Luigi Speranza -- Grice e Piana: la ragione
conversazionale e l’implicature conversazionali dei merli – la scuola di Casale
Monferrato -- filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Casale Monferrato). Filosofo italiano. Casale
Monferrato, Alessandria, Piemonte. Grice: “I never cease to get moved when I
read Piana’s notes, “Il canto del merlo”! That’s the way to do philosophy of music – the
Italianate warmth so strange and contrasting to the coldness of Scruton!” Insegna filosofia a Milano e Pietrabianca di
Sangineto. Allievo di PACI, sotto il quale elabora la sua dissertazione sulle
opere inedite di Husserl. La sua posizione filosofica è caratterizzata dal
concetto di fenomenologia -- strutturalismo fenomenologico -- influenzato
particolarmente da Husserl, Wittgenstein, e Bachelard. Alcune indicazioni sullo
strutturalismo fenomenologico sono contenute in “L'idea di uno strutturalismo
fenomenologico”. La sua filosofia è orientata verso la conoscenza, la musica e
i campi della percezione e immaginazione. Allievi di P. sono Basso, Civita,
Costa, Franzini, Serra, e Spinicci. Uno dei più acuti e originali
filosofi italiani – L’Unità -- uno dei più interessanti interpreti e
prosecutori, in Italia, dell'indirizzo fenomenologico -- Paese Sera. Tra i
più lucidi, originali e fecondi fenomenologi italiani" -- "L'idea di
Europa e le responsabilità della filosofia". Vede l'esperienza della
fenomenologia di Husserl che costituì il centro d'interesse di un grande
maestro come Paci. Non è il caso qui di tracciare mappe di quelle vicende,
credo però che non sarebbe sbagliato sostenere che P., in quel gioco delle
parti, che è sempre l'apertura di un'esperienza plurale sul suggerimento di un
filosofo autentico, si è preso quella del fenomenologo più prossimo ai temi
duri di Husserl, agl’obbiettivi che stabiliscono la teoreticità della ricerca
fenomenologica come tratto distintivo ed essenziale rispetto ad altre figure di
pensiero -- L'Unità. Illustre filosofo della musica -- in "Il significato della
musica", relazione al convegno 'Approcci semiotico-testologici ai testi
multimediali', Macerata. In un intervento letto durante un convegno tenuto
all'Macerata. Franzini dichiara. P. è a mio parere uno dei filosofi maggiori
del dopoguerra italiano: mai prono alle mode, sempre originale e innovativo,
come dimostrano i suoi essenziali contributi alla metafisica della musica. In
sintesi, un maestro in cui si ritrovano sempre momenti di autentica filosofa. Il
più grande maestro della fenomenologia
italiana. Il suo stile filosofico rappresenta il centro di gravità attorno al
quale tendemo a condensare gran parte di quello che di eccellente la
fenomenologia italiana fa, convinti che i suoi meriti non sono ancora
adeguatamente riconosciuti. La vera filosofia tende all'elementare. E dunque
non ha fretta di correre oltre, indugia in quei punti rispetto ai quali si
potrebbe benissimo soprassedere. In certo senso, si fa custode del ricordo di
cose che si potrebbero facilmente dimenticare. La filosofia è un’arte del
ricordo. Ma vi è in ogni caso anche qualcosa di profondamente giusto nell’idea,
che si ripropone di continuo, di una scienza che deve in qualche modo liberarsi
dalla filosofia. È come liberarsi dai ricordie questo è spesso necessario per
procedere oltre. Altri saggi: “Filosofia dell’esperienza”; “L’idea di uno strutturalismo
fenomenologico”; “Il manifesto”; “La filosofia tende all’elementare e non ha fretta”;
“L’importanza filosofica di arrivare ultimi”; “Esistenza e storia” (Nigri,
Milano); “La fenomenologia” (Mondadori, Milano); “Elementi di una dottrina
dell'esperienza” (Saggiatore, Milano); “La notte dei lampi”; “La filosofia
dell'immaginazione” (Guerini, Milano); “Filosofia della musica” (Guerini, Milano);
Mondrian e la musica, Milano, Guerini); Teoria del sogno e dramma musicale. La
metafisica della musica” (Guerini, Milano); “Numero e figura: idee per una
epistemologia della ri-petizione” (Cuem, Milano); “Album per la teoria della
musica”; “Frammenti epistemologici”. I
suoi saggi sono racchiuse: “II strutturalismo fenomenologico e psicologia della
forma”; “La notte dei lampi”; “Le regole dell’immaginazione”; “Filosofia della
musica”; “Intervallo e cromatismo nella teoria della musica”; “Alle origini
della teoria della tonalità”; “Teoria del sogno e dramma musicale”; “La
metafisica della musica”; “Mondrian e la musica”; “Filosofia della musica”; “Estetica
musicale”; “Introduzione alla filosofia”; “Interpretazione del “Mondo come
volontà e rappresentazione””; “Immagini per Schopenhauer, “Interpretazione del “Tractatus”
di Wittgenstein”; “Commenti a Wittgenstein”; “Commenti a Hume”; “Prroblemi
della fenomenologia”; “Fenomenologia, esistenzialismo, marxismo”; “Fenomenologia”;
“Stralci di vita”; “Conversazioni sulla “Crisi delle scienze europee” di
Husserl”; “Fenomenologia delle sintesi passive; “Barlumi per una filosofia
della musica”; “De Musica, rivista fondata da lui. Spazio Filosofico, collana fondata
da lui; "La fenomenologia come metodo filosofico", “Linguaggio” Guerini,
Milano); "Immaginazione e poetica dello spazio", “Metafora Mimesi
Morfogenesi Progetto” (Guerin, Milano); "Considerazioni inattuali su Adorno",
"Musica/Realtà", "Figurazione e movimento nella
problematica musicale del continuo", “La percezione musicale, Guerini, Milano,
"Fenomenologia dei materiali e campo delle decisioni”; “Riflessioni
sull'arte del comporre", “Il canto di Seikilos” (Guerini, Milano); I
compiti di una filosofia della musica brevemente esposti”; De Musica, Elogio dell'immaginazione musicale, De Musica,
La serie delle seriedodecafoniche e il triangolo di Sarngadeva, De Musica; Immagini
per Schopenhauer, Il canto del merlo” –
i merli – il canto dell’uccello, funzione del canto dell’uccello maschio. “Occorre
riflettervi ancora”; “Considerazioni in margine a Fantasia e imagine”; “
Leggere i poeti. Note in margine a Pascoli”; La sociologia della letteratura
(Milano); Questioni di dettaglio (Milano), Storia e coscienza di classe (Milano)
Ricerche logiche (Milano); Storia critica delle idee (Milano); fenomenologica
italiana; Fenomenologia, coscienza del tempo e analisi musicale; Variazioni dei
significati” - Burnout e risorse; Musicoterapia, alle radici fenomenologiche
del Cosmo antico; Fondamenti della Matematica; La scienza della felicita; La
fenomenologia dell’esperienza. Scuola di Milano – scuola milanese -- Giovanni
Piana. Piana. Keywords: il linguaggio di Spinicci, merli, la serie
dodecafonica, il triangolo di Sarngadeva. Oltre il linguaggio, linguaggio e
comunicazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Piana” – The Swimming-Pool
Library. Piana.
Luigi Speranza --
Grice e Piccolomini: la ragione conversazionale, l’implicatura conversazionale,
e le figure di retorica – la scuola di Siena -- filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Siena).
Filosofo
italiano. Siena, Toscana. LA RETORICA. Grice: “I became especially
interested in rhetoric after Leech, an Englishman who ended up teaching at
Lancaster, argued that all I ever did was engage in ‘conversational rhetoric!” –
LIZIO. Grice: “figure of
rhetoric” – “rhetoric” versus “dialectic” inference -Alessandro
Piccolomini Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. arcivescovo della Chiesa
cattolica Incarichi ricoperti Arcivescovo di Patrasso Nato a
Siena Nominato arcivescovo Deceduto a Siena Manuale
Frontespizio della filosofia naturale
(Siena, Siena. Filosofo, etterato, astronomo e arcivescovo cattolico
italiano. Stemma della famiglia Piccolomini Blasonatura D'argento,
alla croce d'azzurro, caricata di cinque crescenti d'oro. Membro egl’intronati
(‘Stordito’). Venne rappresentata la sua commedia Amor Costante ed Alessandro,
entrambe dall'intreccio macchinoso, ma con vena psicologica e moralistica.
Legato all'ambiente degl’intronati è il Dialogo de la bella creanza de le donne
più noto come Raffaella. Professore a Padova per. Insegna filosofia e
partecipa alle attività degl’infiammati. Scrive ad Aretino, esponendogli il suo
pensiero sul volgarizzamento della prosa scientifica. Rientrato a Siena, lascia
la città per trasferirsi a Roma. Qui vive nell'ambiente del card. Francisco de
Mendoza. Uomo di grande cultura, traduce dal latino il sesto libro
dell'Eneide (VIRGILIO) e il tredicesimo libro delle Metamorfosi d’OVIDIO, dal
greco in italiano l'Economico di Senofonte, la RETORICA e la Poetica del LIZIO e
in latino il commento di Alessandro di Afrodisia ai Meteorologica di Aristotele
e la Meccanica Aristotelica. Nominato arcivescovo di Patrasso, rimase a
Siena come coadiutore dell'arcivescovo Francesco Bandini Piccolomini. E
il primo, molti anni prima di Bayer, ad aver contrassegnato le stelle in base
alla loro luminosità con delle lettere (alfabeto latino). Il libro dal titolo
De le stelle fisse, è da molti considerato il primo atlante celeste moderno. Le
mappe contenute nell'opera presentano tutte le costellazioni tolemaiche (ad
eccezione di quella del Puledro) e mostrano le stelle senza le corrispondenti
figure mitologiche; per la prima volta in un libro a stampa venivano quindi
riportate le mappe astronomiche complete con le costellazioni tolemaiche. Il De
le stelle fisse e un altro libro, sempre
di P., dal titolo Della sfera del mondo
vennero pubblicati in un unico e rarissimo volume. In ricordo del
famoso letterato senese, sulla Luna c'è anche un cratere che porta il suo nome;
il cratere P. è molto profondo, ha un diametro di circa 88 km ed è ubicato
(29,7°S / 32,2°E) a sud del cratere Fracastoro. Opere di prosa e di
teatro Amor costante, Dialogo de la bella creanza de le donne (Venezia)
Alessandro, De la nobiltà et eccellenza
de le donne, (Venezia) Trattati Libri ad scientiam de natura attinentes,
Della sfera del mondo, La economica di Senofonte tratta di lingua greca in
toscana, Venezia, Al segno del Pozzo, De la instituzione di tutta la vita de
l'omo nato nobile, e in città libera (Venezia) In quatuor libros
meteorologicorum Aristotelis, commentatio lucidissima (Venezia) Edizione
Commentarium de certitudine mathematicarum disciplinarum (Roma) Sfera del
mondo, Venezia, Cesano. Annotazione nel libro della Poetica di Aristotele;
Della grandezza della Terra et dell'Acqua (Venezia, Ziletti) Sfera del mondo,
Venezia, Giovanni Varisco; Speculationi de' pianeti, Venezia, Giovanni Varisco;
De le stelle fisse. Edizione del Il
Libro della Poetica LIZIO. Tradotto di greca lingua in volgare da P., Con una
epistola ai lettori del modo del tradurre (Siena, per L. Bonetti) Retorica LIZIO
amplissimamente tradotta e illustrata con dotte e utilissime digressioni da P.,
Venezia per Angelieri, Libri ad scientiam de natura attinentes, Venezia, eredi
Francesco De Franceschi (senese), Libri ad scientiam de natura attinentes,
Venezia, eredi Francesco De Franceschi (senese), Bibliografia Paparelli, P., Dizionario
Letterario Bompiani. Autori, Milano,
Bompiani; P. Un siennois à la croisée des genres et des savoirs. Atti del
colloquio internazionale (Parigi), cur. di Piéjus, Plaisance, Residori, Centre
interuniversitaire de recherche sur la Renaissance italienne), Università
Sorbonne Nouvelle – Paris. P., su Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata
Pelaez, Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia
Britannica, Cyclopædia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature,
Harper. Tomasi, P., Alessandro, in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere
di MLOL, Horizons Unlimited. Open Library, Internet Archive, Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Cheney, Alessandro
Piccolomini, in Catholic Hierarchy. Portale Astronomia Portale
Biografie Portale Letteratura Portale Teatro Categorie:
Letterati italiani Astronomi italiani Arcivescovi cattolici italiani Nati Nati
a Siena Morti a Siena Drammaturghi italiani Professori dell'Università degli
Studi di Padova Piccolomini Traduttori dal latino Traduttori dal greco
anticoTraduttori dal greco al latino[altre] A THEODETTO; TRADOTTI IN LINGUA. LIZIO,
5 s^rjòm TRADOTTI IN LINGVA VOLGARE, T^a AI. NVOVAMENTE DATI IN
LVCE. Con la tavola de' Sommarij. VENEZIA. Appalto Francesco
deTranceichi SanefL. tri e fetÀ A VÈJjaf: E ben'io fimpre ho fiimafà, genttlifiimi
lettori, esser tanta la differenza trai cercar curiosamente occasion di
calunniare morder, più toflo che di riprender per o [curar Ì altrui
gloria, gli Jcr itti altrui 5 0 l'opporsi dall'altra parte sinceramete per
filo %elo dellà 'verita, a quelle co/e, che paian manco vere in e fi 5 che
fi come il far questo e cosa dignissima d’ogni libero purgato intelletto
cosi il far quello a maligna, e malvagia volontà s appartiene. Niente dimanco
io fino sìa to sempre cosi nemico d’offènder in quanto si voglia pi ce la
cosa, chi si sìa y e ffetialmente con mezo di queflo infamissimo vizio
della mordacità j che per un non so che d'apparente somifilanda che fra lor
tengon le due cofidette; io voluto fiejfe volte non seguir fv nocche fapfe
ij rebbe jjj rebbe per fi lodeuóle per fuggir ogni pericolo, JoSpition
di biajmo, che potessè recare l'altra. Da questo nasce che potendo parer
maraviglia ad alcuno che doppo tante tradott:onr y fatte fin oggi della RETORICA
a Teodetto delle quali, quattro IN LINGUA LATINA e due nella nostra volgare] ho
fin hor vedute 5 io nondimeno mi sìa pofio parimente a, tradurla non ho
voluto ajsegnar per ragion di questo, imperfezione alcuna ch'in qual si
voglia delle dette traduzoni, abbia io giudicato che si ritruovi. Ma mi
contento sola, che mi bafli d'addurneal pr e finte questa ragione è,
chauend'io già fatto piena paragrafi in lingua nostra supra tutti li tre
ùbri di e fifa ^B^tpricay ed avendo quiui nella margine accennato e cituto passo
per passo i praprij luoghi del LIZIO cosi le fiejfe parole latine secondo
la traduzione di Trapezjzjun* ito $ accioche 1 Lettori della parafi aje
con minor fatiga potefierri trouare e parragonar ti te fio con la
parafi aJL^ $ giudicai, che fufie ben fatto di far le cimtioni deltefio del
LIZIO nella lingua nostra ancora. £f perche meglio si potèsse veder I 'veder
fondata la correspondenza della parafi afe al te fio, secondo il fin/o, che più
ho io /limato ejfer vero, et legittimo, feci pensiero di far la presènte
tradottiones e maggiormente essendo par ufo così ben fatto a molti amici
miei, giuditiosi, amatori di Ietterei. 6t a queflo effètto, accio che più
ageuolmente si potejfer rincontraci luoghi della parafi afe con uei
delia lettera del LIZIO dame tradotta $ ò pojlo nella margine di quella
tradottioncj alcuni numeri, chabbian da rispondera i numeri, che faran
parimente poftì nella margin della parafi afi^j, che toflo vfcirà fiora
riìlam-* poto in tutti a tre i libri inferni. Ho coluto con quefie poche
parole farui capaci (benigni fimi lettori) della cagion, che ni ha moffo a
portar la Tietoriùa del LIZIO nella nostra lingua. Jnche
fare,Jeconofcerete, eh* io mi fa in buona parte appreJfatJ alla venta
legittima dei fenfì Juoi, et a fargli chiaramente apparir altrui (che fon
le due cofe, do in tradurre mi sfòrzo d'andar cercando) filmerò io,
che ciò a me fta piena ricompensa di quefia impresa: e con maggior animo
darò fine alla tradot% tione tionc, eh e nella me de firn a noftra lingua,fo
al prefente della Toetica del LIZIO^ fjf allaparafrafe parimente ciò io le
fo Jopra. lacjual nuoua tmprefa già farebbe condotta al fne.fi
più JfreJ/e, £f men breui triegue mi concedeffe quefa lunga
infermità-, che tanti anni già mi iteri oppreffo. Ada fiero pur che la detta
tmprefa farà condotta al fin fo per tutto Ì anno feguente^j del
fettanfnjno. Dio nofiro signore vi conceda ogni prosperità. Da c ' g encr
demoliranno 5 e delle co felodeir-> li, e delle vituperabili 5 e dei
luoghi da trovarle, e da provarle, del genere giudicialc e prima
dell'ingiurie e cause di quelle;e a quai capi si poflbn ridurre, delle cose
gioconde, o ver voi uttuofe, per cagion delle quali foglion recarli a
far'ingiuria gli’uomini e dei luoghi da ritrovarle, da conofccrle e da mostrarle,
quali fogli on'esser quelli che volontieri fan no ingiuria e quelli contra
de i quali si fanno, quali azioni si debbian dir veramente giuste o ingiuste o
ver guistamente o ingiustamente fatte, e dell'equità donde la nafea, e in che
differifea dal rigor delle leggi e alcuni luoghi da conoscerla, dell'ingiurie
pofte in paragone e comparationfradi loro; quali sien maggior e quali minori e
alcuni luoghi da conoscer questo, delle pruove e modi di far fede
inartificiali, o ver senz'artiheio, del bisogno c'hà l'oratore della cognizione
degl’affetti e passioni umane, dell'affetto dell'ira, della mansuetudine, ò ver
placabilità, dell'AMORE e dell'odio, del timore, e della confidenza, della verecondia
e dell’inuerccondia, della grazia, della Compassione, dell’indegnazione, dell’invidia,
dell’emulationc, della giovinezza, e conditioni di quella, della vecchiezza e sue
proprietà, della virilità e sue condizioni, della nobilità, Si proprietà di
quella, dei costumi e proprietà dei ricchi, dei costumi di coloro c'han grande
auttorità e potenza sopra degl’altri e dei bene fortunati, continuazione delle
cose dette, con quelle chc s'han da dire nel restante, della natura del possibile
e dell’essere stato e rlcll aver cad efTcrej e dei luoghi loro e
della gradczza e piccolezza, considerate in natura loro, dell'essempio, o ver'induzione
retorica e delle specie sue e lor condizioni e del modo d'usarle, se
collocarle nell’oratione, delle sentenze oratorie, se di tutte le spetie loro
e dell’uso ed utilità di quelle, degl’entimemi e dei precetti necessarij all'uso
di quelli e quali sieno gl’entimemi puri prò uatiui e quali gli
redarguitiui, o ver reprovativi, de i luoghi comuni e quali tra gl’entimemi sié
quelli che di nobiltà e di perfezione eccedono, che si truovino Enth. Appareri
e quali essi sieno, e de i luoghi comuni che posson lor servire, De i modi
d'opporlì all’avversario e di difirioglier le sue ragioni. E che cosa sia instanza,
o ver obbiezione oratoria, e in quanti modi si faccia, dell'amplificationc, in
ampliare, e in diminuire, over estenuare, della continuazione e del proponimento, o
ver propofuion di quello, che s'ha da trattare in esso.
E della TAVOLA della pronuntia oratoria e finalmente della distinzione
della locutione oratoria dalla poetica, della virtù della locuzione oratoria e
delle condizioni, che le convengono e quai forti di parole si ricerchino
per tai conditioni: et della Metafora, et de gli Epithcti, ouer aggiunti;
della freddezza, over inettezza, e difetto della locutione oratoria; dell’imagine,
over comparazione e della differenza e covenenenza ch'ella tiene colla metafora;
della struttura della locuzione oratoria e prima del parlar grecamente e quante
e quali condizioni si ricerchino a questo; dell'ampiezza, magnificanza e
grandezza della locuzione e quai cose poflbno o nuocere, o giouare a qucfto. Del
decoro della locutione oratoria, et quarc, et quali fiélecòditioni, & rauuertetie,
che perfuacagio fi ricercano.& qual fia la locuzione proportionata, qualc la
coftumata ,&: quale la pathetica, o ver afFcttuola. Del numero e ritmo
oratorio, ed in che sia differente dal metrico dei poeti: Óc d'altre cose
appartenenti al ritmo, ed agli accenti. (ilL fasi Renella riga c .del legislatore,
bygi dal legatore. e.\o.canfagiÀ.cofagia\ f.tfiion
ejfendo.&nonejjendo. \.\6 efftndo.^ effendo. -.e *£afide.& alle
fedi. 113 4.U dell altra pan. Et dall'altra parte. 1 . Quefìe.
Quelle. tg*no.congiungam. DELLA RETORICA DEL LIZIO L.L::^ a Theodetto, TRADOTTA
IN LINGVA VOLGARE Da P., dell'utilità della reorica e delld Jòmivltanz^a
creila tien conlla DIALETTICA. a A retorica hà gran convenien ria et corrispondenza
colla DIALETTICA [cf. H. P. Grice on logical versus pragmatic inference and G.
N. Leech on pragmatics as conversational rhetoric]; percioche coli l'una come
l'altra per vna ccr ta forte di vie procede, le quali sono in un certo
modo alla cognizione communemente di tutti gli rinomini accommodare; e non
dentro a termini d’alcuna particolare scientia, riftrette, et determinate. 3c
per quello lì vede, che tutti in vna certa maniera, d'am4" bedue quelle
facilità partecipano, et fon capaci: vedendo noi, che niuno è, che fin'ad
vn certo termine non fi metta a impugnare le ragioni altrui, Se a foAener le
fue; & parimente a difenderli, ed ad accusare, ogni volta, che gliene vien
bisogno. j et nella moltitudine di chi fa quello, alcuni fono, che feonfideratamente,
et inettamente lo fanno, et quasi acaso, et altfi A per 2 Della storica
d'Aristotele per il contrario lo Tanno più ordinatamente, Se quali per
habi( ro;dal'vfo, et dall'edercitatione acquiftato. Vedendoli dunque nell'vn
modo, et nell'altro far quello, chiara cosa è, che polli bil cosa
fiad'inuefligare, & veder come ciò con via, Se con ordin fi debba fare:
potendoli cercare, et trouar la cagione,ondc fia, che confeguifean parlando
l'intento loro, cosi quelli, ch’in ftrutri dall'euercitation procedono,
come quelli, che puramente a cafo. Se cofi fatta inueftigatione, Se
olTèruatione, no farà alcuno, che non confelTi efferc opera, &offitio
d'arte. Di quell'arte del dire adunque, coloro, che fin’a qui n'han trattato,
Se comporto libri, una picciola, Se breuc parte n'han tocS co. Conciofia cosa
che clfendo il prouare, e 1 far fede, l'cfientia & lafoilantiadi
quell'arre, Se tutte l'altre cose, che le ftan d attorno, accidenti, et aggiunti
di quella; eglino degl’entimemi, Se degl’argomenti che son'il corpo fodo della
fede, che s'hà da fare, non dican nulla: Se di quell’accidenti che son fuora
della sostantia, Se del negotio Hello, lungamente parlino, 9 Se molte cofe
trattino. L'affetto di calumniare, Se la compassione, et l ira, Se V altre cosi
fatte passioni dell'anima, non riguardan la causa che s'hà da trattare, ne
toccan propriamente la cosa ltclfa, ma solo han riguardo a commouer,
lìorcere Se in10 terellàrc il giudice. La onde fe in rutti i fori, & giudirij
auueniile, fi come in alcune Città, fin'ancora in quello tempo adiuiene ; Se
fpctialmente in quelle, che ben goucrnate,&: amminilìrate fono; certamente
nulla harrebber, che dir quelli tali, 1 1 Conciolìacofa che nelfun fia,
che non giudichicene farebbe cofa ragioneuolmente ratta ìlprouedere, Se
prohibir con leggi, chenon s'vfcille parlando maifuordei meriti della
llelTà caufa. Et alcuni fono, che di più, cotai leggi, non folo con l'opinione,
ma con l'olleriiantia, Se con l'vfo appruouano: come fra gli altri fan
quelli, che rifeggono,& giudicano nel configlio dell'Ariopago. Et
tutto quello drittamente è lìato confidcrato, li Se con gran ragione. Pofciache
non comi iene llorcere, o piegare dal dritto il giudice con tirarlo, Se
inchinarlo ad ira, oa inuidia, o a compadrone, non cllendo altro quali il
far quello, che s'alcuno, c'haueifea feruirfi perla drittezza, dell'opera
fua d'vna regola, o d vna fquadra, cercaiTe prima di dillorcerla,
ór x 5 d'incoruarla • Oltra di quello è cofa molto manifella nó
elfere altro 77 Primo libro. j altro l'offiriodi colui, che
litiga, Se agita in giuditio la caufa Tua, fc non prouarc, Se moftrar che
la cofa di cui fi tratta, et che cade in controuerfia, fia veramente, o
non fia, over che 1a fia 4 ftata fatta, o non (la (tata fatta. Ma ch'ella
fia o grande, o piccola, o giuda, o ingiufta, in tutto quello, che di ciò non
fia flato nella legge del Legiflatorcefplicato, et detcrminato, appartiene al
giudice ftclTo, di conofcere,& di difeernerper fc medefimo, et non
d'odirlo, o impararlo da gli Oratori, cheaj»itan la j controucrfia,&
la caufa loro. Si dee dunque (limare cola molto vtilc, Se conucneuolc, che
nelle ben porte, et prudentemente ftaruitc leggi, fi truoui refoluto, decifo,
Se determinato quel più,che fi può delle cofe, Sede i cafi, ch'occorrer
poflbno: li che a coloro,c'han poi da giudicare con le lor fententic, manf
co a determinar ne re(b,che fia poflibilc. Et ciò primieramente, perche più
facil cofa e di trouarc vn folo,o pochi, che molti, li quali fieno di buon
fentimento, Se di buon giuditio, Se che fica atti a formar leggi, Se a
difeerner la ragione, c i giudo. 7 Di poi le formationi, Se le con ftitutioni
delle leggi, con la matura confideratione,& pelato difeorfo di molto tempo
fi pollbno, Se Ci foglion fare: doue che il giudicare, Se fenrentiar de
i giudici, fifa quali di fubito, Se ali 'improuifla. Onde dimcil cofa
è, che coloro, c handa fencentiare, Se da giudicare, poffan per la breuità del
tempo, il giudo, Se l'vtile drittamente co8 gnofeere, Se difpenfare. Ma quel,
ch'importa più di tutte l'altre ragioni, è, ch'il giuditio del Lcgiflatorc nel
formarle fue leggi non riguarda le perfone in particolare,^ quelle, che fon
prc lenti nel tempo fuo ; ma le riguarda come lontane ne' tempi, che
deon venire, Se come in vniuerfale contenute ne gener lo9 ro. Doue ch'i
Configlieri nelle lor confultc, &i giudici nelle lor fententic, comedi
perfone già prefenti, Se ne' lor panico* 0 lari determinate, ne difeorrono,
Se ne dan giuditio: Con lequali afiài fpefib gli fuol congiugnere, Se invìi
certo modo intcrefiàre o amore, o odio, o vtil proprio: in guiia che per
tal cagione non pollo n con dritto, Se libero occhio difeernerc,
Se vedere il vero; ma rende lor l'intelletto offufeato, ci
giuditio ofeurato l'ombra, odcl proprio diletto, o della propria molc1
ftialoro. Fa dibifogno adunque ( com'ho già detto) di lafciar minor parte,
che fia poflìbilc > dell'altre cofe in arbitrio, Se in A ij
poter del giudice, et folu il carico di vedere, et determinare fé
la cola fia,o nó fia,c neceilàrio di lalciare alla cognition de"
giudici:non ellendo pofTibile,che cofi fatte noti tie,& coli fatte
cofe, il il Lcgiflator tanto innanzi antiuegga. Eifèndo adunque quant ho
detto veriffirao, può da quello clfer beniflimo manifefto, che cofe fuor
de meriti della caula toccan nell'arte, che danno 6c trattan coloro, li
quali altre cofe fuor di quelle, che pur hora ho dette, infegnano, et difhnifcono
; umiliando (com a dire) et determinando che cola habbianccellariamcnte da
contenerli nel proemio, o nella narratone, de in ciafeheduna dell'altre parti
dell oratione. perciochc nient'altro in inoltrar cotai cofe fanno, fe non
cercar come polfano formare, rralmutare,& 13 porre qualche qualità nel
giudice. Di quelle cofe poi, ch'alio artifìcio di prouarc, tk far fede
appartengono, cioè donde poffadiucnirl huomo Enihimematico, et bene inftrutto
in argo14 menta re, non infegnan, ne moltran nulla. Et di qui parimente nafee,
che abbracciando, et contenendo quella ftellaarte, 6c via, coli le caufe
concionali» et con luh.u me, come lclirigiofc, et giudiciali, Se ellendo
oltraciòpiu nobile, traile Città più vtile, et neceilàrio il negotio delle
confili re, che quel delle particolari con uent ioni, eh in giudi tio vengono i
di quello nondimeno rutti coloro, che di queft arte trattano, non dicon nulla
; Se del negotio giudiciale dicon molto > et fanno ogni s forzo
di ir -darne l'arte. Et quello non per altro adiuiene, fe non
perche -manco hà luogo, Se men vien à bifogno nelle catife, et ne' maneqgi
coniu] tati ui, overdelibcratitii, il parlar fuor de' meri ri .della
caula, che non auuien ne' giudiciali, ik di manco corrottone cV inganno è
capace il trattar caufe dinanzi aConfiglieri, che nel foro dinanzi a'
Giudici; come che il far quello fia cofa più communc, toccando non Ibi chi
parla, ma chi afcolta an%6 cora. Polciache le cole, che quiui fi dicono fon
daquei,ch'afc coltano odire » ponderate, et giudicate come proprie
loro. Onde nient'altro a chi quiui conliglia con la tentenna fua fa
di melìier di fare, fenon mo Arare, et prouarc che la cofa verame28 te
lia, qual intendcegli di peiluaderla. Ma nelle controuerfie, et caule
giudiciali non balta, ne è lol'vtil quello, potendo haucr luogo et recar
giouamento in ette il cercar di poifedere, &ti29 rar dal fuo gli lìefli
afcoltatori: pofeiache di cole, non lor proprie, Jl Primo libro. prie, ma
ch'ad altri toccano, hanno cglinda far giudirio. La onde ponendo eglin la
loro attentione, et cófideratione à cofa, che non loro fteftì, ma i
litiganti tocca, &c in gratia,& diletto di eflì afcoltandogli ;
più tofto concedono alle lor domande, le (Ielle fententiein dono, che
veramente giudichino. Perlaqual cofa in molti luoghi (com'hò già prima
detto) fi truoua prohibito per leggi l'vlcir punto parlando, fuoi dei meriti
della cau3 1 fa, di cui li tratta. Ma nelle caufe deliberatine gli Aedi
giudici di quelle, per lormedcfimi fenzvuopo d'altra legge, (on ba31
ftantiflimi ad olleruarlo. Hor eflèndo caufagià manifefta, che quefta
ordinata, et (per dir così) methodica arte, di cui ragioniamo, intorno al
prouare, et far fede principalmente còltile ; nó ellendo altro le fedi, 6c
le pruoue,che demoftrationi,ouero argomentationi; pofeiache alhor
principalmente diam fedcVid vna cofa, quando flimiamo, che la fin. con
argomento ben di' inoltrata-, elfendo oltra ciò l'enthimcma non altro,
ch'vna re33 torica demoftrationc, come quello, che (per dir'in vna
parola) di ogni altra pruoua, et fede retorica, è princi paliamo ; ne fc34
gue da quello, ch'eficndo ancoragli fillogifmo, Se appartenendo alla
Dialettica, o ad ellà tutta,o a parte d'elIà,d'ogni fillogif3 j mo trattare, et
confiderare; può elfcr per quello manifclto, che colui, che grandemente
farà habile,& inftrutto a faper ben conofeerdi quai propofitioni, ÒVin
che maniera fi componga, et fabrichi il fillogifmo ; egli ancora grandemente
enthimematico, cioè argomentator retorico, fi potrà (limare: Tea quella notitia
saggi ugnerà parimente il fapcre intorno a qual forte di materie li fo: mino
gli enthimemi, et con quai dirlercntic fien dipinti, et diuerfida i
logicali, Se dialettici lìllogifmi, ^4 3 6 conciofiacofa che il
conofcer'il vero, Se il fimi l'ai vero, da vna 37 medefima forza, Se
potentia, Se virtù dependa, oltra ch'ai vera ftellb, et alla notitia
d'erto, par che gli huomini aliai foffitientemente dalla natura formati, ÓV
inclinati nafeano; Se nel piò delle cofe la verità, fc punto lor fi
difeuopre, riconofeano, Óc aifeguifeano. Onde chiunque farà habilc, o pu
oro inftrutto z coniettu rare, &vcdcr'il vero; quel medefimofarà
fimilmente tale verfodel probabile, et fomigliantcal vero. Già può dunque
per quel, che fi è detto, clfer manjfefto come gli altri, che han trattato
di quell'arte» habbian tocco folo quelle cofe, che fon f c De11a r
R^tprica d ' j4riftotelc^j fon fuora della foftantia, et della cofa fletta
; Se per qual cagìort fi fieno piegati, et inclinati con li ferirti loro
verfo l gencr delle 39 caule giudiciali, più rofto ch'ad altro genere.
Quanto all'vtilità 40 poi, gioueuole, Se ville quefta arte della Retorica;
primieramente perche elTcndo le cofe vere, et le giufte molto più degne, et più
eligibili per lor natura, che le lor contrarie ; non è duhio, che le i
giuditij, et le determinationi delle caufe non fi facetter per il mancar
di queiVartc fecondo che conuenillcr di farli ; non fullc necettario
pericolo, ch'il vero, e 1 giufto non fufler conculcati, et vinti da i lor
cótrari): et ciò veraméte faria 41 degno di biafmo, &di riprenfione. Oltra
di quello appretto di alcuni, fe ben'haueffimo efquifitillima feientia
d'alcuna cofa, non per quello ci faria facile di perfuaderla,& farla
creder 41 loro con vie, Se ragioni da quella feientia prefe. per ciò che
effendo il parlare feientifìco accora modato, Se proportionato a trattare,
Se a infegnar dottrine, importi bil cofa faria con elio il perfuadcr a
quelli: ellendo necettario, che le fedi, Se i parlari, che fi fan loro,
procedano, non per vie lcicn litiche, ma popolari^ comuni ; li come nella
Topica habbiam detto, nel inoltrar 43 come s'habbia con la moltitudin
parlando à procedere. Appretto di quello fà di mefticri d cttcr'habilc à poter
perfuader l'vna cofa contraria, et l'altra ; fi come auuicn anche ne i
dialct44 tici fillogifmi. Se ciò non perche l'vna cofa Se l'altra fia ben
di fare, non douendofi perfuadcr già mai le cofe inique ; ma perche non ci
fia nafeofto come quefto fi foglia, o fi potta fare: Se accioche vfando
altri fuora del gin ito coli fatti parlari contra di noi, potiamo noi
elfer'atti, Se inftrutti adifciorgli, Se a oppor4 $ ci lor'incontra. Et di
tutte l'altre arti, Se facultà, nettuna e, che fia più potente ad
argomentar, Se a concluder con (ìllogifmo 1 vn contrario, Se l'altro; fe
non fole la Dialettica, Se la Retorica: come quelle, ch'ambedue, quanto à loro,
l'vn contrario, 46 Se l'altro vgualmente riguardano, quantunque le Itelle
cofe cotrarie, che come materie, et foggetti s'offerifeon loro, non vgualmente
trattabili, Se fillogizabili in lor natura fieno; ma icmprcle vere, Se le
migliori fien naturalmente nell'ettcr loro, più facilmente, et più
ragioncuolmente fillogizabili, et per la maggior parte maggiormente
perfuafibili, Se habili a trouar fe47 de. A quello s'aggiugne, che le gli è
cofa ali huomo vergognofa, Se Jl Primo libro. 7 fa, et brutta (come
veramente c) il non elTer potere ad aiurarfì, Se difenderà* con le forze
del corpo Aio, contra di chi fé gli oppone j fuor di ragione è, che no gli
debba recar'ancor macchia f Se vergogna il non poterlo far con la lingua,
Se con la fauella ancora: et maggiormente elTendo l'vfo di quella, molto a
lui più proprio, che l'vfo della corporal gagliardia non farà mai. 8
Et fc ben'importantiflìmi nocumenti può recar con queft arte, &c con
quelli facultà di dir, colui, ch'in fauor delle cofe inique ingiuftamente
fe ne fcrue,& la pone invfojquefto pericolo nondimeno è comune, non
folo a tutte le cofe, quantunque vtili, Se buone, fuor ch'alia virtù ; ma
aquellc maflìmamente, che di maggior vtilità,& profitto fono, fi come
fono la gagliar5? dia, la fanità, le ricchezze, le dignità militari ; pofeia
che col mezzo di sì fatte cofe grandifllmi giouamenri potrà recar qualunque
giuitamente, et drittamente fenc fcrui, Se importane un'imi danni per il
contrario, chiunque in fauor dcll'ingiulti» 0 ria, contra di quel, che
conuenga, le ponga in vfo. Può già du» que per quel, che fi e detto, eiler
manifefto, che la retorica non lì truoui obligata, Se riftretta ad alcun
gcnerdi materia limitato, Se determinato, Se che per confeguente in quello venga
ad elTer limile alla Dialettica: Se che la fìa ancor' vtile, Se di1 letteuole.
Se parimente da quel, che fi è detto, lì può dedurre, che l'opera, Se
l'offitio fuo ha, non il perfuadcre, ma il potere, Se faper trottare, Se
vedere intorno à ciafehedun fu ggetto, quelle cofe, ch'effer pongono
accomodare, Se vtili à pcrfuadcrlo: 1 fi come parimente in tutte le altri
arti, et facilità cómunemen3 teaduicne. nercioche l'officio dell'arte della
Medicina (per ef. fempio) non e lintrodurre effettualmente la fanità; ma
il faper tanto oltra à punto curando, Se medicando procedere ;
quanto conuicne, et ricerca 1 in firmità, Se la ragion dell'arre. potendo molto
bcn'allc volte accadere, che alcun non polla di qualche fua infirmi cà
venir mai fano, ò tornar mai libero: il qual nondimeno beniflimo fecondo che
richiede 1 arre, curare, et medi4 car fi polla. Oltra le dette cofepuò ancor da
quel, che li è detto dedurli per manifefto,che non lolo fia offitio di
quefta arte della retorica il faper veder le cofe veramente pcrfuaiìuc, cioè
atte a perfuadcre j ma alla medelìma appartenga di conoicerc,Sedi confidcrarc
ancora quelle, che le non veramente pcrfuafiue, al men fono apparentemente
tali: fi come parimente alla dialett ica fi ricerca d hauer noti tia, non folo
del vero fillogilmo>ma a nj j cor dell'apparente. Pcrciochcil Sofifta, non
nell'arte, Se nella habilità confide di fapcrconofcere,& vfareil fa
ilo, ma più tolto 56 ncll elettione»& nel volere viario, di maniera
che in quello diff I-i iicc dalla dialettica la re tori cacche in quelli coli
colui che dea la notitia, Se 1 arredi faper vfa re apparenti > Se non.
legittime argomentationi, Se non le vuole vi. ne, fi domanda retore,
come ancor qucll altro, ch'elegge, Se tien propofitodi volerlo
fare, doue che nella dialettica per il contrario s hanno diuifo i nomi: pofeiache
colui, ch'elegge di far quello, non dialettico, ma foriila fi domanda; Se
dialettico dall'altra parte fi chiama quello, eh e 57 ha folo la facilità,
la cognitione, c i poter di farlo»: Ma a quella arte, di cui parliamo,
venendo hormai,procuriamo,cV: facciam forza di dimoftrare in qual maniera,
Se con l'aiuto di quai cole, fiam per poter confeguire, Se efeguire in
elfa il fine, Se l'offitio fuo,che lon le cofe,c habbiam propofte. Sarà
ben fatto adùque, che quafi nuouo principio facendo, aflegnata prima
ladiffinition di quell'arce, Se cfplicato, che cofa ella fia,quindi à dichiarar
l'altre cofe, che feguiranno, di mano in man crapafllamo. (apo 2. Della
diffnition della r Rgtorica 3 de i modi di prouare, dell' Gnthirnema,
deWef /empio j de i Veri/imi li, de tftgrìu et di 'varie Jpecie di Jègni,
et d'Snthimemi. Oni am dunque per hora efier la Retorica vna facultà, mediante
laquale fi pofià intorno a qual fi voglia foggetto, che fe le proponga,
trouarc, Se veder tutto quello, ch'occorrer polla accom «iodato, Se vtile
àperfuaderlo, come che il far quello di nefluna altra arre fia ofntio, Se
opera, che di quella fola. 1 impercioche ciafeheduna dell'altre facilità d
intorno à determinato foggetto, Se materia appropriata ad ellà, và
infegnando,3c facendo le pruoue, Se le fedi fue. come fi ( per elfcmpio )
l'arte della medicina intorno alla l'ani ti, de ali infermi tà de i corpi
; Se la GeoJl Primo libro. ^ la Geometria intorno a i propri j
accideti della quantità, ©Gl'Aritmetica intorno a i numeri, et il fìmil
difeorrendo per l'altre arti,& feientie tutte.Mala retorica, qual fi
voglia (ftò per dire) mareria,& foggctto,che le fiapropofto innanzi,
paiec'habbia a poteri nueftigai e, Se conofeer ciò che polla pervaderlo,
Se far ne fede. Se per quello è Irato da noi decto non hauere ella la forza,
Se l'artefitto Tuo d intorno ad alcun proprio gener limitato, Se
detcrminato. Hor quanto alle perfualìoni, Se alla fede, alcune d'elle fon
priued'artifirio, Se altre artifitiofe fono. Spogliate d'artificio intendo
io elfer tutttc quelle, chenó pernoftra opera, Se difeorfo ritrouiamo, Se ci
procacciamo ; ma comcche'n elfer già prima fieno difuora ci fon porte
innanzi: come fono (per ellcmpio) i teftimoni, le torture, le fcritturc,
Se fimili. Artifitiofe poi intendo io eller tutte quelle, le quali con arte, et
con ragione, ftà in poter noftro d' inueftigare,& di procacciare. Onde
l'vne fa di mcftieri,>non che le immaginiamo di nuouo, Se crolliamo, ma che
trouate, Se porteci innanzi, le lappiamo vfare; Se l'altre, cioè l'arti ficiofe
han di bifogno d'cflcr da noi cercare, Se formate. Hor di quefte arti
ficiofe perfualìoni, et fedi, che con arte, Se con via di ragione fi truouano,
Se lì gua0 dagnano, tre forti, onero fpetie fi truouano. alcune fono,
che cófifton nelcoftume, Se credito di colui, che parla: alcune
altre fon porte in difporre, muouerc, Se arfettionarc in vn certo modo
colui, chalcolta: Se altre finalmente fono,chc ncll'oratione, et nel parlare
ftellb confiftono ; mentre che con la forza di quelle, fi pruoua, ex fi
mortra l'intéto ; ò almen fi fa apparire, 1 che fi moftri. Per cagion del
coftume adunque la perfuafionc, et la fede, che da elfo depende, allhor shà da
ftimar, ch'ella accafehi, quando in maniera farà formata, Se detta
l'oratione, ch'ella fia habileàfar'apparir il dicitor degno di fede, cVa
dar 1 1 credito alle fue parole, concio fia cofa che alle persone tenute da noi
virtuose, Se da bene, maggiormente, et più agcuolmente fogliamo credere,
Se preftar fede, et quefto generalmente in tutte le cofe: ma
principalmcte,& fenza alcun dubbio in quelle, nelle quali nò appare in lor
natura cofi efatto, òvinanifertoil vero j Se per confeguente nell'vna, Se
nell'altra parte polfon ge13 nerar opinion di loro. Et cosi fatto coftume, et buona
opinione, che s'habbia di buone qualità dell oratore, fa dj merticri, B
ch'accai o ch'accafchi, Se nafca Colo dalla forza della ftefla
oratione; Se Scnon perche giàs'habbia prima quefta fama, et quefta opi4
niondilui. perciò che fi come fi vede in alcuni,ch'hanno ; ci irto di
quell'arte, non hanno in ella porto la buona opinion, che a' riabbia da
guadagnar con erta colui, che parla squali che coli fatta opinione, Se
cortame poco importi alla pcrluafione, ma nel vero quali p ri nei pallili
mo, Se propriiiTimo luogo ricnil ir coftume in acquiftar'alle parole fede.
Dalla parte poi de gli afcoltatori la perfuafione, Se la fede, che per cagion
d'erti ha da nafeere, alhora s'hà da inrender che l adiuenga, quando
dalla forza dcli'oratione, a qualche paflìone et affetto d'animo
fon itf morti,& tirati, conciofiacofa che, non nella medefima
gitila logliam noi giudicare, fentcn tiare, o fiumare le fteffe cofe, quado
lipieni di moleftia, et quando lieti fiamo,ouer quando a17 inumo, et quando
odiamo. Et in quefta fola maniera di pervadere hauiam detto difopra haucr
folamente me ilo ftudio,& tentato di trattar coloro, che fin hoggidì
di quell'arre hanno Tcricto • Ma di tutte quelle cofe, che quefta maniera
di pcrrfuafion riguardano rratraremo, Se daremo didimamente cniarezza, quando
delle paftioni dell anima ragioneremo. Per cagion della ftefìa oration
finalmente, Se delle fteftc ragioni, alhora li trouerà, et s'acquifteià
fede» quando in ciafehedun fo^getto, che ci verrà dinanzi, da tutte quelle
cofe, che poflon eller perfuafiue d'elio, o il vero ftcflb, o l'apparente vero
concluderete mo,& dimonftreremo. Venendo adunque Tartificiofa perfuafione,
Se la fede da quefte tre cagioni, c'hauiam dette, manifefta cofa e, che fa di
melh'eri, di iapere, Se di polfedcr quefte tre cofe, cioè habilità, Se
notitia di lyllogizare, cognitione intorno ai coftumi, et alle virtù
dell'Intorno, et nel terzo luogo finalmente noritia intorno a gli affetti
humani, conofeendo che cofi fia ciafehedun d'erti, Se qual proprietà egli
habbia, Se dolo de fi cititi, Se fi produca, Se in qual maniera. Per la qual
colà par, che fi porta dire, che la retorica fia quafi vn germoglio tniteme
della Dialettica, et di quella faculrà,chc dei coftumi trat ta,la quale
non fenza ragione fi può politica, ouer ciuildomanX 1 dare. Onde auuiene, che
la retorica, Se con ella quelli, che prefumon di poffcdcrla, foglion per quefto
vfurpare in vn certo modo, Se veftir l'habito d'eflà /acuità ciuile ;
parte per imperitu, Se Jl Primo libro. 1 / tia, Se per ignorantia,
parte per arroganza, Se parte per altre 11 caufe> che poflbn
far'errarcrhuomo. cliendo nódimen la retorica vna particella della dialettica,
Se (come fu dal principio det15 to) quauvn ritratto fimilc, Se fipruoui, ouer
fi faccia apparentia di dimoftrare, Se prouare, l'vna è, fi com'ancor nella
Dialettica, l'induttione, Se l'altra il fillogifmo: chiamando io
l'enthimema, t$ retorico fillogifmo, Se retorica induttione, l'cflèmpio.
Se tutti color, che vogliono prouando, Se dimoftrando far fede, ocffempi
adducono, o Enthimemi,& fuordi queftedue, altra colf» fa, ai cui in ciò
fiferuin, non hanno. La ondeeflendo generalmente vero, che volendo chi fi fia
in qual fi voglia modo, qual fi voglia cofà prouare, è neceflàrio, che
vfàndo o fillogifmo, o induttion lo faccia, come appar manifeflo per
quello, che detto hauiamo ne i libri refolutorij, fa per quella ragion di
meftieri, che quelle due cofe, ciocl Enthimcma, &i*ciIèmpio,à queft'altredue,
cioè al fillogifmo, Se all'induttionc, rifpondino in modo, che l'vna, con
l'vna, Se l'altra con l'altra, fìcn quafi vna 17 ftefla cofa. Qual fia poi
la dirTcrcnria tra l'eUèmpio, Se l'enthimema, facilmente per quel, che fi c
dichiarato nella Topica, può cfTer chiaro: eifcndofi quiui del fillogifmo,
Se dell indut18 rione a pien ragionato, douefù detto, che quando in più
cofe irà di lor fimili fi moftra trouarfi il medefimo di quello,
che prouar intendiamo j allhor il far quefto fi dee quiui, cioè
nella dialettica, ftimar'induttione, Se ani, cioè nella retorica, ellèra15
pio. Et dell'altra parte, quando fuppofto in eficr alcune cole» fi moftra,
che qualch'altra cofa diuerfa da quelle col mezzo loro, o comunemente, o per il
più per lor cagione adiuenga, Se confegua ; alhora vncoli fatto progreflo,
nella dialetti cachiamar U dee fillogifmo, Se in quell'arte del dire,
enthimcma. Ed è cofa manifefta che l'vno, et l'altro di qnefti comodi, Se
di quelli aiati ; cioè l'vna, et l'altra maniera d'argomentare, riabbia in
vn certo modo vna Aia propria fpetic di retorica: pofeiache fi come e detto ne
i libri, doue con ragione, ordine, et via fi e trattato di quefto, così in
quelli al prelente affermiamo au1 uenir' il medelimo: trouandofi tra le maniere
de i parlari oiatorij, alcune eflcmplificatiue, come che delfcmpi per la maggior
parte abbondino; Se altre enthimematiche, come che per il 1 più d
enthimemi iìen piene. Se quanto alla perfuafibilicà non manco fon habili a
far fede quelle orationi, che eircmplificatiue fono ; ma ben fon più impetuofe,
Se con maggior vehemetia commuouono renthimematiche. Ma qual di tutto
quefto fia la cagione, Se in qual maniera l'vnc, Se l'altre s'habbian
da trattare, Se vfare, più oltra al proprio fuo luogo dichiareremo. 3
et al prefente della natura, Se delVcfler loro alquanto più al villo
penetrando, diftintamente ragioneremo, et determinere4 mo. Dico adunque che
elfendo necelìario, che la cofa perfuafic bile, ad alcuno habbia da eifer
nerfuafibilc,& frollandoli qualche perfuafibilc, che per fc ftcno fubito,
che gli è odiro,cosi fat to appare, Se altro, che ha bifogno per apparir
tale, d cllcrdi6 dotto da altri per loro ftclTì perfualibili, Se olerà ciò non
trouandofi alcuna arte, che tratti, Se habbia in confidcration
gli diuidui, e i particolari, o fingolari, che gli vogliam chiamare: non
confiderando l'arte (per eflempio) della medicina, che cofa polla render fano
Socrate, o Calfia ; ma quello, ch'a vn tale, oa vn tale, cosi, o così
difpofto polla fanità recare: pofeiache che'n far quefto può hauer luogo
l'arte,douc che per eller'i fingolari infiniti, cader non pollon fott'arte, o
feientia alcuna, 7 ne feguc da tutto quefto, che la retorica parimente non
habbia da riguardare, o in cófideratione hauere quei perfuafibili,
che aquefta, o a quella perfona (ingoiare, com a dir a
Socrate,oad Hippia, polTàn parer tali: ma fedamente quelli, che a quella,
o a quella forte di perfone cosi, o così difpofte, Se nel tale, o
nel 8 tal modo qualificate, poftàn recar fede, Se perfuafione ;
come parimente auuicn nella dialetica. percioche ancor ella non accoglie
ne i fuoi lìllogifmi tutto quello, che lenza lecita alcuna polla parer
probabilea chi fi voglia: pofeiache a gliftolti, Se 5 forfenaati pollon
anche molte cofe parer probabili. ma da quelle Jl Primo libro. 3l
rj 3 nelle cofe guida ella i Tuoi argomenti, che da forza d'arte,
Se a ragion dependono, doue che la retorica da quelle, guida,
Se diducei Tuoi, le quali giafon'vfate cader fotto configlio h umano,
percioche 1 vfo Tuo Uà porto fpctialmente dattorno a quelle cofe, nelle
quali vfiamo l'clcttione, el configlio noftro, et di cui arte alcuna
detetminata non hauiamo: Se appretto d'vna certa forte d afcoltatori fi
esercita, Se fi pone in vio, liquali no fon' habili, ò in (brutti a poter
pervia di molte cofe, Se di lunghi difeorfi, Se ragioni comprendere, et capir
le cofe, che ficn 40 lor porte innanzi, ne a difcorrerle molto eia
lontano. Et è polla l clettione, e l configlio noftro intorno a quelle cofe,
ch'a 41 noi paia, che poltan auuenire, Se non auuenire.
pofeiachedi quelle, che fon'impoffibili oa farfi, oad eflerc, oad
accalcar* altrimenti di quel, che fieno, ninno farà già mai, che (e per tali
le Itima, Se le giudica, s'aftatighi in configliarfcne: non potendofenc
determinar niente più con configlio,ch'a quella fteffa parte, Se in quello
fteflb modo, chcneceflàriamentc adiuen41 gono. Hor'egli accade nel fillogizarc,
Se concluder che fi fan le cofe, ch'alle volte fi fillogizino, Se Ci
diducano da altre propo fitioni già fillogizate, Se conclufe prima, Se
alle volte da propofitioni non prouate, ne fillogizate, et nondimeno per non ef43
fer in loro ftelfe probabili, bifognufe di fiUogifmo. Diquefti due modi di
procedere è neceflario in quell'arte, ch'il primo no polla per cagion
della fua lunghezza eflcr da chi afcolta ben'intefo, Se feguito con
l'apprenfionc j fupponendo noi gli afcoltatori non periti, Se più torto di
femplice, che d acuto intelletto. 44 Et l'altro modo c forza, che poca
perfuafion porti fcco,non nafeendo da propofitioni già co n celle, Se prouate,
ne parimente 45 probabili per fe medefime. Per la qual cofa fa di
meitieri, che coli l'cnthimema, come TelTempio contenga propofitionc
per il più contingenti, Se tali in fomma,che pollàn' ancor
vcrificarfi dall'altra parte, Se cflcr'altrimenti di quel, che fono. conuenendo
l'elfempio con l'induttionc, Se col fillogifmo l'enthime46 ma. ilqual di poche
propofitioni fi contenta, Se fpefie volte di manco, Se di più raccolte,
che nell'intiero fuo fillogifmo non 47 conterrebbe. Imperciò che fe a
forte alcuna d'effe fi truoua efler a chi fi parla nota, non fa di bi fogno,
che vi s'efprima, potendo colui, eh' afcolta fupplirla nel concetto, Se
nell'animo fuo, Se aggiu/ 4Velia r R(torica d* Jrìflotelc^ 4S
&aggiugnerla per fc medefimo. come (per eflempio) fcvolef-» fimo
prouar, ch'il tale di narion Dorico ila flato quello, chabbia in publico, et folenne
giuoco, et contefa, confeguico vittoria, a cui fi debba premio di corona, potrà
ballar il dire, che fìa flato vittoriofo nella pugna Olimpica: ne fa
dibifogno aggiugnerui, che alla vittoria Olimpica iia douuto premio m
coio 4P na, cflèndo ciò noto a tutti. Hor perche tra le propofirionijdelle
quali fi compongono, et fi formano i retorici fillo^ifmi, poche fc ne truouan
necellàric, come ch'il più delie cofe, intorno alle quali confiftono i
giuditij, et le confiderationi, et confiate humane fien tali, che variar
potfono l'eircr loro, et altrimenti eflex di quel, che fono: pofeiache di
quelle cofe accade a gli huomini giudicare, difeorrere, Se configliarfi,
nelle quali confifton le lor'attioni,nè d'altra forte fon lelor attioni, che
di auella,c'hauiameià detto; nefluna (per modo di dire) cllcndo jo d
elle, c'habbia (eco neceflltà: ne fegue da tutto quello, che non potendo
quelle cofe, che per il più, et non nccellàriamentc adiuengono, Se che
contingenti fono, fyllogizarlì,& concluderli, fe non per il mezzo di
propofitioni limili a loro j ne ancor le propofitioni necelTarie, fc non per il
mezzo d'altre parimente necefiàri e, come può chiaramente apparir per quel,
che 51 fi è detto nei libri refolutori; ; può da tutto quello eflèrmanifeflo,
che le cofe, donde s'han da formar gli enthimemi, alcune fon, checontengon
necefiìtà, ma molte più fon quelle, che fo51 lamente per il più fon vere, Se
perla maggior parte. Etperche gli enthimemi s'han da comporre di quelle
due cofe, cioè di fegni, et di verifimili, ne fegue che formandoli eglino (cora
llo detto) di cofe necellàric, Se molto più di contingenti, fia di meftieri,
che quelle due cofe, cioè i verifimili, e i fegni, a quell'altre due, cioè alle
contingenti, Se alle neccllìrie rifpondanoin guifa, che l'vna di quelle
contenga co fa, che fiavna della con Fvna dell'altre, Se l'alrta parimente
fia vna ftellà con l'altra, Se 5$ cofi è veramente, pcrciochc vetifimile è
quello, eh il più delle ohe fuorauuenirc. ma non già vniuerfalmenre è
vcro,ch'ogni cofa tale, fi poflà chiamar verifimilc, come lo diflìnifeono
al54 cuni: ma fcgli ricerca ancor d'eifer' in quelle cofe fole, le quali
efiendo contingenti, polTon variar l'eiler loro, et altrimenti accalcare,
de elTcr di quel, che fono, Se hà di più, da riguardare la cofa di cui gli
e verifimile, come l'vniuerfale, cioè vna cofa* che lì truoua in più,
riguarda il particolare, et vna cola, che fi ff truoua in meno. Quanto a i
(egni poi,vna forte ve nc,chequel rirpetto, et riguardo tiene alla cola,
di cui fon legni, che tien' vna cofa indiuidua, oucr (ingoiare,
all'vniuerlale. Vn altra forte ve n e poi, che per il contrario riguarda la
cofa di cui gli e legno, come l'vniuerfale il particolare, o vogliam dire come
la co (à,chcintieramcnte,& communementeaccafca, riguardaquelj 6 la,
ch'adiuiene in parte. et de i fegni pure vna fpetic fi truoua, che
portando fecondo neceflìtà, fi domanda Temmirio,o certo 57 inditio, che lo
vogliam chiamare. et vn'altra ve n'è poi, laqual non porta fcco neceflìtà,
Se proprio nome, che dall'altre fpetic di fegni la diiliagoa* non tiene,
ritenendo il commun nome di j8 SEGNO. E per cole, che portin feco
neceflìtà intendo io quelle, f»cr virtù delle quali il sillogismo, che se
ne forma diuiene (labie, 6c fermo, 6c per quefto e domandato Tcmmirio vn coli
latto feeno. concioliacofa che quando (limiamo, che la cofa, che noi
diciamo, et prouiamo, non fi pofla difeiogliere, o mandar* a terra,
allhora ci penfiamod'hauer formato il Temm;rio,quafi che ben fondato, Se
ben terminato, Se fermato lia 1 argomento 60 nolìro. pofeiache teemar,
donde vien teemirio, vna cofa (leflà con peras, cioè con termine, et fine,
lignifica nella greca lingua 6 1 antica. Tra i SEGNI, adunque, quello, eh
alla cofa, di cui gli e fegno, ha quel rifpetto, che ha vn particolare,
ouer (ingoiare al fuo vniucr(ale,può eflèr (per eflempio) in quelli guiia,
come fariafe alcun volendo prouar, che gl huomini faggi fien giudi, aflegnalfe
per fegno di quello, che Socrate era li uomo (aggio 61 infiemcmente,&
giullo. cosi fatto allègnamento adunque fi può domandar fegno, madcbol
molto, Se facilmente folubile, quantunque fufle vera la cofa, che fi
pighafle per fegno, come 6 } che mala forma contenga di filloeifmo. ma fc
alcun (per eflempio) allègn a (Te per fegno dell'eder infermo, 1 haucr febbre,
o per fegno ch'alcuna hauefle partorito, 1 hauer ella latte,
cofi fatti aflìgnamenti portanan fcco ncccflìtà.& fol quefìo tra l'altre
fpetic di fegni, fi può domandar temmirio, come quello, che (egli è vera
la cofa, ch'ei reca per fegno, fi dee (limar in(b6jf tubile, ficimpoflìbilca
mandarli a terra, quella fpcric di fegno poi, laqual riguarda la cofa, di
cui l'è fegno, come rvniuerfal riguarda / izarc, o far cnthimema
non fi può dattorno alle naturali. Se il nmil fi 7 8 può difeorrendo per
tutte l'altre materie affermare. Et di queflc due forti d'enthimemi,
quelli, che pur' hof habbiara detti,, cioè li retorici, e idialctici, non
pofion far parer l huom perito più in vn generdi cofè,ch'in vn altro, ne
tirarlo detroa i confiC ni d'alcnna facilità particolare, non guardando eflì,
coméco* JS> -ranni che fono, foggetto, o maceria limitata alcuna. Ma in
quelli di queft altra ione, cioè ch'appropriati ad altra facilità
fi truouano, quanto migliore, et più diligente lecita faremo
delle propofiaoni, tanto più verremo in vn certo modo ad accodarci a i
termini, et a i confini d'altra (cicncia, dincria dalla dialettica, et dalla
retorica, pcrcioche leai principij diquella accafcarftidurfi, apparirà
chiaramente che ne alla dialettica, ne alla retorica a p parremmo ; ma a
quell'arte, o feientia di cui faran80 quei principi). Son la maggior parte
degli enthimemi diquelJc forme, Se propolìtiom formati, le quali fono 1 penali,
Se proprie di qualch arte, ofrientia particolare: Se per il contrario
in aliai minor numero fon quelli, che da communi proporzioni, Si Se a
nell'una facultà appropriate dependono. Per laqual cola farà ben fatto, che lì
come fatto fi e nei libri Topici, coli parimente in quelli, andiam dilu'ngucndo
tràdiloro le forme deli luoghi degli enthimemi, donde cflì s'han da
trarre, et da prenci dere. Se per forme intendo io propoluioni a quello, o a
quel determinato genere appropriare. Se per luoghi intendo io
poi quelli, ch'ad ogni genere, Se ad ogni materia, communi vgual8j mente
fi truouano. Primieramente adunque diremo delle forme: ma prima che ciò
facciamo, è bene, chevcggiamo,óc conofeiamo i generi di quelYarte della
retorica, acciò checonofeiu to, Se diftinto c haremo quanti chefieno,
potiam poi allegnarc, et moftrarc in cialccduno d elìì appartatamente, quali
fieno i lor propri; elementi, Se lclor proprie forme, Se
propolitionù C a P° 3* Qjtanti fieno li Cj eneri delle caufe
o~ ratorie $ quale fi a etafehedun d'efìitf de i propri} fini, £f dei
propri] tempi loro. R e fono in numero i Generi, o vogliam dir le fpetie
della Rcttorica, pofeiache d allietante forti, Se maniere ancora fono gli
afcoltatori del I orarioni, c ha ella da fabricare, conciolìacola che da
tre cofe dependa, oucr tre cole riguardi Toratione, cioè colutene
parla,la cola,di cui fi parla,& colui,acui fi
parla, &acoftui Jl Primo libro. r 9 &• a coftui oltra di
quefto, cioè ali afcol tato re, (là totalmente in3 drizzato il fine, et l'intention
della fteila oradonc. Se è forza, che colui, c ha dafcoltare, o fia puro
intenditore, Se afcolratore, ouer'oltraciò habbia fopra lccofe,ch'afcolta da
fententiare, et da giudicare, Se douendo clfcr tale, fa di bifogno ch'il giuditio,
eh egli ha da dare, fia d intorno, o a cofe, che fieno fiate, o 4 a cofe,
che habbiano ad ellère Coloro che delle cofe future han da giudicare, Se
da determinare, fon com a dir,quelli,che s'adu mino in confulte publiche.
coloro ch'intorno alle patiate han da dargiudicio, fon com a dir, quelli
che propriamente giudici nominiamo. Se color finalmente, che folo prendon gufto
di confiderare la forza, Se l'arte, c habbia nel dire colui, che par5 la,
puri afcoltatorì, cVconiìderaton chiamar fipoiTono. Onde fa
neceilàriamente di metti cri, che tee fieno i generi dell'orarioni retoriche,
ouer oratorie, il coni ul tati uo, il giudiciale, eldi6 moftratiuo. Il
confultatiuo parte confile in efortarc, Se parte in diltogliere, ovogliara
dire parte in fuadere, Se parte in diffuadcrc, peròche tutti coloro, che, o di
cofe priuate dan con figlio, o in publiche concioni a commun beneficio dicono
il pa7 rer loro ; tempre o 1 vna, o l'altra delle dette cofe fanno. Il giudicai
parimente due parti ancor' egli abbraccia, cioè l'accuiationc, Se la
difcnlione: pofeiache l'vna di quelle cofe è forza, che facciali fempre
coloro, chelitigiofc controuerfie, et forenfi 8 caufe trattano, il
dimoftratiuo gcner finalmente ancor egli in 9 due partì e diuifo, che fono
il lodare, e'I vituperare. Ciafcheduno medefimamente di quelli generi
attribuire a (c,Se quali s vio furpa vna fina propria differentia di tempo,
pcrcioche a colui, che con ligi ia pare, che s'accommodi il tempo futuro ;
(olendo delle cofe, che Sconvenire configliar coli quello, ch'eforta,
Se 1 1 ("uade, come quello, che diftoglie, Se chedifliiadc. A colui
poi, che nel giudicial genere ha da parlare, par ch'appartenga,& s'adatti
il tempo già pallato: po:uache lecofegiàfattte riguarda1 1 no Tempre coloro,ch
accufano,o che difendono. Al gcner finalmente dimoitratiuo,appropriatifilrao
più di tutti gli altri tempie il prefente, come che per il più coloro, che
lodano, o biafmano habbian dinanzi per oggetto quelle cofe, che di
prelcnrc 1 3 fi truouano nella cola lodata, o vituperata, quantunque
fpeflè volte accalchi, che li tocchili le cofe pallate, mentre eh a
memoria fi riducono, et le future ancora, in far prefagio, 8c con»4 icmira
d'elfo. Parimente a ciafeun de i detti generi vienadeffer appropriato diuerfo,
et diftinto fine ; et eflèndo elfi tre, tre 15 conlcgucntcmene fon'ancor i
lor fini. Colui, chcconfiglia ha per fine l'vtilc, e'1 danno:
conciofiacofa che chi fuade riguardi Tempre come cofa vtilc la cofa,
ch'egli fuade, de chi la dilluade 16 per il contrario come cola dannolà
ladiHuada. et tutte 1 altre cofe^che in configliar s adduce no, com'a dir'
il ginftos Tingi ufto, l'honefto, el biafmeuole, fon prefe, et confiderete,
come ch/alle dette due cole, cioè al danno, et all'vtile fi riferivano. 17
Color poi, li eguali litigando ingiuditio contendono, han per lor fine il
gfufto,& l ijigi ulto: et tutte 1 altre cofe, di cui acca18 fchi loro di
feruirfi, a quelle indiizzano, 6V referifeono. A color fi nal mente, che nel
gencr ctiuioftratiuo lodano, o biafmano, lìà ptopofto per fine l'honcfto, el
bruito, ouer dishonefto: et a quelle due cole, qual li voglia altra cola,
ch'occorra loro di r toccare, o di riguardare, tien rifpetto, et riferimento.
