sono generalmente conosciute col nome di (prmule di De Morgan. Con l'aiuto della proposizione precedente si può ora dimostrare che la moltiplicazione, come l'addizione, gode nell'Algebra della Logica, della proprietà associativa; cioè si ha: Prop. 8.* Qualunque siano x, y, z ha luogo la relazione xy,z = x,yz . («') In fatti, -[xy,z]=~{xy) + z={x-\-y) + z= (per post. IV) a? + (y + '2^) 5 dunque xy,z='-[x~\-{y -\-z)\ = xr{y-\'Z) = x.yz . Dai postulati Isegue che si può variare comunque l'ordine dei termini di una somma logica senza cambiare la somma stessa. Dal postulato IIIm, e dalla proposizione precedente segue che la medesima proprietà ha luogo per un prodotto. Dalle medesime sorgenti deriva pure che la prop. 7.* è vera non soltanto per la somma, o pel prodotto, di due termini, ma per una somma, o per un prodotto, di un numero qualunque di termini; giacché, per es. -{po + y + z + t)='[x + {y + Z'\-t)\ = xr{y + z + t) = = x.~[y + {z -{-()]=:= xy~{z + t) — xy zi . ~{xyzt) = '{x . yzt) = x+ "(yzt) = ==0(;+''{y.zt) = x + y +''{zt) = x + y + Z'\'l . Prop. S."" Se X + y = N è j/f^re Se xy = T, è pu7^e x = T, 2/ = T. In fatti, in virtù della (4), dopo di avere moltiplicato per ^, si ha x{x + y)==x = ìix = ]a? (1, 2) la prima delle quali sarà letta 4: x è incluso, è contenuto in {fa parte, è una sottoclasse di) y », ovvero « X IMPLICA  ^ », e la seconda sarà letta « y include, contiene {ha come parte, è una sopì^aclasse di) x », ovvero « t/ È IMPLICATO DA x ». La RELAZIONE (1, 2) si chiama INCLUSIONE, o IMPLICAZIONE (ma non conversazionale – vide: H. P. GRICE: “Il profferente IMPLICA che p”], ii%verse l'una dell'altra. Imitando Poretsky *) la xy... (7) ; 5? + |/ = T... (8) sano tali che avendo Itwgo una qualunque di esse avranno luogo le rimanenti. Poiché le (6), (7), (8) sono le relazioni supplementari rispettiv. delle (3), (4), (5) è evidente (prop. 2.*, osserv.) che basta limitare la dimostrazione della proposizione soltanto a queste tre. Ora si ha: «) Se x=^xy, addizionando y ad ambo i membri, sarà: X + y = xy + y^=y, che è la (4); moltiplicando ambo i membri per y sarà in vece: ccy = xyy^='^y che è la (5). p) Se y=a) + y y moltiplicando ambo i membri per a?, si ha: ooy = x(a) + y) = x, che è la (3); e da questa, per a), segue la (5). Y) Se a?2/ = N, aggiungendo ad ambo i membri ary, si ha: an^ + xy = oo{y + y)=xT===x = ìi + an^=xy, che è la (3); e da questa, per a), segue la (4). Si osservi quanto segna : 1.^ Se è x=:^xy, aggiungendo x ad ambo i membri si ha X -{x = x -\xy j ovvero T = x -\yx = x '^y j che è la (8). 3.^ Se è ysstx^yj moltiplicando ambo i membri per y si ha yy = y(x -^-y), ovvero N=rya;, che è la (6); aggiungendo, invece, x si ha a;-|-y=a5+*"i'y=T+3/=T, che è la (8). 3.^ Se xy = 'N, aggiungendo ad ambo i membri os, si ha 1/ -|ocy = N + y, ovvero a: + y = «, tasche è Ift (4); prendeudo i supplementi d*ambo ì membri, si iui la che è la (8). 4.^ Se è x^^y^atT f moltiplicando ambo i membri per x si ha xy = Tx = X, che è la (8); moltiplicando per y e prendendo poi i supp}. dei dq^ prodotti : as -fy = y, che è la (4) ; prendendo 1 supplementi d' ambo i membri: xy = N. Cosi, limitatamente alle (3), (4), (5), (6) cba fra le sei relazioni disll* prop. precedente hanno forma effettivamente differente, questa proposizione tenuto pur conto di quanto si è detto in a), p), y) resta dimostrata, per ogni caso, direUamente, nel senso che da ciascuna delle 4 relazioni si fa, direttamente, discendere la verità delle altre tre. Osservazioni. Dalla prop. 13.* e dalle (1, 2) segue che è la medesima cosa scrivere ^oo, (9) ovvero scrivere una qualunque delle sei relazioni cc = 0(Ty, y=x-\-y, ^ = N J a? = a? + i/, y = !vy, a) + y = T ] Corollario 1.® Poiché N = Na?, ed x = Tx qualunque sia a?, si ha, per ogni termine x CoROLL. 2.^ Ogni prodotto di due, più ^ termini logici x, y, . . ., t è incltiso in eiasouno dei fattori. CoROLL. 2.^ Ogni somma di due » o più, termini logici x, y, . . ., h include ciascuno degli addendi. In fatti, dimostrando la sola proposizione a sinistra, abbiamo^ per ia legge di assorbimento ^ + (^y ... /i) = a?, ^ -f {xy ... h)==y, ..., t/i -f {xy ... h) = h; e quindi, per la 2** delle (IO) osy ..,hy (H) hanno luogo simultaneamente. Esse dicono che dalla negazione dei due membri di una inclusione logica nasce l'inclusione logica inversa (l'inclusione diventa opposta alla data). In questo enunciato, o meglio nelle formule, consiste il così detto principio, o legge, di contrapposizione, 10. Proposizioni diverse sulle inclusioni. Una serie di proposizioni sulle inclusioni, che ora daremo, permette un rapido maneggio di queste nel CALCOLO [cf. H. P. GRICE, FIRST-ORDER PREDICATE CALCULUS WITH IDENTITY] logico, e di presentarne un'applicazione a tradurre in formule le quattro proposizioni tradizionali della Logica deduttiva, e la teoria del Sillogismo. — he 9 proposizioni sono le seguenti. Prop. 14.* Se x  se wy ...hA; dunque, sommando, o moltiplicando. Prop. 17.' Se z x, z>y, ..., z>h z> xy ...h . In fatti, dal coroll. 2." prop. 13.% e dal coroll, della prop. 18." a sinistra, si ha rìsp. 1 a dritta, si ha risp. xy ...h a?, ..., x+y-\-...-\ A> h icy ... A  irj/...ft ; quindi, pel princìpio del sillogismo (prop. 14,') segue la verità. dell'assorta Prop. 18.' Se z(u + x) (v + y) sarà :C>xy, z>uy, C^v . In fatti, per la addizione, è ! distributiva della [ moltiplicazione, zxi/-\-uy-\-xv-\~ui:i ; d'onde, per la proposizione precedente (a sinistra ed a dritta rispettivamente), segue la verità dell'asserto. N.B. — La prop. 18.' è pure vera se le ipotesi sono; z^ux + vy, Prop. 19.' Se b  a sarà (a + u)f) = (a + u)(b + u). In fatti, au + b = au •{b{u + u) ^={a-\-h)u-\'ì)u = au-^ìni, giacché da &a segue ab=^a. Prop. 20.* Se b  a&, e quindi au + bù'^ b . Ravvicinando i due risultati, si ha, in fine, b x . (2) Il binomio a secondo membro è lo sviluppo normale della funzione f{x) nel termine logico x. Data Aa?), e ridotta alla (1), il processo indicato mostra come si costruiscono i coefficienti a, et dei termini a? e a; del suo sviluppo normale. Però, è interessante vedere come essi si determinano direttamente dalla f{x) nella forma nella quale è data, cioè senza ridurla dapprima alla (1) e poi senza seguire il procedimento tenuto per ricondurla alla (2). Poiché la (2) deve essere vera per qualsiesi valore di x, allorché, in essa, al posto di x si pone una volta T ed un'altra N, si avrà rispettivamente /•( N) = aN + ftN = aN + &T = ft ; opperò, i coefficienti cU x e di x nello sviluppo normale di f{x) sono rispettivaìnente ciò che diventa, f(x) quando ai pasto di x si pothe una volta T ed un' adira N ; vale a dire si ha Esempio. Sia A^) = AT)..; + /-(N).5 . (3) fix) = (l + x)(m -{x)h -{px{q -{x) + r ; poiché /(T) = (; + T) (m + N)A +pT(5 + N) + r = w»A 4-2?g + r /(N)=(Z + N)(m + T)A+i>N(5 4-T)+r = iA + r ; smtk f(x) =• {mh 4i?? + ^) * + (^* ~h ^) a? • Corollario. Dalla nx)=nT).x+m).x, moltiplicando una volta per x ed un'altra per Xy si hanno le r — 83 — segueuti fopmole (di Mac Coli.) ccfXx) = xf(T), xf{x) = xm) . (4) h) Sia ora f{Xyy) una funzione di due termini logici x,y. Considerando la f(x,y) come funzione della sola ^r, si ha per la (3) ax,y) = nT,y).x -\r(^,y)x . (5) Ora è, per la stessa (3): AT,z/) = AT,T).i/ + AT,N)^ AN,2/) = AN,T).2/ + AN,N)^; dunque, sostituendo ia (5), si avrà f{x, i/)=AT, T).^2/ + AT, N).r^ + AN, T)xy^f(f{, ì^)~xy, (6) In questa formula consiste lo svilupiH) nonaale di f{x, y) nei due termini logici x^y. I varii addendi dello sviluppo sono formati coi varii costituenti di T moltiplicati rispettivamente per ciò che diventa la f{x,y), allorché al posto ^ì x &à y si pongono T ed N secondochè, in essi, x ed y figurano direttamente, coi loro supplementi. e) Sia ancora una funzione f{x,yiZ) di tre termini logici x,y,z. Dalla (6) si deduce che Aa?,l/.2:)=AT,T,2:).^l/-t-AT,N,^)^^+AN,T,^):^i/+/^N,N,2:)^^, (7) e dalla (3) che AT,T,^) = AT,T,T)^ + AT,T,N)^ AT,N,;^) = AT,N,T)^ + AT,N,N)^ AN,T,^) = AN,T,T)^ + AN,T,N)^ AN,N,^) = AN,N,T)^ + AN,N,N)5 ; sostituendo nella (7), si avrà: A^,y,^)=AT,T,T)^(/^+AT,NTT)a;i;^+AN,T,T)^i/^+AN,N,T).^^2:+AT,T,N)r7'2/^+AT,N,N)^^z+AN,T,N)à;i/5+AN,N,N)^]/5. In questa formola consiste lo sviluppo normale di f(.v,y,z) nei tre termini x,y yZ. — l varii addendi, si presentano anche A. Dbl Rb ~  qui come formati dai varii costituenti di T moltiplicati ciascuno per ciò che diventa f{x,y,z) quando al posto delle x,y ^z si ponga T od N secondochè, nel costituente che si considera, x, yyZ entrano direttamente, o per mezzo dei loro supplementi. d) Il procedimento precedente è generale; esso può essere seguito per una funzione di un numero qualunque di variabili. Si arriva allora a ciò che si chiama lo sviluppo normale di questa funzione; ed esso si comporrà, se n è il numero delle variabili da cui dipende la funzione, di 2** addendi, formati coi 2** costituenti di T corrispondenti a tali variabili, moltiplicati rispettivamente per ciò che diventa la funzione, allorché al posto delle variabili stesse si pongono i termini T ed N secondochè queste, nei costituenti in considerazione, entrano direttamente, o col mezzo delle variabili supplementari. Cosi, ades., data una funzione f{x,y,z,t,u) di 5 variabili, considerando il costituente xyztu, per avere un addendo dello sviluppo normale della funzione si deve moltiplicare xyztu per /"(T, N, T, N, T). In pratica, quando si vuole ottenere lo sviluppo normale di una funzione in n variabili data come somma di più addendi, giova, il più delle volte, moltiplicare ogni addendo nel quale manchino r variabili per lo sviluppo di T in queste r variabili, e poi fare le riduzioni opportune. Cosi da f{x,y)=ax '\-by -^ e sì passa ad f{oo, 1/) = aa;(2/ + 2/) + hy{x + x)'\-c{xy + xy '\xy + xy) = (a + et + c)a7i/ + (a4-c)a?i/ + {l) + c)xy -\cxy, moltiplicando i tre addendi della t\x,y) data rispettivamente per gli sviluppi di T in x, in y, ed in x,y, e) Da quanto precede risulta che ciò che caratterizza lo sviluppo normale di una funzione logica sono i termini che moltiplicano i varii costituenti di T nei varii addendi dello sviluppo. Essi saranno chiamati discriminanlì della funzione *); così i discriminanti di una funzione logica sono i valori che assume la *) Adoperando un modo di discorrere usato nel!' Algebra ordinaria si può dire che i discriminanti di una funzione sono i coefficienti del suo sviluppo normale.] funzione allorché al posto delle variàbili si sostituiscono i terììiini T ed N in tutti i lìiodi possibili', cosi ancora una funzione logica dì ii vaìHabili possiede 2** discriminanti. Quando un discrimiuante di una funzione f{u;,y,...) risulta dal porre per x il termine T, il discriminante si dirà positivo rispetto ad a? ; e quando in vece risulta dal porre per a: il termine N, si dirà negativo rispetto alla x; cosi fra i 2" discriminanti di una funzione logica in u variabili ve ne sono 2""* jpositivi rispetto ad una ìuedesima variabile^ ed altrettanti negativi ; ed in generale, rispetto ad r variabili simultaneamente ve ne sono 2^'' positivi^ ed altrettanti negativi. La forma generale che può essere data al discriminante di una funzione f{x,y,...,t) di n variabili a;,y,...,t è la seguente allorché per t,,t,,...,t„ si prende una combinazione qualunque, n ed n, dei 2n termini n volte n Tolte T,T,...,T, N,N,...,N . I discriminanti di T, o di N, o di un termine qualsiasi a, considerati come funzioni logiche di un numero qualunque di variabili, sono tutti eguali a T, o ad N, o ad a. Ciò risulta evidente da quanto or ora si è detto, e direttamente per T ed a (incluso N) dagli sviluppi già dati di questi termini. f) Lo sviluppo normale di una funzione si dirà pure sviluppo di BOOLE. Nel caso di sviluppo in un sol termine x, in luogo di dire sviluppo normale, o sviluppo di Boole, in x, diremo pure espressione binomia in x, 15. Proprietà dei discriminanti e delle funzioni sviluppate, a) Se una funzione f{x,y,,..) risulta dalla somma, o dal prodotto, di due altre 9(07,2/, ...), 4^(^,1/, . ..)» sicché si abbia per tutti i valori delle x,y,. . . o /*( (37, 1/,...) = 9 (a?, 1/,...) + 4; (a?, 1/, ... ) /•(a;, 2/, . . .) = 9(07, 2/, . . .) . 4;(a?, y, . . .), — 36 — ponendo al posto delle x,y, ... supposte in numero di n, ì valori Tj,Tj,,..., T^ di cui nel n.^ precedente e), in fine, si avrà o Ora /'(t,, f,, ...) è un discriminante di f{x, y, ...) e 9(t,, Xg, ...), ^(t,,Tj,...) sono i discriminanti ad essi omonimi (cioè positivi negatiti rispetto a variabili dello stesso nome) di  'fs » • • •) • Ora 9(Tj,t,,...) è un discriminante della 9(0^,2/,...) ed ~/'('r,,Tj,...) è il supplemento di f{r^, Tg, . . .) che è il discriminante omonimo delle f{x,y,.-.)', dunque Prop. 26.^ Il supplemento di un discriminante di una funzione logica è il discriminante omonimo della funzione logica supplementare. e) Dal teorema in a), e dal modo di presentarsi dei discriminanti di una funzione nello sviluppo normale della funzione stessa segue la Prop. 27. Nello sviluppo della somma, del prodotto, dì più funzioni logiche, i coefficienti dei varii addendi si ottengono sommando, moltiplicando, i coefficienti degli addendi omonimi (che moltiplicano lo stesso costituente) delle singole funzioni. Dal teorema dato in b) segue poi la Prop. 28.*" Ia) sviluppo della funzione logica supplementare di una funzione logica data si ottiene prendendo i supplementi dei coefficienti dei singoli addendi nello sviluppo della funzione data. Cosi, ad esempio, le l'unzioni supplementari delle f{30, y) = axy + l^Joy + cxy + djoy, sono rispettivamente le funzioni: ~f{x) = ax + àx ~f(3o, y) = aotry + hxy + cxy + dxy Osservazione. La proposizione può dimostrarsi direttamente sommando, o moltiplicando, due a due gli addendi omonimi, degli sviluppi delle funzioni date, ed osservando che nella moltiplicazione di questi sviluppi, il prodotto di un termine dell'uno per un termine non omonimo deir altro è nullo. La proposizione può pure dimostrarsi nei due modi seguenti: 1/* modo. Limitiamoci al caso di due funzioni di due variabili. Le due funzioni _ _ /(^ > y) = «^y + ^^y + ^^y + ^y 9(x . y) = axy + bxy -f cxy -f "dxy sommate, membro a membro, danno /(aJ » y) + 9 (•'^ > 2/ )=(« + a) ^y + (^ + ^) ^y +(c -f e) a;y 4(d +5) ay =T . xy+T . j:y +T . ij/-f TÌy=T {xy -\^xy+xy-\'~xy)='ì! ; moltiplicate, in vece, membro a membro, danno f{x, y) . ^(x ^ y) = aa, xy -\bb, xy -{ce, xy -\dd, xy = ^ ; dunque è 9(^,y) = "/(^,y)2.^ modo (Whitehead, n.® 29, 6). Per una funzione di una sola variabile _ f{x) = ax 46x, si ha ___ _ ~f{x) = {a -\x) {b -[x) = ax -^ bx -{ab, ~/{x) = (a -|ab)x + (^ + *^)* = ax -fftas, — 38 — e quindi la proposizione enunciata è vera. — Supponiamo ora che la proposizione stessa sia vera per una funzione di un numero n di variabili x,2/,...,^^y + (^'^y + ^«^'^z ~f{x,y,z)=axyz-\-hxyz -\cxyz-\-dxyz -\exyz-\-~fxyz~\' gxyz-\-/ixyz, Ora, prendendo i supplementi d'ambo i membri di ciascuna di queste relazioni, con le formule di De Morgan (prop. 7.^ ed oss. dopo prop. 8.^), si ha /'(.^,y) = (ct + x + y) (& + a? 4y) {c + x + y) (rf + a? + y) r{x,y,z) = (a\x\y\-z) {b\x-\-y^^) (^+.^+'^+'3:) {d^rOsAry\z) {e-\-^ì)\-y^z){r'\'X^y^z)(g\x^y\'Z){n-\-x-]ry-\-z\ che sono appunto gli sviluppi domandati di f{x,y),f(x ^y,z), N. B. — Il Sig. PoRETSKY {Bulle tin de Kasan, 2.* serie, t Vili, n.® 2) propone pei discriminanti della funzione f(x, y, ...) che figurano nel suo sviluppo reciproco del normale, la denominazione di CO-OPERANTI (cf. H. P. GRICE), quale correlativa dell'altra di coefficienii, già adoperata allorché di f sì ha lo sviluppo normale. ValoìH e doniinio di estensione di una funzione logica. Una funzione logica /'(.x*, 2/, . . ., ^) di un certo numero n di variabili X,y,,.,,t, assume, in generale (cioè quando non dipenda formaUnente dalle .t, 2/, ..., ^, come nel caso in cui essa si riduca ad un termine determinato a) valori diversi in seguito ad una diversa scelta delle j?, 7/, ..., /. La collezione di tutti i valori possibili per la f{x, 2/, . . ., /) in conseguenza di tutte le possibili scelte delle x,y,,.,,t si chiama il dominio, o il campo di estensione della f{x, 2/, . . ., /). Sitfatto dominio si dice illimitato se tutti i valori sono possibili perla f{x,y,...,t); si dice limitato nel caso contrario. Le parole illimitata, limitata si applicano pure conHspondentemente alla funzione /'(j:;,!/,..., ^),— Di-oendo che il valore a di una funzione è inferiore, più piccolo del valore ^ allorché è soddisfatta la inclusione a • • • > B « > • • • > H « Un'equazione in cui uno dei due membri è nullo e l'altro è presentato col suo sviluppo noì'male si dirà in forcina noì'niale. Così la forma normale dell'equazione proposta è la seguente A a A a 072/. . . ^ + Bp B p cry .. .t-\.. . ■\Hx xy...t = ^, (3) Esempii. 1.^ Sìa data l'equazione ax -{bx =:z ox -\dx ; i suoi discriminanti sono i determinanti formati, nel modo sopra indicato, con ì termini delle due orizzontali ab ed m ab od cioè a e a e :=ac -\a>c, b d bd = bd i-bd ] e r equazione, in forma normale è la seguente (ac -{ac)x -{{bd -fbct)x = N . 2.^ Sia ancora data l'equazione ax -|bx = cx ; siccome può scriversi cx=:cx -{Nx, cosi questo caso vien ricondotto al precedente ponendo (i = N ed osserv. che rf = T. Trattandolo direttamente, i suoi discriminanti si caveranno, nel modo sopra indicato, dal quadro e saranno, perciò a b a 6 e N e* T ac'4-ttc, òT4-òN==6 L' equazione, in forma normale, sarà {oc 4ctc)a; + òx = N . 3.° Sia l'equazione ax '\bx == e. — Potendosi scrivere c = ca;-jcas, i discriminanti dell'equazione, e la forma normale di questa, si otterranno facendo corrispondentemente e dappertutto d = c nell' es. 1.*^, ovvero, direttamente, cavandoli dal quadro a b a b e e e e I discriminanti sono ac -}oc ^ bc -{ bc j e la. forma normale dell'equazione è _ _ _ _ _ {cLc -{ac)x -f{bc -fbc)x = N . Sia l'equazione ax-{'b=cx] poiché b==bx-{-bx e cx=cx~{-ì^x ^ i discriminanti saranno cavati dal quadro a + b b ab b e N e saranno perciò (a -}6)c -|afte, 6. L' equazione in forma normale sarà [(a + b)c -\abcjx -\bx = 'N . 6.*^ Sia l'equazione axy -f bxy + cxy + dxy = exy + fxy + gxy -\hxy ; i discriminanti di essa, cavati dal quadro a b e d a b d e / g h saranno e f g k ae-^ae, bf-\-bf^ cg -^^ cg, dh -\-dh : e l'equazione, in forma normale, sarà (oe -f ae)ajy + (V + hf)xy + {cg + cg)xy + {df + d/)xy = N, — 46 — 6.*^ Sia ancora l'equazione axy + xy + dxy = xr/ + gxy ; se la scriviamo come segue ricadiamo subito sul caso precedente ; cioè troviamo che i discriminanti sono da farsi col quadro: a T N rf a N T d T N ^ N N T // T } e sono, perciò _ a, T, ^, d ; sicché l'equazione, in forma normale, sarà axy + jry + r/xy + dxy = N . OsservazioThe, Quando nello sviluppo normale di una funzione logica manca in un addendo il coefficiente del relativo costituente, allora è da intendersi per esso il termine T. Cosi, se manca addirittura l'addendo che porta un dato costituente, esso si considererà come presente e col coefficiente N. Questa osservazione è stato appunto tenuta presente nel trattare il precedente esercizio 6.® h) Quando sia data una inclusione contenente termini variabili, si diranno discriminanti della inclusione, i discriminanti di una qualunque delle equazioni che equivalgono alla inclusione. Così, data la inclusione Aa;, 1/, . . .,  e per massimo a + P + ... + XOra, perchè l'equazione sia possibile per una medesima scelta delle x,y,...,t ^ è necessario .. che questi due dominii non siaAB...H A+B+...+H «P...X «+P+...+X no mutuamente esclusivi, ^^^' ^'" cioè che il loro prodotto, in senso logico, non sia nullo, e però è necessario che si abbia (fig. 7.% 8.^). AB.,.H -^^] tende che debbono essere soddisfatte coatemporaneamente, scegliendo per tutte in uno stesso modo le incognite da cui dipendono. È proposizione fondamentale per lo studio dei sistemi di equazioni la seguente Prop. 3L* Ogni sistemjx di equazioni è equivalente ad una sola equazione i cui discriminanti sono le somme dei disoHminanti omonimi delle singole equazioni del sistemai. In fatti, siano /,(^,2/,...,0 = N, /;(a7,2/,...,0 = N, ..., ^»(a?,|/,...,0 = N (6) m equazioni costituenti un sistema. Per quelle determinazioni delle a?, 1/, . . ., per le quali queste equazioni sono soddisfatte simultaneamente, è soddisfatta pure la equazione che risulta dal sommarle membro a membro; vale a dire la /; + /; + . ..+/;.=N . o) Viceversa, ogni determinazione delle x,y,,..,t per la quale è soddisfatta la (6), in virtù del CorolL della prop. 9.% a sinistra, soddisfa pure alle /;=N,/;=N, ..., /:,=N -, cioè simultaneamente alle equazioni. Dunque, il sistema e la equazione sono equivalenti. Ora, per la prop. 25.* e per la def. data al n.° 18, a), essendo i discriminanti della (7) le somme dei discriminanti omonimi delle (6), la proposizione enunciata risulta dimostrata. I discriminanti dell'unica equazione, equivalente alle equazioni di un dato sistema, si chiamano discriminanti del sistema. — Così, se i discriminanti delle /; = N, /i = N, ..., ^ = N sono rispettivamente Aj, B^, . . ., H^ ; A,, B,, . . ., H, ; . . . ; A^, B^, . . ., H^, i discriminanti del sistema saranno A = SA,, B = 2B,, ..., H = SH,, e l'equazione (in forma normale) che sostituisce il sistema stesso Kooy . . . ^ 4Bxy . . . ^ + . . . + H^i/ . . .^ = N . (8) 21. Sistemi di inclusioni. La definizione di sistema si estende al caso in cui in luogo di equazioni siano date delle inclusioni, ovvero delle inclusioni ed equazioni insieme; e la proA. Dbl Rb — Algebra della Logica, 7 — 50 — posizione 31.* regge pure in questi due casi. — In fatti, siano A (^, 2/, . . .,  Yt i discriminanti delle f^ e 9,(e = 1, 2, . . ., m) rispettivamente omonimi, per essere [n. 18.% ì))] A,a,, B,p,, . . ., H,x. quelli della /Jqp^., saranno A^a^ + A,a, + . . . + A^a^ = 2Aa B,P, +B,p, + ...-hBX=2Bp" • • • • • • • quelli dell'equazione unica che rimpiazza il sistema (10), epperò il proposto (9). La forma normale dell'equazione equivalente a (9) è la seguente SAà,ODy..A-\SB^ . 0?^ . . . ^ + . . . + 2Hx . ^'^ . . . ~t = N . Se un sistema contiene inclusioni ed equazioni, ciascuna di queste ultime può essere considerata come inclusione possedente per termine maggiore il termine N. Definizione, I discriminanti della (11) si chiamano pure discriminanti del sistema. P. e., sia a formare P equazione equivalente al sistema oas -|6a;  • • • > ^9 + ^9. La risultante dell’eliminazione delle (v,y,... yt dalla (10) sarà perciò la _ _ « _ » _ («9 + «9) (&9 4^9) . . . (^9 + /29) = N, ovvero la _ __ _ e scrivendo 9 e 9 per disteso, la ab...h\ aS.„hu-\'{a+S-^...'\'Ji)u\ +a&...^j(a-f&...+^)t«+a&...^w|=N ; e questa è, evidentemente, soddisfatta indipendentemente dal valore di u, poiché sono nulli i coefficienti di w e di u. Corollario 1.° Se nella (10) facciamo i^ = T, con che w = N, avremo f{a),2/,...,^) = a~|-^ + --+ ^; se facciamo, in vece, te = N, con che w = T, avremo f{x, 1/,...,/) = a& ... /z. — Gli estremi ab . . . h, a + b -|• • • + h del dominio di estensione della f (x, y, . .,, t) sono quindi valori effettivamente raggiunti dalla funzione (cfr. prop. 29.). Corollario 2.° Poiché la (a-\b +,,.-{h)u -\-ab ...u rappresenta tutti i valori compresi fra ab,.,h ed a+&+... +/^ (prop. 18.% oss. in fine), la prop. 26.* si completa affermando che i valori di cui una funzione logica è suscettibile sono tutti i valori compresi fra ilpr^odotto e la somma dei suoi discriminanti. Corollario 3.° Una funzione logica è illimitata se il prodotto e la somma dei discriminanti valgono rispettivamente il nulla ed il tutto \ cioè, riferendosi alle indicazioni di sopra, se contemporaneamente aì)...h = ^, a + et + ... + ^ = T, ovvero od anche _ _ Corollario.  Perchè due funzioni f(x, y, ..., t), 9(x, y, ..., u) dello stesso > di diverso, numero di variabili abbiano eguale estensione è necessario e basta che il prodotto e la somma dei discriminanti dell'una siano rispettivamente eguali al prodotto ed alla somma dei discìHminanti dell'altra. ^ Corollario 5.® Se il prodotto dei discriminanti di una funzione logica eguaglia la loro somma, la funzione ha un sol valore (sì riduce ad un termine indipendente dalle incognite). In fatti, in tal caso, per essere sarà (prop. 10.^) a = et = ... = ^ ; epperò si avrà : f(x, 2/, ..., f ) = a{xy ... t + xy .,.t-{... + xy ... ^) = aT = a . Si puo trovare, col mezzo della precedente proposizione 33.% la condizione data al n.^ 19 [eguagl. (4)] per l' esistenza di valori comuni ai dominii di estensione delle funzioni /(a;,y,...,«), 9(05, y,...,«) . Detti A, B, . . ., H i discriminanti della /> oc } P 7 • • ^X quelli della 9, ed ii un termine assolutamente arbitrario, poiché i dominii di estensione della /, 9 sono quelli stessi delle due funzioni (A + B + . . . 4H) w + AB . . . Hw = Sm + Pt4 del termine w, vi saranno valori comuni alle /, 9 tutte le volte che è possibile scegliere u in modo che sia Sw -jPw = aw -{*Ku . Ora^ essendo Sa + Sa, Pit + Pw i discriminanti di questa equazione, ciò avviene tutte le volte che si abbia (Sa + Sa)(Pit + Pw) = N ; ovvero, essendo SPàir=(A + B + ... 4-H) AB...Hfltp...Y (à+p +-...+x)=AB...H . flìp...x SPait = SPap . . . xap . . . x = N SPaw = AB . . . H . AB . . . H . a« = N SPait=AB ... H(À-f B+ ... +H) (a+p +... +x)»P X=ÀB ... Hotp ... x, -57 — quando sia AB . . . Hap . . . X -f ap . . . ^ÀB . . . H = N, che è appunto la (4) citata. 24. Equazioni limitate ed equazioni i/^^meto^e. Un'equazione logica fra più variabili x,y,.. .,z,t si dice illimitata rispetto ad una variabile t, allorché scegliendo comunque la f, la equazione sia possibile per valori da determinarsi delle altre variabili a?, 1/, ..., ^ ; e si dice illimitata rispetto a più variabili, separatamente considerate, quando una tale proprietà ha luogo per ciascuna di dette variabili. Un'equazione logica si dice illimitata simultaneamente rispetto a più variabili quando, facendo di queste una scelta arbitraria, la equazione sia possibile per un'opportuna scelta delle altre variabili. Un'equazione non illimitata si dice limitata. Un' equazione illimitata rispetto a tutte le variabili da cui dipende ha, evidentemente, tutti i suoi discriminanti nulli ; giacché, scritta, p. es., in forma normale, . . . + L^ • • • zt-^. . . = N, se è ljxy...zt un suo termine qualunque, ponendo T al posto delle variabili che figurano in esso direttamente, ed N al postodi quelle che vi figuraflo coi supplementi, il termine stesso si riduce al suo coefficiente L, mentre con l'analoga sostituzione gli altri si annullano. Dovendo, intanto, l'equazione, per ipotesi, essere soddisfatta si ha L = N. b) Sia f{x, t/, . . ., ^, = . . . (11) un' equazione logica, nelle variabili a?,2/,...,z,^, e supponiamo dato a ^ un arbitrario valore, sicché essa diventi equazione nelle sole variabili a?,t/,...,z. Scrivendo questa equazione nella sua forma normale, sia essa kxy . . . z + Vixy ... ^ 4... -h Vi.xy . . . .s: = N ; (12) saranno A,B,...,H funzioni della sola t che potremo pensare scritte come segue k = a,t + aL~t, B = Pj^-hp/, ..., H = x\^-hx/; (13) *) Whitehbad, l, e, n.® 32, pag. 59 e 60. A. DfCL Rb ~ Algebra della Logica. . 8 \ — 58 — sostituendo nella (12) avremo la (11) nella forma a^xy .. .zt-\p^a^,, . zt -{-,., -f Xi^ . . . ^^ + oL^xy . . . ^7 + ?iXy ... ^7 + ... + Xì^y . . . ^^ = N ; dalla quale si vede che «i, Pj, . . ., Xi so^^ i discriminanti della /* (pensata come funzione dell'intero numero di variabili) positivi rispetto alla f, e che ai,p8,...,Xi sono i discriminanti negativi rispetto a t. Ora, perchè la (12) sia possibile deve aversi AB... H=N, cioè (aj + a,ì) (^,t + p^O . . . (x,t + X J) = N, ovvero aiPi---Xi-^ + a8p8...Xi-^ = N (14) pel dato valore di ty e per ogni altro arbitrariamente preso; vale a dire, in grazie di quanto si è detto in a), deve aversi «iPi • • • Xi = N, a,pj . . . Xg = N . Cosi : Prop. 34.^ Affinchè un'equazione logica sia illimitata, rispetto ad una delle incognite da cui dipende, devono essere nulli il pròdotto dei discriminanti positivi rispetto a quella incognita, ed il prodotto dei discriminanti negativi. Per trovare le condizioni di illimitazione rispetto a più variabili occorrerà scrivere per ciascuna variabile le due condizioni che risultano dalla proposizione precedente. e) Sia ancora la (11), e supponiamo fatta una scelta arbitria di alcuu'e ...z,t delle variabili; sicché la (11) diventi una equazione nelle sole variabili rimanenti a?,?/,... Allora, scritta in forma normale, la (11) sia aan/ * . . + ^(vy + . . . + xooy . . . = N . (15) Le a, p, . . ., T conterranno le . ..z,t, e perciò nel loro sviluppo normale rispetto a queste, .,z,t si presenteranno come espressioni della forma et = fltj . . . Zt -p . . . -|(Xm • • • zt p = p^,,, zt -|. . . -p p„ . . . /2^f T =T^ . . . zt -\., . -\-T^ . . . zt . — 59 — Sostituendo questi valori nella (15), potremo scrivere la (11) come segue ...+(T,...s:^-f-...-fTjj,...^0^-=N ; (16) e da questa si vede che a^,. . .,a^, Pj, . . ., p^, . . ., t,, . . ., t^^ sono i discriminanti della f considerata come funzione di tutte le date variabili, e precisamente che «1, pj, . . ., T^ sono positivi rispetto a tutte le ..,zt «j, Pj, . . ., Tj » » » alle,„Zf e negativi risp. a t •»•>•••>• • • • • •• • • • • • •• • • •• «pk » P^ > • • . » T'i^ » negativi rispetto a tutte le . . . zt Ora, perchè la (15) sia possibile per valori da trovare di a;,2/,..., . dovrà aversi «p . . . t = N, cioè (a^. .zt-{-...-j-a^.,.zl) (Pi...-3:^+...+pjj...  (^ 4" ^)^ 4" ^^^ > orf 4" ^^ > e quelli negativi (pj^c)d + hk, hd-\-bd, cd4-cd, Nd4-Td = d . Il prodotto dei primi (tenuto presente che sono tutti nel loro sviluppo normale rispetto a d) è (a 4" ^ 4" ^) (^ 4" ^) (^ 4" ^)^ 4" *^^ . ca . ah . ad^=^ ad '\abc . d ed il supplemento di questo prodotto (a + d) (a + 6 + e 45). Il prodotto dei secondi è, in vece, ho,d, mentre è ab ed il prodotto di tutti i discriminanti. Dunque, il dominio di estensione della x è 6c . rf ropomamooi ài trovare: 1,^ la risuUamiU (oondìzìoae per la sua possibilità); 2.^ % damimi di estensione deUe x j y, z, 1.^ Le tre equazioni del sistema possono essere scritte x^ome segue xyz -|Nosyz -fxyz -[Hixyz -|l^xyz -[Nojyz -jNasya + ì^xyz = a xyz -jxyz -|ÌHxyz -j. . = è '^ ; (31) 05^2 -|'Nxyz -f-\xyz -|Nojyz -|d'onde segue che i loro discriminanti sono rispettivamente b,b,b,b,b,b,h,b\, (32) e quelli del loro sistema a + 6-|-c, a-{-b-^c, a -{b -^ e, a-|-6-{-c, a + 6 + c, a-f-ft + c, a-|-6«-}-c, a + ^ + c(33) La risultante sarà, dunque (a + 6 + e) (à + 6 + e) (a 46 + e) (a 46 + e) (a + 6 + e) = N ; ovvero, per essere (prop. 6.% pag. 11) (a -^ b -\e) (a -\b '\' e) =^ a -\b -]ce = a -{b {a -\b -\e) (a -{b -{e) z= e '\{a '\~ b) (a '{' b) = e -\ab -{ab, e poi pure (a -}^) (e + «^ + «&} = ca -f" ^'^ ~l~ ^^, sarà (a 46 -Ie) (6c + ca -|oò) = N ; o. in fine 1 aòc -j6ca + ca^ = N . (34) 2.° Dal gruppo (33), confrontato col modo come sono state scritte le (31), si scorge che i discriminanti del sistema positivi rispetto ad x hanno per prodotto {a -^ b -{e) (a -{b -{' e) (a -{b -\e) (a -\b -\e) = a(b -^ e) -^^ a,bc e quelli negativi per prodotto (o 4è -[e) (a + ò 4e) = ò + e, ^ f-^ — 67 — ne segue che il dominio di estensione della x è h '\e  -\'~c) . In vista della simmetria che presentano le equazioni del sistema rispetto ad una permutazione ciclica delle xyz ed alla corrispondente permutazione ciclica delle a ^h ^c ^ si può affermare che i dominii di estensione delle y, z sono rispettivamente ^ • (86') a 4" ft ^ a6c -|e (a + 5) ) Visto che dalla (34) seguono le ahG'=.hGa^=.cab'=il che danno ohe = bc = ca = ab e tenuto pure presente la prop. 5.*, le (36), (35'), possono pure scriversi come segue b -\e ^bc -{a ' e -{a^ca-^-b a'{' b^ab ^ e x — > «I» ^ * * * ^ Q ^®orisp. ad y, Pj, ..., Pv » » » ^^S' * ^ ® pos. risp. ad y, Pv+i » » PpL » * » >> ^ ® ^^S' risp. ad y ; perciò, il prodotto dei discriminanti negativi rispetto ad y nella data equazione è QS e la somma dei supplementi dei discriminanti positivi rispetto alla stessa y è P-f-R ; da che segue essere QS Qa?-f-S^ ovvero PRo? + PRiZ? = N, si vede che per ogni valore di x del dominio RP ad 1/, con E,F i prodotti analoghi rispetto a. z, e cosi via via con L,M i prodotti analoghi rispetto a ^, si può scrivere Sostituendo questi valori nella (1), o soltanto un gruppo di essi, si avrà, come risultato della sostituzione, una equazione nella quale entrano come incognite le Wj, t^j, ...,u^o un gruppo di queste, e tale equaz. è illimitata risp. a ciascuna delle nuove incoga. [Una equazione ad una incognita sia stata ricondotta alla sua forma normale aw + b.v = ì!i ; (11) poiché è a l'unico discriminante positivo deir equazione, e ?j l'unico discriminante negativo, sarà al) = la risultante dell'equazione stessa, e t)  -|cd(d -|-«)^t) -|cd(d'{-cb)ìw= =ab . uv^buv -fo>cduv -fcd6 . wv, sicché bxy=abGduv=iN ; a;y=a6(a-|-ftc)uv -fo con l'adoperare le notazioni del n.® 25, rf), conduce ad a? = (P + Q)u + RSw = {aà' + W)u, + cc\ ùdu^, (16) e quindi [form. (5) prec. e form. (46) n.° 25, d)'\ ad y=A^(wJw,+B,(Wj)w,= = {aà! + ed, dd) u^u^ + W (aà' + dd') u^u^ + (ce' + aa'. dd') u^^ + dj^ (ce' + W) u^u^, (17) essendo _ A (Mj) = {aa' + ed. dd') u^ + {ed + aa!. dd')u^ — 77 — d'onde _ A(Wi) = aa'(6v' -f (id')u^ + cc'(aa' + M)u^, e _ B{u^) = bb'(aa' + dd')u, + M' {ed + ftft') ti^ . Dallo stesso quadro di cui sopra si vede anche subito che, per continuare ad applicare lo stesso procedimento tenuto in h), si deve osservare che il dominio di estensione della z, essendo a'c\ b'd'  ^) • ^ » ^(tt, t>) = (a 4hd)uvi 4d{h -\a)uv f (6 4" clcì)uv 4" (^ + cd)iM3, ^{u, 1?) = (a 4" c(i)wD 4" ^(^^ 4" ^c)w'u -|c{a 4&)«*v 4* ^(* 4" «,) = N (a^ + b,) {a, + b,) {a, + bj (a, + &J = N Cosi, visto pure che le x^y, con formule analoghe alle (39), in vece che in funzione di due sole variabili indipendenti u^, u^ possono esprimersi iu funzione di un numero n u^yU^,., .,u^ di siffatte variabili, e che ciò fatto si arriva a conclusioni analoghe alle precedenti, abbiamo: 1.® che due variabili di assegnate estensioni soddisfanno ad una infinità di equazioni non contenenti altre variàbili; 2,^ che due variabili di estensione illimitata possono essere indipendenti^ o collegate da una infinità di equazioni illimitate rispetto a ciascuna delle vaìHabili e non contenenti altre variabili. Ciò viene a significare, in sostanza, il fatto da ritenersi evidente, che esistono infinite equazioni in due variabili che sono illimitate rispetto a ciascuna di esse). Questi risultati possono essere estesi al caso di un numero qualunque di variabili. Le (43) contengono le (42) e contengono inoltre le seguenti, come si rileva sviluppando i prodotti e sommando, l^fl^afi^,, + ^.u^flK + 2à,«,àA..+ ^o.pypm = N (44) Sa.^.^A. + ^fl^K + ^dflAK + 2«À¥«. = N, (45) e quella che si deduce dalla (44) scambiando le a con le b. La (44) e quest'ultima possono scriversi pure come segue 2« ^a, + 2à,a^àj = N, 2^? A^, + 2^À^, = N ; (46) e poiché da (47) afl^a, -f afl^a^ = afl^ (a, + a^) = N «i«m^t + «i«À = ^m (ài + a J = N seguono rispettivamente afl^ i^i + (s » ^ J ^ » y)^i^i + (a^, 6^ ; a:, y)u^u^ = N . (62) Ora, la condizione perchè questa equazione abbia una soluzione sola è, in virtà della (31) 2~(a.,h.]x,y) r{a^, \ ; ^, 2/) = N, (e, A; = 1, . . ., 4 ; i z|= ^^ ovvero, per essere ~(a.,h^',x,y) =~\{a., x) + {h., y)\ = (a., x) (6., y) : 2(ai, x) {b., y) (a^, x) (b^, y) = l{a.a^x + a.a^x) {h.h^y + ò.6"^y)= N, od anche Sa.a^ò.ò^ . xy -f ^a.aj^.\ . xy + 2a.a^6.6^ . xy +2a.a^6.ò^ . xy = N ; e questa è soddisfatta identicamente in virtù, della (49). 88 — Rammentando quanto si è detto nel n.^ 28 in ordine ai valori delle incognite che risolvono un'equazione provvista di una soluzione sola, si ha pei valori di w^, u^ che soddisfanno alla (62) le espressioni segu. ; (63) epperò, siccome, per tutti i valori dell'indice /, da 1 a 4, si ha -(a.,b^]x, y)={u., x) {h., y)=afi. . xy+afi. . xy+a.b. . xy + afi. . xy (a., b. :x,y) = {a. + b.) xy + {a. + ò .) xy + (a . + b.) xy + (a . -f b.) xy, se si scrivono le (53) nella forma Mj = (x^xy -f fltgjjy -}«gay -fa^xy '^2 = ?^xy + p,xy + p3xy + p^xy (54) si avranno, fra le a^, . . ., a^, p^, . . ., P^^ e le a,, . . ., ^4 ? ^i » • • • r ^4 » 1® relazioni seguenti «1 = K + ^) K + \) = a,6, + «A «2 = («3 + ^3) («4 + **) = «1^1 + «2^2 «3 = («3 + ^) («4 + h) = «1^1 + «2^2 «i = ^«3 + ^3) («4 + ^4) = a,^ + aÀ l / (65) Pi = («2 + ^) («4 + b^) = ttjò, + ajò, P2 = («2 + ^) («4 + ^4) = «1^ + «3^ P3 = («2 + ^2) K + K) = ~^i\ + «3^ Pi = (^'a + ^2) («4 + ^4) = «1^1 + «8^ Il Sig. WiiiTEHKAi) ha chiamato sostituzione l'assieme delle due relazioni (39) quanio è soddisfatta la condizione (61), cioè quando sono possibili le relazioni inverse (53), che allora costituiscono la sostituzione inversa della data. Con le formule (65) da una data sostituzione [la (39jJ si passa alla inversa [la (54)]. Indicata con t§ una data sostituzione, con tB~* si indicherà la sostituzione inversa ; trasformare con tB le x, y nelle Wj, Uj, e poi trasformare le Wj, Wj con t§~* equivale a ritornare alle x,y ^ vale a dire, a lasciare invariate le x, y. Chiamando, perciò, prodotto t?,t§j| di due soatHuaioni t^i^t^^r ^^ ^^ dìr&nrìo fcUtorij Toperasione che cotisiste nel cambiare dapprima i due termini logici a;, ^ nei termini logici x^, y^ per messo di tS, j e poi x^ ^ y^ in x^, y^ per mezzo di t?,, operazione che^ evidentemente ò, a sua volta, una sostituzione, si chiama bosHiu9Ùme identica il prodotto tStS~^. Tutte le sostituzioni formano, cosi, quando vi ai include la sostituzione identica, una classe tale che il prodotto di due individui della classe è ancora un individuo della stessa classe; vale a dire (vista pure la proprietà cumcicUiva del prodotto: Le eoatituzioni formano un gruppo. Se si indica con t§* la sostituzione t§t§, con t?' la t3*t§, etc. con la ©** la t§**~*t?, per un certo valore di m la tS"* coincide con la sostituzione identica. Giacché, dai simboli logici che figurano in t^, come costanti, si passa a quelli che, come tali, figurano in t^, per n qualunque, per mezzo delle operazioni di somma e di moltiplicazione logica che non introducono nuovi simboli logici. Epperò, dopo un numero finito di tali operazioni, si dove tornare alle costanti di partenza. //€ sostituzioni neW Algebra della Logica, sono, dunque, tutte periodichr (cfr. Whitehbad, Memoria cit., part. II, § 3). § X. li problema generale di Booie. Metodo simmetrico di Schroder per risolvere le equazioni logiche. 30. Problema A Btole *\ Allorché è data una funzione logica di più variabili a?, y, . . ., ^ r{pD,y,...,tì (1) se si lasciano arbitrarie le a;, y, . . ., ^, i valori della f sono quelli del dominio che si estende dal prodotto alla somma dei discriminanti della /(prop. 33.*). Ora, se in qualche modo si impongoQO alle a?, !/>..•, 8. A. Dkl Rb " Algebra della Logica. 12 00 — di una funzione logica V imporre alle variabili da cui la funzione dipende certe deterraìnale condizioni. Le condizioni da imporre alle Xyy,>..,t nell'algebra che studiamo, si riducono tutte ad obbligare le variabili a soddisfare ad un certo sistema di equazioni, poiché, quando, in vece di questo sistema, fosse prescritto per ogai variabile un proprio dominio di estensione, si potrebbe sempre costruire [n.** 29, b) prec] un'equazione che collegherebbe le variabili, e che, mentre prescriverebbe per queste come dominii di estensione i dati, le lascerebbe arbitrarie in tali dominii Si supponga perciò che le variabili oo,y,,..,t soddisfacciano alle equazioni, tutte possibili, del sistema 9j(ir, 1/, ..., 0=N, 92^07, 1/, ..., t)=N, ..., 9,(0?, 1/, ..., 0=N, (2) in numero di r, supponiamo. Indicando con «j, Pj, . . ., X, ; otg, Pg, . . ., X2 ; . . . ; a^, p^, . . ., X,, rispettivamente i discriminanti omonimi delle 9,, 92, . • . » 9^ » ^ ponendo a = 2a,, p = 2p,,, ..., X = 2X,, (3) al sistema (2) è possibile sostituire l'unica equazione 9 (a?, i/, . . ., = ^^y " ' t -\^^-^y . . . ^ + . . . + ^J^ . . . 7, (4) ed il problema di cercare come si restringe il dominio di estensione della f{x,y,. .,,t) vien ridotto a quello di trovare il do[*) Ad es., se si tratta delle due vai'iabili ac, y per le quali siano stati assegnati rispettivamente i dominii di estensione B^, quando^ ed x,y^...,t si trovano collegate dal sistema delle due equazioni 9(07,1/, ...,0 = N ] Ora, se si suppone che i discriminanti della f nelle a?, y, ..., ^, omonimi agli a, p, . . ., X, siano rispettivamente a,&,..., ^, i discriminanti della prima delle (5) saranno le funzioni prime ap -\ap, hp -\-l)p, .,., Ip +7/;, e quelli del sistema (5) le espressioni »-[■ ap + ap = (a'\a)p + (a -f a)p ^^ì)p+hp = (^ + b)p -f (p + &)p (6) X + /!> + /p =(X + /)i> + (X -{l)p sicché la condizione per la possibilità di un tal sistema, cioè la condizione perchè p rappresenti valori della f{x,y f. ..yt) corrispondenti a valori della ;r, t/, . . .,  soddisfacenti al sistema proposto, vede espressa dall' uguagliare ad N il prodotto dei -secondi membri delle (6). Si ha dunque per i? l'equazione (a + à)(p-f-&)...(X + ÒP + (a + a)(P + &)...(X j l)p = ìi ; e questa mostra che il dominio di estensione della p è (a + a) (p + &)... (X 4-, + 6rfM,= (a + e) (m, -jbdu^) xy + xy = x = {o + rf)w, + aòù^ = {c + d) (w, + oòw,) ; (14) asy + ajy = y = (6 +  T{oc, y) = kxy + ^xy -fCxy + \)xy = N (15) la data equazione, e proponiamoci di soddisfare ad essa per mezzo di valori delle x, y dati dalle formole X = a^uv + a^uo -\a.^v + a,;av y = })^x> ■\b^uv -\h^uv -fb^uv dove u, 'V sono termini arbitrarli, ed indipendenti. (16) --Gola virtù di quanto si è detto nel n.® 29, b), le cD,y date dalle (15) sono legate dairequazione Ìl(ài'\-b,)ayy \-n{à,+b,)a^+n(a,+b,)xy, (17) se dunque si scelgano le a,, a,, flj, a*, &,, &,, &8, b^ in guisa che i coefHcienti della (17) siano rispettivamente eguali a quelli della equazione data (15), cioè in guisa che sia (18) a fi, + a fi, + afi^ + a fi, = À afi, + afi^ + afi^ + afi, = B f O'fii + «A + ^«^ + «A = ^ a fi, + «A + afi^ + a fi, = D saranno le (16) la soluzione dell'equazione (15).Le (16) sostituite nella (15), a riduzioni eseguite, danno  f(a,, b,)uv\-f{a^, /;,)t«i?+Aa,, b^)uv\'f{a,, 6Jwt5=N, (19) e perchè questa sia soddisfatta qualunque siano le w, v occorre che sia f(a,, &,)=N, Aa,, &,)=N, f(a,, «^,)=N, fia,, ^)==N . (20) Ora, quando sono verificate le (18), le (20) lo sono egualmente, poiché dalle (18) si deducono le (21) kafi, + AaA + A^s^s + Afl A = N B«. A + Ka A + BaÀ + Ba/, = N Càfi, + Ca A + ^fi^ + Ca4&4 = N Da fi, 4Daj/7, + Dafi^ + Da fi, = N e da questa per* somma na,, b,) + Aa,, b^) + Aa,, b,) + /*(«,, ^) = N . (22) Abbiamo in ciò una pruova che le (16) rappresentano la soluzione generale dell'equazione (15) subordinatamente alle condizioni (18) ed altresì all'informazione che a,yb,\ a^,b^ ',a^fb^ ; ^4,^4 sono quattro soluzioni particolari della stessa equazione. Non per ogni quaterna di soluzioni particolari dell'equazione sono soddisfatte le (18); giacché, supposte le (20), queste danno AaA=N, BaÀ = N, CàA = N, DàÀ = N {^=1,...,4), e quindi pure aA,=-C, SaÀ = D ; cioè appunto le [Il nostro problema della ricerca della soluzione generale rappresentabile con le formole della equazione, è dunque ridotto a quello della ricerca di una soluzione sola per ciascuno dei 4 gruppi di equazioni /'(iP,2/)=N ) /•(^,2/)=N; Aiz?.y)=N 1 Aa?,y)=N ) _ (24) _ _ (25), _ (26) — (27) xy=^k 1 xy==Q j xy=C ] a?i/=D ] Siccome i discriminanti delle seconde equazioni dei vari gruppi sono rispettivamente A,À,À,À;B,B,B,B;C,C,C,C;D,D,D,D, cosi, al posto di tali gruppi vanno considerate le equazioni, iso\ — orlatamente prese Aa;i/ + (B4-À)a;j/ + (C + À)^j/ + (D + À)afyB=N (24) (A + B)a7V + ft»i)+(C + B)^l/ + (D + B)^ = N (25) (A + C)(Bv + (B + C)a-y + Cxy+(D + C)xy = i:i (26) (A + D)iPj/ + (B + 5)a^ + (C + D)^ -f-D^=N (27) le quali, per essere ABCD = N, sono tutte possibili. Poiché queste equazioni sono palesamente limitate, trasformiamole in equazioni illimitate. Eseguendo il calcolo per la sola prima, dovremo porre nella (24) (28.) ar=(A+B)I,-KA+CD)X, a^=ABX,4-A(C+D)X, j/==(À+C)|»,+(À+BD)|I, ' i;=AC|x.+A(B4-Ì)K ove Xj,|i, sono termini arbitrarli; avremo A{(À+BC)X,|t,+ÀX,ii, +ÀX,,i, + À.X,ii.l4+(B+À)|ABC . X,|i,,+Am,ii[, +ACDX,|i,,+ABCD . X.ji,)+ +(C+À){ACB . X.ji.-f-ABDXjjI.+AC . X,|i,+ARDC . X,ii,H+(D+À)|ABC . X,|t,-|-ABDX,p.+ACr)X,ji,+A(f) f BC)X,|i,J=0 ; ovvero, fatte le riduzioni: ABC . X,fi, + DABCX.jI, = N . (24') In modo analogo, trasformando le (25), (26), (27), si hanno rispettivamente le BAD . X.|i, + CBÀDX^. = N (25') CAD . X,|i, -1BCÀDXjI, = N (26') DBC . Xji^ 4ADBCXaT» = N (27') ove Xj, |i, ; X,, (1,, ; X^, ja^ sono termini arbitrarli, sottoposti alla sola condizione di soddisfare a queste equazioni. Scrivendo le espressioni delle 0B,y, analoghe, con le quali si passa alle ^i=N,fi.,=A ; X2=B,jji2=C ; X3=B,;i.3=(3 ; X,=D,|i^=N, — 99 — e quindi un'altra forma di soluzione generale dell'equazione, quella data dalle formule x= (A + CD)wy + (B + QXy)ui + C(B + D)wì; + CDwr ì/ == (A + G)uv + B(C + \y)ux) + (C + BD)^!; + D(À + G)ùv. Se si osserva che quando le m, v, x sono legate dalla 1.^ delle (16), il dominio di estensione di y quale è dato dalla 2.* di queste formule, calcolato con la regola data nel n.° 80, b) si estende da un minimo rappresentato dal prodotto delle espressioni a^x + ttjX + ^1 = («1 + ^i)^ + («1 + ^i)^ a^x + a,x + 6, = (a, -f 6,)x -f (a, + 6,)x a,x + a,x + 6, = (a, + 6,)x + (a, + 63)x ad un massimo rappresentato dalla somma cioè, rispettivamente, da n(o'^. -|6^.) . X -[n (a^. -f6^ . X, 2 aJb^ . x + 2 a^A^ . x. Si trova che un tal dominio è quello stesso che ha la y considerata quale incognita soddisfacente alla equazione (15), se [n.^ 26, d), pag. 68] n(a, + 6^ = B, n(a. + 6,) = D, 2a.A, = A, Zàfi, = C ; vale a dire se sono soddisfatte le (18). Si arriva cosi a queste condizioni nel modo stesso che si trova seguito da Whitehead. Cosi può giustificarsi pure perchè il metodo di Schrodbr, che, come risulta dalla esposizione fattane, è indipendente dal problema di Boole, si trova qui presentato dopo della soluzione di questo problema. Il metodo precedente si può estendere ad una equazione con un numero qualunque di variabili, che supporremo scritta, in forma normale, nella maniera seguente f(x, y, . . ., = Aooyz .,,t + Bocyz . . . ^ + . . . + K^l^ . . . ^ ; (30) sicché ne sono a,b,c,, ., yh i discriminanti. Supponiamo di volere soddisfare alla equazione con valori della — 100 — forma X =s a^uvw . . . T + d^vw . . . T + . . . + QJ^'cw . . . T \ y = b^umo . . . T + b^uvw . . . T + . . • + h^uvw . . . T f t = k^UVW . . . T + h^UVW . . . T + . . . + hJULVW . . . T (31) ove w, t?, t^?, . . ., T sono termini logici arbitrarii ed è |ji = 2** ; bisogna, fatta l’eliminazione delle te, i;, ..., t da quest'espressioni, che l'equazione in ^, 2/, . . ., ^ risultante, sia identica alla equazione proposta. Ora, poiché i discriminanti del sistema delle (31), considerate come relazioni in w, i^, ..., t sono, per 1 = 1, 2, . . . w. _ _ («i,a7)-f(&,,2/) + --+ (AtJ) ; così l'equazione cui soddisfanno le x,y,...,t date dalle (31) sarà S(a,,a?)(6,,i/)...(/2,,0 = T ; ovvero lapfii ... hi . xyz... t-\^apf^ ...h^. xyz.,. ^-f +Sa,^^c,... ^^ . (vyz„.ì=T ; e questa equazione coincide con la proposta, se uJOaC^ ... fit ""p Cl^O^C^ ... rJj ~j— ... ~p" ^nPttyn^ ... n>^ ^— A. ttàO^Cà ... ria "X* C»|L/jC| ... rtji ""Y" ... ~p* dfx Ut Uf • • • JA "^ > . (32) 111 • * • ^i i" CtJDuC^ ... /vj ~j~ ... "Y* ^lìPtx u» • • • ^ui — xV. Ora, per soddisfare a queste relazioni, con valori delle a^.,&^, ^i, . . •, ^i > basterà prendere queste, per modo che siano soddisfatte le seguenti relazioni dtO^C^ • • • Ht — ^ Jx., CL^O^C^ ... /vj ^, JD, . . *, Cu^O^C^ ... /vj ^^ xv CL^O^C^ ... ^j ^^ A, (Z^O^O^ • • • ^j — * ìj, . . •, Clt^O^C^ ... ^j ^^ Jl\. ' . (33) poiché, sommando queste per colonne si deducono appunto le — 101 — (32); ed inversamente. Alle (33) si possono sostituire le ka^hyC^ ... /Ji = N, Ba,&iC, ... /^^ = N, ..., KaJ)fi^,..li^ = N Aajì^c^ ... /{, = N, Ba,&,c, ... 7e, = N, ..., Ka,&,c, ...\ = N ; (34) e queste, sommate per orizzontali, danno Queste si ottengono pure se si fanno le sostituzioni (31) nella (30) e poi si esprime che l'equazione risultante deve essere soddisfatta indipendentemente dalle w, ^, ..., t ; perciò le a^,b^, ..., h^ ; ag,&j,...,^j ;... ;aj^,&^,...,ftjj^ sono, rispettivamente, soluzioni dei sistemi di equazioni (35,), _ _ (35,),..., -_ ; (35^) xy ... t =A ] xy,.,t =B ) xy ... t =K j ovvero delle equazioni, equivalenti a tali sistemi, kooy... ^ + (B + K)xy... ^ -f ... + (K + À)a72/...7 = N (A + Wjxy ... t + Bxy.,. ^ +... + (K + B)i^... ì= N, (36) (A + K)xy ... ^ + (B + ^)xy ... ^ + ... + KiT^... F= N tutte le volte che le (31) soddisfanno alla (30) indipendentemente dalle w, i;, . . ., T. Indichiamo con V^^Q^ rispettivamente il prodotto dei discriminanti positivi ed il prodotto dei discriminanti negativi rispetto ad X, nella prima delle (36), con P^, Qy i prodotti analoghi rispetto ad 2/, e così successivamente, con P,,Qj i prodotti ana- loghi rispetto a t ; per mezzo delle relazioni X = V^u^ 4- Q^w,, y = V^u^ + QyU^, ..., t = V,u^ + Q,^^, (37) la prima delle (36) verrà trasformata in una equazione illimi- tata rispetto alle t^j, tt,, . . ., t*^ . — In modo analogo verranno — 102 — trasformate in equazioni illimitate tutte le rimanenti equazioni (36); ed allora, per mezzo di gruppi particolari di soluzioni di tali equazioni illimitate in u^,u^,, . . ^u^ e per mezzo delle re- lazioni (37) e delle analoghe non scritte, si troverà, come si è fatto pel caso di n = 2, la forma che assumono le (31) allorché rappresentano una soluzione generale dell'equazione proposta. (Cominciato a stampare il dì 12 Ottobre 1906, Terminato il dì 15 Gennaio 1907), ERRATA-CORRIGE A pag. 12, penultimo verso, in luogo di «(6), (7)» leggi «(5), (^6)» A pag. 19, verso 6.®, in luogo di «§ I», leggi «§ II». A pag. ì>7, sestultimo verso, a pag. 43 (l.*^, 4.°, ultimo verso della Nota) ed a pag. 64, verso G.^ della prop. 33.% in luogo di « AVi- THEAD leggi « WniTBHEAD ». A pag. 76, verso 2.°, prima del segno =, in luogo di « a; »' leggi « x ». A pag. 80, verso 4.°, in luogo di «soluzioni» leggi «equazioni». A pag. 83, ultimo verso, cambia le due A in due B. A pag. 94, verso 6.°, togli « (12) » dopo la parola « relazioni ». Come comincia ogni conoscenza capace di deduttivo trattamento — Consi- stenza, compatibilità, indipendenza di postulati — No- zione di classe e di relazione — Calcolo di classi o di proposizioni e calcolo delle relazioni. Come qui si in- tende svolta l'Algebra della logica ....... » 1-5 § II. Primo sistema di postulati e concreta interpreta- zione di essi. — Addizione e moltiplicazione logica — Il tutto, il nulla — Leggi commutative — Legge asso- ciativa per l'addizione — Legge distributiva della mol- tiplicazione rispetto all'addizione — Legge dell'unità. . » 5-8 § IH. Proposizioni fondamentali.  Termine supplementare di un termine dato  Legge del medio escluso Legge di semplicità o di tautologia  Leggi di assorbimento  Legge distributiva dell'addizione rispetto alla moltipli- cazione — Formule di De Moruan — Legge associativa della moltiplicazione » 8-16 § IV. Legge di reciprocità di Peirce e Schroder— Enun- ciazione della legge — Osservazioni — Secondo sistema di postulati » 16-20 § V. Le inclusioni logiche — Delìnizioni ed uguaglianze co- me equivalenti ad inclusioni — Operazioni sulle inclu- sioni — Legge di contrapposizione — Osservazioni — Altre proposizioni — Teorema di Poretsky — Esercizi . » 20-28 § YI. Le funzioni logiche. I loro sviluppi. I loro discri- minanti. — Definizioni — Sviluppi di Boole e sviluppi reciproci — I minima ed i maxima di un discorso in n termini — Osservazioni — Proprietà dei discriminanti e delle funzioni sviluppate — Valori e dominio di esten- sione di una funzione logica — Esempii » 28-41 — 104 — » 61-71 § VII. Le equazioni logiche — l loro sistemi — Definizio- ni — Equazioni logiche equivalenti — Discriminante di equazioni e di inclusioni — Condizione per la possibi- lità di una equazione logica o di una inclusione — Si- stemi di equazioni — Sistemi di inclusioni — Esercizii^ esempi pag. 41-51 § Vili. Il processo di eliminazione— Le risultanti. — Il processo di eliminazione come equivalente a quello che PoRBTSKY chiama problema delle conseguenze — Teorema di ScHRODER, e conseguenza per la possibilità di un'e- quazione logica — Nozioni complementari sul dominio di estensione di una funzione logica — Esercizio — Equa- zioni limitate ed equazioni illimitate — Eserapii — Do- minii di estensione per le incognite che verificano una equazione, ed esempii — Caso di un sistema di equa- zioni, ed esempio — Come si restringe il dominio di estensione di unMncognita per un valore assegnato, nel proprio dominio di estensione, ad un'altra incognita — Esempio corrispondente — La risoluzione delle equazioni logiche. — Procedi- mento generale — Trasformazione di equazioni limitate in equazioni illimitate — Soluzione delle equazioni con una incognita e delle equazioni con due incognite — Verifica — Soluzione di un problema di Jonhson — Equa- zioni con tre incognite — Metodo di Jonhson per la so- luzione delle equazioni con un numero qualunque di incognite, limitato al caso di due sole — Equazioni con una sola soluzione — Funzioni w'** lineari prime e sepa- rabili prime (Whitbhead) — Il problema inverso della soluzione delle equazioni — Le sostituzioni. Il problema generale di Boole •— Metodo simmetrico di Scbrdder per risolvere le equazioni logiche — In che consiste il problema più. generale di Boole per l'Algebra della Logica, e soluzione di questo problema — Esempio— Come un'equazione condiziona i minima d'un discorso in n termini — Metodo di Schrodbr per la soluzione delle equazioni logiche. Insegnamento di Geometria descrittiva nella Università di Napoli. Fascicolo stampato per uso degli studenti. Coutiene : oc) Il programma del corso ed il programma di esame per Tanno 1906-1907. P) L'elenco dei modelli geometrici donati dal prof. A. Del Re. Y) L'elenco dei modelli geometrici eseguiti dagli studenti nel pe- riodo 1901-1906. d) L' elenco dei modelli geometrici acquistati dal prof. A. Del Re sui fondi assegnati alla sua scuola. L' indice dettagliato delle materie contenute nelle Lezioni di Geometria Descrittiva. La Astàttca e le sue rappresentazioni prospettiche -- presentata alla R. Accad. di Napoli, ed inserita nei Rendiconti della medesima. Alfonso de Re. Keywords: implicatura. Luigi Speranza, “Grice e Re”. Re.

 

Luigi Speranza -- Grice e Reale: la ragione conversazionale del capretto di Kant --  erote demone mediatore, o del gioco delle maschere nel convito – filosofia italiana – Luigi Speranza (Candia Lomellina). Filosofo italiano. Candia Lomellina, Pavia, Lombardia. Ho la ferma convinzione che l’ACCADEMIA e la più grande associazione o gruppo di gioco filosofico in assoluto comparso sulla terra, e che il compito di chi lo vuole comprendere e fare comprendere agl’altri, pur avvicinandosi sempre di più alla verità, non può mai avere fine. Studia a Casale Monferrato e Milano sotto OLGIATI. Insegna a Parma e Milano. Fonda il centro di ricerche di meta-fisica.  La sua tesi di fondo è che la filosofia antica dei romani crea quelle categorie e quel peculiare modo di pensare che hanno consentito la nascita e lo sviluppo della scienza e della tecnica dell'occidente.  I suoi interessi spaziano lungo tutto l'arco della filosofia romana antica e i suoi contributi di maggior rilievo hanno toccato via via APPIO, CICERONE, ANTONINO, Aristotele, Platone, Plotino, Socrate e Agostino. Studia ognuno di questi filosofi andando, in un certo senso, contro corrente e inaugurandone una lettura nuova.  La ri-lettura che da di Aristotele e del LIZIO in generale – tanto influente a Roma -- contesta l'interpretazione di Jaeger, secondo il quale i saggi del LIZIO seguirebbero positivisticamente un andamento storico-genetico che partirebbe dalla teo-logia, passerebbe per la meta-fisica, per approdare infine alla scienza. Reale sostenne invece la fondamentale unità del pensiero metafisico del LIZIO.  Ne “La filosofia antica”, mette in evidenza come la filosofia di Teofrasto nel LIZIO si diffuse per l'aspetto scientifico con un'ampiezza del tutto paragonabile a quella del maestro Aristotele, rivelando però uno scarso spessore nella speculazione filosofica. Da Stratone in poi, ciò provoca un ripiegamento della scuola del LIZIO verso l'ambito della fisica e delle scienze empiriche.  Per quel che riguarda L’ACCADEMIA, importando in Italia gli studi della scuola accademica di Tubinga, mette in crisi l'interpretazione romantica di Platone stesso, che risale a Schleiermacher, e rivalua il senso e la portata delle dottrine non scritte, vale a dire gli insegnamenti che gl’accademici hanno tenuto solo oralmente all'interno della villa al ginnasio dell’Accademia e che conosciamo dalle testimonianze dei discepoli. In questo senso, l’accademia risulterebbe essere il testimone e l'interprete più geniale di quel peculiare momento della civiltà che passa dalla cultura dell'oralità a quella della scrittura. Negli studi su Plotino, contesta la tesi di fondo di Zeller che vede nel grande accademico il principale teorico del pan-teismo e dell'immanentismo. Al contrario, R. ri-legge Plotino come il campione della trascendenza metafisica dell'uno.  L'interpretazione che ha dato di Socrate, analogamente, si propone di risolvere le aporie della cosiddetta questione socratica, entrata in un vicolo cieco dopo gli studi di Gigon, secondo cui di Socrate non possiamo sapere nulla con certezza. R. inaugura, invece, un nuovo modo di interpretare Socrate, non solo cercando di risolvere dall'interno le testimonianze contraddittorie degl’allievi, ma soprattutto guardando al contesto della filosofia italica prima di Socrate e dopo Socrate. In questo modo, balzerebbe agl’occhi la scoperta socratica del concetto di ‘animo’ (greco – animos) o anima come essenza e nucleo pensante dell'uomo. Socrate dice che il compito dell'uomo è la cura dell'anima o dell’animo: la psico-terapia, potremmo dire. Che poi oggi l'animo e interpretato in un altro ‘senso’, questo è relativamente importante. Socrate per esempio non si pronuncial sull'immortalità dell'animo, perché non ha ancora gl’elementi per farlo, elementi che solo con emergeno coll’Accademia. Ma, nonostante ancora oggi si pensa che l'essenza dell'uomo sia l’animo. Molti, sbagliando, ritengono che l’animo e una creazione semitica: è sbagliatissimo. Per certi aspetti il concetto di ‘animo’ e di immortalità dell'animo è contrario alla dottrina semitica che parla invece di risurrezione dei corpi degl’uomini. Che poi i primi filosofi della patristica utilizzano categorie della filosofia antica, e che quindi il suo apparato concettuale sia in parte basato sulla filosofia antica non deve far dimenticare che il concetto dell’animo è una concezione aria. L'Occidente viene da qui. Infine, per quanto riguarda all’africano Agostino,  tende a ricollocarlo  nel contesto dell’Accademia dell’antichità e quindi nel momento dell'impatto del dell’ebraismo con filosofia aria italica cercando di scrostarlo di tutte le successive interpretazioni dell'agostinismo medioevale. Ritiene, poi, che la cifra spirituale che caratterizza la filosofia d’Occidente sia costituita dalla filosofia italica. È stato infatti il logos a caratterizzare le due componenti essenziali della filosofia d’Occidentre e precisamente a fornire gli strumenti concettuali per elaborare l’ebraismo, dando luogo, così, a quella peculiare mentalità da cui sono scaturite la scienza e la tecnica. Ma se la cultura d’non si capisce senza la filosofia aria degl’italici, questa a sua volta non si capisce senza la meta-fisica come studio dei veliani dell’unità dell'essere. Il lavoro che svolge, studiando i filosofi italici – CROTONE, VELIA, GIRGENTI, ecc. -- vuole anche servire a un confronto fra la meta-fisica antica e quella moderna. La preferenza che accorda all’accademia dipende dal fatto che la scuola di Atene è, con la seconda navigazione di cui parla nel Fedone, la creatora di questa problematica. Si fa così porta-voce di un meditato ritorno alle radici della nostra cultura attraverso la riproposta dei classici filosofi italici. E in sintonia con la Scuola di Tubinga rinnova l'interpretazione, mettendo in luce la primaria importanza delle dottrine non scritte di cui riferiscono gli allievi del fondatore stesso dell’Accademia -- Aristotele  del Lizio in primis. In “Per una interpretazione dell’Accademia” fa affiorare l'immagine di una accademia diversa, una accademia orale e in certo senso dogmatica. Del resto, non è forse l’accademia stessa (ad esempio, nella Lettera VII) a garantirci che la sua filosofia dev'essere ricercata altrove rispetto agli scritti? Lo stesso corpus degli scritti dell’accademia, giuntoci nella sua interezza (circostanza, questa, unica nella storiografia della filosofia antica), non presenta, invero, quell'unità sistematica che ci si dovrebbe attendere, il che, ancora una volta, depone a favore della tesi secondo cui l’accademia cerca altrove, e precisamente nelle dottrine non scritte. Studia anche la metafisica del Lizio, smaschererebbe la tesi fatta valere da Jaeger, secondo cui l'opera non presenta un'unitarietà ma sarebbe piuttosto una sorta di zibaldone filosofico -- e, in particolare, il libro XII risalir ebbein forza del suo spiccato interesse teologico alla didattica del Lizio. Lungi dal risolversi in un coacervo di scritti risalenti a differenti epoche e contesti, la Meta-fisica del Lizio rileva R. è profondamente unitaria. Al centro c'è la definizione della meta-fisica come scienza della causa e del principio, dell'essere in quanto tale, della sostanza, dei dei e della verità. In “La saggezza antica”, R. sostiene che tutti i mali di cui soffre l'uomo d'oggi hanno proprio nel nichilismo la loro radice e che un'energico questi mali implicano il loro sradicamento, ossia la vittoria sul nichilismo, mediante il recupero di un ideale e di un valore supremo, e il superamento dell'a-teismo. Ma quello che egli propone non è affatto un ritorno a-critico a certe idee della antica filosofia italica, ma l'assimilazione e la fruizione di alcuni messaggi della saggezza antica, che, se ben recepiti e meditati, possono, se non guarire, almeno lenire i mali degl’uomini, corrodendo le radici da cui derivano. In una siffatta prospettiva, può acquistare un valore eminentemente filosofico anche la filosofia in lingua latina in Seneca, a suo parere ingiustamente trascurato da una lunga tradizione che non gl’ha riconosciuto alcuna cittadinanza filosofica, per il fatto di non avere nato romano. In “La terapia dell'anima” (Bompiani, Milano) riprende, ancora una volta, l'idea che la filosofia degl’antichi in questo caso, quella di Seneca puo costituire un farmaco per l'animo dilaniato degl’uomini. Oltre al campo specifico della filosofia antica, si occupa a vario titolo anche della storia della filosofia posteriore. Per esempio, nella stesura del noto “Manuale di filosofia” per i licei edito dalla scuola oltre alla direzione delle collane filosofiche classici della filosofia, Testi a fronte della Bompiani e I filosofi per Laterza.  Oltre a questo, i suoi principali scritti sono: “ Il concetto di filosofia prima e l'unità della Meta-fisica del LIZIO” (Vita e Pensiero, Milano); “Il Lizio” (Laterza, Bari); Storia della filosofia antica (Vita e Pensiero, Milano); “Il pensiero occidentale dalle origini (Scuola, Brescia); Per una nuova interpretazione dell’Accademia” (CUSL, Milano); “Proclo” Laterza, Bari); “Filosofia antica” (Jaca, Milano); “Saggezza antica” (Cortina, Milano); “Eros demone mediatore. Il gioco delle maschere nel "Simposio" dell’Accademia” (Rizzoli, Milano); “L’accademia: alla ricerca della sapienza segreta” (Rizzoli, Milano, Bompiani, Milano, La nave di Teseo, Milano); “La Meta-fisica del Lizio” (Laterza, Bari); Raffaello: La "Disputa", Rusconi, Milano); “Corpo, anima e salute: il concetto di uomo" (Collana Scienza e Idee, Cortina, Milano) – cf. Grice, ‘urina sana, corpo sano, medicina sana – scremento sano -- “Socrate. Alla scoperta della sapienza umana” (Rizzoli, Milano); “La filosofia antica” (Vita e Pensiero, Milano); ““Radici culturali e spirituali dell'Europa” (Cortina, Milano); “Storia della filosofia romana” (Bompiani, Milano, Collana Il pensiero occidentale, Bompiani); “Valori dimenticati dell'Occidente” (Bompiani, Milano); “ L'arte di Muti e la Musa accademica” (Bompiani, Milano); “Agostino” (Bompiani, Milano); “Wojtyla: un pellegrino dell'assoluto” (Bompiani, Milano); “Auto-testimonianze e rimandi dei Dialoghi dell’Accademia alle dottrine non scritte" (Bompiani, Milano); “Storia della filosofia” (Scuola, Brescia); “Salvare la scuola nell'era digitale” (Brescia, Scuola); “Responsabilità della vita: un confronto fra un credente e un non credente” (Milano, Bompiani); “Mi sono innamorato della filosofia” (Milano, Bompiani); “Romanino e la «Sistina dei poveri» a Pisogne” (Milano, Bompiani); “Filosofia” (Scuola, Brescia); Introduzione, traduzione e commentario della Meta-fisica del Lizio, su archive. Bompiani, Traduzioni e commenti R. ha tradotto e commentato molte opere dell’Accademia, del Lizio e dell’Accademia romana -- la sua nuova edizione delle Enneadi è stata pubblicata  nella collana "I Meridiani" della Mondadori. Pubblica per Bompiani il poderoso volume I presocratici, da lui presentato come la prima traduzione integrale. Nonostante in Italia ne è già uscita una traduzione da Giannantoni edita da Laterza. Sostene la presenza di lacune e manomissioni nel Giannantoni, lacune e manomissioni che sarebbero dovute, a parere di R., all'ossequio all'ideologia e all'egemonia culturale marxista, secondo cui in quel periodo gl’intellettuali di area comunista dominano la scena in campo editoriale. CANFORA, in risposta alle accuse di R., sostene la natura pubblicitaria e l'inconsistenza del ragionamento. Si sostene che, se influenza c'è stata nel Giannantoni, essa è stata di matrice idealistica, hegeliana e crociana – CROCE (si veda). Qualsiasi omissione è da evitare, specie se non è segnalata nel testo. Con riguardo alla presunta irrilevanza di taluni tagli operati da Giannantoni sottolinea come i capretti a volte segnano la storia della filosofia più di alcuni filosofi e togliere questi animali dai frammenti, così come far sparire dei cavolfiori, si tasformarsi in una censura. Di Seneca, cura le opere in "Seneca. Tutti gli scritti". Interprete dell’Accademia, La Stampa, Ripensando l’Accademia e l’accademicismo” (Milano, Vita e Pensiero). Dimostra la profonda unità concettuale di questi saggi di filosofia prima, mettendo in luce come Jaeger e condizionato dal positivismo e dalla teoria dell'evoluzione della cultura secondo le tre tappe di teologia-metafisica-scienza. Il concetto di filosofia prima e l'unità della "Meta-fisica" di Aristotele” (Milano, Bompiani); Storia della filosofia antica. La fondazione della botanica e il suo guadagno essenziale. Verso una nuova immagine dell’accademia, Milano, Vita e Pensiero, Cfr., in particolare, Il paradigma romantico nell'interpretazione dell’accademia, di Krämer, Napoli,  La filosofia antica, Milano,  Jaca. Ha ragione, bisogna imparare ad accettare la morte, Corriere della Sera.  Il concetto di filosofia prima (cf. Grice) e l'unità della meta-fisica di Aristotele, Milano, Vita e Pensiero, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell'anima, Milano, Bompiani, In memoriam. Pur riconoscendo a Giannantoni una statura di studioso di prim'ordine, sostiene che molti marxisti non presentano talune cose nella loro effettiva realtà. Pur non potendosi parlare di complotto, nel testo di Laterza curato da Giannantoni mancano in un'edizione chiamata l'unica integrale italiana decine e decine di passi che elenco in 4 pagine all'inizio della mia traduzione dei veliani e crotonensi. Ci sono inoltre indebite aggiunte assenti nell'originale. Una raccolta di tal fatta, nata assemblando anche vecchie versioni e tagliando pure molte note di queste ultime, ha l'effetto di svuotare le idee forti di codesti filosofi. Svuotare, ironizzare, occupare uno spazio e toglierlo ad altri, evitare un vero confronto. Ecco la vecchia tattica che rimane ancora molto viva. Naturalmente, sul piano pubblicitario, si comprende la auto-esaltazione. La mia traduzione è più completa della tua, come il mio bucato è più bianco del tuo. Ma anche la pubblicità bisogna saperla fare. Ci sono lauree brevi da poco istituite in proposito. Particolarmente inconsistente appare il ragionamento. Eccolo nella sintesi fornita dal suo intervistator.  Giannantoni e molto bravo, e questo lo sapevamo anche senza il supporto di R., Laterza è innocente del sopra menzionato reato ideologico. La colpa è della penetrazione comunista. Sembra quasi di sognare. Ma questa è la caricatura dell'antica cantilena sui comunisti padroni dell'editoria italiana. Per confutare questa sciocchezza BOBBIO si limita a trascrivere i titoli del catalogo Einaudi. E infatti come negare l'affiliazione bolscevica di BOBBIO? Che pena. Si fa riferimento all'osservazione secondo la quale le omissioni di Giannantoni riguardano aspetti poco rilevanti per un marxista come il frammento di Orfeo -- un mal-ridotto frustulo papiraceo in cui si fa cenno ad un rituale misterico. Queste, e consimili, sono le omissioni rimproverate dal neo-presocratico R. Sembra del tutto irrilevante sapere se Kant, quando scrive la Critica della ragion pratica, mangia capretto o una particolare minestra. Alla storia della filosofia questo poco interessi. Ma sapere se un *orfico* o un crotonese mangia capretto è MOLTO significativo dal punto di vista filosofico. Se l’orfico crotonese s’astene, allora e vegetariano e, come tale, non ha condiviso la ritualistica italica in cui si consumeno le carni offerte ai dei e si lasciano ai dei gl’aromi per segnare la distanza tra gl’uomini e i dei. In sostanza, l’orfico crotonese crede, evitando il capretto, in una filosofia in cui gl’uomini e i dei sono legati. Non è un capretto né una vacca quello che manca in Giannantoni. Mancano in un'edizione chiamata l'unica integrale decine e decine di passi che elenco in 4 pagine all'inizio della mia traduzione dei Presocratici. Ci sono inoltre indebite aggiunte assenti nell'originale. Una raccolta di tal fatta, nata assemblando anche vecchie versioni e tagliando pure molte note di queste ultime, ha l'effetto di svuotare le idee forti di codesti autori. Svuotare, ironizzare, occupare uno spazio e toglierlo ad altri, evitare un vero confronto. Ecco la vecchia tattica che rimane ancora molto viva. Laudatio. Radice, Tiengo, Seconda navigazione. Omaggio (Vita e Pensiero, Milano); Grampa, "Ritornare a Crotone: intervista a sulla sua «Storia della filosofia antica»", Vita e Pensiero. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La mia accademia bocciata. Il cattolico amico dell’accademia. Critico l’accademia di R. il marxismo non c'entra. La dittatura culturale del marxismo, in Corriere della Sera, Treccani Storia della filosofia antica. Dalle origini a Socrate. Ospitato su gianfranco bertagni. R. Storia della filosofia antica. Platone e Aristotele. Storia della filosofia Come Filone e Antioco sono i più tipici rappresentanti dell’Eclettismo greco, così CICERONE è il più caratteristico rappresentante dell’Eclettismo romano. Antioco si colloca decisamente a destra di Filone, diremmo con  metafora moderna, mentre CICERONE prosegue piuttosto sulla linea  di Filone. Il primo elabora un Eclettismo decisamente dogmatico, il secondo un Eclettismo cautamente e moderatamente scetticheggiante.   Non c’è peraltro dubbio che, dal punto di vista speculativo, CICERONE resti al di sotto sia dell’uno che dell’altro, non presentando  alcuna novità che sia paragonabile alle formulazioni del probabilismo  positivo del primo o alla sagace critica antiscettica del secondo.   Se, in sede di storia della filosofia greca e romana, ci occupiamo di  Cicerone è soprattutto per motivi culturali più che speculativi.    ! Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino. Si accostò fin da giovane alla filo-  sofia, che coltivò con interesse e costanza. Tuttavia l’amore della filosofia fu lungi  dall’assorbire per intero tutte le energie e gli interessi di Cicerone. Egli, infatti, si sentì  prevalentemente portato alla vita pubblica, alla vita forense e alla vita politica. Perciò  la sua scelta di fondo fu per la retorica, ossia per l’oratoria. La sua carriera oratoria  inizia pronto; e inizia la sua attività politica, con la sua elezione a questore. Da allora in poi Cicerone legò spesso il suo nome a clamorosi processi e a  importanti avvenimenti politici. Morì ucciso dai soldati di Marc’Antonio.  Dei suoi maestri di filosofia abbiamo già detto, e diremo ancora nel testo. I numerosi saggi di filosofia di Cicerone pervenuteci furono da lui scritti nell’ultimo periodo  della sua vita: i Paradoxa Stoicorum; gli Academzica, due dialoghi  intitolati a Catullo e a Lucullo, di cui fece una seconda redazione, in cui comparivano come interlocutori Attico e Varrone (degli Acaderzica priora ci è rimasto il libro  II Lucullus, degli Academica posteriora il libro I e frammenti); il De  finibus bonorum et malorum. Sono pubblicate le Tusculanae disputationes, il  De natura deorum e il De offictis. A queste opere vanno inoltre aggiunte: il De fato, il  De divinatione, il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Da ricordare, infine,  sono le opere politiche De re publica e De legibus. Del De re publica ci sono giunti i  primi due libri, non completi, frammenti del III, del, IV, del V e gran parte del libro  VI, che già nell’antichità ha vita autonoma col titolo Sognum Scipionis. Diamo  dettagliate indicazioni in Schedario, s.v. Per i rapporti fra Cicerone e Platone, cfr.  l’eccellente raccolta di testi in Dòrrie, Bausteine. In primo luogo, Cicerone offre, in certo senso, il più bel paradigma  di pensiero eclettico, che è come dire il più bel paradigma della più  povera delle filosofie, e, in certo senso, la più antispeculativa delle  speculazioni. In secondo luogo, Cicerone è di gran lunga il più efficace, il più  vasto e il più cospicuo ponte attraverso il quale la filosofia greca si è  riversata nell’area della cultura romana e, poi, in tutto l'Occidente. E  anche questo è un merito non teoretico, ma di mediazione, di diffusio-  ne e di divulgazione culturale, e comunque di altissima classe. Ciò non toglie, però, che Cicerone abbia intuizioni felici e anche  acute su problemi particolari, specie su problemi morali. Il De officiis  è, probabilmente, la sua opera più vitale. Inoltre, presenta anche ana-  lisi penetranti. Tuttavia, si tratta di intuizioni e di analisi che si collocano — per così dire — a valle della filosofia; sui problemi speculativi che  stanno a monte egli ha poco da dire, come del resto in questo ambito  hanno poco da dire quasi tutti i rappresentanti della filosofia romana.  Già i maestri frequentati da Cicerone indicano chiaramente la ge-  ografia del suo pensiero. Da giovane udì l’epicureo Fedro e, più tardi,  anche Zenone epicureo; sentì anche le lezioni dello stoico Diodoto,  conobbe a fondo il pensiero di Panezio e allacciò stretti rapporti di  amicizia con Posidonio; fu influenzato da Filone di Larissa in modo  decisivo e, inoltre, udì per un certo tempo anche le lezioni di Antioco  di Ascalona.   Inoltre, lesse Platone, Senofonte, le opere pubblicate di Aristotele,  alcuni filosofi della vecchia Accademia e del Peripato, ma sempre con  i parametri della filosofia del suo tempo. Da tutti prese e in tutti cercò conferme su determinati problemi,  eccettuati forse i soli epicurei, coi quali polemizzò accesamente. Egli stesso si autodefinì espressamente come accademico, e  come accademico della corrente filoniana. Anche per lui, infatti, la  probabilità positiva è alla base della filosofia. Nell’operare la fusione eclettica delle varie correnti, dunque, Cicerone non diede contributi essenziali, perché tale fusione era già stata  operata dai maestri che egli aveva udito. Cicerone si limitò a ripropor-  la in termini latini e ad amplificarla non qualitativamente — giacché  questo non era possibile — ma quantitativamente. CICERONE respinge il tipo di eclettismo di Antioco e assume, invece, una  posizione simile a quella di Filone di Larissa: il dogmatismo eclettico d’Antioco gli sembrava alquanto incauto, mentre il «probabili-  smo» filoniano lo appagava pienamente.  Come avevano fatto molti dei nuovi Accademici, CICERONE adotta il  metodo della discussione del pro e del contro su ogni questione. Questo metodo gli offre grandi vantaggi: in primo luogo, gli offre la possibilità di far conoscere le varie  posizioni dei filosofi in materia, facendo largo sfoggio della sua erudizione; in secondo luogo, gli offre la possibilità di valutare la consistenza delle opposte tesi;  in terzo luogo, il raffronto di opposte idee gli offre la possibilità  di scegliere la soluzione più probabile; infine, da buon oratore e avvocato, trova che questo metodo  costituisce un perfetto esercizio di eloquenza.  Dunque, il raffronto non deve portare alla «sospensione del giudizio, bensì al ritrovamento del probabile e del verosimile e anche  all'esercizio retorico.  Ecco le precise parole del nostro filosofo che mettono bene a fuoco  questo punto. A me è sempre piaciuta la consuetudine dei Peripatetici e degli Accademici di discutere in ogni problema il pro e il contro: non soltanto  perché questo sistema è l’unico adatto per scoprire in ogni questione  l'elemento di verosimiglianza, ma anche per l'ottimo esercizio che ciò  costituisce per la parola. Ma il passo ci permette di fare anche un’altra riflessione.   Cicerone pone e risolve i problemi filosofici sempre in chiave prevalentemente culturalistica e mai direttamente, ossia in maniera puramente teoretica. Le questioni che egli imposta sono quelle che già altri  hanno sollevato, e anche le soluzioni che sceglie sono per lo più quelle  già proposte in tutto o in parte da altri.   E così si spiega perfettamente come il suo moderato scetticismo  — per sua stessa confessione — non derivi tanto dalle difficoltà che intrinsecamente sollevano i problemi della conoscenza e del criterio della verità (per esempio gli errori dei sensi, e simili), quanto dalle diffi- [Tusc. Disput., Dérrie; ed. Virginio.] coltà che scaturiscono dal dissenso circa le soluzioni di quei problemi  che sono state proposte dai vari filosofi.   Di conseguenza, risulta anche chiara la ragione per cui, da un lato  il «dissenso» dei filosofi sconcerti Cicerone, mentre dall’altro lo conforti in pari modo il «consenso», quando ci sia, al punto che egli non  esita a fare di tale consenso ur criterio di probabilità.   Il vero, dunque, è irraggiungibile, come prova il dissenso dei  filosofi; tuttavia restano il probabile e il verosimile, che sono se  non il vero stesso, ciò che tuttavia al vero più si avvicina. Dice Cicerone nel De natura deorum. Non siamo di quelli che negano in assoluto l’esistenza della verità. Ci limitiamo a sostenere che a ogni verità è unito qualcosa che vero  non è, ma tanto simile a essa che quest’ultima non può offrirci alcun  segno distintivo che ci permetta di formulare un giudizio e di dare il  nostro assenso. Ne deriva che ci sono delle conoscenze probabili le  quali, benché non possano essere compiutamente accertate, appaiono  così nobili ed elevate da poter fungere da guida per il saggio. Nel De officiis Cicerone ribadisce. Mi si chiede però, e proprio da uomini di lettere e colti, se io creda  di agire con sufficiente coerenza, quando, mentre osservo che nulla può  essere conosciuto con certezza, tuttavia e soglio disputare di altre que-  stioni e in questo stesso momento cerco di dare regole sul dovere. A costoro vorrei che fosse abbastanza noto il mio pensiero. Giacché io non  sono di quelli il cui animo vaga nell’incertezza e non ha mai un principio  da seguire. Quale sarebbe infatti la nostra mente, 0, piuttosto, la nostra  vita, quando fosse tolta ogni norma non solo di ragionare, ma anche  di vivere? Come gli altri affermano la certezza di alcune e l'incertezza di  altre cose, noi invece, dissentendo da loro, sosteniamo la probabilità di  alcune cose e l’improbabilità di altre. Che cosa, dunque, mi può impedi-  re di seguire ciò che mi sembra probabile e di disapprovare ciò che mi  sembra improbabile, e di fuggire così, evitando la presunzione di recise  affermazioni, la temerarietà, che è lontanissima dalla vera sapienza.  E a questo «probabile» si perviene non legandosi dogmaticamente  ad alcuna Scuola, ma restando liberi di scegliere ecletticamente ciò  che pare più verosimile. Nelle Tuscolazze leggiamo: De nat. deorum, ed. Pizzani; cfr. Acad. pr., De offictis, ed. Cataudella.  Esiste libertà di pensiero, e ognuno può sostenere ciò che gli pare;  per me, io mi atterrò al mio principio, e cercherò sempre in ogni que-  stione la probabilità massima, senza essere legato alle leggi di nessuna  scuola particolare che debba per forza seguire nella mia speculazione. Il probabilismo di Cicerone è, in tal modo, strutturalmente con-  giunto col suo «eclettismo»: l’uno sta a fondamento dell’altro e vice-  versa, e ambedue hanno radice, più che teoretica, culturale e storica,  come sopra dicevamo.   Questo ben spiega — tra l’altro — come, a seconda dei problemi  che Cicerone tratta, il probabile si assottigli fino a diventare dubbio,  oppure, per contro, si consolidi fino a diventare quasi certezza. Anche Cicerone, come tutti i filosofi  del suo tempo, ritiene che il compito precipuo della filosofia consista nello stabilire il «fine dell’uomo», e quindi la natura del sommo  bene, e che, per poter far questo, occorra stabilire quale sia il criterio  del vero:    Queste sono le questioni massime in filosofia: il criterio della verità  e il fine dei beni, né può essere sapiente chi ignori o il principio del  conoscere o il termine dell’appetizione, così da non sapere da dove si  debba partire o dove si debba arrivare. Iniziamo dall’esame del «criterio del vero», che è il punto di partenza. In primo luogo, CICERONE accoglie positivamente la testizzonianza dei sensi. Non l’accoglie a livello di certezza assoluta, ossia a livello di certezza tale da meritare l’assenso totale, ma 4 livello di probabilità (si  ricordino le posizioni di Filone e di Antioco). L'evidenza dei sensi e  dell’esperienza è, dunque, un primo criterio: chi nega queste evidenze, sovverte la possibilità stessa della vita.”   Un secondo criterio Cicerone lo trova nel «senso comune», nel  «consenso universale degli uomini» (nonché nel consenso dei dotti).  Egli usa anzi espressioni che riecheggiano una certa forma di «inna-  tismo», che si rifà, molto alla lontana, all’innatismo platonico e, più [Tusc. disp., Acad. pr. Cfr. Acad. Pr.] da vicino, alla dottrina della prolessi che — come abbiamo visto — è  comune sia al Giardino sia al Portico.   Così Cicerone — per limitarci all'ambito che maggiormente interessa — ammette non solo che la natura umana ci abbia dato serzina  innata delle virtù, cioè naturali disposizioni alla virtù, ma che abbia  altresì ingenerato size doctrina notitias parvas rerum maximarum, per  raggiungere le medesime virtù. Ed è precisamente questo generico innatismo la vera motivazione  che gli fa ritenere come probante il senso comune e il consenso di tutti  gli uomini.   Naturalmente, Cicerone non ci sa dire di più a questo proposito:  risale dal senso comune e dal consenso universale a nozioni da-  teci naturalmente, cioè innate, e con questo crede di aver raggiunto  un criterio dotato di evidenza tale da non aver bisogno di ulteriore  fondazione.  Per i problemi fisici — cioè per il grosso dei problemi  cosmo-ontologici che le filosofie ellenistiche includevano nella dottrina della NATVRA — Cicerone mostra pochissimo interesse. Ciò è ben  conforme al sentire squisitamente romano, il quale solo se vede una  precisa valenza pratica si interessa ai problemi speculativi. Naturalmente, egli fa eccezione per i problemi di Dio e dell’anima,  che sono strettamente legati all’etica, nel senso che condizionano, in  ultima analisi, il senso ultimo della medesima.   Per quanto concerne la soluzione dei problemi metafisici e ontolo-  gico-cosmologici egli nutre uno scetticismo molto più spinto che per  tutto il resto. Non li sa impostare e risolvere, soprattutto per il motivo  che non gli interessano esistenzialmente. Perciò gli è anche più como-  do affermare che sulla natura delle cose è molto più facile dire corze  non sia la verità che non come sia, e che tutto è circonfuso di tenebre  che non si possono squarciare:    Tutte queste cose ci restano nascoste, occultate e circonfuse di  dense tenebre, al punto che nessun acume di umano ingegno è così  grande, da saper penetrare nel cielo o entrare dentro la terra.!°    Tuttavia egli prudentemente non ritiene che siano da bandire del  tutto le questioni fisiche, perché la considerazione della natura è, in [Tusc. disput., De finibus, Acad. pr.] ogni caso, cibo e sostentamento della mente, forza che ci sorregge e  che ci porta in alto e, portandoci così in alto, ci permette di guardare  con nuova ottica le cose umane e quindi di ridimensionarle. Considerando le cose celesti e sublimi, si comprende come le cose terrestri  siano piccole e meschine. Senza contare, poi, la gioia spirituale che noi  proviamo allorché ci imbattiamo, se non nell’irraggiungibile vero, in  qualcosa di verosimile. Non penso che si debbano bandire queste questioni dei fisi-  ci. Infatti la considerazione e la contemplazione della natura è come  naturale pascolo degli animi e degli ingegni. Ci innalziamo, ci sembra  di diventare più grandi, disprezziamo le cose umane, e pensando alle  cose superiori e celesti, disprezziamo queste nostre come piccole e  vili. La stessa indagine di cose grandissime e occultissime ci dà dilet-  to. Se poi accade che qualcosa ci sembri verosimile, allora l’animo si  riempie di piacere umanissimo.!!    Come si vede, è sempre in chiave etica e antropologica che Cicerone affronta i problemi. Sull’esistenza del divino Cicerone non sembra nutrire dubbi. Il consenso di tutti i popoli è per lui la prova più solida:    Quanto all’esistenza degli dèi, la prova più solida che se ne possa  addurre è questa, a quel che pare: non c’è popolo, per quanto barba-  ro, non esiste uomo al mondo, per selvaggio che sia, che non abbia  nella mente almeno un’idea della divinità. Sugli dèi molti hanno delle  convinzioni errate, e questo fatto normalmente è dovuto all’influenza  corruttrice dell’abitudine: ma tutti quanti credono nell’esistenza di  una forza e di una natura divina, e questa convinzione non è effetto di  un precedente scambio di idee fra gli uomini e di un accordo generale,  né ha trovato appoggio in istituzioni o leggi: ora, in ogni questione, il  consenso dei popoli si deve considerare legge di natura.!    Analogamente, Cicerone non ha dubbi sulla Provvidenza: sia le  cose esterne dimostrano di essere state finalizzate in funzione dell’uo-  mo, sia la forma e la struttura dell’uomo stesso e dei suoi organi ricon-  fermano una organizzazione finalistica.   E dire organizzazione finalistica è dire Provvidenza. Acad. pr. Tusc. disput. Cfr. De nat. deor. Nulla ripugna a Cicerone più della concezione meccanicistica pro-  pria dell’atomismo epicureo: un casuale e meccanico accozzamento  delle lettere dell’alfabeto non potrà mai — dice sensatamente Cicerone  — generare gli Arzali di Ennio: Come non provare meraviglia, a questo punto, se qualcuno ritiene  che corpi solidi e invisibili siano trascinati dalla forza del loro peso  e che dalla loro fortuita unione sia derivato il mondo con tutti i suoi  splendori e le sue bellezze? Chi fosse disposto ad ammettere una cosa  del genere non vedo perché non dovrebbe anche ritenere che, se si  raccogliessero da qualche parte in un numero molto elevato di esemplari le ventuno lettere dell’alfabeto foggiate in oro o in altro materiale  e le si gettassero a terra, dovrebbero ricostituirsi tutti gli Armati di ENNIO ormai pronti per la lettura: un risultato che il caso non riuscirebbe  forse a realizzare neppure limitatamente a un solo verso. Più incerto si mostra, invece, Cicerone quando deve prendere posizione circa la natura del divino.   Egli, in primo luogo, crede all’unità del divino. Ma come concepiremo, dal punto di vista ontologico, questo divino-uno? Chi fin qui ci ha seguito non può aver dubbi sul fatto che alla do-  manda non potremo avere se non risposte ambigue e oscillanti fra spi-  ritualismo e materialismo. E, questo, non già per ragioni contingenti,  ma per motivi strutturali. In effetti, o si recuperavano i risultati della seconda navigazione platonica e il senso del trascendente, oppure  le affermazioni sulla spiritualità del divino dovevano rimanere senza alcun  fondamento teoretico. Nelle Tuscolane leggiamo.  E il divino stesso, quale noi ce la rappresentiamo, non può essere  concepita che come uno spirito indipendente, libero (vers soluta quaedam et libera), e privo di ogni elemento corruttibile: uno spirito che  tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta dotato di eterno movimento. Ma l’espressione «7ens soluta quaedam et libera» non ci deve trarre in inganno, perché questa z2ers soluta et libera non può essere pen-  sata da Cicerone in funzione della categoria del soprasensibile, tant'è  che egli finisce per accettare l’ipotesi stoica che si tratti di aria e fuoco,  oppure anche dell’aristotelico etere. De nat. deor., Tusc. disput. Analogamente CICERONE non dubita dell'immortalità  dell’anima, giacché è la natura stessa che ha posto in noi questa convinzione, tanto è vero che tutti si preoccupano di quello che sarà dopo  la morte.!8   Questo è per Cicerone il più valido argomento a favore dell’immortalità, anche se non esita a riprendere, di rincalzo, le tradizionali  prove di estrazione platonica.! L'anima è ciò che ci congiunge al divino  ed è quasi il punto di tangenza che l’uomo ha col divino. Niente di quello che sta sulla terra può spiegare l'origine dell’ani-  ma, perché in essa non c’è nulla che sia misto o composto, nulla che  si possa considerare derivato o formato dalla terra, nulla che abbia la  natura dell’acqua, dell’aria o del fuoco. In effetti, nella composizio-  ne di questi elementi, non rientra nulla che abbia la proprietà della  memoria, dell’intelligenza, del pensiero, che possa ritenere il passato, prevedere il futuro, abbracciare il presente: questi sono attributi  esclusivamente divini e non si potrà mai trovare per loro altra provenienza che non sia la divinità. L'anima, insomma, ha un’essenza e una  natura del tutto speciali, e ben distinte da quelle degli altri elementi  comuni e a noi noti. Pertanto, qualunque sia la natura di quell’entità  che sente, che conosce, che vive, che agisce, essa deve essere necessa-  riamente celeste e divina, e di conseguenza eterna. E la divinità stessa,  quale noi ce la rappresentiamo, non può essere concepita che come  uno spirito indipendente, libero, e privo di ogni elemento corruttibile:  uno spirito che tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta dotato di  eterno movimento. Di questa specie e di questa medesima natura è  l’anima umana.?    Naturalmente, anche a proposito del problema della natura dell’a-  nima si notano le stesse incertezze e le stesse oscillazioni che abbiamo  notato a proposito del problema della natura del divino. E la radice di  queste incertezze è la medesima: la natura dell’anima è filosoficamente  determinabile solo in funzione della categoria del soprasensibile. Altrimenti si cade inesorabilmente nel materialismo.   E, infatti, poco prima del passo letto, Cicerone scrive:    E certo, se la divinità è aria o fuoco, come lei è fatta l’anima  dell’uomo: quella sostanza celeste non ha in sé né terra né liquido, e ! Cfr. Tusc. disput.] questi due elementi sono egualmente assenti dall'anima umana. Se poi  esiste una quinta essenza, quella introdotta da Aristotele, essa rientra  sia nella divinità sia nell’anima.?!    Ma aria, fuoco e la stessa quinta essenza sono, appunto, sempre e  solo materia. La parte della filosofia che di gran lunga più  interessa Cicerone è l’etica. E non è  quindi senza ragione che le sue due opere più vive siano quelle Suz  doveri e Sul fine dei beni e dei mali. Più che mai è vero per Cicerone che non la aristotelica pura attività  contemplativa, ma la attività pratica e sociale è regina. Ecco un passo  molto eloquente. Ritengo siano più conformi alla natura quei doveri che promanano  dal sentimento sociale, che non quelli che promanano dalla sapienza,  e questo può essere affermato dal seguente argomento, che, se a un  uomo sapiente toccasse una condizione di vita tale che, affluendo a lui  le ricchezze più varie, egli potesse dedicarsi in piena tranquillità allo  studio e alla contemplazione di tutte quelle cose che sono degne di  essere conosciute, tuttavia, se la solitudine fosse così grande che non  potesse vedere nessun uomo, egli preferirebbe morire. Infatti,  la conoscenza e la contemplazione (della natura) sarebbero in certo modo manchevoli e imperfette, se non dovesse seguir loro alcuna  attività concreta; e questa attività si manifesta specialmente nell’assicurare l’utilità degli uomini; riguarda, dunque, la società del genere  umano; perciò questa deve essere anteposta alla scienza. Ma, anche in questo ambito specifico, si cercano invano delle novità di fondo in Cicerone. Egli discute le etiche dei sistemi epicureo, stoico, accademico e peripatetico; respinge in blocco la morale epicurea e procede a eclettici  accomodamenti fra le altre. Da un lato, egli è portato ad ammirare soprattutto la morale stoica,  da un altro lato fa concessioni alla morale accademica e a quella peri-  patetica (che egli considera sostanzialmente identiche. Tusc. disput., De offictis, (nel passo omesso dopo i puntini Cicerone parla della  superiorità della sophia sulla phroresis, ma autocontraddicendosi in modo impressionante). Cicerone non può, infatti, accettare il principio stoico che solo il  sapiente è buono e tutti gli altri sono viziosi, perché — egli rileva — la  sapienza dello stoico sapiente è tale che alcun mortale ancora non ha  raggiunto, e perciò egli propone di considerare ciò che è nella con-  suetudine e nella vita comune, non quello che è nelle pure aspirazioni  e nei puri desideri. Anche per lui il principio fondamentale della morale è seguzre la  nostra natura individuale nel rispetto della generale natura umana. Questo richiamo alla natura dell’uomo, che è anima e corpo, permette a Cicerone di temperare la morale stoica e rivendicare anche  i diritti del corpo, giacché è necessario vivere biologicamente, ossia  soddisfare alle esigenze del corpo, proprio per poter ulteriormente  soddisfare alle esigenze della ragione. E, così, per questo aspetto, egli  si schiera dalla parte dei Peripatetici, come già Panezio e Posidonio  avevano in parte fatto. Ma poi torna agli Stoici nel riportare la virtù interamente alla ragione, dissentendo dalla tipica concezione aristotelica della virtù etica  come via di mezzo fra opposte passioni. E come gli Stoici, egli ritiene la virtù autosufficiente e bastevole  per la vita felice. E sembra allearsi con gli Stoici anche nel concepire il  saggio come privo di passioni e imperturbabile.   Infine, anche le rivendicazioni dell’umana libertà nell’opera Sul  Fato vanno ben poco oltre la pura affermazione di una libertà intuitivamente colta: i moti volontari dell’anima non hanno cause esterne  ma dipendono da noi, nel senso che ne è causa la natura stessa della  nostra anima. Quando Cicerone dai prin-  cìpi scende all’analisi dei doveri intermedi (quelli che gli Stoici chiamano kathekonta), allora mette in evidenza tutta la sua intelligenza  e assennatezza pratica. Ma qui siamo, ormai, non più nel campo della filosofia in senso  stretto, ma piuttosto in quello della fenomenologia morale. D'altra parte è inevitabile che tutte le notazioni e i rilievi originali  che si ritrovano in Cicerone nell’ambito delle analisi morali non va-  dano oltre il piano fenomenologico e restino teoreticamente in certo  senso un poco informi. De amicitia Cfr. De officiîs. Le ambigue risposte ai problemi ontologici e antropologici dell’eclettismo non gli permettono — proprio per ragioni strutturali — di  spingersi oltre. Come giustamente scrive Marchesi, Cicerone non da  nuove idee al mondo. Il suo mondo interiore è povero per la ragione che dà ricetto a tutte le voci.   Il suo contributo maggiore sta, dunque, nella fusione e divulgazio-  ne della cultura antica e, in questo ambito, egli è veramente una figura  essenziale nella storia spirituale dell'Occidente. Anche qui — è ancora  il Marchesi che scrive — si manifesta la forza divulgatrice e animatrice  dell’ingegno latino: perché nessun Greco sarebbe stato capace di diffondere, come ha fatto CICERONE, il pensiero greco per il mondo. La figura di uomo dalle conoscenze enciclopediche di Varrone. Uomo di vaste conoscenze filosofiche come Cicerone, e anche VARRONE (si veda). Egli fu propriamente un enciclopedico: già i suoi con-  temporanei lo giudicarono il più colto dei Romani. Più che di una filosofia di Varrone si può parlare di implicanze  filosofiche della sua cultura generale. Contrariamente a Cicerone, che come abbiamo visto segue Filone  di Larissa, egli si schiera dalla parte di Antioco, e gli resta in larga  misura fedele.   La sua concezione dell’anima come pneuma e del divino come  anima del mondo sono in perfetta sintonia appunto con l’ecletti-smo stoicizzante antiocheo.   E le sue idee morali non presentano novità di rilievo.   La dottrina filosofica per cui egli è più noto consiste nella distin-  zione delle tre forme di teologia (una distinzione che ha radici molto  antiche:  la teologia favolosa o mitica dei poeti;  la teologia naturale propria dei filosofi; la teologia civile, che si esprime nelle credenze e nei culti delle  Città. Marchesi, Storia della filosofia latina, Milano. Per uno sta-  to della questione, una dettagliata analisi del pensiero filosofico di Cicerone e per  aggiornamenti bibliografici, si veda l’opera citata supra, che contiene la trattazione del nostro autore a cura di Gawlick e Gòrler. E nato a Rieti] VARRONE È fuori dubbio che Varrone ritenesse la seconda forma di teologia  come la più vera. Tuttavia, Boyancé rileva quanto segue: «da tempo alcuni filosofi  si sforzavano di dare un posto alla teologia dei poeti e delle Città. Si  trattava della tradizione storica dei Greci e di Roma e Varrone aveva  un rispetto tutto romano di questa tradizione. L’erudito, in lui, rispettoso in particolare della storia delle parole, credeva di poter fondare la verità dei filosofi. Tutto ciò non avveniva in Varrone senza  esitazioni, dubbi e scacchi, di cui aveva consapevolezza. Ma egli era  sostenuto dal fervore delle sue convinzioni e dalla vastità delle sue  conoscenze. Boyancé, Les implications philosophiques des recherches de Varron sur la re-  ligion bumaine, in «Atti del Congresso Internazionale degli Studi Varroniani», Rieti. Cfr. Schedario, s.0   Giovanni Reale. Reale. Keywords: Crotone, Velia, Crotonensi, la scuola di Crotone, la scuola di Velia, I veliani, Parmenide, Girgentu – filosofia siciliana – magna Grecia non e Sicilia --. I confine della magna Grecia – filosofia italica, filosofia italiana – la filosofia nella peninsula italiana in eta anticha – filosofia Latina, filosofia romana. Catalogo di Nome di Filosofi Italici, il poema di Parmenide, il poema di Girgentu, il poema di Velia, la porta rossa di Velia, Zenone di Velia, Filolao di Taranto, Gorgia di Lentini, Archita di Taranto, studi degl’antichi italici da I romani, Etruria e Magna Grecia, le radice etrusche della filosofia romana, fisiologia, teoria dela natura, uomo, la moralia, la colloquenza o dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Reale” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Reghini: la ragione conversazionale -- numero tri-angolare, numero qua-drato, numero pi-ramidale -- l’implicatura del numero sacro crotonese, e il simbolismo duo-decimale del fascio littorio etrusco – la scuola di Firenze -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “It’s difficult to call Reghini a philosopher; yes, he was interested in Pythagoras – but to what extent can, in spite of Russell, number GROUND a whole philosophy?” Studia a Pisa. Insegna a Roma. Promotore della setta di Crotone, è affiliato a vari gruppi dell'esoterismo italiano. Entra nella società teo-sofica e ne fonda la sezione romana. Fonda a Palermo la biblioteca di teo-sofia filo-sofica. È iniziato a Memphis di Palermo, rito massonico di supposta origine egizia. Entra a Firenze nella loggia Lucifero, dipendente dal Grande Oriente. Adere al martinismo papusiano, diretto da SACCHI, verso le carenze della cui maestranza e pubblicistica apporta una demolizione magistrale. È chiamato d’ARMENTANO, che lo avvia allo studio della scuola di Crotone. Entra nel supremo consiglio universale del rito filosofico italiano, dal quale però si dimise, non havendo infatti un'alta opinione dello stato della massoneria in Italia. Insignito del XXXIII massimo grado del rito scozzese antico e accettato, entra a far parte come membro effettivo del supremo consiglio, di cui è cancelliere e segretario.  Gl’anni della grande guerra vedeno discepoli e maestri della schola italica pitagorica partire volontari per il fronte. Non rimase inerte innanzi al sorgere dell’istanze interventiste. Partecipa attivamente alla manifestazione romana del maggio, culminata in Campidoglio, tesa ad ottenere la dichiarazione di guerra. Accolto nell'accademia militare di Torino come allievo ufficiale di Genio, parte volontario per il fronte, ottenendo sul campo il grado di capitano di Genio. Lui ed il suo maestro ARMENTANO creano a Roma l'associazione pitagorica, che riprende le fila di precedenti esperienze e si richiama operativamente al sodalizio pitagorico. Fonda e anima varie riviste, con interventi sagaci e ricchi di dottrina. Scrive sul papiniano “Leonardo”, dando vita ad “Atanór, Ignis, e UR, con COLAZZA,  EVOLA (si veda) come direttore, PARISE, ed ONOFRI. Contrasti d'idee e caratteriali prevalser nel rapporto di collaborazione fra lui ed EVOLA, provoca la scelta evoliana di allontanamento di questi, assieme a PARISE, dalla rivista “UR” -- rivista sórta a esprimere al pubblico della cultura l'intento dell'occulto Gruppo di Ur -- dove il maestro fiorentino pubblica con l'eteronimo di ‘Pietro Negri’. E se ne ha anche strascichi giudiziari. Infatti EVOLA tenta di farlo incriminare per affiliazione massonica -- affiliazione che costituiva reato dopo l'imposizione di scioglimento dell’associazioni segrete decretata dal regime fascista. Ma il potere giudiziario opta infine per un accordo tra i due onde evitare uno scandalo. Per via del condizionamento repressivo fascista volto all'emarginazione di tanti esponenti dell'esoterismo italiano – ARMENTANO parte per il Brasile --, ormai isolato si ritira dalle attività pubbliche e a Budrio si dedica all'insegnamento nel circolo quirico filopanti, alla meditazione in chiave pitagorica delle scienze matematiche. Ottenne riconoscimenti  dei lincei e dall'accademia per la sua opera sulla restituzione della geo-metria pitagorica. Il Crepuscolo dei Filosofi regalato dal suo autore, Papini all’amico Arturo al suo ingresso nella loggia fiorentina ‘Lucifero.” Nel fronte-spizio una dedica ad inchiostro, scolorito dal tempo, ‘Al fratello R. il suo PAPINI’ in R., pitagorico, su il manifesto  Rito filosofico italiano, Massa, “Pagine esoteriche” (Finestra, Trento). In questa qualità firma il decreto del suo scioglimento (riprodotto in Sessa, I sovrani grandi commendatori e storia del supremo consiglio d'Italia del rito scozzese antico ed accettato, Palazzo Giustiniani (Bastogi, Foggia), in seguito all'approvazione alla camera dei deputati del progetto di legge sulla disciplina delle associazioni, presentato da MUSSOLINI, mirante allo scioglimento della massoneria. Iacovella, "Il barone e il pitagorico”, Vie della Tradizione, Cfr. la recensione fatta ne da Guénon. Altri saggi: ““Parola sacra e parola di passo dei gradi”; “Il mistero massonico” (Atanor, Roma); “Geo-metria pitagorica” (Basilisco, Genova); “Il numero sacro nella tradizione pitagorica”; “Il numero sacro e la geo-metria pitagorica”;  Il fascio littorio, ovvero il simbolismo duo-decimale”; Il fascio etrusco” (Basilisco, Genova); “Il numero sacro nella tradizione crotonese” (Ignis, Roma); “Del numero”; Prologo Associazione culturale Ignis, Dell'equazione indeterminata di secondo grado con due incognite” (Archè/pizeta); “Della soluzione dell'equazione di tipo Pell x2-Dy2=B e del loro numero” (Archè/pizeta); “Il numero tri-angolare, il numero qua-drato, il numero pi-ramidale  a base tri-angolare, il numero piramidale a base qua-drata” (Archè/pizeta); “Dizionario filologico” (Associazione culturale Ignis"), Cagliostro, ("Associazione culturale Ignis"), “Considerazioni sul rituale dell'apprendista libero muratore” (Phoenix, Genova); “Paganesimo, scuola di Crotone, Massoneria” (Mantinea, Furnari, Messina); “Per la restituzione della massoneria crotonese italica (Raffaelli, Rimini); “La tradizione crotonese massonica” (Melita, Genova);  “Trascendenza di spazio e tempo”, Mondo Occulto (Napoli, ASEQ). Cura “De occulta philosophia” di AGRIPPA (Fidi, Milano);  I Dioscuri, Genova; La Sapienza pagana e crotonese (La Cittadella.  I Libri del Graal. Geminello Alvi, R., il massone pitagorico che ama la guerra, Corriere della Sera; Paradisi, Il pitagorico che sogna l’impero, L’Indipendente, Luca, "Un intellettuale neo-pitagorico tra massoneria e fascismo" (Atanòr, Roma); Parise, "Nota su R.", in calce a “Considerazioni sul rituale dell'apprendista libero muratore” (Phoenix, Genova); Sestito, “Il figlio del sole” (Ancona, Associazione Culturale Ignis); Via romana agli Dei Amedeo Rocco ARMENTANO, Evola  Parise, Schiavone, a metà strada tra fascismo e massoneria, su archivio storico. Centro Giorgi Scuola Normale Superiore di Pisa, Breve biografia su mathematica. Boni, Omaggio su rito simbolico; Un pitagorico dei nostri tempi; Bizzi, La Tradizione occidentale. Grandi massoni. Illustre matematico e anti-fascista -- grande oriente. Pitagorico, su ilmanifesto.  Derivo l’espressione di «corrente tradizionalista romana» dal po¬   deroso (e ponderoso) lavoro di P. DI VONA, Evola e Guénon. Tradizione e civiltà, Napoli, in cui, nel VI cap., intitolato appunto Il tradizionalismo romano, l’A. studia la «corrente romana del  tradizionalismo, ad opera di R., Evola e GIORGIO. È evidente  che col termine «corrente» noi non intendiamo riferirci (se non in singoli casi, che ben preciseremo) ad una linea di pensiero omogenea, bene  organizzata in un gruppo unitario e compatto dalle caratteristiche comuni, ideologicamente e politicamente parlando, ma ad una tendenza  che potè as sumere aspetti e sfaccettature diverse, come proprio i casi di  R., Evola e GIORGIO (e non sono certo gli unici) sono a dimostrare.] zioni e che non mancherà di ulteriori sviluppi.   In questa sede sarà sufficiente fare rapido riferimento a quell’epoca gravida di grandi e decisive trasformazioni che fu il Rinascimento italiano. È soprattutto nel corso del XV secolo che tradizioni oc¬  culte, sopravissute per secoli nel più grande segreto,  paiono ricevere nuova linfa e l’impulso ad una nuova manifestazione dal contatto con personalità dell’Oriente europeo di altissima rilevanza intellettuale,  come quella di PLETONE, il grande  rivitalizzatore della filosofia platonica negli ultimi  anni dell’Impero d’Oriente e fondatore di un cenacolo esoterico a Mistra, la medievale erede dell’anti¬  ca Sparta, all’interno del quale, oltre a conservare  testi dell’antichità pagana (come le opere dell’impe¬  ratore Giuliano, che vi venivano trascritte), si celebravano veri e propri riti e si elevavano inni in onore  degli dèi olimpici.  