Luigi Speranza -- Grice
e Jaja: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola
di Conversano -- filosofia pugliese – scuola di Bari -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Conversano). Filosofo italiano.
Conversano, Bari, Puglia. Grice: “I like Jaja – of course you cannot understand
Jaja unless you understand Fiorentino, Croce, Spaventa and Gentile! The
quintessential Italian philosopher!” – Grice: “Jaja is a sensualist, like me.”
–Grice: “My favourit essential Italian philosopher. Figlio di Florenzo Jaja,
a cui è dedicato l'Ospedale Civile di Conversano. Si trasfere a Napoli, dove studia
sotto la guida di FIORENTINO. Si sposta a Bologna, dove si laurea per seguire
il suo maestro. Il suo incontro filosofico
principale e con SPAVENTA. Col trasferimento di J. a Napoli i rapporti con
Spaventa divennero regolari. Insegna a Pisa. J. non è stato mai considerato un
filosofo particolarmente originale, ma ha avuto il merito storico d'introdurre
GENTILE allo studio di Spaventa – “although he was possibly more than Hardie
was to me!” – H. P. Grice -- merito che l'allievo riconosce sempre. Altri saggi:
“Origine storica ed esposizione della critica della RAGION PURA”; “Studio
critico sulle CATEGORIE e forme dell'essere”; “Dell'A PRIORI nella formazione
dell'anima e della coscienza,”; “ L'unità SINTETICA e l'esigenza positivista,”;
“Sentire e pensare,”; “Identita e Semiglianza ed identità”’[cf. Grice: “Cfr. My
theory of identity-relative, as a critique to Wiggins” -- “ Sentire, pensare, conoscere,”
“ L'intuito nella coscienza.”; Preti, J., filosofo europeo oltre Gentile, su ricerca. repubblica,.
treccani. J.: neoidealismo italiano, su orthotes.com. J. Gentile, Memoria, su sba.unipi, Spaventa
Gentile Idealismo, J. Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. open, Horizons Unlimited srl. Gentile,
Memoria su J., su sba.unipi. J.. Grice on “Sentire” e Pensare. Rupert
Brooke: “I love Grice: “I feel,’ never ‘I think’!” – “If a is a, is a LIKE a” –
a knife is not like a knife, but something that is not a knife can be like a knife.” Implicature!” Comincia gli studi al seminario in vista di una
futura carriera ecclesiastica, ma dopo l'unificazione, si trasfere a Napoli,
dove studia sotto la guida del filosofo neo-kantiano FIORENTINO (si veda) e a Bologna, per seguire
il maestro, con il quale si laurea. Dopo la laurea insegna a Caltanissetta e Chieti.
Tornato a Bologna vi conobbe e frequenta MEIS (si veda) e per suo tramite SPAVENTA
(si veda) che, oltre a influenzare lo stesso Fiorentino, divenne in seguito una
figura chiave per la formazione intellettuale di J. Con Spaventa i rapporti
dello J. divennero regolari quando egli si trasferì a Napoli per insegnare. Consegue
la libera docenza e ottenne la cattedra
di filosofia teoretica a Pisa. Tra i suoi allievi ha Gentile, che gli successe
poi sulla cattedra, e Radice. Nella dissertazione di laurea, data alle
stampe a Bologna con il titolo Origine storica ed esposizione della Critica
della ragion pura di Kant, colloca Kant all'origine di una scena della
filosofia che raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli
articola la storia della filosofia successiva a Cartesio. Da una parte il
filone filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e
della necessità -- Malebranche, Spinoza, Leibniz. Dall'altra la tradizione
francese, ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica -- Locke e Hume. Kant pone il problema, ritenuto centrale da J.,
del debito che il giudizio ha nei confronti sia dell'esperienza, sia
dell'universale. Tuttavia J. ritiene che Kant non da una soluzione adeguata e
definitiva ed è anzi incline a sostenere che la soluzione vada trovata nei
continuatori dell'opera kantiana. Emerge già qui chiaramente la tendenza a
leggere la tradizione idealistica alla luce degli interrogativi kantiani, in
una prospettiva che egli deriva da FIORENTINO. Secondo J., Kant pone il
problema della conciliazione di questi due elementi, di senso e intelletto, ma
non lo risolve. La manchevolezza è nell'intima natura del sistema kantiano. In
questo, lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto, recettività e
spontaneità, entrambi irriducibili, mentre la soluzione consiste nel mettere in
luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano sia non esclusivamente
soggettivo ma OGGETIVO e pertanto corrisponda alla realtà. – cf. H. P. Grice,
the justification of objective value, The Carus Lectures, Oxford. Compare qui
un interesse di J. per il modo in cui
l'intelletto proviene dal senso -- cfr. Plebe, in Guzzo – Plebe -- che mostra
anche una sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze
empiriche e che in seguito lo porta a confrontarsi con il positivismo e
l'evoluzionismo. Pesano in questo probabilmente sia gl’interessi positivistici
di Fiorentino, cui egli dedica questo saggio, sia l'ambiente intellettuale
bolognese, in cui spiccavano figure quali quella di MEIS (si veda). Ha modo
di sviluppare e precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e
forme dell'essere di Serbati. Qui critica Serbati della teosofia in quanto non
dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo rapporto con l'essere,
mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato dalla mente: È necessario
studiare la mente nella serie non interrotta dei suoi fenomeni, attraverso cui
passa nel formarsi. Kant ha colto questo punto in quanto ha mostrato che prima
di poter parlare dell'essere si deve indagare la natura della mente, e tuttavia
finisce con il postulare una irriducibile alterità della cosa in se rispetto
alla mente. Dopo Kant, Fichte, e quindi Hegel,
invece completano il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è
fuori della mente o psiche è il risultato o effeto di ciò che la mente e il
pensiero hanno rivelato. Gentile ha modo di considerare a questo
proposito che la lettura che il proprio maestro da di Hegel e personale e forse
inadeguata sul piano interpretativo. E uno Hegel mediato in primo luogo da SPAVENTA,
che ne sottolinea l'aspetto soggettivistico, e che J. legge in modo ancora più
immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero o la psichi umana. Temi
e ispirazioni filosofiche, in cui si mescolavano influssi hegeliani, fichtiani,
e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del pensiero - spinsero
J. a occuparsi del positivismo e in particolare di Spencer. In “Dell'A PRIORI
nella formazione dell'anima e della coscienza” (Napoli) -- ma si veda anche “La
somiglianza nella scuola positivista e l'identità nella metafisica nuova” -- J.
nell'esaminare e nel correggere
Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza: sensazione,
rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già modo di
articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e pensare. La
sensazione non è solo lo stimolo – alla STEVENSON (H. P. GRICE) -- che proviene
dall'esterno ma è anche modificazione. E interna all'ATTO INTROSPETTIVO del
sentire e alla sfera spirituale. In questo, da una parte valorizza l'importanza
dello studio scientifico dei modi in cui la conoscenza sorge e ha luogo. Dall'altra
mette in luce l'inadeguatezza di un punto di vista esclusivamente empirico o
ESTERNALISTA, o ESTROPETTIVO, POSITIVISTA, ESTERIORE. Tornato su questi temi in
“L'unità SINTETICA kantiana e l'esigenza positivista” si propose di conciliare
l'esigenza positivistica, che nega elementi a priori e che è invece interessata
a ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza kantiana,
che vuole mantenere valido il punto di vista universale. Opera tale
conciliazione ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più
evolute di coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Si
appropria dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca
nell'immagine idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai
gradi più semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate. La
trattazione di questi temi prelude al “Sentire e pensare”. È mio fermo convincimento che il problema
speculativo, in tutta la sua ampiezza, resta un labirinto senza uscita finché
non solo non e studiato sul terreno indicatogli dalla filosofia in genere e
dalla critica kantiana in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per
esso della COSCIENZA – cf. Grice, “Personal identity,” “Intention and
Disposition” – Stout vs. Prichard -- coscienza, ma più ancora finché nello
studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel giusto punto, dove il
senso finisce e la coscienza incomincia. O, dove il senso non è più solamente
senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di esso i suoi primi
germogli. – cfr. Grice on Empiricism as a bete noire --. J. è interessato
a individuare il momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono.
Da una parte è desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degl’evoluzionisti,
fino a spingersi ad affermare che il principio assunto oggi a base delle
scienze naturali, l'evoluzione è vero e fecondo, un'affermazione non priva di
interesse in un autore che esercita il suo influsso nella formazione di una
filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in
particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella
sensazione degl’elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità
propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione
di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di
un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini, è interessato a
conciliare una comprensione scientifica mecanicista della natura, che prescinde
da una descrizione in termini INTENZIONALI, e che l'evoluzionismo ha esteso
anche agl’organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in
termini concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica
anziché come prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica,
chiude quasi subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in
termini evolutivi del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare
che non vi sono passaggi categorici ma solo di grado. La sensazione è foriera
della coscienza e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio
-- non salto. Gl’elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione.
La vita della coscienza è due cose. E la continuazione della vita del senso, e
per esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme. L'immagine evolutiva
è impiegata per significare questo passaggio dalle diverse forme della vita,
che intende come una forza che si
dispiega. Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che, nel sentire – cfr.
Grice in Schwarz, SENSING PERCEIVING -- si raccoglie tutto il mondo naturale
sottostante, e che questo mondo naturale è qualche cosa di vivo, viva essendo e
perenne e senza limiti la produzione degl'individui diversi, che si succedono e
s'incalzano in tutti i diversi ordini della natura. Questo mondo naturale che
si raccoglie nel sentire è la forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza
sottostante, compiute tutte le condizioni, sale al grado di sentire, produce
ancora. E non intendiamo dei soli individui che compongono il grande regno
animale. Il sentire è per sé solo forza, perché per esso gl'individui senzienti,
forniti delle capacità, della forza di sentire, non vivono soltanto,
assimilandosi e trasformando gl’elementi del mondo inorganico, ma il mondo pre-esistente
della vita trasformano in una superiore esistenza, nell'esistenza RAPPRESENTATIVA
– cfr. Grice on Aristotle on life and soul --. Nella rappresentazione, la forza
naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando quel movimento di ritorno
sopra di sé – META-REPRESENTAZIONE – reflessiva -- nel cui compimento è il suo
possesso, e la sua integrazione. Puo già leggere in Spencer una concezione
dell'evoluzione come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana
dall'evoluzionismo di Darwin, di cui Spencer non si libera mai. Ma egli chiude
subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine
evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a
invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il
modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza. Non resta dunque, che
sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte diverse. I
fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione, così come
era e poteva esser dato nella logica formale potranno trovare dura questa
conclusione. L'evoluzione è immagine della forza che dal regno della natura
ritrova se stessa, cioè si rende consapevole nel mondo dello spirito. In questo
senso, J. può essere ascritto alla schiera di quanti hanno usato
l'evoluzionismo per produrre una loro filosofia della storia. Una
conclusione, questa, che trova conforto in uno scritto successivo di J., L'intuito nella coscienza.. È qui
affrontata la questione se l'intuito ha una parte nella ricerca scientifica. J.
risponde affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto in primo piano
solo quando il pensiero indagatore sente il bisogno di ricorrere alla
conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore, e cioè quando vi è
perplessità sull'evidenza del proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la
conoscenza non sia solo accumulo e accostamento di fatti, J. afferma, di nuovo contro i positivisti, che
i fatti e la storia, se sono la realtà, non sono tutta la realtà. La realtà
storica, oltre ad essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior
modo nell'universale e per l'universale. I fatti e la storia sono testimoni
cioè di un universale che li raccoglie e dà loro un senso. Nel successivo
Ricerca speculativa. Teoria del conoscere (Pisa), insiste sul concetto del
pensiero che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli
ritiene che la filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico
di studio che non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Si tratta di salire
nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per costruire
l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere. Se alcuni interpreti
hanno ritenuto che in quest'opera
traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di
Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo – Plebe), Gentile invece vi ha voluto
scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto,
una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato
all'idealismo italiano. Come nota, a tal proposito, J. qui non muove più dal
senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è DATO dalla coscienza, per
spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello scetticismo. Si mette
innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni rapporto di esso con la
verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come principio unico ed
assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro possibile pensiero. Oltre
agli saggi menzionati, si segnalano ancora, fra gli altri: Un po' di polemica
nella quale principalmente si discorre dell'articolo 73 dello statuto in
rapporto a' poteri supremi dello Stato, Bologna; Saggi filosofici, Napoli -- raccoglie scritti già pubblicati e
l'inedito La virtù e i suoi elementi costitutivi -- la prefazione alla raccolta
di Scritti filosofici di Spaventa, cur. Gentile, Napoli; Enigma della
coscienza, in Rivista filosofica; L'insegnamento filosofico universitario ed il
regolamento nuovo, Pisa. Membro della Società reale di Napoli e cavaliere
dell'Ordine della Corona d'Italia. Fonti e Bibl.: Necr. in Il Messaggero
toscano, (C. Sgroi); Corriere
toscano, (Tarantino); Gentile, Lettera a
J., in Gentile. La vita e il pensiero, a cur. della Fondazione Gentile per gli
studi filosofici, lettera di Gentile
laureato al maestro; Battaglia, Lettere di Meis a J., in Memorie dell'Accademia
di scienze dell'Istituto di Bologna, cl. di scienze morali; Gentile, J.,
Carteggio, a cura di Sandirocco, Firenze; Miccolis, Lettere inedite di J.,
Firenze s.d.; Gentile, J., Pisa, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia, Messina Alliney, I pensatori
della seconda metà del sec. XIX, Milano ad ind.; Croce, Conversazioni critiche,
Bari; Guzzo - Plebe, Gli hegeliani d'Italia, Torino; Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica
in Italia, Padova; Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi
storici, Cristallini, Il pensiero filosofico di J., Padova
(con bibliogr. degli scritti dello e sullo J.); Carcuro, Polemiche
filosofiche antirosminiane: Mamiani e J., Aversa; A. De Gubernatis, Diz. biogr.
degli scrittori contemporanei, Firenze, s.v.; Enc. Italiana, XVIII, s.v.; Enc.
filosofica, IV, s.v.; F. Abba Luzzato, Diz. generale degli autori italiani
contemporanei, I, sub voce. Grice: “Jaja is especially important for the fact that he tutored
Gentile. He wrote on the ‘supreme powers of the state’, since he was a Hegelian
at heart, as a collection published in Italia thus calls him – “Gli hegeliani
d’Italia: Tocco, Jaja, Gentile. While he studied Kantism in depth, he finds
that the Hegelian absolute, the State, as compromise between ‘gl’individui, as
Jaja calls them, is the maximum!” Donato Jaia. Donato Jaja. Jaja. Keywords:
implicatura, I potere supremo dello stato, la virtu. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Jaja” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice
e Jerocades: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia
della massoneria – la scuola di Parghelia -- filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Parghelia). Filosofo
italiano. Parghelia, Fitili, Vibo Valentia, Calabria. Grice: “I would consider
Jerocades more of a poet than a philosopher, but then he was a priest and a
Mason!” Essential
Italian philosopher. Scrisse il saggio “Dell'umano sapere”, di stampo
illuministico, che verrà successivamente pubblicato a Napoli, e “La partenza
delle Muse”, edito na Messina. Si trasferì
a Napoli. Dietro raccomandazione di Genovesi, col quale era entrato in
corrispondenza, venne assunto al "Collegio Tuziano" di Sora come
maestro d' “ideologia”. Frequenta gli ambienti massonici. Secondo il clero
sorano, tuttavia, quelle opere non si attagliavano ai giovani del collegio,
tant'è che prima della rappresentazione di “Il ritorno di Ulisse” -- che
conteneva alcuni intermezzi ridicoli e di stampo anticlericale, in particolare
il Pulcinella da Quacquero, il vescovo emise un editto di censura: ne seguì un
processo per eresia e sedizione, con la reclusione di Jerocades nel carcere
vescovile. Scarcerato dopo sette mesi, lasciò Sora per tornare a Napoli, dove
divenne popolare come poeta improvvisatore. E in Calabria: qui si dedica alla
composizione delle raccolte Quaresimale poetico e La lira focense,
testimonianza di un «illuminismo massonico». Insegna a Napoli. Fonda la Società
Patriottica Napoletana, coagulo dei principali esponenti del giacobinismo e
dell'antigiurisdizionalismo partenopeo, ovvero che miravano a costituire una
repubblica, cosa che determinò la sua incarcerazione a Castel dell'Ovo e il
processo per apostasia, ma riebbe presto la libertà, avendo deciso di
ritrattare. Anche per il conflitto interiore causato da una siffatta scelta, sostenne
attivamente le idee rivoluzionarie, che però, in seguito alla breve esperienza
della Repubblica Napoletana, gli costarono nuovamente il carcere, e quindi
l'esilio a Marsiglia. Ritornato a Napoli razie all'amnistia prevista dalla pace
di Firenze compose l'elogio di suo padre e di suo fratello, motivo che indusse
a farlo rinchiudere nel convento dei Liguorini di Tropea. Saggi: “Esercizii
spirituali in compendio ossia il filosofo in solitudine” Napoli); “Il Paolo, o
sia l'umanità liberata poema” (Napoli: presso Porcelli, Inni di Orfeo esposti
in versi volgari, Napoli, La gigantomachia, ovvero La disfatta de' giganti,
Napoli: La lira focense, Napoli: si vende da Gennaro Fonzo, strada Forcella, Olinto
e Sofronia, dedic. Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio,
Napoli, Orazione recitata ne' funerali solenni di Marcello Accorinti morto in
Messina nel terremoto. Napoli, Fedro, “Esopo alla moda, ovvero delle favole di
Fedro, Parafrasi Italiana” (Napoli: Porsile, Orazio); “Le odi di Orazi esposte
in versi volgari” (Napoli); “Le odi di Pindaro tradotte ed esposte in versi
volgari” (Napoli: Russo); Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli,
D. Martuscelli, Gervasi, Napoli B. Croce, La rivoluzione napoletana Biografie,
storie, racconti, Laterza, Bari L.
Alonzi, Il giacobinismo napoletano, in Idem, Il Vescovo-prefetto. La diocesi di
Sora nel periodo napoleonico, Sora, A. Piromalli, Illuminismo massonico, La
letteratura calabrese, I, Pellegrino
editore, Cosenza, B. Croce, D. Ambrasi, Il clero a Napoli tra rivoluzione e
reazione, in Cestaro Lerra, Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina
e il Decennio francese, Atti del Convegno, Maratea, I, Venosa, Croce, La rivoluzione
napoletana, Biografie, Racconti, Ricerche, Bari, Laterza, Saggio dell'umano
sapere, D. Scafoglio, Vibo Valentia, Sistema Bibliotecario Vibonese, J., La
lira focenseː un abate poeta in loggia, Piromalli e Bravetti, Foggia, Bastogi. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 1. T) Indaro, figliuolo di Diifanto,e di Mirto,
J» nacque in Tebe, città capitale della Beozia. Mono il padre, eh’ era sonator
di tibie, la madre, eh’ era ancor sonatrice sposò Scopelino, e, quindi, dopo la
morte di lui, sposò Pagonida, ambi professori di musica. Di qui è,ché al nostro
Poeta si danno tre padri, de' quali due nel vero sono patrigni . Or questa sua
sorte fece la sua virtù; imperciocché nacque, visse, e morì tra le Muse, le
quali a quel t&mpo erano e ricche, e nobili,ed onorate. I suoi primi studj
furono la musica, e la poesia, che apprese da Laso Ermìoneo, e che peifezionò
sotto Simonide, ed Eschilo i quali' fiorivano in quella età. Indi,, dato
l'animo allo studio delle scienze, seguì la, tutta la sua v»ta al modello della
pietà . Tra gii altri numi venerava spezialmente Pane, Rea, e Febo e siccome la
sua casetta era vicina al tempio ;, propagata per la Beozia, e non la scuola
Italica J mica ; onde fu scolare di Pittagora, e non di Talete. La sua dottrina
dunque divenne sacra, e tnis ica in modo, che pieno di queste idee, formò di
Rea, egli era o uno de' sacerdoti, o almeno il compagno e il partecipe de'
sacri misteri., a. La sua dotta e saggia pietà e l’ornamento, e'1 retaggio
della sua industre e faticosa famiglia. Imperciocché, ricevuti da Timossena,
sua consorte, un maschio, chiamato Diofanto', e due femmine, per nome
Protomache, e Polimeri trasfu-, se col sangue la sua virtù per modo ne’ figli
che gli mandava il giorno e la notte al tempio dej padre, e della madre de’
numi. La sua casetr A9 me • #-, §a medesima era un tempietto dtvoto, in cui con
vicenda soave si passava dai coro alla mensa, e dalla cetra atta tazza, cioè
dal travaglio al riposo, e dal ripeso al travaglio. Non senza ragione gli
Spartani prima, e qnndi i Macedoni, liberarono dall'incendio comune l'albergo
di lui riguardato qual,, saero asilo delle Muse, e di Febo . Di fatti la faina
di Pindaro era sparsa per tutta la Grecia, e al di là della Europa; già che
Serse nella sua famosa spedizione n' ebbe ancor del rispetto, come dipoi n’
ebbe Alessandro gloria del re della Persia 3. Or qual si fu la vita civile di
Pindaro? Applicato alla poesia, e alla musica, non cantava, che numi, ed eroi .
L'antichità vide e lodò i suoi carmi, Inni, Ditirambi, Treni, Peani, ed altri
Lirici,e Melici componimenti, rapportati da Smela, che non vinsero la forza
vorace dell' ignoranza, dell'invidia, e del tempo, e de' quali solo si mostrano
alcuni frammenti, da Stefano variamente, e con diligenza raccolti, Restano
dunque eli lui quattro libri de’ Vincitori Olitnpj, Pizj, Nemei, ed istmici,
de' quali Aristofane . grammatico di gran nome, ne fece una raccolta, ordinata
a suo modo, e chiamata Periodo. Ed egli è qui da notarsi, che tra le opere di
Esiodo si è serbata la Teogonia, e si è perduta 1’ Erogonia ; ma tra quellf di
Pindaro al contrario si sono serbati gl' Inni degli Eroi, e gl* Inni degli Dei
si sono perduti . Queste opere f.inno la vita del nostro Poeta, siccome le
guerre, e i viaggi fanno la vita d’Achille^ d' Uhsse. Ma benché Pindaro per
formare i suoi carmi divini dovea menar i giorni nella pace, nel silenzio, e
nell’ozio, e vivere con se stesso, col mondo, e co’ numi; non potea dispensarsi
dal viaggio > e dal cvmraercio co’ Prmci-,1, quasi emulando la Dìgitized by
Google 5 pi del suo tempo, e dal conoscimento di varj popoli, e di
varj costumi senza i quali so'corsi ; non si può essere, nè si può fare il
Poeta. Oltre il viaggio di rutto e quanto il mediterraneo (eh* eia il viaggio
alla moda in quel secolo) e’ vide Coma, Siracusa, e Cirene, e familiarmente u ò
de’ Re e con confidenza trattò nelle Corti., Nelle giostre festive fu più volte
e spettatore, e spettacolo, e sceso al paragone con Corinna, pianse la v.irtù
della Musa vinta dalla beltà della Musa. In mezzo all’ armonia dunque il Tebano
cantore visse la sua vita dividendo le ore fra, lo s'adio,ei! teatro, le due
scuole dell’antica virtù : e così finalmente morì, cadendo nelle braccia di
Teosseno giovanetto di Tenedo, dopo, avere ascoltato con sommo piacere una
festa teatrale, ed armonica. N.ito nell' Olirne. 65. morì nell’ Olimp. 36. di
anni 84.,bìochè altri narrino altrimenti e la vita, e la morte di lui. La vita
de saggi, sempre disputata, non è il corso di perigliose avventure gravi di
speciosi e nobili avve1 nimenti. Ella si legge ne loro libri, e tutti i quadri
d’ un Poeta formano il quadro di lui . E qui si offre il nome eh’ e' diede a’
suoi carmi di qua-, dri . E’ chiamò ogni sua Canzone siSog, immagine, simulacro,
o per la varia sorte de’ versi Litici ; o perchè tal è la poesia, cioè pittura,
e ritratto o perchè siccome ad ogni vincitore si al$, zava una statua col nome
dell'eroe, della patria, e del giuoco $ e’ gliene voleva alzar un’altra di
versi, di quella più perenne ed eterna . E' fece uso del dialetto dorico che
più confassi con lo sti-, le sublime. Ma quello, che più distingue Pindaro dag
i altri Poeti si è P uso smoderato degli, Episodj imitato non sempre
felicemente, da,, {'lacco .Lo stile delle sue poesie à Lirico-tragico, A3 e tal
% e tal volta Lirico-comico; imperciocché, siccome in Omero ci ha favole,
e favolette, co>l in Pindaro ci ha canzoni, e canzonette. Per questa ragione
nel tradurle, ed esporle si è tenuta una maniera diversa, secondo che oggi è
fuso d’ Europa. Di fatti oggi in Europa è in pregio solamente la poesia, e la
musica Lirica, e questa è o tragica detta altrimenti Pindarica, e Alcaica ; o
comica, altrimenti detta Anacreontica, e Saffica. Ne' teatri si unisce l'uno e
l’altro stile Lirico, onde sono i recitativi, come si dicono, e le arie. Ma l’epica,
e la drammatica, tanto tragica quanto, comica, è poesia disgiunta oggidì dalla
musica, ed *’sì deono rispettare le superbe vicende del secoli . Ecco la
ragione, onde ho tradotte ed esposte le Odi di Pindaro all' uso del Guidi; e
tal volta, ma di raro, all’ uso delle cantate da scena. Nèmisi parlidistrofe,
d'antistrofe, ed’ epodo ? di ternioni quaternioni, e quinternioni,j che oggi
sono più che vecchie monete . Chi ha voluto tener le usanze antiche, si ha dato
una legge importuna, che poi ha dovuto pagare col prezzo di tante gloriose
fatiche. Chi non esalta il merito di Adimari, e Gauter ? E pochi sono, che
apprezzano le loro Erculee imprese ; e spesso hanno errato per necessità di
consiglio . Or lasciando a tutti e traduttori, e cementatori di Pindaro la
gloria immortale del nome; io ho ardito d’ incominciare ad uso mio questo
faticoso lavoro, e ho ardito ancor di compirlo a mio modo. Se questa è una lode,
io la confesso ; poiché mi è grato un onore, che mi venga dal merito. Soggiungo
ancora d'aver letta, a quest’ uopo, Plutarco, Eliano, Pausania, Clemente,
Stobeo, Eusebio, Quintiliano, Orazio, fra gli antichi ; Suida,, GiraJdi, Motóri,
"• Baile, Fabbiicio, Schmid io, A\ Be, 1 Pindaro, il quale, quando è
gustato, è conosciuto • |o confesso ancora di aver vinto la causa, di cui la
questione si fu: Se gl’inni Cristiani sono da più, o da meno, degl* Inni Pagani
? Io proposi, son già molti anni passati, che sono da più ; e per dimostrarne
l'assunto col fatto, tradussi ed esposi gl’inni Cristiani, e gl'inni Pagani, e
lasciai la causa alla fede, e alla ragione de* giudici. Pubblicati gl’inni d’
Orfeo e di altri e,, quindi le Odi d’ Orazio, non restavano, che gli Inni di
Pindaro al compimento dell’opera. Ecco la iuta fede legata già sciolta. Chi
legge, se ha sénno vegga e conosca la 4; verità . A non voler dir altro, basta
il dire che, negl'inni Pagani o manca la persona, o rrnnca il soggetto, eh’ è
la virtù., E se dicesi, che appresso i Pagani tal era la persona reale, e tale
il soggetto dell* inno; io dico che cangiate le idee,, dubbiamo venerare le
nostre. Ma le Liturgie, per una sorte comune sono ignorate da chi le, adora, e
conosciute da chi le disprezza. Quindi è, che questa causa spetta al giudi ciò
de’ posteri come accenna nella Od. i. Olimp. il nostro poeta. Nel resto non può
negarsi, essere oscura e confusa 1 antichità, e chiara e distinta h nostra età,
in cui quel che si legge, si vede, e quel che si vede, s’ intende . Per me
m’inebbrio di gioja quando canto nel coro un inno de' nostri; e. nel cantare un
inno Pagano, sia superbo e pomposo, non mi sento nel petto un senso di dolce
pietà. £ non abbiamo noi i nostri agonistì, i campioni» -gli atleti r, gli
atlanti, gli aicidi di Cristo? Altro che kcorsa f, e Ja lotta, sono le virtù
del Benedetti, Aditimi, Stefano, Gaìitefj ed altri fra i moderni e di averne
tratto profitto ma, di. aver sempre apprezzato sovra di tutti lo stesso
la Chiesa . Si legga solo F inno di Venanzio giovanetto, e santo deli’
Umbria, e si vegga, quai sono in vero gii eroi. E’ non vi ha dubbio, che iti
Pindaro vi sono le più belle sentenze e mo-, lali, e politiche che il suo stile
spesso è orien; tale, come lo stile liturgico di Asaflfo, d' Orfeo d’Omero, e
di Ossian; ma queste bellezze, che di rodo si ammirano ne' poeti Pagani, ne’
nostri sono e profuse, e neglette. 5. Mi resta a dir due parole su i Giuochi,
che formano F argomento dell’ opera • I Giuochi, dette ancora feste giostre
certami agojii, con(,,, trasti ) erano o ginnici, o musici . I musici eran
prode del conto, del suono, della poesia, della storia, e della eloquenza; e
tal volta erano dispute circolari da scuoia. Questi si davano d' ordinario
neU’Odèo, nel Musèo, nel Licèo, nel Teatrone di rado assai nello Stadio, infra
il romor delia turba, il vincitore avea la corona, la statua, e il soldo
pubblico,e forse Finno della vittoria. Mi questi giuochi non eran molto famosi.
I Giuochi ginnici erano o sacri, o profani . £ profanieranolascherma,ei!
bersaglio,edaltri, destinati col tempo alle pene de’ rei., I sacri et solenni
eran cinque, la corsa, la lotta, la pugna, la danza, la palla, detti in
generale Pentatlo da' Greci, da’LATINI Qoinquerzio, e tal volta Pancrazio,
benché Pancrazio comprendea solamene te;la pugna, e la lotta* La corsa era a
piedi, a nudo', o armato a cavallo, o frenato, o senza ; freno ; e col carro,
tirato da due. o da quattro cavalli £ Il premio della,virtù eia kt stessa
virtù; o pure una corona di olivo f di lauro, d’apio, di rame, o di ferro ; una
statua col nome so»* della patria, del giuoco; e un inno di lode, ond’ era
accompagnato* litornapdo' in trionfo, alia patria 1 luogo di questi
Giuochi era lo Stadio, in tre parti diviso, e distinto con tre colonnette. Vi
prese* devanoi pubblicimagistrati cometestimoni egiu-,, dici delle contese.
Tali feste, instituite da Ercole, da Pelope, da Enomao da Ifito e p;ù volte
tralasciare, e più volte riprese si celebravano, nel principio d' ogni cinque
anni piade non era diversa dal Lustro, che fu la gran festa degli antichi ROMANI.
Questa città, eh’ è stata sempre la madre degl randó altre insegne e divise,
onde vivano ignoti al mondo, e noti solo a se stessi. Vivi fra * morti, e mprti
fra i vivi, passano in pace la vira e fanno il lor nome risonare nel silenzio,
della virtù. Fra molti, che io venero, ha luogo Gaetano Ancora Napoletano
giovane d’ alti ta-,, lenti, e di aurei costumi . E’ rubando agli alti, affari
politici, e al vigor giovanile, e alle ombre notturne poche ore del tempo le
consacra a quel,, profondo studio, che da' primi anni coltivò, d* una maschia e
robusta Letteratura Latina, e va di quando in quando esponendo una parte di
quella Sapienza vera, che nel tesoro delia età vetusta si serba come un sacro
depost-,,, <5. Molte, e varie notizie si sono d'america vate 11 da Pausania,
da Natale de Conti, e da saggi scrittori delle Greche antichità, Ma disperando
di poterne qui dare un Saggio compiuto che servisse di scorta alla legione di
Pindaro, ho pregato il mio doke amico, e maestro Ancora y il quale, tra le
gravi cure della Corte, cori va . con applauso universale i più severi studj
della Letteratura, oggimai quasi moribonda e spirante.1 ingegni, e la scuola di
tutte le Muse non ar-, 1 disce più di onorare il nome de suoi gran figli col
titolo di saggi e di dotti e va lor proccu-,,, onde T Olim JO to della umani, e
divina ragione . Quindi la Repubblica delle lettere gode di tante dissertazioni
dilui, chesonodiraro, diutile, edifestivo argomento, e che raccolte si daranno
a. suo tempo al'a luce. Or egli piegandosi gentilmente al-, le mie premurose
preghiere, ha scritto un Saggio tu i Giuochi solenni di Grecia, il quale,
stampato alla fine del libro la erudizione comune, serve ale al rischiaramento
delle ©ni di Pindaro. Perciò son io contento delle mie fatiche, le quali con
questo lume compariranno, come spero, meno oscure, e meno importune $ e la Musa
Dircèa sarà più sacra, e più venerata. A vero dire non deve un Poeta ri sublime,
e sì sacro, come colui, che canta da eroe le virtù degli eroi giacersi nell'
ingrato obblìo d' una facile indifferenza, o d' una criminosa ignoranza?
eseiohofattosì, cheil suonomesiatranoi p ù conosciuto, ed imitato almeno nelle
sentenze, se non si può-nello stile, Sublimi feriam sidera Tropea.
Palazzo Sant'Anna. odierna sede del Municipio ed ex Collegio dei Gesuiti. J.
visse da filosofo inquieto una esistenza drammatica. Pur affascinato dalle idee
di libertà di cui si è fatto assertore e promotore, non smise mai di produrre
opere di natura religiosa e devozionale, anche pervase di amore e tenerezza,
soprattutto verso la Vergine Maria. E' un ecclesiastico che non sovrappone il
livello della politica a quello della fede, ma tenta piuttosto un equilibrio che
apparirà fortemente precario e non convincerà nè il potere politico nè il
potere religioso. Dall'una e dall'altra parte fu perseguitato per tutta la
vita, tuttavia non sconfessò mai la sua fede cristiana, nè resistette
fermamente al tiranno fino alla morte. Quest'uomo che le istituzioni
hanno più volte punito secondo i loro statuti con il carcere e con l'esilio fu
un 'uomo contro', ma non aveva la vocazione al martirio. Io mi fermerò a
considerare l'ultima prigionia dell'abate Jerocades. Fu la conclusione di una
vita oltremodo inquieta. A Tropea, nel collegio dei Padri Redentoristi non si
chiudeva solamente una vita, si spegneva il tentativo di conciliazione di un
credente massone e giacobino con il mondo moderno. UNA VITA ESAUSTA
L'abate J. non aveva la vocazione al martirio e tuttavia la sua vita inquieta è
stata vissuta nella lotta, una opposizione ideologica contro i potenti e una
tuonante avversione al mondo clericale. Il terremoto del Capo, questa
operetta indiavolata, come la definisce Tigani Sava, ci dà la misura di quanti
fossero i suoi nemici, ma anche di quanto egli sapesse usare la lingua e la
parola per colpire, offendere, insultare. La parola fu la grande arma che
Jerocades usò per illuminare le menti, per eccitare i cuori, per aggredire chi
lo contrastava, per lottare i suoi numerosi nemici. Dotato di grande
facilità di parola, scriveva e verseggiava con facilità e spesso dava alle
stampe i suoi scritti senza rileggerli. L'ultima prigionia a Tropea,
nella casa dei Redentoristi, fa pensare a Daniele nella fossa dei leoni. Ma
l'accostamento biblico ci richiama anche altri protagonisti calabresi di utopie
religiose e politiche: penso a Fiore, a CAMPANELLA, profeti perseguitati per i
loro sogni di libertà. Con uno spessore certamente diverso, ma con un'ansia di
fondo che ha una matrice comune nella natura rivoluzionaria del
cristianesimo. Credo sia opportuna una riflessione sulla condizione
ecclesiastica di J. e sulla sua formazione, perchè ci consente di cogliere
elementi di approfondimento in lui come anche nelle figure più rilevanti del
giansenismo, del protestantesimo, del giacobinismo, della massoneria: tutti più
o meno di provenienza culturale e ambientale non solo cattolica, ma
specificamente ecclesiastica (si pensi a Salvi, Aracri, Serrao, Padula,
Angherà, Nudi o altri meno noti). Il valore culturale, etico, sociale di
queste personalità e della loro opera in Calabria e fuori, osserva Mariotti, e
stato messo in rilievo da studi seri ed accurati, "che tuttavia non sempre
superano del tutto la tendenza ad interpretare illuministicamente l'aspetto
contestativo soprattutto in chiave di apertura alle novità, al progresso contro
l'ignoranza, l'arretratezza, il bigottismo degli am bienti ecclesiastici.
Pare sia più maturo un ripensamento, almeno su alcune complesse personalità:
anche per capire meglio il dramma umano, religioso, morale di questi uomini,
spesso condizionati dal disagio di una vocazione non autentica, talora
esasperati da situazioni realmente invivibili; e per cogliere, al di qua
dell'asprezza delle manifestazioni, la radice autenticamente cristiana e
cattolica di certe esigenze e critiche, nello spirito in cui oggi leggiamo e
accettiamo i rilievi al loro tempo sospetti, di Muratori sulla Regolata
devozione dei cristiani, di SERBATTI su Le cinque piaghe della
chiesa." Penso che, leggendo l'ancora inedita Orazione per
l'apertura della Scuola di Economia e Commercio nell'Università di Napoli,
detta da J., questa riflessione si riveli quanto mai opportuna. Egli,
rievocando gli anni della giovinezza, ricorda: "... Nato in un ignoto
villaggio dell'estrema Calabria da parenti oscurissimi, applicati alla pesca,
alla navigazione, al commercio, respirai le prime aure di vita, tra i remi e le
reti, nè mi sentia fremer d'intorno di altro il linguaggio che del dolore,
dell'opera, della fatica, i tre compagni primieri de' dolenti, operosi e
travagliati mortali, nè di altre immagini la mia mente bambina poteva ricolmarsi
giammai, che di povertà libera e di libertà bisognosa... piacque a mio padre di
ascrivermi tra l'ordine clericale e gà cominciai pur io, e ben per tempo, a
menar la vita tra i Salmi e gli Inni, imparando, ed insegnando ogni giorno le
Christiane dottrine... Chiuso il Seminario vidi e conobbi i primi elementi
dell'umano e divino sapere, e mosso dalla fama del Martorelli e del Genovesi
venni a Napoli ad ammirare quei due valenti e in filologia e in FILOSOFIA, e
con essi loro mi strinsi in familiare e soave amicizia." E'
altrettanto importante annotare che la preoccupazione per il seminario
rappresenta per i vescovi calabresi nella seconda metà del '700 la volenterosa
disponibilità di attuare una delle poche veramente innovative prescrizioni tridentine.
Ma in realtà molti seminari furono semplici convitti, che potevano influire su
una percentuale ristretta del clero, in quanto spesso surrogavano i collegi per
i laici, mentre i chierici in genere erano formati con un'infarinatura di
morale e di cerimonie dai parroci di campagna. Una circolare per la diocesi di
Tropea ritiene validi 10 giorni di ritiro come preparazione all'ordinazione
sacerdotale di coloro che erano stati presentati dai parroci. Si trattava di
una preparazione intensiva, che era tutto ed era poco! Il clero che proveniva
dai seminari invece si qualificò più per gli aspetti culturali che per quelli
pastorali. Per molti lo stato ecclesiastico rappresentava soltanto una
carriera ambita. In un ambito di cristianità il prete era il notabile, circondato
da uno steccato di privilegi. La vocazione era pertanto nella linea delle
pressioni sociali. Moltissimi erano i preti al di fuori di ogni quadro
pastorale: gli abati oziosi, i preti altaristi, i pedagoghi, gli eruditi, i
commercianti, i sensali, i selvaggi, i preti coniugati, gli eremiti. I sinodi
sono pieni di richiami agli abusi di questo clero che, privo di forti ideali,
dopo aver "strapazzato" la messa e l'ufficio, si dava all'ozio, agli
spettacoli, al cicisbeismo. Del resto va notato che il Concilio di Trento
aveva obbligato i vescovi a fondare i seminari, non i candidati agli ordini ad
entrarvi. La cura animarum suprema lex era molto disattesa, pur essendo
un principio fondamentale del Tridentino che aveva posto come capisaldi della
vita diocesana le visite pastorali, i sinodi e i seminari. Ma anche i sinodi
diventano sempre più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato è stato di
Ibanez: nessun altro sinodo verrà celebrato nel corso del settecento e fino al
vescovo Vaccari. La preoccupazione per
il seminario appare sempre viva e addirittura appare quasi ossessiva in un
vescovo latitante come Mele nella corrispondenza col suo vicario don A.
Meligrana. Questo vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di Tropea prima
della sua unione con Nicotera. Durante il suo episcopato avvennero fenomeni che
hanno cambiato il corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per nulla il
solo!) a rimanere fermamente legato alla tradizione; durante il suo episcopato
morì a Tropea J.. Sugli anni compresi sembra prevalere un grande silenzio
su J. nei documenti vescovili o comunque tropeani. Mentre il Martuscelli,
primo biografo del J., ci riporta con alquanta dovizia di particolari l'ultimo
periodo di vita dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini illustri della Calabria,
Cosenza), le notizie che abbiamo di lui dai contemporanei locali sono molto
scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie per servire alla storia della
santa chiesa tropeana, Napoli, Paladini, Notizie storiche sulla città di
Tropea, Cataniaed. anastatica a cura di Bella). Quasi irreperibili
nell'archivio vescovile di Tropea. Quello che ci lascia interdetti è la
mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini di cultura suoi contemporanei o
quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o Scrugli, o Melograni... Gli
archivi locali, sia quelli ecclesiastici che quelli privati, sono molto avari
di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea è assente il suo nome, se si
eccettua un documento di dispensa dall'età canonica per l'ordinazione
sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da Parghelia nelle visite
pastorali: Visita Paù: nell'elenco dei preti di Parghelia manca J.; Visita
Monteforte: adsunt extra patriam... D. A. J. Visita Monforte: absens...: A. J.;
Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens. Negli archivi privati si è
trovata qualche piccola traccia del suo passaggio nell'archivio Meligrana di
Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata Monteleone a Meligrana ricorda
che "le cose di J. [per lui trascritte] non sono che ordinarissime
composizioni, ma di un autore così celebre ogni cosuccia è buona". E più
avanti ricorda ancora di aver avuto in regalo dal nipote di J. (Raffaele)
"un autografo in francese e in italiano di suo zio". Da Parghelia,
attraverso don G. Meligrana, Vito Capialbi ha avuto molti testi di J., che dice
di conservare nella sua biblioteca (Cfr. Memorie, cit.). L'archivio più
fornito dovrebbe essere quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale
risulta pittosto disperso, diversamente da come era stato rilevato da Tigani Sava,
relativamente alla produzione di Jerocades (Cfr. il contributo bibliografico
più completo pur se con qualche piccola carenza di Francesco Tagani Sava in La
Calabria dalle riforme alla restaurazione, S. E. Meridionale. Il silenzio
delle fonti tropeane del periodo che corrisponde agli ultimi anni di vita di J.
sta ad indicare la sua emarginazione, dovuta a una avversione profonda,
soprattutto da parte del clero tropeano, che, nel Terremoto del Capo, era stato
oggetto di derisione e di gravi accuse di immoralità, ma anche del mondo laico
che non condivideva le idee giacobine dell'abate, anche se alle logge
massoniche da lui fondate, o che, come dice Gaetano Cingari, certamente
influenzò, a Parghelia e a Tropea, in molti avevano dato la loro adesione.
Tanto meno fanno menzione di lui gli accademici degli Affaticati. J. viene
ignorato, sia perchè è scomodo, sia perchè è ostile e pericoloso politicamente,
sia infine perchè ha usato la parola come arma che ha colpito duramente.
Forse non e esagerato pensare che si aspettava il momento giusto per
presentargli il conto. LA SOLITUDINE DELLA MORTE Martuscelli
racconta con dovizia di particolari gli ultimi anni della vita di Antonio
Jerocades e la sua morte. fu mandato in Francia", egli scrive: in realtà,
più precisamente, fu esiliato con altri 500, mentre Colace e Mazzitelli erano
stati uccisi. J. figura tra gli esiliati a Marsiglia per i fatti e, nell'elenco
dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche una descrizione
fisica dell'abate. A Marsiglia scrive tra l'altro l'orazione funebre per
Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la pace di Firenze,
rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma dove 'si ammalò
mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a Parghelia. Dopo dieci
mesi fu mandato nella casa del PP. Liguorini di Tropea, e dissesi che ciò fu
per correggerlo di quanto avea scritto nell'elogio funebre di suo fratello
Vincenzo", denunziato da Giuseppe Costanzo per vilipendio in quanto nella
detta orazione aveva parlato male del cardinale Ruffo. L'ordine era di
tenerlo segregato. E all'inizio l'abate "viveva nella quiete", scrive
il Paladini, che fu testimone oculare della sua prigionia; il quale aggiunge
che, cominciando J. al suo solito a satirizzare, perdè la confidenza dei
religiosi". In realtà la situazione appare più complessa, come
risulta dalla lettera di Migliaccio, successore del Pappaona, inviata a Mele e
conservata a Tropea nell'archivio Francia: Ecc. Rev.ma con ven.ta
carta V. E. Rev. ma partecipa al mio antecessore che il sig. Preside della
Provincia, col parere del sig. Av.to F.te D. Calenda le avea scritto che il
superiore di questa casa, quante volte i medici ne conoscano la necessità,
potrà far uscire a camminare il sac. J. di Reale ordine qui detenuto, in
compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio antecessore
subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che
avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo
nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa
Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era
mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e
vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un
poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un
par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o
il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una
noia uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è
poco. I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire,
nè trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un
obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i
medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo,
ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del
superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi.
Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della
propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore
passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano
nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni
successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni
trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che
non è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia
degl'individui di casa. All'incontro J. fa delle premure presso di me,
rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara
decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se
il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli
della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti
a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto
all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna
benedizione. Collegio di Tropea U.mo e obblg.mo servitor vero e
suddito Migliaccio del S.mo Red.re Di V.E. Rev.ma Mons. Mele
Vescovo di Tropea "In quel soggiorno scrive ancora il Martuscelli molto
si indebolì la sua salute pur nondimeno scrisse molte cantate, sonetti, molte
orazioni sacre, novene di alcuni santi, tradusse il salterio. Finalmente logoro
dai disagi e dalla improba applicazione allo studio munito dei santi sacramenti
nei sensi della vera pietà rese l'anima a Dio. Da colà fu il suo corpo
trasportato nella patria, e depositato nella sepoltura dei
sacerdoti". Muore. L'atto di morte si conserva nel registro della
parrocchia di S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della
parrocchia di Parghelia. Li riporto entrambi, oltre che per precisare e
definire la data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle
differenze: Parghelia Parrocchia di S. Andrea Apostolo Atto di
morte Rev. Sacerdos J., annum sextum ac sexagesimum cum attigisset,
sacramentis opportunis rite munitus, die decima nona dicti novembris obiit
Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris; cuius cadaver in hoc casale delatum
in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum
fuit. A. arch. Taccone TROPEA Parrocchia di S. Demetrio
Atto di morte Sacerdos J. casalis Pargheliae hujus Diocesis utriusque
juris atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in Universitate
Neapolis, sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis poenitentiae
et Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit, eiusque
cadaver in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum fuit.
Franciscus Antonius Grillo Vito Capialbi, precisando che Jerocades fu
sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche vicissitudini, involuto
nelle tristissime vicende andonne ramingo in Francia, ed in altri Regni
d'Europa; e già era rientrato nella patria in seguito del trattato di Firenze
del Finalmente, stando nella casa de' PP del SS. Redentore di Tropea, morissi Per concludere che "più copiose notizie
di questo vasto, e stravagante ingegno si riferiranno nelle nostre Centurie
degli scrittori calabresi". Di questo periodo della vita esausta
dell'abate Jerocades sono state dette certamente delle esagerazioni (il tetro
carcere la cella le punizioni le torture... il veleno cfr Didier), non
suffragate da alcuna documentazione, ma solo ampiando voci e dicerie, ma tante
altre cose sono state taciute. Stupisce però che il vescovo Mele, nella
visita ad limina, presenti una visione idilliaca del clero e della diocesi,
mentre nella visita pastoralee in altri documenti conservati nell'Archivio
storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e l'ingovernabilità del clero e
contro l'immoralità dilagante: nessuna nota abbiamo potuto rintracciare
relativa al caso J., tranne tracce indirette nell'Archivio Meligrana di
Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo Mele. Nell'archivio dei PP
Redentoristi della casa provinciale spero possa essere trovato del materiale
documentario che già lascia intravvedere Orlandi, storico dell'ordine, il quale
in Specimen Historicum CSSR-.FI "I Redentoristi napoletani tra ricoluzione
e restaurazione" dedica pagine interessanti all'abate Jerocades. Era
comune che le autorità inviassero dei condannati al soggiorno abbligato a
scontare la loro pena in qualcuna delle case della Congregazione. Per quelle
calabresi scrive Orlandi - si trattava di un compito assegnatogli dal dispaccio
regio: 'Qualora i vescovi diocesani o vicini per correzione volessero
mandare dei preti o chierici a fare gli esercisi spirituali nelle loro case,
dovranno sempre riceverli, con esigere anche per compensare del loro incommodo
quell'oblazione che non venga eccedere il tarino al giorno, pel tempo della
dimora che da quei preti o chierici si sia fatta presso di loro. L'ordine reale veniva poi eseguito dai
vescoli. Pertanto i Redentoristi "si trovavano nell'impossibilità di
sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità, che tra l'altro non era
sempre immune da rischi, come nel caso J.. Nella lettera di Migliaccio si
afferma con forza: Il superiore passato non dovea pure firmare quell'obbligo,
ch'egli non era fatto castellano, o carceriero. Orlandi, storico dei
Redentoristi, riporta un passo di Capasso (Un abate massone, Parma. Che in
questa nuova relegazione J. abbia continuato a mostrarsi secondo i casi massone
e rivoluzionario, si può facilmente ammettere, anche perchè è certo che non
cessò mai dallo scrivere ed improvvisare al modo antico. Ma l'esilio,
quantunque raddolcito dalle cure di chi l'assisteva, diè l'ultimo crollo al suo
cervello, di già a bastanza indebolito. Naturalmente, se a J, era sgradito soggiornare a Tropea, ai
Redentoristi lo era ancor più il doverlo ospitare. Dura da un anno quello stato
di cose, quando il Ierocades ottenne di poter passeggiare fuori clausura,
accompagnato da uno di quei frati. Ma, proprio il giorno in cui cominciava a
fruire di tale concessione, intavolato col compagno una discussione di
teologia, non essendo contento delle risposte dell'altro, passò dagli argomenti
alle impertinenze, e poi "usando dell'estro poetico", sepellì il
frate sotto una valanga di contumelie. Ricorse perfino al bastone, e buon per
il frate che riuscì a scansarlo". La lettera del padre Migliaccio
sopra riportata conferma quanto scrive Capasso. Orlandi conclude che
"invano i Redentoristi ricorsero ripetutamente alla corte per essere
liberati dalla sgradita presenza di J. che rimase a Tropea fino alla
morte". Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un
giudizio fortemente negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del
vescovo Monforte] J. di Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti
e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa;
volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu traditore degli stessi
sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta,
la sua morale non buona". Il teologo ci lascia questo racconto della morte
di J. Muore ai suoi tempi [del vescovo Mele] D. Antonio Jerocades.
Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato in esilio, fu denunziato da Costanzo,
da Parghelia quale autore di autore di una orazione funebre di un suo fratello,
dove parlava male del Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal
Ministro Pirrotta tra i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il
rettore Pappaona. Ivi sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al
suo solito a satirizzare, perdé la confidenza de' religiosi. Caduto
infine in delirio malinconico, e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre
membri del Capitolo, cioè l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e Paladini a
ricevere la sua professione di fede. Egli, invitato a ciò, diè segno di
approvazione, come il diè in tutta la lettura di detta professione. Richiesto a
sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del suo nome A ed
n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g. Allora il
padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con fargli
altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il Teologo
disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o è in
retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo, con
pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner sempre
il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati. Munito
poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere seppellito in
Parghelia." Questo racconto ci fa intravedere quali fossero le preoccupazioni
del vescovo Mele (solo formali e... di salvare un'anima!) e quali fossero i
sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano l'abate aveva fortemente fustigato
e vilipeso nel Terremoto del Capo. Sul versante laico il racconto di
Didier in L'Italie pittoresque, Pigoreau, Paris, appare assai ricco di
anticlericalismo e di spirito romantico: J., autore della Lira focense "fu
crudelmente perseguitato. Relagato nella sua città natale (sic!), ebbe per
prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica, ritenendolo ateo e
giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette reazionarie dei
Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco cristiano, l'esercitarono
con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non vi sono torture che essi
non inflissero al carbonaro poeta: il povero prigioniero morì presto, e colui
che gridava, in uno slancio di benedizione, "Vita, dono del ciel, sei
bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i suoi giorni spegnersi nella
prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico e persecutore. La salma del
martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon riparatore che riunirà in un
solo altare tutti i martiri dispersi della libertà italiana. La terra sia
loro leggera fino al giorno prossimo delle riabilitazioni!" La fonte
del Didier era certamente legata allo spirito patriottico che aveva bisogno di
creare i martiri. Questo spiega anche la data errata e il riferimento alla
salma che riposa a Tropea mentre sappiamo che Jerocades fu seppellito a
Parghelia. Nella prefazione alla Lira Focense pubblicata a Cosenza,
Francesco Migliaccio accentua il carattere persecutorio: "fu dalle
calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri assalito ed oppresso. Credette
farsi schermo e difese [...] negli occulti recessi della sua patria. Ma per la
malvagità dei tempi... fu nella sua veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa
di Missionarj di Tropea. Quivi nella indigenza, schiacciato dalla ferrea mano
che l'oprimeva chiuse i suoi giorni". A parte i comprensibili toni
romantici del Didier e di Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi
giorni nell'abbandono e nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà.
Neppure la visita del Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non
trovava più motivi al suo canto. La sua voce, un tempo bellissima e
ammirata, adesso era solo il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi
senza rimedio il suo cocente anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo
colse dopo aver ricevuto i sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha
trovato un uomo distrutto e che nelle parole del salmo 50 da lui amato ha
trovato l'ultimo motivo per affidare alla forza della parola l'anelito del
cuore. UN DIGNITOSO CONGEDO Non fu una morte normale quella di
Jerocades: nella sua inquietudine non bastò la famiglia dei liberi muratori,
non soccorse l'avventura giacobina, diede sofferenza la chiesa alla quale
apparteneva. Nella post-fazione dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che
alcune poesie che formano la Lira focense sono sacre e ricavate dai libri cristiani
e ne dà una spiegazione storica; ma a me sembra che egli voglia darci atto di
non aver mai abbandonato la certezza cristiana come in questa Salve piena di
affetto e di fiducia. O Regina, il Ciel ti salvi. Di Dio madre, e
sposa, e figlia, Volgi, ah volgi a noi le ciglia, Bella madre di
pietà. Mostra vita, e nostro bene, Nostra speme, e nostro
amore, Volgi a noi quel tuo bel core, Ch'è la stessa carità.
Figli di Eva, abbandonati, Dell'esiglio a' lunghi affanni, Dal
furor dei rei tiranni Chi ci salvi, oh Dio! non c'è. Senti il
grido, ascolta il pianto Di chi giace in ree catene, Bella Madre,
in tante pene Ci volgiamo afflitti a te. Dunque o nostra
Protettrice, Volgi a noi quel tuo bel ciglio; Mostra a noi quel tuo
bel figlio, Quando ha fine il lungo error. Tu sei madre assai
pietosa, Bella Vergine Maria; Tu sei dolce, e tu sei pia,
Tutta pace, e tutta amor. E mi appare persino commovente la Novena alla
Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades dedica a Raffaele suo nipote,
figlio del fratello Vincenzo: "Nel Castello dell'Ovo, villa un dì di
Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di stato dopo tre anni di esilio e in
altri prigioni e in altri esili, dopo Dio non ho altro obbiettivo delle nie
cure e delle mie preci che la Madre di Dio. Serbando fede alla patria,
l'ho sempre invocata col nome di Madonna di Porto Salvo, e questo conveniva
ancora al mio stato perchè nelle tempeste si cerca un porto e nelle battaglie
si cerca un asilo, impaziente di altra dimora: "Ch'io son vivo al
desir, morto alla spema". Gravato d'anni e d'affanni, ho scritto
questa Novena che a voi, caro nipote, offro e consacro qual dono e qual
debito. Io ve la consacro qual dono poichè è frutto dei miei studi e dei
miei talenti. Sono povero di fortuna e quel che mi ha dato la natura, spetta
anche a voi quando non disdegnaste di dirvi mio nipote". A me
quest'ultima frase appare commovente per la carica emotiva che sottende. Ma c'è
dell'altro che J. dice ancora come credente e come sacerdote: "Chi
sono i testimoni della fede? I vecchi. Io, che vecchio pur sono, così
presbitero, qual attestato maggiore di questo donarvi della religione e fede di
Cristo? A te, Raffaele, e all'eredità del padre e dell'avo aggiungerete
la mia. A te, e nella Chiesa di Porto Salvo fra i suoi monumenti della
pietà dell'avo e del padre appenderete ancora s'è degna questa Novena, in cui
leggerete le grazie e le glorie di Maria, da noi venerata sotto il nome di
Madonna di Porto Salvo". Il senso di verecondia che traspare da
queste parole non ci rivela forse il dramma di un uomo, di un credente, di un
sacerdote che, guardando indietro alla sua vita tormentata fa un bilancio
coraggioso e definitivo? "Dopo Dio non ho altro obietto delle mie
cure e delle mie preci che la Madre di Dio" Antonio Jerocades. Jerocades. Keywords:
filosofia della massoneria, Esopo in Italia, lira focense, giaccobinismo, ‘repubblica romana” “repubblica partenopea”, le
odi di pindaro, ginnasia, antichi romani. – Grice on Plato’s Republic. Refs.: “Grice
e Jerocades” – The Swimming-Pool Library. Jerocades.
Luigi Speranza -- Grice
e Jervolino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- ermeneutica
del dialogo – filosofia campanese – la scuola di Sorrento -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo italiano.
Sorrento, Campania. Grice: “I like Jervolino, but then I like any philosopher
of language! He is a Ricoeurian, and I’m a Griceian!”essential Italian philosopher.
Allievo
di Piovani. Insegna a Napoli. Collabora con diverse riviste specialistiche di
filosofia (Filosofia e Teologia, Studium). Esamina aspetti riguardanti a Ricoeur,
tra cui: la ricerca di un filo
conduttore unitario all'interno della sterminata ermeneutica (“Il cogito e
l'ermeneutica: La questione del soggetto e la inte-azione” (Procaccini,
Napoli). Messa in questione del soggetto chomskyano auto-centrato e auto-trasparente.
Ricoeur appare nei suoi studi come
caratterizzato dall'attenzione verso le peripezie del Cogito che, ferito e
spezzato nella sua autosufficienza, cerca di ritrovare sé stesso attraverso un
lavoro ermeneutico. Individua come centrale il paradigma della trans-ductio,
trans-implicatura, trans-patia, come modello fondato sulla co-ospitalità
conversazionale e la co-apertura all'altro conversazionale. Altre saggi:“Il
cogitamus e l'ermeneutica. La questione del soggetto e sui interazione” (Procaccini,
Napoli); “La filosofia senza assoluto” (Athena, Napoli) – cfr. H. P. Grice,
“Absolutes” --; “Logica del concreto,
logica dell’astratto” -- “Ermeneutica della vita morale.” Newman, Blondel,
Piovani, Morano, Napoli); “L'amore” (Studium, Roma); “Il segno della prassi.
Saggi di ermeneutica, Città del sole, Napoli);“Trans-ductio, trans-implicatura”
(Morcelliana, Brescia); “Ermeneutica ed implicatura” (Guerini, Milano); La
traduzione, la traditio -- etica, Morcelliana, Brescia, “Etica e morale,
Morcelliana, Brescia, Ricoeur e la psico-analisi (Angeli, Milano); Quei ragazzi di nome Fausto Bertinotti Boys – Archivio
Panorama. Grice: Jervolino is playing with Calvino. You see,
Calvino, a rather unimaginative writer, wrote a collection of things he titled,
in the whole thing and in the first part, “Glia mori difficili” – People would
have forgotten about it had it not been for Nino Manfredi who brilliantly
played the ‘soldato’ (to Bulco’s vedova) in ‘L’amore difficile’, sic in the
singular but indeed, ‘L’avventura del soldato’ – in that collective film.
Jervolino is having in mind this, and now poses Ricoeur as the widow and
himself as the soldier. On top, he invites Ricoeur to write the prologue which
he stupidly agrees to! Caputo has analysed the reciprocity of love and the
stupidity of seeing it as ‘difficile’. The blame is Calvino – the original sin
– who could have checked with the etymology of ‘difficilis’!” Domenico Jervolino. Jervolino. Keywords:
ermeneutica del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Girce e Jervolino” -- “Two
cartesian egos”. “Peripezie conversazionale”. “Peripezia ed implicatura”.
“Cogitamus.” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice
e Jommelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del musicista
filosofo – muovere l’aria – l’azione melodrammatica – la scuola d’Aversa -- filosofia
campanese – scuola di Caserta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Aversa). Filosofo
italiano. Aversa, Caserta, Campania. Essential Italian philosopher. Mattei riporta il seguente aneddoto sul suo soggiorno
in questa città. Andato in visita a Martini (già considerato come uno dei più
sapienti musicisti d'Italia), si era presentato a lui come allievo, chiedendo
di entrare nella sua scuola. Il maestro gli diede un soggetto di fuga che egli
trattò con molta abilità. -«Chi siete voi?», chiese Martini, «volete burlarvi
di me? Sono io che voglio apprendere da voi!» - «Il mio nome è Jommelli, sono
io il maestro che deve scrivere l'opera per il teatro di questa città» - «È un
grande onore per questo teatro avere un musicista filosofo come voi, ma vi
auguro di non trovarvi in mezzo a gentaglia corruttrice del gusto musicale». Grice: “I like Jommelli. Like
Speranza, I play the piano. My avant-garde compositions are thought to be too
avant-garde, too. I especially recall with affection how I would trio with my
father on the violin and my younger brother Dereck on the cello. Dereck became
a professional cellist with Hampshire. My obituary might well read,
“Professional philosopher and amateur cricketer” – well, Dereck is a
professional cellist. With Jommelli we
never know where the amour is!” La teoria degli affetti (in tedesco
Affektenlehre) può considerarsi la prima forma retorica (in tedesco
Figurenlehre) adottata nella storia della musica, infatti puntava a muovere gli
affetti dell'uditorio; già i greci avevano la concezione che la musica potesse
suscitare emozioni: è proprio da questo concetto che i teorici e i musicisti
dell'epoca attingono per applicarlo alla loro musica (si parla nelle prime
cronache rinascimentali di interi pubblici commossi dalla musica). Le autorità
civili ed ecclesiastiche, consapevoli del forte potere della musica sulla
psiche, la utilizzarono come veicolo dei propri messaggi propagandistici.
Ficino apprezza di più le forme semplici e comunicative rispetto alla polifonia
poiché la prima era maggiormente capace di muovere gli affetti, suscitare o
placare le passioni umane rispetto alla seconda, che era vista come artificiosa
e innaturale. Dello stesso parere era Vincenzo Galilei, che preferiva la musica
greca per le sue capacità affettive. La teoria musicale identifica ogni
affetto con un diverso stato dell'animo (es. gioia, dolore, angoscia)
identificati da specifiche figure musicali definite figurae o licentiae
(licenze). La loro particolarità era contraddistinta da anomalie nel
contrappunto, negli intervalli e nell'andamento armonico, appositamente
inserite per suscitare una particolare suggestione. Athanasius Kircher –
gesuita matematico, musicologo ed occultista tedesco – nel suo Musurgia
universalis afferma. La retorica ora allieta l'animo, ora lo rattrista, poi lo
incita all'ira, poi alla commiserazione, all'indignazione, alla vendetta, alle
passioni violente e ad altri effetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta
infine l'uditore destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l'oratore. Allo
stesso modo la musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove
l'animo con vario esito.» (Athanasius Kircher, Musurgia universalis)
Questo trattato e stampato anche a Roma.
Tra le classificazioni e distinzioni degli affetti umani compilate è da
menzionare quella di Cartesio che, nel trattato Les passions de l'âme del 1649,
ne distingueva sei ritenuti principali, quali meraviglia, amore, odio,
desiderio, gioia e tristezza. Invece Giovanni Maria Artusi ne L'Artusi,
ovvero Delle imperfettioni della moderna musica (Venezia), attacca questa nuova
forma musicale che utilizzava intervalli "così assoluti et scoperti",
poiché trasgredivano le regole contrappuntistiche (per esempio le dissonanze
non sempre sono precedute da una consonanza per risolvere su di un'altra).
Monteverdi difenderà quella che lui definisce seconda pratica nell'Avvertimento
del Libro quinto: queste licenze hanno uno scopo preciso, e devono essere viste
in un nuovo modo di comporre, diverso dalla concezione musicale di Gioseffo
Zarlino. Già dai madrigali infatti Monteverdi con le dissonanze intensifica e
rende maggiormente pungenti le immagini proposte dal testo. Vologeso was written using a
wordy libretto by Verazi, itself an extensive reworking of Apostolo Zeno's
Lucio Vero. The plot deals with the constancy of love in the face of great
obstacles, in this case the love of Vologeso, king of the Parthians, and his
wife Berenice. The Roman general Lucio Vero has defeated and captured Vologeso,
fallen in love with Berenice, and spends most of Acts I and II seducing and
bullying her into abandoning her husband. When Lucilla, daughter of the Roman
emperor and Lucio's fiancee, turns up, she and the Roman emissary Flavio are
disgusted by his behavior; Flavio, assisted by Vologeso, leads a revolt that
results in Lucio's capitulation and the restoration of their freedom and their
kingdom to Vologeso and Berenice. The plot allows ample opportunity for
dramatic movement and spectacle, e.g., in Lucio's importunities and their
rejection by Berenice, Vologeso's confrontation with lions in an arena, and the
revolt that ends the opera. The music is conventional in its use of
recitative followed by arias, but forward-looking in that many of the
recitatives in Acts II and II are accompanied by the orchestra rather than the
traditional basso continuo - the arias are often in abbreviated da capo form so
that they do not slow up the action, and the chorus and orchestra play a more
considerable part in the proceedings than is usual in Baroque operas. J. had no
great gift for melody and the opera offers few memorable tunes, but he had a
talent for brilliant vocal display and dramatic orchestral effects. The total
effect is imaginative, lively, and attractive. The casting is odd; with
only one male voice and five sopranos it's hard to tell the characters apart.
Odinius, Rossmanith, and Schneiderman all have good voices and are comfortable
with Baroque style and ornamentation and expressive in their characterizations.
Waschinski and Taylor are as good as most falsettists, though as usual their
uneven voice production and unfocused tones set my teeth on edge, and
Waschinski sounds much too feminine to make plausible the heroic figure of
Vologeso. (I really do not understand why conductors and producers nowadays
insist on using these voices in Baroque opera, a practice that has neither
historical nor aesthetic justification.). The Stuttgart Chamber Orchestra is
alert and responsive, Bernius keeps everything moving along briskly, and the
sound is excellent. Il Vologeso doesn't stand up too well compared to the
Italian operas of Handel or Gluck, but taken on its own terms and as presented
here, it is thoroughly enjoyable While Mozart may have claimed
Jommelli’s musical style to be passé, Vologeso itself is a reworking of an
already antiquated libretto by Apostolo Zeno, originally called Lucio Vero and
first set by Pollarolo for Venice. Moreover, the version set by Jommelli and
performed here by Classical opera is in fact a modification of a modified libretto.