Et ch'a ciafehedun de 1 detti generi lia appropriato, et accomodato
il fuo già detto fine, a quefto, com a chiaro legno fi può conofeerc, che
di tutte 1 altre cofe fuor che de i detti fini, accade alle voi 10 tedi
non contendere, Se non contrariare, co m a dir (percfiempio) che colui, che
dice in giuditio la caufa ina, non opponine contenderà alle volte di non
haucr coiti m elio il fatto imputatogli dali'auuerfario, et di non hauer
nociuto,o recato danno, ma d hauer egli ingiuraro, o ratto mgiuftamente,
non confetterà egli mai: pofeiache fe quello con f diàrie harebbe fine la
controri ucrfia, et diuenebbe contra di lui chiara la caufa. Medefimamente
quelli, che danno con la lor'orarion configlio, l'altre cofe Ipellc volte
lalcieran palliar per vere, nè s'opporrano, o cc>t [adiranno, ma che
dannofefien le cofe, che con figliando fuadono, o che vtili, et profitteuoh
ficn quelle, che dilluadono, non confeiTcranno,nè concederan già mai: ma
fe come cofa ingiunca shabbi a {limare il cercar di ìoggiogarc, Se ridurre in
feruitio i popoli vicini, dai quali non lì iìa ncenuto ingiuria, di zi
quefto, o d'altre fimil cofe fpeile volte non terran cura. Pariméte coloro, che
con la lor orationc lodano, o biafmano, non tengon conto,nc hanno in
confideratione fe colui, di cui ragionano» habbia con le Aie attioni
procacciato a fe vtilc, o danno: ari* ziipcllè Jl Tr imo libro. 2t foclTc
volte attribuifcono altrui a lode l'hauerpofooilo fall proprio, et tenuto
in poco conto cofa, che gli hauene potuto •,
rcJr^rilità.pcrfarqualch'opcrationehonefta. come (perei, fero Pio) lodano
Achille, che quantunque molto ben i lapelìc, che vendicando la morte
deliamico fuo Patroclo, fuffe perfoprauanzar poco in vita, non-s attenne per
quello di farlo: eiFendo nondimeno in fua potcftà di poter viuer più
lungamente non lo facendo, ne è dubio, chad elio il morir per li
honorata caeione, non fuilècofa fecondo l'honeftoj&i viuer
farebbe 14 ftato fecondo 1 vtilc. Può dunque per le cofe, che fi fondette, apparir
manifclto dfcr cofa necclfaria l hauere, ci poileder primieramente propofitioni
accommodate a i tre generi, et a i lor zc trenni,chedemhauiamo:ncaltro
fono le retoriche propolitioni, che temili), vcrifimili.&fcgni. Le quali
propofitioni fa di meftieri (com ho detto) d. procacciare: peròche
componendoli vnuicrfalmente ogni fillogifmo di propofitiom.l enthtmcma,
confegucntemcntceiTendo ancor egli lillogifmo, farà copofto
dipropofitioni,lequali han da elTer quelle, che pur ho16 iahauiam dette. Et
perche fatte efTcr mai, ouero habiU a farfi non polion cflTer quelle cofe,
ch'impoflibili al tutto fono, ma folamcnte può atuienir quefto delle
polTibilt: ne parimente può elTer'in alcun modo, che fieno ftatc fatte
quelle cofe, che non fono ftatc mai, o c'habbian da farfi quelle, che mai
non faranno, fa per quella cagion di meftieri, che colui, che congna, et quel,
che>n giudicio parla, Se quel finalmentcch il gencr dimoftratiuo clfcrcita
> habbian tutti,& pollcpino propofitioni, che riguardino il poftìbile,
et Timpofiibile ; 1 edere faro,, ci non efTere ftato > Se 1 haucr ad
elfere, e 1 non hauer ad eflcre. 17 Appreiro di queftovperche tutti
coloro,i i quali o lodano,o biatmano, o fuadono, o difluadono, o accufano,o
difendono ; nonfolo tentano, et fan forza di prouare, Se moftrar le cofe già
da noi dette di fopra,ma tcntanancor oltra ciò di prouare,& moftrar,
che grande, o piccola fia la cofa, che moftrar vogliono, com adir l'vtile,
o 1 danno, 1 honcfto,o 1 btafimeuolc, il g.ufto, oWneiufto,& quefto
cercan di fare, non folo confidiate per loro ftclfe le cofeairolutamcntc,
ma ancor ponendole in comX S paranon l'vna dcll'altra,nc fegue per manifefto da
tu tto quefto, che faccia di bifogno haucr procacciate ptopofitioni della
grandezza, et della piccolezza, et della maggiore, et minor grandezza: et ciò
nonfolo con fiderà te tai quantità in vniucriale, cioè in fé iteife, et non
applicate a materia alcuna, ma ancorap* plicate aciafcheduna delle qualità
già dette di fopra: com a dir qualità maggior', o minoratile, et bene,
qual fia maggiore, o minor ingiù ria, qual cofa con maggiore, o con minor
ragioa$ ne, Se giù fiuti a fatta, c'1 iìmil difcorrendo nell'altre cofcDi
quai cofe faccia adunque di ne ce flit à meftieri di procacciare, et ha30
ucrpropofirioni, hauiam fin qui detto abailanza. et hauendo fatto quello,
faràben'hora,che ciòfepararamente in ciafehedun 31 de i detti generi fi
diftingua, et sallegni: com'a dir alìegnando prima quai cofe habbian da
contenerfi nelle confultatìoni, Se quindi quali nell orationi
dimonltratiue j& finalmente nel terzo luogo quali in quelle de i
giuditij, Se del gener giudiciale. Quai cofe principalmente cadano fitto
la deliberazione^;, et conjidtatione dell 'huomo: ^ di quat cofi fi figlia per
il pm trattare ne i pub liei gouerni, et configli communi delle Citta.
Ri mi e r amente adunque dobbiam vedere intorno a qual forte di beni, o di mali
cerchili coloro, che confultano, di prendere, Se di dar conlìglio.
conciofiacofa che non in tutte le cole, che fon buone, o ree polla 1 human
configlio hauer luogo* ma fola mente in torno a quelle, che fondabili
inlorna» tura a poter eflèr, © non clfcre, ouer'a poter farli, o non
farfi. quell'altre cofe poi, le quali di ncceiìità fono, o faranno,
oucr* impoflìbil cofa è, che le fieno, o c habbian' adelfcr mai,
così fatte cole fotto configlio cader non polTono. Ma ne anche
cader vi pollbn tutte quelle, eh clfendo di natura contingenti, elFer* et non
clFer polFono: polciache tra coli fatti contingenti beni, alcuni dalla
natura, et alcunidalla fortuna vengono: intorno a i quali, quantunque
polFan'auuenire, Se non auuenire, vana nondimeno, Cv fenza bifogno, o
giouamento alcuno farebbe ogni Jl Primo libro. £ 2 3 3 ogni
confultationc. faràmanifcrto per quello adunque, chele cole, nelle quali
polla haucr luogo il conlìglio,faran iurte quelle, che fon'inlor natura, acre a
depender dal volere, et dal poter nolrro,& di cui la caufa, c i principio
di farli, o non farli, ila 4 porto in noi lleili, et nel nortro arbitrio.
Et che ciò fia il vero, noi vediamo, che nei prender conlìglio d'alcuna
cola, tinto oltra a punto andiam con la confiderationc, et col dilcorlo
prò' cedendo, fin che trouiamo, Se conosciamo fcanoi Ila polli bij le,
ouer'impotiibile il farla. Hor l'a (legnar' efquilìramentc, &c porre
in numero tutte particolarmente Iccofe, dellequali Cogliam configliarci, et formar
le noltreopcrationi, et il diuiderle didimamente nelle (licci e loro, et di
quelle fecondo Tefatta veritàloro, quanto poiiìbil da trattare, et determinare,
nónppanien di far'in quello prefente luogo: non attenendo il far quello
alla prefente arte della retorica ? ma a facultà più nobile, &acui
s'appartenga piùalviuo in ciò riguardare, et ponC d crarc il vero. Se nòdi meno
fiarn molto più noi per concedere al prefenteaquert'artc di quel, che
ricercante fpeculationi, che 7 fon fue proprie, peròchc vero fi dee rti
mare eflTer quello,chcgià di fopra hauiam detto, cioè che la retorica fia
in vn certo modo comporta della Icientia. refolutiua apparrencnreal
filIogilmo,&: 8 di quella facultà ciuile, eh intorno a i cortumi è
porta: Se parte parimente conuicnc con l'argomentationi dialettiche, ce parte
con le (bfiftiche, dando eli a luogo fi come a i veri argometi, 5 cofi
àgli apparai ancora. Onde s'aTcun farà,che o la Dialettica, o quell'arte
del dire tentarà d'cfplicare, et trattare, non come facultà comuni, ma
come efatte feien rie; egli mentre che farà q u erto, verrà quali non
s'accorgendo a corrompere, cV a ror via la natura d'eile,trapairando con
cfquifiramenre trattarne,i proprij lor confini, Se enrrado dentro a quelli
delle feicntie, chabbian per lor foggetti cole in lor natura determinate, Se
non foIamcnte ragioni, et modi d'argomentare, com hanno querte. Có tutto
quefto, noi tutte quelle cole, che pollonoeiler vtili,&: recar lume al
prefente propqfito noftro, non lalcicremo di préderc di diftinguerc, et di
trattare: lafciando nondimeno la più efqutlita lor confideratione, alla Ci
mie fcientia, di cui fon pro11 prie. Dico adunque che cinque in numero li
truouan cflèr quafi tutte le cole più importanti, cV più principali,
dellequali foglion perii piùconfukare torti quelli, che trattati
concioni, Se configli public!. et quelle fono l'entrate, et foftantie
publiche, la guerra, Se la pace, la fecurezza, Se guardia del paefe,
Se del territorio, il veder quai cofe per labboncrantia, et commodo della
citta, s'habbian da far venir d'altronde, Se quali s'habbian da portar fuora,
&da mandar'alrroue, et finalmente il for mar leggi, Se ftaniti,
fecondo, chc'l bifogno, et l'occalion ricer. li ca. Per laqual-cofa colui
primieramente, c'ha da poter ben có(igliar'in torno all'entrate, et foftantie
publiche, fa di me m eri, che molto buona notitia habbia di tutte
l'entrate, Se rendite della Città, di che qualità fieno, quante le fieno,
Se quanto importino: accioches'alcune ve ne mancalTer, ch/ellcr
nódimen vjpotcflero, vis'aggiungan di nuouo, et fe d'alcune fi
cauafle manco frutto di quel, che cattar fe ne poteiTe, fi polla accrefeei
$ re, Se augumentare. Oltra di quello gli fa bifogno di molto ben fapere
tutte l'vfcite, et fpefe della Città, acciòche s'alcuna ve ne fuife
dauanzo, Se fenza bifogno fatta, fi tolga via: Se s'alcuna ve ne fuire
maggior di quello, clic ragtoncuol mente lapotreb14 beerTcre, fi corregga, Se
fi diminuifea. pcrciòche non folo po£ fon diuenfr più ricchi,& più
opulenti gli huomini con 1 aggi u* gner femprc nuoue ricchezze, Se nuoue
entrate a quelle, che fi pofTeggono j ma ancor con riftringer le fpefe,&
tor via,o dimi1 j nuir l'vfcite. Se all'in ftrutione, et peritia di tutto
quello, non folo è vtilela notitia, che con la pratica, et con
l'efperientia s' habbia delle cofe della Città propria, Se del proprio
itato, ma fà dibifogno ancora a poter ben cófigliar'intorno a quel, c'habbiam
detto delle rendite, Se foftantie publiche,l'hauer col mezzo dellhiftoria,
piena cognitionc di quello, che d'intorno a tal 1 6 materia habbian'altrc
città vfatc, o vlìno. Della guerra poi, Se della pace colui, c'harà da
etìer'habile, a poter bendar configlio, fa di meftier, c'habbia buona cognition
delle forze,& miìitic della Città, quante le fieno al prefenre, Se quante
bifognado fuffer per poter* edere: -óedi che forte, Se qualità ficn quelle, che
ordinariamente parate fi tniouano alhor in pronto, Se di che forte, Se
qualità parimente potellero eiler quelle, chebi17 fognando vi s'aggiugnelfero.
E necelfario olrraciòdi faper turte le guerre, c'habbia farro per l addietro
quella Cirri, Se in ^ual maniera, Se con che forze, Se con quai fuccefli
li fica trattate. Jfl Primo libro. ? 2 j 1 8 tate. Se non fol quelle
della propria città, ma vtil'c ancora l'hauet notitia di quelle, c han fatto
l'altre potentie, Se città conuicine, Se quelle città fpetial mente, con le
quali iì polla più con-, o ftimardi porerageuolmentc hauer'vn giorno guerra:
accioche mediante quella notitia li polla, ponderate ben le forze proprie,
Se l'altrui, cercar di ftar in pace con le Città piti potenti, Se perii
contrario con le men potenti potiam cono/cere di poter' a voglia nolìra
confidentemente pigliar guerra, Ce 19 voglia ce ne vcga,o occafion ci lì
porga. Se a quello giona ancora il conofeer Ce le forze, copi e, Se militie
proprie,& l'altrui lieti tràdi lor limili, ouerdillimili: pofeiachein
quelli parte ancora polTòn con la dinerfa lor qualità importar' aliai
afarnediucao nir luperiori, o inferior ncll'eiito delle guerre. Medciimaméte è
n ecellàrio oltra ledette cole, il porli dinanzi a gli occhi, non felo i
maneggi, e i fucccllì delle guerre, c'han fatto la città propria, et l'altre
cirtà conuicine, ma di quelle ancora, e han fatto altri popoli, Se altre
nation lontane: pofeiache dalle cole limili, foglion per natura
ordinariamente vcnire,& nafecre anz 1 cora i fuccelTì, Se gli effetti
limili. Quanto poi alla culìodia, Se fecurezza della Città, Se del
territorio, Se paefe fuo ; non ha in modo alcuno a colui, ch'intorno a
quello ha da con figliare, da ellcr nafcoflo in qual guifa habbia daeflér
potuto fecurarfì, Se guardarli ogni parte di quello flato, Se di quel
-dominio, conolcendo molto bene, chequantità, Se numer di guardia faccia
di bifogno, &di che forre, et qualità più in quella, che in
quella parte ; Se quai terre, Se liti di luoghi fi debbian'clegger per forti,
Se habbian per confeguenteda ellcr tenuti, muniti, Se guarii dati. La qual
cognitionc non porrà chi configlia in alcun modo ha nere, fenon làià molto
ben J cfperto, Se pratico per ogni parte del fuo territorio et del Ino paefe
cacciò che hauendo dai £ioi occhi ftefli di ciò notitia-, li conofee, che
n qualche luogo iia minor copia di munitione, o di gente a guardia di
quello, che vi taccia di bifogno, polla dar configlio che vi s'accrefea
; Se per il contrario fi tolga via da qualch'altro luogo quella,
che dauanzo, Se inutil vi lòprabbondi, per poter conellà fupplir douc
lìa più neceilaria, in maniera ch'i luoghi più importanti, Se più
opportuni habbian con maggior fecurezza da faluarfi,& 13 dacuAodirfi.
Quanto appartxcn poi alla grandezza, Se abbonD dantia 2 6 Delia Tigtorica.
d Aristotele datiti* di quello, ch'ai vitto, Se foftentamento dell'humana
vi• ta faccia di bi fogno, donerà colui, c'ha da dar'intornoa ciò co• figlio,
molto ben fapere il logro, e'I bifogno di ciafeheduna cola, et quanto fia per
con fu mar rntta la città, Se quanto afofH24 cientia badar le polla, et quali
delle cole a. quello necellarienafeono, Se procacciar lì pollono nel proprio
terreno, et dominio d'ella j et quali per il contrario non vi fi trouando,
bifogni, che xj d'altronde vengano, di maniera chcbenfippia egli
fupputare, Se conofeer, non foloquai forti di merci, Se quate, come ch'alia
città foprabbondanti,s'habbian da lafciar cauar fuoradel dominio, Se portare
altroue: Se quai per il cótrario faccia di mefticri di procuracene d'altronde
lìen procacciate et portare détro. ma ancora a qual parte, ouer' a qual luogo
s'habbian da mandar le cofe, ch'auanzano, et da qual parte s'habbian
da 16 procacciar quelle, che mancano: accioche fapendo quefto
fi cerchi di tener con buone conuentioni, Se capitulationi
con quelli, che fon (ignori, et padroni di quelle parti, buona con27
cordia, Se amicitia infiemc. pcrcioche due forti (penalmente di genti ha
da guardar' vna città di non irritar có ingiurie, Ardi non prouocarfi con
orTeic incontra, cioè quelle, che fon più po tenti, Se più gagliarde di
lei, Se quelle, chepercagion del commertio, in così fatti trafportamenti, et conduciinenti
di merci, 18 le pollon' ellcr' vtili. Hor tutre le cofe, c'habbiam
raccótare fin qui, fon per la conferuationc, &: ben'efìcr della città,
neceflarie d'etler fapute da colui, eh a benefirio della ha da
configliare, manó punto maco gli fa dibifogno d'eller inftrutto, Se ben'intelligcnte
in quella, che retta del formare, Se propor leggi, Se ftacuti: pofciache
nelle ftclìe leggi ftà collocata principalmcn257 re la fecura faluczza delle
città. Perlaqual cofa cfommamente necellàrio d'haucr cognirion di quante
fpetie di Republiche, Se ciuiligouerni, fi rirruouino, Se quai cofe a
ciafeheduna fpetie poilan'efTer'vrili ; Se quali perii contrario eflcr
poflan'atrea cftinguerla,diftruggcrla, Se farle danno,o appropriate, Se
fauo30 reuoli, o neinichc, et contrarie, cherai cole le lìano.Et
quefto, ch'io dico dell'erti nguerfi, Se corromperli vna republica
dalle 3 1 cofe, che le fon fàuorcuoli, Se appropriare, dico io, perche tutre
le fpetie, et forti di republiche, Scgouerni di città, fuorché quella
fpetie, eh e ottima, Se eccellerne lopra tutte l'altre, poffon riceuer danno,
Se corrottione, così per il troppo alien rarfi, Se lafciarfi vfcir
fuoradeilor proprij termini, com'ancor per 31 troppo reftringerfi, et ritirarfi
dentro di quelli, come (per effcrapio) adiuiene, che lo ftato popolare, non
Iblo quando troppo s'allenta, vien'a indebolire, et a perder della Tua forza,
fino che finalmente nello ftato de i pochi fi cóuerte. ma ancor quado
troppo fi ftira, Se crefee, in fé ftclfo, gli adiuiene il medeli33 mo. fi come
fi vede auuenire dclnafo aquilino, Se del (imo, cioè dell'incornato, Se
dello fchiacciato. peròche non folo con allentare, et partirfi da quella
coruità,o da quella forma Ghiacciata, vengon'a corromperli cosi fatte figure,
et forme, andando verfol mezo,~come verfo'l lor contrario, cioè verfo la drittezza,
Se profilatura, ma ancora fe troppo fi ftirailèro,&: li ftendefiero, Se Ci
hcefCc crefcerela propria figura loro, cioèfe troppo andaflc il nafo facendofi,
o aquilino, o fimo, o vogliam dire o corno, o fchiacciato, verreber tanto
a corromperfi auella fteffacoruità, Se fimità, che non folo ne aquilino, ne
fimo fi potrebbe più (limare il nafo 5 ma ne anche forma ili nafo vi refta34
rebbe. Per quel, chnpparrien dunque alle leggi, o ftaniti, che sliabbian
di nuouo occorrendo a formare, o proporre, non Gaiamente ci lata vtile, il
fapere, ci confiderare, perlecofe, che fon'accadute, et liiccefte nei
tempi addietro alla noftra Città, quale fpetie di republica, de qual forte
digouerno le fia ftato più profitteuole, &e di maggior
profperità,& maggior faluezza. 35 mavtiliflìmo ancor farà 1 hauer
informarione, et notitia d altre ftraniere nationi, Se principati, et d'altre
Città foreftierc, quai forti, Se fpctiedi republiche, Se di gouerni, a
quai forti di Città, di popoli, Se di nationi, fiano fiate più
proportionatc,cV: 3 G per confeguente più profpcre, et più durabili. Onde
efier può manifcfto, clicgrand vtilità a così fatta peritia di formare, Se
di propor leggi pollòn recar le peregrinationi,e i viaggicene fi fanno in
cercar nuoui, Se lontani paefi: pofeiache nel far qucfto
fi fjollonoauuertire, oficruare, Se imparar varie vfanze,
coftumi, eggi, Se ftatuti di diuerfe genti, Se nationi, da poterfene accomodar
poi fecondo le occafioni, a vtile, Se beneficio della pro37 pria republica.
Puòmedefimamcnte (eruire, Se recar gióuamcto alle publiche ciuili cófultationi
la cognitione, Se lcnion dell'In ftorie di coloro, channo nei lor libri tenuro
memoria delD ij lanci^ lantiquità, òv'lafciato ferini i fotti, Se lardoni
degl'hiromini. 38 Ma di tutte quefte cofe lauuerti re, Se difeorrer
minutamente, eoffitio, Se opera della ciuil morale Scienria,& non
della facultà retorica. Tante dunque, quante fin qui habbiam yedure,
Se non piò, fon lecofe, Se li capi più importanti, et pio principali,
liquali fidi bifojgnohauer per noti, et làpuri a colui, c ha da 40 poter
ben dar conlìglio nelle conful te nubliche. feguita hora, che noi di damo
da quaicofe faccia di bi fogno di prender maicria d'argomentare, o in fuadere,o
in difluadere, con" intorno ai già detti capi, com'in torno ad altre
cole, che ven i fin deli* berationc, Se confulta pofTono. (apo f.
"Dell'ultimo, vniuerfalifiimo fine dell' aftiont^ conjultaf ioni
humane, che è la. felicita dell'huomo: delle parti di quella. 1 N ogni
attion (fi può dir) dell' rinomo» cofi a eia* fchedun priuatamcntcóc
particolarmente, come conimnncmcntc a tutti, Ila propoito tempre dinanzi
vno (topo, Se Tn fine, alquale in tu rie le cofe, chefeguono, o fchiuano gli
huomini tengon volto, e indrizzato l'animo, et 1 occhio dcll'intention
loro. 1 &quefto none altro (per parlar così in genere) fc non la
felici3 tà, Se le parti di quella. La onde (ara ben fatto, che
veggiamo per modo più torto d'effètti pio» che di methodo, et via dottrinale,
d'efplicare, Se di poi lede re, checofa fia, invn certo modo grolfamenre, Se
non cfqnilìtamcnte parlando, la felicità, et 4 quai cofe contengano le parti
lue. concio! iacofa che intorno ad ella, Se a quelle cofe, eh ad eflà
guidare, Se condur ne poffòno, Se intorno parimente a i contrari) loro,
confinano, Se f\ rauuolgano tutte le fuafioni, et le dilfuafioni, che qual fi
voglia huomo faccia, pofeiache quelle cofe folamcnte opera, cerca, Se abbraccia
l huomo, lequali procacciar gli poilono 1 intiera felicità, o alcune parti
almen di quella, o che di minori glielepoflono accrcfcere, Se far maggiori» et perii
contrario quelle fola» mente fchiua, abhorrifce,& fugge a operare, le
quali fono atte a impedire, et corromperemo^ far minori la detta felicità,
et le parti Jl Primo libro. 29 f le parti Tue, Se a riuolgcrlc
finalmente ne i lor contrari). Intendali adunque deferitta, oucr diffinita per
hora la felicità con dire, ch'ella non fia altro, ch'vn profper fucceilb delle
attioni hu6 inane,congiunto cól nonetto della virtù: ouer che la. fia vn abbondantia,
o vogliam dir'vn poiTetto, per fe (letto totalmente 7 baftante alla vita
humana: o veramente vna vita diletteuoliflì8 ma, Se piena di fccu rezza: oucr
diciamo, ch'ella non confida in altro, che n vn buon' elferc, Se in vn
buono (tato, così delle poifeflìoni, Se foftantie noftre, come de i.corpi
noftri, con etter noi habili, Se potenti alla conferuatione, al
crefcimento, &al£ lWfo loro. Queftc adunque pottbno etter per hora quelle
cofe, nelle quali confitte la deferittion della felicità: pofeiache o
vna fola dette, opiu congiunte in fieme, confettano, &ftimano cólo
munementc quafi tutti glihuomini, douer'etter la felicità, cffendo adunque la
felicità, qual'hauiam detto, verran necettariamente ad etter leparti fuc la
nobiltà, Tamicitia, et la grafia di molti jl haucr'vtili,& buoni
amici, le ricchezze, la buona, et numcrofa prole, la vecchiezza commoda, tarda,
Se facile, et oltra ciò le ben difpofte qualità, Se virtù della
pedona, come fono la fànità,la bellezza, la gagliardia, la grandezza
del corpo, le forze habili, Se accommodateadogni forte di pugna, Se
ettcrcitation corporale, appretto di quefto ancora la buona fama, Se buona
reputatione, l'ctter'apprezzato, Se honorato, la buona fortuna, la virtù,
Se le parti, ouero fperie d ella, cioè 1 1 la prudentia, la fortezza, la
temperanza, Se la giuftitia. 1 m perei oche etièn do al hora Ih uomo
baftantiflìmo a femcdcfimo, quando e» pottìede i beni così interiori, come
gli citeriori, pofeiache altri beni, fuora di quefte due forti non fi
ritruouano, interiori sbanda (limar' etter quei dell'animo,& quei del
corpo, poliamo commodamente vfare, Se ellerctare corpi, &1. membri, 6
noftri,n tutti quelli oftirij, c ha la natura aftegnat, >«^P^« ' molti
fi ttuouano, che fonin vn cetto modo fan., no hauendo Jl Primo libro. 3
3 infirmiti, clic gli moledi, fi come fi dice, che fi
trouaoaHcro-' dico: et nondimeno niun'c, che ragioneuolmentegli
poteflc (limar, per quel, eh 'appartienila fanita, felici: facendo lorbifogno
d adenerfi per conferuation di-quella, da tutte le corporali opcrationi, et dilettationi,
o dalla maggior parte. La bellezza poi, laqual'c vn'alrra virtù, et buona
qualità del corpo» non è vna (leda in ciafeuna età dell'huomo, ma diuerfa
in diuerfe età. percioche la bellezza ne i gioueni s'ha da (limar, che fia
polla inhaucr'il corpo habile, accommodato 6c vtile à loftener lefatighc; et fpetialmenre
quelle, doue fadibifogno il corlo, et l'altre edèrcirationi, die ricercan
forza; con hauer'in. uolto vna cerca fiorirà dolcezza, ch'attragga
glianimi altrui, 6c caufi in edì godimento, 6c dilettatone, et per quello
i Pentathii (cioè habilia tutte cinque le maniere di
eilcrcitationt corporali) fon communementc ili mari bellifimii, come
quelli* ch'a tar'aluui violenti*, ik forza, et infiememente alla velocità,
nubili, et atri fona. Ma in coloro, che tornici Li già matura età virile,
confittela bellezza in hauer la pcrlòna atta,& potente a poter ben
fupportarlc fatighc della guerra, &:gli incommodi della militia: con hauer
nel volto vna certa apparente giocondità, congiunta con vn non so che di
terribile, et di fcuero. Nei vecchi poi finalmente fi può (limar ritrouarfi bellezza
ogni volta, che tanto di forze fia rimado nei corpi loro, che glicoli*
render badanti a comportare, &fodener le fingile, che uccella ri amen te
fuo! portarla vita: con modrar nel volto vna certa più todo lieta che
amara grauità, priua di raoledia, quali eh indino fia del non tremarli in e(Tì
quelle corporali imperfettioni, &ende, come quali comporta d'enee ; che
fono la grandezza dcl» per fona, lagaehardia, et la velocità: potendoli dir
veramente gagliardo quello, che di celerità, Se preftezza corporea è do44 tato.
pcrcioche colui che fi truoua ben'atto a potcrin vn certo modo quali
fcagliar le gambe, Se muouerle con celerità alla lunga a quiftando fpatio,
fi può domandar corridore, oucr'attoal corlo: lì comelottator li domanda
quello, che può nella lotta bene (tri nger', Se ben 'afferrare, et faldo
tenere. et buon giocatore, Se contenditor di pugna quell'altro, che in
percuotere, Se fpinger chi gli flà incontra preualc. ma chi inficinemente nella
lotta, et nella contefa delle pugna habil fi truoua, Pancratialtico fi
domanda: et Pcntathlio li chiama quello, che 45 in tutte le forti di cofi
fatti giuochi, et contefe eccede. La buona vecchiezza fi dee diveller quando
ella e tarda a venire, Se fenz'incommodo, et moleftia viene, percioche
s'ella tolto ne alTale, ouer fc tardi venendo moleftie, dolori, Se
trauagli reca; 46 buona vecchiezza non la Itimarcm giamai. Onde
all'cflcntia della buona vecchiezza fon nccclfane alcune buone qualità
dei 47 corpo, che già raccontate riabbiamo, conciofia cofa che colui, che
non farà libero da infirmità, et non harà quella robulìezza, che quell'età
può comportare, non potrà ftar fenza continue moleftie, Se dolori, et lenz'aftli
trioni della nerfona fua; ne farà capace di lunga vira. Se mancandogli dei
fuoi beni la fortuna, 48 non potrà con profferirà conferuarii. Et bene in
verità fi truoua altra ragione, et via da poter più lungamente viuerc,
fenza che l'huom fia robufto, Se fano: pofeia che molti fono, che viuon
lunghiflìma vita, quantunque priui fieno di cofi fatte virtù corporee, ma cofi
cfquifitedifpute, et minate confiderationi non pofion'al prefen te recar punto
al noftro propofito d'v49 tile, o di giovamento. L'hauer'amicitia di molti, et buon
amici, che cofa importi, ageuolraente non ci farà nafeofto fe
noi difEnicndo Jl Primo libro. jj diffinicndo che cofa fia
amico, conofeeremo che l'amico, di cui $o intendiamo al prefente, s'habbia
da inrcnder'elTer colui, donale tutto quello, ch'ei penfa potere efTer bene a
chi egli ama, tutto cercadi fareper fola cagion di quello. Colui
dunque, c harà molti di quelli tali,fi potrà di r, clic ei pofTegga quella
par te della felicità, che copia d'amici (ì chiama. Se fc quelli tali faranno
huomini virtuofi, honorati, SC da bene, colui che gli harà per amici, harà
parimente qucll altra parte di felicità, che 51 copia di buoni amici fi
domanda. La prolpera fortuna s'intende cller quando a uci beni, de iquali
luolc-ller padrona, &càgion la fortuna, Ci confeguifeono, Se duran di
pollederfi, o tutti, o la maggior parte, o almen quelli, che fon più
importanti, 51 et di maggior momento. Cagion è la fortuna alle volte
d'alcune di quelle cofe, delle eguali può eller'ancor cagione, Se principio
l'arte, ma per il più cagione è di quelle, che dall'arte non pollon
nafcerc;come fon quelle, che dalla natura ordinariamente vengono, ma
pollbn'ancofalie volte riufeir fuor dell'or» din d'ella, come (per
clìcmpio) fuol della finità eflTer cagione l'arte,& della grandezza,
Se bellezza del corpo cagion fuol'cfTcr la natura ; Se d ambedue quelle
cofe, cagion vediam'efleralle 55 volte la fortuna. Ma communementc quella
forte di beni per il più fuol dependere, Se hauer'origin dalla fortuna,
intorno a i 54 quali fuole eccitarfi inuidia. Parimente alla fortuna, come
eh 'a lor cagione s'attribuifeon quelle forti di beni, liquali par,
che 55 fuor di ragione, Se fenza cagione accafehino. come (aria
(per elicili pio, le di più fratelli, tutti gli altri ellcndo eccelli
uamente }6 brutti, vn fol tra eflì fulle dotato di bellezza: ouero, fe
non cflendo flato da molti trouato vn theforo, che cercato haueiTe57 ro,
vn fufle, che fenza cercarlo lo ritroualTe: o veramente fé vn dardo andàdo
a ferire, et percuoter chi pili lontan gli fulle ; haueile nel palTar
lafciato chi gli era più vicino, fenza toccarlo j8 punto. ouerfe venendo
alcuni la prima volta in qualche luogo, doue non fien foliti mai di venire,
fieno a punto arriuati in hora, che ila occorfo lor di riceucrui o morte,
o qualche fegnalato danno; Se vn'altro, ilqual fulle foliro di frequetafad
ogni hor quel luogo, non vi fia nondimen venuto in quel tempo, Se per
confeguente habbia fchiuato quel pericolo, Se quel nocumento. Tutti quelli
adunque, Se altri coli fatti cali, Se acciden£ i) tali (campi, polio n parere,
che buone f ortune fianb, cV da pf o5P (pera fortuna vengano. Reftarebber tra
le già propolle parti della felicità da dichiarare, Se deferiuerii le
virtù dell'animo: ma perche il far quello par, c'habbia piò proprio, et più
accò-. mo dato luoco nel trattar delle lodi; differì remo, et riferheresuo
1 allegrar le lor deferi trioni, quando più di fotto del gcncr> che le
lodi riguarda, ragioneremo. (apo 6. Del fine del gener deliberatine r$
con la defirittron dell'elle, ouer del bene: fcf de i luoghi, et propofittoni
appartenenti a quello. V a i fien dunque quellecofc, c'han daelTcr come
lini dinanzi a gli occhi, di coloro, che cercan consigliando fuadcr
qualche cofa, così pulente, come futura, già può per quel, che fi è detto
elfcr manifefto, et parimente qualicofe habbian'eglin da guardare per
diHuadere,comc ch'altre quelle non f uno che i le córrane di quelle. Hor
perche al gener deliberatiuo ita prò» polio, fecondo c'hauiam detto, come
proprio, &: peculiar Aioli ne, 1 vtili u, non delibera, o prende conilglio
1 huomogiàmai del hne, ma delle coff* che fon perii fine, et chepolTon'a
quel condurre ; Se quelle fon tutte quelle cole, che nelle attioni del*
l'huorao pollòno v r ìli:à recare ; ne fegue da quello, ch'effendo l'vrilc
parimente bene, non (ara fc non ragioncuolmente fatto; ch'aflegniamo
clementi, Se propoiìtioni. appropriate al bene, 4 &aU'viil
communemente prelo. Poniamo adunque, deferiucdo per hora il bene, ch'egli fia
quella cola, laquale per cagion j difeitclfa lìa dicibile: ouer ch'egli
lìa qucllo,pcr cagion del o quale altre cofe eleggiamo, potiamdiie ancora,
ch'ei lìa quello, che da tutte le cole èdefiderato, o da tutte almen
quelle, c'han lenti mento, oucr'intellerto,o chclodefidcrarebbcr fe intelletto
haijelTcro et ulna ciò tutte quelle cofe, cha chi Ilvoglia, il proprio
intelletto, et difcorfo nlfegnallè per buone, Se quelle parimente,
ch'intorno acìjfchcduna cofa follerdalui per tali in chi fi voglia
inoltrate, fi poflbn rifpetto a quel tale 7 ihmaf in luogo di beni.
Potiamo con altre delcritrioni medefi inamente due efler quello il bene., il
qual con la fua prefentia fa diuenir Jl Primo librò. 37 fa
diuenir la cofa, do u e ci fi truona, fi fattamente ben corrditioS nata, che
d'altro per il Tuo bene clTcr non ha bilbgno. oucr finalmente diremo eflcr
quello il bene, che per fe Hello e baftan55 re alla perfettion della cofa, che
lopoilìede. Ellendo dunque tale il bene, qual noi l'habbiam deferitto,
debbiam dire, che tutte quelle cofe, che faranno produttrici, o
confcruatrici di quelle, e habbiam polle nell'alfe^natedcfcritcioni del
bene faio ran parimente beni, et quelle medefimamente, che confegui1 1 ranno ad
elTe. ne manco ancor quelle, che delle contrarie fono 1 1
impeditiue,odiltruggitrici. Et in due modi fi può mmar>ch'vna cofa legna ad
vn'altra,o feguitandola inficine con cira,o lue* cedendole doppo. come
(per esempio) diremo, che all'imparar legni ti il laper la cofa imparata) non
infieme ; ma doppo: de ali elìcr fano confegua, non doppo, ma
congiuntamente, et 1 3 infiememente il viuere. parimente in tre modi fi può
dir, ch'vna cofa fia prodottiua, et effettricc d'vrf altra: in vn modo nella
maniera, che noi diciamo, cheTefler ben difpofto del corpo, et di buona
valetudine, fia effettiuo della fanitài in vn'altro modo fecondo che diciamo li
tali, Se tai cibi cfler produttiui della medefima fanità. de in vn'altro
modo finalmente nella maniera, che diciamo efler i'cllcrcitio caufa ancorcgli
efrettiua d ella fanità: pofciachcpcr il piùreflcrcitation corporale luol
réiler'il 1 4 corpo fano. SuppoAc adùque per vere le deferittioni, et dilìmtioni
allignate, verran n eccita riamen te a potere {limarli beni* così gli
acquilti, et riceuimenti del bene, come le liberano* ni, et li
difeacciamenti del male: pofeiache a quelli feguita convintamente concili
ilnonhauer male, chi luogo di bene, 1 1 et a quelli feguita dopo, 1
hauer'il bene. Medefimamente il nceucr'vn maggior bene in vece d vn minore,
doucremo giudicar, che fia bene, fi com'ancor dee chiamarli tale il
riceuer'vn minor male in luogo d vn maggiore, cóciofiacofa che
tutta quella parte, nella quale il maggior'auanza il minore, li
polla in quello domandar acqui (lo, oucr riceuiméto,& in quello
per 1 6 il contrario liberatione,ouer difcacciaméto.Le virtù ancora neceiiariarnente
s'han da connumerar trai beni, pofeiache mediami quelle, color, che le
pofleggono, ben qualificati diuengono, et ben alia perfettion difpolti. olirà
eh elle fon di molti beni produttrici, et operatrici, di ciafcuaa delle
quali particolarmente t j 8 T>eUa Teorica d %
'JriFtoteIc^ larmente che cofa lafia, et che qualità, et natura Ha la Tua,
ài 17 proprio fuo luogo dichiareremo. La voluttà parimente, o piacer
fenfual, che lo vogliam chiamare, farà ancor ella bene, come quella,che da
tutti gli animali è per natura cercata, &ded18 dcrara. Laonde le
cofcdiletteuoli, et le cofehonefte verranno adedèrnecedariamentebeni.
pcrcioche quelle fon produttrici della voluttà, &c di quefte, alcune
fon diletreuoli, et altre dir 19 cibili per fc raedefimc. Et per venir* in
quella afleenation dei beni più al dipinto, de più al particolare, e di
necedìtà, che belo ni (limar fi debbiano quelle cole, che qui tratteremo. Et
primamente la della felicità, come quella, che per cagion di fc della è
eligibile,& oltra ciò a fé mcdelìma è badante ; S: di più, 11 molte
cole eleggiamo per cagion d'ella. Doppo quella,bcni ancor fono la giuftitia, la
fortezza,la remperantia, la magnanimità, la magni hcentia, et gli altri cofi
fatti habiti, elTendo eMì virai tu dell'animo. Medelimamente beni fono la
fanità, la bellezza, òc altre così fatte qualità, pofeiache virtù del
corpo fono et ef1 3 feltrici et produttrici di molti beni: c(Tendo (per
ch'empio) la fanità produttrice della voluttà, et dello (ledo viuere.
Perlaq ual cofa ottima fuol parer'ella tra gli altri beni : come
quella, che di due cofe e cagione, le quali da molti fon'in grandi
Aimo pregio tenute, che ionia voluttà, et la vita. BeniTbn parimele le
ricchezze, cioè l'vfo loro, clfendo veramente elle nó altro, che virtù di
faperle vfare, et di fapcr edèrne polfedbre, et oltra ciò effetti uc,6v cagioni
di molti beni, et di molti còrnox$ di. L'amico ancora, et 1 amicitia fon beni :
edendo in vero l'amico eligibil per fe mcdefimo, et operatiuo, ouefcffettiuo
di molti beni. L'honor medefimamente, et la gloria fi deono conumerar tra
i beni, fi perche fon cole gioconde, 6c dilctteuoli, et che panorifcon'altrui
di molti beni, et fi ancora perche per il più par,chc confegua
congiuntamele ad eflì il poifeder quelle cofe, per le quali è fatto altrui
qucH'honore, et data quella gloria. Leder nel parlar efficace, et potente
di lingua, Se l'cfier'habile, c\ potete in trattar negotij,fon due cofe,che
dcon* ef fer collocate tra i beni : pofeiache di così fatta habilità
molti 18 beni, 6e molte comodità deriuano." Oltra di quefto
l'indudria, Se la bontà dell'ingegno, la tenacità della memoria, la
facilità d'imparare la perspicacia, Se velocità dell intelletto, Se
tutte l'altre Jl Primo libro. J 9 l'altre così fatte
difpofitioni, fon daeilere (limate neceflTirianiente beni : ell'end'crte
potenti mezzi a cagionare, et produr19 relacquifto di molti beni. Perla
medefìma, o limil ragion'an30 cora tintele feientie fon beni, et tutte le arti
parimente. Et il viuere ftelfo mcdeiimamentc è bene: pofeiache dato
bench'ai tro ben da elio non ne feguille, per (efteflb nondimcn è co
fa. 3 1 cligibile, et defidcrabile. Il giudo ancora, et l'equità faran bc31
ni, perche comune, et publica vtilità n'apportano. Etquelti, chabbiam fin
qui allignati, fon, fi può dir, quei beni, che da tutti concordeuolmente
fon hauti, confeflì, et (limati per tali. $3 Quelli altri poi, dei quali
non s'hauendo la medelìma cómu* ncopinion,chc fien beni, che foglion cader
in cótrouerfia d'effcr', o non eilcr beni, fi pocrano come da proprij luoghi,
in comparation Tvn dell* altro. A perche fpeffe volre adiuicne, che di due
cofe, che ci fien propofteinnanzi,giudichercmo,& cófcllcremo,
cialchcduna ellèr vtilc, et bene, ma qual di quelle fia la migliore, et di
maggior gioitainen copercheremo, et dubiteremo j larà ben ratto di seguitar
di dir al preferire qualche cofa a rarconòfeere il % maggior bene, e
1maggioratile. Prendafi adunque prieramete per cofa nota, che la cola
eccedente, ouer auanzante s'intenda clfcr quella, che fia tanta,quata la
cofa da ella ecced uta,& qualche cofa di più ;& l'ecceduta per il
contrario quella, che ilia 3 comprefa, Se inchiuianell eccedente. Oltra di
quello la cofa maggiore, in rifpetto d vna minore e forza che fia
maggiore, Se 4 il più parimente, in rifpetto del meno è detto più. ma nel
dir grande, 6c piccolo, fi com'ancor nel dir molto, Se poco, il rifpetto
fi confiderà di molte cofe; nelle quali quella, ch'eccede l'altra fi dice
eiTer grande, Se quella, ch e auanzata, Se ecceduta fi dice eiTer piccola, Se
il fimile adiuicn nel molto, Se nel po$ co. Hauendo noi adunque già detto
ciTerben quello, che non per cagion d altro, che di fe ìleiìb è eligibile:
et quello parimele, ilqual tutti appetifeono: et quello, che tutte lecotè, c'haueller'intellctto,
Se prudentia eleggerebbero: et quello medefimamente, che de i già detti beni
iìa effètti uo,& conferimmo, olier a cui li già detti confeguono, Se
vengon dietro: Se elìendo che quello, per cagion delquale fi elegge
qualch'altra cola, vicn'ad eller, come fin di quella, per eller quello il
fine, per cagion del quale fi eleggono altre cofe: Se oltra ciò cflendo
bene ad alcuno in particolare, non fol quello, ch'alibi utamente contiene
le già dette conditioni, maancor quello, che, fenon allo6 lutamente, almen
rifpetto aquel tale, lecótiene; nefeguenecclTariamente da tutto quello, che
prefi inficine più di così ratti deferitti beni* importeran maggior bene,
che fc vn folo d'elfi, oin minor numero fodero, purché queit vno, et quelli
di maco numero, fian dentro a quei tai comprefi. perciò che in quella guifa,
verranno quiui più ad ecceder, come che dentro di lor coraprendan
quelivno, oquei manco, i quali confcgucnrc 7 vengono a re ftar' ecceduti. Diremo
ancora, che fe quella cofa, ch e grandilfima nel gencr fuo, farà maggiore
di quella, che fia grandi/lima in vn'altro genere, faranno ancor maggiori
vniuerialmcnte le cofe di quel genere, che di quello. et ali
incontra ancora, fe vniucrfalmctcle coied vn genere fon perii più maggiori
di quelle dvn altro genere, farà ancor la grandiflìma in quel genere,
maggior di quella,chegrandi(Iìma farà in quell'ai 8 tro.com' a dir(pcr
clTcmpio)che le il gràdillìmo di tutti gli huoF ij mini mini è maggior
della grandiflìma di tutte le donne ; s'ha da (limar ch'vniuerfalmente gli
rinomini fien per il più maggiori delle donne. et all'incontra Te gli
riuomini generalmente lon per il più maggiori delle Donne; vien parimente
ad elfcrc il grandiflìmo huomo, maggior della grandiflìma donna, conci
odacofh che con quella medefima proportione vengano a riguardarti tra di loro
gli eccedi tra gli ltefli generi, con laqual fi } riguardano i grandiuìmi
l'oggetti, che fono in quelli. Medcfimamente quàdo ad vno di due beni feguitarà
l'altro, et a quell'altro non feguitarà quelPvno,diremo che maggior lia quel
primo,ch'è feguitato,Cv fi tira dietro l'altro. Se ilfcguitard'vna colà ad
vn'al tra, fi può intendere, o perche la feguiti infamemente, cioè nel medefimo
tempo con clfa, o perche le venga dietro dapoi, oucr finalmente perche in
virtù, et in potentia fi truoui in quclla,per caufa, che l'vfo d'efla ftia
pofto in vinù ncll'vfo 11 di quella, a cui ella fegue. cV per aifegnar in
tutti quefti tre modi di confeguimento efiempi, diremo che infiememente, et in vno
fteifo tempo feguiti ali cller fano il viuere; ma non già diremo, ch'alia vita,
la finità confegm. Il fapere, et la feicntia diremo, che feguiti ali im para
re, non già infiememente con elio, ma col tempo poi. In virtù, 6c in
porentia finalmentedircnio, ch'ai (àcrilegio, ch'c furio di cofe fagrc,
feguiti il furto femplieemente prem. peroche colui, che non s'afticne da
commetter faci ilegio,ftà quanto a lui paratOjpotente, pronto, &difpofto a
furar 1 1 ancor le cofe,chenó fien (agre, fc Toccafion fegli porga. Appreffo
di quclto tra quelle cofe, ch'vna medefima cofa eccedono, quella farà
maggiore, che 1 eccede con maggioi'auanzo, ellcndo uccellano ch'ella in tal
calo 1 auanzi per quato trà gli eccedi 1 3 foprauanza il maggior eccello,
quelle cole ancor iaran maggior bcnijlcquali fono cfifètciue,&
prodottnei di maggior bene: peroche in qucfto con lìfte la natura dcH'clIcrvna
cofa effettiuadi 1 4 maggior bene, cioè in cfTcr maggior bene. Et
limilmcntc all'incontra a n cora, q u el la cofa farà maggior bene, che farà
prodotta da vn ben maggiore. Onde eflendo (pcrellempio) le cofe falubri,
et che fon atte a render li corpo lano più cligibili, et maggior bene, che non
fon le gioconde, che non caufan fenon diletto, verrà parimente la lanitàad cAcr
maggior ben della voI ; luttà. Parimente la cofa,ch'c eligibile per fe ltefla
maggior bene fi dee Jl Primo libro. j-j fi dee {limar di quella,
che non per cagion di fe ftefTa,ma d'altra cofa s'elegge, come (per
ellcmpio) diremo, che la forza, et la ga gliardia corporale iìa maggior
bene di quelle cofe, che li fanno per acquetare la fanità: pofeiache
quelle non sappctifcon,nè fi cercan per cagion di fc ftefie, ma per cagion
della fanità: douc che quelle, quando ben non peraltro, lon nondimeno
defiderabili per loro lleiFe m1 che propriamente alla natura del bene 1 6
apparticne.Oltra di quelle le di due cofe farà 1 vna come fin del1 altra, et l'altra
non farà fin di quella ; maggior ben farà quella prima,chc farà fine,
pofeiache l'altra verrà ad eHer'cligibilc, nó per cagion di fe ftella,
maper cagion di quella, douc che quella per cagion di fe medefima farà
tale, come (per elfcmpio) vediamo che l'ellercitio della pei fona fifa per
cagion del ben eficrc, 17 Se della fanità di quella. Medcfimamente quel di
due beni larà maggiore, ilqual non harà bilogno di quellalrro, ma ben quell'altro
di lui, ouer di manco cole harà di bifogno, che non harà quello. Et quello
adiuiene perche il non haucr bifogno nafee dall haucr foffitientia, et ballanza
dafe medelìmo, in che confitte la ragione, cVdiffinition del bene. &per
manco haucr bifogno inrendiamo 1 haucr mellieri o di manco cofe, o di più fa18
cili. Apprelfo di quello quando di due cofe vna ve ne, che non f>uò
fenza l'altra (lare, o produrli in cllere, ma ben lo può qucla fenza quella;
fcnzalcun dubbio quella di quella farà maggior bene.cóciofiacofa che per
quello, vega ad haucr mcn bifogno,& per confeguente maggior ballanza,
et fofficientia a fc medelì19 ma ; onde ragioncuolmcnte maggior bene appare.
Quando ancor di due cofe l'vna farà principio, Se l'altra nó principio,quella,
che larà principio farà maggior bene. et medcfimamente fe l'vna farà
caufa, et l'altra non larà caufa, verrà ad eller maggior benquella, che
farà caufa, perla medefima ragione. &: quella è chefenza la fua caufa,
et fcnza'l fuo principio, impoflìbilc e, 10 ch'alcuna cofa fia,o fi
faccia, et fi produca mai. Oltra di quello fefaran due principij, quella
cola, che daquel principio farà f prodotta, ilqual farà maggiorc,farà
parimente maggiofanch'cla. &c finnlmcnte quella cofa, che nafee da quella
delle due caufe, che fia maggiore, farà ancora ella maggiore di
quella> 11 che nafeerà dall altra caufa. Et all'inaura ancora, quello
di due principij farà maggiore, ilqual di maggior cofa farà principio. et quella ^
^ ^ella Se quella dì due caufe maggior farà, che di maggior cofa (ara cà1 1
gione. Per quel che fi c detto può eflèr manifelto, che vna medeiìma cofa potrà
alle volte in rilpetto d vn'altra parer maggiore ndl'vno, et nell'altro modo,
cioè cosi per vna delle conditori già dette, come per la Tua contraria, perochc
s'ella farà principio, Se quell'altra nò, potrà ella parer maggiore: et parimente
fe la medefima non farà principio, ma più tofto fine, et quell'altra farà
principio, potrà nondimen'etfa parer maggiore, ellendo maggior bene il
fine, ilqual nondimen non è principio. xj Si come può apparir per quello,
ch'vsò di dire Leodamantc: ilqual nclTaccul.i, che fece contra di
Calliftraro, dille, che maggior colpa haucua in quel delitto, delqualc era
l'accula, colui, che configliato 1 haucua, che quello lteflo, elici haucua
comincilo: pofeiache commellb non l'harebbe egli, fc non folle ! fiato chi
rhauerfeaciò configliato: douendofi ltiroar il conli14 elio, principio, et caufa
del delitto. Et in vn'altra accufa, ch'ei fece poi contra di Gabrìa,
affermò maggior colpa haucr chi ha>ueua commctfb il delitto, che chi
coniigliato l'haueua: perche mai non fi confultarebbe vn delitto, fc non
fulTc chi lo comrnetteflcjnon per altro come fine configliandolo chi lo configlia,
fc non accioche finalmente commciio, Se efeguiro fia: di maniera che il
commetterlo viene ad ellcr'il fine, per cagion del X j quale vien
configliato. Medefimamente di due cofe diremo,che quella, ch'c più rara,
et più di rado fi truoua, fia maggior ben di quella,di cui più s'abbonda,
(ì come (per ellèmpio fi dirà) che Toro fia di maggior pregio, che il
ferro, anchor che di minor vtilità fia di quello: pciciochela maggior
difficultà nel trouarfi, fa parimente, che di maggiore ltuna fia il
pollederlo. 16 Et per altra ragion fi può incontra dire, che di due cofe
quella, di cui in maggior copia coromunemente s'abbonda, fia da anteporre
a quella, che rara fi truoua: pofeia che nalcendodal .maggior vfo di
quella, maggior'ancor'vtilità, come che lo fpeilo vfarb auanzi il di rado
vfaru; vien per quella ragione a poterfi ftimar di maggior pregio, onde
prefe occafionc il prouerbio, 17 fecondo ilqual logham dire, ottima cofa
efferc l'acqua. Et in fomma da vna parte debbiam'dirc, chele cofe più
difficili debbiano elTère antepofte alle più fatili» come quelle, che fon
più 18 rare, dando lor pregio la lor rarità: et doli altra parte le più
facili han danteporfi a le più difficili, come per quella facilità più 9
accalchi la cofa. fecondo che noi vogliamo. Olerà di quello 0 quella cofa
maggior farà, il cui contrario farà maggiore; Se maggior parimente quella,
di cui farà maggior la priuatione. 1 Se U virtù maggior farà della
difpofitione,che non è fatta ancor virtù. Se il vitio parimente farà
maggior della difpofitione» che ancor non è fatta vitio: pofeiache quelle
cofe, cioè la virtù, cil vitio fon fini; Se quelle, cioè le difpofuioni non
fatte 1 ancor nè virtù, ne vitij, non fon fini. Quelle cofe ancora,
le opere et gli erletti delle quali faranno o migliori, o
peggiori; eirc parimente, che gli producono, faranno o nel bene, o
nel j mal maggiori. Et medefi inamente di quelle cofe, di cui le virtù e i
viri; fon maggiori, maggior fono ancora gli effetti, Se 1 opere, con
ciofia colà che fecondo che fi ritruouano cfler le caule, e i principi) ;
fi truouano cllcr parimente gli effetti, Se gli auueniraenri, che da elfi
nafeono. et dall'altra parre ancora, (e* condo che fon gli effetti, Se gli
auucnimenti ; fon parimente le 4 caufe, e i principi; loro. Oltra di
quelto quelle cole fon migliori, Se più eligibili,nellc quali l eccedere fia
più eligibilc,& mag. gior bene, come (per ellèmpio) diremo, che
ellendo cofa più eli gibile l eccedefin vcdcr'acutamcncc, ch'in acutamente
odorare; vien per quello a poterli anteporre il fentimcnto della villa a
quel dell'odorato. Se elTcndo più honclta colà 1 eccedere in eiler amator
d amici, eh in eifere amato r di danari ; farà ancor femplieemente più
honello l'amor, che fi porti a gli amici, che f quel, che fi porti a i
danari. Et parimente riuolgendo quello luogo in oppolla parte diremo, che
delle cofe migliori fian parimente migliori gli eccelli, che fiano in elfe;
&piu nonetti delle £ piuhonelle. Migliori ancora, Se più lodatoli fon
quelle cofe, delle quali fon migliori, Se più lodeuoli i defiderij:
pofeiache 7 delle cofe maggiori, i deliderij fon'ancor maggiori. Onde
all'incontra faranno migliori, Se più lodeuoli i deliderij, fe migliori, 8
Se di maggior lode faran le cofe,chc s'appetifeono. Oltra di que fto
quelle cofe fon più pregiate, Se di maggiore fludio, Se diligenza dcgne,lc
feientie delle quali faranno ancor/ette tali:
però cheproportionatamcnterifpondon lefcientie alla verirà,& na9
turadc lor foggetti: hauedo ciafeheduna d eife riguardo a tlar fopra di
quei ioggetti,chc fon fuoi proprij. Ond all'incòtta per la mesf. 8 'Della
Tigtprica d'^riflotelc^ la medcfima cagione di queAa proponionc, migliori,
Sedi pia Audio, et pregio fon quelle fcientie, lequali di cole fono,
che 40 migliori, et più pregiate fiano. Quello oltra ciò, che
maggior bene giudicherieno, o habbian altra volta giudicato le
perlune prudenti, o tutte, o molte di quelle, o la maggior parte
d'elfo, O almen le più faggie, et di maggior prudentia, quello li dee nccefiariamente
per maggior ben tenere, o Templi cernente, et affolutamente j o almeno fecondo
quelle qualità, che riguardan la prudentia, et peritia di quelle tai
pedone ; selle non atfblu41 tamente in ogni cola fon tenute tali. Et quello c
habbiam detto del riferirli al giuditiode i periti, è commune non folo al
guidino, che fi faccia de i maggior beni, di che parliamo al prelente y ma di
tutte l'altre cofe ancora ; come a dir delle foftantic del le cofe, delle
quantità, et delle qualità: douendou" in tutre queAe cofe per la
determination loro riferirfi a quello, che le proprie fcientie loro, et i
periti di tali fcientie determinano co 'llor 41 giuditio. ma noi
fpctialmcnte alla conlìdcrationc, et determination de i beni, habbiam così
fatta regola, et luogo applicato • ; t conciona cola che hauendo noi
dirHnito il ben'efler quello, che ciafeheduna co(a,s'haucilc intelletto
eleggerebbe; vien per que* Ao ad elTcr manifcfto, che maggior farà quel
bene, che maggior 43 da chi habbia prudentia fia giudicato. Quellr ancora
faran maggior beni, i quali in miglior (oggetti, et in più nobili porti-ilo
ri Il rirroueranno, o fempli cernente, o almen fecondo quella parte, in
che fon migliori, come (per elfcmpio) diremo, che la vn44 tù della fortezza Ila
maggior ben della gagliardia. Parimente maggior ben fi dee 111 mar quello,
che da miglior perfona, o lempliccmente, et ordinariamente, o almen in quanto
ch'ella è mi gliorc, farebbe eletto. A come (perch'empio) diremo ellcr meglio
il ricruere ingiuriarne il farla, pofciachc più tolto quello, 45
-chequcfto eleggerebbe chi maggiormente fuAcgiuAo. Apprefjb di quello fi potrà
maggior bene Ai mar quella cofa, che lia più xìilettcuole, et più
gioconda, ouer più voluttuofa, di quella,che fia manco tale, pcroche tutte
le cole feguon voluntieri la voluttà ! et è ella oltra ciò feguita,&
defidcrata perengion di Ce nicdefima: cV già nel di frinir la natura del fine,
6c del bene, l'vna, ficl altradi qucAeconditioni glie data ài fopra
aflegnata. Più gioconde poi, et più diletteuoli s'intendon'ellcrlecofe,
inelTer maggiorJl Primo libro. 4 p maggiormente priuc di dolore, et diraoleftia;
Se ineflcr più lungo tempo durabile il diletto, Se la
giocondirà,checontengo46 no. Le cole medefimamente, c'hanno in fe bellezza
maggiore» fi pollono (limar maggior beni, che quelle, che 1 han minore: conciofiacofa
che la bellezza infefiacofa dilctteuole, Se oltra 47 ciò, per Ce della eli
gì bile. Oltra di queft.j quelle cofe fideono (limar maggior beni, delle
quali maggiormente vorrebber gli huomini elfer cagione, o in (e (ledi, o
negli amici loro. Se per il contrario maggior mali faran quelle, di cui
eglin manco vor48 rebbero in fé, o negli amici clfcr cagione. Medefimamente
fra più beni, li più durabili fi deono (limar maggiori di quelli,
che 4P manco tempo fon per durare in ellere. Se li più fermi, Se li
più (labili ancora maggior beni fono de i màco (labili: perochc ìvfo, e l
godimento di quelli, viene ad ecceder fecondo la quantità del tempo; Se l'vfodi
quelli eccede nello dar maggiormente nella volontà,&: ncll arbitrio noflro:
pofeiache quanto lacofacpiù ferma, Se più (Libile, tanto l'vfo Aio è
maggiore; 50 et p.ù fecuramenre parato ali arbitrio del voler noftro.
Apprcf fo di quello perche quelle Cofe, eh o congiugate, ò di (imil
cafo fi domandano, hanno quella proprietà, che quello, che feguita ali
vna, feguita ancor all altra ; li come tal conditione ha luogo in elle nell
altre qualità, cosi 1 ha parimente ncll'crter mag5 1 gior bene. Onde le (per
eflempio) quefto aduerbio,foncmente, porta feco maggior bene, che 1
aduerbio, tcpcraramente.tal che l operar fortemente (la più cligibil, che
l operar teperatamenre ; la tortezza ancor farà più cligibile, che la
temperanza, Se 1 ellcr forte p:ù cligibil, che 1 ellcr temperato. Le cofe,
che tutti eleggono lon maggior beni di quelle, che non tutti ; Se le cofe parimente,
che da i più fono elette, fon maggior beni di quelle, che da i meno,
perciochc eflendo il ben quello, che tutti deliberano, nefegue, che maggior
farà quello, che farà da i più delìde53 rato. Può medefimamente elfer tenuto
maggior bene in noi quello, che tale è giudicato da gli auuerfarij, co i
quali conrendiam nella caufa, o dagli (ledi nemici noftri, o da quei, che
con giudici nella caufa. percioche quanto ai due primi,(ìpuò (limar, come
fc quel giudirio forte di tutti. Et quanto a i giudici poi, fi fuppongono
intelligenti in quella caufa Se periti ; Se hà14 no autorità nella caufa. Oltra
di quefto alle volte maggior bene G accade, che fia da noi (limato quello,
che in tutti gli altri, come d'eflb partecipi fi ri truoua: recandoci noi
in vn certo modo a vergogna il non hauere ancor noi parte in quello, come
hanno gli altri, c i non poter confeguir quello, che gli altri hanconfej $
guito. Se alle volte per il contrario maggior ci parrà quel bene, che in
niflunaltro, o almcn'in pochi fi ri truoui: parendoci per quello di
poflTeder cofa più rara, Se che per tal rarità preda pref6 gio. Le cofe ancora,
lequali appaion communementc degne di maggior lode, fi deono ftimar
maggior beni, come quelle, che per tal caufapoflbno efler giudicate più
honoratc,più nobili,& 57 più honefte. Nè maco deon'efler tenute per
maggior beni quelle, lequali, come a cofe di maggior prezzo maggiori honori
fi foglionfàre: eflendo l'honorquafi vn prezzo, che mifura l'ec58
ccllentia, et la degnità delle cofe. Maggiori ancora s'han da ftimar quei
beni,dclla perdita de i quali più importante, Se magJ5> giornerefultaildanno.