La figura e la funzione di PLETONE sono ancora troppo poco note in generale e, in  Italia, non ancora studiate. In genere, ci si limi- [Cfr. ad esempio: R. DEL PONTE, Sulla continuità della tradizio¬  ne sacrale romana, Arthos;  vedi anche: SIMMACO, Relaziones sull’altare della Vittoria, con un’introduzione di R. del Ponte su Simmaco e isuoi tempi. Edi¬  zioni del Basilisco, Genova] Si tenga conto che nel sud del Peloponneso sono attestati, a livello  popolare, culti nei confronti degli dèi classici. In lingua italiana mancano ancora del tutto studi approfonditi.] ta a citare, a proposito di lui, la sua partecipazione  al Concilio di Firenze e l’istituzione dell’Accademia  Platonica Fiorentina, che ebbe sede nella villa di Careggi (o delle Cariti, o Muse), concepita da Cosimo il Vecchio e realizzata da Lorenzo il Magnificosu suggestione del Pletone. Ma gli effetti dovettero  essere ancora più interessanti e gravidi di conseguenze, se si considerino i legami, ad esempio, PLETONE e MALATESTA. Signore di Rimini: colui che ne sottrarrà il cadavere agl’Ottomani, i quali avevano occupato Mistra, onde deporlo pietosamente in  un’arca marmorea del suo famoso Tempio Malatestiano. Lo stesso Malatesta dovette pure essere in  rapporto con la ben nota Accademia Romana di  Pomponio Leto, propugnatore, scrive Pastor, del romanesimo nazionale antico. Il capo [Ci si dovrà pertanto limitare a rimandare a: KIESZKOWSKI, Studi  sul platonismo del Rinascimento in Italia,  Sansoni, Firenze; FENILI, Bisanzio e la corrente tradizionale  del Rinascimento, in Vie della Tradizione, (ci viene comunicato ora, che a cura dello stesso P. Fenili è in corso di  stampa un’antologia di brani di Pletone, dal titolo Paganitas, lo  squarcio nelle tenebre, per Basala Editore di Roma). Di recente, ci è capitato di leggere in un’insolita pubblicazione, una rivistina satirica di sinistra, un reportage da Mistra singolarmente informato e documentato  su PLETONE e la sua scuola (cfr. .LOSARDO, La repubblica  dei Magi. Da Sparta alla Firenze, in Frigidaire. Per mezzo del Platina (definito da Pomponio pater sanctissi-  mus), 1 ’Accademia Romana intratteneva rapporti col Malatesta, il quale  dell’Accademia Romana, riporta il von Pastori  spregia la religione cristiana ed usciva in violenti discorsi contro i suoi seguaci venera il genio della città di Roma. Quale rappresentante  di queU’umanesimo, che gravitava verso il paganesimo, si schierarono ben presto attorno a Pomponio un certo numero di giovani, spiriti liberi dalle  idee e dai costumi mezzo pagani. Gli iniziati  consideravano la loro dotta società come un vero  collegio sacerdotale alla foggia antica, con alla testa un pontefice massimo, alla quale dignità fu  elevato Pomponio Leto. Si noti che sembra certa l’adesione alla cerchia del  Leto del principe Francesco Colonna, Signore di Palestrina, l’antica Praeneste, dai più ritenuto l’autore della celeberrima Hypnerotomachia Poliphili, un testo molto citato, ma molto poco letto e soprattutto compreso, dove, in ogni modo, una sapienza ermetica si sposa all’esaltazione, non tanto filosofica. E notoriamente nemico dei papi e ammiratore del movimento pagano  di Mistra (cfr. F. Masai, Pléthon et le platonisme de Mistra, Paris] L’opera del Masai è a tutt’oggi la più completa esistente  sulla dottrina e la figura di PLETONE). Si noti che Platina e allievo a Firenze d’Argiropulo, discepolo di Pletone, e che un  altro antico discepolo, Bessarione, si prodigò per la liberazione da Castel Sant’Angelo dei membri dell’ACCADEMIA ROMANA,  dopo che furono accusati dal papa Paolo II — non senza fondamento  — di paganesimo. 11 Masai si domanda se l’Accademia Romana non fosse in qualche modo una filiale di quella di  Mistra. PASTOR, Storia dei Papi, Roma] quanto mistica, del mondo della paganità romano¬  italica, culminante nella visione di Venere Genitrice. Se si rifletta al fatto che Francesco Colonna, realizzatore dell’imponente palazzo gentilizio eretto sulle rovine del tempio di  Fortuna Primigenia (ancora oggi ben identificabili  nelle strutture originali), vantava discendenza diretta dalla gens Julia e quindi da Venere, si potrà  allora intravedere come l’apporto vivificante della  corrente sapienziale reintrodotta in Italia da PLETONE si fosse incontrato col retaggio gentilizio  di una tradizione antichissima, gelosamente custodi¬  to nel silenzio dei secoli col tramite di alcune famiglie nobiliari italiane, in ispecie laziali, generosamente fruttificando: nel senso di spingere ad un rin¬  novamento tradizionale non solo l’Italia, ma persino, ad un certo momento, lo stesso papato, se avventi [Risulterà forse sorprendente apprendere come i Colonna possedessero ancora fino ai nostri giorni il feudo originale di Giulio Cesare, Boville (Frattocchie d’Albano). É visibile nel giardino Colonna al Quirinale  l’aitare antico dedicato al Vediove della gens Julia (notizie ricavate da:  P. COLONNA, I Colonna, Roma). Tolomeo 1 Colonna  ostentava il titolo di Romanorum consul excellentissimus e Julia stirpe  progenitus -- cfr.FEDELE, s.v. Colonna, Enciclopedia Italiana. Ha compiuto un’attenta analisi deWHypnerotomachia Poliphili (editio princeps, presso Manuzio) come opera di COLONNA, M. CALVESI, Il sogno di Polifilo prenestino, Roma. Si veda anche: OLIMPIA PELOSI, Il sogno di Polifilo: una quéte dell’umanesimo, ed. Palladio. Ambesi, in considerazione  della dimensione iniziatica dell’opera di COLONNA, la considera come un’anticipazione cifrata del movimento dei Rosacroce (/ Rosacroce, Milano). ne che poco mancò che salisse al soglio pontificio quel BASSARIONE che e discepolo  diretto di PLETONE (si veda) Pletone, da lui giudicato,  come scrisse in una lettera privata ai figli del maestro dopo la sua morte, il più grande dei Greci dopo Platone. Ma altri tempi tristi dovevano giungere, tempi in  cui sarebbe stato più prudente tacere, come dimostra il bagliore delle fiamme in Campo dei Fiori, il corpo, ma non  l’animo, di BRUNO (si veda)  rivivificatore generoso,  ma impaziente, di dottrine orfico-pitagoriche, che  trovavano analoga eco — frutto di una linfa non  mai del tutto estinta nell’Italia Meridionale — nella  poesia e nella prosa dell’irruente frate calabrese CAMPANELLA (si veda), lui pure oggetto di odiose  persecuzioni. Bisogna giungere sino all’unità d’Italia, parzialmente realizzatasi con la fine della millenaria usurpazione temporale dei papi, per trovare una  situazione mutata. A questo punto bisogna chiarire  una volta per tutte, con la maggiore evidenza, che  dal punto di vista del tradizionalismo romano l’unità d’Italia — indipendentemente dai modi con cui [Si dovrà ricordare che BESSARIONE (si veda) raccolse cum pietate nel suo  studio le opere e i manoscritti del maestro, in particolare alcuni frammenti apertamente pagani delle Leggi, dotandone poi la Biblioteca  Marciana da lui fondata, a Venezia.] potè in effetti verificarsi (modi spesso arbitrari e  prevaricatori della dignità e delle sacrosante autonomie di diverse popolazioni italiche) e dall’azione di  certe forze sospette (Carboneria, massoneria e sette  varie) che per i loro fini occulti poterono agevolarla  — era e rimane condizione imprescindibile e necessaria per ritornare alla realtà geopolitica dell’Italia au-  gustea (e dantesca): quindi per propiziare il rimanifestarsi nella Saturnia tellus di quelle forze divine  che ab origine a quella realtà geografica — consacrata dalla volontà degli dèi indigeti — sono legate.   È un dato che si dovrà tenere ben presente, per  meglio intendere certi fatti che avremo modo di  esporre in seguito.  Intanto è nell’aria qualcosa di nuovo e antico insieme, che verrà avvertito dalle anime più sensibili.  Fra queste, il grande PASCOLI (si veda)i, con  un equilibrio ed una compostezza veramente classici, valendosi di una sensibilità non inferiore a quella  con cui in quegli stessi anni conduceva l’esegesi di  certi lati occulti della dantesca Commedia, con il seguente sonetto (e col corrispondente testo in esametri latini, da noi non riprodotto) celebrava in una  semplice aula scolastica la solennità. L’aratro è fermo: il toro d’arar sazio,  leva il fumido muso ad una branca  d’olmo; la vacca mugge a lungo, stanca,  e n’echeggia il frondifero Palazio. Una mano sull’asta, una sull’anca  del toro, l’arator guarda lo spazio:  sotto lui, verde acquitrinoso il Lazio;  là, sul monte, una lunga breccia bianca. È Alba. Passa l’Albula tranquilla,   sì che ognun ode un picchio che percuote   nell’Argileto l’acero sonoro.  Sopra il Tarpeio un bosco al sole brilla,  come un incendio. Scende a larghe ruote  l’aquila nera in un polverio d’oro.  É un fatto nuovo  di ordine archeologico il punto di riferimento importante ed essenziale per il secolo che sta per aprirsi: la scoperta nel foro da parte da BONI (si veda) (un nome che non dovremo scordare) del  cippo arcaico sotto il cosiddetto Lapis Niger, in cui l’iscrizione in caratteri antichi del termine RECHI ( = regi) attesta documentariamente l’effettiva esistenza in Roma della monarchia e, con  quanto ne consegue, la sostanziale fondatezza della  tradizione annalistica romana, trasmessa nel corso  di innumerevoli generazioni, dai primi Annales Maximi dei pontefici sino a LIVIO (si veda) e, al termine del-  [PASCOLI (si veda), Antico sempre nuovo. Scritti vari di argomento  latino, Zanichelli, Bologna. Il lettore esperto potrà notare  come in pochi versi il poeta abbia saputo sapientemente concentrare  particolari nomi evocativi di determinate realtà primordiali dell’Urbe.] l’Impero d’Occidente, alle ultime gentes sacerdotali  ed a quegli estremi devoti raccoglitori e trasmettitori  della sapienza delle origini, come poterono essere un  Macrobio ed un Marziano Capella nel V secolo.   È come se, fisicamente, una parte di tradizione romana si esponesse improvvisamente alla luce del sole a smentire l’incredulità e l’ipercriticismo della  scuola tedesca, che, in nome di un presunto realismo  scientifico, aveva respinto in blocco le più antiche  memorie patrie, e soprattutto dei suoi squallidi seguaci italiani, come quell’Ettore Pais che nella sua  Storia di Roma (ristampata innumerevoli volte fino  in piena epoca fascista) aveva negato ogni tradizione  da una parte, costruendo dall’altra fantastici castelli  in aria, senza alcuna base, né storica, né filologica.   Risulta che BONI (si veda) fu in corrispondenza  con un altro principe romano, pioniere degli studi  islamici e deputato al parlamento nei banchi della  sinistra: Leone Caetani duca di Sermoneta, principe  di Teano, marito di una principessa Colonna.   Suo nonno, Michelangelo Caetani, era stato l’au¬  tore di un fortunato opuscolo di esegesi dantesca, dove si sosteneva l’identità d’ENEA col  dantesco messo del cielo che apre le porte della  Città di Dite con l’aurea verghetta degl’iniziati d’Eleusi: quello stesso che nel 1870, già vecchio e  quasi cieco, fu il latore a Vittorio Emanuele II dei Cfr. M[. CAETANI di SERMONETA, Tre chiose nella Divina  Commedia di Dante Alighieri, II ed., Lapi, Città di Castello] risultati del plebiscito che sanciva l’unione di Roma  all’Italia.   Proprio Leone Caetani sarebbe stato l’autorevole  tramite attraverso cui si sarebbero manifestate all’interno della Fratellanza Terapeutica di Myriam  (operativa proprio negli anni della scoperta del Lapis Niger) fondata da Giuliano Kremmerz (cioè Ciro  Formisano di Portici) — che la definì talvolta come Schola Italica — determinate influenze derivanti  dall’antica tradizione romano-italica se, come scrive l’esoterista DAFFI (si veda), alias il conte Libero Ricciardelli -- (è lui il misterioso Ottaviano, altro  riferimento alla gens Julia! --  autore nella rivista Commentarium diretta dal Kremmerz di un  articolo sul dio Pan e di una lettera di congedo dalla  redazione in cui egli riafferma in tali termini la proti?) Sotto tale pseudonimo si nasconde persona veramente autorevole, autorevolissimo collega di ricerche ermetiche di Kremmerz tanto  da potere essere ritenuto portavoce di sede superiore Don Leone CAETANI (si veda). Duca di Sermoneta, Principe di Teano (M. DAFFI, Giuliano  Kremmerz e la Fr+Tr+ di Myriam, a cura di G.M.G., Alkaest, Genova). Gli scritti firmati d’Ottaviano in Commentarium sono tre: La divinazionepantéa, Per BORRI (si veda), Gnosticismo e iniziazione. In quest’ultimo scritto, consistente in una lettera di congedo come collaboratore della rivista, si rimanda all’opera di un altro personaggio che, come Ottaviano, dove  riconnettersi allo stesso ambiente iniziatico gravitante alle spalle dell’organismo kremmerziano: l’avvocato Giustiniano Lebano, autore di un  curioso libretto intitolato Dell’Inferno: Cristo vi discese colla sola anima o anche col corpo? (Torre Annunziata), in cui nuovamente si  accenna al RAMOSCELLO DORATO del segreto, ossia la voce mistica di convenzione che ENEA presenta a Proscrpina. ] pria fede pagana:  non sono che pagano e ammiratore del paganesimo e divido il mondo in volgo e sapienti volgo, che i miei antenati simboleggiavano nel cane e lo pingevano alla catena sul vestibolo del Domus familiæ con la nota scritta: Cave canem; cane perché latra, addenta e lacera. Comincia l’attività pubblicistica ed iniziatica di R.. La sua importanza fra i  più autorevoli esponenti europei della tradizione, e  del filone romano-italico in particolare, risiede certamente non tanto nel tentativo, vano e fatalmente  destinato all’insuccesso, per quanto disinteressato,  di rivitalizzare la massoneria al suo interno,  quanto nell’attenzione da lui portata allo studio ed  [OTTAVIANO, Gnosticismo e iniziazione. Tentativo che si concretizzò soprattutto con la creazione del Rito  Filosofico Italiano, fondato da R., FROSINI (si veda) ed  altri (vi e accolto come membro onorario Crowley), ma dall’esistenza effimera, dal momento che si  fuse con la massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato di Piazza  del Gesù. R. segue le sorti e le direttive di Piazza del Gesù di  Raoul Palermi, molto favorevole nei confronti del fascismo, sino ai  provvedimenti contro le società segrete. PAPINI (si veda)  dedica alcune pagine nel contempo pungenti e commosse a R. di cui e amico negli, cosi concludendo: R. vive, povero e solitario, una vita di pensiero e di sogno: anch’egli difese e incarnò, a suo modo, il primato dello spirituale. Nessuno  di quelli che lo conobbero potrà dimenticarlo» (Passato remoto, ed. L’Arco, Firenze] alla riscoperta della tradizione classica e romana,  che gli era stato dato in compito di rivitalizzare «in  segreto», così come egli stesso si esprime in una lettera inviata ad AGABITI (si veda) e pubblicata nell’Ultra: sai bene come il nostro lavoro, puramente metafisico e quindi naturalmente esoterico, sia rimasto  sempre e volontariamente segreto.   In tal modo R. ben si inseriva nel filone  della corrente tradizionalista romana, in quella sua  variante che si può legittimamente definire orfico-pitagorica), col contributo di numerosi scritti,  soprattutto sulla numerologia pitagorica, sparsi fra  molti articoli e opere impegnative, come Per la resti¬  tuzione della geometria pitagorica; rist.),  I numeri sacri della tradizione pitagorica massonica, Aritmosofia R., La tradizione itala, Ultra. Allo stesso modo, di tradizione ermetica egizio-ellenistica si  potrebbe parlare per il filone essenzialmente seguito dalla corrente  kremmerziana. È chiaro come nessuna di queste correnti possa preten¬  dere di identificarsi con il filone centrale deWa tradizione romana (come  vorrebbero, ad esempio, certi continuatori del Reghini dei nostri giorni),  rappresentandone, semmai, corollari concentrici ed espressioni validissime, ma essenzialmente periferiche. Il nucleo della tradizione romana  è altra cosa: può includere tutto ciò, ma al tempo stesso ne è al di sopra  nella sua essenza originaria. Per cercare di comprendere la cosa, si dovrà  riflettere sul simbolismo e sulla funzione del dio Giano, non per caso  divinità unica e propria della sacra terra laziale.] ed il tuttora inedito Dei numeri pitagorici. Con questa attività egli avrebbe perseguito la missione affidatagli da un’antica scuola iniziatica di tra¬  dizione pitagorica della Magna Grecia allorché,  ancora giovane e studente a Pisa, fu avvicinato da  colui che sarebbe divenuto il suo maestro spirituale: ARMENTANO (si veda), ufficiale  dell’esercito all’epoca in cui lo conosce R.   Ad ARMENTANO (si veda) appartene [Per il quarantesimo anniversario della scomparsa del  R. è stata edita una raccolta di suoi scritti vari: Paganesimo, pitagorismo, massoneria, ed. Mantinea, Fumari, cur. Associazione Pitagorica, un gruppo costituitosi con un poco iniziatico atto notarile (sic), ma che vanta diretta discendenza dal gruppo di R.. La raccolta è stata purtroppo eseguita  con dilettantismo, senza criteri ed inquadramenti storico-filologici e gli  scritti reghiniani (uno addirittura incompleto) non seguono nè un ordine logico, nè cronologico. Il saggio sull’nterdizione pitagorica delle fave si potrà leggere ora completo in Arthos. DIOGENE LAERZIO ricorda come il pensiero di Pitagora di CROTONE in Calabria avesse trovato accoglienza presso gl’itali della Magna Grecia. Come dice Alcidamante tutti onorano i sapienti. Così i Pari onorano Archiloco, che pur era blasfemo, e i Chii Omero, che era d’altra città e gl’itali Pitagora -- Die fragmente der Vorsokratiker, a cura di Diels-Kranz; Bari. Per alcune notizie su Armentano (ed una sua foto), cfr. SESTITO, A.R.A., il Maestro, in Ygieia, bollettino interno dell’Associazione Pitagorica. Di Armentano si vedano le Massime di scienza iniziatica, commentate dal Reghini in vari numeri d’Atanòr ed Ignis. Negli anni Trenta Armentano lasciò l’Italia per il Brasile, dove morì. È sintomatico come anche Ottaviano  in quel periodo si sarebbe allontanato dall’Italia stanziandosi a Vancouver in Canada] quella misteriosa «torre in mezzo al mare. Una vedetta diroccata, su di uno scoglio deserto dove,  con gran dispiacere di Sibilla Aleramo, il giovane  protagonista del romanzo Amo, dunque sono (Mondadori, Milano), Luciano {alias PARISE (si veda), avrebbe dovuto diventare mago in compagnia  di un amico non nominato, vale a dire proprio R.   Fu proprio nella torre di Scalea, in Calabria, che  R. rivide il testo della traduzione italiana deirOccw//flr Phylosophia di Agrippa,  a cui premise un ampio saggio di quasi duecento pagine su E.C. Agrippa e la sua magia. Vi scriveva, fra  l’altro. E perciò, in noi, il senso della romanità si fonde  con quello aristocratico e iniziatico nel renderci fieramente avversi a certe alleanze, acquiescenze e  deviazioni. Forse si avvicina il tempo in cui sarà  possibile di rimettere un po’ a posto le cose, e noi  speriamo che ci venga consentito, una qualche volta, di riportare alla luce qualche segno dell’esoterismo romano. Quanto alla permanenza di una  “tradizione romana”, si vorrà ammettere che se  una tradizione iniziatica romana pagana ha potu¬  to perpetuarsi, non può averlo fatto che nel più assoluto mistero. Non è quindi il caso di interloquire  con affermazioni e negazioni» SALERAMO, Amo, dunque sono, cit., p. 15. Cfr. Luciano, Luciano, e tu vuoi essere mago! M’hai detto d’aver già operato  fantastiche cose, fantastiche a narrarsi, ma realmente accadute».  R., E.C. Agrippa e la sua magia, in: AGRIPPA,  Il 1914 è un anno molto importante, sotto diversi  aspetti, per i tentativi di rivivificazione della tradizione itala. Nella Salamandra, in un articolo dal titolo fortunato, poi ripreso da Evola, Imperialismo pagano, il R. coglie occasione, scagliandosi contro il parlamentarismo ed il suffragio universale che favoriva  cattolici e socialisti, di riaffermare l’unità e l’immutabilità della tradizione pagana in Italia, che, sempre  ricollegata nella sua visione al pitagorismo, si sarebbe trasmessa attraverso le figure di alcuni grandi iniziati sino ai nostri giorni. Dalle pagine d’Ultra, precisa in un  importante articolo dottrinario, che LA LINGUA LATINA e la razza romana non sono le cause della  superiorità metafisica, essa appare connaturata al  luogo, al suolo, all’aria stessa. Roma, Roma caput  mundi, la città eterna, si manifesta anche storicamente come una di queste regioni magnetiche della terra. Se noi parleremo del mito aureo e solare in Egitto, Caldea e Grecia prima di occuparci  della sapienza romana, non è perché questa derivi  da quella, ché il meno non può dare il più.    Lm Filosofia occulta o la Magia, voi. I, rist. Mediterranee, Roma. L’articolo fu poi ripubblicato in Atanòr, oggi nella ristampa anastatica a cura dell’omonima casa editrice di Roma. R., Del simbolismo e della filologia in rapporto alla  sapienza metafisica, in Ultra] Intanto, nella notte del solstizio d’inverno, si era verificato un insolito episodio, gravido  di future conseguenze: in seguito a misteriose indicazioni, nei pressi di un antico sepolcro sull’Appia Antica era stato rinvenuto, a cura di Ekatlos,  accuratamente celato e protetto da un involucro impermeabile, uno scettro regale di arcaica fattura e i  segni di un rituale.  Ed il rito — riporta Ekatlos — e celebrato per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta. E noi  sentimmo, meravigliati, accorrervi forze di guerra  e forze di vittoria; e vedemmo balenar nella sua luce le figure vetuste ed auguste degl’eroi della  razza nostra romana; e un segno che non può fallire e sigillo per il ponte di salda pietra che uo¬  mini sconosciuti costruivano per essi nel silenzio  profondo della notte, giorno per giorno. Il significato, le vere intenzioni e le origini di tali  [Lasciamo ogni responsabilità circa l’identificazione d’Ekatlos con il principe Leone Caetani, già da noi incontrato, all’anonimo  autore -- si tratta, peraltro, certamente di Mutti, fanatico integralista  islamico -- di una postilla alla parziale traduzione francese della rivista  evoliana «Krur» (TRANSILVANUS, A propos de l’article d’Ekatlos, seguito da una Note sur Leone Caetani, in: J. EVOLA, Tous les  écrits de «Ur» et «Krur»  [Krur], Arché, Milano). Ancor più lasciamo all’autore di tali tristi note (in cui ancora una  volta si dimostra come tra fanatismo religioso e via iniziatica esista un  divario invalicabile) la pesante responsabilità delle poco ragguardevoli  espressioni usate nei confronti del benemerito principe romano. EKATLOS, La Grande Orma: la scena e le quinte, in Krur,  in: GRUPPO di UR, Introduzione alla Magia, Roma] riti pongono un problema», osserva VONA (si veda),  ma il loro fine immediato fu esplicito, e come tale  è stato dichiarato. Esso fu compiuto nel dovuto  modo da un gruppo che si propose di dirigere verso  la vittoria italiana la Grande Guerra.   Ma l’episodio ha un seguito. Il giorno in cui cade la festa romana del Tubilustrium,  o consacrazione delle trombe di guerra e fondato  a Milano, nella famosa riunione di Piazza Sansepolcro, il primo FASCIO di Combattimento, piu tardi denominato Partito Nazionale Fascista. Fra gli astanti  vi fu chi, emanazione dello stesso gruppo che aveva  riesumato l’antico rituale, preannuncio a Benito  Mussolini: «Voisarete Console d’Italia». E fu la stessa persona che, qualche mese dopo la Marcia su Roma, vestita di rosso, offrì al capo  del governo un’arcaica ascia etrusca, con «le dodici  verghe di betulla secondo la prescrizione rituale legate con strisce di cuoio rosso» Con tale atto dal sapore sacrale, come è evidente.  [VONA, Evola e Guénon.  EKATLOS. La notizia è riportata con altri  particolari nel «Piccolo» di Roma. Particolare curioso: la sera stessa del 23 maggio Mussolini  parti in aereo alla volta di Udine, onde potere inaugurare il giorno dopo, nell’anniversario dell ’entrata in guerra, il monumentale cimitero di Redipuglia, alla presenza del Duca d’Aosta. La sera, sulla via  del ritorno verso Roma, l’aereo fu costretto, da un inspiegabile guasto,  ad un atterraggio di fortuna nei pressi di Cerveteri, cioè l’antica etrusca  Cere, donde forse proveniva l’arcaico fascio.] le correnti più occulte portatrici della tradizione romana avrebbero voluto propiziare una restaurazione  in senso «pagano» del fascismo.   Altri episodi concomitanti concorrono a rafforzare questa supposizione. E rappresentata sul palatino la tragedia Rumori: Romae sacrae origines, col beneplacito e la  presenza plaudente di MUSSOLINI. La tragedia  -- o, meglio, alla latina, il carmen solutum -- risulta  opera di un certo Ignis (pseudonimo sotto cui si  celerebbe l’avvocato Musmeci Ferrari Bravo), che risulta godere di appoggi assai influenti, come quello di SOFFICI (si veda) Soffici, e  appare, specialmente in quel terzo carmen che fu recitato, più che una semplice rappresentazione scenica, un vero e proprio atto rituale: un rito di consacrazione, certamente denotante nell’autore, o nei  gruppi restati nell’ombra di cui egli era emanazione,  una conoscenza non solo filologica della tradizione  romana (si pensi che in intermezzi scenici vengono  cantati, al suono di flauti, i versi ianuli e iunonii dei  Fratres Arvales), ma anche di certi suoi lati occulti,  come lascia intendere il rito di incisione su lamine  auree dei nomi arcani deU’Urbe e l’esegesi, volutamente incompleta, dei significati del nome di Roma. Quest’azione, occulta e palese, sulle gerarchie fasciste affinché i simboli da esse evocate, come l’aquila o il fascio, non restassero puro orpello di facciata,  continuerà sino all’anno in cui Rumon verrà pubblicata, in splendida edizione uffi¬  ciale, dalla Libreria del Littorio, con i frontespizi ornati di caratteri arcaici romani, disegnati appositamente da BONI (si veda), lo scopritore del  Lapis Niger già da noi incontrato, il quale avrà il privilegio poco dopo, alla sua morte, di essere  inumato sul Palatino stesso Ancora noteremo come sintomatica l’uscita, della Apologia del paganesimo (Formiggini, Roma) di Giovanni Costa, futuro collaboratore  delle iniziative pubblicistiche di Evola.  Uscirono le due riviste di studi iniziatici, Atanòr ed Ignis, dirette da R., e in cui inizia una collaborazione Evola: affronteranno con un rigore ed una serietà  inconsuete, per l’eterogeneo ambiente spiritualista  dell’epoca, tematiche e discipline esoteriche di parti¬  colare interesse: vi comparvero, per la prima volta in  Italia, scritti di René Guénon, fra cui a puntate, prima ancora che in Francia, L'esoterismo di Dante. È  peraltro evidente come il contenuto di queste riviste  non avesse un valore puramente speculativo, come  dimostrano gli scritti di Luce suirO/7M5 magicum  (Gli specchi - Le erbe) negli ultimi due numeri di [E proprio BONI che, risalendo ai modelli d’origine, mise a punto il prototipo del fascio romano, oggi al Museo dell’Impero,  per il Regime Fascista: è quello che compare sulle monete da due lire di  quel periodo (cfr. V. BRACCO, L’archeologia del Regime, Volpe, Roma. Ignis, che preludono a quelli del successivo gruppo di Ur. Ma intanto l’auspicata svolta in senso pagano da parte del fascismo sperata dalla corrente  tradizionalista romana non solo stenta a verificarsi,  anzi è messa pericolosamente in forse dalle mene de¬  gli ambienti cattolici e clericali. Nell’Atanòr R. con parole di fuoco depreca alcune espressioni pronunciate da MUSSOLINI in occasione del natale di Roma. Il colle del Campidoglio, egli ha detto, dopo il  Golgota, è certamente da secoli il più sacro alle  genti civiir. In questo modo l’On. MUSSOLINI, invece di esaltare la romanità, perviene piuttosto ad  irriderla ed a vilipenderla. Noi ci rifiutiamo di  subordinare ad una collinetta asiatica il sacro colle  del Campidoglio. E, dopo il delitto Matteotti: ecco un clamoroso delitto politico viene a  sconvolgere la vita della nazione, ad agitare gl’animi. Investito da popolari e da ogni gradazione  di democratici, a MUSSOLINI non resterebbe che  battere la via dell’imperialismo ghibellino, se non  esistesse un partito che già lo sta esautorando tengano ben presente i nostri nemici che, nonostante la loro enorme potenza e tutte le loro prodezze, esiste ancor oggi, come è esistita in passato,  traendo le sue radici da quelle profondità interiori  che il ferro e il fuoco non tangono, la stessa catena  iniziatica pagana e pitagorica, inutilmente e seco¬  larmente perseguitata. L’ordine del giorno Bodrero e le successive leggi sulle società segrete tolgono ulteriore spazio all’attività pubblicistica del R., che peraltro confluisce nel gruppo di Ur, formalmente diretto da Julius Evola. A noi qui non interessa tanto esaminare il lavoro  di ricerca esoterico svolto dal Gruppo di Ur, cui partecipano, come è noto, personalità appartenenti  alle principali correnti esoteriche operanti in quegli  anni in Italia, dai pitagorici ai kremmerziani, dagli  steineriani (antroposofi) ai cattolici eterodossi come  il De Giorgio, quanto sottolineare come in quella sede dovesse essere stato, almeno in parte, ripreso il  programma di influenzare per via sottile le gerarchie  del fascismo, nel senso già voluto dal gruppo mani¬  festatosi con la testimonianza d’Ekatlos  (che, non lo si dimentichi, viene riportata proprio  nel terzo dei volumi che raccolgono le testimonianze  di tutto il gruppo — in apparenza slegata da esse —  successivamente apparse col titolo di Introduzione  alla Magia). In un inserto per i lettori comparso in Ur, Evola poteva scrivere: possiamo dire che una Grande Forza, oggi più che  mai, cerca un punto di sbocco in seno a quella bar¬  barie, che è la cosidetta civilizzazione contemporanea — e chi ci sostiene, collabora di fatto ad una  opera che trascende di certo ciascuna delle nostre  stesse persone particolari».   Del resto, molti anni più tardi, Evola stesso di¬  chiarerà piuttosto esplicitamente nella sua autobiografia spirituale che l’intento del Gruppo era stato  quello, oltre a «destare una forza superiore dr servire d’ausilio al lavoro individuale di ciascuno», di far  sì che «su quella specie di corpo psichico che si voleva creare, potesse innestarsi per evocazione, una vera  influenza dall’alto», sì che «non sarebbe stata esclusa la possibilità di esercitare, dietro le quinte, un’azione perfino sulle forze predominanti nell’ambiente generale. Un’indagine ben più approfondita, come si vede, meriterebbe di essere svolta sugli  evidenti tentativi di rivitalizzazione, all’interno del  Grupo di Ur, delle radici esoteriche e dei conte¬  nuti iniziatici della tradizione romana: a parte i contributi dello stesso Evola (che firmerà come «EA» e,  pare, anche come AGARDA e lAGLA), di cui  ricordiamo l’importante saggio Sul  sacro nella tradizione romana, ancora una volta  fondamentale resta l’apporto di R. (che firma  come PIETRO NEGRI: egli, nella relazione Sulla tradizione occidentale, sulla scorta di un’attenta  esegesi delle fonti antiche (soprattutto Macrobio) e  di personali acute intuizioni, nonché di probabili  «trasmissioni» iniziatiche, non esiterà ad indicare  nel mito di Saturno il luogo ove è racchiuso il senso e il massimo mistero iniziatico della tradizione  [EVOLA, Il cammino del cinabro, Milano] Un esame generale, storico-bibliografico, sul Gruppo di Ur è stato da me compiuto in lingua tedesca, come studio introduttivo alla versione tedesca del I volume di Introduzione alla Magia (Ansata Verlag,  Interlaken). Si tratta del notevole ampliamento, riveduto e corretto, di un mio precedente studio già apparso in «Arthos] romana, un’indicazione utilizzata e sviluppata ulteriormente nel nostro recente Dèi e miti italici.   Intanto, una serie di  articoli polemici sui nuovi rapporti tra fascismo e  chiesa cattolica, che Evola aveva pubblicato in Critica fascista di BOTTAI (si veda) e in Vita Nova d’ARPINATI (si veda), e la successiva comparsa di Imperialismo pagano, che quegli articoli  raccoglieva e sviluppava, riversarono proprio sul  Gruppo di Ur pesanti attacchi clericali, fra cui è interessante segnalare quello particolarmente violento  e ambiguo, del futuro papa Paolo VI, MONTINI, allora assistente centrale ecclesiastico della Federazione Universitari Cattolici Italiani, che aveva come organo culturale la rivista  Studium (redazione a Roma e a Brescia). Dalle  pagine di «Studium» il Montini accusava i maghi  riuniti attorno a Evola d’abuso di pensiero e di parola di aberrazioni retoriche, di rievocazioni fanatiche e di superstiziose magie. G.B.M., Filosofia: una nuova rivista, Studium. Oltre che del futuro Paolo VI (certamente  il più nefasto fra i papi), apparvero in Studium anche  gli attacchi del futuro ministro democristiano del dopoguerra Gonella {Un difensore del paganesimo; Il nuovo colpo di testa di un filosofo pagano), cui Evola replica — dopo averlo definito un tale il cui nome esprime felicemente che vesti gli si confacciano più che non quelle della  romana virilità — nell’Appendice Polemica di Imperialismo pagano. Contro Imperialismo pagano (le nostre citazioni sono tratte dalla  ristampa, presso Ar di Padova) si scomodò tuttoe l’ntourage  del giornalismo clericale, dall’Osservatore Romano a L’Avvenire, Imperialismo pagano fu l’ultimo deciso, inequivocabile e tragico appello da parte di esponenti della corrente tradizionalista romana, prima del triste  compromesso del Concordato, affinché il fascismo,  come si esprimeva Evola, «cominciasse ad assumere  la romanità integralmente e a permearne tutta la coscienza nazionale», così che il terreno fosse «pronto  per comprendere e realizzare ciò che, nella gerarchia  delle classi e degli esseri, sta più su: per comprendere  e realizzare il lato sacro, spirituale, iniziatico della tradizione. A questo scopo Evola non risparmia taglienti critiche alle gerarchie del  Regime. Il fascismo è sorto dal basso, da esigenze confuse  e da forze brute scatenate dalla guerra europea. Il  fascismo si è alimentato di compromessi, si è alimentato di retorica, si è alimentato di piccole ambizioni di piccole persone. L’organismo statale che  ha costituito è spesso incerto, maldestro, violento,  non libero, non scevro da equivoci. Di più: Evola prevede addirittura gli al Cittadino di Genova, nonché tutta la pubblicistica fascista fautrice  dell’intesa col Vaticano, d’Educazione fascista a Bibliografia fascista, sino alla stessa bottaiana Critica fascista che aveva ospitato i  primi articoli evoliani.] esiti e gli sviluppi della Seconda Guerra Mondiale. L’Inghilterra e l’America, focolari temibili dei  pericolo europeo, dovrebbero essere le prime ad  essere stroncate, ma non occorre di certo spendere  troppe parole per mostrare che esito avrebbe una  simiie avventura sulla base dell’attuale stato di fatto. Data la meccanizzazione della guerra moderna, le sue possibilità si compenetrano strettamente  con la potenza industriale ed economica delle  grandi nazioni. Era dunque necessario che il fascismo, che bene  o male ha messo su un corpo. Ma non ha ancora  un'anima, si rivolgesse senza esitazioni a  quella della Roma precristiana prima che fosse troppo tardi, sì da «eleggere l'Aquila e il fascio e non le  due chiavi e la mitria a simbolo della sua rivoluzione. Il nostro divino italiano può essere quello aristocratico dei  Romani, il divino dei patrizi, che si prega in piedi e  a fronte alta, e che si porta alla testa delle legioni  vittoriose — non il patrono dei miserabili e degli  afflitti che si implora ai piedi del crocifisso, nella  disfatta di tutto il proprio animo. Il governo di MUSSOLINI firma a nome del Re d’Italia, considerato dai  papi un «usurpatore», il cosiddetto Coneordato con  la Chiesa Cattolica e nasce il monstrum giuri- [Che il cosiddetto Concordato abbia sortito un effetto a dir poco  nefasto sulle sorti, non solo dello stesso fascismo (come le vicende stori-   dico della Citta del Vaticano. Veniva con ciò  tolta ogni speranza residua di azione all’interno degli’ambienti ufficiali, sia da parte di Evola che di R. e di altri autorevoli esponenti, restati per lo più  in ombra, del «tradizionalismo romano»: alcuni di  loro, come già si è accennato in nota, abbandonarono per sempre l’Italia per il Nuovo Continente nel  corso degli anni Trenta. Resta il programma minimo indicato ancora  d’Evola in Imperialismo pagano, secondo cui il fascismo avrebbe dovuto: promuovere studi di critica e di storia, non partigiana, ma fredda, chirurgica, sull’essenza del cristianesimo. Contemporaneamente dovrebbe  promuovere studi, ricerche, divulgazioni sopra il lato spirituale della paganità, sopra la sua visione  vera della vita] che successive ben presto dimostrarono, avvalorando i timori di R. e di Evola), ma della stessa Italia del dopoguerra, lo sperimentiamo ancora oggi sulla nostra pelle, dopo che un quarantennale dominio  clericale-borghese ha provveduto, quasi in ogni campo, ad addormentare la coscienza delle «masse» ed a stroncare, con un autentico terrorismo di stato, qualsiasi velleità di reazione delle minoranze coscienti  della necessità di mutare uno stato di cose ormai incancrenito.  MUSSOLINI non si e reso conto che prima di lui uomini non solo autoritari, ma dal potere assoluto — gl’Ottoni, gli Svevi, perfino  Carlo V ecc. — si erano dovuti pentire di ogni intesa, patto e transazione con la Santa Sede.] ogni intesa tra Santa Sede e Stato italiano  avrebbe significato unicamente il riconoscimento giuridico della validità [Chi avesse pensato che la scuola di mistica fascista, fondata significativamente poco dopo la conciliazione nell’ambito del  G.U.F. di Milano per opera di GIANI (si veda), avrebbe  svolto una funzione del genere, avrebbe dovuto ben  presto ricredersi amaramente. In realtà, il sentimento religioso dichiarato di quella che avrebbe voluto  costituire Vélite politico-intellettuale del fascismo si  configura con precisione come cattolico. Lo dichiara, in una maniera che non potrebbe essere più  esplicita, lo stesso fratello del duce, MUSSOLINI (A), in un discorso tenuto alla Scuola. La nostra esistenza deve essere inquadrata in una  marcia solida che sente la collaborazione della  gente generosa e audace, che obbedisce al comando e tiene gli occhi fissi in alto, perché ogni cosa  nostra, vicina o lontana, piccola o grande, contingente od eterna, nasce e finisce in Dio. E non parlo  qui del Dio generico che si chiama talvolta per  sminuirlo Infinito, Cosmo, Essenza, ma di Dio  nostro Signore, creatore del cielo e della terra, e  del suo Figliolo che un giorno premierà nei regni  ultraterreni le nostre poche virtù e perdonerà, speriamo, i molti difetti legati alle vicende della nostra esistenza terrena.] dei principii su cui si fonda l’ingerenza della Chiesa nelle questioni dello stato italiano (SERVENTI, Dal potere temporale alla repubblica  conciliare. Volpe, Roma. Cfr. Il Popolo d’Italia] Sulla scuola di mistica fascista, si veda: MARCHESINI, La scuola dei gerarchi,  Feltrinelli, Milano. E CARLINI (si veda), discutendo della  nuova mistica, ravvisa la nota più originale del fascismo proprio nel suo presupposto religioso, anzi  cristiano, anzi cattolico; perché il DIVINO di  MUSSOLINI vuol essere quello definito dai due dogmi  fondamentali della nostra religione: il dogma  trinitario e quello cristologico. Quel programma che abbiamo detto minimo  cerca Evola in parte di compiere con  l’organizzare il lavoro di alcuni suoi insigni collaboratori attorno al diorama filosofico, la pagina  speciale che, con uscita irregolare e alterna, quindicinale e mensile, cura all’interno del quotidiano cremonese di Farinacci, Il Regime Fascista. La tematica della tradizione romana, esaminata nei suo simboli, nei suoi  miti, nella sua forza spirituale, ritorna qui frequentemente negli scritti dello stesso Evola, di COSTA (si veda), di SCALIGERO (si veda) e di diversi collaboratori stranieri, come Dodsworth, appartenente alla famiglia reale britannica) e lo storico tedesco Altheim. Analoghe collaborazioni sono fornite da BRELICH (si veda), destinato a ricoprire degnamente l’impor- [CARLINI, Mistica fascista, Archivio di studi corporativi, Saggio sul pensiero filosofico e religoso del fascismo, Roma] tante cattedra, che e di PETTAZZONI (si veda)i, di Storia delle  Religioni a Roma, e da GIORGIO (si veda), già collaboratore di’Ur e di altre iniziative evoliane. Nel contesto della corrente da noi definita del tradizionalismo romano GIORGIO (si veda) occupa una posizione piuttosto anomala e tale che il  Reghini avrebbe visto con sospetto: egli infatti concepisce in Roma la sede eterna, geografica e storica,  ma soprattutto metafisica, in grado di unire in sé  stessa la religione pagana e il cristianesimo, tesi elaborata soprattutto ne La tradizione romana. D’altra parte, è lo stesso  De Giorgio a ribadire con sorprendente sicurezza la  persistenza del culto di Vesta in un misterioso cen¬  tro, nascosto e inaccessibile. Il fuoco di Vesta arde inaccessibilmente nel  Tempio nascosto ove nessuno sguardo profano sa-  [L’uscita alle stampe di questa edizione (presentata come Flamen, Milano) offre contorni alquanto misteriosi. In ogni caso, il manoscritto dell’opera sarebbe stato consegnato all’autore della nota  introduttiva, ASILAS -- che corrisponderebbe ad uno degli ispiratori  del gruppo dei Dioscuri e nel contempo autore di due dei fascicoli  omonimi, da un antico componente del Gruppo di Ur, che  noi sappiamo corrispondere al TAURULUS, cioè Reginelli. L’uscita della Tradizione romana, in ogni modo, è stata 1 ’occasione  per una salutare riflessione sul tema da parte dell’ambiente tradizionalista nella prima metà degli anni Settanta, sia da parte cattolica (si vedano il bollettino Il rogo,  e la successiva  rivista Excalibur, sia da parte propriamente «pagana» (si veda la nostra recensione dell’opera di GIORGIO (si veda), confortata da un parere di  Evola, in Arthos: essenziale come punto di ripresa del discorso  sulle origini della tradizione romana).  prebbe penetrare e a lui deve l’Europa intera la sua  vita e il prolungamento della sua agonia. Da questo  fuoco occulto partono scintille che alimentano le  crisi e risollevano periodicamente l’esigenza del ritorno alla romanità attraverso le varie vicende di  cui s’intesse la storia delle nazioni europee considerata geneticamente, internamente e non sul piano li mitatissimo della contingenza dei fatti e degli  uomini. Queir immane conflitto, già previsto da Evola, e che anche GIORGIO giudica del tutto  inefficace, se non addirittura letale per lo spirito e  il nome di Roma, avrà in effetti come risultato  più manifesto, per i fini dello studio che qui andiamo conducendo, di occultare del tutto le fila della  corrente di pensiero di cui siamo andati ripercorrendo la trama. Solo piu tarde è proprio la  ristampa dell’evoliano imperialismo pagano (e la  scelta pare significativa), curata dal Centro studi ordine nuovo di Messina, a tentare  GIORGIO. L’edizione, ciclostilata, con copertina stampata in azzurro, venne  tolta subito dalla circolazione in quanto non autorizzata da Evola: la si  può considerare oggi una vera rarità bibliografica] di riannodare i termini di un antico discorso:   «L’angoscioso grido d’allarme rivolto dall’autore  a MUSSOLINI per metterlo in guardia contro il ventilato proposito della  cosiddetta conciliazione  si afferma nell’anonima introduzione — risuona oggi con inusitata attualità e fa si che Imperialismo pagano venga guardato come un oracolo. Ed è proprio provenendo dalle fila di ordine  nuovo, un’organizzazione che lo stesso Evola ha  tenuto in buona considerazione — almeno fino  a che la sua ala borghese-modernista, condotta da Rauti, non confluì nel  MSI  che comincia ad agire, tra la fine degli  anni Sessanta ed i primi anni Settanta, il Gruppo  dei Dioscuri, con sede principale a Roma e dirama¬  zioni a Napoli e Messina. Pare assodato che all’interno del Gruppo dei Dioscuri venissero riprese [Cfr. EVOLA, Il cammino del cinabro. L’unico  gruppo che dottrinalmente ha tenuto fermo senza scendere in compromessi è quello che si è chiamato AeWOrdine Nuovo. L’interesse dei «tradizionalisti romani» nei confronti di «Ordine  Nuovo» si esaurisce sin dall’inizio degli anni Settanta, allorché, da una  parte, la frazione rautiana rientrata nei ranghi del MSI si isterilì in fatui  ed estenuanti giochi di potere (!?) all’interno del partito e in declamazioni populistico-giovanilistiche (non a caso la cosiddetta nuova  destra proviene quasi esclusivamente da quell’ambiente torpido ed ambiguamente compromissorio), dall’altra, la frazione movimentista ed extraparlamentare condotta d’Oraziani ed altri si smarrì  nelle velleità inconcludenti e pericolose della lotta di popolo, con  conseguente ed inevitabile suo annientamento da parte del Potere vero.] tematiche e pratiche operative già in uso nel gruppo di Ur ed è perlomeno probabile che lo stesso  Evola ne fosse al corrente.   Fatto sta che nei Fascicoli dei Dioscuri,  usciti in quel torno di tempo, l’idea di Roma da una  parte e di un Centro nascosto dall’altra, a cui il tradizionalismo dovrebbe far riferimento, ritornano  con grande evidenza. Per l’anonimo autore del primo Fascicolo dei  Dioscuri, intitolato Rivoluzione tradizionale e sovversione (Centro di Ordine Nuovo, Roma), il  più grande dei meriti di Evola è quello:   «di avere rammentato il destino di Roma quale  portatrice dell’Impero Sacro Universale e di avere  tratto da tale verità le necessarie conseguenze in  ordine alle idee-forza che devono essere mobilitate  per una vera rivoluzione tradizionale. Qualche anno dopo, al termine del Fascicolo intitolato Impeto della vera cultura (tradotto  poi anche in francese), il mito di Roma viene additato come l’unico che sia in grado di condur¬  re ad una superiore unità gli sforzi di tutti i tradizionalisti italiani:  a tutti i tradizionalisti, anziché proporre uno dei  tanti miti soggetti a rapido e facile logoramento, si  può ricordare la presenza di una forza spirituale  perennemente viva e operante, quella stessa che il  mondo classico ed il medio-evo definirono l’ÆTERNITAS ROMÆ. Il Gruppo dei Dioscuri ha notevole importanza come cosciente riconnessione alle precedenti  esperienze sapienziali e come indicazione, per taluni  elementi particolarmente sensibili dell’area della de¬  stra radicale, di possibili indirizzi e sbocchi futuri  del tradizionalismo romano, anche se la partico¬  lare via operativa scelta e, soprattutto, la mancata  qualificazione di taluni componenti, porterà ben  presto alla distruzione dall’interno del Gruppo stesso, di cui non si sentirà più parlare già prima della  metà degli anni Settanta (ci viene detto che frange  disperse del gruppo continuerebbero a sussistere so¬  prattutto a Napoli). È tuttavia da supporre che alcu¬  ni dei gruppi periferici, sia pure trasformati, ne abbiano continuato il retaggio se, ad esempio, a Messina, molto probabilmente nell’ambito di alcuni dei vecchi membri del «Gruppo dei Dioscuri»  viene elaborato un testo dottrinale ed operativo, a  circolazione interna, sotto forma di «lezioni» di un  maestro a un discepolo, piuttosto interessante. La  via romana degli dèi. Diremo anzitutto dell’essenza della tua religiosità, fornendo alla tua mente profonda gli argomenti per una serie di esercizi di meditazione affinché  con saldo cuore, tu possa prepararti all’assolvimento del rito [La via romana degli dèi. Istituto di Psicologia Superiore  Operativa, Messina. E certamente non priva di connessioni genetiche  col gruppo romano appare la sortita, improvvisa,  verso la fine degli anni Settanta, nella stessa Messi¬  na, del «Gruppo Arx», successivamente editore del  periodico «La Cittadella» e degli omonimi quader¬  ni, in cui senza alcuna attenuazione i possibili itinerari di approccio alla «via romana degli dèi» sono  indicati attraverso la cosciente riappropriazione del-  Vanimus romano-italico, rivissuto nel rito stesso, e  nel rigetto, sostanziale e formale, di ogni adesione a  forme anche esteriori del culto cristiano. Quanto segue è storia dei nostri giorni, dal mo¬  mento che proprio con l’inizio degli anni Ottanta vi  è stata una nuova cosciente ripresa del moderno  «movimento tradizionalista romano», una cui rimanifestazione pubblica si estrinsicherà in una data  ed in un luogo alquanto significativi. Infatti nella data in cui iniziava l’anno sacro  romano, a Cortona, donde in epoca primordiale  Dardano, figlio di Giove, si sarebbe mosso alla volta  della Troade, si tenne un importante Convegno di  studi sulla tradizione itala, che, a  [Gli’atti sono stati pubblicati nel numero speciale triplo d’Arthos dall’omonimo titolo. Per una sintetica analisi  sulla diversa valenza del termine “italo” nei vari interventi, cfr. PONTE, Che cos’è la tradizione itala, Vie della Tradizione] parte l’emergenza di differenti prese di posizone dei  tradizionalisti presenti, ebbe il merito di riproporre la questione — non puramente dottrinale o formale  — di una cosciente riconnessione all’aurea catena Saturni della tradizione indigena da parte di chi, pur  in quest’epoca di totale dissoluzione di ogni valore, intenda coscientemente riassumere il fardello delle  proprie radici etniche e spirituali. Successivamente  ad un nuovo Convegno, tenutosi a Messina, sul Sacro in VIRGILIO (si veda), la rielaborazione dottrinale e la ridefinizione concettuale dei valori  difesi dagli attuali esponenti del tradizionalismo  romano (di cui è parte cospicua anche l’apparire  alle stampe di alcune collane di libri specifiche) si è spostata su un piano più interiore, ma la loro  presenza è destinata a riaffiorare a livello di influen¬  za sottile e indiretta di gruppi o ambienti eticamente  sensibili di un’area superante i limiti stessi del mon¬  do della «destra politica».   Il futuro dimostrerà se la funzione di questa mi¬  noranza (ben cosciente di esserlo) si limiterà ad una [Gli Atti sono stati pubblicati in buona parte nel numero speciale  di «Arthos» n. 20 (uscito successivamente al n. 22-24), daH’omonimo  titolo. Ci limiteremo a ricordare la collana «1 Dioscuri» per le ECIG di  Genova, in cui figurano L’oltretomba dei pagani di C. Pascal, il mio  Dèi e miti italici. La religiosità arcaica dell ’Eliade di N. D’Anna e Arcana Urbis di M. Baistrocchi (in stampa); o quella di «Studi Pagani» del  Basilisco di Genova, in cui sono comparsi testi di antichi (Giuliano Augusto, Giamblico, Simmaco, Porfirio) e di moderni (Guidi, De Angelis,  Beghini, Evola ecc.). pura e semplice azione di testimonianza, sia pure  «scomoda» per molte cattive coscienze. Il mito capacitante di Roma, come l’antica fenice, è destina¬  to a risorgere continuamente dalle sue ceneri, poiché  riposa nella mente feconda degli dèi archegeti di  questa terra.  Il Piccolo» di Roma, Il fascio littorio a Mussolini. Presentata dall’esimia prof.a  Regina Terrazzi, e dall’on. Mussolini ricevuta la  dott.a prof.a Cesarina Ribulsi, che offriva al Presidente del Consiglio come augurio un fascio littorio da lei esattamente  ricostruito secondo le indicazioni storiche e iconografiche.   L’ascia di bronzo è proveniente da una tomba  etrusca bimillenaria ed ha la forma sacra col foro  per la legatura al manico: alcuni esemplari simili so¬  no conservati nel nostro Museo Kircheriano. Le dodici verghe di betulla, secondo la prescrizione rituale, sono legate con stringhe di cuoio rosso  che formano al sommo un cappio per poter appendere il fascio, come nel bassorilievo per la scala del  Palazzo Capitolino dei conservatori.   Il fascio ricomposto con elementi antichissimi e  nuovissimi è stato offerto al Duce come simbolo della sua opera organica di ricostruzione dei valori del¬  la nostra stirpe allacciando le vetuste origini alle forme più vibranti dell’attività gagliarda e rinnovata  che prende le mosse.   La rudezza espressiva del Fascio è ingentilita dal  contrasto tra il verde della patina bronzea e il rosso del cuoio che ricorda la stessa armonica tonalità che  producono le colonne di porfido presso la porta di  bronzo àcWheroon di Romolo, figlio di Massenzio,  al foro romano. L’offerta era accompagnata da una epigrafe latina  dedicatoria composta dall’offerente, la quale nell’università popolare fascista svolge una fervida  opera di propaganda di romanità viva.   Il Duce gradì l’augurio ed il voto accogliendoli  colla sua consueta serena nobiltà, non senza un segno della vivacità del sorridente suo spirito latino:  «Lei mi ha dato una lezione di storia» — osserva in  tono scherzoso. Singolari parole in bocca di chi dà  e darà non poco a fare agli storici futuri.   (La notizia è riportata in una rubrica dedicata a  «I solenni riti del XXIV Maggio», senza indicazione  di paternità). IGNIS, Rumori. Sacrae Romae origines, tragedia in carmi. Libreria del Littorio,  Roma, dopo il frontespizio. LETTERA DI ARDENGO SOFFICI A S. E.  MUSSOLINI. Mio caro Presidente, permettimi ti dia, scritte  e sottoscritte anche da me, che ne resto garante, al¬  cune prove di pregi eccezionali della tragedia, che, in  fondo, in un vero poema epico delle origini, è l’esaltazione di oggi della nostra stirpe. Comincio da un  mio giudizio, già a te noto; Rumori è tragedia romana che può stare a paro col Giulio Cesare di Shakespeare ti fo osservare che il titolo di Poeta di Roma, dato da Jean Carrère ad ignis, si è dato solo a  Virgilio e ad Orazio: Augusto, vive, oggi, tra noi tutti in ispirito, più per questi due poeti, da lui protetti,  che per la sua politica imperiale.   E tu vedi come Rumori sia stato giudicato, prima  ancora che esistessero l’idea e la forza fascista, tragedia degna di Roma quando competenti — dai  nostri a Carrère, ed a me che sono l’ultimo al giudizio corrono all’iperbolico per lodare Rumori di ignis bisogna concludere che ci si trova da¬  vanti ad un’opera d’arte somma, e per fortuna nostra, d’arte italiana — opera che è, anche per se stessa, di alto significato politico, e di spirito fascista. Mi rileggo, e mi credo, caro Presidente ed amico  carissimo, di averti scritto una lettera storica. Fai  che non sia stata scritta invano, ma invece il tuo no¬  me vada unito a quello della tragedia Rumori, al  poema di Roma e degno di Roma: e di questo legame in avvenire, spero che tu possa essere un po’ gra¬  to al tuo affezionato amico e devoto   ARDENGO SOFFICI   pag. successiva non numerata:   IL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI Caro Soffici,   bisogna assolutamente far marciare Rumori. Il governo appoggia fervidissimamente l’iniziativa  perché essa rientra nel grande quadro della rinascita  nazionale.   Saluti fascisti e cordialissimi. f.to MUSSOLINI Roma (Carme terzo): AUGURE   Manifesto è dunque: amor — essere — ROMA.  Se tutte move, ed incende, le create cose...  legge si è — Amor — dell’universo vita...  così, un tanto Nome, a noi predice:  dono di regno e potestà sovra ogni terra,  e dello spirito, e d’imperio.   Confirmato si è, per te, prodigioso il vaticinio.   Non pronunciati mai più sien i Nomi occulti su la Città terribili chiamerebbero fortune. Li trasmettano, oralmente, i Pontefici ai Pontefici.  Né mai più, tu, l’eccelso pronuncia Nome palese,  se concluso non avrai, prima, il solco sacro.  Permesso e commesso mi è: Nunziare, allora,  in gran letizia, al Popolo... quel Nome  che licito non più mi è dire   quando, già per tre volte, qui, in tre diversi suoni,  de la gran Madre nostra il Nome risonò.   {Dispiega le dita della sinistra, ad una ad una, per numerare i significati del nome). Di significati cinque: È’l Nome palese, latore, con l’occulto. Chiama la Città: Valentia... Ròbure... Virtù!  e ancor: Madre. Mamma. Alma Nutrice! Vostra nei nomi vostri oh Re! suoi fondatori...  Come del grande Rumon: URBE: la Città del  Fiume (Pausa) Ammirate! se gli Dei saputo abbiano addensare,  in così breve Verbo, sì pieni... tanti arcani. Mirifici! donando Nomi nove:   in quattro occulti ed un — Medio — palese,   e quando, nove, siamo al Rito.  Ili Da: COSTA, Apologia del paganesimo, Formìggini, Roma. Il pagano è, per definizione, buono. Né un greco,  né un romano avrebbero concepito che l’uomo potesse esser qualcosa di diverso da ciò, che in lui litigassero per così dire due nature, che la manifestazione esterna fosse diversa dall’interna, che né nella vita individuale, né in quella sociale vi fossero mezzi termini, transazioni, compromessi. Esso è quello  che naturalmente è, cioè buono, come ideale supremo della vita, come dovere, come necessaria fatalità insita nelle cose umane. Egli vive quindi la vita interamente, dolorosamente, gioiosamente a un tempo, con un pragmatismo sano e forte che non ammette  ipocrisie, doppiezze, scuse. Solamente all’uomo cosiddetto moderno è stato  concesso, per virtù di dottrine religiose e culturali  che si sono formate a lui d’intorno, una distinzione  ed una separazione del suo essere intimo, spirituale,  psicologico, dal suo essere apparente, esteriore, materiale. All’antico quando di questa scissione apparve per un momento la possibilità, egli ne cacciò da  sé l’idea, ne biasimò perfino la concezione. La concezione pagana della vita ha fatto perciò  l’uomo tutto d’un pezzo, ne ha affermato il carattere, ne ha provocato 1 ’azione. Ecco perché la vita nel  paganesimo ha avuto tutto il suo massimo sviluppo  ed è stata accettata non come un male, ma come un bene che bisognava con interezza di carattere vivere  interamente e sanamente per sé e per gli altri.  Per stabilire l’equilibrio l’uomo deve tornare al  paganesimo poiché il cristianesimo si è mostrato divina opera cui le sue spalle non sanno sottostare. Ma paganesimo è sincerità e l’uomo deve ritornare ad essere sincero. Il cozzo a cui l’ha costretto per  due millenni il suo desiderio di seguire il messaggio  cristiano e la sua manifesta impotenza di non saperlo fare, deve risolversi in armonia se egli vuol sanare  in sé l’eterno dissidio. Lo spirito e la carne debbono  avere il medesimo valore ed il loro prevalere non può essere determinato che da circostanze speciali di individuo, di momento e di luogo che l’uomo può intravvedere, non deve violare con convinta testardaggine. L’equilibrio di queste forze, l’esteriore e l’interiore, quindi, deve essere nella dottrina, come nella  vita, assoluto. Da: Im via romana degli dèi, ciclostilato anonimo,  Messina. L'immagine di un dio è lo stemma della Forza che  essa rappresenta. A tutti i fini pratici tali immagini  sono personae, perché qualsiasi cosa possano essere  nella realtà esse sono state personalizzate e forme di  pensiero sono state proiettate su un altro piano. Alcune di queste immagini e le loro attribuzioni  sono così antiche e sono state costruite con tanta  ricchezza di lavoro sottile da essere capaci di ricostruirsi da se stesse, durante l’eventuale lavoro di  meditazione, che l’allievo può fare su una divinità.  Resta un minimo «invito», un minimo stimolo, perché il meccanismo scatti e l’immagine si ricompon¬  ga, sia pure su un piano semplicemente psichico.  Così, della limatura di ferro, dispersa su un piano,  si raccoglie intorno ad un magnete che venga posto  in mezzo. Se il magnete è forte esso attirerà i granelli  anche se essi sono pochi e molto distanti.  AMKDKO R(K ( ARMKM ANO  (im -    da «Ygieia»,  Piscio littorio a Mussolini   n florno If »cor*o. pr^eniaU dalla tsl-  bjU prof.» Rcidna Trmiizl. fa rtalTon. Maa.  aOltnl rlotwta la doti.» pmf.» Osarina RI-  baiai cba offriva al Proatdanta dr’. Contiguo romo aufurln la data de) Mabfio «n falcio littorio da lei eaattamcDte  licoatndto lecoudo la lodicaslonl atorictie  e leooograflclia. l.‘aicla di bronra k prorenlenU dm aoa  tomba etmaca hlmtneoarta ed ba la forma  aorra eoi foro per la Vantura hi manico:  alcool eaamplan slmili sono coosenrat: il nostro Ma.*«o Klrcberiamo. é   La dodict verace di l>ctulla. ascondo la  prescrizione rit'iale. sono legala con tirisele ^ cuoio rosso cba formano al tonimo  ua cappio per poter appendere fi fascio,  conta nel ba.MorUiero per la acala del Pa  lazzo Capitolino dd Conaenalori.   Il Fascio ricomposto con elementi antl-  fhlHilmt a nuoTltaUnl k stato offerto al  Dora come simbolo della saa opera onra-  ntea di rieoatruztona del valori della no-  Mra attrpa allacciando le veia«ie origini  alla fonn* più vibranti dell'attività ga-  giarda a rinnovata cha prendo la mosse  ^ XXIY Maggio 19t8  Là rudezza espressiva dal Fascio è in-  gantlHta dal contrasto tra (I verde della  patind bronsea e U rosso del molo che ri¬  corda la stes.aa armonica tonalità che pm-  doeono le colonne di porfido presso la por¬  ta di bronzo deD'brroon di Itomdlo, figlio  41 Massenzio al Foro Romano.   L'oflerla efa accompagnata da ani epl-  graia latina dedicatoria composta dall'or-  farente. la quale nell'UntvcnUtà Popolare  faartsta avolga una fervida opera di pro-  pafgada di romani Ih viva.   n Duca gradi raugorto a fi voto acro-  Mlaodoll colla sua consueta serena nobiltà.  2«m senza tm segno della vivacità del sor>  ridaots ano spirito latino: • Let mi ba dato  nna testone di storia • — osservò In tono  aehanoao. Btngolart parole In bocca di r.hl  db a darà non poca a fare agli storici fu-  tnrl    Riproduzione da «11 Piccolo».  V. pag. 55.    65 Arturo Reghini. Reghini. Keywords: implicature, il fascio etrusco, scuola di Crotone, il fascio littorio, simbolismo duodecimale, Cuoco, il fascio etrusco – Pitagora dell’Etruria, Evola, numero tri-angolare, numero qua-drato, numero pi-ramidale, la logica del numero – il concetto di numero in Frege – Austin, Grice.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Reghini” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Regina: la ragione conversazionale dell’esse e dell’inter-esse, o degl’uomini complementari, la potenza e il valore – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sabbioneta). Filosofo italiano. Sabbioneta, Mantova, Lombardia. Grice: “When Urmson said that for Prichard, duty cashed out in interest, he was right! But we must wait for Regina to emphasise Kierkegaard’s punning on interest – which literally means, ‘being in between’! The interesting (sic) thing is that Kierkegaard exploits the old Roman aequi-vocation between the alethic (being in between) and the practical (Prichard, ‘duty as interest’). Studia a Milano sotto SEVERINO, laureandosi con una tesi su Lavelle e Heidegger. Insegna a Macerata, Verona, e Cagliari. Progetto «Tempus», relativo all'organizzazione presso Sarajevo e Mostar di un master sulla tolleranza religiosa. Saggi: “Ripresa, pentimento, perdono” (Verona); “L'essere umano come rapporto: l’antropologia filosofica e teologica di Kierkegaard.” Forum, Conferenza Episcopale Italiana, Progetto culturale della Chiesa. Insegna a Verona. Si basa su Kierkegaard, Nietzsche e Heidegger (“the greatest living philosopher” – Grice). In Heidegger evidenzia l'importanza del ruolo sapienziale assegnato alla finitezza dell'uomo. In Kierkegaard vede invece da cui partire per costruire una ontologia e una antropo-logia basate su una concezione dell'essere: l'esse come “inter-esse.” L'essere come inter-esse -- nella doppia valenza ontologica ed etica -- pone il pensante in rapporto con un'ulteriorità che, nel trascenderlo, ne accentua e personalizza il differire. La metafisica fondata sull’ “inter-esse” cessa di essere onto-teologia, ossia nient'altro che proiezione idola-trica della logica umana.  Sarajevo; “Dal nichilismo alla dignità dell'uomo” (Vita e Pensiero, Milano); “Esistenza e sacro” (Morcelliana, Brescia); “L'arte dell'esistere” (Morcelliana, Brescia); Romera, “Acta Philosophica”, recensione a Noi eredi dei cristiani e dei Greci (Poligrafo, Padova). Il termine è stato acquisito da  Heidegger. “Gesù e la filosofia” (Morcelliana, Brescia); “L'uomo complementare: potenza e valore” (Morcelliana, Brescia); “Servire l'essere” (Morcelliana, Brescia); “La differenza viva: per una nuova concettualità” (Sentiero, Verona); “Noi eredi dei Greci” (Il Poligrafo, Padova); “La soglia della fede: la domanda su Dio” (Studium, Roma); “L'arte dell'esistere” (Morcelliana, Brescia). Umberto Regina. Regina. Keywords: uomini complementari – potenza e valore, essere ed interesse, esse ed interesse, Heidegger (? – il termino, acquisito da Heidegger), Prichard, duty and interest, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Regina” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Renda – the power structure of the soul – la struttura di potere dell’anima -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Prego di perdonare qualche omissione. Una sopratutto debbo segnalarne: quella del nome di Antonio Renda che per la finezza dei suoi studii di psicodissociazione psicologica, Torino; Le passioni, Torino; L oblio, Torino), è tra i migliori positivisti. Nella seconda fase del suo pensiero il Renda si è accostato all’idealismo assoluto e alla filosofia dell’azione del Blondel col suo libro La validità della religione, Città di Castello. Prego di perdonare qualche omissione. Una sopratutto debbo segnalarne: quella del nome di RENDA (si veda) che per la finezza dei suoi studii di psico- dissociazione psicologica, Torino; Le passioni, Torino; L oblio, Torino, è tra i migliori positivisti. Nella seconda fase del suo pensiero Renda si è accostato all’idealismo assoluto e alla filosofia dell’azione di Blondel col suo libro La validità della religione. LE PASSIONI DEL MEDESIMO AUTORE. Del fattore religioso nella vita e nétte opere di T, Tasso   Caserta, Tip. sociale, L^ideazione geniale. Un esempio : A. Comte — Con  prefazione di C. Lombroso — Torino, Bocca,  1 La questione meridionale. Inchiesta — Palermo,   Sandron,     n pensiero mistico — Palermo, Sandron,     n destino delle dinastie. L'eredità morbosa nella   storia — Torino, Bocca,     La dissociazione psicologica — Torino, Bocca, Psicologia Shakespeariana (dalla '' Rivista Abruzzese,) —  Teramo, 1895.   Folie criminélle en Calabre — Rapporto al V Congr. Intern.  D’Antrop. Crimin. (in collaborazione con Sqnillace)   Amsterdam.   Le pazzie sociali (dalla ' Rivista di Filosofia,)  Bologna,  Agli albori della psicopatologia  (dalla '^ Gazzetta Giudiziaria,)  Catanzaro, La nostalgia (dalla ' Rivista di Psicologia,)  Bologna, LE  PASSIONI TORINO  BOCCA, EDITORI   UILAKO • BOBA - nsENSEB  colta intellettuali, febbre intermittente. In  \ tutte sono frequenti le insonnie, la denutrizione, le dispepsie, turbamenti vasomotori, ecc. Le malattie medesime, che tengono dietro a certe passioni, non sono forse, più che effetto  di esse, sviluppo di alterazioni fisiologiche ed  anatomiche, che coesistevano all'abnorme attività passionale?   Altrettanto può dirsi dell' anatomo-patologia delle passioni. Qualcheduno a creduto di poter additare lesioni anatomiche  nei nostalgici (Larrey, Bógin, Haspel); ma  si è osservato all' incontro che esse erano  fatti secondari, oppure che erano da attribuirsi ad altre malattie (Benoist de la Grandière). Documento indiretto dell'esistenza di  lesioni anatomiche nelle passioni può essere  l'autopsia dei suicidi, che sono per tre  quarti dei passionah. Vi accenniamo. Sopra  544 cadaveri studiati nel Wurtemberg si  sono riscontrati 265 volte (45*^/0) lesioni del  cervello e delle membrane; 98 volte (16°/o)  lesioni degh altri organi; fra le prime predomiaavano la menengite cronica, le aderenze della pia alla sostanza grigia, l'ascroma  delle arterie, la varicosità delle vene, l'iporostasi endocranica; fra le altre, posizione  anormale degh intestini e dello stomaco, tumori addominah, degenerazioni del fegato,  poi ancora malattie genito-urinarie, e da  ultimo cardiopatie (Morselli).   In altri casi furono trovati: ipertrofia del  ventricolo sinistro, aracnoide diffusa, divisione della circonvoluzione frontale media,  sclerosi eburnee, ecc. (Tane, Pawloski). Quasi  tutti gli omicidi-suicidi — condotti al triste  proposito dalla violenza d'una passione —  studiati dal Casper, dal Krafft-Ebing, dal  Berti, avevano presentato durante la vita  affezioni cardiache ed epatiche.   Non trascurabile ci pare il fatto che agli  stati passionah si accompagnano fatti psichici morbosi e vere e proprie psicopatie.  Abbiamo già visto qualche esempio di illusioni e di allucinazioni. Non infrequenti sono  le fobie e le ossessioni. L'Antonini à studiata  l'azione delle idee ossessive nell'amore. Ma  ogni passione è, dal punto di vista conoscitivo e affettivo, ricca di idee ossessive, con  le quah spesso si può confondere. Sentite  quale specie di fascino dominava l'animo  d'un giuocatore, il Durand : " Per me le carte  erano sirene: la vista d'un fante di cuore  mi faceva un senso magico, mi «ra più dilettevole di qualsiasi pittura. Quando più ardeva il giuoco, io, stringendomi la mano  sopra il cuore, me lo sentiva tentennare di  ansietà; e se la sorte mi andava avversa, io,  senza averne sentore, mi trovavo d'essermi  confìtto le unghie entro la carne viva „.   H simbohsmo, che è tanta parte dell'espressione artistica dei fatti passionali, e l'antropomorflsmo, sono anche sintomi d'una abnorme  attività mentale (Nordau). Aggiungiamo lo  stato continuo doloroso (psicalgie) e quello  abbandono alla tristezza, quel compiacersi  di fermare quasi il dolore, di tener sempre  aperta la piaga, di abbandonarsi alla depressione melanconica, che si riscontra in tutte  le passioni, e avremo un altro gruppo di fatti  che ne attestano TanormaUtà.   Ve poi non solo un rapporto generico tra  passione e foUia, ma delle colleganze speciah, di cui ci occuperemo nel capitolo seguente, che attestano esservi un fondo comune ai due ordini di fatti. Vediamo la gelosia  apparire, nella sua forma più schiettamente  morbosa, per l'intossicazione alcoohca. I casi  sono frequenti : nel manuale di psicopatologia  del Krafft-Ebing se ne trovano parecchi.  Spesso essa è concomitante a mania persecutoria, e in ogni modo offre sintomi così  comuni, che la pazzia gelosa fu generalmente  ritenuta una forma di delirio persecutorio,  n Venturi ed il Pellegrini da poco anno tentato di dare al delirio geloso un'individuahtà  clinica a parte. Nel nostro saggio psicopatologico sulle famighe reaU abbiamo riscontrato tale concomitanza in molti casi: Giovanna la Pazza, malinconica e gelosa, il figlio  Carlo V, Enrico IV di Lancaster, manìa di persecuzione e gelosia, Enrico VII idem, Elisabetta e Maria, malinconiche e gelose. In  un caso da noi pubblicato, la nostalgia si manifestava su un fondo persecutorio. L'amore  si mostra connesso con misticismo morboso.  L'odio, il giuoco con la criminalità e la follia  morale.   Nell'insieme abbiamo una serie di fatti che  distinguono le passioni, anzi meglio, la personalità passionale da quella normale; mancanza di utilità, alterazioni dei dati psichici  e dei principali processi, manifestazioni morbose che l'accompagnano, malattie organiche  e mentah che ne formano l'esito frequente.  Vi è più d'una distinzione; v'è la prova  che ci troviamo in presenza di un processo  morboso e che l' analogia tra passione e  mlattie mentah, intravista anche da osservatori antichi (Zenone, Ippocrate, Platone, Galeno) e riconfermata, sebbene indeterminatamente, dai psichiatri (Lélut, Trólat, Moreau,  Maudsley e molti contemporanei), è un fatto.  Resta a vedere che valore abbia la morbosità passionale, qual posto debba occupare nel  quadro triste dei fatti psicopatologici. Bisogna distinguere tre gruppi di fatti psichici affini: momenti passionali, psicopatie  passionali, passioni vere e proprie.   Per quanto le passioni non siano tali fatti  che possano attuarsi in ogni personahtà, come  avviene invece per le emozioni, per i desideri, per le volizioni, ecc., nondimeno la storia  di ogni coscienza offre esempi di atteggiamenti passionali, rapidi, superati senza che  Tattività psichica abbia assunta l'orientazione  necessaria a costituire una passione. Un morso  acuto di gelosia, un breve Hvore d'invidia,  il fascino transitorio d'un tappeto verde, la  carezza triste d'un pensiero nostalgico, un  raptus amoroso, una fiammata d'odio, la lusinga d'un sogno ambizioso s'insinuano nella  placida corrente dei nostri pensieri e dei  nostri sentimenti, improvvisi e passeggieri  come emozioni, e ne arrestano per poco il  córso, o per poco lo deviano verso altre direzioni. Sono spunti passionali, che non vanno  confusi con le passioni. Sono oscillazioni della  personalità, alle quali manca la forza di trasformarla e di alterarla. Non abbiamo forse  del pari nella coscienza normale fobie passeggiere, fugaci idee impulsive, istanti di  abbandono a pensieri di ingiuste persecuzioni  subite o a scrupoK irragionevoli ? Non siamo  forse talvolta tormentati da un ritmo musicale, da una frase sorta improvvisamente  nella nostra coscienza e che vi permane automaticamente ? Non per ciò ci troviamo in  presenza della follia del dubbio, della mania  di persecuzione, del delirio malinconico, delle  idee incoercibih.   Per ciò questi albori di passioni, che illuminano per poco della loro luce l'orizzonte  della coscienza normale, non sono i fatti dei  quah vogliamo cercare il posto in mezzo ai  processi morbosi dello spirito.   n secondo gruppo, che con espressione  assai larga diciamo delle psicopatie passionah, abbraccia quei fatti che si distiuguono  dalle passioni per la loro natura più schiettamente morbosa, si che sembrano forme  speciali delle ordinarie malattie dello spirito,  psicopatie che polarizzano la loro attività in  un circolo di rappresentazioni e di affetti,  in modo da assumere la fìsonomia di un fatto  passionale esagerato. Anzi è opportuno notare che accanto alle passioni, che per noi  costituiscono la forma tipica di tale serie di  fatti, c'è una serie di forme corrispondenti,  più chiaramente morbose. In queste l'automatismo associativo è dehrio, le illusioni divengono allucinazioni, l'incoercibihtà psichica  è al suo massimo, l'esito è sicuramente fatale, la passione ahmenta sé stessa con U  contenuto e U processo di altre morbosità  spirituali concomitanti. Notiamo accanto alla  gelosia la foUia gelosa o il cosi detto delirio  dell'infedeltà com'ugale ; accanto all'odio la  vendetta criminale; accanto all'avarizia ordinaria quella folle e dehttuosa di Fihppo IV  e Fihppo VI di Francia, per esempio; accanto aUa passione collezionistica la cleptomania ; accanto all'ambizione l'ambiziosa criminahtà di Riccardo HI. Tale distinzione però serve a distinguere  empiricamente due gruppi di fatti assai affini. I caratteri differenziah non ci pare si  possano riportare a differenza di natura, e  le manifestazioni tanto chiaramente morbose forse si debbono attribuire a fatti estrinseci,  al dinamismo della passione, a resistenze o  a caratteri speciali dell'ambiente, a una differente valutazione etica del contenuto rappresentativo, che forma lo stato passionale.  In ogni modo, distinte le passioni dai  raptus passionali, che non arrivano a costituirle, e da quelle forme, che, almeno in apparenza, sembrano sorpassarle, sono esse fatti  morbosi da accomunarsi senz'altro con le malattie dello spirito?  L'origine e la natura di molti fatti psichici non si intendono se l'analisi si limita all'esame dell'individuahtà pura e semplice.   Oramai s'è capito che l'individuo, considerato in sé e per sé, al di fuori dell'ambiente  naturale e sociale in cui vive, é un' entità  irreale e incomprensibile. È necessario che  nella psicologia si faccia strada la convinzione che é parimente incomprensibile gran  parte della vita psichica, se si prescinde dal  fatto che ogni individuo é un anello d'una  catena d'esseri, la cui storia ereditaria, sia  specifica, sia familiare, influisce sulla genesi i   di molti fatti psichici. Né ciò solo per la psicologia cosi detta " delle differenze individuali „, ma anche per la psicologia generale,  schematica, poiché non pochi fatti psichici  sono conclusioni o aurore o crepuscoh di  processi, che si svolgono interi al di fuori  del breve ciclo d'una personahtà, nell'evoluzione filogenetica, e in quella più ristretta  della famigha, che potremmo dire oichigenetica. n dato ereditario, in rapporto aUa specie,  é già entrato nell' esperienza del psicologo  con benefici effetti : gii istinti, le forme della  sensibilità e dell'intelletto, tutti quei fatti un  tempo ritenuti innati, né ora del tutto riducibili all'esperienza, sono spiegati come formazioni ereditarie. Per quei fatti più complessi, che dovrebbero formare oggetto dell'etologia, importa tener conto d'un processo  ereditario più diretto, immediato, quello familiare, che é qualche cosa di diverso, non  solo una parte, del processo ereditario della  specie. Inutile aggiungere che ciò è poi indispensabile per la psicopatologia, che si trova  di fronte a fatti più individuah, più concreti, meno agevolmente riducibili a schemi  tipici.   Ora considerando le passioni in sé stesse  e attraverso il processo ereditario famiKare  (oichigenesi) possono farsi tre osservazioni. Nello svolgersi d'una diatesi familiare  impressiona l'alternarsi delle manifestazioni  schiettamente degenerative con individualità  passionali. Accenniamo ai risultati di nostre  osservazioni, esposte, per altri fini, più largamente altrove.   La degenerazione della famiglia Plantageneto comincia con individui, che son preda  di passioni ereditate in parte dal capostipite  Guglielmo (avarizia, dissolutezza, ambizione,  accidia); un breve periodo di malinconia, nel  terzogenito, Enrico I. Procede offrendo in  una generazione medesima casi di passioni e  casi di malattie dello spirito, tanto in individuahta diverse, quanto in un medesimo individuo, o alternando nello svolgersi del processo ereditario passioni con psicopatie. Sopratutto prevalgono personahtà con stati passionah variabili per contenuto. Ad Enrico II,  in cui la degenerazione si eccentua senza  dar luogo a forme chiaramente morbose, succede Giovanni senza Terra, imbecille morale,  dissoluto, criminale, con accessi epilettici; Riccardo I, agitato da passioni diverse. Dei figh  di Giovanni uno è caratterizzato dall'avarizia e dalla vanita ; Enrico III è debole, deficiente, collerico, e procrea figli deformi e  morti precocemente. Da Edoardo I, di cui  ben dieci nati muoiono bambini, discendono due deficienti, Edmondo ed Edoardo II. Il  figlio, Edoardo IH, principe valoroso e intelligente, à un amore senile per Alice Perrers,  dalla quale è così dominato da oscurare con  debolezze continue la fama della sua gioventù.   Nelle altre generazioni: Riccardo II, tisico,  deficiente ; Enrico IV, epilettico, gelosissimo,  ambizioso, allucinato ; Enrico VI, folle, imbecille; Edoardo IV, dissoluto, criminale;  Riccardo III, foUe, morale, ambizioso, crudele, deforme, eroico ; Enrico VII, avaro,  geloso ; Enrico VILE, criminale sino alla follia,  geloso; Maria, crudele, malinconica; Elisabetta, avara, gelosa, che muore dopo due  anni di malinconia con stupore.   La stessa vicenda di passioni violente, sopratutto erotiche e di psicopatie, si trova nella  famigha reale spagnuola;  nella famigha Giuha; nei Medici; nella dinastia francese. Qualche altro caso tratto  dalla storia di quest'ultima. A Luigi IX, allucinato, crudehssimo, e a Fihppo IH, valoroso e vendicativo, succede Fihppo IV, avaro  come Carlo II, che vende sua figha " come  fanno i corsar dell'altre schiave „, falso monetario. H nipote Fihppo IV ne segue gh  esempi. La degenerazione ereditaria, che si  manifesta neUa mancanza di vitahtà dei membri di questo ramo, si accentua con  Carlo V, da cui discendono allucinati, persecutori (Carlo VI), malinconici (Carlo VII,  Luigi XI), deficienti e deformi (Carlo VITE,  Giovanna). Le passioni dominanti sono avarizia, ambizione, amore dei piaceri.   2. Vi sono stretti rapporti tra speciali  malattie deUo spirito e speciali passioni, si  che non solo esse si trasformano l'una nell'altra attraverso il processo ereditario deUa  famiglia, ma nello stesso individuo.   I casi nella letteratura psichiatrica sono  molti. Ne riportiamo uno da noi raccolto.  Prof. L. P, d'anni 29, geloso, sino a tentare il suicidio, trasferito ad Imola, diventa  preda di idee persecutorie ed è ricoverato  in un manicomio. Il padre era anch'egK cosi  geloso, che pochi giorni dopo le nozze, per  un improvviso sospetto, lasciò, durante un  ballo, la giovine sposa, come per abbandonarla.   La trasformazione della gelosia in mania  persecutoria e malinconia è frequentissima ;  né occorre illustrarla nell'individuo. Dell'avvicendarsi di essa con le forme malinconiche nel processo ereditario f amiKare, diamo  un esempio, che ci sembra tipico, nella tavola annessa. E un caso specifico dell' alternanza generica di passioni e di malattie notata sopra,  e insieme un interessante documento di eteromorfia ereditaria, logica, per dir cosi, comprensibile, non capricciosa, come per lo più  apparisce nella storia delle famiglie nevrotiche.   Un'osservazione della medesima natura abbiamo raccolta per l'avarizia. L'avv. B. G.  (collaterali sani), sposa a 48 anni una vedova  quasi ricca, di anni 57. La sua avarizia era   proverbiale in G Entrato in possesso del   patrimonio della moglie, con abili mene, pratica l'usura. Dopo qualche anno diventa cleptomane. Dal tribunale sottrae una volta  una sedia, un'altra un vaso di fiori, che tenta  di portar via, nascondendo sotto U soprabito. Si fu costretti di inviarlo in manicomio,  dove è morto.   3. Le passioni non solo anno talvolta,  quando specialmente sono contrastate, come  esito una vera e propria malattia dello spirito, ma spesso sono segni prodromici di  profonde alterazioni della personaKtà normale, quasi le prime oscOlazioni che la coscienza, spostata dal suo centro, à attorno  allo stato morboso.   Gli studi intomo alle cause della follia  anno raccolte alcune significanti statistiche della nefasta efficacia delle passioni; ma non  essendosi ben distinti i fatti emotivi da quelli  passionali, esse non hanno per noi quel valore  probativo, che a prima vista parrebbe che  dovessero avere.   D'altra parte le difficoltà di avere complete storie cliniche degh individui, e spesso  la trascuranza dei raccoglitori, rendono scarsa  la messe di prove, che noi crediamo dovrebbero essere abbondantissime.   In ogni modo molti, e tra i primi il Maudsley e U Moreau, anno notato che fatti passionah segnano la fase d'incubazione di una  malattia dello spirito ; anzi la scuola della  Salpètrière attribuisce all'epilessia uno stadio  nel suo sviluppo di atteggiamenti passionali.  Si che v'è da pensare che quelle sorti di  traumi psichici, che sono interpretati come  cause di psicopatie, sono più tosto la fase  iniziale del processo morboso.   Le passioni su fondo erotico, la dissolutezza, la passione degli acquisti, delle costruzioni, delle speculazioni, la gelosia, precedono spesso la paralisi progressiva, la malinconìa, la mania. Prima che le tristi tenebre  della follia avvolgano la coscienza, il carattere subisce delle alterazioni, le quali talvolta assumono appunto la fìsonomia di fatti  passionali, emersi quasi dai bui fondi della vita psichica, dove li ratteneva il dominio   di sé. Ed ecco prodigalità improvvise, sogni  ambiziosi mai prima carezzati, piani di conquiste, che sorridono all'animo che vi si abbandona nella sicurezza della vittoria immediata, conversione maniaca delle proprie  sostanze in beni immobili nella speranza di  guadagni favolosi, impeti d' amore spesso  abnormi... Sono le prime disgregazioni della  personalità, che si sprofonda lentamente negh  abissi della follia.   Queste tre osservazioni conducono a un  unico concetto, che stretti rapporti, ora generali, ora speciali, vi sono tra passioni e  psicopatie. L'analisi intrinseca dei fatti paissionali lo riconferma. Non solo le passioni  sono, come le psicopatie, alterazioni della  personahtà ; non solo il loro meccanismo psicologico è affine a quello delle malattie dello  spirito, ma v'è una corrispondenza di tendenze, di orientazione, di contenuto affettivo  e rappresentativo tra speciah passioni e speciah forme morbose. Più volte abbiamo notato come tipica la somiglianza tra gelosia  e mania persecutoria: il medesimo processo  iniziale (sospetto), il medesimo svolgimento  (persecuzione), le medesime reazioni (impulsi  distruttivi). Nella gelosia v'è tutto il quadro  del delirio persecutorio, ma con tinte più deboli, n contenuto del delirio è polarizzato  in un gruppo distinto di rappresentazioni.   Perfino la nostalgia, che è qualche cosa  di più tormentoso e di più grave di quello  che non si imaginino coloro, i .quali sono  abituati a scorgere in essa il triste abbandono ai dolci ricordi, un ansioso rapimento  dello spirito ai fantasmi di luoghi e persone  care lontani, assume l'aspetto di una psicopatia persecutoria. Riproduciamo un caso,  pubbhcato già da noi.   V. G., studente, di anni 18; madre neurastenica. E nato e dimora in un paese molto  infelice, sito in luogo poco ameno. Carattere  anormale. Giovinetto ancora, abbandonò la  famigha per seguire una donna da teatro:  fu però subito ricondotto a casa. Ogni lontananza, anche breve, dal paese natale produce una vera rivoluzione nel suo spirito,  si che è costretto a fare alla megho colà i  suoi studi, pur essendovi*- a tre ore di ferrovia il capoluogo della Provincia con buoni  istituti d'istruzione. Lontano, à tutta la fenomenologia estema della passione nostalgica.  Deve essere scortato sempre dai suoi compaesani, perchè manifesta idee suicide. In  ognuno che non sia del suo paese vede un  nemico. Saluta umilmente tutti i suoi condiscepoK e le conoscenze che fa ; sospetta e  teme impossibili persecuzioni. Intelligentissimo e discretamente studioso, quando si  reca al capoluogo per dare gli esami perde,  nel tormento dello spirito, le cognizioni acquisite e vive in uno stato di semicoscienza.  Commette non poche stravaganze, informate  alle idee persecutorie e nostalgiche — come  improvvise fughe al paese natale — di cui  poi à ricordo confuso e indeterminato. Tra i  timori che più lo tormentano v'è quello che  sua madre sia ammalata e muoia: parlanr  done piange. Mi si dice che invece in paese  abbia condotta normale.   Le passioni coUezionistiche differiscono  poco dalla cleptomania: l'impulso irresistibile al possesso dell'oggetto desiderato, la  inutiUtà di alcune collezioni ravvicinano queste due forme. Né mancano casi in cui la  mania coUezionistica spinga al furto. Qualche esempio si troverebbe nei casi del cosi  detto crimine estetico.   Cosi, per dirla in breve, l'ambizione ricorda la megalomania ; l'odio la criminahtà;  l'avaro assume spesso le parvenze d'un melanconico e di persona turbata da delirio di  piccolezza; e l'amore rassomigha tanto ad  una di quelle follie d'esaltazione, senza contomi nosologici precisi, che i cento pretesi  fisiologi che r anno studiato, manifestano sempre il dubbio che noi ci troviamo innanzi  a una forma morbosa.   In conclusione i fatti passionali anno gli  stessi caratteri delle psicopatie, ma attenuati, si che ci sembra di poter trarre due  conseguenze sulla loro individualità morbosa.   1. In sé stesse le passioni sono equivalenze psicopatiche. La concezione, imphcita  nella teoria degli equivalenti epilettici (Samt,  Lombroso), così feconda di risultati per la  conoscenza di molti fatti morbosi, deve estendersi dal campo dell'epilessia a tutta la  attività patologica dello spirito umano. È  noto che gU equivalenti epilettici sono quei  profondi disturbi della coscienza che, quasi  preludio di un vero e proprio accesso, spesso  lo sostituiscono senza che appaiano altri disordini motori, vasomotori, ecc. E una riduzione nella sfera psichica del quadro clinico  dell'epilessia, quasi un' attenuazione dei fenomeni che questa presenta. Ora appunto le  passioni sono per le psicopatie ciò che gli  equivalenti epilettici sono per l' epilessia.  Esse preludiano e sostituiscono, sia nell'individuo, sia nel processo ereditario, le classiche forme morbose; esse ne presentano i  fenomeni attenuati e anno talvolta gK stessi  esiti. La lacuna tra l'attività normale e quella  morbosa dello spirito, colmata vagamente  con confusi riferimenti a tipi pazzeschi, à  cosi una soluzione precisa, e che risponde  non solo alle recenti vedute sull'arbitrarietà  di netti quadri clinici, chiusi nei sintomi  classici delle varie forme morbose, ma ancora alla natura dello spirito umano, che à  nella sua storia lente gradazioni di forme  normali e di forme morbose.   Lo stato passionale può dunque, secondo  noi, considerarsi un equivalente psicopatico  in doppio senso : generico, in quanto ogni  passione preludia o sostituisce un qualsiasi  stato psicopatico; specifico, in quanto determinate forme passionah, ad esempio la gelosia, preludiano e sostituiscono determinate  forme psicopatiche, ad esempio la malinconia  e la manìa di persecuzione.   2. Le passioni, guardate nello svolgimento d'un processo ereditario, appariscono  forme di passaggio, casi di eteromorfìa ereditaria.   Noi abbiamo avuto altrove occasione di  enunciare il nostro parere intomo alle trasformazioni che subiscono le forme morbose  nel processo ereditario. Ci pare che il mito  delle entità psichiche, perdurando, consapevolmente o no, anche neUe ricerche biologiche e psichiatriche,, abbia nello studio delTeredità prodotto un errore: la negazione  della trasmissibilità delle malattie mentali, e  un problema fondato su un'illusione: l'eteromorfismo.   Gli avvenimenti psichici non sono oggetti,  ma processi, formazioni comphcate, attuali,  individuah. Le forme morbose parimenti sono  manifestazioni, che si attuano in date individuaKtà alla stregua e in base alle varietà  morfologiche di ciascuna persona. Come tah  non si ereditano : quel che si trasmette è al  più una serie di disposizioni psicofisiche, dalle  quaK esse emergono, assumendo per contingenze attuah, individuah, una determinata  fisonomia psicopàtologica. Dato questo concetto, in armonia con le recenti interpretazioni dell' ereditarietà patologica, la similarità delle forme trasmesse diventa un caso,  e la metamorfosi la logica e naturale espressione che deve assumere una diatesi nervosa  quando diventa un avvenimento individuale.   In tal senso noi diciamo le passioni forme  di passaggio o trasformazioni ereditarie di  un processo degenerativo. Esse, come tutti  gK avvenimenti psichici, sono deviazioni di  una personaUtà, la quale resta il termine di  ragguagho per intenderne la formazione e  lo sviluppo; ma presuppongono una somma di dati morfologici e di disposizioni psicofisiche ereditate e tali, che possono volta a  volta provocare un processo psicopatico o  un processo passionale, come suo surrogato. Cosi intesa la natura morbosa delle passioni, è implicitamente delineato il posto che  esse debbono occupare tra le manifestazioni  normah e anormah dello spirito. Da una  parte distìnte per una serie di caratteri dagh  ordinari processi psichici, dall'altra distinte  dalle psicopatie, di cui appariscono forme  prodromiche o attenuate, equivalenti che le  sostìtuiscono, esse occupano il vasto campo  intermedio tra la sanità e la follia.   L'aUenazione mentale, sia considerata nella  varietà infinita di forme che riveste tra gli  uomini, sia considerata nel suo sviluppo individuale, apparisce una deviazione lenta,  insensibile, ricca di sfumature difficilmente  notabih, dallo stato sano. Il normale e l'anormale sono come un binario, di cui lo sguardo  distingue le due parallele sino ad lai certo  punto, al di là del quale queste par si confondano in una linea sola.  Questa zona grigia, indistinta, fu notata  dai psichiatri e battezzata con nomi diversi:  è la zona media del Maudsley, quella degli  ereditari del Morel, dei tipi misti del Moreau,  dei cerebrali del Laségue, dei psicastenici del  Benedikt, delle costituzioni psicopatiche dello  Schiile, dei mattoidi del Lombroso, dei degenerati in generale ; zona che raccoghe  grandezze e miserie, dalla quale sbocciano  talvolta i fiori del male e i fiori più belli  dell'attività umana, eroi, santi, criminah,  genii.   Il MorseUi enumera alquante categorie di  tipi che vi appartengono: insufficienti (imbeciUi), incompleti (criminaloidi), irrogolari  (mattoidi), instabili (isteriche e neurastenici),  incoerenti, irreflessivi, impulsivi, e poi ancora i distratti, i fantastici, gh spostati, i  pervertiti, gh eccentrici, gli abuhci, gU apatici, ecc. E nota che la enumerazione potrebbe allungarsi, sì che noi vedremmo passarci davanti tutte le disposizioni illogiche  dell'inteUigenza, tutte le perversioni del sentimento, tutte le tendenze antisociah delle  voKzioni, tutte le eccentricità del carattere,  tutte le bizzarrie della condotta, che la proteifonjae individuahtà umana ci può presentare. E il campo più suggestivo e più  fecondo per la psicologia e per la psicopatologia. Queste forme intermedie, che discoprono il meccanismo della personalità, senza  distruggerla, che offrono alterazioni di singoli processi su un fondo indistinto di morbosità diffusa, danno tutti i benefizi riconosciuti al metodo patologico senza gli  inconvenienti da qualche psicologo notati.  Eppure, tranne la classica opera del Moreau,  e a parte gli studi su casi speciali, come i  mattoidi del Lombroso, i mostruosi del Venturi, ecc., nessuna concezione sintetica à  tentato l'arduo compito di determinare, ordinare, illustrare questa grigia zona dell'attività umana.   Non tenteremo di sostituire all'elenco del  Morselli una classificazione che ordini in  gruppi la varietà indeterminata di queste  manifestazioni intermedie. Osserviamo che,  messe da parte quelle che presentano una  deficienza di attività, come gli apatici, gli  accidiosi, i distratti, i deboli, i suggestivi e  così via, nelle altre anno gran parte e importanza notevole i fatti passionali, siano  essi neUa forma specifica di passioni a  contomi netti (gelosia, amore, ecc.), siano  nella forma generica di stati passionah mute voh per contenuto affettivo e conoscitivo.   Le passioni ci sembrano per ciò stati della  personaUtà caratteristici deUa zona intermedia e atti, più che altri, a farci conoscere  la fase di passaggio dell'attività psichica  normale in quella morbosa, e indirettamente  a proiettare gran luce sulla conoscenza della  psiche sana e delle psicopatie. Poiché nelle  passioni, mentre si accentuano alcuni caratteri della normale personalità e si rende più  agevole lo studio di questa, si profilano le  prime linee delle psicopatie, in modo che si  può meglio secondare il giusto criterio della  ricerca moderna, la quale considera le forme  morbose come turbamenti dell'intera personahtà, comprensibili a pieno quando si scorgano i legami che li congiungono insensibilmente allo stato sano. tristezza, alcune passive, altre attive. Lo Spi noza fa derivare per mezzo dell'associazione,  I dell'immaginazione, della simpatia, tutte le   passioni dal desiderio, dalla gioia, dalla tristezza.  \ Con Kant abbiamo una classificazione, la   quale non solo esclude i fatti emotivi, ma  tralascia di assumere come criterio distintivo l'oggetto delle passioni. " Esse, dice il  Kant, debbono essere classificate, non in  quanto agli obbietti del desiderio, ma in  quanto al principio dell'uso e dell'abuso, che  gU uomini fanno della loro persona e della  loro libertà „. Le divide in naturah, che riguardano la libertà e la sessuahtà, e di cultura (ambizione, avarizia, dominazione); ardenti le prime, fredde le seconde.   H Lélut ne fa parecchie distinzioni: corporah e spirituah, dolorose e hete, calme e   Benda, Le Passioni. 16     ^ 1           >dbi la     tri   ito   bert, Descuret), pur partendo da criteri più  accettabili, non colgono i caratteri fondamentali delle passioni. Queste sono bene singolari gruppi di rappresentazioni e di sentimenti, diversi per tono e per significato,  come l'amore, il fanatismo, l'ambizione, la  gelosia, l'odio, ecc. ; ma quel che più importa  è la forma di personalità su cui esse s'adergono, come indici o come specializzazioni  rappresentative e affettive di processi più  profondi e fondamentali. E in una classificazione bisognerebbe tener conto non di ciò  che è un esponente o un episodio, non delle  singole passioni, ma dello stato passionale, e  vedere se di questo vi sono più forme e  quaU.   La classificazione del Ribot, che potrebbe  ravvicinarsi a quella del Kant, merita migUore accogUenza delle altre, ma non è soddisfacente. L'intensità è carattere certo importante, ma non proprio, né principale;  quindi non può essere elevato a dignità di  criterio di una classificazione. Noi siamo  convinti che questa deve essere corollario di  una più profonda conoscenza del temperamento e del carattere, una conseguenza della  classificazione dei diversi tipi di personaUtà ;  per ciò di là da venire.   Come tentativo provvisorio ci pare che si potrebbe ordinarle, tenendo conto di due  fatti: il rapporto che le passioni anno con  la personalità normale, di cui sono deviazioni o alterazioni, e ÌI carattere psicofìsico  di càascheduna. Tenendo presente il primo,  a norma delle osservazioni fatte, avremmo  tre classi distinte: 1" Passioni^ per dir così,  costituzionali, le quali non anno il carattere  d'un trauma psichico, non nascono in una  fase di sviluppo della personalità, ma ne  sono l'espressione originaria; esempio: l'ambizione, l'avarizia, l'invidia. Sono le passioni  pili temperate, più croniche. 2" Passioni antagonistiche, le quali presentano il carattere  d'una deviazione o alterazione del carattere  normale, e lo conservano lungo tutto LI loro  decorso. Esse non distruggono la personaUtà   j : promanano; si sovrappongono ad essa,   nano quel conflitto classico di sentiche è sembrato il carattere proprio  itati passionah. Esempio; l'amore, la  le del giuoco. 3" Passioni sostitutive,  li, dopo un periodo d'incubazione e di  dominano senza contrasti la coscienza  La personalità preesistente è da esse  ::to sostituita, se non distrutta. Sono  le passioni più cieche, più irresistibili, e  quelle più vicine alle vere psicopatie,  io: il fanatismo, l'odio, la gelosia.Come abbiamo fatto osservare iimanzi, le  passioni facilmente passano daUa fase di  contrasto a quella di dominio assoluto; si  che alcune del secondo gruppo possono anche  appartenere al terzo. A noi pare che a preferenza di un ordinamento, che le distingua  e le divida nettamente per tipi rappresentativi e affettivi, importi una classificazione che, tenendo conto del loro carattere  fondamentale, cioè dell' essere espressioni  della personalità, indichi più tosto il raggio  della loro influenza su di questa, alla stregua  del processo dissolutivo, per cui, alienandola  dalla normalità, la ravvicinano alle malattie  dello spirito.   Ognuna di queste classi va poi suddivisa,  in base ai caratteri psicofisiologici delle passioni, in tre gruppi: A) Passioni espansive;  sono quelle che imphcano un inclinazione  positiva, con colorito affettivo predomiaante  gaio, e che anno per carattere V attività.  Esse ricordano le manie e i dehri d'esaltazione. Esempio : ambizione, amore, fanatismo.  B) Passioni depressive ; sono quelle, che per  lo più implicano un'avversione, con colorito  affettivo predominante triste, e che non anno  ordinariamente una forza espansiva.Ricordano  la malinconia. Esempio: avarizia, nostalgia,  odio. C) Passioni miste ; sono quelle che consistono in un continuo avvicendarsi di stati  di depressione e di esaltazione. Questo carattere, che non manca nei due gruppi precedenti, è qui più accentuato e forma la  fisonomia psichica della passione. Esempio:  invidia, passione del giuoco, gelosia. La ricerca della responsabilità nel campo  giuridico, quando le passioni anno un esito  criminale, deve essere in parte fatta in rapporto alla classificazione ora data.   L'attuale periodo di transizione tra i vecchi  concetti giuridici, non scalzati e sovente imbastarditi dalla rinnovellata coscienza scientifica, e i nuovi orizzonti del diritto, che  danno alla responsabilità una base nuova,  iudipendente dalla valutazione etica, derivata dalla temibUità del dehnquente e daUa  sua adattabilità, diversa secondo le circostanze speciali dell'individuo, dell'atto compiuto e della società in cui vive (Ferri, Garofalo, Lombroso, Colajanni), danno luogo a  una contraddizione. E cioè spesso si giudica  irresponsabile il delinquente, ad esempio, in  cui è visibile anche per i profani la follia  morale, che è temibUissimo e inadattabile  all'ambiente sociale, e si condanna il delinquente per passione, meno pericoloso e quasi  sempre correggibUe ; e inviando il primo tutt' al  più in un manicomio comune (i manicomi  criminali può dirsi non esistEino) e il secondo  in carcere, che conserva ancora gli odiosi  caratteri di un luogo di vendetta e di pena,  si fìnisee col colpire più gravemente chi à  minori caratteri d'antisocialità.   Anzitutto occorre fare una distinzione.  Tranne il Severi, che distingue tre classi di  delinquenti (emozionali, passionali, aUenati o  nati) gli altri confondono in un sol gruppo,  con il nome di delinquenti passionali, coloro  che sono spinti al dehtto da un'emozione  improvvisa e transitoria, e coloro nei quah  il delitto è l'episodio finale e quasi sempre  la conclusione d'uno stato passionale. Certo,  considerando solo il momento del delitto,  par non vi sia differenza tra chi uccide o  ferisce in un impeto d'ira e chi uccide o ferisce in un impeto di gelosia, poiché la passione esplode in un atto criminoso durante  e per effetto d'un'emozione. Ma la fisionomia  psicologica e il significato sociale dei du"  dehtti è diverso.   I delinquenti emotivi e i delinquenti paf  sionali anno bene in comune i caratteri de servati dal Lombroso {Uomo delinquente, II,  204), dal Ferri {Sociologia criminale^ 240) e da  altri: la mancanza delle stimmate criminali,  l'onestà dell'animo, l'esagerata affettività, il  pentimento immediato e sincero, la sproporzione tra il delitto e la causa, e così via.  Però accanto a questa affinità, quale differenza nel loro dinamismo psichico e nel loro  valore sociale !   La criminalità emotiva è un raptus^ senza  preparazione cosciente, improvvisa, rapida;  la criminalità passionale è l'esito d'un processo lento di alterazione della personalità, è  un atto, talvolta preparato con la parvenza  di volizione libera, sempre effetto d'una accumulazione incessante di motivi subcoscienti  e spesso illusori. Non v'è un ragionamento  puramente emozionale; o l'emozione à una  logica istintiva, quasi una attività teleologica  fissata dall'eredità (Tarde), o tutt'al più una  parvenza di ragionamento rapido, embrionale, fatto d'un gruppo di idee e consistente  in una costruzione immaginativa (Ribot). V'è  invece un ragionamento passionale, importa  poco ora se falso, contradditorio, fondato su  illusioni. Ciò distingue la fisonomia psichica  di chi delinque stimolato da un'emozione  (ira, paura), la quale rompe momentaneamente l'equihbrio affettivo, e di chi, assillato dal martoro d'un dubbio geloso o incalzato  dalla disperazione d'un abbandono, orienta  poco la volta ranimo verso il delitto, che si  perpetra, quando un impeto emotivo fa da  scintilla, che produce l'esplosione d'una mina.  In breve, un fatto emotivo può agire su una  personalità normale, in modo da spingerla al  delitto, la cui causaUtà si esaurisce nell'emozione provocatrice; abbiamo il delitto emozionale. Può agire su una personalità dominata daUa passione; allora l'emozione è solo  la causa occasionale del delitto provocato,  la cui preparazione è nel processo psicopatologico della passione: abbiamo il delitto,  passionale. Inoltre: la passione si esaurisce  in quella scarica antisociale che è il delitto,  compie con essa il suo ciclo evolutivo, come  può compierlo con il suicidio, con una malattia, con una psicopatia. Una recidiva criminale è inconcepibile, né la statistica ne  dà esempi, poiché la personalità umana é  capace d'una sola passione, che raggiunga  tale massimo di violenza. Quindi, tranne il  caso in cui il dehtto rimanga incompiuto o  la passione sia piuttosto il pretesto aU'esplicazione di tendenze criminose, il dehnquente  passionale cessa d'essere temibile con l'atto  che chiude il ciclo del processo passionale.  Il rimorso, il pentimento, le conversioni radicali, osservate dagli studiosi nei rei per  passione, provano questa rapida riadattabilità  loro all'ambiente sociale. Non così avviene  per il delinquente emozionale. Se il delitto  non è proporzionato aUa causa — valutata  anche in base ai principi etici della società  in cui quello si perpetra — fa sospettare un  temperamento emotivo, incline alle improvvise rotture dell' equilibrio psichico, capace  di ricadere in .nuove violenze e per ciò più  temibile. Qui i mezzi riparatori non sono suf-  ficienti a tutela della società; occorrono i  mezzi repressivi, temporanei, a tempo inde-  terminato.   Un'altra ragione di minore temibLlità del  delinquente passionale è riposta nel rapporto  di dipendenza, già notato, della passione da  speciali gruppi rappresentativi. Questa è le-  gata al suo obbietto cosi, che non ne esiste  indipendentemente. Il geloso è geloso di una  determinata persona e non di altre. Si che,  mentre un impeto emozionale, ad esempio  l'ira, travolge seco anche persone ed oggetti  che non dovrebbero esservi connessi (si è irati  con tutti), la passione colpisce oggetti o per-  sone determinate. L'esilio è garanzia suffi-  ciente per un tentativo di defitto passionale ;  non sarebbe sufficiente nel caso d'un delin-  quente emozionale. Trovandoci poi innanzi a un delitto per  passione, occorre ancora procedere a un'altra  distinzione: può trattarsi d'un caso di crimi-  nalità, per cui la passione è solo una causa  determinante; può trattarsi d'un caso, in cui  cooperano insieme la passione e una i)sico-  patia o un disordine momentaneo, che agisce  come fattore supplementare; può trattarsi  infine del delitto passionale vero e proprio.  La reazione sociale deve essere diversa nei  tre casi; diversa anche nel terzo, a seconda  che la criminalità passionale prorompe da  una passione antagonistica, o sostitutiva, o  costituzionale, poiché il grado di responsa-  bihtà è diverso, essendo diverso il grado di  dissoluzione della personalità, diverso il grado  di adattabihtà, diversa la fisonomia psichica.   Da così complesse e difficUi distinzioni  deve concludersi che occorre sempre, nel  delitto passionale, l'analisi e il giudizio del-  l'uomo di scienza. Né l'impressionismo psico-  logico, né una formula a priori, antropolo-  gica o giuridica, né il buon senso d'un'accoz-  zaglia fortuita di gente spesso non nata pei  pensare, possono risolvere il problema deUi  responsabilità d'un individuo, che si dibal  dolorando nella zona grigia, dove non splendi  la luce della coscienza sana, né sono ancor^  scese le tenebre della follia. piccbibl.dj  scieu.mod.   Fi^'BOCCRED     Pieeola Biblioteea di Seieoze Jloderae   Klscuitl volnmi In-ia*   L Zuom-Biuioo. Im «lato. Svrl di MtrouomlK L. afiO   a n n ._-.,. BooTBloro tooretiBo^pnrtioa-CB'^di-  dlfaHl'M'aMva'iiHÉàuM.'— ' Óoà lìcùia ■ XJK)  «.Bnai. ArU e ItaUd. Attorno »U'ItaU»preiaUniM. — CooUniTS> B —  B. BouTTi. Twlvlà 41 MbHb ■MuBla. - OoD flnira . . . . • 6 —   S. LoHBXOM. n yrcUoHs «alla ralleltà >8 —   1. KOMMO. IToatlBl « Mm «al «oibbbI. — ■••■■•ualilB . . . > 8^  8. Kjpmi. JL» J ottri^a aeaB*BU«ba 41 C Mmrx— (Sequeitrato) • B —   10. FiATL Is ■■ «tr'fr— n '..'.'. l '.' • v'—   U. Buoni Buuoo. S«l nvwi 4el hU ifiO   la. Taoiui. n MilatlalM ■■•«ara* B —   U. JnuoB. Irfi BlaaiHttaB « l'arte ■!««•. — Con finua . . . . > 8 —   U. BarOLLL Pa>«k* al ■awiti MMaiii • ABHlae T 8,60   10. QMrruL K* cevaal aaalala 4al ftaonieBo aalaatuiaw . . > afiU   IB. Tboobj ■ D'Amu. lA Butrlut naataiapa r a a tai — OoD DO Bg. • B —   17. Da Saboth. x aacal >e —   18. Db LioT EvAn. VMsa prataacara la vita B —   li. SnurtoBSLLo. Dapa la naarl* • B —   V. IiUU»^m>. lAdElHilaa aella vita «BaUdlaa».Oon llgiin > i —   IL ILuM. IbaMara «slaalUeka > B,GO   Si. AjfToam. I rFaemm 41 I^aakrMa. — OoD flnua . . . . • S^CO   W. Turno. la MaHa 4*1 >l«i— 1 > SÌO   " Tmii li maniirlMnatn ritaratlT» U —   SE. Dai. I« vHTlalaal 4el tamira B —   K. TuMUL Ka Tlrt* •aatemponUHa i S      6(L Db Bobbio. ■••Arte -   BL BioOKiBi. la TtsUaau Islaalaa 4e^ alUautl. — Oon Binro >     66. Zoooou. Te4erlea   BB. LoRU. n e^rttaUBBia e la Hnaaia • h^U   87. OraoKB. Dal Sreel ■ narirla • 8,60   B& OiOOinn. IM #ii e i ' i» e la paee ael moKdo aaUaa i BfiO   60. TUanra. Diritti e «arari «ella «nUe» B —   «X Sbbbl Im palcba k«I (iBaaiaeiil 4cUa vita — don figure . . > ifio   41. ^XvLB. la vita a la eaaalaBia. — Con flpiT* B —   ta. Baooiowi. Sai rasa* 4al prafiuaa.— Con fignis S^   MI. &TBArroBBLLO. Il prasreM* 4ella ■eieaaa >8 —   U. llirrTn.u. la 'TrlpalltaBlik— Con una carta • 8,60   IB. MlBTBBIJBB.  «.HOLU. I«K   i7. Tiocuo. la   B. QRtin Au:Ea. la Tlta «alla piante. — Con flgnn .     O. Zau K .  fa.ilA.TBa. I     neatleU   B la (Olla .     - OonSgwa •     4ell* «pirite   pa e la Aula. — Cim figim .     •CO. Habvagk. Ii'mmmum del Crirtlanfwlw L. 4 —     00. Jamsi. «U MmOI della ▼!««. — (9» edisioiM) . .   81. B40GEOHI. D»U'al«talml» ali» ehimiea, — Con iigQxe .   09. Gappbllbtti. Ia l«n(«ada Napaleaalea. ~ Oon Agore   68. Mach, am^umi delle ■ifariwiil   84. Ti>Ti*ifnA. O m a é. CMaCa. — don figure   &^ AvDKBaoH. Iln«éllls«iua della folla   -86. HiouoH. Iia rica ael mari. — Ckm Agore   80. CoflTA. n Baddba   70. SouBBTx. Iie oriolai del mél«khraauMi   71. BROTrxBio. Per la Spirlttaoia   72. Clodd. Starla deU'AIflàbeta. — Ckm figoxe   78. Bkl Luiroo. Claeiiie e Héladiala   74. Furor. Iia lUoMlla della laaseTlià   75. AzjPFi e CoiLuiDuooi. Ia Uqaefludaae del sas e dell'i   76. Fbacxubolx. Ii'lrraalanale aella leMeraiara,   77. Oonr. I^ meecaaUma della vita   78. LsYi. l>ellMo e pena aél penalero del Oreel  70. Bkl Gibbo. Fra le «alate della Starla . . .   60. YxAczL Paleolecla del mmaà   8L Sbboi. BTOloBlaae amaaa iadlTldoaie <   88. Clodd. VaesAO prlaUtlTa. — Con Agore   88. BALDwnr. li' lateniseaBa .   84. Gafpbli«vxtl Ia rlTdoslaae   86. LoMBBOSO. Iia rlta del bamblal. — Goii Agore   -86. Emkbboh. Vomlal rappreeeatatlTl   87. MoxBxufl. laferlarltà meatale della daaaa   98. GuMPLOWXCZ. 11 eoneetto eoeloloslea della Stato ....  80. Agbxsti. Ia lUoeolla aella letteratora moderaa . . .   80. LoMBBOSO. I TaatacBl della deseaerasloae. — Gon Agore   81. PBGBABn. Iie lUoBloBl ottlelte. — Gon Agore   98. MoBASflO. lA aaoTa anaa (I<a auMelilaa)   86. MavosB. I<o stato soelalteta   94. GAinESTBon. CHI amori desìi aalmall. — Gon Agore . . .  06. BizzATTx. IHdla pietra flloeofUo al radio. — Gon Agore .  86. Gabltlx. PawMito e preeeate   97. Gouorar. D Teatro del popoli   98. BizKABBi. lA iMMe flalea del audo   90. Gapfellxtti. Storie e leggende   100. Glodd. Storia della firgert— e. — Gon Agore   101. ZAHOTn-BKABOO. Astrologia ed aetronoaida   lOB. Hall. H snolo   lOB. Babatta. Gnrioeità Tlaeiame. — Gon Agore   104. Fbaccabou. Ia «aeetlone della «enola   106. Eyavs. Iiao-tee e U libro della via e della Tirtdi . . .   106. Glodd. Miti e aogal   107. Lababca. D papato   106. Villa. 1/ ideolltiMO moderao   lOO. Fahoiulli. Ii'iadlTidBo aei saoi rapporti soeiall . . .   110. DncLAUx. Igieae Sociale   111. Bavizza. Peieologia della lingoa   112. Glodd. Fiabe e illoeolla primitiTa  118. Oappbllvtti. PriaeipeaM e graadi  114. KicxroBO. Fona e ricebeani ....   ne. Bbitda. Iie paartOBi   116. BOMAVO. I<a peieologia pedagogiea MB. — I Tolomi di qoesta serie esistono pore elegantemente legati in tela  oon fregi artistioi, oon «laa Ura d'aomento sol presso indicato. Antonio Renda. Renda. Keywords: High Church. Speranza, “Grice e Renda”. Renda.