The new librettist Mattia Verazi had revised the by then popular version
produced by Lucarelli for Rinaldo di Capua’s setting of 1739 rather than Zeno’s
original. The story is a familiar one, mingling political intrigue with love
both unrequited and true. In the eastern provinces of the Roman Empire, Lucio
Vero (Jackson) is victorious in battle and captures Berenice (Summerfield),
wife of the Parthian king Vologeso (Kelly). Captivated by her beauty, Lucio
Vero makes every effort to win her with the assistance of his minister Aniceto
(Verney). Meanwhile, Vologeso attempts to assassinate Lucio Vero but is
recognised by Berenice, causing him too to be taken prisoner. Further
complicating matters, Lucio Vero’s betrothed, Lucilla (Angela Simkin), has
arrived in Ephesus with Flavio (Jennifer France), an ambassador from Lucio
Vero’s co-emperor, ANTONINO (si veda). After many separations of the faithful
Vologeso and Berenice, increasingly cruel plots on Lucio Vero’s part to attain
the latter, and the threat of civil war from ANTONINO (vedasi), all is resolved
and the various couples are reunited without any blood being shed.
Although Zeno’s libretto is not remotely like those produced by later poets and
composers interested in reforming operatic conventions, the play’s enduring
appeal might well be attributed to its strong sense of spectacle, which
coincided neatly with the objectives for reform. Indeed, the play contains
on-stage depictions of Lucio Vero’s attempted assassination, Vologeso’s fight
with a lion in the arena, and at least one ‘mad scene’ for Berenice in addition
to traditional opera seria ingredients of triumphal marches, grand armies, and
the obligatory chorus announcing a lieto fine. Sometimes I felt that this
element of spectacle was lost in the context of a concert performance. Though
that is of course an unavoidable casualty of this mode of presentation, it was
further compounded by Jommelli’s own reluctance to capitalise on these aspects
of the play as did other contemporaries. Furthermore, artistic director Ian
Page writes in the introduction to the programme that besides the expected
editing of the recitative, he chose to cut not only a number of pieces in their
entirety, but also some arias’ middle-sections and their reprises in the
interests of ‘maximising our potential to appreciate and enjoy the opera’. Of
these, one was the opening chorus, which might have helped to restore some of
this sense of grandeur, if indeed Page’s goal was to get a feeling of
‘[experiencing] what a typical eighteenth-century opera was like’. J.’s
musical style in this opera has clearly moved on from the grand and expansive
show pieces we find in his earlier operas, such as Didone abbandonata of 1747
(performed in London in 2014 and also reviewed here). With the exception of one
or two numbers which might be said to respond to a more traditional heroic
opera seria style, such Crede sol che a nuovi ardori, Flavio’s only aria, the
focus in Vologeso is instead on creating a more declamatory mode and
‘realistic’ rendering of the dramatic and emotional content of the text. As
such, the use of coloratura is generally much reduced and arias very often feel
more like ariosos, often to the point that it feels like accompanied recitative
intrudes upon melodic lines. The music is nevertheless still imbued with grace
and lyricism, and is marked by sometimes fussy, yet fine, delicate and
lace-like accompaniments. And there are some really good and interesting
numbers too: the quartet Quel silenzio, Lucio Vero’s Se tra ceppi, Lucilla’s
first aria Tutti di speme al core, the already mentioned Crede sol, as well as
some very effective and attractive accompagnatos. In spite of the title,
this version (or at least as it has been presented to us with the cuts)
nevertheless still focuses greatly on the character of Lucio Vero and his
relationship with Berenice. Stuart Jackson’s performance came across as
something of a slow burning affair, only really coming fully into the character
after interval and reaching the apogee of dramatic intensity in his final aria.
And yet it felt largely like Lucio Vero was being interpreted as being the
youthful hero, the primo uomo role usually reserved for a castrato. This may
well be due to Verazi’s redaction of the opera, which seems to me to result in
a somewhat schizophrenic character, vacillating between tyrannical, or rather
psychopathic, conqueror and lovelorn hero. This is effectively underlined by
the kind of music with which J. furnishes the character: languid arias with
long, plangent melodic lines, such as his opening Luci belle and the cavatina
Che farò? in Act 2, and a handful of arias which verge on aria di furia
territory. To my mind, Lucio Vero’s actions are not driven by real love for
Berenice but rather an overwhelming desire for power: not only in and of
itself, but also power over others. To this end, his rejection of Lucilla is
not merely an amorous choice, but a rejection of the power of Rome and the
authority of his co-emperor Marcus Aurelius altogether. So too the
psychological manipulation of Berenice in an attempt to bend her to his will.
Thus, Stuart Jackson’s characterisation of Lucio Vero as the amorous lead did
not always sit quite well for me, in spite of a good voice and elegant
execution. The performance otherwise had much working in its favour. I
very much enjoyed Sutherfield’s portrayal of Berenice, and there was some
excellently judged acting from Rachel Kelly. I have already mentioned Jennifer
France, whose delightful aria was executed with all the charm and grace that
the butterfly described in her text required. One did feel slightly for Tom
Verney, his solid performance in his lone aria aside: his role of Aniceto was
decidedly minor in this version of Zeno’s play, with the character’s love for
Lucilla never really explored (again a shortcoming of the libretto). And, of
course, the orchestra itself was as sharp and on-point as we have come to
expect from Classical Opera. My overall impression from the programme
notes, however, is that Vologeso in and of itself was perhaps somewhat
unconvincing to the artistic team in the first instance. Indeed, Page writes
further in his introduction that ‘Jommelli does not belong among the truly
great composers, to be sure. While undoubtedly there are countless flops
littering the battlefields of eighteenth-century opera, and works that are best
left to languish in obscurity, credit must be given where credit is due. And J.’s
legacy is by far too monumental to ignore. The assertion that much of the music
of contemporaneous composers sounds quite like Mozart for much of the time
should rather be inverted: it is Mozart, his uniqueness notwithstanding, who is
effectively a product of his time! A final note: a future Classical Opera
concert this year is to feature some arias from Semiramide by Josef Mysliveček,
another figure well known to the Mozart family and whose work has occasionally
been misattributed to the young Wolfgang in the past. A full opera of his at
some point, further showing how Mozart was fully integrated into the existing
musical landscape, would be most welcome indeed! Jommelli.
Keywords: musicista filosofo, Vincenzo Galilei, Grice’s piano, pavane.
Meistersinger, Mahler, music-hall ditties. Grice. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Jommelli” – The Swimming-Pool Library. Jommelli
Luigi Speranza -- Grice e Juvalta: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Chiavenna -- filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Chiavenna). Filosofo italiano. Chiavenna, Valtellina, Sondrio,
Lombardia. Grice: “At Harvard, I said I was ‘enough of a rationalist,’ but
perhaps Juvalta would say that wasn’t enough!” – Grice: “Juvalta has explored
the limits of rationalism, in connection with value and reason: if value is
irrational, how can co-operation be rational in terms of an accord to follow
conversational maxims?” essential Italian philosopher. Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da
qualche cosa di cui non sia già riconosciuto il valore morale è dunque vano e
illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di
fondare.» Il genitore è il barone Corrado Juvalta – herren von der Juvalt,
herren von Juvalt --, cancelliere della locale pretura originario di Villa di
Tirano. Educato a Tirano, e tiranese poi
creduto sempre dagl’amici. Dopo gli studi liceali trascorsi tra Como e Sondrio,
si iscrive a Pavia dove si laurea con una tesi su Spinoza, sotto la guida di CANTONI.
Successivamente insegna a Caltanissetta, Potenza, Spoleto, e Torino. Le
tematiche accademiche prevalentemente trattate riguardarono soprattutto i
valori di libertà e di giustizia con ampie riflessioni etiche. Convinto della
loro generalità e universalità, arriva ad auspicarne una loro applicazione anche
nello studio delle categorie politiche ed economiche. La filosofia di J. è una profonda riflessione sull'etica portata
avanti con il metodo dell'analisi. Anche se, come risulta dalla sua, non
troviamo nei suoi scritti importanti contributi sul piano gnoseologico ed
epistemologico, dal momento che il suo principale campo d'indagine fu
prevalentemente il Sistema morale, possiamo affermare senza dubbio che sia il kantismo
che il Positivismo costituirono il nucleo di fondo della sua posizione, da cui
sviluppò la sua impostazione metodologica. Il positivismo, in
particolare, è stato il primo grande sistema filosofico con cui si è misurato
nella prima fase della sua elaborazione concettuale. Tuttavia J. sarà costretto a prendere presto le distanze
da una siffatta visione della morale. I motivi di questa rottura sono da
imputare principalmente al suo fermo rifiuto di accogliere come sostenibile la
pretesa positivistica di fondare l'etica sulla scienza. Il giudizio con il
quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal
giudizio col quale ne afferma l'esistenza o la possibilità o la connessione
modale o condizionale con altri soggetti. Apprendere come le cose sono, è tutt'altra
cosa dal valutarle. Dal momento che l’etica si concreta nella costruzione di una
teoria ed in particolare di un sistema coerente di valori morali, il giudizio
che sta alla base di una qualsivoglia teoria etica deve configurarsi come “un
giudizio originario” che ha una natura eminentemente etica, quindi non
scientifica né tantomeno metafisica. Se però una etica scientifica appare
insostenibile per il motivo dell'indebita derivazione di un giudizio di valore,
di natura morale, dal giudizio ‘aletico,’ di natura fattuale, è indubbio che la
costruzione di un sistema morale debba essere condotta con criteri di
scientificità. Nella misura in cui ogni teoria si basa su criteri logico-deduttivi
e viene definita dalle relazioni logiche che intrattengono in essa i propri
elementi costitutivi, così anche la costruzione di un sistema etico deve
seguire la stessa metodologia e mostrare possibilmente l'identica costruzione
formale. Questo sistema di valori ha l'obbligo di mantenere al loro interno un
imprescindibile grado di coerenza, se vogliono risultare sostenibili ed essere
così accettati dalla ragione (pratica). Quando parla di ‘teoria’ dell’etica lo
fa proprio pensando a questo carattere logico-deduttivo dei valori all'interno
di un sistema. In particolare vede garantita la coerenza di un sistema morale
nella misura in cui un coerente insieme di valori viene rigorosamente derivato (volitativamente)
da un postulato, imperativo categorica, o assioma, di valore morale capace di
fungere da premessa all'intero sistema (allora come insieme di massime
universalisabili). Una volta prese le distanze dai positivisti, si avvicina successivamente
al Kantismo; in particolare accoglierà, anche se con alcune riserve, molte
delle posizioni assunte dal cosiddetto Neokantismo, il movimento di pensiero
che ha come obiettivo la ri-valutazione piena del filosofo di Konisberg
riadattando i contenuti del suo pensiero ad esigenze e problematiche tipiche della
contemporaneità. Vede in Kant il più grande filosofo della modernità, colui che
meglio di qualsiasi altro pensatore ha saputo cogliere il vero senso
dell'autonomia della morale, svincolando per sempre l'etica dai saperi di
natura conoscitiva (aletica, pura, o giudicativa), i quali, proprio in quanto
si rivolgono all'ambito del fenomeno, non riescono a coglier interamente tutto
ciò che ha a che fare con la sfera dei valori (come per esempio la scienza e in
generale l'ambito teoretico). L'indipendenza e l'indeducibilità del valore
morale da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e
affermata, nella forma più esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Kant ha
il grande merito di consegnare alla morale uno speciale statuto di autonomia e di
indipendenza. La morale esprime questo suo carattere di autonomia e di “auto-assiomaticità”
per poter continuare ad essere coerente e allo stesso tempo attendibile sotto
il profilo puramente teorico. Abbracciare l'idea di autonomia della morale
significa accettare una visione anti-fondazionalista dell'etica. L’etica non
può prendere le mosse che da se stessa. Ogni tentativo di fondare l’etica su
ambiti del sapere diversi da quello morale, finisce con il configurarsi come
un'indebita pretesa di intromissione da parte di chi si illude di derivare un
contenuto del valore morale da una premessa fattuale o metafisica o estetica.
Alla base di un sistema coerente del valore morale, cioè un sistema morale
costruito deduttivamente, deve esserci un postulato originario (assioma o
imperative categorico) di natura etica e non di natura aletica o peggio ancora
metafisica, e questo per questioni eminentemente logico-analitiche, che
impongono ad ogni sistema coerente di evitare la fallacia logica della petitio
principii, cioè l'errore di voler caparbiamente dimostrare ciò che invece
abbiamo già implicitamente accettato nelle premesse. Una volta
riconosciuto il contenuto di quel postulato morale e pensato come un valore che
può essere vissuto ed accettato da un soggetto agente e concreto, allora si
creano i presupposti di base perché una coscienza riconosca in esso
un'intrinseca validità, che trova una sua precisa giustificazione solo a
partire dalla sua intima natura assiologica. È proprio questo suo riferimento
al contenuto del valore morale che lo costringe a rivedere i limiti di una
filosofia morale incardinata su binari formalistici e a non accettare tout
court la filosofia morale di Kant. L'ambito della giustificazione e
l'ambito esecutivo. Assumere come principi della ricerca etica l'autonomia,
l'antifondazionalismo, l'antiformalismo porta J. a distinguere l'ambito della
giustificazione, cioè il momento riflessivo che ci vede impegla ricerca di
ragioni che possano difendere razionalmente la scelta di un fine e di un valore
morale, dall'ambito esecutivo che invece coinvolge il momento motivazionale
dell'azione ed è fortemente condizionato da elementi contingenti legati al
momento storico, inter-soggetivo, e culturale nel quale il soggeto si trova ad
agire. Con un atteggiamento tipicamente moderno difende la possibilità
dell'esistenza di una pluralità di fini morali sia sul piano teorico che
pratico, e con la stessa energia cerca di trovare una soluzione per definire le
precondizioni teoriche che rendano possibile una compatibilità tra i diversi
valori. La modernità define un passaggio epocale e pieno di tensione nel
campo della filosofia morale ed ha segnato il tramonto di un'unica, grande e
coerente visione dell'etica. Con l'avvento dell'epoca moderna si è fatta strada
l'idea del tutto legittima dell'accettazione di differenti sistemi di valori e
di diverse visioni del mondo, i quali trovano, da questo momento, una loro
precisa dignità e legittimità in virtù delle ragioni che le diverse dottrine
filosofiche hanno saputo elaborare in favore della loro sostenibilità. Invita a
prendere coscienza di questo cambiamento di prospettiva e a considerarlo,
asetticamente, come un passaggio dal vecchio problema della morale, in cui il
fine principale era la ricerca di una fondazione dell'etica e di una
giustificazione dell'esigenza del bisogno di moralità all'interno di ogni
coscienza, al nuovo problema della morale riassumibile nella domanda; come
possiamo decidere i beni e i valori desiderabili in sé una volta che abbiamo
accertato l'esistenza di una pluralità dei postulati di valutazione
morale? La scelta del fine supremo e i limiti del razionalismo etico
Juvalta vede nel momento della determinazione della scelta del fine supremo, il
cui contenuto costituisce la base per il postulato di valore primario, il
principale limite del razionalismo etico. La razionalità può solamente
giustificare, cioè portare ragionamenti a favore di una tesi, o stabilire
relazioni e deduzioni tra elementi di un sistema, in questo caso valori, che
sono legati dalla loro stessa natura; ma essa non può imporre i fini. La
razionalità accetta, per così dire, il giudizio di valore morale come un dato,
ma non lo può stabilire lei in via preliminare perché nel campo etico la
razionalità non riesce a cogliere interamente la natura dei nostri giudizi di
valore. La ragione dei mezzi per quanto si faccia non dà valori; la
ragione esige la coerenza; teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e
i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le
valutazioni direttamente o postulate, e delle azioni con le valutazioni. Le valutazioni
sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide di per
sé. I valori ultimi di libertà e giustizia
Tuttavia il messaggio di Juvalta contiene anche un aspetto propositivo, non
secondario. Anche se esiste una pluralità di valori che la coscienza può
scegliere come fini, i quali si costituiscono come le linee guida della nostra
condotta individuale, una volta adottato il criterio razionale di ‘universalizzazione’
del valore è possibile intuire che le scelte si riducono rispetto a quelle che
la ragione può immaginare come possibili e, soprattutto, viene meno la completa
arbitrarietà della scelta originaria. E convinto che due valori su tutti
debbano essere visti come i fini supremi su cui improntare la nostra
vita e organizzare le nostre società, vale a dire, primo, il valore morale
della libertà; secondo il valore morale della giustizia. Libertà e giustizia
costituiscono le pre-condizioni della vita morale e gli unici due valori
morali, tra quelli possibili, che risultano universalizzabili. Essi sono le
sole precondizioni che permettono ad ogni essere umano di realizzare il proprio
fine e di raggiungere i propri beni o valori, in vista di una totale e piena
realizzazione della natura umana, senza limitare la ricerca della moralità dell’altro.
Libertà e giustizia rappresentano per così dire i cardini di ogni sistema
morale con i quali poter impostare se non un vero e proprio ripensamento di
ogni pratica umana almeno una profonda critica ai modelli di società dominanti
quali l'individualismo liberale, l'autoritarismo o la proposta
socialista. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggettive
necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di sé di fronte a sé e di
fronte ad ogni altro. La giustizia esprime l'esigenza delle condizioni
inter-soggetive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa
libertà. Non fu un pensatore sistematico e non cercò mai di definire un sistema
filosofico che rendesse ragione dell'organicità del suo pensiero. E sostanzialmente
contrario a ingabbiare la riflessione filosofica in grandi narrazioni o in
arbitrari sistemi, dal momento che era fermamente convinto che il pensiero
soprattutto etico sfuggisse per così dire all'idea di sistematicità e
organicità che aveva così profondamente caratterizzato la maggior parte del
lavoro filosofico ottocentesco. D'altra
parte questo non significa che non esiste un'evoluzione all'interno della sua
riflessione, o che la sua proposta nel campo della filosofia morale non trovi
una sua coerenza e una struttura di fondo ben definita. Saggi: “I due limiti
del razionalismo etico: liberta e giustizia” (Einuadi, Torino). Contiene:“
Prolegomeni a una morale distinta dalla filosofia” (Bizzoni, Pavia); Le dottrine
delle due etiche, Rivista filosofica; Per una scienza normativa morale, Rivista
filosofica; Il fondamento intrinseco del diritto; Su i limiti della morale, Bocca,
Torino; Il metodo dell'ECONOMIA pura nell'etica, Rivista filosofica; Postulati
etici e postulati metafisici, Rivista di filosofia; Postulati etici e
imperativo categorico, Atti congresso di filosofia, Bologna, Formiggini, Genova;
Sula pluralità dei postulati di valutazione morale, Atti del congresso della
società filosofica, Genova, Formiggini, Genova; I vecchio e il nuovo problema
della morale, Z, anichelli, Bologna; In cerca di chiarezza; Questioni di morale;
I limiti del razionalismo etico, Lattes, Torino; Il conflitto morale, Rivista
di filosofia; La dottrina morale di Spinoza, Rivista di filosofia; Basciani, L’etica
della giustizia, Desclèe, Roma; Picardi, La morale in J., Filosofia, Marzorati,
Milano; Viroli, L'etica laica, Angeli, Milano); J., «Rivista di storia della filosofia», Angeli, Milano, Dizionario Biografico degli
Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Guido Scaramellini,
Chiavennaschi nella Storia, Chiavenna, Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Again, these Italians! I know that I had I
been one, I had been ‘il filosofo di Harborne’ – now Juvalta, they doubt as to
how Italian he can be seeing that he is listed in Scaramellini’s little book,
“Schiavennaschi nella storia”!” Grice: “Unlike me, Juvalta is a baron, from the
‘grigioni’ – i. e. the grey league – because of the grey wool they wore --.
‘grissone,’ as in my surname, so in a way we ARE related!” ” IL VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE; Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale. IL FONDAMENTO DELLA MORALE. Sula
pluralità dei postulati di valutazione morale. IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE
SUE FORME Se la saldezza di un giudizio dovesse giudicarsi dall'accordo delle
dottrine che cercano di stabilirne il fondamento, nessuna specie di giudizi
sarebbe piú incerta dei giudizi morali. Se così non è, se i giudizi, o almeno
alcuni, sono, nonostante l'incertezza del fondamento, riconosciuti e accolti
come validi incontestabilmente, può apparire legittimo il dubbio, o che il vero
fondamento non sia ancora trovato, o che non si possa trovare: cioè che il
problema sia insolubile. E in questo caso: se sia insolubile per difetto di
mezzi, ossia per radicale nostra incapacità a risolverlo; o perché è un
problema mal posto, cioè nella forma con la quale si presenta, illusorio e
fittizio. Dichiarando subito che a mio credere il problema è insolubile, ed è
insolubile perché fittizio, m'è appena necessario di soggiungere che ciò non
equivale in nessun modo (come potrebbe parere a prima vista) a ritenere prive
di significato ed infeconde le indagini e le discussioni delle quali fu lievito,
né tanto meno ad ammettere che, rimosso il problema fittizio, nessun problema
gli sottentri, anzi non ne rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare come e
perché un problema sia mal posto, non è altro in effetto che la preparazione
necessaria a sostituirgliene degli altri. Il problema del fondamento è ispirato
primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme da una preoccupazione
pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale ha ragione; che quel
che essa suggerisce o prescrive è veramente bene che la sua autorità è
legittima e deve essere rispettata. Ora un tal modo di porre il problema
presuppone manifestamente che su ciò che la coscienza morale prescrive non cada
dubbio; o che, se il dubbio sorge nasca non da incoerenza o opposizione di
criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di interpretazioni e
di giudizio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda con la osservazione
di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè nei limiti nei
quali corrisponde a una convinzione universale saldamente stabilita, non è
questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa accettare o respingere
i dettami della coscienza morale, secondo che si accordano o no con la
dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno accettare e respingere una
dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a dar ragione della loro
certezza, a mostrarne la validità. Questa preoccupazione pratica spiega
l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un problema
radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni
giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei
ragionamenti un potere; illusione che si rivela nelle forme piú svariate e
negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade, cosa notissima, che a ciascun
sistema riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri, che
provare la sufficienza propria. Il problema fu infatti inteso in modi diversi,
e la soluzione cercata in direzioni corrispondenti, distinte e chiaramente
separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e sovrapposte
l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno stesso
sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo noi fare, cioè volere ciò che la
coscienza morale ci detta», che è la forma piú larga e indifferenziata in cui
il problema si esprime, suggerisce quattro tesi o tipi di soluzione diversi. Considerare
i principi e le norme morali come «verità» di cui si cerca il fondamento in una
realtà obbiettivamente data alla coscienza. Dimostrare la bontà di ciò che la
morale prescrive, cioè derivarne le norme da un fine ossia da un bene o ordine
di beni (qualunque ne sia poi la natura) che ne giustifichi l'osservanza.
Provarne l'autorità; e cercare di questa autorità il fondamento: a) sia nella
storia; b) sia in una volontà distinta dal volere personale e che si impone ad esso.
Ciascuno di questi tipi di soluzione deve essere esaminato piú brevemente che
sia possibile, ma esaurientemente. Sulla pluralità dei postulati di valutazione
morale. La persuasione che i principi morali, i criteri di valutazione, le
norme della condotta, non solo possano ma debbano avere il loro fondamento in
un ordine di verità accertabile teoricamente, cioè si possano ricavare da
rapporti o leggi validi obbiettivamente, in nessuna altra forma forse appare
piú chiaramente che in quella della questione, dibattuta con tanto accanimento,
se la morale si fondi sulla scienza o sulla metafisica, e nella natura degli
argomenti messi in campo così dall'una come dall'altra parte. Perché la scienza
si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva appello la metafisica era
immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria ed incerta, e quindi non
poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente valido; e la metafisica
insisteva nel porre in evidenza la relatività, la contingenza, la limitatezza
della conoscenza empirica; e l'impossibilità di attingere in essa alcuna verità
necessaria ed universale, e perciò una qualsiasi validità né di forma, né di
fine, né di doveri. Ora l'uno e l'altro tipo di argomentazione si svolgevano e
si svolgono appunto nell'ambito di questo presupposto: che i principi morali
debbano fondarsi su qualche cosa d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la
certezza, che ne faccia riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto
stesso del discutere, cioè dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la
moralità del contraddittore, smentisce il presupposto. Il che concorda con
l'osservazione ovvia ma non negabile per la sua massiccia evidenza: che si
trovano degli uomini di sincera e provata rettitudine morale fra i seguaci
delle piú diverse dottrine. Né vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che
non si tratta di vedere se ci siano delle persone morali, tra i seguaci di una
dottrina, ma se questi siano logici o siano coerenti con se stessi; os- sia se
con quelle dottrine si possa ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare
e di valutare. Perché una tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto,
anzi lo implica, appunto perché ammette come pacifico che un criterio di
valutazione morale abbia una connessione necessaria, cioè logica, con certi
principi teorici, e che non possa essere accettato se non in grazia di quei
principi. Ma è il presupposto del fondamento teorico che bisogna provare; e non
si prova con una petizione di principio. Il criterio morale a non si legittima
se non col principio teorico A; se troviamo accettato a con B con C con D e non
con A, vuol dire che quella coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo
noi che sono illogiche le menti che non connettono a con A invece di riconoscere
semplicemente l'altra alternativa: che è possibile così l'una come l'altra
connessione, che non vi è nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A?
Appunto perché, se si ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi
con principi teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né
sull'uno né sull'altro, cioè che la fondazione teorica è illusoria. Insomma il
ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza a
una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa
che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se
si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica,
una certezza che non ci dovrebbe essere. Tu qui! Ma è impossibile! dice la
metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo
rimbecca l'empirista alla morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché
dove la morale si trova, ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con
lei di averla ospite1 in casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto
l'osservazione che questa possibilità di coesistenza indifferente è soltanto
apparente, perché dovuta a difetto di riflessione e di rigore logico; e sia
inattendibile, perché dove si avvera, manca la [Ma se questa fondazione
extra-morale della morale è illusoria, donde nasce l'illusione e di che si
alimenta? Quando il sociologo afferma che le norme morali esprimono le esigenze
della vita sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta
di vedere non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a tali esigenze
e soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli leggi scoperte e che
si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo fondamento; ma si
tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il valore della società,
dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo di formazione e di
incremento della civiltà il valore della civiltà, in una parola, dai rapporti
condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza, qualunque scienza,
formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono bensì far attribuire un
pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza condizionale e causale di
un valore da ciò che, appunto per tale connessione, diventa a sua volta un
valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto, riconosciuto
come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico su ciò che ha
relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú delicate meraviglie della
vita non bastano a darle il benché minimo pregio se non si riconosce già come
bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai quali può esser volta: anzi
non sono «meraviglie» se non perché si illuminano di questo valore finale. Che
la civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e all'incultura sembra
dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o sottinteso — come accade in
effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o di desiderabilità certe
facoltà e attività e forme di condotta che certe altre, cioè quando sia già posto
e accettato un criterio di valutazione. Pare a prima vista una pedanteria. Non
si riconosce infatti da tutti che la vita valga la pena di essere vissuta? e
anche quelli che la negano a parole, non sentono nell'istinto profondo smentire
la loro negazione? Ammettiamo senza discutere, sebbene la cosa non sia così
liquida come pare, l'universalità del consenso od almeno dell'istinto. Si tratta
qui di vedere se questo apprezzamento della società e della vita, questo
riconoscimento di valore è posto, è dato dalla scienza; se questa voce
dell'istinto, questa volontà di vivere abbia o no l'autorità che le si
attribuisce o suppone. Cioè si tratta di sapere, insomma, se chi vedesse nella
società e nei suoi frutti un groviglio di miserie e di vergogne possa trovar
mai nella sociologia la confutazione del suo giudizio; e se a chi trovasse la
vita un limbo indifferente possano le leggi della biologia farla apparire
desiderabile; e se sia la conoscenza della sociologia o della biologia o della
psicologia che darebbe voce all'istinto se fosse muto, e autorità, se non ne
avesse, alla sua voce. competenza richiesta. Un libriccino pubblicato dal
LALANDE alcuni anni fa -Précis raisonné de Morale pratique, Alcan -si distingue
dai molti consimili nostrani e di fuori (qui non occorre accennare ad altri
pregi) per questa circostanza caratteristica: che il catechismo morale che vi è
esposto e spiegato era stato sottoposto all'esame e aveva raccolto il consenso
esplicito dei piú noti e autorevoli moralisti di credenze e di opinioni
filosofiche diversissime. La testimonianza dei «competenti» veniva in questa
occasione a confermare quello che è un luogo comune della storia delle dottrine
e della pratica morale: che sul valore e sul contenuto delle norme morali siamo
tutti d'accordo, perché tutti siamo d'accordo, quanto all'essenziale, nel
giudicare la nostra condotta o l'altrui: Tutti quali che siano le convinzioni
filosofiche e religiose ed anche se non abbiamo in proposito convinzioni di
sorta» (VARISCO, Massimi e problemi, Metafisica e morale. E Varisco, come è
noto, è persuaso che una vera morale implichi una Metafisica «definitiva»).
Quanto all'accordo sul «contenuto» forse, come si vedrà in seguito, pare piú
largo di quel che in realtà non sia. Ma qui si tratta del valore. Quanto poi
alla Metafisica definitiva si chiede: a che stregua si giudicherà la metafisica
adatta a fondare la morale? Non si ammette già che il criterio sarà fornito
dall'accordo con la «vera morale» e cioè, dunque, che la vera morale è già data
prima e fuori della Metafisica? Neanche è da credere che tutto si riduca a
questo salto; e che superato il passaggio incolmabile dall'effetto al fine e
dalla conoscenza al valore, fatto proprio dalla scienza il presupposto iniziale
di valutazione che essa non può dare, ogni difficoltà di questo genere sia
allontanata. Quel che non può dare una conoscenza empirica non può dare
una conoscenza metafisica, se non a patto di intendere già per conoscenza
metafisica la conoscenza non di una realtà «intelligibile» e in quanto è
intelligibile, ma di una realtà già apprezzata o apprezzabile; non la
conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando Rosmini si sforza con
grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere è conoscenza del
grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose, e che perciò la
stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e deve diventare
modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro volere), egli assume
già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto di realtà quello di
perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine dal primo se non
perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La sua «stima
speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è già
pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in
quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non
implica nessun apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in
quanto è speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada
che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un
ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto
esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore, in
qualunque entità esso sia riconosciuto, non l'esistenza delle cose; e la realtà
è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci
presenta realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile
dall'altro appare manifesto dalla necessità di assumere, secondo la profonda e
costante tendenza del platonismo, il concetto di perfezione come sintesi dei
due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esistenza
e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con un
modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità
implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà. Ed eccoci alla
sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale
dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o
induzione o verità teoretica, sia scientifica, sia metafisica. Una realtà data
o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera come
una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con il
quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal
giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possibilità o la connessione
modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose sono, è
tutt'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le leggi naturali come leggi
morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni utili a una
forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad ogni nuovo
passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la valutazione,
si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è espressa, e sottintesa.
Caratteristica, a questo proposito è la affermazione del Levy-Bruhl che «la
conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale fondata sulla scienza
della realtà sociale» deve prendere il posto della «concezione immaginaria di
un ideale -La morale et la scienze des mœurs. Questa conquista metodica della
realtà sarà pur guidata, — e non può essere altrimenti — se non da un ideale,
ché ogni ideale è soppresso, dall'idea di qualche cosa che si pone come piú
desiderabile o migliore. Ma quale è il criterio di questo meglio? di quella
amélioration che, come dice poche righe piú sotto delle parole citate, non
bisogna disperare di portarvi? Questo criterio non può essere il reale stesso
che bisogna modificare e migliorare; sarà dunque, di nuovo, in ideale o qualche
cosa che lo sostituisce. «L'ombra sua torna ch'era dipartita». Il pragmatismo,
anche per chi è pragmatista, qui non ha nulla da vedere. Può essere verissimo
che anche la nostra conoscenza sia stimolata, sorretta, guidata, controllata da
un interesse, l'interesse teorico, e come tale sia, anzi è senz'altro, un
valore intellettuale: ma ciò non muta d'un ette la distinzione notata. Sulla
pluralità dei postulati di valutazione morale. Ora la conoscenza, o è
teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di fatti come sono,
cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli; o li interpreta e li giudica
come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non preferibili, superiori
o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non piú conoscenza soltanto; e il
criterio del buono e del cattivo, dell'utile e del disutile, del bello e del
brutto è criterio di preferenza, di scelta, di valutazione che essa non trova
nelle cose se non perché ve l'ha già posto, e ponendovelo ha ubbidito,
consciamente o no, a un interesse che non è teorico, ma è pratico nel senso che
può restare a questa parola anche dopo le analisi del pragmatismo: pratico nel
senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta non soltanto la molla che
spinge a ricercare e a trovare le distinzioni tra gli oggetti, ma sparisce la
distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si intenda chiaramente e in
tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi di valore ai giudizi di
esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi parrebbe preferibile
chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli uni dagli altri, di
pretendere che un giudizio di ciò che è, possa servir di fondamento a un
giudizio di ciò che vale o che merita di essere, apparirà piú manifesta la
insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso e cercata in
questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò si chiarisce
anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e scienza e se ne
spiega nello stesso tempo l'insistenza. In breve e trascurando le inevitabili
inesattezze delle formule riassuntive: La realtà si può interpretare come
sistema di forze e come sistema di valori. Se si interpreta come sistema di
forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, conoscitiva,
anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni valutazione;
sia essa costruzione scientifica, sia metafisica, empirica o a priori,
monistica, dualistica o pluralistica. Se queste forze si giudicano cioè si
valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o un
conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della
realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della provvidenza
diventano il modello o il criterio del giudicare morale; e il fondamento della
morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa come
scienza o come metafisica. Ma perché quelle forze siano apprezzate come valori
occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e perché i
fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il processo
della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già dato e
riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla conoscenza
della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo il
principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento
della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della
realtà quell'anima di bene che crede di estrarne come suo principio e
fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione
metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco.
La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni
interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava
piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti
obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva trovare
nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la propria
incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la moralità
come un prodotto naturale o un risultato meccanico di un giuoco di forze per sé
spoglio di ogni finalità. Onde la tendenSenza volontà di conoscere non ci
sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui lasciar di discutere;
ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come sono cioè come appaiono a
chi non è mosso da altro interesse che quello del conoscere; e il valutare è
giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in conformità all'interesse
teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del conoscere, cioè a
interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e via dicendo. Altro è
dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il fresco quei che vi
passano l'estate. za costante dell'«etica scientifica» a identificare il
problema nel fondamento col problema dell'origine, la valutazione con la
spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità come criterio di
moralità. E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente mettere in chiaro
l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della scienza quanto piú sentiva
non solo non estranea, ma legittima, ma implicita nella propria costruzione
della realtà, una interpretazione teleologica; ed era avvezza a considerare la
morale come sua pupilla perché... ne amministrava il patrimonio. Ma se il
problema della fondazione teorica, nella forma classica, e, direi nel senso piú
bello della parola, ingenua, di derivazione dei valori da una realtà, è
insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità, o si riduce a una
petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar scoperto dietro di
sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale attraverso Kant si è
venuto via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare nella conoscenza
della realtà la prova che le nostre valutazioni sono vere, poiché le valutazioni
sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide per sé;
ma di sapere se su questi dati valutativi si può costruire una conoscenza
oggettiva; se i valori morali siano prova dell'esistenza di certe condizioni e
di quali; se sia possibile, non trovare nella realtà il fondamento del valore,
ma trovare nel valore il fondamento della realtà. Il problema si aggira sempre
in ultimo attorno al medesimo dubbio: se il mondo, la natura, la vita abbiano
un significato morale, se l'anima dell'universo guardi al medesimo fine che la
coscienza morale; se gli sforzi della volontà buona siano fecondi di frutti
durevoli o siano un lavoro di Sisifo, che ogni coscienza riprende faticosamente
per lasciare che ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a cadere pur esso
nel nulla, uno sforzo piú grande. Ma l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo
metafisico subordinava, almeno nella riflessione consapevole e nella
costruzione logica, il giudizio di valore al giudizio di realtà. Nella
filosofia dei valori il giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo
riflessivo e costruttivo, al giudizio di valore. Il momento che
nell'intellettualismo ontologico era nascosto e inconsapevole, quello della
assunzione tacita del concetto di valore nel concetto di realtà, nella
filosofia dei valori diventa chiaro e consapevole e si allarga nel tentativo di
tradurre il passaggio psicologico in processo discorsivo e di fondare un
sistema di verità teoretiche su quella certezza che veramente era ed è il dato
iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica, sia scientifica o
metafisica, progressiva o regressiva, ascendente o discendente: la certezza
diretta e intuitiva dei valori morali. Illusione poco meno antica accompagnata
da sforzi parimenti tenaci, e forse piú multiformi di tradurla in dottrina
rigorosa, è quella di credere che si possa ricavare la valutazione morale da
qualche bene indiscutibilmente supremo, del quale essa esprima le esigenze e
formuli le condizioni necessarie. Questo sommo bene, questo fine supremo,
questo valore, sorgente prima, termine ultimo di tutti i valori si credette di
trovare: o in un dato della coscienza empirica, un fine inerente alla vita e
subordinante di fatto tutte le tendenze, aspirazioni e attività dell'uomo; o in
un fine che domina bensì, ma trascende la vita e la natura umana, e subordina
di diritto ogni altra forma di bene e ogni criterio di valutazione. Alle due
diverse concezioni del fine rispondono due tipi principali di dottrine morali,
dei quali è facile rilevare la corrispondenza coi due tipi di dottrine sulla
fondazione di cui si è detto nel capitolo precedente. Ma la corrispondenza non
è coincidenza. Là l'origine dell'illusione era nella pretesa di derivare la
valutazione morale da una realtà la cui conoscenza si impone all'intelletto;
qui di derivarla da fin bene il cui valore è ammesso, o si suppone che debba
essere ammesso incontestabilmente come supremo o massimo, o almeno superiore ad
ogni altro. Ora l'illusorietà della pretesa consiste in ciò: che il valore
morale non è morale se non a patto che se ne riconosca, o, meglio, se ne senta
la superiorità, la preminenza su ogni altro valore; il suo essere morale
consiste (con ciò non si escludono gli altri caratteri) in questa sua
supremazia. Perciò ogni tentativo di assegnare un bene supremo che lo
giustifichi, si riduce all'uno od all'altro termine di questa alternativa: o di
ammettere che questo bene è già esso stesso il valore morale che si crede di
derivarne, o di mostrare che ciò a cui si dà valore morale, è valore anche per
altri rispetti; cioè sarebbe un valore di altro genere anche se non fosse
valore morale. I tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo fine: la
felicità, o il piacere. riescono di solito quando e nella misura che possono a
quest'ultimo risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso del divino,
l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a presupporre
quel che credono di derivare. Dell'utilitarismo in generale e delle sue diverse
forme sarebbe fastidioso, e non è qui necessario, ripetere per la centesima
volta le critiche note. Basta mettere in chiaro quel che meno fu notato e che
piú importa al nostro scopo: cioè non tanto le lacune, le insufficienze e le
incongruenze dei tentativi, ingegnosi assai piú che fortunati, di ricondurre le
norme morali al criterio dell'utilità, e di mostrare le coincidenze tra il
contenuto delle norme morali e il contenuto delle regole utilitarie, quanto la
ragione per la quale la derivazione è impossibile; o, quando appare possibile,
dissimula in realtà una petizione di principio. Supponiamo pure che si
ammettano cose troppo manifestamente arbitrarie: che la felicità sia non un
nome vago, un recipiente vuoto nel quale ciascuno versa il liquido preferito e
che non è sempre neppure per la stessa persona il medesimo ma abbia un
contenuto determinato (poniamo l'acquisto o il possesso di certi beni: salute,
amore, potenza, gloria, simpatia, cultura, ingegno, soddisfazione della propria
coscienza; e che tra questi beni sia possibile perfetta conciliazione ed
armonia); e che si possa dimostrare davvero, e non per salti o per ripieghi,
che il nodo non pure piú sicuro, ma il solo veramente sicuro e indispensabile
per raggiungerla, sia l'osservanza costante delle norme morali. Con ciò non si
sarebbe dimostrato che ciò che fa il valore morale delle norme consiste nella
loro utilità come guida della felicità; ma soltanto che i valori morali sono
anche valori eudemonologici; che il contenuto della valutazione morale e quello
della valutazione utilitaria coincidono; non mai che il valor morale di
un'azione consista nel suo esser mezzo alla felicità. Resta fuor di questione
s'intende e deve esser quasi superfluo avvertirlo la considerazione
dell'efficacia pratica o esecutiva; se sia o no piú persuasiva o piú impulsiva
l'una o l'altra valutazione. Si può anche ammettere, senza soverchio sforzo
immaginativo, che sia per lo piú la edonistica; ma ciò non prova affatto che
questa si confonda o si identifichi con la valutazione morale, o valga a
sostituirla. Dimostrare a un giudice che il dar sentenze imparziali è il modo
piú sicuro di far carriera, potrebbe essere, in ipotesi, un mezzo efficace a
promuovere l'imparzialità. Ma nessuno sognerà di far consistere l'onestà del
giudice nel suo desiderio di far carriera. Ma in realtà, come tutti sanno, il contenuto
della felicità non è determinato, né determinabile se non ad arbitrio; e solo
significato comune e costante del termine finisce per essere quello di appagamento
dei desideri, di soddisfazione, di piacere, o di liberazione dal dolore, che si
pensa doversi trovare nel raggiungimento di ogni fine. E la diversità persiste
e risorge nella molteplicità varia e contrastante dei desideri e dei piaceri, e
non basta raccoglierli sotto uno stesso nome per ridurli a unità e farne un
unico fine. Perché se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una
riduzione o una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella
storia dell'utilitarismo con il criterio della qualità sovrapposto e in effetto
sostituito dal Mill a quello della quantità. E allora si capisce come possa
avvenire che il criterio della felicità finisca per accordarsi con quello della
valutazione morale; se le soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni morali,
e il bene piú desiderabile l'appagamento della coscienza morale, l'accordo tra
i due criteri quanto al contenuto è, non solo possibile, ma necessario. Ma è
troppo facile vedere a quale patto è raggiunto. Il valore di quella felicità
alla cui stregua si pretende di giudicare il valore morale è assunto come
supremo perché e in quanto contiene questo valore morale ed è graduato esso
stesso secondo un criterio morale; approva e disapprova in nome della felicità
quel che trova approvato e disapprovato in nome della coscienza morale. Viene
in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver risolto il
problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano dello
stesso avviso era la moglie che seguiva il parere del marito, dove erano di
avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie. Adunque,
anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio della
valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio
morale; e quel che pretende di aggiungervi come giustificazione, non è ciò che
costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto ad
esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una valutazione
secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica) del valore
morale. Porre come bene supremo la santità (il divino in quanto è sentito e
voluto come modello o norma della vita si determina in un ideale di santità) è
derivare il valore morale dal valore religioso, concepito come principio e
termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un elemento; o Ne ho
parlato altrove (La dottrina delle due etiche di Spencer e la morale come
scienza) e non occorre insistervi qui. 5 Sebbene il parlare della soddisfazione
della propria coscienza come di un bene desiderabilissimo sia legittimo, non è
legittimo, né conforme alla verità psicologica, considerarlo come il fine della
condotta morale. Il fine è l'attuazione di quel valore che la coscienza
riconosce come morale; e non è l'altezza della soddisfazione che se ne possa
attendere, che costituisce il pregio dell'azione, ma è il pregio dell'azione
che misura l'altezza della soddisfazione; la quale è pura soltanto a patto che
non se ne faccia lo scopo dell'operare. Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta meglio, l'attuazione di questo è voluta come una
condizione, o un momento dell'attuazione, di quello. E qui giova premettere due
osservazioni non peregrine ma utili alla chiarezza. Che questo valore supremo
del divino, della santità e, in termini piú generali, il valore religioso non
può essere dimostrato o insegnato con lo stesso processo conoscitivo, con il
quale si dimostrano, si insegnano e si comunicano delle proposizioni o verità
teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i dogmi stessi delle
dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice con frase piú
suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro ed efficace
l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive. Fondare la
valutazione morale sui valori religiosi è dunque presupporre che siano sentiti
e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori religiosi da cui si
fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non siano sentiti e
vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può crearli6 o
sostituirli. Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun ragionamento
basta a spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da quel sentimento
del divino, a svestirli di quell'alone religioso del quale egli investe non
solo questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe difficile nella
intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i valori morali e i
valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade sempre dove un grande
interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una categoria di valori
occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e raccoglie ad unità, come
attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è quel che suole piú
comunemente e normalmente avvenire per i valori morali. Ma fatta (come dicono i
legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna valutazione morale si
potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se non vi sia già
esplicitamente o implicitamente contenuta; cioè se non a patto che si sia
incorporata nel valore religioso una valutazione morale la cui validità
sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione per la
quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a persuadersene, di
discutere il problema formidabile della essenza del valore religioso. Se si
accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della religione è la
credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene, soprattutto dei
valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re ipsa, riconosciute.
In effetto quali si possano essere le reazioni di tale credenza sulle
valutazioni, resta pur sempre che non è l'esigenza della conservazione quella
che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro esser sentiti, il loro
valere come morali che ne fa postulare la conservazione. Di che ho già detto
altrove7, e non occorre del resto insistervi. Se invece si ammette, come io
credo, che la natura specifica, la «forma» del valore religioso non sia
riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e caratteristico del
sentimento e della valutazione religiosa il riferimento del nostro pensare, del
nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il nostro essere, ad un altro
essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne penetrati e posseduti; e
misura del valore religioso, la devozione ad esso, l'abbandono di sé alla
volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore religioso è per sé
altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in questo, neppure lo pone,
ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare all'anima religiosa che esso
sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la ragione sta in ciò, come si è
accennato: che al mi6 È appena superfluo aggiungere che non penso neppur per
sogno di negare una possibile efficacia all'insegnamento religioso in quanto
esso, come ogni insegnamento, non è mai (salvo forse agli occhi di chi lo
misura col tassametro) pura comunicazione di notizie o di idee, ma è vigore di
convinzione, calore di affetti, opera di formazione; insomma, educazione. Ma
anche l'educazione suppone le condizioni dell'educabilità. E si suppone poi
sempre che chi legge faccia uso del consueto grano di sale. 7 Cfr. Postulati
etici e postulati metafisici.] stico riesce impossibile di concepire altrimenti
che perfetto, cioè perfetto anzitutto e soprattutto moralmente, l'Essere che
adora, e nel quale vede non un bene, ma ogni bene, il Bene. Ma la perfezione
che vede in lui, a quale stregua è giudicata tale? L'ideale che trova realizzato
in quello non è foggiato secondo un criterio di valutazione morale la cui
validità è accettata e riconosciuta all'infuori dell'atteggiamento religioso
della devozione a Dio? Anzi non è quella perfezione morale che lo fa degno di
adorazione? Un mistico a cui si domandasse se concepisce Dio perfetto perché lo
adora o se lo adora perché è perfetto, forse non saprebbe rispondere, e
troverebbe che la domanda scompone quel che è per lui uno e indissolubile. Ma
ciò non toglie che la devozione e la adorazione non costituiscano per sé i
pregi e le doti di ciò che è adorato; e nessuna coscienza potrebbe trovare in
Dio i valori morali se non li conoscesse già come valori, e non li distinguesse
come morali dai valori di altro genere. Questa priorità e questa indipendenza,
questo sussistere per sé, questa selbständigkeit della valutazione morale,
appare confermata dalle discussioni sul valore delle religioni, il cui termine
di confronto piú consueto e piú decisivo è dato dal rispettivo contenuto
morale. Il che implica manifestamente che questo contenuto possa esser
giudicato e apprezzato per sé. E il prevalere sempre piú largo delle
preoccupazioni morali nelle controversie di indole religiosa (per esempio la
lotta intorno al modernismo) mostra che la validità del criterio morale è
tenuta come certa di una certezza che è data e riconosciuta indipendentemente
da ogni valutazione religiosa. Quanto all'affermazione che la morale non può
reggersi senza religione, essa, sebbene ambigua nella forma, non significa
affatto, come è facile capire, che non sia possibile sentire e giudicare ciò,
che è giusto o ingiusto, buono o cattivo se non con un criterio e da un punto
di vista religioso; vuol dire invece che non è o non si crede possibile una
moralità salda e costante, cioè una sicura conformità della condotta alle
valutazioni morali, se la valutazione morale non è sorretta, confortata, fatta
praticamente efficace dalla connessione dei valori morali con una finalità
religiosa; cioè dal considerare i valori morali come preparazione e condizione
necessaria di quel fine; e quindi i precetti morali come precetti religiosi.
Che è tutt'altra cosa; importantissima dal punto di vista propriamente pratico
o esecutivo, ma estranea alla questione presente e da trattarsi a parte,
analogamente a quel che si è accennato sopra della possibile importanza pratica
di una valutazione edonistica. Dire che l'olmo sorregge la vite, non è dire che
la vite sia una propaggine dell'olmo, e neppure che sia l'olmo che porta l'uva;
sebbene sia anche vero che, dove la vite non si regge da sé, non dovrebbe parer
savio tagliar l'olmo anche a chi ami soltanto la vite. Quel che si è detto dei
tentativi di una fondazione edonistica e di una fondazione religiosa si
potrebbe ripetere di ogni altro tipo di morale di cui si pretenda di trovare il
fondamento in un interesse diverso dall'interesse propriamente e specificamente
etico (notevolissima fra le altre la morale estetica), e dalle forme miste e
intermedie; le quali, se sono dottrinalmente fiacche e spesso incoerenti, hanno
però in realtà largo consenso nelle credenze e nelle opinioni piú comuni. Di
queste ultime meritano di essere ricordate, perché piú significative, le due
forme, nelle quali si mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione
qui sopra brevemente analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a
prima vista i piú lontani e l'uno all'altro opposti. Si può avere cosí una
interpretazione edonistica della valutazione religiosa (esempio l'utilitarismo
teologico) e un'interpretazione religiosa della valutazione utilitaria
(altruismo comtiano, misticismo umanitario). Da quanto si è discorso pare si
debba concludere che queste indagini (spesso nei particolari ingegnosissime e
suggestive) nelle quali si cerca la ragione del valore morale nella sua
connessione 15 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta o congruenza con altri valori, abbiano importanza solamente nel
rispetto strettamente pratico o esecutivo; in altre parole una importanza
parenetica o pedagogica, in quanto una tale connessione conforta, sorregge o
surroga con motivi di altra natura e sgorganti da interessi diversi il motivo
specificamente morale. Sarebbero dunque analisi ed indagini preziose per
l'educatore e per l'uomo politico (dato che si propongano fini morali), ma
senza interesse per lo scopo a cui mirano, di costituire il fondamento o la
giustificazione dei valori morali, perché radicalmente viziate dal falso
supposto che la ragione della supremazia dei valori morali si possa cercare in
qualchecosa che non abbia già essa per sé valore morale. Ma questa conclusione
sarebbe precipitata e eccessiva. Intanto è fuor di questione che, nonostante il
carattere di artificiosità che si trova piú o meno largamente diffuso nelle
costruzioni di questo genere, come nei sonetti a rime obbligate, vi è in tutte
una parte notevole di verità; verità s'intende non in quel che credono di
dimostrare, ma nei rapporti e nelle concordanze e nelle differenze rilevate, e
che dovrebbero servire alla dimostrazione. Questa parte di verità ha radice nel
fatto, troppo noto e troppo chiaro perché ci sia bisogno di illustrarlo, e già
sottinteso a piú riprese in questo capitolo, che non vi è giudizio sul valore
morale di un oggetto, qualità, tendenza, azione, del quale non si possa trovare
la ragione, oltreché nella forma speciale di interesse o di esigenza che gli dà
questo carattere specifico di valore morale, anche in un interesse diretto o
indiretto d'altra natura: non vi è bene morale che non sia bene anche per altri
rispetti; come d'altra parte non vi è bene di altro genere che non sia o non
possa diventare, direttamente o indirettamente, un bene morale. I valori delle
diverse specie si connettono, si intrecciano e si complicano fra loro in mille
guise. È bensì vero che ciò che fa esser morale un valore (e analogamente si
potrebbe dire dei valori di ogni altra specie) non è, come s'è visto, il suo
coincidere o il suo essere connesso sia pure per un rapporto di condizionalità
costante, con un valore — per quanto grande — di altro genere, o anche con piú
altri ordini di valori o con tutti; ed è perciò che nessuna sottigliezza di
logica può estrarre un valore morale se non di là dove esso si sia già posto o
insinuato; e che credere di poter trovare un valore morale tra valori che non
siano già morali è fare a un dipresso come chi vada frugando fra le idee degli
altri con la speranza di trovarvi le proprie. Ma è pur vero che sussistono
altri valori, e sussistono le relazioni fra i valori; e ciò che è oggetto di
valutazione morale, poniamo la sincerità, può essere apprezzato dal punto di
vista dell'interesse conoscitivo od artistico o economico; e, per converso, ciò
che è oggetto di valutazione edonistica o estetica o d'altro genere, la
ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere valutato anche come bene di ordine
morale. Ora: È possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri
valori e di questi fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della
loro graduazione e subordinazione? Vi è, per rispetto alla natura delle
relazioni o connessioni tra valori di diversa specie, qualche differenza
caratteristica che distingue i valori morali dai valori non morali anche per il
contenuto? E vi è, segnata ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o
strumentali con valori di altro genere, una differenza che distingue, rispetto
al contenuto, gli stessi valori morali fra di loro? E non potrebbe questa
considerazione giovare a intendere le incoerenze e i contrasti tra valutazioni
diverse e anche opposte, che pure si presentano col medesimo carattere di
valutazioni morali? Cosí, dietro i tentativi illusori di cercare fuori e al di
là dei valori morali il fondamento della valutazione morale e la ragione
decisiva che ne giustifichi la supremazia, restano i problemi: della
valutazione indiretta o rivalutazione condizionale o strumentale, di una
graduazione delle diverse categorie di valori; e della possibilità della loro
conciliazione. Della quale, la conciliazione tra virtù e felicità non è che un
aspetto particolare, e forse non il piú importante. Il carattere di autorevolezza
col quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi approviamo
bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una sorgente
piú alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si traduce,
tendono a far derivare questi caratteri, e, quando siano considerati essenziali
della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta dalla
coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il
fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione,
consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno
contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere
individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o decisione
si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale. L'autorità delle
valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra minore autorità
politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o nei titoli di
una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano. a) Della storia.
L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e apparato e
significazione diversi, secondoché si credette di fondare l'autorità della
valutazione in un processo genetico di evoluzione selettiva operante attraverso
l'esperienza organizzata della specie; o in un processo storico di svolgimento
e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura, degli istituti e delle
idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione logica di un pensiero
riflesso rintracciato nella successione storica delle dottrine e dei sistemi.
La prima delle forme accennate che si connette alla dottrina dell'evoluzione e
che culmina nella tesi di un progressivo adattamento dei bisogni, dei
sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale sempre piú
elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che non sarebbe
oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della dottrine),
si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare quella
superiorità e quella autorità dei sentimenti e delle norme di condotta morali,
che pretende di provare derivandola dal processo di selezione progressiva che
ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso dell'evoluzione. Infatti
il criterio, per il quale giudichiamo progressiva piuttosto che regressiva o
indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee e dei sentimenti, è un
criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta la validità
indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il prodotto; (e
del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci fa riconoscere
il valore). Ed è troppo chiaro che non è perché il progresso del senso
giuridico ha portato all'abolizione della tortura che noi condanniamo la
tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvisiamo nella sua abolizione
un progresso etico nello svolgimento del diritto. Ché se si obbietta derivare
l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e corrispondenza alle
forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei quali
esprimono le esigenze, si dimentica che all'infuori di un criterio, quale esso
sia, di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi derivati e
tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamente, in modo
esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto ciò è vero, che il massimo
rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu condotto a
sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico dell'adattamento progressivo
a un tipo di vita completa — il criterio edonistico di un piacere puro
corrispondente all'adattamento completo. Se a una selezione esteriore e
meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non attività, si sostituisce
uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la coscienza etica viene
costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme le sue idealità sempre
piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età e da popoli a popoli in
sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che l'induzione storica rivela
attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti e i ritorni apparenti, si
scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i fini, i motivi, le norme
in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue conquiste — la concezione
della formazione storica è senza dubbio piú propria, piú adeguata e piú
probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore, direi di prospettiva,
comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei valori morali. (E il
medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori). Lasciamo pure la
vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a qualche uncino di
verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque; e
neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una induzione legittima
sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è che questa induzione,
posto che fosse legittima, e non avesse già per filo conduttore e regolatore
quella direzione ideale che vi rintraccia ingegnosamente, non pone essa il
valore delle conclusioni a cui giunge, non è essa che ci fa riconoscere la
bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle idealità che segnano la meta.
Questa valutazione è irreducibile alla storicità; ed è anzi dalla storia — in
quanto voglia essere giudizio comparativo di valori umani — sempre e
inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto che, mutato il criterio
valutativo, sostituita all'una un'altra scala di valori, la prospettiva si
rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione dove il democratico e
l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice progresso morale. E se il
criterio valutativo della coscienza si contrappone a quello che ha o sembra
avere a un momento dato il conforto della storia, non vi è in questo nessuna ragione
intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno sull'altro dal punto di
vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal punto di vista storico,
perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che oggi fa difetto al
primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è conservazione e
svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, diciamo pure, con
termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo l'altra. Se
passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero riflesso,
troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la
continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è,
nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepire la realtà
perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come
siano possibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e
dialettico delle dottrine riguarda soprattutto, se non esclusivamente, i
problemi che nascono da questo problema centrale; le forme diverse sotto le
quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di
superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma
la sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da
questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente
coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando
una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla
riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di
sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una
concezione unitaria della realtà che ne accolga le postulazioni, sarebbe fuor
di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valutazioni, dalle
quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le
indagini. È bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si
annoda e si intreccia l'analisi e l'indagine di indole propriamente etica,
sulla natura dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la
fecondità, ne svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di
contrasto tra le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse,
svela i legami spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità
alcune di queste intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro
genere, noetiche estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di
importanza capitale per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei
criteri di valutazione e per tentarne la unificazione in una dottrina etica
strettamente intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si
svolge attorno a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza
morale; assume come validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono
gli elementi, i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata
la consistenza della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi
morali, e certamente si trova nei piú grandi e significativi, un filone piú o
meno ricco di intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o
sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale
comune, e segnano la creazione di nuovi valori e aprono la visione di una
regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale
di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma
questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o
soprattutto, orientamento diverso di valori, nessuno vorrà considerare come il
frutto di una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme:
anche se fosse esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si
accompagnasse sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione
ostinata. Questa concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché
novità di intuizioni morali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati
estranei, almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto
che quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di entusiasmo
morale dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando
secondino le forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa
affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale
concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la
conclusione di un'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un
irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non
li dà esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento
cercato in una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce
l'esigenza di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità
come l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbedienza a un'autorità
inconcussa e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la
tendenza a cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in
quanto si esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere)
immanente o trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi
morali esprimono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia
l'autorità di quel potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo
dei suoi precetti. Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che
nascono dal trasportare un medesimo termine da uno ad altri concetti connessi
ma diversi, o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un
processo psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una
caratteristica della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo
genere. Il dovere non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valutazione.
È forse superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi immediati e
diretti; non di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi, ogni
incremento del sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa
derivazione e deduzione dei valori indiretti e mediati dai diretti e immediati,
che l'etica applicata prende a prestito dalla conoscenza scientifica le
premesse minori dei suoi sillogismi valutativi. La valutazione morale
precede, nell'ordine delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e non
inversamente; anche se nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la
ratio cognoscendi di quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una
riflessione un po' attenta. La valutazione morale è preferenza, scelta, opzione
fra qualità o proprietà, cioè modi possibili di essere o di agire, tra i quali
non vi è gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realizzarsi l'uno
senza che sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme porre l'altro
come non valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità
come valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigrizia. Il
valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due
soli atteggiamenti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza
decisiva, i valori morali, a differenza degli altri valori, non possono
attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono voluti (la
volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne dipendono,
anzi consiste nell'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí non è
possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare l'opzione,
la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza che l'un
termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza approvare
l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la volontà
nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere
commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro qualità
di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro riconoscimento. I
valori morali invece non soffrono di essere posposti senza essere smentiti;
perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati a ogni altro
valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di essere, non atti,
ma modi di operare posti come costantemente normativi della volontà. Ne segue
che riconoscere un valore morale implica approvare, se si rivela come dato,
esigere, se è concepito solo come possibile o potenziale, l'atteggiamento
costante della volontà col quale esso valore è posto; costante, cioè tale che
si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non si può
pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e che sia
posto contro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di quella stessa
volontà il cui atteggiamento positivo è un'esigenza implicita nel
riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente postulato nella
valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la
sincerità, si sia lasciato trascorrere a una menzogna, l'atto presente e
momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio
volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento
della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa
di essere sentito e riconosciuto come morale, cioè come valore che esige per
essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in
quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e
non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui
si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si
manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle
volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in
contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia
attualmente questo conflitto, in quanto è presente alla coscienza la
possibilità di impulsi contrastanti. Di qui nasce la tendenza incoercibile,
manifesta nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che
esprime l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il vero
volere col volere morale; e a considerare gli atti immorali come prodotti non
dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa;
non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù. Da
quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora
chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione
morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non
sono, non vi può essere dovere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di
riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni
valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro
valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú
di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e
che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi
non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un
uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradimento, il «deve» o non
ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non ha
senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol
affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire
che per essere uomini bisogna sentire cosí, che non si può chiamar uomo o che
non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che
al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché
significa non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un
altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se
fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. Ma dunque i «sordi morali», se
ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire l'esigenza
di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno, di attuare
dei valori che non riconoscono come tali. Ma hanno tuttavia e possono avere degli
obblighi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non tutti i valori
morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili esteriormente,
cioè suscettivi di esser presentati come motivi apprezzabili anche da una
coscienza non morale. È questo obbligo, quello del quale si è tessuta con
grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e l'origine
sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se bastasse o non
bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non basterebbe a darne
ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e questo obbligo implica
necessariamente il riferimento a un potere superiore e distinto dal volere
individuale. E come questo Potere si impone in vista di un fine e in conformità
a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che comanda l'osservanza
di quelle norme. Senonché anche quest'obbligo può prendere forma e significato
morale; come può non avere altro valore che di costrizione subita: appunto come
le pene del codice per i galantuomini di princisbecco. E anche qui occorre un
po' di pazienza. Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta
nella valutazione stessa e per la quale il valore morale si fa sentire come
norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle
singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione morale) si
accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezza, data nell'esperienza
e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione normale — della
possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che torna il medesimo)
della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici al volere morale. Il
volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi antagonistici tendono
a contrastarne l'attuazione) come esigenza della subordinazione costante di
questi motivi, come appello a una forza coercitrice che li soverchi,
sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso ordine, e rovesciandone
per tal modo il valore. Questa disposizione di spirito fa che si approvi
l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si concepisce che
esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza dove e quando
manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione dell'obbligo,
e giusto il Potere che lo pone. In questa disposizione per la quale l'obbligo e
la sanzione sono interiormente approvati e voluti come garanzia di moralità, e
il Potere obbligante è invocato e idealmente posto in nome della esigenza
morale, sta la caratteristica differenza che dà all'obbligo valore morale, e lo
distingue dall'obbligo sentito come pura costrizione esterna; che distingue il
potere che merita rispetto dalla forza che si deve subire; l'autorità
dall'arbitrio; sia che il comando di questa autorità si consideri limitato a
una certa sfera di valori morali, sia che si faccia coincidere collo stesso
valore morale e si identifichi con esso. Ma cosí nell'uno come nell'altro caso
resta la medesima, di fronte all'obbligo e al Potere obbligante, la differenza
di atteggiamento tra la coscienza che valuta moralmente e la coscienza che sia
chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale. Per la prima è la valutazione
morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo. Per la seconda è l'obbligo
che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono non perché sono morali, ma
perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e della sanzione, come valori
strumentali di altri valori, come condizione imposta e inevitabile di quei beni
che soli la coscienza amorale desidera e apprezza. L'osservanza dell'obbligo
non è interiore moralità, ma è conformità esteriore a certi comandi che valgono
quel che vale la sanzione che li accompagna. La valutazione propriamente e
specificamente morale manca, ed è surrogata da una valutazione del tutto
diversa. Il suono dei valori morali non può farsi sentire, per questa sordità
morale, se non diventa il rumore di un interesse diverso. Raccogliamo i risultati
dell'analisi e vediamo che cosa ne segue. Il dovere esprime l'esigenza di
conformare l'atto al giudizio, di non smentire, con la volizione attuale, la
preferenza, la opzione che si afferma, come criterio di apprezzamento nel
giudicare l'operare proprio e l'altrui, nella valutazione morale; di non
opporre il mio volere in quanto è stimolo e causa dell'azione, potere di
produrre movimenti, al mio volere in quanto è scelta fra posizioni possibili
opposte, e attribuzione continua e persistente di valore all'una, e di
disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa delle volizioni attuali
e contingenti, come potere di esecuzione, dalla volontà che pone i valori e si
esprime nella valutazione, il dovere si presenta come l'esigenza
dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del volere esecutivo
al volere legislativo, del volere a cui spetta attuare i valori morali nelle
contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li ha posti e li fa
sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza, l'incostanza, la
debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e di tendenze
opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza morale la
necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non soltanto di
diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore morale di questo
Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi, viene
manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme all'esigenza
morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in parte, con
quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che tende
all'attuazione dei valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e
attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma
si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il
potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua
la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà
pensata non solo come un potere che impone, ma come Autorità che merita,
un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'unica sorgente cosí
il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la valutazione
morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità il
criterio stesso della valutazione. Ma lasciando ogni questione sulla
legittimità delle postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla
possibilità della loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre
inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto dell'autorità imperante la
valutazione, che giustifica il comando, che dà autorità al potere, che
suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente con un Volere
legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale rimane il
postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove è
sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato. Cosí se il
teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la Provvidenza
dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una valutazione
diversa, ma sostituisce e sovrappone alla «veduta corta d'una spanna» una
sapienza infinita la quale vede i fini remoti di quell'ordine che a noi rimane
occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di quell'ordine a noi
appare un male. Ma appunto il criterio di questa bontà è il criterio morale; ed
è il non sapere conciliare i fini apparenti con l'esigenza morale che induce
l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si accordino con essa. Dopo
quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle forme principali nelle
quali si presenta, e si è presentata storicamente, la dottrina del fondamento
autoritativo della morale. Se la distinzione tra il potere e l'esigenza morale
che lo legittima non è superata, come s'è visto, neppure quando si unificano i
due termini nel concetto di un'autorità che sia insieme irresistibilmente
potente e indefettibilmente morale, tanto piú manifesta sussisterà nelle forme
in cui l'unificazione non è posta, o l'adeguazione è incompleta. Ma restano,
almeno all'apparenza, due vie: a) o negare ogni valore alla coscienza morale
come tale, e fondare ogni valutazione, sul potere che la pone a suo arbitrio;
b) o trasferire il criterio della valutazione morale dalla coscienza personale
a un'altra coscienza, impersonale o collettiva, la cui autorità viene da
qualche cosa di diverso che dal suo accordarsi totale o parziale con la
coscienza della persona. Sulla prima tesi non c'è da osservare che questo: Che
essa o non risponde alla domanda alla quale pretende di rispondere; perché non
è dire donde venga l'autorità della valutazione morale negarle ogni valore, per
riconoscere soltanto il potere che la impone, ma che potrebbe imporre il
contrario. O non toglie se non a parole la distinzione, che ritorna attraverso
a qualsiasi sottigliezza, tra l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il
bene. E quando il Callicle platonico condanna le leggi come un'imposizione dei
molti ai pochi, degli inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve,
per non contraddire se stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un
criterio morale, un criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a
distinguere quella degli ingegnosi, degli intelligenti, dei superiori, da
quella del numero; a riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e
che non è giusto sia sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che
costituisce la giustizia? E il potere illimitato del Sovrano, al quale Hobbes
riconduce ogni criterio di morale e di diritto, esclude solo in prima istanza,
cioè in apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno,
l'arbitrio di questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa
per cui si suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e
un governo tirannico che nessun governo. La seconda delle vie indicate conduce
a far riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività
concepita come aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore
alle persone: sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i fini
individuali, sia come Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà
particolari. Le due tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e
valore diverso. Se la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di
singoli, non si può evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della
forza. Un giudizio morale che non è valido se corrisponde alla valutazione di
n-1 coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della
democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico
(cioè come criterio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini); ma
del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo; per
la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il senso comune, e il
discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare sconclusionato
di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare a fare una
legge ma non a farne riconoscere l'equità. Ché se l'autorità morale della
valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei singoli, e
perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni in cui
tutte le coscienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce, si
riconoscono due cose: che per ciascuna
persona non vi può essere autorità morale superiore a quella della propria
coscienza; che la distinzione la quale può essere di importanza capitale per i
rapporti tra morale e politica, cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non
ha valore morale se non a patto di essere fondata essa stessa su una
distinzione di valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar come)
dalla coscienza morale personale che la deve riconoscere. Manca dunque sempre
il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe ricondursi
l'autorità della coscienza collettiva. Quando si parla di fini della società
diversi dai fini individuali, e di coscienza sociale distinta dalla coscienza
personale, si corre facilmente nell'equivoco di opporre come separati, o,
peggio ancora, precedenti l'uno all'altro due termini correlativi; e si
dimentica o si trascura di tener presente che i fini della società non sono
fini se non per gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri; e che
la coscienza sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze
individuali; come, per converso, che i fini individuali sono nello stesso
tempo, o direttamente o indirettamente, fini della società; e un certo grado di
distinzione e differenziazione delle coscienze individuali è correlativo a un
grado corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare il fattore
sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di
individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso,
e nello stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale sua
è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è cosí
legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della
società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io.
Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione
presente, riesce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono
morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla
coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà
valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore
alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed
è valutata alla stregua della esigenza morale. Derivare la valutazione morale
da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è
giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre.
Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è
questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini
designati come sociali e delle istituzioni, delle leggi, dei tipi di società,
ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o
grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza
morale. Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú
apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un
rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo bagaglio scientifico, e
star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il
piú aperto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e l'ali
alla certezza. L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è di vivo
e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose sperate») che
prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel mezzo; mentre è,
nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da un ideale morale
che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità personale umana. Poiché
la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta come condizione necessaria
a rendere effettiva la libertà di tutti, a far veramente di ogni individuo
umano una persona umana. Che poi quella sia la condizione necessaria, e che sia
sufficiente; o che gli effetti siano per essere diversi o opposti da quelli
sperati, è tutt'altro discorso. La vieta analogia biologica che fa degli
individui le cellule dell'organizzazione sociale, se anche rispondesse a verità
per quel che riguarda le condizioni dell'esistenza, dovrebbe sempre venir
rovesciata nel rispetto della valutazione morale. Perché soltanto nella
cellula-individuo l'organismosocietà acquista coscienza di sé; e soltanto nella
coscienza dell'individuo vale come organismo, e per essa soltanto potrebbe
acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta da lui come superiore a se
stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta in ultimo che di un «punto
di vista diverso; e che, se dal punto di vista dell'individuo i valori sociali
sono valori individuali, dal punto di vista della società è vero l'inverso:
perché la coscienza che pone i valori sociali, e che giudica e valuta dal «punto
di vista» sociale, che funge da coscienza sociale, è ancora, sempre,
inevitabilmente, una coscienza individuale.Più breve discorso è da fare per il
proposito nostro, della dottrina assai piú sottile e complicata che concentra
ogni autorità e ogni finalità sociale nello stato e fa dello stato l'organo
dell'Eticità. Perché in quanto la volontà dello stato sovrano si identifica col
Volere universale cioè col volere morale, non c'è che da ripetere quel che si è
detto sopra a proposito dell'identificazione del Volerepotere col
Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro della valutazione, e
l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori morali, è questa
affermata identità del Volere dello stato col Volere morale che si viene
attuando nella Storia. Le difficoltà che possono nascere dagli sforzi di
conciliare lo stato com'è con lo stato com'è concepito, e di interpretare i
processi reali del suo divenire storico come momenti di attuazione dello
Spirito universale cioè del Volere morale, rimangono estranee al punto in
questione; il quale è questo: che il valore etico dello stato nasce dall'essere
esso e esso solo l'organo adeguato di quel Volere universale, il quale è lo
stesso Volere etico, che informa di sé la coscienza personale e si fa valere in
essa. Cosi qualunque sia il Potere e qualunque il Volere a cui si voglia
ricondurre l'autorità della coscienza morale, sempre si trova dietro a quel
Potere e dietro a quella Volontà, inevitabilmente dato o presupposto, quel
valore morale che legittima il primo e dà autorità al secondo; come dietro la
firma dell'uomo d'affari sia, non vista e non detta, ma sottintesa, la
ricchezza reale o supposta, che fa della sua cambiale un valore. Ma se
l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra autorità
superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna ammettere: o che
le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano totalmente, cioè che
le coscienze personali non siano che copie o esemplari di una medesima
coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di contenuto; o
altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali, posta, insieme
con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della differenza e
dell'opposizione rispetto ad altri valori. E in questo caso al problema della
fondazione storica e della fondazione consensuale della valutazione morale si
sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori morali nel cui riconoscimento
l'autorità dell'induzione storica e l'autorità del consenso universale
coincidono con quella della coscienza personale? E in che cosa differiscono dai
valori morali per i quali manca tale accordo? È legittima, e perché ed entro
quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso non potrebbe né in fatto né
in diritto estendersi all'atteggiamento interiore, ma valere soltanto rispetto
alle manifestazioni esteriori) dei secondi ai primi? E del pari si trasforma il
problema sul fondamento del dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il
valutare, ma il conformare la condotta alla valutazione; e suppone il rapporto
tra due volontà distinte o concepite come distinte, tra un volere presente e
momentaneo che si rivela nella volizione attuale e concreta, e il volere
dell'io persona, il Volere valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io
momentaneo o contingente è dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e
il Volere operante si identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e
svanisce perché sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e
l'io non è che aggregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze
accidentali, il dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il
problema del dovere è perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà
che nascono, sia dal concepire il Volere operante come uno e identico col
Volere valutante; sia dal concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal
concepire, secondo importa la necessità di una conciliazione, le due volontà
come distinte e diverse nell'uomo individuo, ma come una e identica in un Potere
soprapersonale del quale il valore morale esprime la legge nella coscienza
individuale. Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di
cui non sia già riconosciuto il valore morale è dunque vano o illusorio. O non
dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare. In realtà i
valori morali o valgono per sé o sono tali in grazia di altri valori che
valgono essi come morali per sé. Epperò ogni ragionamento col quale si dimostri
per esempio che un'azione è buona o giusta, si risolve o nel ricondurre
quell'azione a una classe di azioni, a un modo di operare già riconosciuto come
morale, o nel dimostrare che questa azione fu od è voluta come condizione o
mezzo di attuazione di un valore morale. I valori morali diretti e immediati,
apprezzati e voluti per sé, sono dunque dati di una esperienza morale non
riducibile ad altre forme di esperienza e i giudizi nei quali questa validità
diretta e immediata è ammessa o riconosciuta, sono postulati di valutazione
morale (postulati etici in proprio senso). E una dottrina morale in quanto è
sistema di valutazioni si fonda in ultimo sui postulati etici, espressi o
sottintesi, di cui si assume che sia ammessa la validità: cioè che siano dati
immediati della coscienza morale. Quando sia chiaramente riconosciuta questa
indipendenza, questa validità per sé o autoassia dei postulati etici, le
costruzioni dottrinali rivolte a cercare fuori della morale un fondamento che
essa né può trovare né ha bisogno di cercare altrove, prendono un carattere e
un significato diverso se non opposto; e forse considerate da questo aspetto
rivelano meglio la tendenza profonda che muove e avviva in forme sempre
risorgenti di tentativi diversi, i tipi di costruzione morale esaminati nei
capi precedenti. L'idea centrale dell'intellettualismo morale di cercare il
fondamento morale in una realtà obbiettivamente data, e, in una conoscenza di
questa realtà, dei suoi gradi di entità e di perfezione, il criterio della
valutazione morale, diventa, guardata da questo aspetto, un'espressione della
tendenza profonda e incoercibile, di trovare nel valore il senso e la ragion
d'essere della realtà, nel criterio morale la chiave della sua interpretazione;
di commisurare la realtà alla dignità, e riconoscere come esistente veramente
soltanto ciò che è degno di esistere, facendo del bene il solo vero reale, e
del male un mancamento, un difetto di realtà, l'irreale. Dietro il pensiero che
muove i tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque forma si presenti (non
soltanto edonistico, ma estetico, noetico, umanitario, religioso) di trovare la
ragione del valore morale in un bene supremo o maggiore o piú alto di ogni
altro, che ne persuada l'utilità o ne giustifichi l'autorità, appare la
convinzione che anche sotto il rispetto soggettivo della felicità (per l'uomo
patologico, direbbe il Kant) non è in ultimo veramente bene se non ciò che è
morale, o ciò a cui la moralità apre la via. Tutto ciò che ha valore, in quanto
ha valore davvero, non può contrastare, ma si accorda, deve accordarsi coi
valori morali, consistere in questi, o essere — in ultimo — condizionato da
questi. E quando si tormenta la storia (storia esterna e storia interna della
civiltà) per trovare nel processo di svolgimento, nella selezione subita o nel
trionfo conquistato, i titoli di nobiltà che spieghino e legittimino l'autorità
della morale, della nostra morale, si agita dietro l'acume e la sottigliezza
delle indagini e sotto gli accorgimenti dell'induzione storica, il bisogno di
trovare nella storia l'attuazione di un disegno etico, di fare dell'accadere
storico un divenire morale, di confermare con l'esperienza morale del passato
l'esperienza del presente, la nostra esperienza morale, la mia. Come l'appello
al consenso universale degli uomini, meglio che allo scopo di fondare su questo
consenso la mia certezza morale, risponde alla esigenza che realmente abbiano
valore per ogni coscienza quei valori che sono posti come universali dalla mia,
e costituiscono non il mio soltanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di
ogni uomo, dell'uomo. E finalmente, quando dell'autorità si cerca il fondamento
in una volontà superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a
questa e ha il potere di obbligarla, l'esigenza a cui si obbedisce è quella
stessa di cui si alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú
alto e il piú degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali,
sia nello stesso tempo un potere adeguato al compito suo, il potere piú
forte10; sia, come il vero volere, cosí il supremo potere. La forma generale, con la quale si presentano
da questo punto di vista i problemi, è dunque inversa a quella nella quale sono
posti e considerati nelle dottrine che cercano fuori della morale il fondamento
della morale. Si tratta non già di vedere quale ragione d'essere, e d'esser
tali piuttosto che altri o diversi, trovino i valori morali nella realtà che
conosciamo, nei beni d'altro genere che desideriamo, nelle tradizioni e negli
esempi del passato, nei giudizi dei contemporanei, nel comando di un Volere
onnipotente; ma di vedere se e come sia possibile e sia legittimo costruire una
realtà, graduare dei valori, interpretare la storia, pretendere il consenso,
postulare una Volontà in cui si adegui il potere al volere, sul fondamento
della certezza e validità immediata e diretta dei valori morali, e delle
esigenze che essi implicano. La formulazione generale di quei problemi dal
punto di vista morale è dunque segnata da questo procedimento: Quali sono i
valori morali; e quali sono le esigenze derivanti dalla loro posizione; se e
quali postulazioni di ordine teoretico siano richieste a soddisfare queste
esigenze; se e quale legittimità abbiano le postulazioni teoretiche fondate
sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di questi problemi e delle loro
soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio su di essi, e rimane
stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà, la indipendenza, la
auto-assiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento dei giudizi morali
non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di valutazione
morale. L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del concetto di
volontà, perché la volontà è produzione, creazione, iniziativa. Dove si ravvisa
o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si presume una forza
(non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè attività che ci sia
rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto maggiore quanto più
grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è perciò che questa
forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale si traduce in atto
contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più gravi sacrifici; è
perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimonianza più sicura
(nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il martire) della
saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò che appare
inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il senso
comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la
direzione consapevole e la forza, il senso comune è tratto senza esitazione a
fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? L'indipendenza e
l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica
fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con
grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo
capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui
al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale
dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale;
o, che torna lo stesso: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si
riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque cercare prima di tutto se
questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito,
per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali
di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non
implica necessariamente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel
riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via),
cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le
conclusioni alle quali si arriva. La connessione fra le diverse tesi che si
raccolgono attorno alla autonomia kantiana può essere, anzi veramente è, nel
suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e
fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí il «primato della ragione
pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza logicamente
inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali; benché
possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa indipendenza
e validità. Ciò che si presenta come conseguenza di questo riconoscimento è il
problema della conciliazione tra le esigenze della speculazione teoretica e le
esigenze della valutazione morale; del qual problema il primato della ragion
pratica esprime una soluzione o traccia la via per la quale Kant la cerca. Ma
veniamo al punto che ci interessa. Il concetto fondamentale dal quale il Kant
prende le mosse è, come è noto, quello del volere buono. Il volere buono è il
volere che si determina non per un oggetto, qualunque esso sia, che abbia un
valore di fine per chi lo vuole (motivo «patologico»), ma per il dovere: cioè
per il rispetto alla legge perché è legge; non già in vista di quel che la
legge comanda, ossia delle conseguenze che il volere conforme alla legge
apporta. Il rispetto della legge in quanto è legge, astrazione fatta dal suo
contenuto, è dunque il rispetto di ciò che la fa esser legge, della sua
validità universale. L'universalità è la forma della ragione che si pone come
esigenza del volere puro; è la ragione stessa in quanto si manifesta come
volontà, è la ragione pura pratica. Se l'uomo fosse pura ragione, cioè se non
fosse insieme un essere sensibile soggetto a tendenze, a impulsi di altre
specie, il suo volere sarebbe santo, e non si potrebbe parlare di dovere. Invece
il dovere c'è perché c'è l'esigenza di conformare l'azione alla ragione e non
agli impulsi della sensibilità. E il volere buono e appunto il volere che posto
fra la legge e quegli impulsi, di qualunque specie siano, si determina per la
legge, cioè per l'universalità, che è la forma della volontà razionale. Il
criterio supremo della moralità è perciò espresso nella nota prima formula
dell'imperativo categorico, di cui si dice piú sotto. Come si deve intendere
quella universalità? E basta essa ed essa soltanto a fornire la caratteristica
della valutazione etica, a distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non
vale? Quando la prima formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo
quella massima che tu puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge
universale», questa possibilità di voler
che la massima diventi legge universale può esser presa in due significati
diversi. Può voler dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che
l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della
medesima osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza
contraddizione come legge universalmente valida; o può significare invece la
possibilità che il valore universale della massima sia riconosciuto senza che
questo riconoscimento contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già
ammesso, di un principio piú generale; ossia che si possa volere l'universale
validità della massima senza disvolere l'universalità di una MASSIMA piú
generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come
legge. I due significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a
prima vista che coincidano. Che, negli esempi che dà e nei commenti con cui li
accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne
oscuri le differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il
vero significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo. Se
s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che non soltanto
si può concepire, ma può darsi in effetto che sia seguita universalmente, una
massima senza che perciò se ne ammetta il valore morale; come per converso; può
darsi che di una massima di condotta non sia possibile l'osservanza universale
senza che perciò se ne riconosca l'immoralità. a) Come esempi del primo caso
basta citare uno di quelli addotti dallo stesso Kant (nella Fondazione) in
sostegno del criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che preferisce
il darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti
naturali (dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che
tutti seguano quella medesima massima, sebbene questo non importi nessun
riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopenhauer contro
il Kant) della ragione del piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che
dappertutto dove vi è un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il
secondo, cioè che la subordinazione del debole al forte sia fatta valere universalmente
come legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. Per converso, tra le
massime che non possono pensarsi universalmente osservate senza contraddizione
vi sono non solo massime comunemente riconosciute come immorali, per esempio,
che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche massime come l'opposta: che
ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se non gli
economisti, almeno San Francesco e i suoi ammiratori non metteranno in dubbio
la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile pensare universalmente
praticate cosí la seconda come la prima. Ben diverso è il secondo significato;
per il quale la possibilità o l'impossibilità di universalizzare la massima non
riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o l'incompatibilità di questa
universalizzazione della MASSIMA con la volontà che la pone. Senonché questa
incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame alla forma negativa che è
anche la piú importante) può esprimere due specie diverse di contrasto: può
voler dire che universalizzando la massima si viene a togliere la ragione
per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo stesso che la
giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che già vale, o si
ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge universale. I due
casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire facilmente con
esempi. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte a un debole lo
costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia prepotenza con la massima
che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se il motivo, che mi ha
indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico, accadrà che in nome di
questo stesso interesse io dovrò negare la massima quando le vicende facciano
di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi. Ossia la massima non può
essere universalizzata, senza che venga posta con ciò la possibilità che sia
negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in grazia del quale l'ho
accolta. Se si suppone invece che io riconosca essere nella forza il fattore di
ogni elevazione morale, e nell'esercizio incondizionato di essa il valore
morale piú alto, la massima della prepotenza che approvo quando il piú forte
sono io, dovrà essere parimente approvata — anche se hic et nunc mi dispiaccia
— quando il piú forte sia altri; e l'universalità della massima potrà esser
voluta senza contraddizioni, perché si accorda con il mio supremo criterio
morale (che è quanto dire universale) di valutazione; ossia perché è una forma
subordinata di un'altra massima già posta dal mio volere come legge universale.
Il significato nel quale è preso dal Kant il criterio della universalizzazione,
è, come si è detto, il secondo; e propriamente quella forma del secondo che
risponde all'ultimo dei casi ora esaminati. Né potrebbe cadere sotto qualsiasi
altra la considerazione, che è la sola veramente decisiva, fatta da lui per
provare che non potrebbe essere universalizzata la massima proposta nel 3°
esempio, già citato, dell'uomo che ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli
vede bene che senza dubbio una natura, malgrado una tale legge universale,
potrebbe sempre ancora sussistere, anche quando l'uomo (come l'abitatore del
Mar del Sud) lasciasse arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a volgere
la sua vita verso l'ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una
parola, verso il godimento; ma egli non può assolutamente volere che questa
divenga una legge universale della natura e che ciò sia innato in noi come
istinto naturale. Perché come essere ragionevole egli vuole necessariamente che
tutte le facoltà siano sviluppate in lui». (Fondazione). La medesima
considerazione è ripetuta a proposito dall'altro esempio in cui si fa l'ipotesi
del brav'uomo, che si propone di non far del male a nessuno, ma quanto
all'adoperarsi nei bisogni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio per
tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una legge universale della natura
conforme a quella massima, è impossibile di volere che un tale principio valga
come legge della natura» Per il Kant dunque l'universalità della massima non è
criterio della sua bontà e del valore morale della volontà che vi si conforma,
se non perché essa è una prova dell'accordarsi della massima seguita
nell'azione con la natura dell'essere ragionevole, con la legge posta dalla
Ragione, che è la legge stessa morale. Soltanto intesa cosí la formula (nella
Fondazione) della volontà di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo
delle sue massime una legislazione universale, o nei termini della Critica
della ragion pratica. Opera in modo che la massima del [Con quel che risulta
evidente da questa ipotesi si accorda il fatto assai notevole della profonda
diversità di valore che può assumere nel nostro giudizio morale la medesima
regola pratica, secondoché noi vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo
e impersonale (anche se contrario al nostro criterio di valutazione) o un
motivo soggettivo e personale; a seconda che ci appare una massima accettata
veramente da chi opera come norma, o un comodo pretesto o compromesso del
momento; cioè a seconda che vi si trova o no quella condizione necessaria, se
non sufficiente, del carattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di
loro e delle azioni coi giudizi. La ragione di natura egoistica che Kant fa
seguire può valere tutt'al più come un tentativo poco felice di giustificare la
simpatia dal punto di vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per sé
in alcun modo a dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non a
patto di identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo «come
essere ragionevole» col volere del caro Io. Il corsivo delle parole
sottolineate in questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola
volere spazieggiata. Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la
bella traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni); per la Critica della
ragion pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R.
Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, Reimer, Berlin). Kritik der praktischen Vernunft, tuo volere
possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e
coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri
conformi ad esse. E soltanto cosí si può intendere come egli creda di derivare
dall'universalità la formula famosa e piú feconda (ma feconda in quanto dà un
contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma. Opera
in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni
altro, sempre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo. Ma intesa
cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza: dell'universale
conformità delle massime alla ragione, alla legge morale, al volere puro come
principio di una legislazione universale, vale a dire, alla legge morale; e
della universale validità delle massime come comandi, cioè dell'universalità
del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime, né dalla
universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare quali sono i
modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge universale che la
volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa. Se ora vogliamo, e
possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia kantiana e
servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo raccogliere e
completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú chiara. I
valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono
la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica
sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei
ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da
ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come
potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi
sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in
rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di
ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione
pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»). Ma la ragione per quanto
si faccia non dà valori; la ragione esige o impone la coerenza; teorica: dei
giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle
valutazioni derivate e mediate con le valutazioni direttamente date o
postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dà dunque le valutazioni,
sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per questo rispetto, l'ufficio
di confronto, riduzione, subordinazione, unificazione che le è proprio. Non è
meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne
estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà
con se stessa; esigenza necessaria e caratteristica di ogni uomo che sia
persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la
smentiamo, ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a
noi stessi della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come
persona. Ma essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali sono i
valori sui quali si fonda e ai quali deve far capo l'esigenza unificatrice
della coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio delle
conoscenze, i riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito,
i valori fondamentali sono dati dalla volontà; né si può derivarne la natura
dalla natura della trama; né dal disegno della tela.Né maggior luce può venire
dalla Volontà come Kant la concepisce; né dal concetto del Volere puro né da
quello del Volere buono. Il Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio
come s'è detto, di ogni impulso sensibile, e capace di volere i valori morali
per sé, non può esser per lui che il Volere che vuole la ragione, la ragione
stessa in quanto è pratica, in quanto è forma legislatrice, e non dà che questa
medesima universalità.Quanto al concetto del volere buono, esso aggiunge bensì
alla nota dell'universalità (rispetto della legge perché è legge) la nota
dell'obbligatorietà (un'azione è buona quando è compiuta per il dovere); ma
questa nota è possibile nel volere buono soltanto in causa del conflitto tra il
rispetto della legge morale — col quale si identificherebbe per sé il volere
puro — e gli impulsi sensibili. È dunque un carattere che riguarda la moralità,
non la valutazione morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia
dei valori morali in confronto degli altri valori; ma non dice in che
consistano i valori, né donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità
della legge). In ogni caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo empirico,
la ratio cognoscendi della legge, sta però nella legge la ragion d'essere del
dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che i valori
morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né sapere perché
meritano che si debba attuarli. Che debbano essere scritti con la iniziale
maiuscola tutti i sostantivi che viene imparando, potrebbe anche essere per uno
scolaro tedesco il criterio per distinguerli come tali dalle altre voci del
discorso; ma non è l'obbligo di scriverli con l'iniziale maiuscola che li fa essere
e diventare sostantivi. Resta da esaminare la forma che il criterio di
valutazione assume nella 2a delle note formule; quella in cui si assegna alla
legge un contenuto cioè un fine; e il rispetto della legge perché legge,
diventa rispetto dell'umanità o della persona umana come fine in sé. Ma è
facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima formula, o è
veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di piú di
quella onde è dedotta; o assume davvero un contenuto, e questo costituisce per
sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da cui si pretende
dedurlo. Il quale non si esaurisce piú nell'universalità della valutazione
morale ma richiede un riferimento agli oggetti della valutazione; ed è un
criterio non piú formale soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso cosí,
sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú innanzi. Il termine che media il
passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come fine è il rispetto
della natura ragionevole. Poiché la legge è la ragione, il rispetto della
legge, cioè della ragione, importa il rispetto dell'essere ragionevole, come
tale; della natura di essere ragionevole e della persona umana nella quale si
manifesta a noi questa natura. Si potrebbe già discutere, a rigore, sulla
legittimità di passare dal rispetto della ragione al rispetto di una natura
ragionevole, perché ciò che impone rispetto nella ragione è secondo Kant la sua
forma legislatrice e non il soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui si
realizza questa forma. Tuttavia, finché si pensa l'essere ragionevole come
puramente tale cioè come costituito di sola ragione ed esaurientesi in essa, il
passaggio si riduce in fondo ad una ipostasi, e il contenuto non muta. Ma
quando si deve venire all'uomo, il trapasso è ben diverso. L'uomo è essere
ragionevole, ma non tutto, e non soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto
della persona umana, si intende rispetto di tutta la persona in quanto nella
persona si rivela una coscienza uno spirito (che la comprende sí, ma è ben
lungi dall'esaurirsi nella ragione), oppure si intende la persona in quanto è
essa stessa ragione e null'altro, cioè in quel che ha di universale, di
medesimo in tutti gli uomini, di (come si dice, sebbene il dirlo qui paia un
bisticcio) impersonale? Non c'è che da ripetere quel che s'è detto già;
dall'assumere come fine questa personaragione vuota di ogni altro contenuto non
si ricava altro criterio che sempre e ancora il rispetto della ragione come
tale. E solo verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla
persona, soltanto per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con
ogni altra persona e non anche per quel che vi è di proprio originale,
individuale e irriducibile, non si assomigli all'inchinarsi davanti a un
apparecchio telefonico per il rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso
risuona. Oppure si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale)
conferisce dignità all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che
essa ordina e fonde nella unità inscindibile del medesimo e del diverso, del
comune e del proprio, dell'universale e dell'individuale; che non la ragione,
ma lo spirito umano nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza
vivente in ogni persona merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si
può parlare di un contenuto che non si esaurisce nella forma. Ma è troppo
evidente che inteso cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal
rispetto alla ragione e alla legge perché legge. Intesa cosí la persona umana,
essa non è piú l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa,
ma è la sorgente di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la
universale validità e la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in
luce le esigenze, determina le condizioni di attuabilità; (e potrà poi indagare
se e come tali esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle degli
altri ordini di valori e in particolare con quello del sapere); di quei valori
morali che il «Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono» attua
in forma di doveri. Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non
soltanto la pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni,
modi di essere e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca
come valore morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la
conservazione l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività
spirituali, appare in forma tipicamente significativa nel commento già riferito
sopra con l'esempio (nella Fondazione) a cui si riferisce. Come essere
ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano sviluppate
in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di fini
possibili». Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il
volere autonomo, morale, è dunque il volere che vuole necessariamente lo
sviluppo di tutte le facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che
il contenuto sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza
contestazione come fini di un volere buono cioè come valori morali14. E appare
manifesto che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio
puramente formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto, i fini
dell'operare morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto loro, i
doveri. E risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione dell'operare è
veramente buona, che un atto è veramente morale? ma non alla domanda: quali
sono le azioni, in cui questa buona intenzione si deve tradurre; quali sono i
fini a cui il volere buono deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella
cui attuazione fatta con purità di volere consiste la moralità? [ E che
veramente si sottintendano come già noti e riconosciuti è confermato
all'evidenza dall'analisi di ciò che costituisce veramente il presupposto
fondamentale non solo di quella citata ma dalle altre esemplificazioni; con le
quali si prova, non già, come s'è visto, l'impossibilità per sé di
universalizzare, ma l'impossibilità di volere che una tal massima valga come
universale. Infatti la ragione per la quale non si può erigere a massima
universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi non è già
l'impossibilità di concepire seguíta una tal massima da tutti quelli che sono
stanchi della vita, ma l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e
adottata; perché essa implica che si affermi la superiorità del piacere sui
valori morali (dei quali la vita è condizione); mentre, appunto perché li
riconosciamo come morali, affermiamo e vogliamo il contrario. Così nel secondo,
il dato contro cui urta la universalizzazione della massima — che sia lecito
promettere con l'intenzione di non mantenere — è la superiorità sottintesa
della sincerità e della lealtà sull'interesse egoistico; e la conseguente
impossibilità di volere che cessi di essere riconosciuta universalmente quella
superiorità di cui noi siamo certi. Del terzo esempio si è detto, e si è
accennato anche al quarto; nel quale ultimo è sottinteso manifestamente il
valore della simpatia e della benevolenza, che non possiamo ammettere sia
subordinato al valore della propria quiete o dei propri comodi. Alla quale
domanda si presume dunque che la risposta sia già data dalla coscienza morale.
E la risposta è data infatti, e non può esser data, che da lei. Ma se la
risposta non fosse univoca? Se, supposto pari in due coscienze il rispetto
della legge, la legge comandasse all'una quel che vieta o non comanda
all'altra, potrebbe bastare a dirimere il contrasto tra le due leggi il sapere
che il volere è buono quando si determina per rispetto alla legge, e che la
moralità consiste nel compiere il dovere per il dovere? Non vi è una coscienza
morale, ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze morali quante sono le
coscienze personali nelle quali sono riconosciuti come supremi e normativi e
validi indipendentemente dal flusso momentaneo e variabile delle valutazioni
transitorie e accidentali, certi valori; ed è riconosciuta l'esigenza che il
criterio di valutazione corrispondente possa valere non solo come norma
costante del giudicare e del volere proprio, ma anche come norma costante del
giudicare e del volere altrui; ossia come norma universale del giudicare e del
volere di ogni persona. Se si ammette o si suppone che quei certi valori siano
per tutte le coscienze i medesimi, si può parlare della coscienza morale, come
una ed identica non solo di forma, ma anche di contenuto; se si ammette il
contrario, si deve riconoscere una pluralità di coscienze morali piú o meno
discordanti e una pluralità di criteri di valutazione che si presentano alle
diverse coscienze con la medesima autorità di valutazioni morali, cioè con la
medesima forma. Il fascino singolare che esercitò ed esercita la morale di Kant
viene non dal suo formalismo per sé, ma dal fatto che, mentre spoglia e
purifica la moralità da ogni fine materiale e quindi dal pericolo di ogni
considerazione soggettiva, la dottrina è sostenuta e vivificata dalla fiducia
salda e incrollabile che si debba riconoscere o si possa dimostrare che dentro
quella forma cape, e non può capire che un solo contenuto; dietro quella legge
si debbano trovare infallibilmente i fini che la coscienza morale riconosce
come buoni, e quelli soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non poteva non
essere, vano. Il criterio formale di Kant sembra convenire ad un solo e unico
contenuto, a certi valori ed a quelli soltanto, perché si ammette già che la
coscienza morale sia unica; che la sua voce non soltanto parli in ogni
coscienza con lo stesso tono, ma dica le medesime cose. In realtà il criterio
formale non esprime che l'esigenza della razionalità: una legge non è legge se
non è valida sempre nei medesimi casi; una norma non è suprema se non a patto
che ogni altra norma sia subordinata ad essa; un criterio di valutazione non è
piú un criterio, ma un capriccio, se i miei giudizi di valore non si accordano
costantemente con quello; se io non riconosco legittimo, fatto da qualsiasi
altro, il giudizio che quel criterio esigerebbe da me nel medesimo caso. Ma è
un'illusione credere che possa bastare la razionalità per sé a distinguere i
valori dai non valori; i valori morali dai valori non morali, a farci
riconoscere — senza appello diretto o indiretto a qualche dato o postulato non
razionale, il valore di un oggetto qualsiasi (di un contenuto), ideale o reale.
Si governa non meno razionalmente l'avaro, quando giudica ed opera in ogni caso
come se il danaro fosse l'unico bene per sé, il supremo bene, purché riconosca
legittimo che ogni altro giudichi e operi allo stesso modo, di quel che faccia
l'esteta quando ragguaglia ogni cosa a un ideale di bellezza, o l'intellettuale
che non riconosca altro scopo degno alla vita che la ricerca della verità. E
quando si dice o si crede di dimostrare che è «contrario alla ragione» non un
giudizio apprezzativo che contraddice al criterio accettato, ma il criterio
stesso come tale, non si può affermare o dimostrare questa contrarietà se non
perché si sottintende che vi sono — cioè sono riconosciuti e desiderati — altri
valori diversi, superiori o non subordinabili a quello dal quale è tratto il
criterio in questione; e si trova contrario alla ragione che non si tenga conto
di quest'altri valori, che si giudichi e si operi come se questi non
esistessero, o fossero inferiori mentre sono superiori, o incondizionati mentre
sono condizionati. Ma se si fa l'ipotesi che questi altri valori non siano tali
per un Tizio che li ignora, qualsiasi istanza di irragionevolezza contro di lui
cadrebbe a vuoto, anzi sarebbe essa irragionevole. Adunque il criterio di Kant
non supera, dato che ci siano, le differenze di contenuto valutativo. Se in
nome della mia coscienza morale io pongo il valore dell'umiltà, e in nome della
propria coscienza morale un'altra persona lo nega, l'universalizzare le massime
che rispondono alle due valutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo verso
una soluzione del conflitto, se non a questa condizione: che io creda di poter
dimostrare che una delle massime si accorda e l'altra contrasta con una terza
massima nella quale è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o ammesso
incontestabilmente come morale. E si presenta inevitabilmente, senza che sia
possibile eluderla, la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di contenuti
discordanti nella valutazione morale? C'è. Si è osservato piú sopra che ogni
oggetto ideale o contenuto di valutazione morale ha o può avere nello stesso
tempo valore per altri rispetti, cioè può essere considerato come un valore di
altra specie. Anzi è per questa relazione dei valori morali con valori di
ordine diverso che si è cercato e si è creduto di poter trovare il fondamento
della valutazione, la ragione d'essere del valore morale in una finalità di
natura edonistica, egoistica o altruistica, o noetica o estetica o religiosa.
Se si considera una tale rivalutazione eterogenea come pretesa di far valere,
con questa e per questa ragione, per morale, un valore che non sia già sentito
come morale, il tentativo, è come s'è visto, del tutto illusorio. Ma se si
considera, al contrario, come espressione di una finalità che può assumere in
questa o quella coscienza importanza prevalente, che può o potrebbe,
all'infuori del carattere specifico di eticità per il quale è posto da quella
stessa coscienza come valore morale, essere sentita come superiore in pregio ai
fini di ogni altro ordine, e degno di subordinarli, essa contiene in sé la
ragione capitale della diversità e discordanza dei fini e dei criteri, che
pretendono di valere ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto
proprio dei valori morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza
per il quale i valori si ordinano da sé in una scala determinata dalle
connessioni di inerenza e di condizionalità degli altri valori, con i valori
estetici; e il mistico un ideale di santità, al quale subordina gli altri
valori, accogliendoli e graduandoli in quanto convengono, negandoli in quanto
disconvengono; e cosí lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la
verità, e cosí l'egoista calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per
essere morali, hanno già una validità e un'autorità intrinseca che li distingue
dagli altri valori, si vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del
mistico e cosí degli altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e
riconoscere rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via dicendo;
e se continuano a valere per la forma come morali, valgono, per il contenuto,
soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il dominante.
Basta per convincersene badare alle differenze caratteristiche della
motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di coscienza supposto giustifica a
sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza, o alla forza
di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo coincidere e
fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore dell'ordine che
esprime l'orientamento prevalente della coscienza, anche quando non è in giuoco
la valutazione etica, non solo conduce alla transvalutazione notata, ma tende a
indurre insieme un processo di transvalutazione inversa; cioè a dar colore e
calore di convinzione e di apprezzamento morale ai valori di quell'ordine, a
riconoscerli come morali e a pretendere che siano riconosciuti per tali anche
dalle persone, nelle quali non si afferma il medesimo orientamento. Ed è
istruttivo (e non è sfuggito agli umoristi) il calore col quale parla di
diritti offesi e rivendica gli interessi sacrosanti della giustizia l'egoista
gretto che vede frustrato un suo piccolo calcolo ingegnoso che aveva a mala
pena il pregio di non urtare nel codice penale; e quello (sia pure di dignità
fuor di paragone diversa) dell'artista, che grida allo scandalo e invoca un
preciso dovere dello stato a reprimerla, se offenda il suo senso estetico, la
trascuranza per un tronco di colonna dimenticato. E si potrebbe continuare, in
modo anche piú evidente, per gli altri. Cosí ciascuno degli orientamenti
valutativi tende ad allargare nella direzione corrispondente la sfera dei
valori morali, includendovi un contenuto proprio diverso, e non coestensivo al
contenuto di ciascun altro. E perciò accade che i diversi sistemi di
valutazione — animati come sono e pervasi da un interesse tipicamente diverso —
abbiano in realtà in comune soltanto una parte di quei valori che ognun d'essi,
per l'esigenza sua propria, riconosce come morali; abbiano cioè comuni soltanto
quei valori morali che sono nello stesso tempo valori diretti o indiretti del
proprio genere, o che almeno non contrastano e non negano quella propria
specifica esigenza. I diversi sistemi assomigliano cosí a cerchi eccentrici di
vario raggio che si intersechino fra di loro; dei quali è minima la superficie
comune a tutti, ed è sempre piú grande la parte d'estensione rispettivamente
comune a un numero di cerchi minore; e in misura variabile, secondo che sono
meno o piú eccentrici fra di loro. D'altra parte, anche la coscienza nella
quale l'orientamento tipico è dato dall'interesse stesso morale (la coscienza
dell'homo ethicus) si trova a dover considerare nei valori estetici religiosi
intellettuali economici il valore morale diretto o indiretto che assumono o
possono assumere in grazia di relazioni analoghe a quelle considerate sopra (il
valore p. es. che l'attività scientifica e l'estetica e le doti richieste e
promosse da questa attività possono avere per la cultura morale). E non solo:
ma per la considerazione felicemente messa in evidenza dal Moore sul valore
organico (il «quanto» per il quale il valore di un tutto eccede il valore di
uno dei suoi fattori non è necessariamente eguale a quello del fattore che
rimane: ethics, Intrinsic value), si trova a dovere apprezzare diversamente
l'oggetto ideale della valutazione morale, quando esso è nello stesso tempo
oggetto di una valutazione diversa, intellettuale, per es., od estetica. (Non è
senza significato anche per questo rispetto che il Sommo Bene sia stato
identificato col Sommo Bello). Si aggiunga finalmente (il finalmente chiude ma
non esaurisce le osservazioni su questo proposito) che il carattere di
interiorità dei valori morali, il quale si fa tanto piú spiccato quanto piú la
coscienza personale è concepita come sorgente e creatrice autonoma dei valori,
tende a staccare, anche nella coscienza dell'homo ethicus, il valore morale
dagli schemi che esprimono una esteriore conformità alla valutazione, per
riconoscere un pregio preminente alle note interiori di spontaneità, di
libertà, di autonomia; il che porta ad estendere la dignità intrinseca dei valori
morali anche a quegli altri valori spirituali nei quali splende un raggio di
quelle medesime luci; e non tanto a distinguere i valori morali da altri valori
spirituali, quanto a distinguere il contenuto interiore e spirituale dei valori
dal contenuto esterno e materiale nel quale si traducono. Cosí nella coscienza
personale si attenua e si fa piú incerta, e trasmutabile per molti modi, la
distinzione tra i valori morali e gli altri valori spirituali. In altri
termini: mentre, si può dire a un dipresso, dal trionfo dell'etica cristiana
fino al Kant la valutazione morale aveva avuto per le diverse coscienze della
stessa civiltà e cultura un contenuto comune determinato e costante (e, in ogni
caso, la parte di contenuto sulla quale cadeva il dissenso finiva per essere
praticamente quasi trascurabile), a partire dalla dichiarazione dei diritti
della Rivoluzione francese, si delinea e si allarga nel campo della valutazione
morale una sempre maggiore differenza di contenuto tra coscienza e coscienza; e
si fa piú frequente e piú profondo il contrasto tra i criteri di valutazione
rispettivamente accolti come supremi. E i sistemi nei quali i valori morali
sono ricondotti a un criterio intellettuale, o estetico, o religioso, o etnico,
o umanitario, o filogenetico, o solidaristico, o egotistico, o quale altro si
voglia, non sono piú, guardati per questo rispetto, tentativi dispersi, ma, per
cosí dire, paralleli di giustifica Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore di un medesimo
contenuto; essi esprimono invece, nella parte forse maggiore e piú
significativa, una diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte un
contenuto comune, che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a cui
si riscalda. Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale, la
parte di contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre non
ha per sé autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A meno
che la coscienza stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il proprio
criterio di valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di grado,
tra quella e queste. Se si suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo spirito
filantropico, lo speculativo, il religioso, l'estetico, non riconoscano
rispettivamente altri valori all'infuori di quelli che si possono commisurare
al criterio di valutazione proprio di ciascheduno, si troverà tuttavia che
certe doti spirituali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il dominio di sé,
l'ardimento, sono e debbono essere considerate come valori da tutti
indistintamente i tipi supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa, che
siano intelligenti) debbono riconoscere che quelle doti personali sono
condizioni o indispensabili o sommamente utili alle forme di attività
corrispondenti, cioè all'attuazione di quell'ordine di valori che ciascuno ha
posto a sé come tali. Per la medesima ragione si troverà (la deduzione è troppo
ovvia perché occorra piú che l'accenno) che debbono essere riconosciuti come
valori il rispetto della integrità e della libertà personale, l'osservanza dei
patti, lo scambio dei servizi e via dicendo, e con essi i costumi, le
istituzioni, le leggi che assicurano la conservazione e l'incremento di queste
condizioni sociali; e le disposizioni di spirito (lealtà, imparzialità,
simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella coscienza personale. Adunque
tutti i tipi suddetti, e gli altri che si potrebbero analogamente supporre,
saranno portati a riconoscere e ad apprezzare in sé e negli altri, astrazion
fatta da ogni valutazione morale, dei valori, sia propriamente personali (doti
della persona che possono sussistere nel soggetto indipendentemente dal suo
atteggiarsi rispetto ad altre persone); sia sociali (doti che riguardano questi
atteggiamenti); valori che nascono dal rapporto di condizionalità costante che
li stringe a ciascuno degli ordini supposti. Di piú: il rapporto di condizionalità
dal quale viene ai valori citati in esempio il carattere di strumentalità, è
diverso, come è facile vedere, da quella strumentalità esterna accidentale e
variabile che lega il blocco di marmo all'opera dello scultore, o la conferenza
di propaganda al disegno dell'altruista, o un libro agiografico all'interesse
del mistico, o la scala dell'Osservatorio agli studi dell'astronomo: appunto
perché là si tratta di condizioni preliminari indispensabili e permanenti, il
cui valore non solo non si esaurisce nell'atto singolo che ne dipende, ma non è
sostituibile da alcun altro strumento o condizione. È dunque una condizionalità
necessaria, permanente e insurrogabile, in forza della quale ciascuno dei detti
tipi dovrà riconoscere a siffatti valori condizionanti una superiorità, se non
di pregio intrinseco, di precedenza imprescindibile sui valori diretti e finali
che ne dipendono. Non occorre lungo discorso per intendere come per effetto del
medesimo rapporto il filantropo potrà essere condotto a riconoscere i detti
caratteri di condizionalità anche a qualità attitudini forme di attività, alle
quali o non potrà attribuirli o dovrà forse attribuire un valore negativo, o di
ostacolo, ossia un disvalore, il mistico o l'esteta; e inversamente; e come
perciò sarà possibile una distinzione tra i valori propri esclusivamente di
ciascun tipo di valutazione, e i valori condizionanti comuni a qualsiasi
ordine, dato (come gli esempi citati dimostrano possibile) che ve ne siano di
cosiffatti. Questi valori comuni avranno dunque oltre ai caratteri già notati,
anche quello di essere strumentali rispetto a quale si voglia criterio di
valutazione che sia posto come normativo; cioè avranno una condizionalità
universalmente necessaria permanente e insurrogabile. Aggiungiamo ora un nuovo
elemento all'ipotesi; e supponiamo che tanto il filantropo quanto lo
speculativo e il mistico e l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei
valori morali, quell'ordine di valori che risponde alla direzione tipica della
propria coscienza. Accadrà che la valutazione morale dell'uno coinciderà quanto
al contenuto con la valutazione morale di ciascun altro soltanto per quei
valori nei quali si riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre ciascuno
interiormente riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di tutti i
valori posti e dichiarati dalla sua coscienza a lui come morali, dovrà
riconoscere in pari tempo, che, per le volontà per le quali vale come normativo
un ordine di valori diverso, la detta esigenza non comprende tutti questi
medesimi valori, ma soltanto quelli la cui strumentalità condizionale è
universalmente necessaria. Cioè dovrà riconoscere che, esteriormente alla
propria coscienza, l'imperatività del proprio criterio è limitata a questa piú
ristretta sfera di valori. In altri termini, non potrà esser posto come
criterio morale e comune se non un criterio di valutazione che assuma, come
universalmente validi e costantemente subordinanti ogni altro valore, quei
valori appunto nei quali si riscontra la detta priorità condizionale; ma che
insieme non neghi, e non escluda i valori morali propri di ciascuna coscienza
in particolare, cioè nessuno di quegli ordini di valori, nel quale si inquadra
e si giustifica per ciascuna coscienza individuale quel contenuto comune. Si
delinea dunque, per la riflessione critica obbiettiva, una distinzione tra i
valori la cui attuazione è riconosciuta come un'esigenza universale e costante
per qualsiasi coscienza capace di moralità, e i valori la cui attuazione è
un'esigenza soltanto per la coscienza che li pone a sé come morali; tra i
valori per i quali ogni coscienza può riconoscere legittima una legislazione
esterna che ne imponga la validità; e i valori dei quali una legislazione
esterna deve soltanto non escludere la possibilità; tra i valori che possono
essere oggetto di una obbligazione a un tempo interna ed esterna, e i valori
che, non possono essere oggetto che di una obbligazione interna. Gli esempi
addotti in principio di questo capitolo per chiarire il concetto di un
contenuto comune universalmente valido, non rispondono a una determinazione
rigorosa; e hanno soltanto un carattere provvisorio di opportunità. Se ora
cerchiamo di fissare con precisione quali sono propriamente i valori che lo
costituiscono, troveremo facilmente che essi si assommano in due condizioni
riconosciute in effetto (e non potrebbe essere altrimenti) come valori primari
fondamentali da ogni sistema morale: la libertà e la giustizia. La libertà esprime
l'esigenza delle condizioni soggettive necessarie a fare dell'uomo una persona
padrona di sé di fronte a sé e di fronte a ogni altra persona; la giustizia
esprime l'esigenza delle condizioni obbiettive necessarie all'esercizio
universalmente efficace di questa libertà. L'attuare in sé e in ogni altra
persona questi valori di libertà e di giustizia (ed i valori impliciti in
questi) deve dunque essere riconosciuto come un dovere universalmente valido,
anzi come il solo dovere (o la sola categoria di doveri) veramente universale.
Ma qui è da notare una circostanza rilevante. La libertà non è una condizione
di fatto, un possesso dato; ma è, come vide e affermò fervidamente il Fichte,
una conquista da fare, una idealità che si viene realizzando e che richiede
sforzi sempre nuovi e impone sempre nuovi doveri. E il medesimo è da dire della
giustizia che è lo specchio sociale della libertà. Ora se il valore della libertà
e della giustizia (e la validità dei doveri che ne derivano) consiste, come
apparirebbe dalla deduzione fattane qui, soltanto nel loro essere condizione
necessaria ad ogni ordine di valori; è continua ed inevitabile la possibilità
di un contrasto nella coscienza dell'intellettuale, dell'esteta,
dell'altruista, tra l'interesse sempre presente, diretto della conoscenza o
della bellezza o della simpatia e i doveri mediati e indiretti della libertà e
della giustizia; o, in termini generali, tra i valori diretti e per la coscienza
individuale supremi, e i valori che per lei appaiono soltanto indiretti e
strumentali. Cosí obbiettivamente nell'ordine di una possibile legislazione
esterna, sarebbero doveri primari, soli veri doveri, quelli appunto che
soggettivamente per la legislazione interna di molte se non di tutte le
coscienze individuali, valgono come doveri derivati, cioè tali soltanto in
grazia di doveri d'altro ordine, dei quali l'obbligatorietà esterna tutela
subordinatamente, ma non impone l'osservanza. E resta in ogni caso la
questione: Quei valori che una coscienza riconosce come valori in sé, e a cui
commisura gli altri valori sono posti ad arbitrio? La distinzione stabilita nel
capitolo precedente implica che siano valori morali diretti, cioè supremi e
normativa per ogni coscienza, soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé
e riconosce come tali; e non dà ragione del fatto che siano posti e
riconosciuti come valori morali diretti, cioè valori per sé, anche quei valori
di libertà e di giustizia che appaiono, nella deduzione che se n'è fatta qui
sopra, come valori morali universali soltanto in grazia del rapporto necessario
di precedenza condizionale che li lega ai primi. E ciò significa che la
distinzione stessa non ha che un valore provvisorio, finché non si ammette
quella tesi, e non si dà ragione di questo fatto. C'è, sottinteso, nella tesi
del resto inevitabile — che siano valori morali per ciascuna coscienza quei
valori che essa pone a sé come supremi e normativi, qualche presupposto? E qual
è questo presupposto? Non è difficile scoprirlo. Perché un ordine di valori,
diciamo per comodità di espressione, una idealità, sia riconosciuta da una
coscienza come suprema e normativa si richiedono due condizioni
imprescindibilmente: 1° che la detta idealità possa costituire un criterio di
valutazione atto a subordinare ogni altro valore, a dare unità coerente alle
valutazioni e a segnare una direzione costante alla volontà; 2° che essa sia in
effetto posta dalla volontà come suprema e riconosciuta degna di dirigerla; e
perciò che l'attuazione di quella e la esclusione di ogni atto che la neghi sia
sentita come un esigenza incondizionata (esigenza di non smentire con la
volizione la volontà, con l'atto la valutazione); e sia sentito o posto
idealmente come dovere il subordinare ad essa ogni altro valore e il negare
ogni interesse che contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le
condizioni stesse che fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una
unità, cioè una Volontà consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono
in una parola le condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di
ciò che costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'individuo si afferma ed
esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del
valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto,
della persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa
volontà. Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il
presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale;
perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o
idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori
della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed
è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità.
Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e
postulare come dato e fuori di ogni contestazione, qualche valore intrinseco,
al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commisurare il
valore in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di
confronto e di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la
validità di ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto
del quale si discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge
irrimediabilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche cosa
di perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza, quando
si discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone necessariamente
la validità di quella ragione che è chiamata in causa. Bisogna dunque accettare
o respingere la legittimità del presupposto; accettando o respingendo insieme
ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è via di mezzo possibile. Ricusarlo
vuol dire negare ogni valore morale; accettarlo vuol dire riconoscere valore
morale a ciò che costituisce la personalità, a ciò che le è essenziale, e che
la fa essere non la personalità astratta e comune che non sussiste per sé e non
basta a costituire questa o quella persona, la mia persona; ma la persona
individuata viva e concreta, in quel che ha di universale e di comune e in quel
che ha di proprio, di suo, di individuale; l'umanità non dell'uomo genere,
dell'uomo tipo, ma di questo o di quell'uomo. In quanto è uomo, senza dubbio;
ma anche in quanto è questo. L'uomo-ragione dà, come s'è detto e ripetuto, la
sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto. L'uomo-volontà pone questa coerenza
come legge del mio valutare e del mio fare, impone a me che l'idealità posta e
riconosciuta come suprema valga veramente come suprema, che io ne affermi il
valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le esigenze sempre dovunque si
presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una parola, di essere persona; e
di volere che ogni uomo sia persona. Ma non è ancor tutto. Quel che io devo
essere per valere come persona, l'idealità che deve dare unità al mio io, e in
cui si esprime non la volontà in genere, ma la mia volontà di essere persona, è
posta da questa mia volontà ed ha valore per me perché è posta da lei. Certo,
la mia coerenza deve essere e non può essere altro che la coerenza della
ragione; l'esigenza che la mia volontà impone a me di essere persona è quella
medesima esigenza che la volontà di ciascun altro (capace di moralità) impone a
lui, e che a me e a lui e a ciascun altro impone il rispetto della persona come
tale; ma l'una e l'altra esigenza non investono il medesimo contenuto
spirituale in me e negli altri. Limitano le categorie di valori, nelle quali
l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma non determinano per tutte la
medesima idealità. La mia volontà deve — per far di me una persona —
uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze necessarie e costanti di
ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia); e deve perciò superare
l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si
misura il valore che dal loro effetto su di me), e appuntarsi in una idealità
che le sia norma; ma non può uscire di sé per diventare una volontà diversa,
non può cessare di essere quella certa volontà, che fa di me non la persona
umana in generale, ma la mia persona. Insomma non può volere l'unità se non di
quello spirito di cui è la volontà. Ma quale è la prova che questa idealità non
è un capriccio dell'io transitorio e mutevole, ma è veramente legge delle mie
valutazioni e delle mie azioni? La prova non è e non può essere data se non a
me stesso, da me, dall'attestazione della mia coscienza. Ed è perciò che la legittimità
dei valori posti da me non è contestabile da altri né controllabile. Ma vi è
tuttavia una prova esterna, di fatto, tenuta normalmente valida nel giudizio
comune; e che è veramente necessaria, anche se non è sempre sufficiente; e
questa prova è il sacrificio. Appunto perché il sacrificio attesta che ogni mia
facoltà, ogni mio potere si raccoglie e si appunta nella volontà di attuazione
di quel valore; e che io nego e respingo da me ciò che mi costringerebbe a negarla.
Cosí è che il valore della vita si misura dal valore di ciò a cui si è disposti
a sacrificarla; e che, per converso, l'esser pronti alla morte apparisce
l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui si è devoti. Le esigenze
costitutive della personalità si attuano dunque informando di sé un contenuto
spirituale che è sempre in qualche parte proprio e caratteristico di ciascuna
coscienza individuale; come raggi di una medesima luce che tralucono per
cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare contenuto la condizione o il
mezzo per il quale la personalità si pone e si realizza nell'io individuale e
concreto; la materia che si suggella di quella forma. E il valore morale di
questo contenuto nasce da questo suo essere lo strumento il tramite, per il
quale si esprime nella coscienza individuale il valore assoluto della
personalità umana. Per tal modo l'idealità, nella quale si concreta per la
coscienza delle persone singole il criterio o la legge della valutazione
morale, costituisce per ciascuno l'affermazione della unità spirituale della
sua volontà di essere persona, della sua libertà. Cosí la libertà, che nella
deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente acquista valore solo
strumentalmente universale e necessario, in quanto l'attuazione dei valori di
libertà appare la condizione comune e imprescindibile della attuazione di ogni
ordine di valori, è invece qui valore per sé immediatamente universale; e
sorgente di quegli stessi valori che valgono per le coscienze singole come
supremi soltanto perché sono lo strumento del realizzarsi di essa libertà in
ciascheduna. È, quindi, la sorgente cosí dei valori costitutivi della
personalità in astratto, come dei valori costitutivi delle diverse personalità
in concreto; cosí dei valori universali della persona ideale come dei valori
propri della persona reale. Nel presupposto stesso di ogni valutazione morale
ha dunque radice cosí l'esigenza dell'universale come l'esigenza
dell'individuale; l'esigenza di una valutazione comune e l'esigenza di una
valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza che la volontà personale si
affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e dell'altra, o, meglio,
dell'una nell'altra. L'imperativo della libertà è ad un tempo: sii persona, e:
sii la tua persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi essere per essere uomo;
rispetta l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro l'espressione individuale
e concreta dell'umanità. A nessuno verrà in mente di credere che si intenda di
stabilire cosí il dovere di creare nuovi valori, di affermare nuove intuizioni
morali; e porre accanto al dovere di essere giusti, quello di essere originali.
Sarebbe come voler obbligare uno scienziato a fare delle scoperte, almeno nel
senso che si suol dare comunemente alla parola. Le intuizioni morali nuove,
come le scoperte scientifiche, come le nuove forme di arte, si presentano a
chi... le trova. Spiritus flat ubi vult. Ma vi sono, in un certo senso piú
modesto, come nella ricerca scientifica le piccole continue scoperte di
indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi, che cavano e puliscono la
selce e temprano l'acciarino, dai quali l'uomo di genio farà sprizzare la
scintilla, cosí nella vita morale le piccole nuove intuizioni e nuove
interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori morali, che preparano
il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino nell'apparente
applicazione monotona di una medesima massima alla medesima classe di azioni,
un'impronta, un segno, una sfumatura, nella quale si rivela l'originalità
morale della persona; originalità di finezza, di delicatezza, di grazia, di
abnegazione, di calore, di fantasia, di acume; gradazioni e colorazioni diverse
di valori noti, combinazioni nuove di pregi prima disgiunti. Ciò che è proprio
di una persona anche comune (sia venia al bisticcio) non è tanto il rivelarsi
di una proprietà, o dote, o qualità diversa; di un nuovo elemento di valore
(che non è novità frequente neanche nei grandi); quanto questo modo, col quale si
raccolgono, si mescolano e si fondono per lui in sintesi nuove i valori
elementari già intuiti. Ciò che è caratteristico dell'individuo consiste anche
qui, se si dà alla parola il suo significato originario, in una
«idiosincrasia». Queste minori e, nella loro infinita varietà inafferrabili,
differenze individuali, si raccolgono però, come accade, attorno a tipi
diversi, segnati soprattutto dal prevalere, conforme a quel che si è accennato
già, di un ordine di valori sugli altri. Dal che possono derivare non solo
differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E qui sta appunto la sorgente
dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di fronte ai quali la critica non
può fare che opera di constatazione e di sistemazione. Come possa adempiere a
questo ufficio e quali frutti se ne possano attendere non è qui il luogo di
esaminare. Qui importa solo notare come questa indagine e sistemazione critica
non potrà che presentare, nella forma tipica piú compiuta e recisa e col
massimo rilievo, i contrasti che sorgono naturalmente dal prevalere, nella
unificazione morale della coscienza personale, di uno piuttostoché di un altro
ordine di valori, e dalla misura di questa prevalenza. Ma la forma fondamentale
sarà data dal contrasto tra i valori universali morali, i valori di libertà e
di giustizia, e quelli che valgono come supremi (cioè che pretendono, come i
morali, la direzione suprema della valutazione), nella coscienza individuale.
Se la libertà e la sua sorella germana, la giustizia, fossero patrimonio
acquisito e non come è, come deve essere, una conquista faticosa del genere
umano che dura e durerà nei secoli, il problema non esisterebbe se non nella
forma di esigenza della conciliazione di quei valori spirituali che non si
presentano come necessariamente e universalmente morali. Problema formidabile
anche questo, ma non tale da segnare una antitesi di criteri non conciliabili;
antitesi che rende necessaria la subordinazione dell'uno dei due all'altro, ma
che può legittimare nella coscienza personale cosí l'una come l'altra
soluzione. Questa antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i valori di
cultura; tra l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona, cioè
volontà libera consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si
arricchisca di nuovi valori l'uomo che è già persona, che è già, se non l'uomo
libero del Fichte, l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter farsi
libero, e che vi tende come al suo supremo valore. È, in termini forse meno
precisi ma piú recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità, tra l'estensione
e l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la possibilità che
si facciano partecipi) dei valori di libertà, accessibili soltanto ad alcuni,
quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di accrescere in quelli che già
li possiedono i valori di cultura, che sono pure, almeno mediatamente,
incremento dei valori di libertà. L'umanità (la persona umana) si rispetta
elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva cosí nell'uno come
nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti? Speriamo che siano;
ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura, dalla quale
sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario, e la
possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza morale
prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione di
tutti, o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della
cultura, è baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie
coincidenze del bene generale col bene individuale. Il dire non basta a porre
in essere quel che si dice. Alla distinzione fondamentale che ha origine nel
presupposto stesso di ogni valutazione morale (il valore assoluto della persona
umana), tra valori morali universali e valori morali propriamente personali,
corrisponde naturalmente una distinzione nel carattere di obbligatorietà che assume
rispettivamente nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli altri. Ai
primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere una
obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una
obbligazione interna. In quanto la società organizzata, lo stato, il Potere
politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni esterne della
moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento
dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere
formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è
affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume
tuttavia per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo
il modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva;
cioè la giustizia come posizione e conservazione delle condizioni esterne
necessarie alla libertà di tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire
questo punto, che qui si disegnano due orientamenti di coscienza diversi e in
alcuni, se non tutti i postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche
corrispondenti, tra le quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono:
l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la
garanzia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e
quello che prende impropriamente nome dal socialismo: — la giustizia è la
costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima
possibilità esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpretazione
piú universalmente radicale della famosa seconda formula della Fondazione di
Kant). Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si rivela una
forma del conflitto fondamentale di cui si è toccato, nel modo di intendere la
conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze costitutive della
personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale. Senonché, appunto
perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato soltanto in relazione
alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla forma veste giuridica e
quanto al contenuto natura economica; si presenta come negazione o posizione
nel Potere politico della facoltà di sottoporre ad una legislazione esterna il
possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di distribuzione della
ricchezza. La quale limitazione del carattere del conflitto è dovuta non
solamente e non tanto all'abbassamento inevitabile che ogni idealità subisce
nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico, quanto ad una necessità
intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle condizioni della sua validità.
Questo capitolo presenta soltanto nei suoi lineamenti più generali una materia
che deve essere trattata distesamente a parte [Il quale dal punto di vista
etico trova, e non potrebbe essere altrimenti, la sua giustificazione in una
finalità di contenuto individuale. È individualismo; universalistico si, ma
individualismo. Una prova di ciò assai significativa è appunto la deduzione che
Fichte fa dal dovere che ciascuno ha di attuare in sé la massima libertà, del
diritto alla formazione ed educazione morale di sé, alla cultura, ai mezzi
necessari alla cultura, al lavoro. Insomma, ai medesimi postulati del
socialismo; salvo che là sono detti in modo diverso. Nell'esemplificazione
introdotta qui sopra si è supposto che
l'idealità normatrice potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o
estetici o religiosi o edonisticoaltruistici, ma non si è considerato
distintamente il caso che l'ordine normativo dei valori fosse dato
dall'edonismo egoistico; perché esso, nell'opinione comune, che risponde anche
solitamente a verità, non presenta quei caratteri formali di validità morale e
di esigenza normativa, con i quali può, o si concepisce che possa, presentarsi
nella coscienza il contenuto costituito dagli altri ordini di valori. Ma questo
non toglie che anche l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a
principio normativo, purché, si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo;
cioè riconosca legittimo che valga nelle medesime condizioni per tutti quello
stesso criterio di valutazione, che assume come valido per sé, e che dà, per
ipotesi, coerenza al suo giudicare e al suo fare. Ora è da notare che dal puro
calcolo egoistico razionalizzato si deduce quel medesimo ordine di valori
universalmente strumentali di libertà e di giustizia, che si deduce da ciascuna
delle idealità normative supposte. E basta a persuadercene il fatto che
l'economia pura assume come presupposto, cioè come norma universale di condotta
dell'homo oeconomicus, appunto un postulato edonistico, non solo, ma
edonistico-egoistico. Ed è noto che il liberalismo politico è modellato —
s'intende sempre nel suo aspetto puramente politico, cioè esteriore — sul
liberismo economico. Questa considerazione contraddice solo in apparenza la
tesi, per la quale non può essere normativo che un valore considerato come
valore per sé distinto dagli impulsi e dai desideri transitori e variabili del
soggetto; perché il valore che l'economia contempla in realtà, non è il
piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì
sempre normalmente soltanto un valore strumentale, ma (anche lasciando in pace
l'esempio dell'avaro) può essere — ed è in effetto dall'economista —
considerata come valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni
specie di valori edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono
considerati e valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione
e di godimento che se ne trae e che è misurato obbiettivamente dal quanto di
ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che il Potere politico e il
sistema giuridico che riceve da esso sanzione e validità di diritto positivo,
possono assumere un significato e un valore al tutto diversi — pur avendo per
contenuto una medesima materia — secondo che questo contenuto è valutato come
un ordine di valori strumentali che trova la sua ragion d'essere e la sua
giustificazione soltanto nel suo carattere di condizione necessaria della
coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è considerato come un
ordine di valori morali diretti e immediati, come un'esigenza del valore
primario assoluto della persona umana, e della libertà che ne è la nota
essenziale. E ne segue parallelamente che si possa ravvisare nell'ordine
giuridico cosí la realizzazione di un'esigenza etica, come un sistema di
condizioni che precede idealmente l'esigenza etica e la rende possibile, ma che
sussiste e sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In realtà, siccome
il valore morale non è valore e non è morale se non per la coscienza che lo
sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è questa: che o si
riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere in alcune o in
molte delle coscienze individuali carattere e forma di valori morali, anche
l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il contenuto
del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione etica e non
dal principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo all'egoista;
subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si potrebbe
pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo accetti. Dal che nasce
la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve coincidere, quando al
contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che le norme di diritto
devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere fosse unicamente
l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena)
ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico
dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale conseguenza. Di qui seguono
due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra morale e politica.
Il primo è questo: che il potere politico, in quanto è forza di coazione che
pone come esternamente obbligatorie certe condizioni quali si siano (negative o
positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé, direttamente, organo
morale; perché il valore morale, che è del tutto interiore, insindacabile e
incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i mezzi di cui la legislazione
esterna può disporre — sia di persuasione (premi), sia di costrizione (pena) —
non possono presentarsi che come motivi di ordine egoistico; e hanno per sé un
valore o premorale (cioè di condizione di fatto anteriori alla moralità ed
estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo del motivo morale o ne
surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti esteriori della condotta).
Perciò gli istituti politici non sono in sé né morali né immorali se non in quanto
sono valutati come tali interiormente dalla coscienza dei singoli. Il secondo è
questo: che dovendo l'ordine giuridico poter essere giustificato da un punto di
vista puramente egoistico, affinché il Potere politico possa avere un
contenuto, non soltanto negativo, ma positivo, comune col contenuto delle
diverse idealità tipiche morali (essere o diventare organo promotore e fautore
dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto di queste idealità sia o
possa essere considerato insieme come il medesimo, o come elemento o condizione
essenziale del contenuto medesimo, delle soddisfazioni egoistiche; o in altri
termini, che i valori, poniamo, intellettuali, estetici, simpatetici,
religiosi, siano nello stesso tempo i valori piú desiderati o desiderabili nel
rispetto edonistico, o elementi o condizioni essenziali dei valori egoistici. E
ciò equivale a dire che la funzione primaria e preliminare del Potere politico
come organo di cultura è quella di ordinare i mezzi atti a dare ai motivi
edonistici un contenuto sempre piú spirituale e morale, ossia ad elevare e
affinare nei singoli la capacità di sentire e apprezzare come beni migliori e
piú desiderabili di ogni altro i valori spirituali. La funzione positiva
preliminare è dunque quella di apprestare i mezzi o le condizioni esterne
necessarie alla possibile educazione ed elevazione spirituale di ciascuno. Fin
qui si è considerato il Potere politico soltanto come organo di obbligatorietà
esteriore rispetto ai singoli soci, dalla cui volontà è idealmente posto,
astrazione fatta da ogni relazione dello stesso potere con altri poteri; cioè
come stato di fronte ad altri stati. Ma se si considera per questo rispetto,
esso assume ipso facto natura e funzione di Persona in rapporto con altre
Persone e raccoglie in sé, unifica e fonde in un'unica Volontà e personalità le
volontà e le persone dei singoli. I quali per rispetto agli stati esteri
spariscono come volontà distinte, e sono sostituite nel loro valore assoluto di
persona dallo stato. Il che significa nello stesso tempo che per questo
rispetto la volontà dello stato è per la coscienza di ciascuno la propria
volontà, e che lo stato diventa esso soggetto e sorgente di idealità etiche.