Oltra di quefto quelle cofe s'han da ftimar maggiori,le quali con
maggiofauanzo eccedono quelle, che communementc da tutti fon tenute per
grandi, o almeno 60 quanto ad eflc poflbno apparir tali. Sogliono ancor
lecofc diuiic in più parti, parer maggiori, che ftando in Ce ftefle vnite: pofeiache
con quella moltitudin di più parti, vicn'a farfi apparecia 61 di maggior'
ccccflò. Se per quefta ragion dice il buon Poeta effcrc ftato eccitato, Se
perfuafo Mcleagro a difender la patria fua con tai parole, ò quanti mali,
Se quante miferie, portano a gli huomini l'cfpugnationi, et prefure delle
città; i Cittadini, et glihabitatori ibnooccifi,& mandati a fil di
ft>ada,la Città tutta dal fuoco è ridotta in cenere, fono i proprii
figli, Se le donne iftefle in habito fu ccinre menate via, et ftrafeinate
prigioni in Ci feruitù dei nemici loro \ Se quel che fegue. Se per il
contrario ancora può l'adunar.comporre, Se accumular infiememente
in vno, far parer la cofa maggiore, chefepartita fimoftralfe
nelle parti fue, come fi vedeoiferuatoda Epicharmo. Se quefto accade fi
per la medefima ragioncjchcpur'hora habbiamo allignata per la
diuifione,faccndo apparir eccello ancor la compofitione> Se fi anchor
perche tal compofitione fa nel comporto apparétia 65 di principio, Se di
caufadi cofe grandi. Appretto di quefto perche maggiori habbiara detto eller
quelle cofe, che fon più difficili, Se ancor quelle, che fon più rare, di qui
è, che loccafioni, l'età, Jl Primo libro. jt reti» i luoghi, i
tempi, et le forze, Se condiiionf aTrru?, vengono a recar grandezza, Se
crefeimenro alle cofe. pcrciochc fc le attioni fi moftrano cller fatte da noi
fopra le forze noftre, fopra l*ctà, fopra gli altri nolìri pari,ouer nel
tal modo, o nel tal luogo, o nel tal tempo, vengon per quello a
riceuefapparente quantità,& crefcimento,non folo nelle cofchonefte,
ncll vtili, 64 Se nelle giù (le, ma parimente ne i lor contrarij: onde da
quello prefe forza, Se foggetto quello, che fi contiene in quello Epigramma,
che fu fatto per vno, ch'era rimafto vittoriofo ne i giuochi Olimpici, quando
ei dice; Sopra di quelle proprie fpalle hauendo io la cella graue, foleua
da Argo portar già il pefee in 6$ Tegea. Se perla forza del medefimo luogo
ancora vsò ificrate di dir quelle parole, Ih mandole a lode fua ; O da
quai principi;, CC a quai iucceffi fon'io venuto. Mcdefimamentequci
beni,chc fo no,innati,natij,&per natura tali,maggiori fon di quelli,
chaduentitij,& aggiunti di fuora vengono : folendofi quelli più difficilmente
acquiftare, Se trouar' in altrui, che quelli, onde non fenza ragione quel
Poeta dice, Io quel, ch'io sò ho imparato per 67 me medefimo. L'edere
ancor p ri nei pai idi ni a. Se grandi di ma parte d'vna cofa, chenelTeder
(uo fia grande, aggi tigne grandezza : fi come (per edèmpio) ben conobbe
Pericle, quando in quella oration funebre intitolata l Epicaffio, dille
non altrimenti edere (lata tolta via della Città quella gioii entò, ch'era
morti nel fatto d'arme, che fe di tutto Tanno fuilè tolta, Se rapita
la 6Z primauera. Quelle cofe ancora, lequali in maggior bifoeno,
Se in più vrgente necedità fono vtili; come faria (per eilempio) net
tépo della vecchiezza,& neH'infirmità,fi deono (rimar mag6 9 giori, Se più
eligibil beni. Medcfi mamente di due beni, quello 7 o li potrà (limar
maggiore, che più farà, vicino ai fine. Se a ciafche duno anchor s'ha da
(limar, che fia maggior ben quello, che fia maggiore fpetialmente a lui,
che quello,chc fia tale femplieeme 71 te,c m natura fua.Quel parimele di
due beni, che ci fia polli bil'a cófeguire, maggiore habbiam da Mimar/che
fia di quello, che ci fia impodi bile ; percioche quello viene ad eller
bene a noi,doue che que(lo,dato bc che fia in fua natura bene, nódimeno a
noì,a 71 cuinòèpodìbilc,nófipuòdirchefiabene. Oltra di quello
le cofe,chcs'inchiudono,& concorrono nel fin della vita noftra, fon
maggior beni, come quelle, che più fon vicine, Se cógiunte G ij
alfine, j 2 usua x^crorica a jirisioreic^ 7j al fine, che non fon
quelle, che fon mezi al fine. Quelle cofe ancora fogliamo (limar maggior
beni, nel! elcttion delle quali fogliam riguardar più torto la flcHa
verità, et l elfcrc ifìeflo della cofa, che il parerà gli altri. et in quello
iìà pofìo, et s ha da intender l'eucr le cofe ad opinione, ÓV parer de gli
altri, che le non fi eleggerebbero, fe fi penfalle, che le itetiero
ignote, et na74 feofte altrui. Onde per quella ragione può ad alcun
parer'ellèr più cligibil cofa il nccuer bencnuo, cheil farlo : perochc il
ri— ceuerlo e cofa, che quantunque la fullèpcr elfere appretto de gli
altti non nota, ne manifefta ; in ogni modo per fe medeflma £ eleggerebbe,
don e che il far benefitio non clegercbbe ognun, che lo fi, fe ciò do u
elle refìar afeofo al mondo, et non mai fa7J puto. Medefimc mente quelle cofe
poiìon parer maggior beni, lequali Ci defìdera più folio, che veramente
fiano, che appaian d'efrerc : pofeiache in tal guifa vengono a riguardar
più tofìo il vero, che il parere, ÒV l'opinion de gli altri. èv da quelìo
cercan di prouar alcuni, che la giuftitia in rifpetto della fanità, .fi
debba fìimar picciol bene; perche nella gin flit la par, che ila
più .eligibile il parer gi urto, che l'cller giurto;douc che nella fa76
nità tutro il contrario adiuiene. Quei beni ncoia fi debbono ili mar
maggiori, i quali polTbno a molti beni eilcrc vtili, com'a -dir (per
eflempio) a vincre,a commodamente menarla vira, alla voluttà, et ad operar cofe
honefle. Onde none marauiglia, che le ricchezze, et la buona valetudine
appaiano communeme te grandiUìmi, et importanti mi beni, pofeiache tutte
le dette 77 cofe, par che polTeggono, ÓV portin feco. Oltra di qucfto
quel bc diremo, che fia maggior, il qual lìa priuo di molefìia,&
hab bia olerà ciò feco voluttà congiunta, pofeiache più bene viene egli
in tal guifa ad hauere, hauendo feco la voluttà, la qual è bene,fì com ancora
ha luogo di bene la macanza, che vi lì truoua» 78 del dolore, cV della
molcflia. Et quella ancor di due cofe farà maggiore, laqnalaggiunta
advn'altra terza cofa, produrrà vn tutto maggior, che non fi produrrebbe 5
alla medefima s'ag79 gì ugnelle quell'altra. Quei beni oltra ciò,li quali,
quando fon prefirn ti, manco pollono fìarafeofi altrui, maggiori vengono
ad clìere, che per il contrario quelli alm,liquali prefenti fi frano afcofi
: pofeiache quelli più vengono ad hauer parte nella verità, che non fan
quelli, onde per tal ragione 1 cilcr veramente ricco lì co fi potrà Rimar
maggior bene, ch'il parer d'edere. Mcdcfimamence vna coCa, che fia da edere
hauuta fommamente cara, maggior ben farà in coloniche 1 haran (ola., che
in quelli, che 1 hauefleraccompagnata da altra cofa fimile, o vguale ad
eflà. Etdaquedo nafee, chenond vgualgadigo faria punito colui, che
caliate vn'occhio ad vn lufco, che non n hauefle fé non vno, et chilo cauairc
ad vno, ch'hauendogli ambidue, redatte 51 con l'altro libero. Da quai
propofitioni adùque,& da quai mezzi fi pollàn così nel fuadere,comc nel
dilluadercjtrar quali tutte le pruoue a far fede,habbum fin qui detto, et mofhato,
quanto occorrcua. (apo 8. De gli Stati, G ouerni delle Città 5 di
quante Jorti fieno ; et de ifim loro. R a tutte le cofe, ch'à bene in condrite
pervadere, et ottimamente configliare, come importanti fi ricercano;
grandifli ma, Se potentiffima fi dee (rimar, che fia la notitia, che fi
pofl'egga di tutte le forti di republichc, et ciuili amminidtarioni,* et il
conofeer ben di (tintamente le confuetudini, i collumi, eli in1 dittiti, i fini,
et le vtilità di ciafeheduna. conciofia co(a che tutti vniuerfalmente fi
muouauo, et perfuafi reftino dallo dello vtile ; et quel (blamente s'ha da
(limar'efler'vcilc, che può con3 fcruar lo (lato, et gouerno della cittì. Olita
di quello le detcrminarioni, e i decreti s'han da intendere elfcr quelli, che
nafeon dall'arbitrio, et dalla pronuntia di chi tenga la Comma potetti nel
gouerno ; che tanto è a dir, quanto, da chi fia principe 4 in elio.
Lcquali Comme poteftà, et principati Con tra di lor didimi fecondo le Cperie
delle republichc: poCcia che quede Con tali Cpetic, altrerante Corti
vengon necefiariamente ad efler le 5 Comme potedà. onde eflendo cinque le
Tpetic delle republichc, prio fine, fe non la cuftodia, et faluezza
fua. Può apparir dunque • f/ Primo libro. f j ^ue manifefto cfler
neceflàriamente di mcftieri d'hauer ben note, et ben diftintc quali
confuetudini, quali inftituti, quai cofiumi, et finalmente quali vtilità in
ciafcheduna fpetie di republica appropriatamente, Se peculiarmente, riguardino
il proprio fin di quella. percioche nelldettion, che s'ha quiui da
far delle cofe, s'had hauer Tempre riguardo, che a quel tal fine
fi 20 poftan come vtili riferire. Ma perche le fedi, et le
perfuafioni fi fanno, non folo con l'orationc argomentati ua> et fondata
in pruoue y ma ancor col mezo dell'oration morata, ch'indi tio dia de
i coftumi, Se delle qualità di colui, che parla: pofeia che il parer noi,
8e efler tenuti della tale, Se tal qualità, fuol tirar quei, ch'afcoltano
a creder alle parole noftre ; il che alhora fpetialmenteadiuienc, quando per
huom da bene, o per bencuol 1 1 loro ci facciam conofeere a l'vna cofa Se
l'altra; fa di meftier per quello, che noi beniflìmo potfediamo la notitia
de i coftumi, et qualità di ciafcheduna forte di republica: eflendo
neceflario, che in ciafcheduna di dette fpetie, fia principalmente
perfuafibile, et facihflìma ad elTcr creduta quella forte di coftumi,
che il ad efa fon proprij, et accommodati. Li quali coftumi facilmente ci
potran venire in cognitione per quelle medelime cofe, che de i diuerfi fini d
effe republichc, poco di fopra fi fon dichiarate, percioche tali i coftumi fi
moftran fuora, quali fon dentro l'elettioni, donde cflì nafeono; Se
l'elecrioni nan fem*3 prc riguardo, et riferimento ai fini. Habbiamo adunque
fin qui, quanto conuiene alla prefente occafione, et proponto, dichiarato
quai cofe habbi in da riguardare, Se da proporli dinanzi coloro, c'han da
fuader qualche cofa, o come futura, o 14 come prefente: et donde fien' per
poter trarfedi, Se pruoue a i J moftrar l'utile: Se parimente da quai vie,
Se in quai modo poffan diuenir copiofi nel dire intorno a quanto a ciafcheduna
fpe x6 ne di republica conuenir polla. Ma di tutto qucfto habbiara ne
i libri della Republica, come in luogo a cosi fatte materie proprio, con
più cV efquiuta dottrina, et con maggior diligenza fcritto. T>el G
enerDemoJlratiuo 5 et delle co/e lodeuolu et delle 'Vituperabili: et de i
luoghi da trottarle, £f da prosarle. g5/5 Ato nomai fine a quanto fi e dcrro
fin qui, regniremo al prefente di ragionare della uircù, et del vaio,
&inliemcmcnrcdeirhonefto,& del brutto: eflendo quelli i fini, et gli
("copi di coloro, che lodano, o biafmano. Ol tra che in vn mcdefimo tcpo
haremo dal far ciò quello di bene, che nel trattar di tai cole, potrà fard
ancor manifefto, da quai cofe potrem noi procacciarci là via d'eller tenuti di
quelle qualità, ch'ai buon coftumc importano ; in che confitte il fecondo
modo di far fede, con# ciofiacofa che da i medefimi luoghi, aiuti, et principi!
potrem far parer, cosi gli altri, come noi ftcflì tali per virtù, che ne
fac5 eia communemente tener degni di fede. Et perche in due modi fuole
fpeire volte accader d'hauere a lodar, non folamcntehuomini, o dì j, ma cofe
ancor priue d'anima, et qualche fpetie, o indiuiduo d'irrarionale animale
;& quelli modi fono,l'vno fenza che la neceffità di qualche caufa Io
ricerchi, fol per puro intertenimento, et diletto, et quali per palla,
tempo, &c per fcherzo j et l'altro perche qualche ragioneuol caula
n'inuiu, et ne tiri a farlo; farà ben fatto per quella ragione, che feguendofi
il medefimo modo, che fi è leguito nel trattato precederei s afiegnino
ptopofitioni, ch'a quel, che pur'hor fi e propolìo, 4 pollano euer vtili.
Noi dunque più toAo fcmplicemcnte, 6c quafi per via d eifempio, che
ùmilmente per via d 'efquilìte ragioni: ci ingegneremo di dir, quanto ci parrà,
che faccia a propofito inrorno a qucflo. L'honelìo dunque sintéde eflcr quello,
che eirendo eligibilper fe medefimo, hà ancor di più, che egli e parimente
per fe ilcllb lodcuolc. potiam'ancor dir, che egli fia quello, che elfendo
in fe bene, e ancor diletteuole in quanto che gli e bene. Hor'elTendo
l'honctlo fccódo che 1 habbiam deferitto, neceflariamente ne feguc, che la
virtù fia colk honelìa: pofcia eh elTendo ella bene, e ancor olrra ciò
cofa lodcuolc. et e la virtù per quel, che fuol communemente patere
9 i Jl Primo libro. " rere,vna parata, cV pronra habilità,
procaccia trice, Se confer* j uatrice di molti beni, potiam'ancor dir la
vinù efTer quella, che ne può render potenti, et pronti a giouare, Se a
beni fi care in molti commodi, e in molti beni.& è in Comma tra i
beni quella, che (com'in prouerbio fi luol dire) è in tutte le cofe
il 10 tutto. Parti, oucrofpcrie della virtù fon la Giù ftitia, la Fortezza!
IaTempcrantia,la Magnificentiaja Magnanimità,la Libera1 1 lira, la
Manfuctudinc, la Prudentia,la Sapicria. Tra lequali virtù fa necelfariamente di
mefticri, che quelle (ìano grandinarne reputate, lcquali fiano a benefitio
altrui vtiliflime fopra l'altre; hauendo noi già detto clfer la virtù
diCpolìrione, Se riabilita be1 1 neficariua per Tua natura. Se per quello i
giufti, e i forti, Cogliono cifer Copra tutti gli altri huomini communemenre
honorati, Se reputati: pcrochc la virtù di quelli ne i tempi di guerra,
Se la virtù di quelli in tempi di pace, reca grande vtile, Se gioua1 j
mento a gli huomini. La Liberalità doppo quefte è ancor'clla grandemente
honorata: peroche i liberali largamente Cpendono, ne (Un mai altercando, Se
contendendo per conto di danari, et d'hauere, di che per il più Con cupidi
communemenre gli 14 altri. La Giuftitia adunque s'hà da intender'eiler vna
virtù, mediante la quale ciaCcun poffiede le proprie coCe Cue, fecondo ij
ch'ordinano, Se diCpongon le leggi. Se l'ingiuftitia per il contrario induce,
Se è mezo a far pofleder l'altrui contrai ordin delle 1 6 medefime leggi.
La fortezza poi è vna virtù, per la quale s'induco n gli huomini a operar ne
gli vrgenti pericoli,che ne CopraftU no, ateioni valoroCe, Se congiunte
con 1 nonetto: oc ciò (ccódo, clic lor comandano,cV diCpongon le leggi:
come quelli, cheper 17 ral vinù fi rendono ad clfc obedienti, Se volonticr
Copgetti. M a la Timidirà, o codardia, che la vogliam chiamare^ dì
tiirto'I co18 trario a punto c mezo, Se cagione. La Tempera n ria ì vna
virtù* mediate la quale intorno alle CenCuali voluttà corp oreCjIn q Ue
|, la maniera fi edificano, Se fi diCpongono gli huomini, che
le dell'eleggi comandano. Se al contrario a pi^ro fi diCpongon
per 15) cauta, òc incitation dell'inrempcrantia. La Liberalità poi ci rende
dupoftì agiouarcon i danari, &Coirantie noftre, et a far benefitio a molti.
a cui fi com'è oppofta l'atiaritia, cosi ancor a falò re il contrario ci
diCpone, Se ci guida. La Magnanimità è virtù, che rende rhuomo parato, Se
pronto a far'altrui benefitio in H cofe 1 1 cofe grandi, Se
clumportin molto. et la mngnihccntia poi è virtù, ch'induce ancora ella, Se
difpone a operar cofe grandi,ma fol rifpetto alla larghezza delle fpeie,
ch'occorron farti in operar rai colc,(i che nello fpcnderc in cofe
importanti, moftra fempre grandezza. Li contranj poi di quelle due virtù fonala
pu filladi mi tà, *$ cV la Grettezza, et mefehinezza nella fpendere. La
prudentia è virtù del difcorfiuo intelletto, mediante laqualc diueniainohabiJi,
et potenti a prcnderm noi conlìglio d'intorno a quelle cole, ch'o buone, o
cattine, o vogliam dire, o cligi bili, o fchiuabili, habbiam raccontate, come
appartenenti alla felicità dell'huo14 mo. Ma della virtù, Se del vitio in
vniuerfale confiderà», et par ticolarmente poi delle parti, Se delle
fpetie loro, può, per quanto ricerca ilprefcntc proposto, fumarti a balìanza,
quanro fin M qui ti e detto. Di quelle cofe, che in quella materia reftan
ancor 16 da ditti, non farà difficile il determinare. pcrcioche primieramente
può cller manifclìo, chequelle cofe, che faranno prodottici, &c erTet trici
della virtù, necetiariamentc per riferirti all'honefto della virtù,farano
ancora etiehonefte,& parimcte faran tali ancor quelle,chc fegtiirino,
Se nafeerino dalla virtù: come fono 17 gli inditij delle virtù, Se
l'opere, Se Ieattioni di quelle.Et perche gli inditi], Se tutte quelle forti
di cofe, che fono o arcioni, o paffioni di cofa honefla, fon confeguentemente
cofe honefte, ne lcgue di neceffità, che tutte le cofe, che faranno opere, Se
effetti di fortezza, oueroinditij, et fegni di quella, o veramente cofe foftenute,&
patite fortemente, haran congiunto 1 nonetto feco. a.8 fi come l'haranno
ancora le cofe, che faranno inditij di giù fati a, 19 Se l'onere gin ftam
ente fatte, ma non già fbroar fi doueràno honefte le cole, che ti lòftengono,
et ti paton giuflamente. conciofiacofa che in quefta fola virtù della giù fu
ria, trà tutte l'altre virtù accalchi, che non fempre tia cofa honefla, et lodeuole
il patir guittamente, anzi nel riccuer punitione, Se galìigo, più brutta cofa,
vergognosi, Se biafmeuol s'hà da fumar che ua il riccio uerlo ciuflamcnte, che
ingiu/hmence. ma in tutte l'altre virtù,!! fomigìianreadiuiene, c'habbiam
deno auuenir nella Fortezza 4 J 1 Appreflb di quello tutte quelle cofe, a
cui e propoflo come premio l'honore, ti deono giudicar congiunte co
l'hone/to.& quelle parimente,Iequali pia tolto con I honore flelTo, che con
danari, o con iofiantie, logliono efTer premiate, et ricompenfare. Honefte,
Se lodeuoli ancor fono a noi quelle cofc,ch euendo per fe fteile
eligibili, noi più torto per curai d'altri, che di noi me33 definii procuriamo.
et traquelle cofe, che fono in lor natura femplieemente beni, quelle,
hanno in fe molto deH'honefto, le quali porta da canto l vtilità, ck
l'intereUe proprio, (blamente 34 per benefitio, ck vtilità della patria
operiarno. Pamapan parimente dell'honefto quei beni, che fon beni in
lornatura,& dal35 la natura dati. ck quelli ancora, i quali l'vfo, e'1
godimelo proprio di color, che gli polleggono, non riguardano: pofeiache
il riguardarlo farebbe inditio, che roller. per cagione, ck per vtil
de 36 gli ftclTì lor poiTclìori, tk non de gli altri. Lodeuoli ancoFa, et nonerti
s'han da ftimar, che Cittì più torto quei beni, chefi foglion concedere, tk
dare a gli huomini doppo la morte loro, che non fon quelli, che fi
concedon lormcnrre che fono in vira, peroche le cofe, che fi danno, ck gli
honori, che fi fanno a color, che fono ancora in vira, può più ageuolmenre
parer,chc fi dieno, et fi facciano in gracia loro, et perfol piacer ad erti, ck
non per 37 caufa della fola lor virrù, come ai già morti adiuiene. Hanno
ancor molto deH'honefto quelle opere, che fi fanno per caufa d'vtilc, tk
commodo, che ne venga ad alrri: come quelle, che in talguifa
minorapparenria tengon d'efter farrc per fola caufa di 38 femedefimc.
Mcdefimamcntc i nego ti j, le fatighe, cV le cure, ben maneggiate, et diligentemente
trattate, et condotte a fine, appartenenti ad altri, più torto, ch'a fe
Hello, non è dubio, ch'elle non habbian cogiunto molto del lodeuolc, tk
deH'honefto feco: ck fpecialmcntcfe tai negotij a perfonc appartengono,
dalle quali shabbia riceuuto benefitij: pcroche in tal calò la
giuftitia 35 così ricerca, et s'opera giuftamente in farlo, tkin fomma
rutti li benefitij, che fi fanno altrui, tengon fcco, inquanto rali,
parte 40 non piccola deH'honefto. Quelle cofe medefimamcnre,le cótrarie
delle quali foglion'indurrc alrrui adarroflìr per vergogna, fi poflono
ftimar honefte. percioche cofe brutte, et biafmeuoli fon quelle, le quali
quando diciamo,o facciamo,o già già fiam'in ani mo parati, de pronti per
dire, o per fare, ci foglion cagionar ve41 «econdia. fi come bene ef^rciTc
Saffo ne i fuoi verfi, quando haucndole detto Alceo, volontieri, o Saffo, ti
dirci alcune cole, ch'io hò nell'animo, fe la verecondia non mi ritcneffe,
ella rispondendo gli dine. Se ci foiTe caduto in animo, o Alceo, delìH ij
derio 6 o % JJeua Jsetprica a yirmotti^ dcrio di cofc, c'haueflcr
dellhonelto, et del ragioocaolc, Se non furte acconcia, Se parata la tua
lingua a dir cola brutta, Se degna di nprenlionc, certamente la verecondia
non uoccupatebbe, ne t accenderebbe il volto, ma fecuramente parlerei, non
hauen41 do ad»r cola, che non fuOegiufta. Oltra di quello quellccolc, che
loelion tener gli huomini in angofeia, Se angonia di mente, fc congiunto
con elTa non è timor, o tcrror d'animo ; li poùono Aimar cofe pendenti
dahonorc,& dahoncftà, folcndo vn tale accidente accafcarc aglihuomini
percagion di quella forte di 4 j beni,che riguardan la rcputationc,&
la gloria. Appretto di quefto quelle virtù, et lodeuoli operc,chcfon proprie di
(oggetti m lor natura più nobili, faran parimente ancora elle più
honeltc, Se più pregiate ; come fon (per esempio) quelle dell h 11 omo n44
fpetto a quelle delle Donne. et meddimamentc più congiunte con 1 nonetto
fon quelle virtù, che fon più atte ad eller godute. Se con diletto guftatc
da gli altri, che da color, che le poligono. Se per qudta ragione il giudo, et la
giuftitia fon giademen4 r te partecipi dell honefto. Maggiore fplendore ancora
d bonetti fi dee fornir, che fu nel prender vendetta de. fu 01 nemici,
che nel riconciliarfi pacificamente con efli.cooaoliacofa che da giùftitia
nafea il ricompenfar fecondo lcqUalità, Se .1 render pari a pari, et quel,
eh è giufto, fia parimente nonetto, oltra che cofa da huom forte è il non
cedere alle ingiuricnecome infenor loc*6 comberc alla forza d'altri. La
vittoria ancora,* ilpremio, che vincendo fi confeguifcc> fon cofc da
elTcr connumcrate tra le cofe honeue, comcqucllc, che quantunque al tro vtile.
o frutto no portin feco, fon nondimeno eligibili per fc ^edefiroe, et danno 47
infiemementeindino d ecceiro divina Olrra diqueitonguardan 1 nonetto quelle
cofe, che foglion cófcruar viua 1 altrui memoria: Se quanto più fono atte a
rarqucfto,tamo han maggiormente dell nonetto: ne è dubbio, che più non fiano
atte a tarlo 48 quelle,chc (èguitao 1 huomo doppo la morte ancora. I
arirocnte lodeuoli, et honefte fon quelle cofc, alle quali vien dietro ho49
nore, Se reputazione. Se quelle medefiinamentc fi fan tenere per 4^ «uiv,
v + ^orpn.ate lcaua i eccedon 1 altre nel maegiormentchoneltc, Spregiate,
ic qua» „ rtl r^, art >«. nenVr loro, Se più ancora, te noi foli forno,
che le polliamo. Jofcnche per tal cagione vengon a ferii più -o«W.,^ P«
con50 Vegnente pili atte a reftar ncU aUrui memoria. Le pozioni ancora, parche
crcfcan di degnici, fe più torto amene, che frurruofe fono: come quelle, che in
quella guifa fan maggiore ap51 parentia di liberalità. Apprcilo di ciaicheduna
nanoneancora, quelle cole, eh ad effa fon proprie, et peculiari, fi deono
(limar' 51 nonorate, Se habili a recar lode. Se parimente quelle, che
poflbno efier inditij di cofa, appretto di quefto, o di quel popolo lodata,
honefta, Se peculiarmente tenuta in pregio, come (per ef(empio) era cofa
honorata appreflb de i Lacedemoni il nodrire, Se conferuar lunga
capigliatura, eden do quefto vno inditio della libertà, et ingenuità loro, come
che 1 vlo del portar la chioma lunga, non laici agcuolmcnte
elfercitarealcuna operation ferui5 j le. Cofa medefimamente, che porti honeftà
feco,s ha da ftimar, che fia il non clfercitare alcun arte medianica, Se
illiberale, conciolìacofa che conuenga ali rinomo libero, Se ingcnuamete edu/4
cato, il non foftcntarla vita ad arbitrio d altri. Recherà giouamcnto ancora a
poter commodamente lodare, o bial mare, l'vfar di prender in luogo delle
cofe delle, quelle, che per vicinanza, Se fomighanza, che tengon con elle,
poflbn parer quelle delie mede firn c. comcauuerrebbe (per ch'empio) le
vn,chcfullè ne i pericoli cauto, Se auuertitamente animofo, futfc da noi chiamato
timido» et inlidiofo: Se vno ftolido,& mezo matto, chiamaflìmo femphee, Se
puro: Se il nome di manfueto delfinio /; a vno infenfaco. Medefimamente in
ciafcheduna cofa s hàda procurar, che di tutte quelle cofe, che
fcguitano,& s'accompagnano, Se van dietro a quella, fi prendi no in luogo d
ella quelle, che più ci paia che tornin bene, comefe (pereHempio) colui
che fufle iracondo, et quafi furibondo; nominafurno huomo femplice, Se li'oero:
Se ad vn faftoib, Se fupcrjf bo delti mo il nome di magnifico, et grane. Et
coloro oltra ciò, i quali ne gli eccelli, et ne gli eftremi, tra i quali
dan ripofte le virtù, traboccatfèro, potremo cofi nominare, comefe nei
mezi,cioé nelle virtù fi trouallero: comauuerria nomi57 nando l'audace forte,
et il prodigo liberale. Perciochc oltra ch'a i più degli huomini,come
impenti foghon communemen re parer virtù cofi fatti eccedi ; ci s aggiugne
quefto di più, che ingannando in vn certo modo co fallace fillogifmo fe
ftedi ; par loro, che ragione, Se caula ci fia, per laqual fi pollano
accettar j8 perhoncfti,& lodeuoli i già detti eccedi. Conciofiacofa
che s alcun'è* 6 2 Della Retorica d Arisxotelt^ s'alcun' c, che
doue non faccia dibifogno fi metta più di quel, che conuiene ardito in
pericolo,può vcrifimilméte parere, che molto più farebbe egli quefto
quando la ragione,& lhoncfto lo ricercate. Se fefenza diftintione
alcuna farà largo in donare il fuo à chiunque gli venga innanzi ; fi può
ftimar, che molto più fia per far quefto co gli amici fuoi,di maniera che
può parer vno eccedere, Se vno eilcreabondanre nella virtù, tf fare vtile,
et beneficio à tutti. Fà ben meflier d auuerrire, Se di confiderare alla
prefentia di quai per Ione fi prenda à lodar la perfona, ò la cofa, che noi
lodiamo: percioche fecondo che folcua dir Socrate, non è diflficil cofail lodar
gli Atheniefi,apprciTb de gli Athc60 niefi. Et fi dee parimente auuerrir, che
quelle cofe, che fon tenute honcfte,& lodeuoli appretto di quelli, ò di
quelli, dinanzi ài quali parliamo ; fiano accertate, Se lodare da noi,
come che veramente,& in lor natura fien tali, Se non perche eglino
cofi le (limino: comeauuerria (per ellcmpio) s'appreflb de'
Scithi,dc* Lacedemoni j,dc'Filofofi,ò d'altre narioni, ò profeflìoni occorrere
hau ere à lodar qualche cofa. doue (perbreuementedire ) bi fogna fempre
cercar di tirare all honefto timo quello, eh 'apprcifo di lor fia hauutoin
cóto,8c tenuto in pregio.il che non fa rà difficile, per la vicinanza, c
ha l'cifer tenuto in honor, co Thonetto. Oltra di quefto quelle cofe fi deono
come honcfte,& degne di lode fumarci le quali può parer, ch'alia cofa
lodata contengano, Se quafi come fuc appartengano. come faria ( perefTempio) fc
le fu 1 *" cofe degne de i fuoi maggiori, ò a i ratti di quelli
proportionate ; &cfe\c corri fpódeirero ad altre fuco loro proprie honorate
anioni: perochel'aggiugncrej&accumui lare honor fopra honore, molto
porta fcco d'honeftà, Se di felici cita. Ridonda ancor grandemente in lodeil
moftrar, che fuor di quello, ch'ordinariamente, Se vcriGmilmcntc fc ne
fune po6} tutoafpettare,habbia proceduto la cofa lodata in meglio,
come -auuerria (per elTcmpio) fc diceilìmo, che coftui nella buona,
Se profpera fortuna fua fi fece fempre conofeer per modefto,per
hu mano, et per moderato ; Se nell'acerba, et auucrfa, per magnanimo, Se
per co ftan te. ò fcd'vno, che fufteda balla condì tion falito à
ricchezze, Se à degniti, diceflìmo, chei fempre fulfediuenuto in miglior
coftumt, cV: più fempre affabile, Se più trattata bile. Se in quefto e fondato
il detto, che folcua vfare Ificratc di femeJl Primo libro. f j Ce
medefìmo dicendo; O da quai principi j à quai fu cecili fon io 6} venuto. Se
quell'epigramma medefimamente di colui, c haue* ua ottenuto vittoria nei
giuochi Olirrìpici, doueei dice; Sopra di quelle proprie fpalle hauendio
la celta grauej Se quel chclc66 gue. et quel detto parimente di Simonide, Il
padre, il marito, 6j Se li fratelli di cortei furon tiranni. Et perche la
lode principalmente alle operationi attribuir (idee; Se è proprio di
color,che operano virruofamentel operar con elcttione ; fa di
meftierper quello di tentare, Se di far forza Tempre di fare apparir,
chele operationi di colui, che noi lodiamo, iìano fiate fatte concon6%
figlio, et con elettione. Et vtile à farquefto farà il inoltrar, che 6?
fpeflè volte habbia egli fatte quelle lidie attioni. Onde fe ben vi fuircr
di quelle, che rullerò accadute fortuitamente, Se quafi lenza penfarui,
fatte à cafo ; farà non di mcn ben /atto, che con inoltrar, che fpeflo
fiano auucnutc, fi faccia apparir, che non à forte fiano accadute, ma con
elcttione. concionacofa che fc mol te,& tra di lor fomiglianti fi
moftreran tali attioni, chiaro indi7« rio farà,chc da virtù, et da elettion
fian nate. Hor non cllendo adunque altro la lode, che vna narratione, per
laqual fi moftra, Se fi fa conofeer la grandezza della virtù, fa di
meftieri, che le operationi fiano dimoftrate tali, che paia, chedalla
virtù nate 7 1 fiano. ma la celebratione s'intende eller delle opre ftefle
; Se le altre cofe, che di fuor fi prendono, Se fuor della ioltantia
dell'opre ; fi prendono in fede, Se in fegno della bontà delle opere;
co me fon ( per efiempio ) la nobiltà, et la buona educatone :
ed fendo verilimile,che da i buoni naicano,& deriuino i buoni;
Se che color, che con buona, Se honefta education nodriti, Se in72 (limiti
fono ; buoni, Se honefti parimente fiano. Pcrlaqualcoia celebrar fogliamo
altrui, hauendo principalmente rifpetro alle opere, Se alle attioni loro ;
ellcndo le opere quelle, che danno inditio de gli habiti, donde elle nafeono :
perciochc lodi fi darebbeno ancora à quelli, di cui non fi folTer vedute
le opere, fi credette, Se s'haucilenotitia, che in cfll fi troualfero
habiti 7 3 da operarle. La beatifìcation poi, Scia felicitatione, cioè il
predicare alcun per beato, Se il predicarlo per felice, fono quanto à fe
quali vna ftella cofa ; ma no già vna lleila cofa con le già dette, cioè con la
lode,& con la celebrationt. ma nel modo, che la felicità comprende, Se
ricerca la virtù ; cofi la felicitatione,ò ver predication del felice
ricerca, et comptende ambedue le già dec74 tecofe. Hanno il lodare, et il
fuader configliando, vna cena forma comune, nella quale in foftancia
conuengono: percioche quelle Ite Ile cofe, à cui fi cerca defortare,
indurre, ò ammonendo fuader ne i configli ; le medefime, trafpofro alquanto
l'orditi 7J della locutionc,diuengonoairegnationi di lode. Per laqual cola
hauendo noi già veduto quai cofe còuengon di fare a vo'huó da bene, Se
degno di lode, et qualmente diipofto,& qualificato debba eilere ;
tutto quello potremo mcdefimamente ammonédo, Se iuadendo dire ; tralportando
folo, in vn certo modo aljC quanto le parole, Se trafmutando l ordin della
locutione. come ( per eirempio ) fe diremo, Non conuenir gloriar/ì, ne
fondar la reputatione nei beni della fortuna j ma in quelli, che in
poter di fe ftcilo fono, cV dall'in tri nfcca virtù dependono ; verràqueflo
concerto in cotal modo efplicato,ad elfer vtile,& proportionato
all'ammonitione, Se alla fuafione. Se il medefimo diuerrà a lodare
accomodato, fe murate alquanto le parole diremo, che il tal non fi
gloriatane da più fi repuraua punroper i beni eli ci poilcdciia della
fortuna ; ma folo per quelli, che daii'intrinfcca 77 virtù fua depcndeuano.
Per laqualcofa quando vorrai lodare alcuno, andarai cólidcrando di che
cofa l'ammoni redi, de àche cofalo fuaderefti. Se all'incontro quando
ammonire, ò fuader lo vorrai, andarai vedendo che cola trouarfi porta
degna di lode in chi fi fia : folo il modo della locutioue, Se 1 ordin delle parole
farà contrario nelle due intentioni, Se efpreflìoni già
dette; efprimendofi 1 vna per modo di prohibire,& altrafenza cofi
fat 75 tomodo. Molti ancora di quelli aiuti in lodar iarà ben di viare,
iquali han forza d'amplificar le cofe. come le (per cileni pio) dicemmo,
che colini nella tale honorata attione, Se lodcuol fatto, fu folo à operarlo, ò
vero il primo di tutti gli altri, òalmen pochi hebbein fu a compagnia; Se
ch'egli fuil principaliflìmo. Se quello in lomma, à chi principalmente fi
debba attribuirei! fatto. perochc cofi fatte conditioni, Se circoltantic
portan icco molto dell'honefto,cV alleattioni nó piccolo fplendoreaggiun75
gono. Tra le quai circoftantie quella del tempo, Se quella dcU Poccafione,
fon di gran momento in amplificare/ Se fpetialmcn te quando le portan cofa
fuora di quello, che vcrifimilmen te px lo rena, che fi po celle
afpcccare. Medcfiraaracncc amplificatione importa Jl Primo libro. 6
j imporra nella virtuofa operacion d alcuno, il moftrar,
ch'egli molte voice nel medefimo, ò nel fimil fatto, il medefimo
valor habbia moftrato : pofeiachein quefla maniera, oltra ch'apparirà più
nonetto, Se più grande il fatto; farà ancor giudicato, che. non à cafo,ò per
fortuna (la accaduto, ma per maturo configlio, 8 1 et deliberata «lettion
di lui ftctTo, che l'hà operato. Verrà parimente ad amplificarfi il fatto
d'a!cuno,fe moltreremo,che per tal cagione fi lìa per honorarlo trouaro,
«Sé inftiruiro di nuouo alcun di quei premij,& legni d'honore, che
fogliono eccitar gli huomini à bene oprare, tic recar lor gloria, et honorara
fama. Si com'àdir, ch'egli lia flato il primo ad eifer con oration
publica celebrato; com auuennead Hippolocho: et fi come
Annodio, ÓVAriftogitone furono i primi, ài quali fu ifer drizzale fta tue
pu 83 bliche in honor loro. Et il medefimo fimilmentc s'hà da mten /
dere, et fi può confiderare, èV applicar nelle cofe, alle già dette, 84
contrarie; cioè à quelle che recan biafmo. Ma fela perfona ftef ' fa, di
cui prenderemo à parlare, non ci potrà co i fatti fuoi proprij abbondanrc
materia fom mini (tra re; potremo in tal cafo ridurlecolein comparatione,
ponendola in paragon con altri. fi come foleua fare Socrate ; come quello,
ch'era molto vfàto, et alTuefatto nel gener giudiciale. Maja ben di metti eri
di far la comparation con perfone d ìlluttre virtù, di chiara fama
: conciofiacoià che amplificata, Se ingrandita vien la virtù di colui, il
qual fia à quelli, che vircnofi lono, ancepofto. Et in vero non fenza
ragione in teruiene^fc hà luogo l'amplificacion, nel laudare; come quella,
che conulte in vn certo eccello: Se già fàppiamo, che l'eccedete hà in
apparentia in fe del lodeuole,& dell'honelto. Oride hafee chequando ben non
fi pollon le perfone, che lodiamo, paragonare, et comparar con perlone *
egregie, &di gran virtù; li doueran nondimcn porre in conparatione con
altre, quai fi voglian che fieno. pofciache pur che s'ecceda,parchc il
folo eccedere porti inditiodi vrrcù, et faccia 85? accrefeimento alla lode.
Hor per concludere, pare, che di tutte le fpetie, et forme d'argomentare, che
fon cornimi ni à tutti i generi delle orarioni, l'ampliflcation ita,
piùaccominodara, 6c 90 proportionata alle demoftratine. conciofiacofa clic
color, c hàn da lodare, pccndan di fuora, et come già manifefte
fuppongan le arcioni, c'han da narrare : di maniera che folo retta loro
di far con amplificatone apparir la grandezza d'effe, et Ihoneflà 51
che le portan feco. Gli elTempi poi fon molto accommodati et appropriati alle
orationi del gencr confultatiuo : perciochc dalle cole già meccite per il
Dallato, fogliamo decorrendo, Se 51 conictturando fargjuditio delle
future. Et gli Emhiniemi final mente pare, ch'allc gìudjciali
orationi.4>ccomroodino, et conuengan principalmente: ( pofciache le Gftfe,
che già fon pattate, cVhan giàhauuto effetto, pollonpriocipalmctc tra
tutte l'altre* maggiormente dar luogo al ccrcarfene la cagione,& ad
cifer demottrate con fillogifmo, non elfendo elle manifcftc, poi che caj$ dono
in controuerlìa. Daquai cole adunque depcndano, et qua(ì nafeano tutte (lì può
dir ) le lodi, et i biafmi : Se à qtiai cole parimente s'habbia da tener
l'occhio volendo lodare, ò biafmare : Se da quai propofitioni, come da luoghi,
fi poifan trar forme da celebrare, et innalzai lodando, ò da infamare, et imbruttir
vituperando ; può effei mani fedo per le cofe, che fi fon dette fin qui :
potendo facilmente per fe medelìme, dalle cofe, che dette fi fon della
lode* apparir note quelle ancora, che lor fon contrarie: pofciacjie dai
contrari j dcllalode, Se dellhoncfto, rcfulra, Se d crina il hi*fmo. (apo io.
T>el Gencr giudìciale : et prima dell'ingiurie, tfcaujè di quelle 5
{fàquai capi fi poffon ridurr^. Egueal prefente, che palliamo fecondo I
ordin'incpminciato, à dir dell accufationc, et della difenÀ ' (ione ; Se
alfegniamoda quante cofe, Se da quali s habbian da formare, et da
concluder in quelle, le argomcnutioni. Fà dunque di meftieri in quello
propoli to di vedere, Se di potlcder tre cofe. L vna e, per cacion di quali, Se
di quante cole far fogliano ingiuria gli huomini. La feconda è poi, di che
forte, Se come dilpoiti fien quelli, chela fanno. Se la terza gli
arTctti,& paflìon dell'animo, piò di lotto al Tuo luogo dichia i j
Jcremo. Reità al preferite che noi veggiamo per cagion diquai \ cofe j Se
in che maniera qualificati, et difpofti, et contea di. che ò 16 forte di
perfone, loglian fare ingiuria ^li huomini. Primieramente adunque voglio, che
distinguiamo, et moftriamo per \ .quai cofe conseguire,. et perquaifehiuarc,
fogliam noi rentaic, Se indurre l'animo a fare ingiuria: cirendo mani
fe&o, ch'a col uf chacenfa, appartien di cercare, Se di confiderarc
quali, Se quan tedi quelle cofe fi truouino nell auuerfano, lequali
appetir foglion rutti coloro, ch'ingiurian chiunque fia. &achi
difende, perii contrario, Quante, óc quali. di quefte cofe medefìru*
non 17 yi fi trottino. Dico adunque ohe tutte le cofe, che tutti gli
huo *ni ni fanno, parte fanno eglino non da fc ftcflì, nè per
arbitrio proprio ; Se parte da fc fteiìì per lor proprio arbitrio. Se di
quel le, che non da fc ftefli fanno, alcune ne fan per fortuna,&
altre fpinti da ncceflìtà. Se parimente tra quelle, che fan petneceflìtà,
alcu ne ne fan violentati da forza eilerna, et altre ipinti, et in io
dotti dalla natura. Onde ne fegue, chetarne' le cofe y che gli huomini,
non da fc ftcflì fanno, alcune da fortuna, altre da natura, Se altre finalmente
da violentia, Se da forza nafeono. Di ueJlecofepoiJcqualicglindafe Itéflfì
fanno, Se di cui elfi meefimi fon cagione,alcunc fan per confnetudine, et altre
per ap ai petito. et qucile ò per appetito rationale, ò per appetito non
ra rionale : eiTendo la volontà, rationale appetito di bene; po1 feiache
nell'uno e, eh altra cola voglia, che quella, che già da lui 13 (la
giudicata, et accettata lotto ragtó di bene. L'appetirò irrario nal poi fi
truoua eiTcr di due maniere, quello dell ira, et quello »4 della cupidità,
over della concupifeentia. Per laqual cofa neceflàriamente da quel, che fi e
detto fegue, che tutte le cofe, che fanno gli huomini, da vna di quelle
fette caufe per forza nafeano. cioè oda fortuna, òda violentia, ò da natura,
oda confiteli nuli ne-, ò da ragione, ò da ira, ò da cupidità. conciofiacofa
che il voler, con aggiugnere altre diuilìoni, diilingnerlcattioni dcll'huomo,
fecondo la ditlintion dell'età, de gli habiti, Se dell'altre códitioni, Se
qualità de gli huomini \ farebbe cofa fupcrHua, 16 Se fenza bifogno fatta.
Peroche fe a quelli, che fon ne gli anni giouenili pare, che fegua quella
proprietà d'eiferc iracondi, Se pieni Jl TrtmoTibro. 6
> pieni di cupidità ; non per quello dalla giouinezza fon
molli, Se indotti a far quel, che fanno: ma l'ira, et la cupidità fon
quel 17 le, che gli muouono. Ne parimente i ricchi, Se quelli, chefono
opprefli da poucrtà,fon dalle ricchczze,cV dalla pouertà fpm ti alle loro
attioni : ma per accidente accade, ch'i poueri per cagion delbifogno, et mancanza
loro, habbian cupidità di danari, dalia qual cupidità fon molli. &i ricchi
per la confidenza, c hanno di poter confegnir quel, che vogliono,
appetifconole Cofe più tolto voluttuofe, che necellarie. onde gli vni,
&gli altri di quelli vengono a operai e, non moflì, come da caufa, dalle
lor ricchezze, ò dalla pouerrà, ma dalle lor cupidità folamcn18 te. Non
altrimenti ancorai giù iti, Se gli ingiulti, Se tutti gli altri,
ch'operano fecondo qualc'habito, ò difpofition, che tengono : operano quel, che
operano per alcuna di quelle cagiòn già dette: operando elfi, ò per
ragione ò per affetto dell'appetito : quantunque alcuni di loro per collumi, Se
per affetti buoi ni, Se alcuni peri lor contrari j faccian le loro attioni. E x
beni vero ch'ad altre, Se altre forri d'habiti, accufano,&
confeguono parimente altre, Se altre delle già dette caufe. conciofiacofa
che l'ubico ch'vn fia temperato, gli confeguitin tal volta per
cagion di quella temperanza, intorno a i piaceri del fenfo opinioni,
Se appetiti honefti ; Se all'intemperato per il contrario intorno
à quelle {Ielle cofe, feguitano opinioni, Se cupidità contrarie. 3 o
La onde quelle così fatte diuifioni lì pollon ragioneuolmente la 3 1
feiarc indietro, Se Col balla quanto ad effe conlidcrare quali
del* ledette caufe, a quali conditioni, et qualità d'huomini, feguitij i
no Se vengan dietro. Però che fe ben per elTer Ih uomo ò bianco, ò negro, ò
grande, ò piccolo, ò d'altro limile accidente ; no per quello gli leguita
più l'vna, che l'alerà delle dette caufe delle attioni fue; nondimeno
percller egli ògiouine,ò vecchio, ò giù (lo, òingiulìo, ò limile, gran
diuerlìtà li croucrà per quello ncl3 3 le decce caufe, che lo feguiranno. Ec
per dir breuemente in tatti quelli accidenti, et in tutte quelle qualità, che
fono habili a variare, Se a far differenti i collumi nellhuomo, cometaria
lo (limarli ò ricco, ò pouero, ò in auucrfa, ò in profpera fortuna, ò
in fimil qualità,• in tutte (dico) li troucrà dirTercn ria nelle caii 3 4
fe deH'opcrare,che le feguiranno. Ma di quelle cole ragionerc3 j ino poi nel
proprio luogo loro. Se al preferire quel,che celia per’ora di dire, anderem
feguendo. Dalla forruna adunque fi dicon farli, et venir quelle cole, le quali
non han certa, et determinata caufa, et non per cagion d'elle fon fatte, ne
fempre, nè ii più delle volte, ne ordinariamente adiuengono : le quali
tutte conditioni poiron perla diffìnition della fortuna venir manife$7
(le. Dalla natura poi vcngono,& lì fan quelle cofe,la caufa delle quali è
in clic in trinfeca > et con ordin determinato le produce ; come quelle, che
ò fempre, ò il più delle volte nel medefi3 8 mo modo il veggon fatte, peroche
quanto a quelle cole, che nel la natura fuor della natura fi producono,
non conuiene al prelente noftro propofito fottilmente inueftigare, et moftrare,
fe da qualche potentia, òc forza della natura Iteflà, ò ver più
torto daqualch'altra cagion deriuino : folendo parer, chela
forruna 1$ ancora, cllcr ne polla (limata caufa. Da violcntiadircm poi farli
quelle cofe, lequali da quelli ItelTì, che le fanno, fon fatte có40 tra la lor
cupidità, cV contra i volere, et configlio loro. Per cófuetudin fidicon poi
farfi quelle, che per haucrle l'huomo fpef41 fi (Time volte fatte, le fa poi
quafi come arfu efatto in elle. Per difeorfo poi di ragione, cV per
configlio fi fan quelle cofe, dalle quali paia, che polla venir commodo,
Se vtilità, et che fondi quei beni, che già di fopra hauiamo allignati, ò
come h ni,ò come mezi indirizzati ai fini: et fi fanno ol tra ciò per cagione,
et 41 conintention di quel commodo, &di qucH'vtile. quello
dico, peroche alcune cofe parimente vtili, può accader, che
faccian gli intemperati; ma non già le fanno per cagione, &a fin
di auelivtile, ma per cagion più tolto di quella voluttà, et piacer 43
fen filale, che Ila congiunto con elle. Da animo accefo,& da ira 44
vengon fuor quelle attioni, che rieuardan vendetta : et è dipinta la vendetta
dal gaftigo,ò ver dalla puni rione, perciocheil gaItigo fi fa per caufa, ÓV per
vtil di colui che lo paté, et io riceue: doue che la vendetta fi cerca di
far per caufa, et fodisfattion di chi la fa, accioche egli col mezzo di
quella renda fatio il fuoani45 mo del danno d'altri. Ma intorno a quai cofe
confi Ila, et riabbia forza l'ira, potrà efler manifcfto per le cofe, che poi
al luogo 46 fuo tratteremo degli affetti, et paffion dell'animo. Per
cupidità finalmente fi fan quelle cofe, che fon voluttuofe, gioconde : et tra
cofi fatte cofe gioconde, fi deon connumerar le cofe fatte già confuete,&
per il lungo vfo diuenute quafi domeniche, Jl Primo Itbro. 7 / che,
Se naturali : pofeiache molcc cofe fono, ch'in lor natii» ra non recan
piacere, ne fon gioconde, eV nondimeno per il lungo vfo frequentate, con
diletto, Se con giocondità lì fanno. Per laqual cofa per raccogliere in
capf, quanto in quello proposto detto riabbiamo, tutte le cofe, che gli huomini
da loro Acuì fanno, o le fon buone, o vogliam dire vrili, o le appaion
tali, o uer fon gioconde, o gioconde appaiono. Et perche tutte le
cole, ch'eglino da loro flefli fanno, le fanno volontariamcnte,& (ponraneamente,
Se non fpontaneamente fan quelle, che non fan da loro fteilì, ne fegue da
quello, che tutte le cofe, che fpontaneamente, Se volontariamente fanno,
iianodi ncceilìtà buonc,o vo gliam dire, vtili, o appaiilcon tali, ouer
fian gioconde, o giocoeie appaiono. Et pongo io in numero frà i beni, Se fra
gli vtili, la libcratione, Se lo fchiuamento de i mali,& di
quclli,cnappaioa mali : Se parimente il riccuimento del manco malc,in
1uol;o del maggior male : emendo l vna, Se l'altra di quelle cofe in vn
certo modo, eligibilc. Et per la medefima ragione pógo in numero
fri lccofevoluttuofe, &c gioconde, la libcratione, et lo fchiuamento
delle cofe dolofe, Se molefte, Se di quelle, chappaton tali, Se il
riceuimento parimente del minor dolore, Se minor rooleflia » in luogo
della maggiore. Fa di mellieri adunque di cercar',& di veder quante,
et quali fiano le cofe vtili, et le gioconde. Et quato alle cofe vtili, già di
fopra nel trattar del gcner d ehb erati uo,fcn'e detto quantopuò ballare, onde
refta, che delle gioconde, Se Yoluttuofcal preien te ragioniamo. In che
far' debbiamo (limar, poter lediffinitioni, et deferittioni che daremo,
fodisfàre a ba-» ftanza,fe tutte quelle cofe, ch'occorreranno, faran non
efattamente efquifite, ne con ofeurità poco manifefle. Poniamo adun que
per hora non elfere altro la voluttà, ch'vn mouimento, Se titillamento
dell'animo, Se vn fubito ritorno, Se fcnfibilmcnte percettibile, a
reftaurara natura : Se il contrario di quello s ha da intendere ellèr la
molellia»'Del/a r R^tprtca dlA^> (apo il. Ideile co/e gioconde, ouer
voluttuoje \. per cagion delle quali,Joglion recar fi a fare ingiuria gli
huomim. et de i luoghi da tro~ uarle, da conojcerle, £f da moHrarle^j. Ssendo
adunque la voluttà della forte, c'habbiam dichiarato, già può per quello
apparir manifefto, che giocondo, et voluttuofo fi debba (limar
tutto quello, chefiaerfettiuo, et prodottiuo di tal crletto : et quello
per il contrario, ch o di quello (IciTo affetto faràdeftruggitiuo, o del
contrario d eflb, eflettiuo, doloralo, et inolefto potrà giudicarli. Laonde
nectllariamente ci fa per il più,giocódo il lentire appro(lìmarcia quello, chcci
paia, che ricerchi in noi la natura. et ciò maggiormente quando fi
fen ta,chc quelle cofe, ch'appetite in noi dalla natura fono,fianoarriuatea
confeguir la natura loro.Et le cófuetudini ancora>cV le co* fe per
lungo vfo confuere, ci fon gioconde : perochc quello, che per fiequcce
vfo,& lùga alUicfattion diuien cófueto, par che douenti colà quali
naturale,hauédo aliai fomiglianza la còfuctudine có la natura. cóciofiacofa che
appartenevo alla natura ilfemprc,& alla cófuetudin lo lpclfo,c'l
frequétameto, par che lo fpeffo,& la frequétia,sauuicini in vn certo modo
al fempre.Oltra di quello giocóde fon quelle cofc,che violctia alcuna nó
hàno feco, clTendo la violentia, 6c la forza, cornra la natura, et a
quella opponga. 8c per quello lenccelTìtà fon fempre noiofe, et molcltc, onde
non fenza ragion fi fuol dire, che tu tre le cofe, che h fanno impofte,
&c violentate da neceffità, han feco congiunra noia, de moleftia. Per
la qual cofa le cure, gli ftudij, lediligcntic, et gli sforzi, cV le
anfictà dell animo, fon tutte cofe moiette, come quelle, che fono in vn
certo modo necellìtate, Se violentate, fc ià per lungo codumc, et inuecchiata
confuetudinc, non fune huomo aliucfatto, et quali riabituato in clTe:
percioche in tal 4 cafo l'vfo, 6c la confuetudinc le farebbe parer
gioconde. Ma li contrari; d elle tengono in fe giocondità, et per
confeguente la pigriria, l'incrtia, lo fchiuamento della fatiga, la
negligentia, il lolazzo del giuoco, il npofo, il fonno, et limili, fon
tutte cofe > che Jl Primo libro. 7 3 che trà la gioconde
connunierar fi pollbno, non eiTendo in effe 7 forza di neceflìtà, che
moleftclc polla rendere. Ogni cofa anco* ra, di cui fi tenga cupidità, fi
può (limar gioconda, non ertendo altro la cupidità, ch'appetito di cofa
gioconda, o (oaue, che voI gliam dire. Delle quali cupidità, alcune fon'in noi
difgmntc da $ ragione, Se altre per il contrario congiunte con erta,
ditgiunte da ragion chiamo io quelle, che fenza difeorfo, ogiuditio di ragione,
Se fenza che laiiuerriamo, o confidcriamo, cadon nel defidcrio,& appetito
noftro. tali fon tutte quelle, che fon dette in noi cupidità di natura,
come eccitate» Se nate da quella : fi come lon quelle, ch'ai corpo dello per
fuo foftenta mento, Se bifogno, (penalmente appartengono : come a dir la lete,
et la fame, 10 che (on defidenj di nutrimento :& finalmente tutte le
altre cufuditàjche riguardan ciafcunaalrra fpctic di nutrimento.eHa r B^tprìca
d 9 miriti otelz^ che gioconde furono, fc doppo quelle, nel tempo, che fia
fegui16 to poi, qualche cola o honefta o vtile fi fia cófeguita. onde
non fenza ragione fuorviarli quel detto. Dolce cola è il ricordarli
dei palla ti pericoli, a chi già laluo fé ne vede fuora.cV quell'altro detto.
Doppo li (udori, &lcfatighe gran diletto fente qualunque molti mali
habbia già (offerto, et molte cofe habbia fatigofamentc fatto. et la ragion di
tutto quello nafee dall cfierc ancor cofa 17 dolce, cV gioconda il non
hauer'il male. Et quanto alla lperanza poi, quelle cofe nello fperarle ci
pollbn parer gioconde, le quali ci paia, che prefenti ci fu/Ter
grandemente o per dilettare, oper cflerc vtili, o che almen con l vtilità
che porraifero, non fullc cógiunta moleflia alcuna. et per dir breuemcnte,tutte
quelle cofe, che pofion prefenti recar diletto, et giocondità, potranno
per il iS più,& nel ricordarfenc, et nello fpcrarfi, parer gioconde.
Et per quella ragione l'accenderli d'ira porta giocondità, ÓV diletto fe19
co. fi come Homeronefà teftimoniaza poetizando dell'ira, quado dice, che l'ira
moltopiù dolce del mele, cade diftillando in20 noi. et quello auuienc perche
nelFun s'accende d'ira contra di chi polla egli (limar cofa imponibile il
far vendetta: et contra di quelli ancora, i quali potiamo (limar, che
molto d'autorità* et di poter ci auanzino, o non diueniamo irati, o molto
meno. Suole ancora alle ftellc cupidità, Se fpetialmentc fc molto vehementi
fono, feguitare, et cógiugneriì le voluttà rpercioche dando cógiunto con fi
fatte cupidirà,o la ricordanza d'haucr già cófeguito, et goduto quelIo,di che
fiam cupidi, ola fperanza d hauerlo a conseguire, veniamo a fentir lieti vna
certa voluttuofa dilettatane, come vediam (per elicili pio) aunenirca quelli,
ch'inMarnati da potente fcbre,ardon di lete, peroche ricordandoti
di quando han ben uro, o fperando, et difegnado d'hauer pur qualche volta
a bere, fentono in cosifatta imaginatione, piacere, Se diletto. Parimente
coloro, ch'ardentemente amano, ogni volta che ragionano, o ieri nono della
cofa amata, o altra cofa fanno, che riguardi, o habbia per oggetto quella,
fenton piacere, Se dilettationc. conciofiacoia che tenendo eflì in tutte quelle
cofe l'imaginatione, et la memoria nella cofa, ch'amano, paia loro 25
in clfcd hatierla allo (tciTblorfcnfo prefente. et per quello il più certo
principio d'inditio d'amore in tutti quelli, ch'amano, (i può (limar, che
fia, quando non lolo fenton diletto mentre che la cofa Jl Primo
libro. fa cofa amata ftàlor prefcnte, ma ancor nell'adentia di quella» conferuandola
nella memoria, l'amano, et piacer fcnton nel ricordarli di quella : et per
confeguenreallhor fi può dir, chadamar comincino, quando per non lhauer
prefenrc s'affliggono, 14 8c molema fcntono. Oltra di quello nel mczo dei
pianti, cV dei lamenti fteflì, fuol parimente vna certa voluttà
mcfcolarfi: perciochc il dolore, et la triftezza quiui nafcc per la mancanza
della cola, della cui perdita piangiamo, et ci lamentiamo, cornea dir
della morte d'alcuna perfonacara : et il piacer nafcc dal ricordarci, et imaginarci
la prefentia di quella, che ce la fa parer quali hauer dinanzi a gli occhi,
rapprefentàdocifi come prefenti le tali, cV le tali cole, che ella già fatte
haueua,& particolarmente ogni qualità fua, et tale in fomma a punto, quale
era fatai ta. Onde fu ragioncuolmcnte detto, Cosi parlato hauendo, fece 16
in tutti nafecre vn defiderio di piangere. Medcfimamcnte il far vendetta
contra de' fuoi nemici, ha congiunto fcco piacere, et giocondità : peroche
quelle cofe, che in non confeguirfi recati moleftia, vengon, fele fi
confeguifeono a parer gioconde, onde eflTendo fuor di modo molefto a
quelli, che fon prefi dall'ira, il non vendicarti, vengon, non folo in far
la vendetta a fentir pia27 cere,ma ancor nello fperarla. Il vincer parimente è
cofa gioconda, et non folo a quelli, che fon per propria condition loro, cótcntiofi,
et auidi di vittoria, et di foprauanzarc, ma a tutti gli huomini
comunemente, conciofiacofa che nel vincerli venga a generare in chi vince,
vn certo concetto, et vna certa imaginatione, et opinion d'eccedere,di che
tutti gli huomini,chi più, et chi manco, fon vaghi, cV in vn certo modo per
natura cupidi. aS Etdaqueftoeirer cofa gioconda il vincere, nafee
confeguenre* mente di ncceflìtà, che tutte quelle forti di giuochi, rechin
diletto, i quali han feco congiunta contcntiofa altercatione, emùlatione, et gara,
come a dir quelli, c'hanno in fe vna certa fomiglianza di contefa, et di pugna
: et quelli parimente, ne i quali con harmonia di muficali inftromenti fi
gareggia, o con difpu19 tatiue dubitationi, et queftiqni fi contende, peroche
in cosi fatti giuochi accade fpefle volte, che fi vinca, la fpcranza della
qual vittoria c gioconda, onde nel giuocho parimente de i dadi, della
palla, delle tauole, degli fcacchi, et umili, fi come vna fpetie di
contention vi fi truoua, così ancor piacere, et giocondità vi fi K ij
gufta. Se nei giuochi oltra.ciò più fatigofi,& ferij,& chchan
piò del graue,& cÌcH'ingcnuo,il medefimo parimele
adiuienc.perciò che alcuni di lor fi redon diletteuoli per 1' vfo,&
per 1 allucfattion, che fi faccia in elfi, et altri dal principio per loro
ideili lon gioco di,comc fon le caccie có cani, et tutte l'altre foni di
cacciare, de porre infidie, et perfecutioni a fiere: pofciache douuque fi
truoua contcntionc, e con rialto, quiui è forza, che parimente vi Ci 3 1
porta trouar vittoria. Et per quefto il trattar liti in guidino, et le di
fruì tat ioni piene di con n onci ha, portan feco piacere, et giocondità a
quelli ch'ofonafiuefatti,& confueti in eirc,o fi lenton 32 potenti, et
habili a valere in quelle. Appn Ilo di quefto 1 honorc, et la buona reputatone,
che s'habbia di noi, li dcono tra le cofe grandemente gioconde
connumerare,per l'immaginai ione* et opinion, che da quefto ne viene a ciafcuno
d'efier virtuofo, che gli impru* 5 j denti, et più tofto finalmente i
molti, ch'i pochi : ellcndo molto più verifimilc, che fien per giudicare, et dire
il vero qucfti ta$6 li, che noi habbiam nominati, che i lor contrarij.
perciochedi coloro, che noi in niun conto, et in nell'una ftima teniamo,
come fon fanciulli, o fiere, o limili, poco fogliam curare, o auuertir per le
ftcftb honore alcun, che ci facciano,o qual li voglia opinione, et rifpetto,
chabbian di noi, dico per fe fteifo,pcrciòche può accadere, che per cagion
di qualche altro interelTe,che vi fia 17 congiunto, fi tenga di tal cofa
conto, &c piacer fe ne prenda. Gli amici ancora fon da clTcr pofti in
numero con le cofe gioconde, effondo gioconda cofa in fe ftcftà l amare:
pofeiache neflun fi vede eller (per ch'empio) amator del vino, che nel vino non
lenta 3$ diletto. Dall'altra parte èancor cola gioconda l cHcr'amato: percioche,
quefto ancor vien'a generar in noi immaginatone, et credenza, che in noi fia
qualche virtù, et qualche bene, ch'attragga afe queir araorc> della qual
credenza comunemente tutti gli huoJl V rimo libro. 77 gli huomini,
che non fono infenfati, fon cupidi. cVgià fi e detticene 1 ellèr'amato cófifte
in efTer'hauuro caro per loia cagion di 1 9 le ltello, Se non per cagion
di chi ama. Oltra di quello gioconda, cola è 1 cllere limi uro in n in mi
rat ione, re can do giocondi tà,& di40 letro 1 "e Ili-re honorato. et ladulation
parimente è dolce, et gioconda cola, Se per confeguentc gli adulatori ancora,
concioliacofa che color, ch'adulano, tengano apparentia d ammiratori, ò
in vn altra iìcila qualità congiunte, pare, che in quella natura tra di lor con
uengano ; di qui e*, che tutte quelle cofe, che hanno in lor cofi fatto
congiugnimelo di fomigliaza,fono l'vna all'altra per il più giocóde: com a
dir 1 h uomo ali h nomo, il cauallo al cauallo,i gioueni a i
gioueni,& |4 limili. Onde fon nati quei triti (fi mi prouerbij, il
Coerano gode di dar col Cocrano j il limile appctifee, et ama il fuo
limile $ l'vna fiera fegue,& conofee l'altra ; La (la fempre con la et
Cornacchia, et altriprouerbij limili. Et perche à cia(cheduno fon gioconde
quelle cofe, c'han qualche congiuntone, (omiglianza, et conformità con elTo,*
et ciafeheduno ha cotali condirioni principalmente con fcco ftcflb ; ne fegue
neceilàriamente, che tutti gli huomini ò più, ò meno > fian cari, 8c giocondi
a fc fteffi, et amatori di (emedefimi: verificandoti, et hauendo luogo in ciTì
tutte ledette conditioni, et modi di con* ;6 giugnimento, principalmente
in rifpetto di lor medefimi. et da quello cfler tutti amatori di fc
fteffi, nafee ncce(fariamentc,che a tutti parimente paion gioconde le
proprie cofe loro : cornea 57 dire i propri) lor fatti, le proprie loro
drationi, Se limili. Er da quefto nafee, che per il più lògliono gli
huomini elTer amatori degli adulatori, et degli amanti, ò innamoracene
vogliam dij8 re; Se parimente auidi d'etfère honorati; &vehcmenti ama5 9
tori de i lor figli ; ellcndo i figli proprie opere loro. Medelìma60 mente
gioconda cofa è il dar perfezione, Se por l'vhima mano aimpreie, et cole
incominciate da altri, &poi lafciate imperfette : parendo a quei che lo
fanno, eh in quella guifa vengano 61 a douentar quelle tai cofe, come
opere lor proprie. Oltra di quefto eflendo il regnare, ò vero il dominar,
cofa giocondilTìma per Aia natura, vien confeguentemente ad cilèr cofa
giocon dal clferhauuto per faggio, et per fapientc: pofciac'.e l
eifer dotato di fapientia, ha in Ce del regio, et ticn
grandapparcntia di principato: non e (fendo altro la fapientia,
chefeientia, Se co gnition di molte cofe egregie, nobili, Se piene d
arnmirationc. 61 Etpcrche gli nomini per il più fon cupidi d'honore; ne
fegue necellariamente, che nell ammonir, Se correggere gli altri, 6}
Se inoltrar loro i loro errori, fi fenta dilettatione. Appretto di quefto
porta aU'huomo giocondità l'occuparli, Se confumare il tempo in quelle attioni,
Se nello ftudio di quelle cofe, doue egli in fe ftellb fi perfuade
d'eccedere, et di valer molto ; li come dice Euripide con quefte
parore,Ciafcun fi vede elfer frequente, Se follecito, &la maggior parte del
giorno alfegna, et (pende in quelle cofe, nellequali fi Itima eccellerne, et pare
afe 64 ftellb di valere aliai. Medelimamente perche il giuoco, ci follazzo,
et ogni forte di rjpofo, Se di relallàtione, fon da porre in numero tra le
cofe gioconde, &il rifo parimente; ne feguedi neceflìtà, che gioconde
faranno ancor tutte le cofe fefteuoli, Se atte, Se accommodate a muouer
rifo, ò huomini che le fi fieno, o in detti, ò in fatti, che le confiftano.