 

Luigi Speranza -- Grice e Renier: la ragione conversazionale e l’implicatura – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Essential Italian philosopher. Studia in Camerino, Urbino, ed Ancona, a Bologna, sotto CARDUCCI, Torino, e Firenze, sotto BARTOLI. Insegna a Torino. Fonda il “Giornale storico della litteratura e la filosofia italiana”, «profonden dovi, negli studi particolari, nelle rassegne, negli annunci analitici e in un ricchissimo notiziario, un vero inesauribile tesoro di cultura, di notizie, di rilievi. Cura importanti edizioni critiche e monografie. I suoi saggi critici spaziano attraverso tutta la letteratura e la filosofia italiana. “Il tipo estetico della donna nel medio evo” (Ancona, Morelli); Isabella d'Este Gonzaga” (Roma, Vercellini); “Mantova e Urbino” (Torino, Roux); “La cultura e le relazioni letterarie d'Isabella d'Este Gonzaga (Torino, Loescher); “Svaghi critici” (Bari, Laterza); Luzio, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d'Este Gonzaga, Sylvestre Bonnard. Vendittis, Letteratura italiana. I critici,  Milano, Marzorati, Renda, Operti, Dizionario storico della letteratura italiana (Torino, Paravia); Letteratura italiana. Gli Autori,  Torino, Einaudi. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. SVAGHI CRITICI. Tuttociò senza che vi siano se non pochissime tracce  si  1 1  Flamini,  Studi  ili  «torta  letter.  Hai.  e  straniera,  Livorno,  im. A  c.  115  r.  Vedi  A.  Zardo,  Petrarca  e  i  Carraresi,  Milano.  In  quest'ultimo  luogo  lo  Zardo  afferma  che  le  terzine,  da  lui  non  riferite  perché  non  ne  inlese il  senso,  sono  forse  «  scritte  in  linguaggio  furbesco  ».  Il  dr.  Ferdinando  Neri  ebbe  la  cortesia  d'inviarmene  una  esatta  trascrizione,  che  mi  convinse  non  esservi  alcuna  frase  veramente  gergale.   (3i  Si  consulti  la  lettera  del  rimpianto  Gaetano  Milanesi  da  me  edita  nella  prefazione  alla  mia  versione  del  Slnduy,  Br.  [Mini,  pp.  XIX-XX.   (ij  Sono  parole  di  A.  Borgognoni,  nella  Rassegna  settimanaie, cure  di  vero  gergo  furbesco  (*);  come  una  parte  delle  rime  del  Burchiello  e  dei  Burchielleschi.  Per  qupl  che  ho  potuto  veder  io,  tanto  nel  caso  del  Burchiello  quanto  dei  Burchielleschi,  la  cosa  più  difficile  è  decidere  quanta  parte  della  loro  poesia  sia  veramente  senza  senno  e  rientri  in  quel  giuoco  di  spirito,  che  ha  una  storia  ben  lunga  e  (convien  confessarlo)  poco  edificante,  per  cui  non  si  dice  nulla  facendo  le  viste  di  dir  qualche  cosa  (*);  ma  in  questa  poesia  alla  burchia,  da  cui  il  barbiere di  Calimala  trasse  il  suo  soprannome  (3),      I  critici,  veramente,  credettero  di  ravvisarvelo,  e  già  il  Del  Fujjia  vi  trovò  ?  A  parer  mio,  la  parte  che  vi  ha  il  furbesco  non  è  molta. Vedi  il  sonetto  invettiva  contro  un  ignoto  poeta,  che  dal  celebre  ms.  Magi.  II,  II,  75  trasse  A.  G.  Spinelli,  Poeaie  inedite  di  Galeotto  del  Carretto,  Savona,  1888,  p.  38.  Ivi  calcagni •  compagni  »  e  truccare  e  cerre  «  mani  »  sono  sincere  parole  furbesche,  ed  altre  forse  se  ne  ravviserebbero,  se  il  testo  non  fosse  guasto.  L'invettiva  acerba  richiama  l'uso  del  gergo,  come  può  persino  scorgersi  nei  sonetti  scambiati  fra  Dante  e  Forese,  sebbene  di  furbesco  deciso    non  sia  il  caso  di  parlare. Vittorio  Bossi,  che  ebbe  il  merito  d'illustrare  quel  notevolissimo documento  storico  e  letterario,  mise  insieme  anche un  elenco  delle  parole  di  gergo  usate  dallo  Strazzòla.  Vedilo  nel  Oiorn.  stor. Quello  £  gergo  veneto  della  più  bell'acqua.   i4.i  Uno  spoglio  della  nostra  poesia  giocosa  e  delle  commedie antiche  darebbe,  a  questo  proposito,  frutti  eccellenti.  Il  Lii-hi  nel  Malmantile,  II,  5  fa  che  un  suo  personaggio  fin  12  censi  sull'uso  dell'antico  gergo  furbesco   continuato  del  gergo,  vale  a  dire  dai  componimenti gergali  da  capo  a  fondo.  E  di  questi  (quando  se  ne  eccettui  il  Pulci,  la  cui  produzione  furbesca  rimase  pressoché  ignota),  fu  forse  il  primo  Antonio Brocardo  a  dare  esempio,  conseguendovi  una  certa  celebrità  attestata  dalle  parole  del  Villani  (').  Per  questa  parte  il  Brocardo  terrebbe  fra  noi  il  posto  che  occupa  rispetto  all'uso  letterario del  gergo  francese  Francesco  Villon  (•).    tosi  baro  vada  chiedendo  un  po1  di  bene  «  per  Sant'Alto  ».  Sani' Allo  è  designazione  notissima  di  «  Dio  »  nel  parlare  furbesco. Il  Lastri  nel  luogo  sopra  menzionato  dell'  Osservatore  fiorentino cita  un  passo  delle  Storie  fiorentinede]  Varchi  ove  è  detto:  «  Appariscono  più  lettere,  non  in  cifra,  ma  in  gergo,  ad  uso  «  di  lingua  furfantina,  molto  strano  ».  G.  B.  Gitakixi  termina  con  una  battuta  furbesca  la  se.  X  dell'Atto  III  della  sua  Idropica.  Vi  occorrono  note  parole  di  gergo  come  contrapunto,  cordovano,  sbasire,  lenza,  fratengo,  cosco,  monello,  canzonare,  grimo.  Vedi  a  p.  89  dell' ediz.  veronese  del  1734.     Il  cui  giudizio  fu,  senza  citarne  l'autore,  ripetuto  dal  Crescimbeni  e  poi  dal  Del  Furia,  in  Alti  Accad.  Crusca,  ove  scrisse  che  Brocardo  fu  l'inventore  della  lingua gerga  o  furbesca . Su  questo  ingegnosissimo  scapigliato  criminnlp  del  sec.  XV  è  ora  da  vedere  il  bel  libretto  di  G.  Paris,  Francois Villon,  Paris,  1901.  Le  sei  ballate  in  gergo,  che  sono  veramente sue,  e  le  cinque  altre  d'un  ms.  di  Stocolma,  che  gli  furono  attribuite,  costituiscono  il  più  antico  patrimonio  gergale francese.  Quell'antico  materiale  fu  studiato  senza  troppo  metodo,  ma  con  informazione  larghissima  da  A.  Vrrr  nel  volume notevole  Le  jargon  du  X  V  siècle,  Paris,  1884,  che  ho  consultato  più  volte  con  profitto.  Ma  di  capitale  importanza  pel  gergo  del  Villjy^e  per  gli  altri  documenti  scritti  nel  furbesco francese  è  il  libro  di  L.  Schòne,  Le  jargon  et  jobelin  de  Francois  Villon  sitivi  du  jargon  au  thèàtre,  Paris,  1888.  Ben  altrimenti  che  in  Italia  fu  studiato  in  Francia  Vargot,  del  quale  si  compiacquero  anche  i  romanzieri  moderni  (V.  Hugo,  Sue,   Ad  attestarci  la  facilità  ch'egli  aveva  a  scrivere  in  gergo  sta  una  delle  tre  lettere  alla  cortigiana  Manetta  Mirtilla;  quella  che  il  Brocardo  le  diresse da  Padova,  dove  studiava  leggi.  In  essa  lettera  sono  due  periodi  furbeschi,  che  riferisco  ed  interpreto.    Sono  fatte  le  vacationi  nello  Studio,  et  io  fornirò  il  libro  et  lo  vi  mandaró  tanto  più  con  ordine  et  meglio scritto,  quanto  più  vorrò mostrarvi  che  non  è  fede  pari  alla  mia,  non  restando  però  dall'esservi  quel  inimico che  io  vi  sono,  dannosa rubuina,  che  se  mi  rifondo un  lustro  alla  bolla  della  lenza,  ve  la  martinerò  coi  merli  che  non  potrete  più  amarezar  contro,  di  Simon.  Se  contrapontizatt  in  amaro  col  cornifico,  che  farete  coi  tjaii  di  vostrisef  Gli  dovete  ammartinare  et  carpir  la  perpetua  dal  fusto  con  quelle cerette  fratenghe,  le  quali    Versione.    lingua  diabolica,  che  se  mi  reco  un  giorno  a  Venezia,  ve  la  trafiggerò  con  i  denti,  che  non  potrete  più  ingiuriarmi. Se  voi  mormorate  del  fratello,  che  farete  con  gli  amanti  vostri?  Li  dovete pugnalare  e  strappar  loro  l'anima  dal  corpo  con  quelle  buone  manine,  le  quali  con  le  ginocchia  in  terra  bacio  di  tutta  anima.    Rai  zac,  Zola),  che  ne  lardellarono  talvolta  certi  loro  libri.  La  Bildiographie  raisonnée  de  l'argot  et  de  la  langue  verte  en  Frnnce  du  X  V  (in  XX  siede  di  E.  Yve-Plessis,  Paris,  1901,  comprende ben  865  numeri!!  DeìVargot  moderno  parigino,  che  è  in  continua  evoluzione,  si  hanno  parecchi  dizionari.  Per  quel  che  spetta  al  gergo  francese  più  antico,  é  pur  sempre  prezioso e  fondamentale  il  volume  di  Fr.  Michel,  Eludei  de  philologie  comparie  sur  l'argot,  Paris,  1856.     Cfr.  ÌIazzuchelu,  Scrittori,  II,  IV,  21:20. con  le  seste  alla  calcosa  morfisco  di  tutta  perpetua.  Volea  tornare  al  nostro  parlare, ina  come  si  dice  che  chi  sta  furfante  tre  eli  soli,  mai  più  non  può  lasciare  quella  vita,  coni  chi  comincia a  scrivere  cella  loro  lingua, da  virtù  furfantesca  sforzato,  convien,  se  ben  nonvolesse,  finire  in  quella.  Vostrodeno,  dunque,  rifonderà breviosa  per  breviosa,  se  sbasirete  così  per  lo  cornifico, come  il  carni  fico  per  vostrise.  Del  quale  vi  potrà  poi  dannezzar  l'osmo  rifonditor  di  questa.  Vostrise  rifonda  morfa  et  morfa,  per  nome  del  cornifico,  a  l'osino  della  bolla  dei  tuferi,  cornifico  et  inazo  mio  fratengo,  et  a  tutti  i  gali  di  vostrodeno  Rifondo  stanga  al  burlante  et  ri  morfisco  tutta  da  chietina  a  calchi. —  Di  vostrise,  maza  sant'alta  Ant.  Brocardo  cornifico et  falconissimo  con  cera  comprante  viole  (').    V.  S.,  dunque,  risponderà  con  una  lettera  a  questa  lettera,  se  morrete  cosi  pel  fratello,  come  il  fratello  per  voi.  Del  quale  potrà  poi  informarvi l'uomo  latore  di  questa.  Voi  date  bocca  e  bocca,  per  nome  del  fratello, all'uomo  di  Vicenza,  fratello  e  signore  mio  ottimo, e  a  tutti  gli  amanti  di  V.  S.  Do  stanga  all'uscio  (idest  finisco)  e  vi  bacio  tutta da  capo  a  piedi.    Di  voi,  divina  signora,  Ant.  Brocardo  fratello  e  servitorissimo,  con  mano  fuggevole (*).      Vedi  Lettere  volgari  di  diversi  nobilinsimi  homini  ecc.,  race,  da  P.  Alamijj^^  L.  II,  p.  ili  e  anche  la  Xuova  scelta  di  lettere  race,  da  ±S.  Pino,  p.  336.  Cfr.  pure  Cian  nel  Oiorn.  degli  eruditi  e  curiosi,  1 1 .  629-30. La  mia  interpretazione  coincide  quasi  interamente  con  quella  che  diede  V.  Eossi  a  p.  30  «.  del  libretto  del  Vitaliani,  che  citerò  tra  breve  e  che  fu  edito  quando  questi  miei  cenni  erano  già  stesi. In  questo  gergo  furfantesco  veneto  avrebbe  il  Brocardo,  secondo  Alessandro  Zanco,  scritto  un  Capitolo  in  rima,  e  probabilmente  non  quello  solo,  se  in  questo  genere  di  composizioni  egli  si  guadagnò  reputazione  siffatta,  da  esser  creduto l'inventore  di  quel  linguaggio.  Nulla  sinora  sape  vasi  della  produzione  letteraria  furbesca  del  Brocardo;  ma  io  credo  di  non  ingannarmi  supponendo ch'essa  ci  sia  in  parte  conservata  da  un  codicetto  anonimo  cinquecentista,  già  posseduto dal  marchese  6.  Campori,  ed  ora  depositato all'Estense.  Sono  già  passati  molti  anni  che  il  rimpianto  marchese,  con  la  liberalità  eccezionale ond'era  dotato,  accondiscese  al  mio  desiderio di  avere  in  prestito  quel  codicetto  ('),  sicché io  ebbi  agio  di  ricopiarmelo  tutto.  E  un  zibaldoncino  di  55  carte,  evidentemente  dovuto  ad  un  dilettante  di  poesia  furbesca,  che  potrebbe  anche  essere  il  Brocardo  medesimo.  Le  prime  26  carte  sono  occupate  da  uno  spoglio  copioso  di  parole  e  frasi  gergali,  ad  alcune  delle  quali  è  messa  accanto  la  spiegazione  (2),  il  che  accade pure  in  un  altro  elenco  finale,  che  empie    fi)  Xe  rinvenni  dapprima  notizia  nel  Catalogo  dei  mss.  Campori  compilato  da  E.  Vaxdwi.  Il  nostro  codicetto  ha  il  n.  425  nella  Appendice  I,  Modena,  1886,  p.  151.   C2)  Noto  la  nomenclatura  dei  vari  dragoni,  cioè  «  dottori e  quella  interessante,  e  solo  in  parte  nota,  delle  Mie,  cioè    città  ».  la  questa  parte  è  pure  svelato  il  segreto  dei    nomi  da  intendere  quello  ha  il  compagno  quando  si  gio«  cha  alle  carte  »,  vale  a  dire  il  frasario  convenzionale  dei  bari.    16  censi  sull'oso  dell'antico  gergo  furbesco    le  carte  52-55  del  ras.  (').  Nel  mezzo  sono  scritte  (ce.  29-51)  parecchie  poesie  (vale  a  dire  due  capitoli o  ternari,  trenta  sonetti  ed  una  stanza)  tutte  d'una  stessa  mano,  ma  alcune  scritte  accuratamente, altre  affrettatamente.  Le  cancellature e  correzioni  della  mano  medesima  mostrano  che  il  codicetto  è  autografo  e  che  almeno  alcune  di  quelle  rime  sono  fattura  della  persona  stessa  che  quivi  le  scrisse.   Certamente  questo  ras.,  dal  quale  forse  mi  avverrà di  trarre  in  seguito  altre  comunicazioni,  è  d'interesse  capitale  per  chi  voglia  studiare  il  furbesco  del  nostro  Cinquecento.  La  ragione  per  cui  inclino  ad  attribuirlo  al  Brocardo  non  sta  solo  nella  coincidenza  perfetta  di  questo  gergo  con  quello  che  il  Brocardo  usò  nella  riferita  lettera, nè  solo  nella  fama  ch'egli  ebbe  di  maestro  nel  linguaggio  furfantino,  ma  anche  in  un  altro  fatto  che  mi  pare  significante.  Tutti  sanno  che  l'episodio  capitale  della  vita  del  Brocardo  sta  nella  sua  ribellione  alla  dittatura  letteraria  di  Pietro  Bembo,  ribellione  che  produsse  un  vero  scandalo,  che  tirò  addosso  all'infelice  giovine  le  ire  di  molti,  fra  cui  quelle  di  Pietro  Aretino,  e  che  forse  contribuì  al  suo  spegnersi  immaturo  (2).      Quivi  è  una  lunga  e  interessante  lista  di  rase  iUUi  furbi,  cioè  dei  diversi  inganni  dei  vagabondi,  nelle  loro  espressioni  di  gergo,  ed  inoltre  ijriomi  furbeschi  di  molti  santi.  Per  questo  episodio  vedi  Mazzuchki.i.i,  II,  IV,  219;  Vmoiu,  F.  Berni, Firenze,  1881,  pp.  229-36;  V.  Ci  an,  Decennio,  pagine  178-183;  C.  Bertaxi.  Pietro  Aretino  e  le  sue  opere,  Sondrio,  1901,  pp.  92-98.  Come  accennai,  erano  già  scritte  queste  mie  pa Il  chiasso  fu  tale,  che  in  Padova  si  formarono  due  fazioni:  quella  dei  Brocardiani  e  quella  degli  anti-Brocardiani  (').  Le  ire  dovettero  sfogarsi particolarmente  in  versi,  e  si  deplora  che  di  quei  versi  ben  pochi  siano  giunti  a  noi  (2).  Quelli  atroci  con  cui  l'Aretino  da  vasi  vanto  d'aver  ammazzato  il  Brocardo,  non  li  conosciamo:    si  conoscevan  finora  le  risposte  con  cui  certo  non  mancò  di  dargli  addosso  il  Brocardo  (3).  Quale  cosa  più  probabile  che  in  quelle  invettive  il  giovine poeta  usasse  il  gergo,  che  gli  era  famigliare  e  che  all'invettiva  particolarmente  riusciva  acconcio? Il  modo  con  cui  Bernardo  Tasso,  in  una  lettera  all'Aretino,  cercò  scusare  l'amico  suo  d'uno  di  quei  sonetti  non  esclude  davvero  ch'essi  fossero scritti  in  una  lingua  incomprensibile  (*).  Ora,  nel  codicetto  Campori  esistono  per  lo  meno  due  sonetti  diretti  contro  l'Aretino,    è  detto  che  non  ve  ne  sia  qualche  altro  in  cui  non  appaia  il  nome  di  lui  e  che  pur  lo  abbiano  in  mira.    gine  quando  comparve  il  libretto  di  D.  Vitaliahi  su  Antonio  Brorardo,  Lonigo,  1902,  ove  i  fatti  sono  estesamente  narrati  ed  esaminati.     Cfr.  Ciak,  Op.  tit.,  p.  179,  n.  3. Vedi  Vitamani,  Op.  cit.,  pp.  99-100. Il  sonetto  del  ms.  ci.  IX,  n.  300  della  Marciana,  che  ■si  dice  essere  stato  scritto  dal  Brocardo  contro  l'Aretino  (v.  Vitaliani,  pp.  42-44),  è  certo  minima  parte  di  quella  diatriba velenosa.     Dice  il  Tasso  che  quel  sonetto  «  fra  Taltre  cose,  non    s'intende  che  si  voglia  dire;  e  par  più  tosto  fatto  contra    una  puttana    (Lettere  scritte  a  Pietro  Aretino,  ed.  Landoni,  I,  I.  1H8-139).  Doveva  essere  ben  oscuro,  se  era  possibile  un  dubbio  siffatto  !    Renikh  Sruffhi  Critici    ì    18    CENNI  SULL'OSO  DELL'ANTICO  GERGO  FURBESCO    Ecco  i  sonetti,  che  sono  oscurissimi,  volutamente  oscuri:   La  ludovica  calca  vii  baceone   masca  che  il  eapuan  Pietro  Aretino,  con  il  suo  canzonar  vago  e.  divino,  l'altrui  fama  imbrunisca  da  Marone.   Amor  per  che  il  cavato  e  ver  dragone  d'ogni  osmo  di  campagnapellegrino  fratengamente  travaglia  e  il  lodesino  al  sfoglioso  di  .grandi  s'il  rippone.   Però  di  salso  lui  canzona  e  frappa  di  maggi  loi  ch'hanno  già  smarrita  la  calca  d'ogni  virtude  et  fatti  goi.   Acciò  ch'a  più  fratenga  et  onta  vita  ritracchi  ognun,  li  loffiosi  suoi  errori  imbianca  con  la  mista  unita  (l)    Pietro  Aretin,  che  la  tua  serpentina  Sant'Alto  l'ha  riffosa  in  si  furore  per  il  qual  speglia  e  tartisse  ogni  signore  che  contra  lor  non  trucchi  alla  marina.   Fratenga  sorte  bella  e  pellegrina   che  mancando  in  amor  et  in  ardore  in  alto  sbigni  si  ch'a  grande  onore  di  cavi  liniator  sei  posto  in  cima.   A  vostriso  si  riffonde  dell'albume  d'ogni  fiorita  cerra  nella  bolla  che  batte  la  gran  lenza  a  la  marina.   Ivi  Simon  il  preggiato  rosume   spande  al  sono  di  fiori  e  poi  per  fola  con  guaschi  cavi  solazzi  Pedrina  (!).      Il  sonetto  è  irregolare  nelle  rime  e  ha  parecchi  versi  che  non  tornano.  Coi  mezzi  di  cui  dispongo  se  ne  intendono  bensì  diverse  parole  e  frasi,  ma  non  il  senso  generale.  Solo  l'ultima  terzina  parmi  sia  da  interpretare  così:  «  Perchè  «  ognuno  ritorni  a  vita  più^dfona  e  bella,  [l'Autore]  con  l'unita  «  lettera  scopre  la  nefandità  degli  errori  di  lui  [Aretino]  » Mi  è  chiara  solo  la  prima  terzina:    A  voi  si    del  «  denaro  da  ogni  bella  mano  nella  città  che  batte  la  gran  ;   Lii  presenza  di  questi  due  sonetti,  che  possono  offrire  un  saggio  del  più  puro  furbesco  vèneto,  rende  assai  verosimile,  a  me  sembra,  che  al  Brocardo  appartenga,  in  tutto  od  in  parte,  la  raccoltimi del  ìus.  Campori.   Nella  quale  raccoltina  ricompaiono  pure  la  stanza,  il  capitolo  in  lode  del  contrappunto  o  parlar  furbesco  (l),  ed  i  quattro  sonetti,  che  sono  stampati  in  fondo  al  Modo  novo  da  intendere  la  lingua  serga  (2):  tutti  componimenti  che  non  ri    d'acqua  a  la  marina  ».  Non  si  creda  che  il  vocabolo  Pedrina,  con  cui  il  sonetto  si  chiude,  accenni  a  Perina  Riccia,  una  delle  amanti  dell'Aretino  a  Venezia.  Se  è  vero  che  nel  1537  essa  avesse  soli  14  anni  (cfr.  Bertasìi,  Op.  cit.,  p.  147),  non  poteva  il  Brocardo  alludere  a  lei  nel  '31.  Inoltre  v'è  la  frase  furbesca satirizzar  Pedrina,  che  vale  «  darsi  buon  tempo  ».  Essa  ricorre  in  un  altro  sonetto  del  codice  Campori  :    Et  se  in  la  rasa  sguazzare  Pedrina  ».   (1)  Contrappunto  dice  «  farsetto    nel  gergo  del  Pulci  e     linguaggio    nel  gergo  veneto.  Il  passaggio  ideologico  è  il  medesimo  per  cui  i  Sardi  chiamano  il  gergo  cobertanza. Due  di  quei  sonetti  passarono  anche  nei  cit.  Studii  sulle  lingue  furbesche  del  Biondelli,  a  pp.  169-70.  Riferisco  la  stanza  correggendone  gli  errori  con  l'aiuto  del  codice;   Chi  tuoI  far  l'arte  del  buon  calcagnante  attenda,  che  monel  vi  farà  cima.  Vostriso  il  tappo  anelle  e  le  tirante,  il  basto  sodo  e  gualdi  nella  lima.  Se  tu  vuoi  aste  a  morrizar  raspante,  riffbndi  il  talian  a  qualche  grìitia.  Sul  burchio  truccarsi  per  la  calcosa  e  avrai  sempre  gonfiata  la  sfoiosa.   Interpreterei  cosi  :  «  Stia  attento  eh*" vuol  fare  l'arte  del  buon     compagnone,  che  lo  farò  diventar  perfetto.  Bucati  (?)  siano    il  vostro  mantello  e  le  brache;  la  giubba  sucida;  pidocchi  «  nel!  a  camicia.  Se  vuoi  denari  per  mangiar  capponi,    l'e ■  sca  (?)  a  qualche  vecchia.  -Tu  n'andrai  a  cavallo  per  la  terra  «  e  avrai  sempre  piena  la  borsa  ».    20  CENNI  sull'uso  dell'antico  gergo  furbesco    salgono  all'autore  di  quell'antico  lessico,  perchè  il  lessico  non  serve  ad  intenderli  compiutamente,  e  perchè  l'editore  vi  lasciò  correre  molti  errori  manifesti,  che  nel  ms.  Campori  sono.  Quindi  la  raccolta  del  codice  Campori  è  anteriore  alla  edizione principe  rarissima  del  Modo  novo,  che.  è  del  1549.   Quel  libretto,  che  ci  rappresenta  la  lingua  dei  hianti  e  dei  pitocchi  nell'Italia  superiore  (')  fu   Bitinte,  come  ci  insegna  la  Crusca,  vale  vagabondo,  «  che    va  intorno  birboneggiando  e  cercando  di  truffare  il  pros«  simo  » .  Questi  pericolosi  individui,  nelle  loro  numerose  suddivisioni in  mendicanti,  mercenari,  cerretani,  ladri,  merciaioli  ambulanti,  avventurieri,  scrocconi,  ecc.,  che  popolarono  in  Francia  le  corti  dei  miracoli,  si  costituirono  in  Parigi,  fin  dal  Quattrocento,  in  una  corporazione  avente  la  sua  gerarchia,  i  suoi  statuti,  la  sua  lingua.  Vedi  pp.  3  sgg.  dell'Op.  cit.  di  A.  Vitu,  e  l'articolo  di  Fh.  Micukl  nel  I  voi.  dell'opera  Le  mot/en-age  et  la  renaissance,  ove  alle  categorie  dei  vagabondi  francesi  sono  accostate  quelle  dei  vagabondi  italiani,  quali  furono  noverate  da  Raffaele  Frianoro.  Questo  Frianoro  è  pseudonimo  del  padre  Giacinto  de'  Nobili,  romano,  che  nel  lò!)4  fu  ascritto  ai  domenicani  di  Viterbo  e  dettò  varie  opere  di  religione  e  riguardanti  la  storia  del  suo  ordine  (cfr.  QukriF-EcHAKD,  Script,  ord.  praedicatorum,  II,  408).  Per  trastullo  egli  pubblicò  nel  1621,  col  pseudonimo  di  Frianoro,  un  libretto  dal  titolo  II  vagabondo,  ovvero  Sferza  de'  bianti  e  vagabondi,  che  ebbe  varie  edizioni  antiche  ed  una  moderna,  procurata  da  Alessandro  Torri  in  Pisa  pel  Capurro  nel  1W28,  con  le  false  indicazioni «  Italia,  F.  Didot  =•  e  col  titolo  di  Trattato  dei  bianti.  Vedi  per  la  bibliografia  Passalo,  Xovell.  Hai.  in  prosa  -,  I,  392  sgg.  e  le  aggiunte  di  A.  Tkssieu  nel  Oiom.  degli  ermi,  e  curiosi,  li,  555  sgg.  Sono  trentaquattro  le  categorie  di  vagabondi  che  il  Xobili  registra,  esemplificandone  con  acconcie  novellette  le  gesta.  Quivi  talora  essi  parlano  con  qualche  termine  del  loro  misterioso  linguaggio,  e  persino  alcuni  dei  loro  nomi  ritraggono  dal  gergo:  p.  es.  morghigeri  da  Morgana  «  campana ristampato  molte  volte  (4)  ed  è  finora  il  principale, quantunque  defieentissimo,  strumento  che  ci  sia  concesso  per  intendere,  alla  peggio  o  alla  meglio, l'antico  gergo  furbesco  italiano  (*).  Intorno  a  quel  primo  nucleo  si  potranno  raggruppare  molti  altri  vocaboli  da  chi  sappia  convenienteniente  trar  partito  dal  codice  tto  Cam  pori  e  dai    e  ruffiti,  bruciati,  da  ruffa  «  fuoco  ».  Interessante  è  ciò  che  scrive  di  codesti  furfanti  T.  Garzoni  ne]  disc.  72  della  sua  l'iazza  universale,  ove  riferisce  anche  parole  del  loro  gergo,  evidentemente  dedotte,  insieme  con  la  prima  quartina  d'un  sonetto furbesco,  dal  Modo  novo.  Vedil'ediz.  citata  della  Piazza,  Venezia,  1592,  a  pp.  582  e  584.   (li  Del  Modo  novo,  dal  1549  in  poi,  si  ebbero  una  quindicina di  edizioni,  tutte  oggi  rare.  Si  possono  vedere  annoverate dal  Biicket,  Manuel,  111,1784  e  dal  Pitrè,  Bibliografia  delle  tradiz.  popolari,  Torino-Palermo,  1894,  pp.  172-73.  Il  piccolo  lessico,  come  dice  un  sonetto  proemiale,  fu  fatto  con  lo  scopo  pratico  di  far  intendere  ai  galantuomini,  per  loro  difesa,  il  gergo  dei  birbanti.  Il  Modo  novo  fu  dal  Torri  accodato,  con  ottimo  pensiero,  all'ediz.  pisana  del  Trattalo  dei  bianti,  ed  è  questa  la  ristampa  meno  difficile  a  trovarsi,  sebbene  il  libretto  sia  stato  tirato  a  soli  '250  esemplari. Con  poche  aggiunte,  tutte  da  qualche  testo  furbesco,  il  Modo  novo  ritorna,  in  forma  più  rigorosamente  alfabetica,  negli  Studii  sulle  lingue  furbesche  di  B.  Biondelli  e  nel  menzionato volume  di  Elude»  sur  l'argot  di  Fu.  Michel,  app.  425  sgg.  L'Ascoli,  Studii  critici,  I,  102  n.  menziona  come  cose  diverse dal  Modo  novo  suddetto  due  pubblicazioni  di  Pietro  e  Giov.  Maria  Sabio,  che  i  bibliografi  registrano,  il  Vocalmlario  della  lingua  zerga,  Venezia,  1556  e  il  Libro  zergo  de  interpretare  la  lingua  zerga,  Venezia,  15G5.  Io  cercai  indarno  di  vedere  questi  due  libretti,  che  non  esistono  neppure  nella  Marciana.  Il  Michel  pure,  che  li  cita  a  p.  424,  non  credo  li  abbia  veduti. Ilo  un  fiero  dubbio  che  siano,  sott'altro  titolo,  ristampe  del  Modo  novo,  e  in  questo  dubbio  mi  conferma  anche  una  not3  sgg.  Sul  gergo  dei  pastori  del  Bergamasco  si  trattenne  re  28  cenni  sull'uso  dellUnttco  gergo  FURBESCO    e  criminalisti  (').  Prescindendo  dall'enorme  varietà della  terminologia  oscena,  che  si  rinnova  e  si  arricchisce  di  continuo      molti  termini  del    plicate  volte,  in  speciali  memorie,  A.  Tirabosciu,  che  tornò  ad  occuparsene  in  appendice  a]  suo  Vocabolario  bergamasco.  Un  saggio  di  gergo  torinese  fu  messo  insieme  da  A.  Vihiglio  nell1  opuscolo  Come  si  parla  a  Torino,  Torino,  1897,  pp.  38  sgg.  Un  elenco  di  vocabili  furbeschi  palermitani  si  trova  nell'opera del  Pitrè,  Usi  e  costumi  siciliani,  II,  319-36.  Per  altre  piccole  raccolte  vedi  la  Bibliografia  del  Pitrè.  stesso  ed  anche K.  Sachs  nel  Literaturblatt  far  gemi,  und  roman.  Pliilotogie,  XX,  414.   (1)  Alcuni  fra  i  contributi  dei  criminalisti,  sebbene  non  abbiano scopo  filologico,  sono  preziosi.  Pei  gerghi  della  bassa  mafia e  della  camorra,  vedasi  il  Pitrè,  Op.  ci/,  e  Archivio  di  psichiatria, 111,448-50;  X.  271-76:  XXI.  9b-101.Per  quello  toscano,  Ardi,  cit.,  XI,  220;  per  quello  romano,  Xicufuro  e  Sighele,  La  mala  vita  a  Roma,  Torino,  1898  passim,  ma  specialm.  107-72;  per  quello  piemontese,  oltre  il  cit.  Viriglio,  Ardi.,  Vili,  125130;  per  quello  veneto,  Ardi.,  I,  204-12.  Il  Soranzo  ed  il  Pitrè  registrano  un  Vocabolario  dei  gerghi  veneziani  più  oscuri  di  L.  Pasto,  Venezia,  1803.  ma  a  me  non  riuscì  di  averlo  fra  mani.  Questi  ed  altri  materiali  pone  a  profitto,  con  osservazioni non  tutte  inutili,  C.  Lombroso,  nell'ultima  ediz.  dell' Uomo  delinquente*,  I,  531  sgg.  11  libro  di  A.  Xicefoko,  //  gergo  nei  normali,  nei  degenerati  e  nei  criminali,  Torino  1897,  mantiene  assai  meno  di  quel  che  il  titolo  prometta  e  gli  studiosi del  furbesco  italiano  avranno  ben  poco  da  apprendervi.   (2j  Nel  linguaggio  erotico  le  parole  di  gergo  passano  spesso  nella  lingua  o  viceversa.  Vedasi  la  ricchezza  delle  denominazioni date  alle  meretrici  secondo  gli  scrittori  napoletani  dal  sec.  XV  al  XVII  in  S.  Di  Giacomo.  La  prostituzione  in  Napoli  nei  sec.  XV-XV1I,  Napoli,  1899,  pp.  £H>-97.  Più  d'una  volta  il  Lombroso  ha  ripetuto  dal  Dufodr,  Histoire  de  la  prostitution,  che  nella  lingua  erotica  francese  del  sec.  XVI  l'atto  venereo  aveva  300  sinonimi,  le  parti  sessuali  400,  le  prostitute  103.  Nel  furbesco  torinese  recentissimo,  p.  es.,  dice  «  prostituta  »  anche  bicicletta,  forse  per  analogia  con  pietà  (bicia)  che  ha  il  medesimo  senso. gergo  antico  ricompaiono  tali  e  quali  nelle  parlate moderne  dei  truffatori  e  dei  ladri  ('),  e  vi  sono  voci  gergali  che  riescono  a  penetrare  nei  dialetti  e  a  farsi  accogliere  persino  nella  lingua  letteraria  ("').  Chi  consideri  questo,  vedrà  age Lenza,  lima,  maggio,  perpetua,  dragone,  ecc.  sono  ancor  vivi  e  comunissimi  in  varie  parlate  furbesche  d'Italia,  nel  si-nso  stesso  che  avevano  nel  Cinquecento.  Cosi  pure  i  prouomi  mascherati,  come  mamma  per  «  io  »  (nel  gergo  antico  mia  madre    io  •,  tua  madre  *  tu  »,  accanto  a  simone,  monello ecc.  per    io  »;  vostriso,  vostrodeno  ecc.).  Cfr.  Lombroso,  Op.  cit.,  I,  542-43  e  550.  Lustro  dice    giorno  »  nel  gergo  veneto odierno;  Instic  nel  piemontese.  Del  gergo  piemontese  è  pure  calcusana  per  «  terra  >,  l'antico  calcosa;  magruna  per    morte  »,  l'antica  magra;  sfóióse  per  «  carte  >;  riaro  pungent  per    aceto  »,  antico  chiaro    vino  »  ;  viprósa  per  «  lingua  ■,  analogo  all'ant.  serpentina  (Ardi,  di  psirhialria,  Vili,  125  sgg.).  E  a  Firenze  oggi  pure  è  detto  in  furbesco  ridarò  il    vino  »,  Itnxa  l'«  acqua  »,  raspanti  i  «  polli  »,  fangose  le  «  scarpe  »;  a  Torino  fangóse  ecc.  (Arch.  cit.,  XI,  220).  Un  giuoco  di  carte  fatto  per  ingannare  i  gonzi  è  ancora  detto  dai  bari    trucco  delle  sfogliose  »  (..IrcA.  cit.,  XIX,  874).  In  Valsoana  si  usa  hriina  per    notte  »;  chiarir  per  «  bere  »;  romene  per  «  bastone »,  ant.  ramengo  ;  rUf  per    fuoco  »  ;  barar  per  «  guardare »,  ant.  Ixdcare,  ed  il  bellissimo  marconar  per    maritarsi  »,  che  risponde  agli  antichi  marca  «  donna  »  e  quindi    meretrice »  e  marcane  «  rumano  ».  La  mala  vita  di  Roma  conosce  tuttora  I ih  iosa  per  «  prigione  »  ;  sgrondare  per  «  rubare  »,  ant.  grand/re,  e  grane-io  «  ladro  »;  bianchetto  «  argento  »  analogo all'ant.  albume;  forntica    soldato  »;  grimo  «  vecchio  »  ecc.  Invece  il  furbesco  dei  manosi  e  quello  dei  camorristi  non  presentano  alcuna  somiglianza  col  gergo  antico. Vedi  in  proposito  l'arguto,  ma  in  qualche  parte  paradossale, articolo  di  F.  Brcxktiéhk,  De  la  deformation  de  la  languc  par  l'argot,  in  Heiuc  de*  deux  mondes,  voi.  47,  1881.  pp.  -134  sgg.  Nulla  di  simile  s'è  fatto  per  l'Italia  e  converrebbe tentarlo.  Cito  solo  qualche  esempio.  11  veneto  odierno  ha  sbasir  per  «  svenire  »  e  sbasto  nei  vari  significati  che  registra il  Boerio:  il  che  richiama  lo  sbasire  «  morire  »  del volmente  che  lo  studio  del  gergo  può  divenire  qualcosa  più  che  una  semplice  ricerca  di  curiosità erudita.   Nota  aggiunta.    Comjjarso  la  prima  volta  nella  Miscellanea- di  studi  critici  in  onore  di  Arturo  Grraf,  Bergamo,  Istituto  d'arti  grafiche,  1908.  Dopo  uscito  il  mio  studietto,  comparve  in  Francia  un  dotto  volume,  che  sarà  d'ora  innanzi  il  vero  fondamento  per  ogni  ulteriore  ricerca  sui  linguaggi  furbeschi  d'un  tempo,  Lazark  Saisean.  L'argot  ancien,  Paris,  Champion,  1907.  Il  Sainéan,  straniero,  profittò  del  mio  scritto,  sebbene  lo  riguardasse  solo  fino  ad  un  certo  punto;  noi  conobbe  invece, o  ne  tacque,  Dino  Provenzal,  italiano,  che  sui  gerghi  cittadini  fece  alcune  considerazioncelle  nel  suo  articolo  1  nuovi  orizzonti  del  folklore,  Bologna,  1906,  pp.  25  sgg.    gergo  antico.  Nel  veneto  occorre  pure  spessegar  per  «  camminare in  fretta  »,  e  parrebbe  frequentativo  di  spcssar  «  andare »,  che  è  gergale,  da  cui  il  bello  lustro  sposante  «  oggi  »,  quasi  «  giorno  corrente  »  (cfr.  Ardi,  di  psichiatria,  I,  '210).  Pel  volgo  dell'Italia  centrale  marchese  dice  «  mestruo  »,  il  che  ci  richiama  al  furbesco  marca  «  donna».  Su  ciò  cfr.  marque  nel  Michel,  Op.  cit.,  p.  960.    Gaia  di  Gherardo  da  Camino.    Rammentate  la  chiesa  di  S.  Nicolò  a  Treviso?  Il  superbo  tempio  dei  padri  predicatori,  che  maestosamente domina"  i  piccoli  edifìci  circostanti,  s'erge  grandioso,  semplice  ed  elegante  sugli  svelti  colonnati,  che  sopportano  gli  archi  acuti,  mentre  dalle  grandi  finestre  ogivali  penetra  eternamente  giovine  il  sole,  e  gli  ex  voto  frescati  nel  Trecento  ridono  nella  gaiezza  delle  loro  tinte  dalle  colonne e  dalle  pareti,  ed  a  destra  un  colossale  ti.  Cristoforo,  pure  dipinto  a  fresco,  guarda  sempre ingenuo  e  stupito  il  piccolo  Redentore  che  reca  in  ispalla.  L'edifìcio,  tra  i  più  belli  e  puri  del  Veneto,  è  in  gran  parte  dovuto  alla  munificenza di  quel  dotto  e  pio  monaco,  di  cui  in  quest'anno  Treviso  s'appresta  a  celebrare  il  centenario della  morte,  Nicolò  Boccasini  domenicano, che  per  pochi  mesi,  in  sugli  albori  del  XIV  secolo,  portò  la  mitezza  della  sua  santa  anima  sulla  cattedra  pontificale,  succedendo  col  nome  di  Benedetto  XI  al  fiero  papa  Caetani,  e  s'ebbe  poi  aureola  di  beato  e  presso  i  suoi  concittadini tanta  estimazione,  che  qualcuno  di  essi  avrebbe  augurato,  a  ricordo  di  lui,  il  nome  di  Benedetto XV  all'attuale  pontefice,  pure  trevisano. Grande  venerazione  nutrirono  i  signori  da  Camino  per  S.  Nicolò.  Il  vecchio  Guecello  dei  Caminesi  di  sotto,  già  nel  1272,  quando  l'attuale tempio  non  era  ancor  sorto,  volle  essere  sepolto  apud  ecclesia  m  sancii  Nicolai,  la  modesta  chiesa  di  S.  Nicolò,  detta  dei  pescatori,  che  un  giorno  appartenne  ai  Domenicani;  e  con  ogni  verosimiglianza  le  sue  ossa  furono  poi  trasportate nella  tomba  che  presso  la  porta  maggiore  del  nuovo  S.  Nicolò  ordinò  fosse  a    costrutta  il  figliuolo  di  Guecello,  Tolberto  (1317).    presso  riposava  ormai  da  sei  anni  la  sua  prima  moglie,  Gaia,  figliuola  di  Gherardo  da  Camino,  la  nobilis,  prndens  et  honesta  domina  Gaia,  come  la  chiama  il  notaio  che  rogò  il  suo  testamento  nel  castello  di  Portobuffolò  il  14  agosto  1311,  la  quale  aveva  lasciato  cinquecento  lire  di  piccoli  prò  opera  et  laborerio  della  nuova  chiesa.  E  nel  mausoleo  materno,  posto  a  sinistra  di  chi  usciva  dal  tempio  (nel  sec.  XVIII  se  ne  vedevano  ancora  gli  avanzi),  mentre  la  tomba  di  Tolberto  era  a  destra,  volle  esser  tumulata  l'unica  figlia  nata  da  Gaia,  la  virtuosissima  Chiara,  che  fu  moglie  al  nobil  conte  Rambaldo  Vili  di  Collalto  e  fece  testamento  il  7  settembre  1348.  Presso  la  madre  e  la  nonna  dormi  l'eterno  sonno  anche  Ailice,  una  delle  figliuole  di  Chiara,  morta  nel  1381.   Queste  ed  altre  cose  molte  largamente  espone  e  documenta,  in  un  recentissimo  libro,  Angelo  Marchesan  (l),  il  quale  alle  attestazioni  recate   Gaia  da  C'amino  nei  dorumenli  trevisani,  in  Sanie  e  nei  commentatori  della  Die.  Commedia,  Treviso,  tip.  Turazza. dall'antico  storico  della  Marca  trevigiana,  il  Verci  ('),  altre  ne  aggiunge  dedotte  da  documenti  sinora  inediti,  custoditi  in  depositi  pubblici  e  privati.  Non  molto  aggiungono  i  documenti  nuovi  a  quello  che  di  Gaia  già  si  sapeva;  ma  invece  sono  preziosi  per  farci  meglio  conoscere  le  persone che  furono  a  lei  più  strette  di  affinità,  particolarmente il  marito  e  la  figlia.  Gaia  nacque,  secondo  le  probabili  congetture  del  Marchesan,  fra  il  1265  ed  il  1270  dal  magnanimo  Gherardo  e  da  Chiara  della  Torre.  Siccome  questa  mori  solo  nel  1299,  passò  Gaia  la  giovinezza  sotto  l'amorosa  vigilanza  materna,  e  la  madre  potè  condurla  all'altare,  allorché  verso  il  1293  essa  impalmò  Tolberto  dei  Caminesi  di  sotto.  Questi  fu  uomo  di  non  comune  autorità,  prode  nell'armi, accorto  negoziatore.   Va  da    che  i  documenti  ufficiali  non  ci  dicono se  siano  stati  buoni  i  suoi  rapporti  con  la  moglie;  ma  il  fatto  che  egli  testò  di  voler  esser  sepolto  non  lungi  da  lei,  morta  nel  1311,  non  sembrerebbe  certo  indizio  di  malevolenza.  Indubitato è  poi  l'affetto  figliale  tenerissimo  di  Chiara,  la  quale  non  solo  dispose  d'essere  riposta nell'arca  stessa  di  Gaia,  ma  in  una  sua  figlia  ne  rinnovò  il  nome,  e  forse  chiamò  Gaia    di  Del  Verci,  per  quel  che  concerne  i  Caminesi,  s'era  particolarmente  giovato  il  Mawiiesan  nell'altro  utilissimo  suo  volume,  che  cosi  bene  illustra  la  storia  più  gloriosa  di  Treviso e  che  contiene  assai  più  di  quel  che  dica  il  titolo,  L'università di  Treviso  nei  secoli  XIII  e  XIY,  Treviso,  1892.    Re  .1  KB  Svayhi  Critici. pure  una  sua  figlioccia,  ed  a  suffragio  dell'anima della  madre  destinò  un  legato  a'  poverelli  nel  suo  testamento.  Per  quanto  la  pratica  degli  atti  legali  antichi  ci  premunisca  dal  dare  loro  un  peso  soverchio  per  quel  che  spetta  alle  condizioni intime  dei  personaggi  a  cui  si  riferiscono,  e  per  quanto  nel  frasario  e  nelle  disposizioni  di  quelli  atti  molto  si  debba  alla  convenzione  inveterata, sta  il  fatto  che  il  complesso  dei  numerosi documenti  fatti  conoscere  dal  Marchesati  è  tale  da  farci  credere  Gaia  gentildonna  esemplarmente intemerata,  e  che  non  si  conosce  pure  un  atto  della  sua  breve  vita  onde  sia  lecito  trarre  qualche  legittimo  sospetto  in  contrario.   O  come  va,  dunque,  che  ormai  nella  critica  dantesca  predomina  opposta  sentenza  ?  Nella  terza  cornice  del  Purgatorio,  quella  fumosa  degli  iracondi,  s'imbatte  l'Alighieri  in  Marco  Lombardo, che  spiegatagli  la  funzione  del  libero  arbitrio nelle  operazioni  umane,  assorge  da  questa  considerazione  psicologica  ed  etica  alla  teoria  politica,  svolgendo  il  principio  tanto  caro  a  Dante  delle  due  autorità  necessarie  al  regolato  consorzio umano,  l'imperiale  e  la  pontificia,  operanti  divise  ma  concordi;  lamenta  la  degenerazione  di  quella  larga  zona  della  superiore  Italia  che  francescamente  chiamavasi  Lombardia,  e  dice  che  tre  soli  vecchi  ancor  vivono,  «  in  cui  rampogna  l'antica  età  la  nuova  »,  Corrado  da  Palazzo,  il  buon  Gherardo,  e  Guido  da  Castello.  Noti  sono  a  Dante  il  bresciano  Corrado  ed  il  reggiano  Guido;  ma  chi  sia  il  buon  Gherardo  ùnge  d'ignorare.  E  allora  Marco  a  stupirsi  di  siffatta  ignoranza ed  a  replicare:   O  tuo  parlar  m'inganna  o  e'  mi  tenta,    chè,  parlandomi  tosco,   Par  che  del  buon  Gherardo  nulla  senta.  Per  altro  soprannome  io  noi  conosco,  s"io  noi  togliessi  da  sua  figlia  Gaia  (').   Dopo  quest'accenno,  tronca  il  discorso  bruscamente: «  Dio  sia  con  voi,  che  più  non  vegno  vosco  » .   Ora,  l'oscurità  voluta  di  quest'accenno  indusse  i  dantologi  a  lunghe  discussioni;  ma  ormai  i  più  autorevoli  inclinano  a  ritenere  che  Marco,  dopo  aver  così  esaltato  il  vecchio  Gherardo  da  Camino, abbia  voluto  pungere  la  degenerata  figliuola tristamente  celebre  per  la  libertà  de'  suoi  costumi.  A  non  dilungarci  in  citazioni  che  riuscirebbero interminabili  e  uggiose,  basti  il  dire  che  la  scostumatezza  di  Gaia  parve  certa  ad  un  filologo  come  il  Rajna  (*)  e  ad  uno  storico  e  dantista come  il  Del  Lungo  (3),  e  che  ormai  passò  in  giudicato  nelle  più  pregiate  opere  di  consultazione e  di  complesso  come  il  Dante  DicUonary  del  Toynbee  fpp.  113  e  255)  ed  il  Dante  dello  Zingarelli  (p.  635).   Sarà  fuor  di  strada  la  maggiore  e  più  autorevole parte  dell'esegesi  dantesca,  rispetto  al  picei» Purgai.,  XVI,  136-140.   iSI  (fai-a  da  C'amino,  in  Arch.  star,  italiano,  serie  o»,  voi.  IX  .  103-104.  Cfr.  i>.  lir>.    42       GAIA  DI  GHERARDO  DA  CAMINO    ricerca  storica  intorno  ai  fotti  della  sua  patria  ('),  avendo  rinvenuto  nell'archivio  notai-ile  di  Treviso un  documento  in  cui  Gaia  è  detta  Goya  Soprano,  de  Camino,  suppose  che  a  Dante  non  fosse  ignoto  quel  secondo  nome  dato  nel  rogito  alla  contessa,  e  che  quindi  con  la  circonlocuzione  di  Marco  il  poeta  venisse  a  chiamare  Gherardo,  oltreché  buono,  anche  sovrano.  L'ipotesi  potrebbe  quadrare  se  il  secondo  nome  di  soprano,  ricorresse abitualmente  nei  documenti;  ma  la  raccolta  del  Marchesan  ci  dimostra  che  ciò  non  avviene  e  che  l'atto  notarile  fatto  conoscere  dal  Bisca ro  è  un'eccezione.  Di  solito  la  contessa  caminese  è  indicata  senz'altro  col  nome  di  Gaia.  Ma  pur  concedendo, e  volentieri  lo  concedo,  che  l'Alighieri  non  sapesse  punto  esser  quel  nome  (latinamente  Caia)  una  specie  d'anagramma  di  Atea  ("),  non  è  forse  vero  che  Gaia  molto  si  presta  a  foggiarne  un  soprannome?  È  questo  uno  di  quei  nomi  significativi  di  donna  che  occorrono  cosi  di  frequente presso  i  poeti  dello  stil  nuora  e  la  cui  singolare  ricorrenza  fece  pensare  al  sempre  rimpianto Bartoli  ch'essi  avessero  quasi  il  valore  di  quei  senhals,  con  che  i  trovatori  di  Provenza  artificiosamente  celavano  i  nomi  veri  delle  donne  da  loro  amate  in  rima.  E  Dante  aveva  un  gran  gusto,  da  uomo  medievale  che  era,  d'arzigogolare sui  nomi,  come  tutti  sanno,  e  sui  nomi  di  Gerolamo  Bisc.aro,  Dante  e  Gaia  ciò  Camino,  nella  Gazzetta di  Treviso,  fin.  XV  (1878),  n.  282   CI)  Vedi  Ra.jna,  Ardi,  r.it,  pp.  291  e  sgg.    GAIA  DI  GHERARDO  DA  CAMINO    43    donna  in  ispecie.  Quindi  io  non  vedrei  proprio  difficoltà  alcuna  ad  ammettere  che  abbia  colpito  nel  vero  il  march.  Domingo  Fransoni,  il  quale  levatosi  fra  i  primi  a  difendere  l'onore  di  Gaia  (.'/,  sostenne  che  il  secondo  soprannome  appropriato  dal  Lombardo  al  vecchio  Caminese  fosse  quello  di  gaio;  opinione  alla  quale,  senza  sapere  di  chi   10  avea  preceduto,  mostrò  di  propendere  anche   11  mio  carissimo  Novati  (*).  E  si  noti  che  la  parola gaio  ha  nel  linguaggio  nostro  antico  una  estensione  di  significato  ben  maggiore  che  nel  moderno,  forse  per  influenza  di  quella  specie  di  camaleonte  degli  epiteti  che  fu  il  gay  di  lingua  d'oc.  Dal  più  comune  senso  di  lieto,  che  è  dantesco nel  Farad.  XV,  60  e  XXVI,  102,  si  giunge  a  piacevole,  a  gentile,  a  nobilmente  giocondo.   Quest'ultimo  significato  è  forse  nel  luogo  nostro il  più  acconcio.  E  mestieri,  infatti,  tener  fermo  anzi  tutto  un  principio,  a  parer  mio,  sicuro: Dante  nel  XVI  del  Purgatorio,  deplorando  la  decadenza  del  valore  e  della  cortesia,  dicendo  l'età  sua  divenuta  selvaggia,  non  intende  alludere propriamente  ad  una  degenerazione  etica,  come  non  ha  punto  valore  ristrettamente  etico  l'epiteto  buono  che  accompagna  il  nome  di  Ghe (lj  Lo  scritto  del  Fransoni,  rimasto  generalmente  ignoto  a  chi  si  occupò  della  questione  nostra,  è  nel  volume  de'  suoi  Studi  cari  sulla  Dio.  Commedia,  Firenze,  1887.  Io  pure  lo  avrei  ignorato  se  non  era  il  rinvio  del  prezioso  catalogo  americano  del  Kocli  e  poi  il  resoconto  che  ne  diede  il  Marchesan,  pp.  105  e  sgg. Giornale  storico  della  letteratura  italiana, rardo  da  Camino.  Buono  per  Dante  ha  senso  ben  più  largo  che  buono  pei'  noi;  tanto  è  vero  che  egli  chiama  buono,    certo  per  ironia,  il  Barbarossa  nel  Pitrg.,  XVIII,  119  i,1).  Rispetto  al  costume  non  fu  buono  Gherardo,  del  cui  libertinaggio abbiamo  indizi  sicurissimi,  certo  non  ignoti  al  poeto,  che  potè  verificarli  coi  propri  occhi  a  Treviso,  quando  vi  andò  (*),  e  Gherardo  era  vecchio  e  Rizzardo  ormai  camminava  con  la  testa  afta.  Qualunque  portata  abbia  la  digressione dottrinale,  di  carattere  psicologico  e  politico,  che  occupa  tanta  parte  del  Purgatorio XVI  (3),  è  indubitabile  che  la  bontà  di  Gherardo, come  quella  dei  due  vecchi  suoi  compagni,  è  bontà  cavalleresca,  è  curialilas.  Fu  già  da  parecchi osservato  che  Dante  fa  qui  parlare  un  uomo  di  corte,  vale  a  dire  uno  di  quei  curiosi  tipi,  in  cui  il  poeta  sentiva  qualcosa  di    medesimo, costretto  per  tanti  anni  a  salire  le  altrui  scale,  uno  di  quei  tipi  che  a  seconda  delle  loro  qualità  personali  potevano  elevarsi  dal  basso  mestiere  del  buffone  all'altissimo  del  diplomatico; ma  che  tuttavia  vivevano  della  magnanimità dei  signori  e  dovevano  quindi  tenerla  in  altissimo  conto,  non  meno  di  quel  che  facessero    (1;  Cfr.  il  volume  Con  Dante  e  per  Dante,  Milano,  1899,  pp.  82-83. Basserjiaxn,  Orme,  trad.  Gorra,  pp.  437  e  447;  Zixgareli.i,  Dante,  p.  204. Sul  valore  di  questa  digressione,  vedasi  l'opuscolo  di  M.  Los  aito,  Xel  terso  rerchio  ilei  Purgatorio,  Torino,  i  poeti  girovaghi  di  Provenza  (')•  La  perfetta  curialitas  equivaleva  alla  perfetta  nobiltà,  che  secondo  Egidio  Romano  (il  cui  De  regimine  principimi  non  fu  ignoto  all'Alighieri)  consisteva  in  quatti'o  virtù:  la  magnanimità,  la  magnificenza, V  ingegnosa  dolcezza,  l'affabilità  (*).  Della  nobiltà  l'Alighieri  parla  a  lungo,  con  molte  e  sottili  distinzioni  scolastiche  nel  trattato  IV  del  Convivio,  ed  ivi  cerca  l'accordo  fra  la  nobiltà  del  sangue  e  quella  dell'animo.  Ora  è  cosa  notevolissima che  in  quel  trattato  appunto,  nel  cap.  14,  egli  invoca  l'esempio  di  Gherardo,  siccome quello  d'uomo  senza  possibilità  di  contestazione tiobilissimo:  «  Pognamo  che  Gherardo  «  da  Camino  fosse  stato  nepote  del  più  vile  vil«  lano  che  mai  bevesse  dal  Sile  o  dal  Cagnano,  «  e  la  obblivione  ancora  non  fosse  del  suo  avolo  «  venuta,  chi  sarà  uso  di  dire  che  Gherardo  da  «  Camino  fosse  vile  uomo?  e  chi  non  parlerà  «  meco,  dicendo  quello  essere  stato  nobile?  Certo  nullo,  quanto  vuole  sia  presuntuoso,  perocché  «  egli  fu,  e  ha  sempre  la  sua  memoria  ».  E  però Vedi  specialmente  la  felice  indagine  di  F.  Colagrusso,  Gli  uomini  di  corte  nella  Dio.  Commedia,  ove  sulla  cortesia  del  buon  Gherardo  sono  osservazioni  degne  di  nota.  Studi  di  letteratura italiana,  II,  51-55.   f2)  Sull'evoluzione  del  concetto  di  nobiltà  nei  tempi  di  Dante  ai  leggano  le  belle  pagine  di  K.  Vossler  nel  suo  libretto  or  oia  uscito  in  luce,  Die  philosophiachen  Grundlagen  ztim    aflsSUI  Heidelberg.  1904,  pp.  24  e  sgg.  Sulla  parte  che  aveva  l'amore  in  questo  concetto  della  nobiltà  cortese,  vedasi  Covati  nel  voi.  Arte,  scienza  e  fede  ai  giorni  di  Dante,  Milano. a  buon  diritto  Benvenuto  cosi  intende  l'epiteto  buono!  «  Hic  fuit  viitotus  benignus,  bumanus,  «  curialis,  liberalis  et  amicus  bonorum:  ideo  an *  tonomastice  dictus  est  bonus  ».   Le  qualità  cavalleresche  sopra  indicate  il  poeta  riconosceva  tutte  nel  degno  signore  trevisano,  al  cui  palagio  si  recava  ancora  per  antica  simpatia,  sebbene  a  motivo  della  vecchiaia  non  andasse  più  altrove,  maestro  Ferrarino,  il  gran  conoscitore della  poesia  trobadorica  ;  e  Gherardo  ed  i  figliuoli  suoi  (fra  cui  Gaia)  «  li  fasian  grand  «  honor  e'1  vesian  voluntera  e  molt  l'aquliau   *  ben  e  li  donavan  voluntera  »  (x).  Ma  a  differenza dagli  altri  due  vecchioni  una  prerogativa  avea  il  Caminese  che  agli  altri  non  era  propria,  la  gaiezza,  la  giocondità.  E  per  dir  questo  il  poeta  ricorre  allo  spediente  ingegnoso  di  far  rammentare la  sua  figliuola,  la  quale  Gaia  appunto  chiamavasi,  ed  incline  com'era  (non  meno  del  padre)  alle  «  delegazioni  amorose  »,  chissà  non  rispondesse  a  ciò  che  un  giullare  del  tempo  scrisse  delle  concittadine  di  lei:   De  le  donne  da  Treviso:  queste  soii  cavalcareselie  ;  sempre  con  allegro  vitto,  tutte  quante  zentilesche:  Su  Ferrarino  e  sul  svio  famoso  florilegio,  recpiitemente  edito,  cfr.  G.  Bertoni  nel  Giorn.  stor.  della  leti,  italiana,  XLII,  378  sgg.  Vedi  Casini,  /  trovatori  nella  Marca  Trevigiana,  in  Propuynalore. lei  liei  balli  e  delle  tresche  limino  ben  ile  saver  fare,  e  poi  san  bea  solazare  con  ognun  gentil  barone  [}).   irfliezza  e  giocondità  codeste,  che  erano  in  piena  relazione  con  la  vita  tradizionale  nella  Marca,  tanto  conforme  ai  gusti  degli  uomini  di  corte.  Cosa  notissima  è  infatti  che  segnatamente  nel  sec.  XIII  fu  Treviso  ricetto  di  bella  e  fresca  coltura, teatro  di  feste  amorose,  di  giostre,  di  tornei. Non  è  certo  d'uopo  di  rammentare  ai  lettori  colti  la  festa  del  castello  d'amore,  bizzarra,  elegante, fastosa,  di  cui  ci  serba  memoria  il  cronista Rolandino  (2).   Noi  troviamo  Trevigi  nel  cammino,  che  di  chiare  fontane  tutta  ride,  e  del  piacer  d'amor  che  quivi  è  fino,   scrive  l'autore  del  Ditt amondo  (III,  2).    sulle  rive  del  limpido  Sile  parve  che  rivivessero  in  una  primavera  italica  le  tradizioni  cavalleresche  d'oltralpe,  e  insieme  al  canto  dei  trovatori  echeggiarono le  leggende  classiche  e  carolingie  nella  *  jojose  marche  del  cortois  trivixan  >.  Questo  verso  appartiene  al  poema  franco-veneto  della  Entrée  de  Spagne,  al  quale  poema,  ed  all'arguto    (l)  Versi  editi  da  T.  Casini  nel  Propugnatore  del  1882  e  rammentati,  nel  libro  sull'università,  dal  Marchksax  e  poi  anche  dallo  Zenatti.   C2\  Per  questo  e  per  altri  particolari  della  vita  nella  Marca,  vedansi  i  capitoli  111  e  IV  della  citata  opera  del  Marchesa»,  L'università  di  Treviso. lai  d'Aristote,  che  è  una  specie  d'apoteosi  della  potenza  d'amore,  pare  certo  s'inspirasse  un  pittore venerando  in  certi  suoi  freschi  preziosi  della  fine  del  dugento  o  del  principio  del  trecento,  che,  scoperti  in  una  casa  privata  di  Treviso,  furono nel  1902  allogati  nel  museo  di  quella  città  dal  dotto  e  benemerito  cittadino  che  risponde  al  nome  di  Luigi  Bailo  (').  Quelli  affreschi,  e  gli  altri  ugualmente  antichi  di  cui  si  conservano  i  resti  nella  loggia  de'  cavalieri,  ove  i  nobili  si  accoglievano  a  sollazzo,  ammirandovi  ritratte  le  leggende  di  Troia,  stanno  a  dimostrarci  che  nella  terra  de'  Caminesi  tutte  le  arti  si  davano  la  mano  per  render  gioconda  e  raffinata  la  vita.   *   E  ora  ammainiamo  le  vele.   Che  Marco  Lombardo,  trattato  male,  a  quanto  sembra  da  Rizzardo  da  Camino,  abbia  potuto  riguardare  come  una  tentazione  la  dimanda  di  Dante  rispetto  al  buon  Gherardo,  e  non  abbia  voluto,  per  non  abbandonarsi  all'ira,  biasimare  nei  figli  di  lui  la  natura  parca  che  altrove  (Farad.,  Vili,  82)  Carlo  Mai-fello  lamenterà  discesa in  Roberto  Angioino,  il  re  da  sermone,  non  è  improbabile.  Di  ben  altro  che  d'avarizia  era  Su  quelli  affreschi  veramente  notevolissimi  abbiamo  sinora  solo  una  relazione  del  Bailo  stesso  e  la  nota  di  V.  GiiEStwi  negli  Atti  dell'Istituto  veneto,  voi.  LXII.  P.  II,  pp.  267  e  sgg.    GAIA   DI  GHERARDO  DA  C'AMINO    49    tacciabile  Rizzardo,  ed  il  poeta  infligge  a  lui  In  condanna  in  luogo  più  acconcio,  e  per  altra  bocca.  L'intemerato  e  sdegnoso  uomo  di  corte,  invece,  che  deplora  la  degenerazione  penetrata  nei  nobili  della  Marca,  integra  con  la  sua  seconda designazione  la  prima.  Gherardo  non  ha  soltanto  in    tutte  le  doti  della  curialitas,  per  cui  fu  detto  antonomasticamente  buono;  gli  si  può  appropriare  un  altro  soprannome,  togliendolo  da  sua  figlia  Gaia,  ed  allora  egli  apparirà  qual'è,  non  solamente  generoso,  liberale,  arrendevole,  affabile,  ma  anche  giocondo,  della  bella  ed  artistica giocondità  della  sua  patria.  Nessun  dato  serio  di  fatto  ci  consente  di  credere  che  la  gaiezza di  Gaia  (seppure  ella  fu  gaia  non  solamente nel  nome)  abbia  oltrepassato  i  limiti  dell'onestà: tutti  i  documenti  cospirano  a  farcela  invece ritenere  figliuola  amorosa,  moglie  esemplare,  madre  teneramente  amata;  la  cruda  attestazione  dell'Imolese  più  che  con  l'esagerato  desiderio  di  contar  fatterelli  piccanti,  di  cui  Benvenuto  fu  ghiottissimo,  più  che  ad  una  amplificazione  maligna del  nome  della  gentil  donna  e  della  chiosa  del  Laneo,  è  forse  dovuta  ad  un  equivoco.  Ma  se  anche  qualcosa  di  vero  vi  fosse  nella  imputazione di  «  tota  amorosa  »  inflitta  a  Gaia;  se  anche,  nella  giovinezza,  i  suoi  costumi  fossero  stati  alquanto  leggieri,  come  certamente  furono  quelli  del  padre  e  quelli  dei  fratelli,  non  è  il  caso  di  credere  che  a  ciò  volesse  accennare  il  poeta  divino.  Molto  indulgente  ei  fu  sempre  ai  peccati  d'amore,  massime  in  donna  nobile  e  per  altri    Rfmrr  Svaghi  Critici    i rispetti  stimabile.  L'altro  requisito,  che  meglio  serviva  a  caratterizzare  Gherardo,  era  la  giocondità.  Nessun  soprannome  onorevole  poteva  venirgli da  una  figlia  scostumata;  ed  il  cognome  della  figlia  era,  in  questo  caso,  quello  del  padre,  sicché  chi  avesse  ignorato  l'uno  non  poteva  ricever  lume  dall'altro.   Nota  aggiunta.    Nel  Fmiftdla  della  Domenica,  24  gennaio 1904.  L'opinione  qui  sostenuta,  che  Dante  non  volesse  punto  infamare  Gaia,  fu,  dopo  quest'articolo  mio,  patrocinata  da  L.  Bailo  nel  Nuovo  Archivio  veneto,  N.  S.,  VII,  P.  II,  pp.  433-38;  da  Luigi  Colktti  nello  scritto  Gaia  e  Rizzardo  da  Camino,  Treviso,  Zoppelli,  1904;  da  G-.  B.  Picotti  in  un  articolo su  Gaia  da  C'amino  che  si  legge  nel  Giornale  Dantesco,  an.  XII,  quad  6°,  e  quindi  nel  volume  /  Caminesi  e  la  loro  signoria in  Treviso,  Livorno,  Giusti,  1905;  da  Mario  Cevolotto,  Dante  e  la  Marca  trevigiana,  Treviso,  tip.  Turazza,  1906;  da  F.  Torraca  in  enti-ambe  le  edizioni  del  suo  ottimo  commento  al  poema  dantesco;  da  A.  Medix  nella  Ras»,  bibl.  della  Ietterai,  italiana,  XIII,  '210-11.  Invece  ritornò  all'antica  credenza  che  Dante  nominasse  Gaia  a  vitupero  Pio  Eajsa  nel  Bullelt.  della  Società  Dantesca  italiana,  X  S.,  XI,  349  sgg.  Egli  non  mi  ha  persuaso:  ma  d'un  particolare  di  fatto  conviene  tener  conto:  che  la  sgualdrina  caminese  menzionata  da  Giovanni  da  Non  non  si  chiamava  Gaia  (vedi  le  pp.  355-56  del  Rajnaj.  Ed  un  secondo  particolare  di  fatto  voglio  richiamare.  Secondo  una  dimostrazione  inoppugnabile  di  M.  Barbi  nel  citato  Bullett.,  X.  8.,  XV,  213  sgg.,  il  commento  del  cosidetto  Talice  da  Eicoldone,  che  io  fui  il  primo  a  studiare,  mostrandone  l'affinità  con  quello  di  Benvenuto,  non  è  sostanzialmente  altro  che  l'esposizione  del  poema  fatta  a  Bologna  da  Benvenuto  medesimo.    Il  Vànnozzo.    Chi  era  costui?   La  domanda,  da  parte  del  pubblico  anche  non  mediocremente  colto,  è  davvero  più  giustificata  di  quella  che  rivolgeva  a    medesimo  il  più  celebre  dei  curati  a  proposito  d'un  filosofo  antico  punto  oscurissimo.  Di  Francesco  di  Vaunozzo  non  da  molti    da  molto  tempo  si  bisbiglia.  E  ben  vero,  che  già  nel  1825,  Niccolò  Tommaseo,  con  quel  suo  ingegno  acuto,  di  pensatore  edi  artista, ravvisava  l'importanza  di  certe  rime  politiche del  Vannozzo  edite  per  nozze  dall'abate  Andrea  Coi  e  minuziosamente  le  commentava  (').  È  ben  vero  che  dopo  d'allora,  attingendo  a  quel  preziosissimo  cimelio  che  è  il  codice  n.  59  della  biblioteca  del  Seminario  di  Padova,  ove  si  conserva per  intero  il  patrimonio  poetico  del  rimatore spontaneo  e  bizzarro  (2),  parecchi  eruditi  fecero  conoscere  qualcosa  di  lui,  massime  il  ghiNon  pago  di  quello  studio  giovanile,  tornava  il  Tommaseo sul  Vaunozzo  nel  Dizionario  d'estetica  (1860),  I,  i'27  sgg. La  tavola  del  codice  è  già  nell1  Indire  delle  carte    P.  Bilan  edizione  il907).    Tal  quale  nella  prima  edizione,  del  1898. Gescli.  der  ital.  Liti.,  II  (1888>,  p.  80;  nella  traduzione.  2=>  ediz.,  II,  1,  79.     !p.  1G9).  Sapeva  di  musica  più  che  mediocremente;  adattava  a'  suoi  versi  le  melodie  popolari  ovvero  quelle  dei  musicisti  stranieri;  sonava  con  maestria  più  d'uno  strumento. Sciolte  e  gaie,  tutte  conteste  d'allusioni  mordaci  e  talora  d'espressioni  gergali,  gli  fluivano dalle  labbia  le  rime.  Al  pati  del  suo  più  tardo  confratello,  il  Pistoia,  con  cui  ha  vari  punti  di  simiglianza,  di  tutto  ciò  che  gli  capitava  sott' occhio  faceva  sonetti,  canzoni,  frottole.  Souetti  e  canzoni,  che  dai  motivi  tradizionali  burleschi,  dalle  movenze  proprie  ai  buffoni,  dalla  satira  personale  sguaiata,  assorgevano  talora  ad  alti  argomenti politici,  s'ingentilivano  in  rime  d'amore  d'un  petrarchismo  cosi  vivo  e  sano  e  sentito,  quale  poche  altre  volte  al  Trecento  venne  fatto  d'udirne.  Esemplari  di  ciò  i  due  magnifici  sonetti  al  giardino,  uno  dei  quali,  d'una  freschezza  mirabile, malgrado  qualche  lombardismo  nella  dizione, voglio  riferire  per  saggio:   Gaio  e  zentil  zardino  adorno  e  fresco,  dove  per  suo  piacer  la  Dea  s'asconde,  inclina  verso  me  tue  fresche  fronde  se  per  parlar  un  poco  non  t' incresco.   Io  sono  il  cor  del  tuo  frate-I  Francesco,  quel  che    crudelmente  Amor  confonde;  da  te  mi  parto  e  non  so  veder  donde,  mia  morte  fuggo,  in  cui  tanto  m'adesco.   Sol  un  rimedio  trovo  a  la  mia  doglia,   che,  se  '1  fie  mai  eh' a  te  costei  si  stenda,  tu  faccia  lagrimar  ciascuna  foglia   e  gli  arbor  tutti  mia  rason  difl'enda.  Perfin  ch'ella  non  è  mossa  de  voglia  i  fiori  e  l'erba  sta  giudea  riprenda, e  s'ella  vi  domanda:  «  A  che  piangete?  »  ognun  risponda:  «  Pietà  non  avete.  »  (')   Il  poeta,  che  sapeva  trovare  accenti  così  aristocraticamente soavi  nella  poesia  d'amore;  il  poeta  che  con  balda  prosopopea  faceva,  inv  ocare  dalle  città  italiane  il  conte  di  Virtù  a  redentore  d'Italia  e  con  verace  inspirazione  accomiatava  quella  manatella  di  sonetti  dicendo:   Dunque  correte  insieme,  o  sparse  rime,   e  gite  predicando  in  ogni  via   che  Italia  ride  e  ch'è  giunto  il  Messia;   il  poeta  capace  di  questi  e  d'altri  sentimenti  gentili  e  generosi,  come  s'incanagliava  talor  nelle  bettole  e  nei  bordelli,  attratto  dalla  follia  del  dado  e  dal  fascino  dei  mali  compagnoni  e  delle  male  femmine,  cosi  si  sbizzarriva  nelle  frottole  saltellanti  e  procaci,  vere  orgie  poetiche.  Una  di  quelle  frottole,  la  frottola  del  mariazo,  è  una  specie  di  farsa  popolare  in  embrione,  riflesso senza  dubbio,  come  il  Levi  dimostra  dottamente, d'altre  consimili  rappresentazioni  profane, che  per  non  esser  state  fissate  con  la  scrittura il  tempo  c'invidiò.  Strano,  dunque,  mutevole,  randagio,  questo  Vannozzo;  un  po'  cantampanca,  un  po'  uomo  di  corte,  un  po'  confidente  di  principi e  gran  signori;  riproduzione,  debitamente  modificata  in  conformità  alla  temperie  italiana,  Seguo  la  lezione  data  dal  Levi  a  p.  420,  solo  modificando l'interpunzione  nelle  terzine.  Il  sonetto  fu  molte  volte  stampato.  E  desideratissima  l' edizione  critica  di  tutte  le  poesie  del  Vannozzo,  che  il  Levi  ha  già  pronta. dell'antico  giullare  francese;  senza  speciale  coltura, ma  tutto  spontaneità  e  brio,  tutto  vita,  tutto  arte  non  riflessa.  In  altri  termini,  un  rappresentante sincero  di  quella  scapigliatura,  che  all'età nostra  critica  piace  tanto,  perchè  vi  ravvisa  riflesso  più  genuinamente  il  vario  atteggiarsi  dell'anima umana.   Documenti  rintracciati  permettono  al  Levi  di  ricostituire  la  biografia  del  personaggio  bizzarro,  rispetto  alla  quale  sinora  s'era  brancolato  nel  buio.  Non  veronese  egli  fu,    trevigiano  di  Volpago,    bene  padovano,  figlio  a  Giovanni  di  Bencivenne  d'Arezzo,  detto  Vannozzo,  fido  cortigiaao  di  Francesco  I  da  Carrara  e  da  lui  regalato d'una  casa  in  Padova.  Erano  codesti  Vannozzi,  o  Vannucci  che  dir  si  vogliano,  telaroli  toscani,  di  cui  alcuni  fecero  quattrini,  comprarono terre,  divennero  prestatori  e  banchieri.  Non  cosi  il  nostro  Francesco,  cui  tormentava  l'assillo  della  irrequietezza  e  fors' anche  la  tendenza  a  quell'onesta  pigrizia  che  le  Muse  tanto  volentieri  consigliano.  Egli  fu  povero  in  canna  e  della  miseria sua  ebbe  a  lamentarsi  in  rima  più  volte,  piacevoleggiandovi  sopra  per  meglio  intenerire  i  potenti  e  stuzzicarne  la  vanagloria  munifica.  Per  quanto  ingegno  e  buona  volontà  ci  abbia  messo,  non  riusci  al  Levi  di  diradare  del  tutto  quel  tenebrore  che  avvolge  le  vicende  del  Vannozzo; tuttavia,  mercè  sua,  parecchia  luce  è  entrata là  dove  prima  era  buio  pesto.   Congettura  plausibilmente  il  novello  critico  che  sino  al  1358  messer  Francesco  non  si  movcsse  da  Padova,  ove  era  nato  fra  il  '30  e  il  '40.  Da  Padova  s'allontanò  forse  la  prima  volta  nel  1363,  ma  la  abbandonò  solo  nel  '73,  per  motivi  politici,  caduto  in  disgrazia  al  Carrarese  dominante. Dopo  quel  tempo  si  stabili  a  Verona  presso  gli  Scaglieri;  ma  caduti  gli  Scaglieri  nel  1387  e  poco  appresso  anche  i  Carraresi,  si  volse  a  quella  meta  a  cui  sembrava  che  Fortuna  avesse  diretto  la  sua  ruota,  la  corte  di  Milano.  Fu  composto intorno  al  1389  quel  canto  con  cui  il  conte  di  Virtù,  Giangaleazzo  Visconti,  è  invocato  come  messia  d'Italia,  e  con  esso  si  chiude  il  codice  del  Seminario  ed  il  Vannozzo  ammutolisce.  Non  è  improbabile  che  poco  appresso  sia  morto,  chissà  dove.  Da  Padova  e  da  Verona  fece  frequenti escursioni  a  Venezia,  a  Ferrara,  a  Bologna. A  Bologna,  tra  il  1377  e  il  1378,  gli  saltò  persino  il  ticchio  di  frequentare  lo  Studio;  ma  ben  presto  fu  travolto  dai  bisogni  aspri  della  vita  e  se  ne  ritrasse.  Se  lo  si  chiamò  maestro,  fu  per  l'arte  dei  suoni,  in  cui  davvero  si  formò  reputazione.  A  Bologna  ebbe  un  processo,  per  violenze,  la  moglie  del  Vannozzo,  Orsolina,  una  parmigiana,  di  cui  non  ci  è  rimasta  se  non  quella  traccia  criminale,  sebbene  di  criminalità  non  obbrobriosa,  ma  che  pur  sembra  non  facesse  cattiva  compagnia  al  rimatore  girovago,  perchè  morta  giovine  egli  la  pianse  in  un  sonetto  alquanto rugginoso  ma  efficace.  Stima  il  Levi  non  impossibile  che  il  Vannozzo  passasse  qualche  tempo,  con  Marsilio  da  Carrara,  in  Avignone  e  che  in  Francia  si  trattenesse,  imparandovi  la lingua  del  paese  o  desumendo  dalla  poesia  e  dalla  musavi  francesi  elementi  ohe  trasferì  nelle  proprie. Pollando  su  d'un  accenno  ili  certo  sonetto  di  Antonio  Del  d'aio  diretto  al  Vanuozzo  [).  "14*0,  ritenne  pure  il  Levi  che  questi  siasi  recato  in  Catalogna  ed  in  Fiandra:  ma  a  vero  dire  su  tutti  codesti  viaggi  fuori  d'Italia  avrei  diverse,  e  non  tutte  spregevoli,  ragioni  da  accampare.  Comunque sia,  che  facesse  un  gran  girare  non  è  dubbio,  ed  il  fatto  ch'egli  esercitò  per  qualche  tempo  la  dura  professione  del  corriere  vale  a  persuadercelo più  d'ogni  altra  cosa.  Mentre  i  suoi  famigliari,  più  pratici  di  lui.  s'arricchivano  col  traffico,  il  povero  poeta  snodava  le  membra  poco  impedite  dalla  polpa  e  s'inzaccherava  i  calzari,  con  la  borsetta  a  lato  ed  il  bordone  in  mano,  sotto  pioggie  e  sotto  nevi,  ovvero  s'impolverava  dardeggiato  dal  solleone,  sulle  poco  comode  strade  del  tempo.  E  ben  volentieri,  talvolta,  trattenevasi  a  conversare  nelle  osterie  mal  frequentate, ove  non  poteva  resistere  alla  tentazione del  dado,  fatale  ad  altri  poeti  suoi  contemporanei. E    e  per  le  piazze,  quand'era  di  umor  lieto,  buffoneggiava.  Amato,  per  la  vena  faceta,  per  certa  accortezza  nativa,  pel  dono  di  verseggiatore  e  di  musicista,  dai  signori,  prestava loro  servigi  ora  umili  ora  onorevoli.  Che  fosse  addetto  ai  falconi,  come  il  Levi  sospetta  per  un  momento,  non  v'è  ragione  plausibile  che  induca  a  crederlo:  ma  invece  è  certo  che  l'occasione lo  trasmutò  di  corriere  in  soldato  e  che  fu  ferito  ad  una  coscia.  Vuole  il  Levi  che  ciò    IL  VAXNOZZO    seguisse  nel  novembre  del  1372.  allorché  alle  l'rcntelle  fu  combattuta  tr;i  Padovani  e  Veneziani una  battaglia.  Così  gli  fu  presto  tronca  la  rarriera  d'anniderò,  che,  forse,  al  suo  inesaurihile  talento  d'avventure  non  ispiaeeva.  E  siccinui'  nell'eccitabile  fantasia  di  lui  tutto  prendeva vita  e  parola,  ne  vennero  i  piacevoli  sonetti a  dialo.no  tra  lui  e  la  rem'lfu.  cioè  il  giavellotto che  l'avea  colpito.   Le  peregri  nazioni  del  Vannozzo,  come  misero  alla  prova  l'infaticabile  e  non  ordinaria  abilità  ili  ricercatore  del  Levi,  così  gli  concessero  eli  tracciare,  con  un  bel  gruzzolo  di  dati  nuovi  di  t'alio,  la  storia  politica  e  letteraria  delle  città  in  cui  dimorò  e  delle  quali  son  vestigia  nell'opera  sua.  Questo  praticò  con  estrema  larghezza,  che  non  è  prolissità  di  parole,  ma  è,  se  cosi  fosse  dato  esprimersi,  prolissità  di  fatti.  Peccato  giovanile perdonabilissimo,  di  cui  egli,  con  la  seconda parte  del  titolo  dato  al  libro,  cercò  di  produrre anticipata  giustificazione.  Meniamogliela  buona,  giacché  in  vero  questo  studioso  ci  sa  dire  di  gran  cose  anche  recondite.   La  prima  città  in  cui  il  Levi  si  trattiene  è,  naturalmente,  Padova,  ove  il  Vannozzo  ebbe  a  goderò  le  poche  gioie  ed  i  non  pochi  travagli  (iella  giovinezza  spensierata  e  pur  melanconica.  La  città,  suntuosa  e  sucida,  i  signori  che  vi  dominavano in  quel  tempo,  il  palazzo  carrarese,   lo  stato  della  coltura,  la  bella  schiera  di  umanisti e  di  uomini  di  lettere  che  vi  trassero,  richiamati dalla  presenza  del  Petrarca,  gli  uomini  di  corte  e  i  giullari  che  vi  bazzicavano,  principe  fra  essi  quel  messer  Dolcibene  celebrato  dal  Sacchetti,  tutto  è  qui  rammentato,  descritto,  documentato. Balza  fuori  specialmente  una  figura  pressoché  nuova,  quel  Niccolò  Beccari  da  Ferrara, fratello  del  poeta  Antonio  ('),  che  in  gioventù era  sceso  nel  purgatorio  di  San  Patrizio,  e  poi  fu  precettore  di  Francesco  Novello  da  Carrara,  amico  del  Petrarca  e  famigliare  di  Carlo  IV  imperatore.   A  Ferrara  il  Vannozzo  non  si  fermò  a  lungo:  non  gli  piaceva  la  città  allora  meschina,  senza  nessuna,  se  ne  togli  la  vetusta  cattedrale,  di  quelle  attrattive  edilizie  onde  la  ornarono  i  principi del  Kinascimento  ed  in  ispecie  Ercole  I:  non  gli  piaceva  l'aria  bassa  ed  insalubre;  non  gli  piacevan  gli  uomini,   millantator  pomposi  e  gran  busardi,  nei  fatti  vili  e  nel  parlar  gaiardi.   La  vita  di  corte  allora  v'era  parsimoniosa:  i  signori, anzichenò  grossi,  più  si  dilettavano  di  giuochi d'armi  e  di  buffoni  che  non  di  artisti  e  di  letterati.  Lo  Studio  solo  nel  1891  divenne  genefi)  Su  l'uno  e  su  l'altro  Beccari  s'aggirerà  una  monografia  del  Levi  che  ormai  si  viene  stampando.  Questo  lavoro  sarà  di  grande  interesse  per  le  relazioni  della  coltura  italiana  con  Carlo  IV  e  i  Boemi. ì  ale.  Tuttavia  a  Ferrara  erano  stati  il  Petrarca,  Donato  degli  Albanzani,  Benvenuto  da  Imola;  e  dei  letterati  che  il  Vannozzo  potè  conoscervi,  o  sicuramente  vi  conobbe,  tiene  il  Levi  lungo  ragionamento.   A  Verona  il  Vannozzo  era  stato  più  volte  ed  aveva  carteggiato  in  rima  con  l'oscuro  rimatore  Pier  della  Rocca,  allorché  lo  chiamò  a  quella  corte,  a  nome  del  Signore,  l'umanista  Antonio  Del  Gaio  da  Legnago.  Colà  fissò  radici  nel  1382,  presso  Antonio  della  Scala,  bastardo  fratricida,  che  ai  piedi  della  bionda  Samaritana  da  Polenta,  di  cui  era  pazzamente  innamorato,  profondeva  ricchezze,  circondando  d'ogni  maniera  di  sfarzo  e  d'ogni  raffinatezza  d'arte  la  donna  godereccia  e  perversa.  Colà  vide,  e  segui  rimando,  il  tramonto e  la  rovina  della  superba  dominazione  scaligera.  Colà  visse  intensa  vita  d'intelletto  coi  dotti  che  vi  soggiornavano,  Gaspare  Broaspini,  Leonardo  da  Quinto,  Taddeo  del  Branca,  Guglielmo da  Pastrengo  e  altri  non  pochi.  Tra  gli  ufficiali  della  cancelleria  scaligera  ebbe  amico  Niccolò  degli  Scacchi;  ma  gli  furono  avversi  quattro  altri  tra  i  quali  i  più  noti  sono  Alberico  da  Marcellise  e  maestro  Marzagaglia.  Curiose  novità  ci  sa  dire  il  Levi  di  quelle  battaglie  a  punta  di  penna,  e  non  meno  curioso  è  l'osservare come  in  Verona  lo  spontaneo  bohémien  padovano s'acconciasse  alla  moda  favorita  dal  trattatista e  rimatore  Gidino  da  Sommacampagna  e  dietro  il  suo  esempio  si  lambiccasse  il  cervello  con  gli  acrostici,  le  poesie  trilingui  ed  altri  giocherelli  eli  sapor  medievale,  finché  un  bel  giorno,  infastidito,  mandò  al  diavolo  tutta  quella  zavorra.   Assai  interessante  è  quanto  il  Levi  ci  sa  dire  del  Vannozzo  a  Venezia.  Qui  non  la  corte  di  un  mecenate,  ma  la  opulenta  regina  delle  lagune,  prodiga  d'ogni  maniera  di  sollazzi.  I  venturieri  vi  trovarono  sempre  il  fatto  loro,  e  non  meno  dei  venturieri  i  poeti.  Neil  incantevole  città  il  nostro  rimatore  immergevasi  nei  bagordi  e  nei  giochi,  frequentava  gente  gaia  e  senza  scrupoli,  ma  al  tempo  stesso  s'inebbriava  di  quella  vita  fulgida  e  satura  d'arte,  e  osservava.  Le  sue  frottole veneziane  sono  scritte  durante  la  guerra  di  Chioggia;  qualcuna,  come  quella  lunghissima  «  Perdonime  ciascun  s'io  parlo  troppo  >,  che  fu  edita,  e  infelicemente,  dal  solo  Grion,  ha  intento  politico  e  si  sviluppa  talora  con  solennità  epica  dal  saltellio  usuale  frottolesco;  quella  del  mai-iaso  invece  è  un  quadro  magnifico  di  costume.  Il  Levi  è  meraviglioso  nella  illustrazione  di  quei  difficili  componimenti  e  delle  altre  rime  vaunozziane,  che  burlescamente  o  satiricamente  rappresentano  tipi  veneziani  allora  noti  quanto  oggi  oscurissimi.   Il  soggiorno  del  Vannozzo  presso  il  conquistatore di  Verona  e  di  Padova,  Giangaleazzo  Visconti,  al  quale  i  poeti  del  tempo  inneggiavano  come  a  rivendicatore  d'Italia  (dovevano  pure  i  poeti,  due  secoli  dopo,  ubbidire  ad  un  miraggio  non  dissimile  intorno  a  Carlo  Emanuele  I  di  Savoia), il  soggiorno,  ripeto,  presso  Giangaleazzo,  offre  occasione  al  Levi  di  rappresentare  in  un quadro  ampio  e  finito  la  vita  materiale  ed  intvllettuale  sfoggiata,  che  in  Milano  si  conduceva,  non  solo  a'  tempi  del  conte  di  Virtù,  ma  anche  a  quelli  de'  suoi  antecessori  immediati,  Bernabò  e  Galeazzo.  Con  felice  industria  raccoglie  e  conserta il  nuovo  critico  le  molte  notizie  già  note  specialmente  per  le  fruttuose  ricerche  del  Nbvati  e  del  Medin,  e  molto  aggiunge  di  suo,  e  figure  e  figurine  di  gran  signori,  di  umanisti,  di  letterati d'ogni  genere  fa  spiccare  su  quello  sfondo.  Sfoggio  grande  d'erudizione  senza  dubbio  intorno  agli  otto  sonetti  patriottici  bene  immaginati  ed  alla  tediosa  canzone  morale,  gli  uni  e  l'altra  al  conte  di  Virtù,  che  il  Vannozzo  compose;  ma  sfoggio  non  vano.    Segue  nel  libro  lo  studio  interno,  anzi  intimo  del  verseggiatore.   Osservatisi  in  esso  elementi  francesi,  ma  non  tali,  a  parer  mio,  da  esigere  che  il  poeta  li  attingesse in  Francia.  La  gran  valle  padana  era  tutta  irrigata  di  costumanze  e  d'arte  francesi;  e  non  era  mestieri  varcare  le  Alpi  per  esserne  imbevuti  (';.  Maggior  peso  hanno  forse  i  riscontri  musicali.  Che,  in  teoria  ed  in  pratica,  abbiano   '1.»  Con  la  massima  cautela  voglionsi  interpretare  certi  accenni  a  viaggi  remoti,  che  occorrono  nelle  rime  del  VannoEzo.  Questo  dei  viaggi,  per  lo  più  imaginari,  è  accenno  tipico  dei  vanti  giullareschi  e  se  ne  ha  esempio  celebre  anche nel  contrasto  di  Cielo  d'Alcamo.  per  questa  parte  influito  sul  padovano  il  Machault  ed  il  Deschamps,  sembrami  ben  dimostrato; ma  dubito  se  anche  per  la  musica,  in  cui  fu  maestro,  il  Vannozzo  dovesse  proprio  recarsi  all'estero.  Le  nostre  raccolte  di  liriche  musicali  hanno  testi  e  melodie  francesi  in  quantità,  testi  e  melodie  che  durarono  per  secoli,  e  di  cui,  a  traverso  alle  intavolature  del  Petrucci  e  d'Andrea Antico,  s' hanno  vestigi  fin  nel  seicento.  Ciò  nondimeno  le  indagini  che  il  Levi  pratica  intorno alle  cognizioni  musicali  del  Vannozzo  sono  una  delle  parti  più  belle  e  nuove  del  poderoso  volume.  Credo  ch'egli  colpisca  nel  segno  allorché viene  a  concludere  che  il  nome  alquanto  misterioso  di  ciciliana,  dato  a  certi  componimenti musicali,  riguardasse  la  melodia  più  che  la  forma  poetica.  Le  canzoni,  le  ballate,  i  rondelli  che  il  Vannozzo  avea    (e  pei'  far  ciò  di  recarsi  in  Francia  con  la  persona  non  aveva  proprio  bisogno), egli  le  eseguiva  su  vari  strumenti  musicali, massime  sul  liuto  e  sull'arpa.  Se  veramente azzecca  giusto  il  Levi  in  un  suo  ragionamento sottile  quanto  ardimentoso,  il  padovano  nostro  avrebbe  anche  inventato  uno  strumento  da  fiato,  la  calandra.   Non  meno  fruttifero  è  l'insieme  degli  elementi  popolari  che  il  Vannozzo  fece  suoi  con  inesauribile franchezza  di  assimilazione.  La  tendenza  giullaresca,  che  si  sfoga  in  lui  nel  cinguettìo  e  scintillio  della  frottola,  e  nel  tempo  medesimo  l'abito  democratico  conseguito  per  nascita  e  l'invigorito  per  elezione,  lo  indussero  a  trar  molto  della  sua  vitalità  artistica  dal  popolo,  ch'egli  osservava ed  amava,  nonché  dalla  borghesia,  ch'era  popolo  grasso.  Echeggiano  nelle  sue  rime  varie  leggende;  fan  capolino  tipi  comici  che  forse  erano  appartenuti  ad  un  teatro  popolare  perduto  per  noi  C1);  variamente  risuonano  e  talora  riddano  fragorosamente  termini  dialettali  senza  numero,  specialmente  veneziani  e  pavani,  che  mettono  a  dura  prova  le  nostre  cognizioni  glottologiche;  si  fan  sentire  di  tanto  in  tanto  le  note  aspre  e  chioccie  del  gergo  usato  nelle  taverne  fra  giuocatori  arrabbiati,  fra  compagnoni  alticci,  fra  scozzoni  di  scuderia,  fra  femmine  allegre  e  sciolte;  s'allarga  e  si  scompone  la  cerimonia  di  rito  nel  gustosissimo  mariazo.   Accanto  a  tutto  questo  vive  la  tradizione  letteraria, vive  e  frutta.  Non  è  la  tradizione  classica, ma  quella  dei  due  maggiori  toscani,  saputi  e  ammirati  anche  nel  nord  dell'Italia,  Dante  e  Petrarca.  Quanto  di  Dante  e  quanto  del  Petrarca  risuoni  anche  nelle  poesie  del  Vannozzo  è  dal  Levi  benissimo  dimostrato.  Col  Petrarca  aveva  il  padovano  comune  l'origine  aretina;  erano  contemporanei; s'amarono  e  poi  per  ragioni  non  chiare  ruppero  la  loro  amicizia.  Avea  famigliarità col  Petrarca  il  padre  del  Vannozzo,  e Xon  ne]  Vannozzo,  ma  in  un  imitatore  di  lui.  posteriore di  poco,  Giovanni  de  Bonis,  il  Levi  ha  scovato  un  accenno a  pulcinella,  d'importanza  straordinaria,  perchè  sconvolge tutte  le  ipotesi  recenti  sul]'  origine  di  quella  maschera.  Vedi  p.  381  nota.    Bemer  Svaghi  Critici    5    6  del  Camposanto  pisano,  le  riproduzioni  presenti  rifuggono costantemente  dalla  banalità,  che  suol  essere  la  malattia  consueta  degli  illustratori  da  strapazzo.  Più  che  all'arte  si  bada  al  carattere;  e  pel  carattere  sono  notevoli  le  storie  raffigurate  in  certi  antichi  cassoni  nuziali  e  le  figure  desunte dal  Tacuinum  Sanitatis  del  Hofmuseum  di  Vienna  e  da  quello  non  meno  rilevante  della  Casanatense.  Se  in  questa  larga  maniera  di  concepire e  d'integrare  la  critica  il  maggior  merito  è  del  giovine  e  perspicace  autore,  conviene  pure  assegnarne  qualche  parte  alle  scuole  onde  è  uscito,  l'Università  di  Pavia,  ove  compì  il  corso  normale,  e  l'Istituto  superiore  di  Firenze,  ove  completò  ed  affinò  la  sua  educazione  scientifica.   Era,  in  origine,  questo  volume,  un  capitoletto  alquanto  smilzo  d'uno  studio  destinato  a  considerare i  poeti  borghesi  del  sec.  XIV,  tema  caro  al  Levi,  su  cui  egli  si  propone  di  ritornare  quanto  prima.  Il  capitolo  prese  consistenza  ed  estensione  d'opera  a  sè,  dopoché  all'autore  balenò  l'idea  di  fare  del  Vannozzo  quasi  il  centro  ed  il  rappresentante della  letteratura  lombarda.  Veneto,  veramente  il  Vannozzo  era,  e  nel  Veneto  trascorse  la  maggiore  e  miglior  parte  della  vita  sua,  e  veneti  furono  i  vernacoli  a  lui  più  famigliari;  ma  il  Levi  ch'i  alla  regione  lombarda  quella  larghezza che  le  era  propria  nella  nomenclatura  medievale  e  trecentesca.  Lombardia  chiamavasi  in  quel  tempo  il  vasto  territorio  dominato  dalle  più  splendide  signorie,  disposte  attorno  al  corso  medio  ed  inferiore  del  Po,  quelle  di  Milano,  Verona e  Padova  al  nord,  di  Ferrara,  Bologna,  Ravenna e  d'altre  terre  di  Romagna  al  sud.  Nella  vita  spirituale  del  Trecento  quest'ampia  regione  ebbe  un'importanza  che  sinora  non  le  fu  riconosciuta e  di  cui  la  storia  delle  lettere  perdette  ogni  chiara  visione,  dopoché  l'aveva  intuita  l'intelletto penetrante  del  Tiraboschi.  Rivendicare  il  Trecento  lombardo  (p.  425)  divenne  l'intento  del  libro,  il  quale  intento  ne  spiega,  anzi  in  parte  ne  giustifica,  la  larghezza.  Raccogliendone  i  risultati nella  conclusione,  il  giovine  filologo,  che  è  sempre  garbato  e  spesso  vivace  espositore,  scrive  pagine  calde  di  vera  eloquenza.   L;i  gran  luce  raggiata  dalle  tre  corone  indusse  il  generale  convincimento  che  il  Trecento  letterario fosse  toscano.  Il  Levi,  invece,  ritiene  che  debba  essere  distinta  la  prima  dalla  seconda  metà  del  secolo:  predominò  la  Toscana  nell'una,  prevalse la  Lombardia  nell'altra.  Di  fronte  al  fiorire delle  signorie  altitaliane,  il  primato  fiorentino decadde.  Altre  correnti  culturali  entrarono  nella  vita  italiana  e  l' animarono  variamente;  altri  ideali  furono  proseguiti,  e  la  lirica  attinse  alle  sempre  fresche  sorgenti  popolari,  si  rinsan    (j-iiò  al  contatto  della  poesia  musicale  francese.  Tra  queste  nuove  tendenze  ed  il  tradizionalismo  conservatore  del  centro  toscano  sarebbe  accaduta una  vera  e  rude  scissura  se  non  l'avesse  impedita  una  energia  latente,  ma  formidabile,  *  il  eulto  e  l'amore  per  i  due  grandi  randagi  «  del  Trecento,  Dante  e  il  Petrarca  »  (p.  385).  Questo  culto  impedì  lo  sdoppiarsi  della  letteratura italiana;  e  quando,  nel  territorio  lombardo,  sbocciò  il  più  bel  fiore  della  poesia  ribattezzata  nel  classicismo,  i  Libri  degli  amori  del  conte  di  Scandiano,  tutta  la  freschezza  degli  elementi  lirici  lombardi  vi  ravvivò  l'imitazione  petrarchesca. Non  altrimenti  la  pittura,  spentosi  il  grido  che  intorno  a  Giotto  sonò  cosi  alto,  rinvenne  nelle  botteghe  degli  artisti  padovani,  ferraresi  e  veronesi quelli  instauratori  robusti  e  vitali  la  cui  arte  naturalista  dovea  metter  capo  al  grande  Ma  u  taglia.   Che  la  dimostrazione  d'una  tesi  tanto  importante e  nuova  sia  piena  ed  incontrastabile  nel  libro  del  Levi,  non  dirò  certo.  Ma  il  contributo  di  fatti  che  egli  recò  a  sostenerla  è  dei  più  ragguardevoli, e  l'elaborazione  e  l'interpretazione  di  essi  delle  più  oculate  e  sapienti.   Nota  aggiunta.    In  Fanfnila  della  Domenica,  21  febbraio  1909.  Nulla  ho  da  aggiungere  sul  Vannozzo,  ma  bensì  qualcosa ho  da  dire  sa  pulcinella.  La  canzone  di  Giovanni  de  Bonis  in  cui  si  trova  l'accenno,  è  a  c.  279  a  del  codice  Trivulziano  861  (cfr.  E.  Cabraka,  Giovanni  L.  de  Bonis  d'Arezzo  e  le  sue  opere  inedite,  Milano,  1898,  p.  80),  e  reca  la  didascalia  '  Cantilena  moralis  de  laudibns  .lacopi  da  Appiano  et  gene'  logia  |*ic]  aquile  Johannis  L.  de  Bonis  de  Aretio  ».  Io  he copia  dell'intero  componimento,  brutto  e  scorretto,  per  la  gentilezza  di  Ezio.Levi.  Il  principio  della  quinta  scrofe  suona  così  :   Quest'alta  ucella  nobile  e  decora  che  fu  da  questi  divi  si  orata  per  tucto  era  scacciata  co'  nibio  perseguendo  i  pulcinelli  per  che  voltan  mantelli  e  mutansi  di  senno  in  ora  in  ora.   Il  passo  é  oscuro,  massimamente  per  la  parola  cornino,  che  non  può  essere  letta  diversamente.  Quindi,  io  non  mi  arrischierei  più  a  vedervi  una  sicura  allusione  a  pulcinella,  trovando gravi  le  riflessioni  fatte  in  proposito  da  B.  Croce,  nella  sua  Critica,  VII  (1909),  142,  che  interpretò  pulcinelli  con  piccoli pulcini.  Quel  loro  voltar  mantelli  resta  tuttavia  misterioso,  tanto  più  che  una  erudita  comunicazione  di  Vittorio  Fainei.i.i  nel  Giornale  storico,  LI X,  59  sgg.  ha  posto  in  chiaro  di  qual  nominanza  godesse  un  Pulcinella  dalle  Carceri,  illustre  voltafaccia politico  del  sec.  XIII.  Secondo  il  Fainelli,  la  fama  di  quel  personaggio  popolare  sarebbe  passata  dall'Italia  superiore in  Toscana  e  quindi  nel  Napoletano,  sino  a  fissarsi  sul  teatro  quando  Silvio  Fiorillo  ne  fece  una  maschera.    La  psicopatia  di  Benvenuto  Cellini.    Il  credito  di  cui  godono  le  indagini  intorno  alla  psicopatia  degli  uomini  di  genio  panni  abbia  fortuna  non  diversa  da  quella  della  cosidetta  teoria  mitologica,  invocata  a  spiegare  le  origini  delle  novelle  tradizionali  e  dell'epope  a.  Fuvvi  un  periodo  di  gran  voga  dell'interpretazione  mitologica. Intorno  alla  metà  del  secolo  passato  e  nei  due  decenni  che  seguirono  molto  se  ne  discorse e  se  ne  discusse:  da  alcuni  si  giunse  ad  arditezze  ed  esagerazioni  siffatte,  da  legittimare  la  parodia  di  chi  negò  l'esistenza  di  Napoleone,  facendo  toccare  con  mano  che  egli  fu  un  mito  solare.  Ne  venne  una  acerba  reazione,  per  cui  oggi  filologi  e  storici  e  filosofi  hanno  a  fastidio  ogni  interpretazione  che  pur  di  lontano  accenni  a  rapporti  col  mito.  Del  pari,  or  e  un  decennio  era  in  auge  presso  di  molti  l'idea  prima  formulata in  Francia  dal  Moreau  de  Tours  e  divulgata in  seguito  ovunque,  ma  più  specialmente  nella  penisola  nostra,  da  Cesare  Lombroso,  che  il  genio  sia  squilibrio,  degenerazione,  follia,  epilessia. Ribellavasi,  bensì,  a  siffatta  conclusione  frettolosa  e  paradossale,  per  cui  «  il  tempio  delle  glorie  italiane  >  vedeasi  trasformato  «  in  un  nosocomio  e  parzialiuciito  in  un  manicomio  »  (' .,  qualche  spillilo  elei  lo  di  conservatore  attaccato  agli  antichi  sistemi;  ma  i  giovani  si  sentivano  trascinati  verso  le  nuovi'  teorie  e  inolia  confusione f'acevasi  nei  loro  cervelli.  Se  non  clic,  intorno al  in  ispecie  per  le  intemperanze  clic  seguirono  alla  celebrazioni'  ilei  centenario  Ieopanliano,  pai've  ai  sensati  che  ormai  li  psichiatri varcassero  i  contini  della  ragionevolezza  e  mettessero  a  nudo  una  deplorevole  leggerezza  nei  loro  procedimenti  critici.  E  anche  questa  volta  venne  la  parodia,  col  libro  di  Paolo  Bellezza sul  Xanzoni,  od  alla  parodia  sentii  la  disistima e  la  conseguente  reazione.  Da  allora  in  poi,  si  voglia  o  non  si  voglia,  la  equazione  ormai celebre  del  genio  con  la  follia,  che  all'anima  esuberante  di  fede  del  Lombroso  era  sembrata  un  «  vero  monumento  granitico  elio  le  molli  unghie  «  dei  pedanti  e  dei  teologizzanti  non  possono  toccare »  r*i,  andò  perdendo  terreno  ogni  giorno  più,  sicché  oggi,  con  la  vertiginosa  rapidità  di  sviluppo  ideale  della  società  moderna,  .sembra  quasi  passata  alla  storia.  Contro  quella  equazione non  insorgono  solamente  i  conservatori  e  gli  spiritualisti  di  ogni  genere  e  specie  leggi  navichiamo in  pieno  spiritualismo,  con  in  poppa  un  soave  venticello  di  idealismo  che  ne  sospin  gi La  frase  è  eli  A.  D'Ancona,  in  uu  discorso  sul  Leopardi che  contiene  una  vera  carica  a  t'ondo  contro  gli  studi  psichiatrici  applicati  al  senio.    L'ir.  liaimp.ijim  hihhmjraliia  ilrlla  I  rilevai  il  ra  italiana,  VI,  1S2  sjjg.   i'2t  Ari'htcio  ili  pxirhtal rio,  XIX,  IJTiO,    ],\    l'SlL'Ill'ATI.V    1)1    HKXVKXrTII  CKLUNI    --a  opera  d'arre  fu  prodotta  e  ipiindi  anche  Ielle  speciali  nonnaliià  od  anomalie  della  psiche  lei  suo  creatore.  L'estetismo  può  ancia1  ti  vere,  dal  suo  punto   i  visra.  ragione:  ma  non  mi  sembra  abbia  raj ii me  chi  è  seguace  del  metodo  storico  quando  dell'estetismo  sottoscrive  in  questo 'caso  la  rinuncia. Non  son  passate  molte  settimane  dacché  un  maestro  solenne  di  metodo  storico,  che  tutti  veneriamo,  togliendo  occasione  da  certa  polemica, abitatasi  nel  d-inntnle  d'Haliti  del  settem190U  e  altrove  intorno  alle  ricerche  del  fisiologo Patrizi  sul  Leopardi,  ha  scritto  che  quelle  indagini,  anche  avessero  la  sicurezza  che  s'arrogano, non  giovano  ad  avvalorare  la  ricerca  letteraria  «  ed  a  formare  il  l'etto  apprezzamento  estelieo  dell'opera  d'arte  »  e  quindi  sono  «  allo  scopo  dei  nostri  studi  assolutamente  estranee  »  '').  A  me  pare  che  questo  non  si  possa  dire.  I  seguaci del  metodo  storico,  come  si  erodono  in  olililigo,  per  spiegai'si  l'opera  d'arte  o  di  scienza,  di  studiare  accuratamente  la  temperie  in  che  l'artista  o  il  pensatore  è  cresciuto,  la  sua  educazione, la  sua  indole,  la  sua  biografia,  giacché   li  JiiiM*.  lìihlfdiir.  ilclla  Ietterai lira  italiana,  XI  V,  Il  g'm•  Wy.'tt*  ìion  i'  firmato,  ina  attrilnu'ndolo  al  D'Ancona  eri-ilo  «li  non  inanimarmi. da  particolari  siffatti  può  ricevere  luce  la  sua  produzione,  cosi  non  debbono  essere  indifferenti  alle  qualità  fisiche  dell'individuo  che  studiano,  alle  sue  anomalie  morali  ed  intellettuali,  ai  suoi  vizi  ed  alle  sue  debolezze  di  uomo.  Si  potranno  approvare  in  parte  ed  in  parte  disapprovare,  a  mo'  d'esempio,  i  parecchi  studi  recenti  sulla  malattia  nervosa  e  mentale  di  Torquato  Tasso;  ma  non  si  avrà  davvero  il  diritto  di  asserire,  movendo  dai  principi  su  cui  la  critica  storica  si  fonda,  che  al  retto  apprezzamento  dell'opera  letteraria  del  povero  recluso  di  Sant'Anna  è  inutile di  sapere  se  per  buona  parte  della  vita  sua  egli  sia  stato  savio  o  mentecatto.  Per  parte  mia  confesso  che  rispetto  alla  portata  degli  studi  psichiatrici  nei  rispetti  della  storia  letteraria  non  ho  mutato  parere  e  potrei  scrivere  oggi  quello  che  sci'issi  anni  sono,  quando  ancora  le  ricerche  di  questo  genere  non  erano  cadute  in  discredito Sinceramente  deploro  il  preconcetto  con  cui  taluni  biologi  hanno  condotto  innanzi  le  loro  ricerche,  la  incredibile  fatuità  con  cui  credettero  di  poter  concludere  in  materia  tanto  delicata,  la  grossolanità  dei  loro  procedimenti  fondati  Rimando  a  ciò  che  mi  avvenne  (li  scrivere  nel  Giornale  storico  della  letteratura  italiana,  XXVII.  442,  a  proposito  del  saggio  psico -antropologico  sul  Leopardi  del  Patrizi,  e  più  specialmente  a  quello  che  dissi  nel  Giornale  stesso,  XXXIV,  397  sgg.,  prendendo  posizione  nell'arduo  dibattito  intorno  al  fatto  della  genialità.  Si  vedano  pure  le  asserzioni  e  le  riserve  di  V.  Rossi  nella  Haas,  bihlìogr.  della  letteratura  italiana. spesse  volte,  anziché  su  esplorazioni  dirette  ed  oculate,  su  articoli  di  enciclopedia  e  persino  su  riferimenti  pettegoli  di  cronaca  cittadina;  ma  lutto  questo  non  deve  indurci  al  dispregio  assoluto dell'indagine  in  sè,  che  fatta  prudentemente e  con  le  cognizioni  volute,  può  offrire  alla  storia  delle  lettere,  delle  arti  e  delle  scienze,  elementi  considerevoli  per  completare,  o  attenuare, o  anche  modificare  sostanzialmente  il  suo  giudizio.   *   Se  v'è  tipo  d'uomo  che  presenti  caratteri  di  singolarità  grande,  il  cui  esame  è  essenziale  nel  raffigurarcelo,  gli  è  Benvenuto  Cellini.  Oso  dire,  anzi,  che  ii  coefficiente  primo  della  sua  fama  non  sta  punto  nelle  opere  di  plastica  e  di  cesello,  poveramente  rappresentate  all'età  nostra  da  pochi campioni  sicuri,  ma  sta  nel  carattere.  Lo  intuì  il  Goethe;  lo  riconobbe  il  Baretti.   Il  Goethe,  che  su  di  una  cattiva  stampa  e  con  imperfetta  cognizione  della  lingua  nostra  ridusse,  in  tedesco  l'autobiografia  celliniana,  pubblicandola intera  a  Tubinga  nel  1803,  s'innamorò  del  Cellini  perchè  in  lui  riconosceva  uno  di  quei  «  geistige  Flùgelmanner  »  che  meglio  rappresentano nei  suoi  tratti  tipici  la  natura  umana  (').  Fra  i  vari  scritti  intorno  al  Goethe  traduttore  del  Cellini, è  specialmente  raccomandabile  quello  di  K.  Vossi.er,  Goethe'»  Cellini  - 1.  berseteung,  nella  Beilaye  zur  Ali yemeinen  Zeilunt). Il  Ba retti  scrisse  del  grande  orafo  autobiografo:  «  Si  dipinse...  còme  si  sentiva  d'essere:  cioè  animoso come  un  granatiere  francese,  vendicativo  come  una  vipera,  superstizioso  in  sommo  grado,  e  pieno  di  bizzarrie  e  di  capricci,  galante  in  un  crocchio  di  amici,  ma  poco  suscettibile  di  tenera  amicizia,  un  poco  traditore,  senza  credersi  tale,  un  poco  invidioso  e  maligno,  millantatore  e  vano  senza  sospettarsi  tale,  senza  cerimonie  e  senza  affettazione,  con  una  dose  di  matto  non  mediocre,  accompagnata  da  ferma  fiducia  d'esser nTolto  savio,  circospetto  e  prudente.  Di  questo bel  carattere  l'impetuoso  Benvenuto  si  dipinge nella  sua  vita,  senza  pensarvi  su  più  che  tanto,  persuasissimo  sempre  di  dipingere  un  eroe  »  (M.  Non  per  nulla  il  più  benemerito  studioso del  Cellini  che  abbia  avuto  la  nuova  Italia,  Orazio  Bacei,  riconoscendo  nella  Vita  «  un  prezioso documento  psicologico  »,  uscì  a  dire:    credette  di  dare  Giovanni Bovio:  «  Quel  grado  supremo  della  sintesi,  onde  il  pensiero,  originalmente  ed  in  un  rapporto  lontano,  scopre  il  vero  ■ .  Vedi  Bovio,  Il  genio,  Milano,  1899,  p.  32.  In  questo  concetto  vi  è  certo  molto  di  vero,  e  con  esso  si  viene  a  limitare alquanto  il  numero  dei  geni,  che  dando  retta  ai  sintomi di  nevrosi  diventano  legione.  Schierare  fra  gli  uomini  di  genio  il  Cellini  sarebbe  un  vero  assurdo.la  impressionabilità  estrema  del  fratello  e  della  sorella.  L'orafo,  generato  da  genitori  ormai  quarantenni, ebbe  in    esagerate  le  tendenze  paterne, l'emotività,  la  instabilità,  l'impulsività  e  ad  acuire  siffatte  tendenze  cooperarono  le  malattie  onde  fu  affetto  nel  corso  della  sua  vita  travagliata..   Una  delle  stimmate  degenerative  più  ragguardevoli che  il  Courbon  riconosce  nel  Cellini  è  la  incostanza  nelle  occupazioni.  Vi  si  gettava  dentro con  gran  foga,  ma  poi  non  meno  subitamente se  ne  scostava;  il  che  accadeva  pure  nelle  amicizie,  dalle  quali,  per  cordiali  che  fossero,  si  ritraeva  alla  minima  ombra,  e  quasi  sempre  passava  dall'affetto  ardente  all'odio,  dall'adorazione alla  denigrazione.  Alla  ombrosità  malata  di  quella  natura  passionale  contribuiva  una  forma di  mania  di  persecuzione.  Ben  è  vero  che  di  invidie  e  di  gelosie  gliene  pullularono  intorno  moltissime  e  che,  ad  esempio,  il  Bandinelli  era  emulo  subdolo  e  velenoso;  ma  è  altrettanto  indubitato che  nelle  accuse  del  Cellini  contro  altri  personaggi  (sia  nominato  Pier  Luigi  Farnese),  egli  oltrepassava  le  frontiere  del  reale  e  vedeva  persecuzioni  e  pericoli  ed  agguati  dove  non  erano.  Benvenuto  è  tratto  dall'indole  sua  a  vedere  dovunque malevoli,  invidiosi,  maneggioni,  calunniatori vilissimi.  A  ciò  contribuiva  anche  in  sommo  grado  l'alto  sentimento  che  aveva  di  sè,  anzi  quella  specie  di  megalomania  degenerante  talora  in  volgare  jattanza,  che  colpisce,  ogni  lettore della  Vita  ed  assume  spesso  tali  proporzioni da  riuscire  esilarante. Per  ragioni  che  assai  poco  mi  persuadono,  nvde  il  Courbon  di  poter  ravvisare  nel  Cellini  anche  la  eosidetta  dromomania,  cioè  lo  spasmodico desiderio  di  mutar  soggiorno.  Tutti  sanno  (pianta  importanza  assegnino  gli  psichiatri  al  sintomo  del  nomadismo;  ma  nel  Cellini  a  me  non  sembra  vi  siano  gli  estremi  per  riconoscerlo.  Tutt'al  più  si  può  notare  che  la  stessa  impulsività del  suo  carattere  dava  spesso  alle  sue  partenze una  repentinità  così  violenta  da  farle  somigliare a  vere  fughe.   Maggior  gravità  hanno  i  deliri  e  le  allucinazioni, a  cui  il  nostro  artista  aveva  una  innegabile predisposizione  neuropatica.  Non  si  tratta  solo  di  deliri  in  istato  febbrile,  provocato  dalla  malaria  devastatrice,  poiché  in  questo  caso  ci  troviamo  di  fronte  ad  una  condizione  patologica dell'organismo;  ma  si  tratta  di  visioni  che  egli  dice  di  aver  avute  nella  dura  prigionia  di  Roma  e  d'una  vera  e  propria  allucinazione  durante  l'intenso  lavoro  del  Perseo.  Fu  in  conseguenza d'una,  la  più  grave,  di  quelle  allucinazioni che  il  Cellini  pretese  che  una  lingua  di  fuoco,  visibile  a  tutti,  permanesse  sulla  sua  fronte,  a  ricordo  della  visita  fattagli  da  Dio  (').  L'esame  Vedi  Vita,  I,  128.  Per  maggior  comodità  dei  lettori,  uso  della  l'ila  la  buona  edizione. di  Brunoue  Bianchi,  uscita  in  luce  la  prima  volta  nel  185*2  e  poi  tante  volte  ristampata  dalla  Casa  Le  Mounier.  Delle  edizioni  integre  è  la  più  comune, ed  ha  il  vantaggio  su  quella  scientifica  del  Bacci  di  avere  la  divisione  in  libri  e  paragrafi,  i  primi  dei  quali  indico con  cifra  romana,  i  secondi  con  cifra  araba.  Tale  e  quale    80       la  psicopatia  m  benvenuto  cellini    di  questi  fenomeni  è  la  parte  migliore  dell'opuscolo (del  resto  un  po'  tirato  viti)  del  dottore  francese; solo  sarebbe  stato  desiderabile  che  a  rincalzo delle  idee  da  lui  espresse  intorno  alle  tendenze mistiche  del  Cellini  avesse  invocato  anche,  il  sussidio  delle  rime  di  lui,  molte  delle  quali  hanno  contenuto  religioso.  I  fatti  delle  visioni  e  delle  all ucinazioni,  ai  quali  non  abbiamo  ragione di  negar  fede,  accusano  certamente  perturbamenti nervosi  non  ordinari.  Anche  quella  specie  di  aureola  sul  capo,  che  all'orafo  cinquecentista sembrava  cosa  «  meravigliosa  »  e  tale  da  fargli  credere  ad  un  prodigio  divino,  non  è  poi,  al  lume  delle  odierne  scienze  biologiche,  la  inverosimile  cosa  che  taluno  la  reputò,  giacché  può  essere  stata  una  di  quelle  irradiazioni  luminose che  furono  costatate  più  volte  in  certi  neuropatici e  particolarmente  negli  affetti  d'isterismo.   Il  connotato  psichico  più  caratteristico  del  Cellini  è  peraltro  quella  impulsività,  che  così  spesso  lo  conduceva  alle  querele,  alle  liti,  alle  risse,  ai  ferimenti,  agli  omicidi.  Questa  impulsività costituzionale,  venutagli  per  via  ereditaria  e  cresciuta  in  lui  per  le  agitazioni  dell'esistenza  che  condusse,  è  la  fonte  a  cui  si  lasciano  ricondurre moltissimi  fra  gli  atti  del  nostro  soggetto.  In  que'  momenti  di  furore  nessuna  potenza  inricompare codesta  partizione  nella  comunissima  edizione  stereotipa Sonzogno  curata  dal  Camerini,  in  quella  del  Biagi  (1883,1  e  con  lievi  variazioni  in  quella  di  Gaetano  Guasti. tima  d'inibizione  volitiva  era  in  grado  di  vincere l'impulso  manesco  e  sanguinario.  La  sincerità con  che  Benvenuto  confessa  e  documenta  quei  casi  è  davvero  preziosa  per  lo  psichiatra,  ed  il  Courbon  sa  trarne  conveniente  partito.  Un  caso,  fra  tutti,  a  me  fa  gagliarda  impressione,  e  mi  sembra  tale  da  provare  anche  da  solo  lo  stato  di  malattia  del  Cellini:  l'uccisione  a  tradimento di  quel  tal  «  archibusiere  »  che,  per  difendere  la  propria  vita,  gli  area  morto  il  fratello Cecchino  (').  Quella  «  cosi  bassa  impresa  e  non  molto  lodevole  »,  come  lo  stesso  violento  autore  la  chiama,  non  è  dovuta  ad  un  impeto  di  collera;  ma  è  premeditata  in  condizioni  eccezionali. Dopo  hi  morte  di  Cecchino,  Benvenuto  vive  in  uno  stato  di  vera  ossessione:  egli  ha  giurato  al  fratello  spirante  di  vendicarlo;  egli  sa  che  il  soldato,  tirandogli  quel  tal  colpo  d'archibugio che  l'ha  ferito  sopra  il  ginocchio,  agiva  per  difendersi:  ma  ciò  non  pertanto  non  può  liberarsi  da  quell'imagine,  da  quell'idea,  da  quel  proposito,  che  gli  son  sopra  notte  e  giorno  come  incubi;  egli  prende  a  vagheggiare  queir  «  archibusiere »  come  la  sua  innamorata,  e  solo  quando  l'ha  freddato  si  sente  tornare  la  tranquillità dello  spirito.  Tuttociò  ha  i  caratteri  dell'ossessione impulsiva  studiata  dai  criminalisti,  che  implica  il  ritorno  della  imagine  della  vittima  e  dell  idea  di  doverla  punire,  la  coscienza  piena  e  netta  della  condizione  delle  cose  e  del  proprio  Vita. torto,  la  inutilità  della  resistenza  nella  lotta  intima, il  sollievo  dopo  compiuto  il  delitto.  La  più  mirabile  analisi  d'uno  stato  psicopatologico  come  questo  si  trova  nel  fosco  romanzo  di  Feodor  Dostoiewski  II  delitto  e  il  castigo.   Rispetto  agli  stimoli  sessuali,  è  indubitato  ohe  il  Celimi  li  sentiva  violentemente,  come  tutto  era  violento  in  quella  tempra  duomo;  è  anche  vero  che  la  donna  fu  per  lui  un  semplice  strumento di  piacere;  ma  il  Courbon  va  più  in    e  vorrebbe  ammettere  pervertimenti  del  senso  che  pur  troppo  nel  Cinquecento  erano  tanto  più  frequenti  quanto  più  minacciati  da  gravi  punizioni. In  questo  apprezzamento  non  credo  prudente il  seguirlo  per  ragioni  che  dirò  tra  breve.  Tuttavia,  in  conclusione,  reputo  io  pure  che  i  sintomi  constatati,  sebbene,  presi  isolatamente,  abbiano  poco  valore,  siano  tali  nel  complesso  da  far  considerare  il  Cellini  «  cornine  réalisant  le  type  menta!  du  dégénéré  ».   *   *  *   Ciò  premesso,  e  data  al  Courbon  la  lode  che  gli  spetta  per  aver  compiuto  uno  studio  sinora  non  tentato  e  per  averlo  anche  condotto  innanzi  senza  preconcetti  e  senza  leggerezze,  mi  si  conceda  di  accodargli  per  mio  conto  qualche  obiezione.   Una  pregiudiziale  deve  andare  innanzi  ad  ogni  altro  ragionamento,  ed  il  Courbon,  nonché  risolverla, non  ha  neppure  pensato  a  proporsela.  Fondandosi esclusivamente  sui  dati  di  fatto  porti dalla  Vita  celliniana,  siamo  certi  di  lavorare  sul  solido?  In  altri  termini,  è  la  Vita  sicuramente  ed  in  tutto  veridica?   L'obiezione  speciale  si  perde  in  una  più  generale. Qua  l'è  il  valore  storico  delle  autobiografie, sulle  quali  i  signori  psicologi  ed  i  signori  psichiatri  hanno  la  abitudine  di  giurare?  Nessuna cosa  più  difficile  che  essere  veritieri  parlando di  se  stessi:  anche  quando  si  abbiano  i  migliori  propositi  di  sincerità,  troppo  spesso  l'amor proprio  ne  induce  a  tacere  certi  fatti  ed  a  colorirne  altri  nel  modo  che  ci  torna  più  comodo. Se  l'autobiografo  è  un  artista,  accade  anche di  peggio.  L'artista  possiede  in  alto  grado  qualità  di  fantasia,  che  lo  tentano,  per  non  dire   10  costringono,  ad  atteggiarsi,  e  codesti  atteggiamenti sono  più  o  meno  adulterazioni  del  vero.   11  Bertana  lo  ha  dimostrato  egregiamente  per  l'Alfieri,  alla  cui  pienissima  sincerità  si  è  creduto per  tanto  tempo.  L'artista  crea  di    un  tipo,  e  scrivendo  la  propria  vita  elabora  quel  tipo.  Ciò  è  umano,    giova  la  volontà  di  fare  diversamente. Non  dice  male  una  recente  studiosa  delle  autobiografie,  parlando  appunto  del  Cellini:  «  Egli  si  rappresentò  con  grande  ingenuità,  tal  «  quale  si  credeva  di  essere,  se  non  sempre  qual  «  fu  veramente,  onde  più  che  ingannare  il  let«  tore,  ingannava  sovente  se  stesso  »  (').  Il  Plon,   fi)  Jonk  Pomi-ki,  L'autohion  rafia  nella  letteratura  italiana,  Macerata, 1!J0G,  p.  61.  Vedo  lodato,  ma  non  potei  conoscerlo  direttamente, lo  studio  di  Emilia  Lwokati,  Benvenuto  Cellini  e  la  sua  autobiografia,  Fireuze,  1!XX). nella  nota  e  sontuosa  sua  opera  sull'orafo  nostro,  ha  bensì  cercato  di  controllare  i  fatti  della  Vita  e  in  molta  parte  gli  è  accaduto  di  confermarli;  ma  restano  pur  sempre  infiniti  particolari  non  controllabili  e  restano  incongruenze  patenti  con  ciò  che  il  Cellini  narra  di    nei  Trattati.  Si  deve  inoltre  riflettere  che  l'opera  fu  di  sua  mano  presa  a  scrivere  (in  un  manoscritto  ora  mediceo-palatino  della  Laurenziana  di  Firenze,  e  poi  dettata  ad  un  garzonettoj,  quando  aveva  già  compiuto  58  anni;  quindi  gli  errori  mnemonici,  che  nelle  Memorie  goldoniane  si  riscontrano  cosi  frequenti,  non  possono  mancare,  neppure  qui.  Per  tutte  queste ragioni  non  mi  sembra  abbia  torto  il  Symonds  nell'applicare  alla  Vita  celli  ninna  la  designazione celebre  del  Goethe  Dichtung  uncl  Wahrheit  ('),  ed  il  Courbon  non  fece  bene  procedendo sempre  sicuro  nella  sua  analisi  senza  pur  l'ombra  d'un  dubbio  sulla  assoluto  veridicità dei  fatti  che  egli  prendeva  in  esame.   Ho  già  notato  che  il  Courbon  è,  del  resto,  abbastanza spregiudicato  e  non  si  lascia  sedurre,  come  tanti  suoi  compagni  di  studi,  dalla  fìsima  di  trovar  dovunque  sintomi  di  degenerazione.  Tuttavia  avrei  le  mie  riserve  da  fare  intorno  al  valore  ch'egli  attribuisce  alle  infermità  del  Cellini, la  cui  diagnosi  può  essere  fatta  a  puntino  da  un  medico,  per  i  gran  particolari  che  il  pa  ci) La  citazione  è  del  Baci-i,  nell'introduzione  al  suo  citato testo  critico,  p.  LSLXVIII,  ove  sono  dette  cose  sensate  intorno  alla  veridicità  della  Vita. ziente  stesso  ne  fornisce.  Ninna  di  quelle  malattie ha  particolare  valore  diretto  per  le  condizioni mentali  del  nostro  soggetto,  ed  il  dire  che  la  gotta,  sofferta  a  65  anni,  siccome  manifestazione dell'artr itismo  «  s'associe  au  terapérament  nerveux  »,  panni  un  fuor  d'opera,  perchè può  anche  non  associarvisi.  Cosi  pure  non  riveste  punto  il  carattere  di  morbosità  l'incostanza del  Celimi  nelle  occupazioni.  Se  da  orefice divenne  scultore  (fatto  allora  non  straordinario, perchè  il  passaggio  dalle  arti  minori  alle  arti  maggiori  era  frequente  per  non  dir  quasi  abituale)  e  pei*  necessità  anche  un  po'  meccanico ed  ingegnere,  e  più  che  un  po'  bombardiere  c  musicista,  per  certa  tendenza  che  anche  nolente aveva  ereditata  dal  padre,  e  letterato,  e  nel  1558  per  una  bizzarria  ricevette  persili  gli  ordini  ecclesiastici  minori;  ciò  non  vuol  dire  che  veramente  cangiasse  di  occupazione.  Bisogna  richiamare alla*  memoria  quali  erano  quelli  spiriti del  Rinascimento  italiano,  multilaterali  per  eccellenza,  aborrenti  dalle  morse  dello  specialista odierno;  e  bisogna  tener  presente  il  tatto  che  il  più  delle  volte  fu  la  necessità  del  momento che  indusse  Benvenuto  ad  occuparsi  in  modi  diversi.  In  realtà,  peraltro,  chi  legge  la  Vita  ha  l'impressione  d'una  costanza  unica  del  suo  pi'otagonista  nel  proseguire  certi  ideali  di  arte  e  nel  perfezionarsi  continuamente  nell'esecuzione artistica;  costanza,  che  culmina  nel  fatto  eroico  della  fusione  del  Perseo.  La  megalomania,  invece,  è  innegabile  e  si  manifesta  sin  dalle prime  l'itili'  della  Vitti,  ove  Ben  vomito  vir-onoscinuli  uomini  *  che  hanno  tallo  H  U'iSA    già  rosiaim.  clii'  priniii  si  poteva  percorrere  con  niella  iiiciTU'Xiiii,  sorretti  e  guidali  da  congetture  più  (i  niciio  ingegnose.  .Ma  ciò  clic  più  inolila,  ipirlLc  lettore  gli  fornirono  l'Achille  degli  argomenti per  statare  ima  delle  più  notevoli  ed  accredilate  legende  hiogra lidie  relative  al  Uosa:  die  t'irli,  cioè,  nel  H>47.  prendesse  parte  in  Napoli alla  rivolta  di  Masaniello  e.  con  altri  pittori napoletani,  formasse  la  eosidetta  Compagnia  della  morte,  armata  contro  irli  Spaglinoli  e  vendicatrice dei  loro  obbrobrii.  Bella  certamente  era  questa  leggenda,  che,  creata  dapprima  dal  malfido Bernardo  de'  Dominici,  trovò  sviluppo  sotto  la  penna  della  fantastica  lady  Morgan  ed  eccitò  l'alto  senso  civile  del  Carducci,  clic  ne  trasse  occasione  per  dettare  le  pagine  più  calde  ed  eloquenti della  sua  biografia  del  Rosa.  Ma  al  cimento dei  fatti  e  d  una  critica  circospetta  non  regge  quella  leggenda,  ignota  ai  primi  biografi,  contraddetta  anziché  confortata  da  un  passo  frequentemente allegato  delle  satire.  Nelle  lettere  ai  Maffei.  che  precedettero  e  seguirono  la  rivolta  di  Masaniello,  non  v'ha  pur  un  accenno,    che  il  Uosa  partecipasse  a  quei  casi  cruenti,    che  in  quel  tempo  si  recasse  a  Napoli:  cosa  che,  s'egli  realmente  vi  fosse  stato,  sarebbe  inesplicabile, sovratutto  con  un'indole  della  sua  tempra,  non  certo  schiva  dalla  millanteria.  11  Cesareo  batte  in  breccia,  a  parer  mio  definitivamente,  quell'episodio  della  vita  del  Rosa  e  mostra  eziandio come,  con  ogni  probabilità,  sia  una  favola  la  stessa  Compagnia  della  morte,  quale  divenne    "•U.VATiiK  UOSA    sinora  tradizionale  nella  srori;i  del  seicento  napoletano '  .  Questo  è  il  più  rilevante  tra  i  riunirmi storici  del  libro.   Se  di  ciò  i  non  tepidi  amici  del  vero  debbono  rallegrarsi,  gli  è  pur  «l'uopo  eoli  venire  die  la  figura  del  Uosa  viene  a  perderne  il  suo  più  bell'ornamento. Quel  tipo  cosi  idealizzato  nei  romanzi, nelle  commedie,  nei  libretti  d'opera  (lady  Morgan  ebbe  in  queir  idealizzazione  una  parto  cospicua, perche  essa  fu  la  prima  a  rappresentare,  eome.il  Cesareo  ben  nota,  «  un  Salvator  Rosa  byronianamente  romantico  »  l.  «pici  tipo  di. avventuriere elefante,  artista  nell'anima,  pronto  a  tutte  le  più  nobili  iniziative,  aperto  ai  manieri  ideali,  ■he  lascia  le  tele  adorate  per  cospirare  e  combattere a  prò  della  patria  oppressa,  che  altel-na  le  occupazioni  della  .scena  con  quelle  ili  dia  tavolozza, i  versi  con  la  musica,  gli  amori  con  la  politica:  quid  tipo  bizzarramente  eroico  vien  pure  ridotto  a  proporzioni  pici-ole,  piccole  assai!  Ter  valutarlo  ancora,  per  quello  che  è,  e  non  _ua  per  quello  che  ne  hanno  fatto,  è  mestieri  considerarlo,  non  già  isolato,  ma  allato  agli  uomini dei  tempi  suoi.  In  questo  modo  egli  guadagna assai,  perchè  al  paragone  di  quelli  uomini,  >e  non  è  adirittura  un  gigante,  non  i'  neppure  ili  statura  comune.  In  mezzo  alla  cortigianeria  qiagnolesca.  che  tutto  invadeva,  ed  allo  infiaechimeulo  generale  delle  tempre,  egli  sa  serbarsi  indipendente,  altero,  anzi  nero,  immune  da  qual ■  !  '  V,.,li  voi.  I,  pl>.  17-.">li.    RfcviEu    Sunijhi  frittosi    1    SALVATOR  ROSA    siasi  bassezza.  E  un  gran  pregio  senza  dubbio,  anche  se,  in  ultima  analisi,  esso  germoglia  da  un  cumulo  di  difetti.   