Non è possibile e non è necessario esaminare distesamente le conseguenze che
nascono da questo diverso significato e valore che lo stato assume in forza dei
suoi rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere l'antinomia che ne
deriva nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché lo stato è
considerato nella sua azione interna o nella sua condotta esterna. Rispetto a
quella il Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la persona
singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo. Nel
primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non in
quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla
tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle
stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione
necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai suoi rapporti col
Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno idealmente) ogni
esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale esigenza è
necessaria. Di qui la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti
nei partiti politici che considerano come insuperabile l'opposizione degli
stati ed eticamente incondizionata la sovranità di ciascuno; e la tendenza
opposta nei partiti, che credono superabile l'opposizione, e condizionata eticamente
la sovranità degli stati nelle loro mutue relazioni. Si è avuto occasione di
notare nel capitolo precedente che per la ragione stessa per la quale la
idealità è concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come normativa di
tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni interesse
individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo all'idealità
etica che lo costituisce in persona, diventano la prova viva e continua del
valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della conformità, per
adoperare termini già usati, del volere operante o esecutivo col volere
valutante o legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e voluto come
valido per sé all'infuori di ogni interesse puramente soggettivo e accidentale
dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità; nota che è
rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel linguaggio
comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un oggetto, al
quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a sacrificare
ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia piena, effettiva
e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le condizioni
soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede da noi, in
noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale morale come
un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui attingiamo
il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono attingere i
partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella virtualità è
sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé come Dio, la
nostra devozione è religione. Vi è dunque per questo rispetto una certa
analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il
Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità, la Virtù
divina realizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del valore
morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e
spirituale, e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla
prima; cosí il Potere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come
mezzo e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa
considera le condizioni esterne della convivenza come idealmente poste e
giustificate soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili
fuori di quella. Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza
stessa religiosa deve esser condotta a riconoscere che quella subordinazione
non è neppure per essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua
giustificazione in quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della
quale essa coscienza riconosce il valore supremo della propria idealità, e
l'autorità divina del Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della
persona umana come sorgente di ogni valore; del valore stesso e della
inviolabilità della fede che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed
implica quella libertà che essa non può negare in altra persona senza negarne
il valore per sé: che ogni altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la
propria; che è il principio da cui muove e il termine a cui riesce ogni
elevazione dello spirito. Inoltre: Ogni sforzo che si faccia per tradurre un
dovere religioso in obbligo giuridico e dargli una sanzione materiale esterna,
contraddice, nel momento stesso che sembra affermarla, l'esigenza della
religiosità. Perché tende a sostituire al motivo religioso — del tutto
interiore — della devozione e della adorazione, un motivo esteriore e di
necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale si trova cosí invocato
a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione interiore dello spirito,
e la purità delle intenzioni. Ed è poi, questa distinzione e indipendenza del
Potere politico e della legislazione esterna da ogni particolare fede
religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile non meno che la indipendenza
già notata da ogni particolare idealità morale. Perché ciò che fa la certezza e
la inconfutabilità della convinzione religiosa è insieme ciò che ne fa la
incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che la «esperienza religiosa»
del mistico non può essere negata da altri. Le intuizioni alle quali essa si
riconduce sono, per la coscienza che le prova, certe di una certezza diretta,
cioè anteriore a ogni prova, non meno delle sensazioni. Ma al pari di queste
non sono comunicabili ad una coscienza che non le prova e non le vive. Potrebbe
parere materia di discussione l'interpretazione che il mistico fa di questi
dati, il momento (che l'analisi obbiettiva può distinguere dal momento
dell'intuizione) per il quale la coscienza trapassa dalla intuizione sua,
dall'esperienza propria diretta, all'affermazione del divino in sé, come
oggetto dell'intuizione. Ma anche questo processo sfugge alla discussione
perché non è logico ma psicologico: anzi non è per la coscienza del mistico un
passaggio, una argomentazione, ma una integrazione che si pone coll'atto stesso
dell'intuizione e che è vissuta con la medesima certezza. Perciò, chi vuol
sottoporre dal di fuori questo processo ad analisi critica, analizza in realtà
qualche cosa di diverso. Analizza il processo discorsivo che dovrebbe fare, per
provare la validità della sua conclusione, una coscienza che non senta già la
certezza di questa conclusione; o, piú esattamente, che consideri come
conclusione di un passaggio logico, quel che per il mistico non è conclusione
logica, ma è evidenza psicologica. E d'altra parte è pur vero che questo medesimo
carattere di evidenza immediata che rende la certezza del mistico invulnerabile
ad ogni attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo ogni possibilità di
dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda sull'autorità e non
sull'«esperienza» non ne è perciò meno inevitabile la individualità e la
incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è accettata come tale
per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla divinità dalla quale
è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e presuppone quella
certezza del divino, alla quale essa rivelazione dà bensì un contenuto
dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se la mia
coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali, per le
quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine divina, le
prove della rivelazione (supponendo pure superati tutti i problemi che vi si
riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma sono prove
che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel divino, di cui
ho la certezza. Ma il riconoscere questo carattere interiore personale e
insindacabile cosí delle diverse idealità etiche come delle diverse credenze
religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò che costituisce
la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo, ciò che
costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra), non è la
medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla negazione
non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di ogni
fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una idealità, che
per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In questa diversità e
molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la fonte di ogni incremento
della cultura e di ogni elevazione spirituale. Ciascuna di queste voci è una
voce umana, la voce di una persona; e ciascuna deve poter farsi sentire. Ma
quella ragione medesima che pone questa esigenza ne pone il limite; e i limiti
sono i valori morali universali il cui contenuto si allarga e si arricchisce
della potenzialità di sempre nuovi valori nella esperienza dolorosa e gloriosa
dei secoli; e che tralucono per tutto dove è qualche lume di umanità, perché
sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si misura la sua dignità di uomo.
Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.Ho cercato di mostrare
altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si può dire, dalla necessità
intrinseca dello svolgimento morale — il problema di una pluralità di contenuto
nella coscienza morale; sorga, quando si abbandoni il presupposto che è la
forza segreta del formalismo kantiano, che l'imperativo categorico,
l'universalità della legge, la razionalità del volere convengano a un solo, a
quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle deduzioni della dottrina del
Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini piú chiari e meno tecnici,
quando si cessi di ammettere che la coscienza morale sia una e la medesima in
tutti; non solo per il tono con cui parla dentro ogni persona, ma per le cose
che dice; non solo per l'autorità con la quale comanda, ma per ciò che comanda.
Questo problema viene a sovrapporsi o meglio ad anteporsi (se non anche a
sostituirsi), — e in ogni caso (come pure ho cercato di dimostrare) a mutar
senso e posizione — al problema che è tuttora, almeno nella forma consueta,
considerato come il problema centrale, il vero problema dell'etica: quello del
fondamento. La quale forma di trattazione sembra supporre — già nel modo di
porre il problema (filosofia della morale) — che sul contenuto concreto di ciò
che si chiama moralità, sul modo di condotta che si distingue come morale, sui
criteri coi quali giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male,
non cada dubbio; e il dubbio riguardi le ragioni per le quali si deve veramente
tener giusto e buono quel modo di condotta, e legittimo quel criterio; e
ingiusto e illegittimo il contrario2. Che questo presupposto sia ora, dico non
solo nella letteratura, ma nella coscienza viva contemporanea, arbitrariamente
assunto; che nel decidere — se ciò che vale di piú sia la verità, o la
bellezza, o la giustizia, o la carità, o la forza; l'affermazione di sé o la
rinunzia, l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o l'indipendenza non tutte le coscienze
vadano d'accordo; che nella stessa coscienza di una persona non volgare e non
ignara dei problemi morali, né estranea alla consuetudine di una sincera e
severa meditazione, si presentino, tra questi valori diversi, contrasti e
opposizioni non sempre e non facilmente superabili, è ciò che nessuno potrà e
vorrà negare; ed è in ogni caso una realtà che non cesserebbe di sussistere e
di imporsi all'attenzione, anche se fosse negata. Lo stesso apparire nelle
discussioni dottrinali e nelle storie generali e particolari dell'Etica di
teorie dette immoralistiche, dimostra che le differenze ci sono e che giungono
a tale da dar luogo non solo a contrasti ma ad opposizioni contraddittorie. E
qualunque sia il giudizio anche sommario che si voglia portare su di esse
bisogna riconoscere che non avrebbe senso qualificare immorale una dottrina, se
il contenuto suo non si opponesse appunto a quello delle dottrine morali come
specie a specie nel medesimo genere; cioè se non pretendesse di valutare e
regolare — in modo diverso — la medesima materia3. Ciò basta a confermare, se
di conferma vi è bisogno, che il problema di una pluralità di contenuti della
morale, ossia di una pluralità di criteri di valutazione, non è un problema di
semplice possibilità astratta, cioè una curiosità scientifica e filosofica, ma
è un problema d'attualità concreta e viva; è, veramente, a mio giudizio, il
problema per eccellenza della coscienza morale contemporanea. 1 Su la pluralità
dei postulati di valutazione morale; Il Vecchio ed il nuovo Problema della
morale. Questo modo di vedere è favorito, se non conservato, dal preconcetto,
del tutto arbitrario, che la morale sia una dipendenza della filosofia
teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da cercare la ragione dei
criteri e dei principi che reggono e giustificano la condotta. Il quale
preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di chi andasse a
cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la spiegazione degli
atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano. 3 Né in sede di
discussione e di critica si può respingere senz'altro come amorali o immorali
dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza assumere come valido
appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione contestano la validità.
Non si comincia un dibattimento giudiziario con una sentenza di condanna.
Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui dà luogo — quando si fa piú
aperta e manifesta — la pluralità dei criteri, non è nuova questa pluralità.
Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi domini potente lo sforzo logico
della coerenza, che non nasconda sotto l'unità, apparentemente raggiunta, del
criterio supremo, una piú o meno larga e profonda pluralità o almeno dualità di
contenuto. Per non ricordare con Aristotele la duplicità di felicità e virtù —
ben vivere e ben fare — e per lasciare l'antica e non mai del tutto superata
dualità di vita attiva e di vita contemplativa, l'unità reale di criteri nella
valutazione della condotta non è raggiunta se non in apparenza, nella stessa morale
teologica cristiana; la quale, mentre non rinunzia, e non può rinunziare, a
regolare la condotta umana anche nel rispetto della vita terrena finita, si
sforza poi invano di ricondurre i precetti che regolano questa al medesimo
criterio di valutazione che è suggerito o imposto dal contenuto soprannaturale
del fine che la giustifica. E il distacco logico inevitabile tra il fine
invocato a giustificare le norme e il criterio usato a determinarle, è
dissimulato ma non superato, nell'unità della rivelazione o della intuizione
religiosa. Perfino nell'età del razionalismo, nella quale l'unità di natura e
l'identità di doveri e di diritti di tutti gli uomini è affermata col massimo
di consenso e di calore, indipendentemente da ogni particolare dogmatismo
confessionale, l'unità della valutazione morale si può dire raggiunta soltanto
perché se ne restringe la considerazione al campo propriamente etico-giuridico,
e si trascura o si lascia nell'ombra la parte piú specialmente personale e che
tocca gli aspetti e le forme della vita interiore. E quell'unità parziale di
contenuto sembra essere il segno e la prova di un unico supremo criterio di
valutazione morale, perché viene comunemente ricondotto a un fine che
dissimula, sotto l'identità nominale del termine, la possibilità di
determinazioni diverse per quel che tocca la parte della condotta etica che
sfugge all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini propri della
persona, e le forme della vita interiore. Ma il romanticismo e lo storicismo,
per vie diverse ma cospiranti, posero in luce quel che il razionalismo aveva
lasciato nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando, illustrando ed esaltando
la ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo, superiore della vita
spirituale e della attività interiore, originale, spontanea; l'altro cercando
nella realtà storica la ragione e la giustificazione delle forme di vita
sociale, religiosa, politica che in nome della natura e della ragione erano
state condannate, avevano condotto a questo doppio risultato: per un verso, ad
allargare smisuratamente l'ambito della vita interiore, raccogliendo e quasi
contraendo in essa tutte le attività spirituali, facendone il campo piú degno,
e, se non esclusivo, certo dominante della condotta morale, e comprendendovi
della vita sociale, al più, quel che in essa si dispiega di spontaneo e
d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con l'aperta tendenza a distinguerlo
non solo, ma a staccarlo dalle attività considerate come esteriori, della vita
politica e giuridica. Per l'altro verso, a negare, non solo ogni realtà ed ogni
fondamento storico, ma ogni valore, alle costruzioni politiche e giuridiche del
giusnaturalismo; alle dottrine dello stato di natura, del contratto sociale,
dei diritti innati; e a considerare come un prodotto storico le forme politiche
e giuridiche; le quali trovano, nelle condizioni che le hanno generate e che le
rendono adatte rispettivamente alle esigenze dei popoli diversi in luoghi e
tempi diversi, la loro giustificazione necessaria e sufficiente; e quindi a
fare il diritto estraneo all'etica e indipendente da qualsiasi giustificazione
morale, lasciando aperto il campo alle piú svariate forme di relativismo:
biologico, sociologico, storico. Cosí quel che per il razionalismo era il
contenuto comune della coscienza morale, finiva per essere considerato quasi
estraneo alla morale. E mentre si faceva piú largo e piú profondo il distacco
tra interiorità e esteriorità, si attenuava sempre piú la distinzione tra i
valori morali e i valori spirituali di diversa specie e di diverso contenuto, e
prendeva colore e calore di valutazione morale una molteplicità sempre piú
varia di tendenze, di aspirazioni, di attività, di fini diversi. Per tal modo
penetra nella vita e nella cultura, e si manifesta non solo nella filosofia, ma
in quella che si chiama piú propriamente letteratura, quella molteplicità di
indirizzi, di opinioni, di eresie morali che è la caratteristica, e che
esprime, per dir cosí, la maturità storica del problema, prima dissimulato e
trascurato. Non si vuol dire, né sarebbe a priori probabile, che ad ogni novità
di intuizione particolare, geniale o no, su questa o quella forma di vita e di
attività individuale, su nuovi aspetti della cultura speculativa o religiosa o
sentimentale, su nuove direzioni della volontà, sul valore dei tipi di
istituti, familiari, politici, economici (reali o immaginati) corrisponda una
diversità di criteri morali; né tanto meno che ciascuno esprima una
orientazione di coscienza morale radicalmente diversa dalle altre; ma neppure è
possibile dissimulare che questa molteplicità è altra cosa dalla «dualità»
notissima, che nella tradizione e nella credenza comune e nella dottrina piú
largamente diffusa, raccoglieva e, direi, polarizzava attorno a due termini
contrari i valori della vita, opponendo i beni razionali ai beni sensibili, e
negando a questi ogni valore morale. Perché, lasciando pur fuori di questione
ciò che tocca i beni detti sensibili (per semplicità di discorso, non perché
anche su questo punto le questioni sieno escluse di fatto, o siano da escludere
a priori), la caratteristica nuova e piú rilevante di tale molteplicità, è
appunto questa: che è nel regno stesso dei beni razionali, che la diversità
delle tendenze si è venuta delineando sempre piú spiccata. E i contrasti di
tendenze e di opinioni si rivelano anche, anzi soprattutto, nel campo di quei
valori che era pacifico considerare come patrimonio, se non uno e indivisibile,
almeno indiviso, e non costituito di parti discordanti. E mentre si venivan
disegnando, cosí, conflitti di primato, se non contrasti irreducibili, tra i
valori stessi tenuti tradizionalmente come superiori, si presentavano: di là,
idealizzate, e sotto veste di valori razionali, o giustificate in nome di
esigenze razionali, tendenze e forme di vita spontanee, passionali, o
istintive, considerate già come estranee se non contrarie alla vita morale: e
di qua si esaltavano come centro e culmine dei valori morali le forme
religiose, intuitive, sentimentali e mistiche, avverse, almeno in apparenza, ad
ogni pretesa di procedimento razionale, e che ad ogni modo si affermavano in
atti di aperta sfida contro la ragione. E insieme si negava ogni significato
etico — anche nella loro forma di idealità sociali e politiche — a quei
principî razionali del diritto, nei quali il secolo precedente aveva visto ad
un tempo il segno piú alto della dignità umana e il maggior trionfo della
ragione. Di fronte a cosí grande e cosí varia pluralità di contrasti tra
criteri di valutazione, o tra «scale di valori» diverse, può bastare a
risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia necessaria — l'unità del
contenuto, e l'universalità del consenso, affermare che la morale è universale
perché è razionale, o è razionale perché è universale? Né è possibile fare
appello alla ragione come autorità morale suprema quando i moralisti che se ne
fanno interpreti non riescono, pur affilandone tutte le armi, né a convincere
né a vincere i detrattori, se non argomentando ad hominem cioè facendo appello
a qualche principio o criterio da quelli stessi assunto od ammesso. E i
detrattori non riescono a formulare neppure una sentenza di condanna che abbia,
non si dice un valore, ma un significato quale si sia, senza servirsi di quella
ragione che coprono di contumelie, e che presta pure la sua assistenza, con
divina larghezza, anche a chi la bestemmia. Dal che parrebbe di dover
ragionevolmente concludere che della ragione non si può fare a meno, in materia
di morale piú che in qualsiasi altro campo; ma che non si può trovare in essa
la sorgente delle valutazioni morali. E tuttavia non solo fu — nell'età aurea
del razionalismo — ma è tuttora largamente sostenuta ed accolta, non senza che
la tenacia degli sforzi abbia un profondo significato, l'idea di cercare nella
ragione anche ciò che la ragione non può dare; e di riferire a lei non soltanto
l'esigenza della coerenza, dell'unità, e quindi di leggi, di criteri e massime,
ma anche di certe leggi e di certi criteri, piuttosto che di leggi e criteri
diversi. Ma l'idea è illusoria. E l'illusione sta in ciò essenzialmente: nel
credere che la ragione obblighi ad ammettere non soltanto certi giudizi, dato
che se ne accettano certi altri, certe conseguenze, se si accettano certe
premesse; ma obblighi senz'altro ad accettare certi giudizi: quei giudizi
stessi che fanno da premessa; che «esser ragionevole» voglia dire non soltanto
osservare le leggi della logica, rispettare quei principi logici senza dei
quali non è possibile nessun ragionamento e nessun «uso della ragione», ma
voglia dire essere obbligati a riconoscere "certe verità", ad
ammettere certi principî; principî non logici o formali, ma materiali; dati o
postulati che facciano da sostegno al ragionamento, e comunichino la loro
certezza ai giudizi che se ne ricavano. Ora io lascio di considerare, perché
non è necessario qui, il campo dei giudizi propriamente teoretici e la
distinzione che sarebbe necessaria tra giudizi condizionali e giudizi di
esistenza; e mi restringo al campo «pratico». In questo adunque la ragione
sarebbe essa che pone ad un tempo l'esigenza della legge e la legge; cioè, non
solo l'esigenza dell'unità e le norme da osservare per realizzarla, ma anche i
criteri attorno a cui si deve raccogliere questa unità; quei giudizi stessi che
non si giustificano, ma che servono di fondamento alla giustificazione. Questa
«funzione pratica»4 della ragione si può intendere in tre modi diversi: O i
criteri di valutazione, i giudizi di valore che stanno a fondamento dei giudizi
morali, hanno la stessa validità e si possono o dimostrare o porre con la
stessa necessità od evidenza con la quale si impone la validità delle forme
logiche. Oppure se il dato o principio che sia a fondamento delle valutazioni è
diverso dalle verità teoretiche, assunto dalla ragione, non posto da lei ma
offerto a lei, questo dato è tale che essa non ha che da scoprirlo, da
formularlo, da presentarlo alla riflessione di ogni uomo ragionevole perché ne
sia riconosciuta ed ammessa come indiscussa e indiscutibile la validità. — O
finalmente è la ragione stessa che pone la legge, ed è l'esigenza razionale che
basta a determinarla, senza che a costituire la validità della legge e del
contenuto che essa incorpora in conformità della sua esigenza, sia necessario
riconoscere la validità di alcun dato o principio materiale estraneo alla forma
stessa della legge. Non vi sono che queste tre vie possibili; e sono le vie che
anche storicamente il Nazionalismo ha seguito con maggiore o minore sforzo di
argomentazioni e varietà e ricchezza di gradazioni particolari. La prima via,
la piú antica, quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta
il problema morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a
dire uguali) a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il
contrasto nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema
della pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente intellettualistica.
I principî morali sono verità5 della medesima natura delle altre, accertabili
teoreticamente, o deducibili da verità teoretiche. È l'indirizzo del quale ho
parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste nel fare dei giudizi di
valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare quelli da questi. Ma quanto
alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che concluda con un giudizio di
valore un ragionamento che non abbia per premessa, espressa o sottintesa, un
giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata nessuna evidenza logica può
fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú il proprio cane che il
prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4 Questa espressione può
avere in morale tre sensi diversi che importa distinguere. Si può intendere che
dipenda dalla ragione il valutare, cioè riconoscere e graduare i valori; o che
dipenda dalla ragione il conformare la condotta alla valutazione, muovere la
volontà: e questi sono i due sensi che rispondono all'uso piú comune del
termine «pratico» e che pur si confondono tra di loro, benché siano
diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o la bontà di una norma e
osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in discussione qui e nel
seguito è sempre, se non si dica espressamente il contrario, il primo significato.
Finalmente vi è un terzo senso, quello propriamente kantiano, che consiste nel
riconoscere la possibilità e la legittimità di affermare per il bisogno morale
l'esistenza di ciò che la ragione speculativa non può conoscere; di fondare
sulla morale una certezza metafisica che è preclusa all'uso teoretico della
ragione; ed è a un tal uso che si riferisce, come tutti sanno, la notissima
espressione «primato della ragion pratica. La tesi morale di Socrate è duplice
come tutti sanno: che il bene e il male si possono conoscere (se ne possono
fare dei concetti veri) come si conoscono le altre cose. che conoscere il bene
e praticarlo è il medesimo, ossia che la moralità (la pratica del bene) è
sapere; chi fa il male lo fa perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi
sta indipendentemente dalla seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito
quando si parla della tesi di Socrate in tema di morale si intende dire di
questa seconda e non di quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in
un certo senso giustamente, a merito di lui. Vecchio e nuovo Problema]qualsiasi
vale piú di un qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero, ivi c'è una dignità
incomparabile con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in questo caso la
contraddizione è tra un mio giudizio e un altro mio giudizio; che si suppone
pure ammesso da me e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga ad ammettere
questo valore del pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo negassi? Forse
perché con ciò diminuisco o nego un valore che è anche mio? Sarebbe dunque il
rispetto e la stima di sé un principio logico? E la despectio sui del Geulinx
contiene dunque una contraddizione in termini? Se si incalza che il giudizio
sulla inerenza all'uomo di proprietà o doti che mancano al cane è di evidenza
oggettiva e che riconoscere un maggior valore all'uomo che al cane è la stessa
cosa che riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè una maggior perfezione,
è facile avvertire che in questa identificazione si assume appunto ciò che è in
questione: che la perfezione o il pregio delle cose e delle proprietà delle
cose sia accertata o accertabile teoreticamente come la loro esistenza e appartenenza;
mentre basta una non lunga riflessione per accorgersi che il giudizio sul
pregio e sul valore o il «grado di perfezione» di qualsiasi ente o proprietà
implica il riferimento a una gerarchia, a un ordine, a un disegno, cioè in
ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato o da attuarsi. E, che possa o
debba valere come fine, che meriti di valere, non è un giudizio in realtà;
tanto che il negargli questo valore non implica negare sia la realtà, sia la
possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'ente. Cosí come negare alla sfera
il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici, non implica per GALILEI
(si veda) la negazione né della costruibilità della sfera, né di alcuna
qualesivoglia delle sue proprietà geometriche. La sfera rimane la sfera. Si
potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle proprietà,
un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla geometria;
e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il concetto della
sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le proprietà che
ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non rinunzio né
all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del cubo o
della piramide. Lo stesso, mutatis verbis, vale per l'esempio allegato del cane
e dell'uomo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il caso è
appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre io non
provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga piú
della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il cane
valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della
«contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato -non per nulla nella
scelta SERBATI (si veda) ha la mano felice -la repugnanza ci sia, è innegabile
— sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della universalità
del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza morale, non una
incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella misura in cui è
comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e sempre: negando
questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego nessuna delle
differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non nego nessuno
dei caratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque poi sia il
giudizio che faccio sul valore diretto o indiretto di ciascuna di quelle doti e
di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia maggior conto
del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato dell'altro, o
che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la ubbidienza cieca del
cane, non è per nulla una implicazione necessaria del riconoscere
rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'altro. E il giudizio
potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi potrebbe
preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione che la
natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la verità
riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del cane, e il
cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse davvero,
come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la differenza di
valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non cesserebbe di
essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da quella. L'essere
universalmente ammessa una differenza di valore fra i due enti, prova, nel caso
che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza morale in grazia della quale
quella differenza è posta: ma non prova che il giudizio di valore, cosí
espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia, comunque, riducibile alla
conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da questa. La verità è che i
giudizi morali (come ogni altro giudizio di valutazione) paiono della stessa
natura dei giudizi teoretici perché sono nella massima parte, e con una
frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e possono presentarsi sotto
forma di giudizi derivati, anche quando sono considerati, sotto un altro
rispetto, come primari e assunti come tali in una costruzione diversa. Ora nei
giudizi derivati, la validità della valutazione è ricondotta alla validità di
un altro giudizio (primitivo o primario o diretto) con un processo, che non
differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne governano la legittimità,
dal comune processo di dimostrazione col quale si prova la connessione
necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con questa circostanza, per
dir cosí, aggravante: che, come s'è accennato, accade di frequente, anzi
solitamente, che quegli stessi giudizi che figurano in un processo di
giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono comparire in un
altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che riesce difficile
decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i giudizi primitivi, e
quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le costruzioni diverse e i
diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore (e senza che si possa per
ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di circolo vizioso e di
petizione di principio), come giudizi derivati, dei giudizi che figurarono in
altro luogo, e per un altro proposito, come primitivi, e inversamente; al
contrario di quel che accade di solito nelle costruzioni scientifiche: dove i
principî o proposizioni fondamentali hanno e conservano costantemente il loro
carattere e il loro ufficio. Sfuggendo cosí all'osservazione, per la vicenda di
ufficio logico al quale possono a volta a volta essere assunti, quali siano i
giudizi di valore primitivi, cioè quelli in cui si assume la validità diretta e
immediata (senza che sia ricondotta alla validità di qualche altro giudizio),
riesce piú difficile, o almeno si presenta meno frequente e meno aperta, la
opportunità o la necessità di esaminare la natura e di coglierne questo
carattere di diversità, radicale e irreducibile, dai giudizi teoretici. La
quale diversità può sfuggire anche piú facilmente o essere posta in luce tanto
piú difficilmente, per un'altra circostanza che ha a quest'effetto un influsso
anche piú decisivo. E la circostanza è questa: che una parte considerevole dei
giudizi valutativi che assumono piú frequentemente valore di primari, o sono
abitualmente sottintesi (tanto sono o si suppongono incontestati), o sono
incorporati e quasi assorbiti nei giudizi teoretici, senza che l'apprezzamento,
per lunga consuetudine congiunto all'idea dell'oggetto, o della proprietà, o
dell'atto, o dell'effetto possibile, sia formulato in un giudizio distinto;
anzi, talvolta, neppure sia espresso piú nell'enunciazione del giudizio stesso
da una di quelle particelle (aggettivi, avverbi, interiezioni) che portano nel
giudizio la espressione di una valutazione, o, come si può dire con forma piú
generale, la nota del sentimento; la quale non appare talvolta che nel tono di
voce dell'interprete o lettore, o si rifugia nella scelta sapiente delle parole
e delle sfumature suggestive, di cui è ricca una lingua satura di civiltà. Dire
di un uomo che è indolente o che è intemperante, è, se non si parla a vanvera,
attribuirgli una qualità, della quale è possibile dimostrare che veramente gli
spetta, cioè si posson dare delle prove oggettivamente certe e accertabili: è
un giudizio teoretico. Ma ognun vede che vi è tacitamen7 È tuttavia da notare
anche qui una tendenza a considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e
di conseguenze, suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle
scienze deduttive, la geometria, si può vedere la possibilità, sfruttata per
ragioni didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di
invertire la deduzioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e
inversamente; come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione
reciproca di due proprietà fra di loro.] te assunto insieme un giudizio di
valutazione, nella misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla o
per chi ascolta qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa
evidentissimo quando si tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú
gravemente e piú universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale,
falsario e simili. Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in proporzione
della loro prova teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li
accompagna; appunto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E
non per nulla la diffamazione è punita piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio
valutativo (sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto,
ossia su giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì
l'esistenza del fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in
nessun modo il valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso
e incorporato nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui
l'azione è prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo
sentono e tutti lo sottintendono. Ora i giudizi di valore a cui si dà ufficio
di primari, cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui validità
si riconduce la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i giudizi il
cui valore per essere comunemente riconosciuto e, come si dice, pacifico, è
appunto piú facilmente sottinteso. Quando si è detto a una persona intelligente
«bada che quella pistola è carica», non occorre altro discorso per persuaderla
a maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso, o meglio, nessuno
ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un giudizio sul valore
della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la vita non valesse piú di
una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che qui è sottinteso, può
essere considerato come primario, per esempio in tutti i precetti dell'igiene
(dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso derivato rispetto a
questo, sul valore della sanità): ma può essere non primario per chi giustifica
a sua volta il valore della vita col valore del sapere, o del bello, o della
giustizia, o della carità, o della potenza, o della gloria, o di qualsiasi
altro ordine di fini o di attività o di godimenti. Ma poi, quando si dice che
l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto della vita, si fa di ciascuno
di quei beni che sopra sono assunti come beni per sé, un bene derivato rispetto
a quello della vita. E cosí se si dice che il sapere accresce la ricchezza, o
la giustizia assicura la tranquillità, o l'onestà alimenta la fiducia
reciproca, si pongono, almeno occasionalmente, come derivati, dei valori
primari, e si assumono come primari rispetto ad essi, dei valori derivati. È
adunque chiaro che i giudizi di valore si legano fra di loro in una catena
continua, anzi in un groviglio di catene, del quale non è necessario qui cercar
di capire piú particolarmente la struttura; e che per queste mutue e varie
connessioni delle diverse valutazioni fra di loro, si può assumere come
primario in un sistema di deduzioni un giudizio di valore che figura come
derivato in un sistema diverso. Ma in qualsiasi processo di giustificazione,
questo giudizio primario di valore espresso o sottinteso ci deve essere; e si
tratta di vedere — nel caso di valutazioni morali — non se spetta alla ragione
giustificare la scelta, ossia dimostrare da che cosa nasca l'attribuzione di
valore (che sarebbe precisamente fare del valore diretto un valore derivato; la
quale dimostrazione, se è possibile, nessuno dubita che sia un processo
razionale); ma, se ci sia un principio di valutazione, una affermazione diretta
o primaria di valore che sia razionale in sé, e che si distingua come razionale
da altre valutazioni primarie, che non siano in sé razionali; cioè che non sia
razionale accettare, che la ragione impedisca di ammettere. Se si tien conto di
quanto s'è avvertito sopra, la questione della razionalità o irrazionalità
dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista, accettando il principio
assiologico che assume come primario quando giustifica il suo sistema di
valutazioni egoistiche e le massime di condotta corrispondenti, rinneghi la
ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in contraddizione con se stesso.
E cadrebbe in contraddizione: O perché operando da egoista non raggiunge lo
scopo al quale è rivolta la sua opera. O perché il criterio egoistico contrasta
con altri che l'egoista stesso in quanto egoista non può fare a meno di
accettare e di ammettere. È certo che l'egoista spesso sbaglia i conti e
fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nella questione. I conti li
sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza che ciò voglia dire
nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o l'indegnità dei nostri
scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi e dà luogo ad un
giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso; e sbagliano i
conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo dunque le delusioni
che possono venire agli egoisti da errori di calcolo. Concludente invece, anzi
decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che non si possa essere
egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di configurare un egoista
incoerente (anche se in realtà è il tipo comune, anzi forse cedendo appunto
alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì di subordinare ogni
interesse, di qualunque genere, degli altri al suo interesse proprio, ma
pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha l'aria di dire agli
altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come faccio io a servirmi di
voi per i miei comodi? Naturalmente quando si è foggiato un egoista su questo
tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non è mai, in generale, molto
difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che vi sia posto dentro
prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si dimostrerebbe che
non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se, essendo coerente,
cesserebbe di essere egoista. Questa è manifestamente la tesi che si deve
dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo. Egoista coerente è
chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato dal suo interesse
maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che procura ad esso
operante il maggior numero di vantaggi e il minor numero di danni; ossia, un
egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può considerare come esempio di
contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso frequentissimo e comunissimamente
notato di chi si mostra in questa o quella circostanza egoista perché opera da
egoista o come se fosse egoista, mentre sente dentro di sé di «aver torto»,
sente che la sua azione presente è disforme da quel modo di operare che la sua
coscienza morale riconosce come giusto; quel modo di operare che egli approva
quando giudica le azioni degli altri e che egli stesso seguirebbe se non fosse
in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe fare così e sente che farebbe così se
il fare non gli costasse un sacrifizio; il sacrifizio di quella certa sua piú o
meno grande comodità. Ora certamente qui (ed è il caso comune, tipico, notato
migliaia di volte del contrasto, dello scontento interiore e del rimorso)
questa discordia interna è colta e segnalata dalla ragione. È una esigenza
razionale l'unità delle valutazioni, la costanza dei criteri, la coerenza tra
il valutare e il fare, ed è un processo razionale che rivela le incoerenze e i
contrasti. Ma la questione non sta qui. Il contrasto segnalato per il quale chi
opera da egoista è colto in fallo e deve riconoscere il suo torto, è possibile
perché il supposto egoista ha operato bensí da egoista, ma sente e giudica e
valuta conforme a giustizia. Egli è in contraddizione perché il criterio di
valutazione, cioè di scelta tra i motivi, seguíto nella sua azione concreta è
contrario al criterio di valutazione che egli accetta come persona morale, che
applica nel giudizio sulle azioni altrui e, in quanto riesce ad essere
imparziale in causa propria anche a se stesso. E la vera questione qui sarebbe
di vedere se quel criterio di valutazione che egli accetta come persona morale
è posto dalla ragione; se dato che non fosse sentito e accettato dalla sua
coscienza, potrebbe un processo razionale farlo sorgere per gli altri, ma
ammette e trova naturale e legittimo nello stesso tempo, che ciascun altro sia
senza riguardi per lui. È pronto a sopraffare, potendo farlo senza danno, gli
altri; ma non protesta se altri, potendo, sopraffà lui. — Dov'è qui la
contraddizione? Si dirà che cosí facendo si riesce all'uno o all'altro di
questi risultati: o alla limitazione reciproca degli egoismi per mezzo di norme
di condotta che li renda compatibili, e abolisca lo spettro hobbesiano del
«bellum omnium contra omnes»; o al riconoscimento del valore supremo, della
forza come criterio ultimo della condotta. Ora il primo risultato — si dirà — è
la negazione dell'egoismo; l'egoismo, diventando ragionevole sbocca in un
criterio diverso, anzi contrario: si fa legge, cioè diritto, cioè giustizia. Il
secondo tiene sospesa sull'egoista la spada di Damocle della sua condanna: il
piú forte d'oggi può essere piú debole domani, il piú forte contro i singoli è
meno forte contro la coalizione dei singoli. Il numero, il «gregge» può
sopraffarlo; e se lo sopraffà esso ha ragione perché è il piú forte. Per
sostenere che il criterio della forza deve valere soltanto tra i singoli e
singolarmente presi, occorrerebbe un altro presupposto, un altro giudizio, un
altro criterio fuori della forza, che valga a distinguere entro quali limiti
l'uso della forza è legittimo. Ma fuori di questa clausola (che ricondurrebbe
al risultato precedente), la forza contiene in sé la propria condanna perché
genera da sé la propria negazione. Né l'uno né l'altro di questi discorsi che
paiono vittoriosi è, se si guarda spassionatamente, concludente. Cominciamo dal
secondo. È bensì vero che l'egoismo se non scende a patti con gli egoismi che
gli si possono contrapporre sbocca nel criterio della forza; ma il criterio
della forza non si nega e non si smentisce finché si ammette che esso valga per
tutti, che la mia volontà sia legge finché il piú forte sono io, e che sia
legge la volontà degli altri quando piú forti sono gli altri. Sarebbe invece
smentita appunto, quando valesse finché il piú forte sono io e non valesse piú
se il piú forte è un altro. Si può dunque dire che il criterio della forza può
riservare delle sorprese, e portare, a chi l'accetta, piú danni che utili. Ma
non si può dire che sia in sé contraddittorio; come non è contraddittorio per
un giocatore accettare la legge del gioco coi suoi rischi e le sue promesse,
anche se queste sono superate da quelli. Ciò riguarda dunque, non la coerenza
intrinseca del criterio, ma la questione se a un egoista accorto convenga o no
di farne la sua legge. Se ci pensa bene, se pesa il pro e il contro con prudenza,
forse non sceglierà una strada nella quale i pericoli sono superiori alle
speranze. Se si trova difficoltà a immaginare seguíto questo criterio fra gli
individui, non c'è che da pensare al principio che ha regolato in ultima
istanza, fino a ieri, se non fino ad oggi, i rapporti fra gli stati, e che
dovrebbe regolarli sempre secondo l'imperativo nazionalistico o etnico o
storico, che passò e passa tuttora agli occhi di molti come il solo imperativo
seriamente politico. In questa concezione dei rapporti fra gli stati non domina
forse nella sua forma rigorosa quella tesi estrema che lo Stirner formulò per i
singoli individui e che parve ad alcuni per il suo stesso rigore una caricatura
ironica dell'anarchismo di una società di egoisti, che vale fin che mi giova e
dura finché mi piace? O si vorrebbe dire che non sono «ragionevoli» i politici,
filosofi o no, che accettano e difendono questo criterio, non solo come l'unico
criterio possibile, in determinate circostanze storiche, ma come il solo
razionale? Senonché anche la razionalità dell'egoismo statale non è data, ma
presupposta, o fondata su un presupposto: che l'interesse, anzi, un certo
interesse dello stato abbia un valore incondizionatamente supremo. Ed ecco
l'altra alternativa: l'egoismo che si limita e si fa diritto. Ma qui è ancora
piú facile scorgere l'equivoco e può parer superfluo il metterlo in evidenza.
L'egoista che accetta il diritto come garanzia della sua sicurezza, della sua
tranquillità, della sua libertà, cioè la limitazione dell'egoismo per motivi
egoistici, non cessa perciò solo di essere egoista, e non v'è nessuna
contraddizione intrinseca, per lui, nell'accettare condizioni che per lui sono
vantaggiose. Che un diritto cosí giustificato non abbia valore morale e non
debba identificarsi con la giustizia è evidente: che un diritto il quale non
abbia altro fondamento che questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia
piú consistenza di realtà storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma
non si può dire in nessun modo che l'egoista contraddica se stesso quando
accetta e riconosce una legge che limita il suo egoismo. E l'economia politica
assume, come tutti sanno, l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la
ricchezza secondo motivi egoistici e per puri motivi egoistici, ma osserva perfettamente
le altre forme giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa
osservanza venga a contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi,
ognuno sa che la limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini
particolari di ciascuno sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza
controllo, è giustificata dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione
piú elementare e piú grossolana dell'egoismo (la conservazione della vita); e
che a un calcolo puramente egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa
parimenti notissima) ogni forma di condotta ed ogni azione umana. E nelle
dottrine che prendono nome di utilitarie (con un battesimo antonomastico che
non si capisce se faccia piú torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha
designate con questo nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà
insormontabile dal punto di vista del proposito che le ispira, è quella che
nasce dalla esigenza di conciliare la utilità individuale con la utilità
sociale: alla quale esigenza si crede di soddisfare nel modo piú efficace,
facendo dell'utile della società, il mezzo e la condizione dell'utile
individuale; cioè giustificando da un punto di vista egoistico, le norme della
vita sociale. E questo stesso sforzo di giustificare con una motivazione
egoistica ogni ordine di attività anche piú elevata non solo dimostra che è
tutt'altro che evidente la contraddizione intrinseca e la irrazionalità
dell'egoismo, ma fa pensare piuttosto il contrario: che l'illusione di questa
possibilità sia nata, e la tenacia dello sforzo alimentata, appunto
dall'opinione che la via migliore, se non l'unica, di persuadere che l'operare
moralmente è conforme alla ragione, sia di mostrare che le norme morali
coincidono con quelle di un bene inteso cioè di un intelligente egoismo. Ma con
ciò si suppone o si accetta, ma non si pone la pretesa legittimità evidente per
sé dell'egoismo, come norma suprema di condotta, accanto o contro la
legittimità del criterio opposto. Ed è sempre sottinteso il presupposto
arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il quale è per sua natura
conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri contrari. Mentre contrario
alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per sé. Ma è soltanto la
pretesa di accettare un certo criterio e insieme non accettarlo, di ammetterlo
come norma di condotta e non applicarlo. Chiedo scusa al lettore se adopero
questa volta frasi di questo genere adatte piú ad effetti stilistici che a
precisione di pensiero per segnalarne il pericolo. Non bisogna dimenticare che
in queste espressioni l'egoismo che si nega, l'arbitrio che limita se stesso e
molte altre somiglianti, il senso voluto significare è reso possibile perché e
in quanto il termine in questione (egoismo o altro) è preso a indicare in una
due significazioni diverse: nell'una è l'astratto (la connotazione comune a
tutti egoismi); nell'altra è il collettivo (l'insieme degli egoismi particolari
e degli arbitri diversi che si contrastano). Il quale è un tacito
riconoscimento che gli uomini considerano veramente utili soltanto le azioni
che servono a certi fini e a certe soddisfazioni loro. Ma utili in qualche modo
sono tutte le azioni; se no (ah questo sí), non sarebbero ragionevoli. Sono
utili, o credute utili, al fine a cui sono dirette, economico, scientifico,
estetico, religioso, politico, ecc. Che siano dette utili soltanto le prime,
parrebbe dunque significare che abbiano vera importanza per l'uomo soltanto
quei certi fini, che poi si dimostra con molti discorsi che sono meno nobili
degli altri. Su la pluralità dei postulati di valutazione morale \ Con ciò
la tesi egoistica cerca di porsi su quella medesima via che è nella tradizione
dei sistemi e delle scuole la via piú comune del razionalismo morale, ed è in
effetto la piú semplice, si direbbe quasi la piú ovvia ed ingenua: quella
notissima di ricondurre le norme a un bene, a un fine, a un ideale, di cui si è
riconosciuto o si debba riconoscere incontestabile il valore supremo. Qui ciò
che fa da principio della dimostrazione d’assioma medio o proprio della costruzione
morale, è il giudizio in cui si assume questo valore e questa dignità suprema
del fine. Posto che il fine assunto sia il fine che l'uomo riconosce come
supremo e che si dimostri come le norme morali siano ordinate ad esso, la loro
legittimità è dimostrata. Quale sia questo fine e in che consista spetta alla
ragione di trovare o di giudicare; di trovare e formulare, se questo fine
supremo è dato e si assume come riconosciuta e incontestata la sua validità di
supremo; — di giudicare, se su questo valore cade dubbio, o se si pensa che non
basti un riconoscimento di fatto, ma sia necessario un riconoscimento di
diritto; che spetti alla ragione, non già o non soltanto di scoprire, se vi è,
un tal fine, ma di giudicare perché esso debba valere. Nella prima maniera il
valore del fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume,
e sul quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente
dato alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare
praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è
supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura umana»;
quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li
concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico
delle dottrine che assumono come fine naturale — al quale necessariamente si
riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale — la felicità o la perfezione
o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena
necessario osservare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí
naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il
fine per eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e
incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine
apparentemente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e
concreto; del quale nessuno contesta che sia supremo, finché ciascuno può dare
a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli si
attribuisce di supremo. Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è
necessario che il termine assuma un certo contenuto determinato; il quale
contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si
riconosce come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità, o
Perfezione, o altro Bene, della quale quel contenuto assume la veste, il titolo
e le prerogative; e in nome della quale si presenta appunto come fine. E cosí
accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in realtà è duplice: uno è il
fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé non
potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma che
reca il titolo e le insegne, e quasi la formula magica, della sua sovranità: ed
è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere); l'altro è il fine
realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla deduzione, che regge
la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale si riconduce
logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi che se ne
ricavano. Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che viene
determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a costruire, l'altro
a dar valore alla costruzione. Ora finché si ammette che la felicità o quel
qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste veramente in quel contenuto
sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo sulle deduzioni favorisce e
conforta questa certezza, la distinzione fra il dato della costruzione e il
supposto che lo investe del valore di fine, non ha luogo, o apparirebbe
ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come pacifico, che il dato e il
supposto coincidono, che l'uno esprime il significato dell'altro. Ma se, sotto
l'apparente unità del termine si mostrano le differenze di contenuto; e i fini
particolari che si credevano fusi e, unificati in quell'unico fine, rivelano la
loro incompatibilità; e un fine e un ordine o specie di fini pretende di valere
come sommo, subordinando a sé od escludendo gli altri; allora è necessario
scegliere. E la scelta tra due o piú specie di "Felicità" (come tra
due o piú forme di «Perfezione») non può essere fatta in nome della felicità.
Tra due o piú ordini di fini che si presentano come fini della «natura umana»
non si può sentenziare in nome della natura; oppure si deve ricorrere a
distinzioni tra felicità e felicità, tra natura e natura, che rivelano l'assunzione
aperta o tacita di un criterio che serve a distinguere la vera da una falsa o
apparente felicità, e a determinare in che consista e in che si appunti la
«vera» natura umana. «Considerate la vostra semenza...» E cosí il
riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di diritto. Non è questo
davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far capire, di persuadere, di
dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono indegni dell'uomo, alcuni
superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non vuol dire fare una
gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere riconosciuto come il
fine supremo che serva di termine di confronto, per subordinare quelli che si
conciliano ed escludere quelli che sono inconciliabili con esso? Qui adunque
pare veramente che sia razionale, non solo il processo di deduzione dal fine,
ma razionale la scelta stessa del fine, il riconoscimento del valore che esso
deve avere di fine supremo. Senonché non è difficile scorgere l'equivoco e
trovarne la origine. Il criterio in base al quale la ragione giudica la dignità
dei fini, ne fa la scelta, la subordinazione e la esclusione, è desunto dalla
coscienza morale, cioè in ultimo da quelle stesse valutazioni che la
costruzione razionale è chiamata a giustificare. In realtà il giudizio della
ragione è il frutto di un processo che è bensì esso razionale, ma che si fonda
su dati di valutazione morale. Il processo reale, palese o nascosto, è, in
breve, questo: La coscienza morale dice all'uomo quale è la condotta buona, la
condotta che è giusto che segua, che deve seguire. La ragione mostra (non
cerchiamo se con regressione del tutto rigorosa e univoca, ma in ogni caso
adempiendo un ufficio che è propriamente e incontestabilmente suo), mostra,
dico, che quella condotta è ordinata a certi effetti, raggiunge un fine che è
perciò — dal punto di vista deduttivo e giustificativo dell'esigenza razionale
che vuole l'unità e la coerenza — il Bene morale; e poiché non sarebbe morale
se non valesse come sommo, questo Bene deve essere riconosciuto e posto come
supremo. Non è dunque perché la ragione lo giudica supremo che esso vale come
fine morale; ma è perché esso deve valere come fine morale, deve adempiere a
questo ufficio nella unità logica del sistema, che la ragione gli riconosce
questo valore di fine supremo. Il che viene a dire che il titolo sul quale il
giudizio della ragione è fondato, il criterio seguito nella scelta è il
carattere che esso assume, o è capace di assumere, di fine morale.
Riconoscergli questa attitudine, questa capacità a dar ragione dei giudizi
morali, a servire ad essi di principio di giustificazione, cioè di dato dal
quale razionalmente si ricavano le norme, equivale a riconoscerlo come fine
morale; e assumerlo come tale, equivale ad assumerlo come supremo. Adunque è
bensì la ragione che giudica questa attitudine o questa capacità che ha il fine
di servire di giustificazione dei giudizi morali. Ma il valore morale di queste
valutazioni è dato, deve essere ammesso o presupposto. La ragione porta il
suggello di questo valore su quel fine del quale essa mostra la congruenza con
le valutazioni morali. Se in questo proposito di ricondurre le valutazioni
della coscienza morale a un fine unico, possa riuscire o no, e, dato che possa,
entro quali limiti e con quali frutti, è una questione che qui può essere
lasciata in disparte. Ciò che importa notare è che quel «Fine» ha valore
supremo per l'uomo dotato di coscienza morale; per una natura umana per la
quale valga l'esigenza morale e valgano le valutazioni che essa richiede e che
la esprimono. È supremo dunque nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità di
certe aspirazioni su certe altre, di certe attività su certe altre, di una
«natura» su l'altra. Per far riconoscere il valore supremo di questo fine noi
dobbiamo dunque supporre ammesso il valore di quei giudizi morali, dei quali
dimostreremo poi razionalmente la validità, deducendoli da quel fine. Sono
questi giudizi, di cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o
i dati primi della costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è
che lo sforzo logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un
unico criterio; di costruirli in sistema. Del quale perciò la validità logica,
la coerenza necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza razionale; ma
la validità assiologica esprime una esigenza morale, la quale è già data o
postulata [Se i giudizi primari di valore, i criteri ultimi, attorno a cui si
raccolgono e ai quali si subordinano le valutazioni, sono assunti e non posti
dalla ragione, come si può parlare — e manifestamente se ne parla con
fondamento — di massime di condotta sulle quali tutte le persone ragionevoli vanno
d'accordo, e il dissentire delle quali è tenuto come segno patente di
irragionevolezza? Che significa ciò se non questo per l'appunto, che basta per
riconoscere la bontà di quelle massime, essere ragionevoli, cioè dunque, che
basta la ragione a giustificarle? Pare infatti di sí, a prima vista, e si può
anche entro certi limiti accettare dall'uso questa forma di espressione senza
inconvenienti; ma ciò non toglie che l'espressione sia impropria e che l'osservazione
notissima e comunissima prova qualchecosa d'altro; un fatto assai notevole, e a
cui si collega una considerazione d'importanza capitale per il modo d'intendere
i rapporti tra valori morali e valori di altre specie: che le massime delle
quali si discorre, esprimono o valutazioni primarie elementari, di cui è
superflua, perché è comune e manifesta, ogni giustificazione, oppure delle valutazioni
nelle quali si incontrano criteri assiologici tra loro diversi. Sono queste
valutazioni mediate o indirette che si possono ricondurre cosí all'uno come a
ciascun altro dei criteri suddetti; quasi ponte di passaggio a cui mettano capo
strade di origine diversa, o linea di intersezione di piani diversi. Cosí nel
raccomandare i precetti della temperanza si incontrano stoici ed epicurei,
edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia pure per motivi diversi, ossia in
vista di fini diversi e anche opposti tra di loro; e nel raccomandare
l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo ethicus si trovano
pienamente d'accordo; ossia qualunque possa essere, tra quelli che sono
comunemente accolti, il criterio assunto, chi lo accetta, deve ragionevolmente
accettare quella norma; o, in altri termini, qualunque sia, tra i normalmente
possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta deve riconoscere che
esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di operare. Non
riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora riconoscere che
se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta un principio
bisogna accettare le conseguenze, questo è appunto, essere ragionevole. E
poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato, secondo le
tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica conduce a
quel medesimo precetto, questo precetto appare fondato in ragione, ragionevole
per sé. E in effetto, non si potrebbe giustificare se non per mezzo della
ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la connessione
necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere rispettivamente assunti
per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi o supremi è, per
ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la riprova nel fatto che
se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conseguenze valutative non
coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire «ragionevole» quel modo
di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale, finché sono considerati
come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa irragionevole se chi usa
pietà è persuaso che il fine piú degno è la formazione del superuomo e che a
formare il superuomo è necessario essere spietati. Questo esempio può parere
poco convincente perché troppo remoto dalla probabilità di essere riconosciuto
e accolto. Ma, lasciando pure di notare che esso sarebbe probativo anche se
fosse del tutto ipotetico, è da os[Anzi su questa circostanza si fonda la
considerazione, a cui ho accennato, di importanza capitale per l'etica e di cui
ho trattato di proposito altrove (confronta Vecchio e nuovo problema): cioè che
una qualità, una virtù, un modo di operare che ha valore per un rispetto, può
aver valore anche per altri rispetti diversi. Un atto morale può avere, anzi di
solito ha, anche un valore di utilità individuale o sociale e così via. Il che
spiega: come avvenga che la giustificazione delle medesime norme morali si sia
potuta cercare in fini di natura diversa; come sia possibile, anzi sia la sola
soluzione legittima del problema, di giustificare, ricavandolo da un fine
diverso, il precetto morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione
come una rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonistico o sociale o
d'altro genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale. E non è, come tutti
sanno servare che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí recisi,
sull'accordo tra le persone ragionevoli sono da fare assai piú riserve che non
paia a prima vista; appunto perché, dove il consenso abituale del costume e
l'accordo delle opinioni accettate senza critica non sopraffà o non nasconde le
divergenze, e soprattutto nel campo della vita interiore, queste sono assai
maggiori che non si creda. Anzi si può dire che su certi campi l'accordo tra
persone di tendenze e di indirizzi morali diversi è raggiunto, non in grazia
della ragione, ma nonostante la ragione, la quale se fosse rigorosamente
applicata, richiederebbe un modo diverso di valutare e di giudicare l'azione.
Il che viene a dire che qui l'accordo c'è, non perché tutti sono ragionevoli,
ma perché alcuni si dimenticano di essere, o credono di essere mentre non sono.
Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di un giudizio di valore tenuto come
contrario alla ragione, che appare conforme a ragione quando muti il criterio
al quale si riconduce. Non meno, anzi piú significativo è il caso inverso, di
principî tenuti come razionali che cessano di essere riconosciuti tali, se
cessano di essere ammessi certi dati o postulati dei quali si sottintendeva che
non potessero essere ragionevolmente negati. Di che l'esempio storico piú
insigne e piú istruttivo è offerto da quei principî etico-giuridici che passano
come il modello caratteristico di una costruzione puramente razionale. Anzi, su
questa idea che la costruzione giuridica — della quale l'espressione piú nota è
la Dichiarazione dei diritti — sia una pura astrazione razionale, è fondata la
critica ormai stereotipa che si ripete in nome del senso storico; mentre nella
elaborazione e nella sistemazione di quei principi ebbe la sua parte, e la
adempì magistralmente, la ragione; ma non era e non è la ragione che ne pone la
validità e ne fa sentire la giustizia. Il vero difetto della costruzione
razionale non è di aver per soggetto l'uomo astratto in luogo dell'uomo storico
(qualsiasi costruzione, non solo sistematica, ma anche storica, non può fare a
meno dell'astratto), ma è di aver assunto a fondamento della propria
costruzione un astratto (l'uomoragione) insufficiente a reggere l'edificio che
si voleva fondare su di esso. Infatti l'uomo-ragione supposto dal razionalismo
non è soltanto ragione; è, insieme e imprescindibilmente, nel concetto
razionalistico, l'uomo che ammette certi principî, espressi o sottintesi, che
sono incorporati e assorbiti, almeno nell'opinione comune, surrettiziamente e
inconsapevolmente nel concetto di uomo-ragione. Non si capisce la razionalità
dei diritti dell'uomo e del cittadino, se non supponendo che sia un dato
razionale ammettere che nessun uomo debba essere trattato come strumento della
volontà altrui; cioè senza supporre il valore assoluto dell'uomo come tale, e
il postulato giuridico corrispondente, dell'uguaglianza di diritti di tutti gli
uomini. È in effetto per questo soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15
sono riconosciuti di fronte allo stato tutti quei diritti che fanno
scandalizzare Comte, sogghignare Marx e sorridere l'homo historicus. Né si dica
che Nietzsche è finito al manicomio; ciò non proverebbe nulla: perché non è
teoria solo del Nietzsche ma di molti: e divenne in veste politica, dottrina di
un popolo o di una razza; perché quando Nietzsche la pensò non era pazzo;
perché anche se fosse stato pazzo, la teoria di un pazzo non è necessariamente
una teoria pazza; perché in ogni caso sarebbe da dire non che è irragionevole
la massima, la quale, poste quelle premesse, è ragionevolissima, ma che è
inumano, o ripugnante, o indegno, accettare una o l'altra delle premesse, o
ambedue. Ma è tutt'altro che l'unica perché fu preceduta, come è noto, non solo
delle dottrine del liberalismo inglese, ma anche dai Bills of Rights dei
diversi stati dell'Unione Americana. E quanto al luogo comune delle «Ideologie
francesi» ha ragione il Janet, di rilevare che in un testo scolastico
universitario inglese, «Philosophiae moralis institutio compendiaria», stampato
a Glasgow di un autore tutt'altro che ignoto, Hutcheson, si parla come di cosa
pacifica, venti anni prima del Rousseau, del patto primitivo degli uomini fra
di loro, e dei sudditi col loro governo. Un altro luogo topico che potrebbe senza
danno essere lasciato in disparte, è quello che vede nei famosi diritti
l'affermazione estrema dell'individualismo e la tesi dell'individuo-fine e
dello stato-mezzo. Mentre il riconoscimento di quei diritti esprime a parte
singuli la garanzia della libertà individuale, ma esprime insieme l'ufficio
fondamentale e preliminare di ogni stato: la tutela della giustizia. E
combattere le violazioni della libertà e della giustizia, fatte in nome. Mentre,
se si esclude quel supposto e si ammette che lo stato abbia un valore in sé
superiore a quello della persona, o se si ammette che i diritti debbano essere
subordinati alla cultura, alla posizione sociale, alla costituzione politica
dello stato, quei diritti «naturali» non hanno piú nessuna ragione di essere
riconosciuti come diritti. Ma il principio che la persona umana ha valore per
sé e che non è giusto usare la persona come mezzo, è un postulato di valore
(cosí come è un postulato di valore il principio che ogni uomo, in quanto
soggetto di diritti, valga quanto qualsiasi altro); i quali possono essere
assunti e possono essere negati senza che chi li accetta o li nega cessi, per
questo fatto dell'accettarli o negarli, di essere ragionevole, o diventi
ragionevole se non era. Perciò non è da meravigliare che quando i postulati di
valore impliciti in quella costruzione razionale del diritto sono messi in
dubbio o negati, la costruzione debba sembrare campata in aria. Mentre non era
campata in aria, e non è, per chi assume come soggetto di quei diritti un uomo
che è dotato di ragione non solo, ma insieme di una certa coscienza morale e
giuridica; la coscienza morale e giuridica che si raccoglie nei detti postulati
e si può dedurre da essi. Questi postulati il razionalismo aveva torto di
pensare che fossero impliciti necessariamente nella ragione, ossia di credere
che «uomo ragionevole» volesse dire insieme uomo che accetta quei principî di
valutazione. (Il che non vuol dire, si badi bene, che avesse torto
nell'accettarli e nell'assumerli come degni di essere accettati). Ma se si
ammette o si suppone che siano accettati, la costruzione razionale che se ne
ricava, come dottrina dei rapporti etici e giuridici che governerebbero
qualsiasi società umana, nella quale essi fossero sanciti come criteri supremi
della condotta, in ogni sua forma — sia dei cittadini tra di loro, sia dei
cittadini verso lo stato, e inversamente, sia degli stati fra di loro —, non
solo non è illegittima, ma è la sola legittima. E il suo valore etico, giova
affermarlo, sussiste, se c'è, qualunque possa essere la distanza che si osserva
o si immagina intercedere fra uno stato conforme a quella esigenza ideale, e
questa o quella forma di realtà storica e concreta. Anzi, per chi assume
quell'esigenza come avente valore morale supremo, i doveri corrispondenti
all'attuazione e all'osservanza di quei rapporti saranno i doveri fondamentali
precedenti in autorità e in obbligatorietà ogni altra sfera di doveri, e i
diritti correlativi esprimeranno i valori sociali e politici supremi
indipendentemente da ogni giudizio sulla realtà e attuabilità delle forme
ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí configurati16. Per converso, chi
respinge questo postulato, non solo può, ma deve, ragionevolmente, negare ogni
valore alla costruzione razionale corrispondente (sebbene avrebbe l'obbligo —
in sede di di un preteso interesse della collettività e dello stato, non è
negare l'interesse della Società, ma piuttosto difenderlo. Anzi l'homo ethicus
è povero di contenuto appunto perché si esaurisce nei doveri del cittadino,
cioè nei valori giuridici e politici, e dimentica o trascura i valori propri
della vita personale interiore. Il che prova che sono lasciati nell'ombra non
solo i fini propri dello stato (uffici positivi) ma anche i fini speciali dei
singoli; appunto perché domina e vince ogni altra preoccupazione quella dei
fini comuni universali e fondamentali così per la vita individuale come per la
vita sociale della libertà e della giustizia. Chiamare la concezione ideale di
una forma di diritto una astrattezza e usare questo termine a dispregio, non è
esatto e non è giusto se non quando questa forma ideale sia concepita fuori
dalle condizioni necessarie a farlo essere diritto. Nel qual caso sarebbe
legittimo dire che il diritto ideale è un diritto impossibile, e sarebbe
sciocco e vano concepirlo e parlarne. Ma un diritto ideale concepito nelle
condizioni che sarebbero richieste a farlo sussistere come diritto positivo,
non è piú astratto che un diritto positivo qualsiasi concepito nelle sue
condizioni storiche. Salvo che nel secondo caso le condizioni esterne del
diritto sono reali, nel primo sono possibili; nel concetto dell'un diritto
l'idea delle condizioni che ne fanno o ne hanno fatto un diritto positivo,
trova corrispondenza nella realtà, e nel concetto dell'altro l'idea delle condizioni
che farebbero del diritto ideale un diritto positivo, non ha trovato o non
trova più, in una forma storica di realtà, la sua corrispondenza. Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale J. morale — di chiarire quale
postulato assuma al posto di quello che respinge, e quale sarebbe il sistema
etico-giuridico che ne discende). Ma commette una grossolana fallacia elenchi,
quando pretende di confutare o condannare quella costruzione etico-giuridica in
nome della realtà o della storia. Perché la realtà e la storia daranno la
stregua della attuabilità dei rapporti prospettati nella costruzione ideale, ma
non del valore di questi rapporti. Cosí il razionalismo assume erroneamente
come dati razionali dei postulati di valore e si illude di poter imporre in
nome della ragione dei principi che non valgono se non supponendo accettati
quei postulati che li giustificano: e lo storicismo si illude di togliere ogni
valore alle costruzioni fondate su quei postulati dimostrando che la realtà
storica è diversa da quelle costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini
non hanno nelle condizioni di fatto eguali diritti, o che la società non è
fondata sul contratto, o che non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto
diritti positivi, equivalga a dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei
diritti; e che non possa essere apprezzata e apprezzabile una società ordinata
in modo tale da poter pensare che non sarebbe diversa se fosse costituita per
contratto volontario di tutti i cittadini; o non possa essere piú desiderabile
che abbia sanzione di diritto e valga come tale un ordine di rapporti conforme
a certi criteri piuttosto che a certi altri. A risolvere queste questioni, il
sapere storico non è competente. D'altra parte lo storico non potrebbe
risolverle senza cessare di essere storico e diventare moralista o ideologo,
reazionario o rivoluzionario, «conservatore» o «riformatore». Perché non vi è
altra via: O ricusa certi postulati di valore per assumerne altri diversi, pure
di valore. O rinunzia, non solo a qualunque giudizio, ma a qualunque intervento
della volontà umana nella storia, cioè nella produzione degli eventi umani.
Perché ogni azione umana, cioè consapevole e volontaria, implica una direzione
verso un risultato che si giudica preferibile tra i possibili, cioè implica una
scelta, e quindi una valutazione. Tanto nel «razionalismo» quanto nel
«realismo» o «storicismo», i criteri di valutazione possono bensí essere
ricondotti a un postulato di valore, ma questo postulato non è posto dalla
ragione né è dato dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo, ammetterlo o
respingerlo, non vuol dire né rispettare o rinnegare la ragione, né riconoscere
o misconoscere la storia; avere o non avere senso storico. Il che è la prova
piú manifesta che non è un dato della ragione il postulato di valore a cui si
riconduce l'esigenza espressa nella dottrina del diritto razionale, come non è
un dato della storia il postulato, pure di valore, a cui si riconduce
l'esigenza implicita nella dottrina del diritto storico. Resta da osservare al
nostro proposito per quel che riguarda il razionalismo etico-giuridico, come da
questa illusione che l'universalità della ragione volesse dire anche
universalità di consenso nei postulati valutativi incorporati surrettiziamente
in essa, derivò l'errore di credere che potesse ba[A questa differenza
fondamentale tra valutazione e giudizio storico, è da ricondurre, a mio
giudizio, la questione del rapporto tra spirito rivoluzionario e senso storico,
di cui tratta dottamente e sottilmente MONDOLFO (si veda) nella «Nuova rivista
storica». Il rivoluzionario (come del resto ogni innovatore di grandi o anche
di piccole cose, anzi ogni uomo di iniziative) è, o si pone, fuori della storia
in quanto valuta, cioè giudica e opta per un ideale; (anche se questo ideale è
un prodotto storico, non è perché è un prodotto della storia che è stimato
desiderabile, preferito e voluto). È nella storia e deve aver senso storico in
quanto è uomo politico, cioè vuole agire sulle condizioni presenti nella
direzione voluta. Insomma: in quanto sceglie tra diverse direzioni concepite
come possibili (cioè come tali da potere essere favorite e contrastate dalle
nostre azioni), non è nelle storia, se non in quanto sono nella storia e della
storia le sue stesse idealità morali. In quanto si rende conto della realtà
sulla quale vuole agire e del modo col quale la sua azione può inserirsi
efficacemente su tale realtà, è nella storia.] stare per fare accettare questi
postulati «illuminare» le menti, dissipare «i pregiudizi», ragionare; come è
nata per contrasto l'illusione inversa che per respingere le applicazioni, le
«conseguenze pratiche» di quegli stessi postulati e dei criteri che ne
derivano, non ci fosse altra via che di far tacere la ragione o screditarla e
dare a lei la colpa, non solo delle conseguenze, che essa secondo l'ufficio suo
veniva svolgendo e costruendo in sistema coerente, ma degli errori e delle
violenze commesse da quelli che smentivano con l'opera i principî o li
applicavano a rovescio, e piú spesso senza conoscenza degli uomini e delle
cose, cioè senza tener conto della realtà concreta e della storia. E cosí si
passava da una ragione fatta soggetto di meriti non suoi, a una ragione fatta
oggetto di biasimi non meritati. Ma la ragione è al di là di quei meriti, e di
questa imputazione. La ragione ha un compito inestimabile; necessario, anzi
imprescindibile, ma arduo e non finito mai; di costruire incessantemente
l'unità della persona; l'unità dell'uomo teoretico, l'unità dell'uomo pratico e
l'unità (a cui bisogna pur mirare, come miravano gli antichi) dell'uomo
teoretico con l'uomo pratico. Ha un ufficio di continua eliminazione e
ricostituzione; un ufficio nella vita spirituale della persona analogo, direi,
a quello che ha nella vita fisica la circolazione del sangue. Ma non si può
pretendere di ricavare da essa il principio dell'esistenza, ossia il dato o i
dati attorno ai quali si possa affermare la realtà obbiettiva di ciò che è
oggetto del sapere; né si possono trovare in essa, o ricavare da essa i criteri
sui quali si fonda la valutazione e attorno ai quali la ragione unifica i
giudizi di valore. Come non dà essa la certezza dell'esistenza, cosí non dà
essa la coscienza del valore. Resta un'ultima via, la terza; la piú audace e
radicale. È la ragione che pone la legge morale; ma perché la ponga non è
necessario che ricorra a nessun dato o principio materiale, sia stabilito o
fondato su verità di ordine teoretico o dimostrabili o evidenti per sé, sia
cercato in un fine a cui possa ricondursi il contenuto della legge. È la
esigenza razionale che si pone come legge, senza che a costituirla sia
necessario fare appello al valore di qualche oggetto o risultato dell'azione e
dare a quel qualsiasi contenuto materiale che venga assunto dalla legge, un
valore morale pur che sia, all'infuori da quello che gli viene dalla forma di
legge che lo impronta. È, come ognun vede, la tesi di Kant, che è non solo la
piú vigorosa, ma la sola veramente rigorosa del razionalismo morale. La prima
delle vie indicate, quella del platonismo, e in modo particolare quella dei
platonici della scuola di Cambridge, riconduce la morale alla ragione perché la
riconduce a principi teoretici di cui si crede che la ragione dimostri la
verità o faccia riconoscere l'evidenza: la certezza morale è razionale perché è
razionale (o è assunta come tale) la certezza teoretica. È, si può dire,
veramente, un intellettualismo morale. Per Kant invece, non solo i principi
pratici non si fondano su dati teoretici; ma è soltanto nell'uso «pratico» che
la ragione può varcare i limiti del fenomeno, e affermare del noumeno ciò che è
conforme all'esigenza della morale, ciò che la ragione postula per il suo
bisogno pratico. E i postulati pratici sono veramente, non postulati etici, ma
postulati metafisici affermati sul fondamento dell'esigenza etica. Or dunque
l'esigenza razionale che è esigenza formale di una legge in generale, in morale
è esigenza della legge, di quella legge che è essa la sola razionalmente
necessaria. Ma essendo incontrastato per Kant questo punto, sono possibili sul
rapporto della forma e della legge col contenuto tre soluzioni: O si può
intendere che la legge morale è una forma senza nessun contenuto; cioè che la
forma dà il valore morale alla legge e il criterio per osservarla e praticarla,
senza che occorra una qualsiasi determinazione del contenuto. O si può pensare
che occorre bensì un contenuto che si adatti a quella forma, che sia suscettivo
di assumerla o di esserne investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto
che diverso. Insomma: è necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso
sia, purché possa essere contenuto di quella forma. Non è perciò escluso a
priori che possano essere piú, fra di loro diversi. Si può pensare che la forma
razionale, la forma della legge morale conviene a un solo contenuto, quel
contenuto che si concreta appunto in relazione con quella forma. Ossia, che
l'esigenza razionale basti a determinare univocamente il contenuto della
legge18. La prima interpretazione che sembra la piú semplice e sulla quale s'è
fatto un gran discutere, è insostenibile, perché si risolve in un circolo
vizioso, dal quale non è possibile uscire in nessun modo. Forse a queste tre
interpretazioni, teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le
tre formule note dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che
ciascuna delle tre si avvicina di più rispettivamente a una delle
interpretazioni possibili che alle altre due. Così la prima formula
(dell'universalità) sembra rendere possibile la prima interpretazione. La
formula (terza) dell'autonomia del volere come principio di tutte le leggi
morali e dei doveri conformi ad esse, pare che possa convenire alla seconda
interpretazione. E finalmente la seconda formula (tratta la persona umana come
fine, ecc.) pare che risponda meglio alla terza interpretazione di un contenuto
determinato inequivocabile. Quella stessa illustrazione kantiana che
sembra legittimarla mette capo a una formula, che fu bensì intesa spesso e
trattata come puro criterio dell'universalità sic et simpliciter -la
possibilità di concepire la MASSIMA come legge universale dell'operare --, ma
che, nei termini precisi in cui è espressa, implica di necessità il riferimento
a un qualche contenuto senza del quale mancherebbe ogni possibilità di
adoperarla come norma di quell'operare del quale vuole esprimere
l'obbligatorietà. Secondo quella formula, il criterio per giudicare della bontà
della massima è che io possa volere che valga come legge universale. Ma io
posso volere che una massima valga universalmente, soltanto quando, o meglio,
se, la massima cosí universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla
Ragione, cioè che è tutt'uno al Volere morale; alla legge, dunque, che fa
morale il mio volere; il che viene a dire che una massima è morale quando è
conforme alla legge del volere morale, ossia quando è conforme alla legge
morale. Il valore morale dell'azione si giudica dalla possibilità che la
massima sia voluta come legge, ma questa possibilità di essere voluta come legge,
si riconosce dall'accordo della massima con quella legge morale della quale non
è dato altro carattere che l'universalità, e altra applicazione che cercare se
il modo di operare corrispondente si possa universalizzare in massima. Che il
riferimento a un contenuto sia anche nel pensiero di Kant necessariamente
implicito nel criterio, appare poi manifestamente, non dico dagli esempi, ma da
una chiosa che non si capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo
espresso o sottinteso. A proposito del quarto esempio della Fondazione (il
brav'uomo che non fa male a nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura
d'altro) chiosa Kant in forma decisiva: «quantunque sia possibile che esista
una legge universale della natura conforme a tale massima, è impossibile di
volere che un tale principio valga come legge della natura». Ma perché è
impossibile? Manifestamente perché il Volere razionale vuole già qualchecosa
che è incompatibile con ciò che è espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la
quale tuttavia è possibile che esista come legge universale della natura);
vuole qualchecosa che ogni uomo come essere ragionevole vuole necessariamente.