Ma de i ridicoli fi è trattato, et detcrminato appartatamente come in p.opno
luogo, *S nei Libri della Poetica. Et tanto balli hauer-dìn qui detto
delle cofe gioconde, delle noiofe,dolorofe, Se moleftc poi, fi
potrà 66 facilmente da i contrarij di queftehauer notitia. Tali
adunque quali habbiam dette, fon le cofe, per cagion delle quali
foghont gli huomini offendere, Se fare ingiuria'. / o tDella r
R(torica dlArì8otele^> (apo 12. Quali Jogliono ejftr quelli, che volentieri
fanno ingiuria, quelli, cantra de i quali fi voglia farcs. Eguita al
preferite, che noi diciamo, qualmente iicn difpolli, et condmonati quelli,
che fanno ingiurie, Se conerà qual forte, Se condition d hiio mini fi
foghan fare. Quanto dunque a quei, che le fanno, allhor primieramente
s'inducono gli huomini a fare ingiuria, quando penfan, che la colà in
felia poffibile, et a loro (ledi, che la machinano, poiTibile a tiuicire.
Se parimente s'eglino (limano, ò fperano, eh il fatto rubbia da palla re
occulto; ò quando pur venga a luce, non n'habbian da eiTer puniti, Se da
patir pena ; ò fe pur n habbian d'hauer punitione, ila per ciTer nondimen
la pena, e'1 galli go minor del guadagno, Se del commodo, che dalla fatta
ingiuria fiaper venirne, òa loro fletti, òa perfone, che fian lor
care. Se delle quali ad elTe lìnterelio, Se la cura tocchi. Quai
fian poi le cofe, che poflbno apparir poffi bili, Se quali
impolTib.li, li dirà, Se fi dichiarerà, et saflegneran di poi al fuo
proprio luo go, per ciTcr quella, vna delle cole communi a tutte le parti,
et generi di quell'arte della Retorica. Hor quanto a quelli, che fian per
confidare, Se (cimar di potere ingiuriando palTare, impuniti, Se fchiuarei!
gaftigo ; tali principalmente fon quelli, che fon potenti nel dire,
&cono(con di valer aliai con la loro eloquenza. et quelli parimente,
che fono atriui, et piatichi nelle attioni del mondo, et elperimcntati
nelle liti, Se nelleagitationi delle caufe, Se delle controuerfie ellercirati. Et
tali ancor faranno fe molti amici, et la grafia di molti haranno.& fc faranno
abbondanti di ricchezze. Et quella confidenza auuerrà lor principalmenrc,
fe conofeerano, che le dette condiriom, fi truouino in elfi proprij : Se
quando in lor non fiano, almen che le fiano in amici loro, ò in miniilri
loro, ò in compagni nelle ingiurie, che fian per fare. Tuttequellc
condiriom adunque polTon recare a gli huomini poflìbilirà di fare, Se di
celar i ingiù jia, Se di fchiuar, quando la non fi celi, il gaftigo, et la
punì rione. Se Jl Primo libro. et i % ne. Se il medefimo potranno
fperare ancora, fe faranno amici a gli ftcflì ingiuriati, o a i giudici,
dinanzi a i quali habbiadapen5 der la cauta loro, percioche gli amici non fi
guardando, Se non fofpettando, fi rendon come men cauti, più facili ad
effere ingin riati. Se oltra ciò fi può fpcrar, che per clFeramici, fiano
per voler terminarla cauli dellla ricciiuta ingiuria, più rollo per via
di 10 riconciliatione, che per viad'accufa, Se digiuditio. Se
quanta a i giudici fi dee credere, ch'eflendo lor amici, ccrchcran di gratificar
fi loro in tutto quel, chepoflono, Se per confcgucntc laranno, o totalmente per
liberargli, et lalciargli impuniti, o al1 1 men per dar piccolo, Se leggicr
gaftigo. Quanto poi al confidar di poter relhr'occulto, Se ignoto l'auttor
dell'ingiuria* quelli primicramcntcpollono ciò fperare, i quali aquella
forte d'ingiuria, che fanno, pollbn parere inhabili, Se poco proportionati, et tali,
che da elfi afpcttar non fi douclic mai. come faria (per ch'empio) ch vna
pedona inferma, Se di dcbol forza, fi fuflc pofta a dar delle battiture, o
delle ferite ad vno, che molto più gagliardo fufle : ouer eh' vno,
chefuilc pouero di robba, o brutto della perfona, hauelTc commetto
adulterio con bella, et il nobildonna. Pongono ancora Ilare occulte le
ingiurie, et i delitti, quando accafean farli intorno a cofe, che molto alla
libera, Se alla lcoperta efpofte dinanzi a gli occhi di tutti ftano. perciòche per
non crederli, ch'alcun mai ardilfe di por le mani in elTè, fon 13 per
quello con minor cura,& diligentia cuftodite. Et il medefimo ancor lì può
dire, quando le cole fulferdi tanta grandezza, Se quantità, et di tal
qualità, che non lì douelTefofpicar mai, che in animo d'alcun cadclfe
intention di commetter delitto in elle, Se non fi fapelTe, ch'alcun
l'haiieHe in fimtl cofa comincilo mai. nel qual cafo non è dubio,che tai
cofenon veniilero ad eller manco 14 guardate,^ molto alla fecurarcnute.
conciofiacola che tutti gli huomini comunemente, fi còme di quelle forti
d'infirmità temono, Se da ciré fi guardano, che foglion frequentemente accafcare,&
di quelle perii contrario non rengon cura,lequali non fi sà, ch'ad alcun
fiano accadute, così parimente da quelle forti d'ingiurie, Se d ofTefc, fi
rcndon cauti, et con diligentia procuran di cuftodirfi, che per il più fi
foglion fare,& più vfirate fono, Se a quelle, che nelfuno è c habbia
commclfo mai, non tengon i; l'occhio. Mcdcfimamente s inducon'a fare
ingiuria con la SPERANZA T>ella lirica d* Jlrtttotelz^j panna di
rcftare occulti, coloro,i quali non hanno alcun nemico, 16 et color
parimene che molti nemici tengono; percioche gli vniprendon confidentiadi
pacare occulti, come quelli, che nó temon d ellerc olTeruati, 6c in
fofpetto hauuti : et gli altri, cioè quelli, c'han molti nemici, (limano
ancoreflì di re Ita re afcod,& di non ditienir palelì : per nó parer
verifimile, eh clfendo lofpetti, et del continuo olleruati, fi mettano a far
Tintinna quali 17 eh alla feoperta. oltra chcpolfon difegnar d'hauer poi
quella difendone in dire, che tapédo d'elfere hauuti in fofpetto, et che facilmente
li farebbe attribuita la cofa a loro, non lì farebber mai 1 8 melTi a
tentar vi! fatto tale. Tengono ancora, in vn certo modo confidenza di non
elfer difeopcrti autori dell'ingiuria coloro, c hanno occadonc, et coramoduà
d afconderil fatto, et a cuinó i manca ccmpo,o luogo,o altro modo, óc via
di reftar'occulti. Si foghon mededmamente indurre a fare ingiuria coloro,
li quali non riufeendo loro di celarci delitto, pollòno al meno fperar
di fchiuare, ck di tor via da fe,che la cauta vada in giudicio, o veramente
di poter prolungarla, et inandarla molto tempo in lun10 go, ouer finalmente di
poter corromper i giudici. Etilmedcdmo fi dee (cimar di quelli, i quali
fapendo, che fc punition farà pur data loro, quella harà da eder' in
danari, polforVconfidarc, o di liberarfcne, 6c redime alioluri, o di molto
differire, et roan^ dare il pagamento in lunga, o Veramente in tanta
pouertà (i vegai gono, che nulla da retato lor più, che perdere. Difpodrion parimente
atta a ingiuriare, fi dee itimarc elfcre in coloro, ai quali per Ungi uria
che fanno, iìa per venire il guadagno, c'1 commodo o certo, o grande, o
propinquo» Óc il gaftigo per il contrario,o piccolo, o cìubiofo, et incerto, o
lontano, cioè con djlarion di. 11 tempo. et maggiormente aucrrà qucfto
fela punitione, ci ga*« (ìigo, tiicna mai per venitnev quanto (i voglia
grande clic liajarà (empre minor dcll'ttile, et del còmodo» che iìa per recar 1
in-. 13 giuria, come par chegli adiuenga nella Tirannide.
Soglion'aa-s cor'wdurlì a fare ingiuria quelli, a cui per 1 ingiuria, che
fian per fare, dd per venite vtile, et guadagno, et il galhgo, che ne
pollano haucrc, altro non damper importare, che .infardi » oc* ignomu, 24
ma fola; et quelli per il contrario ancora, i quali veggono, che dall'
ingiuria, che facciano» da lor per multar lode, honore, &. riputatone,
comcauucrria (per cecropio) le con l'ingiuria fuilc congiunto fi
Primo libro • 8 $ congiunto il vendicarli deH'orFcfe fatte al padre, o
alla madre, (i coro auuenne a Zenonc;& dall'altro canto la punitione,
che fia per fcguimc, habbia da cller o di danari, o d efilio, o d
altra t$ colatale, percioche gli vni, et gli altri di coftoro, et nell'vno,
ffc òc nell'altro dei due detti contrari) modi difpofti, logliono indurli
a fare ingiuria; ma non nelle m ed edm e pedone, et nella medelìma forte
d'huomini ; ma più torto in perfone di coftumi, cV di qualità contrarie, haran
luogo i due detti contrarij z6 effetti. S'inducon parimente, et s'all'cairano
a fare ingiuria co loro, che hauendo molt altrcvolte ingiuriato, o non
iono (lari difeoperti, ne conolciuti mai, o non n hanno hauuto gartigo,
ti 17 né punitione alcuna. 8c color medefimamenrc, i quali hauendo molte
volte tentato di farl'ingiuria,non è mai luccelfà lor la cofa felicemente,
percioche fi trouano alcuni, ch'in querto fatto dell ingiuriare, foglion far,
come farfi fuol nelle cofe dellaguerra, doue (e ben più volte fi e riccuuto
danno nella battagliaci ritorna nondimcn con nuoua fperanza a tentare altra
voi 18 ta il fatto d'arme. Et coloro ancora agcuolmentc fi difpongono a
fare ingiuria, a cui dal farla il piacere, c i diletto ne feguc alhorain
fatto ; et la moleftia, chen'habbia loro a venire, fia per fegu ir molto
doppo: o veramente il guadagno fia per eilèr pretto, Se prefente, et la
punition neirauucnir molto tarda. et coli fattamente difpoftì fono gli
incontinenti: potendo l'incontincntia hauer luogo intorno a tutte quelle cole,
che fon fotto19 pofte ali humano appetito. Et per il contrario dall'altra
parte poi, fogliono indurli a fare ingiuria coloro,a i quali la
moleftia, o la pena, che fia per feguirne loro, fia percllcr prefente, et per pall'ar
tofto ; 6c il guadagno, e 1 diletto fian, per fucceder doppo, et per durare
aliai, pcrochc li continenti, 6c i prudenti, co30 li fatti, Se in quella guila
difpofti appaiono. Quelli ancora a ingiuriar volunricr li recano, i quali
fi perfuadon di poter parer poi d hauerlo fatto ò a cafo, o sforzati da
ncceflità,ò pei impeto di natura, o per confuetudine, et d'hauerlo fatto in
lomma 3 1 più torto per errore, che per mahtia, Se per far ingiù ria. Et
quel li parimente, che confidan d'ottener, che la caula habbia ad e(fcre
in giuditio trattata più tofto con difereta equità, che con ri31 gorofa gi urti
ria. Et quelli medefimamentc, i quali fon bilo3 3 gnofi. ma di due maniere
bifognofi fi foglion rrouare gl’uomini, conciofiacofa che portano efler
bifognofì, ò delle cofe ftelTe neceilarie, come fono i poueri, o mendici,
chevogliam dire,* o veramenre delle cofe fuperflue, Se foprabondanti, et 14
quefti fono i ricchi. Due altre forti ancora.dhuomini tradilor contrarie,
polTon facilmente difporfi a fare ingiuria : cioc quelli, che fon tenuti,
communcmcntc in buoniflima opinione, Se di chiara fama : Se quelli per il
contrario, che fono in mal concetto d ognvno,& quali tenuti infami. gli vni
per checonfidon, che nelTun fia mai per attribuir quel fatto a loro; et quefti altri
perche non e reftato lor punto di buona fama, o di buona }f opinion da
perdere. Nella maniera dunque, chabbiatn detto, fon difpofti,&
qualificati quelli, che foglion tentare, et metterli a fare ingiuria. contra di
color poi la fmno, che tali fono, et tali qualità, et condition ritengono,
quali noi hora diremo. 1 6 Primieramente adunque fogliono elfere
ingiuriati quelli, c'han no,o pofleggon quelle cole, di cui han defidcrio,
et bifogno quei, che gli ingiuriano : o riguardi cotal bilogno le cofe nccertaricaUa
vita, o le fuperflue, Se foprabbondanti, o il godimc|7 mento delle dclitiofe,
Se voluttuofe. Faffi oltraquefto ingiuria a quei, che fon di lontan paefe
; Se a qucHi, che ci fon d'appreffo. peroche le cofe di quefti fono in>
pronto, et facili ad ctter prettamente tolte, &ariceuere fpeditamentc
offefa. et quanto a quelli, fi può creder, che la vendetta, Se la
punition, che ce ne lia per venire, fia per efter tarda, et per andare in
lunga : come vediamo auuenirein coloro, che predando, fan danno ai
Carta 3% ginefi. Sono ancor efpofti alle ingiurie quelli, che non fon
cau ti in guardar/i, ne diligenti nel cuftodirfi,• ma liberi,&
femplici fono, Se facili a creder ciò ch'è detto loro : perciochc cotal
forte d'h uomini facil cofa c d'offènder copertamente, Se
celatamcnte. $9 Parimente vi fono efpofti i pufillanimi, Se quei, che tono
in vna certa vile, Se negligente inertia inuolti. peroche eftendo cofa
da folleciti, Se da diligenti il chiamare, Se agitar caufe in giuditio
; non fi hà da temere, che coftoro, com'amici dell'odo, lo faccia* 4°
no. Son atti ancora ad erter offefe le perfone di natura vereconde, Se gelofe
dell honor loro : perciochc di coli fatta folte d huo mini, non foglion
volontier volere eflcrvifti contender in giudi41
tiopercontodiguadagnOjodirobba. Mede/Imamente fono in pericol deflcre
ingiuriati coloro, li quali hajiendo da molti riceuuta ; ; Sf unto
altre Tolte ingiuria, non han mai per alcuna via tentato di tifencirfene. onde
vengon ad clter quelli tali, (fecondo che (1 42 fuol dir inprouerbio)
preda dei Mifij. Sogliono ancora gli huoraini indurfi ageuolmentc a
ingiuriar cofi quelli, à cui non hanno mai altra volta fatta ingiuria,
come ancor quelli, che fo43 no flati da loro molte altre volte ingiuriati,
conciofiacofa che coli gli vni, come gli altri fiano incauti, Se
negligenti nel guardacene : gli vni per che non elfendo flati altra volta da
coloro ofte(i,fe ne ftan lecuri fcnzafofpctto alcuno : et gli altri per
che fumando lor fatij dell'altre ingiurie fatte, non temon, che
fian, 44 per farne più. In pericolo ancoi d'cllere ingiuriati fi
truouan quelli, che fon communemente in mala opinione, et in mala fama, et
atti per la lor malavita ad elici lor facilmente trottate cu 45 lumnie, o
delitti addolìo. peraoche coli fatti huomini non fi rcchcrebbcno a voler
chiamare in giuditio alcuno, perla tema c'harebber di rauuolgerfi
d'intorno a Giudici. et quando pur lo facclTero non pcrfuaderebber,nc
farebbe datafede,ò orecchio alle lor parole. Et il medefimo fi può fumare
ancor di quelli, 46 che ò odiati, o inuidiati communemente fono. Ci
fogliamo lafeiare ancor facilmente indurre a ingiuriar coloro, nei quali
ci fi porge occafionc di feufare, et colorire il fatto, per haucr
già o eglino fteflì, ò i loranteccffoti, o gli amici loto, offefo, o tentato,
et fatto opra d offendere o noi (tedi, o alcun de i noftri prò genitori, o
perfona in fomma,il cui interefTe,& la cui falutc appartenelle, et toccaife
a noi. perche ( come fi fuol di re inpro47 uerbio ) fola la malitia ha mellier
di feufa. Appretto di quello ci lafcian facilmente tirare a offender
coloro, che ci tengon per amici : et quei parimente, che noi habbiam per
nemici : conciofiacofa che contra quelli ci fi renda l imprefa facile; et con48
tra quefti ci fi renda dolce, et piena di diletto. Sono efpofti ancora
alle ingiurie quelli, chefonpriui damici in tutto; et quelli non manco ancora,
i quali non han potentia,o valore alcuno» ne in dir, ne in fare peroche quefti
tali, o non fi rifentono, ne accula, o querela in giuditio pongono o
per via di nconciliation la terminano; ofeguendo pur la cauta, 45
reità lor finalmente imperfetta, cV rielce vana. Quelli ancora par, che dieno
altrui animo di far loro ingiuria ; a i quali non è vtile,nè mette conto
di confumar tempo in afpettarjch'o in giuditio la caufa fi termini, o che
con I'efecution della giudicata pena, fia lor ricompenfato, et fodis fatto il
danno. et tali fon (per elfcmpio) i fore(tieri,& quelli, che fi
guadagnano il vit to di giorno in giorno con le lor mani. pcrochc quefte
tai (orti di pedone, per pocacofa, che (la data loro, rimetton Tingi
arie,: $o &c facili li rendono a comporre, o abbandonar le caule. Sogliamo
ancor facilmente lafciarci indurre a ingiuriar coloro» c han fatto ancora
elfi molte ingiurie ad altri,o le non molte,n'hanno fatte almen di quella
(teda force, che da noi riccuono : p o( el iche quàdo alcun rimane orTelo di
quella (tclla orTefa,ch'eeli hab bia fatta ad altri, par che l'ingiuria,
eli ci riceue,s appretti quali a poter non elfer chiamata, o (limata
ingiuria, vò dir (per elTcm pio) come fe fu ile alcuno, che riceueitè
fcherno,& contumelia» 51 eflendo (olito di farne ad altri. Et il
medclimo ci auuicn contraquelli, i quali in altro tempo han fatto danno, o mal
t rat rata mento a noi, o l'hanno voluto fare; over lo voglian fare
ai prelente, o hanno in animo, et fi preparan di farlo ncll auuenire:perocheil
nuocere, et l'offender loro, in tal cafo, ha infc molto del giocondo, et deirhonefto
ancora, et s a pprcll a quafì 51 il non clìer veramente ingiuria. Sogliamo
anche noneilerc alieni da ingiuriar coloro, nell'ingiuria dei quali,
vediamo di far cofa grata, o ad amici no 11 ri, òa perfone da noi ammirate,
et tcnutein conto, ò a perfone, di cui lìamo innamorati, 6c d a more
accefi ; o ad alcuni, che ci lìan padroni, et habbiano auto rità fopra di
noi j ò a perfone in fomiti a, da cui in qual fi voglia 53 modo dipendala
vita noftra. Et ci aifecuriam parimente a offen der quelli, la manfueta,
&: modella natura de 1 quali ci dia lpc-> 54 ranza, che lìan
facilmente per rimetter l'ingiuria. et quelli parimente, i quali habbiamo già
prima calumniari di qualche delitro,* et quelli ol tra ciò, dalla cui
ftrettaamicitia,fcopcrtamen« o non apparire -, Se coti fatte lon quelle, che
pre fta mente lilograno, et ti confumano ; come fon (per cllempio) le cofe
da mangiare; et quelle ancora, le quali fon arre a facilmente vari u Ci,
éc parer diuerfe per can* giamenro, o di figura, o di forma, o di colore,
o di miftura, $c 61 temperamento. 6V quelle medehmamente, che con gran
com> modità fi poflono in quella, o in quel luogo afeondere, ofe
fu Uè fatta vnalìmil bruttezza di violcntia nella perfona di noi fteffi, o
dei 64 figliuoli, ò d altra perfona, che ci atten elle. Et da quella maniera
d'ingiurie ancora ageuolmente non ci atterremo, delle quali, fe colui, che
le riceue lì qucrelallè, et accula ne mouef. fein giuditio, filile per
etTere in ciò ltimato troppo litigiofo, Se troppo amico di conrefe, et di
controuerfìe. Et coli fatte ingiurie fon quelle, che come leggieri, poco
imporrano, et di poco momento fono ; et quelle parimente, cbeloglion perii
più 6$ riceucrefcula, òc meritar perdono. Quelle dunque, che
noi habbiam dette, fon (lì può dir) r iute quelle cole,
clioccorreua di dire per far conofeer qualmente conditionati, et difpofti,
fogliano cfter quelli, che fanno ingiurie; et intorno a quai cofe, et contra di
quai perfone, et per quai cagioni finalmente le foglian fare. (apo rj.
Quali anioni fi debbiati dir 'veramente giufte, ò ingiu/le, o 'ver
giuflamente, b ingiuftamente fatte. £f delt Equità, donde la nafia, ^ in
che differì fca dal rigor delle leggi. £tf alcuni luoghi da conojcerla. Egve
al prefente che di fti tigniamo, et dichiariamo quali fian le cole giufte, et le
in giù Ite, cioè le guittamente, et le ingiuftamente fatte: et prende remo
il principio primieramente di qui. Le cole giufte, et le ingiufte pendon nella
lor di ftinrione, 6c determinatione da due forti di leggi, Se da due ma in c|
redi perfone .& quanto alle leggi, alcune dico efter proprie, 4 &c
altre communi. Propria intendo efler quella, che ciafchcduna Città o nationca
fc ftelfà particolarmente appropria, et determina. et di quefte leggi proprie,
alcune fcrittc non fono, 6c 5 altre fono fciitte. Le leggi communi poi fon
quelle, cheion nfcll huomo impreflc dalla natura. conciofiacofa che vna
certa forte di giufto, et d'ingiufto fi truoui al mondo, il quale, quantunque
neiruna communicanza, òconlènlo dhuomini habbia con alcun patto, o
condition, conuenuto, o concorfo in elio ; nondimeno tutti gli huomini,
con vn certo con(en(o di natura, 6 conuengono in conofcerlo, et in
approuarlo : lì come molti a d intendere Antigona appreflb di Sofocle ;
quando arìcrroa effer cofa giuda il dare a Polinice fepoltura, ancor che dal Re
prò lubita, et vietata fufle : elTendo il far queftacofa, giufto per legge,
non d huomo, ma di natura. dice ella dunque ; non è nata, nè introdotta
quefta fortedi giufto, ne oggi, nèhieri,ma (emprc è egli flato, 6c ha vilìuto
femprc, et neflun potè mai faper 7 quando gli hauefle origine. Et di
qucfto mcdefimo giufto intende Jl Primo libro. S p tende Empedocle,
quando parlando del non elfcr ben fatto l'vccidere, et priuar d'anima le cofe
animate, dice, chetai cofa, non appretto d'alcuni è giufta, Se appretto
d'altri non giufta, ma c introdotta, et dettata da vna legge, che a tutte le
genti è commune, et per l'immenfo cielo fi diffonde, Se per l'acre ampio Se fpaS
tiofo u ftende. E Alcidamante ancor, accenna, et adduce il me defirno
nella fua oratione infcritta, Se intitolata Meilcniaca. Quanto poi alla
diftintione per caufa di perfone, due parti Bàri* mente ha la
determination dell cofe giuftamentc, o ingiuftamentc fatte. percioche nelle
cofe, che dee fare, o non dee fare l'huo mo, o s'ha refpetto a tutta vna
Città, o natione, o altra communicanza d'huomini, confidcrati in commun tutti
infieme : ò ver s'ha rifpetto a quella, o a quella perfona particolare di
quella có10 municanza. Se pcrconfeguente in due modi potton confiderarsi, Se
detcrminarfi le cofe, che dir fi pottono o giuftamente,o ingiuftamente fatte:
comequelle,che o riguardano alcuna determinata particolar perfona; over tuttala
Città communemente. percioche colui, che commette vn adulterio, o
percuote,& batte ingiuriofamentc alcuno ; vien folo, a fare ingiuria, Se a
commetter cofa contra di determinata particolar perfona. ma s ei recufa di
prender le armi per (aluezza della Città fua, tutta la città 11
conlcgucntementc riguarda cofi fatta offefa. Eflendo dunque in due forti,
Se in due maniere diftinre tutte le ingiurie, Se tutte le cofe, che
ingiuftamente fi fanno ; riguardando alcune d'ette il communc interefTedi
tutto'l corpo della republica; Scaltre il pri nato di vna, odi più priuate
perionein particolare; feguirem di dir quei, che reità, fc prima
diffiniremo,Se dichiareremo che 1 1 cofa fia, Se in che confifta il
riceuere, Se patire ingiuria. Il patire, Se riceuer ingiuria adunque non e
altro che patir cofe ingiufte da perfone, che fpon rancamente, et volontariamente
le facciano : hauendo noi già di fopradiffinitoefier cofa
fpontanea,& 13 volontaria il fare ingiuria. Et perche necettariamen te
colui, che paté, Se riceue ingiuria, viene a riceuer lefione, Se danno, et
ciò 1 4 cótra 1 voler fuo proprio ; potrà facilmente per le cofe, che fi
fop. dette di fopra etter manifcfto in che confifta il danno, et quali
co fe fi polTan domandar dannofe : hauendo noi già prima
diftinta mente attignatele cofe che fon beni, Se quelle, che fon mali. Se parimente
habbiam dichiarato quaifianle cofe fpontancamenM te fatte, p o 'Della
'Retorica d * Arili 1 ottica te farre, determinando elTer quelle, che
conofeentemente fi fani f no. Da tutto qucfto adunque ncceiTariamente fegue,
che tutte le colpe, et tu tei li delitti, che fi fanno, ò riguardino tutta
la rcpublica communemente, over quella, et quella pedona priuatamentc: Se oltra
di quello o fon fatte non conofeendo, et non volendo, o ver per il contrario
volendo, Se conofeendo. et quello in due modi può auuemre, cioè o con demone
deliberatamente over per impulfo di qualche affetto, Se paf17 fion dell'anima. Ma
quanto a coli fatti impilili, lì darà noti1 8 tia d elfi quando poi de gli
affetti tratteremo. Se quanto all'eleetionc, già di fopra habbiam noi
dichiarato prima, quali fian le cofe, che con deliberata elettion lì
fanno; Se come fatti color, chele fanno, Se qualmenre difpofti fiano. Ma
perche molte voi te accade, che fi conceda, Se fi confeflfì il fatto,ma
non fi confenta, ne fi conuenga già nel nome del fatto, fecondo'l
fitolo,chegli da l'accufatore, o ver nel lignificato intefo da chi are u
fi, nel detto titolo, Se nel detto nome : come le (per effètti pio ) concede/limo
hauer tolto, ma non già furato ; ellere dati i primi ad haucr dato delle
battiture, o delle ferite, ma non già hauer fatto fopr'vfo, o contumelia ;
hatiere ha miro commertio venereo con la tal donna, ma non hauer commtiTb
adulterio ; hauer furato, ma no commelfo facnlcgio, non eltèndo cola facra,
Se che il culto diuin riguardi quello, che tolro habbiamo,• hauer coltiuato
terre» che non fien nollrc, ma non Liner per quello fatta ingiuria al
pti blico ; elTere (lati a parlamento co 1 nemici, ma non hauer
fatta 10 tradimento : di qui è die fa di bilojmo di faper dirrinire, Se diftmramenredplicartutre
aderte co(è>& quel, ch'i mportino i nomi loro : com a dir che cola in
furto, che cofa fia contumelia, che cofa fia adulterio; accioche volendo
noi inoltrar, eh e tai col* pc, Se tai delitti fi truouino,o non fi
truonino nella perfona di cui fi tratta ; potiamo con la detta nonna hauer
fàcultà di far ncllvna cofa, Se nell'altra, fecondo che più ci piace,
apparire il 11 guitto, percioche in tutte le dette con rrouerfie, nei
porri cfTèmpwallegate, Se in tutte le altre limili, conlifte il pnnro della queftione,
Se della contronerfia, in veder feil fatto fia ingiù (lo, Se li iniquo, o
ver fc fia non ingìuflo : efiendo ringiultitia,& l'iniqui 15 tà
fondata nell'eledone.: &" demone importano, Se dimoftrano tutti
quelli già detti nomi ; come adir la contumelia, il furto, et Jl Primo libro. p
/ i4 gli altri. conciocofa che in hauer noi batruro,o percoffb
alcuno, non per quello fi può vn tal fatto veramente chiamar contumelia,
ma (blamente fc à tal fine, ò con tal intention 1 habbiam fatto ; com'a
dir fe habbiam voluto in far quello far a lui contu1 c melia, o ver recar
piacere, et diletto a noi. ne parimente fi può in tutto dir, c habbia
furato colui, che di nafcoflo qualche cofa habbia tolto ; ma (olamente
quando habbia fatto qucfto, o con animo, et intention di far danno
all'altro, o d'appropriar la cofa furata a fe fteflb. et il medcftmo fi può
parimente allegare, Se difeorrer nelle altre cofe c'habbiam difeorfe, et allegate
di que16 ile. Horeifendo due forti, o ver due fpetie di cofe giufte, Cv ingiufte,
fecondo c'habbiam veduto, l'vnc feri tte, &c l'ai tre non foriere ;
quanto a qucllc,chefotto a fcritte, et promulgate leggi fi ftan
determinare, habbiam d'elle già detto, quanto occorreua. ty Di quelle poi,
che non fcritte fono, due parimente forti, ò vero fpetie fi truouano.
alcune fono,che fon porte in vn certo eccello, ouer foprabbondantiadi
virtù, odi vitio : de han luogo principalmente in ertii vituperi;, et lelodi,
l'ignominia, cV gli hono1$ ri, 6cipremij ancora. et cosi fatte cofe fon, com'a
dir (pereffempio) l'clfer d'animo grato de i beneficij, che fi riceuono, il ricompenfare
i riccuuti, con altri beneficij ; l'eller pronto, difpoap ilo, cV parato ad
aiutar eli amici, et altre cofe cosi fatte. Alcune altre fon poi, lequali
altro non fono, eh vn certo fupplimcnto del difetto delle proprie leggi
fcritte : conciofiacofà che le cofe, 50 che fon
d'equità,parimentegiuitemmar fi debbiano: nóefiendo altro l'equità, fe non
quella parte del giuflo, che non e fiata comprefa dalla legge fcritta, ma è
dita dal legiflator lafciata fuora di j 1 quella. Et quello in due modi
può, et fuole accafcarc. percioche alle volte lo fanno i Legiflatori non volendo;
et alle volte volen$ 1 do. non volendo accade quando eglino non fc n'accorgono,
ne 53 l'auuereifcono. ma volendo occorre quando elfi conofeon
non cflcrlor poflìbile di comprendere, et di determinar nella lcg3 4 ge,
che formano, ogni particolare occorribil cafo. et per quello fi lafcian
tirar dalla neceffitàapor la legge in vniuerfale, quantunque nelle cofe da lei
comprefe, non fempre quell vniuerfàlirà, ma per la maggior parte, et per il
più, debba hauer luogo. $j Accade ancora alle volte quello mcdehmo,non fol
per l'impoffibili tà,com' habbiam detto, ma ancor per la gran dimcultà, che
fi M ij rruoua p 2 'Della r Rgtprìca d'Arìttotelt^ truoua in
determinare nella legge tutti li poflìbil cali, cflendo e£ fi, ii può dire
infiniti : come (per eflempio) fc nel prohibìr'il ferir con ferro, s'hauellè a
determinar di che quantità, Se di che qualità shabbia da intendere il
detto ferro : percioche prima man carebbe l'età d'vn'huomo, che egli
potette tutte le varietà d'elfo ferro accogliete, Se numerare. Se pcrquefto
cflendo tal cofadifficiliffima a determinare, &douendon pur farli
legge, chela prohibifea, e forza che non determinatamente, ma lemfé
pliccmente fi faccia, et in vniuerfale. Laonde fc cafo
auuerrà, ch'alcun'hauendo in dito vn'anello di ferro, et alzando con impeto
la mano percuota chi fi Cìsl con quell'anello; in tal cafo fecondo la forza
della legge fcritta, farà co Qui obligato alla pena, che fi contiene in
ella, come ch'ingiuria habbia ratto. et nondimeno fecondo la verità non hà
fatta ingiuria, nè cofa ingiufta. 57 et quello è quello, ch'equità fi
domanda. Eifendo dunque l'c38 quitàqueiìaj che noi habbiam detto, ageuolmcnte
fi potrà hor far manifeflo quali fian quelle cofe, che contengono, o non
cutengono equità, et quali fiano gli huomini,chc non la poifeggono, Se dir per
quello fi pofion non ragioncuoli. Percioche quelle cofe primieramente lì
pollono (limar ricercar equità, le quali» Ce ben par che in efle fi truoui
fallo, et errore, meriran nondime40 no fcula, Se perdono. Equità ancor fi
douerà ltimare il n5 giudicar dvguale importantia, Se degni d'vgual gaftigo i
falli, che fi fan per errore, et quelli, chefi fanno con ingiulìitia, et per
fare ingiuria : Se il non por parimente in grado vguale quei, che
per error fi fanno, con gli infortunij, che carnalmente per
contraria 41 fortuna accalcano. et infortunij, ouer fortuiti falli
s'intendono efler quelli, che fuor d'intentionc,& di confideration di
chi gli 41 fi, fon fatti fenza vi tio, o malitia alcuna. Quei falli poi,
chefi fan per errore, Ce ben non adiuengono fenza intentione, o confideration
di chi gli fà, nondimeno ancora effi non davitio, o 4J da malitia vengono,
ma in quei, che veramente ingiurie fono, Se Ceco ingiuftitia tengono, non
fol concorre in tcn none, Se confidcratione di chi gli fa, ma ancor da malitia,
et da iniquità deriuano : peroche da vitio, Se da malitia procedono i falli,
che da 44 impeto di cupidità, o di fi mi l'affetto nafeono. Oltra di
quello, equità fi dee ftimar, che fia, l'hauer femprc confideratione ne
gli errori, che fa l'huomo, alla fragil natura h umana, Se a quelli
dar 1 volonjfl Primo libro. $ 3 4j volontier perdono. et il non haucr
principalmente rifpetto, de 4 'Della r R^tprìca d % Arìttotel^J (apo
14.. 'Dell 1 ingiurie fotte in paragone, et comparation fra di loro ; quali
fian maggiori, rjuai minori : £f alcuni luoghi da conojcer quctto. 1 Ngivrie
maggior! s'han da (limare,e(Ter qucl2 h?j9 tsSI che da maggiore ingnilliti.!
procedono : per IrSki K?$J 4 UC ^° g r andiflìrnc vengono ad eiler quelle,
ch'in | t^jr y^J j P» cco ^^ ma cofa confiftono. fi come
Caliiftrato in accufarMelampo aggrauaua l'accufa con dire, che della
facra pecunia desinata alla fabrica dei Tempio, haucffe egli di tre mezi oboli,
fraudato color, che la cura dell'edificio 4 haueuano. Ma nella giù ftitia,
&c nelle cofe,che fi fanno fecondo quella, il contrario a punto
adiuiene. Son dunque grauiflìme così fatte piccoli (lime ingiurie per
l'eccedo, de grandezza, che tengon nella forza, virtù, 6c pollanzaloro :
pofeiache colui, che fi pone a furar tre mezi oboli al culro diuino
confecrati, molto più fi può (limar, choccorrcdo, ingiù Ilo farebbe in
cofa di magc gior momento. In quella maniera adunque chabbiam detto,
li può (limare, et ponderare alle volte la grandezza della maggior* l
ingiuria. In altra maniera (ì può itimarancora in ponderarla,^ 7
giudicarla fecondo la grandezza del danno, che ne rifui ti. Maggiore è ancora
l'ingiuria quando non par, chepunirione, et gaftigo fe le polla trouar vguale,
ma ogni pena Ga minor di quello, 8 che fc le conuenga. E parimente
maggiore è quando il danno, che la reca, mal li può medicare, o con
remedio alcun rifarcirc : elTcndo cofa grandemente acerba, et morella il
mal'impofllbilca f rimediarli. Mcdefimamenre maggior fi rende l'ingiuria
quando a colui, che la riccuc, vicn tolta la poffibilità di fodisfarlì, in
veder che gaftigo, o vendetta ne venga all'autor di quella, percioche viene in
quella maniera a rcflar l'ingiuria fenza medicina, o rimedio : cflendo la
vendctta,& la punition dell'ingiuria, vn ccr lo to medicamento, 8c
refarci mento di quella. Si dee (limare ancor l'ingiuria maggiore, quando
colui, eh e ingiuriato, Se che pa te, Se riceuc l'offcia, fente cofi
infopportabilmente il danno, o la vergogna, eh 'ci riceuc ; ch'impaciente
a tollerarla, riuolge il dolor còntra fc {teflb, et contra di fe proprio
rliuien crudele. nel qual cafo non è dubio che di molto maggior pena, et punirion li
non fia degno colui, che l'ingiuria fece; comallegaua Sofocle, perciochc
fauorendo egli in giuditio la caufa d Euttemone, il qual non hauendo
potuto tollerar hgnominia della riceuuta ingiuria, s'era da le Ite ilo
vccifo ; dille non parergli punto da ihmar manco, et ili men gaitigo degna la
contumelia di quell'ingiuria, che colui proprio, che riceuuta 1
haueua,rhaueileapprez li zata, et (limata conerà di le medefimo. Maggior
parimente diuien l'ingiuria, le colui, che 1 hà fatta larà (lato lolo, oil
primo,o 13 con pochi a farla. Et l'hauerc oltra ciò più volte commeiro
lo fteiro delitto, Se la lidia ingiuria, le reca grandezza,&
ampliano 14 non piccola. Maggiori medclimamente il deono (limar
quelle ingiurie, òcquei delitti, percagion dei quali (1 (ìcn per rimediar gli,
et vietargli, inueftigatc, et trouatc nuouc forti di (uppluij, Se Ij di
pene. fi come vediamo, che in Argo hanno ordinato propria pena a punir
colui, il qual con fuo delitto dia cagione di trouar nuoua legge, o d
cdificar'nuouo carcere, o di trouar tormento 16 nuouo. Quei delitti ancora
haran da ellerc (limati maggiori, Se più graui, i quali più haran del
ferino, et più s accolleranno alla 17 natura più torto delle belile, che
dell'huomo. Maggiori parimente fon I ingiurie, e i delitti, fc pcn Guarnente,
Se daconlide18 rato configlio premeditati nalcono. Più graue oltra ciò fi
dee (limar qucllingiuria, laquale nell animo di chi l ode è arra ad ec19
citar più torto affetto di terrore, che di compaflìone. Appretto di quello
fono ancor picnedi retorica ampli heation per ingrandir l ingiurie, alcune
allegationi di circollantie cofi fatte : come a dir, che cortili con la
tale ingiuria habbia in vno Hello tempo in molte cofe, et in molti modi
macchiata, et corrotta la giuftiria, et trapallàtooltra'ldouer ìlgiufto;
hauendo egli infiememéte il facto giuramento, la data delira, la promelTa fede,
et la fteilà inuiolabil legge del matrimonio, violato. pcrcioche cofi
dicendo non è dubio, che raccolte nella detta maniera in vno molte cofe
ingiù He, non faccian nell'ingiuria apparentia d'vn certo ec10 cello. Aggiugnej
ancor grauezM al delitto, lcller commetto in quello Hello luogo, doue
fogliono clTcr condennati, et puniti i delinquenti -, fi come lo commerton
coloro, che falla teftimonUnza in publico giuditio fanno.perciochc douenon
pcccarebbeco p 6 T>eBa Teorica d' Arìttotelt~> bcro eglino, Se
in qual luogo s'aftcrrcbber da far cofa ingiufta, Ce di peccar non
s'aftengon nel publico tribunale, et nella propria il corte della
giumtia?Maggiore ancora apparirà l'ingiuria le fi mo ftrarà ertere intorno
a cole, che recar foglian rolTbr grandiflì rao ti di verecundia fcco. Medefimamente
-più grauc (limata farà l'ingiuria, fé contra di colui farà fatta, dal quale
habbia colui, che la fa riccuuto benefitij : peroche in più cole viene
egli in tal fatto a peccare, Se a vfar contra di colui l'ingiuftitia fua ;
cioè in fargli nocumento, Se in non giouargli per ricompenfa, Se
gratitudin a 3 dei benefitij. Più grauemente ancor potiam dir, che fi
debba ftimar, che pecchi colui, che delitto cornette contra'l giudo delle
leggi no lei i tte: impcrochc gli è cofa da h uomo di maggior vir tù,&
di maggior bontà il feguir la giù ititi.», et operar colcgiuftc, nò
forzato da nccciììtà: et le leggi lentie fon quel le, che vengona fare in
vn certo modo forza col terror della punitionc : doue che le leggi non
Icrittc liberamente muouono l'animo fenza forza,o 24 violetta
alcuna.Dalialtra parte per altra ragion diuerfa,pare,che per il contrario
maggior fia l'ingiuria, e'1 delitto,fc contra le leggi fcrittc farà commetto. conciofiacofa
che colui, che non s aftien da vfare ingiù iti ria in quelle cole, che portano
il terror della fcritta legge feco, Se che punition minacciano; molto
manco s afterrà dall'ciTer ingiuftoin quei delitti, che fenza temenza
di 2.5 gaftigo, o terror di legge, vegga di poter commettere. Et tanto
badi fin qui d'haucr detto delle ingiurie maggiori, Se delle minori. (apo ij.
'Delle pruoue, £f modi di far fede mart fidali, 0 'ver fenz^a artificio. Ecvita
alle cofe dette, che noi alprcfcnte trafeorrendo diciam qualche cofa di quelle
pruoue, Se fedi, che fi domandano in artificiali, Se d'arteficio priue :
eflendo eflc aflai proprie, Se domeftiche alle caufe giudiciali : Se fono a
punto cinque in numero, cioè le leggi ; i teftimonij ; le fcritture, o ver i
patti ; la tor tura ; Se il giuramento. Et cominciando dalle leggi,
anderem di chiarando in che maniera nel fuadcre, Se nel difiuaderc,
nell'accufaJl Primo libro. $ y cufare,& nel difendere, s'habbial'huomo
a feruir dell'vfo loro. 4 E cofa ramifcfta adunque che fé alcuno haràla
legge feri tta cetraria alla caufa Tua, douerà rifuggire all'vfo della legge
commune, et al giudo dell'equità, come che più ragioncuol fia, Se più $
intrinfccamente congiunto con la giuftitia. Et douerà ancor dire, che il
giudicar con fententia ottima, Se ragioneuoliflìma, no confifte
principalmente in altro, ch'in non adherir puntualmen 4 te in ogni cofa
alle leggi scritte. Se che l'equità femprc vna fteffainuariabil dura, fi come
parimente immutabil dura, Se fi confcruala legge commune ancora ; come quella,
che nella natura è fondata, Se con la natura nafec. doue che le leggi
fcritte fpeflc 7 volte fi mutano,& a variation fon fortopofte. da die
prende forza quel detto di Sofocle nella fua Antigona : pcrochc difendendofi
Antigona con dird'haucrfartoconrralaleggedi Creonte, ma non già contra la
legge non fcritta ; parlando di tal legge dice; None nata, ne introdotta quefta
forte di giurto nèo^gi, ne hieri, ma femprc è ella ftata': Se hauendo
quefto giufto dal mio, non temo, o curo di quel, ch'in contrario comandi
qualfi voglia" 5 huomo. Si potrà mede/imamente dire, ch'il giurto fia
cofa realmente vera, 6Vvtilc, &noninvniuerfa!e, &quafi in ombra, et in
apparentia;cVchepcrquefto la legge fcritta, emendo più rotto ombra, che corpo
del gì urto, non fia vera mente legge ;pofcia «> che far non può ella
offitio di vera legge. Et che li ludici fon porti foprai gitiditi; a guifa
di quelli artefici, che fon porti a cono iccre, et a difcerncie il falfo
dal vero argento ; acciò ch'ancor ef-. fi conofeano, Se diftinguan bene il vero
giufto dall adombraro, I o Se adulterino. Potremo parimente aggiugner,che
fia cofa da huo mo di maggior bontà, et di miglior coftumi, l'vfar nelle
fueattio nilamifurapiù torto delle leggi non fcritte, che delle fcritte,
Se li inquellcftarc,& fecondo quelle viuere. Etdoueremo
auucrtic a " cora (c la ie gg c > ch e ci e addotta incontrala contraria
a qualche altra legge tenuta communementeper buona, et perapprouata ; o ver
s'ella fia contraria a Ce medefima: come a dir che da vna parte
commanda/Te, Se difponcne, che fufic valido,& fermo tutto
quello,inchcgli huomini per patto conuengono inficme; &dallalrra parte
prohibitfc, che patto, o conucntionc alcuna fi I» laceilc contra le fteirc
leggi. Doucrem parimente confederar, fe Ja detta legge, che ci e addotta
incontra, fi truoua ambiguamenN te feri ty8 'Della ch'ai le
volte non ben con l'intelletto capitici o le paiole, o 1 fen cimento
della legge, non habbian da cadete in pencolo di fpetgiuto nel pat1 5
tirli da quella. Potterao anche dite non ciler alcuno, ch'in eleggete, Se
ceteate il benc,elegga, o cetchi quello, che fia in vniuct lale,&
Semplicemente bene; ma che ciafcun'elcgge quello, che 16 (la bene a lui.
Et aggiugnci potiemo non eflct di ifc renna alcuna trai non efletc otdinattf,
Se ftatuite leggi fetitte, Se il non vo17 Jet poi vfatle, et olletuatlc,
fetitte, che le lono. Douetemo oltra di quello dite, ch'in tutte l'altre aiti,
Se facilità, è cofa più torto perni tiofa,chc vtilc, il volet pattiti! dal
giuditio dei peliti in quella : coma dir nell'arte della medicina, dal
patere, Se giuditio del medico. conciofiacofa che non tanto nocumento
rechi l'crror, che fatà alle volte il medico, quanto dannofo fatia
l'af* fu c far fi a ttafgtediie il parer di colui, il qual come petito ha
da clTct guida, &capo, et fupcriote in fomma in quell'arte,
della I I qual fi tratta. Et a quello potremo aggi ugner, ch'il cercar
d'clTer più prudente, più petito, Se più faggio delle leggi lteilc,è
quello, che più ch'altta cofa principalmente dalle communementc Ioli?
date, òVappfouatc leggi, Ci prohibifee. Quanto alle leggi adunque, che fon la
prima pruoua inartifìciale, lìa per hora determiio nato nella maniera, chabbiam
veduto. Quanto poi a i Telamoni, di due forti, o veto fpetie fi truouano elTcre.
alcuni fon'antichi> Se altri moderni o ver nuoui, Se di quelli alcuni fono,
che venJl Primo libro l et S>9 ^fgon nel teftimoniare a partecipar
del pencolo; Se altri liberi li ne fon fuota. Antichi teftimonij chiamo io
i famofi Poeti, Se tutti gli altri huomini, chiari, &illuftri, dei
quali lìan rimarti nella memoria de gli huomini, giuditij, Se fentcntie
celebri, et manili feftc. ficomc gli Athcniefiadduilero la teftimonianza d'Home15
ro nella caufa lor dclTlfola di Salamine. Se quelli di Tcncdo poco tempo fa
allcgaron per teftimonio Pcriandro Corinthiano 14 nella caufa lor contra
de i Sigienfi: et Lcofronte parimente nella caufa, eh ebbe ad agitar contra di
Critia, lì valle d'alcuni verfi elegi di Solone ; dicendo che la cala, Se
fameglia di Critia era art ticamente ftata macchiata d'effeminata lafciuia.
percioche fc n5 fufte ftato coli, non harebbe Solone ne i fuoi poetici
verfi, parlando d'vno di quella fimeglia, detto, Fammi grana di dir a Cri1 j
ria biondo, et crefpo, eh' a fuo padre obbedifea. Coli fatti fon dunque i
teftimoni antichi intorno alle cofe, che fon già patiate. 16 Delle cofe
future poi fono ancora antichi teftìmonii gli oracoli, &gli
interpretatori di quelli: come ( per eflempio) interpretò Themiftocle, quando
volendo perfuader, che fi combattere coti pugna nauale, dille che quello
lignificauanoi muri di legno, che 17 nella rilpoftadell'oracol fi
conteneuano. Mcdcfimamentei Pro 15 ueibii fon tetti monii della fteiTa
forte, che noi habbiam detto. come fc ( per cflèmpio ) fuilc chi volelTe
perfuaderc ad alcuno, che non cercafie di riceuer nella fuaamicitia la
talperfona d'età fenile; potrebbe in reftimonianza addurre quel
prouerbio 19 trito, che dice non eflèr da collocar beneficij in Vecchi. et
chi volelTe perfuadere ad alcuno, ch'egli douefle leuarfi dinanzi,
Se far capitar male i figli di quei padri, ch'egli hauefie già
prima vecifi, potrebbe addurre in teftimonianza il prouerbio, che dice,
ftolto è colui, che lafcia in piedi i figli, hauedo lor prima .mito in azzato i
padri. 1 nuoui,ouer i moderni teftimoni fon poi quelli, i quali cllendo di
celebre, Se chiara faina, Se noti al mondb per faggi, hanno in alcuni
cafi, ouer caufe datoinditio del lor parere, Se dellor giuditio :
percioche così fatti giuditij, Se pareri polTon parimente elfcr'vti li a
coloro, i quali hanno in altre caufe ji
fimihaquelle,vnamedefimaquaficontrouerfia. fi come Euboloingiuditio contra di
Charcte, fi feruì di quello, che poco innanzi haueua Platone detto contra
d'Archebio, cioè che per caufa, Se colpa di lui haueua già nella Città
prefo forza, et vigoN ij re il joo ^ ^Del/a ^R^torica djirìUotett^ re
il non vergognarti p iù le perfone di cónfellar defler vitiofe,& 51
inique. Nuoui, et moderni teftimonij fono ancor quelli, i quali Tempre che fi
trouaflcr fallì nella teftimonianza loro, farebber tj partecipi nel
pericol della punitione. et così fatti teftimonij nó lon'addottia
reftimoniar,fc nóquado fi dubita del fatto, cioè /eia 34 cofa tìa ftara
fatta, o no fiaftata fatta, et sella iìa,onó fia. maquàto alla qualità del
fatto, no fono eglino ammeifiper teftimonij,co m'a direa teftimoniar fc la
cofa fia giufta, o nó giufta, vtdc,o da1 5 nofa,& fimilc.Maquci
teftimoni,che nófon partecipi nel pcncol ma fono liberi, et lontani da
quello, fono intorno alle dette qualità del fatto,idonci, et legitimi
teftimoni, et grandemete di fede degni. Et fopra tutti, aurtorità» et fede
recan le teftimoniaze de i teftimoni antichi, come di quelli, che a
fofpetto alcuno di corrotrionenon fon fottopofti, et dall'autorità de i
teftimoni ha da jtf depender molto la fede delle pruoue. Se noi dunque,non
harem teftimonij, doueremo in tal cafo allegare, et dire,che il
giudicar habbia da cfTcr fondato principalmctc nei vcrifimili, et negli argomenti
: et che quefto è propriamente giudicar con fententia J7 ottima, 8c
ragioncuolilTì ma, alla qual fon tenuti i giudici. 3c che 1 veri (imi li
non fon fottopofti a pericol d'eller corrotti con danari» ne pollo no
eflcr giàmai conuenti di falfa teftimonianza, 38 come i teftimonij.
Dall'altra parte fc ci trotteremo hauer teftimonij vtili allacaufanoftra,
potremo contra di colui, che non gli hà, trà l'altre cofe dire, ch i
verifimili, et gli argomenti non fon fottopofti, et tenuti a pericolo di
fupplitio alcuno. et che nó faceuadi meftieri d'introdur ne i guiditi) 1
vfo de i teftimonij, fclc ragioni, et gli argomenti fodero ftati baftati
alla no ri tia della verità. Sono li teftimonij,o intorno a noi
ftc(Tì,& a cofa,che tocchi, et riguardi noi : ouero intorno a cofa, che
tocchi lauuerfario noftro : et così ncllvno, come nell'altro modo, o
riguardano 41 il fatto fteilo, o la vita,& i coftumi. Per laqual cofa
è manifcfto, che mai farà per mancarci qualche forte di teftimonij,
chefler portano vtili alla parte noftra. pèrciòchc fe intorno allo nello
fatto ci mancherà teftimonianza, la quale o confenta, et conuenga in aiuto
noftro con quello, che diciam noi, ouer fia contraria, et difcrepantedaqucl,
che dice l'auuerfario; almcn non cidouerà mancar teftimonianza intorno
alla qualità della vita, et de i coftumi, laqual faccia fede della bontà, et dell
equità noftra, ouer dcll*iniJL Trìmo libro \ iot 41 dell'iniquità, Se
malitia dcH'auucrfario • L'altre cofe poi, che polfono occorrer di
ponderarli, Se di conliderarlì intorno alle f erfone dei tcltimonij,
com'adir fc lon'amici, o nemici, o nè vn, ne l'altro ; fc fon pedone di
buona fama, o di mala fama, o tra l'vn, et l'altro, Se tnttelaltre in
fomma così fatte dirTcrentie di condirioni, et di qualità, da quelli
fteffi luoghi fipotran trarre, et di inoltrare, da i quali lì poilbn gli
Enthimcmi intorno al43 le medcfimc qualità, trar fuora. Quanto alle fcritture
poi, doue lì contengon conuentioni, Se patri, intanto può hauer luogo
in eiYc 1 vfo deli'oratione,inquanto lì cerchi,o d'ingrandir il lor valore,
o di deprimerlo, et d'annullarlo : et oltra ciò di farlo apEarire o credibile,
Se di fede degno, o per il córrano di poca credi ilità, Se di poca fede,
peròche fe vedremo, che le pollano cfler>evtili a fauor noftro, alhor
c'ingegneremo di procacciar loro autorità, Se credibilità* &c il
contrario faremo fcle conofeeremo 4J in aiuto dell'auuerlario. Et quanto
prima all'aggiugnere, o al toglier loro autorità, credito, Se fede, non e
differente il far quello, dal trattamento, che s'habbia da far'intorno ai
teftimonij. conciolìacofachc quali faranno i coltrimi, le conditioni, Se
qualità di coloro, c'habbian diftele, o fofcrittte ledette fcritture,
o lehabbiano apprelTo di lor cóferuate, Se faluate,talc ancora riabbia da
effer la fede, l'autorità, Se la credibilità d'elfe fcritture. Cafo
adunque cheli truouino, o lì pruouino autentiche corali fcritture, Se tali
in fomma, che confclTar fi debbi, o negar non Ci 47 polla, che le lìano
fiate fatte; alhora fc i patti, che vi fi contengono, conofeeremo, che facciano
a proprio fauor noltro, doueremo ingrandir 1 autorità, et la validezza,
c'han da portar leco i patti, et le prillate conuentioni humane: dicendo non
cllere altro il patto, che propria, et prillata legge, trai particolari in
priuato 48 fatta. Se che i patti, Se le fcritture, che gli contengono, non
dano validezza, forza, Se corroboratone alle leggi, ma ben le leg4$ gi la danno
a' loro. Et che in fomma la legge non e altro ancora ella, ch'vn certo
patto, di maniera che qualunque cerca di tor forza ai patti di mandar'a
terra il valor di quelli, viene a cercar jo parimente di deltrugger le
fteire leggi. Poucmo ancora oltra ciò dire, che per la maggior parte i
negotij, Se le facende, che trà di lor conuerfando, Se contrahendo fanno
fpontancamentc, Se volontariamente gli huomini, fi fanno col raezo di con
tratti, patti; Se fcritture, / o j Della Tintorìe* d
'driftotelcj Se fcritturc, Se in quelle fi contengono. La onde tolta via,
o fatta inualida la forza, Se i'vfo de' patti, et delle fcritturc,
verrebbe parimente a mancare, Se a cadere a terra ogni cambieuol coiti5 1
mertio d huomo, Se ogni trattamento di negotij Immani. Altre cole ancora
fi potrebber dir* accommodatc a ingrandir l'vfo, Se l auttorita de' patti
: le quali aliai facilmente pollono clTer comf i prefe, Se confideratc per lor
medefime. Ma fc dall'altra parte vedremo, ch'i patti, Se le fcritturc fien
contrarie alla caufa noftra, Se in fauore, et commodo deirauuerfario, ci
potrà primicramete in lor deprelììon feruire, Se cfleraccommodato tutto
quello, ch'allegare alcun potesse per impugnare, et ofeurar
lauttorità j j della legge, quando gli fulfe contraria, perciochc molto
fuor di ragion (aria le ftimanflo noi non douerlì dar fede, ne preftar'obbedientia
alle leggi, ogni volta che iiano non drittamente porte, Se che il
Lcgi/lator habbia vfato inganno in porle jhaueiTero i priuati patti a
ritener inuiolabil neceflìtà nell'olTcruantia loro. 54 Potremo ancor dire
non clTerc altro il giudice, che difpcnfatore, Se amminiftratordel giufto : Se
per quello non ha egli da tener confidcratione, Se cura di quel, che importin
le fcritture, Se li patti; ma fol di furto quel, che contenga maggior
giuftitia. 55 Potrcm parimente dire, ch'il giù ilo non può cflergià mai piegare,
Se dillorro dalla fua drittezza : ne ita fottopoilo a inganno, o a forza,
Se violentia alcuna, hauendo egli l'cilcr fuo dalla natura fteira. doue
che i pani, Se le conuentioni, che fanno glihuomini, nafeer polTon da inganni,
o da forza, che gli induca a farle. t 6 Olrra di quello fi dee por cura fc le
fcritturc, et li parti, che il producono, fon contrari] ad alcuna delle
leggi ferine, o ad alcuna delle communi, Se fes'oppongon a cofe comunemente
renu57 tegiufte, Se honelìc. Si deeveder ancora, fe fon diucrlì, Se repugnanti
ad altre fcritturc, Se conuentioni, chedoppo,o innanzi di quelli, fiano nate
fattcpcrciòche o le fcritture fatte poi fon valide, Se per confegucntele
precedenti han del falfo,o non han valore, oucr per il contrario le fatte
prima valide fi truouano, Se nelle fatte poi, fi conticn fraude, o altro
cosi fatto errore. Se di queiti duccafidouerem cercar di far parer vero
quello, che più 58 conofeeremo vtilc alla caufa noftra. Potremo andar con
la confideratione inueiligando ancora intorno all'vtilità, feda
qualche Cofa, che fi contenga in quei patti, che fi producono, o fe dalla fede,
che fi predi a i patti, può feguir'occauone dcfidcrofi di vederle.
Contcngon dunque le dette righe quelle parole. Ju 5 *iynv fri Cvk
«WaM»0hW/ Caffdurot •Tofà.oìyaf rtpoì, £ A/flo'Jtpfjioh ù ttut 4^«T ( «vite
ìuvajoì, "flua/ert tyK rt rat t ivttyt&f* il j Jh A5Ì, ^
Ìu*MjC»7f ■vfo 70 v TctV Àva.yxct.i /A7k etw^/ '
X«t7*0et/:/fei/Vir, ù'vAV&t ir/roV ìk (Sardi'oif. Legnai parole m no
firn lingua pòtrebberò effer quefìe^j. Mala di meftier di dire, che le
torture non cótengon fecura, Se certa verità, conciofiacofa che molti fi
truouino, li quali hauendo le carni, et la pelle quafi di fallo, Se
l'animo forte, Se a Sopportar potente, vincon con lalor coftantia, Se con
la lor'oflinatione ogni neceflìtà, che porti la pena, ci dolore. Se altri
per il contrario fi truouano, che vili d'animo, Se delicati, Se molli del
corpo loro, prima che fi veggano a pena dinanzi a i tormenti, reftan
fu perati daquelli. Perla qualcola none da preftar fede a
quella tcllimonianza delle torture. Qnefie fon dunque, in fiftantia
le parole, che eorrejpondono alle greche già dette^j. tJHa ritorniamo hormai al
legittimo teli fio nostro, fegue adunque ^sfrittotele così. 6 $ Quanto
apparrien poi al giuramento, in quattro modi può occorrer, ches'habbia da
trattare, Se da confiderare. perrioche t» noi lo concediamo, et concedutoci
l'accettiam di fare,o noi non facciamo ne l'vna, nè l'altra di quelle
cofe,o noi ficciam Tvna, et non l'altra. Se quello in due modi, peroche o noi
concediamo il giuramento, ma non accettiam di farlo, oucro accet66 tiam di
farlo,ma non lo concediamo. Se tutto quello altrimenti s'ha da confiderai
quando fi fi a altra volta giurato, et altrimenti quando non fi fia giurato. Se
quando fi fia giurato, altra confidcration s'hà d'hauer fe harem fatto il
giuramento noi, et altra 6j Ce l'harà fatta l'auuerfario. Se offerire
adunque Se conceder non gliel vogliamo, douerem dire non voler metter'il
giuramento in man fua, perche conofciamo,che facilmente faria egli per
giura6% rcilfaliò. Se potrem foggiugner' jchcrauucrlario
rcftarebbcgiu rando afibluro dei danari, ch'egli ci dee, doue che s'egli
non giura, teniam certa confidentia, ch'egli habbia in giuditio da cf6$
ier condennato a pagarccgli. Potrem parimente dire, c hauendo noi pura depcnder
da pericol di giuramento, vogliam più tolto; Se molto più ragioncuol cofa
è, depender da quello de gli Jl Primo libro. 1 oj fteffi giudici,
pcrciòche nella bontà, et rcligion loro tcniam fe0 de, Se non in quella
ddl'auuerfario. Male non ci verrà bene d'accettar Toner ta, che ci fa
l'auuerfario di voler egli ftarc al noftro giuramento ; doucrem dire, che
per cagione di danari, cagion così friuola, Se così leggiera, non ci par
cola honefta ii 1 giurare, foggiugnendo, che fé noi fulfimo impij, Se
nemici del giulto, non recuferemo di farlo : percioche lapedo noi, che giurando
ricupereremo, Se confeguiremo quello, che ci fi dee, Se non giurando, nò,
certa colà è, che meglio faria 1'efTer'ìniquo per cagion di
qualch'vtilità, che per cagion di nulla. Ci che per quello appare, che fol
percaufa d'honeilà rccufiam di giurare, i Se non per tema di cómetter
fpergiuro in giurare il falfo. Et in quello propolito potrà parimente
quadrarci conuenir quello, che foleua dir Senofane, non elìer pari la
prouocatione,ch'a giurar faccia vn'impio, ad vno altro che tema Dio : ma effer
limile alla prouocation, che facente vn'huom gagliardo, et robufto della
perfona, in prouocarc a dare, Se riceucr pcrcofle, Se pugna, 3 vn'altro,
che debole, Se infermo fu Uè. In calo poi, che ci venga commodo d accettar
di giurare, ellendoci il giuramento offerto dall'auiicrfario, potremo
primieramente dire, che ciò facciamo ; perche vogliam piutofto credere,
alnoftro giuramento, et ftar* alle fede di noi medefimi, cllendo in noi
confapeuoli della men\ te noftra, ch'alia fede dell auuerfario. et potremo
parimente ri» uolgerc, &accómodar'amodo noftro ilmedelìmo detto diSenofane,
diccdo,andar la cofa vguale, ouer'cfler la cola pari, quado vno impio prouoca a
giurar'vn, che tema Dio, e egli accetta c l'offerta, Se giura.