A  guardar  bene,  infatti,  mi  sembra  che  molta  parte  di  quella  fierezza  derivi  dal  concetto  altissimo che  il  Eosa  aveva  di  sè,  e  che  andava  congiunto  ad  una  grande  vanità  e  ad  una  prosopopea ciarlatanesca  da  matamoros,  d'onde  procedeva una  prodigalità  senza  limiti  ed  una  maldicenza cosi  ostinata  e  linguacciuta,  come  solo  i  gran  vanitosi  soglio»»  averla.  Di  tutto  ciò  la  sua  vita  e  gli  aneddoti  copiosi  che  ne  raccontano  il  Passeri  ed  il  Baldinucci  sono  sicura  testimonianza. Prontezza  e  versatilità  d' ingegno,  spirito arguto  e  caustico,  bizzarria,  talor  naturale,  tal 'altra  voluta,  velano,  non  nascondono,  queste  qualità  morali  non  buone,  alle  quali  ne  va  congiunta una  peggiore  di  tutte,  che  il  Cesareo  stesso  non  dissimula,  la  poca  o  nessuna  delicatezza del  sentimento.  Se  il  Eosa  ebbe  pochi  ed  oscuri  discepoli,  la  ragione  è  forse  da  richiamarne  a  ciò;  perchè  a  far  dei  discepoli  non  basta  l'ingegno e  la  maestria,  occorre  anche  il  cuore.  E  di  cuore  il  Eosa  ne  aveva  pochino.  Le  lettere  ai  Maffei  sono  piene  d'eff,usione  e  talvolta  fin  di  tenerezza:  ma  un  osservatore  non  mancherà  di  notarvi  dei  tratti  grossolani,  che  indispongono.  Con  Giulio  Maffei  il  Rosa  è  spesse  volte  sgarbato: un  animo  gentile  non  sarebbe  mai  sceso  ad  insolenze  come  queste:  «  In  fatti  voi  siete  «  pontuale:  promettesti  mandare  il  terzo  delle  «  cose  e  così  felicemente  è  sortito.  Si  desidera    SALVATOR  ROSA    09    «  sapere  se  le  forchette  mandate  da  voi  habino  da  .servire  per  vangare  la  terra  o  la  minestra,  «  chè  per  la  minestra  non  sono  il  caso,  atteso  «  che,  per  quest'uso,  doveva  V.  S.  mandarle  «  alla  Ruota  prima  d'inviarle  a  noi.  Ha  perchè  «  la  nostra  prudenza  sa  trovar  ripiego  a  tutte  «  le  cose  (toltone  però  l'accomodare  il  vostro  «  cervello)  procureremo  di  servircene  per  la  «  prima  caccia  che  si  farà  dei  porci  o  altra  «  bestia  grossa  più  di  voi  »  (*).  E  la  volgarità  di  modi  che  predomina  sempre  nelle  sue  lettere  e  che  si  palesa  in  genere  nello  sboccato  turpiloquio di  tutti  i  suoi  scritti.  All'altro  grande  amico  suo,  Giambattista  Ricciardi,  il  professore  pisano,  poeta  burlesco,  osceno  ma  spiritoso,  quanto  lirico  serio  indigeribile  (s),  mostrò  bensì  il  Rosa  benevolenza sincera,  ma  appena  al  malcapitato  avvenne di  stuzzicarlo,  gli  piombò  addosso  una  lettera  di  quelle  che  non  si  dimenticano  (3).  Tuttavia il  Rosa,  come  amico,  non  può  dirsi  cattivo,  ed  a  Lorenzo  Lippi,  l'autore  del  Malmantile,  sembra  fosse  abbastanza  largo  di  favori.   (li  Voi.  II,  p.  46 i'2)  Cfr.  il  voi.  di  Rime  burìenche  ili  G.  B.  Mù Ciardi,  edito  ila  E.  Toci.  Livorno,  1881,  nella  cui  garbata  prefazione  si  troveranno  copiose  notizie  del  Ricciardi  ed  anche  della  sua  famigliarità  col  Eosa.  A  p.  XXXI  il  Toci  parla  di  molte  lettere inedite  del  professore  pisano  esistenti  in  casa  Maft'ei  ed  altrove.  Chissà  che,  scovandole,  non  vi  si  trovino  nuove  notizie anche  del  Uosa.   (3i  Voi.  II.  pp.  122-23.  Al  Ricciardi  sono  dirette  tutte  le  lettere  del  Rosa  che  mise  in  luce  il  Bottari.  Una  fastidiosa  canzone  del  Ricciardi  al  Rosa  pubblica  il  Cesareo  nel  volume II,  p.  138.    sALVA'l'oH    Peg-gioro  tu  invoce  nei  rapporti  famigliari.  S'inveitili  in  Firenze  d  una  fanciulla  di  nome  Lucrezia  l'aolini.  secondo  il  Cesareo,  che  irli  aveva  servilo  da  modello,  ne  beneficò  i  congiunti  e  se  la  tenne  in  casa,  allora  e  poi  sempre,  come  moglie.  Xei  tivnt'niini  elle  visse  con  lei.  non  sembra  avesse  mai  a  lamentarsene:  eppure  non  la  sposò  se  non  agli  estremi  della  vi costrettovi  quasi  dal  l'ani  ieo  Baldovini.  alle  cui  istanze,  narra  il  Pascoli,  cli'ei  rispondesse  con  giuoco  inopportuno di  spirito:  «  Se  andare  non  si  può  in  paradiso  senza  essere  cornuto,  converrà  tarlo  ».  E  agevole  immaginare  quali  drammi  si  agitassero  nel  petto  della  povera  donna,  allorché  Salvafere,  ogni  qualvolta  ella  gli  partoriva  un  figliuolo,  ne  taceva  un  mostruoso  presente»  alla  ruota  degli esposti!  a  lui  bastava  ili  allevare  presso  di    il  primogenito.  Rosai  vo;  degli  altri  si  sbrigava in  quella  maniera  molto  spicciativa.  Solo  quando  Rosalvo  venia»  a  morirgli  di  contagio,  si  decise  a  tenere  presso  di    un  altri)  figliuolo.  Augusto.  Ma  più  d'uno  non  mai.  checché  avvenisse! Le  gravidanze  di  Lucrezia  ci  le  chiamava  impicci.  «  La  signora  Lucrezia  i  partecipava  nel  «  ltiòl  a  (tÌuIìo  iiaft'ei  '  oggi  son  otto  giorni  ohe  «  mandò  alla  luce  un  figliuolo  maschio,  copia  «  spiccicata  di  Salvatore  Rosa  a  Imre  f)  ili  notte,  «  con  più  facilità  di  quello  ch'ha  sinora  fatto  por  «  la  Dio  grazia.  Il  parto  il  giorno  dopo,  con     La  figura  di  quest'uomo  stravagante  Intlaìiilc,  latin  s/ji/'i/n.  full')  fuoco,  com'egli  medesimo  i  lilie  a  dire  di    in  una  lettera  al  Ricciardi,  simpatica  non  riesce  davvero.  1  biografi  stessi,  i  rendercela  tale,  dovettero  lavorare  di  fantasia  ed  appiopparle  per  loro  conto  delle  doti  che  non  aveva.  Del  resto,  la  simpatia  importa  ben  poco  allo  storico,  il  quale  nel  Rosa  è  pur  costretto  ad  ani  mirare  l'ingegno  ed  a  riconoscere  in  lui   1 1 .  v..i.  n,  |>.  ss.   iJ ì  Ve.].  II.  y.  70.    102    SALVATOR  ROSA    »  uno  dei  più  caratteristici  tipi  di  quello  squilibrato e  tipico  seicento,  ch'egli  vituperò  tónto  a  parole.  ^   Nelle  sue  linee  fondamentali,  la  vita  del  Rosa  resta,  dopo  la  pubblicazione  del  Cesareo,  tal  quale  la  si  conosceva  per  gli  studi  antecedenti,  onde  basterà  richiamarla  con  pochi  cenni,  rettificandone col  nuovo  libro  la  cronologia.  Nato    all'Arenella  presso  Napoli,  nel  1615,  di  famiglia  poco  agiata,  in  cui  l'amore  per  la  pittura  era  ereditario,  SAlvatoriello  palesò  ben  presto  inclinazione al  disegno  ed  alla  musica.  In  Napoli  ebbe  la  fortuna  di  riscuotere  l'ammirazione  di  Giovanni  Lanfranco  e  di  potersi  giovare  degli  anmaestramenti  del  Ribora  e  del  Falcone,  ai  quali  peraltro  non  professò  mai  gratitudine.  Recatosi  a  Roma  nel  1635,  v'ammalò,  onde  dovette tornarsene  a  Napoli.  Ma  presso  questa  nazìoìi  di  gran  fumo  e  poco  arrosto  (a  detta  del  Rosai,  non  potè  resistere  a  lungo:  ivi  le  tre  chiesuole artistiche  del  Ribera,  del  Caracciolo,  del  Corenzio,  «  accanite  tra  loro  in  ogni  altra  cosa,  «  scrive  il  Carducci,  in  questa  si  trovavano  d'ac«  cordo,  allontanare  i  forestieri,  calcare  gl'iu*  gegni  crescenti  ».  Però  Salvatore  prese  di  nuovo  la  via  di  Roma  in  sul  principio  del  1637.  Da  Roma  si  recò  col  cardinale  Brancaccio  a  Viterbo, e  di    novamente,  ma  per  poco,  a  Napoli. Partitosene  col  proposito  di  non  più  ritornarvi, si  stabili  a  Roma  nella  primavera  del  1638,  in  mezzo  a  quella  fioritura  artistica  che  v'avea  procurato  papa  Urbano  Vili.  Il  Rosa  ebbe  campo    SALVATOR  ROSA    103    d'acquistarsi  fama  come  pittore,  d'esercitarsi  nel  toccare  il  liuto  e  nel  l'improvvisa  re  poesie,  nel  far  bella  mostra  di    recitando  farse  e  commedie a  braccia,  ed  anche  di  procurarsi  non  pochi  nemici  con  la  sua  lingua  tagliente.  Nel  1640  si  riduceva  in  Firenze,  terra  promessa  per  lui.  ove  si  congiunse  alla  signora  Lucrezia,  strinse  amicizie gioviali  e  simpatiche,  continuò  ad  istruirsi,  a  dipingere,  a  recitar  commedie,  fondò  con  altri capiscarichi  l'Accademia  dei  Percossi.  Il  suo  amico  Lippi  [Malmantile,  IV,  1-1)  dice  di  lui:   .  .  .  pittar,  passa  chiunque  tele  imbiacca:  tratta  d'ogni  scienza,  ut  ex  professo:  e.  in  palco  fa    ben  Coviel  Patacca,  che  sempre  ch'ei  si  mova  o  eh'ei  favella  fa  proprio  sgangherarti  la  inascella.   Stretta  relazione  coi  signori  Maffei  di  Volterra,  si  recava  spesso  nelle  loro  tenute.  Sembra  anzi  i^he  in  casa  loro  si  sgravasse  Lucrezia  del  bambino Rosalvo,  nel  1641.  Nel  1649  il  Rosa  si  ridusse di  bel  nuovo  a  Roma,  ove  si  trattenne  il  resto  della  sua  vita,  allontanandosene  solo  per  qualche  tempo,  nel  1661,  per  recarsi  a  Strozzavolpe,  villa  del  Ricciardi,  e  quindi  a  Firenze,  in  caso  Paolo  Mi  micci,  il  commentatore  del  Malmantile. La  sua  attività  di  pittore  diede  in  quegli  anni  i  frutti  migliori:  alle  esposizioni  di  S.  Giovanni  decollato  e  della  Rotonda  aveva  sempre qualche  nuova  tela  da  mettere  in  mostra,  e  l'ammirazione  dei  contemporanei  giungeva  al  colmo.  Gli  acciacchi  della  vecchiaia  lo  assalsero precocemente;  nel  1666,  a  50  anni,  già  se  ne  doleva.  Continuò  tuttavia  a  lavorare  di  pittura  e  di  poesia,  finché  non  infermò  di  un'  idrope,  che  Io  spense  nella  primavera  del  1673.   In  Salvator  Rosa  l'artista  fu  senza  dubbio  superiore all'uomo:  ed  è  appunto  dell'artista  che  mi  propongo  ora  di  discorrere.   II   L'artista.   Il  16  settembre  1662,  Salvator  Rosa  scriveva  all'amico  Ricciardi:  «  Lessi  subito  la  vita  d'Ap«  pollonio,  composta  da  Filostrato,  con  mia  par«  ticolar  sodisfazione  per  quel  che  s'appartiene  «  alla  curiosità;  ma  non  ci  ho  trovato  quello,  «  ch'ella  mi  significò  che  ci  avria  trovato,  di  «  singolare  e  stravagante  per  la  pittura,  essendo  «  fatti,  che  quasi  tutti  darebbono  in  una  cosa  *  medesima,  onde  vi  prego  a  propormi  qualche  «  altra  cosa,  acciò  vi  potessi  trovar  cose  più  «  fuori  dell'ordinario,  avendovi  però  notato  al«  cuni  fatti  per  servirmene  »  (').  Grammatica  a  parte,  queste  linee,  o  m'inganno,  sono  abbastanza significative  nello  esprimere  il  concetto  che  il  Rosa  si  era  fatto  della  pittura.  Egli  andava alla  ricerca  del  singolare,  dello  sh'avagante:  non  per  nulla  viveva  in  quel  secolo  in  cui  il cav.  Marino  avea  apertamente  dichiarato:  k  del  poeta  il  fui  la  meraviglia.  Aveva  molte  letture  e  di  esse  amava  far  sfoggio  nelle  sue  tele,  il  cui  soggetto,  di  per  se  stesso,  era  atto  a  colpire.  La  storia  vi  dava  la  mano  all'allegoria  filosofica.  Cadmo  e  gli  uomini  che  sorgono  armati  dai  denti  dell'atterrato  serpente;  Socrate  che  beve  la  cicuta: Democrito  in  contemplazione  tra  le  tombe  e  gli  scheletri;  Pitagora  che  parla  ai  discepoli  stupiti  dell'Eliso,  e  altrove,  circondato  dalla  sua  scuola,  offre  denaro  ai  pescatori  perchè  lascili  liberi  i  pesci;  Catilina;  l'ombra  di  Samuele  innanzi a  Saulle,  ecc.  ecc.;  e  poi  personificazioni  allegoriche  in  gran  copia,  con  largo  sviluppo  del  concetto  simbolico,  la  Fragilità,  la  Fortuna,  lo  Spavento,  la  Giustizia,  la  Pace,  ed  altre  ed  altre: ecco  i  soggetti  che  prediligeva.  Quando  era  di  vena,  e  lo  era  quasi  sèmpre,  lavorava  con  meravigliosa  sollecitudine.  In  poco  più  d'un  mese  consegnò  finita  una  grande  battaglia,  che  doveva  essere  regalata  al  re  di  Francia  e  che  oggi  si  vede  tuttora  al  Louvre.  Le  battaglie  si  prestavano alla  sua  fantasia  sbrigliata,  e  però  gli  piacevano. Fu  infatti  il  Rosa,  anzitutto,  un  pittore  fantastico:  gran  parte  della  sua  potenza  consiste nel  modo  imaginoso  e  bizzarro  in  cui  vi  si  vede  il  soggetto,  quasi  sempre  ben  scelto.  Per  questa  parte  pochi  pittori  più  ricchi  di  lui  vanta  la  storia  gloriosa  delle  nostre  arti  del  disegno.  Nella  satira  La  pittura,  ch'è  una  specie  di  prò',  gramma  teorico  d'arte,  ove  Salvatore  monta  sui  I  trampoli,  fa  la  lezione  e  trincia  giudizi  e    la    S  W.V  ATOR  UOSA   stui'ii  ;i  invettive,  egli  deplora  l'ignoranza  ilei  pittori,  tallio  più  biasimevole  in  clic  tal  vii  Itti  inliliti   lilttrt>fan;iti  i  palazzi  di  principi  cristiani.   .Sul  di  t'emminc  igiiude  i  re.  fregiati   hanno  i  lor  jrabinetti,  e  quindi  nasce  che  divengano  anch'essi  effeminati.   Ve  li  figurate  quelli  innocentini  di  principi  secentisti,  che  macchiano  la  purità  delle  loro animucee  di  tortora  al  cospetto  delle  Veneri  Tizianesche? È  il  falso,  che  giunge  al  grottesco:  il  falso  di  tutto  quel  secolo  ipocrita  e  vile,  in  cui  moraleggiala  col  pennello,  fino  a  non  osare  di  far  comparir  Frine  ignuda  innanzi  a  Senocrate,  e  più  con  la  penna,  chi  viveva  gran  parte  della  vita  in  concubinato  e  mandava  i  figliuoli  a'  trovatelli!   Quantunque  il  Rosa  avesse  a  sdegno  d'esser  chiamato  paesista,  la  sua  vera  gloria  è  la  pittura di  paesaggio.  Chi  farà  un  giorno  la  storia  di  questa  pittura  dovrà  assegnargli  un  luogo  eminente.  Egli  aveva  il  sentimento  vivo,  ardente  della  natura.  Basta  osservare,  per  accorgersene,  il  desiderio  immenso  che  gli  lasciava  sempre  la  campagna,  la  vera  sete  di  ritornare  a  Barbaiano  e  a  Monterufoli,  che  si  palesa  nelle  sue  lettere  ai  Mafifei.  Basta  por  mente  a  quella  lettera  significatissima  al  Ricciardi,  in  cui  gli    conto  d'un  suo  viaggio  da  Roma  nelle  Marche,  attraverso l'Appennino  c  E  un  misto,  diceva  egli,  «  così  stravagante  d'orrido  e  di  domestico,  di  «  piano  e  di  scosceso,  che  non  si  può  desiderare  *  di  vantaggio  per  lo  compiacimento  dell'occhio  ».  E  ammirava  le  tinte  delle  montagne,  i  cupi  orridi  «  da  far  spiritare  ogni  incontentabile  cervello  »,  i  romitori  solitàrissimi  di  quei  luoghi  «  di  stra«  ordinario  diletto  per  la  pittura  ».  Maniera  questa tutta  moderna  di  considerare  le  cose  esteriori, che  si  trova  riflessa  nella  modernità  dei  paesaggi  Rosiani,  sapienti  nelle  tonalità  elei  colori,  pregevoli per  l'aria  e  gli  sfondi,  felici  nelle  prospettive, pieni  di  rilievo,  di  vita,  di  robustezza  nel  tocco.  Senza  punto  atteggiarsi  a  critico  d'arte,  il  Carducci  disse  in  proposito  egregiamente:  «  Nel,  appartiene  alla  vecchiaia  del  Rosa  ('),  ed  ha  della  vecchiaia  tutti  i  difetti:  querimoniosità  ancor  cresciuta,  cicaleccio  sempre  più  prolisso, pessimismo  arcigno,  inclinazione  al  bigottismo. Qualche  terzina  robusta,  qualche  strale  ben  diretto  non  valgono,  a  parer  mio,  a  salvare  questo  componimento.  Eppure  è  proprio  qui  che  il  poeta  esclama:   Bastami  solo  in  quest'età  corrotta,   senza  adulnzion,    falsi  orpelli,   in  Pindo  aver  la  verità  condotta,   dato  a  le  tosche  satire  i  modelli,   a  Parnaso  il  suo  Elia  e  il  suo  Tirteo  (s).   No,  no;  è  troppo,  è  troppo!  Le  tosche  satire  avevano  ben  altri  modelli:  fu  ben  altro  poeta  satirico  l'Ariosto,  e  seppe  esserlo  quando  volle,  ben  altrimenti  plastico  e  rovente,  anche  Dante.  La  satira  del  Rosa,  tutta  invettiva  e  sarcasmo,  dettata  dall'ira,  anzi  dal  furore,  come  tante  volte  egli  dice,  non  era  di  quelle  che  possano  produrre  buoni  frutti.  Le  lungaggini,  la  pesantezza  dei  continui  richiami  classici,  addotti  a  pompa,  infiniti, per  cui,  come  il  Carducci  notò,  «  a  questo  La  cronologia  delle  satire  fu  dal  Cesareo  fissata  con  molta  cura  ed  ingegnositì  di  osservazioni.autore  ò  necessaria  l'illustrazione  più  forse  «  che  a  qua lehc  poeta  latino  »,  lo  stile  disuguale e  spesso  sciatto,  l'espressione  troppo  di  frequente  plebea,  non  sono  qualità  che  si  addicano a  componimenti  esemplari.  Il  cardinale  Pallavicino, che  senti  quei  componimenti  dalla  bocca  del  loro  autore,  disse  che  gli  sembravano  bellissimi solo  in  alcuni  squarci:  e  disse  bene.  K  il  Giusti,  rammentato  già  dal  Carducci,  ancora  meglio: «  sorridono  d'una  certa  scioltezza  gaia  e  «  ciarleria:  vi  sentì  il  brio  pronto  e  loquace  del  «  Napoletano:  il  fare  dell'uomo  avvezzo  in  palco  «  a  spassare  la  brigata;  ma  io  lo  scorgo  povero  «  in  mezzo  a  quel  lusso  erudito:  declamatore,  «  pieno  di  lungaggini,  si  lascia  e  si  ripiglia  per  «  tornare  a  lasciarsi  e  ripigliarsi  cento  volte:  «  vanga  e  rivanga  uno  stesso  pensiero,  e  te  lo  «  rivolta  da  tutti  i  lati,  come  se  faccettasse  un  «  brillante;  si  sente  insomma  che  lo  scrivere  non  «  era  l'arte  sua  naturale,  ma  un  di  più  del  suo  «  ingegno  »  (').   E  nobile  talvolta  la  sua  ira,  ma  non  sa  conservarsi nella  misura  e    botte  da  orbo  a  diritta e  a  mancina.  La  ragione  forse  per  cui  la  satira  sulla  poesia  è  riuscita  migliore  delle  altre  è  appunto  questa,  a  parer  mio,  che  in  essa  il  Rosa  ha  voluto  e  saputo  determinar  meglio  il  suo  concetto,  additar  meglio  i  bersagli  contro  cui  scoccava  le  sue  freccio.  Onde  (piando  lo  ve  (li  Discorso  premesso  al  l'armi,  eiliz.  Le  Mounier.  ISiiO,  li.  XXIX.    SALVATI  >K  KOSA    lló    1 1 i ; 1 1 1 1 > >  porro  in  canzone,  ad  esempio,  le  accademie ed  il  v liuto  della  poesia  roboante  di  quello  versaiuolo.  e  quando,  attediandosi  a  fiero  .iiiiiiiiai  inista,  lo  troviamo  ridere  di  quelle  ima- i ni  sbalorditole  e  di  «incile  ridicoli' ampollosità  ilei  suo  seicento,  non  possiamo  a  mimo  di  battergli le  mani,  e  di  ammirarlo  immune,  quanl  inique  non  solo  ad  esserlo,  da  quella  lebbra,  cozzante coni ro  il  mal  gusto  clic  dilagava.   *   Bello  scrittore  il  Rosa  non  fu.  Xella  prosa  ancor meno  che  nei  versi.  Nelle  lettere,  che  il  Cesareo seppe  raccogliere  abbastanza  copiose,  stile  e  liniaia  sono  incerti,  ortografia  incertissima.  L'editore  avrebbe  usato  cortesia  al  povero  Salvatore non  riproducendole  con    scrupolosa  fedeli;!, come  se  si  t'osse  trattato  d'autografi  del  fingente.  Regolare  quella  selva  selvaggia  di  maiuscole fuor  ili  luogo,  raddrizzare  qua  e    la  grafi;i.  collocare  un  po'  meglio  la  punteggiatura,  non  rispettare  persino  i  trascorsi  di  penna,  sarebbe  stato  torse1  pietà.  Almeno  quella  prosa,  bella  non  mai.  sarebbe  riuscita  più  leggibile,  come  più  leggibili sono  le  lettere  al  Ricciardi  le  migliori  per  contenuto  che  si  abbiano  del  Rosa)  edite  dal  Bottali. Ciò  peraltro  che  l'editore- non  avrebbe  in  nessun  caso  potuto  mutare  è  la  volgarità  dell'espressione, la  libertà  sboccata  degli  scherzi  indecenti.  .Strana,  invero,  tanta  trivialità  in  un  pittore  qualche  volta  così  elegante, in  un  uomo    SALVATOR  UOSA    d'animo,  se  non  altissimo,  certo  non  del  lutto  ignobile,  che  protese  coi  Tevere  i  vizi  de'  suoi  simili  nel  costume  e  nelle  arti!   Nota  aggiunta.    E'Iitn  nella  Gazzetta  letlrrmiti  ilei  ."J  .  L  invilenti!  mniinirralin  su]  lìnsn  pi 1 1 >,  ]ier  Olii  si  veila  riò  rhe  ne  scrissi  nel  II  ioni,  storiro,  LUI.  l'il.  Sulle  satire  è  semine  cmisiileraliile  il  ijiuiliy.io  de]  Bki.i."XI.  //  Srirrutn,  Milano  lsìtìl.   '2iU    Si  ai i i  4.'»  anni)  il  conte  liiulio  Perticali.  Si  spegneva  dopo  una  malattia  Pinna  ed  oscura,  accompagnata  da  n'eri  abbati imcnti  inorali,  da  preoccupazioni  angosciose  e  misteriose.  Si  spegneva  fuori  di  casa  sua,  a  San  t'usiaiizo  di  Pesaro,  presso  il  cugino  Francesco  i'a»i.  Aveva  intorno  parenti,  amici,  la  moglie,  accorsa  tardi  al  suo  capezzale  perchè  trattenuta  altrove  da  gravi  cure,  ma  desiderala.  Quella  donna  aveva  pianto  amaramente,  s'era  data  in  preda  alla  disperazione  (piando  vide  esanime  il  marito,  ma  nello  sfogare  l'ambascia  aveva  pur  a -l'usato  se  medesima,  quasiché  non  avesse  avuto  pi'l  suo  (iiulio  l'affetto  e  la  premura  ch'egli  meritava.  Poscia  s'era  allontanata,  senza  pur  recarsi  a  visitare  in  Pesaro  la  buona  suocera,  quasi  si  vergognasse  di  comparirle  d  innanzi.  Kd  ecco  una  voce  farsi  strada  in  mezzo  all'universale rimpianto  per  la  perdita  dell'insigne  letterato:  una  voce  dapprima  bisbigliata  da  qualche  parente,  poi  propagata  dai  fratelli  dell'i .-liuto,  finalmente  accreditata  da  molti  amici  presso  il  pubblico.  La   contessa  Pertieari  era stata  una  cattiva  moglie;  il  conte  Giulio  era  morto  di  crepacuore  per  i  mali  portamenti  di  lei;  lo  aveva  pur  detto  ella  stessa  che  si  sentiva lacerata  dai  rimorsi,  s'era  pur  vergognata  ella  stessa  di  presentarsi  alla  suocera,  da  cui  con  materna  tenerezza  era  amata.  Le  accuse  furono  concretate  in  un  libello,  che  «  alcuni  amici  del  vero  »  scrissero  in  risposta  a  certa  necrologia  del  Perticari  uscita  nel  Giornale  delle  dame.  Il  libello  anonimo,  che  fu  largamente  diffuso  a  penna  e  letto  avidamente  dai  dilettanti di  scaudali,  tacciava  la  contessa  Perticari  di  colpe  gravi  e  la  additava  come  responsabile  della  morte  di  Giulio.   Nessuna  cosa  più  facile  che  il  far  penetrare  nel  pubblico  simili  sospetti,  massime  quando  si  tratti  di  persone  illustri  e  perciò  osservate  ed  invidiate.  Le  accuse  ottennero  fede  anche  presso  coloro  che  avrebbero  potuto  e  dovuto  procedere con  maggiore  cautela  nel  crederle.  Il  Giordani, in  un  paio  di  lettere,  deplorava  la  mala  azione  e  se  la  pigliava  (mancomale!)  con  l'utero e  con  la  perfida  razza  umana.  Il  Niccolini,  scettico  e  sboccato  come  al  solito,  vi  ghignava  sopra  scrivendo:  «  Io  non  lo  posso  credere,  «  perchè  il  Perticari  era  uomo  dottissimo  e  di  «•molta  perizia  nella  lingua;  ma  non  fatto  da  «  natura  a  sentire  fortemente  ed  affliggersi  per  «  le  corna,  necessità  antica  ed  eterna  di  tutti  '  i  mariti  ».  Persino  il  Mustoxidi,  che  dapprima aveva  inorridito  alle  accuse  lanciate  contro la  vedova  Perticari  da  lui  un  giorno  idolatrata,  qualche  mese  appresso,  scrivendo  ad  Antonio  Papadopoli,  trattava  di  lei  con  sprezzante malevolenza  e  la  chiamava  «  una  donna  »  di  cui  si  vantano,  false  o  vere  che  siano,  «  mille  galanterie  ».  Ma  la  voce  sparsa  dal  libello, accortamente  esagerata,  doveva  ben  presto  figliarne  un'altra,  mostruosa.  Non  solo  la  Perticar! aveva  trafitto  l'animo  del  marito  co'  suoi  disordini  morali,  ma  lo  aveva  anche  materialmente ucciso.  La  morte  misteriosa  era  dovuta  a  veneficio;  e  a  riprova  si  adducevano  certe  macchie  che  i  medici  rinvennero  nelle  membrane del  ventricolo  di  Giulio  allorché  ne  sezionarono il  cadavere.  In  pieno  secolo  decimonono,  Costanza  .Monti  Perticali,  la  bella,  la  dotta,  la  inspirata  figliuola  di  Vincenzo  Monti,  aveva  avvelenato  il  marito  e  (si  aggiunse  persino)  con  la  complicità  del  padre  celebratissimo,  geloso  della  fama  crescente  del  genero!   *     *   Tanta  enormità  chiedeva  solenne  smentita.  E  la  smentita  venne  dal  celebre  clinico  Giacomo Tommasini,  che  aveva  assistito  (troppo  tardi  chiamato  da  Bologna)  alla  fase  estrema  della  malattia  di  Giulio.  Il  Tommasini,  in  un  suo  opuscolo  stampato  a  Bologna  nel  1823  col  titolo  Storia  della  malattia  per  la  quale  mori  il  conte  Giulio  Perticati,  attestò  solennemente  che  si  trattava  di  morte  naturale  dovuta  ad  una  «  lenta  infiammazione  di  fegato  ».  Da  parte    120    LA  FIGLIUOLA  DEL  MONTI    sua,  Vincenzo  Monti,  fieramente  irritato  contro  i  denigratori  della  figliuola  dilettissima,  li  pungeva in  un'ode  stampata  nel  1823,  e  quindi  in  un'apostrofe  eloquente  della  Feroniade  lamentava la  loro  freddezza  per  Giulio,  accostandola  al  dolore  profondo  della  «  derelitta  sua  misera  sposa  ».   Spettava  alla  critica  moderna  il  vagliare  coteste  voci  e  testimonianze  contraddittorie.  Ernesto Masi  (l),  mentre  produceva  una  lettera  di  Costanza  Perticari  diretta  a  Paolo  Costa  nel  novembre  del  1822,  difendeva  la  misera  vedova,  facendo  intravvedere  quanto  calunniose  fossero  le  dicerie  sparse  a  suo  carico;  e  un  paio  d'anni  dopo  la  difesa  era  avvalorata  da  altre  preziose  lettere  di  Costanza  scovate  in  Fano  da  G.  S.  Scipioni  tra  le  carte  di  Filippo  Luigi  Polidori  e  da  lui,  con  giuste  considerazioni,  fatte  conoscere  (!).  Tanto  il  Masi  quanto  lo  Scipioni,  ma  specialmente quest'ultimo,  riuscirono  a  ricostruire  la  tristissima  guerra  di  cui  la  contessa  Perticari  fu  vittima,  indicandone,  come  principali  attori  i  fratelli  di  Giulio  e  più  specialmente  due  corteggiatori delusi  della  bella  figliuola  del  Monti,  letterati entrambi,  il  pesarese  conte  Francesco  Cassi,  noto  traduttore  della  Farsaglia,  ed  il  fanese  conte  Cristoforo  Ferri.  Oggi  una  signorina  buona,  intelligente  e  colta  toglie  ogni  velo  a    (X)  Parrucche  e  sanculotti,  Milano,  188G,  pp.  239  sgg.Giornale  storico  della  letteratura  italiana,  voi.  XI  (1888),  pp.  74  sgg.    LA  FIGLIUOLA  DEL  MONTI    121    quella  specie  di  congiura  e  chiarisce  in  ogni  punto  la  biografia  di  Costanza  con  un  libretto  vivace  e  simpatico  ('),  che  si  basa  su  di  un  numero ragguardevole  di  documenti  amorosamente  ricercati  in  vari  depositi,  ma  in  ispecie  nella  Oliveriana  di  Pesaro,  e  sulle  lettere  tutte,  in  grandissima  parte  inedite  sino  ad  ora,  della  Per  ticari  (!),  che  costituiscono  un  volume  istruttivo  e  valgono  meglio  d'ogni  altro  discorso  a  farci  leggere  nel  cuore  e  nella  mente  della  donna  infelice.   La  signorina  Maria  Romano,  con  una  franchezza che  le  fa  onore,  non  dissimula  che  il  suo  libro  ha  una  tesi.  «  Desiderava,  scrive,  di  «  scoprire  la  verità  intorno  alla  vita  di  que *  sta  donna,  ero  però  decisa  a  non  pubblicare  j7  sgg.   Zaiotti,  perchè  quelle  pagine  ebbero  successo  e  diffusione  veramente  grandi  rlett.  197,  198).  Lo  Zaiotti,  a. sua  volta,  la  cui  figura  letteraria  attende d'essere  degnamente  tratteggiata  (')serbò  costante  la  stima  e  l'affetto  per  la  sventurata  figliola  del  grande  amico  suo,  e  quand'ella  fu  liberata  dalle  pene  dell'esistenza  fece  incidere  sulla  sua  tomba  ferrarese  una  bella  iscrizione,  che  si  chiude  qualificandola  «  sempre  buona  |  ora  anche  felice  ».   E  davvero  la  bontà  di  Costanza  rifulge  nel  suo  epistolario  e  nella  biografia  che  seppe  scriverne la  Romano  con  delicatezza  squisitamente  e  caldamente  amorosa.  È  una  bontà  robusta,  senza  sdilinquimenti,  oserei  quasi  dire  classica;  ma  è  una  bontà  che  vale  a  scusare  qualsiasi  debolezza,  perchè  proviene  veramente  da  un  cuore  ben  fatto  e  retto.  Quando  il  cugino  Luigi  Cassi  languiva  in  terra  straniera  dopo  aver  partecipato alla  disastrosa  spedizione  di  Russia,  fu  lei,  Costanza,  che  cercò  in  tutti  i  modi  di  averne  novelle,  mentre  la  famiglia  si  baloccava  nella  più  vergognosa  apatia.  E  dopo  la  morte  del    il)  Nocque  grandemente  allo  Zaiotti  la  sua  qualità  di  fervido austriacante  e  la  parte  avuta  nei  processi  contro  i  cospiratori italiani,  nonché  quel  libretto  della  Semplice  rarità,  che  fece  fremere  tanti  onesti  patrioti,  sebbene  di  cose  vere  ne  dica  parecchie.  Non  certo  il  politicante  d'idee  strette  e  malsane,  ma  il  letterato  meriterebbe  qualche  studio,  non  foss"  altro  per  le  molte  ed  alte  relazioni  che  ebbe.  Speriamo  che  possa  un  giorno  farcelo  conoscere  appieno  il  Luzio,  il  quale  si  valse  sinora  del  suo  carteggio  col  Salvotti,  massime  nel  recente  volume  sul  Processo  Peìliro-MaroncelH.    Rkniek  Svaghi  Critici    0    130    LA  FIGLIUOLA  DEL  MONTI    marito,  la  nobiltà  d'animo  di  Costanza  si  mostrò superiore  ad  ogni  elogio.  Solo  preoccupata  di  rendere  onore  al  defunto  pubblicando  i  suoi  scritti,  perdonò  ai  propri  calunniatori,  serbò  sempre  affetto  alla  suocera,  prese  cura  di  Andrea, rampollo  illegittimo  di  Giulio  (lett.  132).  Allorché  nel  febbraio  del  1824  mori  l'archeologo bolognese  Giuseppe  Tambroni,  al  quale  Costanza  era  singolarmente  affezionata,  la  vediamo piangere  e  desolarsi  (lett.  158),  sebbene  avesse  tante  ragioni  di  cruccio  per  le  faccende  sue  personali.  «  Sul  mio  cuore  l'amicizia  stampa  «  caratteri  indelebili  »  (lett.  71)  scrisse  un  giorno,  ed  era  vero.  Da  questa  maniera  di  sentimento non  la  distrassero  i  molti  e  gravi  disinganni, nè  valsero  i  dolori  suoi  a  renderla  indifferente  ai  dolori  altrui.  Allorché  le  mori  la  seconda  persona  ch'ella  amava  di  più  sulla  terra,  il  padre,  provò  più  cupo  il  dolore,  solo  lenito  dalla  fede  religiosa  (lett.  192).  Come  avea  fatto  per  Giulio,  cosi  anche  del  padre  curò  la  fama  procurando  la  stampa  delle  sue  opere  inedite,  e  fu  afflitta  al  vedere  che  la  madre  voleva immischiarsene  lei  e  cercava  il  lucro  nell'impresa pietosa  (lett.  197  e  199).  Sebbene  anche  alla  madre  chiudesse  gli  occhi  con  figliale  pietà  (lett.  210)  e  per  la  sua  dipartita  rimanesse  sinceramente addolorata  (lett.  211),  non  vi  fu  mai  vero  affiatamento  tra  Costanza  e  Teresa  Pichler  (*).  Cosi  va  scritto  il  casato  della  moglie  del  Monti,  sebbene  ossa  firmasse,  secondo  la  falsa  pronunzia  italiana,  Pilcler,    LA  FIGLIUOLA  DEL  MONTI    131    Erano  troppo  diverse.  La  Pichler  era  vana,  superficiale, ma  in  fondo  calcolatrice  ed  egoista;  la  generosità,  lo  slancio  ed  il  disinteresse  Costanza li  aveva  ereditati  dal  padre.   *   *     Se  v'ha  una  deficienza  nella  biografia  di  Costanza dettata  dalla  Romano,  questa  si  riferisce  alle  occupazioni  intellettuali  della  figliuola  del  Monti.  In  estremo  grado  assorbita  dal  quesito  inorale  propostosi,  la  Romano  non  consacrò  a  questa  parte  molta  attenzione.  Sarebbe  utile  che  un  giorno  altri  vi  si  indugiasse;  ma  a  farlo  convenientemente sarà  necessario  che  prima  si  abbia  quello  studio  definitivo,  che  ancora  manca,  sugli  scritti  e  sul  valore  di  Giulio  Perticari.  Tutta  l'educazione  e  l'attività  di  Costanza  dipendono  direttamente  dall'indirizzo  che  le  diede  il  padre  e  dalla  consuetudine  col  marito,  che  nel  campo  intellettuale  fu  più  fervida  e  simpatica  che  in  quello  affettivo.  In  una  lettera  del  1818  la  contessa gli  scrive:  «  te  lontano,  io  non  posso  più  *  nulla.  Una  prova  te  ne  sia  che  i  miei  studi  «  languiscono,  ho  mille  dubbi  che  nessuno  mi  «  solve,  perchè  nessuno  ha  la  pazienza  tua  e  «  d'altronde  in  nessun  altro  potrei  porre  la  fidu crane  pure  si  legge  sulla  sua  fede  battesimale  (cfr.  Vici  hi,  Primo  *aygio  su  V.  Monti,  p.  5),  e  in  altri  documenti.  Però  nella  fede  di  battesimo  (9  giugno  ITtfii  di  Costanza  è  detta  Pichler  (Viccui,  op.  cit.,  p.  52;  e  tale  dovette  essere  la  forma  del  cognoDe,  comunissimo  nelle  province  tedesche  dell'Austria.eia,  perchè  so  die  nessuno  così  mi  anici  come   «  tu  fai  Per  ora  non  ti  dico  di  più,  se  non  che   «  i  miei  libri  son  chiusi  e  non  li  riaprirò  se  non  «  all'apparire  del  mio  Apollo.  »  (lett.  58).   Musa  leggiadra  e  vivace  nel  gruppo  letterario  pesarese,  che  aveva  in  casa  Pertica  ri  il  suo  centro,  Costanza  non  riuscì  solamente  artista  squisita  ne'  versi,  tra'  quali  eccelle  quel  poemetto su  L'origine  della  rosa,  che  alla  fluidità  ariostesca  dell'ottava  rima  accoppia  l'urbanità  molle  e  gentile  del  sentimento  virgiliano  (');  ma  diede  anche  opera,  sovvenendo  il  marito,  a  severi  studi  filologici  nel  modo  che  a  quel  tempo  s'intendevano.  Alla  retta  lettura  e  all'interpretazione dei  testi  classici  essa  mostrò  una  passione che  in  donna  non  è  comune,  occupandosi con  predilezione  della  Commedia,  tanto  cara  al  suo  genitore.  Come  appare  dall'epistolario, ella  era  sempre  in  traccia  di  codici  del  poema  dantesco  e  dei  migliori  testi  a  penna  studiava  le  varianti  con  buon  discernimento  critico,  sebbene  con  un  criterio  soggettivo  che  non  sarebbe  più  approvato  a'  di  nostri.  Una  parte  delle  sue  fatiche  fu  fatta  conoscere  nel (!)  Achille  Monti,  pronipote  di  Vincenzo,  accostò  alcune  odi  proprie  ai  versi  di  Costanza,  ed  il  volumetto  usci  nel  18H0  in  Firenze,  per  cura  di  L.  F.  Polidori.  Altri  versi  di  Costanza  pubblicò  lo  Scipioni  ne]  menzionato  volume  XI  del  (riornale  storv;o.  Ma  abbiamo  ragione  di  credere  che  buon  numero  di  sue  produzioni  letterarie  siansi  perdute  per  malevolenza dei  parenti,  che  gliele  ritolsero  in  modo  indegno,  come  appare  da  una  sua  lettera  a  Laudadio  della  Ripa  (lett.  149).    LA  FIGLIUOLA  DEL  MONTI    133    l'edizione  De  Komanis  del  commento  del  Lombardi. Sovvenne  anche  il  marito  nella  revisione  del  Convivio  e  nella  restituzione  critica  del  DitI a  mondo,  opera  che  al  Pertieari  stava  molto  a  cuore,  e  che  dopo  la  morte  di  lui  fu  dalla  vedova curata  (lett.  131)  e  servi  alla  nota  edizione  ventisettana  del  Silvestri  (').  In  queste  fatiche,  come  nell'attendere  alla  fama  letteraria  di  Giulio,  pose  Costanza  quell'impegno  e  quell'ardore  che  erano  propri  del  suo  carattere.  Degna  tigli  noia  del  Monti,  essa  era  innamorata  dei  classici  ed  oltre  a  Dante  aveva  studiato  a  fondo  e  chiosato il  Petrarca,  l'Ariosto,  il  Poliziano,  il  Tasso.   Non  meno  del  padre,  che  chiamava  epizoozia  il  romanticismo,  anzi  la  ro  mantice  ria  (f),  detestava Costanza  i  romantici  e  col  solito  fuoco  flava  sfogo  a  tale  suo  odio  scrivendo  a  Urbano  Lara  predi:  «  queste  tue  lodi  che  non  merito  mi  «  saranno  stimoli  perchè  io  studi  a  meritarle  «  quando  che  sia.  E  di  questa  sola  ed  alta  spe«  ranza  mi  vo  pascendo.  Questa  mi  tiene  di    (li  II  Perticali  in  una  lettera  del  16  marzo  1818  a  G.  Antonio Roverella  dice  che  la  «  buona  Costanza...  gli  si  è  fatta    un  grande  aiuto  nei  suoi  penosi  studi  Vedi  la  mia  edizione delle  Liriche  di  Fazio  degli  l'berti,  p.  CCLXXVII.  Rispetto agli  studi  del  Perticali  su]  Diltamondo  sono  da  vedere le  recenti  comunicazioni  dei  dottori  Pelaez  e  Nicolussi;  cfr.  (riorn.  star,  lìella  leti,  italiana,  XXX,  333  e  XXXI,  4li2.  Intorno  all'edizione  milanese  del  Conririo  ed  alla  parte  che  v'ebbero  le  correzioni  del  Pertieari,  è  da  consultare  uno  speciale articolo  di  R.  Murari  nel  (Giornale  dantfuro,  V,  11.   2i  Ciò  è  detto  in  una  lettera  inedita  del  Botta  a  G.  Grassi,  per  cui  si  veda  la  memoria  di  Emilia  Rkois,  Studio  intorno  alla  cita  di  Carlo  Bolla,  Torino,  1903,  p.  30.    LA  FIGLI TOLA  DEL  .MUNTI    «  continuo  fra  i  diletti  miei  libri  e  specialmente  «  fra  quelli  de'  latini  divinissimi  peni  ri  nostri,  spregiati  solo  da  quella  vigliacca  pk'be  di  ro«  marnici,  che  squarciano  la  bocca  a  bestemmiare ciò  che  non  intendono,  anzi  elle  non  «  sono    pur  degni  d'intendere.  Kd  è  caso  «  veramente  non  tollerabile  che  idi  uomini  del  «  settentrione  cerchino  ora  di  farsi  barbari  culla  «  penna,  come  già  negli  anelali  secoli  il  fecero  «  colle  spade.  E  che  v'abbiano  de'  nostri  così  vili,  cosi  dimentichi  di  loro  stessi  che  s'in«  chinino  a  tanta  servitù!  0  mio  Lamprcdi,  il  mio  cuore  è  ponilo  d'ira:  toccando  di  queste  *  cose,  tu  mi  fai  bollir  l'animo.  Qui  è  ueces«  sai'ia  una  interra  seenni  :  tu  puoi,  tu  devi  os«  seme  gran  campione:  e  fare  che  almanco  in  «  Napoli  e  in  Roma  non  penetri  questa  pesti«  lenza  di  che  già  in  Lombardia  ammalano  «  molti  e  molti:  e  sarà  grave  il  danno  ove  non  «  si  metta  pronto  il  rimedio  »    lett.  47..   Tale  misoneismo  intemperante,  ma  spiegabilissimo, in  fatto  a  letteratura,  non  impediva  in  altre  pertinenze  idee  più  larghe  improntate  a  sentimenti  moderni.  Così  rispetto  all'educazione  delle  donne,  reputava  Costanza  essere  «  bestiale  pregiudizio  »  quello  che  le  allontana  da  ogni  coltura  dello  spirito,  giacché,  aggiungeva,  «  Pini«  imaginazione  essendo  generalmente  più  viva  «  nelle  donne,  fa  d'uopo  maggiormente  di  fer«  mare  questa  nostra  troppa  fervidezza  in  cose  «  di  severa  applicazione,  perchè  i  lavori  ma«  nuali  non  bastano  a  tenere  occupato  lo  spiri ro  »  (lett.  -JOx  .  Cosi  pure  nel  vagheggiare  un'Italia  libera  ed  una,  essa  si  accostava  agli  odiati  romantici  e  partecipa  va  alle  aspirazioni  del  marito    ').  Xello  lettei'e  scritte  da  Roma  e  manifesto  il  disgusto  che  le  ispira  la  città  papale,  in  cui  \i  sono  tante  cose  che  la  «  arrabbiano »  ilett.  &2).  Essa  si  trova  colà  quando  vi  giunge,  t'esteiigiatissiino.  Francesco  I  d'Austria,  e  ([nelle  gazzarre,  lungi  dal  rallegrarla,  le  danno  dispettosa  melanconia,  come  scrive  al  fido  Alitatili: «  troppo  alti  sentimenti  mi  bollono  nel«  l'anima   per  poter  essere  spettatrice  fredda  «.  della  vergogna  italiana.  E  quindi  inutile  che  ti  dica  non  aver  ancora  veduta  neppure  una  festa  pel  cos'i  detto  imperatore:  anzi  al  suo  inuresso  in  Rom a,  quando  tutta  la  città  era  spopolata  tranne  il  corso  e  la   via  di  Ponte  Molle,  la  tua  Costanza  passeggiava  mestamente  per  Campo  Vaccino,  maledicendo  il  Cielo  e  la  nostra  iniqua  fortuna.  Io  sola  fra  quelle  rovine  piangeva  mestamente  la  nostra  perduta  patria;  e  forse  troppo  alto  orgoglio  era  il  mio,  ma  in  quid  giorno  io  mi  sentiva,  quantunque  isolata,  assai  più  grande  dei  grandi  che  ci  rovinano  »  dott.  79).  Benedetta  colei  che  in  te  t'iiiciiise.'  verrebbe  voglia  di  sciamare.  Eppure  essi  era  fervidamente  religiosa,  e  in  moltissime  lettere  dice  e  ripete  che  senza  quella  religiosità  limi  avrebbe  esitato  un  istante  a   troncare  la    I  Vi'dasi  il  discorso  di  Gr.  S.  ìS i li  di  due  settimane  se  ne  smalti  un'edizione  copiosa,  e  mentre  scrivo  si  lavora  febbrilmente  per  farne  uscire  presto  una  seconda.   Non  malsana  curiosità  del  pubblico  spiega  questo  successo  d'un  volume  che  si  direbbe  a  prillisi  giunta  vivanda  da  eruditi:  anzi,  l'avere  il  pubblico  italiano,  cosi  poco  facile  a  prendere  fuoco  pei  libri  clic  non  sieno  d'occasione,  ili  scandalo o  di  lettura  anienissima,  inteso  subito  l'importanza di  questo,  gli  torna  per  lo  meno  a  tanto  onore  quanto  ridonda  a  disdoro  di  pochi  letteristi  scontrosi  l'averne  .n'indicata  inopportuna la  pubblicazione.  E  ciò  non  solo  perchè,  come  disse  un  buon  s'indico  i 1 1,  cotesti  Bruii/  «  contendono  gemmo  di  rara  bellezza  »,  ma  specialmente perchè,  fu  aggiunto  a  buon  dritto  dalla  medesima  persona,  «  nel  confronto  che  possiamo  «  fare  è  un  elemento  di  studio,  per  scrutare  e  «  indovinare  la  paziente  opera  del  genio».  Confronto di  svaria  tissima  natura:  studio  d'importanza tale  che  da  molti  anni,  oso  dire,  la  critica  non  ebbe  occasione  di  farne  uno  più  significante    più  proficuo.   È  noto  con  quanta  pena  e  con  quale  industria  sottile  l'arte  incontentabile  del  Manzoni  raggiungesse nell'edizione  del  1840  la  perfezione  formale  che  difettava  in  quella  del  18*27.  Le  due  edizioni  furono  stampato  a  fronte  e  furono  studiate  comparativamente da  parecchi,  con  speciale  acume    i  ti  A.  FouAzzAim  nel  (liofiia/c  ti 'Italia  'IH. e  fortuna  segnatamente  dal  D'Ovidio.  Anche  da  questo  punto  di  veduta  i  Brani,  stesi  tra  la  primavera del  1  Si?  1  e  l'autunno  del  ltòS,  offrono  a rgoniento  ad  osservazioni  preziose,  giacché  ci  fan  vedere  quanto  miserella.  disuguale,  taloi'a  persino  sciatta  e  mal  contesta  t'ossela  primissima  veste  die  il  pensiero  manzoniano  si  mise  addosso.  Ma  non  di  ciò  io  mi  propongo  di  qui  discorrere:  ■4  bene  del  contenuto,  richiamando  l'attenzione  dei  lettori  sulla  fisionomia  che  il  romanziere  milanese  diede  dapprima  a  eerti  suoi  personaggi  e  sullo  sviluppo  primitivo  di  certe  scene.   Ammetto  senz'altro  che  ognuno  abbia  presente  nelle  sue  particolarità  quel  libro  meravigliosamente fresco,  che  doveva  dapprincipio  intitolarsi  Vcrmo  e  Laviti,  più  tarili  (Hi  Sposi  Promessi  e  finalmente  si  chiamò  /  Promessi  Sposi.  Quindi,  ■icnz  altri  preamboli,  vengo  al  buono,  e  considero  anzitutto  Gertrude.  In  altro  articolo  esaminerò  l'Innominato  ed  in  un  terzo  rivolgerò  la  mia  attenzione a  figure  e  ad  episodi  minori.  Cenni  fugaci saranno  questi  miei,  ma  mi  terrò  pago  se  per  essi  nascerà  in  altri  la  voglia  di  uno  scandaglio più  profondo  e  se  questi  altri  troveranno  nella  lettura  e  nel  lavoro  il  diletto  spirituale  *q  insito  che  a  me  venne  dal  confronto  dei  Brani  con  le  (luti  redazioni  del  romanzo.   ■.^   Senza  pur  conoscerne  il  nome,  attinse  il  Manzoni la  tragica  storia  di  suor  Virginia  Maria,  al  "croio  Marianna  de  Lev  va.  dal  Ripamonti.  Ripamonti  aveva  conosciuto  di  persona  la  Signora di  Monza  ne'  suoi  ultimi  anni.  In  quella  vecchierella  curva  per  la  grave  età,  macilenta  e  torrefatta  dai  patimenti  e  dalla  espiazione,  veneranda per  santità  di  pensieri  e  di  opere  ('),  inai  si  riusciva,  dice  egli,  a  figurarsi  quale  doveva essere  stata  un  tempo,  bella,  altera,  procace. In  tutto  il  racconto  latino,  elegante  e  pomposo, i  personaggi  sono  anonimi,  ail'infuori  del  seduttore,  Giampaolo  Osio;  ma  ciò  gli  concilia  certa  vaga  solennità,  suggestiva  in  sommo  grado  pei1  un  artista.  Sebbene  nell'annalista  milanese  si  scerna  manifesto  il  proposito  di  togliere  anche  da  quella  storia  esempio  edificante  e  di  farvi  risplendere la  parte  di  sant'uomo  che  anche  in  essa  ebbe  il  cardinal  Federigo,  v'ha  senza  dubbio  materia  più  che  sufficiente  per  tesserne  un  romanzo saturo  di  forte  drammaticità.  E  il  Manzoni lo  fece:  ma  in  entrambe  le  redazioni  del  romanzo  la  sua  attenzione  fu  volta  in  particola!1  guisa  alla  psicologia  della  fanciulla,  spinta  contro    ili  Dopo  la  condanna,  suor  Virginia  stetto  13  anni  murata  in  una  cella  oscura,  poi  passò  alle  convertite  di  Santa  Valeria, ove  fu  soccorsa  dalla  carità  del  cardinale  Federigo  Borromeo.  Xata  nel  1575,  mori  nel  IliòO.  A  noi  è  consentito  di  leggere  nella  sua  anima  pervertita  col  sussidio  degli  atti  processuali,  che  conosciamo  mutili,  come  ce  li  diede  in  due  edizioni  il855  e  D-W4)  Tullio  Dandolo.  Lo  Sforza  mi  dice  che  per  buona  ventura  il  processo  integro  fu  rintracciato  a  Milano. Del  periodo  espiatorio  conosciamo  sue  lettere  pd  altri  documenti,  per  via  del  nutrito  lavoro  di  Lrioi  Zkriii,  La  f)'iipiora  ili  Monza  nella  aloria,  ili  Ardì.  star,  lomliartlo,  an.  XVII,  1HH0,  fase. voglia  nel  chiostro  (argomento  pel  quale  non  mancavano  a  lui  reminiscenze  personali  e  letterarie W),  ed  alla  psicologia  della  monaca  forzata (s),  e  tirò  via  sulla  seduzione  e  sulle  conseguenze atroci  della  seduzione.  Privatamente  informato,  tra  la  prima  e  la  seconda  edizione,  dell'esistenza  del  processo,  e  avutane  fors'anche  cognizione  diretta,  egli  non  modificò  affatto  nella  sostanza  il  lungo  episodio,  e  del  nuovo  elemento  onde  si  precisava  in  lui  la  nozione  del  soggetto  ci  lasciò  una  spia  quasi  impercettibile  in  un  solo  particolare  aggiunto  nella  stampa  del  '40.  Quivi  è  detto  che  dopo  la  sparizione  della  conversa  uccisa nel  monastero  di  Santa  Margherita  perchè  non  riferisse  gli  amoreggiamenti  della  Signora,  «  si  fecero  gran  ricerche  in  Monza  e  nei  con«  torni  e  principalmente  a  Meda,  di  dov'era  *  quella  conversa»  (3).  Il  nome  dell'oscuro  villaggio in  quel  di  Monza  non  sarebbe  certo  passato per  la  niente  dell'autore,  se  egli  non  avesse    il)  Per  le  reminiscenze  personali  e  famigliari  leggasi  Cu.  Faiihis,  Memorie  manzoniane,  Milano,  1SK)1,  pp.  57-58.  Quanto  ai  ricordi  letterari,  essi  possono  esser  diversi,  oltre  al  libretto  Jel  Diderot,  perchè,  nelle  molte  letture  del  Manzoni  di  libri  del  sec.  XVII  e  del  VXIII,  di  violenze  fatte  a  fanciulle  nobili  perchè prendessero  il  velo  non  v'era  penuria.  Vedasi  in  proposito  una  calzante  comunicazione  di  E.  Beiitana,  nel  (ìiorn.  slor.  ■Iella  leti,  ila!.,  voi.  XXXV,  p.  172. Il  migliore  esame  psicologico  della  Signora  lo  dobbiamo sinora  ad  un  filosofo,  Giovanni  Viuaki,  Suor  Oertriule,  l' Innominato  e  Fra  Cristoforo,  Firenze,  18!I5.   C&)  Vedi  p.  239  (cap.  X)  nell'  ed.  col  commento  del  Petrocchi, Firenze,  1S)8,  alla  quale  sempre  mi  attengo  per  questi  articoli.    142  ì  promessi  sitisi  ix  formazione:   appreso  che  la  conversa  violentemente  soppressa  ehiamavasi  Caterina  Cassini  dn  Mrrftr,  come  risulta dai  constiluti  processuali.   Oli  non' rammenta  la  tragica  e  misteriosa  terrihiiilii  con  cui  quel  primo  delitto  è  accennato  nel  roman/.oV  La  conversa  più  non  si  trova:  una  buca  praticata  nel  muro  dell'orto  la  fa  supporre  fuggita;  si  fan  congetture:  la  Signora  di  quella  storia  non  ama  sentir  discorrere:  ma  vi  pensa  di  e  notte  e  rimugino  di  quella  donna  le  compare nella  fantasia  come  uno  spettro.   Nella  prima  minuta  il  fatto  è  narrato  invece  per  disteso,  con  evidenza  mirabile  pp.  li'0-127'.  Come  si  può  imporre  silenzio  alla  conversa,  che  in  un  momento  d'ira  avea  minaccialo  la  delazione? Eiridio  '(die  così  si  chiama  anche  qui  l'Osio)  si  stringe  a  consulta  con  le  tre  sciagurate  da  lui  sedotte,  la  Signora  e  le  due  suore  a  lei  addette  e  sue  complici,  qui  innominate  (').  «  Il  modo  fu  «  pensato  e  proposto  da  lui  con  indifferenza  e  «  acconsentito  dalle  altre  con  difficoltà,  con  resi  di  111  realtà  chiamava  usi  Ottavia  Ricci  e  Benedetta  Ornati.  Esse  fufrjiirono  poi  amliedue  dal  trai  vento  con  1"  Osio,  clic  cercò  sbrigarsene,  gettando  1'  una  nel  fiume  Larabro,  e  V  altra  in  un  pozzo.  All' uccisione  della  conversa  Caterina,  per  mano  dell' Osio.  realmente  assistevano,  oltreché  Virginia.  Ottavia  e  Benedetta,  anche  due  altre  monache.  Silvia  Casati  ed  una  Candida,  ch'era  la  druda  del  laido  prete  Paolo  Arrisone,  mezzano  dell' Osio.  dopo  aver  invano  tentato  la  de  Ij^vva.  In  quel  convento  delle  Umiliate  la  disciplina  era  a  tali  termini, da  farlo  poco  dissimile  da  un  lupanare.  11  Ripamonti  tacque  di  molti  abusi;  il  Manzoni,  a  sua  volta,  in  questa  parte  idealizzò.    i  promessi  sposi  ix  formazione  143   sieuza,  ma  alla  line  acconsentito  ».  Geltrude    •he  nel  romanzo,  con  maggiore  conformità  al.'I  imo  fermali ico,  è  invece  Gertrude'  l'esiste  più  .[rlle  altre,  ma  alfine  cedi1  essa  pure  e  pattuisce  ehe  non  si  sarebbe  impacciata  di  nulla,  od  avrebbe  lasciato  fare  ».  Presa  da  parte  la  con•ersa,  le  dui1  suore  le  propongono  di  farla  assilere  a  qualche  scena  che  ronda  più  sicura  la  -uà  delazione.  A  tale  scopo  la  nascondono  nella  im  o  cella,  e  di  notte,  al  dubbio  chiarore  che  veniva dalla  stanza  vicina,  una  di  osse  la  finisco  dandole  un  colpo  di  sgabello  sul  capo,  impacio  i  'tccijì"t  scnìt/'Uo,  come  scrive  il  Ripamonti.  I  -nccessivi  portamenti  dell'Osio  e  di  Gcltnule,  ;.  sottrazione  del  cadavere  celato  in  una  cantina,  u  -.bigotti monto  pauroso  delle  tre  monache  rimasto solo,  tutto  magnifico,  tutto  degno  del  stanzoni ne'  suoi  migliori  momenti.  «Le  duo  serventi  partirono;  Geltrude  le  segui  fino  alla  porta,  aspettando  che  tornassero  col  lume.  I.o  deposero sur  una  tavola,  lo  spensero,  e  sedettero  di  nuovo  attorno  a  quello  che  ardeva  da  prima.  Slavano  così  tacite  guardandosi  furtivamente  «  ili  tratto  in  tratto;  quando  gli  sguardi  s'incontravano, ognuna  abbassava  gli  occhi,  come  se  «  temesse  un  giudice,  e  avesse  ribrezzo  d'un  colpevole. Ma  l'omicida,  più  agitata,  o  agitata  in  modo  diverso  dalle  altre,  cercava  ad  ogni  mo"iciiio  di  cominciare  un  discorso,  voleva  par«  lare  del  fatto  e  del  da.  farsi  come  di  cosa  co«  mime,  parlava  sempre  in  plurale  conio  per  tenero afferrate  le  compagno  nella  colpa,  per  es*  seve  nulla  più  che  una  loro  pari».    141    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    Anche  Egidio,  il  fosco,  facinoroso,  volgare  Giampaolo  della  realtà  storica  ('),  è  un'ombra  nel  romanzo  ed  è  una  figura  concreta  nell'abbozzo. Quel  «  giovine,  scellerato  di  professione  »,  la  cui  caratterizzazione  sommaria  mi  ha  fatto  pensare  tante  volte  all'  «  uomini  poi,  a  mal  più  eh' a  bene  tisi  »  di  Piccarda,  è  qui  rappresentato,  se  non  con  finezza  di  particolari,  almeno  con  sicurezza di  tratto;  e  l'episodio  degli  amori,  condensato nella  redazione  definitiva  in  quel  solenne  «la  sventurata  rispose»,  che  per  la  sua  pregnante concisione  fece  andare  in  visibilio  più  di  un  critico,  è  narrato  per  disteso  (pp.  107  segg.).  Della  scelleratezza  d'Egidio  s'indagano  le  origini,  trovandole  nelle  condizioni  e  nelle  idee  dei  tempi,  non  che  in  certe  tradizioni  famigliari,  che  al  Manzoni offrono  il  destro  a  considerazioni  svariate;  i  primi  rapporti  con  la  Signora,  succeduti  a  quelli  non  colpevoli  con  una  educanda  da  lei  sorvegliata ('),  sono  descritti  con  cura,  ed  è  con  la  consueta vivezza  intuitiva  che  il  gran  romanziere  sorprende  i  primi  commovimenti  dell'anima  di  Gelt-rude,  le  prime  esitazioni,  la  prima  dedizione.  Pagine  davvero  osservabili,  nelle  quali  unica  Per  la  storia  dell'  Osio,  oltre  la  citata  memoria  dello  Zkiiiii  sulla  monaca,  vedasi  di  lui  l'opuscolo  L'Eyìdio  dei  Promessi Sposi  nella  famiglia  e  nella  storia.  Como,  1895.  Se  pure  quello  Zerbi  scrivesse  un  po'  da  cristiano!  Quind' innanzi  la  cognizione  integrale  del  processo  potrà  forse  gettare  nuova  luce  anche  sul  maggiore  colpevole. A  questi  amoreggiameli  con  un'  educanda  accenna  anche  il  Ripamonti.  Dalle  carte  processuali  apprendiamo  che  essa  chiamavasi  Isabella  degli  Ortensi,  di  Monza.    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    1J5    note,  forse  un  poco  stonata,  è  l'aver  dato,  anziché  al  sangue  giovanile  ed  alla  passione  incalzante,  una  parte  ragguardevole  a  certo  pervertimento  teoretico  «  Ella  fu  dunque  una  docile  e  cieca  di«  scepola,  e  conobbe  e  ricevè  tutte  quelle  idee  ge«  nerali  di  perversità  a  cui  l'ignoranza  e  la  irri*  flessione  di  quei  tempi  permetteva  di  arrivare  »  ip.  119).  Se  il  Manzoni  avesse  conosciuto  in  tempo  il  constituto  di  Virginia  de  Leyva,  egli  ne  avrebbe  per  avventura  tratto  partito  per  far  predominare  invece  un  elemento  assai  meno  razionale:  il  fascino irresistibile;  ciò  che  la  povera  Virginia,  caduta nell'abisso,  chiamava  malia,  stregoneria  ed  altro  di  simile,  quasiché  attratta  nell'orbita  del  peccato,  a  lei  non  fosse  più  dato  di  pensare  con  la  testa  propria  e  forzatamente  precipitasse  al  delitto.  Per  quanto  certe  teorie  moderne  fossero  assai  remote  dai  principi  e  dal  modo  di  concepire  la  vita  e  l'anima  umana  da  cui  il  Manzoni  non  usava  mai  dipartirsi,  credo  chela  confessione  della  povera  suora  d'innanzi  ai  suoi  giudici  lo  avrebbe  indotto  a  renderle  ancora  più  debole  la  volontà  di  contro  alla  passione  e  meno  attivo  l'intelletto.   Altro  particolare,  che  nel  romanzo  difetta,  è  una  motivazione  adeguata  del  tranello  in  cui  la  Signora  fa  cadere  Lucia  (').  Dire  che  «  la  sven  ti) È  un  vecchio  appunto  del  Tommaseo,  ripreso  dal  Borgognoni e  dal  Luzio,  ed  è  un  appunto  eh'  io  trovo  giusto,  malgrado la  difesa  del  Finzi,  Lezioni  di  storia  della  lett.  italiana,  IV,  I,  407  segg.  e  quella  di  Giov.  Negri,  Commenti  sui  Promessi  Spori,  Milano,  1903,  I.  184  n.  Anche  il  Vidari  (Op.  ci?.,  p.  34)  sentì  cotesta  lacuna.    Rkmkk  Svayh  i  Critici    10    I  PROMESSI  SPOSI  IX  FORMAZIONE    «  turata  tentò  tutte  le  strade  per  esimersi  dal«  l'orribile  comando  »;  sentenziare  che  «  il  de«  litto  è  un  padrone  rigido  e  inflessibile,  contro  «  cui  non  divien  forte  se  non  chi  se  ne  ribella  «  interamente.»  (cap.  XX),  son  cose  giuste  e  ben  dette;  ma  non  vediamo  in  esse  raffigurata  la  maniera come  una  delinquente  per  passione  può  trasformarsi in  una  traditrice  cosciente.  Nella  prima  minuta  Geltrude  vive  sotto  l'ossessione  di  quella  morta  deposta  in  cantina  sotto  un  mucchio  di  sassi,  la  povera  conversa  di  Meda.  Egidio,  di  ritorno da  un  colloquio  avuto  col  Conte  del  Sagrato (che  sarà  poi  l'Innominato),  le  promette  che,  se  ella  consente  ad  ingannare  Lucia,  caverà  il  cadavere  da  quel  luogo  e  lo  porterà  lontano.  La  Signora,  che  non  ama  Lucia,  perchè  quel  candore le  è  quasi  un  perpetuo  rimprovero,  repugna  e  resiste.  Ma  il  giovinastro  la  circuisce  con  arte  infernale,  si  tinge  adirato  e  pronto  ad  abbandonarla, le  fa  balenare  l'idea  di  quella  trucidata  che  rimarrà    sotto  se  ella  non  cede,  chiama  in  soccorso  le  due  complici,  più  volgarmente  perverse di  Geltrude,  ed  ottiene  ciò  che  vuole,  anzi  ottiene  più  di  quel  che  vuole.  «  Gertrude,  avvezza  «  ad  essere  strascinata,  e  a  far  sempre  qualche  «  cosa  di  più  di  ciò  che  sul  principio  aveva  ri«  casato  di  fare,  rispose  tosto  che  pigliava  essa  «  l'impegno,  che  ne  aveva  i  mezzi  più  di  chic«  chessia  »  (p.  185).  Persuasa  al  tradimento,  la  sua  natura  superba  vuol  esserne,  non  solo  compiacente intermediaria,  ma  artefice  diretta.  In  questa  parte  l'abbozzo  completa  magistralmente  l'azione  del  romanzo. Non  così  si  può  dire  dello  altre  parti  do"  Urani  ove  ricompare  la  Signora.  Oziose  le  cautele  di  lei  colle  compagne  e  col  Guardiano  dei  cnppuceini  il'amico  di  padre  Cristoforo)  dopo  il  ratto  ili  Lucia  (pp.  208-10);  poco  opportuna  la  dimanda  che  a  Lucia  medesima,  liberata,  muove  intorno  alla  Signora  il  cardinale  Federigo  (p.  ;i'22ì.  11  rimanente della  lugubre  storia,  fino  al  pentimento  dell'infelice  monaca,  anzi  sino  alla  morte  di  Egidio, non  è  nell'abbozzo  (e  l'autore  lo  confessa)  che  un  compendio  della  narrazione  del  Ripamonti  (pp.  192-95)  talora  quasi  tradotto  alla  lettera;    mette  conto  di  occuparsene.  Val  meglio  il  fugace  accenno  inesso  in  boccanel  romanzo(cap.XXXVII)  alla  mercantessa  vedova,  che  Lucia  conobbe  nel  lazzaretto.  Quei  fatti  posteriori  non  avevano  che  vedere  con  l'azione  principale  del  romanzo.  Che  in  origine  gli  ultimi  casi  della  suora  fossero  «  intrecciati agli  ultimi  dei  due  promessi  »,  e  che  in  nne  del  romanzo,  in  luogo  del  signor  marchese,  ricomparisse  Geltrude  pentita  a  chiedere  perdono  a  Lucia,  sono  stranezze  che  poterono  essere  asserite con  sbalorditola  sicurezza  ('),  ma  che  pel  cervello  di  don  Alessandro  non  passarono,  la  Dio  mercè,  mai.   *  *   La  penna  del  romanziere  corse  troppo  nel  riferire gli  strani  discorsi  che  la  Signora  usava  fare   il)  Da  F.  P.  Cesta  un,  La  storia  nei  Proni.  Sposi,  uel  volume  Studi  storici  e  letterari,  Torino-Eonia,  1804,  pp.  288  e  810-11.    I   PKliMJOsKl  Sl'nsi   IX  KUKMAZIOXK    con  Lucia.  Ve  a  questo  proposito  un  dialogo  singola rissimo  nei  Umili  p|).  ji)2-o9,  ove  la  Signora  s'abbassa  al  pili  ributtante  cinismo  prendendo  a  difendere  Don  Rodrigo  e  dicendo  alla  semplice  conUidinella  affidata  a  lei  :  «  convien  dire  che  voi  non  abbiate  mai  avuio  chi  vi  volesse  male,  fiacche  sentite  tanto  orrore  per  chi  vi  ha  voluto bene  ».  Par  di  sentire  il  Pisistrafo  dantesco  rispondere  alla  moglie,  che  si  lagnava  di  chi  aveva  abbracciato  in  pubblico  la  loro  figliuola:   Clic  t'areni  noi  a  chi  nini  ne  (lenirà   Se    ;  ma,  conclude  con  sopraffina  malizia,  «  si  «  parla  soltanto  di  questo  fatto,  perchè  può  dar  «  luogo  ad  una  osservazione  piccante:  ohe  vi  ha  «  talvolta  delle  leggi  che  non  sono  eseguite  »  (pagina 80).  Spiace  pure  alquanto  che  il  Manzoni  abbia  dato  di  frego  al  discorsetto  con  cui  la  badessa di  Monza  rispose  alla  domanda  della  giovinetta Geltrude  d' essere  ammessa  nel  chiostro:  discorsetto  breve,  ma  forbito,  che  le  era  stato  dato  in  iscritto  «  da  un  bell'ingegno  di  Monza  »  e  che  fece  sorridere  di  compiacenza  le  suore,  perchè  «  la  gloria  del  capo  si  diffonde  sugli  inferiori »,  e  lasciò  il  popolo  minuto,  che  pure  fu  messo  alla  porta  poco  dopo  senza  cerimonie,  pieno  d'ammirazione  (p.  18).   In  quanto  a  psicologia,  il  Manzoni,  ammonito  più  di  una  volta  dall'amico  Ermes  Visconti,  le  cui  postille  all'abbozzo  danno  spesso  nel  seguo  ed  ebbero,  di  regola,  esaudimento,  ha  quasi  seni  I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    151    pi  e  e  con  mano  sicura  migliorato  nella  redazione  stampata.  Il  padre  di  Geltrude  è  nell'abbozzo  un  marchese  Matteo,  più  bonaccione,  più  ignorante,  più  asservito  ai  pregiudizi  che  il  principe  del  romanzo.  Il  principe  ha  ben  altra  austerità  imperiosa ed  esercita  pei1  mezzo  di  essa  ben  diversa  efficacia  sulla  figliuola  e  sui  lettori.  Maggior  risalto che  nel  romanzo  hanno  invece  nei  Brani  (pp.  02-63  e  72-73)  la  marchesa  ed  il  marchesino;  i  quali  poi,  divenuti  la  principessa  ed  il  principino, perdettero  di  significato  pei'  lo  meno  quanto  avevano  guadagnato  di  grado.    fu  gran  male:  cosi  campeggiano  meglio  le  due  figure  capitali,  il  principe  e  la  figlia.  Del  resto,  quella  marchesa  era  tale  pupattola,  da  non  sentirne  punto  la  mancanza :  figuratevi  che  nel  ritorno  da  Monza,  dove  Geltrude  era  stata  con  tanta  pompa  presentata  al  convento,  essa  riuscì  a  dormire  placidamente  «  malgrado  i  trabalzi  che  una  carrozza  di  quei  c  tempi  dava  in  una  strada  di  quei  tempi».  Di  materno  non  le  era  rimasto  assolutamente  nulla.  Il  prete  esaminatore  e  nei  Brani  (pp.  92-93)  troppo  buon  uomo,  e  forse  in  virtù  d'una  giusta  osservazione  del  Visconti  divenne  l'uomo  dabbene  del  romanzo,  che  è  più  a  suo  posto.   Geltrude  è,    più    meno,  ciò  che  sarà  Gertrude nel  romanzo:  lo  scrittore  la  concepì  di  getto  sull'arido  fondamento  di  poche  frasi  latine  del  Ripamonti.  Solo  nell'abbozzo  è  più  spiegata  la  vanità  di  Geltrude,  e    dove  il  romanzo  condensa tutto  in  una  frase  dicendo  «  idolatrava  insieme e  piangeva  la  sua  bellezza  »,  qui  invece è  detto  come  la  idolatrasse  e  come  la  piangesse  (pp.  101-103).  Fu  osservato  che  il  Manzoni,  cosi  sobrio  e  riguardoso  nel  descrivere  donne  giovani,  solo  della  monaca  scrisse  che  avea  la  persona  ben  formata  La  tormeutatissima  descrizione  dell'abbozzo  (pp.  21-24)  dice  poco  di  più,  ma  si  trattiene  sul  muoversi  e  sul  gestire  di  quella  infelice, che  alla  fantasia  del  Manzoni  richiama  certe  parodie  di  monache  sulla  scena,  in  paesi  non  cattolici.  Un  vizio,  invece,  che  la  Signora  ha  nell'abbozzo,  e  che  le  fu  tolto  con  ragione,  è  di  alludere  continuamente  a  sè,  ai  propri  casi,  alla  propria  vocazione  forzata.   Sin  dal  primo  momento  in  cui  parla  ad  Agnese  e  a  Lucia,  completamente  estranee,  esce  in  una  sfuriata  con  amarissimi  accenni  al  destino  proprio (pp.  29-30),  e  poi  seguita  su  questo  tono  spessissimo,  il  che  è  fuori  del  verisimile.  In  luogo  più  acconcio  che  nei  Brani  è  posta  nel  romanzo  la  guerricciuola  pettegola  fra  educande,  nella  quale  le  compagne  di  Geltrude  si  vendicano  della  sua  superiorità,  vantando  il  proprio  avvenire  nel  secolo  e  spargendo  il  ridicolo  sul  suo  futuro  impero di  badessa  ;  ma  qui  è  andata  perduta  una  perla  d'osservazione  psicologica,  racchiusa  in  questi  termini:  «  Geltrudina  non  poteva  rivol«  gere  le  stesse  armi  contro  le  avversarie,  perchè  «  le  ricchezze  e  la  voluttà  non  sono  di  quelle  «  cose  delle  quali  si  ride  in  questo  mondo.  Si  «  ride  bensì  di  chi  le  desidera  senza  poterle  ot  ti) F.  Romani,  Ombre  e  carpi,  Città  di  Castello,  tpnere,  e  di  chi  ne  usa  sgraziatamente;  e  questo  ridere  mostra  l'alta  estimazione,  in  cui  sono  «  tenute  le  cose  stesse.  Quei  pochi  che  non  le  c  stimano,  non  esprimono  il  loro  giudizio  con  la  derisione  »  (p.  39).   *     In  conclusione,  adunque,  nella  prima  stesura  dell'episodio  della  Signora  sono  sviluppate  due  scene,  quella  dell'  uccisione  della  conversa  di  Meda  e  quella  del  dialogo  con  Egidio,  che  giovano alla  motivazione  intima  del  tranello  teso  u  Lucia  e  potevano  rimanere,  sia  pure  modificate, nel  romanzo.  Il  resto  si  può  dire  quasi  tutto  ridotto  in  meglio  nella  redazione  definitiva,  e  i  tagli  della  storia  ulteriore  di  Gertrude,  compendiosamente esposta  nell'abbozzo,  sono  pienamente  giustificati.   Certamente  i  casi  di  Virginia  de  Leyva,  quali  risultano  dal  processo,  sono  d'una  drammaticità  prepotente  (*).  Quella  specie  di  tristissima  suggestione che  esercita  l'Osio  su  di  lei;  l'agonia  di  quell'anima,  che  vorrebbe  ribellarsi  e  non  può;  il  peso  di  complicità  abominevoli  e  di  delitti  orrendi; la  tabella  votiva  inviata,  dopo  il  primo  aborto,  da  Virginia  alla  Madonna  di  Loreto  perchè  la  liberasse  dalla colpa  ruinosa;  le  ripetute  ansie  della  maternità;  quella  bambina,  legittimata  po (1)  Sintesi  efficace  ne    il  Luzio,  Manzoni  e  Diderot. scia  dall' Osio  con  un  sotterfugio  giuridico  nel  ItiOO,  che  veniva  al  convento  ed  era  colmata  di  carezze  dalla  Signora,  presenti  e  non  ignare  le  monache;  sono  tutti  particolari  di  altissimo  valore psicologico,  da  tentare  un  artista.  Il  Manzoni dapprima  li  ignorò:  in  seguito,  saputili,  non  se  ne  valse.  L'episodio,  di  cui  s'era  invaghito,  aveva  già  troppo  il  carattere  di  un  romanzo  nel  romanzo;  e  perciò  l'amico  Fauriel  consigliava  di  sopprimerlo.  A  questo  partito  radicale  l'autore  non  seppe  decidersi,  ma  ne  eliminò  una  parte,  ne  eliminò  anche  troppa  parte.   Perchè?  Possibile  che  il  romanziere  non  siasi  avveduto  essere  quelle  due  scene  rappresentate  con  plasticità  geniale,  più  utili  all'azione  principale che  quella  lunga  preparazione  remota,  per  cui  Geltrude  divenne  monaca  contro  voglia  e  spergiura  e  complice  d'omicidio?  Se  si  doveva  adoperare  il  ferro  chirurgico  sulla  carne  viva  del  magnifico  episodio,  perchè  rispettare  tanto  ciò  che  era  più  lontano  dalla  storia  dei  due  sposi,  il  lento  ed  inevitabile  pervertimento,  mentre  spietatamente si  recidevano  le  circostanze  essenziali  del  primo  delitto  e  gli  stimoli  irresistibili  al  secondo ?   Bisogna  pur  pensare  che  gli  scrupoli  religiosi  di  mons.  Tosi  avessero  qualche  presa  sull'animo  del  Manzoni.  E  vero  che  nella  prima  stesura  aveva  messo  le  mani  innanzi  dicendo  :  «  il  Ri«  pamonti  racconta  di  questa  infelice  cose  più  «forti  di  quelle  che  siano  nella  nostra  storia;  «  e  noi  ci  serviamo  anzi  delle  notizie  che  egli  ci  ha  lasciate  per  render  più  compiuta  la  storia  «  particolare  della  Signora.  Queste  cose  però,  *  quantunque  rese  più  che  probabili  da  una  tale  «  testimonianza,  e  quantunque  essenziali  al  filo  «  del  nostro  racconto,  noi  le  avremmo  taciute;  «  avremmo  anche  soppresso  tutto  il  racconto,  se  «  non  avessimo  potuto  anche  raccontare  in  proli presso  un  tale  mutamento  d'animo  nella  Si«  guora,  che  non  solo  tempera  e  raddolcisce  l'im«  pressione  sinistra  che  deggiono  fare  i  primi  fatti  «  della  Signora,  ma  deve  creare  una  impres«  sione  d'opposto  genere  e  consolante  »  (p.  33).  Questa  giustificazione  etica,  ricercata  nella  esemplarità finale  di  quell'intermezzo  storico,  indusse  forse  la  coscienza  del  Manzoni  a  non  sopprimere  di  sana  pianta  quei  due  capitoli  che  tanto  gli  piacevano;  ma  rimaneva  pur  sempre  il  pericolo  di  eccitare  soverchiamente,  con  rappresentazioni  vivaci,  il  raccapriccio  dei  lettori  per  scene  pur  troppo  seguite  in  un  luogo  sacro,  tra  quelle  che  avrebbero  dovuto  essere  le  spose  del  Signore.  Chi  sappia  ciò  che  il  Manzoni  pensava  a  questo  proposito  troverà  per  avventura  in  questo  timore  la  ragione  sufficiente  della  mutilazione.  I  successivi portamenti  della  Signora  non  avevano  relazione  diretta  con  la  favola  principale  del  romanzo, e  furono  eliminati;  le  due  scene  di  cui  non  si  poteva  far  senza  furono  ridotte  con  tanta  arte,  che  la  fantasia  dei  lettori  potesse  colmare  la  loro  misteriosa  indeterminatezza.  Così  si  tacitavano gli  scrupoli  e  si  ubbidiva  anche  un  poco  alle  esigenze  dell'economia  del  libro,  alle  quali per  altro  don  Alessandro  non  era  disposto  a  sacrificare troppo  lesile  personali  inclinazioni  e  i  suoi  gusti.  Si  tenga  presente  che,  malgrado  tutti  i  consigli ed  i  consiglieri,  il  vero  od  assoluto  arbitro  nell'opera  propria  rimase  pur  sempre  lui.   II.   L'Innominato.   Francesco  Bernardino  Visconti  di  Brignano  fu  senza  dubbio  una  gran  canaglia;  ma  una  canaglia che  avea  certa  signorile  alterezza,  per  cui  non  tollerava  uguali  ma  voleva  soggetti,  anche  fra  i  suoi  alleati  di  scelleraggini,  presso  i  quali,  come  presso  i  veri  sudditi,  esercitava  il  prestigio di  un  coraggio  a  tutta  prova  e  di  quella  specie  di  magnanimità  che  non  mancò  talora  ai  più  feroci  briganti.  Tale  il  Ripamonti,  senza  nominarlo, lo  descrive;  e  dice  di  aver  conosciuto  lui,  come  la  Signora,  già  vecchio  e  volto  a  nuovi  pensieri  per  l'eloquenza,  narravasi,  del  card.  Federigo, che  avea  trovat o  la  via  del  suo  cuore,  pervertito,  non  guasto.  Anche  in  quella  sua  verde  vecchiezza,  fa  capire  l'annalista,  serbava  i  vestigi dell'antica  imperiosità;  ma  questa  sembrava  piegata  a  forza,  da  un'altra  volontà  intima,  a  mansuetudine.  Nelle  frasi  incisive  del  Ripamonti,  l'Innominato  v'è  già  tutto;  e  si  delinea  persino  quella  specie  di  sdoppiamento  spirituale  che  il  Manzoni  sviluppò  in  un  cosi  splendido  saggio  di  analisi.    I  PKOMKSSI  SPOSI  IN  F0K.MAZ1ONK  lf>7   Ma  non  subito  trovò  la  sua  via,  e,  caso  singolare, dapprima  si  scostò  dalle  linee  severe  tracciate dal  Ripamonti,  poi  vi  tornò  grado  a  grado.  (Questa  tigura  fu  una  delle  più  tormentate  del  libro:  don  Alessandro  la  rifece  tre  volte,  perdendosi nella  seconda  a  contare  di  molte  prodezze  delittuose  dell'Innominato  e  a  sciorinare  considerazioni storielle  generali  su  quella  specie  di  tiranni,  che  la  dominazione  spagnuola  in  Lombardia era  costretta  a  tollerare  (').  Nel  primo  abbozzo,  l'Innominato  ha  un  nome,  o,  meglio  detto,  ha  un  nomignolo,  datogli  per  certa  sua  ribalderia  brigantesca  riinasta  celebre,  l'aver  freddato  di  pieno  giorno,  di  piena  festa  anzi,  sul  sagrato  d'unii  chiesa,  mentre  ne  uscivii  con  altri,  Vedasi  lo  squarcio  della  seconda  minuta  opportunamente riferito  in  appendice  dallo  Sforza,  Brani,  591  segg.  Anche    il  Manzoni  era  costretto  a  scusarsi  per  le  digressioni generiche,  e  nella  scusa  fa  capolino  il  suo  solito  esagerato scrupolo  di  storico,  che  se  in  tanti  casi  giovò  alla  grandezza  del  suo  libro,  in  altri,  è  forza  ammetterlo,  gravemente gli  nocque:  «  Vorrei  poter  risparmiare  al  lettore  tutte     queste  notizie  e  riflessioni  generali  su  le  opinioni,  gli  usi,     le  istituzioni  di  que'  tempi,  e  condurlo  speditamente  di  fatto     in  fatto  fino  al  termine  della  storia;  ma  i  fatti  che  mi  tocca     di  raccontare  sono  talvolta  cosi  dissimili  dall'  andare  co ■  mune  dei  nostri  giorni,  così  estranei  alla  nostra  esperienza,  «  che,  a  dar  loro  un  certo  grado  di  chiarezza,  mi  par  pure   indispensabile  di  spiegare  alquanto  lo  stato  di  cose  nel  quale     e  pel  quale  potevano  essere.  Altrimenti,  a  quelli  che  non     hanno fatto  studi  particolari  sopra  quell'epoca,  sarebbe  come  presentare  un  osso  di  questi  animaloni  di  razze  perdute, senza  dare  un.  po'  di  descrizione  dello  scheletro,  o  di     quel  tanto  che  si  è  potuto  trovare  e  mettere  insieme,  per     la  quale  si  vegga  come  quell'osso  giaceva    (p.  GCM).    11)8  I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE   untale  elio  aveva  usato  resistere  alla  sua  prepotenza. Quel  delitto,  compiuto  con  truce  sangue  freddo  (pp.  144-149),  gli  guadagnò  la  designazione  di  Conte  del  Sagrato.   Il  Conte  del  Sagrato  differisce  assai  dall'Innominato: di  gran  lunga  più  turbolento,  egli  manca  quasi  interamente  di  generosità;  è  un  delinquente  triviale,  una  specie  d i  Egidio  elevato  alla  terza  potenza.  Quando  il  timido  cappellano  crocifero  chiama  nel  romanzo  l'Innominato  «  appaltatore  di  delitti»  (*),  c'è  da  giurare  che  tale  designazione colorita  spettava  al  Conte  del  Sagrato,  meglio che  quella  d'  «  intraprendi tore  di  scelleratezze »,  che  è  nei  Brani  (p.  150).  II  Conte  vende  la  sua  potente  mediazione  delittuosa  a  suon  di  doppie,  e  guai  a  chi  non  paga  con  scrupolosa  puntualità!  Egli  non  ammette  dilazioni;  presso  un  abile  mercante  della  sua  risma,  quelle  son  cambiali  che  vanno  in  protesto,  e  l'avviso  del  protesto  potrebbe  anche  essere  un'archibugiata  nella  schiena.  Pel  ratto  di  Lucia,  impresa  piena  di  pericoli,  chiede  dugento  doppie;  e  don  Rodrigo, se  anche  a  malincuore,  deve  striderci.  L'idea  del  mercato  fa  capolino  ogni  momento  e  volgarizza  tutto.  Volgari,  sebbene  efficaci  sono  i  colloqui  del  Conte  con  don  Rodrigo  e  con  Egidio,  ridotto  il  primo  ad  un  breve  cenno,  l'altro  soppresso nel  romanzo      nel  pensiero  e  nell'espresEdiz.  Petrocchi,  p.  552,  cap.  XXIII. In  fondo  al  colloquio  con  Egidio  trovi  un  tratto  umoristico, che  va  rilevato.  Dice  il  Manzoni  che  «  uno  dei  molti  «  vantaggi  dei  lettori  di  storie  »  è  «  il  sapere  certe  cose  igno  I  PROMESSI  SPOSI   IN  FORMAZIONE    159    sione  il  Conte  è  un  vero  soldataccio,  e  tale  resta  anche  al  cospetto  del  card.  Borromeo,  sebbene  vada  a  lui  (cosa  estremamente  inverosimile)  con  mezza  voglia  di  convertirsi  (p.  235).  Figuratevi  clic  appena  introdotto  al  suo  cospetto,  prende  a  dir  ira  di  Dio  dei  preti  e  poco  manca  non  gli  esca  dalla  strozza  un  moccolo!  (pp.  258  59).  Anche  dopo  la  conversione,  nella  celebre  cavalcata  con  don  Abbondio,  il  Conte  appare  alquanto  rozzo,  e  non  ancora  del  tutto  spoglio  dall'abito  consueto  della  violenza.  Bellissima,  pur  nel  primo  getto,  la  scena  del  Conte  che  notifica  il  suo  mutamento  ai  bravi  e  ai  domestici;  ma  ben  lontana  dalla  solennità  sublime  che  la  medesima  scena  assume  nel  romanzo,  ove  la  superiorità  tutta  morale  dell'Innominato su  quella  ciurmaglia  risplende  luminosa. Poco  mi  garba  veder  nei  Brani  quel  povero  Conte  che  si  sottopone  a  una  specie  di  vili  crucis,  e  non  contento  del  colloquio,  che  è  qui  duplicato,  col  cardinale,  non  pago  alle  refezioni che  prende  secolui,  lo  segue  in  ogni  sua  tappa,  sicché  nel  più  bello  lo  troviamo  (indovinate?! nella  cucina  di  Perpetua!  Decisamente  quel  povero  Conte  non  sa  essere  signore,    prima  della  conversione    dopo.  In  luogo  del  semplice  e  toccante  «perdonatemi»,  pronunciato  quasi  timidamente  da  quel  potente,  nella  stesura  defi ■  rate  dai  personaggi  più  importanti  di  esse  ;  il  veder  chiaro     dove  i  più  accorti  ed  oculati  personaggi  camminano  all'o ■  scuro  :  vantaggio  che  dovrebbe  ispirare  ad  ogni  lettore  ben ■  nato  molta  riconoscenza  a  coloro  che  glielo  procurano,  che     alla  fin  line  sono  gli  scrittori  di  quelle  storie    fp.  1&>).    ItiO  I  PROMESSI  Ml'OSI  IN  FORMAZIONE   nitiva,  quando  va  a  liberare  Lucia;  nella  prima  minuta  il  Conte  va  in  piena  forma  a  chiedere  perdono  a  Lucia  nella  sua  casetta  natale,  e  in  persona  regala  alle  donne  dugento  scudi  d'oro,  mentre  nel  romanzo  ne  manda  cento  con  una  lettera.  Meno  liberale  del  suo,  ma  più  dignitoso.  Altra  umiliazione,  che  nel  romanzo  fu  tolta  a  buon  diritto,  perchè  non  ha  punto  punto  del  signorile, è  che  quando,  per  fuggire  l'invasione  dei  lanzi,  tre  dei  personaggi  del  romanzo,  che  tutti  sanno  quali  siano,  si  ricoverano  nel  castello  del  Conte,  questi  è  costretto,  per  mancanza  di  posto,  a  cedere  il  proprio  letto  ad  Agnese  e  ad  andare  lui  a  dormir  sulla  paglia  (p.  456).  Inoltre,  quel  Conte  convertito    talora  un  po'  troppo  nel  semplice. Con  don  Abbondio  egli  aveva  bazzicato  assai  più  di  quel  che  facesse  l'Innominato,  eppure, sembra,  non  s'era  per  nulla  accorto  con  che  razza  di  pulcin  bagnato  egli  avesse  a  che  f are.  Infatti,  quando  il  povero  prete  viene  pien  di  sospetti  al  suo  castello  per  ricoverarvisi  con  le  due  donne,  egli  non  esita,  il  Conte,  a  pregarlo  di  «  animare  questa  buona  gente  alla  difesa  della  *  vita  di  tanti  deboli,  della  pudicizia  di  tante  «  donne  »,  e  di  *  assistere  quelli  fra  noi  che  la«  sciassero  la  vita  in  questa  impresa  di  miseri«  cordia»  (p.  4oò).  Che  dica  per  burla,  non  consta,  e  non  sarebbe  in  carattere;  se  dice  da  senno,  deve  avere  avuto  chiusi  gli  occhi  e  gli  orecchi,  tutto  assorto  nella  sua  santità  nova,  quell'uomo  ch'era  pur  avvezzo  a  praticare  con  tanti  e  a  legger  loro  nell'anima.  Allorché  don  Abbondio,    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    161    nel  suo  segreto,  gli  risponde  «  un  corno  »  ;  non  sappiamo  se  sia  più  comica  la  situazione  di  chi  risponde  a  questo  modo  o  quella  di  chi  avea  fatto  proprio  a  lui  la  strana  proposta.     si  creda  che  questa  diversità  d'indole,  di  modi  e  di  educazione  del  Conte  del  Sagrato  sia  solo  limitata  a  fatti  secondari.  Essa  viene  ad  intaccare  la  compagine  stessa  di  quel  carattere,  in  quella  crisi  massima  della  sua  esistenza,  che  è  la  conversione.  Nella  prima  minuta  il  Conte  ha  50  anni,  mentre  nel  romanzo  l'Innominato  ne  ha  60.  Dieci  anni  sono  molti  quando  il  mezzo  del  cammino  è  oltrepassato  da  un  pezzo.  Infatti  nei  Brani  non  hai  quella  specie  di  malaise  nel  delinquere,  che  proviene  dall'età  e  dal  conseguente appressarsi  della  morte  ('),  e  non  hai  neppure quello  sdoppiamento  dell'io,  meravigliosamente dipinto  nel  romanzo,  che  prepara  la  conversione, e  su  cui  il  Graf  scrisse  parole  d'oro  (*).  «  Quel  nuovo  lui,  che  cresciuto  terribilmente  a  «  un  tratto,  sorgeva  come  a  giudicare  l'antico  »  (3),  è  il  vero  autore  della  conversione;  la  presenza  di  Lucia,  il  discorso  eloquente  del  mite  Federigo,   (T)  Ciò  avrebbe  garbato  al  Finzi,  Lezioni,  IV,  I,  40i,  a  cui  sembra    inn attirale   nel  rispetto  dell'arte»  quell'Innominato che  già  sin  dalla  presentazione  è  «  prossimo  a  battere la  via  di  Damasco  • .  Non  si  può  negare  che  qualche  ragione possa  averla  anche  il  Pinzi;  ma  della  psicologia  della  conversione,  rispetto  alla  quale  il  Manzoni  aveva  principi  suoi  ed  era  maestro,  quell'egregio  critico  non  si  è  curato.   c2)  Foscolo,  Manzoni  e  Leopardi,  Torino,  1898,  pagine  118,  l'20,  130.   Cól  Ediz.  Petrocchi,  p.  515,  cap.  XXI.    Ee.iier  Svaghi  Critici    11    liC'  I   PROMESSI   Sl'DSJ   IX  FORMAZIONI-:    non  sodo  causo,  ma  occasioni.  Sono  occasioni  volute dalla  Provvidenza,  la  quale  opera  il  miracolo in  quell'ordine  appunto  che  è  consono  alla  icona  della  (inizia,  online  chiaramente  rappresentalo nella  Scrittura  ('>.  Che  l'operazione  della  (ìrazia  corrisponda  appieno  alle  esigenze  della  psicologia,  non  è  meraviglia:  ma  pel  i-redente  la  conversione  non  può  esser  altro  che  un  miracolo: ed  il  Manzoni  più  d'ogni  altro  se  lo  sapeva,  egli  che  d  un  miracolo  siffatto  credeva  d'aver  ricevuto  la  ( ìrazia.  Ora  la  lettura  di  quelle  importantissime pagine  della  minuta,  che  ritraggono  i  pensieri  e  le  operazioni  del  Conte  del  Sagrato,  ci  svelano  un  particolare  degnissimo  di  nota.  Questo.  Che  il  Manzoni,  nella  trattazione  alquanto  grossolana  del  personaggio  che  gli  usci  dalla  mente  e  dalla  penna  nella  prima  stesura,  non  pensò  a  motivare  secondo  gli  studi  scritturali  il  gran  mutamento  del  Conte.  Solo  in  seguito,  col  continuo  pensarci  su,  egli  s'avvide  della  minor  logica  della  trasformazione,  e  ci  diede  quella  conseguente e  vivissima  rappresentazione  di  una  coscienza morale  che  si  ridesta,  per  cui  la  storia  dell'Innominato  è  tra  le  più  profonde  concezioni  dei  PromessiSpasi.    ili  Alquanto  prolissi  e  talora  sin  troppo  sottili,  ma  sostanziosi e  d'innegabilivalore  sono  in  proposito  i  due  saggi  recenti di  Gimv.  Xkivki,  La  cOìtrerxioHe  iìe/PJtiuominnto  e  il  ronfilo ilclln  Uraz'w  e  Se  la  eonfc  salone  il  eli'  Iiinomhia'o  fu  prr  il  Manzoni  mi  miwofo,  nei  citCommenti,  voi.  II.  Panni  cIih  il  Negri  abbia  ben  risolto  il  quesito,  intornu  a  cui  erano  discordi  il  Graf  e  il  D'Ovidio.    I   l'Ko.MtlsSI   smisi  IN   I  che  quella  lolla  benediva  acciò  se  ne  andasse  ed  era  troppo  -.alito  per  mandarla,  invece,  a  tarsi  benedire)  fu  costretto  a  rompere  il  digiuno  in  pubblico  con  mi  lezzo  di  pane  ed  un  bicchiere  d'acqua.  Per  un  principe  della  Chiesa  non  c'era  male!  Il  Manzoni non  fece  forse  benissimo  trascurando,  per  isiudio  di  brevità,  quest'aneddoto:  mentre  operò  -augii-unente  troncando  l'indagine  dei  motivi  per  cui  Federigo,  pur  avendo scritto  tante  opere,  non  .■i.iiM'gui  celebrità  letteraria.  Chi  voglia,  può  leggere quei  motivi  nei  Brani  pp.  241  e  segg.ì,  ma  non  vi  apprenderà  nulla  di  peregrino.   Lucia  è  in  questa  parte  della  prima  minuta  meno  soavemente  mansueta  che  nel  romanzo,  anzi  a  volte  ò  un  po'  imperiosa  e  stizzosetta.  specialmente  con  la  vecchia  a  cui  il  Conte  l'ha  ci  Dimessa  in  custodia.  Curioso  è  il  notare  che  in  quel  forzato  sodalizio  di  Lucia  con  la  vecchia,  il  Manzoni  si  era  del  tutto  scordato  di  far  portare  un  po'  di  cena,  di  che  lo  avverti  il  Visconti  (p.  224  il),  ed  egli  ne  fece  poi  quella  squisita  minia  turi    eh' è  nel  romanzo.  La  vecchia,  del  resto,  è  qui  più  sordida  che  nel  romanzo,  più  volgare  essa  pure,  come  il  suo  padrone;  il  Manzoni ha  tratti  di  crudo  realismo  quando  più  tardi  la  fa  pacchiare  e  trincare  (pp.  285-87),  ma  c'è  da  averne  rivoltato  lo  stomaco.   Una  persona  che  si  può  dir  nuova  è  il  curato  di  Chiuso,  giacché  il  paese  ove  segui  la  conversione del  Conte  (paese  che  nel  romanzo  non  ha  nome)  è  veramente  Chiuso,  come  suppose  il  bravo  Bindoni  (l).  Nella  redazione  definitiva  quel  curato è  un  prete  dabbene,  zelante,  ma  molto  comune, al  punto  che  lo  scrittore  lo  chiama  una  volta  scherzosamente  «  guastamestieri  »  perchè  non  ò  atto  ad  intendere  la  sublime  umiltà  del  cardinale  (2).  Nella  prima  minuta  era  addirittura  un  mezzo  santo,  tantoché  la  sua  riputazione  era  diffusa  ed  esaltata  nei  villaggi  circonvicini.  Appena Lucia,  liberata  dalla  prigionia  del  Conte  del  Sagrato,  sente  dire  che  si  va  a  Chiuso  :  «Chiuso,  esclama,  dov'è  quel  buon  curato  !  andiamo, andiamo  »  (p.  295).  Difatti  il  Manzoni,  con  insolita  solennità,  ci  dice  che  si  chiamava  don  Serafino  Morazzone  (p.  267)  (3),  «  uomo  che   fi)  La  topografia  dei  Promessi  Sposi,  voi.  I,  Milano,  ltìOo,  pp.  145  segg. Ediz.  Petrocchi,  p.  62fi,  cap.  XXIV. Altrove  Merazzoni.  «  La  Tigna  di  quel  liuou  prete  Me■  razzoni  era  tanto  ben  coltivata,  che  aveva  poco  bisogno  7   protezione  f1).  A  un  certo  punto  del  dialogo  il  Conte  perde  la  pazienza  e  scatta:  «  Al  diavolo  «  anche  V amparo... .  tenga  queste  parolacce  per  «  adoperarle  in  Milano  con  quegli  spadaccini  im«  balsamati  di  zibetto,  e  con  quei  parrucconi  impostori,  che  non  sapendo  essere  padroni  in  «  casa  loro,  si  protestano  servitori  d'uno  spa •  gnuolo  infingardo       Intendiamoci  fra  noi  da   «buoni  patriotti,  senza  spagli  uolerie  » .  Il  (ìraf,  rammentando  questo  passo  (2),  osserva:  «  Chi     ha  orecchie  intende;  e  la  censura  austriaca,  «  se  non  aveva  molto  cervello,  aveva  ottime  «  orecchie  ».  Vero;  ma  non  questo  certo  fu  il  motivo  per  cui  il  Manzoni  soppresse  il  colloquio.  Sentimenti  patriottici  erano  assai  mal  collocati  in  bocca  a  uomini  come  il  Conte  del  Sagrato  e  sarebbero  stati  altrettanto  male  in  bocca  all' Innominato. La  censura  austriaca  ne  avrebbe  riso  maliziosamente,  come  d'una  mossa  poco  accorta,  e  l'avrebbe  reputata,  per  gl' italianamente  pensanti, un  tirar  sassi  in  colombaia.  Il  Manzoni  vide  a  tempo  la  poco  opportunità  di  quell'atteggiamento, e  lo  tolse.    L' exjMiinoì  de  Manzoni,  in  Bulletin  i/alien,  voi.  I,  1901,  pp.  20G  sggVedi  anche  Eugenio  Memì,  Spegnitoio,  Spagnolismo  e  Spagna  nei  «  Promessi  Sposi*,  in  Fan  filila  della  domenica,  l'i  e  19  luglio  1908.   Cll  La  voce  amparo  è  rimasta  anche  nell'arguta  introduzione al  romanzo  «sotto  l' amparo  del  Re  Cattolico  nostro  Signore  ».   i'2i  In  un  articoletto  del  giornale  La  Stampa  di  Torino,  G  nov.  1904.    168    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    Così  pure  soppresse  la  morte  del  Conte  di  peste,  «  contratta  uelì'assistere  i  primi  appestati  »  (pagina 558).  Sarebbe  stato  un  doppione  della  morte  d'  un  altro  convertito,  padre  Cristoforo,  e  ciò  che  stava  bene  al  cappuccino  disdiceva  alqua  nto  ad  un  laico  gran  signore,  per  quanto  inoltrato  sulla  strada  del  paradiso.   *   Angelo  De  Gubernatis  scrisse  anni  sono  che  l'episodio  dell'Innominato  «  poco  mancò  non  diventasse il  pernio  di  tutta  l'opera  »,  e  affermò  più  oltre,  rincarando  la  dose,  che  quella  figura  doveva  essere,  in  origine  «  il  centro  di  tutto  il  poema  o  romanzo  »  (')■  Questa  ipotesi  assunse  maggiori  proporzioni  nel  noto  scritto  del  Cestaro,  ove  si  legge:  «  Il  voto  è  la  catastrofe  religiosa  «  dei  Promessi  Sposi.  Forse  n'era  veramente  la  «  catastrofe,  insieme  con  la  conversione  dell' In«  nominato,  che,  nel  primo  abbozzo  del  romanzo,  «  ne  doveva  essere  il  protagonista.  E  forse  allora  «  i  casi  dei  promessi  non  formavano  che  l'azione  «  secondaria;  il  ratto  di  Lucia  doveva  se rvire  «  alla  grande  opera  della  conversione;  e,  l'In«  nominato  un  santo,  Lucia  votata  alla  madonna,  «Renzo,  chi  sa?  converso  nel  convento  di  tra  «  Cristoforo,  tutto  finiva  con  grande  consolazione  «  del  vescovo  Tosi,  ad  majorem  dei  gloriarti  »  (*).  C'è  da  trasecolare!    (lj  Alessandro  Manzoni,  Firenze,  1879,  pp.  221  e  228.Nei  cit.  Sludi  storici  e  letterari,  p.  28fl.    I  PROMESSI  SPOSI  IV  FORMAZIONE    109    Dicesi  che  le  bugie,  in  genere,  hanno  le  gambe  corte;  ina  per  opposito,  in  letteratura  pare  le  abbiano,  anzichenò,  lunghe.  Cotesta,  infatti,  dell'Innominato primo  protagonista  dei  Promessi  Sposi,  sebbene  di  per    inverosimilissima  e  non  confortato  da  veruna  prova  di  fatto,  si  fece  strada  e  fu  ripetuta  da  diversi,  persino  in  libri  scolastici. Sembra  che  ad  arrestarne  la  voga  non  servissero neppure  attestazioni  in  contrario  venute  da  persone  che  col  Manzoni  convissero  o  conversarono, e  dalle  sue  labbra  udirono  qual  fu  e  come  gli  venne  la  prima  idea  del  romanzo.  La  grida  del    ottobre  1627,  firmata  da  don  Gonzalo  Fernandez  de  Cordova,  governatore  di  Milano,  quella  stessa  che  il  dottor  Azzeccagarbugli  mette  «otto  gli  occhi  al  buon  Renzo  e  in  cui  si  parla,  tra  l'altro,  di  pene  comminate  a  chi  impedisca  matrimoni  e  al  «  prete  non  faccia  quello  che  è  obbligato  per  l' ufficio  suo  »,  gli  fece  balenare  alla  mente  l'idea  d'un  racconto  storico,  avente  per  soggetto  un  matrimonio  contrastato  «  e  per  finale  grandioso  la  peste  che  aggiusta  ogni  cosa»  (').  Il  caso  dell'Innominato,  come  quello  della  Signora, gli  si  fece  innanzi  più  tardi,  studiando  il  Ripamonti,  e  sin  da  principio  l' uno  e  l' altro  dovevano entrare  nella  storia  come  narrazioni  episodiche. Oggi  il  fatto,  attestato  da  testimoni  de  audita,  è  luminosamente  confermato  dalla  conoscenza che  abbiamo  fatta  con  la  prima  stesura  del  libro.  E  questo  fia  suggel,  con  ciò  che  segue.    (li  S.  Stampa.  Alessandro  Manzoni,  I,  (iO,  II,  87  e  141;  Faiihis,  Memorie  manzoniane,  p.  102.    1.  Nella  minuta vi  giunge  «  a  notte  già  fitta  »,  e  la  sgridata  se  la  busca.  IL  (iuardiano,  sebbene  fosse  «  con«  tento  in  fondo  del  cuore  che  il  padre  Cristo«  foro  avesse  commesso  un  mancamento  »,  gli  fece  il  viso  serio  e  gli  indisse  una  penitenza.  «  Un  lettore  di  otto  anni  (aggiunge  argutamente  «  il  Manzoni^  potrebbe  qui  domandare:  perchè  «  faceva  il  volto  serio,  se  era  contento?  e  gli  si  «  risponderebbe,  che  appunto  era  contento  perchè  «  il  padre  Cristoforo  gli  aveva  dato  il  diritto  di  EJiz.  Petrocchi,  j>.  128.  cap.  VII.    I   PROMISI  SPOSI  IN"  FORMAZIONE    171    «  fa rirli  il  volto  serio  ».  Tutta  la  scenetta  (pagine .")li5-ii9i  è  deliziosa,  e  non  si  può  pensare  i-ho  Io  scrittore  l'abbia  elimina  fa  se  non  per  un  corto  scru polo  religioso.  Che  non  rutti  i  religiosi  t'(isscr«i  della  tempra  ili  patire  Cristoforo,  eirli  lo  taceva  capire  abbastanza  con  altre  figure  fratesche assai  meno  elevate  della  sua:  spinger  rocchio di  linee  nelle  invidiuzze  pettegole  che  allignavano alla  sordina  tra  le  cocolle  ed  a  cui  non  si  sottraevano  i  superiori,  gli  sembrò  forse  libertà  soverchia.  Bastava  la  scena  indimenticabile del  cull0(]uiu  tra  il  conte  zio  ed  il  padre  provinciale  u-ap.  XIX i,  colloquio  ch'ebbe  per  effetto  di  far  andare  fra  Cristoforo  a  piedi  da  Pescarenico  a  Rimini  «  che  è  una  bella  pas-i  ggiata  »:  ma  in  origine  troppo  era  maggiore,  perché  il  monaco  venia  sbalestrato  a  Palermo i,  per  mostrale  la  pieghevolezza  ossequiosa  dei  frati  posti  più  in  alto  verso  la  mondanità  potente.   Padre  Cristoforo  guadagna  sempre  più  in  diluirà ed  in  fervore  nelle  successive  elaborazioni    Iella  materia.  La  grandiosità  santa  della  sua  tiirura  silicea  particolarmente    nel  lazzaretto,  presso  don  Rodrigo  agonizzante.  Scena  molto  diversa  india  prima  minuta,  ove  quel  prepotente  non  è  lasciato  nel  suo  giaciglio  di  dolore,  mentre  il  cappuccino  e  gli  sposi  promessi  pregali  por  lui:  ma  invece  appare  in  un  momento  d'insensato furore,  seminudo  e  coi  capelli  rabbuffati,  e  si  slancia  su  d'un  cavallaccio  dei  monatti,  e  fugge  fugge  pazzamente,  tinche  precipita  morto. Fosca  scena,  satura  di  terribilità  tragica,  che  attrasse  l'attenzione  dei  manzonisti  sino  da  quando  poterono  conoscerla  nel  primo  volume  degli  Scritti  postumi.  Se  il  Manzoni  si  decise  a  mutarla  di  sana  pianta,  lasciandone  appena  una  traccia  in  altro  luogo  ('),  dovette  certo  avere  i  suoi  buoni  motivi.  Più  d'uno  cercò*  d'indovinarli.  A  me  pare  che  anche  qui  prevalessero una  ragione  estetica  ed  una  religiosa  :  la  ragione  estetica  è  che  quella  molte,  sebbene  poeticamente trovata,  avea  troppo  del  colpo  di  scena,  e  don  Alessandro  aborriva  dagli  effetti,  da  ciò  che  chiamava  «  battere  la  gran  cassa  »  la  ragione  religiosa  è  che  quella  morte  da  disperato  non  lasciava  adito  alla  speranza  di  pentimento  negli  ultimi  istanti,  pent imento  che  poteva  essere impetrato  da  Dio  per  mezzo  di  coloro  appunto a  cui  quel  prepotente  vigliacco  aveva  fatto  più  male  (3).   Chi  sin  del  primo  getto  fu  quell'impagabile  tomo  che  tutti  conoscono,  ò  don  Abbondio.  Egli  Allorché  Renzo  entra  nel  lazzaretto,  vede  un  cavallo  fuggente  spinto  da  un  cavaliere  frenetico  (capitolo  XXXIX).  Come  nota  lo  Sforza  (Sfrìtti  pontumi  di  A.  Manzoni,  I,  124 1,  quella  scena  si  ficcò  nella  mente  di  Emilio  Zola,  cosi  incline  al  terribile  e  al  raccapricciante,  e  non  ne  usci  più.  Il  Previati  (p.  555  della  edizione  maggiore  hoepliana)  cercò  ridarla;  ma  Ti  riusci  poveramente. Parole  del  Manzoni  riferite  dallo  Stampa,  I,  57. Bene  sviluppò  questo  concetto  A.  Eòndani,  in  un  articolo ove  parla  di  più  altre  cose  :  Una  variante  del  Manzoni  circa  la  morte  di  don  Bodrigo,  in  Natura  ed  arte,  XII,  1903,  nn.  4  e  5.  Cfr.  specialm.  p.  311.    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    173    ebbe  intorno  molto  meno  concieri  di  ogni  altro,  sebbene  all'artista  sommo  che  lo  creò  sia  avvenuto dapprima  di  caricarlo  un  po'  troppo.  La  più  parte  dei  tratti  tolti  via  hanno  essi  pure  gran  sapore  di  comicità,  perchè  quella  figura  il  Manzoni non  riusciva  a  toccarla  senza  farne  sprizzare  le  più  amene  trovate  che  imaginar  si  potessero.  Ameno  è  don  Abbondio  alla  mensa  del  Conte  del  Sagrato,  allorché  il  territorio  circostante  è  tutto  invaso  dai  lanzichenecchi,  ed  il  povero  curato, con  quel  po'  po'  di  tremerella  addosso,  è  costretto  a  fare  il  disinvolto,  a  mangiare  ed  a  ridere  (p.  458j.  Più  ameno  è  don  Abbondio  predicatore, con  tutte  le  sue  cautele  di  dire  e  non  dire,  e  con  l'abile  conciliazione  degli  interessi  dell'anima  e  dei  parocchiani  con  quelli  del  corpo  e  della  sua  particolare  tranquillità  d'uomo  timido  p.  464).  La  conversazione  di  Renzo  rimpatriato,  dopo  vinta  la  peste,  e  don  Abbondio,  che  pur  n'è  scampato,  è  nel  cap.  XXXIII  del  romanzo  un  gioiello;  ma  non  lo  era  punto  meno  nell'abbozzo, anzi  arricchiva  don  Abbondio  di  qualche  tratto  d'egoismo  e  di  comicità  poi  scomparso  (pp.  49Ó-99).  Qui  Fermo  (che  sarà  poi  Renzo)  non  incontra  il  suo  curato  per  via  «  portando  il  bastone  come  chi  n'è  portato  a  vicenda  »;  ma  lo  vede  ad  una  finestra  della  canonica.  Nel  vano  egli  scorge  «  un  so  che  di  bianco  giallastro  in  «  campo  nero,  una  figura  immobile,  appoggiata  *  ad  un  lato  della  finestra.  Era  don  Abbondio  «  in  persona,  e  "ad  una  certa  distanza  poteva  «  pa i-ere  un  vecchio  riti-atto  di  qualche  togato,    174    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONI?    «  scialbo  per  natura,  per  l'arte  del  pittore  e  per  «  l'opera  del  tempo,  appeso  di  traverso  fuori  al  «  muro,  perla  buona  intenzione  di  ornare  qualche  «  solennità  ».  Il  dialogo  segue  tra  il  prete  che  è  alla  finestra  e  Fermo  che  è  sulla  via.   Questa  scena  inette  capo  ad  un'altra  variante  segnalabile.  Nel  romanzo  Renzo  non  trova  Agnese  nel  villaggio  natio,  perchè  essa  si  è  recata  presso  certi  suoi  congiunti,  a  Pasturo  nella  Valsassina,  sicché  il  bravo  giovinotto  la  rivede  solo  dopo  che  ha  trovato  Lucia  e  può  recarle  la  buona  novella  (cap.  XXXVII).  Nella  minuta  invece  Agnese  non  s'è  mossa,  ed  avendo  fino  allora  evitato  il  contagio,  vive  con  grandissime  precauzioni. Fermo  la  rivede  ed  ha  secolei  un  colloquio i  pp.  499-505;,  di  cui  nel  testo  definito  dovea  sparire  ogni  traccia.   Qualche  diversità  nel  carattere  di  Lucia  ho  già  notato.  Il  i-atto  di  lei  è  rappresentato  con  perfezione  di  gran  lunga  minore  nei  Brani.  Con  singolare  inverosimiglianza,  i  falsi  forestieri  invitano Lucia  ad  accompagnarli  in  carrozza  per  meglio  indicare  loro  la  strada  di  Monza  (p.  201),  e  quel  che  più  importa,  lo  strillo  acuto  della  fanciulla  rapita  è  udito  da  contadini  che  lavorano nei  campi  circostanti,  e  se  ne  fa  poco  appresso un  gran  cicalare  pei'  Monza,  e  le  fantasie  riscaldate  ne  inventano  di  carine.  Anche  in  questo sviluppo  del  fatto,  che  al  Manzoni  sembrò  meno  opportuno  in  seguito,  sicché  lo  tolse,  v'è  quel  senso  vivo  e  sperimentale  della  realtà,  che  in  lui  siam  soliti  ad  ammirare.  Le  esagerazioni    I   PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    175    e  le  .storture  della  voce  pubblica  furono  delle  più  buffe  (J);  sinché  un  cagnotto  di  Egidio  non  ebbe  rimesso  le  cose  a  posto,  facendo  credere  in  piazza  che  la  giovine  fosse  d'accordo  e  che  l'avesse  portata  via  il  suo  innamorato.  Si  tini  col  «  ragionare  profondamente  sulle  astuzie  delle  «  donne  che  fanno  la  semplice,  sulla  dabbenaggine della  Signora  che  aveva  raccolto  quella  «  mozzina  »  (p.  208).   La  diversa  ubicazione  del  castello  dell'Innominato, costringe  l'autore  a  far  comparire  prima  la  vecchia.  Il  contegno  di  Lucia  coi  manigoldi  non  differisce  molto  da  quello  del  romanzo;  solo  in  principio  essa  è  più  fiera  ed  i  bravi  più  cinici e  sguaiati.  Maggiori  sono  le  varianti  nella  breve  dimora  di  Lucia  a  Chiuso.  Tommaso  Dalceppo  (p.  316)  è  un  personaggio  tanto  insignificante, quanto  diventerà  gustoso  in  seguito,  quando  si  trasformerà  nell'anonimo  sarto,  che  sa  di  lettere.  Il  Manzoni  qui  teorizza,  alquanto  fuor  di  luogo,  sui  sentimenti  di  chi  ha  scampato  un  pericolo  e  sul  valore  del  voto.  Inoltre  non  è  il  cardinale  che  visita  la  casa  del  sarto,  dando  luogo  alla  scenetta  indimenticabile  del  cap.  XXIV;    son  le  tre  donne  che  si  recano  dal  prelato,  per  invito  di  lui.  Tanto  il  curato  di  Chiuso  (quel  sant'uomo),  quanto  Federigo,  sono  con  le  donne   il)  Probabilmente  l'autore  si  ricordò  in  tempo  che  di  simili mascheramenti  della  verità  nel  pettegolezzo  popolare  egli  si  era  burlato  altrove,  dove  parla  d'un  altro  ratto,  fallito, quello  di  cui  ebbero  incarico  il  Griso  e  gli  altri  bravi  di  don  Rodrigo.  Vedi  cap.  XI,  a  p.  253  dell' ediz.  Petrocchi.    17»;    I  PROMESSI  SPOSI  IX  FORMAZIONE    stranamente  impacciati  (pp.  321-22;  cfr.  p.  341).  11  Borromeo  «  in  quella  canizie  conservava  la  purità  ombrosa  di  una  fanciulla  » .  In  un  uomo  dell'indole sua,  ciò  dava  nel  ridicolo;  e  infatti  il  Manzoni se  ne  avvide  e  soppresse  del  tutto  quel  tratto  di  carattere,  sebbene  nel  romanzo  egli  abbia  ringiovanito di  parecchio  il  nobile  personaggio,  sempre rappresentato  nei  Brani  come  un  vegliardo.   Non  mi  tratterrò  qui  ad  osservare  che  nella  prima  minuta  il  Manzoni  aveva  ceduto  ancor  più  che  nel  romanzo  alla  tentazione  di  divagare  nella  storia,  sicché  le  digressioni  sulla  carestia  del  1628  e  sulla  peste  successiva  erano  ancor  più  lunghe  di  quelle  che  si  conoscono  (*).  Dirò,  invece,  che  la  tìne  del  romanzo  era,  nell'abbozzo,  schematica,  fredda,  lontana  dalla  bella  e  bonaria  efficacia  del  cap.  XXXVIII.  Anche  là.  in  origine,  la  mente  di  don  Alessandro  si  palesava  più  ragionatrice  che  rappresentatrice.  Inoltre,  nel  banchetto dato  agli  sposi  nel  palazzotto  già  appartenuto a  don  Rodrigo,  il  «  parente  lontano  »  che  ne  è  l'erede,  non  mangia  con  loro  «  alle«  gando  che  il  pranzare  a  quell'ora  non  si  eoli«  faceva  al  suo  stomaco  » .  «  Ma  (osserva  il  Mali  ci) In  queste  pagine  soppresse,  non  posso  trattenermi  dal  cogliere  un'osservazione  umoristica  tutta  manzoniana:  Il  «  tempo  è  una  gran  bella  cosa:  gli  uomini  lo  accusano,  è  vero,     di  due  difetti:  d'esser  troppo  corto  e  di  esser  troppo  lungo:     di  passare  troppo  tardamente,  e  d'  essere  passato  troppo  in  «  fretta;  ma  la  cagione  primaria  di  questi  inconvenienti  è  «  negli  uomini  stessi,  e  non  nel  tempo,  il  quale  per    è  una  «  gran  bella  cosa  ;  ed  è  proprio  un  peccato  che  nessuno  finora    abbia  saputo  dire  precisamente  che  cosa  egli  sia  »  (p.  402;.    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    177    «  zoni)  la  vera  cagione  fu...  che  quel  brav'uomo  c  non  aveva  saputo  risolversi  a  sedere  a  mensa  «  con  due  artigiani:  egli,  che  si  sarebbe  recato   *  ad  onore  di  prestar  loro  i  più  bassi  servigi,  «  in  una  malattia.  Tanto  anche  a  chi  è  esercitato  «  a  vincere  le  più  forti  passioni,  è  difficilé  il  vin«  cere  una  piccola  abitudine  di  pregiudizio,  «  quando  un  dovere  inflessibile  e  chiaro  non  «  comandi  la  vittoria  »  (p.  557).  Invece,  nel  romanzo, il  marchese  aiuta  a  servire  li  sposi  invitati; ma  li  tiene  a  tavola  separata.  Ed  il  malizioso romanziere,  commenta:  c  A  nessuno  verrà,  «  spero,  in  testa  di  dire  che  sarebbe  stata  cosa  «  più  semplice  fare  addirittura  una  tavola  sola.  «  Ve  l'ho  dato  per  un  brav'uomo,  ma  non  per  «  un  originale,  come  si  direbbe  ora;  v'ho  detto  «  ch'era  umile,  non  già  che  fosse  un  portento  «  d'umiltà.  N'aveva  quanta  ne  bisognava  per  «  mettersi  al  disotto  di  quella  buona  geute,  ma   *  non  per  istare  loro  in  pari  ».  Parole  che  per  l'estrema  finezza  dell'ironia  riuscirono  equivoche, tanto  che  a  qualcuno  parve  che  la  sostenutezza del  marchese  fosse  lodata,  ad  altri  che  fosse  biasimata,  perchè  non  conforme  alla  schietta  umiltà  evangelica.  Questi  ultimi  aveano  ragione  ed  il  passo  è  chiarito  nella  forma,  meno  arguta  ma  più  esplicita,  che  la  chiosa  manzoniana  ha  nell'abbozzo  (').  Vien  così  ad  essere  dichiarata  s e nz  altro  vera  l'interpretazione del  passo  che  con  la  sua  ingegnosità  consueta  propose  nel  1900  G-iov.  Negri.  Quelle  sue  considerazioni  uscirono a  Pavia  in  foglio  volante,  e  il  Petrocchi  fece  benissimo  riferendole  integralmente  nel  suo  commento,  pp.  1102  sgg.    Krnieb  Scaghi  Critici    12    178    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    *   Or  ecco  avanzarsi  la  «  coppia  d'alio  affare  »,  don  Ferrante  e  donna  Prassede.  Nei  Brani  non  è  per  impulso  spontaneo  di  quella  faccendona  delle  buone  opere  di  donna  Prassede  che  Lucia  entra  in  quella  casa;  ma  perchè  ve  la  manda  in  custodia  il  cardinale.  E  ci  va  a  fare  la  cameriera, perchè  quella  «  coppia  »  non  è  soltanto una  «  coppia  »,  ma  ha  seco  una  figliuola  e  la  sorella  del  capo  di  casa,  rimasta  vedova.  Una  famiglia,  dunque,  in  tutte  le  regole,  che  poi  nel  romanzo  sarà  ridotta  ai  soli  due  coniugi  rispettabilissimi.   La  figliuola,  unica,  di  quei  due  (')  chiamavasi  Ersilja,  famigliarmente  Silietta,  »  personaggio  «  non  troppo  facile  da  descriversi,    da  detì«  nirsi.  Le  sue  fattezze  erano  senza  difetti  e  «  senza  espressione;  i  suoi  due  grandi  occhi  *  grigi  non  si  movevano  che  quando  si  moveva  «  tutta  la  testa;  teneva  la  bocca  sempre  semi«  aperta,  come  se  ad  ogni  momento  sentisse  «  una  leggera  meraviglia:  rideva  spesso  e  sorri«  deva  di  rado;  parlava  lentamente  e  placida«  mente,  ma  volentieri  e  a  lungo  tutte  le  volte  «  che  alcuno  dei  suoi  parenti  non  fosse  presente  Xel  romanzo  (cap.  XXVII)  le  figliuole  erano  state  cinque, ma  son  tutte  fuori  di  casa,  tre  monache  e  due  maritate,  sicché  donna  Prassede  ha  «  tre  monasteri  e  due  case  a  cui  sopraintendere  ».    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    171»    «  il  darle  su  la  voce  »  (p.  417).  Si  potrebbe  dipinger meglio  quella  pacifica  scimunitella,  destinata al  monastero,  ove  entrò  poi  senza  slancio  e  senza  repugnanza ?  Perchè  il  Manzoni  più  non  la  volesse,  non  è  chiaro:  forse  gli  diede  ombra  l'idea  che  ne  venisse  nuovo  sminuimcnto  di  stima  ai  monasteri  femminili,  quasi  che  fossero  additati come  ordinario  ricetto  di  simili  pupattole;  forse  quella  figurina  gl'impacciava  l'azione.  Pei"  quest'ultimo  motivo  deve,  senz'altro,  aver  abolito donna  Beatrice,  la  sorella  di  don  Ferrante  (p.  363),  severamente  e  sentitamente  pia,  quanto  donna  Prassede  era  pinzocchera  ed  inframmettente; e  il  procacciante  maggiordomo  Prospero  «  faceto  e  rispettoso,  disinvolto  e  composto,  dotto  «  a  tutto  fare  e  a  tutto  soffrire  »  ;  e  la  donna  di  governo  Ghitina,  che  il  servitorame  chiamava  *  la  signora  Chitarra  »  perchè  «  il  suo  collo  «  lungo,  la  sua  testa  in  fuori,  le  sue  spalle  sehiac«  ciate,  la  vita  serrata  dal  busto  e  le  anche  alc  largate  »  la  facevano  «  somigliare  alla  forma  di  quello  strumento  »,  il  cui  suono,  ricavato  da  mano  inesperta,  somigliava  alla  voce  di  lei,  «  cicuta,  scordata  e  saltellante  »  (pp.  418-19).  Questi  personaggi,  che  promettevano  bene  davvero e  che  pur  di  primo  acchito  ci  balzano  innanzi vivi  e  parlanti,  scomparvero.   Ma,  anche  i  due  onesti  coniugi  erano  nel  primo  getto  alquanto  diversi  da  ciò  che  furono  nel  libro  definitivo.  Più  maligna  donna  Prassede,  tiranneggiava, per  le  sue  fisime,  Lucia  e  la  faceva  spiare  da  Ghita:  essa  avrebbe  voluto  che  la  mite    Imi    [  PROMESSI  sposi   JN   KUH.M  AZIoNK    contadina  prendesse  il  velo  con  la  sua  Krsilia.  Don  Fori-ante,  anche  qui,  dotto  d'una  cloUrina  senza  luion  senso,  che  degenera  nella  pedanteria: ma  oltracciò  sudicio  nella  persona  e  nel  vestire, e.  non  meno  che  pretensiosi),  pitocco.  Viveva di  prestiti:  e  chi  armeggiava  sapientemente  con  gli  usurai  per  trovare  i  quattrini  indispensabili al  tasto  della  casa  spiantata,  ora  quel  mellifluo e  pieghevoli»  Prospero.  Del  resto,  già  nell'abbozzo era  ideata  quella  libreria  di  don  Ferrante, che  nel  romanzo  fu  condotta  a  perfezione,  ed  è  uno  dei  tratti  più  finamente  umoristici  del  libro  ('').  In  questo  luogo  abbiamo  anzi  una  curiosità  da  notare.  Nella  redazione  definitiva  il  Manzoni,  avendo  di  molto  arricchita  la  descrizione della  libreria  nelle  parti  che  a  lui  parevano secentescamente  sostanziali  e,  per  dar  la  misura  dell'uomo  e  dei  gusti  del  tempo,  essenziali, omise  la  sezione  delle  «  lettere  amene  »  i2).  I  n  critico  morto  giovine,  in  certa  sua  conferenza,  volle  colmare  codesta  lacuna  e  imaginò  che  vi  figurassero  «  fra  i  più  graditi,  i  nomi  del  Tasso,  «  del  Marini,  del  Tassoni,  del  Bracciolini,  del Cfr.  D'i.  Non  vi  sarà  forse  fra  i  ilici  lettori  chi  non  rammenti  che  appunto  da  1111,1  lettera  dell'Achillini  è  tolto  quasi  di  peso  i    kirocco  ragionamento  con  cui  nel  romanzo  i  Ferrante  viene  a  dimostrare  che  il  contagio  della  peste  è  una  chimera  (cap.  XXXVII)   I.   Stui'I'.mii.  La  hiblioteia  ili  ilun  Ferrante,  Milano,  1SM7.,•.  I.-..   Ji  li.  Haiti,  in  Sanai  letterari.  Firenze.  1KH  p.  109.  i   La  telaxiime  de]  passo  manzoniano  con  la  lettera  dell' tu  indicata  nel  1S7!I  da  O.  (irKBtiixi.  nella  liax&ei/ìia  'nuli    III.  Vii.  La  distanza  fra  i  due  passi  none  punto  un  lini rahite.  come  sostieue  con  poca  critica  il  Petrocchi  anzi  es:-i  sono  molto  simili;  il  (die  non  vuol  dire  Manzoni  alibia  commesso  un  plagio.  Questa  è  una Già  nella  minuta  si  leggevano  quelli  sgangherati dilemmi  (pp.  469-70);  ma  essi  facevano  parte  d'un  dialogo,  di  cui  sopravvisse  appena  lo  spunto,  tra  don  Ferrante  e  un  don  Lucio,  figurina  ben  trovata  di  «  professore  d'ignoranza  e  dilettante  d'enciclopedia  »,  che  non  aveva  mai  studiato,  anzi  si  vantava  di  aver  tutti  i  libri  in  gran  dispillo  perchè  «  fanno  perdere  il  buon  senso  e  «  tuttavia  pretendeva  decidere  d'ogni  cosa  ».  Che  gioia!  Di  codesti  sensatissimi  faciloni  v'ò  chi  dice  che  se  ne  trovano  anche  fuori  del  seicento; ma  io  non  lo  credo.   *   I  Brani  (pp.  3  sgg.)  ci  fanno  conoscere  intero  un  intermezzo  di  cui  era  nota  solo  una  parte,  per  via  del  discorso  pronunciato  dal  Bonghi  in  Milano  nel  1885,  quando  s'inaugurò  nella  Braidense  la  sala  manzoniana.  Finge  il  Manzoni  in  quell'intermezzo  di  discutere  e  di  ribattere  le  obiezioni  di  un  personaggio  ideale,  che  gli  fa  carico di  presentarci  nel  romanzo  due  fidanzati  senza  descrivere  «  i  principi,  li  aumenti,  le  comunicazioni del  loro  affetto  ».  Egli  si  professa  «  del  parere  di  coloro  i  quali  dicono  che  non  «  si  deve  scrivere  d'amore  in  modo  da  far  con  appropriazione lecita  ed  opportuna,  e  mi  par  più  probabile  ch'ei  sia  ricorso  all'Achillini,  anziché  ad  un  opuscolo  di  Massimiliano Viani  di  Pallanza,  stampato  nel  1630,  ov'è  fatto  il  medesimo  ragionamento  (Stoppato,  pp.  48-49).  Due  sonetti  politici  dell' Achillini  cita  il  Manzoni. sentire  l'animo  eli  chi  legge  a  questa  passione  »,  perchè  d'amore  al  moudo  ve  n'ha  quanto  basta,    v'è  bisogno  che  altri  s'industri  a  coltivarlo  ed  a  fomentarlo  con  gli  scritti,  d'amore  «  ve  n'ha,  «  facendo  un  calcolo  moderato,  seicento  volte  «  più  di  quello  che  sia  necessario  alla  conser«  vazione  della  nostra  riverita  specie».  