Insomma, il criterio dell'universalizzazione vale in quanto è possibile
confrontare la legge, a cui darebbe luogo la massima se valesse universalmente,
con una certa legge che abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto.
Senza questo riferimento, questo ubi consistam della volontà, non è possibile
sapere se la massima dell'azione abbia o non abbia i requisiti necessari,
perché si possa volere che valga come legge universale. Con ciò il pensiero di
Kant sembra escludere non soltanto la prima, ma anche la seconda interpretazione
(che la forma razionale possa convenire a piú di un contenuto, cioè che possano
presentarsi come leggi morali, modi di valutare o sistemi di norme fra di loro
diversi); e ammettere che a dare all'esigenza razionale sussistenza effettiva
di legge, determinazione di oggetto che la renda applicabile, non sia adatto
che un solo ed unico contenuto; e che la legge voluta dall'essere ragionevole,
non possa essere che quella certa legge. Che questo sia veramente il pensiero
di Kant credo sia indubitabile, né importa insistervi qui. Piuttosto è
necessario rilevare come questa pretesa di determinare la legge, quella legge
soltanto in funzione della forma, possa parere possibile e legittima finché è
sottinteso o ammesso che la legge morale deve essere universale non soltanto
nella forma, ma anche nel contenuto; e che perciò le massime in discorso sono
soltanto le massime di quel certo operare che ne resta quindi determinato in
modo univoco. E cosí il criterio dell'universalizzabilità coincide praticamente
con quel contenuto di cui si sa già e si ammette riconosciuto universalmente E
va da sé che anche l'azione, di cui si vuole saggiare a questa stregua la
massima, deve avere un contenuto che la fa essere quella azione, conforme o
disforme da una massima. Se no, non si può parlare di massime dell'operare,
anzi neanche di un'azione qualsiasi.] il valore, di cui quindi si sa che è
impossibile volere che valga come morale una massima che lo nega20. Adunque
questa impossibilità non sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa
esigenza si trova essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme una
volontà che vuole certi valori; o piú chiaramente ancora questa impossibilità
non emerge necessariamente dalla ragione, ma dalla natura dell'essere
ragionevole; la quale natura è ragione, ma è insieme un volere che vuole ciò di
cui la ragione formula la legge. Ora, se si suppone che quel Volere non ponga
come assoluti e supremi quei valori, cessa ogni ragione di volere quella legge
piuttosto che un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità di volere che valga
come legge una massima che è incompatibile con questa. Adunque, posto che un
volere non voglia quei valori e ne voglia altri, cessa questo Volere di essere
il Volere di un essere ragionevole? Cessa di essere un Volere ragionevole
quello che riconosce l'esigenza di porre e di osservare la legge che ordina e
unifica le massime della condotta in conformità a quegli altri valori che esso
riconosce come morali? Non è anche in questa ipotesi salva l'esigenza
razionale? Questa ipotesi (che la realtà della coscienza morale contemporanea
prova, come s'è visto, non essere pura ipotesi), conferma in concreto quel che
l'analisi della formula rivela inoppugnabilmente: che il dato iniziale,
originario o primario della legge morale è presupposto dalla ragione, non
posto; presupposto come oggetto o contenuto di una Volontà la quale è bensì
razionale in quanto pone a sé come legge la norma dell'operare corrispondente;
ma non è né razionale né irrazionale in quel che riguarda la posizione di quei
valori primari, che costituiscono il terminus ad quem dell'operare, l'oggetto
della volontà, attorno al quale l'esigenza razionale stringe la condotta in
unità coerente di legge. A una conclusione del medesimo genere riesce per altra
via la difesa che del formalismo kantiano fa il Martinetti in una sua memoria
densa e vigorosa21 nella quale egli si sforza di salvare il carattere formale
della legge pur riconoscendo la necessità di un contenuto; e lo salva facendone
la forma, non di un contenuto sensibile, ma di un contenuto soprasensibile. Ma
questa soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla concezione di
questo fine trascendente o di questo mondo soprasensibile che è l'oggetto
proprio della legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che di questo
mondo soprasensibile non possiamo affermare altro, se non appunto questo: che
esso è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale, il mondo nel
quale la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne diano altre determinazioni
di sorta. Ovvero questa realtà ha altre determinazioni, attua un certo ordine
di rapporti, [Mi sia lecito riferirmi per la chiarezza a uno degli esempi di
Kant. La ragione per la quale non si può volere erigere a massima universale il
principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio), non è già che
sia impossibile concepire seguita una tal massima universalmente (non c'è
nessuna contraddizione intrinseca nel pensare che tutti quelli che sono stanchi
della vita si uccidano); e neanche che non sia possibile a una volontà che
vuole una legge ma che sia indifferente per ipotesi ai valori morali, e
apprezzi sopra ogni cosa il piacere o la liberazione del dolore volere che
valga universalmente. (È così possibile che, come tutti sanno, non mancò chi la
praticasse e la predicasse anche tra i filosofi). Ma è impossibile che voglia
una tal legge chi ammette la superiorità dei valori morali. Ossia
l'irrazionalità della massima emerge, non da un'impossibilità intrinseca della
massima e neppure dalla impossibilità di sussistere di un Volere che sia
indifferente a certi valori, ma dal suo contrasto con un Volere che riconosce
la superiorità di certi valori (morali) sugli altri (egoistici); e quindi non
può volere che valga come legge una massima che smentisce questa superiorità.
Sul formalismo della morale kantiana estratto dalla Miscellanea di studi
pubblicata per il cinquantenario della R. Accademia scientifico-letteraria di
Milano. Inserito poi in Saggi e Discorsi, Libreria Editrice lombarda, Milano] che
non possiamo conoscere speculativamente, ma di cui possiamo tuttavia essere
certi e affermare e riconoscerne la perfezione, la bontà, il valore. Se si
ammette la prima tesi, l'affermare una realtà soprasensibile di cui non
possiamo dir altro se non che è il contenuto della forma morale, non ci dice in
che consiste questo contenuto, e non ci fa uscire da questa forma. Dice che vi
è un mondo conforme alla legge morale, ma non dice quale sia, come sia fatto
questo mondo. Non ci illumina dunque, su questo punto, piú di quel che valga a
far capire quali sono le disposizioni di una legge, il pensare che questa legge
sia perfettamente osservata. Per uscire davvero dalla forma e da questo circolo
vizioso di un mondo di cui non si sa altro se non che è governato dalla legge
morale, e di una legge morale che ha valore perché è la legge di quel mondo,
bisogna dunque attenersi alla seconda tesi; la quale, come pensa il Martinetti,
e come io credo, risponde veramente al pensiero di Kant, se non come si mostra
punto per punto nelle strettoie della sua esposizione, come risponde
all'intento fondamentale che anima la sua dottrina del primato della ragione
pratica e piú chiaramente ancora al proposito esplicitamente ammesso da lui
nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion pura. In
realtà «l'uso pratico» della ragione consiste nello spalancare all'esigenza
morale quelle porte della metafisica che sono chiuse alla speculazione
teoretica; nel lasciar libero alla fede il campo del soprasensibile vietato
alla conoscenza; nell'ammettere, se vogliamo usare espressioni correnti, piú
che il diritto la necessità di credere, la necessità «razionale» di ammettere
quel che la ragione, in quanto è garanzia di certezza teoretica, non può né
dimostrare né affermare; di oltrepassare — per rendersi conto della possibilità
del dovere — il campo dell'esperienza sensibile e postulare l'esistenza di una
realtà che trascende l'esperienza. Ma questo ufficio pratico sarebbe senza
frutto, se una certezza diversa dalla scientifica, ma non minore, non potesse
valicare quelle porte del soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esigenza
morale, ma apre per lei e in nome suo. Sulla soglia del sopra-sensibile la
ragione sembra dire all'esigenza morale quel che VIRGILIO a ALIGHIERI all'entrata
del Paradiso terrestre. SE VENUTO IN PARTE OV’IO PER ME PIU OLTRE NON DISCERNO.
Ma la fede fondata sull'esigenza morale entra e procede sicura in questo mondo,
dinanzi al quale la conoscenza si arresta. Come se venuta meno ogni luce dal di
fuori, questo mondo si illumini della luce che la certezza morale accende in sé
e sprigiona da sé e diffonde attorno a sé in quello che è il suo regno. È
questo mondo soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la realtà di cui la
legge morale è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel mondo
dell'esperienza si applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in
quanto partecipa di questa forma che è forma di una realtà superiore alla quale
la realtà inferiore deve essere subordinata. Il concetto dominante di questa
prefazione (che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono che la
soluzione dei problemi morali sia un corollario di dottrine speculative) si può
considerare riassunto in questa, che direi confessione caratteristica. Ich
musste also das Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um zum
Glauben Platz zu bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur zweiten
Auflage, Cassirer). Nella prefazione citata, a proposito della limitazione che
la critica della ragion pura porta alla ragione speculativa negandole la
possibilità di una conoscenza del soprasensibile, Kant nota che il «vantaggio
d'una metafisica così purificata» non è soltanto negativo ma anche positivo
perché permette l'uso pratico della ragione. E osserva con un paragone assai
significativo che negare «a questo servizio della critica il vantaggio positivo
sarebbe come dire che la polizia non dà nessun vantaggio positivo perché il suo
compito principale è soltanto di tenere in freno la violenza; affinché ciascuno
possa attendere ai suoi affari tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il corsivo è
mio). Su la pluralità dei postulati di valutazione morale J. In questa
interpretazione24 il termine di paragone c'è, il Volere razionale ha un
oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge che si rimanda a un
contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un Volere che vuole la
legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui la costruzione
valutativa si appoggia, è il valore di questo mondo soprasensibile postulato
dalla ragione in nome della esigenza morale; ma che appunto per ciò non è un
dato della ragione, ma della certezza morale. E l'affermazione della realtà di
quel mondo è riconosciuta legittima, perché la sua esistenza è richiesta da
questa certezza. Qui è ancora, per Kant, la Ragione che riconosce la
legittimità della postulazione metafisica; ma la riconosce in quanto accetta
come incontestabile la certezza morale; la quale è certezza di valori, non evidenza
razionale. Cosí adunque anche la tesi della trascendenza della legge morale
implica accanto alla esigenza razionale un oggetto della volontà, un ordine di
valori, un dato valutativo irreducibile alla pura razionalità e che trae la sua
validità d'altronde. Quale ne sia la sorgente, non si può cercare utilmente in
breve, e non è facile; forse la sua origine è in quella stessa attività
volontaria nella quale bisogna cercare la fonte della credenza in una esistenza
obbiettiva del mondo. La volontà è direzione ed è forza. In quanto è forza, e
si esercita come forza e si rivela come sforzo (il quale richiede e suppone una
resistenza) è il dato irreducibile della credenza in una realtà obbiettiva
distinta dal soggetto. In quanto è direzione, cioè scelta, cioè azione in vista
di un risultato, è il fondamento irreducibile dei giudizi primari di valore, i
quali esprimono le direzioni originarie della volontà, delle quali acquistiamo
consapevolezza attraverso le forme fondamentali del sentimento. Non è il caso
di cercare qui se e che cosa MARTINETTI (si veda) mette di suo e di
postkantiano nella sua interpretazione, né di vedere se e fino a che punto il
fondo mistico del pensiero di Kant si accordi con la dottrina che dovrebbe
sottrarlo ad ogni pericolo. Qui basta notare la difficoltà radicale in cui
vengono a cadere le soluzioni del medesimo genere. La quale è inerente al modo
di concepire il rapporto tra il contenuto sensibile che, per essere applicabile
alla realtà empirica, la legge morale deve pure assumere, e il mondo
sovrasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale, quello che ha valore
per sé e dà valore di simbolo o di partecipazione (qui ritornano i dubbi del
platonismo) al contenuto sensibile. Infatti delle due l'una: o si ammette che
il contenuto atto a farsi suggello di quella forma, differisce da un contenuto
diverso oltreché per il valore formale (nel quale si esaurirebbe il valore
morale), anche per un valore di altro genere. E allora vi è luogo a cercare se
vi sia o no una connessione necessaria, intrinseca tra questo suo valore
specifico e il valore formale; e in ogni caso si riconosce che il contenuto
sensibile della legge morale ha un suo valore proprio che sussiste ed è
riconosciuto anche all'infuori dell'impronta formale. O si ammette che questo
contenuto sensibile non ha nessun altro valore, cioè è per sé indifferente; che
ciò che la legge morale comanda non vale, per rispetto a questo mondo empirico,
di più di ciò che essa vieta, cioè se non fosse questo riferimento a un mondo
superiore non vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un modo di operare ad un
altro; e le difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le intrinseche e più
sottili, basti rilevare qui da un punto di vista diciamo pure profano la
stranezza quasi ironica del contrasto tra la soluzione del problema e l'intento
che la esprime. Perché nell'atto di affermare l'esigenza di una osservanza
incondizionata della legge morale si nega ogni valore intrinseco a ciò che la
legge comanda; e mentre si dà alla legge un'autorità incontrastabile perché
trascendente qualsiasi valutazione empirica, si toglie ad essa ogni ragione di
venir applicata (e se si guarda bene ogni possibilità di applicazione) a quel
mondo sensibile di fronte al quale deve essere fatta valere questa sua
autorità. Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che dipenda dalla
direzione verso un fine empirico qualunque esso sia, non resta a costituire la
moralità, cioè la bontà del volere, che questo affisarsi nel mondo
soprasensibile, questo tendere a una realtà trascendente, nella quale consiste
ogni valore. Ma questa soluzione non isfugge a quella singolare commistione dì
forza e di debolezza che è caratteristica di ogni morale rigorosamente mistica:
forza, in quanto è intuizione, atto di fede, certezza interiore inespugnabile;
debolezza, in quanto voglia farsi deduzione ragionata di valutazioni empiriche.
La quale urta nella impossibilità di stabilire logicamente, ossia dimostrare
discorsivamente, una relazione necessaria tra la condotta che deve valere come
morale nel mondo sensibile e quel mondo soprasensibile che ne costituisce
l'oggetto e il termine; di superare un distacco logico del genere di quello
accennato tra il criterio usato a determinare le norme di quella condotta e
l'ordine di valori invocato a giustificarle. L'intento di Kant di liberare
la legge morale da ogni mescolanza e contaminazione patologica di sentimenti,
di inclinazioni, di tendenze — che si traduce in isforzi laboriosi ed
ingegnosissimi ma vani — forse non sarebbe stato proseguito con cosí risoluta
tenacia se il Kant, meno preoccupato dal preconcetto (alimentato dalle dottrine
eudemonistiche del tempo) che ogni forma di sentimento e qualsiasi genere di
fini, sia inevitabilmente soggettivo, relativo, interessato, fosse stato disposto
a riconoscere che vi possono essere forme universali di valutazione intrinseca,
cosí come vi sono forme disinteressate e universali di sentimento. Il metodo ddll'econonia
pura nell’etica. Pavia. Dizioni. Rivista filonofica PAVIA, BIZZOSI
Corso Vittorio Em.inuele; Prolegomeni a una /Ifòoiale balla
/Iftetatisica Pavia SUCCESSORI
BIZZONI -Vi iC^osstbilttà e i Ximtti bella /Iftorale come
Sciensa La Dottrina delle due Etiche di Spencer e la Morale come
Scienza. Per una Scienza Normativa Morale. Il Fondamento Intrinseco
del Diritto secondo VANNI. Toi-itio BOGGA — Torino
SI I w NELL* ETiea PAVIA
BIZZONI Corso Vittorio Emaniu'e, W* MB*« W%i» 'SSS-»» lBiS«M«» «!.<f. IL
moo OEUE CfliiOMm mi. mrmu «"iJi! hypotheses fingo. L'economia
assume, come è noto, l'ipotesi che gli xwmiìii nel produrrCy consiunare,
distribuirsi e far circolare la ricchezza siano 7nossi esclusivameìiie
dal desiderio di coyisegiiire la maggior possibile soddisfazione dei loro
bisogni mediante il minore possibile sacrifizio individuale. Alla costiuzione
deduttiva, che se ne ricava, dei teoremi economici, ossia delle leggi
della condotta dell’homo oeconoìnicus, è indiffei-ente la questione se
il postulato edonistico esprima veramente una condizione di fatto, ossia
se l'ipotesi da cui si deduce ogni verità economica coincida o diverga ed
in quale misura dai motivi che effettivamente determinano le azioni umane,
come è indifferente qualsiasi valutazione che e del postulato assunto, e
della condotta dell’uomo econo77iico, e degli ef fetti di questa condotta, si
possa fare da un punto di vista morale. In effetto il giudizio sul
valore di giustizia o di bontà del motivo economico e delle leggi che ne
discendono, varia, Fa parte degli Atti del Congresso Filosofico di Parma,
al quale doveva essere presentato coi titolo più generale : € Condizioni e
limiti di una trattazione scientifica dell'etica ». (2 Cfr.
Pantaleoni. Principii di Economia Pura. IL METODO dell'economia PURA
XELl'eTICA come tutti sanno, da un illimitato ottimismo al pessimismo
piir radicale; e il giudizio sulla corrispondenza dell’ipotesi
colla realtà varia del pari, da quelli che riconoscono nel motivo
assunto l'unico motivo di tutta quanta l'attività umana, a quelli che lo
considerano come uno dei fattori, non l'unico, nel campo stesso
dell'economia; i quali, appunto perchè l'economia cosi intesa studia
soltanto l'azione di UN FATTO [cfr. Grice, ‘a dull’ – ‘enough of a
rationalist’] fattoi'e, isolato per astiazione dal complesso degl’altri la
cui efficacia si esercita in realtà simultaneamente, non riconoscono alle
sue leggi che un valore ipotetico, correlativo al carattere ipotetico
dell'uomo economico e dello stato economico. Ma qualunque sia cosi l'uno
come l'alti'O giudizio, il carattere scientifico della costruzione
deduttiva rimane incontestabile. Nella misura che la corrispondenza colla
realtà psicologica è inadeguata, si riconosce l'arbitrarietà del
postulato, e della costruzione che ne dipetide, in quanto pretenda di
porsi come scienza della realtà; e a secoruìa che si ammette o si nega che
il postulato ha valore morale, si ammette o si nega valore morale alla
disciplina precettiva che se ne volesse ricavare. Ma in ogni caso restano
incontestati questi due punti. La ricerca intorno alla corrispondenza colla
realtà psicologica e storica del motivo economico e delle condizioni
nelle quali si suppone che agisca, è diversa e distinta dalla costruzione
deduttiva del teorema economico, la quale è valida, 7iei limiti dell' ipotesi,
sempre, qualunque sia il grado di questa corrispondenza. Qualsiasi
indagine valutativa del postulato, e delle leggi, e degli effetti sia prossimi
sia remoti che ne derivano o ne deriverebbero, è parimenti distinta, ed
estranea alla costruzione scientifica il metodo dell'economia nell'etica 6 <iometale;
la quale rimane la medesima tanto se il motivo economico è considerato
come morale quanto se è tenuto come immorale, o amorale, e quali che
siano le ragioni di questa valutazioue. Supponiamo ora che il
postulato edonistico – o EUDEMONISTICO (GRICE) -sia riconosciuto universalmente
e accettato come postulato morale. E chiaro che la disciplina precettiva
derivata o derivabile dall'economia ha valore e carattere di
precettistica morale; sia che il valore morale del motivo economico e accettato
per se come un dato primo e immediato, sia che venne derivato, ossia
giustificato alla sua volta, da un fine o da una esigenza ulteriore; e
qualunque e questa ulteriore giustificazione. E opportuno su questo
punto un breve chiarimento. Nella supposizione ora fatta che il valoi'e
morale <iel motivo economico sia universalmente riconosciuto, non
è in alcun modo implicita l'affermazione che sia riconosciuto da
tutti per la medesima, o per le medesime ragioni. Si potrebbe ammettei'e che
esso si fondi per alcuni sulla legittimità, senz'altro ammessa dell'egoismo
individuale (GRICE: “SELF-LOVE”) o dell'egoismo di specie come regola di
condotta. Da altri sul carattere attiibuito alle leggi economiche di
leggi naturali e necessarie e non modificabili dalla volontà dell'uomo; da
altri sopra una interpretazione OTTIMISTICA (cf. GRICE OPTIMISM in
Philosophical Psychology) delle leggi stesse o degli effetti o risultati
che l'osservanza piena ed universale di esse produce o tende a produrre.
E si puo del pari ammettere che l’ordine di relazioni conforme al principio
economico e considerato come provvidenziale o divino – “design” Grice -e si
riversi su di esso il prestigio e l'autorità di sentimenti e di credenze
religiose o metafìsiche. IL .METODO dell'economia PURA XELl'eTICA. Anzi
si può affermare a priori che questa ulteriore giustificazione o valutazione,
dato che si faccia, e diversa per le diverse coscienze a seconda delle
opinioni religioseo filosofi che diverse sulla «latura e sul fondamento
della moralità. E tuttavia il valore morale della MASSIMA conforme
al motivo economico e della norma che ne deriva puo, nella
disciplina precettiva supposta, essere legittimamente assunto come un
dato di FATTO (GRICE: ‘recognised fact’) e trovare in questo la sua
giustificazione immediata, astrazion fatta dalla diversità delle
ulteriori valutazioni. E in questo caso si avvererebbero le seguenti
condizioni. Rimane fuori di discussione il carattere scientifico della
costruzione e della disciplina precettiva che se ne ricava, il quale è
dato dalla validità logica delle conclusioni, cioè dal rigore col quale sono
dedotte dal postulato. Rimane del pari fuori di discussione la elettiva
validità morale del postulato il quale è, per ipotesi, riconosciuto
universalmente conforme all'esigenza morale. Questa validità morale del
postulato (e del sistema di norme che ne dipende) sussiste così se il
detto riconoscimento sia concepito indipendente, come se sia concepito
dipendente da un' ulteriore motivazione, e in questo caso, qualunque sia
il FONDAMENTO (cf. GRICE, “Fundamental Question”) ultimo di questa
valutazione ulteriore. E resterebbe perciò distinto dal campo
della costruzione deduttiva il campo delle indagini intorno alla natura e
al fondamento dell' esigenza morale, e intorno alle condizioni
soggettive della sua validità e della sua efficacia. Ossia il campo
«Iella ricerca propriamente filosofica o metafisica e quello della ricerca
propriamente psicologica e, nelle sue applicazioni, pedagogica. Ma,
(,ui' avverandosi queste condizioni, anzi appunto per il loro avverarsi,
la costruzione scientifica in discorso non potrebbe tuttavia sfuggiie alle
due limitazioni seguenti. Non puo dirsi la scienza della condotta
morale, ma la scienza della condotta richiesta da an ceì'to
motivo morale (quello di cui si è ;H)stulata come un dato di fatto la
conformità all'esigenza morale). Perchè rimai'rebbe sempre da risolvere LA
QUESTIONE (GRICE: Fundamental Question). Se quel motivo esaurisca tutto il
contenuto dell'esigenza morale, o questa non comprenda altri motivi
irreducibili ìì (|uello ; e quindi se le norme contemplino tutta la
condotta morale nella sua estensione e nella sua complessità o ne
contemplino solo una parte od un aspetto – “only the rational aspect of
conversational qua cooperative endeavour”. Essa non esprimerebbe le norme
di una condotta attuabile sic et simpliciter in una forma reale
storicamente data di società – il OXFORD da H. P. GRICE “things an honest
chap does”-; m:. di una condotta la cui piena attuazione non è possibile
se non nelle condizioni astrattamente supposte; cioè la condotta dell’uomo
morale ipotetico in una società morale ipotetica. Oi'a il concetto
che ho sostenuto e sostengo intorno alla possibilità, al carattere e ai
limiti della morale come scienza coincide, nei suoi lineamenti formali,
con quello che risulta dall'ipotesi qui sopra abbozzata, lo penso che
sia [Mi permetto di riferirmi qui e nel seguito di questo articolo ai
saggi, Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafìsica. Pavia,
Bizzoai; e Su la possibilità e i limiti della morale come Scienza.
Torino. Bocca fm'mmme'9mmm>é'>f A s
essenziale cosi all'esigenza pratica come all'esigenza teorica (ìi una
trattazione morale, il costiruii'si di una scienza etica, nella forma e
con un procedimento analoghi a quelli dell'economia; e colla })ieiia
consapevolezza che la validità normativa e la applicabilità della
disciplina precettiva che se ne ricavi sono possibili alle condizioni e
dentro i limiti che si sono oiora accennati. Ma una costruzione
etica analoga a quella dell'economia pui'a presenta una difficoltà
preliminare che non si è superata, ma soltanto lasciata in disparte,
supponendo, corno si è fatto artificiosamente, riconosciuto valore morale
al motivo economico. Se qualche critico osservas che é fuor di proposito
voler trasportare nell’Etica un metodo e un procedimento che nell’economia
stessa é oramai superato, o almeno r ripudiato, dalla scuola storica in
nome della realtà, e dalle varie tendenze moralistiche in nome delle
esigenze etiche, potrei accontentarmi di rispondere che dell'obbiezione
si dovrà tener conto quando i moralisti avranno fatto nel fondare una
trattazione scientifica dell’Etica tanto cammino, quanto ne lece nel
campo dell'economia la scuola classica; e che a mettere in canzone le
ipotesi e le Robinsonate degl’economisti si comincia dopo che l’ipotesi hanno
già reso i più importanti servigi e perchè si era preteso di scambiare
senz' altro le astrazioni con la realtà. Ma si può anche aggiungere che
il metodo e il procedimento della scuola deduttiva, accompagnati da una
chiara coscienza delle condizioni e dei limiti della validità delle loro
conclusioni, sono più vivi che mai nei cultori né pochi né oscuri
dell'economia; e che la scuola storica, se ha il merito di cercare e
mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle categorie e delle
pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i quadri posti dalla scuola
deduttiva (cfr. Gide, Principes d' Ec. Poi. Noi. Gen.) e ne presuppone le
leggi determinandone le deviazioni e le limitazioni nelle diverse (orme
storiche. I.e scuole moralistiche poi, in quanto si rivolgono a criticare
e correggere i concetti e i precetti dell'economia classica non ne negano
il valore scientifico nei limiti dell’ipotesi, ma ne negano il preteso valore
morale. Negano cioè il carattere di giustizia e di inviolat)ilità
attril)UÌto arbitrariamente alle leggi economiche. Ed é facile avvertire
che gl’economisti di queste scuole (con qualunque nome si chiamino) in
realtà sono moralisti che cercano di 'il [La difficoltà l'iguai'da
la scelta e la determinazione del postulato; il quale deve soddisfai-e a
due condizioni. L’una comune all'etica e all'economia. L’altra esclusiva
dell'etica. La condizione comune è l'applicabilità universale del
postulato come principici informatore di tutta la condotta; la condizione
propria dell'etica è che il motivo, di cui si postula questa universale e
incontrastata efficacia, abbia valore morale. Ora, VI è un motivo, del
quale si possa legittimamente presumere che sia riconosciuto
universalmente il valore morale, e del quale sia insieme possibile l’applicazione
universale e simultanea a tutta quanta la condotta individuale e
COLLETTIVA? A questa domanda ho già cercato altrove di trovare una
l'isposta; esaminando prima in che consista l'esigenza caratteristica di
una norma morale; e poi se vi sia e quale volgere a uno scopo pratico
(nella scelta del quale sono guidati da un criterio etico) delle conoscenze
fornite dalle dottrine e dalle indagini economiche: e la forma-limite di
questa tendenza é una intera ricostruzione su basi etiche dei rapporti
eeonomici. Fanno dunque quello che da un pezzo avrebbero dovuto fare i
moralisti; cioè sentono la necessità di considerare l'esigenza etica
estesa alla stessa struttura, non soltanto politica, ma anche economica
della società. Ma ciò che più ini])orta di osservare a questo proposito é
che una critica radicale — da un punto di vista etico — della realtà dei rapporti
economici porterebbe, a guardar bene, a rimproverare all'economia pura
non un eccesso ma un difetto di astrazione. E il difetto di astrazione si
rivela in ciò: che mentre l'economia si propone di studiare l'azione
isolata del motivo economico, e perciò suppone ridotta l'azione dello
Stato ada tutela dell'UGUALE LIBERTA PER TUTTI, assume nello stesso tempo —
come condizioni di uguale libertà ~ certe condizioni (p. es. la proprietà
fondiaria, il capitalismo e il salariato) che limitano o alterano T
universalità o l'eflicacia del motivo. Cioè o considera, per questo rispetto
arbitrariamente, come categorie necessarie^deWe categorie 5ioric/ie, o
considera, pure arbitrariamente, come conforrni all'ipotesi delle
condizioni disformi. poss.'i essere il fine che abbia il carattei'e <ìi
uiìivei'sale e pi'einiiif'iite desiderabilità richiesto a «^nustificai'e
il valore normativo del motivo corrispondente. La conclusione di
questa analisi era la seguente. LA DESIRABILITA di un ordine di effetti, che si
assuma come FINE non viene tanto dalla DESIRABILITA che gli si l'iconosca
come bene, cioè come oggetto diretto e immediato di godimento, quanto
dalla DESIRABILITA degl’effetti, lei (juali esso apjiarisca la condizione
necessaria. E perciò, inentie è vano andar cercando quale sia il
fine ultimo, il quale non si trov.a mai, o si risolve in una pura
espressione verbale, il fine che può valei'e come su premo si deve
cercai'e non nell’uno o nell'altro de: fini a cui si riconosca valore per
sé, ma in un ordiiM^ di effetti, in un sistema di condizioni, dato che
sia assegna bih*, nel quale si possa l'iconoscere questo carattere ap [)unt()
di condizione necessaria non di alcuni, ma di tutti quei beni, ai quali
si attril)uisce valore per se. E quimii il fine che può avei'e
universalmente una DESIRABILITA superioi'e a ogni altro, non juiò consistere se
non m un ordine genei'ale e, si potrebbe dire, preliminare di
condizioni, la cui attuazione apparisca necessaria perchè sia possiì)ile
universalmente la ricerca ulteriore <li ([uei beni. Non può essei'e
cioè supremo nel senso di una gerarchia, della quale segni il culmine, nò nel senso
di una grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel
senso (iella precedenza necessaria o della indispensabilità; per la
(juale venga a l'accogliersi su di esso come in un unico foco la luce e
il calore di DESIRABILITA che irraggia dai fini ai quali apre
universalmente la via. E perciò, ammesso che qualsivoglia fìne lancino ha,
come ha in l'ealtà, per condizione la convivenza e LA CO-OPERAZIONE sociale, il
fine che può avere questo valore di precedenza necessaria sugl’altri deve
essere di necessità il raggiungimento o il mantenimento di certe
condizioni di convivenza e di CO-OPERAZIONE sociale, cioè di una
qualche forma di società. Ma perchè a.] una forma di società possa
essere riconosciuto questo carattere universalmente, occorre che le
condizioni della sua esistenza hanno per tutti un valore potenzialmente
uguale. Ossia che nessuno dei FINI dei quali quella forma di CO-OPERAZIONE
pone la POSSIBLITA [Grice trascendentale] e dai quali attinge il suo
valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa forma, precluso o
impedito a nessuno dei componenti la società. in altri termini che tutti
i .socn trovino nelle condizioni di esistenza della società la medesima
equivalente possibilità esteriore d\ rivolgere la loro attività alla
ricerca di qualsivoglia dei fini, dei quali la convivenza e COOPERAZIONE sociale
è CONDIZIONE [GRICE, metaphysical justification]. Ora se si riconosce come
esigenza della GIUSTIZIA, questa esigenza alla quale deve soddisfare una
forma sociale perchè ha universalmente valore di fine prossimamente
supremo, determinare questo fine equivale a determinare un tipo di
società nel quale siano attuate le condizioni richieste della giustizia
cosi intesa, ossia un tipo ideale conforme a questa esigenza di HOMO
IVSTVS e di socielas insta. E ciò equivale a cercare quale sistema di
relazioni risulterebbe effettuato nell’ipotesi che gli uomini, sia come
collettività sia in-dividualmente, ossia in qualunque forma di azione o
di in/Iuenza che si eserciti cosi dalla società come da ciascuno dei
singoli, subordinassero universabne^ite e costantemente qualsiasi altro
motivo o desiderio al desiderio della giustizia. E se supponiamo che con
un procedimento analogo a quello tenuto dall'ecoiioinia pura (1) il .sistema
Hi l'elazioni che iji avverei'ebbe nell'ipotesi, e già deteterminato,
noi avremmo una scienza pura della giustizia -una diceologia » piD'a,
alla quale sarebbei-o totalmente applicabili le considerazioni circa i
cai'atteri e le limitazioni che pi'esenta una costi'uzione
siffatta. Ili, Posto, adunque, che fosse costruita (questa Scienza
pura della giustizia, si poti'ebbero muovere ad essa, fondandole
sulle limitazioni notate, tre obbiezioni capitali: di essere una
costruzione aì'bitraria, oziosa, e, in ogni cas(ì, monca. Di queste
obbiezioni occoi're chiaiMre la portata. L'arbitrarietà della costruzione
supposta pU(') essei'e intesa in due sensi. Nel senso che la validità
delle norme che se ne ricavano è relativa alla validità del postulato, il
cui valore è bensì assunto come un DATO DI FATTO, ma senza una ragione
perentoria che obblighi ad accettarlo; oppure nel senso che è difjbrrne
dalla realtà e insussistente l’ipotesi di una condotta subordinata
universalmente e costantemente all'esigenza della giustizia. Se si
intende 1' arbitrarietà nel primo senso, qualunque dottrina etica è aidjitraria
; perchè il valore del postulato fondamentale (ossia del motivo, o del
tine, o del [L'economia dà al postulato edonistico – e EUDEMONISTICO _un
contenuto materiale determinato considerando come soddisfazioni le
soddisfazioni di certi bisogni. e come sacrifìci certe privazioni e certe
pene; mentre al postulato della giustizia il contenuto materiale, al
quale se ne deve fare l'applicazione, é dato (la tutte le specie
d'attivuà o da tutte le categorie di fini (esclusi soltanto quelli la cui
ricerca o proseguimento importano la negazione del principio regolatort^
supposto) che in una società data sono possibili. ili criterio di
valutazione) quale si sia, è sempre ammesso assunto, ossia si suppone o
si ammette che sia riconosciuto come tale; e nessuna dottrina etica può
compiere il miracolo di obbligare a.l accettarlo. Perchè, la ragione
perentoria se è una ragione, non può consistei-e che nel ricondurre il
valore del postulato a quello di un altro fine o di un'altra esigenza
ulteriore, della quale si ammette o SI suppone ancora che la validità sia
riconosciuta. E se si dice che è propio del fine o dell'esigenza morale
il presentarsi alla coscienza come un valore che non si può disconoscere, si
auìmette che questo carattere è già dato nel fatto stesso che l'esigenza
è riconosciuta come morale; anzi che il motivo vale assolutamente,
appunto perchè vale come morale; il che vuol dire che impone il proprio
valore solamente in quanto la coscienza lo accetta, e che è sempre in
ultima analisi il valore morale dell'esigenza che é preso come un dato
primo o come un postulato. Se si intende dunque in questo senso,
qualsivoglia dottrina etica è, perchè etica, arbitraria. Se poi si
pone come caratteristica del valore morale la possibile validità
universale della MASSIMA corrispondente, nessuna esigenza è piti
radicalmente universale di quella che esprime la CONDIZIONE stessa di
questa POSSIBILITA. Che all'esigenza assunta sia o no riconosciuto
in effetto valore morale, ossia che il postulato corrisponda o non
corrisponda e più o meno adeguatamente a un dato della realtà psicologica
rivelato dall'analisi della coscienza morale, è una questione diversa. E
se l'arbitrarietà s'intende in questo secondo senso, come difetto totale o
parziale di questa corrispondenza, essa consiste, nel caso nostro, non
nel considerare come morale l'esigenza della giustizia, ma neir assumere
questo motivo come il motivo morale. fi JH^ffriaililf».W'.ifc^ ] menti'e
la realtà empirica ne pi*esenta anche altri ; e nel considerai'lo isolato
da questi, mentre nella realtà sono più o meno strettamente connessi e
coopei'anti o contrastanti con q ìlei lo. Non ho nessuna ditlicoltà
a riconoscere che la costruzione supposta è, anche per questo ris[)etto,
arbitraria ; al modo stesso che è sempre pili o meno arhiti'ario
qualunque sistema di deduzioni ricavate da un' ipotesi. Ma un'
arbitrarietà di questo genere non implica nessuna fallacia finché non si
pretende che essa espi'ima la i*ealtà del mondo mt) l'ale dato ; e la
costruzione si dà per quel che è, cioè per una scienza che sai-ebbe la «
vei'a scienza » della morale com' è, se le condizioni dell' ipotesi
rispecchiassero la realtà — Intendo quel che si può dire: — Perchè
supporre che il motivo egemonico sia la giustizia, e non un alti'(\
poniamo il motivo altruistico – GRICE: OTHER-LOVE? 0, meglio, perchè non
assumere come motivi morali, o l'ispondenti all'esigenza morale, tutti i motivi
che la realtà psicologica l'ivela valere in effetto come tali? La
l'isposta all'una e all'altra domanda non è diffìcile. L'assumere
come rispondenti all'esigenza morale i critei'i molte[)lici che si i-ivelano
nelle norme empiricamente date come morali costi'ingerebbe in ultimo ad
assumere l'esigenza stessa moi'ale come in sé contraddittoria e a
costi'uire non una scienza, ma una veste d’Arlecchino. Perchè la morale
empii'icamente data rivela criteri non di rado opposti, e del medesimo
ci'iterio le applicazioni più artificiose e vai-iabili. Ora, che l'esigenza morale
possa U) Tralasciando pure di insistere, come lio già osservato
altrove, perchè è cosa troppo nota, sull'antitesi fondamentale esistente
tra le norme di condotta che valgono come morali rispettivamente nelle
condizioni di pace e di guerra, e sui contrasti, tragici talvolta, tra i
doveri famigliari e i do co„,poru,.e criter,, ì,ver.i e anche opposti,fi
val,„az,one senza cessare di essere morale, s, potrà aocl.e
ammettere (purché s, s.a disposti ad accettarne le conseguenze;; ma
che si possa, assumendo criteri contraddittori!, costruire una dottirina
coerente, non si può sostenere. Bisogna dunque scegliere; e la scelta,iel
motivo della giustizia, se è arbitraria hi quanto e seella,U uno fra
più "on e arbitraria in guanto mandnno le ragioni della scelt..
Poiché è facile rilevare che il motivo delia giustizia e 'I solo al quale
si possa supporre che risponda in effetto universalmente e costantemente
tutta la condotta senza che l’osservanza da parte degl’uni richieda o
presupponga l’inosservanza da parte degli altri. L'altruismo (GRICE OTHER LOVE)
non potrebbe essere oss.Tvato universalmente, se non a patto che fosse
subordinato alla sua voka a mia norma di giustizia. Infatti, affinché sia
possibile I abnegazione e la rinuncia incondizionata di sé agl’altri, veri
sociali, bisogna osservare che le „or,„e date e accettate come
morali o.o,.o contemplare e contemplano realn.ente, almeno parte, de„e
rela wL; T ',•'^i" "> S-iadi relazioni pr.ma,,e
e fondan.entah, che le „orn,e non contemplano e che sono la negazione del
crueno applicato in qne.le norme. Mi sia lecito spiegarmi e „
ruiieTau: r"'T, t"'-^
I iano i In ""'. '^ cercare,,uale a qu le concila
la minima fatica del primo col minimo disagio del secondo crueno seguito
qu, é un criterio d’EQUITA. Si riconosce ciocche non sa omodi;e tutte
le comodità per se senza tenere in conto le comodità dell'altro. .Ma se
questo crueno (seguito nello stabilire la condotta migliore, Jata,,uella
conLol <i.ve,.a de, due, fosse applicato a determinare la rela.one
t,-a i due p,Jl Z^JT'"P~« e portato, questa .:J^::Z TorT
"T"»™"'--^^ colle p,.opr,e gambe. Ossia la norma
nor. le regola nel caso supposto un rapporto che non esis,e,.ebbe, o
sai-ebbe tutto d,verso, se essa fosse applicata al sorgere di quel
.-apporto NH itì'i^tli^ì-. Hif
^••s«ì»?T<P7** Ifi bisogna chf^ gli nni si .saci'ifichii)0
e gli altri o qualche alti-o accattino il sacnfi/io ; cioè bisogna che
gli uni os^or vino LA MASSIMA (lell'altruismo, e gli altri o qualche
altro quella dell'egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba poter
saci'ifìcarsi più di un altro qualsiasi (lasciando di osservare che in
tal caso praticamente i sacrifici si eli<le rebber.)) fiisogna che la
condottta altruistica di ciascuno non impedisca una pari condotta
altruistica degl’altri. Cioè bisogna che fattività altruistica alla sua volta
sia governata da una norma di giustizia. Ciò viene a dire che la
famosa formula kantiana, se si considera nella possibilità della sua
applicazione simultanea per tutti a tutta la coìidotia e.sterna non è
suscettiva d'altra inter[)retazi()ne che di massima univeisale di
giustizia nel senso sopra chiarito. In un Saggio originale e sucrgestivo,
che vale bene più di qualche grosso volume inconcludente, CALDERONI (si
veda) illustra una concezione
economica della morale (che non tocca in nulla, benché a prima vista
sembri antitetica, il concetto qui esposto) nella quale egli osserva
giustamente come la maggior parte delle azioni virtuose non siano
considerate come tali se non perchè sono prodotte in quantità inferiore
alla domanda; e son per noi un dovere appunto perché gli altri uomini non
le lanno,' e rimangono tali a condizione che non siano troppi gli uomini
capaci e volonterosi di imitarle. E trae da questa considerazione la
conseguenza che la formula di Kant è del tutto inapplicabile. Ora è
certo che Kant intende di parlare di validità universale del motivo a cui
si informa l’azione. che può essere quindi variabile secondo le
circostanze, pur rimanendo il medesimo il motivo che la detta; e che non
può richiedere uniformità di condotta esterna se non nel caso che si
tratti della medesima attività esercitata nelle medesime condizioni
esterne. Ma (juando m supponga avverato questo caso, si troverà che l’unico
motivo, il quale comporti uniformità universale di condotta è il motivo
della GIUSTIZIA; e che intesa così, la formula di Kant resiste alla
critica anche dal punto di vista di CALDERONI (si veda) Disarmonie economiche
e disarmonie morali, Firenze, Lumachi. La marginalità nella Morale. Assumetelo
dunque, se cosi vi piace, codesto vostro postulato, e costru.tevi la
vostra . Scenza pura della giustizia. Cile ne farete poi? A che c<,sa
propriamente potrebbe servire costruita elle fosse, non si può con
esattezza determinare,n precedenza. Si potrà vedere, nel caso, quando sia fatta
o pi ut "«to, a mano a mano elle si venga facendo. Troppe ricerche .
el resto non si farebbero se si aspettasse di averne diino strato 1 utilità; e,li
troppe altre, risultati portarono frutti <lel tutto remoti da ogni
previsione. E dato pure che riuscisse inconcludente, nessuno tiirà che «ia „é
la prima „ó u'iica,n questo genere, specialmente nel campo della
morale. E t,.a le molte curiosità, perchè non dovrebbe trovar posto anche
questa :,ii sapere come andrebbero le faccende di questo mondo se gli
uomini si decidessero ad essere tutti e sempre e in ogni contingenza
della vita so liratutto e prima di tutto giusti? M.-i è pur naturale
d'altra parte che debba intravederne almeno qualche possibilità,li
applicazione eh, la propone e che ne debba dire qualche cosa. Le
applicazioni possono essere principalmente due: come mezzo di
interpretazione o di sistemazione scientifica della realta morale,lata; e
come fondamento di una disciplina precettiva, ossia di un'etica applicata
della giustizia. Se l’osservazione psicologica dimostra che è arbitraria,
l'assunzione del motivo della giustizia come unico motivo morale,
dimostra pure <die quel valore gli è però realmente riconosciuto: e
che se non ., riconduce ad esso effettivamente ogni
valutazione ^nica, esso entra però come elemento o fattore di valutazione
in qualunque giudizio morale. Può essere dunque opportuno, a uno scopo di
sistemazione coerente delle norme effettivamente vigenti, conoscere quali
sarebbero se questa esigenza operasse isolatamente, cioè se tutte si
ispirassero unicamente ad essa; e considerai-e, con un artifizio di
cui tutte le scienze offrono innumerevoli esempi, come deviazioni
limitazioni risultanti dalla presenza di alti'i motivi, le norme che non
coincidono con quelle astrattamente dedotce. Sarebbero, per un
vei'so, da considerare come tali le norme della condotta politica interna
ed esterna ispirate dall'interesse dello Stato, o del maggioinumero, o di
una classe, in quanto al rispetto di queste esigenze sia attiibuito
valore morale. E sarebbe, peiun altro vei'so, possibile interpi'etare le
norme della BENEFICENZA come espressioni della stessa esi-genza della
giustizia, in quanto si considerano rivolte a sanare o a lenire gli
effetti che ne accompagnano 1' inossei'vanza, e le deviazioni o le
limitazioni. Ma l'applicazione più rilevante riguarderebbe l'Etica
propriamente intesa come disciplina normativa. La scienza pui'a della giustizia
appunto perchè considera già raggiunte e attuate tutte le condizioni
richieste dalla esigenza che essa postula, ossia, in termini
equivalenti, fa astrazione da ogni circostanza interna od esterna
che ne impedisca o ne limiti 1' efìTicacia, configura un sistema di
relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè formula Sarebbe
possibile per questa via togliere, dico nella trattazione teorica, certe
contraddizioni o antinomie davanti alle quali si arrestano solitamente i
filosofi quando ne determinano l’esigenze razionali delle leggi, le quali
possono valere come tali soltanto nelle condizioni contemplate dall' ipotesi,vale
a Hn^e non sono suscettive,li applicazione, sic et simpliciler, a
condizioni iliverse. Ma se si ammette che T onime di relazioni
ipoteticamente costruito abbia valore di fine, cioè se si ammette come
normativa l'esigenza della giustizia, vi sarà luo-^o a cercare e a
.leterminare (bencbè questa determinazlne debba riuscire, come è facile
prevedere, assai difficile e complicata) quale sia in condizioni reali
storicamente date la condotta, die nei limiti imposti da queste, è ini,
atta a favorirne la trasformazione nella direzione segnala dalle
condizioni ideali contemplate nell'ipotesi. Ossia si potrà ricavarne un'etica
applicata della Giustizia, alla quale la realtà storica fornirà la
conoscenza delle condizioni tra le quali si deve spiegare e dei
mezzi ai quali deve ad.-guarsi, per essere praticamente efficace la
condotta rivolta a quel fi ne ; cosi come darà la conoscenza 'Ielle varie
specie di attività che l'esigenza .iella giustizia e chiamata a regolare;
cioè darà, volta a volta, alla forma <lella giustizia il contenuto
materiale. E le norme, cosi ricavate da questa applicazione a
una realtà data delle leggi .Idia Giustizia pura, saranno valide, se
SI accetta come fine morale prossimamente supremo, cioè precedente a ogni
altro fine generale e speciale, l'attuazione del sistema di relazioni
contemplato da quella, e come morale la condotta corrispomlente. Cosi
questa Etica applicata, come la Scienza Pura dalla quale essa si ricava,
è indipendente da qualsiasi dottrina metafisica, ma non pretende di
sostituirla. Ignora i problemi metafìsici ; ma nel senso che non no
richiede e non ne assume una certa soluzione piuttosto che
un'alti*a; non nel senso che ne neghi l'esistenza o ne escluda la
trattazione. Ilimane di fronte ad ossa iinpi'ogiudicata, e da essa
distinta, ogni questione sulla natura e sul fondamento ukinìo dell’esigenza
stessa morale; così come rimane impi'egiudicato il pi'oblema pratico, o
pi'opriamente psicologico e pedagogico, intorno al valoi-e e all'
efficacia delle credenze religiose o metafìsiche come condizioni o
fattori sof^^-jcttivi dolla moralità. Ma, ciò nonostante, o forse appunto
pei'ciò, è verisimile che sia giudicata, specialmente alla stregua delle
tendenze più apei'tamente dominanti nel p(insiei*o
contcmpoi'aneo, doppiamente monca; monca considerata come dotti'ina;
monca considerata rispetto alla efficacia pratica. a) Cei'tamente
può parere strana se non ingenua Tnlea di segnai'e una divisione di
competetjza tra T indagine scien tifìca e rin(iagine proprianifMite filosofìca
e metafìsica, men ti'e pai'e di assistere a una specie di atto di
coiitrizion<' delle stesse scienze speciali già formate; le quali,
dopo essersi staccate e aver pi'oclamato la loro indipendenza dalla
filosofìa, sentono il bisogno di ritornare ad essa e di rintracciare in lei le
origini della loi'o vita e la ragione del loro valore. Tuttavia una
considerazione un po' più attenta può mosti-are die il contrasto è
soltanto a})parente e che la tendenza delle scienze speciali all'
inter|)retazione e alla integrazione filosofìca dei loro presupposti e
dei loro risultati non esclude, ma piuttosto include, la legittimità di
una distinzione anche nel campo delia morale. Perche essa }) resuppone appunto
che le scienze abbiano i ÌOt'O postulati, i loro metodi i Ioì'O
risultati, e che i sistemi speciali di dottrine cosi edifìcati sussistano
ed abbiano una validità propria, sia pure limitata e provvisoria,
all'infuori dell'interpretazione e della valutazione che ne debba o ne
possa fare la metafìsica. In questa specie di Conferenza permanente dell'
Aia (sia detto senza intenzioni maligne) che è la mutua collaborazione
delle diverse discipline alla critica e alla integrazione del sapere e
del valere umano, sono gli Stati che hanno territorio e giurisdizione propria
che possono far sentire la loro voce. I delegati della Corea sono
esclusi. Intendo quello che si può dire. La morale è essa stessa la
metafisica, e pone essa le esigenze alle quali è subordinata la
valutazione di tutte le altre discipline dei loro principii e delle loro
conclusioni. Fosse pure, o, piut tosto, dovesse pure essere cosi. Quali sono
queste esigenze della morale? Come si determinano ? Qual'è, fra i
molti sistemi diversi opposti e anche contraddittorii, quello autorizzato
a rappresentare « la morale *, e a far valere le sue esigenze come
esigenze ideila morale *ì E se si può distinguere una esigenza immediala
e caratteristica, dato che SI trovi, della valutazione morale, dalle
esigenze ulte non, argomentale o poste da questo o da quel sistema
per interpretarla o giustificarla, allora è nello stesso tempo data
la distinzione tra esigenza propriamente morale ed esigenze avanzate,ia
una interpretazione o integrazione metafìsica della esigenza morale; e si
delinea insieme una separazione legittima tra l’indagine che cerca di
risalire dall'esigenza morale ai postulati metafisici, e l'indagine che
ricava dall'esigenza morale le applicazioni che logicamente ne
discendono. Ma, nella realtà viva e vissuta della coscienza,
valutazione morale e valutazione metafisica formano un tutto unico; e
separando l'esigenza etica dalla fede metafisica colla quale è fusa e della
quale si alimenta, s, è spezza r unità della coscienza, si
oscura o si cancella il signitìcato e il valore interiore della moralità,
e si presenta come vita morale lo scheletro o, meglio, lo stampo esterno
e quasi l'impronta fossile dell'atto morale. Sarà verissimo; ma nessuna
costi-uzione dotti-inaU può sfuggire a questa obbiezione. Tutto ciò che
la logica tocca e che è fatto oggetto di conoscenza riflessa e i-agionata
diventa perciò stesso un tipo, uno stampo, un fossile; anzi stampo
è la parola, stampo ò la stessa rappresentazione artistica se non è
vivificata e i-isvegliata da chi la deve intendere e gustare; anzi sono
diventate ormai stereotipe, per colmo di evidenza probativa, perfino le
fi*asi e le immagini usate a mostrare la « i-icchezza e la varietà
inesauribile della coscienza e delle sue ci'eazioni. E quanto al
sepai«are nella teoria ciò che nella realtà è unito, bisogna pur
rassegnarvisi. Pei'chè ogni nctM'ca è prima di tutto distinzione,
sepai-azione, asti'azione; il fatto stesso, ogni fatto (diceva già un
chimico, Chevreul) è un' astrazione. Ciò che importa veramente è di non
dimenticare che l'astrazione non è tutta la realtà. Ora, sceverando dal
complesso degli elementi, onde la vita etica nella coscienza personale
iMsiilta o può risultare, quello che è suscettivo della più universale
applicazione, e costruendo il tipo di vita che ne risulterebbe, non si
pretende di esaurire il contenuto della coscienza, ma soltanto di
distinguere le norme di condotta a giustificare le quali basta uu certo
postulato, dalle norme e dalle forme di vita morale che si fondano sopra
altre esigenze ossia l'ichie dono altri postulati. E chi crede che la
chiarezza dei concetti e il l'igoi-e del procedimento si debbano
poi'iare, fin dove è possibile, anche nella speculazione etica,
ammettei-à che può essei-e que utile allo scopo, se non anche
necessario, il seguir( sta via. Rimangono altri problemi. E chi lo nega?
Ma prima condizione per cercar di risolverli con frutto è di non
confonderli tra di loro. E nasce da una confusione di problemi
diversi l'obbiezione, che si potrebbe dire pragmatistica, del
difetto di efficacia pratica, o più esattamente parenetica o pedagogica,
di una dottrina morale che faccia astrazione da ogni valutazione
metafìsica, e presenti un sistema di norme che ha di necessità soltanto un
valore ipotetico, cioè, nel caso nostro, condizionato al valore che può
avere nella coscienza il motivo impersonale della giustizia. (lì Le
espressioni di più d' un antiintellettualista indurrebbero 4uasi ad
ammettere che la morale sia una specie di grande imbroglio, nel quale a
voler vederci chiaro, si finisce per non credere più. Ora, altro è
riconoscere Cile ogni valutazione é in ultimo data alla intelligenza e
non dalla intelligenza, e che nessuna conoscenza e nessun ragionamento può far
volere un fine che non sia già voluto, o per sé, o come condizione a un
altro finealtro è credere ed aOermare che l’intelligenza o la ragione sia
in contrasto olla moralità. Come potrebbe essere? Non certamente in
quanto si rivolge a determinare 1 mezzi necessari e convenienti a un
fine. Nel qual caso non è nemica, ma ancella della volontà in generale,
e, se la volontà é « buona ». della volontà morale. Non potrebbe essere,
dunque, se non in quanto toglie o muta la valutazione del fine (cioè delP
oggetto o contenuto materiale del motivo morale) mostrandone \^ connessione,
prima ignorata o trascurata, con qualche cosa d' altro, che sia oggetto
di una valutazione diversa; diciamo, per comodità, negativa o repulsiva. E
allora, poiché la valutazione di questo qualcosa d'altro non può venire
dall' intelligenza (la quale, come si sa. chia risce rapporti, non dà valori),
manifestamente non si possono dare che due casi: ha origine
nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà fatto che mettere in
chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto conforme, sia in
realtà più o meno disforme in forza della connessione notata. Ma ciò non
Poiché è uggioso a se e agli alti-i l'ipetere cose già dette, e su questo
punto ho insistito a lungo altrove, mi restringo qui a riafTermare la
legittimità, anzi la necessità logica e la convenienza morale, di teneiseparata
netta mente ogni ricerca che si volge a detei-minare quali siano le norme
di condotta richieste da un certo fine, dalla ricerca delle condizioni e dei
fattori dai quali dipende o può dipendere l’osservanza delle norme. La
legittimità delle deduzioni, dato che ci sia, e la validità dei precetti
rispetto al fine sussistono indipendentemente dalla presenza o
dalla assenza dei motivi che ne persuadono o ne impongono l'osservanza, e
dalla natura di questi motivi. Come il contenuto e la giustificazione delle
prescrizioni d'un medico non dipendono dalla disohbedienza o dall'
obbedienza dell' ammalato nò dalle ragioni di questa obbedienza.
tocca in nulla il valore e l'efficacia del motivo morale. Ammettere il
contrario sarebbe come dire che cessa di amare la giustizia chi cessa di
difendere una causa che ha riconosciuto ingiusta. ha origine in un
motivo non morale (poniamo in un interesse egoistico); e anche qui l'
intelligenza non farebbe che rivelare una condizione di fatto : la
presenza e Tefficacia di motivi non morali nella valutazione dei fini e
:lella condotta. La conoscenza dunque, anche in questo caso, non altera
il valore del motivo morale; può eventualmente mostrare che il valore e l’efficacia
sua non è esclusiva, o incontrastata come si supj)oneva. Ma correggere un
errore di giudizio non é cambiare uno stato di fatto. Potrebbe dunque,
tutt' al più, togliere un' illusione. Ma è nell' illudersi d'esser morali
che consiste la moralità? Questo conformarsi o non conformarsi si suole a
torto, per abuso di linguaggio, attribuire a una pretesa efiicacia
pratica delle norme; mentre le norme perse hanno, a promuovere l'azione
corrispondente, una efficacia non maggiore di quella che abbiano i fanali
di una strada a muovere le gambe dei nottambuli. E un simile abuso di
linguaggio, che nasce da un difetto d'analisi, ha alimentato la confusione
tra esigenza giustifica tiva e esigenza esecutiva, tra l'obbligo e la
giustificazione dell'obbligo, e la pretesa illusoria che una norma possa
o debba avere in sé forza obbligativa. Cfr. Prolegomeni ecc., e. I:
(L'esigenza esecutiva) ; e Studi su la possibilità (La pregiudiziale
dell'imperativo categorico). La reale presenza ed efficacia di motivi
«ufficienii a determinare T osservanza è in ogni caso si>,pposta,
non . posla da qualnnque costi-uzione precettiva; e il «„ppori-e
operativo d motivo della giustizia non esclude, ma piuti tosto include,
una ulteriore valutazione del motivo stesso ' ogniqualvolta nella realtà
esso derivi in tutto o in parte la sua forza da questa
sopravalutazioiie. Ma anche in questo caso non bisogna dimenticare
che una tale efficacia .sarebbe sempre essa stessa posMata come un
dato di fatto, non comunicata o la,-g,la da una fon.ìazione qualsivoglia.
Perchè anche una fondazione religiosa o metafisica non pone essa le credenze,
ma le sup. pone già viventi e .operanti. Il suo valore come motivazione
morale dipende dal valore reale che esse hanno nella coscienza, dalla
loro forza operativa. Essa fa appello a questa forza, ma non dà, essa, la
forza; ossia vale,,el i ipolesi che valga in effetto nella coscienza la fede
nei dati assunti da lei. E se questa fede mancasse, una fon <iaz,one
metafisica o religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla condotta una
efficacia non diversa né maggiore di qualsi voglia costruzione arbitraria. Senonchè
si potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare che SI,ie^e appunto volere
quella fede dalla quale si può aspettarsi l'incremento del motivo morale,
e che, poiché SI tratta di optare, conviene dal punto di vista'
pratico optare per una fede moralizzatrice. E compito del
moralista «ara perciò di affermare e suggerire quella fede come
presidio e cnforro, utile se non necessario, della moia l'tà, e presentare la
dottrina morale connessa e incorporata con quella fede. Su un discorso di
questo genere ci sarebbero da .lire molte' cose; notiamone poche. E
prima di tulio convien pur ripetere che un tal compilo. t^ 1 fc m (lato che spetti al inoi-alista,
^Hi spetta in quanto è o pretende (li essere educatore o apostolo, non in
quanto si propone di cercare quali concernenze ini[)liclii l’accettazione
di un cei-t() postulato e si contenti di atierniare che chi accetta il
postulato deve accettai-e le hoimikì che ne discendoiHi. I due uffici non
si identificano ; chi ha slo//(i di ricercatore può non avere
stoft";i di a[)()stolo o di avvocato ; e potrehhe in og"ni caso
invocare aiiche qui il principio delhi divisione del lavoro. Ma dal
[)unto di vista stesso pedagogico la tesi è tutt' altro che incontestahile.
Suggerire e infondere una fede! E presto detto. Ma in che modo o per
(jual via? Partendo dall'esigenza pratica per arrivare alla credenza, cioè
presentando la fede a[)punto come sostegno e guarentigia della ni orai
ita? Lasciamo pui'e di indagare se con ciò non si nega in effetto,
neir atto stesso che si afferma, il valore assoluto dei postulati
religiosi o metatisici, dal inoinetito che essi sono affermati o posti
come condizioni o fattori nella produzione di certi effetti, cioè sono valutati
utilitariamente; e se non si offende il sentimento religioso,
considerandolo unicamente come un motivo sussidiano invocato a supplii'e
alla fiacchezza del uiotivo morale. Un pragmatista conseguente potrehhe
non avere (ii «juesti scru[)oli. Ma lo scopo stesso a cui mira il
pragmatista vieti meno in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò
che si vuol produire; ossia si pone a sostegno del motivo morale un
sentimento che vien fondato sopra esso, e vale in forza di esso. Con un
risultato non dissimile da quello che hanno di solito le discussioni ;
dove le rai'ioni usate a sostenei'e un'opinione persuadono soltanto chi è
già persuaso; cioè hanno in effetto tanto maggior [)eso quanto più è
superfluo servirsene. Se si tiene invece una via diversa, e si
intende di edificare la credenza su una educazione propriamente
dogmatico-religiosa, dov'è più la opzione, la affermazione libera e
spontanea della coscienza? E come può il moralista educatore presentare o
imporre come unica e definitiva una iede, o una credenza religiosa o
filosotìca^che egli sappia essere personale e volontaria? La verità
è che mentre nel valore morale (posto che sia riconosciuto) del postulato
che si assume a fondamento della costruzione scientifica, è necessariamente
implicito il valore morale delle norme che ne esprimono l'applicazione,
non è necessariamente implicita l'accettazione di certi piuttosto che di cert'
altri postulati metafisici. Mentre, accettato un postulato di cui sia
possibile r applicazione alla condotta umana, la coerenza logica
basta a dare la legittimità delle norme che se ne deducono, la
coerenza logica n07i basta a porre come necessariamente richiesta da quel
postulato una determinata fede religiosa filosofica ad esclusione di
qualsiasi altra. La salita al cielo dei postulati metafisici non si fa
colle scale della logica. (Il che, come tutti sanno, ha il suo riscontro nel
fatto che possono trovarsi concordi nelT accettare e nell' osservare la
medesima esigenza morale uomini di opinioni i-e ligiose e filosofiche diverse;
come, inversamente, può la stessa fede religiosa e filosofica
presentarsi, nella realtà storica e psicologica, connessa con norme
morali discordanti). E la libertà dì coscienza sarebbe una frase vuota
di senso o piena di immoralità se il voler la giustizia e Tesser giusti
richiedesse o l'esclusione di ogni fede o l'accettazione della medesima fede. ài
fondata da Sen. C; Rivista Filosofica VRLO Cantoni. La Possibilità
l I e i Limiti MORALE STUDI TORINO. BOCCA. In questo volume
sono raccolti tre scritti pubblicati in più riprese nella Rivista
Filosofica diretta dal mio indimenticabile maestro ed amico CANTONI (si veda),
al quale il profondo e tenace convincimento delle proprie dottrine
non tolse mai di rispettare e stimare sopra tutto, anche nei discepoli,
la lil>ertà e la sincerità. Benché diversi di titolo, i tre studi che
ora ripubblico riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del
medesimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, ciascuno dei successivi,
i precedenti. Anzi il primo dì essi è, alla sufi* volta, continuazione
di un altro pubblicato anteriormente col, titàlol Prolegomeni a una
morale distinta dalla metafisica; nel quale è esaminato il problema della
possibilità di un’ Etica normativa indipendente da qualsivoglia
soluzione, positiva o negativa, dei problemi di natura metafisica. E
perciò spero di essere scusato se mi riferisco qualche volta anche ad
esso ; e se in in questo volume sono lasciate in disparte, o trattate con
brevità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune questioni delle quali
s’è già discorso in quello. Anche to' importa di avvertire, sempre a proposito
dello Studio La dottrina delle due etiche di Spencer e la morale
come scienza, che — se nella esposizione sia generale, sia particolare,
della dottrina esaminata, ho cercato studiosissima mente dì rendere
intiero ed esatto il pensiero dello Spencer — nella critica ho
considerato la dottrina dal punto di vista speciale additato dall’intento
essenzialmente teoretico che assegnavano a questa ricerca le conclusioni
dello studio precedente. E per questa ragione ho tralasciato
deliberatamente non solo qualsiasi digressione, ma ogni discussione che
non fosse strettamente necessaria allo scopo mio particolare. A ciò si deve la
mancanza quasi totale di accenni alle critiche anteriori, anche dei più
valorosi. Pavia. e la Morale come Scienza. Movente etico-sociale
dell’opera dello Spencer. Conseguenze nella valutazione delle suo dottrine. La
Dottrina etica in generale. Il concetto informatore. La distinzione delle due
Etiche. Il metodo dell’ Etica. dati dell’ Etica. Soluzione dell’ antitesi
tra fine e metodo, e possibilità di conciliazione fra i dati dell’ Etica.