Aggiugnereino ancora parerci cofa indegna, Se fuor d'ogni ragioneuolezza
il recufar noi di giurare in quella (Iella cauta, nellaquale
riccrchiamo,& afpcttiamo,ch 'i giudici fecondo il giuramento da elfi fatto,
proferifean la fententia loro. C Mafe finalmente ci tornerà bene d'offerire, Se
concedere il giuramento all'aiiuerfario, potremo dire, che ci paia cofa pia,
Se rcligiofa il voler commetter tutta la caula in man de gli Dij,
Se 7 alla cura loro : Se che non vogliamo, che all'auuerfario
noftro faccia di bifogno di ricercarla decilìone di quella caufa da
altri giudici, che da fe nello, dandogli noi arbitrio, Se autorità
di deciderla, et giudicarla col luo giuramento da fe medelimo. 8 cV
che cofa aito rda, Se fuor di ragion farebbe egli, s'eirecufafO fc di 7 o
6 Isella r R(torìca d*^4riBotelc^ fc di giurare in quella (tciTz cofa,
nella quale egli filini eflcr do7^ ucre, che gli altri, cioè i giudici llcllì
giurino. Hor'hauendo noi ad vn per vno patitamente dichiarato, come
fihabbian da trattar tutti li quatro modi divfar' il giuraramento,
potrà da quello effer raanifcfto ancora, come s'habbian da trattare, et da
vfare,fe più di vno di tai modi, fé prcndon congiunti 80 infieme. com a
dir fé noi accetteremo l'offerta del giuramento, ma non già l offeriremo, o lo
concederemo, ouer fc ci piacerà di concederlo, et offerirlo, ma non
d'accettarlo, o fe vorremo et accettarlo, 8c concederlo, oucro offerirlo
infieme, ofe finalmente non ci contenteremo di far nèlvnacofa,
ncl'altia. 81 conciofiacofa chceflendo così fatti congiunti
necelTàriamente comporti de i già detti, et affegnati modi ; parimente
farà neceffario, cheli trattamenti, et le ragioni di tai congiunti, fian
compone de i trattamenti, et delle ragioni, che già fi fon partitaméSi te
dichiarate, &c inoltrate ad vn per vno ne i detti modi. Ma fe gli
accafeherà, che già riabbiamo per innanzi altra volta giurato cofa, che fia
contraria a quello, ch'ai prefente diciamo, et ci offeriamo, oucraccettiam di
giurare ; doneremo dire, che non dee per quefio il precedente giuramento
(limarti fpergiuro. Sj perciòchc cllendo lo fpergiurare vna fpetic di fare
ingiuria, et non potcndofi chiamate ingiuria quella, che nó fi fa Ipontancamenre,
Se volontariamente, ne feguc, che non ellendo fpontanco, Se volontario quello,
che l'huom fa, o neceflìtatoda forza, 0 indotto da qualch'inganno, come e
accaduto a noi nel giuramento per innanzi fatto; non dee per confeguentc
fpergiu84 ro nominarli. Et qui farà ben di inoltrare in che la
toltantia dello ("pergiuro confida : affermando, che dalla mente
dependa, 85 8c non dalla lingua, di colui, che giura. E r fc dall'altra
parte 1 auuerfarion olirò farà (lato quello, che per innanzi altra
volta riabbia giurato cofa, che ila contraria a quello, ch'ai prefente dice;
potremo in tal cafo dire, che il voler* egli non tener valido, et non Ilare a
quello, c'habbia vna volta giurato, non è altro, ch'vn %6 confondere ogni
cofa, et fouuertere ogni ragione h umana, percioche non per altra cagione,
fenon per quella, cioè perhauer per fermo, et Ilare a quello, che fi fia giurato,
non ofano i giudici di fcruirfi delle llelTc leggi nelle fententic loro, fe non
fan giuramento prima. et riuolgendoci a i medefimi giudici foggiugneremo.
Noi dunque ricercherem da voi, Se flimaremo, che vificonuenga di fhr
collanti, et haucr per fermi i giuramenti noftri, et noi tituberemo, et per
validi non haremo i noftri ì 88 Altre cofe ancor potremo aggiugnere, cioè
tutte quelle, che fiano habili ad amplificare ampliando la bruttezza delio
fpergiuS 9 tradotta in lingua volgare da M. tsrfejfandro Ticcolomini.
DELLA RETORICA D’ARISTOTELE à Theodetto, TRADOTTA IN LINGVA
VOLGARE Da P. c Del bifògno> eba l'Oratore della cognttton de gli
affetti, (ef pafìoni humanc^. Qva 1 cofe fàccia di bifogno
d'haucre l'occhio in fuaderc, in di (Fu ad ere, in biak mare, in
lodare, in accufare,& in difendere, et quali opinioni, et propofitioni
elTer pongano vtili a far fede i n tutte quelle opcrationi,può ellcr
manifcfto per quello,che fin qui li e detto, percioche di quelle cofe, et a
quelle cofe, c'habbiam noi allignate, deon dedurli, &deon hauer
riguardo gliEuthimemi, che (cparatamente in ciafehedun gcncr d orationi,
addurre, Se vlar fi O ij deono. ioS ^Della Ttgtprìca d[c_j 5
cleono. Hor perche qucft'arte della Retorica ha da terminar Tempre in
qualche adcnlo, o giudi tio, che ne faccia chi ode ; per cagion del qual
giuditio fi pone in vfo, pofeiache lcilcde confultationi ancora, nò padan
Icnza'l giuditio di color, ch'odono, Se il Tentennare dello nelle caufe
forenfi, non è altro, che giudi4 tio; è neceflano pcrqueito, che non folo fi
procuri, che la orauon fia tale, che pofla con pruoue, Se con argomcti far
fede, ma che s'ingegni ancor colui che parla, di far parer fé ftedo
della tale, Se della tal qualità formato, Se renda colui ch'ode, et giudica,
in qualche maniera qualificato a modo, et commodo fuo. 5 conciofiacofa che
alla perfuatìone, Se alla fede, che s'hà da fare, grandemente importi,
principalmente nelle confultc, et dipoi nelle caufe giudiciali ancora,
l'apparir più d'vna qualità, che d'vn'altra qualificato, et difpolìo
colui, che parla, Se l'ederappreflb di color, ch'odono in opinion
d'affettionato, Se ben verfo di lor difpofto, Se 1 edere oltra ciò più ad
vna difpofition, che ad 6 vn'altra inclinati, et volti color,
ch'afcoltano. Et quanto primamente all'apparir colui, eh e parla, della tale, o
della tal qualità difpofto, prcualc, Se e vtil quefta cofà principalmente
nelle de7Iibcrationi, &cófultationi. ficome dall'altra partel'cflernella tale,
onella tal maniera inclinato, comroodò, Se alterato l'afcoltatore; preuale
fpetialmentc nelle caufe giudiciali: pofeiache nonlemedcfime cofe paiono
da edere approuateacolor, cheamano, Se a color, ch'odiano, ne le medefime a
color, che fono accelì d'ira, Se a quclli,chc d'animo mite,& placato fono :
ma paion loro o in fe diuerfe,o totalméte appofte, o almen'in quatità,cVgradezza
differcti aliai, imperciòcheacolui ch'ama,parrà
fa cilmcte,checolui,dcllacui caula hà egli da fai giuditio, o no
hab bia fatto ingiuria,oleggieriiÌjmarhabbia fatta: Se a colui,che
l'ha f in odio>tutto'l còtrario pare.Parimcte colui,che fuole
auidaméte defidcrare, Se cófidctemctc fperarc ; fe cola futura fe gli
offenfee l'ani nio,ch' egli pcfi,che lìa per recargli diletto,facilméte
s'indu-r rà a creder, che fia per fucccdcre, Se a ftimarla, per cofa honefta.
doue che tutto'l contrario farà per parer a colui, chela diio (pregi, o non
l'appetifca, o la ftimi difficile a fucceder mai. Hor quanto all'cffer
tenuti degnidi fede color, che parlano, Se all'cfler lor creduto ; tre cofe
poflbno efTcr di ciò cagione, pofaachc ultre turile fon le cofe, mediami le
quali, ultra le pruoue, Se Jl ne, &r gli argomenti, ci induciamo
a dar credenza all'altrui paro11 le. et quefte fono la prudentia> la bontà,
et la beneuolentia, che 11 s'habbia in opinion trouarlì in colui, che
parla, cócioliacofa che per caufa della mancanza di quefte tre cofe dette,
o d'alcuna d'effe, polli accader, che s'ingannino, Se quel, che non conuenga diI)
cano color che parlano, o dan configlio. peroche o per imprudentia,& poco
faper, non bene (limano, o intendon la cofa, dclla qual parlano, o le pur non
s'ingannan nella Iti ma, et nell opinion che n'hanno; nondimeno per malitia, Se
per iniquità non voglion dire, o far manifefto quello, che veramente
conofeono. 0 ver finalmente fé prudenti, Se non iniqui Tono, fon nicntedimanco
poco amici, o beneuoli, Se per tal cagion s'aftengon da'l dir nei configli
loro quello, che veramente conofeono, cirereil meglio, Se potere ellcrc
vti le. Quelle tre dunque fon lecaufe, Se non altra fuor di quefte, per
vna, o più delle quali,può chi par la non dir quel, che conuenga. Onde è
necelTario che colui, che farà ftimato hauere inlìemcmenre tutte quefte
cofe habbiada trouar'apprellb di chi l'afcolta, credito, et fede alle fue
parole. Hor donde, cV: in quii modo lìen per poter fare appari re altrui color,
che parlano, d eller prudenti, Se virtuoil ; fi può facilmcn te trar da
qucllo,chintorno alle virtù diltinto,& dichiarato riabbiamo : pofeiachei
medelìmi luoghi ci polfon feruirea fare, Se 1 8 gli altri, Se noi apparir
per honefti, Se per virtuofi. Della beneuolentia, et dell'amici tia poi, potrà
quanto appartenga a quella, renderli manifefto in quello, che verremo al
prefentc a dire de 15 gli affetti, Se palli oni humane. Et quelli intendo
io efler gli Immani affetti, liquali commouendo, et alterando
l'huomo,fon potenti a variare,& diuerlìficare in lui li pareri, Se i
giuditij fuoi. a i quali affetti, due di lor feguon dietro, cioè la
moleftia, e'1 piacere. Et gli affetti fono, come a dir, 1 ira, la compalfione,
i l ri— 10 more, Se tutti gli altri coli fatti, Se li lor contrarij.
Inciafchcdun de i quali fa di bifogno, ch'in tre parti andiamo nel trattar
d'effi diftinguendo le cofe, che s'hanno in quelli da confidcrare.
com'a dir(per efTcmpio)ncirira, in che maniera (ìan dilpofti quelli,
che fi fogliono accender d ira ; et con tra di qual forte di perfonc foglia
Thuomo adirarfì j Se per cagion di qnai cofe foglia finalmente quello auucnire.
conciolìacofa chefenoi harem notitia d'vna di quefte cofe, o di due, Se non di
tutte a tre, impoflìbil ci fia dimuoucno *DelU ^Retorica d*
Aristotele di muouere, o eccitar ad ira. Et il medefimo s'ha da
intender negli altri affetti. Nella maniera adunque,che nelle già di
fopra trattate materie habbiam fatto in diltinguere, et allignare
appro priate propofitioni ; parimente in trattar di quefri affetti faremo
diltmguendo, Se allegrando in ciafeheduno affetto fpetiali propofitioni
fecondo 1 già detto modo. Dell' affètto dell 'Jra. Ntendasi per hora adunque
effer l ira vn pungitiuo, Se atfliggiriuo defiderio di vendetta, che fu a
chi la riceuc manifcfla ; nato in noi da apparente vilipendio, che ci paia
fatto fuor del douerc contraili noi, o di pedona a noi congiunta, et apparte x
nente. Hor elfendo tale l ira, quale l'habbiam deferitta ; ne fcgue di
ncceflità, che colui, che s'adira; s'adiri fempre contradi perfona
particolare, o ver fingolarc, o indiuidua, che la vcgliam dire, com a dir
coatta di Cleone, Se non contra dell huomoin genere : Se che colui contra
del qual'ci s'adira, habbia o contra di lui, o contra d'alcun dei fuoi
fatto qualche cola di maleo moa Itrato euiden temente animo preparato a volerla
fare. Etèparimentc neccflàrio, che ad ogni ira fempre fi congiunga, Se
fegua vn certo piacere, et vna certa voluttà, che nafee dalla fperaza
del vendicarli : elfendo cofafoauc, et gioconda il penfarc,&
hauere opinion di confeguir le cofe, che ìì dclìderano ; ne alcun e,
che defideri quelle cole,ch'cgli Itimi cllere a lui imponibile il confeguirlc
: Se colui, che è prefo dal'ira ; defidcra cofe, ch'egli lutila 4 clfcra
lui polli bili. Onde accommodatamente, et con gran ragione fu in proposto dell
ira detto, che l'ira più dolce del ben } purgato mele, cade ltillando ne i
perti de gli huomin forti. Seguita dunque, Se Ci congiugne vn cofi fatto
piacere, Se diletto alFira, olerà la ragion detta, per quelì altra
ragion'ancora,• perche ftàdi continuo l'irato in vna certa forte
immaginatone, Se cogitatione,& difeorfo d'animo intorno alla vendetta,
ch'ei penla € fare, laqual vehemente, Se gagliarda immaginationc, &:
ruminatone viene a caular voluttà nel modo, che la cagionan
quelle immaginationi di cofa, che piaccia, lequali dormendo ne i
fogni 7 accafeano. Hor perche il vilipendio non e altro, eh' vna certa
eC pprefl!one,& attuale inditio d'opinion, che s'habbia d'alcuna
cofa 8 come fe di nefliin conto,& di ni un pregio fia : pcrciochc le
cote, che fon da noi giudicate o buone o rce,o almen tali, che a cofi
fac te conducano, Óc rifpetto tengano, fon parimenieda noi tenute, in
qualche confidcrationcodi bene, odi male,* doue che quella, che noi
giudichiamo, come fé niente fulIero,o almen come che o nel bene, o nel male
di piccolifllmo momento fiano, vilipendiamo, et non ne facciamo ftima,n£ le
tcniam degne di coniide} tarli in elle; nefegue che habbia per quefto da
(apere,che tre forti, o vero fpctic fi truouan di vilipendio ; chef«no il puro
dilpre gio, il difpctto, et la contumelia, o ver oltraggio, o onta che
le 10 vogliamdire. Percioche quanto primieramente al puro difpregio>
colui che difpregia, non e dubio, che non vilipenda : pofeia che
difpregiando noi quelle cofe, che di ncllun conto degne teniamo ; 6c {'olendoli
vilipender cofi fatte cole, ch'in nitìna ili ma fi tengono; ne fegue, che
il difpregio fiafpetie di vilipendio, i x Parimente colui, che fa
dispetto, moftra anche egli di vilipendere : conciofiacofa che il di/petto non
fia altro, ch'vn cercar d impedire, interrompere, et d opporfi in fomma a t
voleri, et a i dilegni altrui : non perche a noi di ciò qualche commodo, o
vtil 11 venga; ma perche noni habbian gli altri. Facendo noi
dunque quello, non a fine> che cofa alcuna ce ne venga, veniamo confcguentemente
a farlo per vilipendio quali che coli a vile tcniam quel tale, che
vilipendiamo, come s'ei non valellè nulla, ne in 1 5 ben, nè in male:
ellèndo chiara colà, che noi miniamo, eh egli in cola alcuna non ci polfa
nuocere : pofeia che quando ciò non illi mallimo, temeremo del danno,
ch'ei ci potette fare, ik per confeguentenon lo vilipenderemo. parimente
(limiamo, che in co* fa alcuna, eh importi nulla, giouar non ci polla :
pofciachequani do cofi ili ma filmo, procurammo, &c porremo fiudio di
farlo be14 ncuolo, cV amico noflro. Medcfimamenre colui, che fa onta,
o ver contumelia, vicn ancora egli a vilipendere; confiftendo
la contumelia in cagionare in chi fi fia qualche nocumento, o moleftia in
cofe ch'imporrino ignominia,& vergogna in chi le riceue. et ciò non per che
colui, che lo fa, penfi che habbia a refilltargli per quello altra cofa, che
quello Hello fatto, o perche altra fimil cofa na Hata fatta alni ; ma Coi
per cagione di quel piacere, j j et diletto, che gli ha di farlo. percioche
di coloniche ccrcan di render il
male, a chi male habbia fatto a loto, non diremo, che in ciò
contumelia facciano, ma vendetta. Et la camion del piacere, et del diletto di
coloro, che fan contumelia conliftc nel parer loriche con fare oltraggio, et mal
trattamento ad altri, ne rifiliti maggiorracrc ad cflì vna certa fuperiorità
d'eccedere y Se per que Ao auuicn, ch'i gioueni, 5c i ricchi lìan per
natura oltraggiofi,& contumcliofi : come quelii,che con far contumelia
prendono in 1 8 loro fteffi opinion d'eccedere. Vilipende dunque chi fa
contumelia per eilcr proprio della contumelia il non tenere in
alcun pregio, et in alcana ftima, cV chi non (urna, ne tien in
pregio,nó e dubio, che non vilipenda; pofeiache la cofa eh e tenuta a
vile,o per dir meglio, e tenuta in nulla, neilun pregio, o ftima
ritiene, ne in mal, ne in bene. La onde Achille tutto adirato
dice,Non ha gli fatto conto,o ftima di me: perochc hauendolo a me
tolto, gode egli, et poflìede quello, ch'i Greci tutti in han dato in dono.
et altroue dice, Egli non altrimenti mi tien in cóto,che s'vn vii
difeacciato ribello io fulfe. Le quai cofe dice Achille, come 20 chequefte
fu (Ter folo le cagioni, che l infiammauan d'ira. Et ci pare, ch'a color
mafllmamente conuenga il far grande ftima di noi, liquali ci fiano
inferiori di nobiltà, di potcntia, di virtù, et di quelle cofe in fomma,nelle
quali di gran lunga ftimiam d'eccc % 1 dcrgli, et auanzargli ; come nelle
ricchezze(per clfcmpio) dal rie co è ecceduto il pouero : nella facilità
del dire, dal facundo è futi 3 perato colui, che non può a pena la lingua
feiogliere ; nell'autori tàdal principe è fuperato il fiiddito 9 et da chi
fia degno di comadare,& di dominarc,colui che fi a degno d'obbedirc,cV d
eller 13 dominato.Etperò fu ben detto,potcntiflìma è l'ira de i Rè,
quali che nutriti dal fommo Gioue. &c quell'altro detto ancora :
EeH ferba per doppo l'ira, per fatiarfi co lavendctta.& qucfto
accade, perche grandiftimofdegno concepifeono i potenti per il lorocc14
cedere. Color'ancora ftimiam noi, che conuenga, &ragioncuol (ìa, che
ci habbiam d'hauer rifpetto, et da tenere in conto, da i quali ci pardi
poter con ragione afpettar di riceucr bene. et tali fon quelli, a cui
noihabbiam già altra volta fatto benefitio, o fac ciamo al prefente, o noi
fteflì, o alcun noftro congiunto, o perfo na, che ci appartenga, o altra
perfona perordin noliro : o vero 16 habbiam pronta volontà di farlo,* o
Ihabbiamo hauuta. Da quelle cofe adunque, che fi fon dette fin qui, potrà hora
agcuolmcntc renJl Secondo libro • / ; j te render fi manifcfto,in che
maniera difpofti, et qualificati fiati quelli, che adirar fi fogliono: Se
conerà di quali, et per cagion di quai cofiòs'acccndon di
tararTetto.Perciochequanto primierame te a quelli,chc s'adirano,
facilmente a ciò s'inducon le pedone, quado in qualche molcma, o dolor fi
truouano. cóciofiacofa che tempre in color, che fon punti, et afflitti da
dolorc,bifogna che fi 1 8 truoui desiderio di qualche cofa.onde qualuquc,o
direttaméte al confeguimento di qualche defiderio loro fi contraponc,
come faria (e ardendo effi di fete, non gli lafcialfc bere, o ver te non
direttamente, al meno in quaì fi voglia modo non adherifca loro, mafia
loro di ri tardati za,o d'impedimento ; nel mcdelìmo modo tp para loro di
Tettarne oftclì. Ers'alcun s'adopra incontra per impedirgli, o s'alcun'altro
non s'adopra per compiacergli, et per louuenirgli, o ver Te in qual fi
voglia altra cofa, mentre che (tanno in qucll eiTere ; alcun fia, che punto dia
lor diiturbo ; contra tutti quelli s'accendon d'ira. Laonde quelli, che fon
molcftati da innrmità,quelli,che fono opprelTì da pouertà ; quelli, che
fon grandemente innamorati; quelli, che (cntono ardente fete,
&c tutti in fomma quelli, che gran cupidità tengon d'alcuna
co(a,£\: quella non confeguifeono ; fon'iracondi, ella %lortca
dXriftotck^ fecondo ch'egli dclìdera, maggior piacere, Se diletto fente,
Ce 3 € quella fuor d'opinion Tua, et da lui non afpcttata,adiuienc. Onde
può da quefto apparir manifefto quali occalìoni, quai tempi, quai
difpohtiom, quali età Han più facili, et più accommodar a dar cau(a,&
fomento all'ira ; Se quando, doue ciò più aeeuol 3S teaccaichi: Se che
quate più di cosifatte condì rioni, et circonftantic accommodatc all'ira, in
chi lì Zìa concorreranno; lanto più verrà egli atto et facile, ad cflèr
con ci tato, Se mollo da questo 09 77*2; f «n dunque,* nella manicra,chc
detto habbiam, dilpoitifoglionoeircr coloro, che fon facilmente mobili
all'ita! 40 condia. Contra quei poi fuolqucft'ah Whauerluoeo, li
quali o prendono a rifo, o beffeggiano, o fchernifcono,o có acuti motti
pungono : concionacela che tutti quelli tali vcgan'in fir q uc41 Ito a dar
fegno di cÓtumelia. Parimen te contra di quelli s'accende 1 huomo in ira, i
quali nuocono, o Ci moftran Contratti in cole, chcilcr pollano inditij, Se
legni di contumelia, Se di vilipen41 dio. Se così fatte par, che necetfanamete
lì pollano ftimar quelV? i ncI,CqU 11 nuoce, non perche filia nccuuta
qualche pitela, Se nocumcto prima, ne perchcqualch'vtile, o comodo
di ciò ne venga: et per quefto può parer, che ciò Ci faccia per
fola contumelia. Contra di color ancora fuole l'huomo
aeeuolraétc adirargli quali lo biafmano, Se con parole fegli oppongono,
Se moftran di no tener di lui ftima intorno a quelle cole, ncllcqua44 liei
[faccia pnncipalmcic profcflioncor ftudio. come (pcrellempio) le cercando alcun
d'eùer tenutoin pregio nella filofofla,fuf4/ le chi moftrairc di rcneilo in
ella in pochiftìma ftima. o fc ftimandofi egli dotato di bellezza, Se di quella
s inuaghilfc, fune chi come poco bello moftraife di giudicarlo, c i lìmil
fi dee dir 4* difeorrcndo nell altre cole. Et molto più ci Cuoi quefto
ancor auucmr quado detro in noi folpichiamo,o opinione habbiamo, cnc
quelle cofc,ncllequaii ci gloriamo Se reputation cerchiamo, o totalmcte
non fiano in noi,o almcn non ci nano in quella perfettone, che vogliara che le
fian tenute, o che fe pur v. fono, fo47 lpichiamo,che non paia nondimen agii
altroché le vi fiano. ma iemoltolalda, et certa farà l'opinione, Se la
certezza no ftra, che tai cofe fcnzaalcun dubio veramete fiano in noi, nò
ci farà tato a cuorc,nc terrem molto in cótoil bialmo, o il difpregio, eli
alcun 4» ne faccia. Appretto di quefto cótra di coloro, che noi
reportagi P amici, molto più,fc ci ofFendono,ci accediamo in ira che
cótra Jl Secondo libto. / rj di quei, che no ci fon amici: peroche da
eli] ftimiam concnir più torto d'haiicrc a riceucr bene,c'hauer p il
córrano a rice uer male. Mcdefimamcte color, che fon (oliti d'honorarci,
Se d ilanerei m còro, Se in cófideracioiiCjfcgli accafea poi, che non fegu
in di far più qucfto, ci cóciran facilmente ad ira. cóciofiacofa clic
agcuolnicrc potiam da qucfto cóicrtnrare, che ci deprezzino, Ov a vii
ci tégano.pofciache fe quello no fulTe, fegiiircbber di far quel,
che faccuan pi ima. Color parimcte eccitar foglion córra di le 1
nano ftra,i quali hauédo nceuuto benefitio da noi,nódimeno nelle
no ftre oc coi rene nó ne fanno a noi, ne fi curan di renderne il
córracablo. Se quelli ancora, i quali nelle lor'arrioni (on conrrari]
alle ji noftre,eirendo etì] nódimen inferiori a noi. Se quello
ciauuicn perche tutti queftì, cioè gli virimi, c'habbiamdcrri, &li
precedétedino indino di poco apprezzarci, Se di nó renerei in còro,
que 111 come ch'inferiori loi lìamo,& quelli, come che da inferiori be 54
netìrio riccuuio riabbiano. Oltra di quello maggiormente ancor prouocan
conrradi (e 1 ira nolrra quelli, eh eilcndo huomini di niun .òro, Se di
niun valore.cV: tenuti in nulla, moftran nódimenodi deprezzarci, Se di
vilipéderci.pofciachegià habbiam deferi uédo l ira luppolto nafeere
ella,c\: cagionarli dal viIipcdio,chc có 55 tra di chi nó cóucnga, fuor di
ragione, et del douer li faccia : ne è dubio,ch'a gli inferiori nó cóucga
nó vilipedcr i lor fupeiiori,ma 56 più torto honorargli,& tenergli in
cóto. Color parimctc,chc noi teniam per amici, le non dico ben di
noi,&: có parolc,o con opre non lì moltrano in fauore, &: in aiuto
nollro, (oglion facilmente 57 prouocarci ad ira: et molro ancor p.ù fe il
cótrario fanno. Et ancor fe cadendo noi in mamfelto biiogno d'alcuna cola,
eglino nó 58 rauuerti(cono,& nó vi volgo l'animo. lì come da Antifonte
è introdotto Pleirippo, che per tal cauia s'adira còntradi Melcagro. rp Se
quello auuicne perche quel nó auucrtire Se nó por cura, è manifeltofegno di
ditprczzamcto,& di tenere altri in nulla : potei a che le cole,che
premono, èv lon'a cuore, nó (oglion pallar'ignote 60 Se nó atterrite,
òentiam medelimamcte inliamarci d ira córra di quellljchene noftri
infortuni) gioi(cono,& fi rallegra no. Se córra di quelli 1 foni ma,
che p quali li voghan noftre mi(cric,cel/a ^Retorica d y jérìttotelt^ 6}
moleftia, o difpiacer ne venga. Et di qui è, clic facilmente ci adiriamo contra
di quelli, che ci portan qualche mala nouclla,ella Storica
d'Arinotela mieramentc adunque altro non etter la placabilirà, clic vn cer|
co quieramento, pofamenro, et ccllàtion dall'ira. Hora clfendo, che gli huomini
( come già Ci e detto ) s'adiran principalmente contra di coloro, che gli
difpreggiano, et vilipendono; &: ellendo il difprezzamcnto, ci vilipendio
cola (pontanea, o ver volontaria ; è mani fedo per quello, che verfo di coloro
> 1 quali o non faran cola, eh cllcr polla a dilptegio, o vilipendio nollro
; o contra del lor voler la faranno, o almen ci paria, che coli la facciano;
manfueti, cV placati ci renderemo. 4 Et verfo di quelli ancora, i quali
vorrebber volontieri haucre 5 fatto il contrario di quello, che conerà di
noi han fatto. Verfo di quei parimente dineniam manfueti, et placati, i q tuli
quello dello c'han fatto contra di noi, han fatto parimente vcrlo di loro
fleffi : non parendo vcrilimil, che alcuno vii difprezzamcnto » vilipendio,&
Icherno verfo di le medefimo. E quello dello ci auuien verfo di quelli
altri ancora, i quali confcllano il fatto, et infiememente modran pentimento
di quanto contra di noi riabbiano operato, percioche accettando noi quel
lor dolerli, et pentirti, in luogo quali di lor gadigo, et di lor punitionc ;
viene in vn cerco modo a fatiarf\, óc per confeguente a mitigarli 1 ira già
conerà di lor concepura. di che ci può clfere inditio quel, che li vede tu
frenire nelgalbgare, et punirci ferii i : pofeiache quanto più opinati danno in
negare il fallo, et in opporli contradicendo ; tanto più feueramentc, et con
più irato animo gli gattigliamo, doue che per il contrario le confettando
cflì Perrorloru. «Se di efler per tal'errorc a ragion galligati, feniiamo
in noi (ubilo in gran parte mitigarli 1 ira. Et la ragion di quedo li dee
dimar, che fu, che il negare odinaramente le cofe apertamente manifede, fa
inditio, et argomento di sfacciata impudentia, et di mancanza di
verecondia : tk l'impudcntia, et l'inuerecondia, par che liano vna forre
di difprezzamcnto, et di vilipendio. Se che ciò da il vero, alla prefenna
di coloro, che noi nulla filmiamo, et reniam grandemente a vile; verecondia
giamai aleuto na non fogliamo hauere. Manfueti, et placati ci lodiamo rendere
ancora verfo di quelli» i quali ci li modran o humili, fegue che noi
moftriamo : difHniendo prima,chc cola Iia l'amici tia,& fa t£ mare
ftclTo. Intendali dunque per hora, altro non cfler l'amare, ch'il delìdera
re all'amato cofe, che noi (limiamo ellèrgli beni : Se ciò non percaufa
nollra propria, ma per caufa dell'amato (ietto : con procurar con ogni
diligenti* 3 fecondo le forze noftre, ch'egli le conleguifca. L'Amico poi
s'hà 4 da fumare elfcr quello, il quale amando lìa ancor riamato.
Onde color fi Iti meranno,& reputeranno d'elfer tra di loro amici,i
qua liharanno opinione, et credenza d'elfer cambicuolmcntc l
vn verfol altro nella maniera, c'habbiam diftìniro l'amare, Se l'ami5 co.
Siippoiìodunqucpcr vero tutto quello c habbiam detto,ne fegue
nccclfariaraentc, che amico d vno farà quello, il quale infiemeancora elfo lì
rallegrarà delle prol perita di quello, et li con dolcrà delle cofcauuerfc,
Se delle infelici, Se non ad altro fine, 6 ne per altra cagione, che per
cagion di lui. percioche rallegrandoli, Se fentendo diletto tutti gli huomini
generalmente in vede re effettuar le cofe fecondo ! volere, Se defidcrio
loro, Se rattrilìadoli, Se fèntcndo dolore quando per il contrario accafeano;
ne fc gue, chele tnftczze>ò\: fc voluttà lìen grandinami inditi) delle
vo 8 lontà de eli huomini. Color mcdclìmamentc fon tra di loro amici,
a i quali le medcfime cofe fono, o ver paion buon e, et le mededmecattiue.
et quelli parimente, ch'alle mededme perfonc fono amici, Sfalle medeìime fon
nemici : percioche in cai cad vengon nccedàriamente a rincontrar con le
volontà nelle medefimecofe : onde volendo, Se delìderando ciafchcdtin de
(fi » le cofe mededme a Ce dello, chei vuole, Se dclìdera ali altro,
vien 1 1 per quello a potere elfergli (limato amico. Quanto a
color.che Sogliono edere amati, fon primieramente da noi amati quelli,
da i quali habbiam riceuuto benefiti;, o noi ftedì, o alcun di
quelli, che ci fon (ommamente cati, o che fon lotto la protettionc > et
cu ra nodra : et madì inamente fé grandi fono dati li benefìrij, o
fé prontamente fatti, o fe nella tale,& nella tale occa(lone,&
oppor tunità di tempo, o fe non ad altro tìnc,chc per fola cagion di
noi. ti Et parimente lon da noi amati, fe quantunque non habbian fatto per
il pallato benefici j, com'habbiam detto, conofeiamo non.dimeno, c'han
difpofta, Se pronta volontà di farne. Sogliamo mcdefimamcnte amare gli
amici degli amici nodri,& coloro' che amano quelli iteflì, che (on da noi
amati : ne manco quegli ij altri, che fono amati da quei, che noi amiamo.
Et ol tra ciò fogliamo amar coloro, che fon nemici di quei m edelì mi, de i q
ualt damo nemici noi ; Se color parimente, che portano odio a
quelli (ledi, che fon da noi odiati ; ne manco ancor quegli altri, che fo16
no odiati da quelli, che noi parimente odiamo, percioche a rutti quefti,
c'habbiam raccontati, vengono a parer beni quelle deffc cofe, che paiono a noi
; Se per confeguente veniamo a volere, Se desiderar cod fatti beni in loro
: il chegià habbiam detto eder 17 proprio degli amici. Amiamo medefimamen
te coloro,che fon foli ti, Se atti abenificarc, tk giouare altrui, Se
madìmameute in danari, Se in cofe, ch'importano alla faluezza della vita,
Se della 18 fallite noftra. Onde auuien, ch'i liberali, e forti fian ben
voluti, et honorati generalmente da tutti. Amate fon patimcntc da noi le
pedone amiche del giù Ilo, 6e tali (limiamo eder quelli, che nò afpiran,
ne cercan di viuer di quel de gli altri, o con pregiuditio 10 di chi Ci
voglia. Se cod fatti fon quelli, che ftan contenti in procurar di foftentard
con le propriefodantic,& fatighc loro:quali fi dcono dimare eder
mammamentc quei, che fono amarori dell'agricoltura, &: dalla cultiuation
della terra viuono : Se quelli mededmarnente, che con 1 induftria, Se
opera delle proprie ma. 11 ni, pi oueggono alla vita loro. Appredo di
quello fogliamo ama r Q_ ij quelle perfone, che in tutte le loro arcioni foglion
inoltrar t'em* perantia Se moderna : conciofiacola che da coli fatte
perfonc,co11 me da non ingiufte, non fi foglia temei • d'ingiultitia alcuna.
Et per la mcdefima ragione amiamo ancoi coloro, i quali non curiofi >
et tra negotij, et liti Tempre inquieti ; ma tranquilli nella *3 lor
quiete viuono. Son da noi parimente amati coloro, a i quali defideriamo di
diuenireamici, feconolciamo, cheflì il mede2^ fimo defiderio tengano. &:
tali fon quei, ch'in qualche nobil virtù preuagliono, et rifplendonotcv quelli
parimente,chc fono in gran reputatone, et ltima, o appreHo communementedi
tutti, oapprellbdci migliori, oappreilbdi quei,chcnoi
habbiaraoin ammiratione, o appretto finalmente di quelli, che (limano, et t$
ammiran noi. Sogliamo oltra di quello amar coloro, che fon per natura
dolci, et giocondi nella conuerfatione,& tali, che con diletto fi
foglia con cflì confumare il tempo. Se cofi fatti lon quel U> che di
benigna, et fàcil natura fono,& non de eli errori alttui curiofi
oflfcruatori, o minuti riprenfori ; ne fono altercatiui,o có16 tcntiofi, o
amatori di liti. pofeiache tutte quefte perfone cofi fat te fono amiche di
contrariare, di pugnare, et d opporli fempre in ogni cofaagli altri :
nèèdubio, che quei, che fan queft,o,non moltrino in ciò di non conuenir
nella volontà, ma di volere il 17 contrario, che gli altri vogliono. Soglion
renderli amabili ancor coloro, li quali fon molto deftri, Se atti, cofi nel
mordere, Se punger giocofamentc, et fcheizcuolmcnte, come ancor nel
fop-, fumare, Se riceuer con patiente, «Se amorcuolc animo i morii,
Se e punture, che fian date loro, conciolìacofa che gli vni, Se gli
al* tri, cioè quei, che pungono,&: quei, che puti fono, vn medefimo fin
della càbietiol dilettation riguardino;métre che co lieta patié tia
riceuono in fc fteflì i morfi,8c co accomodata deprezza inorai dono. Amiamo
medefimaméte quelli, da i quali fentii lodar quel la forte di beni, che
fono in noi : Se tra quelli beni, ptincipalmc te quelli, del portello dei
quali, noi non ben fecuri, fofpichiamo alquanto, che veramente non fiano in noi.
Ci fi rendon parimente amabili quei, che moftran fempre alla viltà altrui
vna certa delicata nettezza, Se politezza, così nella faccia, Se nell’aspetto,
come ne i vcftimenti, Se in tutta finalmente la vita loro. 5 x Non fiamo alieni
ancor da amar quella fortedi perfone, che no han per coflumc di
rammemorare, Se gittarc al vifo altrui, o gli errori Jl Secondo libro.
/ isj* errori da altri commeflTi, e i benefitij da lor già fatti :
pofeiache l'vna, Se l'altra di quelle cofe, fa argomento, et inditio,
che limoni fia auido,& diletto prenda d'eller reprenfiuo,&
redarguì 31 tiuo. Se quell'ai tra forte d huomini ancora amiamo, i quali
non foglion tenere imprende molto nella memoria 1 ingiurie, e i danni, che
fon lor farti: nècurioli indagatori, oofleruatori fon delle colpe, Se
dell'ortelc altrui ; ma fon facilmente riconciliatiui, Se 3 3 amici del
pacificarli, pcrciòche quali noi gli filmiamo eller vcrfo degli altri, tali
ancora ci diamo a credere c'habbian da eller 3 4 verfo di noi. Ci li
rendono amabili ancor coloro, che non li di* lettan di dire, o di penfar
mal d'altrui, ne cercano, o braman di faper gli altrui o i noftri falli,ma
folo il bene ; cilendo il far que3j fio veramente ofHtio dell'huom da bene.
Soglion parimente effere amati quelli, li quali non fi dilettan, ne han
percoftumc di contrapporli, o d'attraucrfarlì a color, che lì truouano
accefi d'ira; o a quelli, che con grande atrentione fono fedamente, et fui graue
occupati in qualche cofa: perciochc quelli, che fan quello 3 6 non pollono
eller, fe non perfone altercati u e, Se contcntiofc.Facilmente ancora ci
induciamo ad amar quelli, che tali ci lì moftran verfo di noi difpolti, come
chi ci riabbiano in ammiranone, Se ci repurin virtuofi, Se da bene, et della
conuerfation no37 ftra diletto prendine Se malli mamen te le cosi fatte lor di
moArationi, Se opinioni c'habbian di noi, fono intorno a quelle cofe,
ncllcquali principalmente delideriamo d'ellerc ammirati, Se di parere
altrui virtuofi, Se habili a dar diletto có la noftra cóuer 3 8 fatione.
Sogliamo olrra di quello amare gli vguali, Se i limili a noi,&: quei,
che fan la medeiìma profelfion di noi; Se ne i medefimi Itndij,
&arti,elTcrcitio, et diligentia pongono : fegia no ac cadclTe, che per
tal caufa l'vn fulTe d'impedimcto all'altro ; o che tutti hau eller
dafoflentar la vira da vna arte, ouer profeflione 3£ ftefla. perochein tal
cafo fi verificherebbe il prouerbio, chedice, IlVafaro odia il vafaro.
Etmedefimamcnte ci fi rendono' amabili quelle, che delle mcdefime cofe ci
fi moftran defiderofi, che noi parimente defideriamo : quando le cofe fon
tali, che pof fono iniiememcnte eflerda loro,& danoiconfeguite,eV
pollèdute. altrimenti quando quello accader non poteilejharcbbe luogo il
medefimo prouerbio pur'hora addotto. Olirà di quello color parimente
amiamo, co i quali così fatta difpofition teniamo, cFic ci fa non vergognarci
apprclfo di loro di quelle cofe* che più rodo in apparenti*, et in
opinionc > che in verità tengono in fe bruttezza : fegià qucfto non
vergognarcene non na(ccf45 feda poca, o nulla rama, che noi di lor faceflìmo.
Eramiamo ancor quelli dall'altra parte, appretto dei quali teniamo
rofloc di vergogna di quelle cofe, che più torto fecondo la verità,
che 44 fecondo l'opinione, habbiano in fe del brutro. Son
parimente da noi amati quelli, dai quali habbiam caro d'efler tenuti
in 45 buon concetto et in conto d honorc, et di (lima. Et quelli medclimamcte
o amiamo, o defideriamo haucr per amici, da i quali delìderiamo eflcr tolti, et
fcelti per oggetti dcmnlatfonc, Se 46 d'imitatione, ma non d inuidia. Siamo
ancor pronti ad amar quelli, inficmc, co i quali per acquifto, et confeguimcto
di qual che bene, ci fiamo operati : fe già per quello non fi vedeile poi, che
fulle per venirne a noi mcnteamati. Et in fomma l'elìer grandemente amator de
Riamici, et il non abbandonagli, et reftar d'amargli per qual iì vojo glia
cafo> è cofa, che rende molto amabile I h uomo. peroche fe ogni forte
di bontà, cV di virtù, far fuol le perfonc amabili, maf fimamence lo fa l'haucr
bontà, et virtù nell'amare. Sogliamo oltradi quello amar quelli, che nel
lor conuerfar non procedon con elTb noi con fintioni, et diflìmulationi de
gli animi loro, et tali fon coloro, i quali i falli loro non fi vergognan di
confeilarc, cVmanifeftare; hauendo noi già detto, che con gli amici non
ci vergogniamo di far lor palefi quelle cole, che fon più fecódo l'o%\
pinione, che fecódo la verità colpabile. Onde fe colui, che di ciò lì
vergogna, non ama,vcrrà confeguentementc colui, che no j4 prendcdi ciò
vergogna a moftrar d amare. Siamo ancor pronti ad amar coloro, che
formidabili, o tremendi non ci fi moftrano, et ne i quali fecurezza, et confidentia
habbiamo, percioche neffuno è ch'arai chi fia da lui temuto. Spctie dell'amici
tia fono, lamicitia trà i compagni, ofotictà chclavogliam chiamare, lamicitia
trà i domeftici, et familiari ; l amicitia trà i propinqui,©* f€ congiunti
in (àngue, et altre fpctic parimente così fatte. Trà le Jfi [Secondo
libro. Ì27 cofe poi) che producano, &: generano l'amici tia fon primierame* te
li benefìci), Se il fargli iponcaneamence fenza afpeccar la forza dei
prieghi. Se olerà di quello il no predicargli colui, che gli
fì; conciofiacofa che nel predicargli, et nell'often targli farebbe
egli parer d'haucrgli facci per caufa fua propria, Se non per cauta
del" J7 l'alero,chegli riccuc. Quan co apparti en poi
airinimiciua,& aU Thaucr in odio, è co fa manifefla che da i luoghi
con era ri j a quelli, che noi riabbiamo adeguaci dell'amicicia, Se
dcll'amare,pocrà tS chi fi voglia per le ileiTo difcorrere Se cófiderare.
Prodocc.ici,óc generatici cagioni dell'inimicicia fono l'ira ; il
concrapporfi, o jS> conrrapponimenco, chevogliam dire, Se la
maladicencia. Ma l'ira non fi fuolc
ccciccarc in noi, fe non per cofe» che riguardici noi tlellì : doue che
l'inimicicia può in noi nafeer conerà d alcuno, fenza c habbia egli facco cofa,
che cocchi, o riguardi noi.pcrciochc fc della rale,& calcodiofa quali cà lo
fumeremo, fenza dubio alcuno, fenza altra caufa gli porremo odio. Apprcilb di
quefio no s'eccita, ne ha luogo lira mai, fenon conerà di
pedono parcicolari, come a dir con era di Callia, o di Socrace. ma
l'odio può hauer luogo conerà d'alcuna force d'huomini in vniucrTale,
confideraca nel gencr fuo : conciofiacoia che nciTun fia, chenonhabbia
inodio il ladro, et il calunniatore in genere» A quello s'aggiugne, che
l'ira lì vede elìcr mecficabilcol cépo, ma l'odio non riceue medicina da
quello» L'ira olerà ciò fpinge a dcfiderare di cagionar dolore, et molellia
ncirauueriario : doi ue che l'odio hà fol la mira al male, &al dàno
delia perfona odia ca. pcroche l'iraeo vorrebbe, che fullè da chi lo
riceue fencico, et fapuco donde gli viene il male, ÒV a colui» cheodia, purché
t l'odiaco habbia il male, poco alerà cofa importa. Ec fono i mali, che
doglia, Se molellia apporcano, in namralor fenfibili,&: dallo ilciTo fenfo
percettibili. ma quei maliche principalmente filmar fideono, manco di cucci fi
ftnfencire: et quelli fono l'Ingiufìicia, Se Mmprudeneia, o ScoIticia,chela
vogliam dire, pofeiache neiTun dolore, o molellia la prefentia del vicione
fafen*4 eirc. Olerà di quello l'vno dei decer affecti ila icmpre accompagnato
con afTlicrionc, Se molellia di animo : doue che l'altro ne» hà fempre
fcco cotal molellia: conciofiacoia che l huomo nell'ef fere irato (enea
fempre dolore, Se nel portare odio non fempre 6 r il fenca. S'aggiugne
ancora a quello, che l'irato nel veder grandemente moltiplicare infortunij, et calamità
nel fuo auuerfario, fuol finalmente muouerli a compaflìone: ma chi odia,
non ferire pietà già mai. Et la ragion di quello e, che 1 irato altro non
cerca, Se non defidera, fé non che colui, contra del quale ha ira,
fen tacon dolore,& moleUiaellcr fatta contra di lui ricompera
del la comincila orfefa. ma colui, che odia, brama, et vorrebbe l'vltimaannullanonc,&
deftruttionc, Se lo Hello non cller della pcr46 fona odiata. Hor per le cofe,
che li lon dette, può eifer manifefto come lì polla fare altrui, conolccre
cllere amici, o nemici cuci, che veramente (bno : Se come quando tali non
fieno, lì pofùn fax diuenir tali : Se come parimente q uando per amici, o
per nemici fon porti innanzi ; fi polla difcioglier quella apparcntia, 4y
Se far conoicer, clic tai non fiano : et oltra di quedo in che maniera, venendo
in controuerfia s alcuna cola lìa fatta o per ira, o per inimici tia,s
riabbiada far parere, o 1 vna cofa,o l'ai tra, lecon i 8 do che ci verrà
ben d'eleggere. Quali fiano hor quelle cofe, per cagion delle quali nafee
timor ne gli huomini : Se quai (orti di perfone fogliano cfTer temute, Se
qualmente difpofti ficn [liei, che temono, per quel, ch'ai prefente diremo,
potrà citi manifcfto, / (apo j. *Del Timor e, et della Conjìdentia. ?3TH
Ohi amo adunque per hora, ch'altro non fia il Timore, ch'vn con tri /lamento,
Se vna pcrtnrbation dell'animo, nata da imninginatione, Se
opinione Kì. di detlrueeitiuo, oafìlittiuo futuro male, concior — 32 ha
cola che non tutti ì mali han tcrauu.comc a die | ledere in giù Ilo, o
tardo di mente, o fi mi le. ma folamen te quelli» i quali o intentinomi
dolori, Se molcftic, o l 'ideilo dellruggimc4 to, Se la (Iella morte, recar ne
polfono. Et quelli ancor non tempre fon temuti, ma folamentealhota, che non per
molto fpatio di tempo, lungi da noi fi moftrano, ma come vicini, cV quali
che adhora inhora fian per venire, già già pendenti appaiono : po(ciache i
mali, che molto tempo flimiamo, che fian per tardare j a venire, temer non
fi fogliono. Se che ciò fia il vero, nell'uno è, che non fappiaper cofa
certa d'hauerca morire, Se nondimeno perche c immaginiam la morte molto da
lunga, non par,che pensiero, o timor ci mettale vicina non la vediamo. Effondo
adunque il nmor tale, quale habbiam delcritto, è uccellano che tutte quelle
cole ci liano da clfcr temute, le quali ci paia, che habbian gran forza, Se
facilità di recar la dcitruttiohc, Se. la perditione, o almen così graui danni,
che molto acerbo dolorcóY pù> i 7 gente arili ttione ne partorì fcano.
La onde li legni ancoia,& gl'indi rij di cosi-fatti mali fon da clfcr
temuti; come quelli,che ci fanno apparire, 6c Itamar, ch'i mali, di cui fon
legni, ci llcn già vicH ni : ne altro che quello è il pencolo : cioè
apprellamento di graue, et tremendo male. Et così fatti legni fon primieramente
l'inumana, et l'ira di quelli, c'han potere, Se facilità di nuocerci, Se
di firci qualche importante male: perochceilcndo per quello manifefto, eh
elfi polìbno, et voglion farlo, ne fegue che molto 9 vicino, Se propinquo
(la, che lo facciano. Da temere ancor come indino di propinquo male lì dee
ftimar, che fia l'ingiuftitia in man di color, che potendo affai, han
facultà d'eseguirla : conciofiacota che liacon ella congiunto ancora il volere
; non edendò ingiufto colui eh e ingiufto, fc non perche clfcr vuole, Se Telo
legge, il valore ancora, et la virtù dell'huoino, s'ella vicn difp rezza t i,
et fchemita, Se fe forza, et poter non le manca; dee Teri(imilmcnte clfcr
temuta: clfendo inanifefto, ch'ogni volta che la Ila dilprezzara, quel difprezzamcnto
fa, ch'ella elegga, Se voglia nuocere, Se la forza,e'l poter che poi le le
aggiugne,fa che 1 1 la polla farlo. La paura medelìruamcre, che fia di noi
hauuta da pedone potenti, et habili a farci male, dee eller da noi temuta
: perche clfendo elle tali, nccellàriamenre laran fempre difpofle, li
et pirite a offenderci pcrfecurarlì. Oltra di queltu perche gli huomini
per la maggior parte fon più tolto cattiui, che buoni, Se non potenti a
refìlterc ali auara cupidità d hauere, Se timidi oltra cuS, Se vili ne 1
pericoli ; di qui è, ch'il più delle volte e cola da temer come pericolofa
il por la propria (ahi re io potcre,& in arbitrio d'altri. Onde vengono a
douerc elfer temuti da noi coloro, li quali fon confapeuoli di qualche nollro
importate delitto, o (celeraro fatto, o fon compagni in elio : potendo
elìì agcuolmcreo palefar quel, che fanno, o inqual lì voglia altro modo
tra 14 dirci. Medclìmamente tutti color, che lon potenti, Se habili
a fare ingiuria, deono elfer femprc temuti da quelli, che tono nobili, Òe
facilmente cfpofli àdellcrc ingiuriati : po.ci.iche perii R p.ù^li ij
più gli huomini, quando polfono, fan volonticri ingiuria. Do» ucranno
aacora elici da noi lemuri quelli, i quali o han riceuuto da noi qualche
offcla, o almen fi credon d haucrJa riceuuta : conciofiacola che femore
quefti rali ftieno olferuado leoccalìoil ni, ci rempo per vendicarli.
Dall'altra parre fondaeflcr tenuti ancora coloro, c han fatto ingiuria, fe
forza,& poter fi tritona in erti, come quelli, che temono,che non
fialorrenduto con la vedetta il cambio, hauendo noi già pofto quello tri le
cofe, che temerli deono. Apprclfo di quefto quelli, che per lacquifto,
fc poifelfo d'vna ftefla. cofa quau a gara tra di lorcontendono-,
dcon temerli gli vni gli altri, ogni volta che la cofa fia talc,chil luo
acquifto non polla negli vni, et negli altri hauere iniiemenicnre luogo:
pcrochegli auuien fempre che quelli tali fi oppongano, &c li nemichino
inlìeme per impedirli in tutto quel, che pollono. I 8 Coloro ancora, i
quali fono atti a dar timore a quei, che lon più. poteri ti di noi, dcon
parimente elfer da noi remuti ; come quelli, che più atti, et potenti farebbero
a fare offefa, et nocumento 15? a noi, eh aquelli. Et per la mcdelima
ragione temer debbiam quelli, che noi vediamo ellcre effettualmente temuti
da alcuni, che fian di maggior potere, et valor di noi. Et quelli parimcnre,
c hanno orlclo, o vecifo perfona più potente, et più atta a diII fenderli, che
non fata noi. et non manco ancor quelli,c hanno airalito, et fatto
fopr'vfo a pcrfone,ancor che di minor forze, Se 11 di minor conto di noi.
perochc eglino, o fon già habili a tentar quello ftelìb contradi noi, c\r
perconleguente da elfer da noi temuti ; o fon per pigliar da quel fitto
accrefeimenro di forze, 6c 15 d'animo da doucrc elfer da noi lemuri. Oltra
di quefto trà tutti quelli, che pcrelfcrc ilari ingiuriati da.noi, o per
elfer nemici, èc auuerfahj no il ri, ci dan caufa di temer di loro, fon
principalmente da elfer remuti, non quelli, eh à curi, et i ubici nell'ira fono,
et molto nel parlar liberi,• ma quelli per il contrario, che co di Hi mula
rione, aftu ria, cV calidità, placati di fuora appaiono. 14 conciofiacofa
che di quefti tali non ci polla mai elfer manifefto, ic il male, e il
pericolo ci lia dapprclfo ; &c perconleguente non ci potiamo
aliccurar, ch'il mal, c habbiamda temer,lia lontano. if Hor tutte le cofe,
che ci polfbn cagionar timore, alhor di maggior* fpauento, òVpiù da elfer
temutefono, quando al difordine, et al danno, che con erte venga, mal li può
dar medicina, o recar remedio, ma o in tutto correggere, Se rimediar non fi
può, over (e remedio alcun ci fia, non e egli in min noftra, Se in poter
noftro, ma in man più rollo degli auuerfanj, et nemici notò ftri. Et
medeiìmamen terrà le cofe, cheli deon tcmcre,qucllefon maggiormente da
temere, per la cui ncompenfa, et reltauro, o non da da trouarfi da alcuna
parte aiuto, oaìmen molto difficile »7 fiail trouarlo. Et per dire in
lomma in vna parola, fon da elfer temute tutte quelle cofe, le quali
vedendoli accadute inalrn,o già già pendenti per accadere, fono atte a
generare affetto di có18 paflione. Queftc, che noi habbiam dette adunque, fon
((i può dir) tutte quelle cole, che fon da elTcr temute, Se che per il
più, foglion temere gli huomini. fegue hora che noi diciamo,
qual forre d'huomini, et in che maniera difpofti, Se qualificati
lien quelli, che temer fogliono. Ellendo dunque il timor
cógiunto femprecon immaginationc, Se quafi afpettanon d'hauerea riceucr
qualche lefione, o patimento corrottiuo, Se dcltruggitiuo ; chiara cofa è,
che timor non farà per cadere in coloro, i quali habbiano opinione, et credenza
di non hauere a patir male alio cuno, oalmen temenza non haran di quelle cofe,
le quali eflì nò 3 1 minino, ch'accafcarlor debbiano, ne di quelle perfone
pan mere, dalle quali non habbiano opinione, che mal ne debba lor ve51 nire:
oalmen non ne temerannoin quel tempo, nel quale male alcun non n'afpcttino.
Onde neceffariamenre fegue, che in quelli farà timore, i quali haran
credenza, Se opinione di potere elfer da qualchegraue malcaflaliti, Se in
quelli parimente, che da quefte, o da quelle perfone, Se da quefte, o da
quelle cofe, Se in quefto, o in quel tempo, (ofpicheranno, Se (limeranno,
ch'il male, et il pcricol venga. Tra quelli, che non ftiman d
hauere ad eflerc aflali ti da grane male alcuno, fon primieramente coloro,
che fi truouan pofti in gran profperità di fortuna : Se per ouefto vengon
quefti tali ad ellcr contumcliofi, infoienti, Se dispregiatori d'ognuno, Se
ripieni, 6V gonfiati fempre d audacia, $$ Se di confidentia. et così fatti
gli foglion render le ricchezze, }6 la gagliardia,la copia degli amia,
l'autorità, Se Ja potcntia. Coloro ancora non penfàn, che graue male habbia da
venir loro, li quali fumandoli, che già fien venuti loro addofTo tutti i
più graui, Se più atroci mali ; fenrono agghiacciara, et quali cilinta
in elfi ogni fpcranza, ch'il futuro riguardar polla: come auuiert R
ij (per cileni/ Ideila lirica dj4rìttotc(z^> (per clTcmpioJin quelli,
che all' vi rimo ftippìitio condénari, all'èlecution di quello menaci (ono. mailumoic
ha Infogno itmpre per l'elferè, Óc mantenimento (no di qualche Iperanza di fallite,
3c di (campo in quel pericolo, et in quel m u, clic u u me, 3S o pare. Di
che chiaro indiiio ci può ellere il veder, eh il rimor reo del huomo
conlulratiuo, et nellunoc, che coniiglio cerchi in quelle cole, in cui non
lì in nmafte reliquie di fperanza alcu35? na. Pier laqual cofa quando noi
corniceremo, o ltunercmo ciìcr comodo alla caufa noftra, che qualche timor
ha negli alcol tarorij farà di mcftieri, che procuriamo di preparargli in
modo con la noftra orationc, che li dicno a creder d'clfer tali, ch
'ancora erti polHin patire, 6c riceucr male, come faria dicendo, che
patito 40 habbiano altri maggiori, et più potenti di loro: 3c facendo
lor vedere, ch'alrri limili, òc pari loro habbiano il medetimo
patito, o patano,& da tali, che mai (limato nò l'harebbero; et cai
cofe,& 41 in tal tcpo,che non harebber creduto, calettato mai. Hor perche
già intorno al timor dichiarato habbiamo,chc cofa egli ha, genera parimente
confidentia. Oltra di quello contìdentia fentirem venire in noi, fe, o in
più numero, o di maggior valore,o in maggior nu mero, Se valore
infieme,fari quel li, a cui tocchi il medeiimo interellc noltro, che non
faran dalla parte di quelli, da cui ci fia per venire il male. Le
perfonepoi, nel le quali ha d'hauer luogo la confidenti!, nella gin la,
che fiora diremo, difpofte fogliono eflerc. Se primieramente fon'cllc
tali, quando par loro, che la maggior parte de i fatti et delle ini
prete loro, lìan lor (uccedute profperamente:& che ninna cofa attucrjo
fa, o pericolo fia lor venuto addotto. Et quelli d uTaltra parte fo gliono
eirer confidenti ancora, i quali fpelle voltein graui pericoli fi fon trouati,
Se fempre nondimeno ne fon riufciti liberi, Se fcampati falui.
conciofiacofa che in due modi, o ver perduceaufe fogliano gli rinomini non
fentire, o temere i pericolilo per che prouati altre volte non gli hanno,
ovcramenre perche ltimano di potere hauercin pronto aiuti da liberartene,
come fi vede (per eirempio) auuenir ne i pericoli del mare : doue
coloro,chccomc inefperti del nauigare,non han prouaro alerà volta le
tempere marittime, ci ftan con animo confidente, Se fecirro di
qucllo,chc ila pendente per accafeare. ma color parimente liberi, da
timor quiui fi ti u ouano. ì n aiuto de i quali ila polla, Se parata l
cfpericntia,che tengono in tai pericoli. Soglion medelimamente in qualche
pericolo elTcr conridenti gli huomini, quando conofeon no haucr dato coli
fatti pericoli terrore a perfone fimili, o vguali a loro, o a manco
potenti, eli cili non lono, o a tali, di cui eliì più potenti, Se maggiori
fi {ramino. Et alhora filmiamo d clTer più potenti d'alcuni altri, quando
o quelli Iteflì, o altri maggiori, Se più potenti di loro, o almcn fimili,
Se vguali ad elTì,* vinti, f pcrati riabbiamo. Diuengono ancor cófidenti
gli huomini quado ilimano, Se fi perfuadon di polTcderein maggior numero, Se in
maggior perfezione quelle cole, nelle quali color, ch'ecccdono foglion dare di
fe timore. Se cofi fitte cole (ono copia di ricchezze, gagliardia della
pcrfona,larghezza di dominio, Se di poffcffionij / 'Della r B^torica d %
Aristotele fclììoni, abbondamia d amici, copia d in ftromenti,
&mtinition da guerra, o d ogni torce, o almcn delie maggiori, et delle
più importanti. Co nhden eia ancor fi fuol trouarein coloro, i quali
no han mai orfeio, o ingiuriato alcuno, o almcn non molti, ÓV fpctialmcntc
nelfun di quelli, chetali fieno, che debbiano elfere a j8 ragion temuti. Et
topra tutto grandemente diuengon le perfone confidenti, quando par loro, che
quelle co fé, dalle quali fi pof fa conietturar la mente, c'1 voler di
Dio, fi inoltrino in lor fauore, come frà più altre cole fon gl'indi ti)
degli aulpicij, le rifpofte de gli oracoli et limili : conciofiacofa che
l'ira fia pe r Tua natura atta a recar confidenza. Ondefolendo, non dal fare
ingiuria, ma dal riceuerlanafcere, et generarli l ira : et douendofi
ftimar,che Dio habbia da elfere in aiuto de gli ingiuriati, viene a poter
conictturarfidai fegni del fauor diuino, d'hauer riceuuto ingiuria» éo
onde l ira nafee, che rende I h uom confidente. Suol parimente diuenir
confidente l'huomo, quando egli elfcndo quel, che primo aliale, viene a
preuenir nel pericolo. perochc andandoui in vn certo modo già preparato,
Òc non improuifto,ii da a credere,chc la cola habbia da nule ire a modo
Tuo, o che le pur non riefee, no habbia egli ne nel fatto ne doppo'l fatto
da lenti rne lelione,o dan il no. Et tanto baiti hauer detto delle cofe,
che fono habih a dar timorc>& di quelle parimente, che confidenza
recar nepofTono. Della Verecondia, £f del• l Jnuerecondia. rSJpSTSa Vali
fieno hor quelle cofe, intorno alle quali foglion diuenir verecondi, o
Inucrecondi gli rinomini, o vero sfacciati, 6c al conlpetto di quai
pedone foglia quello auucnire, et qualmente difpolti lìen quelli, che
facilmente fon tocchi da quelli affetti, a da quello, c hora diremo, potrà
renderfi manifcfto. Poniamo adunque che la verecondia fia vna certa
mitezza, et perturbatoti dcll animo per cagion di quella forte di mali,
che dishonore, et infamia riguardano, o prclcnti, o paffati, o futuri, che li
dimoI ftrino. et 1 Inucrecondia per il conttario viene ad elfere vn
certo difprezzamento, óc vn non curarfi,& quali vn non fentir cofi
fai ti maH, che ( come ho detto ) ignominia importano. ElTendo dunque
la verecondia tale nella Tua divininone, quale cfplicata 1 riabbiamo ; per
quella forte di mali verrà neceflanamentc a cau farli in noi vcreco ndia,
li quali ci pofla parer, che redondino in bruttezza, et macchia di biafmo,
o di noi (tedi, o di perfone,che ci lì.mo a cuore, Se ch'alia noltra cura
appartengano. Et coli farti mah fon tutte quelle opere, et quelle actioni, che
dal vitio de / riuano : come farebbe (per ciicmpio ) nella maggior
caldezza di vn fatto d'arme, ilgittarea terrai armi, o il fuggire,
&abbandonar la pugna, il che dal vitio della timidità derma: o il negar
di rendere, o ver d'hauer riceuuto vn depofito, il che dal vitio
dcll'ingiufhtia nafee : o il mefcolarlì in commertio venereo con per fone,
che non conuengano, o ver in luogo, o in tempo, che non 8 ila lecito ; il
che dcriua dal vitio dcH intcmpcrantia : o il cercare ingordamenrc di
guadagnar d'ogni minutezza, over da cole no lccitc,cV poco honefte,o da
cofe finalraente,onde fi a quali impof libile il cauar nulla, come fon le
perfone molto poucre,& gli lielf li morti. come fi (noi dire in piouerbio,
fin da i morti voler riportar guadagno, il che rutto nafee dal brutto vitio del
fordido i o guadagno, et dell'anal i eia. Medelimamcnte e cofa da poter generarein
noi verecódiail non fouuenir di danari ne i bifogni,hau e ndo il potere, et la
commodità di farlo: o fouuenir molto ma zi co di quel, che il polla, et che
faccia di mcllicri. Et parimente l'eflèr noi fouucnuti da chi habbia manco
il modo,chc no n habix biam noi. Et il cercar di tor danari in preftanza, cV
con vfura ancora, quando ftimiam ch'alcun ne voglia domandare a
noi. E il domandar di nuouo in pretto da colui,che noi
penlìam,che voglia domandai ci, che gli relhtuiamo quel che ci habbia già
pre (iato prima. Et il domandar ch'egli ci redituifea quello, che
gli habbiam prelbro innanzi, preuedendo noi, che ci voglia in prefto
domandar di nuouo. Et il metterci oltraquefto a lodar qual che cola in vna
certa coral maniera, che polla apertamente parer, che il far quello Ha più
tolto vn domandar, che la ci fiaonerta in dono. Et il tornar di nuouo a
domandar da coloro, dai quali hauendo domandati dell'altre volte, habbiam
femprcrepulfahaumo. Tutte quelle cole, dico, fono atte a cagionarci roffor di
verecondia, per clfer tutte induij del vitio dellauaritia : 18 come ancor
cagionar ce la fuolc il lodar molto alla feoperta alcuno ij cimo in
prefentia fua : elfcndo il far quello vno indino del virio 19 dell'adii
Licione. Medefimamente il roiierchiamente lodare, et fino al Cielo innalzare in
alcuno quelle qualità, che punto,in pu to buone lì truouano in lui, et (cancellar
con le parole,& far co me incognite difparir quelle, che grandemente
degne fono in lui di bialmo : et il inoltrargli, fc punto lo vediamo
afflino, di fentir molto maggior dolor del mal Tuo, che non lente egli ftelfo,
3c altre cole in lumina lomiglianti a quelle, fon tutte habili a
cagio nar verecondia in noi, come quelle, che lono inditi), et fegnidel li
vitiodclladiilatione. Può parimente caufare in noi rolTor di verecondia il non
potere, o non voler loltcner quelle fatighc, che foltener vediamo a
perfone più vecchie, o educate, ck ailuefatte in maggior delitic di noi, o
vero a pcrfone,che fiano in maggior licentia, de habilità di comandare,
che noi non fiamo, o che fieno in lomma, men potenti,& men'atte a folìencr
fatighe,che nó fiam noi : percioche tutti quelli fon legni d'effeminata
molline. 1 1 Pare olirà quello, che ila caufa di verecondia 1 elìcr lempre
quel, che riceua benditi), et cortelie : et il ricorrer molte volte
a vn medelimo per aiuto, Se per benefitio : et il rinfacciare, et rimprouerare
i fauori, i benetitij,& gli aiuti fatti ; pofeiache tutte quelle cole fono
inditi), et legni di pulillanimita, ded animo 23 abbietto,& vile. Reca
medelimamenre verecondia ri parlare in lode di fc medelimo,& il
predicarci promerrcr di fc gran cole, cV l'artnbuirea fe ftelfo, et quali
vfurparli iclodcuoli opere degli altri : elfendo rutti quelli non altro,
ch'inditi) di quella Ione 14 di vino, che vantamenro li domanda. Et cofi
decorrendo nella mcdelima guifa per ciafeheduno de gli altri vitij, limili
a 1 lor vi. ti) debbiam dite elTef l'opre, de glinditij loro, et per
confeguente pieni di bruttezza, et atti a cagionar verecondia, Iti mar fi deotj
no. Oltra di quello ci luol recar verecondia il vederci mancare alcuna di
quelle cole, delle quali non han mancanza o gli altri tutti, o almen
tutti, o la maggior parte di quelli, che lon ùmili a 16 noi, overovguali,
et pari noltri. Et per limili, o vguali unendo io coloro, che fono od'vna
ItclTa nationc,od vna lidia citrà>o dk vna Itella età, o d'vno lìclfo
fangue, o vogliam dir d vna parentela, èV fameglia llclTa, o in qualcun fomma,
fi voglia conditione,; X7 &r piopinqmtà fon limili, o vero vgn ali. et
quello, chchodcc~ io, auuien per parer cofa indegna, Se che porci
imperferuone,& macchia il non vederli partecipe di quello, in che
tutti gli altri noftri vguali hano partc.come laria(per cflèmpio)s'alcu li
vedefle priuodi tanta alracn parte d cruditionc,& difciplina>quanta
comunemente fogliono imparare, Se apprender ruttigli altri della 18 città
Tua. et il medefimo li dee dire dell'altre cofe. Et alhor tue co quello
fuol maggiormente dar caufadi vergognarli, quando quella mancanza delle
dette cole, che ogià già fi fia villa, o al prefence fi vegga, o lìa per
vederli in noi ; nafea per no lira colpa, di maniera che noi la propria
cagion ne damo. Apprettò di que fto il forieri re, &: patire, o
l'hauer fonerto,Sc patito, o il vedere di hauerc a forferirc, et patire
cofe, che portin feco infamia, et brutta dishonoranza, Se vitupcrofo obbrobrio,
fon veramétecaufadi no piccola verecondia, Se coli fatte cofe fon
principalmcnre quel le, nelle quali lì (ottoponela propria perfonaa brutto
vfo,& a foz zo leruitio,o ad opre Se attioni in fomma,chc cótumcIia,eV
brut 3 o tamacchia d'ignominia imporrano. Et di coli fatte cofe,
quelle ch'importano ofeena, Se lalciua intemperantia,o
volontariamen te, o inuolontatiamente,che fe li fonerifcano,& fi
riccuano,bruc tezza, Se verecondia recano. doue che l'altre orfefe, che
folo da violentia, Se da forza nalcono, alhor folamente dishonorano,
Se ignominia portano, qnando fuor del proprio volere, violentemente fi
riceuono, et lì fofferilcono: pcrochc da vile ignauia, Se timidità par,
che nafcail parire,& fopportar tali ingiurie, et non 3 1 cercare di
fcancellarle con la vendetta. Quelle dunque c'habbiamoairegnatc, Se tutte 1
altre coli fatte, fon quelle cofe, per lequa 31 li fogliondiuenir verecódi
gli huomini. Hor perche la verecondia importa in fua natura immaginationc, Se
fofpition di mala opinion, che fia hauutadi noi> Se ciò folamente per
cagione, Se tema di tale opinione, Se non per qual fi voglia altra caufa,
che 3 3 da quella accidentalmente feguir ne polla ; Se nell'uno è, che dell'altrui
opinione tenga conto, fenon in quanto ticn conto di coloro, nell'animo de i
quali,quclla opinion fi truoui, ne fegue ne ccflariaméte da tutto quello
che folo appretto di quelle perfone, lcquali Himiamo J et teniamo in
conto, lentiremo toccarci da ve34 recondia. Et ltima,& conto fogliam tener
primieramente di co lor»da i quali llimiamo d eilerc hauuti in
ammiratione,& di quel li parimente, che noi ammiriamo, o che
defideriamo, ch'ammirino,& Himin noi; Se di quelli altri non manco ancora,
co i quali S in emulation d'honore contendiamo, et di tutti coloro in somma,
l'opinione, et il giuditio de i quali non difprczziamo, nè re5 niamo in nulla.