Strana  teoria  senza  dubbio,  che  provocò  ben  presto  una  rispettosa,  ma  energica  confutazione  del  Fogazzaro. Questi  non  può  ammettere  un  concetto  cosi  materialistico  dell'amore,  e  convenendo  che  gli  amori  di  puro  senso  non  vanno  descritti,  ritiene  vi  sia  nell'amore  un  elemento  idealistico  elevatissimo, atto  a  sublimare  le  anime  e  a  completarle, sicché  l'indurre  i  mortali  a  quell'amore,  che  ha  qualcosa  d' immortale,  è  opera  meritoria^).  Nella  quale  interpretazione  dell'amore  fa  capolino il  poeta  idealista,  non  alieno  dallo  spiritismo, che  fece  giuocare  cosi  bene  in  un  suo  rooianzo  la  sempre  risorgente  imaginazione  dell'amore dopo  la  morte  (2),  rappresentata  dall'adagio antico  «  Hyeme  et  sestate,  et  prope  et  procul,  usque  dum  vi  vara  et  ultra  »  (3).   Sta  bene:  ma  il  Manzoni  voleva  dire  altra  cosa.  L'ha  dimostrato  con  molta  diffusione,  ma  insieme  anche  con  molto  ingegno,  Giovanni  Ne (li  Un'opinione  di  A.  Manzoni,  in  Fouazzaho,  Discorsi,  Milano, 1898.  Il  discorso  fu  letto  a  Firenze  nel  marzo  de]  1887.   C2)  I  numerosissimi  indizi  concreti  di  questa  credenza  o  imaginazione  furono  raccolti  da  A.  Giìaf  in  un  recente  articolo della  X.  Antologia,  16  novembre  1904.   i'ò)  Daniele  Cortis,  Torino.  1885,  p.  61.    184    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    gri  (')■  L'autore  dei  Promessi  Sposi  fu  ben  lungi  dal  disconoscere  l'amore  ideale  e  puro,  anzi  quest'amore egli  fa  sentire  di  continuo  nel  suo  libro,  non  evitandone  neppure  qualche  tratto  passionale.  Ma  egli  sapeva  che  in  ogni  amore,  anche  il  più  puro,  vi  sono,  in  quanto  è  umano,  elementi  di  impurità, e  a  questa  impurità  non  avrebbe  voluto  che  la  letteratura  provocasse  il  consenso,  cioè  l'adesione del  cuore  per  mezzo  dell'eccitamento  dei  sensi.  A  chiarire  siffatto  consenso  aggiunge  una  esemplificazione,  che  il  Bonghi  non  fece  conoscere  e  che  non  potrebbe  essere  più  calzante:  «  Ponete  «  il  caso  che  questa  storia  venisse  alle  mani,  per  «  esempio,  d'una  vergine  non  più  acerba,  più  «  saggia  che  avvenente  (non  mi  direte  che  non  «  se  n'abbia),  e  di  angusta  fortuna,  la  quale,  per«  duto  già  ogni  pensiero  di  nozze,  se  ne  va  cam«  puechiando  quietamente,  e  cerca  di  tenere  oc«  cupato  il  cuor  suo  coll'idea  dei  suoi  doveri,  «  colle  consolazioni  della  innocenza  e  della  pace,  «  e  colle  speranze  che  il  mondo  non  può  dare  «    torre,  ditemi  un  po'  che  bell'acconcio  po«  trebbe  fare  a  questa  creatura  una  storia  che  «  le  venisse  a  rimescolare  in  cuore  quei  senti«  menti  che  molto  saggiamente  ella  vi  ha  sopiti.  «  Ponete  il  caso,  che  un  giovane  prete,  il  quale  *  coi  gravi  uffici  del  suo  ministero,  colle  fatiche  «  della  carità,  con  la  preghiera,  con  lo  studio,  «  attende  a  sdrucciolare  sugli  anni  pericolosi  che  L'opinione  del  Manzoni  e  quella  del  Fogazzaro  intorno  all'amore, nel  I  volume  dei  cit.  Commenti.    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    »185    «  gli  rimangono  da  trascorrere,  ponendo  ogni  «  cura  di  non  cadere,  e  non  guardando  troppo  «  a  diritta    a  sinistra,  per  non  dar  qualche  *  stramazzone  in  un  momento  di  distrazione,  «  ponete  il  caso  che  questo  giovane  prete  si  «  ponga  a  leggere  questa  storia  (giacché  non  «  vorreste  che  si  pubblicasse  un  libro  che  un  t  prete  non  abbia  da  leggere),  e  ditemi  un  po'  «  che  vantaggio  gli  farebbe  una  descrizione  di  «  quei  sentimenti  ch'egli  debba  soffocar  ben  bene  «  nel  suo  cuore,  se  non  vuol  mancare  ad  un  «  impegno  sacro  ed  assunto  volontariamente,  se  «  non  vuol  porre  nella  sua  vita  una  contraddi«  zione  che  tutta  la  alteri  ».   Fuvvi  chi  si  meravigliò  che  tenesse  questo  concetto  dell'amore  nei  romanzi  chi  avea  provato replicatamente  e  potentemente  quella  passione, sino  ad  averne  «  spossata  l'anima  d'ogni  forza  »,  come  scrisse  un  giorno  al  Fauriel  (').  Nessuna  meraviglia  meno  giustificata.  Gli  è  appunto perchè  la  natura  del  Manzoni  era  una  natura sommamente,  e  non  platonicamente,  amatoria, che  la  sua  rigorosa  morale  cristiana  gli  imponeva  di  evitare  ad  altri  quegli  stimoli,  di  cui  gli  eran  ben  noti  i  pericoli  e  contro  cui  aveva  dovuto  lottare  egli  stesso.  Tanto  è  vero  ch'egli  fin  da  principio  si  guardò  da  quegli  scogli,  e  nella  prima  minuta  non  occorre  nessuna  di  quelle  descrizioni  che  nell'intermezzo  sull'amore  volle    (li  Stampa,  II,  18.    I   l'ROMRSsr  SPOSI   IX  FORMAZIONE    far  credere  d'aver  messe  in  carta  l'i.  Ora.  che     ■levando  a  teoria  generalo  l'idea  del  Manzoni  si  venga  a  sacrificare  l'arte  alla  morale,  e  che  silfatio  sacrificio,  per  motivi  estranei  alle  ragioni  intime  dell'opera  letteraria,  sia  ingiusto,  non  sarò  certo  io  a  negarlo:  ma  movendo  dai  principi  etici  che  il  gran  romanziere  poneva  a  baso  di  ogni  pensiero  e  ili  ogni  operazione,  l'opinion  sua  era  perfettamente  logica.  Che  volete  farci?  Createvi  un  Manzoni  di  vostro  gusto,  se  vi  garba:  quello     •he  tu  al  mondo  e  vestì  panni  era  fatto  cosi.   Lo  studio  della  prima  minuta  ci  convince,  adunque,  che  nel  lavorio  di  perfezionamento  dell'oliera  sua  il  Manzoni  si  studiò  in  ispecie  di  ridurre  a  giusta  misura  la  materia,  di  resecare da  essa  //  froppn  f  il  l'ano.  Menfe  dialettica ebbe  il  Manzoni  quant'altri  mai  ed  all'opera  d'arte  si  preparava  con  lunghissimo  studio  di  storia,  perche  nell'uomo  gli  piaceva  di  osservare  non  solo  le  attitudini  e  i  moti  spirituali  del  presente, ma  anche  quelli  del  passato.  Quindi  il  so ili  Ad  un  imaginario  interlocutore,  che  gli  rimprovera  di  aver  trascurato  nel  libro  i  particolari  dell'amore.  Unge  dori  Alessandro  di  rispondere:      Trabocca,  invece  (il  liìiroi  di  queste  cose,  e  deagio  confessare  che  sono  anzi  la  parte  più     elaborata  dell'opera;  ma  nel  trascrivere,  e  nel  rifare,  io  .  Ciò  non  risponde  al  vero,  se  pure  non  si  tratti  di  abbozzi  parziali,  anteriori  alla  prima  minuta,  dei  quali  ignoro  l'esistenza,  ovvero  della  storia  secentesca  che  finge  di  avere  scoperta.    T  PROMESSI  SI-OSI  IX  FORMAZIONE    187    verchio  od  il  meno  utile  elio  gli  uscì  dalla  pernia  nella  prima  foga  ilei  comporre  consistono  in  abuso  ili  ragiona  mento  ed  in  abuso  di  storia.  Per  quel  i-Inspetta  alla  sostanza  del  libro,  la  sua  maggior  preoccupazione  fu  di  proporzionare  all'insieme  questi  due  elementi,  e  nel  tempo  stesso  di  ottenere maggior  tinozza  d'osservazione  psicologica   maggiore  efficacia  rappresentativa.  A  togliere  ilei  tutto  l'abuso  della  storia  non  riuscì:  e  questo restò  il  difetto  massimo  del  romanzo,  rilevato  da  molti,  a  principiare  dal  (ioethe  e  a  finir  col  De  Sanctis  ('  .  Riuscì  invece  a  temperare  l'inclinazione dello  spirito  raziocinante,  intensificò  l'osservazione e  la  rappresentazione,  aguzzò  l'umorismo bonariamente  ironico.  Ma  già  nella  prima  minuta,  se  non  è  tutta  l'arte,  è  tutta  l'anima  sua.   Se  per  lo  innanzi,  mediante  il  raffronto  delle  due  edizioni,  potevamo  farci  un'idea  del  lavoro  immenso  che  costò  al  Manzoni  quella  sua  forma  sempre  limpida  e  sempre  acconcia;  ora  possiamo  in  oidio  valutare,  per  mezzo  dei  Brani,  l'opera  sua  di  artefice  squisito  nel  trattare  la  sostanza  del  libro.  Ed  è  mirabile  la  cura  da  lui  posta  nelle  minuzie.   Vedete,  ad  esempio,  quanto  è  incontentabile  fin  nei  nomi  dei  suoi  personaggi.  Ai  nomi  egli  annetteva  importanza  grande,  e  non  senza  rati Lp  parole  ilei  fioptlie  all'  Eekermarm.  riferite  anche  stiirza  nella  prefazione  ai  Brani,  p.  XLIV.  sera  notissimi'; quelle  ilei  De  Sanetis  si  possono  leggere,  ne'  suoi  Hrrilli  ivi  e»'/,  ed.  Croce.  Xapoli.  1898.  1,  52  n.    188    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIÓNE    gione:  si  direbbe  gli  echeggiasse  sempre  nella  memoria  la  vecchia  sentenza,  che  Dante  pur  fece  sua,  nomina  sunl  consequentia  rerum.  Nel  fissare  quello  di  Lucia,  più  che  la  martire  siracusana del  IV  secolo,  può  darsi  gli  risonasse  dentro il  dantesco  «  Lucia  nimica  di  ciascun  crudele ».  Il  suo  fidanzato  aveva  in  alto  grado  la  virtù  della  costanza,  rara  nei  giovinotti:  quindiFermo.  Ma  questo  poi  gli  sembrò  nome  troppo  aulico,  troppo  poco  comune,  e  sostituì  il  popolare Renzo,  che    pure  indizio  di  fermezza,  perchè rammenta  un  santo,  il  cui  «  volere  intero  »  resistette  al  supplizio  della  «  grada  ».  Il  casato  di  Lucia  era  in  origine  Zarella;  ma  non  gli  piacque: sostituì  Mondello,,  ove  l'aggettivo  mondo  non  entra  a .  caso  (').  Fermo  era  di  cognome  Spolino;  poi  divenne  Renzo  Tramaglino,  vocaboli che  richiamano  l'uno  l'arte  tessile  e  l'altro  la  pesca.  Potrà  fare  qualche  meraviglia  che  il  padre  Cristoforo  fosse  in  origine  Galdino,  nome  che  desta  il  riso  pel  ricordo  di  quel  semplice  e  golfo  cercatore  delle  noci;  ma  una  vecchia  cronaca rappresentava  eroicamente  un  frate  Galdino  della  Brusada,  ed  a  costui  pensò  dapprima  il  Manzoni  (s).  Don  Ferrante  e  donna  Prassede,  Che  v'abbia  anche  parte  quella  Lucia  Mantella,  che  il  Ripamonti  nomina  (cfr.  Nkgri,  Commenti,  I,  27,  n.  2),  non  è  escluso. Xe  avrà  conforto  il  dabben  Luigi  Lucchini,  che  nel  suo  Commentario  dei  Promessi  Sposi,  ovvero  la  rivelazione  di  tutti  i  personaggi  anonimi,  Bozzolo,  1902,  male  era  riuscito  a  conciliare rimanine  di  quel  monaco  austero  con  quella  dell'umile  laico.    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    189    prima  d'avere  questi  due  nomi  altosonanti,  spagnolescamente e  lombardescamente  eletti  e  nobiliari, rispondevano  a  quelli  di  don  Valeriano  e  di  donna  Margherita,  il  primo  assai  probabilmente suggerito  da  quel  Valeriano  Castiglione,  il  cui  Statista  regnante  sarà  fra  i  libri  politici  quello  che  meglio  tornerà  accetto  al  pedantesco  personaggio.  L'avvocato  imbroglione,  prima  d'immortalarsi col  nomignolo  di  Azzeccagarbugli,  era  detto  il  Duplica,  ma  di  primo  getto  il  Pèttola,  vocabolo  che  in  milanese  vale  viluppo,  intrigo. La  governante  del  prete,  prima  di  ricevere quel  battesimo  di  Perpetua,  giusto  premio  alla  sua  fedeltà,  dal  padrone  cosi  mal  compensata, si  chiamò  per  breve  tempo  Vittoria,  certo  perchè  col  padron  suo,  tranne  quando  la  paura  lo  rendeva  ostinatamente  ribelle,  essa  la  vinceva  sempre.  «  So  quello  che  posso  fare,  la  padrona  *  sono  io  qui  >,  dice  nei  Brani  al  Conte  del  Sagrato: e  quel  qui  vuol  essere  la  cucina,  ma  tutti  v'intendono  sotto  l'intera  casa.  Gli  otto  nomi  di  bravi  che  nel  romanzo  occorrono,  son  tutti  trovati con  finissimo  accorgimento;  qualcuno  suggerito dal  Grossi,  qualcuno  peravventura  scovato nei  gridart  del  tempo  (').  Nella  prima  minuta  ve  n'erano  altri,  foggiati  con  sistema  non  diverso,  come  il  Nato  in  casa  e  lo  Spettinato (p.  288).    ili  Vedansi  le  comunicazioni  del  Tamassia  e  del  Bellezza  nel  (ìiorn.  storico,  XXX,  352  e  516,  ed  anche  il  commento  del  Petrocchi  a  p.  469.    ino    I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    La  cura  grandissima  dei  particolari  minimi,  l'assiduo  infaticabile  lavoro  della  lima,  si  unirono nello  scrittore  lombardo  (ne  abbiamo  qui  una  riprova)  alla  pronta  percezione  del  reale,  alla  facoltà  di  ridarlo  con  una  evidenza  mirabile, all'intelletto  sollecito  nel  giudicare  rettamente di  tutto  e  di  tutti.  Non  errerebbe  davvero chi  dicesse  che  il  genio  del  Manzoni  fu  metà  intuito  e  metà  pazienza,  pensarci  su.   Nota  aggiunta.    Questi  tre  articoli  furono  i  primi  di  qualche  estensione  che  vedessero  la  luce,  nel  Fanfulla  della  Domenica,  15,  22,  29  gennaio  1905,  appena  diffusa  la  prima  edizione dei  Brani  inediti.  Nel  medesimo  anno  1905  venne  fuori  la  2a  ediz.  dei  Brani  suddetti  :  in  che  cosa  essa  differisca  dalla  prima  indicai  nel  Giorn.  storico,  XLVII,  159-ltìl.  Fra  gli  altri  articoli  dettati  quando  comparvero  i  Brani  son  segnalabili  in  particolar  guisa  quello  di  Fedet.k  Bojiani,  La  prima  minuta  dei  Promessi  Sposi,  nel  Marzocco,  XI,  5  ed  anche  a  parte  in  un  elegante  estrattino,  e  quello  di  Vittorio  Osimo,  La  prima  stesura  dei  Promessi  Imposi,  nell'Acanti  della  Domenica,  27  agosto  1905,  ristampato  nel  volumetto  Studi  e  profili,  Milano-Palermo,  Sandron,  1905,  pp.  54  sgg.  La  .più  estesa,  peraltro,  e  rilevante  di  tutte  le  analisi  dei  Brani  inediti,  resta  quella  che  F.  D  Ovidio inserì  nel  volume  dei  Xuori  studi  manzoniani,  villano,  Hoepli,  1908.    Tra  le  molte  particolari  considerazioni  suggerite da  quel  libro,  vogliono  essere  ricordate  ed  apprezzate  quelle  di  Attilio  Momigliano,  Perchè  Don  Bodrigo  muore  sul  suo  giaciglio?,  negli  Atti  della  B.  Accademia  delle  scienze  di  Torino, XL  (1905 j  e  La  rivelazione  del  roto  di  Lucia,  nel  Giornale  storico,  L,  116  sgg.  e  l'altra  di  Luigi  Fassò,  Padre  Cristoforo  balordo,  nel  Giorn.  storico,  LI,  257  sgg.    Le  obiezioni  che  mi  furono  mosse  non  hanno  menomamente  alterato  i  miei  convincimenti  rispetto  alle  ragioni,  alquanto  complesse,  per  cui  il  Manzoni  abbreviò  l'episodio  della  Signora.  Vedi  Achille  Pellizzaki,  77  delitto  della  Signora,  Città  di  Castello,  1907  e  Antonietta  Cajafa,  La  Signora  di  Monza  nella  storia  e  nell'arte,  Eoma,  1907,  e  ciò  che  io  ne  scrissi  nel  Giornale,  storico,  L,  223-24.  Si  confronti  pure  l'esame  che  fa  del  quesito  G.  Bito  I  PROMESSI  SPOSI  IN  FORMAZIONE    IDI    liNnuu'j  nella  Bass.  crit.  della  letter.  italiana,  XII,  202  sgg.    Per  Don  Ferrante  è  da  vedere  Giuseppe  d'Ansa,  L'umorismo  di  Don  Ferrante  ìlei  «  Brani  inediti  ■,  in  Fan  filila  della  Domenica. XXIX  (1907),  n.  31,  nonché  AKTtrno  Pompeati,  A  proposito  rli  Don  Ferrante,  nella  Rirista  abruzzese,  XXII  11907),  52J)  sgg.  Dell'  opuscolo  di  Evabisto  Marsili,  Don  Ferrante  nei  Promessi  Sposi,  Città  di  Castello,  Lapi,  1907  conosco  solo  il  titolo.    Per  lo  studio  dei  nomi  dati  dal  Manzoni  a'  suoi  personaggi,  eccellente lo  studio  di  Felice  Scolari,  Xomi,  cot/nomi  e  soprannomi nei  Promessi  Sposi,  Milano.  De  Mohr,  1908.    La  vecchia  "  Antologia  ...    Anche  alla  storia  del  giornalismo  italiano  si  cominciano  a  porre  seriamente  le  basi.  Di  questa che  a'  tempi  nostri  diventò  una  forza  cosi  poderosa,  i  veri  precursori  son  noti  ;  spiriti  bizzarri e  scapigliati  del  cinquecento,  Pietro  Aretino, il  Giovio,  il  Doni.  Ma  fu  nei  due  secoli  successivi, principiando  dal  romano  Giornate  dei  letterati,  apparso  nel  1668,  che  il  giornalismo  ubbidì  alle  tendenze  positive  scientifiche  ed  erudite, passate  dallo  sperimentalismo  galileiano  nelle  indagini  di  storia  e  di  critica.  Vi  rifulsero  uomini  del  valore  di  L.  A.  Muratori,  dei  due  Zeno,  di  Scipione  Maffei,  dello  Zaccaria,  del  Tiraboschi.  La  storia  esterna  di  quel  giornalismo  erudito  accademico  fu  già  tracciata  (').   Ma  quella  non  era  ancora  rivelazione  di  spinti nuovi,  a  provocare  la  quale  giovarono  particolarmente nuove  visioni  del  progresso  e  nuovi Da  Luigi  Piccioni  nel  I  volume  dell'opera  7/  giornalismo letterario  in  Italia,  Torino,  Loescher,  1804,  su  cui  son  da  vedere  A.  D'Ancona  nella  sua  Rassegna  bibliografica,  II,  27H  e  V.  Gian  nel  (riorn.  storico  della  leti,  italiana,  XXV,  98.  11  II  volume  dell'opera  non  venne  mai,  perchè  il  Piccioni,  datosi, a  motivo  di  esso,  a  studiare  il  Baretti,  s'invaghì  di  quel  soggetto  e  scrisse  un  grosso  e  utile  libro  di  Studi  e  ricerche  su  ti.  Baretti,  Livorno,  Giusti,  1899.    Rkxier  Svaghi  Critici    13    LA  VECCHIA  ANTOLOGIA    indirizzi  della  critica,  maturatisi  segnatamente  in  Francia  ed  in  Inghilterra.  Nella  seconda  metà  del  diciottesimo  secolo  ecco  abbiamo  l'Osservatore di  Gaspare  Gozzi,  atteggiato  su  modello  inglese ad  arguta  moralità  e  civiltà  di  costumi  (');  la  Frusta  letteraria  del  Baretti,  tutta  fremiti  di  rivolta  ai  vecchiumi  arcadici,  alle  erudizioni  insulse,  alle  vanità  ciarliere  degli  accademici,  tutta  presentimenti,  pur  di  mezzo  a  qualche  solenne cantonata,  d'innovazione  salutare  del  pensiero letterario;  il  Caffè  milanese  dei  Verri,  che,  pur  non  scostandosi  fondamentalmente  dal  tipo  inglese  dello  Spectator,  dava  particolare  risalto  alla  filosofìa  pratica  ed  all'economia,  intonandosi a  parecchie  fra  le  idee  che  in  Francia  avrebbero maturata  la  grande  rivoluzione  (*).  Per  tal  guisa  la  rivista  letteraria  si  veniva  sempre  meglio preparando  ad  essere  agone  di  lotte  intellettuali ed  a  rispecchiare  le  aspirazioni  politiche  e  sociali  dei  tempi  nuovi.  Nei  primi  decennii  del  secolo  decimonono,  ogni  cosa  in  Italia  diventava politica,  perchè  alla  politica  s'appuntavano le  aspirazioni  di  tutti  gli  ingegni  più  eletti,  di  tutti  i  cuori  più  fervidi.  La  lotta  tra  il  foglio  azzurro  dei  romantici,  il  Conciliatore, I  rapporti  dell'  Osservatore  col  suo  modello  britannico,  lo  Spectator  di  G.  Addison,  furono  dapprima  studiati  da  Giacomo Zanella,  poi  da  Pia  Treves  (ora  signora  Sartori;,  finalmente da  Carlo  Segrè.   (2.)  Egregiamente  vagliò  le  idee  di  quel  giornale  Luigi  Ferrari, nella  dissertazione  Dei    Caffè',  periodico  milanese  dei  sec.  XVIII,  Pisa,  bistri,  ltf&t.    LA  VECCHIA  ANTOLOGIA    105    vissuto  nel  1818-19,  e  La  biblioteca  italiana,  cominciata  a  venir  fuori  nel  1816  e  diretta  da  Giuseppe  Acerbi,  è  lotta  eminentemente  politica; ma  sarebbe  tempo  ormai  di  riconoscere  che,  come  organismo  di  giornale  ed  all'infuori  della  santa  causa  da  esso  patrocinata,  il  Conciliatore non  valeva  gran  che  ('),  mentre  la  Bililioteca  italiana,  quando  si  faccia  astrazione   dall'indirizzo  politico  asservito  all'Austria,  fu  una  rivista  notevolissima  ed  egregiamente  redatta (*.).  Con  ben  altro  intuito  giornalistico,  con  ben  altra  abilità  e  profondità  che  il  Conciliatore, fu  diretta  e  scritta  la  nuova  rivista  che  un  ginevrino  di  larga  coltura  fondò  a  Firenze  nel  1821  e  intitolò  Antologia.  La  tenacia  singolare, lo  spinto  di  abnegazione,  la  prudenza  e   CI)  Nonostante  l'innegabile  arruffio  di  idee  e  di  cose,  resta però  sempre,  per  ciò  che  spetta  ai  fatti,  una  fonte  ragguardevole il  volume  di  Cesare  Cauti  ;,  II  Conciliatore  e  i  carbonari, Milano,  Treves,  1878.  Senza  aggiungere  novità  quanto  ai  fatti,  analizzò  gli  spiriti  del  foglio  azzurro  Edmondo  Clehicì  nella  sua  memoria  11  Conciliatore  periodico  milanese,  Pisa.  3s it-tri,  1903,  memoria  condotta  con  diligenza,  ma  che  sa  ancora troppo  di  lavoro  scolastico. Una  vera  storia  della  Biblioteca  ancor  si  desidera,  e  la  naturale  antipatia  che  inspira  la  sua  tendenza  fece  velo  anche ull'apprezzamento  di  studiosi  bene  informati  e  autorevoli.  I  migliori  e  più  obbiettivi  contributi  a  codesta  storia  sono  quelli  dati  da  A.  Luzio  nel  1806,  con  l'inserire  nella  S.  Antologia e  nella  cessata  Biviata  storica  (lei  Risorgimento  italiano  articoli  e  documenti  che  illustrano  in  ispecie  l'attività  dell'Acerbi e  ce  la  mostrano  sotto  una  luce  diversa  da  quella  che  sinora  prevalse.  Vedi  anche  Eugenia  Montanari,  Per  la  atoria  della    Biblioteca  italiana  »,  nella  Miscellanea  di  studi  critici  pubblicati  in  onore  di  Guido  Mazzoni,  Firenze,  1907,  II,  361  sgg.      l'oculatezza  (li  quello  straniero  che  divmnc  per  elezione  italiano,  fecero  vivere,  in  mezzo  ad  ostacoli  di  012,11  i  genere.  Y Aiìtolngin  per  dodici  anni.  Le  vicende  di  quella  rivista,  sorta  come  per  incanto  in  una  regione  di  antica  civiltà,  ma  frolla  e  pettegola,  in  mezzo  alla  sciopera  tagline  miserevole di  quei  Stigcjiafori.  di  quei  Jiarcac/lHnri,  di  quei  Yufitintorì.  o  come  altro  .si  chiamassero;  le  vicende,  dico,  di  quella  rivista  sbozzò  già  col  suo  fare  nervoso  e  concettoso  uno  dei  massimi  suoi  cooperatori.  Niccolò  Tommaseo,  commemorando Gian  Pietro  Vieusseux;  ma  nessuno  finora  ne  aveva  discorso  paratamente  e  con  la  debita  cura  f>.  Questo  ha  fatto  testé,  in  un  volume  sommamente  encomiabile  per  il  metodo,  per  il  giudizio  e  per  l'economia.  Paolo  Prunas  2,  autore, anni  .sono,  di  una  meli  matura  opera  sul  Tommaseo  i3),  hi  (piale  certo  gli  inspirò  l'ottimo  proposito  di  tessere  una  buona  volta  e  definitivamente la  storia  della  rivista  fiorentina  i  .  Dico    1 1 1  Giova  rammentare  che  uh  capitoletto,  il  nono,  ile  Ilo  scritto  citato  elei  Clerici  sul  logia  considerata  come  continuarne»?  delle  idee  che  il  foglio  lombardo  propugnava.   i'2t  L'Antologia  ili  Gian  Pietro  \'ieits*nt.r,  Roma-Milano.  Società editrice  Dante  Alighieri,  liKUi.  Il  volitine  appartiene  alla  Hihlio/rra  s/ori'-a  dei  rinorgimento  italiano,  e  come  tutta  quella  collezione  benemerita  lascia  non  poco  a  desiderare  nella  correzione tipografica.   i3)  /.fi  rrìtira.  l'arte  e  i'ith.a  sociale,  ili  Xirrotò  Tontmaseo,  Firenze. Seeher.  I!l01.   i  li  11  primo  capitolo  di  questa  storia,  in  forma  alquanto  diversa  da  quella  che  ha  oggi,  comparve  già  nella  Jiaxsegna  nazionale  del  1"  luglio  1SJ03,  col  proposito  di  trattare  le  origini dell'  Antologia.  ■fìititir(tiitente  con  la  maggiore  soddisfazione  i-oii  piena  sicurezza,  fiacche  se  anche  avliga  (e  sani  facile)  clic  altri  aggiunga  qualche  ■miiento  nuovo  i  ')  o  chiarisca  con  nuove  in—  idilli  qualche  particolare  mcn  noto,  il  liei  li-,  i  del  Prunai  resterà  sempre  la  prima  e  l' ulula storia  complessiva  dv\Y Antologia  di  Firenze,  indotta  non  solo  sullo  spoglio  coscienzioso  ed  !  ■■Iligente  dei  4S  volumi  del  periodico,  ma  sulle  le  del  Yieusseiix.  sui  suoi  appunti,  sui  donneati numerosissimi  dell'Archivio  di  Stato  fiondilo, su  esplorazioni  di  più  archivi  privati,  -ii  trentamila  lettere  di  amici  (scusate  se  son  n-hine!  indirizzate  all'infaticabile  ginevrino  che  I  .ini"  e  diresse  il  grande  periodico.  E  quel  che  urna  a  massima  lode  del  Prunas,  in  tanta  con.  i  ic  ili  materia  prima,  pericolo  più  che  beneficili a  lauti  a u torelli  inesperti  o  mal  dotati  o  male  avviati,  egli  volle  e  seppe  orientarsi  in  umili i  del  tutto  plausibile,  volle  e  seppe  dar  ri>  ho  ai  tatti  essenziali,  giovandosi  dei  secondari a  lumeggiarli:  in  una  parola,  fece  un  libri   organico  come  pochi  san  fare,  esauriente  senza  essere  stucchevole,  minuto  senza  essere  prolisso.    I  IJ l'ima  ili  licenziare  r  ili'l  liuim  profitto  che  già  trasse,  per  completare  la  stoini ilt-H'  litluìiìt/iti.  l'amico  mio  Vittorio  C'iau  dal  carteggio  del    in  col  |it-iinlista  e  letterato  di  Pisa  Giovanni  Carini ■ruuili.  si  :  imbuiti  lo  scritto  La  prima  rifiuta  italiana,  nella  \ittuu  Antuìoijiti.  J-1  agosto  lilOb.    198    I„4   VECCHIA  ANTOLOGIA    L'idea  di  dotare  l'Italia  di  una  rivista  di  coltura emulante  i  celebri  modelli  inglesi,  particolarmente la  gloriosa  Edimburgh  Heview,  fu  dapprima concepita  a  Londra  nel  1819  da  Gino  Capponi,  il  quale  ne  aveva  anche  steso  il  progetto che,  come  dimostra  il  Pruaas,  equivaleva  nelle  linee  essenziali  a  quell'abbozzo  di  programma di  giornale  letterario  che  fino  dal  1815  aveva  redatto  Ugo  Foscolo.  Ma  nel  Capponi,  idealista  irresoluto,  difettava  una  gran  dote  per  fondare  e  continuare  una  rivista,  l'intelletto  pratico deciso  e  tenace;  sicché  fu  una  fortuna  che  egli  non  giungesse  a  colorire  il  suo  disegno,  ma  anzi  con  nobile  disinteresse  si  acconciasse  ad  appoggiare  quello  del  Vieusseux,  che  appunto  nel  1819  aveva  fondato  in  Firenze  il  celebre  gabinetto di  lettura  nel  vecchio  palazzo  dei  Buondelmonti  sulla  piazzetta  di  Santa  Trinità,  ed  amava  di  farsi  editore  di  una  rivista,  che  raggruppasse intorno  a    le  forze  intellettuali  d'Italia, le  mettesse  in  comunicazione  fra  loro,  e,  facendo conoscere  il  buono  ed  il  meglio  di  ciò  che  si  pensava  presso  i  popoli  europei  più  evoluti,  desse  efficace  incremento  alla  coltura  della  penisola, preparando  idealmente  quella  unificazione  a  cui  miravano  politicamente  gli  intelletti  più  elevati.  Spirito  equilibrato  e  colto,  anima  innamorata d'ogni  cosa  buona,  liberale  e  mite,  il  Vieusseux  fece  il  miracolo  di  smercanteggiarsi  diventando  editore,  forse  perchè  dell'origine  mer  LA  VECCHIA  ANTOLOGIA    199    fantesca  possedeva  le  qualità  pratiche,  ma  non  la  caratteristica  sete  del  guadagno.   L' Antologia,  il  cui  programma  ebbe  divulgazione nel  settembre  del  1820,  differiva  dal  modulo ideato  dal  Capponi.  Il  tipo  di  essa  non  era  inglese,  ma  piuttosto  francese,  come  voleva  l'origine e  l'educazione  del  Vieusseux.  L'esemplare  più  imitato  era  la  Reme  encyclopèdique  fondata di  fresco  a  Parigi  da  Marcantonio  Jullien,  con  la  differenza  che  dapprima  il  periodico  italiano si  proponeva  di  trattenere  il  pubblico  sulle  questioni  più  ardenti  per  via  di  versioni  e  di  riassunti  d'articoli  e  di  libri  stranieri.  Tenuta  entro  questi  limiti  modesti,  anzi  umili,  {'Antologia non  avrebbe  certo  potuto  rappresentare  quello  che.  dipoi  rappresentò  nel  pensiero  italiano; ma  ben  presto,  fin  dal  terzo  quaderno,  cominciarono gli  articoli  originali,  che  in  sul  principio s'aggirarono  sulla  questione  della  lingua,  alla  quale  gli  italiani  presero  sempre  interesse,  e  poi  si  estesero  ad  altre,  svariatissime  materie:  arti,  scienze,  geografia,  storia,  questioni  sociali,  agricole,  economiche,  letteratura,  istruzione,  educazione. Il  periodico  guadagnò  sempre  più  una  personalità  propria  distinta  od  originale,  tantoché nel  1830  il  direttore  ne  escluse  le  traduzioni.  Uomini  di  opinioni  svariatissime  erano  chiamati  a  scrivervi,  e  l'abilità  somma  del  Vieusseux  consisteva nel  fare  in  modo  che  di  mezzo  a  quel  vario  pensare  e  scrivere  un  principio  unico  prevalesse, quello  della  italianità.  Tale  intento  nazionale del  periodico  fu  la  sua  vera  gloria.  Esso    ■200    LA  VECCHIA  ANTOLOGIA    rappresentava  veramente  tendenze  più  elette,  i  bisogni,  la  vita  letteraria  e  scientifica  della  nazione, abbracciava  in  un  solo  affetto  i  vicini  e  i  lontani,  era  strumento  di  conciliazione  assai  più  di  quello  che  il  Conciliatore,  nella  sua  vita  breve  ed  effimera,  avesse,  potuto  neppur  sognare  di  essere.  Timidi  parevano  all'anima  agitatrice  di  Giuseppe  Mazzini  gli  scrittori  dell'Antologia,    si  può  dire  che,  in  fondo,  avesse  torto.  Ma  in  questa  medesima  timidità  era  un  punto  di  programma  nella  mente  accorta  del  fondatore  e  direttore,  il  quale  ben  vedeva  che  una  maggiore arditezza  avrebbe  sollevato  subito  sospetti  e  sarebbe  stata  motivo  di  una  disastrosa  catastrofe. Non  evitò  morte  violenta  neppure  a  quel  modo,  ma  pur  potè  l'esistere  dodici  anni.  Inoltre, quel  medesimo  intento  di  provvida  conciliazione lo  costringeva  a  schivare  ogni  scritto  troppo  ardito  e  violento,  che  avrebbe  potuto  alienare  cooperatori  disposti,  nelle  loro  idee,  a  temperanza,  e  quella  gran  pai-te  di  pubblico  a  cui  non  son  date  le  ali  per  seguire  i  voli  troppo  eccelsi  e  che  si  ricantuccia  imbronciata,  seppure  indispettita  non  indietreggi,  a  tuttociò  che  le  sappia  di  paradosso.  Modernità  amava  il  Vieusseux,  e  nell'organo  da  lui  diretto  se  ne  scorgevano specialmente  i  principii  in  quel  che  riguarda la  storia,  l'economia  pubblica,  l'incremento dato  al  danteggiare,  siccome  ritorno  ad  un  grande  scrittore  degnamente  raffigurante  la  patria;  ma  la  modernità  non  voleva  sconfinasse    antivenisse  le  esigenze  dei  tempi:  basta,  a  questo  proposito,  l'osservare  in  quali  limiti  si  mantenesse  rispetto  al  romanticismo,  che  era  ammesso  si  e  riconosciuto,  ma  in  quel  modo  temperato,  con  quasi  tutte  quelle  restrizioni  che  poneva  nello  accoglierlo  il  Manzoni.  Voleva  il  mite  ginevrino  che  l'Italia  s'avviasse  al  suo  risorgimento con  l'estendersi  della  coltura  moderna,  col  comunicarsi  degli  spiriti,  con  l'affratellarsi  delle  regioni  lontane  e  politicamente  divise,  non  coi  mezzi  violenti    delle  sette    delle  rivolte.   Bello  è  poi  l'osservare  come  alla  vitalità  sempre crescente  di  quell'organo  di  divulgazione  intellettuale  cooperassero  i  convegni  del  palazzo  Buondelmonti.  Nelle  sale  di  quel  gabinetto  di  lettura,  che  il  Prunas  ci  riapre  d'innanzi  con  la  scorta  dei  numerosi  carteggi  e  delle  Memorie  inedite  del  Pieri,  si  raccoglieva  non  solo  quanto  avea  di  più  eletto  Firenze,  ma  convenivano  i  molti  italiani  e  stranieri,  che  in  quella  città  erano  di  passaggio,  attrattivi  dalla  fama  'del  luogo  e  dal  tatto  squisito  e  dalla  cortesia  non  mai  smentita del  fondatore.  Molte  volte  le  radunanze  del  circolo  (alcune  delle  quali,  come  quella  del  settembre 1827  in  cui  fu  festeggiato  il  Manzoni,  riuscirono solenni)  erano  il  primo  incentivo  a  scrivere articoli,  ovvero  erano  palestra  in  cui  nobili  ingegni  discutevano  ciò  che  nel  1'. 4 litologia  si  stampava;  dimodoché  al  sodalizio  delle  anime  contribuivano  in  ugual  misura  i  convegni  e  la  rivista. Raro  accadde  che  un  periodico  avesse  l'onore d'esercitare  una  così  alta  e  benefica  influenza  d'affiivtellamento  e  di  scambio  intellettuale.    202  LA  VECCHIA  ANTOLOGIA   TI  Prunas  passa  in  rassegna  tutti  gli  scrittori  dell  'A  n  tolng  irì  e  di  tutti  sa  darci  informazioni  preciso,  e  nou  di  rado  nuove  e  curiose  (').  Ci  passano  d  innanzi  i  più  bei  nomi  che  in  quelli  anni  onorassero  gli  studi  fra  noi;  a  trattenerci  più  specialmente  sui  letterati,  Gino  Capponi,  Enrico Mayer,  Urbano  Lampredi,  6.  B.  Niecolini  (che  scrisse  poco,  perchè  nell'immenso  suo  orgoglio gli  parve  di  non  essere  abbastanza  apprezzato dal  Vieusseux,  al  quale  usò,  come  a  tanti  altri,  degli  sgarbij,  Ugo  Foscolo,  Giuseppe  Montani (colonna  e  cireneo  dell'Antologia  dal  '2'2  in  poii,  Cesare  Lucchesini,  Sebastiano  Ciampi,  Pietro Giordani  (alla  cui  pigrizia  i  pungoli  del  direttore non  bastavano),  Pietro  Colletta,  Andrea  Mustoxidi,  Carlo  Botta,  Giovanni  Carmignani,  Silvestro  Centofanti,  Raffaele  Lambrusehini,  Terenzio Mamiani.  Luigi  Fornaciai!,  Giuseppe  Grassi,  Giacomo  Leopardi,  Niccolò  Tommaseo,  Giuseppe  Mazzini.  Quest'ultimo  onorò  l'Antologia con  quel  suo  mirabile  scritto  Di  una  letteratura europea,  troppo  alto  per  essere  inteso  dalle  menti  comuni  dei  letterati  d'allora  (fossero  anche  della  stregua  di  quella  del  Giordani),  ma  che  in    chiudeva  il  presagio  d'un'intelligenza  divinatoria.  II  Leopardi  diede  all'  Antologia  tre  dialoghi  delle  sue  Operette  morali,  di  cui  i  buoni  intenditori  riconobbero  il  profondo  significato  filosofico, celato  sotto  l'ironia  apparentemente  leg  Cl)  In  un  utile  elenco,  che  è  a  p.  435  del  volume,  egli  spiega  anche  le  sigle,  le  iniziali  e  gli  pseudonimi  con  cui  sono  contrassegnati molti  articoli.    LA  VECCHIA  ANTOLOGIA    203    gera.  Il  Tommaseo,  chiamato  a  Firenze  dal  Vieusseux e  divenuto  suo  cooperatore  assiduo,  si  valse  d'ordinario  nella  rivista  della  sigla  K.  X.  Y.,  e  vi  scrisse  molte  cose  significanti,  esercitandovi  quella  sua  critica  penetrante  e  caustica,  anzi  acida,  che  talvolta  dava  in  fallo,  ma  più  spesso,  anche  esorbitando  e  pungendo,  sapea  dire  con  esemplare  schiettezza  tante  verità.  Con  lui  il  Vieusseux  era  spesso  rudemente  franco,  come  richiedeva  l'indole  dell'uomo;  ma  lo  stimava  assai e  non  si  formalizzava  punto  se  altri  collaboratori, irritati  dai  suoi  giudizi  recisi,  lo  chiamavano bestia  o  bue,  o,  con  maggiore  novità  spiritosa  di  epiteto,  onagro.   Gran  pazienza,  del  resto,  quella  del  Vieusseux,  a  procurare  che  non  si  sbranassero  a  vicenda,  a  maggior  gloria  dell'Italia  unita  futura,  tutti  quelli  illustri  campioni  dell'irritabile  génus!  Solo  chi  abbia  diretto  una  rivista  letteraria,  e  più  specialmente  critica,  può  formarsi  idea  giusta  delle  pene  a  cui  andava  incontro,  tanto  maggiori quanto  più  egli  voleva,  in  un  certo  senso,  serbare  al  suo  giornale  un  certo  carattere  eclettico. Quando  una  rivista  ha  un  programma  ben  definito  e  non  decampa  da  certi  principii  e  da  certi  metodi,  vi  collaborano  coloro  che  a  quei"  principii  e  a  quei  metodi  aderiscono,  e  gli  altri  stan  fuori,  e  poco  importa  se  applaudano  o  fischino. Ma  allorché  una  rivista,  come  era  il  caso  dell'Antologia,  intende  riunire  sotto  una  mededesima  bandiera  e  far  cospirare  allo  stesso  intento forze  e  tempre  del  tutto  diverse,  e  non    204    LA  VECCHIA  ANTOLOGIA    vuole  (come  oggi  fanno  le  più  tra  le  riviste  divulgative) rimpannucciarsi  nella  veste  comoda  di  Arlecchino,  offrendo  lo  spettacolo  dei  magazzini inglesi,  aperti  ad  ogni  merce  purché  sia  di  moda,  ad  ogni  nome  purché  accresca  i  proventi con  lo  stuzzichino  deWattuatità;  quando  non  si  voglia  abbassare,  in  una  parola,  una  rivista al  livello  volgare  d'un'intrapresa  industriale, ma  serbarne  sempre  alto  il  carattere  di  propagatrice  della  buona  coltura,  di  vindice  di  idee  temperatamente  moderne,  d'organo  sincero  e  imparziale  di  censura  e  d'encomio,  oh  allora  c'è  da  trovarsi  fra  i  triboli  d'una  lotta  incessante,  ora  a  mazzate,  ora  a  colpi  di  spillo.  Da  buon  schermitore  il  Vieusseux  sapeva  parare  le  une  e  opporre  ai  secondi  un'epidermide  di  rinoceronte. Contro  la  sua  longanimità  fenomenale  le  mille  bizze»,  i  mille  risentimenti  degli  scrittorelli  e  degli  scrittoroui  finivano  con  lo  spuntarsi,  fossero pure,  nonché  le  ridicole  contumelie  di  una  pretensionosa  nullità  come  il  Rosini,  o  d'una  ciana  sghangherata  e  maligna  come  il  Pieri,  anche i  veleni  dell'irritabile  e  arcigno  Niccolini.  Ma  a  quel  martirio  il  pover'uomo  pur  non  era  corazzato  al  punto  da  non  sentirne  talvolta  fiera,  nel  più  segreto  dell'animo,  la  ferita  sanguinante. L'aver  saputo  sempre  resistere  e  tirare  innanzi,  senza  far  motto,  col  sorriso  sul  volto  argutamente  bonario,  senza  piegare,  con  l'occhio fisso  al  grande  ideale  della  patria  da  ricostituire, questo,  questo  è  un  merito  che  pone  il  Vieusseux  al  livello  dei  più  insigni  fattori  dell'unità italiana.    LA  VECCHIA  ANTOLOGIA    205    *   E  avesse  solo  avuto  a  combattere  con  la  suscettività esagerata  e  con  le  bizze  irragionevoli  degli  scrittori!  Ben  filtri  e  non  minori  ostacoli  gli  opponevano  l'apatia  egoista  del  pubblico  mal  preparato,  la  sospettosità  dei  governi,  le  difficoltà delle  comunicazioni,  e,  segnatamente  negli  ultimi  anni,  la  censura.  Di  queste  delizie  i  giornalisti d'oggi,  per  loro  fortuna,  non  hanno  ad  assaporarne.   Senza  grandi  mezzi,  egli  si  mise  all'opera  costosa con  un  coraggio  ammirevole.  Complimenti  gliene  vennero  molti,  sin  dai  primi  quaderni  dell' Antologia,  dai  letterati  d'Italia;  ma  quattrini  pochi.  Per  quanto  la  mano  d'opera  tipografica  non  costasse  allora  gran  che  fnè  la  veste  dell'.-ljitologia  era  certo  suntuosa),  con  meno  di  cento  associati  non  si  giungeva  a  fronteggiare  le  spese.  L' Antologia,  nei  primi  tempi,  non  ne  contava  di  più.  E  si  noti  che  le  spedizioni  ed  i  dazi  importavano aggravi  di  cui  noi  oggi  non  abbiamo  neppure  l'idea:  s'imagiui  che  ogni  quaderno  spedito nel  Belgio  costava  più  di  cinque  lire,  ed  il  dazio  per  gl'invìi  nel  Regno  di  Napoli  era  cosi  grave  che  l'editore  avea  dovuto  ricorrere  allo  spediente  di  non  mandarvi  la  rivista  se  non  a  volume  finito.  Neppure  nei  giorni  più  doridi  della  sua  esistenza  V Antologia  non  oltrepassò  i  530  associati,  sicché  il  Vieusseux,  con  tutta  la  fatica  che  vi  spendeva  intorno,  anziché  ricavarne  utile,  ci  rimetteva  quasi  del  suo.  Nel  Napoletano  an  206    LA  VECCHIA  ANTOLOGIA    davano  cinque  copie;  nel  Lombardo-Veneto  quaranta. Di  questo  strano  disinteresse  la  colpa  principale l'aveva  la  censura.  Ogni  momento  gli  associati non  ricevevano  l'uno  o  l'altro  quaderno,  perchè  le  censure  diverse  lo  intercettavano.  In  Piemonte  si  giunse  addirittura  a  proibire  V Antologia, e  solo  lunghe  insistenze  fecero  togliere  la  proibizione.  Frattanto  la  rivista  era  sequestrata a  Palermo.  Insomma,  vessazioni  tali  e  così  continue  in  ogni  parte,  che  il  giornale  non  poteva espandersi  liberamente.   In  Toscana  dapprima  la  censura  fu  mite,  ma  dopo  il  '30  rincrudì  e  poco  appresso  infieri,  per  le  pratiche  caritatevoli  proseguite  da  governi  vicini,  meno  remissivi  di  quello  di  Leopoldo  IL  Un  miserabile  spione  posto  dalla  polizia  ai  fianchi del  Vieusseux,  Pietro  Brighenti,  riuscì  a  conquistarsi la  sua  fiducia  come  si  era  cattivato  l'amicizia  del  Leopardi.  Quel  malvagio  ascoltava  e  rifischiava.  Egli  era  giunto  a  formarsi  l'idea,  e  ad  esprimerla,  che  il  Vieusseux  fosse  «  centro  del  liberalismo  di  tutta  Firenze  ».  Non  avea  torto  davvero  il  mariuolo;  ma  questa  voce,  giunta  agli  orecchi  di  chi  stava  vigilando  pauroso  di  tutto,  doveva  acuire  sempre  maggiormente  gli  sguardi  dei  censori  toscani.  Allora  si  cominciò  a  scorgere quali  sentimenti  e  quali  ideo  covassero  in  articoli  apparentemente  innocui.  «  Non  v'ha  quasi  pagina  in  cui  non  si  parli  dell'amor  di  patria,  della  libertà,  ecc.  »,  scriveva  inorridendo  un  corrispondente milanese  del  Parenti.  Si  cominciarono pertanto  a  sopprimere  dalla  censura  mezzi articoli  e  talora  articoli  interi,  con  quanto  dispendio del  povero  editore  ognuno  può  imaginare.  Alcuni  fogli  reazionarii  modenesi,  segnatamente la  famigerata  Voce  della  verità,  considerarono come  una  loro  nobile  missione  il  venir smascherando  ogni  allusione  liberalesca  che  nell'Antologia  si  celasse,  il  che  provocò  richiami  polizieschi  e  diplomatici  da  parte  dell'Austria.  Finalmente  gli  ambasciatori  d'Austria  e  di  Russia chiesero  solennemente  la  punizione  di  due  scrittori  anonimi  dell'  Antologia,  che  avevano  ardito  accennare,  sotto  molti  veli,  alle  condizioni deplorevoli  del  Lombardo- Veneto  e  della  Polonia.  Furono  fatte  pratiche  presso  il  Vieusseux  perchè  svelasse  i  nomi  di  quelli  scrittori.  Il  Vieusseux  non  volle  dirli,  e  nel  marzo  del  1833  V Antologia  era  soppressa.  Per  quante  pratiche si  facessero,  per  quante  intei'posizioni  si  usassero,  la  soppressione  fu  mantenuta;  il  debole governo  toscano  aveva  troppa  paura  degli  artigli  dell'aquila  bicipite.  A  che  non  risorgesse  la  nobile  rivista  fiorentina,  malgrado  gli  sforzi  d'ogni  genere  fatti  dal  povero  Vieusseux,  contribuirono poi  ancora  con  velenose  insinuazioni  i  giornali  legittimisti  di  Modena,  la  cui  azione  fu  davvero  delle  più  svergognate  in  questa  feroce quanto  insidiosa  demolizione        Il  Vieus (1)  Purtroppo  in  quelle  brutte  mene  ebbe  parte  anche  un  valentuomo,  di  cui  è  molto  rispetftibile  la  dottrina,  Marcantonio Parenti.  Leggasi  in  proposito  l'articolo  di  Eumosiio  Ci.kkici,  Le  polemù-Jie  intorno  all''  Antologìa  »,  nel  Giornale  storico  della  letteratura  italiana,  XLVIII  (1906),  387  sgg.    208    LA  VECCHIA  ANTOLOGIA    seux  dovette  rimaner  pago  a  proseguire  il  suo  gabinetto  ed  a  tenere  in  vita  il  Giornate  agrario. Miracolo  che  i  governi,  divenuti  ormai  infantilmente sospettosi,  non  scoprissero  la  serpe  del  liberalismo  anche  in  mezzo  a'  cavolfiore  ed  alle  carote!   La  narrazione  documentata  del  Prunas  è  feconda di  utili  ammaestramenti  e  ricostruisce  una  bella  pagina  di  quella  storia  del  Risorgimento nostro  politico,  che  si  viene  a  grado  a  grado  svelando  sempre  più  manifesta  ed  intera  agli  occhi  nostri.  Non  è  una  pagina  di  eroismo  sfolgorante  sul  campo  di  battaglia,  non  è  una.  pagina  di  trame  pericolose,  non  è  una  pagina  di  sommosse  cruenti;  ma  ormai  tutti  gli  esperti  e  i  sennati  sono  convinti  che  a  combattere  nel  modo  come  ha  combattuto  il  Vieusseux,  in  una  battaglia  di  intraprendenza,  di  tenacia,  di  accortezza, di  sacrifìcio,  col  proposito  di  fare  gli  italiani  prima  che  fosse  fatta  l'Italia,  ci  vuole  un  eroismo  più  calmo,  ma  non  meno  vivo  e  fecondo, di  quello  che  spinse  tanti  generosi  a  congiurare, a  battersi  con  forze  disuguali  col  nemico, a  cimentarsi  sulle  barricate.   Nota  aggiunta.    Nel  Fanfulla  della  domenica,  19  agosto  1D06.  A  rappresentare  la  temperie  intellettuale  e  morale  in  che  nacque  e  visse  V Antologia  valgono  le  conferenze,  di  valore  diverso,  raccolte  nel  volume  La  Toscana  alla  fine  del  Granducato, Firenze.  Barbèra.  15KX).    Gegia  Marchionni.    «  Due  occhi  cilestri,  una  bocca  ridente,  un  «  naso  epigrammatico,  una  fronte  serena,  una  «  bionda  chioma  ed  una  bianchissima  carnagione  «  da  far  invidia  a  madonna  Laura;  tutto  questo  «  animato  da  una  favella  toscana  la  più  pura,  «  da  un  discorso  ridondante  di  vezzi  poetici,  che  t  in  lei  erano  naturai  dono,  da  un'amabile  schiet«  tezza  che  talvolta  si  vestiva  di  frizzante  im«  pazienza,  da  una  rara  bontà  di  cuore  che  in  «  ogni  suo  atto  si  rivelava.  »   Cosi  descrive  il  Brofferio  la  Teresa  Bartolozzi,  la  quale  amava  chiamarsi  e  farsi  chiamare  Gegia  Marchionni  per  l'affetto  che  portava  alla  sua  cugina materna,  la  celebre  Carlotta  Marchionni.  Le  notizie  più  diffuse  che  sinora  si  abbiano,  anzi,  a  dir  propriamente,  le  uniche  notizie  riguardanti  questa  bizzarra  figura  della  Gegia,  sono  quelle  che  si  leggono  neh'  ottavo  volume  dei  Miei  tempi,  da  cui  il  Masi  trasse  profìtto  in  un  articolo  del  Fan  fui  la  della  domenica  (').  Il  Brofferio,  curioso  di  conoscere  qualche  particolare  intorno  alla  Gegia  ed  al  Pellico,  amico  di  famiglia,  s'era  riAn.  V,  1883,  n.  1.  Kkmsh  Svaghi  Critici    II    UEKIA   MARC  rlIONNI    volto  a  Carlotta.  che  In  compiaceva  subito  inviandogli alcuni  preziosi  documenti,  vale  a  dire  duo  lettore  innamoratissime  del  Pellico  alla  Gegia,  1  una  del  22  inumilo,  l'altra  del  20  luglio  ]X20,  e  ([uatfro  lettore  piene  di  ammirazione  e  di  affetto alla  Carlotta  medesima.  Di,  si  lamenta  poi  osservando  che  Gigliola, in  qualche  parte,  oscilla,  ondeggia,  è  dubitosa.  Ciò  non  mi  par  ragionevole;  anzi,  per  me,  Gigliola  è  fin  troppo  greca,  specialmente  nell'atto del  suicidio  espiatorio,  che  a  noi  moderni  pare  un  controsenso.  Non  per  niente  i  secoli  trascorsero  e  l'età  di  re  Borbone  Ferdinando  I  non  è    quella  di  Edipo    quella  degli  Atridi.  Sulla  Orestiade  passò  Amleto,    poteva  un  poeta  d'oggi,  sforzandosi  di  risentire  tragicamente  un  fatto  antico  e  di  rappresentare  tragicamente  una  figura  antica,  spogliarsi  interamente  della  sua  qualità  di  uomo  moderno.  La  volontà  ferma  e  diritta  di  Antigone,  che  contro  l'empio  decreto  di  Creonte    sepoltura  alla  misera  spoglia  del  fratello  Polinice,  è  passata  sin  troppo  in  Gigliola,  quando  oltre  al  resto  si  pensi  che  Antigone  esercita l'inflessibilità  del  suo  volere  nel  compiere  un'opera  pietosa,  mentre  Gigliola  nel  commettere un'uccisione.  Articolo  della  .V.  Antologia,  lfi  aprile  1905.    LA  FIACCOLA    249    E  sia  pure  l'uccisione  di  ima  mala  bestia,  d'una  bestia  selvaggia  senza  nome,  che  tutto  insozza  e  corrompe,  Angizia  Fura,  la  femmina  di  Luco.  Trascinata  dal  suo  perverso  istinto  ambizioso,  essa  ha  suscitato  nelle  carni  flaccide  del  padrone  Tibaldo  de  Sangro  la  libidine  ardente di  possederla,  s'è  disfatta  della  padrona,  Monica,  facendole  cadere  sul  collo,  tagliuola  orrenda,  il  coperchio  massiccio  d'un  cassone  nuziale e  cosi  soffocandola  in  quell'ordegno  di  morte  (');  e  ora  delinque  col  cognato  sanguigno  e  brutale,  e  ora  mina  con  le  misture  venefiche  la  tenue  esistenza  dell'adolescente  Simonetto.  In  una  parola;  un  mostro.  Non  giusto  ini  sembra  l'appunto  del  Corradini  che  trova  in  queir  Angizia una  specie  di  «  dilettantissimo  criminale  »  e  non  sa  spiegarsi  perchè  essa  voglia  la  morte  (inutile,  egli  dice)  del  giovinetto.  Data  la  natura mostruosa  di  quella  bestia,  tutta  la  sua  delittuosità procede  a  fi  1  di  logica.  Essa  vuole  spiantare  la  famiglia  intera  dei  Sangro,  e  comincia con  l'erede,  che  è  legato  d'un  sol  filo  alla  terra;  poi  si  può  giurare  che  attenterà  a  Gigliola  ed  al  marito,  perchè  vuole  arricchire    Codesta  morte  è  d'un  genere  che  potrebbe  piacere  ai  romanzieri  ed  ai  drammaturghi  russi.  Dicesi,  del  resto,  che  non  sia  sconosciuta  nelle  leggende  abruzzesi.  II  D'Annunzio  medesimo  ne  avea  già  fatto  una  crudissima  rappresentazione  in  certo  suo  vecchio  bozzetto,  La  madia,  Cfr.  oggi  Le  nocelle  ilella  Peni-ara,  Milano,  1902,  p.  381.  [Un  riscontro  antico,  di  Masuecio,  additò  il  mio  caro  discepolo  M.  A.  Garrone,  nella  Rivìnta  d'Italia  del  1908].  e  far  ricco  e  potente  il  suo  drudo,  Bertrando  Acclozamóra.  Se  non  che  questa  figura  non  ha  di  greco  nulla;  essa  ci  richiama  ad  altre  fonti,  ci  richiama,  anzi,  ad  una  fonte  che  non  so  se  sia  stata  avvertita  altrove,  ma  che  a  me,  sin  dalla  prima  audizione,  apparve  manifesta.  Alludo ad  uno  dei  capolavori  del  dramma  borghese nordico,  Fuhrmann  Henschel  di  Gherardo  Hauptmann.   Si  giudichi.  In  casa  del  vetturino  Henschel,  la  saggia  e  mite  moglie  di  lui  si  ammala,  langue  per  alcun  tempo  e  poi  muore,  lasciando  una  iìgliuola,  Gustla.  Il  marito,  che  alla  domestica  sana,  florida,  energica,  Hanne,  avea  già  fatto  l'occhiolino  dolce,  tantoché  Frau  Henschel  se  n'era  impensierita;  il  marito,  reso  vedovo,  un  paio  di  mesi  dopo  che  la  moglie  era  sotterra  sposa  la  serva.  Questa  trionfa  nell'amor  proprio appagato,  nella  sete  di  dominio  soddisfatta,  e  ben  presto  si  palesa  fredda,  egoista,  poco  deferente verso  il  marito.  La  piccola  Gustla,  non  molto  appresso,  viene  a  spirare.  Il  povero  vetturale affranto,  ridotto  a  mal  partito,  materialmente e  moralmente,  vuol  prendere  in  casa  una  bimba  che  Hanne  ha  avuto  illegittimamente  prima  di  congiungersi  a  lui,  Berthla.  Ma  Hanne  non  vuol  saperne  d'impicci,  impietrata  com'è  nella  sua  nequizia.  Un  brutto  giorno,  in  una  bettola,  lo  Henschel  si  sente  dire  in  faccia  dal  proprio  cognato,  con  cui  viene  a  parole,  che  sua  moglie ha  una  tresca  e  che  probabilmente  a  lei  si  deve  la  morte  della  sua  prima  compagna  e    LA  FIACCOLA    251    quella    Gustki.  Ciò  conduce  alla  catastrofe:  il  vetturale  tornato  a  casa  si  appende  per  la  gola.   Questa  lugubre  storia  non  ha  veri  antecedenti  drammatici,  salvo  in  una  novella  del  medesimo  Hauptmann,  Bahnwàrter  Thiel:  le  affinità  che  si  vollero  vedere  con  drammi  scandinavi  e  russi  sono  troppo  vaghe  (').  In  quella  parte  della  produzione  dello  Hauptmann  che  è  sinceramente  e  rudemente  realistica,  Fuhrmann  Renschel  è  l'opera  più  poderosa,  non  solo  per  logicità  serrata di  condotta,  ma  anche  per  originalità.  Nulla  di  più  agevole  ad  intendersi  che  sul  temperamento recettivo  del  D'Annunzio  essa  abbia  lasciato gagliarda  impressione  e  ch'egli,  nella  sua  facoltà  assimilativa  non  ordinaria,  abbia  innestato quella  favola  germanica  sul  vecchio  tronco  greco  delle  nitrici  fatali.  Angizia  è  una  variante di  Hanne;  serva  che  si  fa  padrona,  seducendo  il  padron  suo  ed  ammazzandone  la  moglie;  vipera  che  attossica  l'aria  nella  casa  diventata  sua,  e  senza  scrupoli,  insidiosamente,  tende  a  sbarazzarsi  d'ogni  ostacolo;  bestia  che  procura  la  rovina  di  quanto  la  circonda,  con  l'intento  di  sedersi  poi  essa  sui  ruderi,  trionfando e  gavazzando  immonda.   Per  tal  guisa,  all'impostatura  greca  della  tragedia s'allaccia  il  dramma  moderno,  saturo  di  Per  siffatte  affinità  e  per  l' analisi  più  particolareggiata  del  dramma,  è  da  vedere  il  garbato  libretto  di  C.  De  Lolms,  Geranio  Haiiptmann  e  l'opera  sua  letteraria,  Firenze,  1899,  pp.  170  sgg.,  ed  anche  nn  suo  articolo,  L'ultimo  dramma  di  (1.  Hauptmann,  nella  A.  Antologia  del  Iti  dicembre  1898.    252    LA  FIACCOLA    patologia.  Esso  influisce  anche  su  altri  personaggi, sulla  stessa  Gigliola,  che  ha  l'ossessione  d'una  monomaniaca,  come  certe  donne  dell'Ibsen,  come  certe  ligure  del  maggiore  fra  i  seguaci scandinavi  dell' Ibsen,  lo  Strindberg.  A  questo  gli  antichi  non  pensavano;  erano  troppo  sani.  Ed  è  pure  ricorrendo  a  quest'ordine  di  fatti  che  si  spiega  Tibaldo  de  Sangro,  un  cardiopatico floscio,  che  trova  la  violenza  del  nativo Abruzzo  e  la  cattiveria  acre  degli  istinti  primitivi  pervertiti  nella  sola  scena  terribile,  pur  tanto  evidente  nella  sua  fierezza,  dell'alterco col  fratello  Bertrando.  Nel  resto,  Tibaldo  è  un  indeciso,  è,  come  fu  detto  assai  felicemente dal  Corradini,  «  la  materia  frolla  che  sta  fra  le  due  eroine,  tra  la  volontà  del  delitto  e  quella  della  vendetta  » .  Ma  io  che  non  parto,  come  il  Corradini,  dal  preconcetto  per  cui  nel  teatro  tragico  dovrebbe  esservi  solamente  «  scultura che  si  muove  »,  io  non  posso  scandalizzarmi al  cospetto  di  quel  disgraziato  adiposo,  senza  sangue  e  senza  muscoli,  che  si  vede  crollar tutto  d'intorno,  tutto,  tutto,  irrimediabilmente.   Non  so  come  qualcuno  abbia  potuto  sospettare ch'egli  sia  complice  nel  delitto  per  cui  Monica lasciò  la  vita  nella  tagliuola.  Quest'è  una  sopraffina  e  premeditata  calunnia,  che  gli  lancia  in  volto  Angizia,  sicura  del  potere  che  ha  su  di  lui.  *  Sono  coperta  dal  tuo  padre;  due  siamo,  due  fummo  »,  esclama  ella  al  cospetto  di  Gigliola esterrefatta,  e  così  pensa,  la  scellerata,  di    LA  FIACCOLA    253    farsi  scudo  della  complicità  altrui  nel  delitto.  E  da  quel  momento  la  pace  di  Tibaldo  è  interamente perduta;  egli  si  vede  sospettato  e  reietto, dalla  figlia,  dalla  madre;  la  sua  meschina  anima  n'è  martoriata,  n'è  trascinata  alla  disperazione. La  disperazione  sola  può  fare  il  miracolo di  armargli  la  destra  e  d' indurlo  a  prevenire sulla  selvaggia  bestia,  cagione  di  tutti  i  mali,  la  vendetta  che  dovea  compiersi  per  le  mani  pure  di  Gigliola.  Il  vetturale  Henschel  ammazza sè:  Tibaldo  uccide  altri;  ma  nella  inderisione, come  nell'infelicità,  hanno  molti  punti  di  somiglianza,  per  quanto  può  essere  simile  un  barone  abruzzese  ad  un  popolano  tedesco.  I  parenti più  prossimi  di  Tibaldo  non  sono  certo  da  ricercarsi  in  Italia  e  molto  meno  in  Grecia;  ma  tra  le  brume  del  nord,  nel  teatro  ibseniano.   *   *  #   Un  terzo  elemento,  complesso  e  non  trascurabile, cooperò  alla  formazione  della  Fiaccola,  la  tradizione,  la  topografia,  gli  usi  paesani.  Anche qui  il  D'Annunzio  ha  saputo  profittare,  con  senso  d'arte  insuperato,  dei  tesori  offertigli  dal  suo  Abruzzo,  e  ciò  contribuisce  a  formale  lo  sfondo  del  suo  quadro  e  a  dar  vita  a  un  personaggio che  anche  i  più  scontenti  dovettero  ammirare.  Lo  sfondo,  che  talor  si  anima  e  incombe col  gravame  solenne  dei  secoli,  è  il  palazzo dei  Sangro;  il  personaggio  è  Edio  Fura  di  Forco,  il  serparo,  padre  sconfessato  e  maledicente  d'Angizia.    254    LA  FIACCOLA    Oli  quella  casa  baronale  dei  Sandro,  dominante il  paesello  di  Anversa,  nella  regione  degli  antichi  Peligni,  a  mezzodì,  oggi,  nella  provincia  dell'Aquila!  Le  casupole  di  Anversa,  appollaiate  sulla  rupe,  sembrali  pulcini  intorno  alla  chioccia, paurose  di  precipitare  nel  burrone  li  presso,  ove  scroscia  rabbioso  e  spumeggiante  il  Sagittario; in  lontananza  si  profila  la  Maiella  nevosa  (').  Gran  predilezione  ebbe  sempre  il  D'Annunzio  per  le  case  signorili  vetuste,  deserte,  cadenti.  Rammenterete,  nel  Trionfo  della  morte,  la  casa  degli  Aurispa,  a  Guardiagrele,  pure  al  cospetto  della  Maiella,  meno  grandiosa  certo  e  meno  consunta di  quella  dei  Sangro,  ma  ricettacolo  essa  pure  di  brutture,  di  violenze,  di  malattie,  d'insidie, ove  pure  scoppia  un  alterco  fra  due  fratelli, Giorgio  e  Diego,  che  si  detestano.  Rammenterete, nelle  Vergini  delle  rocce,  la  gran  villa  trasformata  di  rocca  feudale  che  prima  era,  conservante «  tuttavia  l'enormità  formidabile  delle  «  sue  mura  e  delle  sue  volte  su  cui  le  epoche  «  successive  avevano  lasciate  impronte  varie  di  «  arte  e  di  lusso,  talora  in  contrasto  e  talora  j?8,  duna  bambina,  quella  Jeanne  d'Albret,  che.  doveva essere  un  giorno  madre  di  Enrico  IV.  Margherita. «  donna  di  talento  e  di  saldezza  rara  »,  com'obbe  a  qualificarla  l'ambasciatore  veneto*  !iustiniani.  s'adoperò  in  tutte  guise  perchè  la  pace  domestica  non  tosse  turbata,  ed  all'amore  verso  il  fratello  sacrificò,  insieme,  il  suo  stesso  affetto  materno e  consenti  che  quell'unica  figliuola  (un  fanciullo, nato  di  poi.  non  visse  che  due  mesi)  le  fosse  strappata  ancor  tenera,  e  clic,  educata  lontana di  lei.  servisse  ai  disegni  politici  del  re  di  Francia.  Lungi  dal  serbargli  rancore  per  quell'alto crudele,  la  donna  sublime  continuò  ad  essere il  buon  genio  del  re  Francesco,  lo  sovvenne  nella  fondazione  del  Collegio  di  Francia,  lo  indirizzò nella  scelta  dei  professori,  si  studiò  d'inspirargli, come  sempre,  quella  tolleranza  religiosa  che  era  in  cima  ai  suoi  pensieri  e  da  cui  i  credenti s'allontanavano  allora,  come  ora,  cosi  di  frequenti*.  Quando  era  lasciata  libera  dalle  occupazioni presso  la  Corte  grande,  si  rifugiava  volentieri  nella  sua  pacifica  Corte  minuscola  del  Bea  mese,  nei  castelli  di  Nenie  e  di  Pan,  ove  si  abbandonava  all'antico  amore  per  la  produzione  poetica,  e  conversava  d'arte,  di  lettere  e  di  filosofia con  illustri  personaggi,  ovvero  esercitava  le  agili  dita  nei  più  squisiti  ricami  istoriati.  La  morte  del  fratello  Francesco  fu  un  colpo  di  fulmine che  distrusse  quella  pace.  Dopo  l'infausto  avvenimento,  Margherita  non  stette  più  bene  di    LA  MARGHERITA  DELLE  l'HINCII'ESNE   salute:  una  gran  stanchezza  la  opprimeva,  contro la  quale  tentava  ormai  indarno  ili  reagire  la  sua  volontà  eccezionalmente  energica.  Il  colpo  d'apoplessia,  clic  la  colse  il  21  dicembre  lf>4^,  fu  per  lei  una  liberazione;  per  quanti,  amandola,  la  circondarono,  una  irreparabile  sventura.   Con  Mitezza  di  penetrazione  psicologica  femminile, la  (iarosci  ha  rinarrato  in  tutti  i  più  minuti  particolari  questa  vita,  di  cui  qui  son  tracciate  solo  le  linee  capitali.  E  una  vita  d'operosità,  d'abnegazione, di  pensiero,  di  sentimento,  che  non  ha  pari  nel  periodo  della  Rinascita.  Invano  il  pettegolezzo cortigiano,  di  cui  fu  uno  dei  principali  interpreti  il  Hrantòme,  cercò  di  spruzzare  del  fango  su  quella  candida  ed  eletta  figura.  Essa  resta,  alla  luce  dei  documenti,  immacolata:  e  tale,  nel  suo  misticismo  soave,  nell'amore  disinteressato per  ogni  cosa  bella,  della  natura  e  dell'arte,  nella  sete  perpetua  di  verità  e  di  poesia,  nella  pratica  indulgente  e  sagace  della  vita,  è  rappresentata nel  libro  della  signora  G-a rosei.   En  po'  di  grafomania  potrebbe  non  ingiustamente essere  rimproverata  a  Margherita  d'Angoulóme.  Ila  scritto  troppo,  e  non  sempre  bene.  La  Garosci  passa  in  rivista  tutta  intera  la  sua  produzione  e  sa  distinguervi  ciò  che  vale  e  ciò  che  significa  da  quel  molto  clic  è  vanità,  lungaggine, cicaleccio.  La  regina  di  Navarra  non  è  una  grande  scrittrice,  ma  una  scrittrice  rapprese illativa.    270    LA  SU ARflHERITA  DELLE  PRINCIPESSE    Già  Alfredo  de  Musset  nota  che  in  Margherita  ci  sarebbe  stata  la  stoffa  di  una  romanziera;  ma  invece   Elle  aima  mieux  mettre  en  lumiere  Une  larine  qui  lui  fut  ehère,  Un  bon  mot  dot  elle  avait  ri.   Codeste  sue  osservazioni,  ora  gaie,  ora  malinconiche, affidò,  quando  ormai  l'età  le  consentiva  ogni  libertà  di  linguaggio,  ad  un  libro  di  novelle,  imitante  il  Decaìneron,  che  per  la  sua  educazione  mezzo italiana  potè  conoscere  nel  testo  prima  che,  per  sua  iniziativa,  fosse  tradotto,  nel  1543,  in  francese.  Il  libro,  rimasto  interrotto  per  la  morte  di  Francesco  I  1.1547),  fu  in  gran  parte  composto  in  lettiga,  nei  frequenti  viaggi  di  Margherita. Le  novelle  non  raggiunsero  il  numero  di  cento,  come  avrebber  dovuto;  se  n'ebbe  un  Heplamèron.  Se  l'inspirazione  prima  è  nel  Boccaccio, si  può  ben  dire  che  molto  vi  si  sente  il  Cortegiano  del  Castiglione,  libro  che  alla  regina  piaceva  in  sommo  grado.  A  differenza  dal  Boccaccio, la  nostra  gentildonna  vi  narra  quasi  sempre fatti  accaduti;  a  differenza  dal  Boccaccio,  la  satira  che  v'è  frequente  e  pungente  contro  il  clero  corrotto,  non  si  estende  mai  dalle  persone alle  istituzioni,  per  le  quali  Margherita  nutriva sommo  rispetto;  a  differenza  dal  Boccaccio,  pur  mostrandosi  l'autrice  del  tutto  spregiudicata  nel  narrare  fatterelli  scabrosi,  non  ha  punto  quella  compiacenza  del  lubrico  che  caratterizza  l'oscenità della  coscienza.  Scagionandone  Margherita, la  Garosci  ha  fatto  in  proposito  distinzioni  giustissime: «  Questa  raccolta  di  disgrazie  coniu«  gali  (conclude),  di  tragedie  galanti  e  di  stra«  nezze  antiraonastiche  è  immorale  solo  secondo  «  le  convenienze  del  nostro  secolo;  e  le  conve«  nienze  sono,  si  sa,  cosa  estremamente  varia*  bile  ».  La  pudibonda  schizzinosità  femminile  dell'età  nostra,  che  non  è  punto  indizio  di  vera  e  sentita  verecondia,  non  era  nelle  consuetudini    del  medioevo,    del  rinascimento  (*).   L' Heptamèron,  chi  lo  consideri  a  fondo,  è  libro  di  indiscutibile  moralità,  pensato  e  scritto  da  chi  aveva  nobilissimo  il  sentimento  dell'amore  come  quello  della  religiosità.  L'aver  apprezzato  giustamente, nel  suo  valore  biografico,  psicologico  e  dottrinale,  questo  libro  «  parlato  e  vissuto  »  ;  l'avervi  per  la  prima  volta  in  Italia,  additato  la  «  profonda  e  sottile  e  compiuta  conoscenza  della  psicologia  femminile »;  l'averne  giudicato  rettamente il  valore  artistico, rilevandovi  la  mancanza  della  lima,  la  soverchia  prolissità  dei  ragionamenti filosofici  e  teologici,  «  di  una  teologia  ch'è  «  troppo  femminina  per  non  essere  più  diffusa  «  che  profonda  »,  la  deficienza  d'ogni  sentimento  della  forma,  che  pur  non  toglie  efficacia  all'opera,  giacché  Margherita  «  non  ha  affatto  bisogno  di  «  essere  una  scrittrice  per  scrivere  eccellente«  inente  »;  tutte  queste  cose  ed  altre  fanno  del    (li  Su  questo  argomento  sono  da  vedere  i  fatti  e  le  chiose  di  F.  Novati,  nello  scritto  I  detti  d'amore  d'ima  contessa  pisana,  in  Attraverso  il  medioevo,  Bari,  capitolo  dedicato  all' Heplaméron  la  parte  forse  più  interamente  riuscita  e  più  vivacemente  spigliata del  libro  della  Garosci.   I  molti  scritti  in  poesia,  liriche,  poemi,  poemetti, drammi,  si  dispongono  in  due  grandi  raccolte: quella  delle  Marguerites,  edita  la  prima  volta  nel  1547,  e  riprodotta  in  quattro  volumi,  coi  migliori  sussidi  della  critica,  da  Félix  Frank  nel  1873;  e  quella  delle  Demières  poésies,  fatta  conoscere  nel  1896  da  Abel  Lefranc.  Se  a  tali  due  raccolte  si  aggiungono  le  due  commediole  satiriche:  Le  malade  e  L' inquhiteur,  pubblicate  dal  Le  Roux  de  Lincy  e  dal  Jlontaiglon  in  appendice all' Heplaméron,  si  avrà  tutta  intera  la  produzione  della  regina  di  Navarra  (').   II  valore  delle  Marguerites  è  più  specialmente  sentimentale  e  religioso.  Se  nel  poemetto  La  coche è  presentata  una  sottile  disputa  d'amore,  nella  quale  è  chiamata  a  pronunciare  verdetto  Renata  di  Fi-ancia;  se  nella  Complainte,  tutta  costellata  di  concetti  biblici,  è  difeso  Clemente  Marot,  profugo per  ragion  di  fede;  se  le  epistole  poetiche  spirano  tutto  l'affetto  che  la  nostra  verseggia  trice  aveva  sempre  desto  nell'anima  per  il  fratello monarca:  le  chansons  spirituelles  esprimono  con  lirismo  entusiasta  il  fervor  religioso  della  grande  credente  ed  i  lunghi  componimenti  che  I  non  molti  componimenti  poetici  che  restano  ancora  inediti  nel  ms.  Bouhier,  e  dei  quali  diede  qualche  conto  il  Paris  nel  menzionato  articolo  del  Journal  des  savanti,  hanno  importanza  minima. s'intitolano  Miroir  de  l'dme  pecheresse  e  Triomphe  de  VAgneau  implicano  discussioni  dottrinali  di  fede  e  tripudio  di  un'anima  mistica.  Malgrado  la  vivezza  del  sentimento,  in  tutti  codesti  versi  vi  è  di  rado  poesia:  Margherita  ragiona  troppo  e  troppo  sottilmente:  lo  slancio  del  suo  cuore  entusiasta avviva  spesso  i  suoi  ragionamenti,  ma  a  renderli  poesia  questo  non  basta.  Lo  dice  non  male  anche  la  signora  Garosci:  «  Tutta  questa  *  poesia  delle  Marguerite?,  non  può  dirsi,  salvo  «  l'are  eccezioni,  della  grande  poesia:  elevatis«  sima  per  il  contenuto  e  scritta  in  lingua  lim«  pida  e  sana,  manca  troppo  spesso  di  ciò  che  '  distingue  la  poesia:  il  rilievo,  il  canto,  il  ritmo,  «  lo  slancio,  che  solleva  non  solo,  ma  sostiene  il  «  pensiero  ».   Nelle  Demières  poésies  predomina  la  filosofia.  Frammezzo  alle  epistole,  alle  liriche  ed  a  qualche componimento  dialogato,  spiccano  qui  due  poemi:  il  poemetto  in  terzine  Le  Navire,  in  cui  Margherita  piange  per  l'ultima  volta  la  morte  del  fratello,  e  la  cosa  più  rilevante  che  la  principessa abbia  scritto  in  versi,  l'esteso  poema  allegorico Les  Prisons.  Nel  Navire  è  imitata  la  terzina di  Dante;  nelle  Prisons  è  fusa  in  una  visione di  sapore  dantesco  quella  filosofia  platonica,  che  fu  l'ultimo  rifugio  dello  spirito  combattuto,  esulcerato  e  passionale  di  Margherita.  Ivi  assistiamo al  progressivo  liberarsi  dell'anima  umana,  condotta  da  guide  simboliche,  dalle  prigioni  dell'amore, della  mondanità,  della  scienza:  la  liberazione viene  dal  lume  divino,  partecipato  per  via    Renier  Svaghi  Critici    18    274    LA  MARGHERITA  DELLE  PKINIIPE8SE    della  fede,  ed  è  esso  la  verità  a  cui  l'anima  anela  ed  in  cui  finalmente  s'acqueta.   Dante  e  Platone  furono  l'ultimo  conforto  di  Margherita, eda  lei  pervennero  entrambi  dall'Italia.  11  platonismo  della  dama  d'Angoulème  era  passato  a  traverso  il  Ficino  ed  il  Landino,  era  il  platonismo  del  nostro  Quattrocento  (').  La  Commedia  di  Dante  fu  uno  dei  libri  che  potè  avere  tra  mano  fin  da  giovinetta,  e  non  è  impossibile  che  la  madre,  la  quale  insegnò  a  lei  ed  al  fratello  l'italiano,  e  lo  spagnuolo,  gliene  facesse  sin  d'alloragustare  qualche episodio.  L'alta  società  francese  di  quel  tempo  era  tutta  satura  d'italianismo:  è  noto  quanto  le  arti  e  le  lettere  italiane  campeggiassero  alla  Corte  del  re  cavaliere  (!),  dal  desiderio  di  compiacere  il  quale  sembra  che  il  nostro  Castiglione  abbia  avuto  la  prima  mossa  a  scrivere  il  Corlegiano.  Margherita,  che  non  solo  intendeva,  ma  anche  parlava  e  forse  scriveva  persino  in  versi  la  lingua nostra  (3),  informò,  come  vedemmo,  a  quell'impareggiabile libro  di  cortigiania  le  sue  novelle,  per  cui  aveva  dal  Boccaccio  solo  attinto  l'idea  e  l'ordinamento,  e  di  altri  scrittori  nostri,  come  ad  esempio  del  Sannazaro,  si  mostrò  buona  cofi)  Vedi  Lkfranc,  Marguerite  de  Xararre  et  le  platonisme  de  la  Renaissance,  nella  Bib1iotli*que  de  l'école  dea  chaHes  del  1897  e  del  1898. Tutti  ormai  hanno  letto  il  buon  saggio  di  F.  Flamlni,  Le  lettere  italiane  allacorte  di  Francesco  I  di  Francia,  nel  suo  volume  di  Studi  di  storia  letteraria  italiana  e  straniera,  Livorno, 1895. Vedi  I'»  ot,  I^es  Francois  ilalianhant*  aie  XVI  siede,  I,  Paris,  190U.  p.  11  e  sgg.    LA  MARGHERITA  DELLE  PRINCIPESSE    275    noscitrice.  All'ostico  ma  salutare  nutrimento  della  poesia  dantesca  sembra  tornasse  nell'ultima  fase  del  suo  pensiero;  ma  le  traccie  che  ne  rimasero  nell'opera  sua  sono  delle  più  significanti,  ond'è  che  questo  soggetto,  prima  che  ne  trattasse  nel  suo  volume  la  signora  Garosci,  aveva  già  attirato l'attenzione  di  critici  come  l'Hau vette  (')  ed  il  Farinelli  (*).   *   Tre  periodi  riconosce  la  Garosci  nella  vita  e  nel  pensiero  di  Margherita:  «  un  periodo  di  mi«  sticismo  giovanile,  un  periodo  di  più  decisa   (li  Margherita  delle  Dernières  poesìe»  è  l'argomento  principale di  cui  tratta  I'Hauvette  nella  sua  conferenza  su  Dante  nella  poesia  francese  del  Rinascimento,  trad.  it.,  Firenze,  1901. È  noto  che  il  Farinelli  attende  ad  una  grande  opera  in  due  volumi  su  Dante  in  Francia,  di  cui  vedemmo,  per  cortesia dell'autore,  molti  fogli  di  stampa,  e  che  si  spera  esca  in  luce  entro  l'anno  1906,  editor*  lo  Hoepli.  Tra  i  saggi  di  quest'opera  egregia,  che  sono  già  comparsi,  uno  riguarda  Dante  nell'opere  di  Christine  de  Pisan  (Halle,  1905,  nel  volume  giubiliare  dedicato  ad  Enrico  llorf  i  ed  un  altro  Dante  e  Maryherita  di  Xacarra,  nella  lìii-ista  d'Italia  del  febbraio  1902.  Se  Cristina,  specialmente  nel  poema  Le  chemin  de  long  elude  (1402),  fu  la  prima  imitatrice  francese  dell'Alighieri,  Margherita fu  la  seconda;  il  culto  di  essa  per  Dante  va  collegato  col  suo  desiderio  sempre  vivo  di  scrutare  i  problemi  religiosi  e  con  l'elevazione  costante  dell'anima  sua  nel  proseguire  la  verità.  Si  noti  che  la  prima  versione  francese  AelVInferno  Dantesco,  fatta  sugli  inizi  del  sec.  XVI,  è  giudicata  opera  d'un  abitante  del  Berri  :  e  siccome  Margherita  era  nel  1517  creata  dal  fratello  duchessa  di  Berri,  si  suppose  che  il  traduttore  fosse  uno  dei  suoi  cortigiani.  La  supposizione,  ardita  ma  non  iuverosimile,  è  di  G.  Camus,  nel  Giornale  storico  della  letteratura italiana,  voi.  XXXVII,  p.  92.    27(5    LA  MARGHERITA  DELLE  PRINCIPESSE    «  partecipazione  alle  dottrine  e  agli  ideali  della  «  Riforma,  un  ritorno  al  misticismo  giovanile  con«  fortato  di  elementi  platonici:  tutto  ciò  su  un  «  fondo  stabile  di  catolicismo  non  mai  aperta«  mente  sconfessato  nelle  linee  dogmatiche,  as«  sidua mente  praticato  nelle  cerimonie  del  culto  «  e  nelle  relazioni  eccellenti  con  la  Santa  Sede  >  (p.  342).   Questo  convincimento  intorno  alla  posizione  della  regina  di  Na varrà  rispetto  al  moto  riformista rampolla  da  tutto  il  libro  di  cui  ci  occupiamo, e  ne  è  il  risultato  più  notevole.  Il  Lefranc,  e,  dietro  a  lui,  il  Rasraussen,  considerarono  Margherita come  decisamente  protestante;  opinione,  del  resto,  già  antica  per  la  costante  simpatia  da  essa  dimostrata  ai  riformisti,  per  la  protezione  accorda  taad  alcuni  diloro,  per  Je  opinioni  espresse  con  tanta  insistenza  nella  parte  maggiore  dell'opera sua.  Sin  dalla  giovinezza  la  nostra  gentildonna aveva  stretto  relazione  con  quel  Guglielmo Brigonnet,  vescovo  di  Meaux,  spirito  nobilissimo, mistico,  aspirante  al  rinnovamento  del  clero,  che  accolse  poi  nella  sua  diocesi  i  principali fautori  della  riforma  religiosa  in  Francia,  Guglielmo  Farei,  Gherardo  Roussel,  Michele  d 'A rande,  e  il  Lefòvre  d'Etaples  (';.  Al  centro  intellettuale di  Meaux  aderì  con  tutta  l'anima  la  giovine  duchessa  dalla  vicina  Alencon.  Si  badi, I  rapporti  di  Margherita  col  Brigonnet  sono  oggi  meglio noti  mercè  la  pubblicazione  fatta  nel  1900  da  Ph.  A.  Becker.    LA  MARGHERITA  DELLE  PRINCIPESSE    277    peraltro,  le  dottrine  di  elevatezza  e  larghezza  religiosa,  professate  dal  Lefèvre  d'Etaples  erano  anteriori  a  Lutero  e  a  Calvino.  Quando  la  Sorbona ed  il  governo  di  Francia  presero  e  reagire  violentemente  contro  ogni  idea  di  riforma  ecclesiastica e  religiosa,  Margherita  fu  presso  il  fratello  titubante  ed  opportunista  la  maggiore  alleata  del  Bri5per  chi  scende  dal  Cenisio  (XIX,  ;V),  e  quell'Ancona  mezzo  orientale,  abitata  per  un  buon  terzo  da  Greci,  come  non  fu  mai  (I,  4),  e  via  dicendo.  Ma  in  fondo,  anche  per  la  Stael,  l'Italia  è  la  terra  dei  morti  ;  solo  essa  ha  uno  strano  presentimento che  possa  risorgere  come  nazione  moderna,  e  di  questo  presentimento  si  fa  interprete  Corinna, che  sente  l'italianità  con  vero  fervore.  Tutti  sanno  che  Cornine  è  per  tre  quarti  una  specie  di  Baedeker  anticipato:  le  città  visitate  dall'autrice,  Roma  specialmente,  poi  Napoli,  Milano, Venezia,  Bologna,  Firenze  e  altre  minori,  ci  sfilano  d' innanzi  coi  loro  monumenti,  sui  quali  molto,  anzi  troppo  si  ragiona.  Ma  son  ragiona  ri) Leggasi  il  libro  di  U.  Mknoix,  ÌJ  Italie  dei  romantìtjites,  Paris,  1902,  ov'  é  pure  un  capitolo  sulla  Stael.    294    CORINNA    nienti  -che  quasi  sempre  rivelano  più  dottrina  e  pensiero  che  gusto.  Osservazioni  come  quella  calzante  fatta  sul  Correggio,  «  le  Corrège  est  peut-ètre  le  seul  peintre  qui  sache  donnei'  aux  yeux  baissés  une  expression  aussi  pénétrante  que  s'ilsétaient  levés  vers  le  ciel  »  (XIX,  6),  sono  rare.  Sente  la  Stael  il  fascino  delle  rovine  a  cui  l'aveva  iniziata  Guglielmo  Schlegel,  suo  compagno  di  viaggio,  che  sapeva  a  memoria  i  principi  del  Winckelmann  e  del  Lessing  e  le  osservazioni  del  Goethe  sente  anche  la  suggestione  dei  luoghi  deserti  e  delle  catacombe,  che  parlano  all'anima;  ma  vivo  senso  della  natura  non  ha  (*).  Alle  cose  inanimate  preferisce  pur  sempre  gli  uomini;  ma  gli  uomini  e  le  donne  d'Italia  conosce  troppo  imperfettamente,  sicché  i  suoi  tipi  d'italiani  sono  astrazioni.  La  preferenza  che  Osvaldo    a  Lucilla Edgermond  in  confronto  a  Corinna,  sia  pure  sospintovi  dal  culto  per  la  memoria  paterna  (un  tratto  anche  questo  che  il  lord  scozzese  ha  comune con  la  Stael),  è  un  disconoscere  le  qualità  di  spirito  italiane.  Osvaldo,  in  ultima  analisi,  al  pari  della  scrittrice  di  Corintie,  al  pari  del  volubile conte  d'Erfeuil,  ama,  si  e  no,  l'Italia  accademica, ma  non  ama  l'Italia  degli  italiani,  perchè non  la  conosce.   Piaceva  alla  Staèl  segnatamente  la  poesia  italiana: cita  (talora  storpiandoli)  versi  di  Dante,   (1;  Cfr.  Blesnerhasset,  Op.  cit.,  Ili,  168  sgg.  Vedi  pure  di  lei  l'articolo  Frati  voti  Stael  in  Italien,  nella  Deutsche  Iiunrfschau  del  1888,  voi.  56,  pp.  '267  sg#.   (2,1  Vedi  ciò  che  osserva  il  Saixte-Bei:ve,  Op.  cit.,  p.  127  «.    CORINNA    21)5    del  Tasso,  del  Metastasio;  loda  specialmente  il  Monti  e  l'Altieri;  ma  s'ingannerebbe  a  partito  chi  reputasse  profonda  la  sua  cultura  nelle  cose  letterarie  nostre.  Prima  di  scendere  nella  penisola, la  Staci  sapeva  assai  poco  di  letteratura  italiana.  Nei  mesi  che  vi  trascorse  nel  1804  e  nel  1805  sfogliò  molti  libri  italiani,  si  entusiasmò  più  volte,  perchè  la  sua  indole  era  facile  all' entusiasmo; ma  non  ebbe  il  tempo  necessario  per  approfondire  i  suoi  studi.   Chi  le  fece  gustare  la  nostra  poesia  fu  Vincenzo Monti.  Oggi,  meglio  che  un  tempo,  conosciamo le  relazioni  della  Staèl  col  Monti  (').  E  risulta  sfatata  da  questa  miglior  conoscenza  la  leggenda,  accreditata  specialmente  dal  Cantù  ('),  che  la  gentildonna  francese  fosse  intensamente  innamorata  del  Monti,  e  che  questi  non  le  corrispondesse. Nulla  di  simile  alla  relazione,  veramente amorosa,  che  avvinse  per  quasi  tutta  la  vita  mad.  de  Stael  a  Benjamin  Constant,  il  quale  ne  subiva  il  giogo.  È  ben  vero  che  la  scrittrice  nostra  dirigeva  lettere  molto  espansive  al  Monti,  Alle  36  lettere  della  scrittrice  francese  al  poeta  italiano note  sin  dal  1876  per  un  volumetto  ormai  divenuto  assai  raro,  la  sig.  Ilda  Morosini  volle  aggiunte  le  altre,  che  si  trovavano inedite  a  Ferrara,  e  su  tutte  compose  un  garbato  articolo del  Qiorn.  stor.  Mia  leti,  italiana,  voi.  XLVI  (1905).  Poco  appresso  Julien  Lxichaire  ottenne  di  poter  estrarre  dall'archivio  di  Coppet  le  lettere  del  Monti  alla  Staèl  e  le  inserì nel  Bulletin  italien,  voi.  VI  (1906,).  Così  si  può  studiare  intero  quel  carteggio,  e  le  nostre  idee  ne  guadagnan  chiarezza. Monti  e  l'età  che  fu  sua,  pp.  99-101.    296    CORINNA    e  che  questi,  non  sempre,  ma  spesso,  la  ricambiava con  uguale  espansione  ;  è  anche  vero  che  tra  le  cose  ammirate  in  Italia  la  Stael  soleva  porre  il  Monti  in  prima  linea,  accanto  al  mare,  a  S.  Pietro,  al  Vesuvio;  ma  conoscendo  i  due  personaggi,  entrambi  sensitivi  e  pieni  di  fuoco,  è  agevole  capacitarsi  che  tutto  ciò  si  potea  conciliare con  una  semplice,  affettuosa  amicizia.  Di  ricorrere  all'ipotesi  dell'amore,  dall'una  o  dall'altra parte,  non  v'è  necessità  alcuna  anzi  se  ne  ha  smentita.  La  Staèl  desiderava  che  il  poeta  italiano  la  riguardasse  come  una  sorella  e  il  Monti  voleva  esserle  fratello  (').  Queste  designazioni commentano  i  loro  rapporti  vicendevoli  e  ci  spiegano  l'affettuoso  interessamento  reciproco, anche  se  in  qualche  lettera  la  frase  colorisca il  sentimento.   Giacché,  come  accennai,  la  fonte  principale  della  grande  amicizia  della  Staèl  pel  Monti  era  letteraria.  Ammirasi  in  Corintie  il  Monti  come  un  impareggiabile  dicitore  di  versi:  il  sentirlo  recitare  squarci  come  l'Ugolino,  la  Francesca,  la  morte  di  Clorinda  è  «  un  des  plus  grands  plai*  sirs  dramatiques  * .  Infatti  il  Monti,  a  Milano,  lesse  alla  dama,  che  poco  sapeva  di  lettere  italiane e  se  n'era  foggiata  idea  storta  (!),  molti    fi)  Bulletin  ilalien  cit.,  pp.  164  e  354. Vedasi  specialmente  la  sua  opera  La  littérature  ronsidèrèe  dans  spu  rapporta  avec  leu  inatitutions  socìales  e  ciò  che  ne  dice  il  Dejob.  Op.  cit.,  pp.  25-41.    V    CORINNA  297   brani  di  classici  nostri,  segnatamente  di  Dante  (');  lesse  come  sapeva  legger  lui,  sicché  la  Stael  ne  fu  commossa  sino  alle  lagrime.  A  Luigi  Hossi,  che  gliela  aveva  presentata,  scrisse  il  Monti  il  9  gennaio  1805,  d'essere  soddisfatto  d'averle  inspirata «  una  migliore  idea  dell'italiana  lettera«  tura,  facendola  piangere  largamente  alla  recita  «  di  qualche  bel  pezzo  de'  nostri  classici,  e  for«  zandola  a  confessare  di  a  ver  errato  nei  suoi  «  giudizi,  de'  quali  mi  ha  promesso  la  ritratta«  zione  »  (*).  E  il  Monti  continuò  sempre  ad  essere per  la  Stael  il  miglior  consigliere  in  fatto  a  poesia  italiana,  sebbene  essa  conoscesse  altri  letterati  ben  più  disposti  di  lui  ad  incensarla,  specialmente  il  Cesarotti.  Quell'amicizia  era  cementata di  letteratura  e,  malgrado  le  espansioni,  continuò  sempre  ad  essere  letteraria,  mentre  verso  la  cara  figliuola  di  Germana.  Albertina,  il  Monti  sentiva  tenerezza  paterna  e  ne  era tìglialmente  corrisposto.   Intercedeva  (nè  fu  abbastanza  considerato)  tra  gli  spiriti  del  Monti  e  della  Stael  diversità  non  piccola,  specialmente  nel  modo  d'intendere  la Per  Fuso  che    Stael  fece  di  Dante  cfr.  Counson,  Dante  en  Franr.e,  Erlangen,  1906,  pp.  111-115.  E  notissimo  il  passo  d' vi  ria  lettera  al  Monti  del  23  giugno  1905  :  «  J'  étudie  le  Dante    avec  ardeur,  pour  qu'à  votre  arrivée  à  Còppet  vous  me    trouviez  plus  avancée  encore  dans  Titalieu  ■.  Nell'autunno  di  quel  medesimo  anno  il  Monti  fu  nel  castello  di  Coppet,  ospite  desideratissimo  della  Stael.  Cfr.  Il  libro  e  la  stampa,  I.  53-54. G.  BiADEGn,  Vincenzo  Manti  e  la  baronessa  di  Stael,  Verona, 1880,  p.  7.    298    CORINNA    letteratura.  Il  Monti  piegò  al  romanticismo  solo  in  qualche  occasione,  per  quella  sua  duttilità  singolare, ma  in  fondo  rimase  sempre  classicista  fervente;  la  Staél  era,  per  indole  e  per  cultura,  una  romantica.   *   *  *   Assai  prima  d'affermare  col  famoso  libro  De  VAllemagne  (1810)  le  sue  simpatie  per  la  Germania dei  filosofi  e  dei  letterati,  la  cui  conoscenza fu  per  quell'opera  particolarmente  diffusa  oltre  il  Reno,  la  Stael,  svizzera  d'origine  e  cosmopolita per  educazione,  avea  mostrato  decisa  tendenza  al  rinnovamento  delle  lettere.  Essa  partì  dal  Rousseau,  il  cui  influsso  è  patente  nel  romanzo  epistolare  Delphine  (1802),  e  con  la  meditazione dei  pensatori  tedeschi,  e  con  lo  studio  della  propria  anima  passionale  affinò  l'arte  propria in  Corintie,  che  è  scrittura,  malgrado  incertezze e  contraddizioni,  eminentemente  romantica (').   In  Italia  Corintie  fu  bene  accolta  dai  novatori,  e  quando,  per  curar  la  salute  del  secondo  marito Alberto  de  Rocca,  sposato  clandestinamente  nel  1811,  la  scrittrice  francese  scese  fra  noi  una  seconda  volta,  negli  ultimi  mesi  del  1815,  si  trovò  in  un  ambiente  tutto  romantico.  Conobbe  il  Con  ci) Il  Leapardi  trovò  più  volte  nel  libro  un'implicita  condanna di  massime  professate  dal  romanticismo.  Con  l' usata  precisione  è  qualificato  il  romanticismo  della  Stael  in  Laxsiix,  Liti,  francatile,  pp.  865-9".  Ivi  su  C'orinne  l'eccellente  p.  860.    CORINNA    299    falonieri,  il  Pellico  ('),  il  Nìccoliin,«-+!  ab.  di  Breme  ed  altri  molti.  Fu  anzi  il  di  Breme  che  prese  caldamente  le  difese  della  Stael,  autrice  di  un  articolo  sulle  traduzioni  inserito  nella  Biblioteca  italiana,  a llorché  divamparono  le  polemiche  su  quel  soggetto  scottante  (*).  Il  di  Breme,  come  fu  recentemente  dimostrato,  venne  ad  essere  con  quella  sua  difesa  della  Staci  il  primo  aperto  avvocato italiano  del  romanticismo,  perocché  il  suo  articolo  precede  di  qualche  mese  la  notissima  Lettera  semiseria  di  Grisoslomo,  per  la  quale  il  Berchet  è  solitamente  considerato  come  il  nostro più  antico  annunciatore  del  nuovo  verbo  letterario  (3).  Il  quale  verbo  letterario  era  tale  da  adattarsi  all'indole  dei  vari  paesi  e  quindi  era  logico  che  la  fisionomia  da  esso  assunta  in  Italia  diversificasse  parecchio  da  quella  di  altri  luoghi.  Temerario  l'asserire  per  ciò  non  solo  che  fra  noi  romanticismo  non  esistette  (4):  può  darsi, E  strano  che  il  Dejoh.  il  quale  diffusamente  nana  la  seconda  dimora  italiana  della  Stael,  affermi  che  il  Pellico  non  la  conobbe  (pag.  124).  Il  Pellico  medesimo  nel  cap.  50  delle  Prigioni,  dice  di  averla  incontrata  in  casa  Porro. Di  quelle  polemiche  riassunse  bene  le  vicende  Eugenia  Montanari,  Per  la  storia  della  «  Biblioteca  Italiana  »,  in  Miscellanea in  onore  di  G.  Mazzoni,  II,  3(i3  sgg. Se  ne  veda  la  dimostrazione  in  (ìuuxrinne  con  rispettosa  riconoscenza.   Nota  aggiunta.    Già  nel  Fanfulla  della  Domenica  del  14  marzo  190i).    sunse  in  Germania  ed  in  Francia.  Se  il  Trezza  allargò  oltre  ogni  misura  il  valore  del  romanticismo,  panni  che  questa  signorina,  tutt1  altro  che  poco  intelligente  del  resto,  lo  restringa ingiustificatamente.  Il  soggetto,  delicatissimo,  non  vuol  essere  trattato  a  sciaholate.  Dovréhbe  servire  di  monito  e  di  modello  la  cautela  con  che  procedette  il  Graf  nello  studiare il  romanticismo  del  Manzoni.   il)  AH"  ipotesi  del  romanticismo  considerato  come  pianta  indigena  italiana  accenna  G.  Perai.k,  a  p.  87  del  suo  libretto  su  L'opera  di  (Gabriele  Rossetti,  Città  di  Castello,  190ti.  L'idea  fu  sostenuta  dal  Flamini  in  un  corso  universitario.    Scorrendo  il  carteggio  dello  Stendhal.    Per  Enrico  Beyle,  lo  confesso  subito  e  sinceramente, io  non  ho  alcuna  particolare  ammirazione. Poco  simpatico  lo  scrittore;  meno  simpatico l'uomo.  Ho  assistito  con  stupore,  e  non  senza  qualche  disgusto,  al  gran  da  fare  che  si  diedero  gli  stendhaliani  di  Francia  per  pubblicare e  pubblicare  e  pubblicare  tutti  gli  abbozzi  e  frammenti  di  suoi  lavori  rimasti  inediti  a  Grenoble, per  raccogliere  tutte  le  briciole  cadute  dalla  sua  mensa,  per  chiarire  le  innumerevoli  sue  bizzarrie  e  svelare  il  mistero  dei  molti  pseudonimi con  che  designò    medesimo  e  gli  amici  suoi.  S'è  costituito  un  club  stendhaliano;  vi  sono  più  raccoglitori  specialisti  di  autografi  stendhaliani e  di  memorie  di  lui  :  tutte  cose  ottime  quando  si  avesse  a  fare  veramente  con  una  individualità eccelsa;  ma  trattandosi  invece  d'un  uomo,  vivace  innegabilmente  d'ingegno,  ma  sregolato,  paradossale,  sconclusionato  e  più  che  un  poco  mattoide,  sembrano  tanto  esagerate,  da  confinare col  grottesco.   Il  fenomeno,  per  altro,  di  questa  contagiosa  montatura  entusiastica,  che  ha  prodotto  ormai  mezza  biblioteca,  non  cessa,  per  questo,  d'esser        cleono  di  noto,  anzi  lo  è  tanto  più,  quanto  meno  sembrerebbe,  a  persone  equilibrate,  degno  d'incenso e  d'adorazione  quell'idolo.  Non  fu,  quindi,  senza  interesse  che  appena  uscita  in  buon  assetto, ordinata,  annotata  la  Corrispondance  dello  Stendhal,  mi  diedi  a  scorrerla  con  gran  curiosità,  per  vedere  se  i  miei  preconcetti,  leggendo  nell'anima dello  scrittore  come  prima  non  s'era  potuto  fare,  si  dileguassero.  La  Correspondance  infatti,  che  ora  ha  veduta  la  luce  in  tre  grossi  volumi  ('),  consta  di  ben  700  lettere,  mentre  i  primi  due  volumetti  della  Correspondance  inedite, editi  nel  1855,  con  una  prefazione  di  Prospero Mérimée,  ne  contenevano  solo  '212.  Quel  libro,  inoltre,  divenuto  ormai  quasi  irreperibile,  recava  le  lettere  in  gran  parte  mutile  e  deformate. La  nuova  edizione  le    intere,  perchè  rivedute  quasi  tutte  sugli  autografi.  Essa  aggiunge  e  pone  al  loro  luogo,  secondo  cronologia,  le  lettere già  edite  nel  1892  col  titolo  di  Lettves  inlimese  nel  1893  in  seguito  ai  Sourenirs  d'égotisme,  quelle  officiali  od  officiose  rintracciate  negli archivi  dei  Ministeri  di  Francia,  ed  un  centinaio circa  di  lettere  inedite  e  sconosciute.  Giovarono massimamente  alla  nuova  raccolta  gli  autografi  stendhaliani  posseduti  dal  Cheramy,  sicché  oggi  si  ha  un  epistolario  nutrito  e  ben  curato.  Di  esso  ho  profittato  per  rivivere  col    fi)  Corresponrìanne  de  Stendhal  (lXfx)-1842),  pubi,  par  Ad.  Paupe  et  P.  A.  Cheramy,  Paris,  Oh.  Bosse,  1908;  tre  volumi in-8  gr.    DELLO  STENDHAL    303    Beyle;  ed  ho  richiamato  alla  memoria  quel  molto  di  autobiografico,  che  v'è  negli  scritti  editi  da  lui,  sia  viaggi,  sia  romanzi;  e  mi  son  servito,  con  la  debita  circospezione,  delle  tre  opere  postume più  ragguardevoli,  fatte  conoscere  da  quel  gran  beylista  che  è  Casimiro  Striyenski  ed  aventi  carattere  autobiografico:  il  Journal,  che  va  dal  1801  al  1814  la  Vie  de  Henri  Brulard,  che  narra  i  fatti  dal  1878  al  1800  (2),  i  Souvenirs  d'ègotisme,  che  dal  1821  giungono  al  1830  (3>  Della  ormai  grande  letteratura  critica  sull'autore delfinatese  potei  consultare  i  prodotti  più  notevoli,  facendo  tesoro  in  ispecie  del  laborioso  e  sensatissimo  volume  di  Arturo  Chuquet  (*),  che  è  e  resterà  l'opera  capitale  scritta  sul  Beyle  (5).   Fatto  ciò,  la  mia  coscienza  non  mi  rimorde  di  aver  trascurato  nulla  per  addentrarmi  nella  cognizione  d'uno  scrittore,  di  cui  troppi  ragionano e  scrivono  senza  conoscerlo.  Le  spigolature  critiche,  che  qui  seguono,  non  sono  frutto  di  una  escursione  superficiale  e  molto  meno  di  ricerche  indirette  e  frettolose.  Se  da  esse  lo  Stendhal  non  uscirà  in  paludamento  eroico    con  l'aureola  dovuta ai  sovrani  intelletti,  la  colpa  non  sarà  mia.    (I)  Paris,  Charpentier.  1888.,  non  hanno  prodotto  che  un  grand'uorao  ed  un  pazzo:  «  le  grand  nomine  est  Shakespeare,  le  fou  Milton »  (I,  93).  Sdegnava  il  Pope  e  credeva  che  il  Lutrin  del  Boileau  valesse  cento  di  quei  ricci  perduti  (I,  245).  Quando  si  recò,  nel  1826,  in  Inghilterra,  quella  vita  gli  piacque  pochissimo  e  trovò  da  biasimare,  con  poco  giudizio,  precisamente ciò  che  altri  lodano,  le  istituzioni  giudiziarie e  la  condizione  della  donna  (II,  436).  Per  lo  Scott  provò  dapprima  entusiasmo  (II,  195,  227,  272,  302; ;  ma  poi  gli  venne  in  uggia  e  ne  disse  corna  t1).  Nell'autunno  del  '16  conobbe  a  Milano  il  Byron  nel  palchetto  di  Ludovico  di  Breme  (II,  501)  (*),  e  desinò  poi  con  lui  (II,  13)  e  si  compiacque  di  scriverne  ad  una  dama  inglese nel  '24  (II,  341-43);  ma  da  quella  lettera  importante  e  dallo  schizzo  Lord  Byron  en  Italie  che  è  nel  volume  lìacine  et  Shakespeare,  risulta che  gli  piaceva  più  la  sua  bella  ed  espressiva fisionomia  delle  sue  opere  e  che  quella  inamidatura di  lord  gli  dava  ai  nervi.   Tuttavia,  meglio  gli  inglesi  che  i  tedeschi.  Sebbene  più  d  una  biondina  formosa  gli  piacesse  in  Germania,  non  ebbe  mai  buon  sangue    con Hod,  p.  80;  Chuqitet,  p.  30f>. Quivi  la  data  1812  è  un  errore  di  stampa,  o  di  gTafia,  o  di  memoria.  Vedi  II,  342.    DELLO  STENDHAL    313    quella  gente,    con  quella  lingua,    con  quella  letteratura.  I  maschi  gli  sembravano  sgraziati,  le  femmine  *  agréables  »  prima  del  matrimonio; ma  dopo  il  matrimonio  «  faiseuses  d'enfants,  «  en  perpétuelle  adoration  clevant  le  faiseur  »  (*).  La  lingua  e  la  letteratura  tedesca  faceva  le  viste di  conoscerle,  ma  ne  sapeva  poco  e  male  (*),  come  in  genere  sapeva  imperfettamente  ogni  lingua  all' infuori  della  sua.  A  Vienna  solo  se  la  godette  davvero,  sebbene  vi  fossero  sin  troppe  belle  donne  (I,  343).  Vienna  era  notoriamente  la  città  tedesca  che  più  talentava  ai  francesi.  Oltre  al  resto,  v'era  per  lui  anche  l'attrattiva  della  musica.  Descrive  un  Tedeum  sentito  nella  cattedrale  di  Santo  Stefano  nel  novembre  del  1809,  alla  presenza  dell'imperatore  Francesco,  che  fa  pensare  a  tante  cose  (I,  350  e  sgg.).   Annoiato  di  Civitavecchia,  nel  1835  chiese  qualche  consolato  in  Spagna,  ma  non  l'ottenne  (III,  147).  Di  quel  paese  poco  seppe:  non  andò  mai  più  in    di  Barcellona;  la  Spagna  rimase  per  lui  sempre  un  paese  fantastico,  che  vedeva  traverso ai  libri  (I,  128).  Non  dimentichiamo  che  nel  1840  carteggiava  con  la  bellissima  signorina  Eugenia  Guzman  y  Palafox,  poi  contessa  di  Montijo,  a  cui  la  sorte  riserbava  la  corona  di  imperatrice  di  Francia,  corona  di  spine  (III,  253).   (lj  Chequi-,  pp.  94-95. Questo  giudizio  che  mi  formai  sulla  Correiipondance,  godo  di  vederlo  condiviso  dallo  Chuqi-et,  p.  299,  buon  conoscitore di  cose  tedesche.    314    SCORRENDO  IL  CARTEGGIO    Resterebbe,  a  provare  il  famoso  cosmopolitismo del  Beyle,  la  nostra  Italia.  E  qui  non  certo  io  negherò  che  egli  l'abbia  amata,  anzi  amata  molto,  amate  come  pochi  stranieri.  Dalla  prima  volta  che  vi  mise  piede  fino  ai  suoi  di  estremi,  egli  ebbe  per  l'Italia  e  per  gli  Italiani  una  grande  simpatia,  e  le  prove,  come  da  tutte  le  altre  opere,  cosi  pure  dall'epistolario,  potranno  esserne  agevolmente  raccolte  a  centinaia.  Ma  che  l'abbia  capita  molto  e  bene  questa  patria  nostra,  che  si  sia  veramente  reso  ragione  de'  suoi  bisogni,  de'  suoi  pregi  e  delle  sue  miserie  materiali  e  morali,  dubitavo  dopo  aver  letto  Home,  Naples  et  Florence  (l)  e  gli  altri  viaggi,  e  ancor  più  dubito  oggi  dopo  percorso  il  carteggio.   Incanto  impareggiabile  hanno  per  lui,  in  Italia,  le  bellezze  naturali;  ma  solo  in  qualche  lettera  vi  s'mdugia;  mentre  gli  pare  più  conveniente  occuparsi  in  pubblico  delle  arti,  cosi  solennemente rappresentate  nel  nostro  paese.  I  due  volumi usciti  nel  1817  col  titolo  troppo  pretensioso  di  Hifttoirie  de  la  peinture  en  Italie  sono  certo  curiosi,  ma  affogano  le  osservazioni  personali  in  un  mare  di  discussioni  teoretiche,  e  per  quel    fi)  Questo  libro  usci  la  prima  volta  nel  1817;  nel  1818  se  n'ebbe  a  Londra  una  traduzione  inglese;  la  seconda  edizione  francese  fu  del  1826;  la  terza,  postuma,  del  1854,  sulla  quale  furono  condotte  le  successive  ristampe  stereotipe.  L'esemplare del  182(7  che  è  nella  Vittorio  Emanuele  di  Roma  ha  postille  autografe,  di  non  grande  momento.  Le  comunicò  il  dott.  Paolo  Costa  nella  Xuova  Antologia  del  lfXDC. che  è  dei  particolari  di  fatto,  rappresentano  un  vero  saccheggio  di  nozioni  date  da  altri.  Se  si  volessero  distinguere,  nelle  innumerevoli  osservazioni d'arte  di  cui  lo  Stendhal  ha  seminato  i  suoi  scritti,  quelle  che  hanno  vero  valore  d'originalità, se  ne  ricaverebbe  un  libretto  di  pochi  fogli.  Di  artisti  contemporanei,  egli  ammirò  con  fanatismo  il  Canova;  ma  non  si  rileva  troppo  perchè  veramente  lo  amasse  tanto,  egli  che  pure  a  certe  idealità  canoviane  sembrava  così  estraneo. Non  diversamente  dal  Montaigne,  tanto  più  arido  di  lui  ('),  gli  piace  studiare  in  Italia  specialmente gli  uomini,  che  gli  si  presentano  con  quella  spontanea  schiettezza  e  con  quella  fiera  e  primitiva  energia,  onde  è  innamorato.  Ma  anche  qui  cade  nel  suo  solito  difetto,  il  plagio;  giacché  fu  assai  giustamente  osservato  che  senza  la  Corinne  della  Stael,  di  quella  povera  Stael  su  cui  esercitò  tanto  la  sua  maldicenza  (cfr.  Ili,  81-87),  egli  sarebbe  difficilmente  riuscito  a  valutare l'anima  italiana  e  a  leggervi  dentro  (s).  Il  più  delle  volte,  peraltro,  egli  ci  appare  un  gran  cronista,  curioso,  anzi  ficcanaso,  parecchio  pettegolo,  ma  superficiale.  Sia  nei  viaggi,  sia  nelle  lettere,  rileva  in  gran  copia  gli  aneddoti,  se  ne  compiace,  li  accarezza,  li  gonfia:  raro  è  che  assorga  a  vedute  originali  e  larghe;  raro  è     9 Mi  sia  concesso  di  richiamare  in  proposito  il  mio  vecchio articolo  Montaigne  in  Italia,  nella  Gazzetta  Letteraria  del  25  maggio  1889. Chuqckt,  che  s'immedesimi  nella  vita  italiana,  come  seppe  fare,  nei  rapporti  artistici,  il  Goethe,  che  dal  viaggio  in  Italia  tornò  rinnovato.  Massone  sin  dal  1806  e  ribelle  per  indole,  frequentatore  a  Milano  dei  palazzi  e  dei  salotti,  ove  fermentavano le  idee  liberali,  cadde  in  sospetto  (ci  voleva tanto  poco!)  alla  polizia  austriaca,  che  lo  sfrattò  dalla  Lombardia  (';;  e  quando,  più  tardi,  fu  nominato  console  a  Trieste,  ove  si  annoiava  a  morte,  il  principe  di  Mettermeli  non  ce  lo  volle.  Eppure,  pochi  uomini  politicamente  meno  pericolosi di  lui.  Non  capi  affatto  la  poi-tata  politica  del  Conciliatore,    seppe  vedere  che  cosa  in  Italia  importasse  il  romanticismo.  Un  suo  scritto  italiano  sul  romanticismo  fu,  con  ogni  probabilità, solo  annunciato  e  non  mai  eseguito  (!);  e,  del  resto,  non  concepisco  come  ei  potesse  scrivere in  italiano  un'opera  da  dare  alle  stampe,  mentre  fu  sempre  così  imperfetto  conoscitore  della  lingua  nostra  (3).  Si  hanno  di  lui  alcune   il)  Vedi  i  documenti  prodotti  dal  D'Ancona  in  quella  parte  delle  sue  Spigolature  nell'archìvio  della  polizia  austriaca  di  Milano i  yuova  Antologia.  10  gennaio  1899),  che  concerne  il  Beyle. Il  dilingentissimo  Chuquet  non  lo  conosce;  il  D'Ancona ne  fece  indarno  ricerca.  Io  stesso,  che  pure  ebbi  la  fortuna  di  disporre,  per  lo  Stendhal,  d'un  ricco  materiale,  quale  è  quello  che  venne  alla  Biblioteca  Nazionale  di  Torino  pel  munifico  dono  della  raccolta,  in  gran  parte  napoleonica,  del  barone  Alberto  Lumbroso,  non  potei  vederlo.  Tuttavia  anche  recentemente  H.  P.  Thiemk.  nella  sua  Guide  bibliografiiiue  de  la  littérature  franqahe  de  181MJ  à  19,  Paris,  1907,  pagina 394,  registra  dello  Stendhal  come  stampata  a  Firenze  nel  1819,  un'operetta  Del  Romantismo  nelli  arti!  Cos.!!   (8)  La  sua  mostruosa  lettera  italiana  alla  sorella  Paolina,    DELLO  STENDHAL    317    pairine  francesi,  Qu'est-ce  que  le  vomantìhmeì,  nel  volume  Racine  et  Shakespeare;  ma  attestano solo  una  gran  confusione  d'idee.  Il  romanticismo, per  lui,  era  solo  naturalezza  e  verità  contrapposte  all'accademicismo  convenzionale;  quindi  in  una  lettera,  dice  arciromantici  Dante  e  l'Ariosto  (II,  124)  e  altrove  professa  che  tutti  i  grandi  scrittori  furono  romantici  al  tempo  loro  (').  iSiamo,  evidentemente,  fuori  di  strada.  Se  pei'  il  Pellico,  di  cui  stimava  oltre  il  merito  la  Francesca,  si  adoperò  con  sincera  amicizia  presso  il  Bvron  ili,  :$03-4  e  338-40),  gli  è  solo  perchè  quella  soave  e  quasi  femminea  natura  di  iioino^  lo  aveva  stranamente  soggiogato.   Quali  siano  stati  i  giudizi  del  Beyle  su  lette  dei  23  dicembre  1800  (I.  17-18;,  è  cosa  giovanile;  ma  anche  in  seguito  i  suoi  progressi  non  furono  grandi.  Si  può  esser  sicuri  che  ogni  qualvolta  gli  accade  di  citare  una  frase  italiana la  infarcisce  di  spropositi.  Cfr.  I,  153,  294.  381,  ecc.  In  una  importante  lettera  alle  sorelle,  del  1827.  in  cui    loro  utili  consigli  pratici  per  \m  prossimo  viaggio  in  Italia  e  le  raccomanda  al  Vieusseux,  «  libraire  et  homme  d'esprit  qui  rassemble  à  un  épervier  »,  commette  il  comico  errore  di  scrivere  spezzate  invece  di  spesate  (II,  471).  Aveva  proprio  ragione  il  Beyle  quando  diceva:  «  Je  crois  qu'il  y  a  peu  d'hommes  qui  aient  aussi  peu  de  disposition  que  moi  pour    appvendre  les  langues  »  CI,  55.).  I  nuovi  editori  dell'epistolario gareggiano  col  loro  autore  nello  spropositare  l'italiano.  Sono  essi,  ritengo,  e  non  l'autore,  che  convertono  l'ufficio  del  bollo  in  ufficio  del  botto  (Ill.»153-154)  e  costantemente  mascherano Sinigaylia  in  Sivigaglia.  A  p.  57  del  voi.  Ili  il  B.  si  chiede:  «  permettra-t-on  la  force  de  Sivigaylìa?  *  E  ovvio  che  si  doveva  leggere  «  la  foire  de  Sinigaylia  >,  la  fiera  celebratissima  a  quel  tempo.  Siamo  nel  1831.Rod,  rati  italiani  indicarono  parecchi  espressamente,  specie  il  D'Ancona  e  lo  Chuquet.  Con  l'epistolario non  vi  è  molto  di  nuovo  da  aggiungere,  ma  parecchio  da  completare.  Per  quanto  i  suoi  apprezzamenti  di  critica  letteraria  siano  molte  volte  di  discutibil  valore,  s'ha  almeno  il  vantaggio di  trovarsi  qui  d'innanzi  impressioni  immediate e  genuine,  non  già  rifacimento  di  pareri altrui,  come  avviene  altrove,  ove  parla  del  Metastasio  e  dell'Alfieri  (').  Di  scrittori  nostri  antichi,  i  più  graditi  gli  sono  sempre  l'Ariosto  ed  il  Tasso.  Anche  il  Bandello  gli  piace  e  lo  rammenta  nell'avvertenza  proemiale  alla  Chartreuse de  Parme,  libro  in  cui  l'influsso  bandelliano  mi  sembra  innegabile.  La  lettura  del  Goldoni lo  rasserena  a  Berlino  nel  1807  e  gli  ricorda giocondamente  l'amata  e  remota  Italia  (I,  299).  Legge  pure  Carlo  Gozzi,  ma  non  lo  stima  (I,  319).  Il  Monti  è  una  «  girouette  »,  ma  nel  medesimo  tempo  «  le  Racine  de  l'Italie  »  (II,  65).  Nel  Jacopo  Ortis  non  sa  vedere  che  «  une  copie  du  Werther  »  (IL  286).  Curioso  è  il  paragone  che  istituisce  fra  i  Sepolcri  ed  il  carme  in  morte  dell'Imbonati,  dando  la  preferenza  a  quest'ultimo (II,  408).  Il  suo  fanatismo  irreligioso  gli  fa  considerare  come  antisociali  e  venefici  gli  inni  sacri  del  Manzoni;  ha  certa  deferenza  per  le  sue  tragedie,  ma  le  giudica  più  letterarie    CI)  Dei  plagi  nella  critica  letteraria  dello  Stendhal  s'occupò a  varie  riprese  A.  Lumbroso.  Vedi  indicazioni  nella  Rivista  d'Italia,  VI  (1903),  II,  669  sgg.        che  teatrali  (II,  165,  168,  295-96Ì.  Va  in  solluchero pel  Cinque  maggio;  ma  non  sembra  che  i  Promessi  Sposi  lo  abbiano  colpito  eccessivamente (II,  515;  III,  91).  Si  scompiscia  dalle  risa  al  leggere  la  satira  del  Giraud  intitolato  Cetra  spermaceutica  e  chiama  il  conte  «  petit  Mirabeati  de  Rome  »  (II,  171).  La  poesia  dialettale  italiana  lo  esalta:  tuttavia  ci  fa  cader  le  braccia il  notare  che  mentre  ignora  il  Belli  e  appena  cura  il  Porta,  i  versi  vernacolari  del  Gross^  e  del  Buratti  dice  che  saranno  vivi  quando  più  non  si  rammenteranno  i  Sepolcri  ili,  416).  La  Prineide  del  Grossi,  di  cui    un  riassunto,  gli  pare  .  244  sgg. Per  questa  dolorosa  istoria  è  da  consultare  Chco.uet,  pp.  233  a  214.       10  coglieva  la  morte  (M.  Con  una  profezia  che  lusingava  il  suo  amor  proprio,  egli  aveva  detto  che  solo  verso  il  1880  i  suoi  libri  avrebbero  avuto  fortuna:  i  critici  della  seconda  metà  del  secolo  XIX  colsero  a  volo  questa  curiosa  profezia e  cercarono  di  dargli  ragione.   L'elogio  sperticato  che  della  Chartreuse  de  Parme  fece  il  Balzac,  conciliò  al  Beyle  le  simpatie dei  veristi,  ultimo  dei  quali  scese  in  campo  ad  esaltarlo,  ma  con  più  criterio  e  più  moderazione del  Balzac,  lo  Zola.  Il  caustico  SainteBeuve  vide  in  lui  un  eccitatore  suggestivo;  Ippolito Taine  un  gran  psicologo,  sicché  più  tardi  al  Bourget  parve  doveroso  riconoscerlo  precursore del  romanzo  psicologico.  Non  senza  ragione  fu  osservato  da  altri  che  il  creatore  di  Julien  Sorel  e  di  Fabrizio  del  Dongo,  i  due  volitivi  che  pongono  il  proprio  piacere  al  di  sopra  di  tutto  e  «  la  ragion  sommettono  al  talento  »,  personazione  di  quella  energia  che  affascinava   11  Beyle,  potrebbe  anche  essere  rivendicato  a  precui-sore  del  moderno  nitschianismo  penetrato  nell'arte,  degli  ammiratori  del  superuomo  e  dell'uomo che  vive  al  di  fuori  della  morale.   Presentimenti  di  modernità,  germi  d'avvenire  sono  certamente  nei  tre  romanzi  del  Beyle:  Armance,  Le  rouge  et  le  noir,  La  Chartreuse  de  Parme  (!).  Il  migliore  dei  tre  è  Le  rouge  et  le Vedi  l'ultima  lettera  dell'epistolario,  III,  285.  c2)  Pei  due  romanzi  abbozzati  e  pubblicati  postumi  uon  mi  curo.    Rrnirr    Svaghi  Crìtici    SI        noir,  che  ha  pagine  bellissime,  piene  di  osservazioni psicologiche  fini  e  felici.  Ma,  nell'insieme, né  quello    gli  altri  sono  libri  tali  da  resistere  al  tempo  e  da  riuscire  da  capo  a  fondo  soddisfacenti.  V'è  prolissità,  pesantezza,  inesperienza. Non  ebbe  del  tutto  torto  chi  definì  lo  Stendhal  «  moins  un  romancier  qu'un  collectionneur  d'observations  psicologiques  »  (').  Il  soggetto dell'Armance,  in  mano  ad  un  grande  analizzatore d'anime,  poteva  riuscire  un  capolavoro:  un  giovine  visconte,  bello,  ricco  e  bizzarro,  che  ha  il  difetto  dell'impotenza  fisiologica  e  che  si  innamora  perdutamente  di  una  fanciulla  russa,  povera  e  gentile,  da  cui  è  passionatamente  corrisposto. Tema  tragico,  cui  sovrasta  il  pericolo  di  scivolare  nel  comico,  che  il  Beyle  trattò  in  maniera  assai  maldestra,  sebbene  egli  avesse  sempre  un  debole  per  quel  suo  libro.  La  Chartreuse de  Parme  dovrebbe  interessare  maggiormente a  noi,  perchè  la  scena  è  in  Italia,  e  italiani ne  sono  i  personaggi.  Ma,  ahimè!  Quale  Italia  e  quali  italiani!  L'autore  non  ha  saputo  fare  di  meglio  che  camuffare  gli  italiani  del  secolo XIX  incipiente,  che  aveva  conosciuti,  con  i  costumi  dell'età  dei  Borgia  e  dei  Farnesi,  sicché ne  è  venuto  fuori  il  più  miserando  cibreo  che  immaginar  si  possa.  Tocchi  realistici  eccellenti non  mancano  qua  e  là,  ed  eran  quelli  che  facevano  andare  in  visibilio  il  Balzac;  ma  nel  Georges  Pellissier  nell'tìwtoire  del  Petit  de  JuUeville,  VII,  445.    3    suo  complesso  il  libro  è  illeggibile.  Non  posso  dire  mi  appaghi  neppure  quella  battaglia  di  Waterloo vista  in  iéeorcio,  perchè  essa  si  riduce  ad  una  serie  di  scenette  tragicomiche.  Può  darsi  che  una  battaglia  napoleonica  vista  da  vicino  (ed  il  Beyle  ne  sapeva  qualcosa)  fosse  cosi;  ma  noi  stiamo  piuttosto  con  la  grande  visione  epica  del  fatto  quale  seppe  rievocarla  Victor  Hugo.   Nel  romanzo,  più  che  negli  altri  scritti  suoi,  il  Beyle  ha  il  merito  della  sincerità,  merito  riconosciutogli anche  da  Emilio  Faguet,  che  fu  forse  il  più  penetrante  e  sicuro  e  imparziale  tra  quanti  critici  letterari  di  lui  parlarono  sinora  (*).  Sincero  nel  l'osservare,  nel  ritrarre,  nel  comporre;  sincero  e  personale.  I  suoi  protagonisti  finiscono  col  riuscire  tutti  poco  simpatici,  perchè  ritengono del  suo  beylismo,  nella  ricerca  sfrenata  del  piacere,  nell'egotismo  straripante.  Ma  sono  anche,  come  lui,  mobili,  intraprendenti,  curiosi,  disuguali;  sono  uomini  che  vivono.  Aver  fatto  vivere  nell'arte  delle  creature  umane  è  già  una  fortuna  che  non  tocca  a  tutti.   Nata  aggiunta.  — '  Già  nel  Fanfuìla  della  Domenica  del  14  giugno  1908.  La  letteratura  stendhaliana  si  viene  di  continuo-aumentando,  ma  poco  v'è  che  direttamente  riguardi  lo  scopo  dell" articolo  mio.  Lo  scritto  più  importante  che  ho  da  segnalare,  occasionato  dalla  C'orrespondance,  è  di  H.  Mosix,  Stendhal  educateti);  nel  Mercure  de  France,  voi.  78",  p.  392  sgg.  (1»  aprile  1909).  Ivi  sono  studiati  i  rapporti  di  Enrico  Beyle    fi)  Articolo  su  Stendhal  nella  Berne  dea  deux  monde»,  Serie IJI.  an.  H2"  (1892),  pp.  594  sgg.    .    con  la  sorella  Paolina,  e  vi  pi  dice  giustamente  che  «  Henri  «  Beyle  a  voulu  fture  de  .sa  seur  préférée,  à  l'insu  et  à  «  l'encontre  du  pére,  la  fille  de  son  esprit,  de  son  coeur    4>.  SiT).  Conchiude  il  Monin  ohe  l'influsso  di  lui  sulla  sorella fu  influsso  di  pervertimento.  Chi  voglia  approfondire  quella  relazione  fraterna,  nonché  certi  rapporti  del  Beyle  con  l'Italia,  non  deve  trascurare  la  seconda  serie  dello  Soirée»  du  .Stendhal  Club.  Paris.  1908,  tutta  gremita  di  documenti inediti.  Ne  sono  editori  Casimiro  Striyenski  e  Paul  Arbalet.  Dello  Striyenski,  che  è  notoriamente  imo  dei  più  passionati  e  benemeriti  beylisti,  vedasi  una  severa  critica  della  Correnponiìanre  nella  Revue.  critiqne     ristoro  nella  campagna,  che  amava  tornare  ai  tranquilli  ritiri  della  sua  Normandia,  che  passeggiava volentieri  con  gli  amici,  che  s'abbandonava alle  salutari  fatiche  del  canottaggio  sulla  Senna,  o  ai  salutari  riposi  della  navigazione  sul  mare,  sempre  da  lui  adorato;  ma  troppo  spesso  que'  medesimi  riposi  e  sollazzi  implicavano  consumo di  forze.  Siccome  egli  era  un  vero  «  gourmand  de  la  vie  »,  facendo  a  fidanza  sulla  propria robustezza,  s'immerse  sin  da  giovine  nei  piaceri,  sicché  già  nel  1878  gli  si  fecero  palesi  quei  disturbi  nervosi,  per  cui  lo  ammoniva  il  suo  Flaubert.  Non  diede  retta,  anzi  fece  peggio.  Inebbriato  del  successo,  produsse  in  un  decennio una  formidabile  quantità  di  novelle  e  di  romanzi, sino  a  procurarsi  l'agiatezza,  anzi  la  ricchezza. Nè  smise  per  questo  le  male  pratiche,  giacché  ebbe  la  suprema  sventura  di  non  innamorarsi mai  sul  serio  d'una  donna.  Sarà  verissimo ciò  che  disse  di  lui  la  madre:  «  il  fut  sou«  vent  un  séducteur,  jamais  un  dépravateur  »  (');  ma  è  cei'to,  nel  tempo  stesso,  che  nella  donna  egli  vedeva  solo  uno  strumento  di  piacere  e  che  ne  abusava  (*),  perchè  la  coscienza  sua  non  aveva  nessuna  forte  base  di  moralità  su  cui  poggiare.  Lasciamo  qui  nell'ombra  un'altra  considerazione,  che  avrebbe  pure  importanza  capitale  nella  diagnosi del  suo  male;  se,  cioè,  quella  vita  sessuale    (l.i  Lumiiroso,  pp.  321-25.  (2|  AI  AYNIAT.    