La dottrina delle due Etiche. Due questioni fondamentali, attorno a cui si
raccoglie la dottrina. Il giusto assoluto. Il giusto relativo.
Errore comune nel modo di concepire la condotta ideale. La priorità
scientifica dell’ Etica Assoluta sull’Etica Relativa. Confronto colle
altre scienze. Critica Preliminare : Le Questioni Pregiudiziali e il
preconcetto dal quale hanno origine. La pregiudiziale dell’imperativo
categorico Partizione della Critica. L’imperativo categorico. L’obbligo e la
giustificazione. La progiudiziale dell’ obbligo categorico è estranea
alla determinazione e alla giustificazione della norma.In che consista
la differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni
precettive. Compito dell’ Etica. La pregiudiziale, .sul modo di intendere
il compito normativo dell’ Etica. La progiudiziale sul compito
normativo dell’Etica. Come esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti.
Due presupposti arbitrari comuni ad ambedue: che le norme siano già
determinate e note. che si accordino fra di loro. Necessità di un
criterio per la determinazione. La soluzione dell’indirizzo sociologico Suo
difetto capitale: non vale a giustificare le norme. La soluzione dell’
indirizzo prammatistico-idealistico. Difetto capitale: la costruzione
metafisica postulata, come qualsiasi costruzione metafisica, non serve a
determinai e 10 norme. Il preconcetto fondamentale Presupposto comune
ai due indirizzi. Da questo nasce l’antitesi tra esigenza scientifica
(determinazione) ed esigenza etica (giustificazione). Legittimità di
porre il piobleina in una forma diversa. Conclusione della Critica
Preliminare. La dottrina delle due Etiche e le esigenze di una
scienza normativa morale. Il criterio del limite dell' evoluzione e
dell’adattamento completo non serve a determinare il tipo di condotta
cercato . Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la validità
dell’ una non dipende da quella dell’ altra. Il tipo di società
giusta non è determinato dal limite dell’ evoluzione. Nè dall’ adattamento
completo. Su quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga
nella costruzione dello S. il postulato dell adattamento
completo. Il criterio del piacere puro, corrispondente
all’adattamento completo, non serve a giustificare il tipo di condotta proposto.
Il piacere puro non può essere il criterio della massima DESIRABILITA. La
questione del fine e dei fini Soluzione illusoria trovata nel termine
felicità e altri equivalenti. Equivoco nell’identificazione dell’ oggetto
dell’ attività col piacere. Quale possa essere il fine che soddisfa alla
doppia esigenza della determinazione e della giustificazione delle
norme. Il tipo di società giusta dello Spencer. Come concepisca la società
giusta Spencer. Presupposto illegittimamente assunto dalla biologia.
Difetto fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c
il tipo della società giusta. Difetto che ne deriva nella relazione tra
giustizia e BENEFICENZA. L’ individualismo dello Spencer e il postulato della
giustizia. Ufficio e limiti di una costruzione scientifica dell' Etica. Come
debba concepirsi un tipo ideale di società giusta. Etica Pura ed Etica
Applicata. Conclusioni della Critica. Presupposto fondamentale, e
carattere ipotetico dell’etica come scienza normativa. Pubblicando I
dati dell’Etica prima che fossero composti il II e il III volume
dei Principii di Sociologia, Spencer giustifica questa deviazione dall’ordine
del suo programma col timore di non poter compiere l’opera finale della
serie: I principii di Etica. Degli indizi che in questi ultimi anni si ripetono
con maggior frequenza e chiarezza m’hanno avvertito che la salute, se non
la vita, mi può venir meno per sempre, prima che io compia l’ultima
parte del compito che ho assegnato a me stesso. Quest'ultima parte è
quella per la quale io considero come sussidiarie tutte le parti precedenti. Il
mio primo Saggio su L’Ufficio proprio del Governo indica vagamente il mio pensiero
intorno a certi principi generali di bene e di male nella condotta
politica; e da quel tempo in poi il mio fine ultimo, lasciando indietro
tutti i fini prossimi, è stato quello di trovare una base scientifica ai
prìncipi del giusto e dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua
estensione. Lasciare incompiuto questo fine, dopo aver fatta una
preparazione cosi ampia per raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui
probabilità non posso pensare senza sgomento e_sono ansioso di evitarla,
se non del tutto, almeno in parte. The Principles of Ethics. London Qualche
cosa di simile alla catastrofe preveduta sopraggiunse infatti; perchè
dopo un lento decadimento e indebolimento progressivo egli fu costretto a
sospendere qualsiasi lavoro. Fortunatamente potè riprenderlo: ed anche
allora, la sua prima preoccupazione fu quella di compiere i
principi di Etica; e pose subito mano a quella parte della Morale, che
dopo i Dati gli pareva più importante: la IV a Giustizia. Colle parole e
col fatto egli mostrava dunque che Tintento supremo al quale
consapevolmente convergevano tutti i risultati della sua speculazione, era
u n intento mor ale. Par che riecheggi in lui la voce di Spinoza: Finis
in scientiis est unicus ad quem omnes sunt dirigendae. E in p
realtà, come le idee madri della sua teoria pene¬ trano e illuminano
tutti gli scritti suoi, anche i minori, così vi circola dentro e li
riscalda il soffio vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina
dell’evoluzione, par che diventi nel suo pensiero sopratutto la
comprensione del processo naturale e necessario che produrrà in un
avvenire lontano ma sicuro una umanità giusta e felice. Animata cosi di
speranza, la dottrina prende colore di fede. E veramente egli la
professò come una fede; non soltanto visse per la sua dottrina, ma visse
la sua dottrina. E i prin [. (wlien first iss. sep.) De. Intell. Emend.]— cipi
che pone a fondamento della morale e del diritto, € di cui vuol
trovare le ragioni nelle leggi stesse dell’universo, ispirano e governano
con indomita costanza tutti i suoi giudizi e tutte le sue opinioni,
da quelle sulla Educazione a quelle sull’Etica delle carceri, dalle idee
sulla Morale Politica Assoluta alle proteste contro il « br igantaggio
politi co », dalle ironie contro «la Sapienza collettiva» a quelle
contro « i diecimila sacerdoti della religione d’amore che! non
apron bocca quando la nazione è mossa dalla ' religione dell’odio.»
Quell a unità e solidarietà di principi teorici e pratici, p er cui la sua mora
le si presenta come s cienz a ella sua scienza come una morale, e
questo continuo cimentare che egli faceva i suoi principi con tutti
i problemi più vivi del suo tempo, onde la sua dottrina pareva prender
veste di programma sociale e politico, hanno certamente contribuito a produrre^
questo doppio effetto: che la preoccupaz i, morali' si insinuasse anche nella
critica delle sue dottrine teoriche; e che l’opera sua, considerata
prevalentemente, se non talora quasi esclusiva mente, come l’espressione di
certe tendenze e di un certo indirizzo religioso morale economico
politico, apparisse, col prevalere di tendenze e di aspirazioni diverse,
invecchiata c oltrepassata di più, e più presto, di quel che altrimenti sarebbe
apparso. E cosi potè facilmente accadere che anche
certi principi, certi metodi e certe ipotesi fossero lasciati in
disparte, o si stimassero superati e come logori e fuori d’uso, non
perchò se ne fosse mostrata la falsità o la infondatezza, ma perchò apparivano
connessi e solidali con quel sistema o quell’indirizzo che si giudicavano
superati. Ora se è vero che a intendere il significato e il
valore di una dottrina particolare è necessario considerarla nelle relazioni
col sistema di dottrine di cui fa parte, non è perciò meno legittimo
considerare se essa possa aver valore e segnare un acquisto, anche
all’infuori della validità di quel sistema e di quelle altre dottrine,
colle quali primamente si svolse. L’intento di questo saggio ó
appunto di esaminare il valore teorico e metodico della distinzione tra
Etica Assolut a ed Etica Relativa; la quale ò bensì, nel pensiero dello
Spencer, parte integrante del suo sistema, ma hg, secondo il mio avviso,
ragione di essere, indipendentemente dall’applicazione che egli ne fa e
dai postulati che l’hanno suggerita. Perciò si divide naturalmente in due
parti: espositiva e critica; la prima rivolta a mettere in chiaro le
ragioni e il significato della distinzione nella filosofa di Spencer; la
seconda a esaminare la possibilità e la utilità di mantenerla e applicarla
sotto una forma diversa. L’esposizione comprenderà pure
necessariamente due parti: una che richiama, in modo breve
quanto è possibile ma esatto, il concetto informatore e i lineamenti
fondamentali di tutta l’etica; l’altra che traccia più distesamente la
dottrina particolare esaminata. Quella legge di evoluzione, che si
manifesta nell’intero univ erso visibi le, nel sistema solare come un
tutto, nella terra come parte di questo, nella vita in generale, e nella
vita di ciascun organismo individuale, nei feno meni ment ali degli
esseri animati fino al più elevato; qu ella stessa legge si
manifesta nei fenomeni della vita umana e sociale é quindi a nche in quei
fenomeni della condotta, dei quali tratta la morale. In conformità di
questa legge] j^etWnr.< e delle leggi via via subordinate in cui essa
si rifrangevi produce una el evazione^progres siva nelle forme della vita
sub-umana ed umana, la quale si traduce in un adattamento s empre migliore,
più esteso e più durevole alle condizioni da cui dipende
l’esistenza dell’individuo, e l’esistenza della specie; e, dove la vita
sociale apparisca, l’esistenza della società. Per l’uomo adunque
l’adattamento riguarda tre ordini di condizioni; ossia è di tre forme;
e, benché si possa astrattamente considerare ciascuna forma per sè,
tuttavia, per la connessione naturale e necessaria dei fattori dai quali
dipendono, le tre forme d’adattamento nella realtà procedono di conserva
con mutue azioni creazioni continue; cosicché a ogni progresso in una
forma di adattamento corrisponde un progresso nelle altre forme. Il limite,
verso il q ua le tend questo processo, è l’adattamento completo a
tutte le condizioni della vita umana più elevata; per il quale il massimo
svolgimento della vita individuale, e della parentale, e della
sociale, non solo si conciliano, ma si favoriscono a vicenda. Questo
adattamento completo implica non soltanto una perfetta conformità esteriore
dell’operare alle esigenze di una tal vita; ma implica del pari una
conformità correlativa e della struttura, e delle attività, fisiologiche
e psichiche; è insomma ad un tempo adattamento della condotta e
adattamento dei fattori interni della condotta. Quindi anche le
idee, i sentimenti, le tendenze sono, nella loro qualità e
intensità e gradi di subordinazione, pienamente adatti e conformati ai
bisogni e alle esigenze della vita in tutte le sue manifestazioni, e
trovano nelle forme di condotta corrispondenti il loro appagamento pieno
e concordante. che viene a dire che l’adattamento completo attua in sé le
condizioni della massima FELICITA. Adunque, ma ssim a elevazione
della vita, adattamento eoj puleto . massima FELICITA (eudaimonismo – GRICE),
sono per Spencer tre concetti che coincidono; o, meglio, sono faccie o
aspetti diversi di un medesimo risultato finale, ed esprimono il limite
verso il quale tende l’evoluzione della vita umana nello stato
sociale. E’ appunto per q uesta ide ntificazione, che sta in fondo
al pensiero dello Spencer, tra evoluzione e aumento di felicità, che egli
può porre come ottima la cpndotta rispondente al limite della
evoluzione. Perchè Spencer, come è noto, ammette esplicitamente che il
fine ultimo, espresso o so ttinteso, d ell’operare, non può essere che
una forma di coscienza desiderab ile, cioè di piacere; e che la condotta ò
buona nella misura che essa apporta, tenuto conto di tutti gli effetti
presenti e futuri sopra di sè e sopra gli altri, un avanzo dei piaceri
sui dolori. Totalmente buona, dunque, o perfetta, non è che la
forma di condotta che coyà&ponde a quel limite; ogni altra forma
diversa, ossia adatta a gradi di evoluzione più o meno lontani dal
limite, non può essere che imperfetta, ossia buona relativamente, non
assolutamente. Quindi due Etiche: Etica Assoluta che determina le leggi
della condotta ottima; ed Etica Relativa che cerca di stabilire per
approssimazione quale sia la condotta relativamente buona, ossia la
condotta, che, date certe condizioni reali di svolgimento e di
adattamento incompleto, è la migliore, o la meno lontana dalla condotta
perfetta. E quindi la necessità, e la priorità logica dell’Etica Assoluta; le
cui determinazioni rirelazioni più generali, più semplici, più
esattamente definite di quelle contemplate dall’Etica Relativa. Or
come si costruirà l’Etica Assoluta? ossia quale sarà il metodo? Spencer
si accorda cogl’utilitarist i che lo precedono nell’assumere come criterio per
giudicare la condotta e determinarne le norme l a natura degli effetti o
dei risulta ti. Ma se ne distingue subito per il pr ocedim ento col
quale egli crede che questi effetti dei diversi modi di condotta si
possano e debbano conoscere. Per gl’UTILITARISTI che lo precedono è l’induzione
empirica, per lui la deduzione. Non si tratta per lo Spencer
di trovare che, in un certo numero di casi, certi danni o certe
utilità si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di inferirne che
rapporti simili si manterranno nell’avvenire; si tratta invece di determinare
comee^er chè alcuni modi di condotta siano dannosi e altri utili; o più
chiaramente, quale condotta debba essere dannosa e quale debba essere
utile. Non è dunque sopra certe relazioni empiricamente osservate,
ma sulla connessione causale necessaria tra le azioni ed i loro
effetti che deve fondarsi la determinazione delle norme morali. E, poiché
questa connessione deve essere alla sua volta una conseguenza necessaria
della costituzione delle cose, deve essere pos sib ile dedurre da principii
fondamentali quali specie di azioni tendano a produrre FELICITA e quali a
pròdurre infelicità. E le deduzioni così ottenute debbono essere riconosciute
come leggi di condotta e aver valore indipendentemente da una
estimazione diretta (individuale e occasionale) del piacere e del
dolore. Ciò che distingue adunque l’Utilitarismo che Spencer chiama
Razionale, dall’Empirico, e dà carattere di rigore scientifico alla ricerca
morale, è il riconoscimento pieno e adeguato della causalità
naturale dei fenomeni della condotta; e il vero metodo scientifico dell’ Etica,
come delle altre scienze che abbiano superato lo stadio empirico, deve
consistere nel cercare e nel costruire in sistema non alcune relazioni
empiricamente stabilite, ma le relazioni necessariamente esistenti tra cause ed
ef¬ fetti in tutta quanta la condotta. Ma se le leggi della condotta
debbono determinarsi per deduzione necessaria, quali sono i dati sui
quali questa deduzione deve fondarsi ? I fatti di cui si occupa l’etica
non costituiscono un ordine nuovo che si distacchi da un ordine inferiore
o precedente, come, per es., le formazioni organiche rispetto alle inorganiche,
o i fenomeni sociali rispetto ai biologici: ma appartengono per un
verso alla biologia in quanto sono effetti in[Spencer li considera anche come
appartenenti alla fisica, in quanto, esaminati esternamente, si riducono
a movimenti e combinazioni di movimenti che cooperano a produrre una
forma di terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti nel tipo più
elevato degli animali; e per un altro alla psicologia in quanto sono
coordinamenti di azioni suscitati dai sentimenti e guidati dalla
intelligenza; finalmente in quanto queste azioni direttamente o
indirettamente riguardano esseri associati, appartengono alla sociologia. La
condotta è adunque ad un tempo una formazione biologica, una
formazione psichica, e una formazione sociale: e perciò è nei
risultati delle scienze corrispondenti che si devono cercare i principii
fondamentali, i dati dell’etica. E quindi i dati da cui si debbono dedurre
le norme dell’etica assoluta sono forniti dalle condizioni che la
biologia, la psicologia e la sociologia indicano rispettivamente come
proprie di un adattamento completo. Ora, in conformità alle leggi di
queste scienze, la condotta corrispondente a un adattamento completo
ossia la condotta ottima, è caratterizzata dalle condizioni che si
possono riassumere nei seguenti tre punti: Condizioni biologiche :
Corrispondenza perfetta tra gli organi e facoltà umane e le attività
necessarie alla vita completa. Il che importa che tutte le attività
necessarie al massimo svolgimento equilibrio più o meno regolare e
durevole. Ma questa considera¬ zione (aspetto fìsico della condotta) può
qui senza danno essere tralasciata. della vita per sò e per gli altri
trovino il loro comimento nell’esercizio spontaneo di facoltà debitamente
proporzionate e producenti quando entrano in azione il loro quantum di
soddisfazione (cioè di piacere). Corrispondenza per fet ta dei
sentimenti, come motivi deir operare, ai I nsog ni. 11 che importa che i
piaceri e i dolori, cui danno origine i sentimenti distinti come
morali, siano, al pari dei piaceri e dolori fisici, impulsi
positivi e negativi proporzionati nella loro forza ai modi di operare
richiesti. Condizioni sociologiche: Accordo perfetto t rp le
attività dei consociati. Il che importa che tutte le attività conducenti
alla vita completa di ciascuno non solo non impediscano direttamente
nè indirettamente, ma favoriscano la vita completa di tutti. Stato
di pace permanente. CO-OPERAZIONE cooperazione; nessuna aggressione diretta o
indiretta; scambio di servizi gratuiti. La condotta ottima è dunque
quella che sod [Non è difficile vedere come l’assumere le condizioni suesposte
equivalga a supporre direttamente o indirettamente eliminate tre
antinomie che sotto varie forme compaiono, si può dire, in tutta la
storia della morale ; l’antinomia tra il piacere presente e il piacere
futuro, cioè tra piacere e utilità; l’antinomia tra il bene proprio e il
bene degl’altri, tra ciò che è richiesto dalla FELICITA individuale e ciò che è
richiesto dalla felicità generale ; e 1’ antinojnia tra sentimenti egoistici (GRICE
SELF LOVE) e sentimenti altruistici (GRICE OTHER LOVE), tra la tendenza al
piacere e la coscienza del dovere. disfa a tutte queste condizioni ad un
tempo; e però compito dell’etica Assoluta resta quello di dedurre
da queste condizioni le norme a cui tutte le forme di attività umana, a
qualunque fine siano volte, debbono conformarsi per essere totalmente
buone. Per tal modo sono determinati i principi o i dati sui quali
deve costruirsi l’Etica Assoluta: le condizioni della vita umana,
individuale, parentale e sociale, proprie dello stato di adattamento
perfetto; è determinato il metodo: la deduzione; ed è posto fuori di
contestazione il fine ultimo clic giustifica le norme così dedotte e dà
alla condotta proposta valore di ottima: la massima FELICITA
universale. Ma restano d ue grandi difflcoltà: una incocrenza,
almeno apparente, da togliere, e una lacuna da colmare. L’incoerenza è
questa: Come si può sostenere che il fine della condotta buona è LA
FELICITA, se le norme di essa condotta devono essere dedotte dalle leggi
necessarie della vita nello stato sociale, e devono valere
indipendentemente da ogni estimazione diretta e individuale del piacere e
del dolore ì 0, in altri termini, come si risolve l’antitesi tra il
fine assunto e il metodo proposto? La lacuna è la seguente: Le condizioni
che si pongono come proprie della condotta ottima e che la
deduzione morale deve prendere come dati, sono esse possibili, o non
esprimono delle esigenze in tutto o in parte incompatibili fra di loro?
Insomma quello stato finale di adattamento completo sotto tutti i
rispetti, nel quale le condizioni contemplate sono raggiunte, in qual
modo e per qual via può ottenersi ì . L’incocrenza è risolta così: Il
fine è la felicità; ma questa, a mano a mano che la vita si eleva,
dipende da una serie sempre più lunga e complicata di mezzi, ciascuna delle
quali deve essere rag¬ giunta perché sia possibile il fine. Le norme
morali rappresentano la serie più generale e preliminare di mezzi, appunto
perchè costituiscono la serie più lontana dal fine, e quella che deve
essere osservata prima di tutte le altre; la condizione delle altre
condizioni. Ora siccome tutte le attività necessarie alla vita tendono a
diventare una sorgente diretta di piacere, (perchè i piaceri sono
relativi alla struttura e questa si modifica secondo le attività) così le fo
rme di attività morale, appunto perchè necessarie, debbono diventare una
sorgente diretta di piacere. Per tal modo, l’osservanza delle condizioni che
conducono alla FELICITA diventa direttamente piacevole, ed è adempiuta. senza
che essa FELICITA (che rimane il fine [L’analisi e la soluzione di queste
due questioni, le quali si legano per parecchi nessi tra di loro, ma che
per chiarezza bisogna considerare a parte, occupano i Principi di Etica. )
sia lo scopo diretto e immediato della condotta; ossia, (ed è un pensiero
che fa ricordare Aristotele) lo stato di godimento finale
sopraggiunge come una conseguenza, non direttamente voluta nò
chiaramente rappresentata, all’ esercizio delle attività morali divenuto per sè
immediatamente gradevole. La soluzione della seconda difficoltà
derivante dalla lacuna notata, si trova nella conciliazione oggettiva,
tra bene proprio e bene altrui, e nella conciliazione soggettiva, tra
egoismo (GRICE SELF LOVE) e altruismo (GRICE OTHER LOVE), raggiunte per
effetto e della solidarietà crescente tra le condizioni di vita dei
singoli e quelle del tutto, e dello sviluppo concomitante della
simpatia. Colla soluzione di queste due difficoltà Spencer intende dunque
che sia dimostrata la possibilità — dal punto di vista scientifico — e la
legittimità dal punto di vista morale — della sua costruzione; e
con questa dimostrazione il pensiero che informa la trattazione
dell’Etica, è nelle sue linee generali, compiuto. Ed ora, tracciato
il disegno in cui si inquadra Le induzioni dell’Etica, che nella
traduzione francese porta il titolo di Morale de differente peuples,
dall’esame delle diversità di idee e sentimenti morali dei diversi popoli
raccoglie la conferma di alcuni dei principi fondamentali dedotti dalle
leggi della vita nello stato sociale ; e principalmente della estrema variabilità
dei sentimenti morali, e della corrispondenza generale di due tipi
opposti di moralità ai due tipi di coesistenza e CO-OPE[ la dottrina
particolare che più direttamente ci interessa, diciamo alquanto piii
distintamente di questa. S’è visto come nel pensiero dello Spencer
la condotta ottima sia la condotta pienamente adatta, la condotta che c
orrispon de al limite dell’evoluzione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn
lontane da quel limite so no, di molto o di poco, meno adatte, cioè meno
buone; onde la distinzione di Etic Assoluta ed Eftej> Ora si
presentano spontanee due domande: l.° Perchè introduce lo
Spencer, contro il modo comune di comprendere 1’ ufficio dell’ Etica,
questa distinzione t ra Morale Assoluta e Relativa ? Non è forse compito
del l’Etica] CO-OPERArazione CO-OPERAZIONE sociale (tipo militare e tipo
industriale). Le altre quattro parti, Etica della Vita Individuale, ed
Etica della Vita Sociale : la Giustizia, la Beneficenza Negativa e la
Beneficenza Positiva contengono le
dednzioni o applicazioni particolari ; nelle quali, in conformità ai
principi e al metodo accennati, vogliono essere determinate le norme della vita
privata e deila vita pubblica quali risultano rispettivamente dalle
condizioni contemplate dall’ Etica Assoluta e da quelle contemplate dall’
Etica Relativ a. Notiamo subito, benché l’avvertenza debba parer quasi
inutile, che per lo Spencer la parol i fl.v<vofn^o non ha nè può a
vere n ell’Etica un significato metafisi co ; le norme etiche per lui
non hanno ragione di essere all’ infuori dell’ esistenza animata
quale si manifesta fenomenicamente; all’infuori di esseri capaci di
pia¬ ceri e di dolori. quello di stabilire le norme della condotta
retta, della giustizia pura, e, senza curare gli impedimenti e le
imperfezioni che i difetti della natura umana possono ingenerare,
presentare il tijoo ideale di pe rfezione al quale ciascuno deve cercare
di avvicinarsi? E se così è. non ò del tutto oziosa_e viziosa la
distinzione? Ammesso che dal punto di vista speciale di Spencer questa distinzione sia legittima,
non è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento elle la realtà presente
ci dà uno stato di adatta¬ mento imperfetto, ossia assai diverso da
quello che essa suppone? L’esposizione del pensiero di Spencer
intorno alle foie Etiche mi pare si possa acconciamente raccogliere
in due parti, nelle quali trovi successivamente risposta ciascuna delle due
questioni. Cominciamo dalla prima. Si crede comunemente che si possa
determinare un tipo di condotta assolutamente giusta in condizioni reali
di esistenza imperfetta, mentre questa determinazione non è possibile; e,
se fosse, non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei moralisti, sia
nei discorsi comuni, djie postulati^ sono tacitamente accettati come
veri; e pare infatti che senza di essi non sia possibile giudizio morale,
per -Absolute and Relative Ethics. -che la distinzione stessa tra atti
giusti e atti ingiusti sembra implicarli necessariamente. Sono questi: Che in
ogni caso vi sia un modo di operare assolutamente giusto. Che sia possibile
stabilire quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di azioni
dimostra che in casi assai numerosi non è possibile il giusto, ma soltanto un
minimo ingiusto; e in casi pure numerosi non è nemmeno possibile
determinare in che cosa questo minimo ingiusto consista. Il giusto
assoluto esclude del tutto il dnltw che è il correlativo di qualche
specie di male, di qualche divergenza da quell’adattamento perfetto che
soddisfa pienamente a tutte le esigenze della vita completa. Se il
concetto di condotta buona è, in ultima analisi, il concetto di una
condotta che produce in qualche parte un avanzo di piacere; e di
condotta cattiva, che produce un avanzo di dolore; il bene o il giusto assoluto
nella condotta può esser quello soltanto che produce p iacere pur
o, pi acere non misto a dolore di sorta . E quindi la condotta che
produce qualche conseguenza dolorosa ò parzialmente cattiva, e la forma
più elevata che una condotta cosifatta può raggiungere ò il minimo
ingiusto, il giusto relativo. Ora le forme di adattamento incompleto
presentano, più o meno vasto e grave, un doppio difetto : Discordanza od
antitesi fra i tre ordini di fini della vita, per la quale atti che
producono UTILITA o piacere all’ individuo o alla prole portano danno e
dolore agli altri, e viceversa ; e discordanza anche nello stesso ordine
tra fini immediati e mediati, presenti e futuri ; per la quale 1’azione
richiesta dall’ utile avvenire può esser sorgente di dolore nel presente,
o la soddisfazione di un desiderio immediato può impedir di raggiungere
un bene lontano e mediato, o esser causa di un male futuro. Nella
misura in cui queste due specie di incongruenze (le quali si incrociano e
si complicano fra di loro) fanno sentire i loro effetti, le azioni
devono produrre una certa somma di dolore sia sull’agente sia sugli
altri. Ora « finché v’ ò dolore v’è male ; e la condotta che apporta
qualche male non può esser giusta assolutamente. A chiarire questa
distinzione Spencer cita degli esempi di azioni assolutame nte giuste e
di altre solo relativamente giuste. Una madre sana che allatta un
bimbo sano, un padre che, dotato di eccitabilità simpatica, partecipa ai
giuochi del figlio e li guida, sono esempi della prima specie. Nell’un
caso e nell’altro l’azione produce piacere a chi la fa e a chi la riceve;
e aiutando lo sviluppo fisico o quello psichico, o l’uno e l’altro insieme, è
utile al benessere futuro ; cioè produce direttamente e indirettamente soltanto
piacere senza dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo e
con soddisfazione e UTILITA RECIPROCA; e gli atti di BENEVOLENZA di chi
fornisce una notizia o un consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone
un dissidio tra amici, possono essere classificati come giusti
assolutamente per la medesima ragione. Degl’esempi addotti da Spencer di
azioni solo relativamente giuste, scelgo due che mi paiono tipici
anche per il contrasto che offrono col modo di giudicare comune: La cura
di molti figli cagiona a una madre assai dolori, ma le sofferenze
immediate e le lontane che l’incuria apporterebbe supererebbero di gran lunga
quei dolori. La condotta giudicata buona in questo caso è quella che
produce minor male ; ma non è ottima. È la meno ingiusta. non 1’ assolutamente
giusta. Così 1’ allontanamento dei clienti da un negoziante che esiga
prezzi troppo alti o venda merci scadenti, o falsi la misura, fa
diminuire il suo benessere e forse apporta danni e dolori ad altre
persone a lui congiunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar
quelli che la sua condotta cagiona, produrrebbe un male assai più grave e
generale. L’abbandono è perciò giustificato: ma l’atto è solo
relativamente giusto. Riconosciuta così la verità che una gran
parte della condotta umana non è giusta assoluta Burnente, si deve riconoscere l’altra
verità che in molti casi non é possibile stabilire quale sia il minimo
ingiusto. É facile trovarne le ragioni, se si considerano gli effetti che
quella stessa discordanza, già rilevata, tra i fini della vita, deve
produrre. V’è un limite fino al quale é relativamente giusto che un
genitore faccia sacrifizio di sè stesso pel vantaggio dei figli, e v’è un
limite oltre il quale l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli
apporti non soltanto a sò ma a tutta la famiglia danni maggiori di quelli
che il sacrifizio tende ad impedire. Chi può dire quale sia questo
limite? Dipendendo esso dalla costituzione e dai bisogni delle
persone in causa, non è neppure in due casi il medesimo, e non può essere
per ciascun caso più che una congettura. Un commerciante che sia travolto
nel fallimento d’un suo debitore e posto nella necessità di fallire egli
stesso se non è aiutato, deve o no domandai^un prestito a un amico?
Il prestito potrebbe trarlo dalle difficoltà, e in questo caso non
sarebbe cosa ingiusta verso i suoi creditori non chiederlo? Ma fors’anco non lo
salverebbe, e allora non è una frode procurarselo? Benché in casi
estremi possa esser facile decidere, come sarebbe possibile in tutti quei casi
in cui anche il più intelligente e competente non può calcolare le
probabilità ? Questo doppio errore del confondere il giusto assoluto
col minimo ingiusto, e del credere che si possa in ogni caso stabilire
quale sia, nasce dall’ errore che si commette nel concepire il tipo
della condotta, la condotta dell’ uomo ideale. Si suppone clic l’uomo
ideale viva e agisca nelle condizioni sociali esistenti. Ciò che si
cerca determinare è, non quali sarebbero le sue azioni in circostanze tutteinsieme
mutate, ma quali sarebbero, date le condizioni presenti. E questa ricerca ò
vana per due ragioni: La coesistenza di un uomo perfetto e di una
società imperfetta è impossibile; dato che potessero coesistere, la
condotta che ne seguirebbe non fornirebbe il tipo MORALE MERCATO. In
primo luogo, date le leggi della vita come esse sono, un uomo di natura
ideale non può essere prodotto in una società composta di uomini che hanno una
natura lontana dall’ ideale. Aspettarsi che tra uomini organicamente immorali
nesorga uno organicamente morale è come aspettarsi di veder nascere tra i
Negri un bambino di tipa inglese. Se non si vuol negare che il carattere
dipenda dalla struttura ereditata, si deve ammettere che in ogni società
ciascun individuo discende da uno stipite, che risalendo a poche
generazioni si ramifica per ogni parte nella società e partecipa
della natura media di questa ; e che quindi, nonostante spiccate differenze
individuali, deve conservarsi una comunanza di natura tale da impedire
che un uomo, qualunque sia, raggiunga un tipo ideale, finché il resto
della società rimane di gran lunga inferiore. In secondo luogo, la
condotta ideale, quale è contemplata dalla teoria morale, non è
possibile per l’uomo ideale in mezzo ad uomini
costituiti diversamente. Una persona assolutamente giusta c
perfettamente simpatica non potrebbe vivere e operare in conformità alla
natura sua in una tribù di cannibali. Tra un popolo perfido e al tutto
privo di scrupoli, una intiera veridicità e franchezza debbono apportare
rovina. Se tutti intorno a lui riconóscono solo la legge del più forte, un uomo
la cui natura non gli permetta di inlliggere dolore agli altri deve
soccombere. Fra la condotta di ciascun membro della società e la condotta
degli altri vi deve essere per necessità una certa congruenza. Un
modo di operare interamente diverso dai modi di operare prevalenti non può
continuare con buon esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente,
o della sua discendenza, o di ambedue. Adunque perchè l’uomo ideale possa
servire di tipo, egli deve essere concepito non a sé, senza relazione
colle condizioni che sono necessarie perchè la condotta possa essere
giusta, ma in corrispondenza con queste. L’uomo ideale deve essere considerato
come esistente in una società ideale. Perciò, secondo l’idea di Spencer,
il voler, per esempio, stabilire quale sarebbe la condotta deiruomo
ideale quando fosse posto nel bivio o di farsi gettare sul lastrico colla
famiglia, o di mentire alle sue convinzioni politiche, sarebbe perfettamente
vano ; perchè le condizioni cosi supposte contraddicono a quelle
richieste dalla definizione dell’uomo ideale. In una società ideale,
nella quale soltanto può concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste
violenza e non esistono abusi ; nè vi può essere collisione tra i modi di
sentire e di operare richiesti dal bene proprio e della discendenza,
e chiesti dal bene pubblico. Viene in mente, e lo ricordo perchè
può servire di commento al pensiero di Spencer, ma perchè la somiglianza
è significativa, queh^ udjko ^ dei “Promessi Sposi”, nel quale il padre
Cristoforo è invitato a far da giudice in una questione di
cavalleria. Suonava rumorosa la disputa tra i commensali di Don Rodrigo su
questo punto. Se fosse lecito a un cavaliere bastonare il messo che
gli consegna un cartello di sfida senza avergliene chiesto licenza ; e il
padre Cristoforo, chiamato in causa, dopo essersi invano schermito, esce
finalmente in quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare fuor
di proposito, tutti quei dialettici della cavaileria. Il mio debole parere
sarebbe clic non vi fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate. Ecco
riconosciuta nel caso particolare l’esigenza fondamentale dell’Etica
Assoluta di Spencer: Non vi può essere condotta giusta finché vi
sono condizioni contrarie alla giustizia. Ma la realtà presente e
viva è appunto così. Oh! questa è grossa, risponde infatti il conte
Attilio. Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si vede che lei non conosce il
mondo. E se è il mondo coni’è quello con cui si ha a fare, 1’ufficio
dell’ Etica non sarà quello di stabilire quale deve essere la condotta nel
mondo reale presente, non in un mondo ideale avvenire? 0, almeno,
non ò inutile, anche ammessa la distinzione Spenceriana, correr dietro al
fantasma di una condotta ottima, adatta a uno stato di perfezione, che
l’evoluzione apporterà, sia pure, ma che per noi non esiste? A
questa seconda domanda risponde la dimostrazione della precedenza necessaria —
nell’ordine della trattazione scientifica — dell’Etica Assoluta sull’ Etica
Relativa. In qualunque ordine di ricerche le verità scientifiche si sono
raggiunte trascurando prima i fattori di perturbazione, che alterano ed
oscurano l’azione dei fattori fondamentali, e tenendo conto
soltanto di questi. Quando la estimazione di questi fattori fondamentali,
non, come si presentano nella realtà, mascherati e complicati di elementi
secondari, ma quali si suppongono idealmente con un processo di
astrazione, ha aperto la via a conoscere e formulare le leggi generali, allora
diventa possibile la estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei
fattori accidentali che nella realtà alterano i rapporti i deali contemplati
da quel le leg gi. Ma le leggi generali, le verità fondamentali, solo per
questa via si possono ricercare e scoprire, e solo con questo
procedimento il sapere passa dalla sua forma EMPIRICA alla sua forma
razionale. Per ottenere la formula che esprime il potere -ifjicfip»tv*
della leva s i suppone N una leva che non si pieghi, iàz<Jbz ma
sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non abbia, come nella realtà,
una certa superficie; e si suppone che la potenza e la resistenza si
esercitino su un punto, invéce che su una parte più o meno estesa
della leva. Del pari la determinazione del corso di un proiettile si
ottiene trascurando dapprima tutte le deviazioni prodotte dalla sua
forma e dalla resistenza dell’ aria. E il medesimo negli altri casi.
St abilite così q u este verità ideali, diventa possibile tener conto
degli elementi dai quali si è fatta astrazione, delle complicazioni
risultanti dall’attrito, dalla plasticità, dalla coesione, dalla resistenza
dell’aria : e ottenere così una determinazione ' Jt^ "(VOM,
P-O sempre più esattamente approssimata al l'atto reale. Qui
è manifesta la re lazione tra certe verità assolute della meccanica e
certe verità relative che implicano le prime, come è manifesto che non si
possono stabilire scientificamente le verità relative finché non
sieno formulate indipendentemente da queste le verità assolute. Il che
equivale a dire che la scienza meccanica applicala può svilupparsi
soltanto dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale. Le
medesime considerazioni valgono per la scienza morale. È impossibile
determinare con approssimazione scientifica quale sia, date certe circostanze
reali, il modo di operare meno ingiusto, se non si conosce quale sarebbe
il modo di operare giusto; e questo non si può conoscere se non si
suppongono eliminate tutte le circostanze che lo impediscono o lo
limitano e ne falsano i caratteri ed i risultati: cioè, in breve, se non
si suppongono, scevre da ogni perturbazione, le condizioni ideali, nelle
quali è possibile l’operare assolutamente giusto. A chiarir meglio questa
relazione tra Etica Assoluta ed Etica Relativa lo Spencer ricorre a un
altro esempio di relazione analoga preso dalle scienze biologiche; la
relazione tra la Fisiologia e la Patologia. La Fisiologia, nello studio degli
organi e delle funzioni che combinate costituiscono e conservano la vita,
suppone l’organismo sano e le funzioni sane, non tenendo conto dei
difetti, degli eccessi, delle anomalie di cui si occupa la Patologia : e
questa poi presuppone quella, perchè le idee anche più rozze intorno alle
malattie suppongono idee di stati sani di cui le malattie sono deviazioni; e la
conoscenza degli stati e dei processi anormali e morbosi può diventare
scientifica soltanto quando vi sia già una conoscenza scientifica di
stati e processi non morbosi. Similmeste la morale assoluta deve
precedere laJSl orak ^llclativa; la quale non deve applicare sic et
simpliciter alle condizioni particolari della vita reale le conclusioni
dell’etica Assoluta ; ma riconoscendo ciò che vi è di diverso nella
condotta che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta, deve
determinare di quanto essa si allontana dal giusto e come si possa
ottenere, date queste condizioni reali imperfette, la massima approssimazione
al giusto contemplato dall’ Etica Assoluta. Questi confronti coi quali lo
Spencer intendeva illustrare il suo concetto intorno alla relazione fra le due
Etiche e alla priorità logica dell’Etica Assoluta sull’ Etica Relativa, si
direbbe che abbiano servito ad abbuiarlo; e però non è fuor di
luogo qualche breve chiarimento. Dall’esposizione che precede deve essere
apparso, spero, che è per una esigenza inerente alla natura della
ricerca scientifica che Spencer sostiene la necessità che l’Etica Assoluta
prec^g la Relativa; lì e appunto por chiarire questa precedenza necessaria egli
cita l’esempio della precedenza analoga della Meccanica Razionale
rispetto alla Meccanica Applicata, e della Fisiologia Normale rispetto
alla Fisiologia Fatologica. Nel pensiero di Spencer la priorità
dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione a un campo particolare di
ricerche di un suo criterio metodico generale; del quale egli trova
la conferma in tutte le scienze, che hanno superato lo stadio
empirico. Il paragone non è dunque, propriamente, tra la sua Etica Assoluta e
la Meccanica Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra la sua Etica
Relativa e la Meccanica applicata o la Fisiologia Patologica; non è, voglio
dire, di quelle scienze pure tra di loro, o di queste scienze applicate
tra di loro ; ma è paragone tra le loro relazioni. E il significato del
confronto è questo : che tra le due Etiche, come le concepisce lo
Spencer, corre una relazione analoga a quella che intercede
rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo così) e tra le due
Fisiologie. E in questo senso che il paragone deve essere inteso ; e
in questo senso è appropriato. Perciò, quando la critica obietta che
l’Etica ha caratteri ed esigenze diverse dalla Meccanica e dalla
Fisiologia, può essere che abbia ragione, ma interpreta il confronto in un
senso diverso da quello voluto da Spencer. Perchè il concetto, per il
quale il paragone è assunto è, nella sua espressione più semplice,
questo: che anche per l’Etica la soluzione scientifica o scientificamente
approssimata dei problemi più complessi richiede la soluzione dei
problemi più semplici. Il paragone non deve dunque essere staccato da
questo concetto e preso con una significazione diversa; altrimenti si
fraintende e paragone e concetto ; e rimane oscurato uno dei punti più
importanti della dottrina particolare ora esposta. La quale non ebbe mai
molta fortuna nò presso i fautori di una morale scientifica, nè presso
gli avversari. Questi, preoccupati forse in generale dal pensiero di
mostrare la insufficienza dell’indirizzo naturalistico, hanno veduto
nella dottrina delle due Etiche (illustrata da quei confronti!)
sopratutto una figliazione del concetto meccanistico, e f’hanno combattuta
in nome delle esigenze della Morale; quelli hanno notato nella affermata
necessità di costruire un’Etica Assoluta, una contraddizione colla
teoria dell’evoluzione, e col principio della relatività della morale
e del diritto: e l’hanno combattuta in nome delle esigenze della scienza.
Gl’uni e gl’altri hanno considerato la dottrina particolare unicamente
in relazione colla dottrina generale colla quale si presentava connessa,
senza badare alle ragioni che la possono legittimare all’infuori del
sistema e della forma speciale di applicazione che in esso ha
trovato. La pregiudiziale dell’imperativo categorico. La dottrina
esposta traccia il piano che Spencer si è proposto di seguire per soddisfare al
compito da lui assegnato all’Etica: quello di determinare,
scientificamente le norme della condotta morale.] Ma già intorno a questo
modo di intendere l’ufficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le
obbiezioni; le quali devono essere, almeno nel loro contenuto
sostanziale, esaminate. Perchè, se non si riconosce la legittimità del
suo concetto sull’ufficio dell’Etica è vano discutere della possibilità e
legittimità del piano proposto per attuarlo. L’esame critico si distingue
perciò naturalmente in due parti; delle quali la prima potrebbe
dirsi critica preliminare. L’Etica può, o non può, essere scienza
normativa? Ecco una prima questione pregiudiziale, che, a giudizio di un
profano, (solamente dei profani?) potrebbe dare un’idea poco lusinghiera dei
progressi e dei frutti della speculazione morale. L’opinione se non
universalmente, certo generalmente. dominante è che non possa. L’opinione
dominante par che si chiuda in questa alternativa: l’etica o è scienza, e
non è più normativa; o ò normativa, e non è più scienza. La ragione
dell’antitesi, che così si pone, tra le esigenze della scienza e le
esigenze della morale, è nota. Dicono i puri moralisti. Una morale che
non dia alla norma carattere di obbligatorietà non può essere vera
morale; e darle obbligatorietà assoluta non si può senza uscire dal campo
della scienza. Nel latto, una condotta che si ponga scientificamente come
morale, è obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale
è ordinata la norma; cioè è obbligatoria ipoteticamente, non
categoricamente. E se non c’è imperat ivo categorico, non c’è m orale. E
i puri scienziati rincalzan. La scienza è scienza delle cose e dei
latti come sonq e non come dovrebbero essere. Si può cercare quali sono i
caratteri e i fattori, la formazione e le trasformazioni dei modi di
operare, dei sentimenti delle credenze distinti come morali; si
potrà anche, tracciati i lineamenti generali del processo di formazione,
argomentare induttivamente una possibile evoluzione ulteriore con qualche
probabilità; ma la scienza non sa di bene e di male; cerca ciò ciò che è;
tenta di prevedere, se le riesce, quel che sarà; dimostrando che certi
effetti dipendono da certe condizioni, ci fa capire che se vogliamo gli effetti
dobbiamo volere quelle condizioni, ma non può obbligare nè à volerle nè a
disvolerle. Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere
che la scienza non possa dare un imperativo categorico, par che ammettano
esplicitamente o implicitamente che la morale debba o possa essere una
dottrina che determina la norma obbligatoria, ossia una teoria da cui si
ricava il dovere. Ora. se hanno ragione nell’ ammettere la prima
cosa, hanno torto di supporre la seconda ; hanno torto di credere
che compito dell’Etica possa essere quello di dimostrare
l’obbligatorietà, e di supporre che una dottrina religiosa o metafisica
possa fondare quel che riconoscono non poter essere fondato da una
dottrina puramente scientifica; possa fondare il “tu devi” — “tu
devi” è un giudizio di constatazione e non può essere altro. Dicendo « tu devi
» io non posso intendere che l’una o l’altra di queste due cose: o
« tu senti dentro di te qualchecosa che [ Ho già mostrato altrove,
in un capitolo rivolto direttamente a questo esame (Prolegomeni a una morale
distinta dalla metafisica, Pavia, Bizzoni) come e perchè sia
perfettamente va no e illusorio credere che da una costruzione, teorica l
sojjmtificn n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma
obbligatoria, se l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta
o supposta; e come nasca e si mantenga 1’illusione, e lo sforzo di
credere che non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza
; e, del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il
medesimo, è fatta da un punto di vista diverso. ti spinge, senti di
essere obbligato a non fare o a fare; oppure quest’altra: c’è una volontà
cbe ha il potere di obbligarti. Nel primo caso si fa appello alla
coscienza ; a uno stato o a un fatto di coscienza che esiste o si suppone
che esista ; nel secondo caso si fa appello a un potere, che parimenti o
esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno e nell’ altro caso nessuno
sforzo dialettico può ricavare l’obbligo dalla natura della cosa
comandata o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far
esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza, nè questo
potere. Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un senso
improprio. “Tu devi” può voler dire: È giusto che tu faccia; è giusto che
ti senta obbligato a fare, o che ci sia chi ti obbliga. Ma se vuol dir
questo, l’espressione è equivoca. Che sia giusto il fare e che sia giusto
l’obbligo di fare (quando questo fare sia già sentito come un obbligo) si
raccoglie d al contenu to, non dal tono del comando: e non basta a porre
l’obbligo, lo giustifica dato die ci sia, e potrà far desiderare che
esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che giustificano
l’obbligo, non è porre in essere la forza o il potere o l’impulso (con
qualunque nome si chiami) che obbliga. Ed è così vero che le due
cose .sono diverse e non confondibili tra di loro, che non si può
ridurre 1’una all’altra senza togliere una delle due. Non si può derivare
l’obbligo dalle ragioni che giustificano la norma, senza riconoscere che
l’obbligo vale solamente in quanto valgono queste ragioni; fcioè senza
assegnargli un valore ipotetico, non più CATEGORICO. Nè si può ricavare la
giustificazione della norma dall’obbligo categorico, senza riconoscere che la
norma vale so lo i n quanto esiste l’obbli go; ossia senza negare
qualsivoglia giustificazione, cioè riconoscere che il contenuto della norma non
avrebbe nessun valore se l’obbligo mancasse. Gli è che quando si
dice essere il dovere condizione necessaria della morale, si scambia
la morale colla moralità, la norma colla conformità alla norma. Ma
l’obbligo riguarda l’osservanza, <*/J» non ] a determinazione della
norma. Ora, che dell’osservanza della norma sia condizione necessaria e
caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non potrà ammettersi, ma ha
ad ogni modo un senso; che sia essenziale alla determinazione della
norma, non è neppure discutibile, perchè non ha senso. Sarebbe come dire
che è essenziale alla costruzione della scienza medica l’obbligo di
prendere le medicine. È verissimo che sarebbero perfettamente inutili le
prescrizioni mediche se non si supponesse che vengano osservate ; ma è
non meno vero che l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non
muterebbe in nulla il contenuto e il valore delle prescrizioni. L’obbedienza
del cliente non muta la scienza del medico. E le condizioni da cui
dipende l’osservanza sono così distinte dalle ragioni che
giustificano una norma, che fi ufficio di tutte le scienze precettive si
fa consistere nel cercare e determinare le relazioni tra certi mezzi e un
certo fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e ai fi infuori da
ogni preoccupazione che riguardi la reale esistenza ed efficacia del
desiderio o dell’ obbligo di conseguirlo. Il che si vede manifestissimamente in
una scienza precettiva, che, a rigore, costituisce un capitolo dell’etica
; nella quale la questione dell’ osservanza delle norme (e dell’ obbligo
di questa osservanza) è rimasta perfettamente distinta dalla questione
della ricerca e della determinazione delle norme; forse appunto perchè fu
considerata e trattata indipendentemente dalla morale; voglio dire nell’igiene.
Dove a nessuno viene in mente di pretendere' che sia una condizione
della legittimità o del valore delle norme dettate da lei, questa:
che il conformarsi ad esse sia sentito com e un d over e. E se accade,
come può accadere in effetto, che l’osservanza di qualcuno dei suoi precetti
sia già tenuto come un dovere, il riconoscere che questo precetto è
ordinato a un fine, al quale si dà valore di bene, fa che fi obbligo
stesso appaia giusto. Ma in questo caso è facile vedere che la
giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a questo: a dare un valore
ipotetico all’ obbligo categorico; cioè à dimostrare che sarebbe bene osservare
il precetto, anche se non ci fosse l’obbligo. Ora lo stesso vale, nè più
nè meno, per la morale. Altro è cercare quali siano le norme da osservare per
raggiungere un certo ordine di effetti (quello che la morale ponga come
fine) e altro è cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare
queste norme possa essere sentito e posto come un dovere. E l’importanza
che questo secondo problema può avere non toglie che esso sia diverso e
debba essere distinto dal primo. La pregiudiziale dell’obbligo categorico
non tocca dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e; in primo
luogo perchè l’obbligo categorico si constata o si assume, e non si
dimostra, nè si ricava da una dottrina qualsiasi. In secondo luogo perchè
se si intende, come si intende in effetto, che 1’ Etica deve dare
non V obbligo, ma la giustificazione dell’obbligo, questa giustificazione non
può consistere che nel mostrare come la norma abbia valore anche
indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sarebbe bene o sarebbe giusto
conformarsi ad essa anche se il conformarsi non fosse sentito come
un dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il valore di una norma
vuol dire mostrar la derivazione di una norma da un fine a cui sia riconosciuto
quel valore, giustificare 1’ obbligo viene a dire derivare la norma da un
fine, il cui valore si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’
obbligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea la considerazione
dell’obbligo e delle condizioni che lo rendono possibile. La
caratteristi ca di una dottrina etica no n sta dunque nell’
obbligatorietà, ma sta nel valore d el fine che si assume. Ed eccoci alla
vera ed j unica differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni
precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza precettiva si riduce a un
sistema di relazioni e di leggi che hanno valore di norme da seguire per
chi si propone come fine quell’ effetto o quell’ ordine di
effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni $ ed i
fattori ; cioè suppone la desiderabilità che dà valore di fine a
quell’effetto; ma non pretende nè che questa desiderabilità sia
riconosciuta universalmente, nè che essa sia, pure universalmente, riconosciuta
come superiore e preminente rispetto a quella di qualsiasi altro fine. Ma
questo appunto [Sono lieto di notare che in “Ethics, a science”, Philosophical
Review, McGilvary insiste sul concetto, clip è conforme a quel che ho
sostenuto e sostengo, che 1’Etica, come scienza, è indicativa non
imperativa. Senonchè, per un verso, non si capisce dall’ articolo se egli
ammetta o escluda il medesimo di qualsivoglia costruzione dottrinale; per
l’altro, egli non tien conto di quella differenza, nella quale consiste a
mio giudizio la earatteristica dell’etica. pretende l’etica. Onde il
compito dell’etica si specifica in due punti, di cui il primo segna la
sua caratteristica: l.° cercare se vi sia e quale sia l’effetto o
l’ordine di effetti che possa avere un tal valore, cioè il fine del quale
possa essere ammessa la UNIVERSALE DESIDERABILITA sopra ogni altro,
determinare le condizioni e i fattori da cui quell’ effetto dipende. E, nel
supposto che dipenda dall’azione umana individuale e collettiva,
determinare la condotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente. Se
il fine di cui può essera assunta questa universale e preminente desiderabilità
è umanamente possibile, cioè tale che se ne riconosca possibile il
raggiungimento senza assumere o postulare nessun intervento sopranaturale
e sopraumano, la costruzione etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa
o metafisica. E quindi il problema della possibilità di un’Etica
scientifica assume questa forma: se si possa assegnare un fine,
naturalmente cioè umanamente possibile, al quale sia riconosciuto un
valore superiore a ogni altro fine. La determinazione delle norme morali
sarebbe data dalle relazioni trovate o da trovarsi tra quel fine e la
condotta individuale e collettiva da essa richiesta. Ed eccoci a una
seconda questione pregiudiziale. Non è improbabile che qualche
lettore trovi que sto modo di porre il problema intorno al co mpito
dell’Etica, antiqua to e fuori della realtà. Sento dirmi. Nella realtà il
compito dell’etica è concepito e proseguito in modo assai diversp
anzi opposto. Le n prme della condotta morale sono già d ate e conosc
iute. Ciò è tanto vero, che sulla determinazione concreta dei precetti
particolari, di quelli che si chiamano “doveri” e che si raccolgono
nella parte comunemente chiamata Morale Speciale, non cadono
sostanzialmente dubbi o contestazioni, e i filosofi della morale ne
sdegnano quasi la trattazione o ne danno soltanto le linee generali.
Nella realtà dunque l’indagine morale non ha per iscopo di cercare
e determinare le norme ricavandole da un certo fine; ma di costruire la
sistemazione teorica di un codice di condotta già dato, raccogliendo e
unificando le norme particolari in una norma generale, della quale si cerca
quale possa essere la giustificazione; anche se la costruzione
induttivamente così ottenuta rivesta poi l’apparenza logica di una
costruzione deduttiva. Quindi è antiscientifico e inutile andar cercando fuori
della realtà, nel campo di una possibilità, ipotetica, un fine — poniamo
pure che sia possibile trovarlo — il quale risponda a quelle esigenze, per
il gusto di ricavarne delle norme. Le quali, o si accorderanno con
quelle riconosciute in effetto e vigenti come morali, o
discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire che la pretesa derivazione
deduttiva delle norme da quel fine nasconde una reale derivazione
induttiva del fine dalle norme; se discordano, questa discordanza viene a
dimostrare l’inutilità, a dir poco, di norme elle contrastano con quelle
riconosciute e accettate, e a far respingere come non morali o
utopistiche le norme e il fine dal quale sono ricavate. Io non ho difficoltà a
riconoscere che i due indirizzi prevalenti nella speculazione morale
contemporanea, l’indirizzo sociologico-storico. e l’indirizzo
idealistico-prammatistico, si accordano fondamentalmente nel respingere le
costruzioni etiche razionali o pure, e nell’assumere come punto di
partenza legittimo la realtà dei dati morali ; dei quali l’uno considera
principalmente l’aspetto esterno, sociale, e l’altro l’aspetto interno,
psicologico. Ma noto subito che la novità nel punto di partenza e nel
processo di costruzione, è soltanto apparente; o, per essere più esatto,
la novità consiste nel[Adagio però anche
con questa novità. Perchè, almeno quanto al riconoscere esplicitamente la
legittimità del procedimento regressivo, all’ invertire deliberatamente la
costruzione morale, Kant avrebbe de’ diritti d’autore da
rivendicare. l’assumere la legittimità di un procedimento, che
inconsapevolmente domina in generale la speculazione etica, e che si scorge più
evidente in quei sistemi i quali hanno raccolto rispettivamente
nei diversi tempi e luoghi più largo consenso; (consenso non verbale,
si intende, ma reale). In altri termini non si fa che seguire in modo
consapevole e riflesso quella stessa tendenza e preoccupazione, a cui
ha obbedito in generale la speculazione morale, almeno nella forma
riconosciuta rispettivamente nei diversi tempi come ortodossa, o retta, o
sana che si voglia dire; la preoccupaziono di giustificare, il modo
di operare, di sentire e di giudicare già tenuto come buono. Ora il
rendersi conto che la costruzione etica — sotto l’apparenza logica di una
deduzione progressiva di certi precetti particolari da una norma generale
e di questa da un fine posto come supremo — fu sempre, in sostanza,
regressiva (dai precetti particolari alla norma' generale e da
questa ai principi che la giustificano), segna certamente un
progresso e un acquisto quanto alla conoscenza del processo reale storico
e psicologico di formazione dei sistemi morali. Ma altro è conoscere
quale sia stato il processo realmente seguito, altro ò affermare la
legittimità del processo. Certo sarebbe un fortissimo argomento di probabilità,
se avesse fatto buona prova. Ma se si guarda ai risultati, vien fatto
piuttosto di pensare il contrario; di pensare, che la speculazione morale
sia viziata nelle origini appunto dal preconcetto che la domina e dal
procedimento che il preconcetto suggerisce. Ed è da questo preconcetto
che nasce, a mio giudizio, così il diletto della soluzione a cui riesce
l’indirizzo sociologico, come di quella a cui fa capo l’indirizzo
prammatistico. In primo luogo importa notare che ambedue gli indirizzi,
appunto perchè hanno comune il presupposto che compito dell’Etica sia
quello di unificare le norme già date, risalendo da esse ai
principi o ai postulati, sembrano ammettere questi due punti. Che le
norme morali siano già tutte conosciute e determinate, o che dalle norme
conosciute si ricavi il criterio per quelle non determinate. Che le norme date
siano fra di loro concordanti o compatibili, o almeno non in contraddizione
l’una coll’altra. Ora nè 1’ una nè l’altra di queste condizioni si
avvera nel fatto. E prima di tutto non è esatto che le norme
della condotta siano già date e conosciute. Anche se Spencer ha torto,
come io credo e si vedrà più innanzi, di assumere a criterio del giusto
l’adattamento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel sostenere che in
un gran numero di casi la coscienza non ci dice quale sia il modo di
operare giusto o approssimativamente meno ingiusto. Ma, oltre
ai casi del genere di quelli citati da lui, (nei quali si potrebbe
dire, che se non riusciamo a determinare quale sia la migliore
applicazione del criterio, sappiamo però quale sia il criterio da usare) vi
sono sfere intere di azioni, per le quali la coscienza non saprebbe
suggerirci una scelta sicura, e per le quali non ci dice, come per altre,
non è giusto o è giusto. Difenderò io il divorzio o lo combatterò?
Approverò o non approverò l’allargamento del suffragio politico? Sarò
conservatoreoliberale, monarchico o repubblicano, individualista o socialista,
liberista o protezionista? In quali circostanze ed entro quali limiti
seguirò l’uno o l’altro indirizzo? Non serve rispondere che ciascuno deve
operare in queste materie secondo la propria coscienza. Si tratta
di sapere come una coscienza onesta deve operare perchè alla bontà delle
intenzioni (che è presupposta) corrisponda la bontà degli effetti.
E abbandonando questo giudizio alla coscienza individuale si riconosce o
che possono coesistere criteri morali diversi, o che lo stesso criterio
morale può legittimare ugualmente modi di operare opposti, o
finalmente che quelle parti della condotta escono dal campo della
morale. Ma se possono legittimamente coesistere per certe parti
della condotta criteri morali opposti, quale sarà il criterio superiore
che serve a decidere fra questi criteri contrastanti? o altrimenti,
perchè non si ammette che possano del pari legittimamente coesistere
criteri contrastanti anche per le altre parti della condotta? Se poi lo
stesso criterio morale può legittimare due modi di operare opposti, ciò
non può essere che per mancanza di determinazione delle
circostanze; e prova in ogni modo che le norme particolari della condotta
morale non sono tutte determinate e conosciute. E se finalmente quelle
parti della condotta escono dal campo della morale, quale norma
suprema è mai quella che non ha nulla da dire intorno a una parte così
grande dell’operare, come è, per esempio, tutta la condotta politica
dell’individuo e della società? Si dirà che per questa parte, per la
quale le norme non sono date, il criterio si ricava de quelle già date e
accettate come morali? Urtiamo in una seconda difficoltà. Per
ricavare dalle norme già date il criterio cercato, per unificarle cioè in una
norma più generale, occorre che le norme date concordino fra di
loro, che in tutte si possa riconoscere appunto questa unità di criterio.
Ora, tralasciando pure di insistere, perchè è cosa troppo nota,
sull’antitesi fondamentale esistente tra le norme di condotta che
valgono come morali rispettivamente nelle condizioni di pace e di guerra, o sui
contrasti, tragici talvolta, tra i doveri famigliari e i doveri sociali,
bisogna osservare che le norme date e accettate come morali possono contemplare
e contemplano realmente, almeno in parte, delle relazioni, direi,
secondarie, le quali esistono e sono possibili in grazia di relazioni primarie
e fondamentali, che le norme non contemplano e che sono la
negazione del criterio applicato in quelle norme. Mi sia lecito
spiegarmi con un esempio ipotetico assai semplice. Se si suppone che un
uomo sia saltato sulle spalle di un altro e si faccia portare da lui, v’è
luogo a cercare quale sia la posizione migliore per il portante e per il
portato; sia quella, poniamo, la quale concilia la minima fatica del primo
col minimo disagio del secondo. Il criterio seguito qu i è un criterio d
i equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o giusto, o buono o utile
per nessuno dei due, il pretendere tutte le comodità per sè senza tenere
in conto le comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito
nello stabilire la condotta migliore, data, quella condizione diversa dei due)
fosse applicato a determinare la relazione tra i due, prima che siano
divenuti rispettivamente portatore e portato, questa condizione
sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue gambe. Ossia la norma morale
regola nel caso supposto un rapporto che non esisterebbe se essa fosse
applicata al sorgere di quel rapporto. E può avverarsi, così, delle norme
morali qualchecosa di analogo a quel che racconta di sé Senofonte, che
all’oracolo chiedeva quale via dovesse tenere per giungere più felicemente in
Asia, guardandosi bene dal chiedere prima se era bene o male che
andasse. Un sociologo potrebbe stringersi nelle spalle e osservare
che è colla realtà data che bisogna fare i conti, e che è ozioso andar
cercando come sarebbe giusto che essa fosse; non resta che
acconciarvisi alla meno peggio. Vedremo ora come questa posizione di puro
adattamento passivo sia, per forza stessa della realtà, che diviene e
muta, insostenibile: ma ò opportuno notar subito che quando si renda
palese un contrasto del genere notato, colla consapevolezza di questo
contrasto è inevitabile che nasca nella coscienza morale l’aspirazione a
una realtà diversa; e quindi l’aspirazione o a modificare la realtà se
essa appare mutabile, o a cercare la ragione della giustizia fuori della
realtà. Queste lacune e queste incongruenze delle norme in effetto
vigenti come morali in un dato tempo e luogo, dimostrano intanto due
cose: che, quale sia la condotta migliore in un determinato momento
storico, non è una semplice constatazione da fare, ma è un problema da
risolvere ; e un problema assai più difficile e complicato di quel che
possa apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in ogni caso
è necessario assumere un criterio il quale valga come guida a colmare le
lacune, e a risol¬ vere o giustificare le incoerenze. Ma un
criterio, comunque assunto, a cui si attribuisca questo ufficio e questo valore,
è un criterio alla stregua del quale devono essere valutate anche le
norme particolari già riconosciute come certe, poiché deve valere per
tutta la condotta. E ciò viene a dire che il processo di determinazione
di tutte lo norme si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso
modo che se le norme si dovessero tutte determinare ex novo,
astrazion fatta e indipendentemente dalle norme in effetto già accettate
e seguite. (Il che del resto è precisamente quello che avviene in
tutte le scienze precettive; dove, se anche i precetti scientificamente
stabiliti si trovano a coincidere coi precetti empiricamente seguiti, la
determinazione scientifica procede come se spettasse ad essa di determinarli e
giustificarli). E allora il problema torna ad essere quello del criterio
che deve essere assunto. Ora il criterio che l’indirizzo
sociologico suggerisce è, come è noto,
e conforme al concetto, che esso pone in evidenza, della
relatività della morale e del diritto — la corrispondenza alle
esigenze sociali del momento storico che si considera. Il codice morale di un
dato tempo e luogo delinca la forma di condotta richiesta dalle
condizioni dell’esistenza sociale in quel tempo e luogo, e trova in esso
la sua giustificazione. A nessuno può venire in mente di negare la
reale ed effettiva dipendenza delle norme morali dalle esigenze della
vita sociale. Ma se queste esigenze possono spiegare come si sia formato
storicamente e psicologicamente il codice di condotta correlativo finché
sono inconsapevolmente identificate colle esigenze della coscienza morale,
esse non bastano più, neppure a determinare quale sia la condotta
adatta in un certo momento storico, una volta che siano assunte come
criterio riflesso e consapevolmente seguito; non bastano, tranne
che in un caso: nel caso che le condizioni di esistenza, da cui quelle esigenze
emergono, siano considerate come immutabili o come assolutamente
sottratte ad ogni azione od efficacia che possa esercitare su di esse la
condotta umana, individuale e collettiva. Perchè quando intervenga la consapevolezza
di una possibile efficacia modificatrice della condotta umana sulle
condizioni sociali e sulle esigenze che ne nascono, allora entra di
necessità nella valutazione della condotta la considerazione di
questa efficacia; la quale, richiede il confronto tra lo stato presente e
uno stato futuro, tra uno stato reale e uno stato possibile. E la ragione
della scelta tra i due non può essere data dalla realtà dello stato
presente, ma dalla diversa desiderabilità dei due stati messi a
confronto; e quindi non soltanto dalle esigenze dello stato reale, ma anche
da quelle dello stato possibile o creduto tale. Per conseguenza, condotta
buona apparirà non quella semplicemente che è richiesta dalle condizioni di
fatto, ma quella che, nei limiti imposti dalle condizioni reali,
tenda a modificarla nella direzione segnata dallo stato più desiderabile.
Soltanto in un caso, puramente teorico, la condotta tracciata in
conformità con questo criterio, coinciderebbe colla pura e semplice
corrispondenza alla realtà delle condizioni fiate; nel caso che lo stato reale
presente apparisse universalmente e sotto ogni rispetto più desiderabile di ogni
altro. Ma anche in questo caso la valutazione è data dalla
desiderabilità, non dalla realtà. Insomma, altro è
comprendere che una forma di condotta è conforme a certe condizioni, altro
è [Di qui si vede quanto sia abusiva l’espressione comunemente
ripetuta, sopratutto dai seguaci più rigidi del materialismo storico, che
la condotta giusta è ad ogni momento quella che è resa necessaria dalle
condizioni del momento; i quali poi sono spesso ardenti e anche non di
rado generosi fautori e propugnatori di riforme e di innovazioni anche
radicalissime nelle condizioni e nella struttura stessa della società. Sento
1’obbiezione. Gli è che noi prevediamo necessario e inevitabile il mutamento in
quella direzione, e ci affatichiamo, come la levatrice, a rendere meno doloroso
il parto del futuro dai fianchi del presente. Lasciamo, per restare
nella metafora, che altro è voler agevolare il parto e altro voler
affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a prepararlo, questo
futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto del presente? E che
(iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se non apprestare con un
intervento consapevole e riflesso certe condizioni che altrimenti non si
realizzerebbero ? Adunque l’apprestare queste condizioni, pensate che sia desiderabile
e possa dipendere dall’opera vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto,
sovrapponete, almeno per questa parte, il criterio della desiderabilità a
quello della obiettiva ed esteriore necessità. Cosi la condotta corregge la
dottrina. Gran.... ist alle Theorie— Und grilli des Lébeus goldner Baiati].
aver coscienza della bontà di quella condotta; la quale non può
nascere che dalla coscienza della bontà di un fine a cui la condotta ò, o
si crede che sia, ordinata; altra cosa è la necessità di certe
condizioni, altra è la loro desiderabilità; altra cosa è la spiegazione
storica, e altra la giustificazione etica. Di questa esigenza di una
giustificazione, alla quale, una volta che sia sorto il lavorìo riflesso
della comparazione e della critica, nessuna costruzione etica può
sottrarsi, si preoccupa invece il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui
presente successo si deve, come credo, in gran parte, alla insu
fficienza d el rel ativismo sociologico e storico nel campo della morale.