Et quanto all'ammiratione, da coloro foglramo delìderar d'elTere ammirati,
Se color parimente fogliamo noi am mirare, i quali fon dotati d'alcun di
quei beni, che foglion render reputati, cV: rifpettati gli huomini, o veramente
qualche cola pofleggono, della quale bifognolì, Se grandemente
deli«ècroÌj, ci ritrouiamo, come fi vede( per cflcmpio) accadere a gli
amanti. 6 Quanto poi alla contentiofa cmulation d honore, tra color communemente
ha ella luogo, trà i quali fi truoua parità, et equalità. 7 Quelli poi
finalmente, lacui opinion e, óc giuditio, che di noi fac ciano non
deprezziamo, ma teniamo in còro, fon principalméte coloro,che ellcndo da noi
giudicati prudcti,lì può lìimar, che veraci,& degni di fedc.lìeno ne i
lor giuditii, Se ne i lor pareri.& cofi fatti fono quelli,che già lì
truouano d'età fenile,& maturi di anni: «Se quelli parimétcche fon
bene educati, et di ragioneuolc 8 eruditionc ornati. Le cofe
mcdelìmamctc,che fon habili a dar ve recondia, Se le perlone parimente,
ver lo delle quali diueniam ve recondi, maggiormére ci meneranno a quello,
fe in pai ci e, o ver fu gli occhi, et in prcicntiafi troueranno. Onde è
nato il prop uerbio, che dice»che la verecondia ne gli occhi alloggia. Et
da quello nafee, che molto più diueniamo verecondi apprcllb di co 0
loro, che fempre ci hanno da llar prefenti: Se appretto di quelli, che
atten tamen te pongono alle cofe,che facciamo,o diciamo diligente auuertcntia,
Se cura : pofeiachecofi gli vni, come gli al1 tri di quelli, par che ci ilien
iu gli occhi. Ci genera parimente/ verecondia il ri ! petto, Se la
prelentia di coloro, che non fon roac chiati di quel ma! e (imo errore,
del qua] ci accafea di vergognarci in qualche no lira attionctcflèndo per qu
cito cofa man ì fella do ucre ad elfi parere in torno a tale anione, il
contrario» che pare a i noi. A pprello di coloro ancora ci accade di di
ucnir verecondi, i quali poco inclinati fono a feufare, Se a perdonar gii
errori di quei, che peccano. peroche fi fuoi dire, che l'huom
facilmente quel, ch'egli Hello fa non riprende, ncavirio attribuifee in
altri. Onde può per il contrario elfcr chiaro,ch'ei lìa agevolmente
per riprendere, Se ftimar vitio in altri, quel, che conofee di non
fare egli. Diueniamo oltra quello verecondi apprelfo di quelli,
che fon volótieri diuulgatori,& diirorainatori di tutto quel, che fanno
Jl Secondo lìhro. / $p 4f no. Concioflacofa che niente importi, et diffèrentia
aterina non fia tra'l non apparire ad alcun l crror noftro, Se il non
e/Icrgli re46 ferito. Et coli fatti diuulgatori, et diffamatori fogliono efTer
due forti di perfbne; cioè quclli,che hanno da noi riceuuto ingiuria>
et per quefto foglion Tempre ollcruar tutti li nomi errori per palefargli
; et quelli, che Con maligni, et malcdi ci per natura: co me quelli, che
(olendo per la lor malcdiccntia infamar quci,che non errano, 8e
attribuirlor quegli errori, che non fanno,* molto più fi dee credere,
chefaran quefto con tra di quelli, che verame47 te peccano. Medeiimamenre
apprcllo di color fogliamo eller ve recondi, i quali foglion, come per lor
profeffionc confumare il tempo in riprender, notare, Se mordere i difetti,
Se gli errori altrui: come fono i Poeti Comici, et quella forre d'htiomini,
che pare, che profeflìon facciano di muouerc, Se cattar motteggiando, et pungcndo,rifo
co i deferti d'altri : pofeiache cofi gli vni co megli nitri fi pollbn
connumerar tra i maledici, 8cdiuulgatori;, l 48 Oltra di qucfto rifpetta
di quelli,! quali cofa alcuna, che mai do mandato habbiam loroidincgato
non ci hanno mai, ci fuol vere condi rendere : potendofìper qucfto parere,
che cofi fatte perfo49 ne ci habbiano in conro,& in aramirarione. Etpcr la
medefima ragione diueniam verecondi con quelli, i quali per la prima volta
domandan con prieghi da noi qualche cofa. pcroche non efc fendo ftara fino
alhor punto macchiata la buona opinione,cV cofldcnza c'hanno in noi j andiam
con rifpetto per non macchiarla 50 in'quclla prima volta. Et tali s'han da
ftimare cflcr primamente quelli, che da principio cercan d'hauer l'amici tia
no/tra: peroche danno inquefta guifainditiodinon hauer conofeiutoin noi 51
fe non quelle qualità che migliori habbiamo. Ondea ragione e giudicata
buona la rifpofta, che fece Euripide a i Siracufani. 52 Et quelli
parrimentc fon tali, i quali cflendo antichi domeftici nofrri, non han per
anco mai conofeiuto in noi cofa, che come degna di biafmo habbia diminuito
in lor la ftima,che di noi fanJ3 no. Sogliono ancora gli huomini, non folo
hauer verecondia delle cole già dette di fopra, ma ancor degl'inditij, Se
fegni di quelle : come a dir ( per elfempio) non fol delPvfo venereo
nello ftefTo fatto, ma di tutte quelle cofe ancora, che dar poflbno
inditio di cofi fatta inconrinentia, Se lafciuia noftra. ne
(blamente prendiam vergogna nel far quelle cose, che cagionar la
pollono, S ij ma ijLfiy "Della Teorica d'Arinotela SS
maancornon manco nel dirle. Similmente ancora non folo appreso delle già di
(opra aHegnatc Torti d'riuamini, ci iiiol verecóndia artàlire, ma ancora
apprelfo di chi polla facilmente riferire, òcdarraguaglio a quelli, come
fono i lenii loro, cV gli amici loro. Quanto poi a quelli, la prefenria,
e'irifperto deiquali non ci cagiona verecondia, cofi fatti totalmente lon quelli,
il parere, e'1 giuditio dei quali (limiamo cfler communemente difprezzato,
ne eflcre habilcadarpunto di momento alla perfualion del vero : peroche
nell'uno è, che perla prefen ria d'animali irrationali,o di piccioli fanciulli
fenta accenderli il volto di vereco ndia. Oltradiqucftonon per vna
medcfima ragione, né intorno alle raedclìmc cofe rende verecondi la
prefentia di quelli, che fon familiarmente conofeiuti da noi,& di quelli,
che ci fono ftranierr, et dalla noftra familiarità remoti, conciofiacofa che
appre/Io di quelli, che domeftici,& noti ci fono, fentiam verecondia
di quel le cofe, ch'il vero fteflb fcuopran delle noftrc attioni.douc che
ap predo di quei, che lontani, et flranieri ci fono, ci fa
verecondi quello, che la fteilà legge,& per confeguente folo l opinion,
che shabbia di noi, riguarda. Ma quelli, ch ailaliti fogliono
cifer da verecondia, fatti, &c difpofti fogliono erter nella maniera,
che noi diremo. Et primieramente tali fogli on diucnir le
perfone auando fi truouano appretto haucrc alcuni di quelli, il
lifpctto 60 de iqualihabbiam già detto folcr caufar verecondia. Et
quefti fono ( comeveduto habbiamo) tutti quelli, i quali, o fon da
noi ammirati, oammiran noi, o dcfideriamo,checi riabbiano in
co to,& in ammiratione ; et quelli parimente del cui aiuto
bifogno riabbiamo in cofa,chc noi no fperafllmo di confeguire, feperdef€1
fimo appreflb d'elfi di ftima, et di opinione. Il nfpctro eli quelli adunque
fuol render verecondo l'huomo : et ciò fpetial mente in due cafi. L vno è fe
quefti tali con gli occhi loro itcflì,prclenti la cofa (certa veggono, fi come
ben difleCidia in quella oraoone ch'ei fece fopra ladiftribution, che fi
trattaua di fare in Athcne,de 1 campi,& delle poflcflloni dei Samij. peroche
pre gauagh Athcniefi,che volcfler nell'animo immaginarli, eh e
tutti 1 popoli della Grecia fuflèrquiui prefenti in corona, loro intorno :
di maniera che non folo hauefler per relation d'altri a faper quello,
chequiui con fuffragij, cV decretili determinane; ma 9) eglino ftcflìlo
vedetìcr co ilorproprij occhi. L'altra cofa è fe quefti fi Jl
Secondo libro. quelli tali, quando pur non fian per veder prefenti cflì ftcffi,
fon nondimeno cofi propinqui, che facilmente, et commodamentc polla
elfernc fatta lor relatione, et venirne notitia ali orecchie Io f 4 ro. Et
da quello che fi e detto nafce, che quelli, che fi truouan caduti in
milcro, et calamitofo (lato, non vorrebbero in modo alcuno edere in tale
(lato veduti da coloro, ch'in altro tempo già cmulatione hauuta verfo di
loro haucllero : emendo proprio 6f dell'emulare lhauereinammiratione, el
tenere in conto. Oltra di quclìo ad cller verecondi faremo difpofti ancora,
quando conolceremohaucr cola, ch'argomentar polla qualche anione, o fatto,
che fia habilc a caufar verecondia, o commcllb che Ila da noi fteflìjO da
i nollri progenitori, o da altri, che ci fiano in qual fi voglia
propinquità congiunti, odaperfonain fomma,lacui infamia polla in noi
ridondare, et farci partecipi di verecondia. 66 Et tali fono, oltra
quelli, che pur hora habbiam detti, quelli altri ancora, i quali nelle loro
attioni, paia che da noi dependano, et origin prendano, per efler noi o
precettori,© ver configlicri lo 6j ro. Sogliono elTerc ancor verecondi
quelli, che hanno altri lor limili, overo vguali, coi quali tengono
honeftecontefe, cVemulation d'honore. concioliacofa che molte cofe per fola
caufa de gli emuli, Ila tirato dalla verecondia a fare, o non fare l'huomo.
Suole ancor crefeer la verecondia in quelli, i quali veggon d'avere ad elfer
fempre fu gli occhi, et a ri crollarli fpelTo prefenti in 69 nanzi a
coloro, a cui già fian noti, et palcfi i falli loro. La onde Antifonte il
poeta,cflendo per comandamento di Dionifio mena to all' vltimo fupplitio ;
6c vcdcndo,che gli altri fuoi compagni, chedoueuan parimente, morir con
lui; nell'vfcir della porta del carcere, s'haueuan, quali che fi
vcrgognallcro, co l lembo della verte coperto il capo, dille, A che
cercate, o compagni,d'afcon dere, òc coprirei! volto ? fc domane nellun di
quelli, che fon 70 qui prefenti, vi potran vedere. Della verecondia
adunque fia a ba llanza quanto fin qui fi è detto, dell Inucrecondia poi,
o sfacciataggine, o impudentia, che la vogliam chiamare; è cola mani
fella, che dalle cofe, alle già dette contrarie, fi potrà commodamentc
notitia haucrc.. Capo 14.2 fDeSa Teorica d' (apo 7. 'Della gratta. Erso
diquai perfonc, Se inquai cofe foglionoeffcreratificatiuigli huomini, Se
qualmente difpofti (ogliono eiTer tali; potrà facilmente farli manifefto,
ciiffinita prima, che fi farà la Giada. Poniamo dunque la Gratia eflerquclla,
per laqual fogliarti dire, ch'alcuno, ch'habbia facultà di farla, faccia gratia
a perfona, che ne fia bifognoia : et ciò non per render ricompenfa di
qualche cofa riccuuta prima; ne perche ad elfo, che la fi ila per venirne
giouamcnto,o rilieuo alcuno ; ma folo perche chi la \ riceue l'habbia.
Grande poi fi dirà la gratia,quando,o colui che la riceue ne farà
grandemente bifognofo ; o la confiderà in cofe di grande imporrantia, Se
difficili molto, o farà fatta nelle tali, Se tali opportune occalìoni, Se
tempi, o colui che la fa, farà dato o folo, o il ptimo a farla, ofe al tri
faranno frati ancorargli ha4 rà nel farla maggior diligen ria, et fariga de gli
altri vfato. Et per bifogni debbiamo intender noi principalmente i
defiderij, che fon quelli, che mifurano li bifogni : et maiTìmamente quei
defìdcrij, coi quali ftà congiunto dolore, et molellia in non confcj guir|c
cofe, die fi defiderano. Et così fatti fon quelli ch'inchiu dono in fe
qualche vehemente cupidità : comeauuien nell ardéte amor de gl'innamorati; Se
nelle intenfe nftlitrioni, et dolor corporei, Se ne i graui pericoli, che
ne fopraitino : pofeiache in coloro, che fon polii in pericolo, cupidità
fi rnioua ; lì come parjmentein quelli, che fon da corporeo dolore afflitti. La
onde a color, che da poucrtà oppreiTì fono, o in mifero*filio
fcacciati ^ ritruouano, ogni quantunque minimo fooaenimento, che ri«jcuono,
tari la grandezza del lor bifogno, Se la grande opporrànità dell'occafion
parere, che noa piccola gratia fi fia fotta loro, 7 fi comeauucnne a quel,
chediede con vnacefta aiuro a colui, 8 ch'era in LICEO LIZIO. Fidi
meftieri adunque che i benefi tij, et le grane, che fi fanno, a voler chegrandi
appaiano, ficn principalmctefattc con tali, quali habbiara dette, occafioni, Se
circonftantic : et fele medcfimeapunto non occorrono, fieno almen simili, o
ancor maggiori. Per laqual cofà cffendolì già per quel, che fi e detto
fatto chiaro, quando, Se a chi fi debba intender la grada fàrfi, Jl
Secondo libro. %fi, S: qualmente fien difpofti colof, che le Tanno, porrà
da quello farli manifefto, che volendo noi moftrar che lì ila
fatta grada, fa di mcftieri,che con quelle auu erteti e, et luoghi,c'habSiamo
allignaci, fi faccia veder, che coloro, che la riceuono, o l'hanno
riceutita, fi truouino, o fi trouaifero in quella forte di bifogno, o in
quella forte d'afHitdonc, et di dolore, che detto habbi amo, Se coloro,
che l'hanno fatta, habbian fouucnuto in quella opportunità, iSc n cecili
tà, &: di quella forte di fouuenimé co, c'habbiam inoltrato,
cVdifegnato di fopra. Etparimétepuò eirer da quel, che fi e detto
manifefto, come 11polla ofeurare, Se far quafi difparir quella grada, che
11 fulle fatta ad alcuno, Se far si, ch'il fatto non parclle grada ;
nc.gradficatiui, ogratìofi coloro, chel'haueller fatto, percioche dir potremo o
ch'eglino Io fouuengano, o Thabbian fouuenuto per cagion (blamente di
le 1 1 llclfi, il che già fi c veduto, che non conuienc alla gratia,o
che quello, c'han tatto, fia venuto lor fatto acafo, o che concia
lor voglia fiano (iati quali forzati alarlo, o che
finalrncntejhauendo eglino altra volta riccuuto benefido,fia (lato quefto
più tofto vn ricompenfarlo, Se pagarlo, ch'vn far veramentegratia, o noto,
o non noto,che fufle loro, l'efier debitori di ricompenfa.
peroche nell'vno, et nell'altro modo llvien veramente a
ricompenfare vnacofa per l'altra, Se per confeguentc non può, ne ancora
in 1 r quello modo fti mar fi grada. Doucrcmo medefimamente voien do
ofeurar, Se annullar la grada, che ci habbia fatto alcuno, andar
difeorrendofotto a tutti quei fommi generi, Se capi vniucrfali delle cofe, che
predicamend fi domandano, cóciouacola che gratiala cofa dir fi debba,
quando lafia della tal foftan da, della tal quantità, della tal qualità,
nel tal tempo, Se nel tal luogo fatta j dellequali conditioni, Ce alcuna gliene
manca, viene a no ef6 fer grada. Et indino oltra ciò, ch'il tal fatto, Se il
tal fouuenimento ftimar non fi debba grada, fi dee (limar, che fia, fc
coloro, c'han fatto quefto a noi»clTendo loro occorfo altra volta
di fouucnirci in vn fimil bifogno con fouuenimento aflai minor di 7
quefto, non l'hanno voluto fare. Se Ce a i nemici loro ftctTi hano dato
altra volta vn medefimo, o vero vgual fouuenimento, o ancor maggiore, perciòche
elTcndo quefto, chiara cofa c, che non 8 l'han per cagione, Se rifpctto
noftro dato quella volta a noi. Se Ce finalmente il fouuenimento, che
cihan dato>é fiato di cofa vile, et di nulla ftima, tk di niun rilicuo,
et per tale erti pariméIf te lo ftimauano,& lo conofccuano. Et tanto baftt
haucr detto della eratia, così per far parer, che la fia fatta,comc che la
non fia 2 o fatta. Quai fieno hot quelle cocche generiti compattone, et verfo
di quai perfone generar fi foglia ; et come dilpoftì, et Qualificati fian
quelli, eh a compafllon h muouano, fegue al prelente, che noi diciamo. (apo S.
T>ella compapont^. iIciamo adunque, chela compafllon fia vn
pungitiuo dolore, che fentiamo di qualche apparente gran ma e, ch'o
dcftruttion della vita,o grande affli mone,*: calamità fia per recare in
perfonadi talcofa indegna, a cui fia eia tal male, o prefente, o appaia
già già vicino ; et fia da noi ftimatotalcchc poiraanoi parimente
accafcare,o almeno a pera fona, che ci appartenga, peroche gli è manifcfto
erter neceflario, che colui,chc s'ha da muouere a copafllone fia tale, eh
egli b itimi, et fi conofea atto,& fottopofto a poter patire, o egli
itello, o altra perfona delle fuc, che gli fono a cuore, vn cosi fatto
male, quale habbiamo nella detta diffinitionc efpofto,o almen
fimile,o 3 propinquo ad elfo. Et per quella ragione nó fogliono efler
tocchi da cópafllonc,nc quelli,chc in eftrema mifcria iono,corae che
pa 4 ialoro,ch'altro mal nórcfti lorda patire; nè quelli parimente
1 quali fi reputan di ritrouarfi in ccceflluo grado di felicità, tk
per qucfto più tofto contnmcliofi, che cornpaflloneuoli lono : etfendo
manifcfto, che parendo loro di pofleder tutto quello, che fi puòtrouar di
bene, parimente par loro, che male alcuno venir non porta loro addotto :
pofciac he ancor quefta fecurezzafi 5 dee connumcrar trai beni.
Horquelli,chc ftimar fogliono d effer tali, che patire, et incorrer portano
gl'infortuni), et i mah, che in altri veggono ; fon primieramente quelli,
i quali han per innanzi altra volta foffeni, tk prouati i mali, tk ne lon
poi fcara4 pati, tk rimafti liberi, de quelli parimente, che fon già perucnuti
all'età fenile ; fi perla prudentia, ch e conucrKuole a quella età i tk fi
ancor per lifpcrientia, che porta la vecchiezza fcco. I deboli ancora di
forze, et d'animo, fon medefimamente tali : &c et molto più fc fon per
natura timidi,& vili, nè maco ancor quelli, * che di dottrina, et
dcrudirion fon ripieni ; come quelli, che le 5 cofe con ragion difeorrono.
Della medefima difpoiìtion di Armar di poter ne i mali incorrere, fon coloro
ancora, i quali hanno o genitori, o figliuoli, o mogli : conciofiacofa che
quelle forti di pedone, iìan come cofe loro, Se membri loro, Se atte, Se
(ottopode tutte per le ragion già dette, a incorrer ne i già detti mali.
Soglion medcfimamente (limar d efferc habili a patire, Se riceuer mal coloro, i
quali non fi truouano in affetto d animo, che riguardi la virtù della
fortezza,comc fon l'affetto dell'ira, Se delt la confidenza : pofeiache
così fatte paflìoni non lafcian difeorrerc, Se confiderai, che cofa habbia da
fuccedere, Se da venire. 1 1 et color parimente, ne i quali non fi truoua
natura, o difpofitione, che gli faccia contumcliofi : folendocosi fatte perfonc
contumcliolenon penfar, ne cò ragion difeorrcred'hauer mai a fofii ferire, o a
patir male alcuno : ma color perii contrario lo fanno clic nel mezo tra
cofloro fi truouano, come remoti dalla difpoiiij tiondcgli vni, Se degli altri.
Oltra di queflo poco foglion fentir compafllon coloro, che per qualche lor gran
pericolo fi rruouan da ri more op predi, come quelli, che modi dallo
fpauento del mal proprio, mal poifono efler commoflì dal mal'altrui, dando
occupati con tutto l'animo nel male, che fon per patire elfi. Ma ben fogliano
ad haucr compaflìonc efferc inclinati quelli, che non han per opinione,
che neffun fi truoui,che fia giufto, Se da bene; ma ftiman pur, che ne
fieno alcuni : perciòchc colui, che nclfun ne flimafle tale, llimarcbbe
per confcguctc elfcr tutti ij degni d'haucre il male. Et
perbreuemenredire, alhoi finalmctc fuoldar luogo 1 huomo alla compaflìonc,
quando tal lìritruoua, che ricordar fi poira,che tali accidenti di mali, che in
altri vede, fieno in altri tempi accaduti,o a lui (ledo, o ad alcun de i
fuoi 1 6 o veramente teme, ch'accader poflan nellauucnire. Habbiamo dichiarato
adunque qualmente dilpofti fien quelli, che fono atti 17 a muouerfi a
compaflìonc. Quali fien poi quelle cofe, per cagion delle quali foglia nafeerc
in noi quello affetto, può facilmctc apparir manifefto dalla diffinition, che
fi e data della compaffione. conciofiacofa che trà le cofe afHittiue, Se
dolorofc, tutte quelle, fi deono fumar mifcrabili, Se arte a generar
pietà,le quali fono habili a recar corrottione ; Se quelle parimente che
fon 1$ dcflruggi triti della vita (leda: et tutti quei mali ancora,
de T i quali j^. 6 T>ella lìgtprica d* Ariti otclt-j jquali
la fortuna è cagione ; quando molto in gradezza, Se graio uczza fi vedrano
eccedere. 1 mali, che dir fi poìlbn doloroii, Se corrotriui,
oucrdcftruggitiui fon, le morti, le battiture, le afHittioni del corpo,
l'aggrauata vecchiezza, le infirmiti, la mancanza del ncceflario vitto. I mali
poi, di cui la fortuna e cagione, 12 fono la total mancanza d amici, et il
rimaner con pochi : onde auuien, che il fc parar lì, Se quali per
dipartenza luellcrfi dagli amici, Se da gli altri cogitimi cari,ha molto
del miferabile Se del t j degno di cópaflìone. fono ancor tai mali,la
móltruofa bruttezza, la debilitatone delle corporee forzc,lo
ftroppiamento, ouer tró14 camentodi qualche membro. E v cola ancor degna di
compaffionc il veder, che donde fi fperaua, &: s'afpettaua, che
douelle venir qualche bene, quindi perii contrario fia qualche
danno,o %j qualche calamità venuta. Fa nafeer ne gli animi altrui compaffione
ancora l'ellcre fpelTc volte da quello ftellb male allalito, Se z6
ilfrequenteincorrcrein cafiauuetlì. E' cola parimele compaffioncuole il veder,
che qualche aiuto, o fcampo > oucr qualche cofa di bene venga a punto
alhora, quando non ci fia più remedio, cllcndofi già partito, Se riccuuto il
male, ne più a tempo lì rrnouaquei benea fàrgiouamento alcunocome (per
ellerapio) accadde a Diopitho ; ilquale, eilendogli mandato dal I no Re
a* iuto, Se fouuenimento, fù trouaro, che già poco prima era morto.
Parimente a pietà d'alcuno fuol muoucre il non haucre cgli quali conofeiuto mai
profperità, ne hauutobcncj Se fe pur cofa di buono qualche volta gli fia
venuta innanzi, non hauer t$ potuto goderla mai. Quelle dunque, et al rre
così fatte cofe fon quelle, che ageuol méte pofionorhuomo muoucre a
compaflìone. Vcrfo quelli li fuolc egli muouer poi, chegli fon d'amore, Se
di famigliarità, o cófanguinità cógiunti, fegià molto nó fia la concimi
non propinqua : pcròche in tal calo viene egli adeller vedo di loro intere
ila to, òv il il pollo, come verfodi fe medefimo. Et per quella cagione A
mafe vedendo vn fuo figlio elfèr menato alla money nomando (per quel, che
s'intede) lagrima alcuna da gli occhi fuora t Se venédogli innanzi
vnoamico fuo, per pouertà a mendicar condotto ; non potè ritener le lagrime, il
che d'altronde non nacque, fenon perche il calo dell amico gli
cracópaf fioneuole, Se il calò del figlio gli era più tolto atroce, grane,
Se 3 r acerbo, che miferabile : cllcndo l'atrocitàcofa diuerfa dalla miicrabiltà> Jl
Secondo librò. 14.7 fcrabiltà, Se atta a fcacciarc, 6V a fuperar la itefTà
compaflìone,& vtile fpeirc volte aindurrc il contrario di quella. E'
ben vero che coloro, che così fatti mali atroci, Se terribili non hanno ancor
prefenti, ma in pericolo fon d hauergli, diucngon perque
ftoattiadarcompalIìondi loro. Soglion medelìmaméce muouer cerei, ne ilor
mali a compadionefpctialmente quelli, che fimili, Se pari ci fono, o d'età, o
di coftumi, o d habiti d'animo, o di 3 c grado di degniti, o di nobiltà, o
fi in i 1 i : conciofiacofa che per tutte quelle parità, Se cqualità
maggiormente ci venga a parer d edere efpofti ancor noi a i medclimi mali,
Se ch'a noi ancora }6 polTan parimente accalcare, peroche come vna verità
vniuerfale lì dee tener per certo, che tutte quelle cofe, che nel dubitar, che
lìan per cadere in noi, cagionano in noi timore, vedendole J7 noi
accalcare in altri, fono atte amuouerci a cópaflìone. Et perche le aftlittioni,
e i mali alhor muouer fogliono a pietà, quando già propinqui fono; di
maniera che quelli, che fono (lati molti anni prima, o fon per tardare ad
eder molti anni poi ; dato ben, che lì lufpichi, che vcnii debbbiano, o
che memoria s'habbia, che lìcn venuti, nondimeno o totalmente non ci
muouono a cópaflìonc, o non in quella maniera, che farebbero, fé prefenti fo(fero;
nefegue da tutto quello necellariamen te, che Impigliando aiuto dall attione,
Se dalla pronuntia, rapprefenreremo, Se efprclfion faremo d alcuno, co i
getti, con la voce, co i veltimenti> Se con altre in fomma rapprelentatiue
attioni, più milcrabili, et degni di maggior pietà gli renderemo, peroche
veniamo in quella guilaa far più vicina, Se propinqua apparir la cofa,ponendoaltrui
il mal quali dinanzi a gli occhi, come che o poco doppo debba accafeare, o
poco prima accaduto fia. Per la medclima ragione ancora, i mali, Se
gl'infortunij,ch o di frefeo poco innanzi fono auuenuti,o molto in breue fono
per accafeare, più mifcrabili appaiono, et maggior pietà muouono. Grancópaflìone
ancora aggiungon gl'inditij, e i fatti, Se 1 opere, che rimangono : com a dir
(per euempio) gli (ledi vellimenti di coloro, ch'hanno i mali, et le calamità
forterto, Se altri cosi fatti inditij, legni, Se memorie d edì ; Se le parole
delle da loro, mentre che patinano il male,vfate : come a dir mentre,
ch'erano in ellremo per finir la vita loro. Se madìmamentc ancora
vien'aaccrefeer la compadrone l'haucrc ed) nel tempo, che nell'acerbità
del T ìj mal fi / 4et ^Della c R^tprica d*~> mal Ci
trouauano, dimoftrato animo forte, et cortame nel fop44 portarla, pcrcioche
quelle cofe, che mentre che vengono a far parer più propinquo, Se a
moitrar quafi prcfcntetl male, vcngon per conleguente a renderlo più
compalfioneuolc : ó> inlicmcmente a fuparer più indegni di quello, color,
che fofferto l'habbiano : et lì viene infieme a inoltrar quali dinanzi a gli
occhi. (apo 9. \Deli 1 Jndegnationz^. Ll'hàver compaflione soppone principalmcnte
come contrario quell'effetto, che domandano Inde^nationc : conciofiacola
chea! dolerli, Se al fcntirdifpiacer delle cole infelici, che indegnametc
in alcun (i veggono, ltia oppoito in vn certo modo, Se da vna medelima qualità
dt collii me nafea, 1 hauer difpiacerc, Se dolor dell'altrui profpcrità, le
indegnamente, accadano. Et fono ambidue quelli affetti congiunti colcolìumc ho}
nelìo, Se con difpofition lodeuolc : elfendo cofa all'hiiom conueneuolcil
conciolerfi, Se fentir difpiacere del mal di quelli, che indegni ne fono,
Se contrai meriti lorlopatono : et l'elfcr punto da indegnation della
profpcrità di coloro, eh indegni nefo4 no: peroche alla giuftitia s'oppone ciò
che indegnamente, Se f fuor de i fuoi meriti accafcaali'huomo. Et per
quello a gli fteffi Dij ancora fogliam noi attribuir l'elfcr tocchi da
indegnationc. f Ma può forfè parer, che l'Inuidia ancora s'opponga nel medefimo
modo alla compaflione, come che molto propinqua fia, Se 7 quali vna cofa
ftefla con l indegnatione. Ma molto c ella da quella diuerfa: pcrcioche fe
ben l'inuidia è ancora ella vn dolore, che conturba, Se affligge l'anima per 1
altrui cofe profpere ; tuttavia non è ella tale, ne fà ella quello, per clfer
colui che le profpcrità polfiede, di quelle indegno, ma per
elfer'cgli t pari, fimilc, o vero vgualc. Bene è vero che il rattriftarli
del bene altrui, non a fin, che da quel bene, non n'habbiaa venirqualchedannoa
noi, ma percaufa, et rcfpctto fol di colui, c ha quel bene, s'hà da Ihmar
conditione, Se proprietà commune a tutti } due qucfti affetti, cioè*
all'inuidia,& alrindegnatronc : cócioliacola che fe ad altro fine non
tendelfc così fatto dolore, Se difpiaccre,fc non perche a colui, che s'attuila
del ben d'alcuno fuffcper Jl Secondo libro. I fe per venir facilmente
qualche nocumento, o miferia per i felici auuenimenti di quello, non
farebbe quello alhora affetto d indegnationc, nè ancor d'inni dia ; ma farebbe
paflìon di timore. 10 Appreflb di quefto, manifcfta cofa è, ch'aquefti due
affetti fcguono, Se vengon dietro paffioni,& affetti contrari) frà di loro.
pcrcioche colui, ch e prclo da indignationc, fe fi rattrifta dei profperi
fucccfTì di color ch'indegnamente gli poflcggono ; fi rallegrerà parimente, o
almcn non (enrirà dolore, odifpiacer degli infortuni;, Se calamità delle
perfone contrarie a quelle, cioèdi 1 1 quclle,che fon degne di cotai mali.
come a dir (per eflempio) che nell'uno huomo giufto, Se da bene fi
rattriftarebbe in veder menare all'vltimo fupplicio,& punire vn
parricida, o vn fanguinario aflTaiìino : elfendo verametecofa conueneuoleil
fentir pia il cere di cosi fatte punitioni : fi come ancora conuicn fentir
diletto della felicità di coloro, che ne fon degni, perochecofi queftc,comc
quelle, fon cofe ragioneuoli, &giuftc, Se che deono a i 3 vn'huom da
bene allegrezza portare : potédo egli necclfariamétc fperarejch'ad effo pari
mete pollàn venir quei beni, ch'ei vede nei buonifìmilialui. Nafcon dunque
tutti quelli già detri affetti da vna ftefTa forte di cofìumc,cioc da buon
coflumc ; fi come 1 6 gli afletti lor contrarij, da contrario coftume
nafeono. pcrcioche quella ftefTa perfona, che fi rallegra del mal de gli altri,
non pct altra cagionc,fe non perche gli hanno male, quella della
hà ancora inuidia, cioè fi rattrifta del ben de gli altri, non per
altra cagionc,fc non per che eli hanno bene : pofeiache colui, che
fen te noia, et dolore dell'eli ftcntia, Se prefentia d'alcuna cofa,
verrà neceirariamcnte a fentir diletto della priuatione,&:deftruttion
di quella. La onde cofì fatte paflìoni fon tutte impeditiue,&
auucr urie della compaffione : Se fc ben trà di loro differifeono, per
le ragioni, che habbiam dette; tuttauiafon tutte vgualmente vtili \$
a far, che le cofe non appaiano miferabili, Se di pietà degne. Primieramente
adunque diremo dell'haucre indegnatione : moftra do verfo di quai perfone,
Se per cagion di quai cofe fi foglia haue re : Se come fatti, et difpofti
fian coloro, che l'hanno. et detto c'harem di quella, diremo di quegli
altri afferri, che le vanno appreso. Hor per quel che lì è detto, potrà
facilmente quel, che fe 10 guc farli raanifefto. percioche confiftendo
l'indegnatione in dolerli Se fentir raoleftia, ch'ad. alcuno accafcjiin cofe
profperc> il qual non ne paia degno ; può primieramente per quello
efìcr chiaro che non intorno a tutte le forti de i beni, e poflìbil,
che l'indcgnationc habbia luogo, non effondo alcun, che d'indegnation
s'accenda in veder, che alcun fia giu/ìo, o forte, o altra virtù i 1
poiregga: pofciache i contrarij di quelle viriù,nó fono atti a muo 1 3
nere affetto di cópaflìonc. ma intorno alle ricchezze ha ella luogo, et intorno
alla potcntia, et ad altri cofi fatti beni, de i quali (per dir
lìnccramcntc il vero) fon (blamente degne le perfonc vir 14 tnofe, cVda
bene. Et parimente fono attiamuoucre indegnation color, che pofleggono beni di
natura ; come a dir nobiltà, ì y bellezza, altri beni cofi fatti. Et
perche quelle cofe, che fono antiche danno apparcntia d'effer propinque,
&: fimili all'eller na turali, nefegue necellà ria mente, che fra
coloro, chepolTeggono vno llcflb, o vero vn fimil bene, colui, che
nuouamente l'habbia di frefeo acqui flato, et per tal caufa felice fi
(timi,* fia maggiormente per muouerc in altri ftoraaco, et indegnationc. conciofiacofa
che maggior dilpiacere, cV conturbamento d'animo dieno altrui coloro, che di
nuouo, et quafi di fubito fon diuenuti ricchi, che non fan quelli, che
antiche ricchezze pofleggono, et 17 da i lor maggiori per fucccfllon venute. Et
il fimil dir fi dee di quelli, che nei mngiftrati, de nelle degnità fi
truouano, o diuenuti potenti fono, o l amicitia, et la gratia di molti tengono,
o di molti, et ben qualificati figli dotati fono, o altre cofi fatte
prò 18 fperità pofleggono. Et il medefimo parimenteadiuienc,fcad cffì per
il mezo di quelli raccontati beni, qualche altro bene accaip fchi di
confeguirc. concioliacofache in q netti beni ancora adiuienCj che maggiormente
ci rattrillinoA' ci offendan l'animo co loro, che per il mezo di ricchezze
nuouamente acquiftate, fon faliti a qualche magiflrato,o principato,che
fea tai degnità venu *i foiTer con eflerc anticamente ricchi. et quel,
ch'io dico delle degnità, et dei principati, parimente fi dee ne gli altri
profpcri 30 fucceflì intendere. Et la cagion di qucfto è, che gli vni,
cioè gli antichi poflèflori pare in vn certo modo, che pofleggano
quello, che veramente fia loro. doue chcgli altri, cioè Ji nuoui
pofTcflb ri, par per il contrario, che non il loro, ma l'altrui pofleggano
: polciache le cofe, che mottran di flar fempre in vna guifa
mede* iima,&: in vno flato (letto, par,che vero, giudo, et naturale
habbianoreflerloro,& per cófeguentc in quegli altri la lor
nouitàfa parer, Jl Secondo libro. t y t 3 i parer: che non
potfeggan veramente il loro. Oltra di quefto perche qual fi voglia bene non può
attamente conuenire a qual li vo glia perfbnaind (tintamente ; ma vna
certa proportionc,& conuenientia fi dee trouar trà i potfeduti, &c
color che gli poligono: comcadir(perellempio) vnafecura, 3c ben temperata
arma dura no propriamente conuiene,^ s'adatta all'huomgiulto, ma ji
fi bene al Ih uo m forte j et vn nobilillìmo, ik eccellenti (lìmo partito di
futura moglie, nona perfoni di nuouo arricchita» conuic 15 ne, mi a
perfona molto nobdc, ite d'illultre l'angle nata. di qui è, che quando fi
vedc.ch'vna pcrlon.i,quamunque virruola polfegga, et riabbia qualche forte di
beni, a lei non propornon itamente conuenicnti ; genera per qucflo negli altrui
animi inde34 gnatione. Parimente la genera ancor colui, che ellendo ad
vno altro inferiore» 8c di minor valore, fi mette nondimeno a con r
cu dere, et a voler controuerlìacon elib, quanrunque fuperiorc,
de miglior di lui: et madlmamente auuerrà l'indegnatione, le
l'inferiorità, et la fupcriorità loro fàran fondate in vno dello (Indio, 3
j et in vna ftelìa cola. Onde non fenza ragione e detto, egli s'afteneua, Se
fchiuaua di venire in pugna a fronte con Aiace figlio di Telamone; però
che Gioucera prefo da indegnarione contra di lui, ch'egli haueflè da
venire in con tefa, 6c parragon di duello $6 con huom più forte, et più
valorofo di lui » Ma le l'inferiorità, 6c la fupcriorità non faran fondate
in vna ftellà cola, et in vno ftcllb ftudio, in ogni modo, come Ci voglia
che l inferior fi metta a contendere, et ad hauer controuerfia con chi fia di
maggior valor di lui, viene a procacciar contra di fc l'indegnatione : come
auuerrebbe (per elfempio) Ce vn, che valclle in ma fica, fiponelfe a
controuedare, Se contender con vpo, che poiredelìe a pie no l habito della
giullitia: non cucendo ak .in dubio, chela giuftitianon ecceda di preggio, 8c
di degnità la mufica : Già può ef. Ter dunque manifcfto verfo di qual
forte d'huomini fi foglia eccitare indegnatione,cV per cagion ancor di quai
cofe fi ecciti, eltèn Sc di manco valor di loro. Et per dire in
breuc, tutti coloro, che ftiman fc ftcflì degni di quei beni, de i quali
(limano altre perfone indegne, daran luogo contra di quelle, Se per cagion di
quei tai beni, alPindcgnationc. Et da qucfto nafee, clic quelli che
fon di coftuine, Se d'animo feruile, o perfone di viiiofa, Se poco honclta
vita, o tali, che l'honor tengano in poco conto, non foglio no etfer punto
indegnatiui : pofeiache neiìuna cofa di pregio apprellbdi loro è tale, cheiTi
fc ne ftimin degni. Et per quel, che fi e detto dell'indcgnatione, potrà
ancora apparir manifefto di quai perfone conuenga rallegrarli, o al men
non fentir dolore, chabbian la fortuna auuerfa, Se infelicemente trattin
le cofe loro, et cofa alcuna, che defiderino, non confeguifeano :
perochc dalle cofe dette, potran parimente diuenir noti li contrari;
loro. Perla qinlcofafc l'oration noftradifporrà, Se farà diuenir
tali i giudici, quali habbiam detto elfer quelli, che fon molli daindegnarione
: Se dall'altra parte moftraremo, che quelli, che doman dano, che fia
hauuta lor compaflìone ; Se quei mali elpongono onde confeguir la debbiano, non
fiano indegni di quei mali> Se per confeguentc degni fian di non
confeguir la compalfion, che cercano ; impodìbil cofa farà che compallìone
fia hauuta loro. (apo io. c Dell y Jnuìdìa. Otra' elTere ancora ageuolmente
manifefto intorno aquai cofe fi foglia nell'huomo eccitar l'inuidia, Se verfo
di quai perfone, Se qualmente difpofti fien quelli, che facilmente dan luogo a
quefto af fetto : ellèndofi già veduto eiTèr l'inuidia vn
certo contriftamento del profperarc, che incucila forte di bcnj,c"habbiam Jl
Secondo libro. / j j biam raccontati di Copra, ci paia, che faccia alcun
di coloro, die fono in qualche parità limili, et vguali a noi, et ciò non
perche ne venga qualche vtile, o cOmmodo a noi, ma folo perche ci dit
fptacc,chc gli habbian bene. Quelli dunque a inuidia fi foglion muouerc,
liquali hanno, o par lor d'haucre perfone in qualche | parità fimili a
loro, per fimili, et pan intendo io di natione, di (angue, d'età, di
profeflìone, di reputatione, o ver'auroiirà, di 4 ricchezze, Se beni di
fortuna. Medefimamente inuidiofi logliono cflerquclli, a cui pare d'haucr
confeguito poco meno «Fottìi | forte di bene, tal che pochi ne manchin
loro. Onde nafee che coloro, che grandi imprefe trattano, et in clic fi
nuouano h.iuer la fortunaamica,fon molto dediti a inuidiarealtrui:come
quelli, acuì par, che ciò, che tutti gli altri han di bene, l'vfurpino,
Se 0 tolganoad efli. Sono iuuidioli parimente quelli, ch'in
qualche cola fon fopra gli altri ecceflìuamctc honorari, et (limati ; 8c
maf /imamente fequefto loro accafea per ca ti fa di gran fapientia, o
di somma felicità, che fi credano elfer di lor creduta.
Gliambitiofi ancora, &auidi d'honore,più habili fono a cócepire
inuidia, che 5 quelli,che tal ambinone, Scauidità non hanno. Et quelli
parimcnte,che fono, o fi credon deflcre in opinion difaggi :
perochc vegono in queftaguifa ad efler cupidi d honore pcrc^to-di qucl?
lafapientia: et tutti color finalmente, i qualiintornoa qual fi voglia
cofa fon'auidi deflcr tenuti in grande opinione, fono ancora habili intorno
alla medefima a conciperc inuidia. Color medefimamentc, i quali
pufillanimi fono, de non punto alti di penfieri, 6c di fpirito, fogliono
efler facilmente inuidiofi : come 1 1 quelli, a cui tutte le cofe paion
grandi. Di quai forti di beni fien poi quelli, che foglion pungere altrui
d'inuidia, viene ad cflèrfi 1 1 parimente detto, percioche tutri quei
fatti, quelle opcrc,cV quel leattioni, intorno alle quali, auidi di
confeguirc gloria, et reputatione, Se nell'animo noftro ambitiofi, Se cupidi in
fomma di gloria,& di nome fiamo,& tutte ancorquelle profferirà, Se
quei beni, che da buona fortuna vengono, tutti (fi può dir) fon materie e
oggetti dell'inuidia. Et maflimamentcquelli,i quali noi fommamentc
defideriamo, o ver pretendiamo, Se (limiamo ch'a 1 4 noi ftia bene ; et apparrenga
di confeguirgli ; o veramente tali, che nella pofleflìon di quelli, odi
poco eccediamo, o di poco I j manchiamo, Se diminuti fiamo. Può
medefimamentc etfergià V manifcfto /JY T>ella r R^torica
d'Arinotele^ manifelìo verfo di quali perfonc fogliano elTere in u idioti
gli huorainiiciTendoii in quel, che fi e dctto,accennato
inlìememcn \6 te di queiìoancora. conciofiacofa che color primieramente
ci fogliano eccitare inuidia, i quali propinqui ci fono, o per
fpatio di tempo, o per diflantia di luogo, o per età, o per reputatone, 17
Se gloria, onde quali in prouerbio li fuol dirc,Trà quei, che fon
d'apprctTo cade l'inuidia fpclfo. Ci foglion prouocarc ancora a inuidia quelli,
co i quali teniamo competenza d honore : pofeiache così fatta competentia, de
contefa fogliamo hauer co 1 limili, de pari a noi. percioche con quelli, che
già mille anni fono (lati, o doppo mille anni fon per elTere, o con quelli, che
già priuidi vita fono; nelmno è, chedhonor contenda, né parimente con
quelli, che habitano alle Colonne d'Hercole. 1 1 nè con coloro ancora d'honor
contendiamo, a i quali (limiamo d'elfcre fecondo ! parer noftro, o ver
fecondo'l giuditio d'altri, o di gran lunga inferiori, odi gran lunga
fupcriori. Et quel, che delle pedone quanto all'eccedere, de mancare
habbiam detto, Ci t$ dee fimilmcntc intender delle cofe ancora. Et perche
con quelli, che nell'acquido di qualche cofa, auuerfari], o duali ci fono
» cV con tutti quelli in fomma, che le medefime cofe defiderano, et cercanil
poiTederc,chc cerchiarli noi; par,c'habbianio fempre vna certa contefa, de
compctCntia, de quali gareggiamento; è necelTario per quello, che verfo di
tutti quelli tali, foglia eccitarli 14 hi noi ma(fi inamente inuidia. Onde
è nato il prouerbio, Il Vaij laro porta inuidia al Vafaro » Apprcllb di quello
tutti quelli,chc con gran fatiga hanno a pena confeguito qualche cofa
defidcrata da loro, over confeguir finalmente non 1 han potuta;
fogliano portare inuidia a chi fenza fatiga alcuna con facilità
conleguita *f l'habbia » Parimente fe conofeeremo, che fe riefee ad alcuno
il confeguire et felicemente mandare a fin qualche cofa, o qualche
imprefa, fia ciò per tornare in obbrobrio, de ignominia noftra,non e dubio che
ageuol mente non riamo per portar loro inuidia. percioche ancor quelli vengono
ad clfer con qualche parità rimili a noi : de per confeguente può parer cofa
chiara, che il non confeguir noi quello, che ilan per confeguire effi, non
poffa da altro procedere, che da notìra colpa. Onde veniamo a fentir di ciò di
(piacere, et con ti i (lamento ; il quale inuidia finalmente douenca.
Medcfiraaraentc foglion cifer da noi inuidiati quelli, Jl Secondo
libro. quelli,liquali confeguifcono, ogiàpolfeggono quelle cofelequa li a
noi paia che per ragion conuengano, o che già prima, come 50 noflre
polfcdute riabbiamo. Et per quella ragione i Vecchi foglion portare inuidia a
igioueni. Color parimente, i quali han confumaro, Se fpefogran fomma di
danari per madare a fin qual che cofa, fenton pungerli d'inuidia conrra di
quelli, che c5 mot to maggior vantaggio dì fpefa, la medesima, o lìmil
cofa hanno ji mandato a fine. Può ancor da quel, c'habbiam detto renderli
ma nifcflo verfo di quali perfone, Se in che forte di cofe Tentano
alle grezza, Se piacer quelli tali inuidiofi, di cui ragioniamo :&
qual méte fian qualificati, &difpoiri per dar luogo alla detta
allegrezza, cóciofiacofa che nella contraria maniera di quella, nella
qual trouandofi satrrillano, vengono a trouarfi, quando fi rallegrano
delle cofe contrarie a quelle di cui fi dolgono. Per la qual cofa ic tali
prepareremo, Se difporremo coloro, nelle cui mani Uà po Ila l'autorità del
giudicare,quali habbiam detto eller coloro,che inuidiano ; Se tali
dall'altra parte, quali fono flati da noi difegna ti color,che inuidiati
fono,moftreremo efièr quelli,chc (limano, Se cercan, che fia hauuto lor
compaflìonc, o che qualche cofa di bene ila lor conceduta; certa cofa e,
chenècompafIìonc,nèqucl bene, ch'ottener defidcrano, faran per confeguir giamai fopo
ir. T^eWSmulattonc^. I qual maniera fian color poi, i quali atti fi t mollano
ad emulare, Se in quai cofe, Se verfo di quai per fone foglia hauer forza
Pemulatione,da quello che al prefen te diremo, potrà farfi manifcllo. perciochc
efiendo l'emulatione vn con tri (lamento, che nafeein noi dal parerci,
ch'in perfone limili, Se pari a noi, fi truo ui prelente qualche forte di
bene, ch'importi honore, Se polla in noi parimente cadere; il qual
contrilìamcnto non è, perche in quelle perfone fi truoui quel bene,ma
folamcnte perche ne fiam j priui noi: ne fegue da quello, che l'emulatione
fia affetto honcflo, eclodeuole, Se a perfone della virtù, Se dcll'honelìo
amiche, non difdiceuole. Si come per il contrario 1 hauere inuidia è
aA fetto brutto, Se biafmeuole, Se a perfone amiche de i vitij pro4
portionato. pcrciochc con l'emulatione ci eccitiamo a preparar V ij
noi ijó Isella ^Rgtprìca dj4riBotelc~> noi fceflì a confcguir quei
beni, che vediamo in altri : douc che Ti nuiiiia ad altro non ci muoue,
oci prepara, fé non a defidera5 re, Se cercare, che eli alcriquei beni non
habbiano. E' neccllario adunque, chad emulare fian primieramcnreinclinaci
quelli, liqualidi quei beni, ch'in effi nonhanno,& in altri veggono,
fti6 man fc ftellì degni :pcroche nell'uno è, che fi itimi degno di
cofa, 7 che gli paiaimpollibildi confegune. Et di qui è > ch'i
gioueni,. S et li magnanimi fogliono effere inclinati ad emulare. Sono
emù latori ancor coloro, che poifeggon quella forte di beni, che
par che propriamente ftien bene, Se conuenganoagli huomini honorati, Se di
valore. Se cofi fatti beni fono le ricchezze » la copia degli amici, o ver
la graria dimoici, li magiftrati,o ver principali ti, Se tutti gli altri beni
cofi fatti. pcrciochc conofeendo eflì con ucnirfi, Se dòucrfi cotai beni a
color, che fon virtuofi, Se meriteuoli, vengono ad ertere emulatori per cofi
fatti beni, come cheper ch'ere ancora erti virtuofi, a lor parimente
conuengano, Se co ro ragion fi debbiano-Sogliono elferc ancora indotti a
emulatió coi i loro,chefon dagli altri (limati degni de i detti beni.&
color pari mctc,i quali hanno hauuto i lor progenitori,© quei del fanguc
lo ro, o i domeftici loro, o quei della lor natione, o quei della
iceila patria,in qualche forte di beni, repucaci, et honorati; fogliono
in turno a tai beni ellcrecmularoriicome quelli, che par
loro,checo me cofa lor propria, meri camere lor cóucngano, Se appartegano
• n Oltradiqucfto elìendoacca maceria deH emulacionc quella force di
benijch imporcano honore,& repucacione, verrà perqueftoad 13 efler le
virtù ancora eiTe materie, Se caufe di cale affecco. Ec cucce quelle cofe
parimcnce, che polfono ellèrc vcili>& recar commodo, Se bendi rio*
altrui ; folendo cilcr da cucci apprezza cc,& hono race le perfonc
benefiche^ agiouare arte, et parimele levirtuo T4 fe. Et tutti quei beni
finalmente eccitar pollono emulatione,! vfo, il godimento, et lafruirionedciquali,
olcracolui,chegli pof iiede, negli altri redundar fuole : come fon (per
eiTcmpio) le ricxj chezze, et la bellezza più che lafanità. Potrà cllcrc ancor
per quel, che fi e detto, facilmente manifeilo quai forti di
perfone fogliano altrui prouocaread' emulatione. concrodacofache
tali ftimar Ci debbian quelli, ch i beni,c habbiam già decco,oalcri foif
miglian ti poiTeggono. et cofi facci beni fono la fortezza, la fapic ua x
1 magjftrati, 0 vero i principati : potendo quei, ch'in tal grado di JL
Secondo libro. / j ? do di principato fono, giouarc, Se far bcncfitio a
molti. Se oltr* di queito gl Imperatori degli eUcrciti, gli Oratori
eloquenti, Se tutti quelli iu (omnia, c han potere, et autorità di quel,
clic pu17 rchor fi e detto, del fargiouamenro altrui. Son medefi mani ente atti
ad efTerc emulati quelli, i quali han molti, che detiderano,. 1 8 cV cerca
d'alTbmigliarfi loro. Se quelli ancora,c'han molti, 1 qua li fon
defiderofi d'cllcr da lor famitiar. mciuexonofciuti,o cTefirre 1 9 amici
loro, Se quelli parimente, che ibn da molti ammirati : fi co me quelli
ancora, i quali ammirati fon da quei, che s'inducono 10 ad emulargli. Prouocaxe
ad emulation fogliono ancor coloro, in lode, Se celcbration de i quali
hanno o Poeti, o Oratori, o altri fcrittori fcritro% Coli fatti lonoadunque gli
oggetti dcll'emux x latione. Se i contrari) lor fon quelli,chc non emulare, ma
più io ilo difprczzar fogliamo^ elTendo all'emula tion contrario il di11
fprezzamento, Se l'emulare al difprezzare>&: tenere in nulla. Perlaqualcofa
c neccfIario-,che coloro, i quali nella maniera già detta difpoiti, 8c atti fi
truouano ad emulale alcuno, o vero ad eflcic emulati, fian confeguerrtcmcntc
difprczzatori di coloro, nei quali fi truoui quella fottedi mali, che iìan
contrarij a quella for 13 tedi beni, che fono atti a generare emulatione.
Onde fpefic volte foglion diftfregiarc, Se tenere a vii coloro, che fortunati
fono, quando fenza alcun di quei beni, c honore, et reputatione im14
portano, fi truoua quella buona fortuna loro. Habóiam duribitte fin qui di
quelle cole, Se di quei modi detto, onde eccitare, Se ammorzar fi poflbno
quelli affetti, &paflìoni humane, e han. 1 y da. feruire a perfuadere,
Se far fede. Segue che doppo qucfto diciamo al prefentequai cornami foglion
fecondo gli affetti, Se fecondo gli habiti dell'animo, Se fecondo
lediuerfeetà, et fortune de gli huomini diuer fa mente accalcare Capo ///
1 *DeHa 'Retorica d % (apo 12. 'Della Giouinezza, et condìfiorii di
quella. Ntendo io per paflìoni, Se alfcrti dell'animo l'ira f la cupidità,
ìk gli altri limili a qucfti, de i quali già di (opra ragionato riabbiamo.
Per habiti incendo poi le virtù, Se li viti; ; Se di cotali habiri fi è
pari3 r"^ i iT^ 'i mente trattato prima, 6c iniieracmcnte fi è dichiarato
quai cofe fecondo cialchcdun di detti habiti, fogliano gli 4 huomini
eleggere operare. L'età poi s in tencion principale $ mcn te eflcr la giovinezza,
la Virilità, Se la vecchiezza. Fortu« ne chiamo io poi la nobiltà, le
ricchezze, lapotcntia,& i lor con crarij : Se la profpcrità finalmente
della fortuna, Se l'auuerfirà di 4 quella. Son dunque i Gioueni, quanto ai
cottumi appartiene, molto vehementi nelle lor cupidità, Se come che paia
lor d'eli e7 re a ciò potenti, fi mettono a fare ogni opra per confeguirle. Et irà
tinte le cupidità corporee, o ver leniuali, di quelle malli inamente fon
volontier feguaci, che son compagne di lafciua venc5 re, nelle quali fon fuor
di modo incontinenti. Son parimente nelle lor voglie, et cupidità
facilmente fottopofti alla mutanone* Se torto diuengon fatij, Se faftidiofi di
quel,che prima apperiuano. Sono i lor defiderij molto intenfi, ma poco
durabili, Se i o pretto partano : eflèndo i lor voleri, Se li loro
appetiti, acuti ma non tenaci, o potenti, nella guifa che fi veggono eflèr
ne gli infec li mi la ietc,& la fame. Sono oltra di qucfto i gioueni
iracondi per natura, et acuta, sfottile e Tiraloro, &fenza molto
penfarui fopra, fon pronti a seguir l'impeto di quella : come quelli,
che ftar non potendo incontra all'ira, vinti lempre da quella rimangono. conciofiacofa
che per la grande (lima, che fanno deiTer reputati, Se dellhonor loro, non
pollano in modo alcun foppor tar d'erter difprczzati,o tenuti a vile ; ma
grandemente fi fdegnano ogni volta, che punto s'accorpano, che fia fatta loro
ingiuria. 13 Sono ancor per querto arabitiofi, &auidi d'honorei
gioueni, o vogliam dir più torto contcntiofi, Se auidi di vincere : emendo
la giouinczza molto cupida d eccedere, ne altro e il vincer, ch'vn 1
4 certo eccedere • Onde d'ambedue quefte cofe, cioè dell
honore, &dcl Jl Secondo lìhro. Q? / / > \ et del vinccrc,fono
eglino molto più amatorijchc non fono ama tori de i danari, dal dcfiderio
de i quali molto poco fon mol diati, per non hauere ancor prouato,6V
efpcrimeniato la potiertà,e'I i j bilogno: fi come ben mollra Se accennala
breue, et acuta rifpofta 16 diPutacoad Amfiarao. Sono oltra di quello i
gioueni non ma» litiofi,doppij, o maligni, ma più torto fcmpljcj, aperti,
cV liberi > come q,uclli, che non hanno ancor conofciute,& prouate
le fraudi, et l'aftiuicdcl mondo. Et parimente Tacili fono a credere, et a dar
fedea quello, che lui detto loro ; non elTcndo flati per la lor xS breue
età molte volte ingannati. Sogliono appretto di quello i gioueni clfer
facili a fpcrar bene. pcrciochc non altrimenti eglin fon caldi per caufa
della natura loro (Iella, che fi licn caldi colali ro, che s'empion di
fouerchio vino. Oltra ch'aiuta ancor la loro fperanza il non hauere ancora in
molte cofe prouato,& veduto to riufeir lor vani i difcgni,& Jc fpcranze
loro, Etoltra ciò i gioueni per il più viuono a fperanza, Se dietro a quella
menano i lor anni : conciofiacpfa che la fperanza riguardi il futuro, fi
come la memoria il pallàto :& ne i gioueni il tempo, c hàda venìre,c
lugo aliai, et quel, ch e in lor già panato è breue,potendo nel prin eipio
della fua età l huomo ricordarfi quafi di nulla,&: fpcrarqua ai fi il
tutto. Et quello ancor parimentec caufa, ch'i gioueni han fempre efpoflia
facilmente eflere ingannati, per clfer (com'hò detto) a pigliare fperanza
facili. Più forti ancora, cV più animoli fono gli huomini nella giouinezza, che
nell'altre età : come quelli, ch'ageuolmentc s acccndon d ira, 8c fempre
bene fperano : delle quai due cofe la prima fa non temere, et l'alrra
confida re: conciofiacofache niun, chefiaaflalito dall'ira, tema; et Io aj
fpcrar qualche cofa di bene, generi confidentia. Sono medefimamentc i gioveni
dediti naturalmente alla verecondia. 8c quello nafcedal non avere eglino ancora
hanuto cognition d'altra forte di cose honeste e lodeuoli, che di quelle solamente,
di cui A4 fon dalle leggi inftrutti. Sono oltra di quello li gioveni,
magnanimi, come quelli, che non fono ftati ancora abballati, de humiliati
d'animo dalle miserie, e necdfirà, che porta la vita umana.01tra che la
magnanimità fa,chc l'huomo fi (limi degno di co fegrandijil che è* proprio
di coloro, che pieni di fperaze fono, co 16 me fono i gioueni. Anrepor
fogliono appretto di quello nelle lor attionirhoncftoaU'vule, come quelli,
che viuó più fecondo l'iniìitution ftfo \ € DeUa r Retorica d *
(litution ne i collii mi fatta, che fecondo'l calcili o della fuppurttione:
ne è dubio,che il difcorrere,& fupputar non riguardi 1 vti *7 le,&
linflitution della virtù non riguardi l honefto. Mcdefìmamentc fo^lion
ghhuomini in quella più, thcinqual fi voglia altra età,elfer vaghi
d'haiierc amici, et compagni : come quelli, che molto godono, et diletto
predono del cómun cóuitto, &del la conuerfarione. Oltraehe non hauendo
cominciato a«coraa mifurar le cole con l 'inrereifo dcll'viile, parimente
non mifuran iS con quello gli amici, ma col diletto (olo. Sogliono ancora
in tutti gli errori, ch'occorra lor mai di fare, errar più tolto nel
pjù, che nel meno, Se più nel molto, che nel poco : Se contra la
len tenda di Chilone ogni cofa fan col troppo : come quelli,che ami
troppo, odian troppo, Se fomigliantc in tutte l'altre cole. Ol tra che fi
perfuadono in vn certotnodo di fapere ogni cofa, Se c6 vna cerca refoluta
certezza affermano, Se afTerifcono rutto quel, che dicono, il che anchora
e caufa, che gli aiuta a traboccar nel troppo. Le ingiurie, Se 1 offefe,
che fanno i g{rìucni,fon più pre (lo in contumelia, et di 1 pregio, che
con iniquità, Se malitia far-* £X te. Sono oltra quello i gioueni
inclinati ad hauere altrui corti-' patti on e; pcroche tutte le perfonc
(limano eglino virtnofe, Se migliori di quel, che le fono, come quelli,
che con h lor femplicità, Se poca malitia mifurano i coftumi, 6c le attion de
gli gli altri : cVper confeguentc gli (limano indegni dei mali,
che 31 yeggan lor patire. Scnton per natura diletto ancor di (lare in rifoj
Se per quello fon faceti, vrbani, et fcflcuoli, Se amici del motteggiare :
emendo l'vrbanità vna certa delira, honefta, Se ben moderata fpetie
di contumelia. Coli fatti adunque (come habbiam detto) fono i
coftumi, che porta feco la giouinezza**4| Capo \ Jl
Secondo libro. j 6 1 fi*po ij. Della VecchieXzL,a y et delle pròprieta dt
quella. Vecchi poi, Se gli hormai grani, Se carchi danni, han quali per la
maggior parcc cortami, a i già dee-! ci contrariamente opporli, perciochc
hauendo vif il peggio. pcrciochc fon di contraria di fpofition di fangue,
che non fono i gioucni, clTcndo eflì agghiacciati, et quelli caldi : onde
par, che la vecchiezza venga in vn certo modo a dare adito, et a far quali la
ftrada alla timidità; non ellcndo altro il timore,chc vn certo
agghiacciamento. Delideroli ancor grandemente, Se auidi della vitafono x
Se maflìmamente quando s'apprettano a i giorni e ftremi: (olendo elTere il
dcfidcrio propriamente delle cole, che mancano, Se fono allenti ; Se di quello,di
che l'huomomaggionnente edefettuofo, Se hàbifogno, maggiormcntc ancora è
defidcrofa. Coltume è ancor de i Vecchi i cilèr Tempre queruli, Se lamenteuoli,
et Tempre et ogni cola rammaricarli, quali che non polFan contentarli mai.
il che naTce dall'clìer quella vna l$ lpetiedi pufillanimità. Viuono olerà
di quello più fecondo l'vtile, che fecondo l honefto> molto più che non
conuiene, per ef16 Ter molto amatori di Te medefimi: nè e dubio, che l'vtil non
fia bene in refpctto di fe Hello, Se l honeftonon lìa bene in Tua natu17
ra, et allblutamente. Coftumcmedefimamcntecdiquci, che fon nell'età
fenile, l'eller più prefto inuerecondi, che verecondi, concioliacofa che
non tenendo effi il medefimo conto dell'hone ito, che dell vtile,tengon
per conTcguenre poca (Urna dell'opimo 1 8 che s'habbiadi loro Poca
Tperanza Togliono ancor nelle coTe ha uere ; parte per reTperientia, che
gli hanno, rrouandofi per il più nelle coTe Tempre più il mal, eli il bene
; Se accadendo per confci$ gucntcgliauuenimcnri dell'humaneattioni in peggio :
Se parte ancor per causa della timidità, c'habbiam detto elfer lor familiaxo
re. Danno mcdeilmamentc maggior parte della vita Ioroalla me moria, ch
allafperanzarconcioliacoiachc riguardando la fperàza il fu turo,. et la memoria
il pallàto, picciola parte della lor vita % 1 è quella» che Ila futura,
&: grande quella v eh è già palla ta.Ec quello parimente e la caufa, che
gli rende loquaci, et gli fa fenza miCura pigliar diletto di raggionare. peroche
nonrellan mai di raccontare, &c rirare in lungo le cofencllor tempo
accadute, o ch'eglino habbian perii pallato fatte : come quelli, che nel
rinnouel Xt larfel e nella memoria, gran diletto,. et gran gu Ito
prendono. Gli Tdegni, i crucci» et l'ire dei vecchi fono acute, Se
fubite,mafner «5 uate, &: fiacche. Se li defiderij, Se le cupidità lot
o, parte fon man care, Se diuenutevanein tutto ; et parte fon fatte
languide Se de M biluatcLa onde non fon molto moleitati dalle fcnfualità
delle cu pidità Jl Secondo libro. pldità,nc indirizzan le loro
attioni,o guidano la lor vira dietro i tj quelle, ma più tofto dietro ali
vtilc, et al guadagno. Onde vengon lcpcrfoncdi quella grauc età a dare
apparentia di Temperate : pofeiache lecupidità non fi veggon più in loro
dominarcela ucndoeflì totalmente l'animo applicato, et comeferuo fottopox6
fto ali vtile, et all'affetto del danaro. Et da quefto nafce, chegui danlalor
vita più torto con calculato, Se fupputatiuo difcorlo, ch'à modo dhabito,
et di coltume : cllcndo vn cofi fatto fupputare, et difeorrerc appartenente
aU'vtile, et l'operar come per coftumc, più alla virtù propornonato. Onde
le ingiurie, cV: Tof fefe loro, portan (eco più prcfto ingiù ftitia, et mahtia,
che con*. 28 tumelia. Son pari mente i vecchi inclinati ancora etti alla
compaf (ione ; ma non già perla caufamedeuma, che fono i
gioueni.pcr ciochenei gioueni nafee quefto da vna certa Immanità, o
voglia dir benigno affetto verfo gli huomini : doue che nei vecchi nafcc
da imbecillità, facendo ella lot patete, et in vn certo modo dubitare, che
tutti i mali poifono ellcr loro cofi vicini, che ageuolmente poftonlor ventre
addoifo : ti che giàhabbiam detto 2 cócorrerealle caufe della cópaffione.