sregolata  gli  lasciasse  qualche  ricordo  rovinoso  (.'):  sta  però  sempre  incrollabile  il  fatto  che  uno  strapazzo  tisico  unito  ad  uno  strapazzo  intellettuale continuo  non  poteva  che  trascinarlo  alle  più  sinistre  conseguenze.  Infatti,  ben  presto  gli  s'indebolì  la  visto,  l'olfatto  pati  d'una  iperestesia malata,  l'umore  divenne  tetro,  le  notti  tormentosamente insonni;  fu  preso  da  un  desider io  di  solitudine  assoluta,  che  acuiva  il  suo  male;  non  tardarono  le  allucinazioni,  a  cui  successero  i  tenori  della  mania  persecutiva,  la  megalomania,  il  lento  ma  progressivo  ottenebrarsi  delle  facoltà  intellettive,  fino  al  tentato  suicidio  del  gennaio  1892  ed  alla  morte,  nel  1893,  nella  casa  di  salute  del  dott.  Bianche  a  Passy,  dopo  18  mesi  di  follìa.  Avea  cercato  distrazione  nei  viaggi;  forse  troppo  tardi,  certamente  non  in  .guisa  da  conferir  vigore ài  suo  sistema  nervoso  tanto  scosso.   Sin  da  giovinetto  Guy  mostrò  inclinazione  a  far  versi,  e  forse,  se  fosse  vissuto  il  suo  zio  materno Alfred  Le  Poittevin,  che  mancò  giovanissimo nel  .1848,  e  se  non  avesse  avuta  corta  vita  anche  lo  squisito  rimatore  Louis  Bouilhet,  che  fu  il  suo  primo  maestro  quando  studiava  a  Rouen,  chissà  ch'egli  non  si  fosse  dato  esclusivamente  alla  poesia.  Non  sarebbe  stato  un  vantaggio,  giacili II  medico  Louis  Thomas.  nell'opuscolo  ì4a  malattie  c/la  mori  ile  Manjmftìtrrnt  i Bruges,  190fì),  cerca  dimostrare  la  parte  ch'elibe  la  sifilide  nella  precoce  rovina  di  quell'esistenza.  Nel  primo  saggio  d'analisi,  uscito  nel  fascicolo    giugno  1905  del  Mentire  de  France,  egli  non  dava  alla  sifilide  tanta  importanza.       chè  i  saggi  poetici  che  abbiamo  eli  lui  son  molto  lontani  dal  valore  delle  prose.  La  madre  e  lo  zio  erano  stati  compagni  d'infanzia  di  Gustavo  Flaubert:  avviamento  alle  lettere  Guy  l'ebbe  in  famiglia,  uno  dei  primi  autori  che  la  madre  gli  lesse  fu  Shakespeare.  Il  giovinetto  era  insofferente d'ogni  disciplina,  amante  della  vita  semplice e  libera,  della  campagna,  del  mare,  degli  abitatori  della  campagna  e  dei  frequentatori  del  mare.  Malgrado  avesse  l'aspetto  vigoroso  d'un  torello, era  un  sensitivo  non  meno  che  un  volitivo.  Passato  a  Parigi  per  guadagnarsi  da  vivere  nei  ministeii,  s'ebbe  dal  Flaubert,  amico  di  famiglia,  il  gusto  e  l'indirizzo  della  prosa  narrativa.   La  prima  novella  il  Maupassant  la  pubblicò  nel  1875,  a  25  anni,  con  lo  pseudonimo  di  Joseph  Prunier.  Il  Flaubert  non  ne  fu  contento.  La  disciplina del  Flaubert  era  delle  più  austere:  «  Un  «  artista,  egli  diceva,  deve  avere  un  solo  pro«  posito  :  sacrificare  tutto  all'arte  »  (').  Con  questa specie  d'ascetismo  artistico  venne  su  il  Maupassant osservatore  e  rappresentatore.  Il  Flaubert volle  anche  insegnargli  praticamente  i  processi della  sua  arte  e  in  certa  guisa  lo  chiamò  a  cooperare  a  quel  Bouvnrd  et  Pècuchet,  di  cui  Guy  doveva,  morto  il  maestro,  sorvegliare  la  stampa  postuma.  Introdotto  nei  circoli  letterari  più  in  voga,  l'impiegato  ai  ministeri  venne  sempre meglio  sviluppando  le  sue  eccezionali  qualità  di  scrittore.  Si  provò  nella  drammatica,  ma  senza  Correspondance  de  Flaubert,  IV,  302-3.    MAUPASSANT    351    buon  esito;  abbozzò  più  di  un  racconto,  che  il  Flaubert  gli  cincischiò  spietatamente;  alfine  riusci ad  ottenere  un  grande  successo  presso  il  maestro  e  presso  il  pubblico  con  Bou.lt  de  saif,  novella  introdotta  nella  raccolta  miscellanea  delle  Soù-àes  deMedan.  S'era  intorno  al  1880:  l'8  maggio  di  quell'anno  il  Flaubert  passò  di  vita  (').   Botile  de  suif    allo  scrittore  normanno  la  coscienza  della  sua  forza.  Lascia  l'impiego  per  consacrarsi  tutto  alle  lettere,  e  in  un  decennio  pubblica  sedici  volumi  di  novelle,  sei  romanzi,  tre  volumi  d'impressioni  di  viaggio:  in  qualche  anno,  come  nel  1885,  riesce  a  pubblicare  da  quattro  a  cinque  volumi  nuovi,  oltreché  accudire alle  ristampe  e  seminare  d'articoli  non  so  quanti  giornali.  Guadagnava  con  la  penna  non  meno  di  ventotto  mila  franchi  l'anno.  Non  si  lasciò  prendere  quasi  mai  dal  desiderio  di  scrivere pel  solo  guadagno;  si  mantenne  coscienzioso, anzi  fin  scrupoloso;  ma,  amante  della  vita  e  dei  godimenti,  apprezzava  il  denaro,  era  oculatissimo  affinchè  i  suoi  editori  non  profittassero  Nella  Correspomlance,  IV,  351,  il  Flaubert  dice  del  Maupassant:  «  C'est  mon  disciple  et  je  l'aime  comme  un  fila  ».  A  sua  volta,  il  Maupassant  dedicò  al  Flaubert  il  volume  Des  eers,  che  coutiene  una  scelta  delle  sue  poesie,  e  fu  per  la  prima  volta  pubblicato  nel  1880.  Lo  chiama    l'illustre  et  paternel  ami,  que  j'aime  de  toute  ma  tendresse  »  e  46.  Egli,  del  resto,  come  tutti  i  naturalisti  francesi,  è  povero  critico.  L'articolo  su  L'évolution  da  roman  au  XIX  siede,  che  inseri  nella  Sevue  de  l'exposUion  universdle  del  novembre  1889,  è  miserrima  cosa.   (4)  Un  erudito,  che  modestamente  firma  con  le  sole  iniziali (Lumbroso,  pp.  586-90),  ma  in  cui  riconosco  l'amico  L.  Or.  Pélissier  di  Montpellier,  colpisce  nel  segno  dicendo  del  Maupassant: «  Moins  copieux  que  Balzar,  il  est  plus  précis  de  «  contour;  moins  profond  que  Flaubert,  il  est  plus  spon«  tanè;  moins  puissant  que  Zola,  il  est  plus  humain  •.    MAUPASSANT    355    Le  l'Oman,  che  va  innanzi  al  suo  Pierre  et  Jean,  e  si  vedrà  che  nei  principi  dell'aite  egli  fondamentalmente  non  si  scosta  dalle  teorie  del  Flaubert,  con  la  differenza  che  a  lui,  natura  più  benigna,  aveva  concesso  una  felicità  rappresentativa e  sintetica,  che  il  maestro  non  ebbe,  una  felicità  nell' imbroccare  a  prima  giunta  l'espressioni' e  l'epiteto,  che  il  maestro  era  ben  lungi  dal  possedere  (').  Nel  primo  e  più  fortunato  periodo  della  sua  operosità,  lo  scrittore  normanno  non  si  allontanò  mai  dal  proposito  di  far  vedere  la  psicologia  in  azione,  di  considerare  la  psiche  come  «  la  carcasse  de  l'oeuvre  »,  la  quale  deve  rimanere  invisibile  «  cornine  l'ossature  invisible  est  la  carcasse  du  corps  humain  »  (2).  Potrà  quindi  sembrare  ardita,  ma  non  è  punto  falsa,  anzi  è  ingegnosamente  indovinata  l'espressione  di  ehi  lo  designava  «  un  grand  paysagiste  d  'àmes  »  (3).   Non  diversamente  dal  Flaubert,  egli  ammetteva nell'artista  il  procedimento  di  scelta  e  quello  di  composizione,  perchè  «  faire  vrai  consiste...  «  à  donneil'illusion  complète  du  A  rai,  suivant  «  la  logique  ordinaire  des  faits,  et  non  à  les  Specialmente  dalla  Corresporulance  rilevò  le  teorie  artistiche del  solitario  di  Croisset.  con  diligenza  e  perspicacia,  Antonio  Fusco,  nell'eccellente  libretto  La  filosofia  dell'arie  in  Gustavo  Flaubert  (Messina.  1907 1,  che  è  uno  dei  pochissimi  saggi  pregevoli  usciti  in  Italia  sulla  letteratura  francese  modernissima. Le  roman.  in  Pierre  et  Jean,  44a  ediz.,  Paris,  Ollendorff,  1891,  p.  XXI.   (3j  Henri  Fouquier.  Vedi  Lcmbroso,  p.  -20ij    MADPASSANT    «  transcrire  servilment  dans  le  pèle-mèle  de  leur  «  succession  »  (').  Ora  è  appunto  in  questa  scelta  che  appare  la  sua  indole  d'uomo  sensuale  e  scettieamente  burlone.  Aveva  un  gran  gusto  a  «  mystifier  le  bourgeois  »,  come  dimostrò  in  varie  occasioni  (%  dividendo  anche  in  questo  certa  tendenza  del  suo  maestro,  che  odiava  le  menzogne  convenzionali  della  società  per  bene,  non  meno  di  quanto  Ai-rigo  Heine  odiasse  le  abitudini dei  philister  tedeschi  (3).  Quando  poteva  sollevare  scandalo,  andava  a  nozze;  e  a  ciò  si  deve  gran  parte  della  crudezza  di  certe  sue  novelle. Ma  si  deve  anche,  lo  ripeto,  alla  natura  disposta  ai  piaceri  del  senso.  Il  sensualismo  fu  tutta  la  filosofia  e  tutta  la  morale  del  Maupassant  (*).  Vi  ritorna  di  continuo,  in  tutti  i  modi,  e  talora  ne  fa,  con  ironia  atroce,  la  caricatura,  o  meglio  ne  promuove  la  caricatura  per  effetto  spontaneo  di  casi.  Singolare  indulgenza  ha  per  le  mogli  infedeli  e  specialmente  per  le  femmine  da  conio.  Il  romanticismo  sentimentale  avea  creato  in  Francia  il  tipo  fortunatissimo  di  Marguerite Gautier,  la  cortigiana  redenta  dall'amore,  uccisa  dall'amore.  In  alcune  novelle  celebri  come  Binde  rie  suif,  come  La  maison  Tetliev,  Guy  si  diverte  a  presentarci  la  cortigiana  boa  enfant,  che  ha  le  sue  fierezze,  le  sue  abnegazioni,  i  suoi  Le  roman,  p.  XVII. Mav.mai.,  pp.  J7-Ì8  e  (il. Prcfaz.  cit.  alle  Lettre*  de  li.  Flaubert  à  fi,  .Santi,  pagine LXXIV  sgg.   (4)  Petit  de  Jii.i.kvillk,  Liti,  francaine,  tenerumi.  Messa  in  scena,  ha  fatto  trionfalmente  il  giro  dei  teatri,  tolta  da  una  sua  novella,  quella  soave  grisette,  che  è  tutta  un  alito  di  poesia,  cui  fu  dato  il  nome  di  Musotte  (').  Sino  ad  un  certo  punto  è  vero  ch'egli  ha  «  la  grande  sensuali    »,  ch'egli  ama,  a  differenza  d'altri  suoi  connazionali letterati,  più  cinici  o  più  corrotti,  «  le  geste  animai  cìans  toute  sa  beau    »  (s);  ma  è  pur  anche  verissimo  che  la  sua  predilezione  per  la  turpitudine,  la  sua  impassibilità  nel  rappreseli  tare  la  turpitudine,  sono  qualità  non  belle,  inerenti al  suo  organismo  e  al  suo  spirito.  Carnalità, peraltro,  convien  riconoscerlo,  non  mai  volgare, che  trova  sovente  nella  sua  anima  di  artista  una  forma  di  idealizzazione.  Significativi  sono,  per  questa  parte,  i  suoi  viaggi.  Vedansi  quelli  in  Italia  descritti  nel  volume  La  vie  errante. Lasciata  Parigi  e  la  Francia  perchè  la  torre  Eiffel  avea  finito  con  l'annoiarlo  orrendamente, egli  costeggia  l'Italia  percorrendo  col  suo  yacht  il  Mediterraneo,  e  si  ferma  in  vari  luoghi  delle  due  Riviere  e  poi  va  in  Sicilia.  Del  paesaggio  ha  senso  squisito:  sente  anche  l'architettura, ma  a  modo  suo.  Per  apprezzare  il  paese  nostro  gli  manca  un  grande  elemento,  la  coltura.  È  agevole  l'accorgersi  che  quando  parla  di  monumenti  che  non  sieno  archi  tetto  ilici,  non  ha  l'attitudine  ad"  intenderli.  Due  sole  opere  di  Rappresentata  la  prima  volta  il  I  marzo  novella è  nella  raccolta  t'Iair  tle  lune.  Mavxiai.,  p.  290.  M Lombroso,  p.  590.    358  MACPASSANT   l   plastica  suscitano  la  sua  ammirazione,  gli  fanno  sentire  ardente  il  desiderio  di  rivederle:  il  capro di  bronzo  del  Museo  di  Palermo  e  la  Venere di  Siracusa  (').  Perchè  quel  capro  e  perchè  quella  Venere?  Il  capro  per  la  sua  potente  espressione animalesca;  la  Venere  per  la  sua  balda  carnalità bella.  «  Ce  n'est  point  la  fera  me  poetisée,  «  la  femme  idéalisée,  la  fera  me  divine  ou  maje«  stuense  corame  la  Vénus  de  Milo,  c'est  la  femme  «  telle  quelle  est,  telle  qu'on  I'airne,  telle  qu'on  «  la  désire,  telle  qu'on  la  veut  étreindre  ».  Su  quella  statua  senza  testa,  e  che  gli  piace  di  più  perchè  manca  di  quell'accessorio  troppo  spirituale; su  quella  statua  piena  di  pudore  e  d'impudicizia e  che,  velando  e  svelando,  attirando  e  sottraendosi,  «  semble  definir  toute  l'attitude  de  la  femme  sur  la  terre  »:  su  quella  statua  che  è  «  le  symbole  de  la  chair  »,  il  Maupassant  ha  scritto  pagine  calde  ed  eloquenti,  in  singolar  modo  significative.  L'artista  è  là.   Ma  a  Palermo  volle  visitare  puranco  la  necropoli dei  cappuccini  e  non  si  lasciò  distogliere  dalla  macabra  fissazione.  Anche  questo  spettacolo di  morte  ei  descrive  e  si  sente  fremere  nella  sua  descrizione  il  terrore  Ecco  il  Maupassant del  secondo  periodo,  il  fantasticante,  il  visionario,  l'atterrito,  l'allucinato,  cui  la  paralisi  preme,  incubo  orrendo.  La  vie  errante,  Paris,  OUendorff,  1890,  pp.  117-123. La  vie  errante,  pp.  67-73.    MAUPASSANT    Nel  secondo  periodo  scema  la  nitidezza  incisiva, che  ò  pregio  massimo  delle  prime  novelle,  ma  scema  pure  la  brutalità;  si  ha  un  Maupassant  più  morbido,  più  amabile  e  che  perciò  piace  di  più  al  signor  Brunetière.  Eppure,  quella  maggior morbidezza  è  decadenza;  quella  maggiore  amabilità  implica  l' intrusione  dell'autore  nell'opera d'arte  e  quindi  una  divergenza  dalla  formula iniziale  del  rigido  naturalismo.   Ripensiamo  le  parole  che  un  altro  insigne  scrittore francese,  J.  M.  de  Heredia,  disse  di  lui  nel  1900,  quando  fu  inaugurato  il  suo  busto  a  Rouen:  «  La  dernière  fois  que  je  le  vis,  il  me  dit  lon«  guement  sa  mélancolie,  l'ennui  de  la  vie,  la  «  maladie  grandissante,  les  défaillance»  de  sa   *  vision  et  de  sa  mémoire,  ses  yeux  cessant  «  tout  à  coup  de  voir,  la  nuit  totale,  l'aveugle«  ment  persistant  un  quart  d'heure,  une  demi«  heure,  une  heure...  Puis,  la  vision  revenue,  «  dans  la  hàte,  la  fièvre  du  tvavail  repris,  un   *  arrét  subit  de  la  mémoire  et  (quel  supplice  «  pour  un  tei  écrivain!)  l'impuissance  à  trou«  ver  le  mot  juste,  sa  recerche  acharnée,  la  «  rage,  le  désespoir.  Il  ne  prenait  plus  plaisir  «  à  rien,  raèrae  à  taire  le  bien.  Il  medisait  en«  core  l'angoisse    le  tenait  le  dédoublement  «  maladif  de  sa  personalité  »  (*).  Ldibroso    La  tragedia  intima  di  quella  povera  anima  si  dipinge  nell'opera,  ove  entra  sempre  più  la  personalità dello  scrittore,  col  suo  pessimismo  e  i  suoi  terrori.  Notre  cceur,  lo  sappiamo  ormai  con  sicurezza,  è  quasi  un  romanzo  autobiografico  (').  Frammezzo  ai  facili  amori  di  Bel  ami  s'insinua  terrifico  lo  spettro  della   morte:  si  rileggano  le  amare  considerazioni  di  Norbert  de  Varenne  e  tutto  ciò  che  circonda  la  fine  di  Forestier  (').  Questo  spettro  non  abbandona  più  il  Maupassant:  ed  egli  ce  lo  farà  ricomparire  in  altri  suoi  racconti.  Perchè,  ed  è  questa  una  strana  bizzarria della  nevrosi,  quanto  più  quella  visione  gli  riusciva  paurosa,  tanto  più  si  sentiva  fascinato  da  essa  e  voleva  ritrarla.  Con  l'amore  della  solitudine cresce  in  lui  e  si  fortifica  una  specie  di  amore  e  quasi  di  culto  per  la  paura  (3).  Ancor  più  tormentose  sono  le  allucinazioni  vere  e  proprie, di  cui  la  massima  ed  insistente  consiste  nello  sdoppiamento  della  personalità  ritratto  nelle  novelle  che  s'intitolano  Lui?,  Le  Eorla,  Qui  sait?  (4).  Queste  condizioni  patologiche  di  spirito e  di  corpo  danno  all'arte  di  Guy  una  singolare propensione  alla  tenerezza  e  talvolta  una  finezza  d'osservazione  psicologica  meravigliosa.  Abbiamo  in  proposito  indicazioni  precise  della  madre.  Vedi  Lcmbroso,  p.  331. Nell'edizione  illustrata  Ollendortf  di  Bei-ami  vedi  le  pp.  159-G4,  -204,  215. Belle  sono  su  questo  soggetto  alcune  pagine  del  Maini al;  pp.  239-44;  cfr.  pp.  257-58.   (4)  Mavhiai-,      Gli  balena  a  volte  anche  l' idea  del  divino,  ma  lo  spirito  suo  irreligioso  ed  educato  fuori  della  religione non  riesce  a  trovarvi  i  conforti  impareggiabili che  altri  vi  rinvenne.  Cosi  prosegue  senza  bussola,  nella  vita  e  nell'arte,  ed  egli  ricco,  egli  glorioso  è  un  grande  infelice.  «  La  folie  de  Mau«  pausa  ut,  scrive  il  suo  biografo,  ne  fut  constatée  «  par  son  entourage  et  rendile  presque  publique  «  qu'à  la  fin  de  1891,  dans  les  mois  qui  précé«  dèrent  sa  tentati  ve  de  suicide.  Mais  on  peut  «  relever  les  prémiers  indices  de  troubles  nerveux  «  dès  l'année  1884,  dans  les  pages  de  da  ir  de  «  lune,  d'Au  soleil,  des  Soeurs  Rondoli...;  le  mal  «  s'accentue  en  1887-1888,  et  nous  avons  pu  en  «  suivre  revolution  dans  Le  Hnrla  et  dans  Sur  «  l'eait;  en  1890,  certaines  nouvelles  de  l'Inutile  «  beauté,  certains  chapitres  de  La  vie  errante  lais«  sent  deviner  le  dètraquement  irrémédiable»  (').   Sulla  tomba  dell'amico  perduto,  Emilio  Zola,  pronunciando  un  discorso  memorabile,  deplorava la  sparizione  di  quella  «  bornie  tòte  limpide  et  solide  »  e  aggiungeva  che  quanti  di  persona  non  lo  conobbero  a v l'ebbero  amato  nelle  sue  opere  «  l'éteruel  chant  d'amour  qu'il  a  chanté  à  la  vie  »  (2).  E.  de  Goncourt,  costantemente  a  lui  malevolo,  lasciava  scritto  nel  Journal:  «  Maupassant  est  un  tròs  remarquable  novelliere,  «  un  très  charmant  conteui'  de  nouvelles,  mais  «  un  styliste,  un  grand  écrivain,  non,  non!  »  (=>).  Mav.mai.,  p.  256. Lusibroso  p.  103.   (3;  Cfr.  Mavnial,  p.  208.    maupassanV    S'inganna.  Nelle  novelle  del  primo  periodo  il  Maupassant  raggiunse  spontaneamente  una  cosi  mirabile evidenza,  riuscì  a  toccare  tale  perfezione  espressiva,  che  può  a  buon  diritto  essere  chiamato stilista  e  scrittore  grande.  Tra  i  romanzi  il  migliore,  a  parer  mio,  resta  il  primo  in  ordine  di  tempo  (usci  nel  1883  dopo  lunga  preparazione),  Une  vie,  che  è,  in  fin  dei  conti,  un'estesa  novella, o  meglio  un  gruppo  di  novelle  concatenate.  Nessun  altro  romanzo  suo  può  gareggiare  in  perfezione con  le  novelle.  Ho  inteso  da  più  d'uno  dar  la  preferenza  a  Bei-ami;  ma  io  non  posso  piegarmi  a  questo  giudizio.  Su  Bel  ami  ò  passato il  Daudet;  su  qualche  altro  romanzo  è  passato il  Bourget.  Confesso  che  nella  produzione  del  secondo  periodo,  ove  ormai  predomina  quel  romanesque  senza  cui  la  Santi  non  credeva  potesse  esistere  romanzo,  le  mie  simpatie  sono  tutte  per  Fort  corame  la  mori,  il  più  profondo,  forse,  tra  i  libri  del  Man  passa  nt,  certo  quello  che  lascia  nell'animo  dei  lettori  solco  più  duraturo.   Del  resto,  il  difficile  argomento  delle  parentele  letterarie  e  degli  influssi  è,  rispetto  al  nostro  autore,  ancor  vergine,  e  chi  si  metterà  a  trattarlo dovrà  procedere  con  delicatezza  e  ponderazione. Sarà  bello  anche  il  vedere  quanto  debba  al  Maupassant  la  moderna  novella  italiana.  Ne  risenti  il  soffio  potente  Giovanni  Verga;  lo  assimilò talora,  insieme  con  tante  altre  cose,  il  D'Annunzio  nelle  Novelle  della  Pescara  (').  E  Nel  volume  del  Lombroso  (pp.  519  sgg.)  v'ha  uno  speciale capitolo  su  Maupassant  et  les  plagiata  de  G.  D'Annunzio.    MAUPASSANT    3t)3    le  imitazioni  portate  in  altra  terra  e  cementate con  l'osservazione  diretta  d'altri  costumi,  furono  opere  d'arte  anch'esse  ragguardevoli.  Il  buon  seme,  caduto  in  terreno  fecondo,  produce  buoni  frutti.   Nota  aggiunta.    Nel  Fanfulla  della  domenica,    marzo  1903.  Un1  grosso  libro  venne  fuori  in  Germania  dopo  la  comparsa del  mio  articolo,  Pai  l  Mann,  (rui/  de  Maupassant,  sein  Leben  nnarone  di  Milnchliausen,  Ancona,  Morelli    bizzarre  avventure,  fu  il  compito  che  il  Poe  si  propose.  (Jiovossi  il  Venie  di  parecchi  argomenti  suoi,  ma  li  rìcostrusse  su  base  scientifica  e  li  rese  verisimili:  giovossi  pure  di  certi  procedimenti, ma  ne  mitigò  l'inclinazione  americana  all'  intemperante,  allo  sconfinato,  al  paradossale,  sparse  poi  dovunque  la  gentilezza  dell'indole  sua  latina  equilibrata,  mentre  nel  Poe,  randagio  infelice, troppo  traspira  l'acidità  della  vita  scontento. Il  Poe. talora  può  sembrarci  più  polente;  il  Venie  è  sempre  più  amabile,  e  sovratutto  più  sano  (').   Il  romanzo  scientifico  ha  nel  Venie  il  suo  creatore: non  v'è  quesito  arduo  d'applicazione  scientifica ch'egli  non  abbia  affrontato.   Cominciò  con  l'aereo  nautica.  Il  suo  primo  romanzo è  del  1803,  Cinq  semaines  en  ballon:  l'Africa  tenebrosa  traversata  nella  sua  maggiore  ampiezza,  da  est  ad  ovest,  dal  dottor  Samuele"  Fergusson  e  da  due  suoi  compagni  montati  sul  pallone  Victoria.  L'aereonautica  anche  fra  noi  era  ormai  da  tre  quarti  di  secolo  argomento  di  viva  discussione;  sin  dal  chiudersi  del  Settecento  se  n'era  impadronita  la  poesia:  parecchi  poeti,  tra  i  quali  vola  come  aquila  Vincenzo  Monti,  se  n'erano  dimostrati  entusiasti,  con  lui  il  Betel) Sensatamente  dimostrò  questo  il  Tcrikli.o  nelle  citate  Kttules  de  critit/tte  lettéraire.  Anche  in  un  articolo  del  Tempn,  che  il  Cernire  riferisce  (cfr.  p.  100),  è  fatta  ben  rilevare  la  differenza  tra  il  Terne  ed  il  Poe.  Ma  le  migliori  considerazioni stigli  antecedenti  tutti  del  nostro  romanziere  son  quelle  che  fa  il  Popi tinelli,  il  R,ozzbjii(5o,  la  Grisraondi:  perplèsso  era  rimasto  il  Parini,  incredulo  e  schernitore  il  Pienotti (').  Una  ipotesi  effettuata  rende  possibile  il  viaggio  del  dottor  Fergusson:  l'ipotesi  che  si  possa  conseguire  la  dirigibili tà  alzando  od  abbassando il  pallone  con  uno  speciale  spediente,  sicché  esso  trovi  sempre  la  corrente  d'aria  che  gli  conviene.  Ma  in  realtà  il  Verne,  nel  1863,  considerava come  impossibile  il  diligere  i  palloni;  venti  anni  dopo,  quando  pubblicò,  nel  1886,  Robur  le  conquJrant  egli  aveva  seguito  i  progressi  della  navigazione  aerea,  ed  era  venuto  alla  conclusione che  si  dovesse  sostituire  il  principio  più  pesante  dell'aria  all'altro,  fino  allora  predominante, più  leggero  dell'aria.  h'Albalros  di  Robur  è  una  macchina  volante  complicata  ma  ingegnosa. Siamo  già  agli  inizi  dell'aviazione  per  aerooplano,  di  cui  si  tien  parola  nel  romanzo  Deux  ans  de  vacances  del  1888  (*).  Da  ciò  si  rileva  che  il  Verne  non  campa  ipotesi  del  tutto  in  aria;  ma  procede,  anche  nel  suo  lavoro  fantastico, con  certa  scientifica  ponderatezza,  si  da  predire  quanto  un  giorno  potrà  essere  verità  dimostrata.   Più  arditi,  ma  estremamente  ingegnosi,  i  due  romanzi  lunari  (1865,  De  la  Terre  à  la  Lune;  1870,  Autour  de  la  Lune),  basati  sui  progressi  Si  consulti  in  proposito  un  buon  articolo  del  Buriana  nel  Giom.  stor.  della  leti,  italiana,  XXX  1 1897),  pp.  J14  sgg.  e  a  complemento  Ciro  Trabalza  nel  voi.  di  Sludi  e  profili,  Torino-Roma, 1903,  pp.  86  sgg. Vedi  Popp,  Op.  cit.,  pp.  101-114.    RICORDANDO  GIULIO  VKRNE    373    dell'astronomia  e  della  balistica.  Nel  primo  di  ossi,  Barbicane,  il  presidente  del  Orni  Club,  fa  la  storia  dei  viaggi  anteriori  alla  volta  del  nostro satellite,  col  quale  tanti,  non  escluso  Lodovico Ariosto,  han  fatto  all'amore  in  varia  guisa.  .San  tutti  viaggi  fantastici,  mentre  quello  del  Venie  ha  un  fondamento  di  possibilità  reale,  ed  il  francese  che  lo  provoca,  Ardali,  è  l'anagramma  d'un  personaggio  veramente  esistito,  amico  dell'autore, Nadar,  pseudonimo  dell'ardito  navigatore aereo  Felice  Tournachon  Non  solo.  Con  singolare  ideazione,  il  romanziere  francese  fa  che  i  suoi  tre  ardimentosi  viaggiatori  non  raggiungano la  luna,  perchè  il  gran  proiettile  che  li  ospita  non  sfugge  abbastanza  alla  forza  dell'attrazione terrestre  da  subire  quella  lunare;  quindi  essi  possono  osservare  la  luna  da  vicino,  e  quel  che  ne  dicono  non  è  prodotto  di  fantasia,  ma  è  conforme  ai  risultamenti  scientifici  dei  tempi  moderni in  cui  fu  reso  possibile  il  tracciare  cai-te  descrittive  della  superficie  lunare.  Persino  in  quell'ardimentoso  romanzo  che  è  Hector  Servadac  (1877),  più  conosciuto  fra  noi  sotto  il  titolo di  Attraverso  il  mondo  solare,  il  Venie,  traendo  profìtto  dalle  cognizioni  astronomiche  dei  tempi  in  cui  scriveva,  si  guarda  bene  dall'abbandonarsi  alle  orgie  fantastiche  del  Poe.  E  in  quel  mirabile  libro,  ch'è  uno  dei  suoi  primi,  il  Voyage  au  centre  de  la  terre,  uscito  nel  18U4,  egli  mette  a  base  della  straordinaria  spedizione Lumi  re,  p.  lOli;  Popp.  del  professor  Livenbrok  e  di  suo  nipote  i  progressi della  geologia  in  quel  periodo  ed  in  ispecie  la  teoria  del  chimico  Davy.   Chi  non  rammenta  quello  stupefacente  sottomarino e.h'è  il  Nautilus  e  quella  specie  di  mago  misterioso  che  ne  è  l'ideatore  ed  il  signore,  il  capitano  Nemo?  Ebbene,  quelle  Vingt  mille  lienes  sous  les  mers  (1870;  costituiscono  una  delle  prove  migliori,  non  solo  della  facoltà  inventiva, ma  delle  cognizioni  di  chimica,  d'elettrotecnica e  d'ingegneria  navale  del  Venie.  Con  vero  occhio  profetico  egli  intravvide  gli  immensi  vantaggi  che  l'umanità  poteva  trarre  dalle  applicazioni della  forza  elettrica:  non  poche  sue  profezie  si  sono  avverate,  altre  troveranno  nel  secolo  in  cui  viviamo  non  difficile  attuazione.  Le  meraviglie  della  meccanica  sono  rappresentate in  Lea  cinqcents  milions  de  la  Iiègum,  romanzo scritto  nel  1879,  quando  ancora  la  Francia  sanguinava  per  la  catastrofe  di  nove  anni  prima.    il  Venie,  che  non  cessò  mai  d'essere  intimamente francese,  francese  sino  alla  punta  dei  capelli, nell'antagonismo  fra  il  potente  ma  brutale  professor  Schultze  ed  il  geniale  ed  umanitario  dottor  Sarrazin,  rappresentò  idealmente  il  conflitto tra  la  Germania  e  la  Francia,  tra  la  scienza  che  distrugge  e  la  scienza  che  con  serra  ed  allieta (').  Tra  le  molte  altre  concezioni  in  cui  ha  Il  Verne,  quanto  dimostrò  la  sua  simpatia  per  gli  Inglesi e  gli  Americani  del  Nord,  altrettanto  non  dissimulò  V  antipatia  per  i  Tedeschi,  nemici  della  sua  patria.  Su  questo    RICORDANDO  GIULIO  VER  NE    375    parte  la  chimica  segnaliamo  quella  sulla  tanto  ricercata  produzione  artificiale  del  diamante,  per  cui  è  da  vedere  la  sua  Etoile  du  Sud  del  1884.  Ogni  progresso  scientifico,  ogni  problema  scientifico infiammava  quella  fantasia  che  ne  traeva  argomento a  libri  attraentissimi;  peccato  non  abbia  potuto  giovarsi  delle  più  recenti  scoperte  sulle  proprietà  del  radio  e  intorno  alla  telegrafia  senza  fili.  Chissà  quante  belle  cose  egli  avrebbe  dette  e  profetate.   Scienze  predilette  del  Venie  furono  la  geografìa e  l'etnografia:  ad  esse  tornava  continuamente e  gli  offri van  sempre  nuova  materia  ai  suoi  libri.  Egli  ha  anche  opere  strettamente  geografiche, quali  la  sua  geografia  della  Francia  e  la  storia  delle  scoperte  geografiche;  ma  la  più  gran  parte  de'  suoi  romanzi  ha  per  soggetto  viaggi  in  lontane  regioni.  Percorre  quasi  intero  il  nostro  pianeta  nei  viaggi  della  sua  fantasia,  dall' un  polo  all'altro,  con  predilezione  spiccata  per  l'Africa  e  per  l'America.  Delle  bellezze  naturali e  delle  costumanze  dei  popoli  è  descrittore    tasto  batte  di  frequente.  Egli  ha  una  istintiva  avversione  per  ogni  maniera  di  tirannia  e  di  sopruso.  L'tle  myatérieuse  si  riattacca alla  guerra  americana  per  l'abolizione  della  schiavitù  e  termina  con  la  morte  del  capitano  Kemo  (il  costruttore  del  Xautilus),  che  è  un  grande  indiano  ribelle.  La  guerra  americana del  1861-65  è  rappresentata  in  Xord  contre  Sud  (1887);  nella  Famille  sans  nom  (1889)  rivivono  le  inquietudini  del  Canada; nell' Archipel  en  feti  (1884)  troviamo  la  guerra  per  l'indipendenza greca;  nello  sfondo  della  Maison  à  capeur  (1880),  preannunciante  l' automobilismo  odierno,  s'  agitano  le  lotte  degli  Indiani  contro  gli  Inglesi.  Cfr.  Popp,  Op.  dt.,  pp.  160-102.    HlC«>Kli.\Nli  (.11  l.ln  VKHNK    brevi'  ma  vivaci.':  in  particolari  di  zoologia  e  di  botanica  non  s'indugia,  come  sogliono  tare  i  Rubinsonisti.  Ad  accrescere  la  T-ultura  ii,t'.  Per  quella  ferita  il  romanziere  ebbe  a  soffrire  assai  tìsicamente, e  più  moralmente.  Si  narra  che  durante  le  lunghe  notti  insonni  di  febbricitante  egli  si  distraesse  componendo  indovinelli,  logogrifi,  ed  altri  giuochi  di  spirito  complicatissimi:  ne  mise  insieme  da  tre  a  quattro  mila,  si  che  se  ne  potrebbe comporre  un  volume.  Ciò  non  è  inutile  ad  essere  avvertito;  si  vede  quanto  in  lui  potesse l'attività  fantastica.  D  allora  in  poi  egli  si  abbandonò  tutto  al  ragionamento  ed  alla  fantasia.  La  sua  operosità  fu  spesa  tutta  nei  libri,  nelle  soavi  cure  della  famiglinola  diletta,  nell'amministrazione di  Amiens,  ove  fu  consigliere  comunale assiduo  ed  ascoltato,  nelle  tornate  dell'Accademia di  Amiens,  ove  diede  saggio  del  suo  inalterabile  buonumore.  Viaggi  non  più.  Vendette  il  suo  secondo  yacht,  il  San  Michele  che  ora  è  posseduto  dal  principe  di  Montenegro.  Con  esso,  e  prima  con  un  altro  yacht,  di  ugual  nome,  ma  più  piccino  e  primitivo,  aveva  di  frequente  costeggiato la  Francia  e  anche  la  Spagna,  s'era  spinto  fino  alle  coste  africane,  aveva  visitato  la   (li  Lkmiiìt-:.        55-àrt:  Porr,  \  C).  Nell'azione  e  nella  tipificazione  è  facile  scorgere  una  certa  fìcelle.  Ei  ritorna  sovente e  volentieri  allo  schema  delle  Cinq  semaines  e  delle  Arentures  du  cajntaine  Hatteras.  Un  esploratore  di  gran  risolutezza,  coraggio  e  sapere,  di  solito  più  d'un  tantino  eccentrico,  di  solito  inglese  o  americano,  è  l'eroe  principale  dell'impresa.  Esso  ha  un  servo  fedele,  intelliLettera  riferita  dal  Lemihe gente,  servizievole,  gaio,  animosissimo.  Lo  accompagnano un  amico  o  più  amici,  di  attitudini  e  di  gusti  diversi  dal  protagonista.  S'aggiunge  o  interviene  talvolta  un  traditore  o  un  malevolo,  che  attraversa  la  via  all'eroe,  suscita  difficoltà,  minaccia  di  mandare  tutto  a  male,  ma  alla  fine  ha  la  peggio.  Esempio  tipico  il  detective  Fix  nel  Le  tour  du  monde.  Ma  quest'azione  semplice  e  fin  povera  s'arricchisce  per  una  miriade  di  episodi  svariatissimi  e  vivi,  s'ingarbuglia  in  modo  che  sembra  inestricabile,  si  direbbe  dovesse finire  con  una  catastrofe,  quando,  alla  fine,  tutto  si  scioglie  per  il  meglio.  Non  irragionevolmente fu  accostata  questa  tecnica  a  quella  usata  nei  suoi  drammi  dal  Sardou  (').   In  mezzo  ai  rigidi  inglesi  ed  americani  spunta  qualche  francese,  e  vi  fa  sempre  la  parte  più  nobile  e  bella.  Francese  è  quel  godibilissimo  tipo  di  Passepartout  (felicemente  tradotto  in  italiano con  Gambalesta),  che  è  una  delle  più  riuscite macchiette  di  servo  che  il  Verne  abbia  tracciato,  da  mettere  in  compagnia  col  semplice  ed  ardito  Joe,  servo  del  dottor  Fergusson,  e  con  Ben-Zuf,  l'ordinanza  fida  del  capitano  Servadac.  Questi  ed  altri  servi  del  nostro  scrittore  rimontano originariamente  al  tipo  di  Venerdì  nel  più  antico  Robinson.  La  donna  ha  nei  libri  del  Verne  parte  accessoria  ed  è  delineata  con  certa  superficialità. Non  già  che  non  vi  siano  tipi  teneri  o  eroici  di  donne,  come  Ilulda,  come  Nadia,  Popp,  p.  86.    384    RICORDANDO  GIULIO  VKKNK    come  Hadjine,  come  AliceWatkins,  come  mistress  Branieau  ;  ma  di  consueto  le  donne  occupano nel  quadro  il  secondo  piano,  servono  a  lumeggiare  l'uomo,  offrono  esempi  di  pietà,  di  tenerezza,  di  abnegazione  a  vantaggio  dell'uomo.  La  loro  psicologia,  come  in  genere  tutta  la  psicologia del  Venie,  è  delle  più  semplici.  La  passione non  le  agita:  il  Venie  era,  in  fatto  a  donne,  un  gran  semplicista.  Egli  voleva  che  i  suoi  libri  potessero  esser  letti  senza  turbamento  dai  giovinetti e  dalle  giovinette,  e  inoltre,  confessò  un  giorno  egli  stesso,  «  l'amour  est  une  passion  «  absorbante  qui  ne  laisse  que  fort  peu  de  place  «  pour  autre  chose  dans  le  coeur  de  l'homme;  «  mes  héros  ont  besoin  de  toutes  leurs  facul«  tés  »  (').  Se  manca  l'amore  passionato,  abbonda l'umorismo,  nei  caratteri  e  talora  anche  nell'azione.  Sui  tratti  umoristici  del  Verne  ci  sarebbe  da  scrivere  un  articolo  speciale;  tutta  umoristica  è  quella  gustosa  novella  del  Docteur  Ox  (1874),  la  cui  singolare  trovata  mi  ha  fatto  sempre  pensare  all'antica  faida  del  poeta  provenzale Peire  Cardenal  (!),  alla  quale  vanno  accostate  lestrane  avventure  d'  un  veggente  nell7so/a  dei  ciechi  del  Fraccaroli.  Se  non  che  qui  tutto  è  satira,  mentre  nel  Venie  v'è  solo  umoristica  e  bonaria  caricatura.  Parole  del  Verne  inserite  nella  Recite  ile  Brelaijne  del  190(5,  che  il  Lemiue  riferisce  a  p.  111. Vedasi  in  proposito  un  articolo  di  V.  Cian  nel  Fanfulla  della  Domenica,  22  ottobre  1905.    RICORDANDO  OIULIO  VERNK    385    Fu  detto  ohe  Philens  Fogg  è  una  specie  di  D'Artagnan  in  costume  di  viaggiatore  moderno (1).  È  un  avvicinamento  che  ha  solo  l'apparenza del  vero.  L'eroe  del  vecchio  Dumas  è  una  creazione  fantastica,  materiata  bensì  di  certi  elementi  reali,  ma  che  è  fuori  della  vita;  mentre  Phileas  Fogg  è  tanto  nella  vita  che  il  viaggio  di  lui,  profetato  dal  Venie,  potè  essere  compiuto  realmente,  non  solo  in  quelli  ottanta  giorni,  ma  in  molto  minor  tèmpo  (*).  Soavi  alcuni  racconti  del  nostro  autore,  specialmente  quelli  di  tipo  robinsoniano,  che  s'aggirano  nell'impossibile;  ma  i  più,  quelli  che  hanno  maggiore  consistenza  e  vitalità,  si  contengono  nell'orbita  del  verisimile  e  con  la  poesia  volgarizzano  il  sapere.  Si  potranno far  valere  contro  di  essi  le  sottili  ragioni  che  il  Manzoni  ricamò  contro  "il  romanzo  storico;  ma  come  il  romanzo  storico  iiqh  è  morto  per  quei  ragionamenti,  così  non  muore  ormai,    morrà,  il  romanzo  scientifico.  Il  Popp  nel  suo  libro  pregevole  raccolse  una  gran  quantità  di  indicazioni  sugli  imitatori  del  Verne,  sorti  in  *  ogni  parte  d'Europa  e  d'America.  Le  scoperte  fatte  in  Marte  dall'astronomo  nostro  Schiaparelli  hanno  già  prodotto  una  vera  fioritura  di  romanzi  intorno  a  Marte,  ed  a'  suoi  abitatori,  ed  a'  suoi  rapporti  con  la  nostra  Terra.  E  cosi  accadrà Popp,  p.  41.   i'2i  Xel  1!K)1  certo  Stiegler  compi  il  giro  de]  mondo  in  (i5  giorni  e  nel  1907  certo  Canipell,  giovandosi  della  ferrovia  transiberiana,  in  il  giorni.  Cfr.  Porr,    d'ogni  altra  scoperta  scientifica  atta  a  stuzzicare  e  ad  esaltare  l' imaginazione.  Ma  purtroppo  i  seguaci  non  hanno,  di  consueto,  l'equilibrio,  la  sensatezza,  la  ponderatezza  del  maestro.  Troppo  spesso  a  loro  accade,  come  all'italiano  Salgali,  di  subordinare  ogni  esigenza  scientifica  filla  fantasia più  sbrigliata  e,  mirando  solo  a  far  colpo,  di  sottomettere  le  esigenze  della  scienza  e  dell'arte e  le  limitazioni  del  buon  senso  al  gusto  d'interessare  e  d'impinguare  la  borsa  interessando. In  questo  caso,  il  romanzo,  divenuto  pseudo-scientifico,  non  serve  se  non  a  provocare  una  iperestesia  fantastica,  dannosa  a  tutti  e  segnatamente ai  fanciulli.  Di  siffatta  degenerazione non  diede  certo  Giulio  Venie  l'esempio.   Nota  aggiunta.    Pochi  giorni  dopo  pubblicato  questo  articolo  (nel  Fanfulla  della  domenica  del  "2  maggio  1909)  fu  scoperto  ad  Amiens  il  monumento  di  Oiulio  Verne,  dovuto  a  quel  medesimo  scultore  Alberto  Roze,  che  già  effigiò,  a  spese  della  famiglia,  la  robusta  statua  della  tomba  del  Venie  nel  cimitero  dello  Maddalena  ad  Amieus.  Il  nuovo  monumento consiste  in  un  bel  busto  poggiante  su  di  una  stela  elegante  a"  piedi  della  quale  un  giovane  viaggiatore  sdraiato,  in  attitudine  di  riposo,  consulta  una  carta  geografica,  mentre  dall'altro  lato  un  giovinetto  legge  con  gran  attenzione  un  volume  del  Verne  e  la  giovane  madre  gli  sta  a  fianco  assistendo alla  lettura.  L'inaugurazione  segui  il  9  maggio  1909  e  le  feste  ed  i  discorsi  di  quell'occasione  possono  leggersi  nel  Mémorial  d' Amiens  di  quel  giorno  e  del  successivo.    *    Patriottismo  e  socialismo  di  Arrigo  Heine.    Dacché  nou  rivedevo  il  Walhalla,  fatto  edificare tra  il  1830  ed  il  1842  dal  re  Ludovico  I  di  Baviera,  molt'anni  erano  trascorsi.  Volli  visitarlo in  una  giornata  precocemente  autunnale  e  ne  ritornai  con  un  senso  di  profonda  tristezza.  Quel  gelido  simulacro  del  Partenone  impicciolito biancheggia  su  d'una  collina  boscosa  non  lungi  da  Ratisbona:  a'  suoi  piedi  si  svolge  a  larghe  spire  il  Danubio.  Ira  fantasia  regale  di  Ludovico  rievocante,  nel  neoclassicismo  dell'arte  germanica  di  quel  periodo,  i  più  solenni  monumenti di  Grecia  e  d'Italia,  intese  fare  di  quel  tempio  una  specie  di  famedio  sacro  alla  memoria dei  più  celebri  personaggi  tedeschi,  i  cui  busti  sono  allineati  lungo  le  pareti  della  sala  jonica  interna.  Il  busto  di  Arrigo  Heine  non  ve  lo  trovai;  non  già  per  una  specie  di  vendetta  postuma  contro  il  gran  flagellatore,  che  canzonò  così  neramente  il  re  Ludovico  I  nei  Zeitgedichte  e  parodiò  lo  «  stile  bavarico  »  delle  sue  iscrizioni  del  Walhalla  (').  rna  per  una  deplorevole  noncuranza  d'ogni  grandezza  spirituale,  per  cui  nessun  busto  nuovo  fu  collocato    dentro  da  circa  mezzo  secolo,  ali 'infuori  di  quello  di  Guglielmo I  imperatore,  «  der  Siegreiche  »  come  lo  chiamano  i  Tedeschi.   C'è  da  scommettere,  peraltro,  che  se  anche  la  Baviera  d'oggi  fosse  meno  volta  di  quel  che  è  agli  interessi  materiali,  il  poeta  di  Dusseldorf  non  troverebbe  la  sua  nicchia  tra  gli  ospiti  del  Walhalla.  Troppo  è  tenace  l'avversione  contro  di  lui  d'una  gran  parte  dei  suoi  connazionali,  quell'avversione,  in  cui  non  riesco  neppure  ad  ammirare  la  rigida  disciplinatezza  ch'altri  vi  ravvisò  non  a  torto  r),  perchè  mi  appare  meschina ed  iniqua.  Com'è  risaputo,  gli  si  rifiutò  finora  un  palmo  di  terra  germanica,  ove  i  suoi  ammiratori  potessero  erigergli  una  statua:  l'umile  sepolcro  di  lui,  nel  cimitero  di  Montmartre,  fu  abbellito  da  una  donna  fantasiosa  ed  infelicissima, Elisabetta  d'Austria,  che  già  gli  aveva  costruito un  tempietto  presso  il  suo  Achilleion  di  Corfù  (3);  il  monumento  che  un  gruppo  di  Rc  2. Elisabetta,  sul  cui  bellissimo  capo  il  triste  fato  degli  Absburgo  non  pesò  meno  dall'ereditaria  psicosi  dei  Wittel  DI  ARRIGO  HEINK    389    nani  voleva  erigergli,  dovette  migrare  oltre  l'Atlantico. Di  Arrigo  Heine  la  Francia  ha  le  ossa;  Corfù  e  New  York  he  serbano  le  sembianze  effigiate; la  Germania  nulla.   A  noi  individualisti  di  razza  latina  codesto  »  ostracismo  inflitto  al  genio    senso  di  pena  e  d'irritazione.  E  più  ancora  ci  irrita  l'asprezza  con  che  lo  Heine  Viene  giudicato,  non  solo  dal  volgo  partigiano  ed  incosciente,  ma  da  critici  e  storici  rispettabili  e  rispettati,  in  opere  serie  e  diffuse.  Non  esitano  costoro  a  riconoscere  in  lui  un  poeta  lirico  eminente  ed  a  porlo  a  fianco  del  Goethe  per  lo  sviluppo  tutto  personale  che  diede  al  lieti  germanico;  ma  non  sanno  perdonargli la  nascita  israelitica,  la  simpatia  per  la  Francia,  la  leggerezza  nel  giudicare,  e  specialmente nel  mettere  in  caricatura,  tanta,  parte  dello  spirito  tedesco,  la  scorrettezza  della  vita  libertina,  la  mancanza  di  carattere  fermo,  la  perpetua  ironia,  degenerante  talora  in  cinismo  volgare.  I  Tedeschi  si  sentono  offesi  dallo  Heine  in  ciò  che  hanno  di  più  caro  e  di  più  sacro;  i  sentimenti  della  famiglia,  della  religione,  della  patria,  della  razza.  Compresi  della  loro  attuale  grandezza,  vedono  in  lui  un  profeta  fallito,  che  dei  germi  di  quella  grandezza  non  intese  nulla  e  all'entusiasmo  e  alla  rude  tendenza  tradizio  snach.  amava  nello  Heine  specialmente  la  profonda  tristezza  pessimistica,  se  dice  vero  il  libro  saturo  di  sentimentalismo  del  suo  confidente  greco.  Cfr.  C.  Christomakos,  Iìeyhia  di  dolore, Firenze,  1901,  pp.  240  41.  naie  della  nazione  contrappose  il  dileggio  beffardo demolitore.  All'ebreo  rinnegato  per  farsi  eristiano,  al  cristiano  rinnegato  per  divenire  ateo,  al  tedesco  rinnegato  per  infranciosarsi,  oppongono  un  dispregio  acre  e  pungente;  non  mitigato  neppure  dalle  melodie  dello  Schubert  e  degli  altri  interpreti  musicisti  dell'anima  lirica  heiniana.   In  molte  parti  questo  loro  giudizio  sembra  ragionevole;  eppure  sostanzialmente  essi  hanno  torto  e  riescono  ingenerosi.  Abituato  a  leggere  con  simpatia  e  diletto  le  opere  heiniane,  da  molti  anni  io  lo  penso;  ma  non  ero  mai  riuscito  ad  averne  convinzione  chiara  e  fondata,  come  ne  ho  oggi,  dopo  aver  letto  il  volume  recentissimo d'uno  squisito  scrutatore  d'anime,  Henri  Heine  penseur  di  Enrico  Lichtenberger  (').  Dello  Heine  fu  scritto  non  poco,  in  Germania  e  fuori,  senza  che  con  ciò  siasi  ottenuta  piena  chiarezza  sul  soggetto.  Ciò  che  meglio  di  lui  si  conosce  ò  l'arte.  Sui  particolari  della  sua  vita,  breve  ed  infelice,  si  accumularono  notizie  contraddittorie,  radendo  non  di  rado  nell'indiscrezione  pettegola,  lasciando  nella  storia  delle  sue  relazioni  non  poche  dubbiezze.  Il  suo  pensiero  fu,  di  solito,  trascurato,  ovvero  trattato  in  modo  sbrigativo  movendo  dal  preconcetto  che,  in  ultima  analisi,  di  pensiero  ne  albergasse  pochino  in  quel  cervello, e  quel  poco  senza  radici  e  a  dir  così  fluttuante. In  ciò  vi  ha,  per  lo  meno,  molta  esageParis,  Alcan,  lflOn.  razione,  e.  non  s'è  tenuto  conto,  com'era  giusto  e  necessario,  di  elementi  che  in  un  giudizio  siffatto dovevano  avere  parte  precipua,  le  condizioni somatiche  dell'individuo  c  la  sua  essenziale  qualità  dit  poeta.   *   Arrigo  Heine  fu  un  sensitivo  ed  un  sensuale:  la  sua  poesia  rampolla  dafla  sensività  e  dalla  sensualità:  ma  è  in  parte  fecondata  da  un  certo  numero  di  idee  politiche,  religiose  e  sociali,  che  non  è  lecito  trascurare.   Quando,  nel  1830,  poco  più  che  trentenne,  egli  varcò  l'amato  Reno,  che  lambisce  la  sua  città  natale,  por  esiliarsi  volontariamente  a  Parigi, era  un  uomo  fallito,  materialmente  e  moralmente. Avvocato  senza  vocazione,  negoziante  inetto,  con  la  testa  piena  di  grilli  e  la  tasca  vuòta,  senza  educazione  morale  solida,  con  inolto  ingegno  ed  una  sensitività  morbosa,  egli  andava  incontro  all'ignoto,  in  una  gran"  metropoli,  sedotto da  un  fantasma  di  libertà.  Ci  andava  pur  essendo  ancora  cosi  giovine,  con  una  gran  dose  di  pessimismo  nell'anima,  dovuta,  oltreché  a  condizioni  fìsiche,  a  delusioni  amorose.  Tempra  eminentemente  erotica,  egli  s'era  invaghito  due  volte  in  Amburgo,  nella  casa  dello  zio  milionario, Salomone  Heine,  prima  della  cugina  Amalia, creatura  fredda  e  speculatrice,  più  tardi  della  sorella  minore  di  lei.  Teresa,  che  i  parenti  calcolatori  destinarono  ad  altre  nozze.  La  massima parte  delle  liriche  del  Bach  der  Lieder  fu    I'ATKIuTTIsMii   K   Si  n.  1  A  Usili  i   inspirata  da  questi  din»  amori  e  da  queste  due  crisi  amorosi»,  allo  quali  successero  ben  presto  passionacci»  libertine,  i-hi»  lasciavano  il  poeta  stremato  di  forze  e  melanconico.  Quantunque  non  volesse  ron venirne  e  sebbene  alla  prima  apparenza  non  sembri,  la  sua  sensitività,  a  traverso le  stesse  orgie  sensuali,  menava  all'idealismo. Più  tardi  a  Parigi,  dopo  disordini  d'ogni  genere,  di  mezzo  al  bizzarro  e  degradante  connubio, legittimato  dal  matrimonio  per  compassione, con  quella  magnifica  statua  di  carne  da  lui  comperata,  (die  fu  Matilde  Mirnt  i';,  spunta  l'amore  fragrante  por  la  signora  Krinitz.  la  poetica Monche,  cosi  variamente  giudicata  dagli. studiosi delLo  Heine  '  ).  Lo  spirito  di  lui  ora  soggetto ai  più  stridenti  contrasti:  ora  angelo,  ora  demonio,  e  pur  troppo  i  molto  malevoli  videro  il  demonio  e  non  vollero  vedere  l'angolo.  Il  peggio  è  (die  da  se  medesimo  fece  di  tutto  per  calunniarsi  o  por  mostrarsi  diverso  da  quello  (die  in  realtà  era.  Il  suo  pessimismo  lo  portava  all'ironia,  e  l'ironia  sapeva  armare  di  tutte  le  punte  della  117/ 'sigia' il  germanica.  Accortosi  delti j  Le  l>'"  curiose  notizie  su  Ini  flirtino  date  -lo  un  tv(jUPIitatore  ili  casa  Heine.  Alessandro  AVeill.  Voli  I'iiiaiiim.  Stilili  e  ritratti  letterari,  Livorno,  liXXI,  [in.  17:2  sir;r.   \'Ai  E  sia  [une  stata  un'avventuriera  colei  che  in  Francia  amò  chiamarsi  Camilla  tSelilen  e  con  questo  nome  [mlihlici'i  un  libro  siurli  ultimi  giorni  dello  Heine:  non  è  meli  vero  ch'ella  riuscì  a  penetrare  come  ragjllo  ili  luce  nella  tornila  di  materassi  i  Àtatrazen^rut't  i  in  cui  il  poeta  languì  ]>er  otto  anni  i lK4H-|S:Vli  e  che  i]uiuili  non  pot    essere  un  avventuriera  vulvare.    Il]    AKKtlìI  l  HKIXK   l'effetto  die  faceva  quel  suo  spirito  indici  volato,  ne  abusò  lino  al  inailirrismo.  ne  divenne  la  vittima .').  Disse  male  dei  romantici  ed  in  fondo  civi  un  romani  ico  egli  pure;  sparlò  dei  Tedeschi, e  la  >u»-i  anima  restò  tedesca  fondamen1,'ilnienie  sempre:  mise  in  burletta  il  rraseendentalismo  della  lilosotia  germanica,  e  le  sue  teorie  politiche  e  sociali  germinavano  dallo  hegelismo.  Kcco  perche,  pur  essendo  assai  migliore  di  quel  che  parve,  egli  riuscì  a  farsi  sprezzare  e  odiare  da  tanti.   Tali  enunciati  avrebbero  mestieri  d'una  lunga  (limosi razione,  che  non  è  qui  il  caso  di  sciol  inare. IO  già  mollo  se  riuscirò  a  far  vedere  clic  lo  Heine  fu.  anelli'  contro  voglia,  tedesco,  e  clic  in  politica  egli  si  spinse  di  molto  oltre  al  liberalismo comune  e  giunse al  più  schietto  socialismo, pur  rimali  'lido  aristocraticamente  poeta.   La  Germania  filistea  gli  riusciva  detestabile,  è  vero:  ma  (pianta  dolcezza,  quanta  alterezza  gli  ispiravano  la  terra  tedesca,  la  lingua  tedesca, i  cosi  unii  tedeschi!  Chi  non  le  sente  codeste tenerezze  di  tìglio  leggendo  «pici  suo  insuperabile f)eit/sf]ifiiin1 V  Dopo  tredici  anni  di  esilio  volontario,  nel  1  9|     col  contrabbando  delle  idee  più  ardite  rincantucciato nel  cranio.  Eccolo  al  confine  :  il  cuore  gli  batte  più  torte,  gli  occhi  gli  si  inumidiscono,  si  sente  riconfortato;  le  stelle  sul  patrio  suolo  brillano  d'una  luce  più  viva.  Poco  appresso  si  commuove  a  rivedere  il  vecchio  Reno  (mein  Vater  Rhein)  al  quale  pensò  ognora  con  sentimento  nostalgico.  Nello  scherzoso  saluto  a  quelle  quercie  sentimentali  che  sono  gli  abitanti  dell'antica  Westfalia.  v'è  un  mal  celato  compiacimento;  nella  splendida  allocuzione  ai  lupi  germanici  egli  si  proclama  ancor  sempre  lupo:  «  Ich  bin  einWolf  geblieben,  mein  Herz  |  Und  meine  Zanne  sind  wolfisch  ».  La  tipica  cucina  tedesca,  a  ventricoli latini  cosi  poco  confacente,  gli  è  gradita  come  il  saluto  della  madre;  nei  letti  tedeschi  di  piuma  più  dolce  gli  sembra  il  riposo  f1).  Altrove, nelle  liriche,  confessa  che  talvolta  il  pensiero della  patria  lontana  lo  muove  alle  lacrime,  e  quando  la  notte  si  desta  l'imagine  di  essa  non  gli  consente  più  il  sonno.  «  Io  credo,  dice  egli  «  stesso,  che  questa  ardente  e  pazza  bramosia  «  si  chiami  amor  di  patria  »  (s).  E  così  era  veramente.  Il  flagellatore  di  tante  idee  tedesche, di  tanti  sentimenti  tedeschi,  non  riuscì  a  Per  tutto  ciò  si  vedono  i  capit.  I,  V,  VII.  Vili,  IX,  X,  XII  del  Deutschlaml. Deutsrhlaud,  caput  XXIV.  Fra  i  molti  che  svelarono,  con  più  numerose  attestazioni,  questo  sentimento  dello  Heine,  cfr.  CniARiNi,  op.  cit.,  pp.  329-32;  Legbas.  op.  cil.,  pp.  283-**)  e  Ed.  Esoel  nella  sua  prefazione  alle  Memorie  postume  di  Enrico Meine,  Firenze stedescarsi  giammai;  la  Francia,  per  cui  nutriva tanta  simpatia  e  a  cui  lo  legava  gratitudine per  ospitalità  e  benefìci  di  ogni  genere  che  ne  aveva  ricevuti,  fu  sempre  per  lui  un  paese  straniero.   D'altro  lato  ragioni  ideali  lo  sospingevano  verso  Parigi  e  dalla  Germania  lo  staccavano.   Sotto  il  vento  de'  cantici  immortali   Piegavano  crosciatiti   Le  selve  delle  vecchie  cattedrali   Con  le  lor  guglie  e  i  santi.   Rintoccava,  dai  culmini  ondeggiando,   A  morto  ogni  campana,   E  Carlo  Magno  s'avvolgea  tremando   Nel  lenzuol  d'Aquisgrana  (').   Disse  un  poeta  nostro  della  poesia  giacobina  del  biondo  Arrigo,  e  non  disse  falso,  perchè  realmente  nei  poemetti  e  nei  Zeitgedichte,  fra  lo  scoppiettare  dei  frizzi  e  le  bollature  roventi  del  sarcasmo,  freme  e  geme  l' idea  politica  e  sociale  di  un  ribelle.  Qui  talora  l' inspirazione  heiniana  trova  note  inusate  di  solennità  formidabile,  come  in  quella  gran  lirica  dei  tessitori  che  instancabili e  maledicenti  tessono  il  lenzuolo  funebre  della  Germania  (2).  Quella  poesia,  come  parecchie altre,  come  la  più  parte  degli  articoli  che  lo  Heine  mandò  all' AUgemeine  Zeitung  di  Augusta, riflette  l'idea"  capitale  politica  che  alliCaupitcci,  A  un  heniano  d'Italia,  nei  friambi  ed,  epodi.  (2;  Abbiamo  di  questa  lirica  una  versione  del  Carducci  nelle  Rime  nuove.        gnò  per  tanto  tempo  nel  suo  cervello  e  per  cui  erti  così  poco  tedesco  e  tanto  francese,  l'idea  rivoluzionaria.   Noi  oggi,  dopo  tanti  studi  storici  e  politici,  ci  siamo  formati  un  concetto  più  sicuro  di  quel  gran  fatto  che  fu  la  rivoluzione  francese;  ma  nei  primi  decenni  del  XIX  secolo  non  v'era  via  di  mezzo  nel  considerarla,  o  l'obbrobrio  o  l'ammirazione. Arrigo  Heine  fu  della  rivoluzione  francese  vero  ammiratore.  Sin  dalla  sua  giovinezza, quando  diede  il  primo  bacio  alla  rossa  Peppina,  la  nipote  del  carnefice  tedesco,  che  si  schermiva  con  la  mannaia  onde  erano  stati  decapitati cento  poveri  furfanti,  sin  d'allora,  dice  egli,  .    T    sliauesimo  la  dottrina  principale,  l'amore  del  prossimo,  ma  se  ne  togliesse  l'autaii'onismo  tìa  la  vila  terrena  e  quella  dello  spirito,  fra  la  terra  e  il  ciclo,  quell'antagonismo  con  «-ni  i  prcli.  predicando acqua  in  pubblico  e  bevendo  vino  in  seirrcto,  hanno  cantate  la  ninna  nanna  al  tripiante  popolo,  al  grosso  minchione.   Noi  vogliamo  l'ominiqui  sulla  temi  Il  ri'amc  (ti  Dio.   Quniiji'iù  i|iiaj;'{iiù  voiiliaino  essere  l'elii-i.  Non  \oj;li;uii  più  stentare;  Ciò  che  il  braccio  iniadafnia,  il  pi^-ro  ventre  Non  si'  lo  dee  pappare.   Cresce  pani'  iiua^ii'i  clic  basta  a  noi  Ed  a'  nostri  fratelli;  Ed  il  piacere  e  la  bellezza;  r  tose,  E  mirti  anelie  e  piselli,   Si,  piselli  per  tutti  escono  fuori   Dai  usci  appena  rotti.   Lasciamo  il  cielo  azzurro  ai  vagabondi   Angeli  e  ai  passerotti'1'   Idea  semplice,  senza  dubbio:  ma  nella  sua  semplicità sta  la  sua  forza.  Sono  unicamente  le  idee  semplici,  che  conquistano  il  mondo.   Legittimismo,  bonapartismo,  assolutismo,  democrazia, repubblica  erano  tutte  cose  per  cui  lo    l'I)  Trad.  Chiarini  (Iella  iirrmnnìa.  Di  Ilrìnr  p  Ir  Salril-Srmonisme  tratta  egregiamente  il  Lichtenberger  uel  cap.  UT  dell'opera  sua.        Heine  si  sfaldava  solo  fugacemente,  prò  o contro.  Ossili  contingenza  ed  ogni  lolla  politica  iì"1  i  sembrava secondaria  di  fronte  alla  importanza  massima (lolla  (picstione  sociale,  l'irai  (li  questo  concetto  >oil  piene  le  carte,  e  i  tribuni  delle  nielli  vi  pnppagalloggiano  .sopra  i  loro  roboanti  discorsi:  ma  il  pensarlo  intorno  al  1S40  non  era  di  lutti    era  senza  pericolo  allora  il  bandirlo  «  a'  quattro  venti.  Il  poeta  divenuto  giornalista  di  straordinaria  efficacia,  osò  tarlo,  e  prosegui  por  anni,  su  quella  via,  incurante  di  stringere  alleanze opportunisti'  e  poco  sincere,  incurante  di  lauti  guadagni,  egli  che  puro  aveva  sempre  tanto  bisogno  di  quattrini.  Tale  atteggiamento  della  sua  attività  non  è  abbastanza  conosciuto    a  sufficienza  apprezzato.  Lo  apprezzarono  solo  alcuni fondatori  di  sistemi  socialistici,  come  Carlo  Marx,  che  strinse  con  lo  Heine  amicizia,  e  fu  suo  compagno  nella  redazione  del  ]~ot'i.  1#  8-1X5  e  o99-408.  e  H.  BAituiEitA,  La  prinHpps^a  Belgioioso^  stilano.      eminentemente  parata  e  conservatrice,  tre  uomini, tutti  tre  di  origine  giudaica  tutti  tre  spuntati,  per  logica  propaggine,  dallo  hegelismo,  disciplinavano  nel  cervello  dal  mondo  le  idee  rivoluzionarie francesi  dello  spirato  secolo  XVIII,  dando  loro  sviluppo  di  cai-attere  sociale  e  dignità  di  scienza.  Non  passera  molto  e  ne  verrà  fuori,  nel  18(57,  l'opera  economica  più  importante  del  socialismo  europeo  nel  suo  primo  periodo,  Das  KapitaL  Ma  allora  il  povero  Heine  riposerà  orinai da  undici  anni  nella  tomba  modesta  del  camposanto  di  Montmartre.   A  lui  che  pur  vide  così  addentro  nei  destini  dell'umanità  futura  e  che  combattè  con  ardire  e  pertinacia  una  battaglia  pericolosa,  senza  spirito di  setta,  senza  speranza  d'alcun  guadagno    prossimo"    remoto,    materiale    morale: a  lui  banditore  di  uguaglianza,  il  mescolarsi tra  la  folla  spiaceva  e  non  arrossiva  di  confessarlo.  Amico  sincero  del  popolo,  rivoluzionario più  che  democratico,  schivava  i  contatti coi  molti  e  coi  rozzi.  E  un  altro  dei  tanti  contrasti  già  osservati  nella  sua  natura.  Pochi  furono  al  pari  di  lui  aristocraticamente  schivi  della  folla,  forse  perchè  egli  era,  a  differenza  de'  suoi  compagni  nelle  idee,  un  poeta.  Al  poeta  ripugnano  molte  cose  che  al  freddo  ragionatore    fi)  Bispetto  alla  grande  parte  che  gli  israeliti  ebbero  nella  prima  propagazione  del  socialismo,  molte  e  curiose  osservazioni si  potrebbero  fare.  Vedi  notato  e  commentato  il  caso  anche  dal  Laveleve,  he  socìcUimiie  contemporain,  !t»  ediz.,  Paris    sembrano  logiche  e  naturali.  Nell'animo  suo  egli  aveva  dedicato  un  tempio  alla  bellezza,  e  la  futura tragedia  sociale,  a  cui  gli  sembrava  che  l'Europa  andasse  incontro,  sarebbe  stata  sacrilega verso  le  manifestazioni  più  alte  e  più  disinteressate del  bello.  Dal  fondo  del  suo  pessimismo, avea  pur  sempre  levato  gli  occhi  azzurri  e  penetranti  verso  il  sole  dell'ideale  ed  i  beni  mondani  avea  apprezzati  solo  in  quanto  gli  riuscivano necessari.  Invece  la  potenza  uguaglia  trìce  del  socialismo  portava  a  collocare  il  benessere  materiale  al  primo  luogo  e  ad  aspirarvi  come  al  maggiore  diritto,  cacciando  in  disparte  le  aspirazioni dello  spirito  alla  cultura  ed  alla  scienza.  Ciò  riconosceva  fatale;  ma  siffatta  fatalità  della  rivoluzione  lo  riempiva  di  angoscia  secreta.  La  sua  forte  individualità  di  artista  non  s'adattava  ad  essere  pecora  in  una  greggia  (').  Se  la  crudele malattia  che  lo  consunse  non  lo  avesse  inchiodato a  letto  per  tanti  anni,  logorandogli  l'energia di  ogni  lavoro  che  non  fosse  poetico,  chissà  come  si  sarebbe  risolto  il  dramma  della  sua  anima,  chissà  se  in  lui  avrebbe  prevalso  la  sincera tendenza  socialista  o  l'individualismo  prepotente del  genio  solitario.   Forse  quella  tempra  tedesca  di  sognatore,  balsamo e  martello  alle  sue  piaghe,  non  avrebbe  vinto  in  un  organismo  sanò,  come  vinse,  per  quel  che  riguarda  le  idee  religiose,  nel  lento  sfasciarsi  della  gracile  persona.  Il  panteista  ir  ci) Lichtknhekgeh,  pp.  151,  169-71,  173-74,  186,  201-5,  231-38.    Rjsnibr  Svaghi  Crìtici    ìli    402    PATRIOTTISMO  E  SOCIALISMO    riverente  e  sarcastico,  tra  i  patimenti  inenarrabili e  la  disperazione  cupa  d'una  infermità  senza  ristoro,  ridivenne  credente  nello  spiritualismo  nazzareno,  riprese  in  mano  la  Bibbia  e  vi  si  compiacque.  Ma  non  si  infeudò  a  nessuna  chiesa  positiva.  Il  poeta  (gli  sembrava)  è  già  di  per    in  istato  di  grazia:  a  lui  si  aprono  spontaneamente le  porte  del  cielo,  senza  bisogno    delle  chiavi  di  san  Pietro    di  quelle  di  ver  un  altro  portinaio  delle  Chiese  costituite  (').   *   *  *   In  questo  poeta  ed  in  questo  martire  noi  uomini moderni  troviamo  tutti  qualche  parte  di  noi  medesimi.  I  contrasti  della  sua  anima  sono  quelli  delle  nostre  anime;  non  altrimenti  che  nei  contrasti  dello  spirito  altissimo  di  Francesco  Petrarca  gli  uomini  dell'incipiente  rinascita  sentirono l'età  nuova  lottante  col  medioevo.  Senza  essere  come  il  Petrarca  un  genio  universale,  Arrigo  Heine  fu  non  meno  di  lui  uu  genio  rappresentativo.   Vizi  e  difetti  ebbe  senza  dubbio;  ma  amò  assai  e  assai  sofferse,  ed  a  chi  amò  e  sofferse  va  perdonato  molto.  Oltre  la  fresca  e  limpida  vena  del  poetare,  oltre  la  generosità  del  pensiero umanitario,  oltre  il  coraggio  nel  combattere per  le  sue  idee,  egli  ebbe  un  pregio  che    (1;  LtCUTBNBEBGEB. nessuno  può  contestargli  e  di  cui  va  tenuto  gran  conto,  la  sincerità.   Oggi,  nella  superba  capitale  della  Germania  unita,  movendo  dalla  colossale  colonna  su  cui  si  libra  dorata  al  sole  la  Vittoria  glorificante  la  gran  conquista  tedesca  del  1870,  s'apre  fra  la  verzura  e  le  piante  annose  del  Tiergazten  la  cosidetta  Siegesallée.  Disposte  simmetricamente  ai  due  lati  del  viale,  ergonsi  trentadue  statue  di  grand'elettori,  di  principi,  di  monarchi,  dall'alto  medioevo  all'età  modernissima;  dietro  a  ciascuna  statua  marmorea  stanno  a  corteggio  due  erme,  coi  busti  di  due  personaggi  ragguardevoli  che  fiorirono  nell'età  di  ognuno  di  quelli  eroi  e  ne  sovvennero,  col  consiglio  o  col  braccio,  la  potenza. Idea  grandiosa  certamente,  ma  non  tale  da  suscitare  entusiasmo,  giacché  pur  troppo  più  d'uno  di  quei  vindici  superbamente  atteggiati  vale  meglio  nel  marmo  di  quel  che  valesse  in  carne  ed  ossa,  ed  il  visitatore  anche  coltissimo  deve  non  senza  stento  ripescarne  le  notizie  grame  nei  recessi  più  oscuri  della  memoria.  Sfarzo,  dunque,  di  compiacenza  dinastica,  monumento d'imperialismo,  che  non  ha  eco  nel  mondo.   Un'altra  Siegesallée  piacerai  prevedere  che  la  Germania  contrapporrà  un  giorno  a  quella  berlinese, ove  siano  effigiati  altri  trionfatori,  ben  altrimenti  noti  e  civili  e  benefici;  i  trionfatori  del  pensiero  e  dell'arte,  tutti  raccolti  insieme,  senza  esclusioni  partigiane,  senza  predilezioni  regionali, senza  male  prevenzioni  politiche  o  religiose.  Questi  sono  i  vittoriosi  di  tutti  i  tempi,  i  cittadini  di  tutti  i  luoghi,  ai  quali  il  mondo  s'inchina.  E  tra  costoro,  ben  meglio  onorati  die  nel  Walhalla  di  Ratisbona,  penso  che  sorriderà  la  fiiccia  arguta  e  splenderà  l'alta  fronte  geniale  di  Arrigo  Heine,  redento  dalla  potenza  ultrice  del  tempo,  riconciliate  col  suo  popolo,  ch'egli  amò  sempre,  tra  la  ironia  scettica  della  sua  travagliata esistenza,  di  cosi  fido  e  tenero  affetto.   Nota  aggiuiTìa    Xe]  Fan f itila  della  domenica,  26  novembre l!)0ò.  L'imperatore  di  Germania,  che  acquistò  l'Achilleiou  di  Corfù,  ne  tolse  il  simulacro  di  Arrigo  Heine,  che  fu  venduto  al  banchiere  Cainpe.  Costui,  fino  ad  oggi,  non  ha  trovato  modo  di  farlo  accettare  da  nessun  sodalizio  tedesco. Su  queste  storia  poco  edificante  vedi  ciò  che  scrive  G.  A.  Boiuìesk  nel  volume  La  nuova  Germania,  Torino,  1909,  pp.  164  sgg.    Adalberto  Stifter  novellatore.    Nell'autunno  del  190.T  i  paesi  di  lingua  tedesca  echeggiarono  in  ogni  parte  delle  lodi  d'uno  scrittore austriaco,  di  cui  in  Italia  neppure  si  bisbiglia. A  questo  scrittore  furono  consacrati  articoli, opuscoli,  volumi:  le  edizioni  popolari  delle  sue  opere,  dopoché  nel  1898  fu  terminato  il  trentennio di  proprietà  esclusiva,  che  dalla  Casa  editrice Ileckenastdi  Pesterà  passato  alla  Casa  Amelang  di  Lipsia,  si  moltiplicarono  rapidamente:  all'obelisco  eretto  sin  dal  1877  in  suo  onore  sul  Blockenstein  dell'amato  Bohinerwald  fu  aggiunto  nel  maggio  del  1902  un  monumento  a  Linz,  nel  quale  lo  si  rappresentò  adagiato  presso  ad  una  rupe  in  atto  d'intenta  e  tranquilla  osservazione  delle  bellezze  naturali;  un  altro  monumento  gli  si  eresse  pel  centenario  nella  sua  patria,  Oberplan  di  Boemia,  ed  un  terzo  ne  vedrà  presto  sorgere  l'antica  e  grande  capitale  dell'impero  d'Austria,  mentre  già  a  Vienna  stessa,  e  a  Budweis,  e  a  Linz  alcune  vie  sono  chiamate  col  suo  nome;  il  sodalizio  costituitosi  per  l'incremento  della  cultura  tedesca  in  Boemia  fondò  in  Praga  uno  Stifter-Archiv,  destinato  a  raccogliere  i  manoscritti delle  sue  opere,  i  suoi  carteggi,  i  documenti  tutti  che  in  qualche  modo  si  riferiscono  alla  sua  vita,  alla  sua  attività,  alla  sua  reputazione; quel  medesimo  sodalizio  ha  dato  opera  alla  stampa  d'una  edizione  critica  definitiva  di  tutti  gli  scritti,  editi  ed  inediti,  dello  Stifter,  che,  assunta  dall'editore  Calve  sotto  l'alta  direzione  di  Augusto  Sauer  di  Praga,  consterà  di  ventun  volumi.   E  cosa  singolare  davvero  che  di  questo  scrittore, di  cui  suona  ormai  cosi  alto  il  nome  in  Germania  e  sembra  che  col  volger  degli  anni  la  fama  acquisti  sempre  nuovo  vigore,  l'Italia  non  siasi  mai  occupata  con  qualche  cura,  sicché  tra  i  maggiori  scrittori  tedeschi  dell'Austria  egli  è  certamente  il  meno  noto.  Per  studi  e  per  traduzioni sono  conosciuti  abbastanza  nel  paese  nostro Niccolò  Lenau,  Francesco  Grillparzer  e  Roberto Ilamerling;    si  può  dire  che  alla  cognizione diretta  dello  Stifter  s'oppongano  difficoltà  idiomatiche  o  difetto  di  famigliarità  con  gli  usi  locali,  come  accade  per  l'umorista  fantasiosamente insuperabile,  che  risponde  al  nome  di  Ferdinando  Raimund.  Ad  intendere  le  produzioni  sceniche  del  Raimund,  che  fanno  ancor  sempre  la  fortuna  del  Volks-Theater  di  Vienna,  occorre  esser  addentro  nello  spirito  del  popolo  e  del  vernacolo viennese;  mentre  a  leggere  e  a  gustare   10  Stifter  è  unicamente  mestieri  di  conoscer  bene   11  tedesco,  cognizione  che  ormai  non  deve  difettare a  nessuna  persona  colta  non  mediocremente.   Alieno  dalle  esagerazioni,  io  mi  guarderò  bene  dall' innalzare  lo  Stifter  su  d'un  piedistallo  più elevato  di  quello  che  gli  competa,  e  mi  terrò  lontano  dall' infatuamento  a  cui  si  abbandonarono  certi  suoi  ammiratori;  ma  non  è  esagerazione  ne  è  frutto  di  infatuamento  l'asserire  ch'egli  è  il  maggior  prosatore  tedesco  dell'Austria.  Vale  quindi  la  pena  che  in  breve  se  ne  discorra  la  vita  e  se  ne  tratteggi  l'indole,  ponendone  in  evidenza l'opera  letteraria  (').  Questo  articolo  risulta  non  solo  dalla  lettura  attenta  delle  principali  opere  narrative  dello  Stifter,  ma  anche  dallo  studio  della  parte  più  notabile  di  quella  assai  larga  letteratura storico-critica  che  in  Germania  fu  a  lui  consacrata.  A  Praga  uscì  nel  1904  intorno  a  lui  un  volume  di  Litigi  Raimondo Hkh  (Adalbert  Stifter,  seiu  Lehen  und  seine  lleite),  che  quasi  tocca  le  700  pagine  in-8»  grande.  È  un'opera  bio-bibliografica di  estrema  minuziosità,  corredata  di  un  ragguardevole numero  di  documenti,  condotta  su  molti  carteggi  inediti e  col  sussidio  dei  riferimenti  di  quanti  amici  dello  Stifter  poterono  essere  consultati.  Accrescono  pregio  al  volume,  farraginoso  invero  assai,  ma  pure  preziosissimo,  la  riproduzione di  tutti  i  ritratti  noti  dello  scrittore,  nonché  di  una  parte  dei  suoi  quadri  e  schizzi,  le  vedute  dei  paesaggi  che  gli  furono  più  famigliari  e  di  cui  scrisse,  i  disegni  delle  case  da  lui  abitate  e  fin  dei  suoi  mobili  prediletti.  Più  di  cosi  non  si  potrebbe  fare!  Fra  gli  scritti  critici  intorno  allo  Stifter  trovo  segnalabile  sempre  un  libro  ormai  vecchio:  Enti.  Kuh,  ZweiDichter  Oesterreiclis,  Franz  Grillparzer  und  Adalbert  Stifter  CPest,  Heckenast,  1872;.  Buono  nella  letteratura  recentissima  il  volumetto  di  W.  Koscn,  Adalbert  Stifter  eine  Stadie  (Leipzig, Amelang,  1905),  che  fa  seguito  ad  un'indagine  letteraria  del  Kosch  medesimo,  uscita  a  Praga,  Adalbert  Stifter  und  die  Bomantik.  Nella  alluvione  di  articoli  ed  opuscoli  che  portò  seco  il  centenario,  merita  il  primo  posto  il  numero  speciale  (an.  IV,  n.  12,  settembre  1905 1  che  allo  Stifter  consacrò  la  rivista  mensile  Deutsche  Arbeit  di  Praga,  perchè  vi  sono  parecchi articoli  con  nuovi  documenti,  massime  intorno  alle  amicizie  dello  scrittore  di  Oberplan.    4    L   Siete  mai  passati  dalla  Boemia  in  Baviera?  11  confine  occidentale  della  terra  boema  è  naturalmente segnato  da  un  succedersi  di  monti  boscosi, che  ha  il  nome  di  Bòhmerwald.  Nella  parte  più  meridionale  di  quella  regione  montagnosa  scorre  limpida  nella  sua  giovanilità  presaga  di  grandezza  la  Moldava,  e  dove  la  valle  prima  angusta di  quel  fiume  czeco  si  allarga,  giace  in  pittoresca  posizione,  adagiato  sulle  pendici  erbose, il  villaggio  di  Oberplan,  e  i  boschi  gli  fanno  corona.  In  una  di  quelle  tranquille  casette  dal  solo  pianterreno,  che  tanto  piacciono  alle  popolazioni rusticane  dei  piccoli  Slavi,  in  una  casetta  che  dai  restauri  in  fuori,  imperiosamente  imposti  dal  tempo  roditore,  si  conserva  oggi  ancora  tal  quale,  vide  la  luce  in  Oberplan  il  23  ottobre  1805  Adalberto  Stifter,  da  un  agricoltore  che  avea  dapprima  esercitato  l'industria  della  tessitura  e  dalla  figlia  d'un  macellaio.  Non  la  madre,  creatura soave,  «  lago  senza  fondo  d'amore  »,  ritrasse  egli  nella  sua  lunga  opera  descrittiva  di  uomini  e  di  cose,  ma  l'ambiente  domestico  e  specialmente la  nonna,  Frau  Ursula  Kary,  nel  racconto  Ileidedorf,  da  lui  già  abbozzato  in  ginnasio.  Come  il  Felice  di  quel  racconto  è  in  gran  parte  l'autore medesimo,  cosi  ritrae  la  figura  idealizzata  dell'ava  veneranda  quella  vecchia  nonna  di  Felice, che  nella  sua  vita  laboriosa  ha  letto  un  libro  solo,  la  Bibbia,  e  per  70  anni  lo  ha  elaborato nella  vivace  fantasia,  sicché  le  voci  della  sua  anima  austera  e  mite  trovano  spesse  volte  nel  suo  umile  discorso  di  popolana  la'solennità  sacra  dell'espressione  scritturale.  Nell'infanzia  dello  Stifter  le  narrazioni  fantastiche  di  quella  vecchia,  non  dissimili  da  quelle  della  nonna  di  Katsensitber,  influirono  assai  ad  atteggiargli  all'arte  rappresentativa  l'anima  tenera  e  pronta,  come  sul  giovinetto  Goethe  potè  non  poco  la  gioconda  madre  Elisabetta,  inesauribile  narratrice  di  fiabe  e  di  leggende.   Se  non  che  sul  capo  del  povero  Adalberto,  che  faceva  ormai  progressi  sotto  la  guida  intelligente  del  maestro  del  villaggio,  Giuseppe  Jeune,  s'addensava un  nembo  procelloso.  Nel  1817,  a  12  anni,  un  tragico  infortunio  lo  orbò  del  genitore;  l'infelice  madre  di  lui  rimase  vedova,  senza  mezzi,  con  cinque  figliuoletti.  Energicamente  venne  in  soccorso  il  nonno  materno,  la  cui  onesta  figura  è  ritratta  in  Granii-,  e  malgrado  i  presagi di  qualche  corvo  di  malo  augurio  e  difficoltà materiali  d'ogni  genere,  egli  volle  che  il  fanciullo  proseguisse  gli  studi  e  lo  allogò  a  percorrere il  ginnasio  nella  non  troppo  remota  abbazia benedettina  di  Kremsmunster  nell'Alta  Austria, asilo  di  cultura  molte  volte  secolare,  ricca  di  libri,  di  quadri,  di  raccolte  antiquarie  e  naturalistiche. Quivi  il  giovinetto,  sebbene  strappato così  precocemente  alla  famiglia,  vinse  ben  presto  il  troppo  naturale  sentimento  nostalgico  e  si  trovò,  negli  studi,  come  un  pesce  nella  sua  acqua.  A  Kremsmunster  compi  con  onore  l'intero  corso  classico  medio,  e  per  quel  ch'è  della  letteratura  influì  colà  massimamente  sull'animo  suo  il  padre  Placido  Hall,  che  si  dice  sia  ritratto  nel  candore  dell'anima,  nella  vita  parsimoniosa  e  segnatamente  nell'amore  intenso  ai  fanciulli,  in  quel  parroco  singolare  che  è  protagonista  del  bel  racconta  Kalkstein.  Sin  d'allora  lo  Stifter  si  senti  prepotentemente  attratto  all'arte,  e  gli  studi  di  scienze  naturali,  condotti  innanzi  con  fervore  nelle  raccolte  dell'abbazia,  non  intiepidirono punto  in  lui  l'ammirazione  per  la  natura  bella  e  grande,  che  gV ispirava  versi  e  lo  induceva a  dipingere  i  suoi  primi  acquarelli.  Cosi  tra  le  brune  tonache  benedettine,  nell'austerità  d'un  glande  monastero,  si  venivano  maturando  nello  ►Stifter  quelle  tendenze  ideali,  che  dovevano  costituire la  gioia  ed  il  tormento  della  sua  esistenza.   Passato  nel  1826  all'Università  di  Vienna,  fu  indotto  dalle  esigenze  pratiche  della  vita  a  seguire il  corso  giuridico;  ma  nel  tempo  stesso  frequentava  lezioni  di  scienze  naturali,  di  fìsica,  di  matematiche,  e  per  impinguare  un  po'  il  borsellino, ch'era  sempre  magramente  fornito,  dava  lezioni  private  in  case  signorili.  Ciò  gli  permetteva di  procurarsi  il  godimento  di  frequentare  concerti  e  teatri,  che  costituivano  per  lui,  insieme con  le  raccolte  di  pittura,  la  massima  attrattiva. Fra  gli  autori  drammatici  era  specialmente lo  Shakespeare  che  gli  incatenava  l'attenzione e  gli  commoveva  gagliardamente  l'animo sensitivo;  nel  suo  romanzo  Nachsommer  è  descritta  coi  colori  dell'esperienza  propria  la recita  del  King  Lear  e  l'effetto  che  può  fare  sui  giovani.  La  Vienna  di  que'  tempi  non  era  la  suntuosa metropoli  de'  giorni  nostri:  la  vita  vi  si  svolgeva  àncora  semplice,  bonaria,  gioconda,  d'una  giocondità  e  d' una  bonarietà  che  avevan  bensì  qualcosa  di  borghesemente  ristretto,  ina  tuttavia  erano  tipicamente  caratteristiche.  Le  impressioni  di  que'  giovani  anni,  tutti  dati  alla  spensieratezza  e  all'arte,  sono  descritte  nel  racconto Leben  unti  Hanshalt*dreier  Wiener  Studenten,  ove  lo  Stifter  narra  di    e  de'  suoi  due  fidi  compagni,  Anton  Mugerauer  e  Franz  Schift'er.  La  Vienna  di  que'  giorni  fu  ritratta  con  mirabile efficacia  negli  scritti  Aus  dem  alien  Wien,  editi  dalPAprent  nel  voi.  II  delle  Vermiscìite  Schriflen;  più  generalmente  nota  è,  tra  le  Erzàhlungen,  quella  intitolata  Ehi  Gang  durcìi  die  Kalakomben,  che  descrive  una  visita  nei  sotterranei del  tempio  viennese  di  Santo  Stefano,  destinati  a  cimitero,  la  cui  solitudine  tetra  di  sepolcreti  stride  con  la  vita  multiforme  e  assordante che  si  agita  di  sopra,  nella  piazza  e  nel  vicino  Graben,  che  erano  allora,  e  sono  in  parte  anche  ora,  il  cuore  della  metropoli  austriaca.  Sulla  cattedrale  di  Santo  Stefano  meditava  un  libro  intero.  In  parecchi  altri  scritti  lo  Stifter  ritrae  con  la  sua  impareggiabile  perizia  descrittiva qualche  recesso  della  vita  o  della  topografia  viennese;  ma  in  nessun  luogo  forse  più  felicemente che  nella  seconda  parte  del  Tur  mal  in,  ov'è  quell'aristocratico,  ma  remoto,  triste,  deserto, cadente  «  Perronsche  Haus»,  che  nell'evidenza  de' suoi  tratti  ha  la  precisione  d'una  miniatura.   Cade  nel  periodo  di  quel  soggiorna  viennese  dello  Stifter  il  suo  primo,  fervidissimo,  non  mai  estinto  amore  per  la  giovinetta  Fanny  Greipl,  nata  essa  pure  nel  Bóhmenvald  e  precisamente  nell'amena  borgata  di  Friedberg.  Quando  quel  legame  si  strinse,  Adalberto  aveva  23  anni  e  Fanny  20.  S'amavano  passionata  mente,  con  tutto  lo  slancio,  con  tutta  la  devozione  d'un  primo  amore  in  anime  nobilmente  disposte,  ma  all'eccesso infiammabili.  Se  non  che  la  fanciulla  era  abbastanza  agiata  e  lo  Stifter  era  povero  e  senza  prospettiva  d'una  carriera  soddisfacente.  La  madre di  Fanny  gli  fece  intendere  che  non  era  prudente continuare  ima  relazione  di  cui  pel  momento non  si  vedeva  esito  alcuno,  ed  il  giovine  addoloratissimo  si  ritrasse,  pur  sempre  sperando  di  potersi  un  giorno  presentare  con  un  impiego  decoroso.  Nel  Nachsommer  l'amore  infelice  del  barone  di  Risach  e  di  Matilde  rispecchia  questa  condizione  psicologica;  come  in  Heidedorf è  rappresentato lo  strazio  della  rottura.  Giacché  la  rottura  definitiva  venne  in  una  lugubre  giornata  del  1833:  Fanny  pregava  Adalberto  di  non  scriverle più  perchè  s'era  fidanzata  ad  un  serio  ed  onesto  impiegato,  che  avea  la  compostezza  e  la  borghesia  grassa  fin  nel  nome,  Josef  Fleischanderl.  Si  sposarono  il  18  ottobre  1836  e  la  bella  Fanny  moriva  di  parto  il  12  settembre  1839.  Allora lo  Stifter  era  già  coniugato,  perchè  il  15  novembre 1837  aveva  condotto  all'altare  una  vezzosissima  morava,  Amalia  Mohaupt,  poverissima,  che  a  Vienna  faceva  la  sartina  c  la  modista,  ed  il  cui  padre,  ufficiale  a  riposo,  viveva  lontano,  in  Ungheria,  La  bellezza  femminile,  che  potè  sempre  tanto  sui  sensi  e  sullo  spirito  del  nostro  scrittore,  lo  indusse  a  stringere  rapporti  con  la  signorina  Mohaupt,  la  quale  non  si  lasciò  sfuggire l'occasione  d' un  matrimonio  civile.  Sinché  visse  Fanny  il  cuore  dello  Stifter  continuò  ad  essere  con  lei:  dopo  si  volse  maggiormente  ad  Amalia  ed  egli  in  molte  lettere  disse  la  sua  unione  felice,  e  manifestò  per  la  moglie  vivissimo  affetto. Nò  si  può  dire  che  questa  non  lo  ricambiasse, anzi  è  generalmente  riconosciuto  che  negli anni  infermi  della  vecchiaia  lo  assistette  con  esemplare  premura.  Ma  ad  essa  mancarono  le  doti  d'intelletto  e  di  cultura  necessarie  per  intendere un  uomo  di  spirito  non  ordinario,  un  artista  nato;  e  l'essere  rimasto  quel  matrimonio  senza  figliuoli  non  permise  la  comunità  d'interessi e  d'affetti,  che  molte  volte  cementa  unioni  matrimoniali  non  bene  assortite.  Vissero  insieme  più  di  trent'anni  senza  urti  e  senza  scosse;  l'abitudine rese  tollerabile  e  financo  gradito  un  vincolo che  s'era  stretto,  da  una  parte  per  attrattiva fisica,  dall'altra  per  interesse.  La  descrizione  della  visita  fatta  dal  maggior  biografo  dello  Stifter,  lo  Hein,  alla  vedova  di  lui,  sopravvissutagli  sino  al  1888,  non  ce  la  mostra  certo  sotto  la  luce  migliore.  V'ha  poi  in  quella  donna  qualche  tratto,  che  si  direbbe  tradire  grossolanità  di  sentimento:  ad  esempio,  la  vendita,  per  800  fiorini,  all'editore  Heckenast  delle  lettere  a  lei  dirette  dal  marito.   Le  speranze  d'un  impiego  nell'insegnamento  pubblico,  che  lo  Stifter  aveva  vagheggiato  nei  primi  anni  del  suo  matrimonio,  andarono  deluse.  Egli  viveva  meschinamente  dando  lezioni  in  case  sovratutto  patrizie.  Quella  del  principe  di  Mettermeli, di  cui  istruì  i  figliuoli,  gli  si  doveva  aprire  più  tardi,  nel  1844.  Allora  era  già  noto  come  scrittore,  poiché  il  suo  primo  l'acconto,  il  Kondor,  uscì  nella  Wiener  Zeitschriff  del  1840,  e  nel  medesimo  anno  comparve  lo  studio  Feldblumen  nella  rivista  Iris  di  Pest.  Cosi  si  avviava  la  preziosa  amicizia  dello  Stifter  con  l'editore  intelligentissimo  Gustavo  Heckenast,  senza  del  quale  forse  il  novellatore  boemo  si  sarebbe  dato  alla  pittura  anziché  all'arte  dello  scrivere.  Lo  Heckenast  di  Pest,  che  non  valeva  meno  come  suscitatore  d'ingegni  e  giudice  di  produzione  letteraria di  quel  che  valesse  come  abile  amministratore ed  accorto  mercatante,  diresse  e  consigliò lo  Stifter,  sovvenne  ai  suoi  bisogni  materiali, che  spesso  lo  angustiavano,  rinfrancò  il  suo  coraggio,  aiutò  a  diffondere  la  sua  reputazione  di  scrittore.  Abituati  a  vedere  troppo  spesso  negli  editori  non  altro  che  sfruttatori  del  lavoro  intellettuale altrui,  impresari  materiali  e  gretti  dell'opera  dell'ingegno,  una  specie  di  Medebac  sempre solleciti  a  mortificare  ogni  slancio  che  non  torni  d'immediata  utilità  alla  cassetta,  ci  impone  ammirazione  e  quasi  tenerezza  questa  amicizia  di  due  uomini  così  variamente  dotati.  Lo  He  ADALBERTO  STIFTER  NOVELLATORE  J1Ó   ckenast  si  procurò  molte  simpatie  presso  parecchi scrittori  tedeschi;  tutti  i  biograti  dello  Stifter  ne  parlano  con  sincero  encomio,  e  di  recente  A.  Schlosser,  col  sussidio  di  carteggi  inediti,  ha  illustrato  quella  nobile  esistenza.   Lo  straordinario  successo  che  ebbero  i  primi  racconti  dello  Stifter  disseminati  per  le  riviste,  incoraggiò  nel  1844  l'edizione  dei  primi  due  volumi degli  Studien.  Cosi  la  t'ama  dello  scrittore  restò  fissata  definitivamente  e  si  sarebbe'anche  estesa  con  maggiore  rapidità,  se  non  venivano  a  trasformarla  i  gravi  avvenimenti  del  1848.   Lo  Stifter  non  era  un  rivoluzionario;  anzi  l'insurrezione viennese  di  marzo  lo  costernò  profondamente. 11  suo  spirito  mite  rifuggiva  dalla  violenza;  le  sue  convinzioni  religiose  informate  al  cattolicesimo  gli  imponevano  ossequio  all'autorità costituita.  Tuttavia  esagerano  il  Kosch  ed  altri  quando  lo  dipingono  coinè  un  reazionario.  Sebbene  bazzicasse,  per  necessità  di  pane,  nelle  famiglie  più  aristocratiche  di  Vienna,  egli  fu  sempre considerato  da  esse  come  un  parvenu:  in  quella  classe  sociale  trovò  una  sola  amica  veramente fida,  la  baronessa  Luisa  di  Eichendorff,  sulle  cui  lettere  al  nostro  autore  il  Kosch  ha  di  recente  dettato  un'interessante  memoria.  Nel  suo  petto  egli  sentiva  battere  un  cuore  di  popolano,  e  sangue  di  popolo  era  quello  che  gli  scorreva  nelle  vene  ;  sicché  se  della  rivoluzione,  deplorava le  violenze  e  gli  eccessi,  non  era  cieco  ad  alcuni  suoi  giusti  moventi.  L'uomo  che,  a  quanto  ci  attesta  Emilio  Kuh,  aveva  fatto  oggetto  di    Ilf.   speciali  stadi  Ja  rivoluzione  francese  e  area  in  animo  di  scrivere  un  romanzo  su  Massimiliano  Robespierre,  non  poteva  schierarsi  inflessibile  fra  i  nemici  della  libertà  e  chiudere  a  questa  il  suo  gran  cuore  di  artista  e  di  educatore.  Fondamentalmente il  suo  indirizzo  era  di  conservatore,  ma  conservatore  illuminato,  non  arcigno,    intollerante, conservatore  amante  del  progresso  ed  in  ispecie  della  soda  educazione  popolare.  Tanto  è  vero  che  nel  decennio  di  reazione,  prodotto  dai  moti  del  '48  in  Austria,  una  sua  antologia  scolastica,  ch'egli  aveva  messa  insieme  con  l'amico Aprent,  fu  dal  Ministero  dell'istruzione  austriaco vietata  in  tutte  le  scuole  austriache  perchè troppo  poco  ortodossa.   I  trambusti  politici  mal  si  convenivano  al  diffondersi dei  suoi  racconti,  sicché  d'allora  in  poi,  tratto  dall'imperiosità  degli  avvenimenti  non  meno  che  dall'indole  propria,  si  diede  con  fervore all'educazione  e  all'istruzione  del  popolo.  Per  questa  via  pervenne  finalmente  ad  ottenere  un  posto,  che  gli  assicurò  una  posizione  finanziaria, se  non  lucrosa,  almeno  decente.  Il  ministro dell'istruzione  pubblica,  Leo  Thun,  lo  nominò ispettore  per  le  scuole  popolari  dell'Alta  Austria,  con  residenza  a  Linz.  Nel  giugno  del  1850  quell'ispettorato  gli  fu  conferito  provvisoriamente, quasi  a  modo  di  prova  :  con  decreto  del  5  febbraio  18òò  l'ufficio  si  trasmutò  in  stabile,  e  nello  stesso  tempo  Linz,  la  piccola  ma  ridente  città  sul  Danubio,  divenne  la  sua  seconda  patria,  d'onde  il  nostro  Adalberto  non  s'allontanò,  se     non  temporaneamente,  e  dove  lasciò  le  sue  ossa.  Nei  tredici  anni  ch'egli  visse  colà,  la  sua  vita  fu  divisa  tra  l'ufficio  e  l'arte.  L'ufficio  lo  occupava immensamente:  egli  pose  ogni  suo  zelo  nel  fare  il  bene  e,  come  sempre  accade,  si  trovò  impigliato  in  brighe  molestissime  e  fu  amareggiato da  gravi  dispiaceri.  L'anima  impressionabile di  lui  si  sentiva  sopraffatta  della  marea  montante delle  piccole  animosità,  delle  meschine  codardie, degli  interessucci  personali  molteplici,  che  d'ogni  parte  gli  facevano  ressa  e  gli  impedivano l'operosità  benefica  nel  campo  dell'istruzione. L'ufficio  in  cui  aveva  portato  tanto  entusiasmo e  tanti  nobili  propositi,  gli  divenne  poco  per  volta  catena  quasi  insopportabile,  che  rodeva  il  suo  fisico  e  deprimeva  il  suo  morale.  Parecchie  sue  lettere  ci  sono  conservate,  in  cui    sfogo  all'interna  amarezza.  Unico  conforto,  nei  giorni  desolati,  l'arte.  Non  lasciò  in  pace  mai    la  matita,    il  pennello,    la  penna.  Disegnò,  dipinse, scrisse,  con  crescente  fervore.  Accrebbe  il  numero  dei  suoi  Studien,  compose  in  un  volume i  Bunte  Steine,  donò  a  riviste  qualcuna  delle  sue  Erzahlungen,  diede  opera  ad  iin  romanzo singolare,  Nachsommer.  L'ala  della  sventura colpì  di  nuovo,  e  ben  sinistramente,  la  sua  povera  casa.  Dolorosa,  sebbene  attesa,  riusci  allo  Stifter  la  morte  della  madre  adorata,  £he  segui  il  27  febbraio  1858;  ma  ben  più  amara  dovette  parergli  la  sparizione  tragica  della  sua  figliuola  adottiva  Giuliana  nel  marzo  del  1859.  A  18  anni  quella  giovinetta  bizzarra  abbandonò  la  casa  che    Be.vier  Svaghi  Critici    27    US  U>  AI  .Hi:  li  Tu  sTIK'l  Kl!  XoVEI.I.ATOUK   In  aveva  ospitata,  lasciandovi  un  biglie! to  tor1*1 1  »1 1 1  n  i  m  i  ti»  .,  p.  3. Bald.,  II,  pp.  24849. Bald..  p.  161.    1-18        glie  di  lui,  ohe  diverrà  un  giorno  la  protagonisti  della  novella  Frau  Regel  Amrain  (*).  Fra  quella  buona  gente  egli  si  consolò  alquanto  della  mortificazione sofferta;  ma  non  si  che  non  cominciasse fin  d'allora  quell'amarezza  nel  suo  spirito,  che  doveva  accompagnarlo  per  gran  parte  della  sua  vita  e  che  si  suole  ravvisare  quasi  sempre  negli  autodidatti.    si  decise  pure  a  voler  divenire paesista  ed  ebbe  la  sventura  d'imbattersi  in  un  maestro  convenzionale  e  senza  criterio,  Pietro  Steiger  che  è  lo  Habersaat  del  Heinrich  f\  Lo  jcor resse  poscia  di  molte  viziature  Rodolfo  Meyer,  che  è  il  Roemer  del  romanzo;  ma  Goffredo non  potè  profittarne  quanto  avrebbe  voluto  perchè  quel  poveretto  nel  1838  impazzì  (3).  Così  egli  rimase  novamente  abbandonato  a  se  medesimo e  ai  suoi  ideali,  non  ancora  ventenne.  Fu  allora,  dopo  avere  accompagnato  al  cimitero  un'esile e  gentile  amica  d'infanzia,  Enrichetta  Keller, suo  primo  amore,  che  è  la  piccola  Anna  del  romanzo  (*);  fu  allora  che  decise  di  recarsi  nella  metropoli  artistica  della  Germania,  Monaco,  per  trovare  avviamento  e  fortuna.  Vi  trovò  invece  qualche  ebbrezza  momentanea,  la  compagnia  diversa di  artisti  scapigliati,  ma  nessun  profitto  serio,  anzi  la  convinzione  di  essere  un  pittore  Bald.,  p.  27. Bald.,  p.  30. Bald.,  pp.  38-39.   (4)  Bald.,  pp.  40-41.  Anche,  la  Giuditta  de]  romanzo  ha  un  fondo  di  vero,  ma  che  si  lascia  meno  precisare.  Cfr.  Bald.,  p.  42.    ALC'UNC'HK  VI  GOFFRp:r>0   KELLKK  J40   mancato  l'i.  Questo  fa  il  dramma  della  sua  giovinezza, descritto  con  tcaftrheit  unti  diclitung  nelle  pagine  deìVJùirico,  rappresentato  nella  più  inde  schiettezza  dalle  lettere  alla  "madre,  che  il  Baechtold  ha  fatto  conoscere.  Quella  povera  madre si  legava  il  pan  di  bocca  per  soccorrere  il  figliuolo, che  continuamente  le  chiedeva  danaro  e  danaro,  ed  era  ingolfato  sino  agli  occhi  nei  debiti.  Finalmente,  nel  1842,  battè  melanconicamente  la  via  del  ritorno,  senza  trovare  sulla  sua  via  nessun cónte  benefico  e  romanzescamente  mecenate,  ma,  in  compenso,  trovando  ancor  viva  ed  arzilla  la  genitrice  con  la  sorella.   Dal  1842  al  1848  stette  a  Zurigo,  in  famiglia.  Viveva  fra  gli  stenti,  ma  almeno  non  pativa  la  fame.  E  a  poco  a  poco  si  venne  allora  svegliando  .  in  lui  lo  scrittore;  anzitutto  il  lirico,  al  contatto  dei  commovimenti  politici  del  tempo,  poi  il  narratore e  descrittore.  Non  potè  gran  fatto  su  di  lui  un  secondo  amore,  pure  sfortunato,  per  Luisa  Rieter  di  Winfcerthi.tr,  la  amabilissima  Figura  Leu  del  Landvogt  von  Greifensee^):  ormai  egli  aveva Ben  lo  dice  Max  Koi'H  (ffeseh.  der  deutxchen  Lite-rat»  r,  Stuttgart,  1895)  «  gleich  Scheffel,  ein  verungl iickter  Maler  »  (p  255).  Questa  è  pure  l'opinione  di  C.  Brcn,    (*).  Cominciò  anche  a  pensare  al  romanzo  del  pittore  mancato,  al  Grune  Heinrich, che  condusse  a  termine  in  mezzo  ad  incertezze, a  pentimenti,  ad  interruzioni,  e  poi  rifece  durante  una  lunga  serie  d'anni  (3).   Intendeva,  peraltro,  il  Keller  che  a  divenire  scrittore  gli  era  mestieri  di  allargare  e  consolidare la  propria  cultura.  Ottenne,  pei1  buona  sorte,  un  sussidio  dalle  autorità  cantonali  e  con  esso  potè  recarsi  e  vivere  prima  a  Heidelberg,  poi  a  Berlino.  A  Heidelberg  giocondamente,  freBald.,  I,  p.  193. Bald.,  I,  p.  89.  Non  era  dir  poco,  perchè  al  K.  la  birra  ed  il  vino  piacevano  assai.  Cfr.  B.,  II,  pp.  320-21  e  III,  p.  124.  L'abitudine  teutonica  del  kneipen  non  la  smise  mai.  Cfr.  Bald.,  pp.  219,  227,  316-17. In  B.,  Il,  pp.  33  sgg.  è  narrata  e  documentata  la  storia  del  Grane  Heinrich.        quentando  l'università  e  stringendo  relazione  col  filosofo  Feuerbach,  che  influì  massimamente  sul  concetto  religioso  del  nostro  scrittore  (');  a  Berlino, ove  dimorò  dal  1850  al  1855,  con  grandi  privazioni,  messo  di  nuovo  per  una  strada  che  non  era  la  sua,  quella  della  drammatica  (*)•  Per  buona  ventura  se  n'accorse  in  tempo  e  non  vi  si  incaponì,  come  nella  pittura.  Egli  aveva  ormai la  coscienza  della  propria  potenzialità  artistica e  sorretto  da  essa  tornò  di  nuovo  a  Zurigo, dopo  sette  anni  non  infruttuosi  di  dimora  in  Germania.  Aveva  cominciato  a  scrivere  novelle, e  tra  novelle  e  liriche  prosegui  per  il  resto della  sua  vita.  Dal  1856  al  1861  visse  tranquillo nella  sua  città  svizzera,  che  non  era  ancora  il  fiorente  centro  industriale  d'oggigiorno,  conoscendo molti  spiriti  eletti,  tra  cui  Riccardo  Wagner, ch'egli  ammirava  (3).  Nel  1861  un  colpo  di  buona  fortuna  gli  procurò  l'agiatezza  con  la  nomina  di  primo  cancelliere  del  cantone  di  Zurigo, impiego  che  egli  tenne  con  zelo  ed  intelligenza pei1  quindici  anni.  Quell'occupazione,  che  non  era  puramente  materiale  (*),  valse  a  disciVedi  B.,  I,  pp.  832-38.  3ti3,  J07-8.  La  religiosità  del  K.,  conforme  al  suo  ideale  repubblicano,  scostavasi  da]  cristianesimo come  da  qualsiasi  altra  religione  positiva.  Cfr.  O.  Fikjmmei..  (iottfr.  Ketlers  relitjitìse  Entirickluni),  iu  Deutsehe  liunclschau.  voi.  Ili  (1802i,  pp.  367  sgg. In  appendice  al  II  voi.  de]  B.  souo  pubblicati  gli  abbozzi drammatici  delK.  Teresa  è  l'unico  condotto  abbastanza  innanzi.  Cfr.  anche  Bali».,  pp.  104-7. B.,  II,  pp.  307  sgg.  i  li  lUus,  p.  211.        .  plinare  il  suo  spirito,  che  fino  allora  non  ora  stato  costretto  da  veruna  disciplina  (').  La  madre  vecchierella,  chiudendo  gli  occhi  nel  1864,  aveva  la  consolazione  di  lasciare  il  figliuolo,  che  le  aveva  costato  tanti  sacrifizi,  in  buona  condizione  materiale e  generalmente  onorato.  Nel  1869  l'università di  Zurigo  lo  creava  doclor  honoris  causa.  Per  poter  attendere  con  maggior  lena  a'  suoi  scritti,  si  dimetteva  nel  1876  da  cancelliere,  e  con  la  sorella,  che  gli  fece  da  massaia,  visse  per  dodici anni  vita  semplice  e  quieta.  Regala  gli  mori  nel  1888  ed  egli  ne  fu  afflittissimo,  sebbene  il  carattere di  lei  (e  specialmente  la  sua  levatura)  molto  differisse  da  quella  del  novellatore.  Nel  1889,  quando  la  Svizzera  e  la  Germania  commemorarono il  suo  settantesimo  natalizio,  gli  fu  presentata  una  medaglia  disegnata  dall'amico  dei  suoi  vecchi  anni,  il  celebre  pittore  Bocklin  (').  Egli  l'ammirò  senza  dir  parola,  ma  le  lacrime  gli  spuntarono  sul  ciglio  e  concluse:  «  Signori,  «  è  la  fine  della  canzone,  das  Elide  rom  Lied!  «  Sento  che  non  ne  avrò  più  per  lungo  tempo  »  (3).  Un  anno  dopo,  il  15  luglio  1890,  egli  non  era  più  di  questo  mondo.    (li  B.,  II,  pp.  817-1». L'effigie  della  medaglia  è  riprodotta  uell' Eniporium,  li  (1*4*5.1,  p.  lt>4,  ed  ivi  a  p.  loft  é  pure  la  bella  incisione  dello  Staiiffer  che  rappresenta  il  K.  seduto,  in  età  già  avanzata.  Per  l'amicizia  col  Bocklin  vedi  B.,  Ili,  p.  315. Bami.,  p.  368.  L'ultimo  anno  della  vita  del  K.  è  descritto  de  L'ita  da  Adolfo  Frey  nella  Deutsche  Rundschau    Vigorosa,  se  non  molto  simpatica,  natura  d'uomo; diritta,  rude,  sincera,  con  gli  altri  e,  quel  eh' è  più  raro,  con  sè.  Uomo  talora,  nella  sua  irascibilità, alquanto  grossolano:  diffidente  e  acido  negli  ultimi  anni,  ma  non  mai  vano    fatuo.  Semplice,  solido,  ordinato  come  un  perfetto  borghese, senz'averne    la  pedanteria    il  filisteismo. Patriota,  liberale,  larghissimo  nelle  idee.  Innamorato  della  sua  arte:  multiforme  nell'umorismo: svizzero.   *   Sopratutto  svizzero.  L'elvetismo  di  Goffredo  Keller  è  la  sua  gran  forza:  si  percorra  la  storia letteraria  della  Svizzera  tedesca  (')  e  si  vedrà ch'egli  ne  raccoglie  l'eredità  intellettuale  e  molale.  Egli  è  perfetto  rappresentatole,  paesista  della  penna,  ora  idillico  ora  umorista,  ora  pensatore oia  fanciullo.  Ha  degli  svizzeri  tedeschi  l'ingenuità  primitiva  e  giuliva,  ed  a  tempo  e  luogo  la  causticità  e  la  riflessività  melanconica.  E  uno  scrittore  tipico  della  sua  razza  e  come  tale  vuol  essere  studiato  ed  amato.   S'è  detto  e 'ripetuto  ch'egli  subì  gl'influssi  del  Richter  (Jean  Paul)  e  dei  romantici  tedeschi.  Tieck,  Brentano,  Amadeo  Hoffmann;  fu  accostato  remotamente allo  Sterne,  prossimamente  a  quel  suo  connazionale  pastore  d'anime  ch'ebbe  in  letteScrìsse  egregiamente  questa  storia  J.  Baechtolh,  (lescltichte  der  ileulnchen  Litentlur  in  rìer  Hrhiceiz,  Frauenfeld,  1892.    ratura  il  nome  di  Geremia  Gotthelf  e  che,  con  intento  di  moralità,  osservò  e  rudemente  ritrasgg  tanta  parte  della  vita  popolare  svizzera  (').  Non  dirò  che  codesti  avvicinamenti  siano  fuori  di  luogo;  ma  in  realtà  il  Keller  ha  una  personalità  artistica  tutta  propria,  che  si  stacca  da  ogni  modello. Romantico  nel  fondo,  come  ogni  buon  tedesco, ha  talora  crudezze  di  realismo  che  lo  avvicinano allo  Zola,  ha  talora  ironie  e  stridori  di  contrapposti  che  fan  pensare  allo  Heine  (*).   Ingegno  lirico  il  Keller  non  fu,  sebbene  scrivesse gran  numero  di  poesie,  alcune  tra  le  quali  felici,  ma  le  più  mediocri  (3).  Manifesta  anche  nella  lirica  un  senso  vivo  della  natura;  ma  è  troppo  ragionatore,  troppo  epico,  se  cosi  fosse  lecito esprimersi.  Questa  medesima  tendenza  epica  gli  fu  d'intoppo  a  riuscire  nel  dramma.  Ne  gli  valse  abbastanza  pel  romanzo:  notai  già  i  gravissimi difetti  di  composizione  dett' E)i>-ico  il  Verde:  difetti  non  dissimili  si  possono  ravvisare  Quest'ultimo  confronto  è  di  J.  BnritnKAC  in  un  articolerò, npl  resto  superficiale  e  poco  sensato,  intorno  al  IC,  che  si  legge  npl  volume  Po°le.i  et  humorisleit  tip  V  Alleniityne,  Paris,  Hachette,  1H0(>. Sui  rapporti  del  K.  con  lo  Heine  vedi  B.,  11,  pp.  32.~>  sgg.  Non  é  troppo  giusto  ciò  clip  osserva  in  proposito  il  Tìai-d.  a  p.  361. Ampio  e  pazientissimo  lavoro  è  quello  di  P.vrr.  Bui  xsek.  Slmììen  unrì  BeilrOge  zìi  Gotlfr.  Krìlers  Li/rik.  Zurich.  lHOli.  Col  confronto  dei  mss.  vi  è  studiata  la  tecnica  della  lirica  kelleriana;  con  l'aggiunta  di  poesie  oramai  divenute  rare  e  d'un  poemetto  inedito.  Sulla  lirica  del  Keller  leggasi  un  articolo del  Sri-GER  GrEBi.so  nella  Beilage.  rìer  Milm-hener  Xeueslen  Ximhrifihle.ii,  nel  Martin  Salander,  romanzo  della  vecchiaia,  composto  fra  il  1881  ed  il  18815  con  intento  sociale e  con  quella  fosca  concezione  pessimistica  del  presente,  che  trionfava  in  quel  tempo  nel  romanzo  russo  e  nel  dramma  ibseniano.  Dell'opera  amara,  in  cui  prevale  la  proverbiosità  querula  d'un  laudato»'  temporis  adi,  l'autore  stesso  fu  malcontento  (,').  Prescindendo  dalla  tendenza  che  vi  è  palese,  lontana  troppo  dalla  serenità  dell'arte e  dall'ottimismo  proprio  allo  spirito  del  Keller,  due  difetti  suoi  vi  riescono  quasi  insopportabili, la  prolissità  e  la  ineguaglianza.  L'ineguaglianza che  il  Keller  aveva  nel  carattere  è  anche  nella  sua  arte:  questo  il  motivo  principale per  cui  la  sua  innegabile  inclinazione  all'epica non  potè  svilupparsi  bene  nel  largo  quadro del  romanzo.   La  novella,  invece,  era  il  componimento  che  meglio  gli  si  confaceva.  Paolo  Heyse  lo  proclamò  un  giorno  «  lo  Shakespeare  della  novella*  >,  e  questa  designazione  fu  ripetuta  da  più  di  uno.  Non  esageriamo  e  non  tiriamo  in  ballo  certi  santi,  che  è  meglio  lasciare  nel  loro  paradiso.  Goffredo  Keller  era  troppo  tozzo  per  poter  raggiungere in  alcun  modo  la  statura  gigantesca  di  Guglielmo  Shakespeare.  Tuttavia  giova  riconoscere che  come  novellatore  egli  è  davvero  ragguardevolissimo, uno  dei  più  ragguardevoli  e  significativi  e  rappresentativi,  forse,  che  abbia  avuto  l'Europa  nel  secolo  XIX.  Bald.,  p.  320.    ALCUNCHÉ  DI  GOFFREDO  KELLER    Lo  tre  raccolte  di  novelle  del  Keller  tendono  tutte  a  raggrupparsi  intorno  ad  un  concetto  unico,  che  funge  in  vario  modo  da  cornice.  È  l'antica  consuetudine  delle  raccolte  novellistiche  indiane,  di  cui  i  più  insigni  documenti  occidentali  sono  il  Decameron  ed  i  Canterbury  tales;  ma  come  fu  osservato,  per  l'intento  didattico  della  cornice  il  Keller  s'accosta  all'India  più  che  al  Boccaccio, a'  suoi  seguitatori  italiani  e  allo  Chaucer  (').  Nella  Gente  di  Selcila  (Die  Leale  ron  Seldicyla),  raccolta  di  dieci  novelle,  le  prime  composte  tra  il  1853  e  il  '55,  le  altre  uscite  solo  nel  1870,  Selvila  è  una  città  immaginaria,  collocata  leggiadramente a  solatio  «  irgendwo  in  der  Schweiz  »,  in  qualche  parte  della  Svizzera,  sicché  le  novelle  che  s'inquadrano  nei  pressi  di  quella  cittaduzza,  cinta  di  vecchie- mura  epacificamente  assaporante  la  carezza  del  sole,  che  fa  maturare  le  sue  uve  e  fa  sorridere  le  sue  case,  rappresentano  vari  aspetti  del  carattere  elvetico,  o  meglio  dei  campagnoli e  dei  borghesi  della  Svizzera  tedesca  (*).  Le  Nocelle  zurighesi  (Zùricher  Norellen),  cinque di  numero,  uscite  in  redazione  definitiva  solo  nel  1876,  hanno  bensì  tutte  uno  scopo  storico,  quello  di  presentare  lo  spirito  svizzero  in  varie  età,  dall'evo  medio  al  sec.  XVIII,  il  periodo  fedi Cfr.  W.  Scheheh,  nella  Deutsche  lìuntìm-h^,  voi.  17,  p.  824.  Non  devesi  tuttavia  dimenticare  che  anche  i  novellieri nostri  avevano  V  intenzione  di  ammaestrare.   (•2)  Scrivendo  quelle  novelle  pensava  il  K.  che  ne  venisse    ein  artiger  kleiner  Dekanieron  come  è  detto  in  una  sua  lettera  del  16  aprile  185U.  Vedi  B.,  II,  p.  350.    ALCUNCHÉ  DI  GOFFREDO  KELLER    tó7    lice  del  Bodmer  e  del  Gessner;  ma  almeno  le  tre  prime  s'incorniciano  nell'ammonimento  che  un  saggio  padrino  vuol  impartire  al  giovinetto  Giacomo,  il  quale  ha  il  ticchio  di  voler  riuscire  ad  ogni  costo  originale.  È,  in  altri  termini,  una  lezione  esemplificata  di  ciò  che  vale  e  vuol  dire  la  vera,  la  buona  originalità.  Anche  Vepigrauiìna  (I)a$  Sinngedicht),  se  non  una  vera  e  propria  cornice,  ha  un  leitmotiv,  il  matrimonio  ed  i  diversi e  gravi  problemi  matrimoniali,  che  trattennero sempre  il  Keller,  pur  tanto  ammiratore  del  bel  sesso  ed  amico  di  più  d'una  donna,  dal  decidersi ad  ammogliarsi.   Se  mi  si  chiedesse  quale  di  queste  raccolte  di  novelle  io  stirai  la  migliore,  sarei  alquanto  imbarazzato nella  scelta,  giacché  in  tutte  soavi  racconti notevolissimi  e  di  sommo  significato.  Tuttavia a  noi  italiani  le  Nocelle  zurighesi,  sature  d'una  storicità  che  è  lontana  dalla  nostra,  riescono alquanto  pesanti,  e  lo  stesso  Landvogt  con  Gveinfensee,  che  presenta  tipi  di  donne  e  tii  amori  con  un  umorismo  sempre  fresco  e  vivo,  è  tale  da  apparirci  in  qualche  parte  alquanto  puerile  e  grossolanuccio.  Il  Sinngedicht  è  troppo  teoretico, mentre  vere  gemme  rifulgono  nella  Gente  di  Selcila.   Non  già  che  anche  nella  raccolta  selvilana  non  s'intravveda  spesse  volte  il  desiderio  di  dimostrare e  di  ammonire;  nel  Panhras  è  l'idealista rinsavito  nella  lotta  rude  per  l'esistenza;  in  Fvau  Hegel  Amrain  è  una  vera  tesi  pedagogica  in  azione,  una  madre  retta  e  saggia,  che  riesce    458    ALCUNCHÉ  DI  GOFFREDO  KELLER    il  condurre  al  bene  un  figliuolo  fantastico  ed  un  marito  stravagante;  in  Das  verlorene  Lachen  s'impone  la  questione  religiosa  fra  coniugi  ed  è  propugnata  la  religiosità  indipendente  da  qualsiasi setta.  Ma  per  me  non  sono  le  tesi  morali  che  maggiormente  m'appassionino;  anzi  di  esse  farei  volentieri  a  meno.  La  tesi  è  sempre  un  pericolo per  l'artista.  Ma  in  queste  novelle  il  Keller seppe  svincolarsi  da  ogni  preconcetto  estraneo all'arte;  e  nel  plasmare  caratteri,  e  nel  descrivere paesaggi  ed  ambienti,  e  nel  far  muovere  le  anime  e  le  persone,  riuscì  quasi  sempre  magistrale, spesso  persino  ammirevole.  Ed  ammirevole è  pure  la  varietà  somma  di  queste  novelle,  dal  gustoso  apologo  del  Gatto  Spiegel,  graziosissimo  scherzo  dei  tempi  in  cui  le  bestie  parlavano, ove  lo  Spiegel  è  un  onesto  campione  di  quella  categoria  di  gatti  filosofi  a  cui  appartiene  il  Murr  dello  Hoffmanu  e  lo  Hiddigeigei  dello  Scheffel;  a  quella  Storia  di  tre  giusti  (Die  (Irei  gerechten  Kammacher),  che  piaceva  tanto  a  colui che  scrisse  i  Maestri  cantori,  perchè  è  una  impareggiabile  pittura,  grigio  su  grigio,  di  caratteri borghesi  senza  slancio  e  senza  poesia;  a  quella  poetica  e  passionale  storia  di  Giulietta  e  Romeo  villerecci  (Romeo  und  lìdia  aufriem  Dorfe),  che  fra  le  novelle  del  Keller  è  forse  la  più  meritamente  celebre.  Questa  storia  di  amore  e  morte  fu  paragonata,  non  bene,  ad  altri  rammodernamenti  di  temi  shakespeariani,  come  ad  esempio,  V  André  Cornelis  di  Paolo  Bourget  (').    (lj  Bai.d,  p.  1G8  n.    i        Non  bene,  mi  sembra  perchè  lo'  Shakespeare  c'entra  ben  poco,  nel  titolo  e  nello  spunto  iniziale dei  due  giovani,  innamorati,  tìgli  di  genitori nemici.  Il  fatto  è  ispirato  ad  un  lugubre  stellone  di  cronaca  giornalistica:  un  giovine  di  19  anni  ed  una  fanciulla  di  17,  figli  di  povera  gente,  repugnante  alla  loro  unione,  che,  il  12  agosto  1847,  dopo  essersi  divertiti  in  un  albergo  e  dopo  aver  danzato  buona  parte  della  notte  si  suicidarono  insieme  (').  A  questo  fatterello  cupo  c  purtroppo  non  del  tutto  straordinario  nel  nevrotismo  dei  giorni  nostri,  il  Keller  seppe  dare  elasticità  e  grandiosità  epiche.  T  due  contadini  Manz  e  Marti,  che  arano  i  loro  campi  vicini,  e  poi  per  una  di  quelle  lotte  di  proprietà  che  i  coltivatori  della  terra  sogliono  proseguire  con  tanta  cocciutaggine,  diventano  nemici,  consumano  in  querele  giudiziarie  tutto  il  loro,  s'immiseriscono e  s'incanagliano;  sono  figure  che  potrebbero palpitare  nella  rude  Terre  dello  Zola.  Di  contro  a  tanto  realismo,  con  un  contrasto  strano,  spiccano  le  due  creature,  ingenue  fino  all'idillio,  di  Sali  (0  Salomone),  figlio  di  Manz,  e  di  V  re  lichen o  Vreeli,  figliuola  di  Marti,  che  cresciute  por  alcunJ*nnni  insieme,  si  rivedono  nell'età  critica, e  si  amano  con  uno  di  quelli  slanci  fulminei verso  l'amore,  che  è  sete  di  felicità  in  chi  si  trova,  sul  fiore  degli  anni,  immerso  nella  miseria materiale  e  morale.  A  quella  felicità  hanno  contro  tutto,  uomini  e  cose;  ma  essi  vogliono  B.,  II,  pure  saggiarne  e  poi  morire;  passano  una  giornata da  signori,  ballano  a  perdifiato,  e  poi  s'adagiano su  d'una  barca  carica  di  fieno,  che  mentre lenta  va  alla  deriva  pel  fiume  è  il  loro  talamo, e  da  cui  scivolano  abbracciati,  in  sul  primo  imbiancarsi  del  cielo,  nell'acqua  gelida.  Non  molte  volte  la  prosa  tedesca  è  riuscita  ad  assumere,  come  in  questa  splendida  novella,  la  grandiosità  calma  e  solenne  dell'epopea.   Ma  v'è  un'altra  operetta  del  Keller  a  cui  io  do  una  grande  importanza,  e  che  mi  sembra  in  tutto  degna  dell'autore  della  raccolta  selvilana:  Sieben  Legenden.  Queste  leggende  erano  già  scritto  nel  1 862  ;  ma  solo  dieci  anni  dopo  videro  la  luce  ('  ).  Da  telluì-ista  impenitente,  il  Keller  vi  ha  rinarrate, dando  loro  significato  e  sapore  terreno,  certe  leggende  pie  da  lui  lette  nella  raccolta  di  Ludovico Teobulo  Kosegarten  (*>.  Non  sono  veramente novelle;  ma  alle  novelle  s'accostano;  tresche, semplici,  adorabilmente  scritte.  Lo  stile  del  Keller  non  raggiunse  altrove  trasparenza  siffatta.  In  alcune,  come  nelle  tre  leggende  mariane  e  nel  San  Vitale,  il  sarcasmo  del  protestante  e  la  canzonatura del  razionalista  stridono  talora  un  po'  troppo  sul  fondo  armonioso;  ma  altre,  rome  k'ngenia  e  specialmente  La  danzatrice  (Das  Tanslegendchen),  sono  mirabilmente  svolte,  con  una  poesia  candida  ed  olezzante,  non  turbata,  ma  resa  piccante,  da  qualche  inciso  lievemente  ironico. La  interpretazione  terrena  di  poetiche  tradizioni  cristiane,  se  anche  nasconda  il  sorriso  di  uno  scettico,  non  è  qui  profanazione,  perchè  l'arte  vera  e  delicata  non  è  profanatrice  mai.   Fuori  dei  paesi  di  lingua  tedesca  il  Keller  è  pochissimo  noto.  Parecchie  sue  novelle  furono  tradotte,  alla  spicciolata,  in  francese  (.');  nella  lingua nostra  si  hanno  traduzioni  d'un  apologo,  di  due  novelle  del  Sekhcyla  e  di  due  canzoni.  Con  poca  lode  registra  queste  traduzioni  il  prof.  Carlo  Fasola,  che  non  senza  certa  amorosa  diligenza  scrisse  del  Keller  in  un  articolo  della  sua  Rivista mensile  di  letteratura  tedesca  (*).  Ma  egli  trascura  l'infelice  versione  e  riduzione  italiana  del  Grime  Heinrich,  ch'è  l'unico  libro  per  mezzo  del  quale  chi  non  legga  il  tedesco  può  formarsi  tra  noi  una  pallida  ed  incompiuta  idea  del  novellatore svizzero  (3).  Il  Fasola  nel  1907  asseriva che  da  noi  «  questo  scrittore  veramente  grande  pare  ancora  un  Cameade  »  ;  nel  1876  lui  vivo,  la  signora  Emilia  Ferretti  nata  Viola,    (1;  Vedine  l'elenco  in  Bald.,  p.  505.   l'2l  Voi.  I  11902),  pp.  292  sgg.  Con  piccole  varianti,  è  il  medesimo articolo  ch'era  comparso  neWEmporium.  voi.  II  (1895),  pp,  163  sgg.  In  quest'ultimo  luogo  v'è  in  più  l'illustrazione  grafica,  pregevole,  alla  quale  già  rimandai. La  traduzione  poco  decente  usci  anonima  nella  Bibìioteca  della  Rivista  Minerva  col  titolo  Enrico  il  Verde,  romanzo  biografico,  Roma,  Società  edit.  Laziale     lo  diceva  «  nome  quasi  ignoto  all'Italia  »,  e  con  la  buona  intenzione  di  farlo  conoscere  scriveva  su  di  lui  alcune  pagine  assai  superficiali  ed  in  parte  false,  riassumendo  la  novella  di  Giulietta  e  Romeo   Sta  il  fatto,  peraltro,  che  il  nostro  novelliere  non  è  tra  quelli  scrittori  che  possano  godere  di  molta  fortuna  all'estero.  Le  qualità  sue  medesime  di  elvetismo  e  di  umorismo  lo  rendono  estremamente  difficile  per  chi  non  abbia  famigliarità  col  suo  paese  e  con  la  sua  lingua.  Intenderlo  e  gustarlo  nelle  traduzioni  non  si  potrà,  se  anche  le  traduzioni saranno  buòne,  ciò  che  avviene  rosi  di  rado  in  Italia,  quando  si  tratta  di  prosatori  tedeschi.   Conosceva  il  Keller  l'italiano,  come  provano  le  letture  ch'egli  faceva  nel  XWiSò  per  un  dramma,  disegnato  e  non  mai  eseguito,  sul  Savonarola  (').  Ma  di  influssi  della  letteratura  nostra  su  di  lui  non  v'ha  traccia,  anzi  appare  da  qualche  lettera  ch'egli  non  aveva  per  gli  italiani  soverchia  simpatia (*).  A  Ludmilla  Assing,  che  viveva  a  Firenze ed  era  amica  del  Mazzini  e  di  parecchi  altri «  italiauissimi  »,  parla  talora  di  cose  italiane  ('i;  ma  senza  il  minimo  interessamento  :  anzi,  quando  quella  povera  Assing  è  travagliata  da  sventure  Vedi  l'articolo  firmato  Emma  nella  Xuoea  Antologia,  Serie II,  Voi.  31  (aprile  1876>,  pp.  711  sgg.  11  Jv.  s'indignò  per  quell'articolo,  come  appare  da  una  sua  lettera  ad  Adolfo  Exner.  Cfr.  B.,  Ili,  p.  230. B.,  II,  p.  26. Vedi  B.,  Ili,  p.  207  e  anche  II,  p.  355.      coniugali,  ne  scrive  ad  altri  con  grossolano  disprezzo, uè  per  la  sua  morte,  avvenuta  nel  1880  in  Firenze,  dopo  accessi  di  pazzia,  trova  parola  alcuna  di  rimpianto  (').  Ebbe  bensì  l'idea  di  venire in  Italia:  ma  non  ne  fece  nulla.  Gli  mancava la  grande  curiosità  del  viaggiare.  Si  recò  solo  in  qualche  parte  della  Germania  e  dell'Austria; non  percorse  neppure  compiutamente  la  sua  Svizzera;  non  fu  mai    nell'Engadina    nell'alto  Bernese,  santuari  del  solenne  alpinismo:  solo  a  sessantanni,  nel  settembre  del  1878,  si  decise  a  salire  sul  Rigi!  (*)   Spirito  chiuso  ed  alquanto  arido,  non  aveva  le  grandi  espansioni  ed  i  grandi  bisogni  comunicativi degli  intelletti  d'arte  superiori.  E  sarà  sempre  straniero  a  coloro  che  furono  stranieri  per  lui.   Nota  aggiunta.    Inserito  ue.1  Faiifnlla  della  domenica  del  •20  giugno  1909.  B..  III.  pp.  151,  15tt,  J5SI.  (-2)  Bald.,  p.  2X1.    Arlecchino.    Verso  la  fine  di  febbraio  del  1899  corse  voce  per  Bergamo  alta,  e  ben  presto  si  diffuse  nelle  vie  anguste  fiancheggiate  da  foschi  palagi  e  tra  i  rari  viandanti  dei  magnifici  viali,  che  si  svolgono sulle  antiche  mure  attestanti  veneta  munificenza, onde  l'occhio  domina  panorama  cosi  variato e  grandioso;  corse  voce  che  nella  civica  biblioteca  scartabellava  libri  da  più  giorni  un  tedesco, con  l'intento  di  mostrare  che  Arlecchino  non  era  bergamasco  d'origine.  Dove  mai  si  ficca  codesta  nasutissima  e  dottissima  teutonica  oltracotanza?  O  che  ne  sarebbe  dunque  di  quel  vecchio Alberto  Ganassa,  rinomatissimo  zanni  di  Bergamo,  che  secondo  incontestabili  documenti,  avrebbe  ideato  il  variopinto  folletto,  poco  dopo  il  lóTO,  rendendolo  famoso  in  Francia  ed  in  Spagna?  (l)  E  che  avverrebbe  d'una  tradizione  costante,  durata  per  secoli,  nella  commedia  del (1)  Il  Baschet,  nel  suo  noto  volume  sui  comici  italiani  in  Francia,    di  Ini  molte  notizie.  Vedi  anche  D'Ascosa,  Origini del  teatro  italiano,  seconda  edizione,  II,  segg.,  e  ora  le  Voticias  biografica!  de  Alberto  Ganana,  comico  famoso  del  siglo  XVI  di  E.  Cotaeei.o  y  Mori,  in  Recista  de  archimi,  bibiotecas  y  museos.  serie  III,  an.  XII,  n.  7-8.        l'arte  e  nel  pubblico,  nelle  scene  goldoniane  e  nell'umile  baracca  del  burattinaio?  Tanta  petulanza non  si  potea  tollerare.  E  nelle  stanze  del  bel  broletto  gotico  ov'ba  sede  la  biblioteca,    su  quel  piazzaletto  delizioso  che  è  al  culmine  di  Bergamo  alta,  e  su  cui  guardano  le  venerande  min  a  della  chiesa  di  S.  Maria  Maggiore,  ed  occhieggia il  rinascimento  con  la  elegante  cappella  Colleoni,  sfilarono  popolani  bene  informati,  che  misero  in  opera  tutta  la  loro  pittoresca  eloquenza  dialettale,  per  distogliere  lo  studioso  tedesco  dall'idea pazza  di  dare  ad  Arlecchino  una  patria  che  Bergamo  non  fosse.  Fra  le  parecchie  curiosità che  gli  fecero  vedere  una  ve  ne  fu  specialmente gustosa:  lo  condussero  nella  bottega  d'un  droghiere,  ove  gli  additarono  dietro  il  banco,  tutto  occupato  a  servire  i  suoi  avventori,  l'Arlecchino carnevalesco  della  Bergamo  d'oggi,  Giuseppe Tironi.  Interrogato,  egli  espose  con  grande  semplicità,  senza  interrompere  le  sue  faccende,  la  propria  storia  arlecchinesca:  come,  cioè,  dal  1874  egli  abbia  vestito  la  maschera  e  la  incarni,  in  fin  di  carnevale,  non  solo  a  Bergamo,  ma  anche  a  Lecco  enei  carnevalone  a  Milano;  come  quelle  rappresentazioni  gli  costino  grande  fatica  e  richiedano  agilità  straordinaria,  che  non  consegue se  non  chi  abitui  le  membra  dalla  giovinezza a  siffatta  ginnastica;  come  purtroppo  il  pubblico  cittadino  s'interessi  sempre  meno  alle  arlecchinate  (a  quelle  almeno  popolaresche,  di  cui  il  Tironi  è  ingenuo  e  rispettabile  rappresentante!), sicché  si  può  avere  il  malinconico  pre  ARLECCHINO    sentimento  che  tra  qualche  anno  passerà  in  Bergamo il  carnevale  senza  che  Arlecchino  riviva.  Lei  signora  Tironi,  non  senza  qualche  compiacenza, mostrò  allo  straniero  il  costume  del  marito, ed  egli  ebbe  la  degnazione  di  dar  qualche  saggio  dei  suoi  lazzi  prendendo  in  mano  la  spatola, acconciandosi  sulla  testa  il  cappelluceio  moscio  con  la  coda  di  lepre,  e  assestandosi  sul  volto  la  maschera  nera,  orribile  a  vedersi,  scimmiesca, col  naso  l'incagliato,  gli  occhi  tondi  e  infossati, la  barba  ispida  e  scura.  Tale  l'Arlecchino  Tironi.  E  chi  dubiterà,  dopo  averlo  veduto,  che  Bergamo  sia  la  vera  ed  unica  patria  della  maschera gaia,  mobilissima,  spiritosa  talvolta  nella  sua  infinita  sciocchezza?   La  investigazione  scientifica  non  si  tien  paga  a  codeste  prove,  in  cui  entra  per  tre  quarti  il  sentimento,  e  dubita  e  scruta  ormai  da  lunghi  anni.  A  quelle  curiosissime  apparizioni  che  sono  le  maschere della  nostra  commedia  improvvisa,  onde  andarono  famose  in  tanta  parte  d'Europa  le  compagnie comiche  italiaue,  si  volse  ben  presto  l'attenzione degli  eruditi.  Vi  fu  un  tempo  in  cui  prevalse l'idea  che  quelle  maschere  avessero  origini  assai  remote,  e  per  analogie  esterne  furono  richiamate a  certe  figure  dei  mimi  e  delle  atellane,  che  i  Romani  avevano  in  gran  parte  ereditate  dai  primitivi  popoli  italici.  Allora  negli  zanni  si  vollero  vedere  gli  antichi  sanniones,  nel  dottore    A R LECCHI  NO    il  vecchio  dossenno,  nel  pantalone  il  pappus,  nel  capitano  il  rnues gloriosus,  nel  pulcinella  il  inaccus  atellanico,  nell' 'arlecchino  il  centunculus  dei  mimi,  dal  vestito  rappezzato  (').  Ma  ad  una  più  attenta considerazione  non  potè  sfuggire  che  ben  tenui  sono  i  rapporti  tra  le  maschere  tradizionali e  quelle  antichissime  figure  comiche  di  cui  si  sa  tanto  poco;  ed  inoltre  si  obiettò  giustamente che  la  continuità  di  quei  tipi  non  si  può  in  modo  alcuno  provare,  sicché  sombrerebbe  che  d'un  tratto  rispuntassero  nella  seconda  metà  del  sec.  XVI,  mentre  per  secoli  e  secoli  non  se  ne  ha  veruna  memoria.  È  ben  vero  che  delle  farse  e  commedie  popolari  dell'età  di  mezzo  a  noi  son  giunti  scarsissimi  vestigi  e  che  forse,  bene  indagando, certe  caratteristiche  di  personaggi  comici  persistono,  variamente  atteggiate  nello  spirito  medioevale (');  ma  è  altrettanto  vero  che  gli  argomenti sinora  fatti  valere  non  bastano  a  darci  fondata  convinzione  d'una  continuità  di  tipi  durata per  un  periodo  cosi  lungo.  Specie  per  quel  che  riguarda  Pulcinella,  rimasero  senza  confutazione gli  argomenti  che  tra  noi  addusse  lo  Scherillo  in  favore  della  modernità  di  quella  iliaci) In  Italia  fu  rappresentante  principale  di  questa  tendenza il  prof.  Vincenzo  De  Amicis,  di  cui  sono  conosciute  due  pregevoli  dissertazioni  sulla  nostra  antica  commedia,  edite  nel  1871  e  nel  1882,  la  prima  anzi  ristampata  nel  1897  con  qualche  modificazione  ed  aggiunta. Vedasi  specialmente  quel  che  osserva  intorno  alla  continuità del  miles  gloriosus  il  Xovati,  nel  Giornale  xtorir.o  della  letteratura  italiana,  V,  27il  segg.  Cfr.  pure  Gii,  Skniciaglia,  Capitan Spavento,  Firenze,  1899.    ARLECCHINO    schera  (*);  anzi  essi  furono  rincalzati  da  Benedetto Croce  (2),  allorché  il  Dietrich  cereo  di  ravvisare  gli  antenati  di  Pulcinella  nei  freschi  pompeiani   Se  anche,  peraltro,  si  voglia  ammettere,  come   10  inclinerei,  che  certe  innegabili  analogie  tra  le  nostre  maschere  ed  i  tipi  comici  antichi  si  spieghino  con  quella  uniformità  fondamentale  nelle  manifestazioni  dello  spirito  umano,  che  ha  la  sua  più  eloquente  dimostrazione  nella  monotonia essenziale  dei  canti  e  dei  temi  novellistici,  sicché  tipi  e  spedienti  comici  analoghi,  se  non  identici,  si  ripresentano  sulle  piazze  e  sulle  scene  per  un  ricorso  spontaneo  necessario,  non  implicante in  renimi  guisa  imitazione;  resta  pur  sempre curioso  l'investigare  in  qual  guisa  ed  in  qual  luogo  la  comicità  tipica  delle  maschere  siasi  venuta  fissando.  Ora  lo  studioso  tedesco,  a  cui  accennavo  nel  principio  di  quest'artìcolo,   11  dottor  Otto  Driesen,  è  già  da  parecchi  anni  occupato  dall'arduo  problema  della  primitiva  formazione  di  Arlecchino,  e  finalmente  ci  ha  dato  in  proposito  un  libro  pieno  di  molta  ed  in  gran  parte  originale  dottrina  i4),  che  emi  ri) La  ronimeilia  dell'arte  in  Italia,  Torino,  IP&l.   (2j  In  un  articolo  pieno  di  osservazioni  acute  ed  originali,  che  comparve  nel  volume  XXIII  AeW  Archivio  storico  per  te  Provincie  napoletane.   (iJj  Non  credo  che  di  molto  si  possa  modificare  la  convinzione degli  eruditi  per  la  dotta  e  recentissima  opera  di  HkhiiAxs  Kkich.  Der  Mimits,  di  cui  usci  il  primo  volume  a  Berlino  nel  1903.   i4i  Der  T'rsprung  des  Harlekin,  Berlin.  Duncker,  1904.    470    ARLECCHINO    ferma  i  risultamene  a  cai  erano  giunti,  quasi  divinando,  altri  studiosi,  come  il  Littré  nel  suo  celebre  Dictionnaire  ed  il  demopsicologo  russo  Alessandro  Wesselofsky  (').  La  dimostrazione  del  Driesen  tende  a  farci  vedere  che  il  sollazzevole servitore  balordo,  i  cui  lazzi  inducevano  un  tempo  al  riso  anche  bocche  aristocratiche  e  poi  lungamente  formarono  la  delizia  dei  volghi;  colui  che  divenne  famoso  con  Tristano  Martinelli  in  Francia  ed  in  Spagna,  e  poscia,  in  pieno  seicento, ingentilito  da  Giuseppe  Domenico  Biancolelli,  ebbe  l'onore  di  godere  la  intrinsichezza  di  re  Luigi  XIV,  e  nel  secolo  successivo  in    riuniva,  per  mezzo  di  Giov.  Antonio  Sacchi,  gli  elogi  di  due  grandi  rivali,  Carlo  Gozzi  e  Carlo  Goldoni  (*),  per  finire  straviziando,  nel  sec  XIX,  con  Antonio  Papadopoli  (s);  colui  che  ebbe  una  storia  non  lunga,  ma  brillantissima,  ed  accanto  all'astuto  suo  compaesano  Brighella,  contribuì  tanto  alla  fortuna  del  nostro  teatro  a  soggetto,  per  essere  ora  ridotto  al  lumicino,  come  dicono  le  malanconiche  confessioni  del  bergamasco  Tironi,  che  forse  è  l'ultimo  ad  impersonarlo  in    fi)  Di  lui  sono  specialmente  notevolissime  in  proposito  1p  pp.  8144-86'  del  Giornale  storico  della  letteratura  italiana,  volume XI,  1888. Chivoglia  specificate  notizie  di  tutti  questi  attori  legga  la  benemerita  opera  di  Lumi  Rasi,  1  comìrì  italiani.  I,  48(1  sgg..  II,  95  sgg.  e  490  sgg. Circa  il  Papadopoli  arlecchino  vedi  G.  Petkai,  Lo  spirito delle  maschere,  Torino-Roma,  1001,  pp.  10  sggIl  Rasi.  Op.  cit.,  II,  215,  non  accenna  punto  ch'egli  abbia  sostenuto  questa  parte.  carne  ed  ossa,  mentre  continua  a  vivere,  umilissima testa  di  legno,  nelle  povere  baracche  dei  burattini  (!);  non  è  nato  in  Italia,  ma  in  Francia,  ed  è  la  trasformazione  di  un  diavolo.   *  *   Diabolico  invero  è  il  suo  ceffo  quale  lo  conserva il  Tironi,  a  cui  dobbiamo  esser  grati  pel  prezioso  arcaismo  della  sua  maschera,  resa  invece tanto  più  leggiera  e  fin  leggiadra  dagli  Arlecchini  meno  popolari  di  lui.  Il  Driesen  rinvenne nell'archivio  del  teatro  dell'OjBcVrt  in  Parigi due  altre  antiche  maschere  di  Arlecchino,  che  hanno  aspetto  ancor  più  orrendamente  selvaggio e  satanico,  e  le  riproduzioni  fotografiche  ch'egli  ce  ne  offre  sono  davvero  significantissime.   Rimontando  indietro  nei  secoli,  troviamo  narrata dal  cronista  normanno  Orderico  Vitale  una  visione  occorsa  nel  1091  al  prete  Gaucheliu,  il  quale  vide  una  notte  «  gentem  Ulani  fantasticam  quae  vulgodieitur/rt»uV/Z/«  Re-t'lequini  » .  È  questa  una  Aera  processione  di  dannati,  che  passano  tumultuariamente  correndo,  in  vario  modo  tormentati a  seconda  delle  loro  colpe,  trasformazione d'un'antica  saga. germanica  che  imaginava  schiere  d'anime  volanti  per  l'aria,  guidate  da  un    (li  Dal  1880  circa  Arlecchino  è  sbandito  dai  teatri  francesi  di  marionette  ;  ma  intorno  al  18(30  viveva  ancora  ne)  teatro  dei  Vaudevilles.  rappresentato  dall'ultimo  arlecchino  celebre  francese,  il  Laporte.    472    ARLECCHINO    dio.  Presso  le  genti  cristiane,  la  fiera  caccia  diventò strumento  di  dannazione,  ed  il  dio  guidatore si  trasformò  in  demonio.  Anche  in  Italia  vive  questa  tradizione  delle  anime  perverse  trascinate per  l'aria  da  demoni;  specialmente  vive  ili  qualche  vallata  alpina,  ove  i  fantastici  e  talor  lugubri  rumori  che  fa  il  vento  sibilando  tra  le  gole  de'  monti  e  rompendosi  alle  rupi  ed  alle  macchie,  potè  ravvivare  nelle  menti  ingenue  imaginazioni  tetre  e  paurose  (').  Visse  e  vive  nella  Francia,  particolarmente  nordica,  ove  la  masnada  assunse  ben  presto  il  nome  di  rnesnie  Hellequin,  che  sa  di  germanico  o,  come  al  Diez  parve,  di  fiammingo.  Le  vicende  francesi  di  questa  strana  masnada  segue  con  cura  speciale  il  Driesen  (*),  e  mostra  i  vari  sensi  che  assunse, secondo  l'aspetto  da  cui  la  si  considerava.  Chrestien  de  Troyes,  nel  1162,  discorrendo  delle  abilità  di  Filomela  nel  ricamo,  afferma:   Xei's  la  maisnie  Hellftquin  Seiist  eie  en  un  drap  portraire.   Il  che  si  riferisce  all'apparenza  multicolore  della  masnada,  nel  qua!  senso  ancor  oggi  si  chiamano  Un  riflesso  della  caccia  selvaggia  si  può  asservare,  nelle  tradizioni  medievali,  nel  castigo  inflitto  ai  crudeli  in  amore,  di  cui  è  cospicuo  rappresentante  la  novella  boccaccesca di  Nastagio  degli  Onesti.  Cfr.  W.  A.  Neilson,  The  purgatori! of  cruel  beatities,  in  Romania,  XXLX,  pp.  85  sgg.   Ci)  Del  soggetto  s'era  già  occupato  con  vantaggio  (ì.  Eavnai'u  in  un  articolo  inserito  nelle  Elude*  romana  dédù'ti  «  Gonion  Paria,  Paris,  1891.  pp.  51  sgg.    ARLECCHINO    473    avleqnim  i  fuochi  fatui  nella  Champagne.  Circa  il  I23f>  II non  de  Meiy,  nel  TournoiemeiU  Antecrisi,  si  rammenta  della  mesnie  Hellequin,  allorché vede  sopravvenire  monna  Civetteria,  accompagnata dal  suono  dei  campanelli,  segno  che  alla  masnada  non  era  poi  sempre  e  solo  attribuito  un  aspetto  spaventevole.  Non  tarderà  molto  a  comparire  il  primo  diavolo  buffonesco.   Eccolo  infatti  nel  bizzarrismo  Jeu  de  la  feuilìée  di  Adam  de  la  Halle,  rappresentato  ad  Arras verso  il  1262,  curioso  ed  arditissimo  dramma,  unico  nella  letteratura  medievale,  che  a  ragione  fu  paragonato  alle  produzioni  aristofanesche  da  un  grande  conoscitore  della  materia  (').  Quivi  non  solo  la  masnada  si  distingue  pel  suono  de'  suoi  campanelli,  quando  precede  la  venuta  delle  fate,  ma  balza  in  scena  un  hevlequin    già  avvenuta la  dissimilazione  fonetica  da  heNequin),  che  ha  il  nome  di .croquesots  (maciullapazzi),  e  porta  alla  fata  Morgana  il  messaggio  del  suo  signore, il  re  degli  herlequitis,  che  ne  è  invaghito.  Croquesots  non  è  fatto    di  nebbia    di  fuoco;  esso  è  umano,  è  giullaresco,  è  mordace.  E  tali  perdurano  gli  herìequins  ed  il  re  degli  herleqm'ns,  malgrado  il  loro  terribile  aspetto,  nel  teatro  religioso dell'età  media  (*);  tale  ci  si  presenta  il G.  Pahis,  La  liUérat.  franraist  au  moi/en  age,  Paris,  1890,  p.  391. Nella  scena  dei  misteri  francesi  l'imboccatura  dell'inferno era  chiusa  da  un  telone,  su  cui  era  dipinta  la  3,  libro  cbe,  malgrado  deficienze  ed  errori,  era  buona  promessa,  felicemente ottenuta,  di  cose  migliori. ivi  accorrevano  a  frotte,  tratti  all'esca  dei  tacili guadagni.  In  quella  sua  gustosa  ed  inesauribile Piazza  universale  di  tutte  le  professioni  del  mondo,  il  Garzoni,  contemporaneo,  ci  descrive  codesti  montanari  seesi  dalle  vallate  particolarmente bergamasche  nella  dominante,  grossi  al  di  fuori,  ma  talora  sottili  al  di  dentro,  tenaci,  anzi  cocciuti,  non  di  rado  maneschi,  volentieri  burlati  dal  popolino  che  in  quei  laboriosi  e  robusti giovinotti  vedeva,  con  mal  celata  invidia,  concorrenti  molesti  e  si  rifaceva  berteggiandoli  per  la  loro  grossolanità,  palese  anche  nella  parlata  dialettale  rude  ed  esotica.  Quella  pailata,  aggiunge  il  Garzoni  medesimo,  «  i  zani  se  e  l'hanno  usurpata  in  comedia  per  dar  trastullo  e  «  diletto  a  tutta  la  brigata,  essendo  ella  di  l'azza  «  di  merlotti  nella  pronunzia  e  in  tutto  il  rima«  «ente  ».  Xe  derivò  quella  lingua  rustica  bergamasca e  facchinesca,  che  gli  zanni  parlarono  nella  commedia  popolare  improvvisa  e  quindi  anche  nella  scritta  f1).    ciò  solamente.  In  quell'antica  cariatide  della  piazzetta  delle  erbe  oltre  Rialto,  che  comunemente  si  chiamò  il  gobbo  di  Rialto,  ed  alla  quale  i  Veneziani,  per  avere  essi  pure  un  Pasquino,  affiggevano  satire  e  caricature, si  volle  non  a  torto  vedere  il  tipo  pieSu  questo  e  su  altri  particolari  della  formazione  e  dello  sviluppo  degli  zanni  vedasi  un  libretto  coscienzioso  di  un  mio  caro  discepolo,  il  dottor  D.  Merlisi,  Saggio  di  ricerche  sulla  satira  contro  il  villano,  Torino,  1894,  pp.  118  sgg.,  di  cui  il  Driesen  avrebbe  potuto  giovarsi.        trincato  del  facchino  bergamasco,  in  altri  termini la  figura  dello  sanni  (*}.   Lo  zanni  astuto  e  lo  sanni  balordo,  tipi  comici germogliati  dalla  satira  contro  i  villani  e  divenuti bergamaschi  a  Venezia,  ottennero  nella  commedia  improvvisa  una  fortuna  stragrande,  e  si  moltiplicarono  in  quella  innumerevole  serie  di  figure  A-ariamente  grottesche,  che  ci  è  rappresentata dal  Callot.  Che  uno  di  questi  zanni,  singolarmente elastico  e  perciò  atto  alle  più  meravigliose giravolte  e  capriole,  sia  stato  colpito  dal  gran  fracasso  e  dagli  eccentrici  ghiribizzi  ginnici,  non  che  dalla  grottesca  figura  degli  herlequins  francesi  ed  abbia  votuto  imitarli  sulla  scena,  non  deve  far  meraviglia:  e  ancor  meno  deve  far  meraviglia  che  quella  novità  piacesse  agli  spettatori e  li  facesse  smascellare  dalle  risa.  Gli  spettatori francesi,  che  conoscevano  quel  vestito,  quella  maschera  diabolica  e  quei  salti  ancor  più  diabolici,  avranno  detto  :  «  ecco  harlequin  ;  andiamo a  vedere  harlequin  »  ;  ed  il  nome,  strano  e  ghiribizzoso  ad  orecchio  italiano,  avrà  garbato  anche  allo  zanni  inventore,  che  d'allora  in  poi,  a  consacrazione  della  sua  trovata,  e  senza  sospettare che  il  diavolo  ci  avesse  messo  ancor  più  della  coda,  si  sarà  battezzato  da    medesimo  harlequin,  italianamente  Arlecchino.  Chi  sarà  stato  quello  zanni1?  Alberto  tìanassa  od  altri?  Qui  sta  il  mistero,  che  forse  non  si  chiarirà  mai.  Cfr.  A.  ÌIoschetti,    gobbo  di  Rialto  e  le  sue  relazioni  con  Pasquino,  nella  terza  annata  del  Nuovo  Archivio  Veneto.    Reniek  Svaghi  Critici    3J    A «LECCHINO    Resta  però  il  fatto,  a  parer  mio,  che  se  anche  Arlecchino,  coinè  tale,  ha  origine  francese,  molti  de'  suoi  caratteri  distintivi  sono  italiani,  anzi  bergamaschi, e  come  tali  si  svolgono  parallelamente  a  quello  dello  zanni  astuto,  del  servo  procacciante, più  direttamente  collegato  alle  ligure  servili dell'antichità,  Brighella.  In  Francia  Arlecchino prese  il  ceffo,  il  vestito,  il  nome  e  certe  abitudini  sbrigliate  di  saltimbanco,  ma  fondamentalmente egli  era  e  restò  sempre  uno  sanni-,  anzi  se  quello  zanni  primitivo  non  fosse  stato,  c'è  da  scommettere  che  la  fortunata  figura  comica  non  avrebbe  mai  calcato  le  scene,  e  sarebbe  sopravvissuta solo  nelle  leggende  popolari,  nel  gergo  teatrale,  nel  tenace  echeggiare  di  qualche  proverbio francese,  nelle  consuetudini,  dalla  civiltà  illanguidite  e  fatte  sempre  più  rare,  di  qualche  charivari  pazzaiuolo.  Il  vanto  d'aver  tolto  quella  figura  dal  trivio  spetta  all'arte  comica  italiana,  la  quale  assimilandosene  vari  requisiti  esotici,  ebbe  pur  sempre  il  merito  di  nou  snaturare  il  tipo  paesano,  anzi  di  ribadirlo.  Sicché  lo  zanniarlecchino,  se  senza  saperlo  fu  tinto  dalla  pece  del  diavolo,  visse  sempre  onestamente  uomo  ed  onestamente  gonzo,  com'era  stato  in  origine,  prima  di  assumere  veste  e  maschera  arlecchinesche; e  se  diavolo  lo  si  potè  chiamare  perle  sue  mosse  svelte,  per  le  sue  snodature  d'acrobata, per  la  insensibilità  alle  percosse,  per  l'inconscia e  beffarda  impertinenza,  pel  ceffo  orrendo  prima  della  riforma  del  Biancolelli,  tutti  debbono  convenire  che  in  fondo  era  un  buon  diavolo,  degno di  godere,  anziché  il  ghigno  procace  delle  streghe  e  delle  male  femmine,  il  sorriso  malizioso  delle  sveglie  Coralline.   Nota  aggiunta.    Xel  Fanfulla  della  domenica,  '20  marzo  1£K)J.  La  mia  argomentazione  sulla.italianità  della  maschera,  da  me  ribadita  nel  Giornale  storico,  XL1V,  25tì,  fu  appoggiata  da  B.  Cuoce  in  La  crìtica,  II,  388.  Dopo  di  che  spiace  il  vedere che  Ebmksto  Caffi,  in  un  articolo  su  La  questione  d'Arlecchino, che  si  legge  nella  Rassegna  nazionale  del  lfi  sett.  1908.  nulla  sappia  di  ciò,  e  ripeta  l'ipotesi  del  Driesen  rispetto  all'origine prettamente  francese  di  Arlecchino.  Per  quel  che  concerne  Pulcinella  vedasi  una  curiosa  comunicazione  di  V.  F^iselli  nel  Giornale  storico,  LIV  (1009;,  59  sgg.    La  leggenda  dell'  Ebreo  errante  nelle  sue  propaggini  letterarie.   I   Buttadeo.   V'ha  nel  lungo  e  travaglioso  cammino  che  il  genere  umano  percorre  una  serie  di  figure,  mitiche o  leggendarie,  che  sembrano  destinate  ad  una  singolare  specie  d'immortalità  spirituale,  perchè  ogni  età  vi  ritrova  una  parte  di    medesima, si  che  le  ravviva  nella  sua  fantasia  e  le  chiama  a  rappresentare,  travestendole  variamente, tendenze,  bisogni,  dolori,  che  in  fondo  costituiscono  quanto  nella  natura  umana  v'è  di  immutabile  o  di  ineluttabile.  Di  codeste  figure  la  più  eccelsa  è  certamente  Prometeo,  il  mitico  Prometeo  da  tanti  secoli  rinnovantesi  nella  rappresentazione dello  «  spirito  umano  che  faticosamente si  emancipa  dalle  esterne  e  dalle  interne  servitù  »  (').  Si  dispongono  presso  a  lui  figure  mitologiche,  bibliche  e  leggendarie  diverse,  tra  Son  parole  di  Auturo  Graf,  che  scrisse  già  un  buon  libretto  su  Prometeo  nella  poeitia,  Torino-Roma,  1880.    48  (4).  Ma  la  più  eloquente  storia  italiana  di  Buttadeo  è  nello  squisito  documento  che  Alessandro  Gherardi  rinvenne  tra  le  carte  strozziate  dell'Archivio  di  Stato  fiorentino  ed  il    11)  D'Ascosa,  in  Romania,  X,  213-15. Paris,  Légendes,  pp.  191-92. Masskra,  1  sonetti  di  Cecco  Angiolieri,  Bologna,  1906,  p.  51.  Cfr.  p.  139.   (4)  Lega,  Il  Canzoniere  Vaticano  Barlierino  lai.  3953,  p.  234.  Cft.  p.  XXXVII.  Joan  Butladio  è  pure  chiamato  l'ebreo  errante  in  un  sonetto  burlesco  pubblicato  anonimo  per  nozze  nel  1894.  Vedi  Giorn.  stor.,  XXIV,  481.  Ora  si  sa  che  quel  sonetto è  del  Vannozzo.  Cfr.  Ezio  Levi,  Francesco  di  Yannozzo  e  la  lirica  nelle  corti  lombarde,  Firenze,  1908,  p.  359.        Morpurgo  egregiamente  pubblicò  ed  illustrò.  Quel  riferimento,  dovuto  ad  un  Antonio  di  Francesco  d'Andrea,  riguarda  le  strabilianti  operazioni  di  Giovanni  Buttadeo,  in  parecchie  sue  comparse  in  Toscana  nel  secolo  XV  e  prima.  Quel  Giovanni sa  il  futuro,  conosce  i  segreti  della  gente,  fa  prodigi,  è  pratico  in  tutte  le  lingue  ed  in  tutte  le  scienze,  si  rende  invisibile  quando  gli  talenta  e  chi  più  ne  ha  più  ne  metta.  A  decine  cita  l'autore i  testimoni  delle  sue  abilità,    sono  esseri  inventati  o  del  tutto  oscuri:  il  medesimo  illustratore ne  appurò  quasi  sempre  lo  stato  civile;  e  fra  gli  ammiratori  di  quel  fenomeno  d'uomo  v'è  anche  il  dotto  e  celebre  Lionardo  Bruni  d'Arezzo.  Interrogato  da  Antonio  se  egli  si  chiamasse Giovanili  ButatMo,  rispose:  «Vuoisi  dire  «  Giovanni  Batté-Iddio,  cioè  Giovanni  percosse«  Iddio.  Quando  saliva  el  monte  dove  fu  messo  «  in  croce,  e  Ila  Madre  chon  altre  donne  chon  «  gran  pietà  e  lamenti  e  pianti  andaveno  drieto,  «  allora  si  volse  per  volerle  dire,  e  fermò  al«  quanto  e  piedi,  onde  questo  Giovanni  el  per«  chosse  di  dreto  nelle  reni,  e  disse:  Va  su  tosto;  «e  Gesù  si  volse  a  Ilui:  E  tu  andrai  tanto  to«  sto  che  tu  m'aspetterai!».  Parrebbe  che  non  si  dovesse  ormai  esitare  nella  spiegazione  del  nome:  l'ha  data  l'ebreo  stesso!  Ma  i  dubbi  invece sorgono  per  l'appunto  maggiori  a  motivo  della  narrazione  fiorentina,  ove  di  solito  Giovanni è  chiamato  Votaddio,  Botaddio,  e  in  un  luogo  «Votaddio,  altrimenti  Giovanni  servo  di  Dio  » .  Ciò  ha  fatto  pensare  che  l'antica  interprelazione,  a  cui  già  vedemmo  consentire  e  il  Bonatti  ed  il  Tizio  («impulerat  Deum»),  ed  a  cui  s'uniforma  il  villico  siciliano  (  «  pirchi  arributtau  a  Gesù  Cristu»),  non  sia  che  una  falsa  etimologia  popolare,  e  che  invece  abbia  ragione  la  egregia  fra  le  cultrici  odierne  di  studi  romanzi,  Carolina  Michaelis  de  Vasconcellos,  la  quale  notando che  il  nome  consueto  dato  all'errante  in  Ispagna  è  Juan  espera  en  Dios  (una  volta  anche  Juan  devoto  a  Dios)  e  in  Portogallo  Joào  espera  em  Deus,  pensò  per  prima  che  il  nome  significasse devoto  a  Dio,  votato  a  Dio  (').  Congetturache  diede  assai  da  pensare  al  Paris,  il  quale  la  discusse  (*),  arrecandovi  una  nuova  attestazione  preziosa,  quella  d'un  Liber  terre  sancte  Jericsalem  del  sec.  XIV,  ove  colui  che  «  impulit  Chrij  c  stum  Dominum....  corrupto  nomine  dicitur  Jo *  hannos  Buttadeus,  sano  vocubulo  appellami'   *  Joannes  devotus  Deo  ».  Preziossima  indicazione  senza  dubbio,  che  ci  richiama  novamente  alla  Terra  Santa  e  di  bel  nuovo  ci  mostra  bizzarramente commista  nella  memoria  dei  volghi  la  profezia  di  lougevità  premiante  il  discepolo  eletto  e  la  punizione  dell'offensore  brutale,  del  Buttadeo,  che  non  per  nulla  s'ebbe  in    rinnovato  il  nome  appunto  di  Giovanni.   Ma  del  resto  l'attraente,  ma  arduo  e  forse  insolubile, problema  delle  origini  non  deve  distrarci Si- consulti  il  succoso  articoletto  della  Michaelis.  0  judeu  errante  em  Portugal,  nella  Revista  Lusitana,  an.  I  (1887),  pp.  ai  sgg. Leijeiidfs,  pp.  195  sgg.    NELLE   SUE   PROPAGGINI  LETTERARIE    497    dallo  scopo  nostro.  Buttadeo,  Giovanni  Buttadeo,  è  il  pellegrino  che  l'Italia  conosce  già  nel  dugento.  Il  suo  peccato  è  d'aver  crudelmente  negato un  po'  di  riposo  al  figliuolo  di  Dio,  che  sotto  il  carico  immane  della  croce  batteva  ]a  via  dolorosa del  Calvario.  Variano  le  versioni  nelle  modalità:  chi  (ed  è  forse  ricordo  di  Malco  e  Cartafilo)  pretende  che  l'inumano  colpisse  la  sacra  persona  del  Redentore  per  spingerlo  innanzi,  chi  crede  lo  stimolasse  semplicemente  con  la  voce  a  procedere,  chi  ritiene  gli  contendesse  di  appoggiarsi alquanto  alla  sua  casa  o  di  adagiare  un  istante  su  d'una  panca  (mnchiteddu,  dice  un  testo  siciliano)  le  povere  membra  affrante.  La  punizione  profferita  dal  Salvatore  suona  non  dissimile  da  quella  presagita  a  Malco:  solo  Malco  deve,  attendere  in  un  luogo  determinato,  Buttadeo deve  attendere  camminando  sempre,  come  volle  che  l'Uomo-Dio  camminasse.  Vario  è  pure  quel  peregrinare,  da  provincia  a  provincia,  eia  città  a  città,  da  paese  a  paese,  con  sosta  o  senza  sosta  prestabilita.  Anche  qui  è  l'Italia  che  ci    la  prima  determinata  indicazione,  conforme  alle  narrazioni  che  verranno  poi.  Nel  racconto  di  Antonio Francesco  d'Andrea,  Giovanni  Buttadeo  «non  può  stare  più  che  tre  di  per  provincia  »,  cammina  scalzo,  non  ha  tasca,  mangia  e  beve  dove  gli  capita  «  e  mai  non  vedi  donde  e'  si  vengha  e  denari,  e  mai  non  gniene  avanza  » .  SI  preparano  i  famosi  cinque  soldi,    uno  più    uno  meno,  perpetuamente  rinnovantisi,  che  per  i  suoi  bisogni  ha  sempre  a  mano  Asvero. Asvero  è  la  terza  incarnazione  di  Buttadeo,  che  prima  era  stato  Maleo-Oartafilo.  Asvero  è  l'errante  su  cui  si  schiuse,  nelle  sue  cento  forme,  la  fantasia  trasformati- ice  degli  artisti.   Le  paure  del  finimondo,  riprodueentisi  ad  ogni  spirare  di  secolo,  provocarono  la  comparsa  di  un  libretto  tedesco,  che  uscì  per  la  prima  volta,  con  la  falsa  data  di  Leida,  nel  1602.  Ivi  si  narrava che  nel  1542  Paulo  di  Eitzen,  venuto  da  Vittemberga,  ove  studiava,  ad  Amburgo,  vide  colà  in  una  chiesa,  intento  alla  predica,  un  uomo  di  c i nq uà n fauni  circa,  il  cui  sembiante  ed  i  cui  atti  erano  strani.  Alto  della  persona,  i  capelli  spioventi  sugli  omeri,  vestiva  poveramente,  con  un  lungo  mantello,  che  gli  scendeva  sino  a'  piedi,  e  questi  avea  nudi,  malgrado  i  rigori  del  verno,  Ascoltava  compunto  il  sermone,  ed  ogni  volta  che  Cristo  venia  nominato,  si  picchiava  il  petto  e  sospirava.  Interrogato,  rispose  con  semplicità  e  modestia  ch'egli  era  ebreo  di  nascita  e  calzolaio di  mestiere,  e  che  essendo  vissuto  in  Gerusalemme quando  Cristo  vi  sofferse  passione,  era  stato  testimonio  oculare  di  quei  grandi  fatti.  A  nuove  domande  soggiunse  che  reputando  egli  Gesù  un  seduttore  del  popolo  lo  trattò  duramente  allorché  egli  passò,  gravato  dalla  croce,  innanzi  alla  sua  dimora.  Per  riposarsi  alquanto,  s'era  il  Redentore  appoggiato  alla  casa  dell'ebreo,  ma  questi,  pieno  di  maltalento  e  bramoso  di  farsi  un  merito  presso  i  suoi  correligionàri,  gli  imposo  di  camminare  innanzi.  A  tale  intimazione  Gesù  replicò,  guardandolo  fisso  in  viso:  «Io  mi  «fermerò  e  mi  riposerò,  ma  tu  camminerai  fino  «al  giudizio  universale».  Da  allora  in  poi  tu  sempre  in  moto.  Assistè  sul  Golgota  alla  tragica  crocifissione,  ma  non  gli  fu  concesso  di  tornare  in  Gerusalemme,  se  non  per  vederla  distrutta.  Gira  continuamente  sulla  superficie  del  globo,  tranquillo,  severo,  anzi  melanconico,  di  scarse  parole.  Invitato  a  desinare,  si  nutre  sobriamente;  se  gli  si  offre  del  denaro,  lo  accetta  per  distribuirlo ai  poverelli.  Per    non  ha  bisogno  di  nulla,  perchè  Dio  provvede  ai  suoi  bisogni.  In  tutti  i  paesi  ove  arriva,  parla  correntemente  il  linguaggio del  luogo.  Tollera  pazientemente  la  punizione  inflittagli,  perchè  è  pentito  del  suo  peccato  e  spera  il  perdono.    Chi  sia  l'autore  dello  strano  libretto  s'ignora,  perchè  la  prima  edizione  è  anonima. In  una  successiva,  ove  l'incontro  di  Paolo  col  giudeo  è  posto  nel  1547,  se  ne    per  autore  un  Crisostomo  Duduleo  di  Vestfalia,  pseudonimo  di  cui  sinora  non  s'è  potuto  scoprire  il  segreto.  Il  libretto  ebbe  in  Germania  straordinaria  fortuna: nelle  -elaborazioni  successive  la  durezza  dell'ebreo  verso  il  Messia  è  variamente  rappresentata e  giunge  persino  all'efferatezza  di  farlo  percuotere  con  una  formadi  scarpa.  La  punizione è  sempre  la  stessa:  il  nome  è  sempre  Asvero,  e  solo  nella  menzionata  opera  di  Andrea  Liba vio  fa  capolino  il  più  antico  Buttadeo  (').   (li  Rarissime  sono  le  edizioni  antiche,  sicché  solamente  in  tempi  recenti  si  è  venuti  a  chiarezza  rispetto  alla  loro    ÓOO    LA   LEGGUNDA  DELL'EBREO  ERRANTE    È  generalmente  ammesso  che  nel  libretto  originario tedesco,  insignificante  come  opera  letteraria, ma  notevolissimo  come  prima  narrazione  seguita  (se  si  faccia  eccezione  per  la  relazione  fiorentina  rimasta  inedita  e  perciò  inefficace)  delle  condizioni  e  vicende  dell'ebreo,  si  ha  a  vedere  con  tutta  probabilità  la  mano  di  un  prete  protestante. Lo  stesso  nome  di  Asvero,  che  ebbe  tanta  fortuna,  ne  è  indizio.  Asvero  è  il  nome  che  hanno  varii  re  persiani  dell'antico  Testamento; specialmente  noto  è  il  personaggio  che  cosi  si  chiama  nel  Libro  cVEsler  (').  Nei  paesi  protestanti  l'apparizione  dell'ebreo,  ripetutasi  più  volte  nel  secolo  XVII,  divenne  oggetto  di  dispute  teologiche,  mentre  nei  paesi  cattolici  se  ne  impossessò in  mille  guise  la  fantasia.  Non  è  ragionevole il  credere  che  il  misterioso  personaggio  veduto  nel  secolo  XVI  e  nel  XVII  a  Madrid,  a  Danziea,  a  Vienna,  a  Lubecca,  a  Mosca,  a  Cracovia, a  Bruxelles,  a  Lipsia,  in  Inghilterra;  che  ancora  nel  secolo  XIX  meravigliò  di    i  tranquilli abitatori  della  Sassonia  e  di  altre  terre  tedesche;  che  a  Berna  lasciò  il  bastone  e  le  scarpe,  le  scarpe  massicce  e  rattoppate  del  grande  cam bil)]iografia.  Aucora  il  Paris,  nel  suo  primo  articolo,  aveva  in  proposito  molte  incertezze  (cfr.  Lcgendes,  pp.  162  sgrg).  Fu  il  Neubaur,  negli  scritti  da  me  indicati,  che  ne  diede  la  notizia più  sicura  ed  esatta.  Ad  esso  rimando  siccome  a  fonte  eccellente. Aliasceros  è  denominato  nella  Bibbia  di  Lutero.  Vedi  Eira,  IV,  li;  Daniele,  IX,  1;  Ester,  I,  1  e  passim.  Di    la  forma  del  nome,  che  nella  vulgata  suona  Assiierii*. minatore  (');  che  nel  1868  si  lasciò  vedere  persino  in  America  (!);  che  in  Italia,  a  memoria  di  uomo  vivo,  incutè  paurosa  venerazione  ai  buoni  contadini del  Veneto,  della  Sicilia,  del  Canavese;  che  tornato  dopo  mille  anni  sul  posto  alpestre  ove  aveva  già  veduto  fiorire  una  città,  vi  trovò  invece  giganteggiare  immane  ii  Cervino,  sicché  dalle  lagrime  che  quella  trasformazione  gli  spremette  dal  ciglio  riarso  si  formò  il  Lago  Nero  (3):  non  è  ragionevole,  ripeto,  il  credere  che  alle  molteplici apparizioni  e  trasformazioni  di  questo  personaggio non  abbiano  contribuito  abili  ciurmadori e  nevropatici  vagabondi.  Difficile  il  precisarlo oggi,  in  tanto  succedersi  di  fenomeni  in  cui  le  forze  della  psiche  si  palesano  oscuramente,  ove  termini  in  siffatti  trucchi  la  malattia  e  dove  cominci  la  frode;  diffìcile  lo  sceverare  la  verità  dalla  menzogna,  giacché  ormai  siamo  tutti  d'accordo nel  riconoscere  che  non  tutto  l'inverosimile è  bugiardo.   Ma  comunque  sia  di  ciò,  i  casi  come  quelli  di  Giovanni  Bottaddio,  di  cui  riferisce  Antonio  di  Francesco  d'Andrea  nel  secolo  XV,  non  posDi  solito  l'ebreo  cammina  scalzo,  come  quando  apparve  nella  chiesa  d'Amburgo,  e  in  questo  caso  narra  la  leggenda  che  pel  lungo  peregrinare  gli  si  sono  incallite  le  piante  dei  piedi  in  modo  da  sembrare  ferrate. Vedi  Nblhaur,  Die  Sage  cit.,  p.  45. La  bellissima  tradizione  è  riferita  da  Mahia  Savi-Loi-kz  nelle  Leggente  delle  Alpi,  Torino  1889,  pp.  165-7.  Un  garbato  libretto  che  si  legge  con  piacere  per  la  vivace  rappresentazione dell'instancabile  israelita  nelle  sue  varie  fasi,  è  quello  di  Cohbado  Rieri,  L'ebreo  errante,  Roma,  Voghera,  sono  essere  invenzione  pura:  riè  mera  invenzione  saranno  stati  la  più  parte  dogli  ebrei  eirauii,  di  cui  narratori  degni  di  fede  seppero  riferire  in  diversi  paesi.  La  tradizione  popolare  si  meseolò  alla  realtà;  cervelli  esaltati  visi  compiacquero  truccandosi  da  Asvero,  abili  impostori  sfruttarono la  credenza  volgare  per  loro  intenti  loschi.  Ma,  sostanzialmente,  su  questa  gran  diffusione  popolare  della  leggenda  influì  in  ispeeie  il  libriccino  tedesco  tradotto,  ridotto,  rifatto,  versificato  in  tutti  modi,  cincischiato  e  trasformato  nelle  varie  parti  di  Europa.   La  prima  diffusione  del  libretto  tedesco  fu  in  Francia  e  nei  Paesi  Bassi.  Il  Discvurs  véri  tabi  e  d'un  juif  erratili,  edito  nel  1009,  ne  è  tradii  zione  letterale;  se  ne  scosta  invece,  sebbene  Paolo  d'Eitzen  vi  sia  nominato,  la  Hislnire  ad  mi  rubi»  da  juif  errami,  uscita  essa  pure  nella  metà  del  secolo  XVII  e  larghissimamente  diffusa.  Accanto  a  questi  due  testi,  si  hanno,  in  Francia,  nel  Belgio ed  in  Olanda,  numerose  varianti  d'indole  popolareggiante,  che  qui  sarebbe  inopportuno  l'enumerare  paratamente  f1).  In  Inghilterra  la  figura  dell'errante  viene  usata  a  scopo  satirico  nel  libro  The  iccmdering  jew  telìing  fortune*  to  Englishmeu,  uscito  nel  1640.  In  Danimarca  il  l'acconto  tedesco  fu  tradotto  nel  1621  e  s'ebbe  fortuna;  non  diversamente  accadde  in  Svezia  nel    (1,1  Rimando  per  esse  e  per  tuttociò  che  concerne  la  iortuna  dell'ebreo  nella  letteratura  popolare  d'Europa  alla  pi  fi  volte  menzionata  e  fondamentale  operetta  del  Xeubaur.    N'EIjLE  SDK  PROPAGGINI  LETTERARIE   1643.  Non  molto  si  conosce  circa  la  diffusione  della  storia  nei  paesi  slavi  i/j;  in  quelli  di  razza  latina,  ove  già  prima  serpeggiavano  nel  popolo  le  tradizioni  su  Malco  e  su  Buttadeo,  fu  conosciuto Asvero  per  mediazione  francese.  Si  parlò  anche,  dovunque,  agli  occhi  del  popolo;  e  nelle  rozze  silografie  fu  rappresentato  l'ebreo  dalla  barba  prolissa,  in  abito  di  pellegrino,  camminante  perpetuamente  col  suo  grosso  bastone  e  avente  spesso  alla  cintola  la  piccola  tasca  coi  famosi  cinque  soldi  che  si  rinnovano  (*).  Il  soggetto,  per  altro,  non  inspirò,  nelle  arti  grafiche,  capolavori:  i  disegni  del  fantasioso  artista  francese  Gustavo  Dorè,  comparsi  nel  18ó6,  si  perdono  negli  accessorii  di  sfondo  tratteggiati  con  singolare  bravura,  e  dimenticano  quasi  il  miserello  protagonista;  nel  grande  dipinto  di  quel  simbolista  scenografo  che  fu  il  Kaulbach,  rappresentante  la  distruzione  di  Gerusalemme,  l'ebreo  non  ha  che  una  parte  secondaria,  diremo  cosi,  episodica;  egli  fugge  dall'incendio  struggitore  della  città  maledetta  scacciato  dalle  Furie.   Vedremo  ora  quale  sia  stato  il  destino  della  leggenda  asveriana  nei  regni  multiformi  della  poesia. Un  lavoro  russo  del  \Vesselofsky.  uscito  nel  1880  in  occasione  della  prima  memoria  del  Paris,  non  fui  in  grado  di  leggere.  Xella  Romania,  X,  212  il  Paris  medesimo  prometteva di  dar  conto  di  ciò  che  gli  era  stato  riferito  intorno  alla  fortuna  dell'ebreo  in  Russia,  ma  non  ne  fece  poi  nulla. Nel  citato  libro  del  Ciiami'flel'RY,  Histoire  de  l'imagerie  populaire,  sono  riprodotti  parecchi  di  quei  grossolani  disegni,  tanto  accetti  al  popolino.       li   Asvero.   Col  nome  biblico  di  Asvero,  reso  famigliare  dai  libretti  popolareggianti  del  secolo  XVII,  l'ebreo  errante entrò  nella  letteratura  ed  ottenne  singoiar  fortuna  segnatamente  in  Germania.   Pochi  autori  lo  chiamarono  diversamente:  Alessandro Dumas  padre,  nei  due  volumi  (1853)  del  suo  Isaac  Laquedam,    all'ebreo  questo  nome,  appoggiandosi  alla  aompkiinte  francese,  scritta  nel  Belgio  da  persona  che  aveva  qualche  tintura  di  ebraico  (');  l'opericciuola  satirica  inglese  del  1640  gli  foggia  un  nome  semitico  a  cui  non  è  estranea  la  beffa;  il  barone  tedesco  di  Malti tz  lo  chiama  Gelasio;  il  reverendo  ministro  inglese  Giorgio  Croly  Salatine!;  Adolfo  Wilbrandt  lo  trasforma in  Apelle  nella  filosofica  concezione  del  suo  Mei  ale  r  voti  Pnlmyra,  e  non  occorre  fermarci sullo  strano  poema  di  Roberto  Buchanan,  The  -wandering  jew  (1893),  in  cui  l'ebreo  è  Cristo stesso,  che  fa  la  figura  d'una  specie  di  salvatore fallito.  In  genere,  però,  è  Asvero  che  ci  ricompare d'innanzi,  nei  più  svariati,  e  spesso  bizzarri, camuffamenti.  Dei  quali  non  è  davvero Vedi  Paris,  Légeniies  dn  moi/en-ót/e,  p.  177,  e  Xeubaith,  Die  Sage  coni  ewigen  Jtiden,  pp.  39  e  123.  Nella  leggenda  poetica  italiana  stampata  ad  uso  del  popolo  da  chi  segui  passo  passo  la  complainte,  l'ebreo  è  detto  Ixacco  Liquerleinme.  D'Ancona,  in  Nuova  Antologia,  LUI,  42t>.        nelle  biblioteche  italiane,  cosi  povere  tutte  di  libri d'arte  stranieri,  che  si  possano  aver  notizie  dirette  e  compiute:  ma  per  buona  sorte  abbiamo  studi  recentissimi,  che  ci  aiutano  almeno  a  conoscerli in  via  indiretta.  Alla  ormai  vecchia,  ma  pur  benemerita,  memoria  di  Federico  Helbig  si  sono  venuti  ad  aggiungere  in  questi  ultimi  anni  i  coscienziosi  volumi  di  Giovanni  Prost  (*),  di  Alberto  Soergel  (3),  di  Teodoro  Kappstein  (*),  sui  quali  si  può  senza  imprudenza  appoggiarsi.  Di  essi  feci  tesoro  nei  moltissimi  casi  in  cui  non  mi  fu  dato  d'aver  fra  mano  i  testi.  Allo  scopo  mio  di  rapido  riassunto  delle  principali  tendenze  di  pensiero,  prevalenti  nelle  elaborazioni  asveriane,  anche  la  notizia  indiretta  riusciva  sufficiente. Tenni  d'occhio  in  particola!guisa  la  Germania, ove  la  straordinaria  fioritura  di  composizioni d'arte  e  di  filosofia  su  questo  argomento  è  spiegata  non  solo  dallo  spirito  di  quel  paese,  tratto  di  natura  sua  alla  speculazione  ed  al  simbolismo,  ma  dall'esservi  stato  larghissimamente  diffuso  il  libretto  popolare,  come  vedemmo,  tedesco  d'origine, intonato  alla  tedesca,  fruttificante  nel  suolo  tedesco.  Tanto  il  Goethe,  quanto  il  Mosen  ebbero la  prima  spinta  a  poetare  d'Asvero  da  ciò  che  in  gioventù  udirono  a  riferire  di  lui  nei  luoDie  Sage  vom  eiciyeH  Juden,  ihre  poetische  W'andlung  nnd  Forlhildung,  Berlin,  1874. Die  Sage  vom  cwiyen  Juden  in  der  venerai  deutsrhen  Litteratur,  Leipzig,  1905.   \3)  Ahasverdirhtuntjen  seti  Ooet/ie,  Leipzig,  1(105.  (4;  Ahascer  in  der  Wellpoene.  Berlin   gin  natii  Nella  sola  Germania  il  Prost  conta  69  elaborazioni  artistiche  della  leggenda  dell'ebreo ed  il  novero  è  molto  accresciuto  dal  Soergel,  la  cui  bibliografia,  la  più  ricca  che  sinora  si  abbia  conta  (non  trascurando  i  libretti  popolari) 210  numeri.   *   *  *   Presso  le  persone  illuminate  la  fede  nella  realtà  dell'ebreo  errante,  inconcussa  nell'evo  medio,  andò  illanguidendo  dal  sec.  XV  in  poi,  e  tutti  sanno  che  dalla  miscredenza  al  ridicolo  il  passo  è  breve.   Già  nella  prima  metà  del  Seicento,  quando  era  in  piena  voga  il  racconto  tedesco,  compariva  il  disgraziato  ebreo  in  un  balletto  cortigiano  francese del  16:58  a  cantarvi  certa  sua  incomprensibile filastrocca,  farcita  di  termini  esotici,  in  parte  pseudo-ebraici.  Nel  1669  egli  fa  una  figura  tra  seria  e  faceta  nella  commedia  spagnuola  di  Antonio  de  Huerta,  Las  ciuco  btaneux  de  Juan  de  Esperà  en  Dios.  Nel  sec.  XVIII.  in  cui  maturò il  razionalismo,  tutta  la  gente  colta  stimava  favola  la  credenza  nel  longevo  peregrinante,  sic (1)  Ctr.  Nkpbaib,  pp.  28  e  116. Aggiunte  bibliografiche,  di  non  granile  entità,  fece  Max  KocHj  in  una  sua  recensione  degli  Sludien  zht  ceri/leicfi.  Literoturi/fir/iirìile,  VI  (lfKXi),  p.  389.  Il  lavoro  del  Soergel  è  il  più  ricco  e  meglio  organato  :  quello  del  Prost,  tuttavia,  riesce  più  agevole  e  chiaro  per  la  disposizione  cronologica  della  materia.  Il  Kappstein,  che  non  vuole  «  katalogisiereu  ma  «  anregen  »,  si  trattiene  solamente  sulle  opere  che  a  lui  sembrano  più  significative.    NELLE  SCE  PROPAGGINI  LETTERARIE    507    clìè  si  facea  strada  la  satira,  destinata  ad  infiltrarsi fin  nei  concepimenti  del  Goethe  e  dello  Schubart,  o  dilagava  la  beffa  in  componimenti  burleschi  come  la  mascherata  inglese  del  1797  di  Andrew  Franklin.  Fu  per  altro  solo  il  sec.  XIX  che  atteggiò  la  figura  dell'ebreo  a  seconda  della  multiforme  energia  che  si  addensava  nell'anima  propria,  a  seconda  degli  indirizzi  vari  di  pensiero  che  turbinavano  nella  sua  mente  di  secolo  rinnovatore. In  codeste  svariate  configurazioni  ebbe  parte  preponderante  il  romanticismo.  Sotto  l'impero eli  quella  nuova  tendenza  lugubre  e  sentimentale, la  figura  leggendaria  si  umanizzò:  narrazioni episodiche  o  componimenti  lirici  espressero il  suo  dolore  di  non  poter  morire.  In  seguito  personificò  il  popolo  ebreo  reietto  e  profugo,  quindi  la  personificazione  s'allargò,  e  da  un  popolo solo  venne  a  significare  l'intero  genere  umano,  nel  travaglio  e  nella  lotto  del  suo  continuo divenire.  Lo  spirito  filosofico  se  ne  impadronì, e  per  alcuni  l'ebreo  rappresentò  le  idee  politiche  liberali,  le  idee  religiose  più  larghe  e  tolleranti,  finalmente  la  ribellione  a  tutte  le  confessioni positive;  per  altri,  ortodossi,  fu  un  valletto dell'anticristo,  una  figum  diabolica.  In  conclusione, a  quella  larva  indeterminata  d'uomo  eccezionale,  che  lasciava  libero  il  campo  alla  fantasia,  ognuno  foggiò  quella  individualità  che  più  gli  garbava,  introducendovi  parte  di    e  delle  idee  od  aspirazioni  proprie.  Ritrarre  sotto  brevità  i  principali  aspetti  di  siffatte  incarnazioni  diverse,  è  lo  scopo  della  disamina  che  segue.          «   I  primi  tentativi  d'una  figurazione  letteraria  di  Asvero  si  debbono  al  Goethe  (1 774=  i  ed  allo  Scbubart  (1783).  Nelle  memorie  (Dichtung  und  Wahrheit)  il  Goethe  espose  il  piano  dell'opera,  che  poi  modificò  durante  il  viaggio  in  Italia;  ma  i  frammenti,  che  ci  pervennero  postumi,  del  suo  componimento,  mal  si  accordano  col  primo  disegno e  danno  la  persuasione  che  quel  tema  poco  gli  convenisse  e  si  prestasse  solo  a  qualcuno  di  quei  tentativi  di  poema  drammatico  simbolico  che  dovevano  aprirgli  la  via  al  Faust.  Sul  canevaccio  del  vecchio  israelita  voleva  il  Goethe  ricamare  le  sue  convinzioni  politico-religiose;  per  lui  Asvero era  l'uomo  comune,  senza  idealità,  dato  alla  vita  materiale,  nemico  d'ogni  innovazione;  lo  spettatore  ironico,  come  fu  detto,  delle  miserie umane.  Pensandoci  su,  in  appresso,  gli  pareva scorgervi  l'occhio  aperto  della  storia  universale; ma  il  concetto  non  si  determino  altrimenti. E  neppure  il  pensiero  dello  Schubart,  natura focosa  ed  indisciplinata  quanto  altra  mai,  venne  a  maturanza.  La  rapsodia  rimastaci  di  lui,  umile  frammento  di  maggior  lavoro,  ci  presenta  l'ebreo  nell'umana  disperazione  di  non  poter  morire. Tutto  egli  esperimento  per  procurarsi  la  morte.  Si  fece  calpestare  dagli  elefanti,  sfidò  gli  artigli  della  tigre  e  le  fauci  del  leone,  provò  i  morsi  velenosi  del  serpente,  si  cacciò  nelle  città  incendiate  e  rumanti,  si  gettò  nel  cratere  dell'Etna,  ma  nulla  valse  a  togliergli  il  peso  della  vita.  Dopo  circa  duemila  anni  di  peregrinazioni  angosciose  lo  vediamo  sul  Carmelo,  che  getta  via  da    con  terribile  cinismo  i  crani  ammonticchiati dei  suoi  congiunti  e  discendenti  (').  Senza  questa  particolarità  macabra,  troviamo  qualche  altra  volta  raffigurata  anche  di  poi  in  Asvero  la  gran  miseria  del  non  poter  morire;  ma  più  spesso  da  questo  concetto  dell'individuo  non  mortale si  assurge  alla  personificazione  del  genere  umano  perpetuamente  affaticato  ed  errante,  al  «  vecchierel  bianco,  infermo,  mezzo  vestito  e  scalzo  »,  che   Con  gravissimo  fascio  sulle  spalli-,   Por  montagna  e  por  valle,   Por  sassi  acuti,  ed  alta  rena,  e  fratte,   Al  vento,  alla  tempesta,  e  quando  avvampa   L'ora,  e  quando  poi  gela,   Corre  via,  corre,  anela,   Varca  torrenti  e  stagni,   Cade,  risorge,  e  più  e  più  s'affretta   Senza  posa  o  ristoro,   Lacero,  sanguinoso,  infin  ch'arriva   Colà  dove  la  via   E  dove  il  tanto  affaticar  fu  volto;   Abisso  orrido,  immenso,   Ov'ei,  precipitando,  il  tutto  oblia.   Questa  allegoria  della  vita  umana,  che  all'infuori  da  ogui  rapporto  con  l'ebreo  errante  tro (1)  Il  CiiasipfleCkv,  Hìsltiire  de  Vimagerie  populaire,  p.  42,  riproduce  facsimilata  nna  ÌDcisione  tedesca  moderna,  che  rappresenta  per  l'appunto  Asvero  in  quell'atteggiamento  disperato.  villino  accennata  dal  nostro  Leopardi  (M,  costituisce l'intima  essenza  della  maggior  parte  delle  creazioni  poetiche  as vedane,  sia  che  esse  iniaginino  l'ebreo  pentito  e  volto  al  bene  mediante  la  gran  luce  del  cristianesimo  piovuta  su  di  lui,  sia  che  lo  rappresentino  pertinace  nell'empietà  e  disperato  insidiatore  d'ogni  felicità  dei  mortali.   Così  in  Halle  und  Jertisalem  dell' Amim  1 18091,  l'ebreo  si    ad  ogni  specie  di  opere  buone,  e,  fatto  cristiano,  spira  placidamente  presso  il  santo  sepolcro;  cosi  nella  novella  di  Franz  Ilorn  (,181(1',  che  inspirò  le  due  prime  tragedie  sul  soggetto,  quelle  di  A.  Klingeman  1 1825)  e  di  W.  Iknrrienl  (1831),  l'ebreo  diventa  maestro  della  vera  vita,  che  è  quella  dell'anima,  di  contro  alle  a  trattative della  falsa  vita,  che  è  queliti  del  corpo:  cosi  nella  maggiori1  elaborazione  russa  ilei  soggetto,  il  poema  del  .lonkoffsky  rl852.',  assistiamo  al  travaglio psicologico  di  un  uomo  che  lentamente,  in  mezzo  alle  tempeste  della  vita,  muta  animo  e  si  converte;  cosi  nell'altro  poema,  in  un  certo  senso  parallelo,  di  Edoardo  (Irenici-,  La  inori  du  juif  erranl  (1854),  il  peccatore  si  converte  per  una  visione  e  muore  confortato  da  Cristo;  cosi  nel  grandioso  concepimento  del  danese  Paludati Moller  1 1853),  ove  è  ritratto  Asvero  quale  simbolo  della  umanità  pessimista,  nell'estremo  conflitto  della  fine  del  mondo;  così  nell'ultima  produzione  asveriana  di  alto  stile,  il  dramma  di   il)  Il  felice  avvicinamento  del  Pastore  errante  leopardiano  si  deve  al  D'Ascosa,  nel  cit.  articolo  della  Xuova  Antologia. Giovanna  e  Gustavo  Wolff  i1899i,  ove  Asvero  prosegue  in  certo  modo  il  destino  di  Fausto,  e  in  compagnia  di  una  certa  Asvera,  che  si  chiama  Atta,  di  fronte  all'ideale  cristiano  che  addita  il  cielo,  mostra  il  progressivo  perfezionamento  umano  in  questa  vita  col  mezzo  della  comunione dei  due  sessi.  E  questo  unii  specie  di  inno  alla  vita  terrena,  in  cui  la  lirica  predomina.  Ma  la  lirica,  di  solito,  fa  assumere  ad  Asvero  altra  tendenza;  è  il  Weltschmei'c  che  tutto  lo  compenetra: i  melanconici  figliuoli  del  secolo  scettico e  sconfortato  con  la  maschera  del  perpetuamente errante  davano  sfogo  al  loro  prepotente  desiderio  di  pace.  Il  Song  for  the  wamlei-ing  jew  del  Wordsworth  i  I8OO1  inspirò  probabilmente  la  romanza  di  Guglielmo  Mailer  (1822),  che  è  tutta  affanno  per  il  gran  peso  dell'esistenza.   Lo  sforzo  del  Seidl  (1826)  di  combattere  coi  suoi  due  Asveri  posti  di  fronte  la  malattia  romantica del  secolo  non  valse.  Imitando  in  qualche parte  la  diffusa  poesia  su  Le  juif  errant  del  Béranger  (1831),  l'elegante  Chamisso,  in  parecchie sue  liriche,  rappresentò  in  Asvero  il  proprio amore  non  corrisposto  ed  i  tormenti1  della  propria  nostalgia.  E  tutto  il  suo  tetro  pessimismo  prestò  ad  Asvero  il  Lenau  in  quello  dei  suoi  Heidebilder  (1833)  in  cui  il  vecchio  indistruttibile  abbraccia  il  cadavere  del  giovinetto  pastore  ed  esce  in  un  inno  alla  morte  liberatrice,  che  finisce  con  la  strana  efficacia  di  questi  versi  sublimi:   Las.s  dich  limarmeli,  Tod,  in  dieser  Laiche.   Balsamiseh  rieselt  ihre  frische  Kiihle   Durch  mein  Gebein,  durch  meines  Hirnes  Schwiihle.        Assai  meno  potente  hi  poesia  Der  eiKuge  Jn.de  del  1839,  ma  'nell'ini  Luogo  e  nell'altro  l'ebreo  non  è  che  un  prestanome  di  Niccolò  Lenau.   *   Sinora  abbiamo  veduto  specialmente  l'efficacia  che  ebbe  sugli  spiriti  dei  poeti  uno  degli  elementi della  nostra  figura  leggendaria,  la  perpetuità errante.  Ma  allato  a  questo  v'è  pur  un  altro  elemento  non  meno  osservabile,  quello  che  è  dato  dalla  realtà  oggettiva  che  codesto  errante  tante  volte  secolare  dovè  conoscere  de  visi'.  Asvero  entra  nella  storia,  come  spettatore  glaciale, come  genio  filosoficamente  benefico,  come  personificazione  d'idee  o  tendenze,  come  simbolo  di  ribellione.   Il  primo  a  dare  esempio  di  questa  maniera  di  far  funzionare  l'errante  fu,  già  nel  1791,  W.  F.  Heller,  coi  suoi  Briefe  rie»  eirigen  Judeii,  che  sono  una  scorsa  sintetica  alle  vicende  del  mondo  obiettivamente  osservate  dall'ebreo  longevo.  Nel  1832,  J.  v.  Zedlitz  imagina  Asvero  sempre  vigile nella  tomba  e  come  in  sogno  gli  fa  passare  dinanzi  i  maggiori  avvenimenti  storici,  con  lo  scopo  specioso  di  flagellare  Napoleone,  rappresentato come  un  nuovo  Attila.  Due  episodi  storici sono  pur  quelli  che  ci  mette  innanzi  lo  Schenk  in  due  frammenti  epico-lirici  sull'ebreo,  che  videro  la  luce  nel  1834  e  nel  1836:  due  anni  appresso  F.  F.  Franke  con  lo  pseudonimo  di  Ferd.  Hauthal  imaginò  una  Asceviade,  che  dovea  percorrere  la  storia  universale  rilevandovi  le  principali  lotte  religiose.  Ne  abbiamo  solo  il  principio,  farraginoso  e  pesante.  Assai  più  sembrerebbe che  si  dovesse  aspettarsi  dal  grande  novellatore  danese  Cristiano  Andersen,  il  quale  nel  suo  Ahasverus  (1844  e  1847.)  imaginò  il  fantastico pellegrino  come  lo  spirito  del  dubbio  e  della  negazione,  a  convincere  il  quale  della  grandezza di  Dio  è  necessario  ch'egli  assiste  allo  svolgersi della  storia  umana.  Questa  impostatura  non  era  davvero  cattiva;  ma  l'opera  poetica  riusci  poco  chiara  e  poco  grandiosa,  perchè  cosi  voleva il  temperamento  dell'artiste,  chiamato  ad  altro.   Tuttavia  quel  concepimento  trovò  in  Germania imitazione  neìì'Ahasrer  di  Seligmann  Heller (1866),  esteso  poema  filosofico  in  terzine,  poco  noto  anche  fra  i  tedeschi.  Qui  Asvero  non  è  altro che  un'idea:  una  personificazione  astratta  dell"uman  genere.  Gli  si  svolge  dinanzi  la  storia,  dal  giudaesimo  all'umanitarismo,  attraverso  il  cristianesimo.  Uomo,  invece,  in  tutta  l'estensione  del  termine,  che  vive  nelle  amarezze  e  nei  dolori de'  suoi  sciagurati  nepoti  e  assaggia  cosi  tre  capitali  periodi  storici,  è  1  "Asvero  di  M.  Haushofer  '1886),  intorno  a  cui  il  suo  ajwtore  consumò  la  vite  e  che  qualche  critico  paragonò  alla  Commedia dantesca.  Unità  non  vi  è;  sono  tre  drammi  accostati,  ma  la  loro  potenza  poetica  è  grande.  Ben  misere  cose  sono,  al  confronto,  le  peregrinazioni a  traverso  alla  storia  del  personaggio  imaginario,  largamente  concepite  e  solo  in  parte eseguite  nell'opera  prosaica  dal  primo  Alessandro Dumas  (1853i.   Categoria  a  parte  di  componimenti  è  quella  in  cui  Asvero  ha  spirito  deciso  di  ribellione,  anche se  non  arrivò  ad  assumere  aspetto  diabolico  come  nel  romanzo  di  Levili  SchQcking,  Der  liaaevnfùrst  (1851).  La  simpatia  per  la  ribellione  è  frutto  rivoluzionario  del  romanticismo  ed  ebbe  interpreti  in  tutti  i  paesi  d'Europa,  segnatamente,  nel  nord,  il  Byron  e  lo  Shelley,  nel  sud  il  Carducci ed  il  Rapisardi.  Giulio  Mosen,  nel  suo  poema  epico  Ahmrer  (1838),  imaginò  l'ebreo  uomo,  in  vari  periodi  della  storia,  lottante,  nella  sua  disperazione  di  padre  orbato  più  volte  dei  figli,  contro  l'inesorabile  e  crudele  Iddio.  È  questa  la  pugna  quotidiana,  tenace,  inevitabile,  feroce  dell'umano  contro  il  divino,  rappresentata  talora  con  tocchi  di  grande  efficacia,  ma  in  complesso  oscura  (').  Più  perspicuo,  ma  più  povero,  è  l'errante della  lirica  di  J.  (>.  Fischer  (,1854),  nella  quale  assume  i  caratteri  di  Prometeo  e  rappresenta la  verità  di  contro  alla  tirannia  oscurantista divina.  La  regina  Elisabetta  di  Rumenia  (Carmen  Sylva)  nel  suo  poemetto  Jeliova  (  1882)  fa  pure  di  Asvero  una  specie  di  Prometeo,  per  non  dire  di  Capaneo,  che  sfida  il  Creatore,  ma  trova  finalmente  nell'idealismo  filosofico  tedesco  la  possibilità  d'una  fede,  e  in  essa  muore.  Anche  nell'altro  poema  simbolico  del  Mosen,  Hitter  Wahn,  v"ha  non  poca  nebulosità  di  concetto.       Fra  le  parecchie  composizioni,  di  che  por  brevità qui  si  tace,  ove  l'ebreo  entra  in  un'episodica narrazione  storica,  va  annoverata  quella  che  rese  il  nome  di  Asvero  più  noto  plesso  il  pubblico d'Italia,  VAhasrer  in  Itom  di  Roberto  Hamerling iltflió).  E  poema  di  vivissimo  colorito,  nella  rappresentazione  fulgida  dei  contrasti  dell'età neroniana.  Il  Grillparzer  già  disse  che  dovrebbe a  maggior  diritto  intitolarsi  Nerone,  e  cosi  osò  fare,  traducendolo,  il  nostro  Vittorio  Betteloni.  Intorno  alle  straordinarie  risorse  che  può  avere  il  carattere  di  Nerone  molto  s'è  scritto,  anche  in  Italia,  in  questi  ultimi  anni,  massime  dopo  la  immensa  fortuna  del  troppo  celebrato  romanzo  dello  Sienkiewicz  ('j.  Il  maggior  difetto  del  personaggio  di  Nerone  nello  Hamerling  è  di  avere  esso  pure,  fondamentalmente,  funzione  simbolica (:).  Tutto  simbolo  è  Asvero,  nuova  incarnazione di  Caino,  portata  ad  operare  in  mezzo  a  persone  storiche:  una  astrazione  sotto  forma  umana;  l'umanità  eterna,  ma  nel  suo  lato  mefistofelico. Come  concezione  asveriana  il  poema  dello  Hamerling  non  vale  molto  (3i. Notabili  sono  specialmente  gli  scritti  di  Gaetano  Negri e  di  Carlo  Pascal.  Vedansi  gli  articoli  sereni  (giacché  non  sempre  prevalse  la  serenità  in  questa  disamina  storica)  di  Achille  Cokn  nel  periodico  Atene  e  Homo,  anno  III,  1!KX).  .   (2;  Leggansi  le  osservazioni  di  Ko3iUAi.no  Giani,  //  Xerone  di  Arrigo  Boito,  Torino,  1901.  p.  52.  Xel  volumetto  del  Giani  si  ha  una  coscienziosa  rassegna  dell'uso  che  fece  la  poesia,  specialmente  quella  drammatica,  della  figura  di  Xerone.   (3>  Troppo  severo,  tuttavia,  gli  è  il  Soergel  (pp.  97  sgg.):  il  l'rost  scrive  su  questo  tema  le  migliori  pagine  del  suo  li  Da  questi  concetti  simbolici  sorti  nel  seno  della  storia  è  breve  il  passo  al  simbolismo  di  tendenze  religiose,  politiche,  sociali.  E  i  primi  esempi  di  questo  sono  remoti.   Già  nel  1714,  quando  non  tacevano  ancora  le  discussioni  sulla  realtà  dell'ebreo,  Gianjacopo  Schud,  nelle  sue  Judische  Merkw'ùrdigkeiten,  lo  interpretava  come  un  simbolo  del  popolo  israelita vagante  sulla  superfìcie  del  globo,  per  la  maledizione  del  sangue  sparso  di  Cristo,  piovuta  sopra  il  suo  capo,  e  l'opinione,  poggiante  su  alcuni celebri  versi  di  Prudenzio,  trovò  seguitatori  (*).  Nel  secolo  XIX  le  condizioni  religiose  e  politiche  mutare  fecero  assumere  a  quest'idea  diversa  colorazione:  la  posizione  economica  conquistata dalla  razza  semitica  nella  società  europea produsse  lo  strano  fatto  che  Asvero  divenne  per  molti  bandiera  di  lotta  antisemitica,  mentre  altri,  in  nome  suo,  corsero  alla  difesa.  Prima  del  Goethe,  uno  scrittore  israelita  compose  certo  Spiel  voti  Ahasvei;  che  doveva  essere  cosa  ben  cruda  se  l'autorità  municipale  di  Francoforte,   bro  (pp.  Hl-lMi).  Le  considerazioni  di  L.  A.  Michki.anueli,  Sopra V  Ahascero  in  Roma  poema  di  lì.  Hamtrliny,  Bologna.  187H,  sono  d'una  prolissità  spaventosa,  ma  spesso  colgono  nel  segno. Cfr.  specialmente  le  pp.  13D-40.  142  e  ló(>57.   ri)  Vedi  Xeuhaur.  Die  Sage  cit..  pp.  '22,  118.  15S8.  Istruttivo è  nel  libro  del  Soergel  il  capitoletto  Ahaseer  ah  Vertreter  des  jttdinclien  Voìkes,  pp.  57  sgg.        r»i7    nel  1708,  non  sólo  ne  fece  proibire  la  reciti),  ma  ordinò  che  se  ne  ardessero  tutti  gli  esemplari  a  stampa,  sicché  noi  ora,  purtroppo,  non  lo  conosciamo più.  Molto  tempo  appresso  un  celebre  novelliere  tedesco,  israelita  di  nascita  e  di  religione, Bertoldo  Auerbach,  non  tanto  in  una  sua  novella  del  1827,  quanto  nell'importantissimo  Spinoza  (188ó),  rappresentò  con  Asvero  il  perseguitato giudaismo,  riconciliato  finalmente  con  l'umanità  dal  grande  pensatore  olandese  (').  Con  siffatto  intento  di  compassione  e  di  ammirazione  verso  gli  ebrei  fu  interpretato  Asvero  anche  da  altri;  ma  più  di  frequente  egli  servi  a  sfogare  passioni  antisemitiche.  HrW Altascerus  di  Bernardo Giseke  (1868)  è  il  cieco  giudaismo  che  odia  il  cristianesimo;  nel  mistero  di  Giovanni  Lepsius  (1894)  raffigura  il  tragico  conato  del  popolo giudeo  per  trovare  il  nuovo  Messia;  il  poema  di  Giuseppe  Seeber  (1894),  salutato  in  Germania  con  entusiasmo,  porta  la  tragedia  messianica  di  Asvero  ad  una  conclusione,  che  è  conforme  alle  teorie  chiliastiche:  quel  tipo  vagabondo  dell'ebraismo antico  giunge  a  riposo  solo  quando  tutto  Israello  è  redento,  cioè  convertito.  Più  ristretto  concepimento,  ma  sempre  intonato  alla  questione  semitica,  è  ne\Y Ahasver  del  prete  austriaco  Enrico von  Levitschnigg  (1842),  che  con  molta  vivezza porta  innanzi  l'ebreo  moderno  da  rigattiere fatto  banchiere,  che  stende  la  mano  unghiata  È  noto  che  lo  S]>inozn  nacque  da  genitori  ebrei  di  culto  spagnuolo.    sul  mondo  intero;  nel  romanzo  di  Fr.  Mauthnef  De)neue  Ahamer  (1881)  nel  dramma  asveriano  dell'olandese  Ermanno  Heijermanns  (1893),  che  mette  in  scena  un  episodio  della  persecuzione  degli  ebrei  in  Russia.   Come  alla  questione  semitica  nei  paesi  in  cui  specialmente  si  agitò  e  si  agita,  cosi  Asvoro  fu  ben  lontano  dal  serbarsi  indifferente  agli  altri  problemi  che  s'imposero  al  consorzio  umano  nel  gran  rinnovamento  liberale  de]  secolo  XIX.  D'un  Asvero  fautore  di  libertà,  nemico  del  medio  evo,  del  misticismo,  della  scolastica,  è  ovvio  l'intendere come  e  perchè  desse  il  primo  esempio  hi  Francia  con  le  satiriche  Tableltes  da  jaif  crrant  di  Edgard  Quinet  (\82'2)  (').  le  cui  tracce  sono  seguite  in  Germania  nel  iìelasius  del  Maltitz  (1820)  e  nel  New;  Aliaaver  di  Lodovico  Kohler  (1841).  Tendenza  anticlericale  e  rivoluzionaria  ebbe  il  voluminoso,  fortunatissimo  romanzo  in  dieci  volumi  di  Eugenio  Sue.,  Le  jaif  erranf  (1844).  In  esso  Asvero  è  il  lavoratore  diseredato, che  si  oppone  al  clero  sfruttatore,  con  allato Erodiade,  la  malvagia  omicida  del  Battista. Con  slancio  di  carità  non  mai  smentita,  Asvero  passa  dal  nord  al  sud,  dall'est  all'ovest,  per  recare  soccorso  ove  se  n'ha  bisogno.  Tanto  egli  quanto   Erodiade   finiscono   perdonati  ed Disposizione  di  spirito  in  tutto  diversa  manifesta  il  Quinet dopo  un  decennio  nel  mistero  Ahasvérus  del  183B.  Questo  é  frutto  d'una  sentimentalità  morbosa  e  d"una  fantasia  sbrigliata, e  troppe  volte    nell'oscuro  e  nell'incongruo.  A  ragione il  Lanson  chiama  il  Quinet  «  faiseur  d'apoealvpses  ».        M  9    Asvero  presagisce  la  distruzione  del  chiericato  egoista  e  tiranno,  e  l'avvento  trionfale  della  democrazia, in  cui  il  lavoro  sarà,  rispettato,  amato,  valutato,  compensato.  Il  successo  di  questo  romanzo a  tesi,  in  cui  è  scarso  il  valor  letterario,  superò  ogni  aspettativa:  la  Germania  ne  smalti  in  quattro  anni  più  di  quindici  edizioni,  delle  quali  una  sola  contava  undicimila  esemplari.  Trovò  anche  colà  imitatori,  tra  cui  emerge  il  romanzo  storico  Ahasver  di  Chr.  Kuffner  (184(1),  il  cui  ideale  asveriano  di  amore  sociale  non  fu  estraneo  alla  creazione  dello  Hamerling  e  forsanco  neppure  a  quello  dello  Sienkiewicz.  Particolarmente dal  1880  in  poi,  i  progressi  fatti  dal  socialismo  provocarono  la  nascita  di  parecchi Asveri  più  o  meno  dottrinariamente  socialisteggianti,  l'ultimo,  e  forse  più  notevole,  dei  quali  è  nel  poema  Ahasver  di  Gustavo  Rentier  (1902),  energica  figurazione  del  proletariato  che  insorge  contro  ogni  specie  di  oppressione  sociale  e  contro ogni  bassezza  morale.   Se  questa  è  l'ultima  forma  di  Asvero  nell'ordine politico-sociale,  ve  nha  un'altra,  non  meno  moderna,  nell'ordine  filosofico.  Tutti  sanno  quale  influsso  esercitarono  le  idee  del  Nietzsche  sul  pensiero  europeo.  A  quell'influsso  non  si  sottrae neppure  l'antico  errante  e  l e  teoriche  individualiste trovarono  un  portavoce  anche  in  lui(').  Per  contro  altre  produzioni,  come  il  poema  di  M.  E.  von  Stf.kn,  Die  Insel  Aluiauer  til31   terminato:  tener  desta  la  fede,  esaltare  le  anime  nel  servigio  di  Dio,  diffondere  la  moralità  cristiana ;  e  però  quelle  vecchie  vite  di  santi  tenevano dtjlla  biografìa,  del  panegirico  e  della  le  zione  moraleggiante.  Ingrandire  i  fatti  perchè  all'elogio meglio  servissero,  ritorcerli  a  maggior  gloria  del  Signore  e  ad  esempio  di  moralità  e  di  fede,  non  erano  punto  azioni  che  si  giudicassero  sconvenienti.   Con  questo  concetto  così  preciso  del  lavorio  leggendario  e  retorico,  vuoi  popolare,  vuoi  individuale, è  facile  imaginare  come  sia  restio  il  Delehaye  nel  concedere  ai  testi  agiografici  il  valore di  documenti  storici.  Importante  e  fecondo  sembra  a  lui  pure  lo  studio  comparato  delle  religioni; ma  contro  le  troppo  facili  identificazioni  del  culto  cristiano  col  pagano,  contro  l'idea  che  la  devozione  ai  santi  sia  una  concessione  fatta  dalla  Chiesa  alle  abitudini  inveterate  del  politeismo, contro  il  presupposto  della  dipendenza  diretta  e  immediata  degli  onori  tributati  ai  santi  da  quelli  con  cui  i  pagani  esaltavano  i  loro  eroi,  scrive  pagine  di  ragionamento  serrato,  nutrite  di  meditata  dottrina.  Ammette  bensì  che  la  tradizione del  culto  degli  eroi  abbia  conservato  negli  animi  una  migliore  disposizione  ad  accogliere quello  dei  santi;  riconosce  certi  adattamenti di  templi  pagani  a  uso  cristiano  e  l'analogia non  intenzionale  di  certi  santi  con  certi  eroi;  trova  non  solo  verisimile,  ma  storicamente  necessario  che  nella  nuova  religione  si  scoprano  vestigi  di  gentilesimo:  ma  sostiene  che  il  culto        dei  santi  ha  un  fondamento  essenziale  diverso  da  quello  degli"  eroi,  derivando  esso  dall'onore  reso  ai  martiri,  incili  nato  dal  Cristo  medesimo  i*).  La  mitologia  comparata,  pur  raggiungere  certe  identificazioni,  ha  costrutto  talora  a  sua  volta  delle  vere  leggende  erudite,  come  fece  lo  Harris  per  ravvisare  nel  cristianesimo  il  culto  dei  Dioscuri  e  altri  per  identificare  san  Luciano  con  Dionysos  e  santa  Pelagia  con  Venere  Afrodite.  In  siffatte  identificazioni  analogiche  bisogna  procedere coi  piedi  di  piombo,  giacché  il  lasciarsi  trascinare  dalla  ingegnosità  soverchia  o  dal  preconcetto impellente  è  cosa  facilissima.  Non  minori cautele  son  praticabili  nel  giudicare  sospetti alcuni  santi  solo  perchè  hanno  nomi  di  divinità  greche  ovvero  significanti  la  personificazione di  un  attributo.  La  buona  critica  può  riconoscere  bensì  in  questa  condizione  di  cose  qualche  motivo  di  titubanza;  ma  è  pur  d'uopo  tener  presente  che  in  ispecie  i  Romani  usarono  talora  imporre  ai  loro  schiavi  e  liberti  nomi  bizzarrissimi,  di  divinità  o  di  esseri  astraiti,  sicché il  solo  significato  del  nome  non  dev'essere  indizio  di  falsità.  Siccome  è  assurdo  l'ammettere  una  brusca  discontinuità  nella  storia,  va  da  sé Siffatto  raginnaniento,  condotto  con  finezza  e  con  cau  tela,  è  ben  altrimenti  convincente  che  le  consuete  riflessioni  proposte  dall'ortodossia  cattolica  nel  mettere  a  confronto  il  santo  e  l'eroe.  Quanta  grossolanità  vi  fosse  nn  tempo  in  siffatti confronti  può  vedersi  in  una  chiacchierata  su  L'ayiografia  antica  e  moderna  della  Civiltà  Cattolica,  Serie  3»,  voi.  \  li  (anno  1857),  p.  48.     .r»33  *   che  nella  religione  nuova  molti  elementi  pagani  si  continuarono  e  rivissero  in  forma  l'innovellata.  Il  Delehaye  ritiene  anzi  che  un  sempre  più  accurato e  profondo  studio  comparativo  moltiplicherà il  numero  dei  fatti  che  riattaccheranno  al  paganesimo  le  leggende  di  molti  santi;  ma  non  per  questo  si  sarà  licenziati  a  dire,  per  esempio, col  Ilartland  che  in  san  Giorgio  la  Chiesa  ha  «  convertito  e  battezzato  l'eroe  pagano  Perseo ».  L'infiltrazione  di  elementi  letterari  pagani nelle  leggende  agiografiche  cristiane  è  un  fatto  talora  innegabile,  tal'altra  assai  verosimile;  ma  ciò  non    ancora  facoltà  di  distruggere  la  personalità  reale  del  santo  e  di  concludere  ch'egli  sia  un  dio  pagano  o  un  eroe  pagano  cristianeggiato.   Massimo  errore  è,  in  materia  agiografica,  il  non  separare  la  personalità  del  santo  dalla  sua  leggenda:  questa  può  essere  assurda,  il  santo  legittimo.  L'atteggiamento,  peraltro,  dell'indagatore moderno  di  fronte  ai  fatti  biografici  recati  dalla  tradizione  o  attestati  dagli  agiografi  deve  essere,  non  pur  prudente,  ma  razionalmente  scettico: per  le  ragioni  esposte,  tanto  la  tradizione  popolare  quanto  il  racconto  degli  agiografi  sono  il  più  delle  volte  mendaci;  poco  valore  hanno  le  tradizioni  della  chiesa  ove  il  santo  è  venerato, ed  è  un'illusione  il  credere  d'aver  ricostrutto la  verità  storica  allorché  si  siano  eliminati da  una  biografia  i  tratti  inverosimili  e  si  sia  trovata  corrispondente  a  puntino  al  vero  la  topografia. Anche  nei  romanzi  del  Bourget,  osserva  spiritosamente  il  nostro  Bollandista,  la.  to  pografia  è  talora  esattissima.  Che  si  direbbe  di  chi  ne  concludesse  che  quei  romanzi  narrano  fatti  realmente  accaduti?  Una  cosa  ve  eli  al  Irniente e  solennemente  reale  nel  complesso  delle  leggende  agiografiche,  e  questa  nessuno  potrà  negarla:  l'ideale  concretato  nella  santità.  Le  parole con  cui  il  Delehaye  chiude  il  suo  libro  sono  nobilmente  significative.  La  vita  dei  santi,  egli  dice,  è  «  la  réalisation  concrète  de  l'esprit  évan«  gélique,  et  par  le  fait  qu  elle  rend  sensible  «  cet  idéal  sublime,  la  legende,  cornine  toute  «  poésie,  peut  prétendre  à  un  degré  de  vérité  «  plus  elevé  que  l'iiistoire  ».   «  *   Difficilmente,  nel  seno  dell'ortodossia  cattolica, si  potrà  portare  a  maggiore  elevatezza  spirituale il  concetto  della  santità  e  circoscrivere  di  maggiori  cautele  l'accertamento  del  vero.  In  fondo,  non  batte  diversa  strada  neppure  uno  studioso  nostro  del  diritto,  che  recentemente  sciasse  un  libro  dotto  e  arditissimo  sul  santo  di  Assisi  (ri.  La  parte  più  solida,  se  vedo  bene,  in  quel  libro,  in  cui  la  temerità  dell'ipotesi  non  ha  limiti  e  non  scarseggiano  neppure  gli  errori  di  fatto,  sta  nell'avere  intuito  in  san  Francesco  Tamassia,  San  Francesco  d'Assisi  e  la  sua  leggenda,  Padova e  Verona,  Drucker    un  tipo,  che  già  nella  prima  biografia  del  CeIanense  è  compiutamente  costituito  e  si  contrappone, materiato  con  gli  elementi  della  tradizione  evangelica  e  con  tratti  desunti  in  massima  parto  dalle  opere  di  Gregorio  Magno,  al  clero  degenerato ed  avido  di  beni  mondani.  E  improbabile  che  i  cultori  di  studi  francescani  si  pei'suadano  col^Tamassia  della  parte  di  eretico,  rientrato  per  via  della  leggenda  nell'ortodossia,  che  vuol  far  giuocare  a  san  Francesco;    gli  meneranno  buono  il  sistema  di  escludere  il  fondamento  reale  di  certi  fatti,  solo  perchè  essi  hanno  riscontri negli  avvenimenti  o  nelle  leggende  o  nelle  dottrine  anteriori,  quasiché  la  tradizione,  specialmente  religiosa,  non  abbia  la  tendenza  a  ripercuotersi  nella  realtà  non  meno  che  nella  fantasia;    potranno  convincersi  della  genesi  unicamente  letteraria  che  è  assegnata  al  fatto  delle  stimmate,  e  se  anche  nella  seconda  biografia di  Tommaso  da  Celano  vorranno  riconoscere gli  elementi  dottrinari  che  valgono  a  farne  un  «  manuale  di  perfezione  monastica  »,  non  per  questo  vi  ravviseranno  addirittura  «  il  capolavoro dell'impostura  monastica  del  secolo  decimoterzo  »  :  ma  ciò  non  per  tanto  tutti  dovranno ammettere  che  l'indagine,  se  anche  abbia  trascinato  l'autore  a  conclusioni  eccessive,  ha  indiscutibile  utilità  e  non  rimarrà  senza  buoni  effetti  nell'agiografia.  Lasciata  da  parte  la  fede  (positiva  o  negativa),  che  non  è  strumento  di  ricerca,  si  avrà  fatto  un  gran  guadagno  accordandosi tutti  nel  giudicare  la  santità  coi  criteri    AGIOGRAFIA  SCIENTIFICA    psicologici  moderni  (')  e  nel  l'in  daga  re  le  vicende  dei  santi  eoi  metodi  severamente  scientifici  che  già  da  molto  tempo  si  applicano  con  profitto  alla  storia  profana  e  alle  leggende  profane.  Lo  spirito  del  genere  umano  è  uno  ed  opera  .  011  leggi  costanti:  è  puerile  il  ritenere  che  in  materia religiosa  esso  deroghi  a  quelle  leggi.   Purtroppo  una  voragine  intercede  ancora  fra  lo  studioso  credente  e  lo  studioso  non  credente: la  possibilità  della  sospensione  delle  leggi  naturali  nel  miracolo,  che  il  credente  ammette  e  l'incredulo  nega.  Ma  chi  tien  dietro  spassionatamente ai  progressi  grandissimi  che  gli  studi  religiosi  vengon  facendo,  trova  che  insensibilmente codesta  voragine  perde  di  profondità  e  di  ampiezza.  La  parte  più  colta  del  clero  si  piega  orinai  alla  discussione  del  miracolo  e  talora  lo  pone  apertamente  in  dubbio  (*).  È  vero  che  la  maggior  parte  dei  miracoli  non  costituisce  articolo di  fede:  ma  è  vero  altresì  che  la  tendenza  scettica  cosi  lucidamente  tracciata  dal  Delehaye  rispetto  all'agiografia  non  ha  da  fare  che  un  passo  e  può  essere  applicata  ai  Vangeli  (3).  E La  psicologia  del  santo  non  fu  perauco  indagata  in  conformità  alla  scienza.  Il  troppo  fortunato  libro  sul  soggetto  di  Enrico  Joly,  che  ebbe  anche  una  traduzione  italiana  Roma,  Desclée  e  Lefebvre,  190-1,1,  non  ha  base  scientifica. Per  citare  un  esempio  tra  mille,  gravi  dubbi  ormai  si  sollevano  nel  clero  stesso  su  quello  che  fu  considerato  come  uno  dei  più  angusti  fra  i  santuari  cattolici,  la  casa  di  Loreto.  Vedasi  nel  presente  volume  l'articolo  speciale  da  me  consacrato  alla  questione  lauretana. Lo  ha  detto  apertamente,  a  proposito  del  libro  del  Deallora?  Non  si  spaventino  gli  ortodossi  per  questo. L'esegesi  biblica,  a  cui  teneva  tanto  l'illuminato pontefice  Leone  XIII,  può  essere  praticata  presso  i  cattolici  con  una  indipendenza  di  criteri  scientifici  non  diversa  da  quella  che  giù  da  tempo  adottarono  certi  esegeti  protestanti,  per  non  dire  gli  scienziati  aconfessionali.  Lo  ha  provato  col  fatto  l'abate  Alfredo  Loisy,  studiando  al  lume  della  critica  storica  il  quarto  Vangelo  (*)  e  contrapponendo all'opera  teologica  del  protestante  Harnack,  Das  Wesen  des  Chrisfenlums  (!),  il  tanto  discusso  libretto  L'émngile  et  l'èglise.  A  quel  tentativo  di  esegesi  storica  dei  Vangeli  i  vescovi  di  Francia  contrapposero  aspre,  roboanti  parole  e  divieti:  ma  la  loro  piccineria,  anche  di  fronte  alla  pura  credenza  ortodossa,  ha  qualcosa  di  desolante.  La  frase  di  condanna  trovata  dall'arcivescovo di  Cambi  ai:  «au  lieu  d'élever  l'hom«  me  à  la  hautaur  mystérieuse  des  Livres  saints,  «  certains  auteurs  f'ond  descendre  ces  livres  au  «  niveau  de  la  raison  et  de  la  nature  humaine  >,  è  la  decapitazione,  in  seguito  a  giudizio  statario,  della  scienza  e  della  ragione  umana  is).  Uno   leha  ve,  Maiicki.  Hkiikbt,  nella  He  vite  de  l'unicersité  de  Bruxelles,  voi.  XI,  190T),  p.  14li.  L'Héhert  è  autore  d'un  libro  ili  non  grande  levatura,  ma  non  destituito  d'interesse,  L'évululìo»  de  la  foi  rittholitjue,  Paris,  Alcan,  11)05. Le  t/ualrième  évangile,  Paris,  Picard,  1908. Leipzig,  1900.  Versione  italiana,  L'essenza  del  Cristianesimo, Torino,  Bocca.  1903. Tutte  le  condanne  e  le  loro  motivazioni  si  possono  leggere,  raccolte  dal  Loisy  medesimo,  in  fondo  ni  suo  volumetto polemico  Aulour  d'un  peli!  licre,  Paris,  Picard,  1H03.        storico  di  grande  riputazione,  Gabriel  Monod,  ebbe  a  notare  che  dopo  il  concilio  di  Trento  e  segnatamente  dopo  il  concilio  Vaticano,  la  Chiesa  ha  smarrito  il  senso  della  storia  ed  l  al  17(55  sei  volumi  di  dissertazioni  uni  culto  di  Maria,  sbarazzava  la  tradizione  lauretaua  da  quell'ani  masso  di  favole  ond'era  aduggiata  e  per  primo  faceva  vedere  l'inutilità  dei  pretesi  documenti  antichi,  rutti  falsi.  Ad  una  negazione  decisa  del  fatto  egli  per  altro  non  giunse,  come  non  vi  giunse  quel  dotto  e  candido  sacerdote  alsaziano  lìiiis.  Antonio  Vogcl,  che  rifugiatosi  nella  Marca  pel  turbinare  della  rivoluzione  francese,  compulsò  quanti  documenti d'archivio  gli  venne  fatto  trovare  e  scrisse un  commentario  latino  De  ecclesia  Recana  tenni  Lanretana,  pubblicato  postumo  solo  nel  1859  (il  Vogel  mori  nel  181 7),  che  non  oppugna  decisamente  la  tradizione  per  rispetti  ovvii,  se  non  del  tutto  giustificabili.  Monaldo  Leopardi,  tuttavia,  ci  assiema  esser  il  Vogel  venuto  nella  persuasione  «  qualmente  la  santa  cappella  Lauretana  poteva  venerarsi  per  molti  titoli,  ma  non  «  era  la  Santa  Casa  di  Nazareth  •.  Solo  in  tempi  a  noi  vicini  un  barnabita,  Leopoldo  De  Feis,  aveva  il  coraggio  di  dire  chiaramente  ed  esplicitamente ciò  die  molti  altri  pensarono  prima  di  lui:  i  suoi  due  solidi  articoli  su  La  S.  Casa  di  Nazareth  ed  il  Santuario  di  Loreto .('),  destinati a  sfatare  la  tradizione  laure  tana,  suscitarono  plausi  e  contumelie,  ma  ebbero  nello  stesso  clero  difensori  illuminati,  specialmente  in  Francia  l'abate  Boudinhon,  che  nella  Reme  da  clvrgè  franrais  sostenne  una  vera  battaglia  contro  gii  oppositori.  Finalmente  venne  in  luce  il  voluminoso ed  eruditissimo  libro  del  canonico  Ulisse  Chevalier,  Nolre-Dame  de  Lorette,  ètwle  hi  sto  rique  sur  l'aatìienticifè  de  la  Santa  Cum  ('),  che  resterà  il  vero  punto  di  partenza  per  ogni  ricerca  futura.  Per  quel  che  concerne  la  portata  dialettica, il  nerbo  dell'argomentazione  contro  la  veridicità della  leggenda,  l'opera  dello  Chevalier,  condotta più  da  bibliografo  che  da  storico,  non  supera  in  valore  l'opuscolo  del  De  Feis,  perchè  l'immensità  del  materiale  erudito,  sebbene  ordinatamente disposto  e  bene  riassunto,  turba  il I  due  articoli  uscirono  nei  volumi  141  e  UH  della  /?«.«seyha  nazionale  di  Firenze;  ma  in  quel  medesimo  anno  1H0-")  comparvero  anche,  con  aggiunte,  in  un  opuscolo  a  parte. Paris,  Picard,  190b\   Lo  Chevalier  è  notissimo  in  ispecie  per  la  grande  benemerenza acquistatasi  col  suo  Hi'pertoire  rfes  sources  [ustorique.s  du  moi/en-àge.  Altre  opere  sue  principali  riguardano  la  poesia  liturgica  dell'evo  medio.  Ejrli  suscitò  pure  rumore  fra  noi  impugnando  l'autenticità  della  Sindone  di  Torino.     procedimento  ragionativo  e  svia  l'attenzione  del  lettore;  ma  in  compenso  si  ha  qui  raccolto  tuttociò  ehe  in  ogni  senso  può  interessare  gli  studiosi  della  grande  leggenda.  Prima  di  venire  ad  esporre  di  volo  la  sua  argomentazione,  mi  sia  concesso  avvertire  ch'egli  ebbe  un  consentimento  particolarmente autorevole  e  non  sospetto.  Cario  De  Smedt,  uno  di  quelli  esperti  e  spregiudicati  lìollandisti  del  Belgio,  che  altra  volta  ebbi  già  a  lodare  ('),  dopo  aver  con  mirabile  chiarezza  riassunto le  conclusioni  dello  Chevalier,  considera  il  suo  libro  «  cornine  une  oeuvre  définitivc.  dont  «  anemie  déeou  verte  de  doruments  encore  in«  comi us  ne  pouria  ébranler  les  solides  a.sp.  35fi  e  585.       «  rito,  la  qual  è  facta  de  quadreli  o  ina  toni  et  «  è  coperta  de  copi  (tegole);  et  in  quel  paese  «  non  se  trovano  tali  cosse.  La  casaadumque  vera  «  de  la  b.  Verzene  è  cavata  nel  monte,  lo  qual  «  è  de  tupho,  et  è  soto  terra,  grande  per  quadro  «  sedpce  braza,  cum  due  stantiolete,  l'ima  an«  canto  l'altra;  in  una  de  le  quale  dimoiava  «  Joseph  et  in  l'altra  la  b.  Verzene.  E  quella  «  casa  medesima  che  era  in  quel  tempo,  quando  «  la  fo  annunciata,  è  al  presente.    non  se  «  poterla  apportar    levare  salvo  chi  non  pov«  tasse  el  monte  » .   Candida  quanto  energica  protesta  ;  ina  a  farla  il  dabben  francescano  dovette  essere  indotto  da  ciò  che  in  Italia  a' tempi  suoi  si  narrava.  E  infatti nel  1472  Pietro  di  Giorgio  Tolomei,  detto  dalla  città  nativa  il  Teramano,  avea  pei"  la  prima  volta  riferito  il  miracolo  della  traslazione, asserendo  di  saperlo  da  due  vecchioni  di  Recanati,  che  a  lor  volta  lo  tenevano  dai  loro  avi.  Più  che  il  silenzio  di  ogni  fonte  trecentesca,  compresi  cronisti  come  Giovanni  Villani,  potè  questa  pretesa  diceria  di  vecchi,  passata  di  bocca  in  bocca.  Le  parole  del  Teramano  furono  riprodotte,  affisse  nella  cappella  lauretana,  tradotte; il  carmelita  mantovano  Battista  Spagnuoli  contribuì  a  diffonderle  elaborandole  in  una  operetta latina,  ch'ebbe  voga.  Papa  Giulio  II  non  tardò  a  confermare  la  leggenda  con  una  bolla  del  1507,  che  è  tuttavia  assai  circospetta  nell'affermare  la  traslazione,  usando  la  forinola  «  ut  pie  credi  tur  et  fama  est.  Bili  qui  siamo  ancora  nella  buona  fede;  più  tardi  principia  la  intenzionale  mistificazione,  che  consiste  nell'in  venta  re  circostanze  di  fatto,  nel  precisare  tutto,  nel'"  tenticare  coi  falsi  la  tradizione corrente  ('i.  1  documenti  allora  addotti,  siccome  rimontanti  al  XIII  e  al  XIV  secolo,  furono già  dimostrati  falsi  dal  Trombelli,  dal  Vogel  e  dal  Leopardi,  e  nessuno  ha  potuto  salvarli  da  quella  condanna,  che  lo  Chevalier  ribadisce.  Le  bugie  si  ammonticchiarono  nel  racconto  che,  togliendo a  base  il  Teramano,  credette  di  redigere  nel  ìò'òì  Girolamo  Angelita,  segretario  del  Comune di  Recanati,  e  quindi  in  quello  di  Raffaele  Riera,  e  finalmente  (1594)  nell'opera  divenuta  celebre  di  Orazio  Torsellini,  di  cui  s 'hanno  traduzioni in  tutte  le  lingue.  Con  testimonianze  false,  inventate  di  sana  pianta,  si  cercò  dimostrare  il  passaggio  della  Santa  Casa  per  la  Dalmazia,  di  cui  nessun  documento  di  qualche  valore  fa  motto;  e  quindi  si  pose  ogni  industria  nel  determinare  i  suoi  piccoli  giri  in  Italia,  nel  territorio  di  Recanati. I  pellegrini  del  seicento  videro  in  Palestina ciò  che  sin 'allora  nessuno  aveva  veduto:  le  fondamenta  della  casetta,  le  cui  mura  soprastanti eran  volate  a  Loreto.  Finalmente,  nell'opera  sua  rara  stampata  ad  Anversa,  Franti) I  valenti  sacerdoti  che  s'occuparono  del  soggetto  questo non  dissero;  ma  appare  evidente  dai  fatti  ampiamente  allegati  dallo  Chevalier.  Nel  Cinquecento  e  nel  Seicento  s'è  mentito  sapendo  di  mentire,    giova  dissimularlo.  Divido  interamente  su  questo  punto  l'opinione  del  Delabohde,  L'évolution  d'une  legende  pieuse,  in  Journal  des  novanta cesco  Quaresmio,  motivava  la  fuga  della  Santa  Casa  con  le  strano  racconto,  del  tutto  favoloso,  d'un  vescovo  che  per  paura  de'  Maomettani  avrebbe  apostatato  la  fede  cristiana,  sostituendo  il  turbante  alla  mitra.  Scandalizzata  per  questo  contegno,  la  Vergine  avrebbe  intimato  il  trasloco  della  sua  abitazione,  non  altrimenti  da  ciò  che  avvenne  poscia  nella  Marca,  ove  cangiò  di  posto prima  perchè  i  briganti  infestavano  la  località  prescelta  e  quindi  perchè  erano  sorte  discordie  tra  i  due  fratelli  Alitici,  nel  cui  podere  era  venuta a  posarsi.  Essendo  cosi  suscettibile  alla  buona  moralità  delle  genti  che  l;i  circondano,  non  ò  del  tutto  insussistente  l'odierna  speranza  dei  Mariaviti  polacchi,  i  quali  attendono  che  da  un  giorno  all'altro  la  Santa  Casa  prenda  il  volo  di  nuovo  e  venga  a  collocarsi  in  mezzo  ad  essi.   Un  Muratori,  credenzone,  anzi  haggeo,  di  tutte  le  fandonie  spacciate  sino  a  quel  tempo  sulla  Santa  Casa  fu  Pietro  Valerio  Martore-Ili  nei  tre  grandi  volumi  in  folio  intitolati  Teatro  /storico  della  Santa  Cam  Nazarena  della  lì.  Vergine Maria,  editi  in  Roma  dal  1732  al  '85.  Questo  che  lo  Chevalier  chiama  «  le  mare  magmi m  de  notre  legende  »  ha  il  merito  di  accogliere  il  più  gran  numero  di  tradizioni  leggendarie  ed  ha  il  torto  di  accettarle  tutte  come  verità  sacrosanta,  senz'ombra  di  critica.    (1)  Per  tale  curiosissima  aspettazione  vedasi  Ciiev.m.ikh.  1>.  11  gran  battagliale  che  si  fece  contro  il  De  Feis  e  lo  Chevalier  in  giornali,  in  riviste,  in  opuscoli,  in  libri,  non  si  può  dire  abbia  alcun  valore  scientifico  (*).  Trattasi  del  solito  cicaleccio inconcludente  di  persone  in  cui  la  coltura e  l'abito  della  critica  sono  di  gran  lunga  inferiori  al  fervore  religioso.  Ameno  è,  in  questo  genere  di  letteratura,  l'opuscolo  scervellato  d'un  guidatore  di  pellegrinaggi  francesi  a  Loreto,  l'untuoso abate  J.  Faurax  (*).  Questo  confuso  ed  idiota  affastellamento  di  frasi,  condito  di  velenose insinuazioni,  rappresenta  purtroppo  l'indirizzo pietistico  di  una  buona  parte  del  clero  cattolico,  di  che  non  c'è  da  consolarsi.  Meno  insensato,  ma  non  meno  inconcludente,  è  un  libretto  italiano  diretto  contro  il  De  Feis  da  R.  Della  Casa,  col  titolo  pretensioso  di  Studio  storico documentato  sulla  S.  Casa  di  Maria  venerata a  Loreto  (3);  ma  s'ingannerebbe  a  partito  chi,  illuso  dal  frontispizio,  credesse  di  apprendervi  qualche  novità  di  rilievo.  Del  resto  lo  Chevalier,  sempre  coscienziosissimo,  non  mancò  di  prendere  in  esame  qualsiasi  dato  di  fatto  nuovo  che  nell'ardente polemica  gli  venisse  presentato:  cosi    (1)  Tedi  le  indicazioni  bibliografiche  date  in  proposito  dall' Ai.i.mano,  nel  cit.  Histor.  Jahrbnch,   Tjt  Halnte  Maison  rie  Sotre  Mère  à  Loretle.  Lyon-Paris,  190f  j.  ("3)  Siena,  Tip.  S.  Bernardino mostrò  che  è  «cura  e  gotta  falsificazione  del  seicento  certa  bolla  pontificia  che  volevasi  emanata nel  1310  da  Clemente  V  con  accenno  alla  Vergine  di  Loreto;  e  cosi,  avendo  udito  di  una  reliquia  farfense  del  sec.  XII  avente  la  scritta  «  de  domo  lauretana  Virginis  ilariae  »,  non  fu  pago  se  non  quando,  appurato  bene  le  cose,  si  persuase  che  la  scritta  appartieni!  al  sec.  XVI   Sarebbe  solenne  ingiustizia  il  confondere  con  le  altre  cianfrusaglie  polemiche  pregiudicate  e  melense  il  bello  e  ricco  volumetto  di  ìnons.  Michele  Faloci  Pulignani,  La  Sanici  Casa  di  Loreto  secondo un  a/fresco  di  Gvìiltio,  Roma,  HiOT.  Sebbene, a  parer  mio,  non  t'aggiunga  il  suo  scopo  rispetto alla  dimostrazione  del  miracolo,  questo  libro  è  e  resterà  sempre  un  eccellente  contributo  alla  storia  della  fortuna  che  ebbe  la  Santa  Casa  nelle  arti  del  disegno.  Le  illustrazioni  onde  lo  scritto  è  corredato  sono  curiose  »\1  alcune  non  ovvie;  ma  non  giovano  a  mostrare,  come  il  valente autore  vorrebbe,  che  nel  rovinatissimo  affresco dipinto  nell'antico  chiostro  di  S.  Francesco  in  Gubbio  sia  rappresentata  la  traslazione  della  Santa  Casa.  Pare  anche  a  me,  contro  le  obiezioni  di  altri,  che  quel  dipinto,  per  ragioni  stilistiche,  non  possa  ascriversi  se  non  alla  seconda  metà  del  sec.  XIV;  quindi  mostrerebbe  la  leggenda  formata un  buon  secolo  prima  di  quanto  sinora  ci    (1)  I  due  articoli  dello  Clievalier  sui  menzionati  soggetti  leggonsi  nei  Mélanges  d'archeologie  et  d'histoire  editi  dalla  Scuola francese  di  Roma,  ,V>7   risulti,  ila  la  difficoltà  sta  pur  sempre  nel  provare che  quella  cappellaccia  portata  da  angeli,  che  la  Madonna,  chiusa  in  un'aureola  a  mandorla e  da  angeli  circondata,  addita  dall'alto,  sia  veramente  la  Santa  Casa.  Il  Faloci  ha  posto  nella  dimostrazione,  col  fuoco  consueto  della  sua  indole,  molto  acume  e  molla  dottrina,  non  v'ha  dubbio.  Tuttavia  che  l'affresco  d'un  chiostro  francescano,  primo  nella  sua  ubicazione  e  quindi  tale  da  aprire  una  serie  di  rappresentazioni  francescane, raffigurasse  proprio  un  fatto  che  con  S.  Francesco  e  con  l'ordine  suo  non  ha  nulla,  o  quasi  nulla,  da  vedere,  è  cosa  ostica  a  credersi. Inoltre  quella  che  gli  angeli  portano  non  ò  una  casa,  ma  una  chiesa:  e  il  paesaggio  e  i  pochi  altri  particolari  di  fatto  che  la  gran  rovina  del  dipinto  ci  permettono  di  scorgere,  non  corrispondono, checché  ne  dica  l'erudito  monsignore, a  nessuna  particolarità  della  leggenda  lauretana;  e  la  Vergine  non  è  rappresentata  con  in  braccio  il  Bambino,  come  costantemente  pratica l'iconografia  della  Santa  Casa.  L'affresco  eugubino  dovrà  ancora  essere  sottoposto  a  studi;  ma  sinora,  a  parer  mio,  non  è  la  tradizione  lauretana  che  possa  rallegrarsene,  perchè  con  ogni  probabilità  si  tratta  di  un  soggetto  simbolico  francescano,  che  esso  ci  pone  sott'occhio.  Se  anche non  tutto  sia  chiaro,  ha  molto  maggiore  verosimiglianza  l'ipotesi  prima  sostenuta  dal  defunto dottor  Lapponi,  medico  di  Leone  XIII  i  '),    (l)  Rassegna  Gregoriana,  V  (190fti,  oAl  sgg.    5    e  ora  più  ampiamente  dal  canonico  Vittorio  Pa.  gliari  (').  che  quel  dipinto  ingenuamente  ci  dica  come,  per  volontà  di  Maria,  la  chiosimi  della  Porziuncula  fosse  dagli  angeli  portata  in  terra  e  deposta  presso  Assisi.  Quel  simbolo  racchiude  quanto  v'ò  di  misticamente  più  significativo  nell'opera di  S.  Francesco;  e  però  appare  molto  probabile  che  aprisse,  come  in  altri  conventi  francescani  avveniva,  la  serie  delle  pitture.  Le  quali,  anche  per  tradizione  di  chi  potè  vederle  ancora  ben  conservate,  rappresentavano  fatti  di  8.  Francesco  e  non  altro,  «  varia  et  plura  gesta  «  S.  Francisci  da  Assisto,  singula  inter  se  di«  visa  et  depicta  rudi  et  antiquo  modo  »,  come  scrisse  nel  suo  rogito  del  16.V5  il  notaio  eugubino Anton  Maria  Valentin!  (*).   *   Giunti  a  questo  punto,  legittima  e  la  domanda  :  come  germogliò  la  leggenda,  che  trovò  hi  prima  consacrazione  scritta  sul  cadere  del  secolo  XV,  e  fu  tanto  amplificata,  e  non  sempre  onesta  mente  elaborata  e  diffusa  nei  successivi?   Chi  ha  qualche  pratica  in  siffatto  ordine  di  indagini  sa  che  c  assai  più  agevole  segnalarci  caratteri  specifici  di  una  leggenda  e  indicarne  la  evoluzione,  di  quello  che  sia  scoprirne  con  si  Rivista  storico-critica  delle  scienze  teoloyiche,  III  1 1907),  5èB  9gg. Faloci-Pcligxaxi,  Op.  cil.,  p.  S.        cu  rezza  l'origine.  Tuttavia  parecchie  congetture  si  possono  fare  e  furono  fatte  (').  Una  di  esse  è,  sopra  tutte,  la  più  calzante  e  verosimile.  Eccola.   Esisteva  in  quel  di  Recanati  un'antica  chiesetta, che  pare  fosse  gentilizia  (*),  intitolata  alla  Natività  di  Maria,  ove  si  venerava  una  Madonna che  divenne  celebre  per  miracoli,  cosicché  nel  XIV  e  nel  XV  secolo  vi  traevano  in  gran  numero  i  pellegrini.  Come  accadde  tanto  sposso  nei  santuari  medioevali,  crebbero  intorno  ad  essa  piccole  case,  ad  uso  d'ospizio,  d'ospedale  e  di  amministrazione,  che  si  chiamarono  al  plurale  dotuus  Marine.  Di  quella  chiesetta  e  di  quei  pellegrinaggi e  dei  doni  cospicui  accumulati  colà  parlano  molti  documenti,  amministrativi,  ecclesiastici e  pontifici,  senza  far  mai  motto  della  traslazione.  Mentre  ancora  nel  1438  si  parla  delle   case  di  Maria  (domokum       gloriosae  Virgiuis   Marine  de  Laureto),  nel  1438  si  ha  il  primo  accenno scritto  alla  casa  di  Maria  (domum  sacratissimae  Sanctae  Mariae  de  Laureto)  (3),  e  la  confusione  non  ò  difficile  a  spiegarsi  quando  si  consideri  che  domus,  appartenendo  alla  quarta  declinazione,  ha  l'uscita  uguale  nel  nominativo  singolare  e  nel  nominativo  plurale.  In  questa    (1)  Chevamek,  pp.  479  sgg.  Vedi  anche  la  lucida  esposizione del  Journal  ile»  garanti  cit.,  pp.  372  sgg. Lo  si  deduce  da  documenti  vaticani  della  prima  metà  del  sec.  XIV,  rimasti  sconosciuti  allo  Chevalier,  per  cui  vedi  Burniscile  Quarlalschrift,  an.  190U,  p.  165.   (3;  Cubvaliek,  pp.  226-2SJ,  confusione  e  nel  fatto  attestato  da  unii  bolla  di  Paolo  II  del  12  febbraio  1470,  clic  la  miracolosa,  imagine  della  Vergine,  venerata  uella  piccola  chiesa,  era  stata  colà  portata  dagli  angeli  (angelico Gomitante  celti  mira  Dei  clementia  collocata  est)  (')  si  ha  con  tutta  probabilità  da  riconoscere il  germe  della  tradizione  leggendaria  ltturetaua.  che  nell'attestazione  del  Teramano ha  già  portato  i  suoi  frutti.  Quando  il  Sai-ehetti,  che  conobbe  de  risa  la  Marca  ed  in  ben  diciassette novelle  parla  di  soggetti  marchigiani,  pone  in  bocca  a  Mauro  pescatore  di  Oivitatiova  il  giuramento »  per  Santa  Maria  de  Loreto  »  '*),  egli  senza  dubbio  allude  alla  Madonna  miracolosa,  che  come  tante  altre  dice  vasi  colà  trasportata  dagli  angeli.  Tutti  intendono  quanto  facilmente  dalla  Madonna  si  potesse  passare  alh:  casa  della  Madonna  nell'idea  di  si  {fatto  trasporto',  dal  momento che  in  un  darò  tempo  casa  di  Maria  fu  detta  la  primitiva  chiesuccia  laurctana,  non  diversamente fora*  dalia  «  casti  di  Notlra  Donna  in  sul  lito  Adriano  »  che  nomina  San  Pier  Damiano nel  cielo  di  Saturno  (3).   (1)  Chevamkr,  p.  2CHì. Credo  io  pure  felice  la  correzione  proposta  dal  Bottari.  giacché  il  testo  ha  «  Santa  Maria  dell'Oreiio  ■.  I  dubbi  dello  Chevalier,  p.  173,  non  mi  sembrano  fondati.  Vedi  anche  D.  Spadoni,  //  santuario  di  Loreto  e  un  novelliere  toscano  d"l  sec.  XIV.  in  Rivisto  marchigiana  illustrata,  IV  fl907),  n.  4.  Anche il  ternario  inedito  fatto  conoscere  da  M.  Vattasso  nel  Giornale  Arcadico  del  gennaio  1907  invoca  unicamente  la  Madonna di  Loreto,  senza  verun  accenno    alla  Santa  Casa  n''  alla  sua  traslazione.   (3)  Paradiso,  XXI,  122-123.  Ma  Dante  con  quella  casa  designa una  chiesa  o  un  monastero?  Vedi  perle  controversie        I  luoghi  di  grandi  e  frequenti  pellegrinaggi  sono  singolarmente  disposti  a  veder  nascere  e  vigoreggiare  le  leggende.  Quel  pubblico  di  devoti, e  talor  di  fanatici,  è  sempre  in  sommo  grado  suggestionab|le,    giova  tacere  che  v'è  talvolta  chi  tei  il  massimo  interesse  di  trar  profitto  dalla  sua  propensione  ad  essere  suggestionato.  Le  leggende di  questa  specie  hanno  quasi  sempre  un  periodo  spontaneo  ed  un  altro  artificiale;  come  vedemmo  esser  seguito  a  Loreto.  La  cosa  non  deve  far  certo  meraviglia  quando  si  pensi  che  uno  studioso  serissimo,  dotto  ed  acuto,  Giuseppe  Bédier,  vien  consacrando  da  anni  le  sue  fatiche  a  mostrare  che  tutte  o  quasi  tutte  le  leggende  epiche  carolingie  hanno  la  loro  sorgente  nei  santuari medievali  e  gli  organi  principali  della  loro  trasmissione  nei  pellegrinaggi  (').   a  cut    luogo  quel  passo,  oltreché  i  commenti  dello  Scartazzini,  dej  Casini,  ilei  Torraca,  anche  C.  fiicci,  L'ultimo  rifu/fio di  Dante  Alighieri,  Milano,  1891,  pp.  123-1"28  e  Suììelt.  »Soc.  Dantesca,  X.  S.,  VI,  75-77  e  XI,  318.  Monaldo  Leopardi,  come  mostra  nella  XIII  e  nella  XXII  delle  sue  Discusmoìii  lanretane  e  ribadisce  negli  Annali,  si  faceva  forte  specialmente  del  passo  dantesco  per  sostenere  la sua  tesi  che  la  traslazione della  Santa  Casa  è  anteriore  al  1291.  Del  resto,  l'identificazione, del  tutto  falsa,  della  caaa  nominata  da  Dante  con  quella  di  Loreto  pare  risalga  al  Maglia  bechi.  Cfr.  Chevamer,  p.  158.   il)  Il  I$>dier  ha  già  pubblicato  in  proposito  una  bella  serie  di  articoli,  tra  i  quali  sono  per  noi  importantissimi  quelli  su  I^e*  rhannonx  de  geste  et  les  routes  d'Italie,  inseriti  nei  volumi della  Romania.  Dell'opera  d'insieme  che  ne  risulterà,  Leu  légendes  épiqitea,  recherches  sur  la  formation  de*  channona  de  geste,  è  già  uscito  il  primo  volume,  sul  sottociclo di  Guglielmo  d'Orange  (Paris,  Champion,  1908).    Kknikr  Scatj/ti  Critici   Oramai  la  parte  più  illuminata  ck'l  cloro  cattolico, quella  parte  che  non  rinuncia  a  pensare  col  proprio  cervello  e  che  non  ripugna  ai  procedimenti scientifici,  non  può  più  prestar  fede  a  certi  tradizioni  destituite  d'ogni  solida  base  storica,  come  quella  della  traslazione  della  Santa  Casa.  E  tuttavia  i  vescovi  marchigiani,  in  una  lor  pastorale dell'aprile  1906,  asseverano  che  le  conclusioni negative  dei  dotti  su  quest'argomento  suscitano «  l'indignazione  dell'innamorato  stuolo  «  dei  devoti  della  Vergine  (')  »,  e  l'attuale  pontefice fa  scrivere  a  mons.  Faloci  che  «  approva  al«  tamente  i  suoi  studii  per  la  difesa  d'una  tra«  dizione  venerata  da  tanti  secoli,  cosi  cara  alla  «  Chiesa  ed  alla  pietà  dei  fedeli» .  E  quel  eh 'è  peggio,  un  uomo  d'altissimo  sapere,  esperto  in  ogni  accorgimento  dalla  critica,  autore  d  insigni studi  sul  papato  nel  medioevo,  il  padre  (irisar,  discorrendo  nel  1900  in  Monaco  agli  scienziati cattolici  riuniti  a  congresso,  sostiene  che  sarebbe sconveniente  (ungesiemend)  l'annunciare  dal  pergamo  al  popolo  che  la  Santa  Casa  non  fu  portata  dagli  angeli  e  non  è  quella  di  Nazareth,  perchè  maxima  debetur  puero  reverentia,  e  conviene che  la  verità  s'infiltri  a  poco  a  poco  dalla  cerchia  ristretta  degli  scienziati  nel  pubblico La  Ranaerpia  Xazionale,  vo\.  157,  p.  137.    La  Civiltà  Cattolica. largo  (l).  E  l'illustre  bollandista  De  Smcdt,  pur  riconoscendo  con  tutti  gli  altri  che  la  Chiesa  non  ha  punto  autorità  infallibile  quando  non  si  tratti  dell'interpretazione  di  verità  rivelate,  crede  che  sarebbe  temerario  il  chiedere  all'autorità  ecclesiastica d'affrettarsi  a  proclamare  la  falsità  di  certe  credenze  trasmesse  di  generazione -in  generazione (*).  Di  cotali  asserzioni  e  professioni,  venute  da  ecclesiastici  che  sono  veri  scienziati,  potrei  aggiungerne  agevolmente  un'altra  dozzina.   Ora  io  trovo  che  codesta  acquiescenza  interessata all'errore,  codesta  custodia  conservatrice  gelosa  di  tante  falsità,  che  s'ammantano  col  nome  di  pie  credenze,  non  sono  degne  di  chi  ama  proclamarsi interprete  della  verità  rivelata.  So  pormi  facilmente  nella  condizione  della  Chiesa  rispetto  a  tendenze  per  essa  pericolosissime  come  era  il  modernismo,  e  ne  intendo  la  condanna.  Non  intendo invece,  in  chi  non  muova  da  principi  utilitari e  sia  in  buona  fede,  questo  rispetto  malato  per  tutte  le  mille  incrostazioni  superstiziose  che  il  cattolicesimo  ha  dal  medioevo;  non  intendo  come  non  si  veda  che  lo  sbarazzarsene  risolutamente sarebbe  atto  salutare  alla  stessa  purità  e  santità  della  fede.  Maxima  debettupuero  reveventia,  non  c'è  dubbio:  ma  non  è  reverente  chi  permette  che  il  popolo,  l'eterno  fanciullo,  sia  goffamente  ingannato  in  materia  non  dommatica  e  sulla  quale  è  possibile  veder  chiaro  con  la  ra ili  Hhttor.  Jahrburh,  XX Vili,  3u(j.  l'ij  Anatrila  Boltaiiiliana,  gione.  Ammenoché  il  puer  non  sia  il  (frosse  Lummel  dello  Heine,  il  grosso  babbeo,  destinato,  in  questa  come  in  tante  altre  bisogne,  a  lasciarsi  infinocchiare.  Se  non  che  considerarlo  a  questo  modo  e  profittarne  fu  ed  è  costume  di  tutti  i  settari, i-ossi  e  neri,  ma  non  è  da  cristiano.   Nota  aggiunta.    Ne]  Fanfulla  della  lìouienira,  10  inagpio  1908.  Sul  soggetto  non  usci  di  importante  dopi'  d'allora  se  non  lo  studio  di  A.  Chkscenzi,  Iconografia  lauretana,  nella  Ri-  vista storico-critica  delle  scienze  teologicJie,  IV  (1908i,  pp.  755  sgg.  Il  Crescenzi  riguarda  come  «  confutazione  definiti  va  quella  che  il  Pagliari  oppose  al  Faloci  rispetto  al  sifruitìcato  clel-  l'aiiresco  di  Gubbio,  e  ordinato  meglio  il  materiale  iconogra-  fico, propone  una  nuova  ipotesi  rispetto  all'origine  della  leggenda.  Secondo  Ini,  il  germe  di  quella  leggenda  sarebbe  stato  un  affresco,  forse  dipiuto  bu  di  una  delle  pareti  esterne  del  santuario,  che  fin  da  tempo  antico  si  venerava  presso  l'attuale  Loreto.  La  Vergine  ivi  sarebbesi  veduta  sopra  una  casa  portata  da  angeli,  e  questo  tipo  di  8.  Maria  dpgli  an-  geli avrebbe  prodotto  nella  tradizione  popolare  la  credenza  nella  casa  della  Verdine  miracolosamente  trasportato,  dagli  angeli.  Alle  obiezioni  rivoltagli  dal  padre  Esehhaeh  nell'O*-  servature  romano  il  Crescenzi  rispose  uella  medesima  Hivista  storico-rritica. Perl'  corografia  lauretana  vedasi  pure  E.  Tini  nella  Rivista  abruzzese,  XXIV,  fWO  sgg.  La  produzione  artistica  moderna  più  ragguardevole  sugge-  rita dalla  nostra  leggenda  è  il  vivacissimo  affresco  di  G.  B.  Tiepolo  nel  soffitto  della  Chiesa  degli  Scalzi  in  Venezia.  Si  veda  P.  Molme.n'tx,  G.  B.  Tiepolo.  Milano.  LATERZA BIBLIOTECA  DI  CULTURA  MODERNA. Orano    Psicologia  sociale  King  e  Okev    L'Italia  d'oggi Ciccotti   Psicologia  del  movimento  socialista Amadoki-Virgilj    L'Istituto  famigliare  nelle   Società  primordiali Martin    L'Educazione  del  carattere  (esaurito)   6.  G.  Db  Lorenzo    India  e  Buddhismo  antico  Spinazzola    Le  origini  ed  il  cani iu ino  dell'Arte  »  3,50   8.  H.  i>b  Goijhmont      Fisica  dell'Amore.  Saggio  sii   l'istinto  sessuale Cassola    I  sindacati  industriali.  Cartelli Pool. -   Trust  Marchesini Le  finzioni  dell'anima.  Saggio  ili   Etica  jiedagogka Kkich  Successo  delle  Nazioni Barbagallo    La  line  della  Grecia  mitica  Movati    Attraverso  il  Medio  Evo Spixgarn La  critica  letteraria  nel  Kj na-   scimento Cariale    Sartor  Resnrtus Carabellese    Nord  e  Sud  attraverso  i  secoli Spaventa Da  Socrate  a  Hegel Labriola    Scritti  vari  di  filosofìa  e  politica  a   cura  di  B.  Croce Balfour    Le  basi  della  fede Freycinet    Saggio  sulla  Filosofìa  delle   Scienze Croce    Ciò  che  è  vivo  e  ciò  che  è  morto  della   filosofia  di  Hegel Hearx  Kokoro.  Cenni  ed  echi  dell'intima  vita   giapponese  Nietzsche    Le  origini  della  tragedia Imbriani    Studi  letterari  e  bizzarrie  satiriche Hearn    Spigolature  nei  campi  di  Ituddho.  Sai.eeby    Iju  Preoccupazione  ossia  la  ma-   lattia del  secolo Vossi.er    Positivismo  e  idealismo  nella  scienza   del  linguaggio Arcoleo    Forme  vecchie,  idee  nuove Il  pensiero  dell'Aitate  Galiani Antologia  di  tutti  i   suoi  scrìtti  editi  e  inediti Spaventa    La  filosofia  italiana  nelle  sue  relazioni con  la  filosofia  europea  Sohel    Considerazioni  sulla  violenza Labriola    Socrate.  Nuova  edizione Kohler   Moderni  problemi  del  Diritto  Yosslkr    La  Divina  Commedia  studùtta  netta   sua  genesi  e  interpretata Gextii.k    Il  Modernismo  e  i  rapporti  tra  religione e  filosofia  Festa    Un  galateo  femminile  italumo  del   trecento  Spaventa La  politica  della  Destra Rovck  -  Lo  spirito  della  Filosofia  Moderna. R. Svaghi  critici. Rodolfo Renier. Renier. Keywords: italiano? No, la lingua d’Italia -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Renier” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Rensi: TRASEA – l’implicatura – la scuola di Villafranca di Verona -- filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Villafranca di Verona). Filosofo italiano. Villafranca di Verona, Verona, Veneto. Grice: “Only in Italy does a philosopher get his obituary when still alive!” Studia a Verona, Padova, e Roma. Insegna a Genova. Iscrittosi al partito socialista, si reca a  Milano per assumere la direzione del giornale “La lotta delle classi sociali”, collaborando assiduamente anche alla turatiana Critica Sociale e alla Rivista popolare. A seguito delle misure repressive adottate dal governo, e per sfuggire alla condanna del tribunale militare per aver preso parte ai mossi operai milanesi, stroncati dall'esercito con la strage del generale sabaudo Beccaris, è costretto a cercare rifugio in Svizzera. Frutto dell'esperienza ticinese e la pubblicazione de “Gl’anciens régimes e la democrazia diretta” (Colombi, Roma) in cui difende il principio della democrazia diretta del sistema istituzionale federalista. Collabora con numerosi articoli ai fogli radicali Il Dovere di Bellinzona, la Gazzetta Ticinese e L'Azione di Lugano, nonché alla rivista socialista e pacifista Coenobium. Ri-entra in Italia per stabilirsi a Verona dedicandosi alla filosofia del linguaggio – “o semantica.” A seguito della campagna libica, vi è la rottura col partito socialista, poiché  si è schierato con l'interventismo di Bissolati. Pubblica “Il fondamento filosofico del diritto” (Petremolese, Piacenza). Altri due volume seguono: “Formalismo e a-moralismo giuridico” (Cabianca, Verona) e “La trascendenza: studio sul problema morale” (Bocca, Torino), ove sviluppa un idealismo trascendente. Insegna a Bologna, Ferrara, Firenze, e Messina. L'esperienza della grande guerra manda in crisi (“alla merda”) la sue convinzione idealistica, conducendolo verso lo scetticismo – della ‘scessi’, come la chiama --, la cui prima formulazione sono i “Lineamenti di filosofia della scessi” (Zanichelli, Bologna). Sostene che la guerra distrue la fede ottimistica nell'universalità della ragione, sostituendola con lo spettacolo tragico della sua pluri-versalità, vale a dire dell'irriducibile conflittualità dei diversi punti di vista. Espose nella “Filosofia dell'autorità” (Sandron, Palermo) la traduzione politica di questa concezione. Poiché tutti i punti di vista politici sono sullo stesso piano, quello che anda al potere lo fa con un atto di forza, tacitando tutti gl’altri punti di vista. In questo saggio si è scorta una prima GIUSTIFICAZIONE dell'autoritarismo fascista. Tuttavia, dopo una prima simpatia per il fascismo, ne divenne un fiero avversario quando MUSSOLINI con metodi un po ‘anti-democratici’ comincia a perseguire un disegno dittatoriale ispirandosi a GIULIO CESARE – o duca/duce. R., non Mussolini, sottoscrisse il Manifesto degl’intellettuali o filosofi anti-fascisti di CROCE, pagando questa scelta con la sospensione,  dalla cattedra di filosofia a Genova. Arrestato e rinchiuso in carcere. Solo un abile stratagemma escogitato dall'amico e collega SELLA, che pubblica sul “Corriere della Sera” il necrologio del filosofo, diffondendo così la falsa notizia della sua morte, induce il duce a rimetterlo prontamente in libertà. Il dittatore teme l'ondata di sdegno sollevatasi per i metodi oppressivi del regime. Per la sua coerenza agl’ideali di libertà, sube il definitivo allontanamento dalla cattedra, è, comandato, da vigilato speciale, presso il centro bibliografico dell'ateneo genovese, per la compilazione della biografia ligure. Nonostante il doloroso distacco dalla scuola dove insegna, continua la sua attività filosofica e collabora al quotidiano socialista genovese Il Lavoro, l'unico foglio che accoglie testi di personalità che non hanno fatto atto di sotto-missione al fascismo.  