Esso è in sostanza, come è noto, un ritorno alla metafìsica in nome
delle esigenze pratiche; la affermazione del diritto di ciedere alì’
esistenza reale di quelle condizioni che si pongano come necessarie a
dare un fondamento oggettivo al valore delle norme e dei motivi morali. In
questa reazione a difesa della fede il nuovo idealismo, fatto audace cìàPfavore
delle circostanze e dalla debolezza degli avversari, è passato, come
accade, dalla difensiva alla offensiva; e non solo afferma la legittimità del
proprio indirizzo nel campo della morale e della religione, o, come si
dice, nel campo dei valori pratici; ma anche nel campo della
scienza, o d ei valori teoretici ; pretendendo che in ultimo anche il
sapere teoretico, benché non se ne accorga o si dia l’aria di non
accorgersene, non abbia altra ragione per giustificare i principi e i postulati
che assume a fondamento delle sue interpretazioni dei fatti e delle leggi
particolari, se non una ragione di convenienza ; il valore che quei
principi hanno come mezzi per la sistemazione del sapere, cioè in ultimo
per la soddisfazione di un bisogno speculativo. Qui non è il luogo
di discutere ciò che nella dottrina ci può essere di vero — più come
intuizione di un aspetto trascurato della realtà psicologica, che come
legittimazione di un metodo — per quel che riguarda la ricerca
scientifica; la con[Però non posso fare a meno di notare l'equivoco che, a
mio giudizio, si nasconde sotto la pretesa analogia tra la ragione
che legittima i principi teorici, e la ragione che il prammatismo invoca
a legittimare i principi pratici. L’equivoco è questo: E verissimo che 1’ im
rva Ira tura d<jl sanerò teor ico (a proposito, si può parlare di un
sapere non teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo cosi,
grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e in quanto
possono servire. Ma servire a che? A unificare e sistemare le cognizioni delle
cose dei fatti e dei rapporti come nono n on come desideriamo che nan o ;
a costruire non quella verità che piace a noi di ammettere, ma la verità
senz’ altro, sia o non sia conforme ai nostri desideri e ai nostri
capricci. Perchè il bisogno teoretico o scientifico è appunto il bi sogno
di .salier e le cose che s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come
le desideriamo. E qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione
come sono esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’espressione
come desideriamo che sieno. Perciò non è il caso di ripetere qui, sotto veste
gnoseologica, la domanda di Pilato. Perchè quando si parla, per es.,
delle leggi di gravità, si può bensì sostesidero nel campo della morale, c
soltanto rispetto ali’argomento che ci riguarda. Per questo rispetto la
soluzione che essa dà del problema della giustificazione etica, non dilferisce
sostanzialmente dalle altre soluzioni di carattere metafisico, se non
per il fondamento. A proposito del quale, siccome, se anche se ne
ammetta la validità, questa non toglie il difetto che nasce dal
'carattere metafisico della soluzione, mi accontento di osservare, per
quelli che credono di sfuggire per questa via all’utilitarismo, che essa
conduce a una forma, mistica se si vuole, ma ad una forma di utilitarismo
; anzi alla forma estrema e più radicale: la valutazione delle
stesse credenze metafisiche e religiose dal punto di vista di un
interesse umano ; sia pure questo interesse il massimo, il termine di
confronto di tutti gli altri. Perchè conduce a considerare la
credenza come un sostegno della moralità, ossia in ultima analisi come un
mezzo pedagogico. E non nere che questo è un modo nostro di formulare e
unificare i fatti ; ma i fatti sono quelli, e a nessuno viene in mente di
pensare che noi li crediamo veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in
piedi. E anche chi ammette che 1’ acqua sia stata fatta a posta per
cavarci la sete, sa benissimo (diamine !) che altro è dire che in un
pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno sete quei che vi guardano
dentro. Di questa indebita intrusione di argomenti gnoseologici in
que¬ stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta esaurientemente, con
profondità e con chiarezza, c ome suole, VARISCO (V. in particolare:
Introduzione alla filosofia naturale, e Studi di filosofia naturale).] è
escluso il dubbio che, a questo modo, proprio nel mentre ehe si pone il
valore della credenza, si venga a togliere valore all’oggetto della
credenza. Venendo ora al nostro argomento, è certo che l a soluzione
del prammatism o, come in genere le altre soluzioni di carattere
metafisico, soddisfa a quella esigenza della giustificazione etica,
alla quale non soddisfa il relativismo storico. Ma aneli’essa presenta —
dico all’infuori da ogni contesa sulla legittimità del fondamento e sulla
validità teoretica dei principi e dei postulati ammessi, il difetto capitale
delle costruzioni metafisiche. Ed è che il fine di ordine sopranaturale
cosi postulato, non può servire a determinare le norme. Non può servire,
per la ragione perentoria che la relazione tra un fine, che è al di fuori
e al di sopra della vita umana naturale e finita, e una con¬ dotta,
qualunque essa sia, che si deve dispiegare nell’ ambito delle leggi
naturali e i cui effetti determinabili sono contenuti nei limiti della
vita finita individuale e sociale, una relazione di questo genere,
dico, non può essere in nessun modo dimostrata, ma soltanto affermata. Ne è
prova il fatto che lo stesso fine sopranaturale, la stessa costruzione
metafisica può essere assunta a giustificare norme concrete di condotta
non soltanto diverse, ma opposte, senza che si possa ricavare da
essa nessuna ragione per la quale tra due forme di condotta diverse,
una possa o debba giudicarsi preferibile all’altra. Gilè, se si trova una
ragione di preferenza nell’ ordine degli effetti, che le due condotte
rispettivamente producono o tendono a produrre, quest’ordine di effetti, dà
alla condotta correlativa un valore che sussiste indipendentemente dal
fine sopranaturale, e diventa il fine naturale della condotta
medesima. Con questa differenza tra i due fini: che mentre dato il
primo, non si può (se non facendo appello a una rivelazione, cioè a una
autorità, e quindi a una pura affermazione) ricavare da esso quale
sia la condotta atta a raggiungerlo; dato questo fine naturale, le
norme si ricavano appunto dalle condizioni da cui il fine dipende, cioè dalla
connessione naturale tra la condotta e gli effetti della condotta.
Ossia un fine sopranaturale non può fornire esso il criterio per
determinare la condotta, se non a patto che — implicitamente o
esplicitamente — si assuma, come subordinato ad esso e da esso richiesto
un fine, o un ordine di fini, naturale, in relazione al quale in realtà le
norme sono stabilite. Nè concluderebbe nulla in contrario
l’osservare che il criterio desunto dagli effetti che l’azione
tende a produrre, riguarda la condotta esterna, non la interna,
nella quale sopratutto consiste il valore morale. In primo luogo anche se
per le due condotte, esterna e interna, valessero criteri diversi,
bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò anche la condotta
esterna conta pure qualchecosa, sarebbe ancora necessario ammettere un
criterio che valga a determinarla. In secondo luogo, benché siano,
in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni i sentimenti che hanno
valore e danno valore alle cose e alle azioni, e ogni valutazione si
riduca a valutazione comparativa di tendenze o sentimenti diversi;
non bisogna dimenticare che i sentimenti, come le aspirazioni, si
distinguono per il loro contenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui
si riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre intenzioni di
qualche cosa. E finalmente, una forma di perfezione interiore che si
consideri come fine, a cui Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non
può essa stessa fornire il criterio per determinare quale sia la
condotta richiesta a questo scopo, se non in quanto questa perfezione si
consideri come un effetto o un ordine di effetti che dipende naturalmente (in
parte al meno se non in tutto) da certe condizioni, ossia da certi mezzi.
Le pratiche dell’ascetismo non avrebbero senso se non si riconoscesse a loro
questo carattere di mezzi atti a produrre certi effetti. Concludendo: la
soluzione metafisica a cui fa appello l’indirizzo prammatistico, come
ogni altra soluzione di carattere metafisico, non può avere, anche
se non si ponga in dubbio la sua legittimità, che un ufficio consolatore,
non regolatore; può servire a dare o aggiunger valore a certe norme e ai
fini umani connessi con queste, ma non può servire a determinarle; può fornire
un principio di giustificazione, non un criterio di derivazione. E
perciò lascia da parte o suppone risoluto il problema che riguarda la
determinazione delle norme; il che ò quanto dire che lascia sussistere il
problema, e la validità delle ragioni per le quali si pone, e se ne
cerca la soluzione. Così dei due tipi diversi di costruzione etica
corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno q « — quello del
relativismo storico — se anche può offrire un criterio di
determinazione scientifica di un sistema di norme, non soddisfa
all’esigenza morale, ossia non giustifica il valore che ad esse si vuole
attribuire. Perchè, alle norme stabilite in conformità al criterio della
corrispondenza alle esigenze della vita sociale, non si può riconoscere
un valore superiore a ogni altra norma, se non supponendo che la forma di
esistenza sociale correlativa si riconosca universalmente e sotto ogni rispetto
più desiderabile di ogni altra; presupposto che non è per nulla
legittimato, nè si può ricavare. dal criterio assunto. L’altro — quello dell’i
dealism o prammatistico in quanto fa capo a principi e postulati
metafisici, serve a giustificare il valore che si attribuisce alle norme
morali, ma ò radicalmente impotente a fornire un criterio di determinazione
delle norme. Il primo può determinare le norme, ma non giustificarle
; il secondo può giustificarle ma non determinarle. L’uno e l’altro
tipo di soluzione hanno comune il preconcetto fondamentale che compito
dell’Etica debba essere quello di trova re le ragioni sulle quali ò
fondata la bontà o la giustizia di quella forma di condotta, che già
teniamo come buona. Ammesso tacitamente o esplicitamente questo
presupposto, l ’esigenza scientifica porta a riconoscere le connessioni
naturali tra quella forma di condotta e i bisogni della vita sociale del
momento storico, e quindi ad assumere come criterio etico la
corrispondenza a questi bisogni ; l ’esigenza morale o giustificativa
porta a cercare a quali patti o condizioni quella forma di condotta possa
veramente essere riconosciuta come buona, e quindi ad assumere come fine
della condotta un bene il quale soddisfaccia a quel requisito di
universale e preminente desiderabilità, che non si trova in quel fine,
che è in realtà il fine naturale della condotta. E i moralisti che cercano di
conciliarle ambedue, e soddisfare all’esigenza scientifica senza rinunciare
alla esigenza giustiE allora la conseguenza legittima è questa : che una
scienza normativa morale è possibile soltanto se il fine naturale che
serve a determinare le norme vale anche a giustificarle. Ma il fatto che
questa esigenza non ò soddisfatta finché si cerca la giustificazione di un
codice di condotta già dato, assumendo questo come punto di partenza, e
quindi come fine la forma di convivenza e di cooperazione sociale alla
quale esso codice corrisponde, — non prova l’impossibilità di una
etica normativa scientifica; prova al più la impossibilità di una tale
scienza finche si intende £0 il compito dell’ Etica in quel modo, [
CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e lecito porre il problema in
un modo diverso: cercare quale possa essere il fine che soddisfa a questa
esigenza, e dalle condizioni che esso richiede ricavare le norme
della condotta? Il porre il problema in questa forma non è forse
legittimato dalle difficoltà che abbiamo visto nascere dal porlo in forma
diversa, e dall’analogia] ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo
in conformità all’ esigenza scientifica il criterio, e in conformità all’
esigenza morale la giustificazione ; ossia attribuendo un valore
metafisico al fine umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal
quale si possono ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e in
apparenza unificati restano sempre distinti : e quando si tratta di
stabilire quale è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e quando si
tratta di dire perchè quella condotta è giusta, compare l’altro; senza
che si veda nessuna ragione perchè il secondo debba essere cosi pronto a
trovar giusto quello che l’altro suggerisce (che l’esigenza caratteristica
della norma etica non toglie) colle altre scienze precettive? Sento
risorgere l’obbiezione: Posto pure che l’impresa riuscisse, a che cosa
gioverebbe? Ma ò facile la risposta. In primo luogo, anche se non
servisse praticamente a nulla, non cesserebbe di avere un valore teorico
il sistema di rapporti che per tal modo si venisse a conoscere. In
secondo luogo a nessuno ò dato affermare a priori l’inutilità pratica di
una cognizione scientifica, sia pure che riguardi dati ipotetici (E quale
cognizione scientifica non contempla dati, almeno in parte,
ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni generali se ne può aggiungere
una terza particolare. Chi può dire clic al modo stesso, almeno, col
quale può essere utile la conoscenza delle relazioni che esistono
tra forme diverse di moralità e condizioni storiche diverse, non possa tornare
utile la conoscenza delle relazioni scientificamente stabilite tra una
forma di condotta possibile c un ordine di condizioni possibili? Concludo.
Il problema, s e una scienza normativa etica sia possibile, non è un
problema risoluto, ma è un problema da ris olve re. Se si possa e
si debba risolvere nel modo tenuto da Spencer, è questione diversa e clic
rimane da esaminare. E questa critica preliminare mentre avrà servito,
come spero, a dimostrare che il presupposto fondamentale di Spencer intorno
al compito dell’Etica non può essere a priori escluso, ha posto in chiaro
le esigenze fondamentali alle quali una scienza normativa morale deve
soddisfare. E così ci fornisce una guida per la critica della
dottrina. Il criterio del tinnite dell ’ evoluzione e dell’
adattamento completo nm^se^e a determinare il tipo di condotta cercato. Il
programma che Spencer traccia e si propone di seguire (non dico che in realtà
gli sia rimasto fedele) per costruire una scienza normativa etica, si può
raccogliere, in queste due te si: I.° La necessità di assumere come tipo
della condotta morale la condotta dell’ uomo giusto in una Società
giusta; e la necessità conseguente d ella disti nzione 'ìdfn fv** i tra etica
pura (Ji/icr assoluta) ed etica applicata parevo*)» f (Etica Relativa) e
della precedenza teorica della prima sulla seconda. II. 0 La
identificazione della condotta giusta, oggetto dell’oca Assoluta,
col tipo di condotta che egli pone come proprio del limite
dell’evoluzione. Ora, benché nel pensiero dello Spencer le due tesi
siano solidalmente connesse, e la seconda sia ilei'quadro del sistema la
fondamentale e quella che legittima e rende possibile ad un tempo la
sua costruzione, non ò difficile vedere come da un punto di vista
critico esse possono e debbono essere considerate a parte. La prima, infatti,
formula una veduta metodica ; la seconda esprime la speciale
applicazione che di quella veduta metodica Spencer ba creduto di fare. In altri
termini, è astrattamente possibile riconoscere che il tipo ideale dell’uomo
giusto non possa determinarsi se non in relazione con una società giusta
e clic per determinare la condotta giusta relativamente a certe
condizioni reali, sia necessario aver prima riconosciuto quale sarebbe la
condotta giusta in condizioni idealmente supposte, anche se non si
accetta che il tipo ideale di condotta giusta possa essere
concepito in quella forma e su quel fondamento che Spencer crede di
dovergli assegnare. Anzi io penso che la veduta espressa nella prima
tesi non solo si possa, ma si debba accettare come legittima e
necessaria, e che in essa si racchiuda come in germe un concetto fecondo.
Certo, credo, se una scienza normativa morale ò possibile, è possibile
per quella via; e i difetti della costruzione etica dello Spencer nascono
non dall’averla seguita, ma piuttosto dall’ essersene allontanato.
Cosicché la critica stessa della seconda tesi riesce a confermare
la legittimità della prima. Assumendo come tipo ideale di condott a
insta la condotta corrispondente al limite dellV vn ! azione, Spencer
riconosce, esplicitamente o implicitamente, alla forma di vita individuale e
sociale che segna quel limite, valore di fine morale. Ora. lasciando la
difficoltà, sulla quale altri ha già zifjf.'w’Ui insistito, che uno s
tato concepito come il risultato necessario dell’evoluzione naturale
possa aver valore di fine liberamente e deliberatamente voluto e
proseguito? difficoltà che non mi pare insuperabile, io credo che questa
identificazion e presenta He due difetti capitali : essa non vale,
per se, a for O' La difficoltà nasce dal modo di intendere la possibilità e
la necessità. Affermare la possibilità die si produca un fatto, non
è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei fattori,
l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli, produrrebbe, secondo
i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel fatto. Ora lo stesso
effetto che può apparire necessario in quanto si ammette la reale e adeguata
efficacia di tutti i fattori da cui dipende, ' può essere proposto come
fine quando tra i detti fattori entri l'azione MI'uomo, cioè quando la
necessità. dell’effetto sia condizionata dalla presenza e dalla efficacia
di certe idee, sentimenti, aspirazioni : cioè in una parola dalla presenza e
dalla efficacia adeguata del desiderio ili quell' effetto. In questo caso
non è escluso che l’effetto m questione possa aver valore di fine, anzi è
incluso elio 1’ abbia ; perchè la « necessità » dell’effetto è
subordinata appunto al valore che gli si riconosca di fine, e al
dispiegarsi, nell’ azione corrispondente, della volontà di
raggiungerlo. Che questa interpretazione sia compatibile coi principii
dell’evoluzionismo Spenceriano è questione che, come si vedrà, rimane
estranea all’ intento di questo studio, e che i più risolvono negativamente
(cfr., tra gli altri, ZECCANTE, La dottrina della co[ni re un criterio per la
derivazione delle norme morali (nella realtà, come si vedrà più innanzi,
il tipo ideale è determinato da Spencer sopra un altro fondamento);
e non è sufficiente come principio di giustificazione. Cominciamo dal primo. Il
concetto di evoluzione, come quello di tempo, del quale esso è, in fondo,
nuli’altro che la traduzione in termini di causalità naturale, esclude
l’idea di limite, inteso almeno come termine fisso, oltre il quale ogni
processo di trasformazione, cioè di causazione, si arresti. Il processo
stesso di dissoluzione che, secondo il pensiero di Spencer, si alterna a
periodi indefinitamente grandi con quello di evoluzione, non segna il
termine di un periodo e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di
vista scienza movale in Spencer; e G. V ijiaki: SERBATI (si veda) e
Spencer. Di queste, come di tutte le obbiezioni mosse all'etica di Spencer, a cominciare dal Guyau e dal
Sidgwick fino ai critici più recenti, tratta con grande larghezza e
ricchezza di notizie SALVADORI nel saggio “L’Etica Evoluzionista” che è una
apologia entusiastica di tutto il sistema Spenceriano. Colgo questa
occasione per dichiarare che ho dovuto astenermi da ogni richiamo sia
delle obbiezioni e discussioni di questi, come di altri critici valorosi
(tra i quali sia ricordato a titolo d’ onore il compianto Icilio Vanni),
sia delle varie opinioni che si connettono colle questioni generali toccate,
per due ragioni : in primo luogo perchè il punto di vista dal quale è qui
considerata la dottrina delle due etiche è diverso, e diversa la via seguita;
in secondo luogo perchè se avessi voluto per ogni questione toccata discutere
le diverse opinioni, avrei dovuto fare, a commento di un breve scritto,
tutta, o poco meno, la storia della morale. di una valutazione umana o
teologica. In realtà il cammino non si arresta per tracciar di segni
che l’uomo faccia sulla via della natura. Nè, del resto, quando
Spencer parla di limite dell’ evoluzione della vita umana, intende di
significare il momento in cui la vita si arresta o si spegno, ma
quello in cui la vita raggiunge il massimo svolgimento. Senonchò
questo massimo svolgimento non può essere. necessariamente, che relativo a
forme date e conosciute o comunque determinate di vita, cioè di
organi, di funzioni, e di attività; e, anche inteso cosi, non può venir
stabilito se non fissando un grado che si consideri come massimo; cioè,
insomma, segnando nel processo (non importa ora con quale criterio) un
momento, che sia punto di arrivo di una serie (della quale sia
rappresentato da punto di vista teleologico come fine), ma che
potrebbe essere preso, con un criterio diverso, come punto di partenza di
una serie ulteriore. È sufficiente a segnare questo momento il
criterio dell’adattamento completo ai tre ordini di fini: della vita
individuale, della vita della specie e della vita sociale? È subito
chiaro che questo adattamento completo non può bastare esso stesso, se non
si determina quali siano le sfere di attività e di fini,
l’adattamento ai quali serve di criterio per stabilire se il limite è
raggiunto. Perchè se si intende per adattamento completo un adattamento
definitivo a tutti i fini di tutti e tre gli ordini, termine fìsso
e insuperabile al quale si arresti, e oltre il quale non sorgano nuove
aspirazioni e nuovi fini, noi non potremmo argomentare nò che un tale
limite sia per essere raggiunto mai, nò, (ciò clic qui importa di più)
dato che si raggiunga, quale sia il grado o la forma di vita, che un tale
adattamento sia per fissare e suggellare come definitivo. Perchè i
fini sono, come ognuno sa, correlativi ai desideri o ai bisogni. Ora a
mano a mano che le forme di attività si moltiplicano c si differenziano,
si moltiplicano i bisogni e quindi i fini; nò si può nò induttivamente,
nè deduttivamente determinare a qual punto questo processo possa o debba
arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla tesi evoluzionista, ogni
adattamento implica diminuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus,
avanzo di energia; la quale appunto perciò si viene dispiegando in nuoA r
e forme di attività, c quindi nella ricerca di nuovi fini. Anzi il
sorgere di ogni forma più complessa di attività, ad esempio ogni funzione
più elevata — presuppone normalmente l’adattamento già avvenuto delle attività
meno complesse e relativamente elementari, funzioni più semplici di cui
essa ò una nuova ordinazione. Onde per questo rispetto l’adattamento a
certi fini, ò parallelo all’ insorgere di fini nuovi indefinitamente.
Oltredichè il processo stesso del conoscere portando a scoprire sempre
nuovi rapporti di cose e di fatti, viene continuamente riversando la DESIDERABILITA
dei beni conosciuti su nuovi oggetti che acquistano valore di utilità, c
moltiplica così i beni, cioè i desideri e i bisogni; o trova nel mutare
delle condizioni esterne nuovi modi di soddisfare ai bisogni già
esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o apre la via a nuove aspirazioni,
alle quali la soddisfazione già assicurata dei vecchi bisogni, permette
che si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni adattamento raggiunto è
condizione e stimolo a nuove forme di attività al modo stesso che ogni
conoscenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e nascere « a guisa di
rampollo, appiè del vero il dubbio. Si dirà che Spencer intende
l’adattamento completo nel senso di mutuo adattamento dei tre
ordini di lini fra di loro; intende cioè la conciliazione e l’accordo tra le esigenze
della vita individuale quelle della vita della specie e quelle della vita
sociale. Ma lasciando di notare che la difficoltà sopra notata
risorge a proposito di questa conciliazione perfetta, si presenta la
domanda: A quali patti si fa questa conciliazione? Perchè se è vero,
come Spencer ha cura di ripeter spesso, che nelle condizioni presenti di
esistenza i fini di un ordine non possono essere prosemiti c raggiunti senza
sacrificio almeno parziale dei fini di un altro ordine, bisogna
evidentemente perchè la conciliazione si faccia, che intervenga una
cessazione, o una modificazione o una sostituzione nei fini o di uno o di
due o di tutti tre gli ordini considerati; ossia una modificazione nei
bisogni e nelle esigenze dell’individuo, o della specie, o della
società. Supponiamo ora per semplicità di discorso che i fini individuali
e i fini della specie si possano considerare fin dal presente conciliati;
o, per usare i termini dall’economia pura, che si possa assumere 1’
egoismo di specie come comprendente m se l’egoismo individuale (il che è
in gran parte conforme alle vedute stesse di Spencer); la conciliazione
resterebbe da farsi tra i fini della vita individuale e i fini della vita
sociale. E allora il problema è il seguente: Nello stato di
conciliazione contemplato, fino a qual punto sono i bisogni e i fini individuali
da noi conosciuti o immaginati che avranno mutato di specie, di
estensione, di intensità, per adattamento alle esigenze sociali, e fino a qual
punto si troveranno invece modificate le esigenze sociali per adattamento
ai fini della vita individuale? E manifesto che per conoscere in che cosa
la conciliazione sia per consistere bisogna o che sia definita la
sfera delle esigenze individuali, in corrispondenza colla aliale si
possa determinare la sfera delle sociali che con quelle si accordi; o sia
definii sfera delle esigenze sociali per una determinazione tersa; o
finalmente siano definite certe corni z on (qualunque sia il modo tenuto
per assegnarle) 1 H vacano, esse, a determinare ad un tempo,
limiti «Ielle une e delle altro. :ì Queste condizioni Spencer
ricava dalle esigenze del “r » ™<ità induetnale
!«<<»' cui si suppone realizzato il puro «gnu» ' u ?» tratto
sotlo la leggo dell'uguale liberta ; e> 4* il limite dell'evoluzione è
in realtà,1 della società
industriale del suo temp, tamento completo consist costruttiva biologica
e psicologica 1 nenti la società umana a questo tipo d, convivenza
e di cooperazione. Per conseguenza non è un [qua.» riatto no «i *“Spencer
che qui il Etta, (cio4 quando que biella II. n edizione dei‘ de i System
of et’ opera fu ^pubblicata come Synth. Phil.) si trova
aggiun e cbe eva stato lo stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione,
fu dettato prima; ma, smarrì o poi Qra in quel ca pitolo
geisostituito da quello che figura ne . . ident ifi c hiuo provare
la possibilità che le attività ^«isMche ^ colle egoistiche, si
citano gli mse 1 s ’ nism i di[e—. -certo tipo di vita completa che serve a
determinare il tipo ideale della società giusta, ma è il tipo considerato
come ideale di società giusta che determina la vita completa. Adunque, poiché
la conciliazione dei diversi ordini di fini è subordinata all’ attuarsi
delle condizioni che definiscono il tipo ideale di società ed è relativa
a queste, è il tipo ideale di società clic in edotto è assunto come
fine, e sono le condizioni proprie di quel tipo che servono a determinare
le norme. benessere individuale non maggiore di quello che è necessario
alla conservazione della vita individuale; ed esser possibile il
formarsi negli individui di una organizzazione tale che la ricerca delle
soddisfazioni che la natura loro richiede, porti ad esercitare quelle attività
che il benessere della comunità richiede. Si noti che, aggiungendo in appendice
il capitolo che contiene questo passo, Spencer non fa riserve di nessun
genere, anzi dice esplicitamente che esso può servire a chiarire e compiere il
pensiero espresso nel testo. Un altro luogo in cui è ribadito in forma
diversa, ma non meno recisa, lo stesso concetto fondamentale, si trova
nella seconda lettera di risposta alle critiche di Davies sull’ obbligazione
morale, pubblicata col resto della polemica nellaAppendice C. alla
Giustizia. Lasciatemi ripetere qui una verità sulla quale ho altrove
insistito: che appunto come il cibo è giustamente preso quando è preso
per soddisfare la fame, mentre il doverlo prendere quando manca
l’appetito implica uno stato fisico disordinato; cosi una buona azione o
un atto di dovere è fatto giustamente soltanto se è fatto per soddisfare,
un sentimento immediato ; mentre se è fatto per la considerazione di
certi risultati finali in questo o in un altro mondo, implica uno stato
morale imperfetto (A. Sistem ecc. The Moral Motive. Nella trad. it. della
Giustizia edita da Lapi questa appendice è omessa. Ma se così è, quanto alla
determinazione delle nolane il postulato dell’adattamento completo,
posto clic si possa assumose, non serve a nulla;
equivale semplicemente a supporre clic tutti gli individui i quali
compongono la società ideale abbiano una natura così latta, che l’osservanza
della condotta corrispondente costituisca per essi un bisogno o un
desiderio superiore a ogni altro, senza possibilità di conflitto con
altri bisogni o desideri; cioè, tiene nella costruzione etica lo stesso
posto che nei sistemi morali è comunemente tenuto dal dovere, e nelle
scienze precettive in genere dalla supposizione che esista un desiderio o
un bisogno specifico corrispondente al fine da cui si ricavano le norme.
E quindi allo stesso modo che l’esistenza e la natura specifica dei
motivi da cui può dipendere l’osservanza di una norma, non hanno che
fare colla determinazione teorica di essa, così l’ipotesi dell’
adattamento completo dei bisogni e desideri individuali a certe
condizioni di convivenza e CO-OPERAZIONE sociale, non ha che fare colla
determinazione di queste norme. Perchè le norme sono ricavate appunto da quelle
condizioni, alle quali si suppone avvenuto l’adattamento; e che perciò
servono esse di critetio e per determinare le norme e per conoscere se
l’adattamento è raggiunto. Uljh&MJ? Jabot* Il criterio del
piacere puro, corrispondente all’ adattamento completo, non ser re a
giustificare il tipo di condotta proposto. Ma perchè assume Spencer come
proprio della Società ideale un adattamento completo, che, mentre esclude
arbitrariamente ogni evoluzione ulteriore, non serve a definire questa Società
ideale perchè è definito esso stesso in relazione con quella? Perchè
soltanto quando esso sia raggiunto, la condotta umana in tutta la sua
estensione apporta a sè e agli altri nel presente c nel futuro puro
piacere, piacere non misto a dolore di sorta ; e per Spencer, come s’è
visto, il giusto assoluto e sclude il dolore . E perciò il tipo ideale
contemplato dall’etica Assoluta non può essere se non quello nel quale la
condotta apporta puro piacere. L’ adattamento completo darebbe
dunque al tipo ideale di convivenza e cooperazione sociale quel
carattere di universale e preminente desiderabilità, che deve avere il
fine assunto dall’etica. Lo dà veramente? Benché a prima vista
possa parere strano il dubbio e inutile la discussione, bisogna
riconoscere che un tipo di esistenza individuale e sociale nel
quale tutta quanta la condotta in tutta la sua estensione porti sempre e
soltanto piacere, non è, date le leggi psisologiche conosciute, e non può
essere, un fine.universalmente desiderabile sopra ogni
altro. Lascio di discutere se, supposta una condotta, diciamo così
per brevità, totalmente piacevole, il piacere stesso non verrebbe a
sparire, come stato di coscienza distinto, per mancanza di quel contrasto
e di quell’ alternanza fra gli stati psichici (così bene illustrata tra
gli altri dall’ Hòffding), senza della quale anche i godimenti più forti
il languidiscono e vaniscono nella ripetizione abituale; e di considerare
se la forma di vita corrispondente non riuscirebbe a sopprimere in ultimo
anche ogni forma di coscienza riflessiva e di deliberazione volontaria,
cioè l’intelligenza stessa e la volontà, almeno nelle loro forme più elevate
riducendo la vita a una sorta di automatismo istintivo, al quale
corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli d’uomini meccanizza
ti. Certo, se si bada clic l’attenzione attiva è sempre, in grado maggiore o
minore, sforzo, e clic lo sforzo è alimentato principalmente, se non
unicamente, dal dolore e non dal piacere, bisogna riconoscere che la
capacità dello sforzo e l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a
svanire collo sparir del dolore; e il vigore dell’intelligenza si
affievolirebbe; come già si può osservare in quelle persone sfaccendate e
sonnolente, le quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura
tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo di altri bisogni, e di
aspirazioni diverse. E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a
maggior ragione per la volontà. Certamente le leggi psicologiche
conosciute tendono ad escludere, per le ragioni accennate sopra a
proposito dell’adattamento completo, che un tale stato possa avverarsi ;
ma, dato che potesse attuarsi, non ci sarebbe nessuna ragione per negare,
in forza delle medesime leggi, l’eventualità se non della
soppressione, di un oscuramento progressivo delle facoltà psichiche più
elevate. E allora si presenta subito la questione, se, ammessa pure
soltanto la possibilità che a un tale stato si accompagnasse questo effetto,
potrebbe una forma di esistenza siffatta apparire desiderabile sopra
ogni altra. Si potrebbe dire: Che importa l’oscuramento e anche la
soppressione dell’ intelligenza e della volontà, purché sparisca il
dolore? E quando non vi siano altri bisogni e altri desideri che quelli
appunto che trovano già una soddisfazione adeguata, ossia, quindi, non ci
sia più nemmeno la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni diversi,
non è una tal vita nel suo genere beata; anzi la sola beata perché é
esclusa la capacità di provare altri bisogni? Ora che un tale stato
possa, anzi debba apparire il più desiderabile quando si supponga
l’adattamento già raggiunto, è fuori di contestazione; ma qui si
tratta di vedere se un tale stato possa essere preferibile per chi ne ò
fuori, e dovrebbe proporsi come scopo di raggiungerlo. Se, cioè, a chi
esercita certe forme di attività possa parere desiderabile sopra
ogni altro un tipo di vita, nel quale per avventura quelle attività
fossero oscurate o soppresse. In questo caso possono valere
l’osservazione notissima del Mill e la ragione colla quale la conforta;
che, certo, non avrebbero valore nel primo caso. Ma anche lasciando
questo aspetto della questione, non bisogna dimenticare che appunto
perchè il piacere puro è il correlato subiettivo dell’ adattamento
completo, la medesima condizione di una condotta totalmente piacevole,
per le ragioni dette a proposito dell’indeterminatezza nel numero e
nella specie dei (ini, rispetto ai quali l’adattamento [ È meglio essere
un nomo i nfelice che un jjj^o.ap,ddi.sfotto: è meglio essere Socrate
malcontento che un imbecille beato. Ora la ragione addotta da Mill vale
per l’uomo, ma non per l’animale, e l’Hoffding non ha torto di spendere,
come egli dice graziosamente, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’
imbecille. E nota infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la
soddisfazione intera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare
il suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che
la conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche nell’uomo felice
il desiderio ardente di giungervi che è appunto ciò che <pii importa.
(Hoffding Morale). potrebbe essere raggiunto — può concepirsi
attuata non in una sola ma in più forme di vita fra di loro diverse
; e resterebbe sempre da trovare un criterio comparativo della DESIRABILITA,
o da ammettere che tutti i tipi di vita, per i quali si concepisce
possibile una conciliazione fra i tre ordini di fini (anche se la
conciliazione fosse ottenuta allo stesso modo che nelle società animali,
cfr. la nota qui sopra), siano ugualmente desiderabili. Il che
importerebbe la legittimazione a pari titolo di forme di condotta fra di
loro diverse e anche opposte; e si dovrebbe ricavare daltronde che
dal piacere puro il fondamento della legittimazione. E qui tocchiamo un
argomento il quale si allarga fuori del campo particolare della dottrina
di Spencer e riguarda nello stesso tempo una questione più generale: la
natura del fine. Siccome il carattere che si richiede nel fine
assunto a giustificare le norme morali è, come s’è ripetutamente detto,
quello della universale e preminente desiderabilità sopra ogni altro, si
pensa che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo e
supremo ; uno stato definitivo, oltre il quale, e al di là, non ci sia
più nulla da desiderare e da cercare. E allora non resta che questa
alternativa: o si cerca un fine il quale contenga e comprenda in sò
tutti i fini; e prendono forma I FANTASMI DI FELICITA, DI BEATITUDINE [CICERONE],
di perfezione, noi quali si fd" figurano definitivamente appagati tutti i
desideri, e scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano
appagamento ; oppure si considera come fine la forma colla quale si
presenta alla coscienza la soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il
piacere o la liberazione dal dolore. Ma tanto l’una quanto l’altra
delle soluzioni non sono che apparenti, o si risolvono in una vana
tautologia. PORRE COME FINE LA FELICITA senza determinare quale sia o IN CHE
CONSISTA LA FELICITA DI CUI SI DISCORRE è certamente un modo per
conciliare verbalmente tutte le differenze di opinioni e superare tutte
le difficoltà; ma nella realtà non le concilia e non le supera, più di
quel che valgano a togliere le diversità di opinioni politiche e a
raccogliere i partiti ad unità di intenti certi ordini del giorno in cui si
afferma all’ unanimità essere fine supremo per tutti il bene della patria
o la prosperità della nazione o altre formule somiglianti. E se si
determina in che si faccia consistere la felicità, quali siano i fini che
si comprendono nel fine unico chiamato con questo nome, allora
delle due l’una: o i diversi fini così compendiati e compresi nel fine
unico, sono veramente unificati, e, perchè ciò sia. occorre che essi
possano ridursi ad uno; e quindi diesi possa dimostrare che uno fra
essi è causa o condizione degli altri, o che tutti dipendono da una
medesima condizione o ordine di condizioni; e in questo caso la felicità
è caratterizzata o da quel fine o dal conseguimento di questa condizione,
che diventa esso fine, perchè su esso si riversa la desiderabilità di
tutti ; e il termine FELICItA non è che.un duplicato di quel certo fine o
di questa condizione. Oppure i diversi fini non sono clic sommati
insieme, e giustaposti l’uno all’altro, rimanendo in realtà distinti e
senza che si veda la necessità della loro connessione; e allora 1’
unità non è che verbale, e in realtà invece di un fine, si hanno più
fini, ciascuno nel suo genere supremo. Si dirà che si dà alla FELICITA
non il senso di un certo contenuto determinato che la
costituisca, ma il senso di appagamento dei desideri, di soddisfazione dei
bisogni, senza clic si definisca quali ne siano per essere il numero e le
specie; nel qual senso si può affermare che LA FELICITA rimane
sempre il fine ultimo pur restandone indeterminato il contenuto? E
si riesce allora alla seconda alternativa, di considerare come fine ciò che si
ammette esservi di comune e di costante nel raggiungimento di
qualsiasi fine; cioè, come s’è detto, la forma sotto la quale si presenta
la soddisfazione di qualunque desiderio : il piacere o la liberazione dal
dolore. Ma dire che il fine ultimo è il piacere è come dire che il line
ultimo è il godimento che accompagna il raggiungimento del fine o dei
fini, o che lo scopo dei desideri è la soddisfazione dei desideri.
E allora si vede perchè il puro piacere non possa dare un criterio di
legittimazione e di valutazione comparativa dei fini e quindi delle
forme di condotta. Perchè o si prende come criterio la quantità del
piacere, la intensità della soddisfazione, senza badare alla natura del
desiderio a cui corrisponde, e non è possibile assegnare un solo
desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per due coscienze diverse,
neppure per la stessa coscienza in momenti diversi. 0 si valuta la
soddisfazione secondo i desideri cui corrisponde, e allora ciò che
distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfazione ma l’oggetto a cui il
desiderio si rivolge; non l’effetto soggettivo gradevole, ma le
condizioni che lo producono, non è il godimento del bene, ma il
bene. Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco nell identificare il bene col
piacere; il fine, cioè l’ordine di effetti che costituisce l’oggetto del desiderio,
collo stato soggettivo che è il godimento (quando ci sia) del fine
raggiunto. È bensì vero che un bene di cui si concepisse che nessuno
mai potesse godere in nessun modo, non avrebbe valore di bene; ma è
non meno vero che un godimento del quale non si sapesse assegnare nessuna
causa o condizione o mezzo atto a produrlo, non potrebbe mai essere
proposto o assunto come scopo di un'at¬ tività qualesivoglia. Ora quando
si parla di un fine desiderabile sopra ogni altro al quale sia ordinata
la condotta, non si può intendere che un bene, il quale sia bensì,
direttamente o indirettamente causa o mezzo o condizione di godimento, senza
di che non sarebbe bene; ma che non può consistere nel godimento stesso,
ma in un certo effetto o ordine di effetti determinabile e
possibile, che possa costituire l’oggetto di una ricerca attiva,
cioè di una certa condotta Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso e
quivoco che CONDUCE A RIPORRE IL FINE NELLA FELICITA o nel piacere; l’equivoco
che questo effetto o ordine di effetti debba costituire un fine
ultimo, uno stato definitivo, al di là del quale non siano
assegnabili altri fini. Uno stato, o un ordine di effetti definitivo è
contraddittorio non soltanto colle leggi della vita, per le ragioni già
dette, ina col presupposto stesso fondamentale che si assume di
necessità quando si voglia determinare scientificamente un sistema di norme.
Perchè qualunque [Non altrimenti avviene nel campo speciale
dell’economia. E bensì vero che se non si supponesse la possibilità del
consumo, cioè del godimento dei diversi beni che costituiscono la
ricchezza, questa non avrebbe valore, e non avrebbe senso la produzione ;
ma 1’oggetto a cui si volge 1’attività produttrice e del quale si cercano
le leggi, è la ricchezza, non il consumo. fine rappresentato come
umanamente possibile, appunto perchè deve essere concepito come un
effetto, che si produce, date certe condizioni, è a sua volta
pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo ad altri fini.
Pensare un effetto naturalmente possibile che sia ultimo, è come pensare chiusa
e finita a un momento dato la serie della causazione, abolita e spenta in
un effetto che sia stato prodotto ogni efficacia causativa; e allora vien
meno ogni ragione di pensare come dipendente da certi mezzi, cioè
da certe cause, anche l’effetto stesso che si considera come fine ultimo;
e quindi è tolto ogni fondamento a qualsivoglia determinazione di
rapporti tra mezzi e fini, e perciò anche a qualsiasi determinazione di
norme. Si dirà che si intende ultimo rispetto alla salutazione, cioè
talea cui si riconosca valore per sé, indipendentemente da ogni
considerazione ulteriore. Ma se si ammette che da quel fine, quando sia
raggiunto, dipendono altri effetti, nell'atto stesso che lo si pensa
condizione di tali effetti ulteriori, la valutazione di questi (che non
può essere esclusa) •muta il valore del fine egli dà nello stesso
tempo valore di mezzo. Dal che nasce questa conseguenza assai
notevole: che la desiderabilità di un ordine di effetti, che si assuma come
fine, non viene tanto dalla desiderabilità che gli si riconosca come
bene. cioè come oggetto diretto e immediato di godimento, quanto
dalla DESIDERABILITA degl’effetti, dei quali esso apparisca la condizione
necessaria. E che perciò, mentre è vano andar cercando quale sia il fine
ultimo, il quale non si trova mai, o si risolve in una pura espressione
verbale, il fine che può valere come supremo si deve cercare non
nell’uno o nell’altro degli scopi a cui si riconosca valore per sè,
ma in un ordine di effetti, in un sistema di condizioni, dato che sia
assegnabile, nel quale si possa riconoscere questo carattere appunto di
condizione necessaria, non di alcuni, ma di tutti quei beni, ai quali si
attribuisce valore per sè. E quindi il fine che può avere universalmente
una DESIDERABILITA superiore a ogni altro, non può consistere se non in
un ordine generale e, si potrebbe dire, preliminare di condizioni, la cui
attuazione apparisca necessaria perchè sia possibile universalmente la
ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè supremo nel senso di
una gerarchia, della qiiale segni il culmine, nè nel senso di una
grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso della
precedenza necessaria o della indispensebilità; per la quale venga a
raccogliersi su di esso come in un unico foco la luce e il calore di DESIDERABILITA
che irraggia dai fini ai quali apre universalmente la via. E perciò,
ammesso che qualsivoglia fine umano abbia, come ha in realtà, per
condizione la convivenza e la CO-OPERAZIONE sociale, il line che può
avere questo valore di precedenza necessaria sugli altri deve essere di
necessità il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni ili
convivenza e di cooperazione sociale, cioè di una qualche forma di
società. Ma perchè ad una forma di società possa essere riconosciuto questo
carattere universalmente, occorre che le condizioni della sua esistenza
abbiano per tutti un valore potenzialmente uguale: ossia che nessuno dei fini,
dei quali quella forma di cooperazione pone la possibilità e dai
quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa
forma, precluso o impedito a nessuno dei componenti la società. 0, in
altri termini, sia qualsivoglia il fine che si suppone cercato,
ciascuno trovi nelle condizioni proprie di quella forma sociale la medesima
esteriore possibibilità di rivolgere a quella ricerca l’attività propria. che
vi trova qualsiasi altro. L’analisi ci ha dunque portato a queste
conclusioni: a riconoscere che il limite dell’evoluzione, 1’adattamento
completo, la massima FELICITA, nè for[Il che non implica, occorre appena
avvertirlo, una uguaglianza nei risultati ottenuti, o come si dice
inesattamente, una uguale distribuzione di FELICITA la quale supporrebbe,
insieme colla condizione notata, anche una uguaglianza di attitudini, di
attività e di preferenze.] nisce un criterio ili determinazione delle
norme, nò basta come principio di giustificazione; a riconoscere la
legittimità del concetto, clic bisogna assumere come fine un tipo ideale
di società; e a stabilire le esigenze fondamentali, alle quali
questo tipo deve soddisfare. Ed ora è facile vedere per quali
ragioni il tipo sul quale in realtà Spencer ha modellato la sua
società giusta non soddisfaccia a queste esigenze. Il tipo di società
giusta di Spencer. In un articolo di risposta ad alcune critiche mosse ai dati
dell’etica Spencer polemizzando con Means così si esprimeva a proposito
del modo di intendere la giustizia: A molti sembra ingiusto che la dura
fatica di un bifolcogli faccia guadagnare in una settimana meno di quanto
un medico guadagna facilmente in un quarto d’ora. Molti sostengono essere
ingiusto che i figli del povero non possano avere i vantaggi del
l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma quest e deficenze nelle
quote di FELICITA che alcuni ritraggono dalla CO-OPERAZIONE, sicc ome clerivano
da ereditata inferiorità di natura, o da inferiorità di c oMizioniMn cui
i loro antenati inferiori sono c a~
cinti, sono deficienze colle quali la giustizia, come io la
intendo, non ha nulla che fare. L’ingiustizia che trasmette alla
discendenza malattie c deformità, l’ingiustizia che infligge alla prole
le conseguenze penose delle stupidità e della cattiva condotta dei
genitori, la ingiustizia che costringe quelli che ereditano delle inc
apac ità, a lottare colle difficoltà clic ne derivano, l’ ingiustizia che
lascia in relativa p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or < 1 i ne inferiore, apportano ad essi
scarsi profitti, 6 una specie di ingiustizia estranea alla mia
tesi. il i cose stab ilii'-, quantunque in forza di esso, una inferiorità
della quale l’individuo non ha colpa produca i suoi mali, e una
superiorità della quale egli non può vantare nessun merito, apporti i
suoi benefìzi; e dobbiamo accettare, come possiamo, tutte quelle
disuguaglianze che ne deri vftrm vantaggi che i cittadini si
procacciane rispettive attività. Ho citato questo passo, non perchè
gli stessi concetti qui espressi non siano, esplicitamente o impli¬
citamente, sostenuti in tutta quanta la sociologia e la morale dello
Spencer, ma perchè forse in nessun altro luogo appare piu manifesto il
presupposto che vizia la sua concezione della società ideale. Assu¬
mendo come elemento del concetto di giustizia — accanto a quello dell’
uguale libertà — la condi¬ [Replie to Criticism on The Data of Etihcs in
Mind. zionc ricavata dalla biologia, che la vita progredisce c si eleva
soltanto a patto che gli individui superiori godano i vantaggi della loro
superiorità e gli inferiori subiscano i danni della loro inferiorità,
egli identifica la inferiorità fisiologica e psichica colla inferiorità
sociale; la inferiorità obesi potrebbe chiamare nativa o costituzionale
colla inferiorità clic si potrebbe dire di posizione. Ora, che un uomo
debole non possa vincere le medesime resistenze che uno forte, che un
bambino poco intelligente impari meno e peggio di un intelligente, è
naturale e necessario; ma non si può dire che sia giusto nè ingiusto. Che
i figli ereditino F ingegno o l’ottusità, la sensibilità o l’insensibilità, il
vigore o l’infermità dei genitori, e che i primi godano i vantaggi e i
secondi sopportino i danni che sono conseguenza rispettivamente di questa loro
soperiorità o inferiorità ereditata, sarà del pari biologicamente necessario,
ma non è ancora nè giusto nè ingiusto; diventa bensì giusto o
ingiusto rispettare o violare questa relazione naturale, soltanto se si
considera questa relazione come condizione di una elevazione progressiva delle
specie che sia assunta come effetto universalmente desiderabile, cioè
come fine. Ma che i figli del contadino non abbiano la possibilità di
venire istruiti o educati, non dipende dalla costituzione fìsica e
mentale loro propria, ereditata o no, ma dipende da una inferiorità
sociale, la quale toglierebbe ad essi questa possibilità anche se
la loro costituzione fisica e mentale Cosse attissima a questa coltura. Ora,
mentre l’analogia della selezione biologica importerebbe che i figli del
contadino al pari di quelli del lord potessero porsi allo stesso cimento,
salvo a ricavare dalle loro rispettive capacità e sforzi frutti maggiori o
minori, la diversità delle condizioni sociali esclude gli uni dalla
gara c toglie non solo la necessita ma la possibilità clic l’opera di selezione
si rinnovi tra i superstiti di ogni nuova generazione sull’unico
fondamento delle loro rispettive attitudini e attività. Sul che non è necessario
insistere dopo le critiche note e ripetute; ma valga l’accenno per rilevare che
a torto Spencer identifica colla inferiorità biologica, o meglio,
costituzionale, l’inferiorità clic deriva dalle condizioni sociali, e
crede che possa valere a giustificare le conseguenze della seconda,
lo stesso fine che invoca a giustificare le conseguenze della prima.
Perchè la limitazione alla sfera dei beni conseguibili che è imposta da
condizioni esteriori è cosa affatto diversa dalla limitazione clic nasce dalla
capacità e dalle doti intrinseche; e se questa è giusta, posto che si
prenda per fine superiore a ogni altro V elevazione della specie (e
dato che ne sia condizione), quella è giusta soltanto se si considera
come fine superiore quella certa forma ili cooperazione sociale che la
rende necessaria. Anzi quella limitazione d’origine sociale che si ponga
come giusta per quest’ ultimo rispetto, appare ingiusta per l’altro. E
l’ammettere che sia giusta la condizione che ciascuno sopporti i
danni della sua inferiorità e goda i vantaggi della sua superiorità » non
include, ma piuttosto esclude l’altra condizione, a torto da
Spencer compresa o conglobata con quella; che ciascuno sopporti i
danni o goda i vantaggi che sono conseguenza di una inferiorità o di una
superiorità, la quale risulta non dalle sue doti fisiche e mentali, ma
dalla assenza o dalla presenza di certe circostanze esteriori. E in
verità sarebbe da meravigliare che Spencer non abbia rilevato la differenza, o
non ne abbia tenuto conto, se non si ricordasse che il punto di
partenza, il foco centrale da cui muove e attorno a cui si raccoglie la
sua speculazione, è, come s’ò detto in principio, un ideale etico,
anzi propriamente sociale e politico; onde l’intento principale diventa
quello di trovare la giustificazione del suo ideale nelle leggi della
vita, e per esse nelle leggi stesse dell’ universo. l ( h Ora il suo
ideale sociale e politico è in sostanza quello stesso del liberalismo, in
cui crebbe e si maturò il suo pensiero, che era già compiuto e
definito nelle sue parti quando uscì il Prospectus; e perciò nel costruire la
sua società di uomini giusti, per quel che si attiene alla struttura
sociale, egli non fa che supporre realizzati i desiderati teorici, o già
riconosciuti espres¬ samente, o ricavati logicamente dai postulati
economici e politici di quel liberalismo. Il quale era bensì arditamente
coerente nella affermazione dei principi e dei corollari riassunti nella
formula della giustizia (la uguale libertà per tutti), ma conside¬
rava o come anteriori ed estranee a questa legge, o come naturali ad un
tempo e conformi ad essa, le dive rsità storicamente date di condizione
econ o mica degli individui e delle classi socia li. Onde Spencer non tenne
conto della disuguaglianza effettiva, che nell’ esercizio di quella libertà,
formalmente uguale per tutti, porta 1’ esistenza di quella diversità, che
egli credeva giustificata dalle leggi biologiche . 1 frinii. Ne
segue che mentre nella sua società ideale egli costruisce l’individuo
giusto facendo astrazione da tutto ciò che nei fini individuali vi può
essere di incompatibile non solo colla cooperazione, ma anche colla
simpatia ; n el costruire invece la società giusta fa ben s ì astrazione da
ogni forma di aggre ssione esterna e interna che si esercit i, dato
lo stato di cose stabilito, ma non fa astrazione da quelle con dizioni
che importano una reale limitazione diversa nella sfera delle attività é dei fini
conseguibili dei singoli; e però la sua non è una società giusto, ma una
società di uomini giusti; giusti, dirci, secondimi quid; la cui
giustizia, cioè, è modellata sulle esigenze di una certa struttura sociale,
nel configurare la quale egli non tien conto di quelle condizioni che pur
suppone soddisfatte nel formare il tipo dell’ uomo giusto. E cosi si
avvera qui una i n eoe ronz a del genere che si ò accennato più sopra:
che le norme della sua giustizia siano applicate a regolare delle
relazioni derivate, le quali esistono e sono possibili in grazia di
relazioni primarie e fondamentali, che le norme non contemplano e che
sono la negazione del criterio applicato in quelle. Perchè mentre suppone
che gli individui seguano nella loro condotta una perfetta imparzialità
subordinando alle esigenze della giustizia o dell’uguale libertà — fine
prossimamente supremo — tutti gli altri fini generali e particolari, suppone
poi, come proprie di una tale cooperazione di uomini giusti,
condizioni che sono in tutto o in parte la negazione dell’imparzialità, e
che non esisterebbero se lo stesso criterio dell’ imparzialità fosse seguito
nel costruire il tipo della società giusta. E in questo senso che,
accennando incidentalmente altrove all’etica assoluta dello Spencer, notavo
come un vizio di essa non un eccesso, ma piuttosto un difetto di
astrazione; perchè egli assuine abusivamente come esigenze costanti e
universali di ogni forma di CO-OPERAZIONE, e quindi anche del suo tipo
ideale, le condizioni proprie di un certo momento storico; e pone come
dati fon¬ damentali di una cooperazione regolata dalla legge della
uguale limitazione per tutti, delle condizioni che importano una
limitazione disuguale. Stando così le cose, il raggiungimento o
l’approssimazione a un tale tipo di società, non può apparire come fine
universalmente preferibile, nè le norme che esprimono la condotta
richiesta da quel tipo possono avere carattere di universale osservabilità
sopra ogni altra, E ciò da un doppio punto di vista. Agli individui
delle classi sociali poste, per effetto di quella disuguale limitazione, in
condizione di inferiorità, questa inferiorità che non è conseguenza della
propria condotta, deve apparire una menomazione ingiusta dei diritti;
agli individui delle, classi sociali poste in condizioni di
superiorità, questa superiorità, che parimenti non è conseguenza
della propria condotta, deve apparire, se la coscienza si elevi a una
imparzialità universale e coerente, una menomazione ingiusta dei
doveri, E nasce di qui quel se greto rancore in chi riceve, e
quel senso indefinito di malcontento e quasi di rimorso in chi dà, clic
avvelenano talvolta dalle sorgenti la simpatia, oscurando la
serenità della beneficenza, se la accompagni il dubbio che essa non
sia se non un compenso parziale e tardivo di ingiustizie patite e di
ingiustizie godute. La simpatia non può essere schietta dove
non regna la giustizia; e non si possono definire le forme e i
limiti della beneficenza se non dopo die siano definite, e siano o si
suppongano osservate le norme della giustizia; onde la necessità logica
che il tipo ideale della società giusta sia determinato all’infuori da ogni
supposta efficacia modificatrice che la SIMPATIA e la BENEFICENZA
esercitino sulle condizioni e sulla condotta dei singoli e della società.
Soltanto così è possibile accertare se il tipo di cooperazione assunto
come ideale possa essere universalmente desiderabile, e soltanto
così è possibile determinare dove la giustizia finisca e la
beneficenza cominci; dove finiscano le relazioni di diritto e dove
comincino le relazioni di simpatia. Ora il tipo di società ideale di Spencer
prei cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva inevitabil-mente dal primo;
di supporre realizzate le condizioni della perfetta simpatia in una società
nella [Questo si riflette con tutta chiarezza nella pratica
quando si tratta di rapporti semplici e sulla giustizia dei quali non
cada dubbio; poniamo tra due commercianti onesti che abbiano
relazioni d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi di cortesie
che sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i diritti e
gli obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e
tingono d’altro colore i rapporti di simpatia. quale non sono
realizzate le condizioni della giustizia. La sua società è una società più o
meno ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla quale
egli ricava per un verso le norme della giustizia, e per l’altro le norme
della simpatia; invece di essere una società giusta di uomini
giusti, quando si tratti di determinare le norme della giustizia ;
e una società giusta di uomini perfettamente SIMPATIZZANTI quando si tratti di
determinare le norme della simpatia e della beneficenza. Ma anche
supposto che per questa guisa la perfetta simpatia venga a sanare gli
effetti delle inferiorità imposte dalla cooperazione sociale, il
tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo difetto: che la ricerca e
il raggiungimento di alcuni dei fini, ai quali LA CO-OPERAZIONE serve,
apparirebbe per una parte dei COOPERANTI subordinata alla benevolenza di
un’ altra parte. Il qual difetto basterebbe per togliere, nel giudizio di una
coscienza imparziale, a quel tipo di CO-OPERAZIONE il carattere di
univers ale preferibilità. Ma il difetto era, come s’ò detto, dato
il presupposto Di Spencer, inevitabile. La simpatia è pe r lui il
mezzo di conciliazione dell’egoismo coll’altruismo. Ma poiché i limiti
rispettivi dell’egoismo e dell’altruismo sono segnati dalle esigenze del
suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo la condizione
dell’adattamento psicologico dei singoli a queste esigenze. Ed ò caratteristico
a questo riguardo il latto che il capitolo, nel quale si tratta
dello svolgimento progressivo della simpatia come l’attore della
conciliazione, porta lo stesso titolo e sostituisce nei dati »il capitolo
smarrito e aggiunto poi in appendice, che ho citato più sopra, nel quale si
cita come esempio di conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo
l’adattamento alle esigenze della vita sociale delle api e delle
formiche. Per questo rispetto direi, se non sembrasse un paradosso, che
il grande assertore e propugnatore dell’individualismo, è in fondo,
senza che se ne accorga, un difensore della subordinazione totale e
definitiva dell’individuo a un tipo di CO-OPERAZIONE sociale, che egli
considera bensì come la condizione necessaria alla vita più elevata dell’individuo
e della specie, ma che in realtà vincola il grado di elevazione della
vita di un gran numero se non di tutti gli individui, alle esigenze di
una certa struttura economica. E quando egli combatte l’intervento
della società nel regolare i rapporti economici, in nome dei
diritti dell’individuo, dimentica che una parte considerevole di quei diritti,
sono in realtà diritti di alcuni soltanto, e non di tutti, c che questa
disparità ha la sua radice nella costituzione economica, che lo stato,
come egli lo vuole, interviene pure a sancire e a difendere. La quale
osservazione, giova notarlo, non vale per sè nè prò nè contro il
cosidetto Socialismo di Stato. Vale soltanto a provare che
l’individualismo di Spencer non è, come pare, un individualismo
universale, ma un individualismo particolare. Cosi, i l difetto
capitale del tipo di società di Spencer come in genere del cosidetto stato
di diritto nasce non da quel che afferma, ma da quel che dimentica
; non dal riconoscere e difendere le esigenze della uguale libertà per
tutti, ma dal non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o dal1’omettere,
come se fossero soddisfatte, mentre non sono, le condizioni che rendono
possibile 1’ uguale libertà. E, ad esprimerlo in termini
kantiani, il difetto si riduce a questo.DOVE VI E CO-OPERAZIONE CON
EFFETTIVA PARITA DI DIRITTI, CIASCUNO DEI COOPERANTI HA AD UN TEMPO RIGUARDO A
QUALISIASI DEGLI SCOPI DELLA CO-OPERAZIONE, PER UN RISPETTO RAGIONE DI MEZZO E
PER L’ALTRO RAGIONE DI FINE. SE INVECE L’ESIGENZE DELLA CO-OPERAZIONE
INDERDICONO A QUASIVOGLIA DEI [Nota LORIA che quando si grida contro la
concorrenza come causa di una infinità di mali, si attribuisce alla
concorrenza la produzione di effetti che nascono dalla mancanza di
concorrenza, cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto
nel campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza
benefica. Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione, e sono il
risultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della mancanza
di concorrenza fra lavoratori e capitalisti. (Cost. Ec. Odierna)] COOPERANTI la
ricerca di una parte dei beni, a cui E CONDIZIONE NECESSARIA LA
CO-OPERAZIONE DI TUTTI, per questa parte l’escluso ha soltanto RAGIONE DI MEZZO,
e *non* RAGIONE DI FINE. Il che avviene appunto, malgrado il
riconoscimento formale, o meglio, verbale, della uguale libertà, anche
nella società ideale di Spencer. La quale perciò non può aver valore di
universale e preminente DESIRABILITA perchè non soddisfa alla
condizione richiesta: che tutti i sodi trovino nelle condizioni di
esistenza della società la medesima o equivalente possibilità esteriore di
rivolgere la loro attività alla ricerca di QUALSIVOGLIA DEI BENI, AI
QUALI LA CO-OPERAZIONE SOCIALE E MEZZO. Questo è il POSTULATO CARATTERISTICO
DELL’UNIVERSALE DESIDERABILITA DI UNA FORMA DI CONVIVENZA, ossia è il postulato
caratteristico della GIUSTIZIA. E supporre una società giusta di uomini
giusti equivale a supporre riconosciuta e applicata universalmente e
costantemente in qualunque specie di azione o di influenza che si
eserciti, così dalla società come da ciascuno dei singoli, l’esigenza
di quel postulato. Ufficio e limiti (li una costruzione scientifica
dell’ Etica. LA SOCIETA GIUSTA così intesa non rappresenta dunque un tipo
definitivo della vita più elevata possibile, analogo ai tanti regni
dell’Utopia che la fantasia morale ò venuta fingendo nei diversi
tempi. Anzi per questo rispetto una maggiore o minore elevatezza, complessità o
intensità di vita, di attività, di fini, non ò affatto implicita
nel postulato nè si può ricavare da esso ; e si può concepire (e non ne
mancano in effetto gli esempi) una forma di società in cui sia, almeno
parzialmente l'aggiunto un grado assai elevato di civiltà, la quale
sia tuttavia meno giusta di un’altra più semplice e meno civile. Appunto
perchè la giustizia riguarda la universale possibilità di cercare i
beni, ai quali E CONDIZIONE la convivenza e LA CO-OPERAZIONE SOCIALE, e
non include che questi beni siano di molte o di poche specie, di maggiore
o di minor pregio. Onde è pienamente compatibile col postulato
anche la concezione pessimistica della vita ; perchè, anche dal punto di
vista del pessimismo, uno stato di giustizia, che è la condizione
necessaria della universalità della simpatia e quindi della compassione,
deve apparire preferibile a ogni altro. E se anche si riguardasse come
fine ultimo la negazione universale della volontà di vivere, lo stato di
giustizia apparirebbe la condizione più favorevole perchè 1’ uomo prenda
coscienza della necessità naturale c inevitabile della propria
infelicità, spongliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e
contingente, ed effetto di malvagità degli uomini o di iniquità degli
istituti sociali. E QIESTA DESIDERABILITA dello stato di giustizia anche
rispetto al pessimismo è forse una conferma non trascurabile del
valore di universale preferibilità che gli si è riconosciuto, e a un
tempo della sua indipendenza da ogni particolare concezione metafisica. Adunque,
poiché uno stato di giustizia non è caratterizzato da altro se non
dall’ipotesi che le esigenze di quel postulato siano soddisfatte,
non si può nè si deve pretendere di ricavare dal postulato un contenuto
determinato, ma soltanto la forma generale delle norme. Il contenuto
specifico deve essere ricavato dai fini, ai quali SI RICONOSCE O SI
SUPPONE CHE LA CO-OPERAZIONE SOCIALE SIA O DEBBA ESSERE MEZZO, e in relazione
al quali si possano definire le condizioni richieste dal postulato
della giustizia. Quali siano questi fini non si può stabilire se non
o per constatazione o per ipotesi. Per constatazione, quando corrispondano alla
osservazione della realtà psicologica in un dato momento storico, ossia
in una forma di civiltà. Per ipotesi, quando si voglia cercare
preliminarmente quali sarebbero le condizioni richieste dalla possibilità
di ciascuno dei fini isolatamente preso o di un gruppo. Ed è inutile
a questo proposito insistere qui sulla eventuale opportunità o necessità
di ricorrere a tali ipotesi specialmente nelle ricerche, come
questa, nelle quali non è possibile la sperimentazione. Ma tanto
nell’uno quanto Dell’altro caso le condizioni che se ne ricavino e che
vengano stabilite come proprie del tipo di società giusta considerato, presentano
questo carattere : che non sono date, ma costruite, che non sono reali,
ma ideali. Ora, se noi determiniamo quali siano le norme di
condotta corrispondenti a quelle condizioni, queste norme esprimeranno
quale sarebbe il modo di operare nella supposizione che esse siano già date
e reali, e non quale sia il modo di operare che tende a
realizzarle, mentre sono date condizioni piu o meno diverse. La
prima determinazione è oggetto di un’etica pura: la seconda di un’etica applicata,
nella quale si consideri come fine il raggiungimento delle condizioni
ideali che sono assunte nell’ etica pura, e si stabilisca per
approssimazione quale sia in un dato momento storico la condotta sociale
e individuale, che, nei limiti necessariamente imposti dalle condizioni
reali date, ò più atta a favorire la trasformazione di queste nella direzione
segnata da quelle. Soltanto così l’Etica può evitare un errore
del genere di quello nel quale cadevano gli economisti della SCUOLA
CLASSICA; i quali, dopo aver supposto l 'homo oeconomicus mosso
unicamente dall’interesse personale, il che avevano diritto di fare, lo
considerarono poi come reale e die dero valore di leggi n aturali e
necessarie alle conclusioni ricavate da questo e dagli altri dati
astratti supposti. Ora appunto percliò le condizioni soggettive e
oggettive dell’ homo iustus e della societas insta, sono supposte e
non reali, le norme che esprimono quale sarebbe la condotta dell’ homo
iustus e della societas iusta non sono immediatamente nè integralmente
applicabili in condizioni diverse dalle supposte. I « doveri » e i diritti
dell’ uomo giusto nella società giusta non coincidono coi doveri e i
diritti dell’ uomo storico in determinate condizioni storiche; alla stessa
guisa che i diritti naturali dei filosofi dello stato di natura non
coincidevano coi diritti positivi delle società in cui vivevano. Ma
se si dà valore di fine all’attuazione delle condizioni proprie della societas
iusta, i doveri e i diritti 1 dell’ homo iustus diventano il modello al
quale si riconosce desiderabile che cerchi di avvicinarsi il
sistema di doveri e di diritti che vale come giusto in una società reale
data. Alla stessa guisa, se la costituzione di una società foggiata in
conformità all’ipotesi dello stato di natura e del CONTRATTO, si fosse
riconosciuta (con verisimiglianza maggiore ed evitando la confusione fra
giustifica¬ [Gide. Principes d’ éc. poi.] zione etica e spiegazione
storica) come fine da raggiungere invece che come stato originario, il diritto
naturale ricavatone sarebbe legittimam ente apparso come il tipo
idealmente giusto, al quale il diritto positivo doveva avvicinarsi e
adattarsi. Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare i
dati ipotetici coi dati reali, c la pretensione utopistica di applicare
direttamente e integralmente le conclusioni ricavate dai primi alle
relazioni che sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un
tempo e la 1 ( frittimi t à della distinzione, e la priorità logica dell’Etica
Pura surf mica Applicata. Raccogliamo in breve i resultati dell’
analisi. Una scienza normativa etica non differisce dalle altre
scienze precettive se non pe il valore, che si attribuisce al line suo: il
quale deve essere desiderabile univ ersalm ente jyjjma e a preferenza
di ogni a ltro, se si vuole che sia riconosciuto lo stesso carattere
alle norme ricavate da esso. Questo fine universalmente preferibile non
nuò essere che un fine relativamente prossimo, il quale (abbia o no
anche valore per sè) sia mezzo o condizione di tutti i fini che si
considerano come ultimi; e quindi non può essere che una forma di
convivenza e di */ . amw Per
maggiori chiarimenti sulla relazione fra le due etiche cosi intese e
sulle parti di ciascuna, mi sia lecito riferirmi a quanto ebbi occasione
di dire nei « Prolegomeni ecc. » già citati. coopcrazione, nella quale 1’
universalità dei singoli possa riconoscere tale requisito. Ma una
società siffatta ò supposta, non reale, e le norme di condotta che se ne
ricavano regolano delle relazioni che sono parimenti assunte per ipotesi,
e non sono perciò applicabili direttamente a relazioni più o meno
diverse. Tuttavia la loro determinazione è non soltanto utile, ma
necessaria; necessaria dal punto di vista scientifico alla determinazione
delle norme che debbono regolare le relazioni più complicate della realtà
; necessaria dal punto di vista etico alla giustificazione di queste
norme ; perchè esse sono valide in quanto esprimono ravvicinamento, nei
limiti del possibile, di queste relazioni reali a quelle relazioni
ideali. Il che viene a dire che l’etica pura fornisce all’etica applicata
il criterio per determinare le norme, e il valore che le
giustifica. Ma non bisogna dimenticare che le norme, sia dell’etica
pura, sia dell’etica applicata, hanno il valore che si assegna a loro,
nella ipotesi fondamentale che si accetti come valido e fuori di contestazione
il postulato della giustizia. Ossia hanno valore se si suppone che OGNI
socio RICONOSCA che una forma di
convivenza e di CO-OPERAZIONE nella quale ciascuno abbia, quanto alle
limitazioni esterne, valore di fine a pari titolo di qualunque
altro è preferibile a una forma di CO-OPERAZIONE nella quale una parte dei
<? socii » abbia, per uno o più rispetti, soltanto valore di mezzo e
non di FINE. Quindi, è bensì vero clic l’assunzione di
quel postulato è la condizione necessaria all’ universale
riconoscimento della norma, e clic perciò, se si pone come caratteristica
della norma morale 1’universalità, rinunciare a quello vuol dire
rinunciare a questa ; ma ciò non toglie che si debba affermare
chiaramente e senza sottintesi che il sistema di norme per tal guisa
stabilito ha, come qualunque altro sistema di norme, del quale si richieda
una giustificazione, valore ipotetico; e che perciò questo valore ò
incontestabile solo in quanto si riconosce incontestabile il
postulato. Appare di qui che è vano e illusorio cercare la
giustificazione di una norma morale nelle leggi | naturali. Perchè ciò
che giustifica una norma di condotta non è la naturalità, ma LA
DESIRABILITA dell’ effetto contemplato ; e le leggi naturali stesse
possono apparire giuste od ingiuste secondochè si assumano come
universalmente desiderabili o no i resultati, ai quali la conformità
della condotta' fi 1 affo irafic-li itr [v yJ.tA ttfilk t**'
he* ìtU 'o jqie j. La conoscenza delle leggi naturali suggerirà i mezzi
necessari a raggiungere un fine; e darà modo di giudicare della come yuibìlità
di questo o quel fine che eia proposto ; ma non serve a dar valore di
universale DESIRABILITA a un ordine di effetti, per il solo fatto che ce
ne riveli la produzione « naturale » a quelle leggi conduce, o ò creduta
condurre. Può essere vero (e non è da discutere qui) che l’essere o
no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in ultimo, l’essere o no
presenti ed efficaci nella coscienza umana certi bisogni, desideri,
aspirazioni, credenze), sia un portato necessario della natura
stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze umane, si siano, rebus
ipsis dictantibus, modellate cosi da condurre a riconoscere nella
osservanza delle leggi naturali un valore di giustizia e di bontà;
ma anche in questo caso non ò la naturalità, che ne fa ammettere la
giustizia e la bontà, ma è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità.