Et da quefto ancor viene, -che li vecchi fian queruli, et duri, et amari
nel conuerfare,&: no punto atti alla vrbanità,& poco amici del
follazzo,&: del rifo: effendo cofetrà di lor contrarie l'elfer fefteuolc,
et 1 elfcr lamenteuole. Cofi fatti adunque fono i coftumi, et dei gioueni, et dei 3
1 vecchi. Perlaqual cola folendo communemente tutti volentieri abbracciare, et hauerc
accette quelle otationi, che conofeono accommodate, et conformi ai coftumi
loro, et affettionarfi a coloro, da cui le vengono, come che a lor firn
ih; non potrà per quel, che fi è detto, efler nafeofto, in che
maniera pollan color, che parlano, ^ parlare in modo, che et elfi, et l'orationi,&
parlamenti loro, poffan parer cofi fatti, cioè limili a color, che
gli alcol tano. t x ij fa / Della llgtprica d %
l^j /^Oi Virilità, ^ condttioni di quella. Vahto poi a color, che fon
nell'età virile, et vigoro fa, può ellèr manifelìo, ch i lor coftumi lìan
pofH nel mezo trà quelli (ielle due età già dette: tollendo via da
quei deli'vna, et da quei dell'altra l'eccedo, de la ioprabbondantia. Non
fon dunque effi tali, che troppo trabocchin nella confidenza, il che è
proprio dcll'au dacia, ne troppo parimente temino : ma neH'vna,&
nell'altra di | quelle cofe, fon difpofti fecondo che fi conuienc. Non fon
creduli, et facili a preftare ad ogn'vno vgualmcntc fede : ne dall'altra parte
han coli fofpetta la veracità d ogn'vno, che cofa alcuna non credan veTa:
ma dalla verità delle cole ftclfe pendono, et fo4 no i guiditi), et gli allenii
loro. Medelìmamcnte quelli di quella età non fon ferui dell auaiitia ; ne ancor
fon prodighi, &c diffipatori : ma tra quel mezo caminano, feconefo che le
cofe ricer$ cano. Et nella medefi ma maniera parimente con mediocrità difpofli
incorno all'ira, et intorno alle cupidità fi truouano. Son tcmperati, fcnza
che manchi lor la fortezza, Se fono forti senza che lor manchi la
temperanza. Le quali due virtù, i gioueni, et i vecchi s hanno l vna
dall'altra separatamentc trà di lor partite, cf /èndoi gioveni forti, ma
intemperati, ed i vecchi per il contrario temperati e timidi. Et per
raccogliere il rotto in poche parole, tutte quelle cole, che di buono, et d'vtilc
s hanno lagiouinezza, et la vecchiezza trà di lor fcparatarnente dillribuitc,
tutte 5 fi truouano infieme nella virilità congiunte. Et tutte quelle altre
cofe poi, leqiraii per fouerchio eccello, o defetto traboccan nel troppo,
o nel poco nelle due ellreme età già-dettc,tuttc ridot te al mediocre, et al
comieneuole, lì truouano in quella età di 5 mezo. Ritien le fue forze nel
Ino vigore quella età virile, et le fi confidcrano in quanto al corpo,•
daU anno uigefimo fino al trige fimo quinto : ma confidcratcquanro al
vigor dell'animo, intorlo no al quadragclìmo nont>,maflimamctcnorifcono.Et
tonto badi hauer detto de i coflumi,& conditioni del la
giouinczza,& della vecchiezza, et dell'età vigorofa, che nel ruezo di
quelle è poda. Jl Secondo libro. ì6j fapo if. Della nobiltà, condizioni, proprietà
di quella. V^ug^ Ecve al prefente, che noi diciamo intorno
aTij^È^!^^ della fortuna, quali, et quanti di quelli fiano atti
a variare i coltami de gli huomini, Se quali cofi
fatti coilumiaccafchino. Etcominciandodalla nobiltà, coitumc primieramente
è di quella l eder chi la poifiede dedito molto ali ambinone, Se a tenere
in ogni cola c&S | to dellhonore. pcrciochc pare, che ordinariamente
tutte le perfone » quando conofeono di polXeder qualche cofa, che piaccia
loro, fogliari tempre porre ftudio d'accrefcerla, et d'accumularle fopra : ne
altro e in chi 11 lìa la nobiltà, che honoranza, Se c 4 fplcndor d'honore
de i fuoi maggiori. Sogliono i nobili ellcr diIprczzatori d'ogn'vno; Se maiTì
inamente di quei, che fon fimi li a i lor maggiori. conciofiacofa che li
medefimi honori fogliano apparir più fplendidi, Se più gloriofì, quando Ci
truouan per lungo fpatio di tépo già fatti da noi lontani, che fe vicini in
tempo, o 5 prefenti fono.Cófilte l'elfcr nobile nella virtù principalmente
del 6 la (tirpe, Se della fameglia : ma la generofità condite in non vfei7
re, o tralignar dalla natura, et virtù dei fuoi maggiori, il che il 5 più
delle volte non fi vcdeaccafcar ne i nobili ; tremandoli fpeflb S mol ti
di loro vili, h umili, Se abbietti d'ani mo. Et pare in vero» che eli
adiuega nelle ftirpi, et fameglic dc'gli huomini vna certa fertilità, Se
abbondanza di ricolto per qualche tempo, fi come fuole auuenirca i
lauoratiui campi della terra alle volte ne i frut ti loro. perche fe la
ftirpe et fchiattad'vna fameglia farà buona, fi vedran per qualche campo
vfeir di lei perfone in virtù eccellenti. et di poi all'incontro parrà, che
come (tanca, Se quali sfruttata 5 di tai perfone, rem" per qualche
tempo di parturirne. Et in coti fatti tralignamcnti di fangui, Se di
ftirpi, loglion le fa m eglie d'acuto intelletto, Se di fottile fpiriro,&
fottile ingegno, degenerare, Se tralignare in perfone di coftumi adulti,
melancholici> Se fu riofi-, come fi vede elTer quelli, che fon difeefi
da Alcibiade; et io quei parimente, che dal primo Dioniùo per fangue deriuano. Et le
fameghe dall'altra parte, che fon di quieti, manfucti, Se graui co (lumi
« / ^Detta r R^torica
d*Arittotek^> co ftu mi, tralignar foglion finalmente in perfone
inerti, digroffo intelletto, et quali ftolide, Se infenfate, come fi veggono
elfer quelli, chedaCimonc, da Pericle, et da Socrate difeeh
fono, (aj?o 16. De i cofiumi, et proprietà de i 'Ricchi. Vai maniere
poi di cottumi foglian feguitare, Se ac compagnar le ricchezze ftando
etti, aperto può ciafchedun facilmente conolcere. pcrochc foglion
pri mieramentc 1 ricchi elfer contumeliofi, Se oltraggiofi, et oltra ciò
fattoli, et fupetbi : facendo in effi coli fatte difpofitioni, il polfelfo,
et l abbondantia delle lor ric3 chezze. conciofiacofa che clfendo le ricchezze
la ricompenfa, Se quafi il prezzo della ttima,& del valore di tutte
l'altre cole, in mo do, che chi polTìcde le ricchezze, pare che tutte le
cofe comprando cófcgnir polla -, vengon per quello i ricchi a difporfi
d'animo, 4 non altrimenti, che fe tuttel'altre cofe polTèdano. Sonoparimentei
ricchi macchiati d'vna certa effeminata molline, et delicatuta, et molto
fattoli,& arroganti di fe medefimi. molli de delicati fono per l
educationc delicata nata da i commodi, che portan le ricchezze. arroganti,
Se faftofi oftentatori fono, fi perche foglionocommunementegli huomini
volontieri occuparli, Se confumarc il tempo intorno a quello, ch'elfi amano,
Se che ammirano, et fi ancora per che lì danno a credere, che
tutti gli altri tengano altrui felice per cagion di quelle ftclfc cofe,
che 8 tengonloro. Nè forfè di ragion par, che in lor nafcaqueftaprefuntione,
vedendo elfi, che molti fono, che di coloro,che polleg gon ricchezze hanno
di bi fogno. Il che fu efprclTo daSimonide Poeta in quel detto, eh egli in
proposto de i iapicnti, «Sedei ricchi vsòrvipondendo alla domanda fattagli
dalla tnogliedi Hiero ne. concioliacofa che domandato da lei qual delle
due cofe fi douelfe come migliore anreporre o l'elfcrricco, o l'clTer
fapiente; rifpofe, cheei vedeua 1 lapiditi raggirarli tutto'1 giorno, Se
(lare 10 allettando alle porte dei ricchi. S aggiugncancoraa
confermar Tarrogantia de i ricchi, il parer loro, che lor fi debba, Se
quafi per ragione appartenga vna certa maggioranza, Se imperio
(opta degli Dig Jl Secondo libro. degli altri : {limando
lord'hauer quelle cofc,Ie quali chi poflìede, (la degno di dominare,& di
comandare a gli altri. Er per dir breuemete fono le maniere, Se li coitami
de i ricchi quei medesimi, che farebber d'vno, chefuflefortunatOjCV
infiemementc ftolto.E^ ben vero,che no poca difFeren ria fi truoua tra i
coftumi, che feguon le ricchezze di nuouo acquillate, Se quelli, chaccompagnan
Ieanticamcntc poffedute. peroche tutte le cattiue,c\: biaf. mcuoli
conditioni, Se proprietà, che ne i ricchi fi truouano,mol to peggiori fi
fan conolccre in coloro, che fon fatti di nuouo riechi. conciofiacofa chela
nouità delle ricchezze fia quali vna ini14 peritia del poflederle, et vna
ignorantia dell' vfo loro. Apprello di quello le ingiurie, Se le orlefe,
che £mno i ricchi, non (ò{;lion nafeer da pura ingiuftitia,&
malignità, mapiù tolta o da Scherno, Se da contumelia, o vero da inconrinentia,
Se da inremperatia : come faria (per eflempio) il dar delle battiture, Se il
far forza con violentati adulterij. fapo. De i coftumi di coloro, che h ari
grande autt onta > £f potentia Jopra de gli altri* de i ben fortunati
* Edesimamente li coftumi, che feguon la potentia, l'autorità, Se
grandezza di flato fon quah per la maggior parte man ifelli. conciofiacofa
che parte d'efli fian quei medefimi ne i potenti, che fon ne i ricchi
; Se parte fian migliori, Se più comportabili, perciochc le pedone
potenti, Se di grande (laro tengon ne i coftu milorpiù conto dell honor,
et han più del virile, Se del grande, che non auuicn nei ricchi. perche
dando lor la potentia che gli hanno facilità di poter far cofe preclare,
applicano a quelle l'animo, et fon cupidi di condurle a fine. Sono ancor più
diligenti, et manco otiofi, pofeiache il pender di conferuar faluo il loro
fta to, gli sforza a dar vigilanti, Se a tener cura Se ftudio intorno
alle cofe, che appartengono alla potentia loro. Mcdefimamentc quel la
grauità, che fi truoua in loro, ha più tofto del venerabile, che del
molcfto, Se fempliceracntc graue peroche tendendogli quel la de\ T>eHa
Ttgtoried d' sfrittotele^ la degnità, et autorità loro riguardcuoli,
vengon per quello a j moderare, et a temperare i modi, Se le maniere loro
: non eflendo altro in vero quella venerabili tà, ch'vna mitigata, et ben comporta
grauità. Et fc pure eglino inclinano alle volte a fare ingiuria, fon leoffelc,
Se le ingiurie loro, non di cofe leggieri, et di 7 poca importanza, ma di
cofe grandi, Se d'aliai mométo. Quan to alla profperità poi della fortuna,
ritiene ella inlieme quei coS (lumi, che noi leparatamente riabbiamo clplicati.
peroche tutte quelle, che fon communemente giudicate felicità di fortuna,
pa re, che tendano, Se inclinino, cornea puncipaliflìme parti loro,
a quelli tre (lati d'huomini,ch" vi timamen te habbiam
detti.quan tunque a colmar coli fatta felicità concorrer foglia ancor l
hauer buon numero di ben qualificati figli, Se 1 hauer la pedona dota10 ta
di quei beni, che beni dei corpo fi domandano.Sogliono adun que i ben
fortunati più che tutti gli altri, traboccare ecce Ili uame 11 te in
fuperbia ; Se elfcr molto feonlìderati, Se poco configliatiui> o
difcoriìui nelle loro anioni : colpa della confidenza, che recali lor la
profperità della lor fortuna. In vna proprietà nondimeno, Se in vn coftumc
degno di lode, che feguc alla buona fortuna a canto, vengono ad eccedere i
fortunati, Se qucfto è, che.fon pij, Se deuori cultori, Se veneratori di
Dio, et ripieni di ben copollo affetto verfo la bontà di quello. conciollacofa
che veggendofi cfll profperar ne i beni, che dalla fortuna fon dati loro, facilmente
lì danno a credere, Se fi perfuadono, che ciò adiuenga loij ro per hauere Dio
amico, et bcneuolo. Et fin qui badi naucr detto de i coftumi, Se
proprietà, che feguono alle diuerfe età del i'huomo ; Se di quelli, che
portan feco i varij tlati della fortuna. 1 \ peroche i coflumi, che feguono a
quelli itati, che fon contraria quelli, c'habbiamo elpofti, cornea dire alla
poucrtà, all'auuerfa fortuna, Se ali impotenza, Se poca autorità, potranno renderli
manifefti con volger ne i y.r;i.»..* f contrari; loro i luoghi, Se le
conditioni, che alfegnate riabbiamo • C*po jfl Secondo libro. /
6 p (apo ìS. Continitafion delle cofe dette con quelle, che shan da dtre
nel rejlante di quejìo fecondo Libro. Erta co /c e, che l' vfo d'ogni
perfuafiuo parlare riguar g Ha finalmente qualche giuditio, o parer, che
nalca in B colui che ode. peroche per cagion di quelle cofc,
che alcun fappia eiTcr da noi conoiciute, et giudicare fecondo l'animo
Tuo, non fa di bifogno, ch'egli ce ne parli. et qucfto C'habbiam detto
auuicne parimente fc alcuno apprettò d'vn folo,o fuadendo, o diifiiademlo via
le fue parole; come auuicne in color,ch'ammonifcono, o ccrcan di fare ad
alcun fede di qualche cola : non douendo punto manco (li mar fi colui, a chi fi
par4 la, giudice di tai parole per eiTere vno. perche colui in fiamma li può
conucneuolmenre (limar giudice dell'altrui parlare, nel qual fi cerca di
far parlando nafeere perfuafionc, o aiìcnfo, j o vno o più, che cofi fatti
fiano. Il medefimo auuicne ancora, così ncll'opporfi, col parlar nortroa
chio litigando,o in altro modo ci fia auuerfario ; come ancora in parlar
fopra qualche 6 prò polla carila, conciofiacofa che ancora in far quello
facciadi Difogno d'vfar la forza delle noftrc parole, et cercar di difeio^lier
le cofc, che ci ficn contra, òc contra quelle, come qua7 li contri d va©
auuerfario, opporci col parlar noftro. Similmente fi può quello medefimo dire,
ch'adiuenga neli'orationi dimofrratiuc venendo noi in quel genere ancora a
contìituir, come quafi giudici coloro, cha modo di fpcttarori, fi pongono
ad ascoltarci. Ma pigliando al tutto quella parola giudice femplicemente,
fi dee per giudice propriamente intender quello, che nelle controuerfie, et caule
ciuili, le cofe che fi dubitano, et fi propongono, determina con la fua (èli
tenda. conciofiacofa che de nelle caufc,che fi trattan nel foro giudicialc,
Se in quelle, che fi maneggian nelle confulte, fi cerca in che maio nicra
le (licno,& qual detcrmination fi conuenga loro. Ma de i collumr a
ciafeheduna forte di republica accommodari, habbiam già a ballanza detto
pr ima, nel trattar del ncncr dclibcratiuo : di maniera che può parer c homai
fia fatto chiaro in che Y maniera, Se con L'aiuto di quai cofe, damo
per poter far le noftre orationi coturnate. E t perche trouandou in ciafehedun
gencr d'oraiioni difhnto, Se appropriato fine, riabbiamo per tutti i
generi,. Se per tutti i finiailegnato loro, proprie, Se accomodate opinioni,
propofitioni, Se luoghi, onde fi polla perfuadere,& *3 ^ ar fede
confultando, demoftrando. Se litigando: &: habbiamo oltra ciò inoltrato de
detcrminato donde, et come formar fi debbian le orationi, et li parlari
coftumati ; reità ch'ai prefen te diciamo di quelle cofe, che communi fono
a tutti li generi di *S caufe, Se tutti i modi di far fede abbracciano.
Commune adunque a tutti cnecclfario, chefiail feruirfi del poflì bile, &deH
impoflìbilc, Se il tentar di mofhar nell'oratione tal'lior che la cofa 1 6
habbia ad elfere, Se tal hor che la (la fiata t Se oltra di quefto comune è
ancora a tutti i generi, delPoratione, il confìderare, Se moftrar la
grandezza della cofa : conciolìacofa che tutti fuadendo, o difTuadcndo nelle
confultationi, Se lodando» o vituperando, Se acculando, o defendendo^vfino, Se
tentino di cftenuarco d'ampliar le cofe, o vogliam dir d'impicciolirle, o
ingrandirle. tS Determinato charem poi quefte cofe, faremo pruoua di
dirqual che cofa degli Enthimemi, Se de gli eflempi confederati
ancora 1$ effi come communi a tutti i generi, accioche-aggiugnendo
poi doppo quefto fé cofa alcuna ne renerà da dirli, poriam por finalio
mente fine a quanto da principio fu da noi propoiìo. Et è da fapere, che delle
cofe, c'habbiara già propone come communi, I amplificar, ch'appartiene
alla grandezza, è alquanto più domenica, Se accommodata alle orationi
demoftratiuc, come già in alir tro luogo fi è detto prima. La nn tura poi dell'
elTer fiato, allegiudiciali è* alquanto più familiare:
riguardando lcfententie dei giudici, maflìmamente le cofe fatte. Il
poflìbil poi, et l haueread elicle, alle confultatiue caufe principalmente
s'accommodano,. Se fi fan domeftici. Jl Secondo Ulto. ìyj {apo t p.
'Della natura del pofòbile, dell' ejjère fiato, et dell' hauere ad ejfere,
et de i luoghi loro£t della grandeX^a,^ piccolél^a confiderate m natura
loro. I ry»MK?| Omi sciando adunque dal potàbile, òV dall'impof1 y2^gS£I fibile
diremo primieramente, che fé l'vn de' contraèo^Sjtì rij farà poffibile ad e il
ere, o a farli, parimente l'altro contrario potrà parer poffibile. cornea
dir (per cileni pio) che fé gli è poffibile all huom farfi fano, gli farà
ancor poffi| bilcildiuenhe infermo: conciolìacofa che vna medeiìma forza, et potentia
fia quella di due contrarij, confiderà» come con4 trarij. Parimente fe l vna di
più cofe trà di lor fimili faràpoffibi5 le,faranno ancor poffi bili quelle
altre fimili. Etfc poffibil farà vna cofa, che fia più difficile, farà
poffibil quella, che farà più fa4 cile. Et ancora teglie poffibile a fard una-cofa
in modo,chc la fia ornata, bella, et perfetta ; potràmedefimamente farli
femplicc» mente fenza quelle conditioni : perochepiù difficile (per essempio)
a farfi, e vna caia ornata, et bella, eh* vna cafa, che fia femplieemente cafa.
Oltra di qucfto di quella cofa, il cui principio fia poffibile a farfi,
farà poffibile il fine ancora : pofeiache ninna cofa di quelle, che fono
imponìbili, può mai farfi, o cominciare 5 a farfi : come (per essempio)
diremo, che mai non potrà farfi, ne cominciarti a fare il diametro del
quadrato al lato, ouero a la cofta di quello, con vna fteifamifura
commenfurabilc. Dall'altra parte ancora di quella cofa il cui fine fia
poffibile, farà poffibile il principio ancora : hauendo tutte le cofe, che
fi fanno, origine dal principio loro. Oltradi qucfto fc di due cofe,
quella che in foftantia, et in natura fua, oucr per via di gencrationc fia
pofteriore, farà poffibile ad efler fatta, poffibil parimente farà quella, che
e anteriore, et preceder dee. come a dir (per ellempio) che potendo venire
alcuno all'età virile, puòancor venire alla fan1 1 ciullezza; douendo per
natura quefta età preceder quella.Et me» defimamentc per il contrario, fc
gli e poffibil diuenir fanciullo, poffibile ancor farà venire all'età
matura, elTcndo quella età prin 15 cipio di quefta. Quelle cofe ancora fi
deono ftimar poffibili» Y ij delle ìyf, *Della c Retorica d
'drìftotele^ delle quali fi truoua per natura amore, Se cupidità ncH'huomo
: peroche perii più nó e chi nmi, o appetilca le cofe, che fono
impotàbili. Appretto di quello quelle cofe, pollbno et cllere, Se I j
farli, delle quali fi truouano in piedi le feien tic, et le arti, quelle cofe
medclìmamente pollon da noi ellcr fatte, il principio del cui edere, et del
cui nafeimento dà porto in cole, che o con forza, o con permasone in poter
noftro (ia di valercene. Se tali fono fc o più potenti d'elle, oucr padroni,o
amici di quelle damo. 17 Parimente le le parti d alcune cole laran
potàbili, faranno ancor potàbili li tutti loro. Se all'incontta fevn tutto
farà potàbile, faranno ancor per il più potàbili le parti fue. concioliacofa
che fe far (per esempio) lì pollon le fuola, Se le tomara, parimente
Ci pollon far Te (carpe : Se all'incontra fe lefcarpe far lì
polfono, faranno ancor pombilt a farfi le tomara, et le luola. Mede/imamente
fe tutto infamemente il gencr farà cofa podi bile, farà poflibile ancora qual
lì voglia delle fise fpctic. Se all'incontra fe pofII lìbil farà la fpetie,
farà ancor potàbile il gcner tuo. come adir (per cileni pio) che fe potran
farli legni da naiiigafrc, potrà f.irfi la galera ancora j Se potendoli
far la g ilcra, potrà ancor farli vn lezi gno da nauigare.Ohra di quello le di
due cofe, c riabbiano in lor natura relatione, Se rifpetto di riferimento
1 vna all'airi a, farà pof libile l'vna,potàbil farà parimente l'altra,
come a dir (pcrclieanpio) ctiesVna cofa porrà eller, che fia il doppio d
vn'altra, porrà ancor quella eirer la metà, oucroil mezo di quella. 6c
all'incontra porendo ciTer quefta la metà di quella ; potrà ancor quella
cC *5 fer di quella il doppio. Parimente fepotàbil farà di farfi vna cofa
fenza aiuto d'arte, Se lenza diligano*, o preparatione
alcuna, maggiormenre farà potàbile a farli fe vi s aggiugne
l'induftria dclfarte, Se la oMigentia. Onde ben fu detto da Agathone,
che moire cofe li fanno alle voi te a calo; male medefimc facciam
noi a j con l'arte, e con l'induftria, che la nccetàtà ne mollra. Mcdefimamente
s'vna cofa può cfl'cr fatta da quei, che fono di mcn valore, et di forza, o di
potentia inferiori; mageiormen re potrà x6 eiler fatta da perfone
contrarie alle già dette, li come dille lfocrate, parergli cofa graue, fc
quello, c haucua imparato Euthimo, non fulle egli badante a poter trouare, Se a
poter fapere. Quanto poi alle cofe impotàbili, chiara cofa è, che da i
contrari j luoghi di quelli chabbiarao adeguaci lì potran
comprendere. Per Jl Secondo libro. i ?j Per conofeer poi fc le
cofe fiano fiate fatte, o non fiano fiate tacce, potiam difcorrere, et eonfiderare,
nel modo, eh al prcfente diremo. Pnmieramence adunque (e quella cola, che manco
in Tua natura è atta a farfi> nondimeno è fiata fatta, farà ancora Itara
fatta quella, che maggiormente in fua natura afarfi è habile. Et Ce quello, fi
vede fatto, che fuol farli doppo, viene ad elfere ancor fatto quello, che
far fi fuol prima, cornea dir(perellèmpio) che Ce alcun lì làrà (cordato
di qualche cola, 30 l'harà ancora in qualche tempo imparata, ouer faputa. Medefimamentc
s alcuno è,chabbia potuto, et voluto fate vnacofà, flimar lì dee, chei
habbia fatta : conciohacofachc tutti quando potendo fare qualche cofa,
voglion parimente farla, lenza alcun dubio la fanno, per non hauere in tal
cafo cofa, che gli impedifca. Il medefimo fi dee dire ancora di chi habbia
hauuto la volo tà di farla, 6c nelfuna cofa eftrinfcca dalla partedi fuora
impedi31 tol'habbia. Parimente s*alcuno harà potuto far qualche cofa,5c in
quello Hello tempo farà flato accelo d'ira, ch a farla incitato l'habbia ;
fi può affermare, che l'habbia fatta. Et il medefimo s'ha da dire di chi
habbia potuto far qualche Cofa, et habbia infiememéte hauuto qualche cupidi ù,
di in fligato velhabbia. perciochc per il più coloro, c 'han poter di far
cofa,della qual fiano defiderofi, et cupidi, la foglion fare, a ciò
induccndogli,fe cattiui, &vitiofi fono, la loro incontinentia, et le
fon virtuofi» J5 l honcllà, et bontà dei defiderij loro. Oltra di quello s
alcuno era in vltima preparatone totalmente in punto, 8c in ordin
per fare alcuna cofa, fi dee filmare, che l'habbia finalmente
fatta: 36 efTendo verifimil, che colui, che Ila già del tutto parato a
fare vna cofa, in modo, che nulla gli manchi per efeguirla, laefeguifca, 3c la
faccia per ogni modo. Mcdcfimamctefe fi veggon fatte tutte quelle cofe, che
foglion per natura precedere, &c andare innanzi a qualch'alrra cofa,
ouer per caufa di quella fono, fi può 3 8 (limar, che quella tal cofa fia
fatta ancora, com a dire, che Ce farà balenato, fi potrà dir parimente,
che fia tonato. cVs'alcunoharàaifalito, o fatto forza, o attentato di far la
cofa, potremo ereder, che l'habbia fatta. 8c dall'altra parte ancora Ce lì
veggon fatte tutte quelle cofe, che foglion per natura feguire, &c andar
dietro a qualch altra cofa, o per caufa delle quali quella tal cofa
fia; fi dee (limar, che fia ancor fatta quella tal cofa, che di natura
và loro innanzi, o per caufadi quelle ha l'elfcrfuo. come a dir,
che 41 fc gli e tonato, bifogna, che ha balenato : Se s'alcu no harà
dato effetto al tal delitto, o alla tale ingiuria; fi potrà ancor
credere c'habbia prima attentato, alTalito, Se fatto forza di farla. Et
di tutti quelli, che come luoghi habbiamo allignati, alcuni
fon ncceilarij, Se ch'infcrifeono, &" concludono di neceflìtà ;
Se alcuni fon più rollo verifimiii; Se han la forza loro per il più,cVper
la maggior parte. Quanto poi al poter inoltrar non effer la cola Hata
fatta, potrà ciò clfer noto dai luoghi contrari; a quelli, ch'a moftrar
chelafia Hata fatta, alfcgnati habbiamo. Et da quelli medefimamente potrà
diuenir manifefto quanto occorre intor46 no al moftrar, c'habbia la cofa ad
clTère. percioche quelle cofe, che fono in poter di chi voglia farle, fi
douerà ftimar, c'habbiam 47 da ellerc in ogni modo. Mcdelìmamente fe con
ira,o con in tenia cupidità, o con rifoluco difeorfo di ragione, ch'in ftighi a
fare vna cofa, farà congiunto il potere ancora ; fi douerà crcder,ch'el48
lafia per elici e, ouer per farli. Et perla medefima quali ragione, le
vedremo, ch'vna cofa ftiagiàgià in procinto, et inordin per fai fi, o per
clfcre, potiamo affermar ch'ella fia per haucre effetto : pofeiache per
il più fogliono effettuar/i più tolto quelle cofe,che fon parate, et polle
in punto, Se inordin perfarfi, che quelle, che co tal preparation non
hanno. Olerà di quello fe fi veggon già in cf fer quelle cofe, che foglion
per natura precedere, et venire innanzi a qualch'altra cola, debbimi credetene
quella ancora hab biada cllcre. come a dir, che fe il Cielo farà coperto
di nuuole, 51 potrà verilìmilmenteafpettarlì, che la pioggia venga.
Parimente fe fatta farà quella cola,laqual per cagion d'vnaltra fi fuole ordinariamente
fare, vcrilìmil ria, che quell'altra ancora habbia da effettuarli come a
dir, che fe fatti fatano i fondamenti d'vna caj 1 fa, verifimilmc te ancor fi
fat à la cala. Quan to poi alla grandezza, Se alla piccolezza dellccofc, Se
aU'efler quelle, o maggiori, o minori, o finalmente grandi,0 picciolc, può
quello renderli 53 manifcfto per le cofe, che già habbiam dette innanzi. peroche nel
trattar noi dilopra delle cofe appartenenti alle confufte, Se al gencr
dcliberatiuo, fu da noi trartaro della grandezza dei beni; Se infienie
dcll'cirer maggiore, Se dell'efièr minore, fcmpliccmc54 te in fe confiderati.
Per laqual cofa elfendo in ciafehedun gencr di caule propoli o per fin
qualche bene, come a dir l' vtile, 1 bonetto, e'1 Jl Secondo libro. / 7
j $ $ do, c'1 giudo, può efTer manifedo, ch'a tutti li detti generi,
per l'araplincatione, che lor bifogni fare, pollon fcruir lccofe,
che j6 quiuida noi furori dctte.Onde tutto quello, choltra a
quel,ch'ap partiene a i detti generi, di più fi confideradc, 6c diceflè
della gra dezza, de dell'eccedere, confiderati in fefempliccmente, fareb57
befouerchiamente, et fenza bilògno detto. conciolìacofa che nelle
facultà,chan da eder porte ncll'vfb,& nell'attioni,più pròprie fieno le
confiderationi applicate alle cofe particolari, che quelle, che fi fanno
fernpliccrnentc intorno alla natura dcll'vni|S ucrfalc. Quanto
apparticneadunque a veder, fe le cofe fon po£ fibili, o imponìbili, et fc
le fon fatte, o non fatte, Se le l'hanno da edere, o non han da edere, Se
quanto parimente appartiene alla grandezza, et piccolezza delle cole, può
badar, quanto ha qui li è detto * (apo 20* Dell' Jffimpio, 0 vero
Induritoti retorica> et delle Jpetie Jue, lor condit ioni, et del modo dyjarle^
collocarle nell'oratione. Està che diciamo di quelle pruouc, Se vie di
far fede, che fon communi a tutti li generi di caufe; pofeiache già
detto habbiam di quelle, che fono, o all'vno, o all'altro genere
appropriate. Sono le communi pruouc* et vie di far fede,
generalmente due, l'edcmpio, &r Entimema. percioche quanto alla fenten4
tias'hadadimar, che la fia parte dell'Enthimema. Direm dunque primieramente
dcirElIempio : edendo l'edcmpio fimilc alj l'induttionc, la quale ha ragion di
principio,. et di precedentia 6 nell'argomentare* Di due fpetie adunque fi
foglion trouar gli 7 edempi. l'vna fpetie s'intende elfer,quando fi
predono, &c sadducon neli'edèmpio cofe, che veramente fonafbtc, 8c li domanda
propriamente edempio. L'alrra fpetie s'intende poi eller quando noi dedì
fìngiamo, Se neHimmaginauon trouiamo le 9 cofe, che neiredempio addur
vegliarne* Et cotale fpetie hà due parti, o vero è di due maniere, l'vna
fi domanda parabola, oucr 10 Similitudine : et l'altra fi chiama Apologo,
ovogliam noi dir fauola : come fon (per edempio) quelle d Efopo, et quelle,
che fi foglion, / ? DelIa Tlgtortca d' Àrìftotelc^> li fi
foglion chiamar le fauolc AtFricane. L elfcmpioadunqucche propriamente fi
domanda esempio, farebbe vn cosi fatto, come te noi diceflUmo eller ben di far
prouifionc, et apparato per opporfi contra'l Rè de i Pcrfi, et non
lafciare in modo alcuno, il ch'egli occupi, de Ci faccia padron dell
Egitto, percioche Dario non prima limette apalTar con reilercito in
Grecia, ch'egli hauclTe occupato 1 Egitto ; il che fatto, fi motte fubito ad
ailàlir la Grecia, parimente di nuouo Serfe non prima fece il
medefimo palleggio, che quella fìeilà Prouincia hauefl'e foggiogato, et foggiogara
che l'hebbe pafsò ancora egli con le fue forze in Grecia onde al prefente
ancora fe a quclìo Rè vien fatto aimpadronirfi dell Egitto, fubito poi
artalirà la Grecia: et per quello non fi dee 14 permettere, eh* egli
fenimpadronifea. Le fimilitudini poi, le quali per la frequentia, che
tencua Socrate neH'vfod'cfie, Solò cratichc fi foglion dire, farebber, come fe
(per efiempio) alcun dicefle non eilcr ben fatto l'clcggere,o crearci magi
(Irati a forte. conciofiacofa che il far quello farebbe limile a punto,
come fe alcun volendo elegger giocatori di pugna, o di lotta, non prendeilc
quelli, che più robufti, et più atti, et potenti fusero a tai 18
contefc,ma quelli, che ne delTe la pura forte : ofe tra tutti quei, che fi
trouaflcro in vna nane, fi ponetfc in forte l elcttion del Nocchiero, o
Gouernator di quella : come ch'a gouernar PhaueiTe, non chi meglio hauefiè di
ciò la peritia, Se l'arte, ma chi dalla cafual forte prò pollo fulle.
Apologo, et fauolapoi s'hà da inrendere elTer qual fu quella, ch'vsò già
Stcfichoro con tra di Falare, et quella parimente, di cui fi fcruì Efopo
nella difenlìon xo il' vn concitai or del popolo. Stefichoro adunque
vedendo che gl'Imerenlì haucuano eletto Falare per Capitan generale con fujjtcraa
potcftà, 8c confultauano oltra ciò, di concedergli guardia di foldari per
la fua pedona, fra l'altre cole, ch'egli a diilliadcr qucfto dille, vsò
ancora il prefenre apologo, o ver fauola, dicendoloro, eli 'vnCauallo fi
trouaua già in vno ampio prato, de io? 10 tutto lo godcua,& lo
polledeua.mil foprauenendo vn Ceruio, et cu 1 aneto, difhirbando, et imbruttando
tutto quel pafcolo, 11 Cai ilio defidcrofo di vendicarti contra del
ceruio, domandò configli o da vn huomo, s'egli ordine con ofccllc alcuno da
potere egli con lui infieme galligarc, et punir quel ceruio. A che rifpoic
l'huomo, ch'a ciò gli baftarebbe ianimo, quando elio caJl Secondo libro.
777 «allo prendclTe nella bocca vn freno, o vero vn morfo, Se
egli fopra di lui falilfe, de con nafta, over lancia in mano, conerà
del ccruio andante. Piacque il difegno al cauallo, Se accettato ilmorfo,&
fotopoftofi al caualcar deirhuomo,in cambio di vendicarli : contradel
ccruio, rimafe foctopofto, Se in potere Se fcruitù dcl* 2.1 rhuomo. Così voi
Imerenlì (dicea Stclìchoro) guardate, che mentre che volete, Se cercate di
vendicarui contra dei voftri nemici, non veniate a patire, Se a prouar
quel, che patì quel Cauallo.concioliacofachegia vi r toniate hauereil morfo in
bocca, hauendo fatto Palare con tanta autorità Capitano, Se
Imperator voltro : onde fe concedendogli ancor la guardia della fua perfona,
ve lolafciarete in quella guifa falire addollb, nonèdubio»' che perduta la
libertà volìra, da recargli lerui, óc l'oggetti non i. riabbiate. Efopo
parimente hauendo prefo a difendere in Samo vn potente Cittadino,
vfurpator delle loftantie publiche, Se per t tal caul'a acculato, Se polio
in pcricol d'cllcr condonato a morte; 14 dirte trai altre cole in
difenfion di lui, che vna Volpe gia,volcn« do paflare vn fiume, era caduta
in vn follo, Se non potendo per la cupezza di quello vfeirne, era (lata
quiui tutta afflitta affai buon tempo con grande incomodo, et difàgio fuo.
Se trà gli altri mali fc le eran col morfo appiccati addollb molti tafanelli,
o \cfpe canine, che glivogliam chiamare. Eceflcndo ftata acafo villa
da vn Riccio, o ver da vno Hiftrice, che quiui errando andaua j com mollo a
pietà di lei, la domandò s'ella lì contentaua, ch'egli le leiiallc da
dolio quei tafanelli, il che elTendogli da lei negato,& domandandola
egli per qual cagione la non lene coni£ tentalTe, ella così gli nfpofc.
Quelli animaletti hormai fon quali pieni, et fatij dellanguc mio, Se poco
più horamai nefugono. Qfr doue che fe tu cacciandogli mi libererai da
quelli, verran (libito degli altri tutti affamati, Se finiran di fucchiar
tutto lauanzo del 15 fanguechc mi èrimafto. In quello raedefimo modo o
Cittadini di Samo (diceua Efopo) collusene voi cercate di gal^gar', frollandoli
già fatto ricco, non vi fa quafipiù danno alcuno, ina fe voi condennandolo
a morte, ve lo leuaretc via dinanzi, non machcran di fucceder de gli altri in
luogo fuo,poueri, Se bifognoli, li quali vfurpando, Se furando, non
refteran di confumar quel, t6 ch'ancora reità delle follantie publiche.
Mora così farri apologi, ouerfauolc, fon molto accommodatc aquella forte
d'orationi, Z che jyg 'Della Teorica d 'ÀrìUotelt^ che fi Tanno
alla moltitudine. et han quello di bene, chedoue chegliè cola difficile il
trouar cali, et fatti veramente accaduti, clic fien limili a quello, che
inoltrar vogliamo j il trouar così far28 te fauole, non c difficile : eiTendo
in poter noftro il fingerle, et formarle ad immaginatiooe, fi come le parabole,
ouer lefimilitudini ancora : purchel'huomo fiahabile a fapercauuertire, et conofeer
la fomiglianza, che fi truoua tra le cofe. Il che potrà rendere in gran
parte facile, l'aiuto della Filologìa. Son dunque affai facili a poterne
diuenir copiofe, le fauole. ma nelle confulte fon più vtili gli eflempi, che
proecdon conlecofc dette, 32 veramente accadute: pofeiache per il più
lecofe, che vengon poi, fon fimili a quelle, che nel paflato fono auucnute
prima Quantoallvlo dcircifempio poi,a!hor farà bifogno all Orarore d vfargli
clTcmpi in luogo di demoftrationi,& d'Enthimemi, quado nó harà
Enthimemi. ma quado nó gli raacarano Enthimemi douerà vfar gli efTcmpi,quafi in
luogo di tcmmonij,ponc« dogli peraggiuta,& cófermationedoppo gli
Enthimemi. Perciochegli elfcmpi porti innanzi a gli Enthimemi diuengon fimili
a vna induttione: ne è dubio, che linduttione all'orati oni oratorie non
fia punto propria, et vrile fenon molto dr rado, ma fe fi pofpongono,
vengono a renderli fimili a temmonij, li quali inoqni luoj;o,che fi truouino,
fono vtili, et badanti a far fede. Et per quello ènecellàrio a colui, eh
antepone gli clldnpi agli Enthimemi, il porne, et 1 acidume molti : douc che
a chi gli pofpone, et pon doppo, balla, fenon più, daddur3 ne,& di
porne vn folo : pcrochc vn fol te (limoniodegno di fede è badante, 6V vrile a
prouare* 40 Quante fperic adunque d'eikmpi licno,& in che maniera Se
quando s'habbian da trat ta r e, et da porre in vfo, riabbiamo a ba
danza fin qui veduto. Jl Secondo libro. j 2)^& Sententie
oratorie, f^*// ///tf* / et per falute della propria patria : over s'vno
altro volendo dare animo di combattere a quelli, eh in minornumero dei 45
nemici fulleio> dicefle, che Marrec cpmmune. o fe parimente qualch'aluo
fulTe, che volendoci efortarca cor la vita a i figl^chc iien reftati d
vno, che fia (lato vccifo da noi ; per inoltrai ci, che tal cola non fia
per eilereingiuflamente fatta, dicelle> lìolco,& lenza intelletto e
colui, c'hauendo vccifo il padre, lafcia i figli re44 ftareinvita. Appretto di
quelìo alcuni prouerbij (ono, che fenten tic (limar fi deono,* cornee quel
trito prouerbio, Foreftiero 45 in Athenc. Conuieneancora alle volte, Se e
lecito dir 'fen. lentie pppofte, et contrarie a quelle, che già per
innanzi diuulgate, et fa mofe fieno. et per famofe, et diuulgate le
intendo io, come è (pei efìempio) quella, Cognolcc teflello> et quell'altra,
Nell'una 46 cola vuole eller troppa. Étalhora (penalmente fi dee, et Ci
pup far quefto, quando (i vien con quefto a porcr dare apparcntia
di maggior virtù, et di miglior coftumc, o ver quando
trouandofi colui, che parla grandemente conturbato, manda fuor le
parole 48 concitare da qualche grauc affetto. In calo di pertuibation d'affetto
farebbe (per eifempio) s alcuno frollandoli tutto infiamma to d'ira,
dicelle cfler fallò, et non ragioneuolmcntc detto, che biibgni conofeer fe
medefimo : percioche fccoftui hauclfc ben conofeiuto fe Hello, non fi
farebbe giambi llimato degno d'efler 49 Conduttiero, et Imperaror di
quello cirprcuo. In cafo poi di dareapparentia di miglior collume, farebbe
( per eifempio) s alcun diccire, che non con ui erre aruar, fecondo che dicono,
come fes'hauefle doppo ad odiare ; ma più rollo per il contralio conuicne
odiare,come fe a qualche terupo dappoi s haiieUe ad ama che in neiftina cola
(ha bene il troppo, Jl Secondo libro. ifj po,cociofiacofachegli
fruomini federati fi dcbbian fuor di moJ5 eia odiare, Recan veramente le
fenreniic molte vii] tra non pic$6 ciolc all'oratione. L'vna prende occafionc,
et fomento dali'miJ7 petfettione, Se \ anità de gli afcoltatori. percioche
quando fencon, ch'alcuno in dir cjualchecofa in vniuerfale,li rincontri
apu to con la (leda opinione, ch'elfi n haueuan prima in
particolare, jS godono, et guftano in ciòdilctto. ma meglio quel, eh io
dico potrà capirli, Se renderli manifefto, quclto modo : et io fieni emete
potrà farli chiaro in che maniera s'habbian da crollare, et da }9
procacciar le fententic Già fu da noi neldimnir di (opra la (crftentia detto,
eller quella vn proferimento,© alic i i mento, o cn m ciationc, chela
vogliam chiamare, fatta di qualche cofi in genero rale r ondccoloro, che hanno
prima generato nell'animoopinion di qualche cofa in particolare, quando poi
Icnton conformarli con quella tale loro opinione, quel, cheli proferi fcc in
vniuersale ; prendono in ciò piacere, cornea dir (pei elìèmpio) che salcun
farà, c habbia incomporrabiIi,& pcllìmi Vicini appretto; o vero
fcelerari, Se viriofi figli ; accerrerà, et approuerà per ragioneuolmente
detto, s'ad alain fentirà dire in vniuerfale, non eltcr la più moietta, et
noiofa cofa, chel'haiier vicini : o ver che non può 1 huom far cofa più
(tolta, che cercar d hauer figliuoli. 61 La onde fa di meitieri di procurar di
conofecre, Se far conicttura prima, &: fàper in fornma, quali fieno i
pareri, et le opinion de gli afcoltatori, et di poi con la fentenria
adherire a quelle, com6$ prendendolcin vniuerlale. Et quella» c'habbiam detta è
vna del6+ Letalità, che reca l'vfo delle fen renne. Vnalrraven'è' poi, Se
di maggior momento, et è, chele feruono a firl oration coltnnn6$ ta. tic
alhor fi dee dire, chel oratione habbia collii mc,quando in> 66 elfi
appari elettione, c'1 voler di colui, che parla, il chetimele fenrentic
fnno ; comequelle nellequali, colui,chcrvfa Se le prò ferifee, altèrifcein
vniuerfale quel, ch'egli ftima intorno aqual6j che cofa theibile. Laondefe
buone, Se honeftefiiran le fentcnciefaran confeguenremente buono, et virtuofo
apparir colui, *S chele proferifee Della fententia adunque per
conofeer che cola ella fia, Se quante fpeiie di quella fiano, Se
in quale occalione, Se tempo fi debbiano vfare, Se quali vulirà
finalmente rechino, può ballar quanto fin qui fi è detto / S 4. TteRa
'Retorica d* Arìttotdc^ (apo 22. TV gli Gnthimemiì et de i
precetti necejfarij all'vfi di quelli. Et quali fi ano gli ènthimemi
puri prouatiui, £f quali gli redarguitimi et reprobami. I leieciie loro. concionacela
che queite due conli3 derationi fiano tra di lor diuerfe. Che l'entimema
adunque fia vna certa forte di ullogifmo, già habbiam noi detto prima, de
pa 4 rimente di che maniera fiafillogifmo, et in che cola dai iiliogif5 mi
dialettici differifea. Pcrcioche in quefto da eflì è diuerfo, che non
bifogna nell Enthimema raccoglier le conclusioni da premei fc molto con la
lor vniuerfalità remote : nè manco bifogna prcn6 der tutte le cofe, a
raccoglier con concluiìonc. pofeiache la prima di quefte due cofe con la troppa
diftantia renderebbe la pruo 7 ua ofeura : et l'altra darebbe apparentia
di fuperrìuità, et di garrulità, raccogliendo, et fillogizando cofe totalmente
manifelte» 8 ¬e. Et quefta fi dee iti mare cAcr la cagione, che con
maggior facilità, perfuadono alla moltitudine coloro, che fon poco periti,
et di pocaerudirione ; che non fan gli eruditi, c i periti. $ come ben moftran
di conofeere i Poeti, facendo appreflb la moltitudine parlare gl'imperiti, et poco
eruditi, più gratiofamentc, 10 et più attrahibilracntc. concioiìacofa che
i dotti, et gli erudiri nelle pruoue loro procedano con caufe communi, et per
vniuerI I falità remore : douechc gl'imperiti procedon con le cole,
ch'in particolar fon lor note, &c che più propinque, Seal fenfo
(kclTo 11 più pronte fono. Per laqual cofa non li deon formare,
«Scdedur gli Enrhimemi da tutte le propolìtioni, ch'in qual fi voglia modo
pollono a qualunque fi lia parer vere •> ma da quelle, che pof1 * fono a
determinate perfone parer tali ; come a dire a gli afcoltatori, c hanno da
giudicare, o vero a tutti, o alla maggior parte di quelli, il giuditio dei
quali fiaapprouato, &c (limato da gli ftefli, } giudici^ Ji Secondo
lihró. igy l $ giudici, o dalla maggior parte d'elfi. Parimente non fi dee
raccogliere, 3c concluderne gli Enthimcmi (blamente da premefle necclFane,
ma ancor da quelle, che fon vere per il più, over per : la maggior parte.
Horquanto alle communi auuertcntic, che s'han d'hauere intorno
aìl'cnthimema vniucrlàlmentc confideràto, primieramente s'hadauuertire, che di
qual fi voglia colà, di cui s'habbia da dire, de da fillogizare, o con
lillogifmo di materia ciuilc, o con qual fi voglia altro, fa neccllariamenre di
meftieri,chc fi pofl'eggan per note, o tutte, o almeno alcune di quel x 8
le cofe, ch'in efiTa li truoiiino, et d'cllà ii verifichino. pcroche
fé nota alcuna di quelle cofe non ti tìa, non barai
confeguentemert te donde tu polla di quella tal cola raccogliere, Oc
dedurre con* 19 clulioneaLuna. Voglio dir (per eficmpio) come potrem noi
dar confìglioagli A theniefi fc dcbbiam pigliare,0 non pigliare a
far la tal guerra, non hauendo noi prima notitia delle forze loro,
6c delle militie loro ? come a dir (e le fon marittime, o ver
fcrreftri, ol'vno, et l'altro, et quante fiano in numero, quai fian
l'entra-ic, quanti i danari, et quali, et quanti fiano o gli amici, o i nemici
loro. Et oltr.i di quello quali fiano fiate per l adierro le guerre, che
gli hanno hauute, et in che manicra,& con quai fuc a 1 celli le
habbian maneggiate, et altre cofe tali. Medefimamcnre come potrem noi
parlare in lode,& gloria loro, fe non ci farà mi fintamente nota la
battaglia nauale fatta appretto di Salamina, o il fatto d'arme di
Marathone, o l'opre egregie fatte per la faluezzadc idefeen denti dHcrcole,
oaltre lor cofi fatte gloriofe imai prefe? pcroche tu ti i coloro, che han da
dar lode ad alcuno, Ihan da cauarc dalle cole lodeuoli, che o fiano, o
appaia che fiano iti \ elfo. Et perla medefima cagione dalle contrarie
han da dedurre il bial mo : confiderando (e alcuna di quelle fi truoui
veramente in colui, che biafmar vogltofro, o almeno appaia, che vi fi truo«i.
coroefe in biaùnar ( perch'empio ) gli A theniefi fidiccfle, che eglino
Aggiogarono, cVa fc fcccr fuddita, ck fcrtu tuttala preda: et che clfcndo
Itati gli Egincti, et li Potideatiin aiuto, 8c ki cópagnialoro contra 1
barbari lor nemici ;-6c ellendofi in cjò portati cgregiaméte,& có gran
valore, erano Ilari nódimcn da loro in fcruitù ridottile*: fe finalmcntein
altre coli ratte co/e, hauef Icr cómelTo gli A theniefi errore; onde venir
loro ne porcile biafi; rao.Nó altrimcci ancora coloro, clic nelle
caufegitidiciali accufaA a no,o / 8 slla r R^6rtca d
'Jrìftotelzj no,o difendono,altróde nó traggon le nccufationi,&
ledifenfioni, che dalle cofc,che fi truouano,o fi verificano nella cola, del
la 16 quale eflì trattano. Ne importa punto, o fa dirferentia alcuna, per
far quanto habbiam detto chela caufa di cui fi tratta, riguar di gli
Athenicfi, oi Laccdemonij, oqualchc huomo, o qualche Dio,oqual fi voglia
cofa. pcrciochc le (per ellcmpio) voleffimo dar qualche conliglioad
Achille, o veramete voleilìmo lodarlo, o bialiraarlo, o accufarlo, o
difenderlo, farebbe bifogno, che procacciaci mo, Se come note pofiedeflìmo
le cofe, che in Achil le fi truouano, Se che di lui verificar fi poflbno,
o ch'almcn fi eie &S dc,chc vi fi truouino, Se fc ne verifichino :
acciochc tra quelle prcndclltmo in lodarlo,o in biafimario fe alcune ve ne
fufler dell’onefte, o delle brutte, Se in accufarlo, odi fenderlo, fc
alcune jo vi fu (Ter delle gi urte, o dell'i ngi urte :Se in dargli
finalmente configlio, prendemmo quelle, che vi lì
trouafleroodannofe,ovtili. 51 Ilfimil parimente in tutte l'altre cofe
intender fi dee, fecondo c'habbiamoin quella d'Achille detto : come a dir,
chefes'hada trattare, Se cercar fe la giuftitia fia bene, o non bene,
dalle cofe, chc # nella giuftitia, o nel ben fi truouano, o di lor fi
verificano, 31 harem da prender le parole, et le pruoue noftre. pofeiache
in qucftaguilafi vede, che procedon nelle loro argométationi
tutti coloro, che fillogizano, o più efquifitamente, o più grollàmcntc,
che qucfto facciano, peroche non tutte le cofe,che vengon lo ro innanzi,
fen za di ftintione alcuna prendon per dedurne le loro argo mentati oni, ma
quelle (penalmente cleggono,c han qualche ìnherentia. Se verifica tion nella
cofa,chc particolarméte han da provare. Et che così fi debba fàrcoltra
rcfperiétia(come habbiam detto) ci s'aggi tigne la ragione ancora: per erter
manifefto, ch'impofllbil cofa fia di provare, Se di moftrarc altrimenti,
che nel modo, Se con 1 auucrtenria detta. Onde è mani fcfto, che
fi come fi dice nella topica, auuenir ne i fillogifmi dialettici,
è uccell ino d'hauer prima, che s'argomenti, la fcelta di quelle cose,
ch'intorno a qual fi voglia foggetto, pollbn d ello verificarti, 0 per
qual fi voglia occafion venir per caufa di quello in vfo. Et in quelle
cofe medefimamenre, le quali di prefente, Se quali allimprouiftaci fon pofte
innanzi, fa di mcfticr di farla medefima preparation e, Se viaria
medefima auuertentia, d'hauer l'occhio a elegger, non tutt c quelle cofe,
che come indifUnce, Se communi diJl Secondo libro. j oi dinanzi vengono;
ma quelle, chadherenti fiano, &habbia« no in fomma a far con quelle,
di cui s'han da diffonder le pruoue, et le argomentationi : procurando
nnalmcnted haucrne in maggior numero, che fi polla, Se quanto più fi polla
vicine Se appropriate alla cofa (Iella, concioiìacofa che quanto maggior numero
haremo di cole c*'habbiano inhercntia, et verifìcation ne i (oggetti, ch'a
trattar s'habbiano, tanto più facil fia per elfere il trattargli, Se il
far fopra quelli le pruouc noftrc. et quanto dall'altra parte più faran vicine,
Se congiunte con quei tai foggerei, tanto più appropriate, et mcn communi,
verranno ad ellcre. per comuni intendo io,comc farebbe fé per lodare
Achille lì dicefie, ch'egli era huomo, ch'egli era heroe, ofemideo, che vogliam
dire j Se ch'egli militò prefente nella guerra di Troia, tutte quelle cofefi
poflbn dir communi ; come quelle, che in molti altri ancora conuengono, Se
fi verificano : Se per confeguente chi in quella gitila lodalfè Achille,
niente più verrebbe a lodar lui, che Diomede ancora. Per appropriate poi intendo
io quelle cole, che in nell'uno altro (oggetto fi truouano, Se fi veriricano,
che in qucllodi cui trattiamo, comeadire in Achille l'hauer lui data la morte a
Hettorc fortiflìmo fopra tutti gli altri Tro iani ; l'hauere vcciCo Cigno,
ilquale, hauendo da i fatti di non potere ellcr ferito, impediua ai Greci
lvfcir delle nani peraccàparfi in tcrra^'elfere andato all'imprefadi Troia di
più renerà età, ch'alcun degli altri principi della Grecia, Se l'cllèrui
andato di fua volontà lpontanca,fcnza elfere a quello a(lrctto,come tuc43
ti gli altri, da giuramene et altre cofe così fatte. Qucfta, c'habbiam detta, c
dunque vna auuertentia, ch'intorno agli Enthimemi s'ha d'hauere, Se confitte
nell'elettione, et fcelta delle cofe verificabili Se inherenti a quel, che s'ha
da trattare,come habbiam veduto, Se è in così fatte auucrtentie, come primo
luogo. Segueal prefente, che noi diciamo degli elementi degli Enthimemi, Se per
elemento intendo io il medefimo, che luogo del4; l'Enthimcma. Ma prima che
facciam quefto, e ben fatto di dir 46 quello, che neceflariamente fi dee
dire innanzi, Se quello c,chc due fono le fpctie degli Enthimemi : alcuni
fono, che fi domadano aucrtiui,o ver prouatiui, che direttamente
molliano,& pruouan la cofa edere, o non elfere. et alcuni altri fi
domandano redarguitiui, o vero reprouatiui. Se differifeon quelle due fpeA
a ij tic i 8 8 T>ella ^tprìca d'Aritiotele^> tic frà di loro
nella maniera, che dillet ilcono appreflo de i diale> tiri l'Elcncho,
et il (illogilmo. Lcnthimema adunque allertiuo, et puro pi (iii.it ; no è cj
nello, che conclude di rettamente col mezo di premcllc confette, et conce
iute per vere. et il redargmtiuo è quello, che conclude cola repugnanre alle
già concedo dute. Hor noi già riabbiamo intornoa cialchedun gener di cau(e
allignati tutti lì può di*,quafi i luoghi, ch'ad elfi generi polfa51 no eilere
vtili, cV necellatij : hauendo con diligente (celta allignato a ciafehedun di
loro, appropriate propolitioni, dalle qua* li, comedaptopnj luoghi portoti
dedurli, (k formarli cnthimemi dell'vtile, 6c del nociuo, dell nonetto, et del
brutro, del giuji fto, et dell ingiù fto. Parimente intorno a 1 coftumi, cV
intorno agl’affetti, Se a gli habiti Immani, lì truouano eletti, &de/ j
terminati da noi già prima appropriati luoghi. Onde al prefentc refta, che con
altro nuouo modo, di tutti i luoghi in commune, et non più d vn genere, che d
vno altro, tra vniucilalmentc J4 confederati, ragioniamo, et didimamente
in far quello auucrtiamo, et inoltriamo, quali feruir debbiano a gli enthimemi
rcprouaciui, o ver redarguirmi, et quali a gli a(1èrtiui,& piouae j uni. et
medefimamente quali fieno vtili a quelli enthimemi, che apparenti, et non
veri enthimemi lono, come quelli, che né anj6 cor veri fillogiimi (limar li
deono. Et dichiarate c'harcrno turre quelle cole, difeorreremo, cV
determinai emo delle folunoni,0 verdifcioglimenn,& dell'inllantico
vero obbicrioni, ch'occorron farli contra de gli enthimemi, per annullargli, et
mandargli a terra. (apo 23. T^e i luoghi communi, et quali tra gli
Enthimemi fien quelli, che di nobiltà, £f di perfezione eccedino. N luogo
dunque appartenente a gli Enthimemi affcrtiui, o ver prouatnu, dircmo,chc
(iaquello,che dai contrari) li domanda. perochefì deeeon
elfo confiderà re, s vn contrario (ì verifica d'vno altro contrario,
o negatiuamente, fevorrem deftruggetc, et concluder con necatione,
oaficrmatiuameote le coniti iute, et m Jl Secondo Ithro. iSjr f rr,
Ce concluder con arici mation vorremo. comc(pcr eflempio) diremo eli
eccola ville il vuier temperatamente, perche il viucre 4
jnrcmpcratamentc.ccata.dannofa,.,comc fc ne tede «(Tempio nell
orationMetTcniaca, douedicc, Sclagucrraè caufadi quefti prelcnii mal», con la
pace fi porri por remedio, et trouare cine j daadcllì. vno altio cirempio
può eller quello ; Senon è cofa ragioneuole accenderli d ira conerà di quelli,
di i quali lì fia. conerà lor voglia riccuuto male, parimente non lì dee co
ragione hauerc obligo, o render gratieachi contra fua voglia lia llaco
nccef 6 fttato a far giouamenco alcuno. Et in quello, altro ch'empio ancora,
Se lì vede (peno accader fra gli huominì, che molte cole fi rcndon
credibili, lequali fon veramente falle, lì dee parimente perii contrario
Iti mar moire cofe folercauuenircagli huomini 7 ch'eirendo vere,
incredibili appaian loro. Vno altro luogo è r che fi domanda da i cali o
ver cadimenti limili. conciofiacola che fi-, mi I mente faccia di
mc(tieri,che tai cali o ver cadimenti fi truouino cllerc, ononcifere. come (per
cucio pio) diremo, che non tigni cofigiuftafia bene, o ver cofa buona :
pcroche fc quello fuile farebbe ancor ben rutto quello, che nauuicn
guidamente. et nondimeno non e cofa, come bene ad alcuno cligibile 1
ellèe 5 tolto di vita «nuftamente. Vn altro luogo è poi, ilqual
confitte in quelle cofe, che l vnc all'altre fi riferirono, et vn certo
cam• bicnol rifpet:o tengono, perciochc fc (perch'empio) il farla tal, cola,c
honclto,ò\:giulìoa colutene la fa,farà ancora aira!tro,che la riceuc.cV la
pate,honefto,& giudo il patirla, e'I riceuerla. et fc farà giù Ito
^ll'vno il comandare, che la tal cofa fi faccia, firà ancoc 10 guitto ali
altro l'obbedire in farla » come parlando de i Public.™ i, ( cioè di
coloro,checóprauano,& negotiaua fopral entrate publi che) foleua dir
Diomcdon te, ch'era vnodi quelli, diceua adùque, fea voi non e cofa
brutta,o infame il vender le publichc entrare» 11 ne ancoi dee eflcreanoi
cola brutra.il comprarle. puoflìdire ancora, che fc ad vno farà cofa
honefta,& gioita il riceuere,& pa tire il tal danno,farà ancora
all'altro Cofa guitta, et honefta il farlo. et all'incontra fc farà nonetto il
farlo, farà parimente honcnello il panilo. Ma e d'auucnire, che ncll vfo del
prefente luogo può alle volte accader fallacia, et fallo lillogifmo:
pofeiache s'aleno meritando la morte, perdette guittamente la vita,
none dubio, che guittamente non patine, et riceucttc tal danno,
ma non / p o T>eHa Storica eUdrìHotelcj non per quello forfc
patc egli tal danno giullamenrc da te, pollo 13 che giurtamentc non habbia
ta fatto ad vcqdcrlo. Et per quello fa di mellieri di conliderar
teparatamentc colui, che patc,s ci me ritamente, et guittamente pare, et colui,
che fa, fc meritamente, et grullamente fi, et fatto quello, feruirfi dellvna,
et dell'altra delle dette cofe, fecondo che più vedremo accommodarfi
alla cofa $ che moftrar vogliamo, concipfiacofa che alle volte fia
quan toal giullo, Se nongiulìo, tra'l patire,^: fare,qualchc difcrepanxj
ria ; ne ci e caufa, che prohibifea, che la non vi fia. come lì vede (
perch'empio) apprcilb diTheodettc nella Tragedia intitolata Alcmeonc. dice
dunque Alfcfibca ad Alcmeone ; Chi è quel trà rutti gli huoraini,chc nó
odiane tua madre? a che egli rifpondcdodilfc,chcfaccadi mellieri, che quelle
cofe,(cioc la mortc,cY li demeriti della madre) fi cótideralfcro
feparatamcrc, et diftintame te.cV domàdandolo Alfefibcn, in che modo, foggiunfeegli,
degna veramente di morte quei giudici la giudicauano -, ma non
giaap partenerfi giuftamentea me lvcciderla. Ma tornando agli
ellcm del prefente luogo, vn tale è quello,che fu vfato nella
caufa,& giuditiodi Dcmofthene, et di coloro, c’aveuano vecifo Nicanore.
percioche hauendo i giudici fententiato hauer grullamente fatto coloro in
vccidcrlo> fu parimente (limato da ratti cflerfi implicitamente
giudicato in quella fenrentia, hauer lui giutta18 mente riceuuta quella morte.