Ricoverato al ospedale Galliera mentre infuria  il bombardamento della flotta inglese su Genova, per essere operato d'urgenza. Tuttavia l'azione militare danneggia alcune sale dell'edificio e i medici doveno rinviare l'intervento, una fatalità che non lascia scampo a R. Ai funerali pochi amici ed ex allievi poterono seguire per breve tratto il carro funebre. La polizia, che vieta questo devoto omaggio, dispersa il funerale, schedando alcuni discepoli. R., anche morto, tura il potere. Sulla tomba nel cimitero di Staglieno un'epigrafe riassume uno stile di vita ed esprime il suo dissenso, la sua resistenza e indipendenza filosofica. ETSI OMNES NON EGO. La sua filosofia si è sviluppata  dopo l'approdo alla scessi in direzione del realismo e del materialismo critico. Un realismo materialistico quindi, che considera derivato, con una certa libertà interpretative, dal criticismo. Arrriva ad ipotizzare che Kant puo pensare alla cosa in sé come a una più nascosta essenza materiale della cosa stessa.  La sua filosofia non e esente da paradossi concettuali e da mutamenti continui che lo hanno portato a cadere in alcune contraddizioni e incoerenze. Ma va anche considerato che al di sopra d’esse a dominare è comunque un forte pessimismo, che non è solo esistenziale, ma anche gnoseologico. Sia il mondo, sia la mente umana sono irrazionali. Ma supponiamo che un tale fatto esteriore ai nostri orologi, destinato al controllo di questi, non esiste, e che i nostri orologi continuassero a discordare. Come potremmo allora, in mancanza di quel fatto esteriore obbiettivo e nel discordare dei singoli nostri orologi, conoscere l’ora che è? Ora questo è appunto il caso delle nostre ragioni. Non c’è l’oggetto esterno ad esse, l’esterno modulo-ragione, su cui controllarle e che le giudichi, ed esse discordano tra di loro. Come conoscere l’ora che è della ragione? Per esempio egli ha sostenuto che, siccome la filosofia ha una storia che si snoda nel tempo, ciò significa che un pensiero vero e unico non può esistere e che perciò nel suo procedere ed evolvere essa nega continuamente sé stessa. Contro l'idealismo di GENTILE, allora imperante, che considera la storia una realizzazione progressiva dello spirito e della ragione, ha una visione negativa della storia, come assurdo caso e vana ripetizione.  C'è storia dunque perché ogni presente, ossia la realtà, è sempre falsa, assurda e cattiva, e perciò si vuol venirne fuori, passare ad altro, quel passare ad altro in cui, unicamente, la storia consiste. C'è storia, insomma, l'umanità corre nella storia, per la medesima ragione per cui corre un uomo che posa i piedi su di un sentiero cosparso di spine o di carboni ardenti. La sua critica della religione si sviluppa poi in un'aperta apologia dell'a-teismo. Sembra quasi di poter cogliere uno dei tratti dell'a-teismo in un saggio “Sopra lo amore di FICINO (si veda). FICINO  propone una visione dell'amore come amore eterno che ritorna come desiderio di ogni grado ontologico di ritornare al bene e al tutto. Propone una nuova interpretazione di questa tipica teologia dell’ACCADEMIA, vedendo nell'amore ipotizzato da Ficino in realtà un preludio a quelle che diventeranno due tra le più influenti correnti filosofiche: l'idealismo e il volontarismo. L'amore come totalità dei diversi, o come volontà nelle vesti di matrice essenziale del tutto, mette da parte il bisogno dell’amore trascendente e sussurra l'ipotesi di un a-teismo, forse professato tra le righe dai più celebri filosofi.  Filosofo profondamente problematico e inquieto, fine però per approdare a un forte pessimismo ontologico ed esistenziale, che lo spinse verso derive spiritualistiche, forse latenti nelle sue riflessioni fin dalle origini nelle “Lettere spirituali”. In quest'opera, come anche nell “La morale come pazzia” (Guanda, Modena), delinea una sorta di mistica dei valori e un'etica concepita come l'azzardo dell'uomo che scommette sul bene in un universo cieco e indifferente. Nella sua “Autobiografia intellettuale” suddivide in tre periodi la sua evoluzione. Un primo misticismo idealistico. Un secondo relativismo scettico materialistico e ateo. Un terzo misticismo spiritualistico come ultimo approdo della sua filosofia.  Il primo è un misticismo di tipo platonico dell’ACCADEMIA, in cui sono presenti anche elementi di San Paolo e di Malebranche. Scrive “L’antinomie dello spirito” (Petremolese, Piacenza); “Sic et non: meta-fisica e poesia” (Romaa, Roma); “La trascendenza: studio sul pensiero morale”. Il secondo periodo nasce dal suo sconcerto di fronte alle violenze della grande guerra e lo porta alla negazione di qualsiasi razionalità della realtà. Pensa infatti che se gl’uomini ricorrono sistematicamente alla violenza per risolvere i loro conflitti, questo significa che la ragione in sé non esiste, e che si tratta dell'illusione dell'uomo di pensare che si puo dare ordine al caos. L'irrazionalità della realtà si trova espressa in “Lineamenti di filosofia della scessi”; “La filosofia dell'autorità”; “La scessi estetica” (Zanichelli, Bologna); “Polemiche anti-dogmatiche” (Zanichelli, Bologna); “Interiora rerum – la filosofia dell’assurdo” (Milano, Unitas); “Realismo” (Milano, Unitas); “Apologia dell'a-teismo” (Formiggini, Roma); e “L’aporie della religione”. Il secondo periodo è altresì caratterizzato da un avvicinamento al positivismo materialistico e dal rifiuto dell'idealismo di CROCE e di GENTILE. In esso va registrata anche una rivisitazione del panteismo di Spinoza, che interpreta alla maniera dei teologi, quindi come a-teistico perché  nega il divino personalizzato del mono-teismo. Pensa anche di realizzareuna sintesi di scessi e realismo perché se solo la scessi è il modo reale e utile di porsi di fronte al mondo, essa è anche l'unica verità possibile. Si tratta anche del momento di punta del nichilismo, perché si afferma che siccome l'unica cosa certa e stabile è la morte, ed essa è il nulla, solo il nulla possede una verità. Prevale una forma di misticismo che non sorge, però, improvvisamente, essendo già chiaramente presente nelle opere maggiormente influenzate dalla scessi. Quest'ultima è, infatti, sempre sollecitata da un'innata, profonda religiosità, sicché non stupisce che il filosofo si apra alla voce del divino, poiché cerca nella negazione assoluta un criterio positivo che consenta la negazione stessa. A questo periodo appartengono: “Critica della morale”; "Critica dell'amore e del lavoro”; “Paradossi di estetica e dialoghi dei morti” (Corbaccio, Milano); “Frammenti di una filosofia del dolore e dell’errore, del male e della morte” (Guanda, Modena); “La filosofia dell'assurdo” e “GORGIA (si veda) -- Autobiografia intellettuale – la mia filosofia – testamento filosofico” (Corbaccio, Milano). Isolato in vita nel mondo filosofico italiano, nel quale domina l'idealismo crociano-gentiliano, trova la comprensione di pochi intellettuali a lui affini. È stato quest'ultimo a creare la formula della scessi credente, che in forme diverse ha dominato i pochi studi sulla sua filosofia. Oggi trova la collocazione nell'ambito del nichilismo. Per alcuni, tale collocazione resta comunque riduttiva rispetto alla vastità della sua filosofia, che andrebbe ancora approfondito. La trascuratezza nei suoi confronti sta nel fatto che la cultura italiana è stata dominata dall'idealismo e dall'esistenzialismo. Legato alla cultura socialista, si caratterizza per una certa dose di eclettismo e per una forte componente umanitaria, distante dal materialismo storico marxiano e riconducibile, più agilmente, nel novero dei filosofi vicini al socialismo utopista. Se durante l'attività politica in Italia aderisce all'idea della lotta delle classi sociali, l'esperienza svizzera lo porta a ri-considerare tale concezione dei rapporti di forza nella storia, ri-dimensionandone la portata. Infatti, l'ant-agonismo tra proletariato e borghesia è circo-scrivibile ad alcune realtà contingenti e non costituirebbe un'invariante delle relazioni socio-politiche. E se, da un lato, il suo realismo politico lo porta ad apprezzare le teorie elitistiche del conservatore MOSCA (si veda), dall'altro, la matrice umanitaria e socialista emerge nell'esaltazione degli istituti della democrazia diretta, caratterizzanti il sistema costituzionale svizzero, considerati come l’unico in grado di far emergere la volontà popolare e di permettere l'emancipazione delle classi lavoratrici. L'elogio ai regimi federalisti appena citati, e il contingente recupero di CATTANEO sono sintomatici di un altro aspetto del suo orizzonte culturale: la feroce critica dell'istituto monarchico -- tanto nell'accezione assolutista, quanto in quella temperata del costituzionalismo borghese ottocentesco -- appannaggio di una vicinanza con il programma del partito repubblicano. Mostra un pessimismo storico verso il risorgimento, la disapprovazione intransingente del ruolo, ritenuto ambiguo e ostile al riscatto sociale del proletariato, della casa regnante dei Savoia e l'appartenenza alla massoneria.  Influenze "Atomi e vuoto e il divino in me", queste parole di Rensi hanno ispirato Lobaccaro nella composizione della canzone Rosa di Turi dei Radiodervish. Altri saggi: “Una Repubblica italiana: il Canton Ticino, "Critica sociale", Milano), “L'immoralismo di Nietzsche” (Carlini, Genova); “Il genio etico ed altri saggi” (Laterza, Bari); “Sulla risarcibilità del danno morale” (Cooperativa,Verona); “L’istinto morale” (Riuniti, Bologna); “L'orma di Protagora” (Treves, Milano); “Principi di politica im-popolare” (Zanichelli, Bologna); “Introduzione alla scessi etica” (Perrella, Napoli); “Teoria e pratica della re-azione politica” (Stampa, Milano); “L'amore e il lavoro nella concezione della scessi” (Unitas, Milano); “Dove va il mondo?, «Inchiesta fra gli scrittori italiani» (Libreria Politica Moderna, Roma); “L'irrazionale, il lavoro, l'amore” (Unitas, Milano); "Terapia dell'a-teismo" (Castelvecchi, Roma);  “Apologia della scessi” (Formiggini, Roma); “Autorità e libertà: le colpe della filosofia” (Politica, Roma); “Il materialismo critico” (Sociale, Milano); “Spinoza” (Formiggini, Roma); “Scheggie: pagine di un diario intimo” (Bibl. Ed., Rieti); “Cicute: dal diario di un filosofo” (Atanòr, Todi); “Impronte: pagine di un diario” (Italia, Genova); “Raffigurazioni: schizzi di filosofi e di dottrine” (Guanda, Modena); “L’a-porie della religione” (Etna, Catania); “Sguardi: pagine di un diario” (Laziale, Roma); “Passato, presente, future” (Cogliati, Milano); “Motivi spirituali dell’ACCADEMIA” (Gilardi, Milano); “Scolii: pagine di un diario” (Montes, Torino); “Vite parallele di filosofi: l’accademia e CICERONE” (Guida, Napoli); “Critica della morale” (Etna, Catania); “Figure di filosofi: ARDIGÒ e GORGIA” (Guida, Napoli); “Poemetti in prosa e in verso” (Ist., Milano); "La morale come stato d'eccezione?" (Castelvecchi, Roma); “TRASEA (si veda) contro la tirannia” (Oglio, Milano) – FASCISMO E STORIA ROMANA – la critica -- ; “Lettere spirituali” (Bocca, Milano); “Sale della vita -- saggi filosofici” (Oglio, Milano); “La religione -- spirito religioso, misticismo e a-teismo” (Sentieri Meridiani, Foggia); “Contro il lavoro -- saggio su L’ATTIVITA PIU ODIATA DALL’UOMO” (Gwynplaine, Camerano);  “Le ragioni dell'irrazionalismo” (Orthotes, Napoli); “Su LEOPARDI” (Bruni, Torino). – “Il filosofo dissidente, Pastorino, Uomini e idee della Massoneria. La Massoneria nella storia d'Italia, Roma, Atanor sub voce (in ordine cronologico), R. Istituto di Studi filosofici, Roma); Untersteiner, Interprete del pensiero antico (Bocca, Milano); La scessi estetica (Zanichelli, Bologna); Cuneo, Conti e C., Cuneo); Un moralista, Italia, Resta (SIAG, Genova); Poggi (Azzoguidi, Bologna); “Il problema generale della giustizia e della giustizia penale” (Vallardi, Milano); Rossi, “L’deale di Giustizia” (Bocca, Milano); Buonaiuti, “La scessi credente” (Partenia, Roma); Mignone, “Leopardi e Pascal” (Corbaccio, Milano); Nonis, La scessi etica, Studium, Roma, Morra; R., Scessi e mistica in R. (Ciranna, Siracusa); Tecchiati, Alla mostra del libro filosofico", La Voce di Calabria, Palmi, Bassanesi, La coscienza tragica” (Filosofia, Torino); Alpino, La collaborazione di Rensi alla rivista "Pietre" (Marzorati, Milano); Liguori, “La scessi giuridica” (Giuffrè, Milano); Noce, "Tra Leopardi e Pascal, ovvero l'auto-critica dell'a-teismo negativo", in Una giornata rensiana, Marzorati, Milano, Sciacca, “Una giornata rensiana” (Marzorati, Milano); Perano, Il problema della verità nella scessi di Rensi” (Lateranense, Roma); Mas, Tra democrazia e anti-democrazia” (Bulzoni, Roma); Santucci, Un irregolare: Tendenze della filosofia italiana nell'età del fascismo, Pompeo, Faracovi, Belforte, Livorno; Rognini, “Dal positivismo al realismo” (Benucci, Perugia); L'inquieto esistere” (EffeEmmeEnne, Genova); Boriani, La questione morale nel positivismo” (Melusina, Roma); Silva, “La ribellione filosofica” (Genova,  Liguori); Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo. La coerenza critica, Il sentiero dei perplessi. Scetticismo, nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a PIRANDELLO (si veda), La Città del Sole, Napoli, Gianinazzi, Intellettuali in bilico, Milano, Ed. Unicopli, Emery, Lo sguardo di Sisifo: R. e la via italiana alla filosofia della crisi: con una nuova  rensiana, Marzorati, Settimo Milanese,  Mancuso, Tra democrazia e fascismo, Aracne, Roma, Serra, Tra dissoluzione del socialismo e formazione dell'alternativa nazionalista” (Angeli, Milano); Meroi (Olschki, Firenze); “L’eloquenza del nichilismo, SEAM, Formello); Pezzino, Scacco alla ragione” (C.U.E.M.C., Catania);  Castelli, Un modello di Repubblica; la politica e la Svizzera (Mondadori, Milano); Greco, politica, autorità, storia, Viaggi di carta, Palermo); P. Serra, “La rivolta contro il reale, Città Aperta,  Enna); A.  Montano, “Ethica ed etiche” (Napoli); G. Barbuto, Nichilismo e stato totalitario: libertà e autorità” (Guida, Napoli); Greco, la filosofia morale, Viaggidicarta, Palermo, Mancuso; Montano, Irrazionalismo e impoliticità Rubbettino, Mannelli, Meroi, filosofia e religione (Storia e letteratura, Roma). Lobagueira,  Documenti, Trento; Mascolo, Il corso infernale della storia. L'influenza di Schopenhauer nella filosofa, in Ciracì, Fazio, Schopenhauer in Italia, Lecce, Pensa Multi Media, Bruni, “Il leopardismo filosofico” (Firenze, Le Lettere); “Filosofo della storia, Firenze, Le Lettere, Bignami E. Buonaiuti, Croce, Ghisleri, Manifesto degli intellettuali antifascisti Ad. Tilgher, Treccani Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. R. il filosofo dimenticato. scomodo nichilista di Volpi l'"irregolare" di Martinetti. Di qui, con evidenza, un elemento evolutivo nel “Trasea, contro la tirannia” (Corbaccio dall’oglio, Milano) -- dove R. introduce elementi di giudizio nei confronti dei regimi statali che pregiano maggiormente le «questioni materiali e spirituali rispetto all'effcienza dell'amministrazione -- quasi a dire che non è possibile accettare l'affermazione tirannica del potere, anche se questo risulta poi operativo ed efficiente, perché essa coarta eccessivamente lo spazio della personalità individuale. Di qui il limite della stessa filosofia dell'autorità, la cui estensione trova nel rispetto della moralità e interiorità un limite; e che tale limite sia valicato si intuisce dalla crescita dell'im-moralità pubblica -- delazione, adulazione etc. ne sono i fenomeni rivelatori. Questa vicenda è descritta con riferimento all'impero d’OTTAVIANO a Nerone inclusi, e, alla data di stesura, intuitivamente e obliquamente  allusiva al fascismo. Cf. Il CICERONE di Rensi. Spero enim homines mtellecturos  quanto sit omnibus odio crudelitas et  quanto amori probitas et clementia.   C. Cassio in Cic., Ad farri. Cicerone era vicino ai sessantanni, quando lo  Stato legale romano, che già precedentemente aveva subito terribili scosse, ma che mediante una  saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo stesso tronco senza frattura o soluzione di continuità, riceveva da GIULIO (si veda) Cesare il colpo di grazia. Non è più necessario rivendicare la grandezza  di CICERONE contro le denigrazioni di Mommsen  e di altri due o tre storici tedeschi. Egli non  e una ràbula e un politico superficiale. Bensì  un uomo di stato dallo sguardo ampio e sicuro,  nel cui animo si radica e vive di vita vigorosissima tutta la grande tradizione politica romana, [Una bella e vivace confutazione di Mommsen si  può leggere nel saggio di Horncffer, Cicero und die  Gegenwarl, contenuto nel volume Das Klassische Idealm Lipsia, Klinkhardt. Horneffer però rivendica  solo il valore di Cicerone come epistolografo e oratore,  non come FILOSOFO.] e pur senza che l’animo servilmente vi soggiacesse,  ma, anzi, insieme, con la chiara coscienza della  nuova direzione che quella tradizione dove prendere, e della misura e forma in cui dove prenderla, per svilupparsi fecondamente e superarsi vivificandosi. Accanto a ciò, mente che s’e impadronita di tutta la più alta cultura dell'epoca: Demostene e Platone insieme pel suo paese, come  riconosce Moellendorf . Accanto  a ciò, una squisitissima sensibilità artistica e una  passione vivacissima per le cose d’arte. Basta vedere quanto “vehementer” com’egli stesso dice,  attende che Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus hoc est voluptatis rneae” (Ad Att.); e  basta aver letto attentamente le sue orazioni e  aver scorto il perfetto senso d’arte con cui sono costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine,  una sensibilità in generale per le cose, le persone, gl’eventi, gl’affetti, così moderna, che in lui, nella sua pronta e multiforme impressionabilità, ritroviamo  interamente noi stessi: e il suo dolore erompente  e pieno di accenti passionali per la morte della  figlia Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri  tempi. Uomo, in una parola; assolutamente completo. Un pensatore di così sottile e sicuro buon gusto  e di cosi grande penetrazione storica (e particolarmente [Il rimprovero che gli si fa di debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri che gl’eroi  di poltrona hanno quasi sempre occasione di rivolgere al grande che si è trovato a dover davvero vivere avvolto da un gigantesco turbine d’avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille volte più grande poteva abbracciarne tutte le fila, come è invece agevole a quelli che non fanno se non pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto venti secoli dopo. Egli non e debole ed incerto nè nella repressione della congiura di CATILINA (si veda), nè  nella lotta per la salvezza della costituzione contro il cesarismo rinvelenito da MARC’ANTONIO (si veda), lotta che  chiuse cosi gloriosamente la sua carriera mortale. Le sue incertezze d’altri momenti sono unicamente  frutto della sua profonda moralità. Perché l’uomo fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo a cataclismi enormi che travolgono gl’individui come fuscelli, quali quelli in cui CICERONE si trova,  mentre non può operare contro coscienza, e per questa, che pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi o tornare a grandeggiare, però avverte anche  i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1 suoi operando secondo coscienza: e la condotta risultante è necessariamente quella che tracciano le  fluttuazioni di tale angoscioso conflitto interno.] circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questongiudizio. Ciceron, selon moi, est un des plus grands  espnts qui aient jamais été -- Pensées diverses -- Ab illis est periculum si peccare, ab hoc si recte  fecero, nec ullum in his malis consilium periculo  vacuimi inveniri potest (Ad Att.). Quando  i frangenti in cui un uomo si trova realmente a  vivere sono davvero quelli così delineati, si può  domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da lui coloro che poi spulciano comodamente gl’eventi della sua vita. Sicuro e  diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che  non sente scrupoli: il cinico ed elegante arrivista  CELIO RUFO, che a CICERONE dava questo consiglio (Ad. Di'.). Suppongo che non ti  sfugga come nelle discordie politiche interne gl’uomini debbano seguire, finché si lotta senz’armi,  la parie più onesta, ma la più forte quando vengono in gioco guerre ed eserciti, e stabilire che  è migliore ciò che è più sicuro. CELIO RUFO, del  resto ottimo filosofo, tanto che per molti umanisti ed altri dotti è ancor oggi il miglior modello  di stile. Ma CICERONE e un uomo di coscienza.  Questa soltanto, non la sua incapacità mentale,  la causa della sua rovina. Egli e andato con POMPEO (si veda), non già sedotto  dalla speranza della vittoria, ma quando la causa  di costui era ormai pressoché perduta e con la  piena nozione di tale condizione di cose, e mentre GIULIO Cesare, MARC’Antonio, Celio, per cercar di trattenerlo  almeno neutrale, gli fanno offerte larghissime:   secuti non spem, sed officium (Ad Div.).  Vi era andato essendo consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di  quelli che sono con lui, ma altresi del fatto che  poco o nulla c’e da sperare da essi circa la  restaurazione della legalità, animati come costoro sono da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.), e   chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno  che dai cesariani non si pensa che a far man  bassa dello Stato --  regnandi contendo est -- Ad  Att. -- dominatio quaesita ab utroque est,  non id actum beata et honesta civitas ut esset. Vi era andato straziato dall’ idea  d una guerra civile e unicamente in obbedienza a  considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza  che ci costringe, scrive ad Attico, a staccarci da Cesare più ancora se vincitore che se vinto, per non essere solidali con ciò che segue  alla sua vittoria, stragi, estorsioni, violenze -- et  turpissimorum honores, et regnum non modo Romano homini, sed ne Persae quidem cuiquam tolerabile. E andato da Pompeo, senza illusioni  e speranze, unicamente per senso del dovere. Sed valuit -- scrive a Cecina -- apud me  plus pudor meus quam timor -- veritus sum deesse  Pompeii saluti, cum ille aliquando non defuisset  meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum, vel  pudore victus, ut in fabulis Amphiaraus, sic ego  prudens ac sciens, ad pestem ante oculos positam  sum profectus -- Ad Div. Egli sa  cioè di andare alla rovina e vi anda in obbedienza a yu principio d'onore (pudor) e di gratitudine,  per quel poco che Pompeo aveva fatto onde richiamarlo dall’esilio.  Pudori tamen malui famaeque cedere quam salutis meae rationem ducere  riconferma a M. Mario. E ritornando  più tardi in una lettera a Torquato, che aveva  anch’egli seguito la parte pompeiana, su quell’episodio a entrambi comune, sente di poter ricordare in cospetto al correligionario politico -- nec  nos victoriae praemiis ductos patriam olim et liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam nobis  officium iustum et pium et debitum reipublicae  nostraeque dìgnitati videbamur sequi, nec cum id  faciebamur tam eramus amentes ut explorata nobis  esset victoria. Ne è questa un’opportunistica configurazione postuma della sua condotta di quel tempo. Basta percorrere la sua corrispondenza con il cosidetto “ATTICO” -- suo amico intimo e suo  editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il  piede in più staffe e nella difficile arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti -- per constatare che tale veramente, cioè il senso del  dovere, e il nobile sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat, cruciavitque  adhuc. Cautior certe est mansio. Honestior existimatur traiectio (Ad Att). E quando  Pompeo è pressoché spacciato e stretto da tutte  le parti, e Cicerone è ritornato in Italia, egli si  cruccia proprio di questo suo atto da cui gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva quindi essere reputato abile, e si rammarica di non essere  stato con Pompeo sino alla fine -- numquam  enim illus victoriae socius esse volui. Calamitatis  mallem fuisse (Ad Att.). Il principio,  insomma, che in un’altra posteriore circostanza,  piena di pericoli mortali, nella sua lotta contro Antonio, egli enuncia a Planco così. Mihi maximae curae est, non de mea quidem vita, cui satisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me patria sollicitat -- ( Ad Dio.), questo è il principio che domina costantemente nell’animo di Cicerone, insieme con l’insormontabile ripugnanza,  o meglio con 1’impossibilità, di venir meno al  rispetto verso se stesso. Allorché, essendo Cesare  incontrastato padrone, l’accomodante Attico gli  dà il consiglio di obbedire ai vincitori. Non  mihi quidem, egli risponde, cui sunt multa potiora (Ad Att.). Certo, un uomo mosso prevalentemente da sentimenti di tale natura, nelle tragiche vicende pubbliche da cui si trova avvolto Cicerone, va al  fondo. Resta a vedere se ciò sia un indice di  inferiorità o se non lo sia piuttosto quel successo  che è raggiunto -- e la cosa è facile --  in grazia dell’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni  freno etico, dell insensibilità ad ogni scrupolo di coscienza, della nessuna riluttanza a violare cinicamente ogni principio di diritto e di morale. Nè r uomo che comincia la sua carriera  attaccando coraggiosamente nell’orazione prò Roselo  un favorito potentissimo di SILLA, e un pavido.  Dimostra ancora di non esserlo nel suo consolato. L’apparenza  di timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò  che egli, come dice di sè, si preoccupa grandemente dei pericoli nella rappresentazione e raffigurazione mentale anticipata di essi, non già che  titubasse poi ad affrontarli nella realtà. Quintiliano  narra. Parum fortis videtur quisbusdam. Quibus  optime respondit ipse, non se timidum in suscipiendis, sed in providendis periculis. E’ press’a poco ciò che egli scrive a Toranio. Mi accusano di essere timido -- eram piane,  timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt. Mi diceno timido -- quia dicebamus ea futura,  quae facta sunt (Ad Dio.). Nè è giusto  accusarlo di non aver saputo intuire con chiarezza  le situazioni e di essersi per questa deficienza di  sguardo gettato a corpo perduto a combattere per  soluzioni che la realtà escludeva. È questa la solita iniqua condanna che ì posteri, aggiungendosi  ai contemporanei nell’incensare i vincitori e nel  dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro  colui che difende la causa rimasta storicamente soccombente. Quasiché il fatto che una causa sia rimasta storicamente sconfitta dimostri anche che e giusto e logico che essa lo fosse. Quasiché il mero  fatto, il fatto del successo, sia anche verdetto di  giustizia e logicità, quasiché assai spesso la causa  storicamente prostrata non sia quella che avrebbe  dovuto vincere. Che la cosa stia così nel caso di  Cicerone, lo dimostra il fatto che la causa da lui combattuta e che vinse costituì LA ROVINA DELLA VITA DI ROMA. Basta per accertarsene constatare che  NELLA STESSA NOSTRA MEMORIA DI POSTERI LA VITA DI ROMA RESTA CHIARAMENTE PRESENTE E ATTIRA LA NOSTRA APPASIONATA ATTENZIONE APPUNTO SINO AD OTTAVIANO. Ci rimangono ancora come appendice già torbida  i primi imperatori. Poi tutto ci si confonde dinanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di  continui sussulti sanguigni, in cui -- se non siamo storici di professione -- non distinguiamo piu ne nomi,  nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo, NE C’IMPORTA RICORDARE, più nulla. Si rammenti come, per es., scorge Roma Massimo d’Azeglio. Fra tutti gli stati dell’antichità è Roma  quello che ho in maggior stima, FINO ALL’EPOCA DEI GRACCHI, intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi durante i quali domina la legge -- durante i quali le più bollenti passioni agitate  dai più vitali interessi, non cercano altr armi nè altre  vittorie che un voto ne’ Comizi. E poco prima. Se  è giusto e vero il principio fondamentale delle società  moderne, essere la legalità di un governo dipendente dalla volontà del popolo che vi è governato, vorrei sapere se l’umanità consultata avrebbe ne’ tempi dei Romani votato Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera per sostenere la causa che soccombette, erano inadeguati. Tutto, invece, egli aveva provvisto; tutto  quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva  cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la  fedeltà dei maggiori personaggi militari e politici; aveva costituito e messo in campo eserciti  poderosi; con la sua parola tenne altissimo il  tono morale del popolo all’ interno. Se la causa  non vinse, lo si deve, non a un fato storico, a  condizioni incoercibili insite nella realtà e sfuggite  allo sguardo di Cicerone, o al logos immanente  nella storia. Ma unicamente a due o tre puri casi,  che potevano accadere diversamente e in tal modo  rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo SERBATI che uno de’ mezzi, co’ quali l’uomo  può sciogliere la propria mente da molti pregiudizi e da’ legami delle consuetudini sensibili, si è  l’esercitarsi a considerare le cose non solo come  sono, ma come potrebbero essere. Se vogliamo applicare questo precetto al periodo di  storia in discorso -- come Renouvier in Uchwnie  l’ha applicato in modo grandemente interessante a  tutta la storia occidentale dagli Antonini in poi -- scorgeremo agevolmente che due o tre futili casi, per l'impero (Miei Ricordi, Barbera, Antologia Pedagogica cur. di Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali fossero avvenuti diversamente, sarebbero  bastati a cambiare del tutto la faccia delle cose;  se, p. e., LEPIDO non avesse tradito, o se un giavellotto l’avesse ucciso quando egli si mosse per  portar soccorso a MARC’ANTONIO ormai disfatto, se PLANCO  non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe bastato per far di Cicerone il capo dello Stato romano, e perchè egli occupasse nella politica di Roma d’allora, e nella storia, il posto d’OTTAVIANO. E quanto lo stato romano e la posterità sarebbero stati più fortunati se il potere fosse venuto  in mano ad un uomo di rettitudine profonda e  di vivo senso del diritto e del dovere, come Cicerone, anziché ad un uomo la cui bassezza d’animo è provata luminosamente dal fatto che, avendo cominciato ancora puer o adolescens, come sempre  Cicerone lo chiama -- sed est piane puer n \Ad  Att.-- ad essere qualcosa solo per l’appoggio datogli appunto da Cicerone e con lo strisciarsi umilmente ai suoi piedi -- a me postulat  primum ut clam conloquatur mecum Capuae vel  non longe a Capua... ducem se profitetur nec nos  sibi putat deesse oportere -- binae uno die mihi  litterae ab Octaviano -- deinde ab Octaviano cotidie litterae, ut negotium susciperem, Capuani  venirem, iterum rem publicam servarem » ; mihi  totus deditus. Nobiscum hinc perhonorifice   et amice Octavius — Ad Att., non si trattenne dal sacrificare ad  una propria maggiore ascesa la vita di colui che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo egli,  si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo  per mezzo dei suoi generali e specialmente di Agrippa, e non aveva il coraggio di presentarsi  nel campo se non dopo che Agrippa gli annunzia la vittoria (Svet. Aug.). Fondamentalmente istrione e poseur come risulta dal fatto,  narrato da Svetonio (Aug.), che non comunica mai nemmeno con sua moglie senza scrivere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché  dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che  egli ama stilizzare a particolare espressività e luminosità i suoi occhi -- quibus etiam existimari volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque. Octave lui, a Sesto Pompeo, fit deux guerres  laborieuses ; et après bien de mauvais succès il le vainquit por i’habilité d’Agrippa. Je crois qu’Octave est le  seul de tous les capitaines romains qui ait gagné l’affection  des soldals en leuv donnant sans cesse des marques d’une  làcheté naturelle „ (Montesquieu, Grandeur et Dócadence des Romains. Tanto GIULIO Cesare quanto OTTAVIANO hanno l’abitudine di citare dei versi delle Fenicie di  Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva scelto  è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare ama  citare i versi -- “se c' è un caso in cui sia bello VIOLARE IL DIRITTO, è quando lo si VIOLA – cf. H. P. GRICE – FLOUT, VIOLATE --  per conseguire la  tirannide -- citazione signifìcatiice dello spirito violento e  illegale. OTTAVIANO ama citare il versoL è meglio  per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che essere ardito (ihf aouc) -- citazione significatrice della vigliaccheria -- cfr. Cicer. De Off. e Svetonio  Aug.] si qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis  vultum summiteret e infine in modo palmare dalle  parole -- ecquid iis videretur mimum vitae commode transigisse -- e dalla citazione greca richiedente l’applauso per la commedia ben riuscita,  con cu; egli chiuse la sua esistenza. Uomo  che desta particolare antipatia precisamente in  grazia del suo proposito di moralizzare la vita  romana; perchè niente è più ripugnante del dissoluto che si da il compito di costringere gli altri  alla virtù e posa a restauratore della morale pubblica; e OTTAVIANO cambia tre mogli prendendo l’ultima al manto sotto ì suoi stessi occhi,  conducendola con sé in un altra stanza donde e  ritornata spettinata e con gli orecchi rossi, e poi  introducendola in casa propria INCINTA D’UN ALTRO; aveva commesso le oscenità che narra  Svetonio, irripetibili, tranne forse una -- adultena quidem exercuisse ne amici quidem  negant -- e dopo ciò faceva udire le parole ammonitrici di vita austera e imprende a ricondurre  i costumi alla prisca severità. La scandalosa condotta di sua figlia e di sua nipote, che condusse  -- A cool head, an unfeeling heart, and a cowardly  disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to assume  thè maske of hypocrisy, which he never afterwards laid  aside. With thè saine hand, and proba’bly with thè same  temper, he signed thè proscription of CICERONE and thè  pardon of Cinna. His virtues, and even his vices, are  artifìcial -- Gibbon, Decime and Fall] all’esilio di entrambe, e di OVIDIO (si veda) complice o pronubo, dimostra che nella sua famiglia stessa si ha il senso netto del come si puo prendere sul serio una riforma morale che pretendeva attuare un individuo di siffatta ìndole e di siffatti  precedenti. Non ostante che all’epoca del trionfo di Cesare si avvicinasse alla sessantina, Cicerone non era  uomo che non sa comprendere i tempi. Li comprende benissimo, più profondamente e sapientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente  e in pieno vigore. Subito dopo quell epoca egli  poteva scrivere quei suoi saggi di FILOSOFIA che suscitano l’ammirazione dei contemporanei e sono letti con entusiasmo o rispetto da tutte [Coglie veramente nel segno Aurelio Vittore: Cum esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii severissimus ultor,  more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi veliementer indulgent, acres sunt. E s. può dire d.  lui quel che Boissier dice di Domiziano: 1 ar malheur,  ce prince si sevère pour les defauts des autres, etait lui-mème très vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses contre  l’adultere et il vivait publiquement avec sa mèce, la bile  de Titus, qu’il avait enlevée à son mari et dont il causa  la mort en essayant de la taire avorter. Ce contraste etait  choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne (Tacite).] le generazioni successive. Poco più oltre egli  svolgeva anzi la sua azione politica più abile, più decisa, piu energica e più importante, e, insieme,  con le filippiche raggiungeva un’altezza da lui  ancora non tocca nella forma d’arte che gli era  propria -- “divina„ chiama giustamente un giudice certo non facile, Giovenale, la seconda  di esse. La sua idea di portare alla luce del  mondo politico, sotto la sua direzione, il pronipote e figlio adottivo di Cesare, ancora ragazzo  -- ha  appena diciannove anni --, accordandogli anche onori che a molti pareno eccessivi, e di  riuscire così giovandosi del nome di Ottavio a far  rientrare il ribollente partito cesariano nell’ordine costituzionale e a dominare in tal modo una situazione difficilissima, e una idea geniale, abilissima, da politico grandemente avveduto, l’unica [Sull immensa influenza esercitata da Cicerone sui   a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi ‘'furiente  r “, Z r fe,v C f er, 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte  I d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella  sua Vita di Cicerone, Heroes of thè Nations Series, dice giustamente che se si dovesse decidere quale degli  filosofi romani maggiormente influì sul mondo moderno, la decisione sarebbe in favore di Cicerone —  hrasmo, scrivendo ad un amico, dice che, se da giovane   aonr enVa rf matUra anda sempre più  apprezzando Cicerone. Ld è proprio giusto il noto giud. Z .o di Quintiliano. Ille se profecisse sciat, (e s. può  aggiungere: tanto gusto letterario, quanto in retti Jne  etico-politica) cui Cicero valde placebit. G. Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi] idea che in quel terribile cataclisma poteva dar  buoni frutti. Non è sua colpa se 1 idea non riuscì,  e proprio sopratulto per la perfidia senza scrupoli del futuro Augusto. Per quanto avveduto e grandemente intelligente, un uomo di Stato fondamentalmente onesto come Cicerone, non fa entrare  nel suo giuoco la supposizione di una perfidia  enorme, di gran lunga travalicante la media nequizia umana, come fu quella di Augusto; nè si  può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare, e se essa gli si rizza impensatamente dinanzi mandando a picco i suoi piani più accortamente e  sapientemente elaborati. Cicerone  assume risolutamente, nel momento più pieno di  vicissitudini e pericoli, la parte di leader del Senato e del popolo romano, come egli stesso scrive  a Cornificio -- me principem Senatui populoque  romano professus sum (Ad Dio.). Spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gl’eserciti  quanto rispetto alla situazione interna, per dirigere   [Giustamente Platone osserva (Rep.) che  le persone oneste sono facili ad essere ingannate dai  malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei sentimenti  di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; 7 iapaos'y|J.axa  óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio, abilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingannato quando tratta coi buoni, perchè, giudicando da se,  e ignorando le indoli onesti, vede dappertutto inganni  (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la lotta contro Antonio; getta di nuovo, attesta  scrivendo ancora a Cornificio, 1 fondamenti dello  Stato con la prima Filippica: fundamenta ieci  reipublicae (Ad D/v.); e al giocondo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto  faccia e come ritenga che se dovesse in tale sua  azione perdere la vita l’avrebbe spesa bene ; “ sic  tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini  aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi  liberique sint : nullum locum praetermitto monendi, agendi, providendi : hoc demque animo  sum, ut si in hac cura atque admistratione vita  mihi ponenda sit, praeclare actum mecum putem -- Ad Div. In questi primi mesi  del 43, Cicerone fu veramente il princeps, ch’egli idealizza nel De republica: consigliere,  esortatore, ispiratore del Senato, dei consoli, dei  governatori delle provincie. Non è questa  la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali siano  illanguidite. Ma, sopratutto, a prova della sua esatta comprensione dei tempi, basta ricordare come la riforma che occorreva allo Stato romano, pessimamente attuata, secondo attestò la susseguente vita  Amateli, Cicerone, (Bari, Laterza). Jamais Ciceron n a joue. un plus grande róle politique  qu à ce moment; jamais il n’a mieux mérité ce nom d’hom-  me d Etat que ces ennemis lui refusent (Boissier, Cicéron et ses amis -- dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata  prospettata per primo da Cicerone nel De Repubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più  fermo principio d’autorità sotto forma di un rector  rerumpublicarum d’un moderator reipublicae d’un princeps civitatis (De Ti,ep.). Senonchè Cicerone, con molto maggior senso della  necessaria continuità di sviluppo dello Stato romano  e con molta maggior disinteressata cura di esso,  non intendeva che questa riforma dovesse rivolgersi a distruzione della costituzione esistente, bensì  che dovesse ingranarsi in essa e formarne un naturale complemento e uno svolgimento spontaneo  e logico ; “ homines non tarai commutandarum  quam evertandarum rerum cupidos, egli giudica  i cesariani -- De Off., mentre per lui la  costituzione romana, come esattamente nota lo  Zielinski, era “ capace di ogni progresso in quanto  questo conducesse all’accettazione e allo sviluppo  di idee feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La differenza tra il modo con cui egli  concepiva la riforma e il modo con cui la attuarono Cesare ed Augusto è si può dire scolpito  dalle seguenti sue due proposizioni : “ me nun-  quam voluisse plus quemquam posse quam universam rempublicam (jdd Div.); ego  sum, qui nullius vim plus valere volui, quam honestum otium. Ovvero: la differenza tra la concezione ciceroniana del princeps  e la pratica applicazione fattane da Cesare è resa  nel bell’ emistichio con cui Lucano descrive il modo di operare di quest’ultimo -- gaudens viam fecisse ruina. Basta riflettere a tutto ciò per scorgere tosto che non solo la mente di CICERONE era nel suo pieno vigore, ma altresì la sua comprensione dei tempi (se per questa s’intende, non già furbesca  valutazione personalmente opportunistica delle circostanze, ma avvertimento delle necessità profonde  che ad un dato momento si presentano nella vita  sociale e politica d’un paese) era perfetta. Il  sovversivismo di Cesare è provato dal dolore  che per la sua morte manifestarono sopratutto gl’Ebrei  (qui etiam noctibus continuis bustum frequentabant -- Svet, Caes., cioè precisamente coloro che nel seno nello stato romano, da essi violentemente odiato, costituivano la catapulta diretta a farlo saltare, e che, sotto la  veste del Cristianesimo, a farlo saltare effettivamente riuscirono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero romano si deve agl’ebrei, perchè sono i loro lunghi tetri lamenti  intorno al cadavere di GIULIO Cesare che suscitarono nella plebaglia quella sommossa per e attorno al rogo del dittatore, la quale fa prender nuova forza al cesarismo. É  noto come per la commozione popolare che lo straziante  rito ebreo provoca colle sue lugubri lamentazioni orientali,  se ne ingenerò quel tumulto che dove mutare la faccia  de! mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con  Bruto e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio : sicché ne  vennero le lunghe guerre civili e l’Imperio di Augusto  (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano, Mente possente, senso politico sicuro, comprensione dei tempi piena. Non si può dunque attribuire a deficienze intellettuali il modo con cui Cicerone valutò Cesare e il movimento da costui  capeggiato. Egli non vide certamente Cesare come  la sua figura si è plasmata nella storia, che corona  con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha trovato  in ogni presente la consacrazione del bruto successo di (atto. Lo vide come glielo presentava la  realtà immediata. Lo vide come lo vide Catullo: Pulcre convenit improbis cinaedis,   Mainurrae pathicoque Caesarique. E questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare  e quel Mamurra (da Catullo soprannominato Mentula) il suo generale del genio. A permettere al quale di mangiare  (il verbo si usava anche in  latino con questo preciso significato) milioni su  milioni, il commovimento politico aveva principalmente servito. Doveva essere una cosa nota a  tutti, se Catullo la mette correntemente in versi: Cinaede Romule, haec videbis et feres?   Es inipudicus et vorax et aleo. Eone nomine, imperator unice, Fuisti in ultima occidentis insula. Ut ista vostra diffutata Mentula  Ducenties comesset aut trecenties? Cinaede Romule Romolo debosciato, impudico, vorace e giuocatore. Cosi Catullo vede Cesare. E press’a poco così lo vede Cicerone. Egli non scorge Cesare, quale il fanatismo interessato dei seguaci e poi gli storici l’hanno costruito: gli storici, i quali (in generale) non fanno  mai altro se non aggiungere, per supino servilismo postumo, la loro adulatrice consacrazione al successo di fatto e di solito non osano mai, per la  paura di passar per singolari sviscerare il  clamoroso successo di fatto ottenuto da un grande nella età in cui visse, mettendone coraggiosamente  in luce le vere molle, spessissimo casuali, o basse,  o vili, ma sempre invece per essi è grande colui che nella sua epoca le circostanze, o la  perfidia, o i misfatti hanno portato in alto. Si vous avez une vue nouvelle, une idée origi nale, si vous présentez !es hommes et les choses sous  un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur. Et le lecteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais  dans une histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si  vous essayez de l’instruire, vous ne ferez que l’humilier  et le fàcher. Ne tentez pas de l’éclairer, il criera que  vous insultez à ses croyances... Un historien originai est  1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt universels.  Questo è l’abituale comportarsi degli storici, secondo la  satira, aggiustatissima, che ne schizza A. France, L’ile  des Pingouins. Ci sarebbe solo da aggiungere che spesso il servilismo degli storici verso i pesonaggi della storia che scrivono serve al loro servilismo  verso i personaggi della storia che vivono. Cicerone vede Cesare muoversi davanti ai suoi occhi,  nella vita vera, non nella luce abbagliante del  mito. Esso gli appare screditato, corrotto, senza  senso di morale nè privata nè pubblica, uomo la  cui vita, i cui costumi danno la certezza che si  condurrà male : e sopratutto la danno la gente che  lo circonda. O Dii, qui comitatus ! in qua erat  area scelerum! scrive ad Attico, dopo  uno dei suoi abboccamenti con lui. Egli sa che  Cesare aveva cominciato a costruirsi la sua potenza  accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze  i manigoldi audaci e bisognosi. Egli scorge. Nell' interessantissima antologia di pagine storiche  di Chateaubriand, testé pubblicata dall’editore Tallandier  sotto il titolo Scénes et portrails historiques, si legge. Tout personnage qui doit vivre ne va point  aux générations futures tei qu’ il était en réalité: a quelque  distance de lui, son epopèe commence : on idéalise ce  personnage, on le transfigure ; on lui attribue une puissance,  des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange les  hasards de sa vie, on les violente, on les coordonne à  un système, Les biographes répètent ces mensonges ; les  peintres fixent sur la toile ces inventions et la posterité adopte le fantóme. Bien fou qui croit à l’histoire. L’histoire est une  pure tromperie. E Montesquieu, dal canto suo aveva già  osservato: “ Les places que la posterité donne sont sujettes,  corame les autres, aux caprices de la fortune. Grandeur  et décadence des Romains. Habebat hoc omnino Caesar : quem piane per-  ditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam hominem audacemque cognorat, hunc in familiaritatem libentissime recipiebat (Fi/.radunata attorno a Cesare tutta la gente equivoca  e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dannate, vexu (<x (Ad Att.), omnes damnatos, omnes ignominia affectos, omnes damnatione ignominiaque dignos, omnem fere inventutem, omnem  illam urbanam et perditam plebem (Ad Att.), tutti i giovani circa i quali pensava che maximas republicas ab adolescentibus labefactas,, (De  Seti.), tutti coloro ch’egli chiamava perdita  iuventus (Ad Att.) e poc’anzi barbatuli iuvenes, grex Catilinae), feccia  di Romolo, i precursori di quella che  poi Giovenale denominerà turba Remi. Cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare  è raggruppato tutto il canagliume della penisola,  cave autem putes quemquam hominem in Italia  turpem esse, qui hinc absit; osservazione identica a quella che è costretto a fare il  cesariano Sallustio: occupandae reipublicae in  spem adducti homines, quibus omnia probo ac luxuria polluta erant, concorrere in castra tua (De Rep. Ord.). Come Catullo, Cicerone vede con  disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al lusso  ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo  (altro comandante del genio di Cesare e sua longa  manus in Roma) si costruisce dei palazzi, “quae  coenae? quae deliciae?... at Balbus aedificat (Ad  Att), e Antonio scorrazza l’Italia confi) Val la pena di riportare tutto il passo perchè esso ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua amante  in un’altra sua moglie, “ septem praeterea coniun-  ctae lecticae amicarum sunt an amicorum? l^/JJ  Att.). Tutto ciò desta in Cicerone  una nausea invincibile: “ nosti enim non modo stomachi mei, sed etiam oculorum, in hominum insocontiene un’osservazione di indole psicologica e morale  eternamente vera e colta da Cicerone dalla vita stessa  che lo circonda. At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij  péÀst; Verum si quaeris, homini non recta sed vuluptaria quaerenti nonne [kfifwTai ? „ Cioè: “ Balbo pensa a  costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E in  verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la coscienza, ma solo il suo interesse, fa bene a far così : può  dire ho vissuto   La ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non  solo nelle lettere di Cicerone, ma, più ancora nelle Filippiche (v. specialmente FU. He.). Pagine che  stanno a dimostrare una volta di più come, in una situazione politica tirannica ed eslege, anche persone notoriamente  turpi possano salire ai più alti gradi, perchè il controllo  dell opinione pubblica e la possibilità di censure sono soppresse dalla forza e la gente costretta al silenzio. Non  ostante, in un primo tempo Cicerone, usando l’avveduta  prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di persuadere  quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita della  legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di citare le seguenti righe. Sin consuetudinem meam, quam in republicam semper habui, tenuero, id est, si libere, quae sentiam, de republica dixero; primum deprecor ne irascatur,  deinde, si haec non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi lentium indignitate, fastidium (Ad Div.). Quanto a Cesare, egli è per Cicerone hominem amentem et miserum che non ha mai conosciuta  neppur l’ombra dell'onestà, che considera la tirannide come il maggior dono degli Dei, (Ad Alt.), capace di ogni scelleraggine,  omnia taeterrime facturum, uomo del quale vita, mores, ante facta, ratio suscepti negotii, sodi fanno ritenere che non potrà comportarsi se  non perdite. La sua condotta sarà anche resa peggiore di quel che per  l’indole di lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella  guerra civile deve pur contro sua volontà operare ad  arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a vincere. Omnia, scrive a Marcello, sunt misera in bellis  civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria :  quae etiamsi ad meliores venit, tamen eos fero- [La stessa ripulsione, e per la stessa ragione, Filippo destava in Demostene. È circondato (egli dice) da  ladri, da adulatori, da gente che si abbandona a immoralità che non oso neanche ripetere. E Demostene si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe caduto. Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana gl’uomini di valore, che gli danno ombra ; gli uomini assennati e morigerati, che sono rivoltati dalle sue immoralità  (àxpaafav xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs)   sono da lui cacciati e ridotti a nulla, TrapEwaHa'. xal sv  Ò'jSevò; s!va'. |ispei. Ma pur troppo i fatti  hanno sempre provato che è vana speranza contare che queste ragioni facciano cadere un uomo dal potere. L’esigenza  morale non trova sanzione nella storia e nella politica. ciores impotentioresque (più sfrenati) reddit; ut  etiamsi natura tales non sint, necessitate esse cogantur ; multa enim victori eorum arbitrio per quos  vicit, etiam invito, facienda sunt„ (Ad Div.). E su questo stesso pensiero insiste anche con Cor-  nificio (Ad Div. ). Bellorum enim civilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium fiant,  quae velit victor, sed etiam, ut iis mos gerendus  sit, quibus adiutoribus sit parta victoria La situazione scaturita dalla vittoria di Cesare  appare a Cicerone un mostruoso sfacelo dell’eticità  pubblica. Tutto allora in Roma precipita a  rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio  d’ogni cosa umana e divina, poneva i fondamenti  sanguinari la tirannia degli imperatori Cicerone vede come non appena Cesare, annientati i  suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica,  ha messo violentemente le mani sullo Stato, e in Il modo genuinamente italiano di considerare Cesare  è quello che un veramente grande italiano, Carducci,  ci presenta nei due sonetti II Cesarismo, che cominciano  con le parole, estremamente significanti e pregnanti,  Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto  Svolge il diritto, e dal misfatto il fatto.   Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente letti,  con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna. Barzellotti, Delle Dottrine Filosofiche di CICERONE.  seguito a ciò “ omnia delata ad unum sunt (jdd  Div.) al punto che Cesare redige in casa  sua, a suo libito, quelli che devono apparire come  senatusconsulta (Ad Div.), si formi un’atmosfera di falsità, di servilismo, di adulazione universale, tanto da parte di privati quanto di enti  pubblici, cosicché non si distingue più il sentimento  sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur,  quibus voluntas a simulatione distingui posset «  (Ad Att.); quell’adulazione e quel  servilismo, che, diventati poi a poco a poco oramai di rito, Lucano, più tardi sotto NERONE, stigmatizza con magnifici versi, facendone risalire  1' inizio appunto al dominio di Cesare. Cette abjection de la patrie releva I’ àme de  Cicéron par l’indignation et par la honte. La victoire de  Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès,  qui est la raison du vulgaire, est le scandale des grandes  àmes (Lamartine, Cicéron, Calmati-Levy). E’ un saggio, poco conosciuto, in cui Lamartine,  in forma simpaticamente piana e scevra da ogni erudizione,  presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai elevati,  la figura di Cicerone. Ne vogliamo, a conferma di precedenti osservazioni, estrarre ancora due passi. Les ambitieux, les factieux, les séditieux, les corrupteurs et les corrompus, la jeunesse, la populace et la soldatesque, les  barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient avec Cesar.  Coriolan n’avait rien fait de plus  monstrueux et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a  déifié Cesar. Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui  prennent le succès pour juge de la moralité des événements. Namque omnes voces, per quas iam tempore tanto  Mentimur dominis, haec primum repperit aetas. Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset,  Ausonias voluit gladiis miscere secures, Addidit et fasces aquilis et nomen inane  Imperii rapiens signavit tempore digna  Maestà nota. Cicerone vede come, appena risultò che Cesare  era saldamente stabilito al potere, non solo i sovversivi ma anche gl’ottimati le vecchie figure  Si avverte che la parola  imperium qui non significa il nostro impero ma officio pubblico legale Lucano vuol dire che Cesare copri l’usurpazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un officio  pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col nome di  potestà tribunicia che ( usurpazione si effettuò. Nel libro,  ricco di dottrina e di acume, di G. Niccolint, Il Tribunato della Plebe (Hoepli) si mostra che 1’ impero  si costitui deformando e nell’ istesso tempo assorbendo la  potestà tribunicia. « L'impero non era, in ultima analisi,  che il trionfo della democrazia [più esatto sarebbe dire:  demagogia], e se chi aveva fondato il suo potere sul partito  democratico, non poteva abolire la pericolosa magistratura,  non gli restava che appropiarsela nella sua sostanza, se  non nella forma esteriore... Cosi la temuta magistratura,  nata per difendere la libertà del popolo, che conteneva  perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in tirannide costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca. 11 contegno adulatorio e vilmente opportunistico comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico. C’est assurément ce qui nous répugne le plus dans sa  vie ; il a mis un empressement fàcheux à s’accomoder au  regime nouveau (Boissier, Cicéron et ses amis).  politiche, abili a restar sempre a galla,huic se  dent, se daturi sint sia pure perchè terrorizzati,  sebbene essi ora dicano che lo erano quando ossequiavano Pompeo (Ad Alt); come essi se venditant a lui, mentre i'municipi fanno di  lm vero Deum, e il grosso del  pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa  che alla propria tranquillità (otium), non rifiuta,  come non ha mai rifiutato, nemmeno la tirannide  dummodo otiosi essent, non si  occupa che dei campi, delle ville, dei quattrini,  nihil prorsus aliud curant nisi agros, nisi villulas,  msi nummolos suos; atonia che  si aggravo ancora più tardi quando diventa po  tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est  populum romanum manus suas non in defendenda   YA/I own, plaudendo consumere (Ad Att.  AV| . lU- Ma questa prosternazione e adula- [Anche qui si riscontra un parallelo nella potente  e \ ibrante invettiva di Demostene per l’inerzia dei Greci  del suo tempo. Non e senza ragione (egli dice) che i  Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora invece  hanno a cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi   iTera^ C ° Sa 'vi  Persian ° e fece la Grecia   def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare : ed era la fermezza  (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e comprare   uiterr di bene ** Gr “ j .' 1 era un tempo non avere   fil ventre el’“7 qUa 'Ì la misura della felicità  e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole   V ' l0X ° tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla  zione universale, questo continuo panegirismo ormai diventato di prammatica, non è, per Cicerone,  se non un’universale falsificazione di coscienza,  quella stessa per cui più tardi egli osservava che  i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano dato  a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della  patria il titolo di parens patriae: potest cuiquam  esse utile faedissimum et taeterrimum parricidium  patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab oppressi civibus parens nominaretur?,, {De Ojf.) Questa situazione che fa fremere d’orrore Cicerone, nella quale egli trova che non c e   salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa vostra  viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate nella  malattia o nella morte di Filippo : anche se muore, vi  creerete tosto voi stessi un altro Filippo, "ay^Éu; upet;  gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil.). In questo stesso luogo, volendo Cicerone dimostrare  che l'utile e il giusto non possono distinguersi, scrive fra  l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di Cesare di voler  dominare tirannicamente la patria] si honestam quis esse  dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum,  earumque oppressionem taetram et detestabilem glonosam  putat ». Come, aggiunge, può essere ciò utile all usurpatore?  Anche i re legittimi hanno avversari. Quanto plures ei  regi putas, qui exercitu popuh romani populum ipsum  romanum oppressisset? Ricco com’era d’un pathos etico affine a quello di  Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere e dai suoi  scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo  tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità  in noi, e che è per conseguenza un dovere verso noi  piu posto“ non modo pudori, probitati, virtuti, rec-  tis studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati ac   Dh ), gli appare sopraia!,„  basata sulla menzogna e sul falso, perchè sotto l’adesione, l’adulazione, l’apoteosi che l’atmosfera  ufficiale orma, impone, circola larghissimamente  quel malcontento e quell’esecrazione generale verso  ì distruttori dello Stato legale, che egli constatava  già precedentemente quando essi avevano iniziata  tale loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium  omnium hominum in eos qui tenent omnia ; mutationis tamen spes nulla Ad Alt.). Questa esecrazione generale, sotto le parvenze dell’ossequio più profondo, s’è ora concentrata in Cesare,  il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai in  realta persino “ egenti ac perditae multiludini in  odium acerbissimum venerit. Invero,  Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di dover  esserlo, sopratutto per la posizione di superiorità  e distanza, così urtante al senso cittadinesco romano, che egli aveva finito per prendere : dopo  la sua uccisione, Mazio racconta a Cicerone che    stess., può esprimersi in modo più o meno chiaro nei  seguent, precetti: non siate schiavi degli uomini: non  permettete che, vostri diritti siano impunemente calpestati „ (Dottr. della Virtù). Che è, del resto, il  precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c- àv&pdmwv (1,   SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs   UylCWXw!])  4Xlv tu r»   G. Reati . Vita parallele di due filosofi   avendo dovuto una volta Cesare far fare anticamera a quest ultimo, aveva detto : se un uomo  come Cicerone deve attendere per essere introdotto  da me e non può a piacer suo parlarmi, “ ego  dubitem quin summo in odio sim „ ? (Ad Att.  XIV, 1 e 2) A proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti  i quali pensano che perchè Bruto era stato perdonato  da Cesare e poi anzi beneficato, egli dirigendo  il  tradimento e l’uccisione del suo benefattore, abbia dato perfido esempio di cuore ingrato e irreverente (Corradi). Questa opinione è la tipica prova della completa  mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il fatto  che Cesare gli aveva perdonato », doveva essere per  Bruto una giusta ed onesta ragione di più per abbonirlo.  Bruto aveva preso le armi contro Cesare in difesa dello  Stato legale : dunque conforme al diritto. Decidere sul suo  caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità legali  (Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già le  leggi o le autorità legalmente costituite, ma l’individuo Cesare, potesse a suo beneplacito interrompere o far  proseguire i processi, ordinare condanne o assoluzione,  assolvere Bruto, perdonare a Bruto (quasiché condannare  od assolvere, e, peggio, « perdonare, supposto si trattasse  di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e quasiché  questo stesso fatto non comprova lo sfasciamento dello  stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più  per avversare e condannare legittimamente l’uomo e il  sistema, e per ricorrere ad ogni mezzo onde liberarsene.  Che, per citare un altro fatto, onde far ritornane Marcello  dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un individuo,  gettarsi ai piedi d’un individuo, dell' individuo Cesare, è  un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per   Era, insomma, la situazione che un filologo italiano contemporaneo descriveva di recente crn  tutta esattezza così: La crescente potenza di  Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di Farsalo, erigendosi a signore assoluto, e sopprimendo  la libertà della vita politica di Roma, ha, per  primo, inaugurato la lunga e mostruosa serie degli questo individuo, che si sovrapponeva in tal guisa alle  leggi : condanna, anche quando  perdonava, perchè  precisamente così dimostrava che dipendeva, non più dalle  leggi assolvere o condannare, ma da lui perdonare o no.  Piena ragione ha Seneca quando in un capitoletto pieno  di considerazioni interessanti circa l’atto di Bruto, dice che  egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare, perchè  questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se  non violando il diritto e perchè chi non uccide non arreca  un beneficio, ma si astiene da un maleficio: in ius dandi  beneficii iniuria venerai; non enim servavit is, qui non  interficit, nec, beneficiun dedit, sed missionem. De Benef.. Del pari piena ragione ha Cicerone, il quale, ad  Antonio, che gli rinfacciava come un benefizio usatogli di  non averlo ucciso al suo sbarco a Brindisi, rispondeva :  questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe vantarsi un  assassino per non aver ucciso taluno. Quod est aliud  beneficium latronum, nisi ut commemorare possint iis se  dedisse vitam, quibus non ademerint?  (Fil.).  E si noti ancora che Seneca e Lucano, vivendo entrambi  alla corte di Nerone, il quale, pure, era della casa Giulia, poterono il primo dare a Bruto la massima delle lodi  facendo dire da Marcello a sè stesso: “ tu vive Bruto  miratore contentus (Ad Helviam), il secondo  dipingere nel suo poema con smaglianti colori di grandezza morale “ magnanimi pectora Bruti mperatori romani ; la viltà degli adulatori, che  disertavano il partito dei vinti per quello più vantaggioso dei vincitori ; le mene degli ambiziosi,  che, r er trar partito dalle circostanze ad accumular potenza e ricchezze, pullulavano su su dal  fondo di quella corrotta società, come marcida  fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante; le crudeltà dei prepotenti, che volevano, anche a mezzo  di violenze e di sangue, aprirsi un varco nella  folla dei concorrenti a quella specie d’albero della  cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello  Stato con le loro mille seduzioni e promesse di  dominio e di saccheggio dei beni pubblici e privati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato  in cui vivevano, nell’esilio volontario o non volontario, le anime dei virtuosi e degli onesti, fautori  del partito repubblicano. Tutto insomma contribuiva  a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe. Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi  non mai dome nel loro caratteristico orgoglio, il  malcontento per il nuovo regime... La miseria intanto cresce spaventosamente in Roma e nella  provincia ; lo spettro della fame s’aggira nelle campagne desolate e incolte dell’ Italia; le classi  medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed  alla disperazione. Torme di miserabili si vedono  per ogni dove languire d’ozio e di fame U. Moricca, Introd. a Cicer. De Finibus, Torino,  Chiantore Ora, tanto appare a Cicerone falsa e menzognera  la situazione che egli è certo che non può durare.  La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie  circa la restaurazione finanziaria (divitiarum in aerario) sono cadute; è impossibile che egli e  i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare, riescano ad amministrare soddisfacentemente le provincie e lo stato; cadranno da sè, per gli errori  propri, per se, etiam languentibus nobis aut  per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi  est adversarius unus acerrimus. Questa tirannide  non può reggere sei mesi, iam intelliges id regnimi vix semenstre esse posse Probabilmente, ciò di cui Cicerone avrebbe sopratutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quell’errore che il Romagnosi descrive così. La temerità e l’intolleranza sono i vizi che sogliono guastare questo procedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca di temerità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura  o non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si  pecca d’intolleranza allorché si vuole seminare e raccogliere ad un sol tratto, e però si passa ad infierire contro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della  riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel mantenere la giustizia, e nel rimanente lasciate operare il  tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri stimoli artificiali,  le vostre correzioni minute, invece di giovare nuociono,  invece di affrettare ritardano; e se per caso avrete un  frutto precoce, ne avrete mille falliti (Dell’ Indole e dei  Fattori dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree parole d’uno dei nostri massimi pensatori politici, che andrebbero anche oggi meditate e tenute presenti. Alle Tale previsione di Cicerone andò incontro ad nna smentita colossale. Quella divinatio dell’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo  studio e dalla pratica, aveva la coscienza di possedere, qui gli fallì del tutto. E' vero che Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del sentimento politico, che, in quelle perturbate circostanze, si  sprigionava vivo in Cicerone, le seguenti: “ guai a quel  popolo, nel quale, spento il punto d’onore, non prevalgono che poteri individuali! „ (/„,/. di Ciò. FU Giurispr.   T e ° r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione  dei diritti dell uomo, da lui chiamati originaria padronanza naturale di ogni individuo. Quelli che vennero  appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso  di questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà  1 eguale inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render  ragione, sono tutte condizioni di questa originaria padronanza „ (Lett. a G. Valeri, Cu, quidem divinationi hoc plus confidimus, quod  ea nos mhil in his tam obscuris rebus tamque perturbatis  umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura dixissem,  ni vererer ne ex eventis fìngere viderer (Ad Dio. VI,  o). Exitus, quem ego tam video animo, quam ea quae  ocuiis cemimus (Ad Dio.). Tamquam ex aliqua  specula prospexi tempestatem futuram. Questa  sicura previsione degli eventi, questo sicuro presentimento,  Cicerone lo possedeva in effetto. Anche nella circostanza  suaccennata egli prevedeva giusto, preveveva cioè quello  che tutto faceva ritenere dover accadere. Se i fatti si svolsero  in senso del tutto opposto alla sua previsione, si può, in  un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non Cicerone;  cioè che la realtà è irrazionale e casuale, e che mai vi  tu un periodo di storia che sia stato come quello irrazionale  e casuale.   fu ucciso poco dopo e probabilmente lo fu quando  e perchè divenne chiara a tutti I’ impossibilità in  cui egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente lo Stato e di soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci, cosicché  Mazio  uno dei pochi cesariani onesti, che, come  risulta da una sua nobilissima lettera (Ad T)iv., non aveva sfruttato Cesare vivo, e che  gli rimase fedele anche morto, e anche durante  quel momento in cui, subito dopo l’uccisione del  dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i cesariani in pericolo — dice, deplorandone la morte:   che catastrofe ! non c’è più rimedio ; se lui,  con l’ingegno che aveva, non trovava la via d’uscita, (exitum non reperiebat), chi la troverà ora? (Ad Att.). Ma dopo la morte  di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le cose  finirono per peggiorare rapidamente. Anche Cicerone è costretto a constatarlo. Il tiranno perì, egli  dice, ma vive la tirannia (Ad Att.) Va però tenuta presente anche la profondissima  osservazione di Montesquieu. Il étoit bien difficile que  GIULIO CESARE pùt défendre sa vie; la plupart des conjurés étoient  de son parti ou avaient été par lui comblés de bienfaits :  et la raison en est bien naturelle. Ils avoient trouvé de  grands avantages dans sa victoire : mais plus leur fortune  devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part  au malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il  importe peu à certains égards en quel gouvernement il  vive -- Grandeur et décadence d siamo liberali dal re dai regno (yìj Di,. /aj' fi marzo non consolano più come  pnma (Ad Att.): stolta L iZZ  Martmrum consolano, animis usi sumus virilibus  cooubs puenbbus ; excisa est arbor, non avulsa   ^ i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio l’erede del regno; si poteva con   piu libertà parlare contra illas nefarias partes   xiv r vivo che non uccitó  lnfine crebbe meglio che Cesare   vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desideran-  dus, Infatti, la situazione era diventata quale la descrive ad Attico così. Sed  vides magistrati ; si quidem illi magistratus'; vides  tyranni satellites m impems; vides eiusdem exercniis; vides in latere veteranos In conseguenza il sistema di governo che Cicerone  prevedeva non poter durare un semestre, durò  invece, continuamente aggravandosi o peggiorando  per quattordici secoli, cioè per quanto visse l’impero bizantino.   Ma la fallacia di questa previste   la torio all. mente di Cicerone. E' la fallacia  propria delle menti profondamente razionali, che  hanno una fede inconcussa nella ragione; e la mente di Cicerone era appunto secondo la felice  dennizione che ne dà Io Zielinski, un  Aufkà-  rungsvers tand. A codeste menti è impossibile O. c. .ammettere che la mostruosità, l’irrazionalità, l’assurdo vengano a tradursi permanentemente nel fatto,  si facciano solida e stabile realtà. Ciò è assurdo,  quindi è impossibile; questo è per siffatte menti  un canone assolutamente insopprimibile, sradicando  il quale essa sentirebbero di strappar le proprie  medesime radici. A cagione della stessa forza della  loro compagine razionale, è ad esse impossibile  riconoscere che il fatto che una cosa sia assurda  non impedisce menomamente che essa divenga  realtà e che anzi quasi sempre nella storia umana  avviene che ciò che all’ inizio la mente scorgeva  come cosa assurda, pazzesca, implacabilmente ciò non ostante si realizza. Come buon  platonico Cicerone non poteva a meno di essere  fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov  xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed..).  Nel logos egli aveva indefettibile fede. Egli scorgeva  dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria poteva  giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per  lui una conquista permanente» della civiltà, la civiltà stessa, la civiltà che non può perire. Con tale  forma di governo il suo spirito si era immedesimato ; essa faceva parte essenziale della sua coscienza d uomo, forma il cardine su cui poggiava  tutta la sua vita spirituale Pensare che tale   Che tale stato d'animo fosse non solo ciceroniano ma romano, emerge anche da ciò che l’indignazione per la caduta di quella forma di governo si  formi potesse crollare e permanentemente scomparire, era come pensare che potesse precipitare  tutto ciò che si è sempre visto stabile, la terra,  il sistema solare, ciò che è l’incarnazione di un’eterna legge della natura. Sempre gli uomini quan-  o si sono trovati in una fase di cangiamento analoga a quella in cui si trova Cicerone_e   tanto più quanto più la loro mente era fortemente  razionale hanno emesso la medesima errata previsione di lui ; ciò è assurdo, quindi impossibile,  quindi non può durare. prolunga sino in S. Ambrogio, in cui, da signore romano  d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, Hic  erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam  perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo  audebat alium servitio premere, cuius sibi successuri in  honorem mutua forent subeunda fastidia; nemini labor  gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed postquam do-  mmandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle  deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit  msolentiam. Quem invenias Hominem qui sponte deponat  impenum et ducatus sui cedat insigne, fiatqe volens numero postremus ex primo? {Hexameron).  osa et nota : lo stesso errore, la stessa   illusione— nobilissimo errore ! troviamo, come già si  e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita fa  esattamente riscontro a quello di Cicerone. Anche Demo-  j. en „ e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva che la potenza  di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv teXsut^v  t« payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per  lui principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza  costrutta sulla malvagità non può durare. Oò yàp gcmv,  Il dramma, terribile dramma, della vita di Cicerone, è appunto questo. II dramma dell’uomo   oìjy. laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruop-  xoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at...  xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig àX^S-sT;  xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei. E nemmeno dieci  anni dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea.  Ad ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni  di Demostene, che perciò sono cosi istruttive circa le  illusioni in cui il « razionalismo » induce gli uomini. Ma  neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene dal1 illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato,  Demostene comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg,  splendidamente vestito, incoronato: con la morte dell’uomo,  secondo lui, la costruzione improvvisata ed effimera doveva  certo crollare. E quando Alessandro si fece avanti a sorreggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille, ndsioa  xai |ia T txT)V (Plot., Dem.). Ma la costruzione  fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene,  non poteva reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura  fantastico ottenuto appunto da Alessandro. Gli uomini non  possono rassegnarsi a credere che una politica malvaga  possa ottenere un successo duraturo, che il male trionfi  permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia  illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti,   1 razionalisti, gli spiritualisti, non sanno ricavare dal  male che sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure  quell unico bene che vi si potrebbe ricavare: quello cioè  di essere definitivamente istrutti dell andamento assolutamente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita.  Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e  alle deduzioni da quelli che continuano a credere, anziché  aprire gli occhi ai fatti. < Sapiunt alieno ex ore petuntque  res ex auditis potius quam sensibus ipsis » (Lucr.).  che con disperazione vede rovinare intorno a sè  senza possibilità di salvezza il mondo civile di  cui la sua più intima vita stessa era intessuta, il  mondo razionale e trionfare ineluttabilmente,  in causa impia, victoria etiam foedior  ( De  Off.), l’ingiustizia ed il male, una  forma di mondo umano “ impensabile assurda, il dramma della coscienza eticamente desta che  vede con orrore ciò che essa giudica aberrazione  morale e iniquità acquistare ufficialmente il carattere di nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi  a restare definitivamente sotto questo aspetto nella storia. Quando si fa a poco a poco chiaro nella mente di Cicerone 1 ineluttabilità dell’evento, quando  egli è ormai costretto a vedere che non c’è più  speranza, a domandarsi: quae potest spes esse  in ea republica, in qua hominis impotentissimi  (violento) atque intemperantissimi armis oppressa  sunt omnia? „ (Ad Div.); quando deve constatare che tot tantìsque rebus urgemur, nullam  ut allevationem quisquam non stultissimus sperare  debeat „ (Ad Div.), il suo strazio non ha  confini- Ciò che già precedentemente, quando tale  condizione di cose si delineava, egli cominciava  a sentire, civem mehercule non puto esse qui  temporibus his ridere possit „ (Ad. Div.),  diventa ora il suo stato d’animo permanente. La  vita non ha più sorriso : “ hilaritas illa nostra  erepla mihi omnis est. Il suo grido è quello del coro degli Spiriti nel Fausi. Du hast zerstòrt  Die schòne Welt Mit màchtiger Faust; Sie stiirzt, sie zerfàllt! Ein Halbgott hat sie zerschlagen! Wir tragen   Die Triimmern ins Nichts hinuber Und kiagen Uber die verlorne Schòne.   Questo dramma strappa a Cicerone espressioni  di dolore profondamente dilacerante. E la sua  corrispondenza è forse la lettura più viva che l’antichità e probabilmente la letteratura d’ogni tempo  ci offra, appunto perchè, come in nessun altro scritto, vi si scorge con l’immediata evidenza della vita  vissuta e quasi vedessimo la cosa svolgersi giorno  per giorno sotto i nostri occhi, come sotto quel  dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la  terribilità della sua rovina personale affligge gravemente Cicerone. Natus enim ad agendum   semper aliquid dignum viro, nunc non modo agendi rationem nullam habeo, sed ne cogitandi quidem (Ad Div.) ; ed egli ha ragione   di deplorare di essere stato travolto proprio nel  momento in cui avrebbe potuto e dovuto, cogliendo  il frutto dell’opera della sua vita, toccare l’apice  della sua carriera. Omnis me et industriae meae  fructus et fortunae perdidisse Casu nescio quo in ea tempora aetas nostra incidit, ut  cum maxime florere nos oporteret, tum vivere  edam puderet. Certo anche la rovina che incombe sulla sua famiglia e specialmente sulla sua figlia lo tortura.Quibus in miseriis  una est prò omnibus quod istam miseram patre,  patrimonio, fortuna omni spoliatam relinquam  (Ad Att.). Ma ciò che forma il crepacuore  di Cicerone non è la sua situazione personale,  bensì il baratro in cui è precipitato lo Stato. Sed tamen ipsa republica nihil mihi est carius  (Ad Dio.). “ Ego enim is sum,  qui nihil umquam mea potius, quam meorum ci-  vium causa fecerim. Ma ora ? Ego  vero, qui, si loquor de re publica, quod oportet,  insanus, si, quod opus est, servus existimor, si  taceo, oppressus et captus, quo dolore esse debeo ? (Ad Att.). Due sono sopratutto le note in cui erompe l’espressione di questo suo strazio. In primo luogo,  andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder  più simili cose: “ evolare cupio et aliquo pervenire  ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta audiam „  egli ripete con un tragico antico (ib. VII, 28, 30,  Ad Att.); “ ac mihi quidem  iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo  exire, ut ea quae agebantur hic, quaeque dice-  bantur, nec viderem nec audirem (Ad ‘Dio. IX,  2); “ longius etiam cogitabam ab urbe discedere,  cuius iam etiam nomen invitus audio. Tu mi sembravi pazzo (scrive a Curio) quando  abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo che  sei “ non solum sapiens, qui hinc absis, sed etiam  beatus : quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc  esse beatus potest ? (Ad Db.). E’ il  desiderio che si fa strada persino nei suoi trattati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di Damarato. Io giustifica cosi : “ num stulte anteposuit  exilii libertatem domesticae servituti? O, se andarsene non si può, almeno ritirarsi in  solitudine. Nunc fugientes conspectum scelerato-  rum, quibus omnia redundant, abdimus nos, quamum licet, et saepe soli sumus (De Off.). In secondo luogo, morire.  Perire satius est,  quam hos videre (Jd Db.) Mortem]  quam etiam beati contemnere debebamus, propterea quod nullum sensum esset habitura, nunc [Che cosa pensi intimamente Cicerone della vita futura, risulta, non già dal quadro, avente scopi puramente  estrinseci, che traccia nel Somnium Scipionis. ma dalla  sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e due  altri, (Ad Dw.) ricordati più innanzi, basterà  citare: Fraesertim cum impendeat, in quo non modo or,*. v erum finis etiam doloris futurus sit. E anche in altre opere di Cicerone questo suo  vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane. Mors. aeternum nihil sentienti receptaculum. Cosi in  Pro Marcello Quod (la fine) cum venit, omnis  voluptas preterita prò mhilo est, quia postea nulla est  futura» Cosi in Pro Cluentio: quid  ei tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ? sic affecti, non modo contemnere debeamus, sed  etiam optare. La filosofia sembra  < exprobrare quod in ea vita maneam, in qua  nihil insit, nisi propagatio miserrimi temporis ; non si sa <si aut hoc lucrum est  aut haec vita, superstitem reipublicae vivere  ; nam mori millies praestitit quam haec  pati (Ad. AH.) ; « eis conficior curis,  ut ipsum quod maneam in vita, peccare me existimem  (Ad Div.);  mortem cur con-  sciscerem causa non visa est, cur optarem, multae  causae. In uno spirito, così profondamente romano, cioè volto all’attività pratica  e civica, la desolazione dello Stato faceva spuntare questo pensiero: « Ipsi enim quid sumus ?  aut cum diu haec curaturi sumus?  (jdd Att.); quid vanitatis in vita non dubito quin  cogites (Ad Div.). Cosi, pur nell'atto che prevede la prossima caduta del cesarismo, dice.  Allo stesso modo la pensava Cesare, il quale nel discorso,  riferito da Sallustio, da lui tenuto in Senato circa la pena  da darsi ai complici di Catilina, si oppose alla pena di  morte appunto perchè con questa cessa la coscienza e  quindi ogni male. Eam cuncta mortalia dissolvere; ultra  neque curae neque gaudio locum esse (Cat.). Va  però notato che Cicerone dà un’altra interpretazione a  questo punto del discorso di Cesare. Cesare cioè era  contrario alla pena di morte. Egli intelligit, mortem a  diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed  aut necessitatem naturae, aut laborum ac miseriarum  quietem esse. -- In S. Catilinam. id spero vivis nobis fore ; quamquam tempus  est nos de illa perpetua iam, non de hac exigua  vita cogitare » (Ad. Att.). E il pensiero della  morte come unico scampo e rifugio viene a grandeggiargli dinanzi in modo, che bene spesso lo  vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti teorici: così, p. e., nel De  Oratore. Sed 11 tamen rei publicae casus secuti  sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immor-  talibus vita, sed donata mors esse videatur;  e così nelle Tusculane : multa mihi ipsi ad  mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuissem obire ! nihil enim iam acquirebatur, cumulata erant officia vitae, cum fortuna bella restabant. Morte per sè, morte per coloro che  amiamo ; questo soltanto è ciò che lo status  ipse nostrae civitatis ci costringe a desiderare: cum beatissimi sint qui liberi non susceperunt,  minus autem miseri qui his temporibus amiserunt,  quam si eosdem, bona, aut denique ahqua republica, perdidissent non, mehercule, quemquam audivi  hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum  aut puerum mortuum, qui mihi non a Diis immorta-  libus ereptus ex his miseriis atque ex iniquissima  conditione vitae videretur (Ad Div.).   Ne solo nell animo di Cicerone il trovarsi « in  tantis tenebris et quasi parietinis rei publicae induceva il desiderio di sfuggire a  questo sfacelo con la morte ; ma tale sentimento  era certo diffuso. Nella bellissima lettera con cui Servio Sulpicio cerca di consolare Cicerone per  la morte della figlia, 1 argomento principale che  egli fa valere e, nelle circostanze presenti, non  pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore  licitum est mortem cum vita commutare e che  Tullia visse finché visse lo stato, una cum republica fuisse (Ad Dio.); al che Cicerone  dolorosamente risponde che l’attività pubblica lo consola dei dolori domestici, l’affettuosa intimità  con la famiglia delle traversie pubbliche, ma ora  “ nec eum dolorem quem a re publica capio domus iam consolari potest, nec domesticum res publica . Ed anche in Catullo, il disgusto invincibile suscitatogli dai “ turpissimorum  honores „, disgusto che faceva gemere dal suo canto Cicerone, cosi; o tempora ! fore cum dubitet Curtius consulatum petere? „ (Ad Att., e circa Vatinio) suscita l’aspirazione  alla morte. Quid est, Catulle? quid moraris emori? Sella in curulei struma Nomus sedet,  per consulatum peierat Vatinius;   Quid est, Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge Cicerone qualche conforto in  questa immensa iattura ? Non dal foro che egli  (interessante confessione) dichiara di non aver mai  amato e nel quale del resto oggi non c’è più nulla  da tare: quod me in forum vocas, eo vocas,  unde, etiam bonis meis rebus, fugiebam: quid enim mihi cum foro, sine iudiciis, sine curia? (Jld  Jltt.). Era il momento in cui i vincitori  della violenta lotta politica, giravano per Roma  baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato  legale, battuti, erano melanconici. Mane salutarne domi et bonos viros multos sed tristes,  et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose  et peramenter observant {Ad Div.). Due  di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a  prender lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con  questo pretesto, lo sorvegliavano per conto di Cesare. Anche queste lezioni recano a Cicerone qualche sollievo {yld Di\>.). In maggior misura, egli ne ricava dal far udire, quando e come  era possibile, qualche parola di ammonimento. Così,  pur avendo risoluto di non più parlare in Senato,  allorché sulla universale istanza di questo, Cesare  amnistia Marcello (che non aveva fatto nessun  passo per essere richiamato e sembrava non desiderarlo — e che fu, del resto, assassinato da un  suo impiegato nel momento in cui stava per partire alla volta di Roma), Cicerone prende la pa- [La voce dei gaudenti sfruttatori di situazioni immorali rinfaccia sempre a coloro che le condannano, come  un torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella voce  si fa udire, secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos  alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos  assis ne feceris » (Ep.) rola per ringraziare il dittatore ; ma sa anche attraverso i ringraziamenti esporgli il parere più  libero e coraggioso che forse mai Cesare abbia  sentito. Quodsi rerum tuarum immortalium (egli  ha 1 ardue di significargli) hic exitus futurus fuit,  ut devictis adversariis rem publicam in eo statù  relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne tua  divina virtus admirationis plus sit habitura quam glonae (Pro Marc.). Tu devi, egli incalza,  preoccuparti della vera gloria, del giudizio che daranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare  ciò che tu fai, non cogli occhi abbacinati dei contemporanei, ma con quelli di coloro che giudicheranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu non  avrai ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sarai certo sempre ricordato, ma non con giudizio  concorde: “ erit inter eos etiam, qui nascentur,  sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii lau-  dibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii for-  tasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi  belli cmlis incendium salute patriae restinxeris, ut  illud fati fuisse videatur, hoc consilii. E questo un nobilissimo linguaggio da cittadino  onesto e d’animo forte ; linguaggio che, bisogna  riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben  più vivaci attacchi contro di lui, con tolleranza ed  equanimità, civili animo. -- Svet,, Caes.. Anche Cicerone nella sua corrispondenza talvolta  constata che Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.: L intolleranza, l’oppressione, l’uso del potere per  far tacere censure al detentore di esso, e persino  per impedire di rispondere agli attacchi, comincia  con Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pollione (lo stesso, alla nascita del cui figlio il servile  Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e a  prostituire poi il suo genio a colui che tra questi  occupa nella storia per bassezza e nequizia uno degli    “ nam et ipse, qui plurimum potest, quotidie mihi delabi ad acquitatem et ad rerum naturam videtur „ Ad Dio.  VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa che accadde  con OTTAVIANO) è naturale, perchè, se un uomo non è straordinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo  personale lo rende incline alla benevolenza verso gli altri,  a diffondere anche intorno il sentimento di felicità che il  successo gli dà. Solo un uomo dal cuore fondamentalmente malvagio nel suo più pieno e grandioso trionfo,  quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più  duro e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo  col darsi la sensazione di poter a suo beneplacito tormentare, perseguitare, far soffrire altri uomini. Tale era  Siila, secondo le parole che Sallustio mette in bocca ad  Emilio Lepido. Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab  externis rapta, tenet, non tot exercituum clade neque con-  suhs et aliorum principum, quos fortuna belli consumpse-  rat, satiatus : sed tum crudelior, curri plerosque secundae  res in miserationem ex ira vertunt. -- Hist. Fragni. Raramente, si, ma però talvolta avviene che un uomo, favorito dalia più straordinaria fortuna, diventi sempre più  bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali ingenio avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala pate-  fecit. -- Tac., Hist.. “Itimi posti, Ottavio, dedicò la sconciamente  cortigiana e piagg.atr.ee Egloga IV) nell’elegante  epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4)  che non si può più scrivere dove in risposti si  può proscrivere : temporibus triumviralibus PoIIio  cuna fescenmnos,n eum Augustus scripsisset, ait:   g taceo ; non est emm facile in eum scribere  qui potest proscribere (2)   Più ampio conforto ricavò Cicerone dagli studi,  bbene una volta fuggevolmente accenni che forse  senza la sua cultura sarebbe più atto a resistale!  exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma-   (I) Si vegga nel libro diV. Alfieri D»/ p •, »    I  J1 '> e la dimostrazione che questa   viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna  e ha per base il vero robusto pensare e sentire tm-,1  niente manca in Virgilio (L. II C VI) “ V  -esse avuto nell’animo quella   P napesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso e  quindi assai maggiore il suo saggio (L. II C VI •  vegga anche il C. Vili) E il Canti 1 . Ci  j ;•, C S ‘   uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani,   V l D < ’ VIRGILIO si lascia traricchire   anche Boissier, L’opposition sous tes Césars p. I3Ì”   RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la fonte il   Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente versione:  Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ ™  num est „. (Ad Alt. XII, 46) ; e sopratutto dallo  studio della filosofìa, la passione per la eguale '’quo-  tidie ita ingravescit, credo et aetatis maturitate ad  prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia  levare animum molestiis possit. „ (Ad Dio. IV, 4).  Le sue lettere di questo periodo sono piene delle  sue attestazioni che non vive se non negli studi  filosofici e non trae conforto che da essi. Ad aumentare  questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero  dalle calamita dello Stato, s aggiunge la sua attività di scrittore. Sono questi gli anni della sua  intensa e feconda produzione filosofica. Nisi mihi  hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae,  quo verterem me non haberem (Jld Alt.) Equidem credibile non est, quantum scribam  die, quin etiam noctibus, nihil enim sommi. Nullo enim alio modo a miseria quasi  aberrare possum. Vero è che le afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza dell’avvenire, derivanti dal pessimo andamento degli affari  pubblici, non permettono piena pace nemmeno nello  studio : Utinam quietis temporibus, atque aliquo,  si non bono, at saltem certo statu civitatis, haec  inter nos studia exercere possemus ! „ Però, appunto in tali circostanze, “ sine his cur vivere velimus? -- d Dio. Così nascono i saggi di FILOSOFIA di Cicerone, circa i quali si cita  sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase “sono copie” cascatagli dalla penna scrivendo al suo amico e certo come convenzionale espressioni   t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di lui (Ad  X ’ I 52 ’ ma 51 dimentica di affrontare tale  fra e con le sue numerose e consuete esternaziom  dalle quali risulta che ben altra era la stima ch’egli   off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles „ (ib. XII  38) egli dice di star scrivendo ; quanto alle Jìc-   G Q rto -5 C ° nVInt,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere ne aVud, cos quidem simile quidquam „ (ib. XIII 1 3)-   le chiama “ argutolos libros „ ^ XIli.Y 8,00^   XIII 19? ac n ra ? posset supra ” r/4.   XIII, 9); 1 libri del De Oratore gli sono “ vehementer probati (ib.) e così il De Finibus ib   ?AJ ÀI XvT i, soddisfa Attico   bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M   AA- ( ’ 8 ^ eSpnme anehe,a sua Propria soddisfazione per queste due opere; mihi vakle   pbcent, maHem tibi dice dei libri, perduti d!  Giona (Ad Ali). In particolare, i| e  sua opere filosofiche LE TUSCULANE, che facilmente si prendono per un mero esercizio letterario, sono  invece un saggio profondamente vissuto, rampollato  da a tragica realtà di vita i cui Cicerone si dibatte e che come tale, come idoneo cioè a fornir conforto e forza in quelle circostanze dove  essere generalmente sentito, e certo da Attico se  Cicerone gl, scrive -- quod prima disputatio Tuscu ana te confirmat, sane gaudeo. Neque enim  ndhim est perfugium aut melius aut paratius. Bel saggio, che in ogni epoca, nelle medesime circostanze da cui  esso è nato, è servito allo scopo per cui era stato  scritto – DIE EROICA DER ROMISCHEN PHILOSOPHIE, come con calzante espressione lo definisce Zielinski. Ma il supremo conforto di Cicerone è  un altro.  Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella  FILOSOFIA come un’occupazione mentale opportuna  a distornare il pensiero da quello che poi Lucano,  il grande poeta anti-cesariano, define“ ius sceleri  datum, quanto nel rivivere in sè I CONCETTI DELLA FILOSOFIA come atti a fornire forza d'animo per affrontare e sopportare le sciagure derivanti da una situazione politica e sociale particolarmente triste. FILOSOFIA cioè non come “ostentationem scientiae, sed legem vitae „ (Tusc.). Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi si  servì Marco Aurelio zi 5 óypaia. Giustissimamente il Moricca. Saremmo forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tulliana un’amplificazione rettorica, se non pensassimo che quelle parole sono scritte per una generazione d’uomini nelle cui orecchie esse andavano diritte al cuore. Un saggio di morale dell’epoca di Cicerone è da considerarsi non come una fredda e vuota argomentazione  rettorica bensi come un’eco squillante delle voci del passato, che sale dalle tombe e vince i secoli. Secondo il testo di Trannoy (Les Belles Lettres).  bisogno di vivere tali precetti A' i,• .  ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl  gere a ciò, Cicerone Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun '  maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0 i'I “ na  consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro dl  profecto anfe me TeZ. ^Z 'T ***  consolarer ; que m librum jf . me per i‘ tera s  serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S ‘,^'P'  esso talem ; totos die® U c °nsolationem   quid, sed t n^sper 1 C ;,b ° 5 T“ qU ° proflci ™  XII 14) p t,sper im P e dior, relaxor „ (Ad 4tt   « 'a ll'Tlzr ™ di r'*   d«„e meditazioni morali!^ e8mam0 le Mslre   '4«fr-r v lLStó et,r°d servire 4   IL PORTICO, di cui poi in,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, °  e d oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi   vid.o Prisco fornirono ° Peto ed EI ’   e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù insigni,   .1 hiosofo :z :L: r, ai cristiano, il sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo   c„i i,Tat'„ e ' „x:; a ” d f molti tenevano costantemente in d m ° nre ’ anZI  rettoredi coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX . Plauto, fatto morire da Neron» •  mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘ ene " ei 3U0 ' u,tl  Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse’  O Socrates et socratici viri! -- esclama Cicerone, qui, veramente riguardo a traversie di carattere privato). Numquam vobis gratiam referam  Un immortales quam m ihi ista prò nihilo (Ad Alt. ). Attico (egli scrive al suo liberto e segretario Tirone) mi vide agitato, crede che sia sempre lo stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae  septus sim -- Ad Div. La disperata  e rovinosa condizione dello Stato -- quidem ego  non ferrem nisi me in philosophiae portum con-  tulissem. “ Equidem et haec et  omnia quae homini accidere possunt sic fero ut  PHILOSOPHIAE magnam habeam gratiam, quae me  non modo ab sollecitudine abducit, sed etiam contra omnes fortunae impetus armat, tibique idem  censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quid-  quam m malis numerandum -- Ad Div.  E noi vediamo veramente questo pensiero centrale  del PORTICO, cioè lo sforzo di distornare il  proprio interesse da ogni cosa esteriore per concentrarlo unicamente nel nostro comportamento, e  m ciò trovare appagamento e pace (questo, come  si può chiamare, ottimismo della disperazione, che  e il solo che resta nei momenti di maggiormente  infelici condizioni esterne, perchè vuole appunto,  riconoscendo tale inguaribile infelicità, trovare an- Demetrio: e Seneca dice di Cano.  dato al supplizio da Caligola -- prosequebatur illuni  Losophus suus -- (De Tranq. An.). man-   phi-    i cora una tavola di salvezza), vediamo questo pensiero centrale dello stoicismo svelarsi sempre più  chiaro agli occhi di Cicerone e proprio come postogli innanzi delle circostanze di fatto. Sic enim  sentio, id demum, aut potius id solum esse miserum quod turpe est (Ad Att.). Video philosophis placuisse iis qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil esse  sapientis praestare nisi culpam -- (Jld Dio..  Cogliamo il procedere di questa appassionante tragedia, per cui un uomo di indole ilare e disposto  a gioire delle cose, degli spettacoli naturali, delI arte, della letteratura, delle relazioni sociali, dell’attività pubblica e anche della ricchezza, è, a  poco a poco, dal rovinio politico, risospinto entro  se stesso e costretto a vedere e cercare la felicita soltanto nel proprio retto comportarsi. Le  meditazioni filosofiche (scrive a VARRONE) ci recano ora maggior frutto “sive quia nulla nunc in  re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi  tacit, ut medicmae egeamus eaque nunc appareat,  cuius vim non sentiebamus cum valebamus -- Ad  r i0 ’. Naturalmente con questo alto sentimento a cui Cicerone è ora pervenuto, il pensiero della morte, qui fonte anchesso di consolazione e forza, viene a intrecciarsi. Nunc vero,  eversis omnibus rebus, una ratio videtur, quicquid  e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium rerum  mors sit extremum magna enim consolatio est cum  recordere etiamsi secus acciderit te tamen recta vereque sensisse --Ad Div. Nec enim  dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ;  et si non ero, sensu omnino carebo. Il crollo dello Stato è cosa gravissima -- tamen  ita viximus et id aetatis iam sumus, ut omnia quae  non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre debeamus (Jld Div.). E tali pensieri, tali alti ed austeri conforti ed  incoraggiamenti, i grandi spiriti di quel periodo si  scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto il  dolore per la catastrofe dello Stato era largamente  sentito, sia della estensione che a lenimento di  questo dolore siffatto ordine di pensieri allora aveva  preso. Era la genuina visuale del PORTICO a cui i nefasti  avvenimenti politici aveva tutti guidati -- non aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut male vivendi suspensas habere rationes -- Ad Div. Se Cicerone ad ogni momento ripete di sè  quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram (Ad Div.), nec  esse ullum magnum malum praeter culpam; sed tamen vacare culpa magnum est  solatium; se per sè pensa fortunato, quam existimo levem et imbecillam, animo  firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi  oportere; se l’esperienza di quella dolorosissima fase lo fa approdare alla definitiva conclusione che in omni vita sua quemque a recta conscientia transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) — queste sono amici, « a Lucccio7“'“ “ 1 «  f'umanas contemnentem et opule C on^t r 7 "* c„ g „„ vi „ {Ad0 7   casu, et deiicto h Z,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non  veri „ (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una commo-   Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° " “ÌJ*   digni et Ss TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus ’   V. 19 ) : e a Torquato ‘ ‘ f T Tectl8s '™" (A.   praesertim quae absit a   ancora a Torauato • “ ■ P, V1 ’ 2 )> e   delio Stato) vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina  teperiri, praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P °7   “r: e®, atque noTZIt,»   questi sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a  anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh  - ' 7 ?   scrive Sulpicio in morte di Tullia) Cicerone  et eum aui a Ine ' '-',cer °nem esse  9 ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare consilium... quae alns praecipere soles, ea tute tibi  subirne, atque apud animum propone; vidimus ali-  quotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam  fac ahquando intelligamus adversam quoque té  aeque ferre posse. Dalle lettere di Cicerone si potrebbe così ricavare un antologia di massime di vita del PORTICO da  servire efficacemente in ogni tempo al ripresenarsi di analoghe circostanze (e tale è forse sopratutto la ragione per cui queste lettere suscitarono  in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto di nobili animi), pm efficacemente ancora che non i suoi  trattati, come le TUSCULANE e il DE OFFICIIS, ove  egli da sistemazione teorica alle medesime idee  1 qual, però appunto perchè non contengono se'  non quelle .dee morali che, suscitate in Cicerone  dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua corrispondenza, ci si ridimostrano, non mere esercitazioni letterarie, ma anzi saggi cresciuti su dalla  vita vera e scritti col sangue che le ferite inferte  da questa fanno stillare dal suo cuore. Herzenphilosophen chiama giustamente Cicerone Plutarco racconta che un giorno OTTAVIANO essendosi accorto che un suo nipote scorgendolo nasconde impaurito un saggio sotto la  (1)0. dt., 112    toga, glielo prende, e visto che e di Cicerone ne  legge un tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo uomo dotto e amante della patria, Xó r,o : *vl'  ?. «rat, io T,o £ *«l Tardo (come al so’   hto) riconoscimento del meriti di colui che egli ha raggirato, tradito, abbandonato al carnefice Ma  Cicerone e qualcosa di più. Spirito altissimo e   st'anzetn m n “'T'? 1 "”'’ da »! le circo-  ero \ „ j " 6 r 1 ' **' vivere, espres.   sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma   d dolore enorme, egli seppe da questa esperienza  d, dolore trarre un-espenenza morale di elevazione   e di purificazione del dolore stesso nel fuoco della  filosofia intesa come via, di cui molti,„ e b   dTrendl' ' aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò  che rende appassionatamente attraente la sua grande   figura alla quale veramenle-secondo un penTero   che trova eco sino m Giovenale e   Roma' ltf !a  u la 8erva arl “lazione lo dava   Sr p a,t a, a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad - Sed Roma parentem, Roma patrem patriae Ciceronem libera dixit.  Altri saggi:  Pesco Piente Fu, un [Mi|an0i CogliariJ.  f? Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna 1  Motwl Spirituali Platonici [Milano, Gilardi e Noto]   nSTT, d ' W Jr aZl0nalim0 |N«poli. Guida],  Materialismo C„„ c0 [R om ., CaS a  Pagine di Diario: Scheggio [Rieti, Biblioteca Editr.J, Cicute [Todi, Atanórj. Impronte [Genova, Libt. Ed. Italia]  Sguardi [Roma. La Laziale],   Scolli [Torino, Montes, ],  Imminenti:    Critica deir Amore e del Lavoro [Catania.  Critica della Morale [Catania, “ Etna Etna J. Giuseppe Rensi. Rensi. Keywords: filosofia dell’autorita, autorita e liberta, Gorgia, Gorgia ed Ardigo, Santucci, Tendenze della filosofia italiana nell’eta del fascismo, Gentile, necrologio, Ardigo, Platone, Cicerone, Ficino, Bradley, Bosanquet, diritto e forza, filosofia della storia, Gogia, Elea, Velia, Elea ed Efeso, Gorgia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Rensi” – The Swimming-Pool Library. Rensi.

 

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