Onde per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano possibili,
almeno teoricamente, più Etiche diverse; possibile, per esempio, (sebbene
l’accoppiamento esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiustizia,
quando si assuma come postulato la prefe ribilità di una comunione sociale in
cui una parte non abbia che diritti e un’altra non abbia che doveri.
Benché allora 1’etica si sdoppierebbe in due etiche diverse, anzi opposte:
l’etica degli uomini-fini e l’etica degli uomini-mezzi; o, per usare le
parole del Nietzsche, la,orale dei padroni e la morale degli schiavi; e
la medesima condotta sarebbe, seguita dagli uni, giusta, seguita dagli
altri, ingiusta. Che una giustizia di questo genere ripugni alla
psiche del socius per una ragione analoga a quella per la quale ripugna
alla psiche dell’ uomo logico ammettere che un rapporto tra due cose
o fatti, sia vero per gli uni, e falso per gli altri, è credibile;
(sul presupposto di quella ripugnanza, si fonda, io credo, la giustificazione
etica della coazione e delle sanzioni). E certamente rimane aperto
qui un campo ulteriore di indagini intorno ai problemi che riguardano il
come e il perchè il postulato che assumiamo possa e debba essere
accettato ; e se alla esigenza che esso esprime si possa o si debba
assegnare un ufficio, e quale, nella interpretazionetotale del mondo,
dell’ uomo e della storia. Ma da queste indagini, le quali sono di
natura metafisica, la costruzione scientifica dell’Etica, come qui fu
abbozzata, può e deve tenersi indipendente, per una ragione analoga a
quella per la quale l’igiene è e si mantiene indipendente da ogni
questione intorno al fondamento e al valore del postulato assunto da lei,
e dal quale deriva il valore normativo dei suoi precetti: che un
organismo sano sia preferibile a un organismo malato. Perciò, finché si rimane
nel campo della ricerca scientifica, la sincerità richiede che, anche
nell’etica, malgrado ogni interiore certezza, questa condizionalità del
valore delle norme sia esplicitamente riconosciuta, e che anche nei termini
si eviti 1’equivoco, e fin dalle parole sia bandita ogni pretensione
a un valore che non sia condizionato al presupposto assunto. Per
questa ragione, oltreché per fissare rispetto alla dottrina di Spencer le
differenze notate nel modo di intendere il fine, e di concepire la
società giusta e 1’uomo giusto, e la priorità non soltanto
logica ma giustificativa di un’etica rispetto all’altra, LUa p«A* è
conveniente, sostituire ai termini Etica Asso ‘fvulfyh luta ed Etica Relat iva
» i termini « Etica P ura V'.',:r, ì ' pvi n l iuta i v a » i ieri
mmi « e~=r . 1 ", della giustizia ed etica applicata della
giustizia. (^ 3 ; n*facE se tosso poi, c'Sfne~r _ l n effetto,
necessario od 'GlfiULiffil opportuno determinare quali dovrebbero essere
le norme di condotta nell’ ipotesi che, osservate preliminarmente le
condizioni della giustizia, fosse assunto come fine l’adempimento delle
condizioni richieste dalla universale solidarietà, si avrebbero due
ulteriori sezioni dell’Etica: l’etica pura della simpatia e l’etica
Applicata della SIMPATIA. A leggere questo titolo, quelli che VARISCO
chiama felicemente i filosofi dell’ oramai e quegli altri che si
potrebbero chiamare i girasoli della filosofia (i due tipi coincidono in
parte, ma non in tutto) c’è da scommettere che sorrideranno. Non è
oramai pacifico che di una scienza della morale non si può parlare? E
vale la pena di perdere il tempo attorno a un problema oltre-passato? Io
mi rassegnerò a lasciarli sorridere; ma non son persuaso dell’oramai, e
trovo che il problema è tutt’ altro che superato. La quale persuasione
per altro non garantisce nulla, pur troppo, rispetto all’ altra faccenda
del perder tempo; perchè il tempo si può perdere, e far perdere, come
sappiamo benissimo tutti, anche trattando di argomenti non oltrepassati. Dico
dunque che il problema, almeno nel modo nel quale credo che debba essere
posto e ho cercato di porlo, è più vivo che mai e di interesse capitale
così per l’Etica come per la Filosofia del diritto. E chiedo scusa fin da
ora al lettore se dovrò, richiamandomi a cose già dette, parlare, più
spesso che le buone regole non consiglino, in prima persona. Quando
sostengo la possibilità e la legittimità di una scienza normativa morale, non
intendo che una tale scienza possa o
debba sostituire la metafisica, e bandirla proprio da quel campo che è il
vero vivaio dei problemi metafisici, il campo delle idee e dei sentimenti
morali. E nemmeno che possa pretendere di costruire la morale, l’unica
vera morale erigendo a norme della condotta certe leggi naturali cosmiche,
o biologiche o psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si
presuma di dare valore imperativo. La tesi che ho sostenuto e sostengo è
diversa. Una scienza normativa etica, non può, al pari di qualsivoglia
scienza precettiva, consistere in altro che in u n sistema di relazioni e di
legg i, le quali hanno valore di norme da seguire nell’ ipotesi che sia
assunto come fine quel F effet to o quell'ordine di effetti, del quale
esse ’-ggi esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibosco dalle altre,
perchè s uppone che al fine suo [MJLjcTalfA Ò)lCJUjLt>
'ittl, del quale esse ’Sl'Kp tkf si a rico n osc iuto un valore di
universale pref eribilità e precedenza sopra ogni altro fine. Perciò
una determinazione scientifica di norme etiche richiede due condizioni. Che
il fine sia umanamente possibile; cioò tale che se ne possa stabilire la
dipendenza condizionale da una certa forma di condotta collettiva e
individuale. Di qui dipende il carattere scientifico della costruzione
; perché la relazione che lega le norme con quel fine potrà essere
lunga, complicata e difficile, ma non richiede ad essere conosciuta altri
mezzi che quelli di una indagine scientifica. Che sia ammesso
come postulato che il riconoscere al fine assunto valore di universale
preferibilità e precedenza rispetto a qualsivoglia altro fine umanamente
possibile, è un 'esigenza morale. É ovvio di per sè che se si ricusa di
ammettere questo postulato o se ne nega la legittimità, la determinazione
delle norme di condotta richieste dal fine contemplato non perde nulla del
suo carattere scientifico; ma le norme non hanno valore
morale. Ossia, il valore morale delle norme così ricavate ò relativo
alla accettazione del postulato; e la derivazione scentifica di un sistema di
norme dal fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza
della condotta morale; ma la scienza di una certa condotta; la quale è la
condotta morale, se si ammette e in quanto si ammette quel postulato. Ma è
altrettanto ovvio che non avrebbe senso, o sarebbe al tutto arbitrario e
fuori di proposito, l’attribuire in ipotesi al fine un valore che nessuno
fosse disposto a riconoscergli, e assumere come Ua esigenza morale
una esigenza che non trovasse nella realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò
che ho cercato di porre in chiaro in primo luogo quale fosse l’esigenza
caratteristica del valore morale di una norma; poi, se si potesse
assegnare un fine umano, e quale potesse essere, che rispondesse a
queste condizioni. Non è il caso di ripetere il già detto; qui ne
ricordo soltanto le conclusioni: che l ’esigenza che assum o, e, credo aver
dimostrato, legittimamente, come caratteristica di una norma morale ò quella di
una universale giustizia; e che il fine che soddisfa a questa esigenza
non può essere che una forma di società umana tale, che tutti i
sodi trovino nelle sue stesse condizioni di esistenza la medesima o
equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla
ricerca di qualsivoglia dei BENI AI QUALI LA CONVIVENZA E CO-OPERAZIONE SOCIALE
E MEZZO. Supponendo dunque ammesso il postulato sopra detto, non ho fatto
e non faccio una ipotesi arbitraria; poiché l’esigenza della giustizia,
alla quale il postulato fa appello, è la più profonda e più tenace e più
incoercibile dell’uomo in quanto è socius, cioè in quanto è soggetto
di moralità e considera se stesso, ed è considerato, come persona a
pari titolo di ogni altro socio. Mi riferisco, qui e nel corso di questo
scritto, a quello clie che lo precede nel presente volume, e a un altro studio:
Prolegomeni a una morale indipendente dalla metafisica, Pavia, Bizzoni. Tuttavia
per quanto possa parere ed essere legittimo prendere per concesso qu esto
postulato, non bisogna dimenticare, ma anzi importa rilevare chiaramente,
che il fine e le norme corrispondenti hanno quel valore che si
attribuisce a loro, soltanto nell’ ipotesi che lo si accetti come valido
e fuori di contestazione. Se non 6 ammesso, ò vano pretendere
clic la costruzione normativa valga a farlo accettare o possa
obbligare ad accettarlo. Essa non può che mostrare la coerenza delle
norme proposte col fine assunto, e di questo colla esigenza della
giustizia; e mostrare con ciò che non si può ragionevolmente ammettere
questa esigenza senza ammettere il valore di universale priorità attribuito al
fine, e quindi alle norme. Ma che l’esigenza invocata sia ammessa
in realtà, o sentita come tale, ò un dato di fatto che la costruzione
normativa trova, se c’è; ma che non pone essa, ne per sò vale a
mutare. Adunque la scienza normativa morale così intesa si riduce
alla determinazione delle norme di condotta valide per una coscienza che
anteponga a ogni altra esigenza l’esigenza della universale giustizia. Se
in ipotesi volesse determinare le norme di condotta per una coscienza per
la quale valga come suprema l’esigenza egoistica, le norme risulterebbero
diverse. Ma il procedimento sarebbe il medesimo; la deduzione sarebbe, o
si può concepire che potrebbe essere, ugualmente ragionata e
scientifica. E del pari se si assumesse come regolatrice l’esigenza
dell’abnegazione o della rinuncia incondizionata di sò agli altri, o
qualsivoglia altra esigenza e un fine possibile corrispondente. Di qui si
vede quanto sia superficiale c vuota di significato l’opinione tante volte
ripetuta, e che forma quasi il leitmotiv di un’ opera che ha latto
gran rumore, che la ragione non ci comanda che l’egoismo. La ragione per
sè non comanda nulla. NE L’EGOISMO NE L’ALTRUISMO -nè la giustizia. La
ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che servono a conservar la
vita a chi la vuol conservare, a distruggerla a chi la vuol distruggere; addita
ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie della giustizia, e le vie
del proprio tornaconto agli uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per
sè più razionale dell’altruismo, nè il regresso più razionale del
progresso, nè la conservazione dell’individuo più razionale di quella della
specie, nè 1’ utile proprio più razionale che 1’ utile della
collettività. RAZIONALI NON SONO I FINI, MA LE RELAZIONI DEI MEZZI AI
FINI. Ed è così ragionevole che dia la -Dire che la ragione non consiglia
che l’egoismo equivale a dire che una condotta non egoistica non si può RAGIONEVOLMENTE
GIUSTIFICARE. Ossia viene a dire una di queste due cose : 0 che di un fine
non egoistico non si possono assegnare mezzi possibili, e vita per un’idea
chi pregia più l’idea che la vita, come che taccia la verità per un
ciondolo chi ama più i ciondoli che la verità. Ma forse dicendo così
si è ancora giusti verso la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso
della ragione può avere, come non dubito che abbia, una efficacia
indiretta nella valutazione dei fini, non è dubbio che questa efficacia
si esercita in favore di quei fini e di quelle norme che rispondono
alla quindi non si può determinare quale sia la condotta atta a
raggiungerlo; cioè che si tratta di un fine fuori di ogni efficienza
umana. E in questo caso non ci sarebbe senso a proporlo come fine
dell’operare nè in nome della ragione nè in nome di qualsivoglia altra
cosa, dal momento che qualsiasi condotta sarebbe rispetto ad esso
indifferente. Oppure che un fine non egoistico non è mai fine per sfi, ma
ha bisogno di essere giustificato da un fine egoistico al quale sia mezzo
o condizione. Ma il valore per sè di questo fine egoistico ultimo, al
quale si riporta la giustificazione, non può essere alla sua volta
giustificato, ma deve essere un dato di fatto reale o supposto; il quale
dunque, appunto per ciò, è fuori di ogni ragionamento. E il vero senso
dell’ affermazione in discorso è allora non che la ragione consiglia l’egoismo;
ma che gli uomini sono tutti e sempre e inevitabilmente egoisti (poiché i fini
ai quali soltanto riconoscono valore per sè sono fini egoistici); e
quindi, finché sono e rimangono egoisti, non possono trovar ragionevole
altra condotta all’ infuori di quella suggerita dall’egoismo. Sapevhm
celo ; ma non vuol dire che l’essere egoisti sia più ragionevole die il
non essere. D’altra parte, posto che gli uomini fossero inevitabilmente
egoisti, anche il precetto o il consiglio di non seguire la ragione,
dovrebbe, per avere valore pratico, fare appello in ultima istanza a in
fine egoistico, nè più nè meno di quel che farebbero nello stessè caso i
consigli della ragione. Con questo bel risultato : che gli uomini rinuncino ad
essere ragionevoli per continuare ad essere egoisti. tendenza caratteristica
dell’attività razionale: l’universalità. Ora nel campo dell’attività pratica
il fine del quale soltanto si può concepire universale il
raggiungimento, e la norma, della quale soltanto si può concepire
universale l’osservanza, sono un fine e una norma conformi all’esigenza
della giustizia. Ma, tornando al nostro argomento, anche il riconoscere che il
fino e le norme determinate in conformità al postulato hanno, e possono
avere essi solamente, la nota razionale dell’universalità, non ne
toglie il carattere necessariamente e insuperabilmente ipotetico; perchè se il
loro valore si fa dipendere da questa loro universalità, si prende
per concesso che l’universalità sia assunta come criterio di valutazione;
ossia che dell’esigenza ra[Son trovo che si sia dato il peso dovuto alla
considerazione che non solo l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire
una regola di condotta, che si possa concepire nei rapporti tra gli
uomini universalmente e costantemente osservata, senza contraddizione, o
senza che sia necessario supporla subordinata alla sua volta a una norma
di giustizia. Perchè sia possibile l’abnegazione e la rinuncia incondizionata
di sè agli altri, bisogna che gli uni si sacrifichino, e gli altri o qualche
altro accettino il sacrifizio; cioè che gli uni seguano la massima dell’
altruismo, e gli altri o qualche altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette
che nessuno debba poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il
sacrifizio si riduce a un tacito SCAMBIO DI SERVIGI RECIPROCI), bisogna
che la condotta altruistica di ciascuno non impedisca o limiti una pari
condotta altruistica degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta
sia governato da una norma di giustizia. zionalc e teoretica dell'
universalità la coscienza faccia una stima pratica, attribuendole un
valore e un’ autorità superiore ad ogni altra esigenza. Concludendo:
la scienza normativa etica, alla quale mi riferisco, è la scienza della
condotta richiesta da un fine conforme all’ esigenza detta. Se si
riconosce come caratteristica del valor morale di un fine e delle norme
che ne dipendono una esigenza diversa, o se si pone come congruo ad
essa un fine incongruo, o si assumono come condizioni conformi all’esigenza di
una universale giustizia delle condizioni clic negano o limitano questa
universalità, le norme riconosciute e accettate come morali saranno
diverse. Ma non concluderebbe nulla contro la tesi che difendo
l’opporre che le norme o alcune delle norme in effetto tenute o seguite
come morali sono diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate
in conformità al postulato assunto. Perchè qui non si tratta già di
esporre (piali sono le norme accettate, o di farne l’apologia ; nè di cercare
che cosa bisogna ammettere per accettarle; ma di determinare quali
sarebbero le norme della condotta morale nell’ipotesi che si accetti il
postulato. Insomma si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa ne
segua. Ma per negare valore scientifico a una tale costruzione ipotetica
bisogna negare la dipendenza condizionale del fine assunto da una certa condotta
collettiva e individuale; e per negarle valore morale, bisogna negare il valore
morale dell’esigenza, o ammettere che essa è o dove essere subordinata a
un’esigenza diversa. Finché non si giustifica nè l’una nè l’altra negazione, il
dichiarare oltrepassato il problema vale poco; e il sorridere vale anche
meno. Perchè esponendo questo concetto io non mi sono dissimulato le
difficoltà e le obbiezioni possibili; sopratutto quelle che fanno capo alla
affermazione comune della impossibilità di una determinazione di norme morali
che non si fondi sopra una dottrina metafisica. Questa questione anzi
ho esaminato di proposito, e le conclusioni di quell’analisi non furono
confutate. Avrei dunque, « in tesi di diritto » ragione di ritenere
spostato l’obbligo della prova. Ma nel fatto, come tutti sanno, ò
sempre chi dissente dalle opinioni stabilite che ha torto; e deve
rassegnarsi a battere e ribattere per tutti i versi lo stesso
chiodo. E prima di tutto occorre qualche parola su quella che si
potrebbe chiamare la tesi scettica, [Che essa possa e debba aver valore
anche dal punto di vista del diritto è cosa evidente; ma come c quanto
non sono questioni da risolvere cosi di sfuggita. della impossibilità
di una qualsiasi determinazione di norme morali. Il fatto etico è
contingente, multiforme e variabile in ogni circostanza, e sfugge ad ogni
tentativo di determinazione razionale. Oltredichè esso dipende dal
sentimento e dalla volontà e non dalla conoscenza, e non si può ricavare
da un processo di deduzione logica. Questa tesi ha il grave torto di
confondere la morale colla moralità; confusione sulla quale dovrò
tornare anche più innanzi. Il fatto etico e variabile. Certamente. E
il fatto giuridico, che ò una specie dell’ etico, non ò esso pure
variabile? E forse perciò non si stabiliscono nonne giuridiche determinate e
precise, e non si considera questa determinazione come un’esigenza della
vita sociale, e non si misura dalla sua precisione e coerenza il
progresso della vita e della coscienza giuridica? E non è un luogo
comune la lode fatta a ROMA di MAESTRA DEL DIRITTO? Non si venga a
dire che il fatto giuridico riguarda solo la non, come la morale,
anche e sopra tutto la interna ; qui si fa questione, anche per la
morale, appunto, della condotta ester na, nella quale la moralità interiore
deve pur tradursi; ed è assurdo dire, per esempio, che non ha senso
il precetto non frodare, e vano cercar di determinare in che la frode consista,
perché la frode è, forse più che qualunque altra cosa al mondo,
contingente multiforme e variabile. È pur fuori di dubbio che l’operare
in un modo piuttosto che in un altro, dipende dal sentimento e dall
a volontà, e non dalla co noscenza del precetto; e che non si può dedurre da
nessuna combinazione di premesse l’azione. Nessun congegno di premesse,
nessun processo logico, nessun sistema di conoscenze pone in essere la
benché minima cosa; .A}* VcttmaJ. ’l| conseguenza di un ragionamento ò sempre
fin giudizio, non un’azione; nella morale come in qualunque altro
campo; l’azione., potrà.. o non potrà seguire, secondo che le
disposizioni sentimentali c. volitiv e sono tali o tali altre; potrà
anche seguire senza che ci sia il giudizio. Verissimo e giustissimo. Ma
non conclude nulla al proposito. Perché qui è questione non di fare, ma
di sapere quel che convenga fare, chi si proponga e ammesso che si proponga un
certo fine. Ora lo stabil ire queste relazioni tra un certo fine e certe
operazioni necessarie a raggiungerla é ufficio della conoscenza, non
della volontà ; e io spero che nessun voluntarista vorrà sostenere
che è indifferen te a chi vuol andare, poniamo, a Canossa, conoscere quale sia
la strada per arrivarvi. E il dire che non è la conoscenza nè di un
certo effetto, nè dei mezzi, ciò che fa volere l’effetto e volere i mezzi, non
toglie nulla all’ufficio specifico della conoscenza; anzi, e
appunto perciò, lo determina. E rimproverare a un sistema di norme
di essere per sè inefficace a muovere l’azione non ha senso ; come non avrebbe
senso pretendere che una formula chimica produca essa il composto del
quale indica la combinazione. L’ ufficio delle norme morali, come di ogni altro
sistema di norme qualesivoglia, non può essere che un ufficio
informativo, non formativo ; di guida, non di stimolo, di indicatore, non
di propulsore. E quelli che adducono, per mostr are l a inanità di una
costruzione norma tiva, l a dipendenza dell’ azione dal se ntimento e
dalla volontà, non si accorgono di confondere essi il conoscere
coll’operare, cioè, come' s’è detto, la ni qrfllo nnIlp mo ralità, la
determinazione_delle norm e colla c onformità alle norm e. Senonchò si può
soggiungere che la determinazione in questo campo non serve, perchè la
conoscenza delle norme si sprigiona volta per volta come da sè fuor dalle
circostanze, per un intuito naturale che è più fine e delicato di
qualunque deduzione scientifica. E così viene in campo, accanto alla tesi
dell’ impossibilità, quella dell’ inutilità: l a cos cienza morale rende
inutile la dottrina morale. Lasciamo per ora la difficoltà capitale che
nasce dal fatto stesso da cui è nata la riflessione critica
della morale: il fatto della diversità di contenuto nelle coscienze
morali diverse; e poniamo senza concedere che 1’intuito basti per tutti e sempre a
segnare caso per caso la via. Non ne seguirebbe ancora l’inutilità di una
ricerca che si proponesse la determi nazione sistema tica del fine a cui
.intuiti vamente tend e e delle norme che intuitivamente segue la
coscienza morale. Come la guida istintiva dei bisogni (^feUe^enTazioni non
basta a rendere inutile l’igiene; o come non basta a condannare la
conoscenza fisiologica, per esempio, della digestione, il fatto che digeriscono
bene, anzi di solito digeriscono meglio, quelli che non sanno di
quelli che sanno come la digestione avvenga. E veniamo alle
obbiezioni che toccano direttamente la nostra tesi. In primo luogo si può
osservare che la p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso
che dichiara di voler tenersi estranea a qualunque affermazione di
carattere metafisico, presuppone una certa soluzione di un problema
essenzialmente metafisico. Perchè, assumendo come fine morale un ordine
di effetti umanamente possibile, pone come risoluto il problema se il
fine supremo possa o debba essere umano o sovrumano, relativo o assoluto;
risolve cioè, sia pure negativamente, un problema metafisico. Cerchiamo di
intenderci. Si supporrebbe risoluto il problema, se assumendo un fine
(diciamo per brevità) umano, si ponesse questo fine come ultimo
assolutamente, come definitivamente supremo; cioè se gli si assegnasse un
valore assoluto ; e si negasse la possibilità di una ulteriore valutazione
del fine stesso; di una sopravalutazw We^Tciafisica, per la quale sia
creduto mezzo alla sua volta, o condizione o preparazione di un fine
sopraumano. Ma questa possibilità 1’ipotesi non la esclude. Si dirà
che in tal caso il fine umano non è più il vero fine; e che perciò le
norme debbono essere ricavate da quello a cui si dà davvero valore
di fine ultimo, valore assolutamente, non relativamente, supremo; e
che questa necessità riporta il problema della determinazione delle norme
in piena metafìsica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non capire
come da un fine assoluto si possano ricavare delle norme per la condotta
in condizioni finite, da un al di là le norme per un al di qua; e
dubito che quelli i quali dichiarassero di capire, equivochino sui
termini. Perchè non si potrà mai dimostrare un legame di condizionalità tra un
certo modo di operare o un fine sopra naturale; essendo il proprio
e caratteristico del sopranaturale c del sopraumano di esser fuori dalla
efficienza naturale e umana. Se si considera il fine sovraumano
come un effetto che può essere condizionato da mezzi puramente umani esso
cessa di essere sovraumano (Urmson, Saints and heroes). Ma se invece rimane
tale, cioè trascende la efficienza umana, si potrà bensì credere ed
affermare che a raggiungerlo si richiede una certa condotta, ma non
si può assegnare una relazione di condizione tra la condotta ed il fine, cioè
non si può ricavare dal fine la norma. La riprova si ha nel fatto,
evidente ad ogni osservatore non del tutto superficiale, che, anche nei
sistemi di morale teologica o metafisica, quando si tratta di determinare
le norme che debbono regolare la condotta nelle relazioni della vita
comune, famigliare e sociale, non è più il fine assoluto quello da cui si
deducono le norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia remoto; un certo
ordine e un certo tipo di vita individuale e sociale. Le norme dedotte da
questo fine subordinato si presentano bensì come derivate aneli’esse dal
fine assoluto, perchè si assume quello come posto o voluto o necessitato
da questo ; ma in che modo dal fine assoluto si ricavi il fine relativo,
come e perchè, per raggiungere o approssimarsi a quel fine sopraumano,
sia necessario tendere a questo fine umano, non si dimostra nè si può
dimostrare. E quando par che si dimostri, gli è che si è assunto
tacitamente e come incorporato in modo surrettizio nel fine assoluto il
fine relativo, che poi se ne deriva ; cioè in ultima analisi non si è
fatto altroche porre o assegnare un valore sopraumano al fine umano; ossia
si è fatta (fucila che ho chiamata una sopravalutazione metafisica di quel
certo fine umano dal quale in realtà sono ricavate le norme. Non
è dunque vero che assumendo un fine umano si risolva, o si postuli una
certa risoluzione di un problema metafisico. Non si la che ubbidire
a una esigenza, la quale sussiste sia che si risolva positivamente, sia
che si risolva negativamente il problema intorno alla natura del fine
assolutamente ultimo o supremo; un’esigenza logica alla quale non
si può sfuggire: che un sistema di norme di condotta individuale e
sociale non si può stabilire se non in relazione a un certo fine,
esplicitamente o implicitamente assunto, che dipenda condizionalmente
dalla condotta, cioè che sia umanamente possibile. Ma non è un’altra
esigenza, un’ esigenza propriamente morale, che il fine abbia un
valore assoluto e non soltanto relativo? Non discuto se sia o non sia;
perchè si tratta in ultimo di constatare un fatto di coscienza, e
per la constatazione di un fatto la discussione non approda. Poniamo che
sia. Forsechè le dottrine che pon gono un fine assoluto fanno qualcluTco^
~~di meglio che postulare la possibilità di quel fi ne e postularne
il valore ? Cioè supporre che quella possiljilità e questo valore siano dati
nelle intuizioni o nelle credenze, dalle quali li prendono, per dir
cosi, a prestito, e sulle quali fanno assegnamento? E se è cosi, e non può
essere altrimenti, se la credenza nel fine e il riconoscimento del suo
valore assoluto, e la derivazione da esso del (ine o dei fini
relativi della vita finita, non possono essere dati o fondati dalla
dottrina, ma soltanto assunti o affermati, è facile vedere che la
dottrina vale per la coscienza clic la sente e, direi, la vive già,
e che accetta l’affermazione perchè la trova corrispondere a ciò che è già dato
in lei stessa; ma non vale essa, la dottrina, a far accettare queste
sue affermazioni a una coscienza che intuisca e senta c creda
diversamente. La costruzione dottrinale metafisica non riesce dunque clic
a fare appello a un a intuizione o a una v alufazio ne di cui
ammette o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla sorgere dove manca
; e quindi, di fronte a una coscienza diversa da quella che essa suppone,
si trova nella stessa condizione della costruzione non metafisica.
Cioè vien meno alla ragione per la quale il valore assoluto del fine è
richiesto. Questa ragione, se il valore assoluto del fine non è già
assunto come una constatazione di fatto, consiste nella pretesa illusoria
che la dottrina possa e debba assicurare per questo modo alle norme
una validità universalmente riconosciuta; e nasce da una preoccupazione
pratica analoga a quella dalla quale è ispirata l'altra pretesa che l’etica
dia alle norme autorità imperativa. Ed eccoci all’argomento capitale:
1’esiggenza del carattere imperativo della norma. Ho già ripetutamente
segnalato l’equivoco sul quale si fonda la pretesa esigenza
dell’obligatorietà della norma morale. È in fondo il medesimo già
notato più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia della
conoscenza a determinare l’azione; l’equivoco di con fondere la morale
colla moralità, la norma col la conformità alla norma: e quindi di
pretendere da una dottrina quello che nessuna dottrina nè metafisica nè
non metafisica può dare: la garanzia dell’osservanza, cioè 1’efficacia
esecutiva. Il linguaggio favorisce anche qui il persistere dell’errore; e
l’uso di definire l’etica la scienza o la dottrina dei doveri,
contribuisce a ribadire il preconcetto. nato dalla preoccupazione pratica,
che compito di una dottrina morale possa o debba essere quello di
costruire o fondare delle norme obligatorie. Mentre l’etica, dico qualunque
dottrina etica, non può fare altro che dedurre, o indurre, o
comporre a sistema, delle norme o ilei precetti, i quali hanno valore di
doveri, se e in quanto la coscienza concepisce, o meglio sente e vuole,
come dovere, l’osservanza dei precetti stessi, o la prosecuzione del fine
(o dei fini) dal (piale quei precetti Yi (yivuni l&u
vuxnrib I nei — sono derivati. E se anche tutte le coscienze
universalmente, in ogni tempo e luogo, concordassero nel sentire come
obbligatoria 1’ osservanza di una certa norma, non per questo si potrebbe
dire che l’imperativo è un carattere della norma ; l'imperativo sarebbe
sempre anche in questo caso un carattere del motivo che spinge all’ osservanza
della norma; un dato della coscienza che la abbraccia, che la
riveste e la investe di questo motivo, clic la sente così. Quale sia
la preoccupazione pratica da cui nasce e si alimenta il preconcetto, e. quale,
sia il processo per cui si viene ad assegnare alla costruzione normativa
un compito al quale essa non può soddisfare in nessun modo, ho pure già
cercato di mostrare altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto non
mi par privo di interesse mettere in chiaro con 1’analisi come i modi,
nei quali può essere interpretato e tentato il proposito di fondare una
norma obbligatoria si riducano a postulare l’esistenza
dell’obbligo, quando non riescono a una forma più o meno larvata di IMPERATIVO
IPOTETICO. E come poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo
categorico per dato o postulato, non se ne possa ricavare la
determinazione delle norme; ma si richieda perciò l’assunzione espressa o
sottintesa di un fine, o di un criterio di valutazione e derivazione,
estraneo e indipendente da quello. Il compito di assegnare una norma
che abbia autorità obbligatoria può essere, e lu in effetto, inteso in
più significati diversi; i quali si possono ridurre ai quattro tipi
seguenti. Dimostrare che la norma proposta corrisponde a un sentimento, a un
motivo, a una disposizione che si manifesta nella coscienza come obbligo. Allora
il senso reale ò, non già che la do ttrina dia essa autorità o
bbligatoria alle su e norme; bensì questo: che essa riduca, traduca
o formuli in norme i modi di condotta ai quali la coscienz a si
sente obbligata. Ma così la categoricità del precetto è constatata e
assunta, non posta, nè fondata dalla dottrina; e la norma obbliga solo
se •ed in quanto i suoi comandi ripetono i comandi della coscienza;
il suo tono imperativo è un’eco, e vien meno se tace la voce della quale
assume il tono. Presentare le norme come ordini di un Potere
(qualunque ne sia la natura) irresistibile, che costringe volenti e
nolenti a seguirlo. Intesa così l’autorità non viene nò dalla natura
delle norme, nò da quella del fine a cui sono ordinate, ma da quel
Potere del quale l’Etica fa, per dir così, la presentazione; anzi il suo
ufficio si riduce in realtà a quello di interprete ed araldo di quel
Potere ; che essa non pone, ma a cui là appello, e che suppone sia
riconosciuto dalle coscienze alle quali parla in nome suo. Ad ogni
modo l’espressione analizzata, se si usa ad indicar questo ullìcio, è del
tutto abus iva; l’espressione esatta ò questa: compito dell’Etica ò
di determinare quale sia la legge imposta da quel potere indis cutibile e
irresist ibile, di cui si ammette o si riconosce l’esistenza. Dimostrare
che ciò che la norma prescrive dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra
ogni altra cosa : cioè sarebbe voluto in effetto, se, invece di
essere come ò, 1’uomo fosse diverso; seguisse la sua vera natura, fosse
giusto, o perfetto, o realizzasse un certo tipo ideale. Ma è chiaro che in
questo senso non si là che o determinare il fine in l'unzione di un certo
tipo ideale, o il tipo in funzione del line; ossia, in altre parole,
determinare la relazione che sussiste tra una certa natura e una certa
condotta. La qual relazione per necessaria che sia, non si vede
come [tossa far nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si pensa di
fondare in tal modo 1’obbligatorietà, manifestamente si suppone ebe il
conformarsi a un certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già
sentito come obbligo; e si rientra, quanto al fondamento di questo, nel primo
dei casi enumerati. Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere
uomo davvero, giusto, o perfetto, deve proporsi un certo fine o
seguire una certa condotta, si avrebbe non piii un imperativo categorico,
ma un IMPERATIVO IPOTETICO (GRICE, CONCEPTION OF VALUE). Dimostrare che ciò che
la norma prescrive, dece essere voluto universalmenta e
incondizionatamente. Questo ò manifestamente il significato che pare più
proprio, e nel quale intesero e intendono l’esigenza i moralisti i quali
credono di poter ricavare l’obbligo dalla natura del fine che assumono
come ideale etico. Ma l’intendere la tesi così, implica che si ammetta la
possibilità di una di queste due vie o derivare l’obbligatorietà
dal valore riconosciuto al fine, assumendo questo riconoscimento come
dato o postulato; o derivare dalla natura del fine l’ obbligo di
riconoscere al fine stesso un tal valore. E l’una e l’altra di
queste due tesi deve essere considerata distintamente e un po’ più a
lungo. Posto pure che al fine assunto fosse riconosciuto in realtà
universalmente valore di sommo bene, non ne seguirebbe in nessun
modo che il sentirlo e riconoscerlo come sommo bene porti con se il
sentirsi obbligati a volerlo e cercarlo. Questo riconoscimento non genera
la coscienza dell’obbligo, bensì ne mostra la ragionevolezza, fa che la
coscienza approvi l’autori tà ob bligante; cioè giustifica P obbligo, posto
che ci sia. Ora una tale giustificazione riesce a questa alternativa: o
serve a dimostrare che Insognerebbe ragionevolmente trovar buona e
seguire la norma anche se non si sentisse l’obbligo, perchè la norma è ordinata
a quel certo fine che è riconosciuto come sommamente DESIDERABILE. E
in questa forma la pretesa fondazione dell’ imperativo categorico si riduce
alla formulazione di un imperativo ipotetico, che si sostituisce o si aggiunge
al categorico. 0 riesce a un’argomentazione di questo genere : Siccome è
bene sommo il fine, è bene l’osservanza della norma; e poiché si
ammette o si suppone che la coscienza d’un obbligo assoluto sia
necessaria a garantire questa osservanza, l’imperativo categorico
appare la condizione sine qua non, acquista valore di MEZZO
indispensabile al proseguimento del FINE. Nel primo modo si viene a dire
che l’imperativo categorico è giustificato perchè è bene ciò che esso
comanda; nel secondo che è giustificato perchè è bene che esso comandi in quel
tono. Ma nè l’uno nè l’altro modo nè ambedue insieme riescono a
fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto perchè 10 giustificano gli
tolgono il carattere di categorico. Il che se nel primo caso è più
evidente, non è meno vero nel secondo. Infatti, posto pure che la
categoricità dell’ imperativo sia condizione necessaria all’osservanza
della norma, non ne viene perciò che l’obbligo sia categorico, ma soltanto
che sarebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: ossia la pretesa
derivazione che se ne fa, mostra la necessità di una condizione, non la
pone in atto se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la soddisfa. In
secondo luogo la dimostrazione stessa di questa esigenza è contradditoria,
perchè a convincere la necessità dell’obbligo categorico ne assegna le
ragioni; il che equivale ad ammettere che venendo meno queste ragioni verrebbe
meno quella necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come
categorico, finché è utile che valga; come chi dicesse un’ autorità che si fa
valere incondizionatamente sotto certe condizioni. Adunque, se la c Qscienza
d’un obbligo asso luto manca, la derivazione che se ne pretenda fare
da un fine, qualunque sia il valore che gli si attribuisce, non può farla
sorgere; se c’è, la giustificazione riesce ad assegnare le condizioni della
sua validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo
incondizionato. Il che può però aver un senso, se si guarda bene; ma in
un caso soltanto: nel caso che la coscienza la quale si rende
ragione delle condizioni che importano questa necessità o utilità dell’
imperativo categorico, e la coscienza nella quale 1’imperativo vale come
categorico, siano due coscienze diverse; ossia nel caso che una coscienza
riconosca la necessità che 1’imperativo valga incondizionatamente per un’altra
coscienza. Che è un senso assai meno strano di quel che possa parere
a prima vista. Oppure finalmente si intende che apprendere ciò clic
è posto come line equivalga per ciascuno a dover riconoscerlo come tale;
che non si possa conoscere la natura del line senza sentirsi
obbligati a riconoscergli valore di bene supremo; cioè che la conoscenza
generi la coscienza d’un obbligo. Questa che è in sostanza la tesi
difesa, tra gli altri, con grande vigore dal nostro SERBATI, è veramente
l’interpretazione tipica, più audace e radicale, del pensiero di derivare
l’obbligo dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento oggettivo nella
natura stessa di quello. Ma senza dilungarmi su questo tema in una
critica troppo nota è inevitabile questa alternativa. O il dover riconoscere
esprime una necessità puramente logica, e non può dare quello a cui è
invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di riconoscere il valore; o vuol
esprimere una necessità diversa, e si riduce a un paralogismo; perchè
pretende ricavare da una determinazione obbiettiva la constatazione di uno
stato subiettivo, la quale presuppone appunto resistenza di quella
coscienza dell’obbligo, che crede di far nascere e senza della quale la
constatazione non è possibile. E per tal modo si ricade ancora una volta nel
primo tipo di interpretazione; quando non si voglia ammettere
questa tesi : che è obbligo riconoscere quel fine come sommo bene e volerlo,
così se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè sia che la
coscienza senta sia che non senta di dover attribuirgli quel valore.
Ossia non si ammetta la tesi dell’obbligo di credere anche senza o contro
l’attestazione della coscienza. Il che renderebbe inevitabile l’appello a una
autorità esterna, alla quale la coscienza si deve inchinare; e
farebbe della morale del bene oggettivo una morale dommatica, che rientra
nel secondo tipo. Adunque l’analisi dei modi nei quali può essere
interpretato e tentato il compito di fondare una norma obbligatoria conduce a
questa conclusione: o si intende che fondare una norma obbligatoria »
voglia dire derivare l’autorità della norma dal valore del fine; e
allora, come s’è visto, c come avea notato chiarissimamente Kant,
non si può per questa via riuscire che a un imperativo ipotetico –
cf. Grice, THE CONCEPTION OF VALUE -; o si intende che voglia dire
assumere come dato l’obbligo e determinare le norme in conformità a
questo dato. Nel primo caso 1’ esigenza in questione non è
soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta, non posta o dimostrata;
ossia o esiste: e la sua esistenza e validità sussiste all’ infuori della
costruzione dottrinale, che la postula, ma non la fa essere; o non
esiste: e il fatto di assumerla come esistente non la pone in essere, nè
ne legittima per sè l’assunzione. Per tal modo, se il difetto
capitale di una scienza normativa etica conforme al concetto
esposto sul suo ufficio e i suoi limiti, è quello di non^ poter
presentare le norme col carattere di imperativo categorico, questo difetto è
comune, e non potrebbe essere altrimenti, a qualsiasi costruz ione
dottrinale. die non si proponga di derivare le norme da un imperativo
categorico assunto come dato. Ed allora resta da vedere se.
prendendo l’imperativo categorico per dato o postulato, si possa ricavare da
esso la determinazione delle norme; o se non si debba ancora ricorrere
all’ assunzione espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio
di valutazione e di derivazione, estraneo e indipendente da
quello. CJie^ i 1 dato dell’ imperatività sia per sè in sufficiente alla d
eterni i nazione .-dei le jparmc morali è manifesto, qualora si intenda
con esso assumere null a più che la forma destinata a rivestire un
contenuto qualsiasi ricavato d’altronde: nel qual caso è pur manifesto
che, appunto perciò, il dato dell’obbli gazione rimane estraneo alla
costruzione dottrinale. Ma non è altrettanto evidente, quando si
ammetta che nel dato dell’ obbligazione è contenuta ad un tempo la
forma dell’ imperativo e la m ater ia del precetto ; ossia che da questo
dato si possa ricavare, hjUifot vtA »pUóh UàwtiH o ad esso
debba conformarsi e subordinarsi sia la determinazione del fine sia il
contenuto delle norme. Senonchè, quando si prenda come dato non
la pura ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è
inevitabilmente condotti, come l’analisi precedente ha dimostrato, a
fondare la morale .sull’autorità, superiore ad ogni discussione, di una
certa rivelazione, interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica
1’ufficio di espositrice e interprete di questa. Rilevando questa
conseguenza io non intendo affatto di darle il valore di una
dimostrazione per assurdo. La tesi nella forma a cui è ridotta ò
tutt’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in confronto dell’ affermazione
generica e ambigua che la morale deve dare norme obbligatorie il
pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma appunto perciò essa fa
apparire manifesta la difficoltà, a cui si trova di fronte. Tanto se
si intende che la rivelazione da interpretare sia in|£g^ quanto se si
intende che sia esterna, si presenta la medesima difficoltà; quella
difficoltà, antica e notissima, dalla quale venne il primo stimolo alla
riflessione e alla critica nel campo della morale: l a pluralità delle
rivelazioni. Poiché i responsi della cosc ienza morale sono s
toricamente diversi e anch e-apposti, come sono divèrse e in parte op poste le
rivelazioni religio se, resta, o che si riconosca a tutte la medesima
autorità, cosi co me i l tono imperativo è. il medesimo; o che si
scelga. Quanto alle. religion i ò .troppo chiaro che nessun
criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere a dimostrar
l’autorità di una piuttosto che del1’altra, poiché t utte si danno come
assolutament e certe e indiscutib ili ; e le stesse prove sulle quali
una rilevazione attesta la sua autorità sono adoperate da ciascun’altra per
asserire la propria, e da tutte risuona sui precetti morali diversi il
medesimo tono di comando. Si cerca il criterio della scelta nella natur
a del le cose co mandate o proibite, come avviene quando si parla
di m aggior sapienz a o el evatez za o n obiltà de i prec etti morali di
una religione rispetto a quelli di un’altra? Allora è i ^contenuto dei
precetti morali che viene assunto come criterio dell’autorità della
rivelazione. E il valore di questo contenuto, che è così usato a
provare la superiorità di una rivelazione sulle altre, si può dunque
riconoscere indipendentemente dal suo presentarsi sotto la forma di un
comando rivelato, dal momento che è esso invocato a provare l’autorità del
comando. Ma allora I’ulhcio dell’Etica lungi dall’essere quello di
interprete e araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice _deHc % Ut ?
^ rivelazio ni. Il che importa a ben più forte ragione che
tanto il fine quanto le norme morali si suppone che possano e debbano essere
conosciute c determinate a ll’ infuori di ogni snodale rivelazione. cioè
all’infuori da ogni appello all’autorità. Ciò che vale per l’autorità di
una rivelazione esterna, vale per quella di una rivelazione
interna. Tra due coscienze, delle quali rispetto alla medesima azione una
ponga come obbligo il fare e l’altra il non fare, il criterio di
valutazione comparativa non può esser dato dal carattere imperativo,
che è comune ad ambedue, ma deve essere un altro. Ed anche allora
il criterio che serve alla valutazione comparativa sarebbe esso in realtà
quello da cui dipende cosi la determinazione come la giustificazione
delle norme. Non resterebbe che riconoscere ja medesima autorità a tutte
le rivelazioni. Il che importa l’una e l’altra di queste conseguenze: o
la assoluta indifferenza del contenuto per qualsiasi luogo -“ e tempo; o
la limitazione a determinate condizio ni storiche dell’autorità e del
valore di ciascuna. Se non si vuol accettare la prima, si presenta la
domanda: Questa limitazione ha o non ha Mi permetto di non fermarmi ad
esaminare la tesi della assoluta indifferenza del contenuto. Sarebbe come
sostenere nel campo della terapeutica che ciò che importa nella ricetta è
la firma della sua ragion di essere nelle condizioni storiche, dalla cui
presenza è circoscritta la sua validità? Se la limitazione non dipende da
queste condizioni, ma essa pure non ha altra ragione di essere all’ infuori
dell’ autorità o del carattere imperativo col quale hic et nunc si presenta,
allora si ammette che, astrazion l'atta da questo carattere di
obbligatorietà col quale una certa norma si presenta in quel certo tempo e
luogo, non vi sarebbe nessuna ragione di preferire nelle stesse
circostanze una norma ad un’altra, cioè si giunge per un altra via
all’indifferenza del contenuto. Se poi questa limitazione ha la sua
ragione di essere nelle condizioni storiche stesse, entro le quali
è valida, cioè in una parola se ò relativa a queste condizioni, allora si
ammette che sono queste condizioni il criterio della limitazione ed è la
corrispondenza a queste condizioni storiche il criterio della validità.
Cioè si ammette che vi è qualche cosa che dà alla norma il suo valore
all’ infuori del1’ obbligazione e al disopra dell’autorità
obbligante, medico, e le prescrizioni di qualunque genere si equivalgono
1’una l’altra. E forse è ancor meno manifestamente falso questo che
quello. Non sarà però inopportuno avvertire che ogni questione
intorno al merito dell’ agente rimane qui al tutto in disparte. (lT
E lascio^ le difficoltà che nascono dalla necessità di ammettere un’altra
rivelazione alla cui autorità si possa ricondurre la limitazione in
discorso. dal momento che esso serve anche a stabilire i limiti
entro i quali 1 autorità è riconosciuta come valida. Cioò si viene a
riconoscere ancora come 1’ obbligazione non possa essere un dato sufficiente
alla determinazione e valutazione delle norme, e come per essa non
solo non possa essere negata, ma venga confermata la legittimità di una
scienza normativa morale. Senoncliè a questo punto mi sento opporre un
nome, un gran nome: Kant. Ma dunque non esiste la morale kantiana ? Non
ricava egli dalla volontà buona, dal dovere, dall’osservanza della
l egge perda legge, la norma morale suprema, nella notissima formula,
nella quale, indipendentemente da ogni particolare rivelazione storica, c
sopra ogni speciale contenuto materiale, si raccoglie tutto un sistema di
norme razionali? E se la sua morale è f m^gle. cessa perciò di
avere il suo valore, e sopratutto cessa di esistere, e, a fortiori, di
essere possibile? Certamente a nessuno può venire in mente di
negare la possibilità di un sistema che ò esistito ed esiste, e a me,
forse meno che ad altri, di negarne il valore. Così la grande costruzione
razionale dei doveri dell’ uomo di Kant, come la grande costruzione
razionale dei diritti dell’uomo che piglia nome dalla rivoluzione francese
sono ben lungi dal melo ri tare il facije compatimento col quale parlano
di astrazioni e di formalismo certi fonografi della sociologia. Ma
qui al proposito nostro importerebbe vedere la costruzione razionale del
Kant sia fondata sul d ato dell’ obbligazione, co me pare, o non ni ut
trist o sulbesigenza dell' universalitaTche n KanT crede bensì
trovare implicita nel concetto del dovere, ma v* /v T< ì»-^uAtv\
7 u-iC' che è invec e caratteristica dell’ idea di ' » senza la
quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap p robazione interiore
dell’obbligo, che è propria della ^ -y j coscienza del dovere. Perchè
i l concetto iÌT"degg e che serve a Kant per passare dal dato del
dovere all’esigenza dell’universalità, non è un elemento contenuto nel
dato stesso e che possa esserne ricavato analiticamente, ma (L una
sintesi nella qual e insieme coll’obbligazione è già assunta l’esigenza
dell’universalità che la giustifica. Ed è questa esigenza dell’
universalit à, non il dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il criterio
supremo della morale. Ma a ben chiarire questo punto — come, anche
nella morale kantiana, l’imperatività non sia un dato sufficiente alla
determinazione delle norme, e come in realtà venga assunto non solo un
criterio [Di questo argomento ho trattato di proposito altrove.
Cfr. Prolegomeni ecc. ( C* «M. ÀtydL* UO-rutL Kv non ricavato da quella,
ma implicitamente anche un certo contenuto occorrerebbe un’analisi
assai meno sommaria; poiché non è questo un argomento da sbrigarsi
così alla lesta. Basti per ora non aver omesso 1’accenno. Il
Fondamento Intrinseco del Diritto secondo Vanni. Il volume dal
titolo Lezioni di Filosofìa, la cui pubblicazione è curata con riverente pietà
e con devota ammirazione dalla vedova e da alcuni tra i più valenti discepoli
poco dopo la morte immatura di VANNI (si veda), è forse tra i saggi di
Vanni quello in cui la sua dottrina appare più compiutamente ordinata a
sistema, e nel quale a un tempo si rivelano felicemente congiunte
le qualità dello scienziato e dell’insegnante; e veramente si può considerare
come il testamento scientifico del celebrato maestro. Certo,
qualunque giudizio porti sul fondamento e sulla validità intrinseca del
sistema, nessuno può disconoscere la larghezza e la profondità della
coltura filosofica e giuridica, e la chiarezza della trattazione; e
sopratutto la sincerità e, direi, 1’ onestà scientifica che ò propria di
chi medita e scrive per amore disinteressato del vero. Vanni, Lezioni di
Filosofia, BOLOGNA, Zanichelli. La l'ilosofia del Diritto abbraccia,
secondo il tre ricerche : la ricerca critica ; la ricerca sintetica
o lcnomenologia giuridica; e la ricerca deontologica. Nella prima
egli comprende non soltanto la determinazione dell’oggetto, dei metodi e dei
rapporti della filosofia del diritto colle scienze affini, ma anche
una indagine preliminare di critica gnoseologica. che GROPPA li accordandosi con
FRAGAPANE ritiene, a mio giudizio giustamente, estranea al compito di
questa disciplina. Giustamente, finché si intende che la filosofia del
diritto debba istituire una sua propria ricerca gnoseologica ; ma non
se si intende anche di negare la opportunità di premettere, come in fondo
fa Vanni in queste lezioni, quali sono i presupposti gnoseologici
accettati. Poiché ogni dottrina deve pur assumerne, di una o
d’altra speeie, esplicitamente o implicitamente. Ed è bensì vero che essi
si possono sottintendere e si applicano di solito nelle ricerche speciali
tacitamente. Ma compito del filosofo è appunto, come osserva Rosmini, di
c omprendere e fo rmulare elii aramente quello che gl’altri
sottintendono. Del resto il fatto che Vanni voglia prender le mosse
da una v alutazione critica sulla natura e al sapere giuridico,
prova quanta larghezza di pensiero, e direi, di coscienza filosofica egli
portasse nelle sue ricerche, e con quanto scrupolo sentisse l’obbligo di
rendersi conto anche dei più lontani e generali presupposti della sua
dottrina. La seconda ricerca si sdoppia in due parti : statica, che
determina la nozione logica del diritto, inducendola dell’analisi del
diritto positivo dei popoli più progrediti, e similmente dello Stato; DINAMICA,
genetica o storica, che studia la genesi e la formazione storica del
Diritto e dello Stato; e si potrebbe anche chiamare filosofìa della
storia del diritto. Finalmente un’altra ricerca di carattere etico
o valutativo ha per oggetto il problema della giustizia, ossia del
fondamento intrinseco e delle esigenze razionali del diritto. Questa, che
costituisce la parte ultima, ò senza dubbio la più importante, perchè
riguarda quello che è il problema centrale della filosofìa del diritto; e
nella cui soluzione principalmente Si manifesta la nota caratteristica delle
diverse dottrine. E la dottrina del Vanni, benché l’indirizzo e. direi,
la moda oggi prevalente la consideri oltrepassata, merita di essere
ricordata e discussa; perchè mentre intende il compito della filosofia
del diritto non soltanto come storico-genetico, ma anche come normativo,
(nel che si accorda coll’ idealismo) si propone di assolvere questo
compito tenendosi nei limiti d’una costruzionc puramente scientifica, ed
escludendo ogni postulato di natura metafisica; nel che consente
col proposito, se non col metodo, dello storicismo c del
positivismo. Ora il difetto principale della sua dottrina, non
nasce, come può parere a prima vista, dalla pretesa e comunemente ammessa
inconciliabilità tra il compito normativo e la validità scientifica ;
chè anzi questo intendimento, chiaramente concepito e tenacemente
proseguito, di una costruzione normativa scientifica del diritto, è a mio
giudizio, un alto titolo di merito; ma nasce dall’essersi fermato,
direi, a mezza via nel rilevare a quali condizioni sia possibile una
costruzione etico-giuridica che soddisfaccia a un tempo ad ambedue le
esigenze. La dottrina di VANNI, per quel che riguarda il fondamento
intrinseco del diritto e il metodo, si può considerare come una forma di
quella che Spencer ha propugnato e difeso col nome di utilitarismo razionale: e
infatti, pur rilevando giusta¬ mente l’importanza e il valore del
pensiero di Romagnosi, egli la riconosce come il precedente più
immediato e più notevole della sua. Ma la trova erronea per tre rispetti
; perchè ammette un diritto naturale; perchè pretende di costruire una
norma etico-giuridica assoluta; e perchè Analmente Spencer intende le
condizioni di esistenza da cui le norme devono essere dedotte, in un
senso puramente biologico. Principalmente su questo ultimo punto egli
accentua il suo dissenso, prendendo come base, non le condizioni dell’esistenza
individuale e la legge della sopravvivenza dei più adatti, ma le
condizioni dell’esistenza sociale. Il fondamento dell’ etica sta dunque
nella necessità per chi vive in società (e la socialità è la esigenza
suprema del1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni ed alle
esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica dimostra intrinsecamente
necessarie quelle forme e quei modi di condotta che sono richiesti dalle
condizioni della vita in comune. Fra queste condizioni ve ne sono alcune
che hanno un’ importanza fondamentale e primaria, in quanto rappresentano
l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione; e nell’osservanza
delle quali consiste la giustizia. Ma poiché queste potrebbero non essere
spontaneamente osservate, è necessario che le azioni relative ad esse non
restino abbandonate alla buona volontà e alla spontaneità e che con una
norma di condotta irrefragabilmente obbligatoria ed eventualmente coattiva
s’induca all’osservanza anche il volere recalcitrante. Quindi in altri
termini la necessità del diritto, il quale ci apparisce allora come una
norma che ha da garantire le condizioni fonlamentali per la coesistenza e la
cooperazione umana. Cosi non soltanto l’Etica, ma anche il diritto viene
ad avere un fondamento intrinseco, e viene ad averlo anche lo Stato, il
quale è indispensabile alla funzionalità (tei Diritto Non è necessario un lungo discorso per
vedere che quando il Vanni crede di fondare in questo modo l’esigenza
razionale del diritto finisce per assumere in realtà come presupposto il
principio che egli vuole, e crede di dovere, derivare apoditticamente, e
al quale appunto è subordinato il valore di necessità razionale assegnato alle
norme ideali che devono servire di modello e di criterio di
valutazione. Infatti la relazione naturale e necessaria tra una certa condotta
e certe condizioni, necessarie alla loro volta alla convivenza e
cooperazione sociale, serve bensì a stabilire che quella condotta deve
essere riconosciuta come un mezzo necessario al fine di conservare e
promuovere la convivenza e la cooperazione sociale, posto che
questo sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non vale a
stabilire la necessità razionale di riconoscerlo come fine; e fine
precedente in valore e autorità ad ogni altro. Il \ anni par che
intenda superare la difficoltà osservando che la necessità puramente
naturale in quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto in
una esigenza ed in una necessità razionale. Essa allora esprime un
principio logico fondamentale, il principio di contraddizione. Se in forza
della natura stessa delle cose c dei rapporti causali, per ottenere un
certo fine è indispensabile un certo mezzo, e per raggiungere un certo
risultato è indispensabile un certo modo di condotta, implica contraddizione
che si potesse impiegare un mezzo diverso o seguire una condotta diversa.
Ma ò facile vedere 1’ equivoco. Contraddizione vi è certamente tra il
pensare che una condotta è indispensabile a raggiungere un certo fine e
pensare che questo stesso fine possa essere raggiunto con una condotta
diversa ; ma io non violo nessun principio logico e non sono punto in
contraddizione con me stesso se, ammettendo che un certo fine dipende da
certi mezzi, non voglio il fine e non voglio perciò neanche i
mezzi. E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale all’ordine
cosmico, considerandolo come la forma più alta a cui riesce iì processo
della evoluzione universale. Perchè non si fa altro in questo modo,
che spostare il presupposto; cioè ammettere, ancora e sempre, che si riconosca
valore di fine subiremo a questo adattamento all’ ordine cosmico.
Il quale presupposto potrà o non potrà venir legittimamente assunto
come dato o postulato; ma è e rimane un presupposto. E perciò le norme
ideali che se ne deducono hanno questo valore di nonne nell’
ipotesi che si accetti come fine supremo quell’ordine di effetti dal quale sono
dedotte. Ma rilevando cosi il carattere necessariamente ipotetico
della costruzione, alla quale riesce anche il « sistema delle condizioni
della vita in comune del Vanni, io non intendo, anzi escludo, che questo
carattere ipotetico costituisca per sò un vizio proprio di questa e di tutta
una classe di costruzioni etico-giuridiche, come pretende P idealismo
metafì¬ sico. Il quale si illude di poter esso sfuggire a questo
carattere ipotetico riallacciando quel tipo di convivenza e di relazioni
sociali, che assume come modello e in conformità al quale determina
le norme ideali, a un fine di natura metafìsica, che abbia perciò valore
assoluto. Dove sono da notare, sia detto di passata, due circostanze, a
mio giudizio, decisive: che le norme ideali sono pur sempre
ricavate o dedotte, malgrado ogni sforzo od ogni apparenza contraria, dal
tipo sociale assunto come modello, e non dal fine metafisico, della cui
autorità e del cui valore esso si riveste; che il valore assoluto di questo
fine metafisico non può essere che assunto aneli’esso o come dato
o come postulato. La verità è semplicemente che un sistema di
norme giuridiche contempla di necessità un certo ordino di vita
individuale e sociale; e che la validità dello norme dipende dal valore che si
suppone riconosciuto a questo ordine di vita. Questo riconoscimento di
valore, questa valutazione del fine è dunque il presupposto inevitabile
della validità etica del sistema (la quale non esclude la validità scientifica,
ma non si esaurisce in questa); e la questione si riduce a decidere se si
pub o non si può assumere legittimamente come dato o come postulato
questo riconoscimento del valore che nel sistema è assegnato al
fine. Ora è nel rispondere a questa questione, non nel carattere
ipotetico, che si rivela l’insufficienza del sistema di Vanni e dell’
indirizzo naturalistico in genere; e alla quale del resto non riesce a
sfuggire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti una risposta adeguata alla
questione esige che si determinino le condizioni richieste perchè a un
ordine di convivenza e di CO-OPERAZIONE SI RICONOSCA VALORE DI FINE
UNIVERSALMENTE REGOLATORE -valore, direi, piuttosto che di summum bonum
di PRIMVM DESIRABILE. Ossia perchè si possa ammettere che tutti i soci
consentano liberamente nel valutarlo e volerlo come tale. E che si assuma poi,
come modello per dedurne le norme ideali, il tipo sociale che
soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale configurato in conformità di
quelle condizioni. Ma non è rispondere alla questione il
dimostrare la naturalità della convivenza sociale in genere, o di un
certo tipo che si assuma volta a volta come modello. Questa dimostrazione
può servire a farmi trovar buona o giusta o desiderabile l’osservanza
dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto o degno di essere
voluto, quel tipo di vita sociale, cbe si presenta come suo effetto ; ma
non inversamente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi a subirlo per
la coscienza della sua necessità naturale. chi potrebbe legittimamente
scambiare questo subire con un volere . e la rassegnazione a un
male con la aspirazione a un bene? Nemmeno gioverebbe, d’altra
parte, il ricorrere a postulati metafisici. Posto che io non
riconosca l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema come
degno di essere voluto, in qual modo si può presumere legittimamente che
valga a farmelo riconoscere tale l’affermazione (poiché qui di dimostrazione
non si potrebbe parlare) che esso ha un fondamento o una giustificazione
metafisica, se la ragione per la quale il sistema gli assegna
questo fondamento consiste appunto nel valore di fine che esso gli
attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli riconosco? Ma Vanni (per
restringermi a lui. poiché all’ndirizzo metafisico non ho accennato qui se
non per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe con tutta
probabilità che per la via indicata come la sola legittima si riesce a
una costruzione puramente astratta, di un tipo utopistico di società che
non trova nella realtà storica nessuna corrispondenza; e che si ricade nei
difetti (ai quali appunto egli, d’accordo in ciò con la scuola storica,
s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o di un diritto assoluto
valevole per tutto c sempre, e senza riferimento possibile alla
variabilità dei rapporti sociali. Mentre riponendo, come egli fa, il
fondamento intrinseco del diritto n ella conformità della condotta alle
condizioni richieste dalla vita in comune, questo riferimento non solo
appare possibile ma inevitabile. Infatti, insiste egli nel rilevare, le
condizioni della vita in comune non sfuggono al moto dell’ evoluzione e
della storia ; e se anche alcune hanno il carattere d’una certa
uniformità e costanza, altre invece variano correlativamente al grado di
sviluppo umano e alle forme di organizzazione sociale, e sono proprie di
ciascun grado e di ciascuna forma. Il che importa che debbono variare
corrispondentemente le norme regolatrici; ossia che nell’applicazione il
sistema etico-giuridico fondato sulle condizioni di esistenza va
combinato col principio di evoluzione e subordinato al criterio
della relatività storica.” Ora, lasciando di rilevare come con questa
subordinazione si assuma sempre per presupposto che l’osservanza delle
condizioni richieste dal tipo sociale storicamente dato, abbia, per il solo
l'atto che la coscienza ne riconosce la necessità storica, anche
valore di fine, importa notare come si venga con ciò a rinunziare ad ogni
valutazione comparativa delle diverse forme storiche del diritto. Perchè
una valutazione comparativa richiede di necessità un criterio, il
quale non può essere dato dalla corrispondenza alle condizioni storiche. E se
si prende un criterio diverso, allora è la conformità a questo
criterio e non la necessità storica, che si assume come esigenza
razionale o come giustificazione inrinseca del diritto. È certo che se una
costruzione etico-giuridica per essere razionale dovesse rimanere
sospesa, come gli dei dell’ORTO, tra cielo e terra, e fuori di ogni
possibilità di applicazione alla condotta individuale e collettiva, bisognerebbe
accettare la tesi del fenomenismo, e negare alla filosofia del
diritto qualsiasi funzione pratica riconducendola nell’ ambito della pura
sociologia. Ma esiste davvero questa incompatibilità? E non potrebbe
essa dipendere, invece che dalla radicale sterilità di una costruzione
veramente razionale, dalla preoccupazione di giustificare eti- Se, e a
quali condizioni, una tale costruzione sia possibile, è argomento del
quale si è già discorso altrove e che non può esere toccato di sfuggita.
camentc forme di diritto che non sono eticamente giustificabili, di
assumere come condizioni richieste dalla giustizia e conformi ad essa certe
condizioni, reali sì, e storicamente date, ma che sono la negzione di
quelle richieste dalle esigenze ideali? Perchè se fosse cosi, In conclusione da
trarne sarebbe non che la costruzione razionale ò inapplicabile
come criterio di valutazione e come modello normativo, ma che, essendo le
condizioni reali diverse da quelle idealmente contemplate, le norme
ideali non possono essere applicate simpliciter a condizioni
diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi dovranno ugualmente servire come
criterio per determinare quale sia in un dato momento storico la condotta
sociale e individuale che, nei bifidi delle esigenze reali
necessariamente imposte dalle condizioni in effetto esistenti, è più
acconcia a favorire la trasformazione di queste nella direzione segnata da
qualle esigenze ideali, ossia tende ad attuarle. il che importa che le esigenze
corrispondenti alle condizioni proprie di un certo momento storico
non siano assunte esse come esigenze razionali del diritto, ma forniscano
il criterio per stabilire entro quali limiti sia possibile tradurre in
norme di diritto positivo le norme ideali. Ossia in breve: l’esigenza
razionale segna le condizioni a cui deve soddisfare un ordino
sociale perchè possa aver valore di fine; la realtà storica. La dottrina
delle due etiche di Spencer e la morale come scienza. Per una scienza
normativa morale Il fondamento intrinseco del diritto secondo Vanni.
Erminio Volfango Francesco Juvalta. Herren von Juvalt. Juvalta. Keywords:
implicature, il metodo dell’economia pura nell’etica, il principio della
cooperazione, cooperazione e desiderabilita universale, ragione e cooperazione,
cooperazione come mezzo, ragione di mezzo, tra altruism ed egoism, amore
proprio, benevolenza, giustizia. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Juvalta on
the categorical imperative,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.
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