Mcdelìmamentc cflèndo ftaro ammazzato vno in Thcbe, nel trattarfi in
giuditio quella caula, tutta la forza detta pofero i giudici in difeutere
fe l'vccifo era (lato degno di quella morte : quali che per quello moftralTcr
di (limare i giudici, non edèr cola ingiuda IVccider chi fia degno,
Se ts> guittamente meriti d'etfere veci lo. Vn altro luogo è
chiamato ao dal maggiore, et dal minore, come adir (per eliempio)chc fe
gli Dij no fan tutte le cole, non le fapranno in modo alcuno gli
huo mi. percioche quello modo di dire imporra quello, che s'vna co fa
non li ritruoua, nò fi verifica in quella, doue più trouare, et verificar 11
douerebbe, è cofa chiara, che manco fi rroucrà, olì a i verificherà in
quella, doue manco douerebbe. Ma il dir, che colui,che batte il padre,batterà
ancora li vicini, &c congiunti fuoi, prede forza da quello, cioè che
s'vna cofa e vera in quello, doue manco douerebbe, farà ancor vera in
quel, doue più donerebbe. a i di maniera che può cflerc vtil quello luogo
all'vna cofa, et all'altra econdo libro. i f / tra : cioè a moftrar,
che la cofa fia, et a montar, clic la non ila, tj Parimente può feruirea
inoltrar, clic non più, ne ancor mene vna cofa, che l'altra, ma vgualmente,
Se parimente ambedue li verifichino de i lor foggeti. Onde ha forza quel
detto, Tuo padre dùque dir lì dee milerabile per hauergli tolto la morte i
(noi figli, et Oeneo non lì donerà due anch'egli infelice,hauendo
per tj dutoil fuo figlio, ch'era lo fplendor di tuttala Grecia? Et
ancor fé lì dicelle, che feThefco non fece cola ingiù Ita in rapire Elena,
ne ancor l'ha fitta Alell'andro. Et fc il fatto dei figli di Tindaro, non
fùingiulto, ne quel d Alessandro dee eller tenuto ta»7 le. Et fc Hettore in
vccidei Patroclo, non macchiò la giuftitia, 15 ne Paride ancor la macchiò
in ammazzare Achille. Et fc gli altri artefici, &. periti d altre facultà
rton fon degni di bialmo,li Ftij> lofofì parimente non ne dcono cller degni.
Et fc a 1 Capitani de gli filerei ti, non dee recar biafmo,o macchia, alla
lor repu rattone il reftarealle volte vinti, Se fuperati,mcdelìmameute non
dee 30 queltorccarbiafmo ai Sofifti. Parimente s vlarebbe il medefìmo
luogo, fc in Senato coli (ì dicelle, Se gli è conucncuole, che ciafehedun
priuato procuri, et habbia a cuore la publica reputatione, et la publica gloria
voltra, e cofa ancor con uencuole, che 51 voi a cuore habbiate quella di
tucta la Gre eia. Vn'altro luogo 3 1 Ci truoua,óc che n'auucrnfcc, cheli
cófiderino li tempi. del qual li feruìlfìcrate nclL'oration, eh ei fece in
fauor d Harmodio.q nardo dice ; Certamente fc egli prima, ch'ei fitccilH opera,
c'ha. farlo, vi hauefle domandaro, che quando ei faccllè.vn tal latro,
voi gli concedente l'crertion della lhttua, non è dubioalcuno.che
voi promelTb,& conceduto non glie l'haueltc, hora hauendo egli
tfeguico il farro, non glielo concederere ? non vogliarc
dunque comportare, che quel premio, che gli barelle promelfo nel tempo,
che voi hauellcafpetrato il beneririo come futuro, hora in te po, che
nceuuto l'hauetc, gli fìa da voi quafi ritolto. Fu pariméte porto in vfo quello
luogo da chi perfuadcr volena a i Thebani chedouendo paffar Filippo per il
dominio loro a i danni de gli jj Athenicfì,gU co needellero il palio, eh'
ei domandaua. dkeua adunque, che fe prima che Filippo delfe loro aiuto con
tra i Foccnlijhauellc egli domandato quclto paltò cglir» certamente
glie i'harebber promelfo. onde è cofa fuora d ogni
comtencuolezza» c'hauendo lui in aiutargli proceduto con elfi con tanta
gencrofiU, lenza / Ttella Teorica cT ArìftotciLj tà, fenza domandar
conditionc alcuna, per la confidenza, ch'in elfi teneua, non gli
concedino al prefente il palio. Vn'altro luogo e ancora, la forza del qual
confitte in ritorcer le ftefle cole dette, contra di chi le dice. et fi
può trouar qualche differcntia nel modod'vfailo : fi come in vn modo fi
vede vlato nella Tragedia di Teucro. et parimente l'vsò 1 liei .ne conerà d'
Ariftofontc. pcrochc elFcndo domandato A ri fio fonte da I fiera te, s'egli
per danari li fu Ile indotto a tradir lenaui, et hauendo rifpofto,
che non,* foggiunfc Ificrate, Tu dunque edèndo Ariftofontc non le $2
tradire Iti, Se le harò tradite io ellendo Ificrate ? Ma in quello modo d
vfar quello luogo, fa di bifogno,chc colui, cótta del qua le s'ha da
vlare,fia communcmcnrc tcnuro più di(pofio,& inclinato a far cofe ingiufte,
che colui, che 1 vfa: alrriroeoti chi 1 v fasica ppanrebbe ridicolo,comc
auuerrebbe a chi acculato da Ai iAide, nella detta maniera gli nfpondefle. In
vno altro modo fi può viar e] licito luogo con cercar di tor fede
all'acculato re, mo Orandolo lottopofto al medeiìmo delitto. percioche
ordinariamente pare, che fi ricerchi, Se sai petti, che color, ch'acculano,
-& riprendono, fieno migliori degli accufaci, Se de i riprefi.
Può eflcr dunque vtiliflìmo quello luogo vniuerfalmente a contradire a
qualunque fi mette a ri prenci ere altri di quello ch'egli itefiò fa, o
farebbe, o veramente ii mette ad eforrar,che fi Ceciati quelle cofe, ch'egli
non fa, o non farebbe mai. Vn'alrro luogo li truoua chiamato luogo dalla
dimni:ionc:come le diccflìmo,i De moni non elfere altro, che o>gli
ftcflì Di j,oopcre>& fatture de (fi dij. onde qualunque (limai a
cllcr 1 opra de gli Di j> verrà uccella riamente a fti mar, elicgli Di)
lìano. Se come parimente d' vno» ches'infuperbiua pcreiferdel
fangued'Harmodio,.& d'Ari ftogi ione, difie Ificrate, genero filli mo
eflcr colui, che ila ottimo, et valorofiflìmo: conciofiacofa che in Harmodio»
et in Ariftogitonenon ha 11 elle luogo cofagcnerofa alcuna, prima ch'operaro
no haticlTcr quel gcncrofo farto. et che più congiunto, et prollìmp era
egli loro, percioche le mie anioni (diceua egli) et li mici gc4ti» fon più
propinqui, &: più congiunti a quelli d Harmodio, Se d
A"(logitonc,che non fono i tuoi. Parimente in quella orazione, che/u fatta
in fauord'Aleflàndro, fi legge folci li da tutti có/cilarc, eh i lafciui, Se
poco in amare nonetti fon queili, che non fi contentano, ne filàtiandi
fruire, et godere vn corpo lolo. Socrate Jl Secondo librò. Si i
$3 Socrate ancora rendendo la ragione perch' egli non voleua andare a
crouarc Archclao,diceua douerfì ftimare efler contumelia, Se vergogna il
non poter rare in vn certo modo vendetta, et ricompcnià, cofmci benefitij, che
lì riccuono,corac nciroffefe. Tutti quelli adunque ne i già porti cifcmpi,
hanno primamente con difrinir la cofa, che vogliono, moftrato quel,
ch'ella fia,& di poi con la forza di tal diflinitione, han proceduto a
prouarc l'info tento loro. Vnaltro luogo e ancora, il qual prende vigore
dalla moltiplicata fignificatione dvna medefima parola, fi come
nei libri della Topica fen'c addotto eilcmpio dell'aiiuerbiogrcco
hor thos, (che lignifica appreso di noi, rettamente, et appretto de
i 5 1 Greci è parola moltiplice, cioè di più lignificati) Vnaltro
luogo fi truoua poi fondato nella diuifionc : come fc noi diceflìmo,
le tutt» quelli, che fanno ingiuria, per vna delle tre caufe la fanno, o
per quella, o per quella, o per quell'altra,* per le prime due chiaramente
è imponìbile, che coftui l'habbia fatta ; Se quanto alla terza, gli
accufatori (tedi non l'adducono, né 1 han per vera, 51 Vnaltro luogo è
poi, chedepcnde dall'indù ttionc ; come fc ne 5$ ycdecirempioin quella
lite, ch'accadde ncll'Ifola di Peparethia. douc cercando vnodi prouarc, eh al
giuditio delle ftefle madri in ogni luogo fi fuol rimetter la
detetminationc di chi fieno i Égli 54 loro,* diceua che in Athene
dubitando Manthia oratore, fe vno era veramente fu o figliuolo, fu decifa
la caufa fecondo la de55 termination, che ne lece la propria madre, quclìo
medefimo auucne in Thebe: douc efiendo controuerfìa tri Ifmcnia,& Stilbone
di chi loro filile figliuolo ThcfiTalifco, Dodone fua madre fu quella, che
col fuo parer dichiarò, che gli era figlio dlfmcnia; Se per quello fù poi
fempre minato, Se chiamato Thefialifco d'If $6 menia. Theoclcttc ancora
vsò quello luogo in quella fua oratió 57 della legge, douc dice,fe a
coloro, che trafeurati, eUa T{etprica d* Ariti otelz^ quando per prouar,
clic eia nitri fono honorati gli huomini fa61 pienti, come lì voglia che nel
relìo fiano, dice clic quelli dell'Itala di Parohebber grandemente in honore
Archilocho, nò ofta re che fu Ile mordaciflìmo mnldiccnrc. quei dell'Itala
di Chio, hebbero in honorc, et in venerationc Homero, quantunque
Cic tadin lor non fufTe. Saffo ancora, non olìante che Tulle Donna, fu
fopramodo celebrata, Se tenuta cara da quei dell'Itala di Mi€1 tilenc. I
Lacedemonij parimente, ben che per l'ordinario non fian molto amatori de
gli ftudij delle buone lettere > per honorar tfj nondimcnChilone,
l'accettaron nel lor Senato. In Italia ancora fu Pithagora tammamentc
reputato, ancora ch'egli forclìicro in ^4 auclla prouincia fulVc. fi come
forelticro, et peregrino era Anaf (agora a i Lamfaceni,& non di manco
lhonorarono d'ornatillìhio fepolcro, Se aheora hoggi duran di celebrarlo, Se
d'hauerlo in pregio. V farebbe ancor quello ftelfo luogo
dell'induttione chi volendo prouar, che le Città, che lì goucrnan col con
figlio di huomini fàpienti, viuon taliccinenic, dicefie, che gli
Athcnicfi mentre che vfarona, Se olìerwaron le leggi di Solonc, furon Tempre
felici : de il medefimo fi puòd'irde gli Spartani, mentre, che vifTer con
le leggi di Licurgo: Sé in Thebe parimente, come pri^ ma in man d huomini
fapieriti, pieni di hlofoha, venne la po> renria,& l'autorità,
cominciò quella Città a poter parer felice. 66 Vn'ahroluogo fi truoua
ancora, ilqual depende dal giuditio,che altra volta lilla fatto, o della
fìeUa cofa,o d Vna-fimUeo d'vnftOó traria. Se miiflìmamente fc diluii
iti^^fcroprè farà flato cengia dicato: Se tatton da tutti gli huomini,
almen dalla aggior parte, o ver da tutti li fapicnti, o almen da ì;più, o da i
migliori. et parimente fe farà (tato
fatto altra volta tal giuditio da quelli Aedi giudici, dinanzi a i quali è
la cauta ; o ver da pcrlonc, i cui pareri fian da loro apprezzati, o da
perlonc finalmente,al cui giù ditionon fia lor lecito opporli, come lana
fe lor (ignorilo padro ni tallero, o vertali, che non fu ile cola honctìa
d efler lor contrari) nel giudicare, quali ( per ellèmpio) fon gli Dij, i padri,
li precettori, Se fimili. fi come Autocle vundo il prefentc
luogo ditfc, contradi Miflìdemidc, le l'Eumenide, che fon Dee no recufarono,
ma fi compiacquero d agitare, Se tartopor la caula loro fieli
Ariopago,recufcràMiiIìdemide,o non fi contenterà di farlo? over come
diflè Sarto eirere infelice, et mala cofa il morire, Jl fecondo libro. j
pj rire, poi che gli Di; coli giudicano : perche fe con" non
haueficro ilimato.non edubio ch'ancora em* nó haueiler voluto poter
morire. Arithppo ancor lì valfc di quello luogo centra di Platone: concioiìacofachchauendo
detto Platone non io che alquanto troppo azeramente, et ouinatamente per
quello, eh ad Ariftippo pareua, fc gli oppofe con dire, eh vna coli fatta cofa
non ap74 prouaua l amico loro, intendendo egli di Sociarc.
Hegelippo parimente nel domandar con àglio dalloracol d Apollo in
Delti, li feruì della ri (polk fattagli daiYOracol di Giouc in Oiimpo ; domandando
Apollo, fcil medefimo pareua ad elfo, che era al padre fuo paruto: come che lì
itimilfoch ad Apollo haueueda parer poco bonetto l'oppor li al padre, liberate
ancora per confermar che Helena full!virtuola fiata, dille che coli l'haueua
«iu76 dicataThefeo. Se per confermare il valor d Alcllàndro, allegò che per
tale le ftellc Dee giudicato Ihauetiano. Il medelimo llocratc ancora per
mourar,ch'Euagora fuiìc huom d egregia virtù, addulTe il parere, cV giudi
tio di Cononc : il qtial nt gli auuerfi, et calamitoii cali fuoi, pofpofti
turti gli altri potenti Principi, cjcucdi rifuggirli ad Euagora, Se di
confidare alla v irt ù, Se alla 7* feded elio la ialine fua. Vn altro
luogo c poi, il qual li può domandar luogo dalle parti, fi come nella Topica 11
è porto in cflempio, qual ione di mouimcntofia quello dell anima:
perche «ella fi muouc, bifogna che o di quello, o di quel moui mento
li 7) muoua. Se ne vede ancora edèmpio nella difen/ionc, che di Socrate
fece Th codette, quando egli dice, Qual Tempio, o altra t* cofa
facramottrò mai Socrate di non hauere in honore, odi dtfprczzarc? qual di tutti
quelli, che la Città fua appruoua.cc ticn • So per Iddij, non ri ueiK Se
venerò egli tempre > Vn'altro luogo fi truouapoi, che fi può chiamar da
i confcgucnti,ilquale, perche nella maggior patte delle cole accade, che
fegua, et vada dietro lor qualche cola di bene, Se qualche cofa di male ;
c infegna, Se c inrtruifcc a confiderai quella cofa, che fegue, Se col
mezo di quella fuadere, o dilTuadere, acenfare, o difendere, et lodare,
o *i vituperare, lecondocheci torna bene. come(percircmpio)all enuluionc,
Se di(ciplina delle buone lettcre.feguc di male l'Ulcrc inuidiato,
7 54 cafchi : come fc ne vede effe m pio in vna argomentation di fiorare. percioche
hauendo egli vn figlio d'era molto renero, «5c quafi fanciullo, ilqual per
erfer di flaturadi corpo, alto adii più, che l'età non comportaua, era
ricerco dal magiilratoa fopportare i carichi, Se le fatighe publiche ; dille in
difcnlìon di Un Ifìcra te, clic fc llimauano, che i fanciulli alti,&
lunghi della perfona fuilèro huomini maturi, doueuano ancor
ragioneuolmentc ftim.irc, Se giudicare, che gli huomini maturi piccioli, et bafli
dcl$6 la perfona, fu itero fanciulli. Theodettc parimente fi feruì
dique fio luogo nella fua oration, che fece delle leggi, dicendo, Se
voi hauetc donata la città dinanzi a quelli de i nollri loldati mcrcennarii,
ch'egregiamente fono fati vtili a quella Città, fi come hauetc fatto a
Strabace,& a Charideno, non faretevoi efuli,& fcac darete dalla
Città quelli, che le fono Itati con la loro infolcntia, 57 et infame viltà
dannofi ì Vn altro luogo è quello, che confitte in voler, che fc vn mede
fimo accidente nafee da più cofe, fian parij8 mente vna ftelTa cofa quelle
cofe, donde egli nafec. come (per effempio) argomcntaua Senofane, dicendo, che
nonaltrimenti fi dimoftrano impii, Se poco religiofi coloro, che pongon la
nafcitadcgli Dii, che quelli, ch'affermano, e riabbiano ancora elfi a
morire : conciofiacofa che all' vna, &: ali altra di quelle pofitio #
ni fegua, ch'in qualche tempo gli Dii non lìano. Et fi può in fom ma vfar
quello luogo in pigliar nella conclulìone quelle cole vna per l'altra,
come s'vna (Iella cofa fiano, dalle quali vno Hello acxoe cidentenafec. come
faria (per essempio) dicendo, Ilgiuditio, chefete per fare in quella
caufa, et la fentenria, che fetc per dare, non riguardarà veramente Socrate, ma
lo (Indio, cheshabbia a porre intorno a la filosofia, fe fi debba più
lìlofofarc, onò. et in quello altro elfempio, ch'il dare acqua, Se rerra, non
lìa altro, che darfi in feruitù. Se in quello altro, che il volere accettare,
Se entrare in quella pace commune, non fia altro,ch obligarlì 103
d'obbedire alle volontà de gli altri. Sidee dunque con la virtù di quello
luogo, delle due cofe, dalle quali vnollelTb accidente nafee, pigliar
l'vna per l'altra, fecondo che ci larà più vtile. 104 Vn'altro luogo prende
forza poi dal diuerfo volere, c hanno in ti inerii tempi gli huomini, in
non clcggcrco volere vna ftellà cofa in vn tempo prima, o in vn tempo poi, ma
IpeiTc volteil contrario. come ne può eilete elfempio qucll Endnmcma; Se
quan per il quale deb biamo auuertir, fencl fatto sinchiudon cole,
ch'in elio f acciari contradittionc, o repugnantia alcuna. fi come
l'vsòScnofanc re fpondendo a 1 Cittadini Eleati ; li quali domandato
haueuan da lui conliglio s'eglino doueuano vfar di pianger quando
facufìca uano a Lcucothea, (o Matura, che la vogliam chiamare )
rilpofe lord unqiie Senofane, che s'eglino haueuano opinione,
ch'ella fu ile veramente immortale Dea, non doueuan piangere : óc
fe per Donna mortale la reputauano, non le doueuan facrifìcarc, 14 j
Vn'altro luogo riabbiamo ancora, la cui forza è porta in confiderai
qnalch'crror di difauuertentia, &con laconfcflion di quello accufatc, o
difenderli, come ( per elTèmpio ) nella Medea di Cai ci no, gli accufatori
di Medea le imputauano, de l'incolpauano, ch'ella hauclle vccilì i figli, poi
che elfi in alcun luogo non compariuano. Laqual accula haucua prelo
occafione dall'crror, c'haueua fatto Medea d'hauer fegrctamente fatto
allontanarci figli per faluargli. ÓVellainfua difenfion diceua, c hauendo
da fare vecifione, non i figli, ma Io fttlTb Iafone harebbe vecifo.
Ór che quello era flato veramente l'error fuo, il non hauerlo vecifo: et ch'in
vero harebbe ella peccato a non far tal cofa, fe quella al149 tra haueilc fatto.
Da quefto luogo, et da quello modo, et forma di dedurre Enthimcmi, è comprefa
tutta la prima parte, o ve i/o ro il primo Libro dell arre di Theodoro.
Vn'aUro luogo è ancora, ilqual prende forza da 1 nome della colà, o ver dall’etimologià: ^ i
J i già : qual luojjo vsò Sofocle, quando parlando d'vna Donna
cru dele.chiamara Sidira,chc ridotta in lingua noitra lì può
chiamar Ferreria, dille, che conuenctiolmcntc portati^ ella quel nome. i
Ji vfato ancor lì vede nell'Odi, Se ne i Canti, che lì fanno in lode de 1
Si g M Dei. Conone ancora folcita dir,chcThtalibulo,cra veramétcThrafibulo
(cioè remcrario,&: precipitofo ne i configli fuoi. ) i J4
Medcfimamentc Herodico diceua, a Thralìmacho, che femprc farebbe
Thralìmacho (nome chea noi luona litigiofo, cV audace i/f in contender
femprc.) Et a Polo foleua dire il medefimo Herodico, che femprc era Polo (nome,
cha noi importa, di fanciullc\$6 fca lafciuia macchiato. ) Di Dracone
legiflarorc ancora era detto, che le leggi fuc, non cran d'ini omo, ma di
dracone, cllèndo i $7 in vero molto afpre, rigorofe, 6V difficili ad
ollèruaru". Appretto d'Euripide ancora dice Hccuba conrra di Venere,
Non lenza ragione ri domandi tu Afrodi te,elfendo tu la Dea della ftoltitia,
Se il rifugio de gli (tolti (che cofi fuona nppreflo de i Greci quel noi
j8 me.) Chcrcmon parimente dille, che Pcnthco fu cofi chiamato, quali che
con quel nome s'indouinallcr le future calamitofc miferie fue. Trà gl’entimemi
poi li redarguitiui, o ver reprouatiui eccedon di gratta, Se di forza gli
allertili :, et puri, Se direttalo mente prouatiui . perochc raccogliendoti in
vn ccrro modo in 161 riftretto i contrari; infiemencll Enthimema
redarguitiuo, vengon porti in quello modo in parragonc a farfi più nianifcfti a
gli 161 afcoltatori . Ma di tutti poi gli Enthimcmi, et liilogi imi, coli
redarguitiui, comcaHertiui,quclli maflimamcnte fono atti a commoucrc,&: a
fare imprcifion ne gli animi degli auditori, Se con maggior quali applanfo
fono acccttarì, liquali non ptima a proferirti fon cominciati, che chi gli ode,
coniettura, Se comprende i *3 il resto pcrfemcdelìmo. Se ciò,non perche
caufa ne fia la troppo 164 fu per fi ci al facilità, Se chiarezza loro ;
ma perche fon formati in modo, che gli auditori poflbn con 1 ingegno loro
preuenire l'in16 f tclligentia d'elfi, Se fentir di ciò gran diletto . Son
doppo quelli Eni h irne mi in fecondo grado d'cccellentia quel li, a
i quali tanto oltra a punto feguon dietro con l'apprcnnon quei, che gli
odono, quanto che Cubito, che fon finiti di proferirli, fon da
quelli fenza fatiga imeli . ìf C a P° Jl Secondo libro. 2 o
j 24.. Che fitruouino Snthimemi apparen ti, et quali epftano
h&dei luoghi communi, che pojfon lor Jerutrc^j . Onciosi acosa che
poflìbil Ha, che fi rruoui vna for. tcdilillogifrai, che veramente fon
fjllogifmi, Se vna fortedaltri, chefillogifmi veramente non fono,
mano paion dellere; nè feeue necctfariamente.ch'eircndo afi entimemi
ancora etti lillogilm., Ciccia di mcfhcri, che di loro ancora alcuni lian
veramenteenthimemi, et alrn non cllendo ve i ri enthimcmi, habbian
nondimeno apparentia d'effi . I luoghi adunque degli Enthimcmi, che non
veri, maapparenti fono! faran quelli, che qui feguono. Et vno primieramente è
quello, / che pende dalla locutione, più che dalla cofa . nel quale comprendendoci
più parti, vna di quelle shà da intendere efler, c ( fi comeauuicncancor
nella Dialettica, ) quando non ellendofi veramente ullogizato, fi proferire
nondimeno nel finc,& fi termina a conclufione con tal modo, &con
talcallèucratione, co me fillogizato, et veramente conclufo fi fufie. come
farebbe a dire, adunque non è la tale, et la tal cofa, ncceirariamen€ te e
adunque la tal cofa, Se la tale. Et tanto più fi può faro ucfto ne gl,
enthimcmi, che nei fillogifmi, auanto,chc negli entimemi .1 dir, che fi fa
implicato, Se inuolto, Se ripieno d'oppofitioni, può facilmente parere
enthimema : poi che vn colf fatto proceder non dillefamcnte ordinato, come nel
fillocifmo, elfo 10 dee la regione, et il fito dell’entimema. Et puòqucllo
modo, ? 1 ? a ? n °' C ! a biam derro ' P"er fimile a quella fallacia,
chap prello de 1 Dialettici prende il nome dalla figura della locuzione. E
a quefto modo di dir fillog.iìicamente più tolto per virtù di lo cutione
che di cofe è vtile ancora il raccoglimelo d, più capi conclufi con
altrifillogifmi . ilqual raccoglimento fatto con ari 11 de efficacia,^
apparentia di nuouo argomento, come fe (per efle ™P»o) diceffimo, A molti ha
egli recato falute, ha vendicatole U voftre ingiurie ha ridotto nella fu a
libertà la Greca. Gafcun aunquedi quelli capi con altro appartato
argomento è flato con cjulo: ma raccolti, et porti tutti iniìcmefanno
apparentia, clic Ce ij da lo2 o *Della 'Retorica
d'j4riHotelc_j doloro, quafida nuouo argomento, fi cócluda qualchal tra
colà. 1 4 Quella dunque, c'habbiam dcrta, è vna parre del primo
iopradet to luogo. L'altra parte poi Uà polla ncli'equiuocatione, ovo15
gliam dire ambiguità, et varia lignification dclleparole; come auuerrebbe
in dire, che mis, (cioè il Sorcio) fulle molto Ignorabile, 6c degno di
lodceflendo da quello denuato il nome di cola tra tutte le cofe facre,
degni (Ti ma, «Se venerabiliflìma. pcroche quelle cofe facrc,che fi
domanda milleria, tutte 1 altre di degnirà, 16 de di venerationc auanzano.
Il medesìmo auuerrebbe ancora, s'alcun volendo con lodi innalzare, et celebrare
il Cane, comprendere in tai lodi quelledellc llelle del cane in Ciclo, et quelle del
Dio Pane,clfcndo egli da Pindaro chiamato cane,quando di ce, O veramente
beato, poi che da gli Dij immortali lei chiama1 8 to vago, et delitiofo c ine
della gran Madre, et grande Dea. o ver fe periodar parimente il cane, li
di cefle, che rcltando prillato di molte cofe degne di lode, chi non ila
in alcun modo cane, nefe1 s> gue, ch'ornamento, et pregio rechi lcller cane
. Mcdefima mente vfarebbe il prefente luogo dell’equivoco, chi periodar
Mercu rio, diceire, ch'egli fulle, cenonico, ( cioè cornili unicati 110 di
bendi tij, o benefico, che vogliam dire) più che turti gli altri Dij, pofeiache
Colo egli frà tutti gli altri fi chiama, cenos, ( cioè conilo mune). Parimente
Ivfarebbe, chi diccllè, che logos, (cioè il parlare, o veri oratione) Alile
cofafopra tutte 1 altre pregiati (lì ma, pcroche gli huomini di gran virtù,
non fogliamo per ingrandirgli dire, che lian degni di ricchezze, ma che fian
degni di logos, (cioè di Ai ma, e di pregio) di maniera che quello, eh e
di eia nm, affion logu, (o ver degno di logos) contiene non vn folo
fignificaro, ma più, (cioè degno d oratione, et degno di pregio).
Vn'al tro luogo per gli E ut hi memi apparenti fi truoua ancora, la
cut virtù conulte in prendere, et dir per modo di cópofitione, quello, che
diuifo intendere, et prender fi dee, o ver per il contrario per modo di
diuifione quel, che lolamente compollo li truoua ti vero, pevoche potendo
fpeilc volrc parer, ch'il medefimo impor ti, 6V la mcdefima verità
contenga il dir la cola ncll' vno, et nell’altro de i detti modi, quello d'elfi
fi donerà pigliare, che tome». 13 rà maggiormente a commodo. Et in cofi
fatto luogo è fondata quella argomctatione vfata da Euthidcmo a prouaread
vno, che fapelTe egli in Pireo efler 1 armata, o ver le galere : pcrcioche
l'vJl Secondo libro . 2 of na, Se l'altra delle dette due cofe
fcparatamentc fapeua, cioè fapcuaeircnn Pireo, et fapeua le galere. Il fimile
auuerrcbbe sai enn volefVe prouare, che alcun (aperte il tal verfo, per
che egli hà notitia delle lettere, et charatteri di cui gli e comporto nò
cllcndo ij altro quel verfo, che quelle lettere, che Iorio in elfo. Medclimamente
può ch'ere elfcmpio del detto luogo il dire, che (e il doppio della tal cola e
nociua ad vno infermo, non gli potrà etfer tana, et gioueuolc Li metà di
qucllajcrtendo cola all'orda, Se fuora di ragione, cheduc cole buone, Se
gioueuoli, facciano, Se com1.6 pongano vna cola dannofa,& mala. Se in
querta maniera vicn de dotto quefto argomento per modo redarguiti uo,&
reprobatiuo. 17 douechepcr modo d argomento prouatiuo, Se moftratiuo, fi
de duria fe dicefìimo, nó potere eflerc vtile, et fanala metàdi
quel, eh e dannofo,pcrchc due cofe male, non po don congiunte inlìemc fare
vna buona. Se come fi voglia in (omma, che fi deduca, iS riman per vigor
di quefto luogo fallace l'argomento, fi come parimente e fallace quello, ch'vsò
Policrate, quando volca prouare,cheThrafibulo haueuaeftinro trenta Tiranni. Nel
qual'argomento peccaua egli per via di compolìtione, volendo, che fi
veri 19 ficafie comporto, quello, cheli venficaua fcparato, et diuifo .
fi come per il contrario per via di diuifione pecca quello, ch'vfa 30
Theoderte nella Tragedia fuad Orcftc: doue dice, Giufta cofa è, che
qualunque Donna vecide il marito, fia priuata di vita .
cofa honeftaancorè, ch'il figlio vendichila morte del padre fuo,il
fat to dunque d'Orcfte fi dee ftimar giurto, Se honefto, conrenendo31 fi
in elio ambedue le dettegiufte cofe. nel quale argomento rtà porto inganno,
perche nei comporli, Se congiugnerli infieme le dette due cofe
diuifamentegiufte, non confcruan più forfè il giù 31 fto, c'haueuan prima.
Può ancor la fallacia di quefta medefima difefad Oreftc depcnderda
vn'altro luogo, che li chiama luogo dal difetto, o ver mancanza : pcroche
nell'argomento viene a lafciarfi indietro, da chi doueua elì'er p mira, de
priuata colei di | 3 vita . Vn'altro luogo condite poi in vna vehememe, Se
di caldezza, Se d'efficacia piena efaggeratione, che o conferii! imlo,o confutando
li faccia a ingrandir la bruttezza,& 1 enormità del fatto . j4 Et
quello accade quando lenza haucr dimoftraro,o prouaro.chc la cofa fia
ftata fatta, o non fia ftua fatta, s'ingrandi 'ce con vchcmcnua, Se con rtomaco
Tingiurtitia, Se lindegnuà di quella, pcroche 2 o 6 ^eUa Tintorìe*
d^rtttotelcs joche cotale ampli fi catione, et ingrandimento, fa fenza
altro,pa rcr,ch'il reo non l'habbia fatta 'eghèquchcncrcfaggera, ©^ 1
in grandifee, o ver ch'egli l'habbia fatta, fc l'amplificatore, et lcfag$
r getatorcè colui, ch'accula. Quello modo dunque di procedere, non è veramente
enthimema : concioiìacofachc vengan per elio a cader da fé (ledi ne i
lacciuoli dell'inganno gli afcoltatori, con lafciarfi in quella guifa
tirare a creder, che la cofa (la fatta, o 3 6 non da fatta, fenza che ciò
fia veramente prouato loro . Vn'altro luogo è poi, chiamato luogo dal
fegno : Se egli ancor non conticn concludente ragione, Se forma di lillogifmo .
come(pcreflempio) farebbe, s alcun diceile, che nelle Città fullcro vrili
gli amori lafciui, o ver gl'innamoramenti trà vn'huomo, Se l'altro
; perche vn cofi fatto amore, che fu trà Harmodio, et Ariltogirone, fù
cagione, che fi mandalìc a terra la tirannide d'Hipparcho . veramente s 'alcun
volelfc dall'elici Dionifio huom vi nolo, inferire, Se prouar, ch'ei fulTe
ladro . ilqual modo d'argomentare ancora egli non conclude nulla, per nó
elfere ogni vitiofo ladro, ma più torto per il contrario ogni ladro
vitiofo . Vn'altro luogq è ancora, domandato luogo dall'accidente •>
come, per ch'empio, è quello, ch'vsò Policrate, quando parlando de i
Sorci, diede lor lode, c'hauellèro anch'elfi recato aiuto all'efferato
amiepj hauc41 do rolo, Se mangiato lechordede gli archi dei nemici . vn limile
elTempio farebbe ancora s'alcun di celle elTercofadi grande honore, &da
tenere in grande llima, 1 elfere inuitato, o chiamato a cena :
conciolìacofa che Achille per non eflcrc ftaro chiamato a cena in Tenedo
li (degnali grandemerc conrradc i Gtcci, Se s'ac cendclle d'ira . ma l'ira,
Se lo fdegno fu, ch'egli per quello indino di non elfer chiamato con gli altri
a quella cena, fece coniettura, ch'eglino lo tencllero in poco còro: il che
rifpetto ali ellere inuitato a cena era cofa congiunta per accidente. Vn'altro
lungo 44 parimente fi cruoua,chiamato luogo dal confeguente: come s
verebbe, per edempio, quando volclTe alcun inoltrar, eh Aieffa miro fu ile
flato magnanimo, perche di fp rezza co il commertio, &; laconucrfation
di molti, fi rinrò nella fohrudin del monte Ida ballandogli di conuerlar
con fe fh-ffo. lì quale argomento daque, Ho prende apparcntia, che per
folcrc cllerc i magnanimi coli fatti, può in apparcntia parere, eh egli ancora
per elfer coli fatto, fuflè magnanimo . Il mcdclìnioauucrrcbbcin dire,
ch'il tal fia adulJl Secondo libro . adultero, perche egli fi diletta
d'andare tutto della perdona ornato, et culto di delicata attillatura, folendo
gli adulteri andare in queftaguifa. Il fimile accaderebbe ancora in dir,
ch'i poucrcrri mendicanti, che logliono (lare alle porte de i Tempi) a
doman4S dare clcmofina, fi debbiano (limar felici, et parimente
coloro, che (banditi dalla lor patria, efulando per il mondo vanno .
pofeiache quelli fi veggon fempre ftar cantando, et ballando,^: que (li
pollono vfare vna certa libertà d'habi tare, Se goder che parte del mondo
vogliono, conciofiacola che vedendo noi, ch'in quei, che moftran di menar
felice vi ta,fi foglion tronar coli fatti accidenti di voluntier ballare, et cantare,
Se di potei e a libera voglia loro viuer, douc più lor per il mondo piace,
viene all'incontra a parer,chequclli,in cui tali accidenti il truouano,fi
debbian con4P feguenremente ancora cflì (limar felici . nicntcdimancodirTcrifcon
trà di lor nel modo,& nella caufa di trouarfi tali accidenti in 50
elfi . Onde viene a poter conuenire in vn certo modo la fallacia di quello
luogo, con quella del difetto, o ver della mancanza • ji Vn'altroluogoc
poi, il quale con fide in aflegnar la non caufa in j t vece di caufa :
come auuien quando come caufa d'vna cofa, s'adduce, quello, che o inficine con
eflà, o feguendo doppo elfo, accafea, prendendo il doppo quello, in luogo del,
percagiondi f 5 quello . et maflimamente foglion quello far coloro, che
maneggian Io flato e'1 goucrno della Città, et trattan le cofe publiche
. J4 fi come folcua dire Demade, che il reggimento, et l'amminiitration
della Republica, che tenne Dcmofthenc nel fuo magiftrato, 55 era fiata la
cagione di tutti quei prefenti mali, della Cittàrpofciache doppo'l fuo goucrno,
era fubito nata, et feguita quella rerribil guerra . Vn'altro luogo fi truoua
ancora, ilquale e pollo in far l'argomento defettuofo per la mancanza del
quando, et del come. fi comeaccafchcrebbe, perellempio, quando a
prouar,chc AleiTandro giù riamente tolta hauefiè Hclena, s'alIcgafTe per
ragion di quello, ch'il padre di lei le haucua data libertà d cleggerfi quel
marito, che più le fulTe piaciuto . nel quale argomento fi commetterebbe
fallacia per cagió di defetto del tempo non le ha uendo fuo padre dato
forfè quella libertà da vfarfi fempre, et per ogni tempo, ma lolamcnrc da
vfarfi prima, che mai irata fullè: 55? polciachcfol fino a quel tempo era
ella in poteftà del padrc.ll me defimo auucrrebbc, fe
airolutamentediccillmo, che nel battere vna 2 o 8 Della 'Retorica d '
Arìttotclt\j Tna perfona libera, fi commettefle ingiuria,o contumelia:
perciò che non Tempre e il far quello, allblutamemc ingiulto, ma folamente
quando altri fia il primo a battere, et a prouocar l'ingiuéo ria. A pptclTb di
quello fi come nelle contcntiofe difputationi occorre ili farfi fpclfb
apparcnre,& fallace lillogifmo percaufadi prender le cofe, o come
femplieemente tali, o come cofi taIi,o 6 1 vogliam dir, per aggiùta tali;
nel modo che fra i Dialettici iì fuol tentar di prouar, che la cofa che
non c, fia per eflcr vero, che la Ci cofa che non è, fia la cola che non è,
Se che feientia fi pota hauer delle cofe, che faper non fi polTbno,pcr etfer
vero, che faper 6} lì polla, non li poter faper la cola, che faper non iì
può, cofi parimente nelle cole retoricali, et caufe oratorie fi può trouare
appa rentc,&: non vero euthimema per caufadi prender per veramente, Se
femplieemente verifimil quello, clic fia condirionatamente, o vogliam dir con
aggiunta limitato verifimilc. Il qual coli fatto verilimile non è
puramente, Se vniuerfalmente verifimile, ma limitato, conditionato, Se
rilìrctto . quale c quello, ch'intende Agathone, quando dice, che non fi
pattirebbe forfè dal ver co lui, ch'arTermalTè cflTer verifimilc, che mohe
cofe accalchino in quella humana vita, fuora del verifimilc . Nè fi parte
egli dal vero in quello, accadendo fenza dubio alle volte cofe lungi dal
veri fimilc : et per confeguentc farà verifimilc ancor quello, ch'è fuora
del verilimile . et elTendo cofi, par che fi polla concluderete 6% quel,
che non è verifimile, fia verifimilc . ma in vero gliè verifimilc, non
femplieemente, ma limitato, o vero in qualche patte . 6p perciochc fi come
nelle altercatine difputationi dal mancare, o ver dal lafciar d'aggiugner,
fecondo qual parte, o vero, in rifpctto di qual parte, in che luogo, et limili,
fi viene a commettere in 70 ganno,& fallacia nell'argomcntare; cofi
parimente in quella arte della Retorica auuicn, che commetter fi polla fallacia
in prenderfi per verifimilc, quello, che non c legittimamente, Se
fcmpli cernente verifimilc, ma è verifimil limitato, Se riftretto da' qiul71
che aggi unta. Et di quello prefen te luogo del difetro, ècorapo Ha, Se
depcndel arte, che feri lìc Cora ce. Impeiciochc feil ieo non firà
lofpetto, nè parrà habile al delitto oppollogli, come auuertia fe alcun di
deboli, Se inferme forze fulfe acculato d'haucr battuto vn più di lui
gagliardo, in tal cafo potrà difenderlo > Se fargli fchiuar la colpa il
non clfcr veramente vn tal fatto verisimile Jl S econdo libro . r 2 finite • ma
Ce il reo porrà parer fofpcrto, 8c riabile a! delirro, come auuerrebbe s'egli
nel calo dcrro, robulto, cV gagliardo fiì iTc porrà fchiuar la colpa con
dire efe veri limi I, ch'egli non riabbia fiuto quello, che hilìe domito
veramente parer verilimi le. óVil 74 fimi! li può dir negli altri cali, et
delitti importi . concioliacofa che in qual li voglia caufa lia forzaglie
il rco,o fia fottopoflo alla 75 on del delitto importagli, over
fortopofto non le fia • et ali'vno,* all'altro di quelli cai] può ferirne il
verilnmlc,apparcn do venlimili ambedue le forti del verHÌmile, clfendo
nondimcn l vno (emplicemente, Se legittimamente venlimile, et I alno no semplicemcnte
tale, ma nel modo, che detto riabbiamo. Egramente altro in foftantia, che la
fallacia di quello luogo non è quella arrogante offerta, eh alcuni
fuperbamentc fanno di voler con le lor parole qual Ci voglia caufa render
1 upcriorc, et fòr vittoriosa rcrtar di fopra. Laonde non fenzagiufta ragione
con era de indegnarione, et ftomaco era abborrita dalle pedone l
arro 7S gantepromella.&profertlondi Protagora, conciò fu Uè
cofa,chc fai acc Alliccerai proraclfa, &in fclfità fondata, et da non
vero et legittimo venlimile, ma da apparente, et poco folido, depen79 e i modi
d'opporfi ali 'Auuerfario* (f di dife toglier le Jue ragioni . £f che
cofa fia Jnfiantia, o -vero Obbiezione oratoria* et in quanti modi fi
faccia . jN due modi può occorrer, che d.fcioglier Ci
poflan leargomcntationi : cioè o con fare argomento, et lillogifmo
incontra, o con addurre obbiezioni, 5c opporre inlranrie. Quanro al
proceder con fare opdelimi luoghi che fono vali a filJog.zare impugnando,
feruir D d pollbno,2/0 Teorica d % Ariftotelc^> "J poflbno ad
argomentar difciogliendo, o verconfutando. Peroche componendoli 1 lillogifmi
oratorij di propolìtioni probabili non è dubio che probabili non fogliano
Ipeifo parer molte cofe, quantunque contrarie fian fra di loro . Quanto
alle obbicttioni, éc alle in lime poi, fi pollbn porrare,o vero addurre,
lì come anco ra appreflb de i Dialettici nella Topica, in quatro modi, o
ver da quatro luoghi, cioè o dai medefimo,o dal limile, o dal
contrario o da cofe giudicate . Dal medefimo intendo io elfer l'in Itanria, come
(per clfcmpio) fc fi fufle con cnthimema cóclufo ch'Amor fuire cola buona,
in due maniere fi potrebbe a degnare inftantia. impcrcioche fi potrebbe, o
vniuerlalmente dire, ch'ogni bifogno, o ver mancanza fia cofa mala ; o
particolarmente allegar che non fi vfarebbe di dire, il tale amore eller
ottimo, et il tale ef fcr peUimo, fi come fu quel di Cauno, fe non fi
trouafiero ancor 9 dei non buoni amori. Dal contrario poi fi portan le
obbietioni et lcinftautie,come fc (per cllempio ) contcnendofi neil'enthimema,
che limoni virtuofo a tutti gli amici fabenefino, &giouaméto, s'allcgalle,
che l'huom cattiuo,o ver vitiofo non fa danno, 6c male a tutti gli amici . Nel
limile s'adducon le indinne, come (e (pcrcflèmpio),ftando cóprefo
neU'enrhiraema, che quei v C han riccu u tu of$clà,odÌ in Tempre col oro,
clic l'han loi fatta,s al lcgallc, che q udii, c li .in ri cernito
bendino, non tempre amano 11 chi l*hà fatto loro. Quanto alle inftantic
poi .% lcquali, fi portano, cos'adducono da cofe giudicate, over da giuditij
fatti, s'intendono dfer quelle, che dal giuditio,& parer dependon di perfone
d illu lire nome, et di chiara rama . come fe ( per eflempio
) contcnendofi in vnoenthimema, ch agl imbriachi fi deon perdo narei
loro errori, come aqueHi> che per ignorantiapeccano, fi può recare in
ftantia cucendo, che fc quello iulTe, nondoucrebbe ellèr commendato
Pittaco>hauendo egli poflo trà lefueleggi,effer di maggior pena degno colui,
che commollb, Se fpintoda IX imbriachezza pecca. Horquattro fon le cofe,
nelle qualififondano,& hanno luogo le retoriche argomentarioni : et quelle fono
il vcrifimile, l'ellcmpio, il Tcmmirio,(o vero inditio certo) i 5 ci legno
. delle quali argomcntationi, quelle, che fi compongono di cofe, che perii più,
o ver per la maggior parte fono, o appaiond ellere, fono argomentarioni fondate
nei vèrinmili . et quelle poi pei via d esempio procedono > lcquali
raccogliendo per Jl Secondo libro . j/g per via dinduttione da
vna, o da più cofe rrà di Ior rimili, alcuna cofaìn vniuerfalc,da quella
poi fillogizando concludon qualche t $ cofain particolare. Et quelle
argomen radon i poi, lcquali da co i£ Ce necellàric nafeono, fon fondate
in Tcmmirij . Etquellefinalmenteinfegnifondate fono, lcquali proecdon dacofa,
che,o come pul vniuei fale, o come (ingoiare, o ha ella in etfere, o nó
fia, viene ad eflerfegno della coliche fi conclude. Hora ftando
la cofain qacfto modo,in tutte le già dette forti dargomentationi, fi
pollano addurre in ftantic. Se prima quanto a quelle, che fon fondate nel
verifimile, -perche il verifmiile non c fempre,& vni1 8 .uerfahncnte vero,
ma per il più, o ver per la maggior parte; è cofa manifeita, che a coli fatti
enthimemi, et argomentano ni fondatene i vcrifìmili,fcmprc fi porrà recar
difcioglimento con addurre ìnftantie. Bene è vero, che cotal difcioglimento ri
11 feirà Ipcilc volte apparente, Se non tempre vero', conciofiacofa
che colai, che centra del verifmiile adduce inftantia, non
difciolga feropfcla verifomigliarrza, ma la neceflìràdellacofa,
inoltrando non cllcre ella necellària, ma non già inoltra cller non verisimile
. La onde per cagion di quello apparente, Se non vero difcioglimento
dcrverifimilc, colui, che nelle caufe tien luogo di difen forc, harà
fempre nel fuo prouar, più vantaggio, che non harà colui, che tien luogo
daccufatorc. perciochedouedo colui, che accufa proceder con legittimi
verifimili,& non clfcndo vna fletta cofail moitrarnel difcioglimento,
ch'vna cofa non fia verifimile, et il inoltrar, che la non fia ncceflariamente
vera, Se oltra ciò nó mancando mai inftantia contta di quello, che non
fempre, ma fol per il più c vero, pofeiache fe inftantia non haucllè, non
farebbe vcrifimileAvero perla maggior parte, ma fempre, et ne11 ceijariameme
vero; ne fegne da tutto queftojCh'i giùdici nel fen tire addurre qual fi
vogliamitantia conrra'd vna propofition verifimile, il dienoa credere, © che la
propofition verifmiile prima addotta, totalmente non fia verifimile, oche
fe pur qualche par te di verilomiglianza le reità, non fia tale, ch'eglino
polìàn fècon 13 doquclla giudicarci dar la fententia loro. In che
vengonocfll 14 ( c o«ie hò già detto) a ingannarfi quali per Ior medefimr:
come quelli, che non ben cólideiano, che non folo è Ior lecito ci fondarle
lorfentcnne, et il giuditio loro nella nccclTìtà delle cofe, ma nella
verilomiglianza ancorasse che que-aoc veramente gi»». Ce ij dicar 2 1 2,
T>ella r B^torica d'Jriflotelella Ustorie* d' JrìBotelc^ nalmenre paia
loro, che (Tori ragioni, con argomenti fi fia pro7 nato, Se lì lìa moftrato il
vero . Habbiamo medclimaracnteairegnato donde, come da luoghi poflfa
l'oratordiuenire abbondate, et copiofo denthimemi. dei quai luoghi alcuni fi
domandano fpctie,& forme d'enrhimemi, et altri, come communi, propriaS
mente fon detti luoghi. Refta al pi d'ente, che feguendo l'ordine incomincialo
diciamo, et trattiamo della locutione : conciofiacofache non bafti l'h;iuer
trouato,& tener nel concetto leco9 fé, ches han da dire, ma e ncccilano
ancora d'cfpnmcrlc fuor 10 con paiole, nel modo che fi ricerca, Se che lor
conuienc . il che feca importante giouamento a far parer l'oratione nel
rale,& nel 11 ul modo qualificata. Primieramente adunque fu fecondo
la natura cercato, Se inueftigato quello, che fecódo lordin di
quel la fi conueniua,cioHe colerteli, donde trarre, et canaria credili
bilità, et la pcrlìiafibilità fi potciVe. Secondariamente fu cercato, Se
trattato poi in qual maniera le già ritrouatc, et concepute cofe, s'hauelfeioad
efplicarc, Se a difporfe con l'aiuto i 3 della locutione . Nel terzo luogo
poi doppo le due cole dette re fta vna altra confidcratione, che l'opra
tinte 1 altre hà forza, et pof fanza, la quale all'anione, Se alla
pronuntia appartiene : nè è fta1 4 ta per anco dachiunque fia, rcnraia, o
trattata . perei oche ancor nella fletta tragica, Se epica poefia affai
tardi fu ritrouata, tx vi I j ottenne luogo : concionile cola che li Poeti
mcdefimi da prima, 1 6 le Tragedie, Se le fauole lor recitaiìcro, et rapprefenraflero.
E' co fa mamfefta adunque, che nell'arte della retorica ancora può hauer
luogo qualcheartifìtio, all'anione^ alla pronuntilapparte 17 nente, Yimilc
a quello, che nell'arte della poclia fi ritruona ; del quale alcuni han
diligentemente franato, et fra gli altri Glauco 15 Tcio. Horcofi fatta
anione,& pronuntiatione oratoria, Ibpriu cipalmcte collocata nella
ftctfa voce, in veder, come s habbia da fare, Se da reggere
neircfprcflìone di ciafeheduno arTetto,ò\: concctto d'animo, come adir quando
habbia da vfarfi grandc,quando piccola, Acquando mediocre. Et intorno pan min
re .ti tuono^ ver fuonodi quella, comes habbian da vfar coli fatti
tuoni, cornea dir lacuto, il graue, et quel, che partecipa di quelli
due. &-medefimamentc con qual rithmo, o ver numero s habbia
dcJU ao l cfprelTion di ciafeheduno affetto, o concetto a procedere, concionacela
che tre cole confiderar logliano intorno alla voce nel i Jl TirZiO libro .
pronuncia coloro, che ne trattano, cioè fa grandezza, l’armonia, e'irithmo,
over numero. Le quai cofe coloro, che fan ben nella pronuntia reggere, Se
moderare, fon quelli, che Tempre ( Ci può dire) ottengono i premi/, Se la
palina nelle lorcontrouerlìe, Se contefe oratorie. Et lì come nella poelia
par, che nei tempi d'oggi più vagliano, et maggior forza tengan coloro,chc
con artione hiftrionica recitano, Se rapprefentano, ch'i poeti detti
; coli parimente il medefimoauuienc nelle ciuili contentioni,
Se caufe oratorie : colpa dei già corrotti, &deprauati coftumi delle Republiche.
Ma non c fiata per anco ridotta, Se comporta in arte coli fatta attione,
&ptonunciatione oratoria, ne raarauiglia è di ciò: pofeia che intorno
alla ftellà oratoria locutione ancora, alfai tardi fu inueftigato, et trouato
rartifitio,«5c lo ftudiod'adornarla, Se di coltiuarla . Et in vero,(e noi
vogliamo ben dentro al vino confidcrare, potrà veramente parer quella cofa
della locuzione, Se pronuntiatione, cola più tofto poco honefta, che punici to
conucneuole . nientedimanco douendo ogni trattamento, Se Audio di quella
arte della retorica hauere vn certo riguardo d'ac commodarfì alla communc
opinion di tutti, fa di meitieri di porre parimente in tal cofa, Ce non come in
veramente honefta, aU mcn come in neceflaria, qualche ftudio, Se qualche
diligcntia . conciofìacofa che fecondo la veri tà,gi urta, Se ragioneuol
cofa farebbe, che cola alcuna non Ci doucllecon più Audio cercare incorno
all'oratoria orat ione, che non far nalcerc o tri ftezza, o diletto in color,
che odono : eflendo cofa conucneuole, Se giuda di contender folo nelle
caufe oratorie con le cofe ftelìc, cioè con le ftelTe pruoue: di maniera
che tutte le altre cofe, laluo che l'argomentare, Se prouare, s'han da (limar
fuperflue; come che fuor della caufa fìano . Ma elle nondimeno fon di gran
forza, et di gran momento, percagion (come habbiam detto)
dellimperfcrtionc, et corrottion di coftumi de gli alcol tatori . Bene è vcro,& negar
noli può, che la forza,& l'efficacia della locutione in ogni dottrina,
Se feientia, ches'habbiaa infegnare, o trattare, non 31 tenga in Ce
qualche poca d vtilità neceflaria : clìendo fenza alcun dubioqualche dirfercntia,
quanto aH'efpreffione, Se dimoftration de i concetti, tra 1 parlare in vn modo,
Se in vn'altro. ma non però ne tiencaltroue tanta, quanta in cjucrta arte
del dire: douc tutte le cofe, che fi cercano > Se Ci trattano,
all'opinione» E e «Se imzi Si &c immaginatione altrui,
&allo ftcilbafcoltatorcin fomma, han 3 j rifpctro . Et però vediamo,
che nella Geometria, o in altra coi! fatta feicntia, ninno c, che con
anifitio di locutione infegni . É Quando dunque atiuerrà, chequeftaattione,
6c pronunciatione oratoria apparifea fuora ridotta fotto arti fi rio, il
medefimo effetto farà ella in quella aite della retorica, che far veggiamo l'ar37
tifitiodella rapprefenratione hiftrionica nella poefia. Et hanno "
cominciato già alcuni a tentar di dir qualche cofa d'ella, ma pochi flì mi han
proceduto innanzi, come fra gli altri hà fitto Thrafimacho ne i libri, ch'egli
hà Icritto delle cole compaflìoneuoli. |S Et e quella hiftrionica anione
l'oratoria molto congiunta con la natura, 6V per confeguentc poco
depcndenre dall'arre. Ma la forza dell'oratoria locutione e capace più
d'arteficio, cVallaftef. 39 fa arte concede luogo . Onde nafee, che quelli
Oratori, che nell'arti fi rio di qucftilocution fon potenti, riportan
facilmente ipremij, et la palma delle lor contentioni oratorie ; fi come
fan parimente quelli, che molto nell'attione, et nella pronuntia vagliono.
Perciochcgià vediamo, clic quelle orationi, che compor fi foglion, perche
habbian da rimanere fcrittc, più vaglion per cagion della locutione, che
per cagion della fen tenda, et del 41 foggetto dello. Et il dee ftimar,
ch'i poeti follerò i primi ainucftigare, et à porre innanzi lo ftudio,&
l'artefitio della locutione per quel, che pare, chela natura voglia :
conciofiacofachcli no 43 mi, et le parole altro non fiano, ch'imitationi :
ne parte alcuna trà tutte le parti del noftro corpo humano è più
atta,& più habi44 le ad imitare, chelaftella voce, da che vennero a
comporli, et a nafeere, et haucre 1 clic re, più fpctie dell'arre della
poefia, come 4j adirei Epica, le Rapprcfcntatiuc, Se altre. Et perche
quantunquei poeti molte volte diceuercofe, quanto alla fentenria, infipide,inette,
Se di ncilun fucco, nondimeno per caufa dell artifitiofa, et ornata lor
locutione, parcua, che reputationc, et gloria ne riporraflero . da quello
nacque, che quella poetica locutione cominciale ad efler da prima
accettata, et raccolta da gli Orato46 ri : fi come trà l'altre era quella di
Gorgia. Et fino ad oggi ancora non mancan molti imperiti, et poco
gìadiriofi,iqualiappruouano cofi fatta locutione, et fon d'opinione,che quelli
oratori, che l'vfano, ottimamente parlino. Il che nondimeno no c cofi, ne
per vero approuar fi dee > eflendo in natura loro molto diverse la locuzione
oratoria, et la poetica locutione . Et ci conferma quefto l'efito della cofa,
et 1 auucni mento fteflb, che n'è feguito . conciofiacofa che li Poeti
medefimi nel compor delle lor Tragedie, non feguano d'vfar più quello
fteflb modo di locu 4$ tionc, cn'vfaron prima : ma fi come qnanco alla
mifura dei vcrfi, hanno lafciato i vcrfi di quatro mi fu re, o ver d otto
piedi, che Tetrametri fi domandano, Se in vece d'elfi han riccuuto i
Iambi ci, per eflcrqucfta forte di vcrfi più di tutte le altre forti,
accom modata, Se limile al commune,cV ordinano parlare fciolto; jo
cofi parimente han difmellb, Se tralafciato tutte quelle parole, et modi di
locutione,chepofian parer fuora del cófucto parlare, ji che communementc
fi molcvfare. Et tutti quelli efquifiti ripulimenti di dire, han ributtato, Se
ricufato, co i quali (bieuano eglin prima adornare le lor Tragedie, Se co
i quali adornano anj 1 cora oggi gli Epici Poeti gli diametri verfi loro . La
onde è cofa ftolta,& degna di rifo il volere in quella maniera di
locutionc imitar coloro, i quali non Tvfan più, ma abbandonata, Se traj$lafciatal'hanno.
Pcrlaqual cofa può ciìcr manifefto, ch'ànoi in trattar di queftarte, non
fa di bifogno d'andar con minuta,^ efquifitadiligentia ritrouando. cV
trattando tutte quelle cofe, ch'intorno all'artificio della locutione fi
potrebber dire, ma quel le cofe fole, ch'à quefto retorico
negotio,c'habbiam per le mani, /4 poflàno appartenere, eirendofi, per quel,
che alla locution dei Poeti appartiene, detto a baftanza nei libri,
c'habbiamo fcritti della Poetica. Suppongali adunque al prefente per manifefto quanto
quiui fi e fpeculato, Se detcrminato . (apo 2. T^ella virtù della
locutione oratoria 5 et delle condizioni, che le conuengono : ^ quai forti
di parole fi ricerchino per tuli condizioni . della Metafora, et de gli
6t>itheti, 0 vero aggiunti . I i^V Vanto allanoftra retorica locutione,
intendali diffiniio al y 'prfffrrtr^ che la perfettione, et la virtù di
quella, confi1 ftain dlèr primieramente lucida, o vero aperta, di che quefto
ci E e ij può eder buono indino, che fc Toratione non mariifcfla, Se
non rende chiari li concetti noftri, non viene a fare l ottino, &. I
effet3 to Tuo. Se di poi confitte in eder non troppo luimile, abbietta, &vilc,nè
troppo ancora alta, et gonfiata : ma di conueneuol 4 mediocrità tra l
bado, Se l alto . concioliacofà che la poetica locucione fi polla forfè (limar
non humile; ma alla fciolta, Se dtdej fa noftra oratione non è ella
cóucncuole,o accommodata. Quanto dunque a far la locution chiara, et aperta,
quei uomi,& quei verbi fono atti, Se vtili principalmente a quefto, li
quali proprij, o vero appropriati fi domandano. Quanto poi al renderla, no
hu mile, et bada, ma ornata, Se magnifica, quelle altre forti di
paro le, lo podbn fare, lequali fi fono aifcgnarc^cV: dichiarate ne i
libri € della poetica : perciochc il difcoftarli dal trito, Se commune
vfo 7 del parlare, fa parere il parlar più grande, Se più grane .
perche quel medefimo par, ch'in vn certo modo accalcar foglia a gli
huo mini intorno alla locutione,o ornata, o comune, ch'auemr
luoL loro verfo di quei, che forefticri, Se nuoui vengon nella lor
città, t Se de i lor Cittadini fteflì . Et per quello fi di bifogno di
fare apparire il no (Irò parlare, con vna certa nouità foreilicro : polciache
lccofe,chc dal commune vfoappaion lonrane,maggiore am miratione apportano;
Se dilctteuolc, Se giocondo par quel, che f s'ammira. Ne i verfi de i
poeti adunque a molte cole luogo, Se ricetto fi concede, le quali poflon
cagionar la detta ammiratioi o ne, et diletto ; Se ad elfi parer podbno
accommodate,come che le cofe, Se le perfonc, intorno allcquali, la metrica
orarion fi rai x uuolge,eccedino,cV rrapaffinol'vlirato,c l cómunc.ma nelle
prò fc,& ne i parlari fciolri,nó fi da luogo a gran pezza a tante ;
eden Il do qui ui i foggetti di minor grauità,& di minor grandezza .
Impercioche quiui ancora, appredo de i poeti (ledi, fe dalla bocca d'vn
feruo,o d'vna perfona di molto tenera età, fi fenti ranno
vfeir parolc,& locutioni.c'habbianoadai dell ornato,& del grade; par ràfenza
dubio cofa molto difdiceuolc,& fproportionata,& il me defimo
ancora auuerrà, s'alcun farà da loro introdotto a parlar con la
medefìmapolitezza,& fplendordicofcfriuole, balìe, et vi 1 1 li.Ma in
quefto (ledo parlare fciolto ancora,non (là fempre dentro ai medefi mi termini,
immutabilc,& fermo vno dello decoro; ma può ancora egli có
maggiore,& có minore ornanicto,& gradezza riftringerc,& dilatare
fecondo le occafioni, i confini (uoi . Ma fa Jl Ter&o libro. Ma
fa di mefticri, che ciò fi faccia in modo, che non appaia, Se alcollo rale
artifìcio (fra; di maniera «ehe il parlar paia nó hnro,nè da Itudio, Se da
diligcntia nato, ma paia per il contrario fcmpltcc,& puro,& fecondo che
la natura lo forma,& Io manda fuora. percioche in quella guifa
credibil diuiene,& fede truoua : doue che in quella al tra maniera
adiuien tutto'l contrario, concioliacofa che coloro,che d'vn cofi facto parlar
saccorgono,fubico come inlìdiarore, et come che mefehiando il falfo col vero
ingànargli voglin,rabborrilcon nó altrimenti, ch'abborrir fi fogliano i
vi ni có altro liquor mcfchiaii > et falfificati.Ec auuic crà quelli,
ch'o nell'vno,o nell altro de i detri modi parlano,quel
medelìmo,chc fi vede auucnir tra la voce,& pronùcia di Thcodoro,&
quella degl’ltri hiftrioni, percioche la pronuciatió di Theodoro, pare,no d'Iiiftrionc,o
di perlona,che rapprcfencijma della propria perfona Iccifa rapprclencara
doucchcle voci, Se le pronutie de gli altri hillrioni,comed hiicrioni,cioè di
perfone aliene, Se rappresentati, fi fan conofeere. Etalhora potrà venir
comodamente facto il già detto nafcódimenro,quado il parlarli formi, «Se
fi cóponga co la fcelca,che dallo (ielTo parlar cómun fi faccia di quello,
che mi11 gliorcinelfolicruoui.il che bene olferua di fare Euripide, Se
è li egli llaco il primo,chà quello auuercico,&
moftraco.Efscdoadu que i nomi,& li verbi quelli,di cui 1
oracione,& il parlar lì cópone,& rrouadofi càce fpeciedi nomi,quà^c fi
fono afferriate, et cofideracc ne i Libri della Poecica.di quelle fpecie,&
oornijli ilranie • ri, i doppij,& li di nuouo fatci,molco di rado, Se
in pochi luoghi vfar fi deono.in quai luoghi, ÓVin quali occalìoni ciò fi
polfafare, »3 dire più di focco.& la ragió di quello già di (opra
toccato habbia mo;& e che có l'vfo di cai nomi, vien croppo vedo la
parce della gràdezza a trapalTàre il parlare i termini del comune, Se
dcll'vlìta 24 to.Ma li nomi e le parole proprie, le appropriate e le mecafori che, o ver crafporcace, fon
folamccc quelle,chc fono rtili,& accomodate alla locució del parlar sciolto.
Et di quello ci puòelTer in dirio il vcdcr,chc quelle forci fole di parole
fon da tucci nel lor co mun parlar frequaate,& polle 1 vfo: pofeiache
alcu nó c,chc par Udo nó vii le metafore, et le parole appropriatele le
jppncancox6 ra.Pcrlaqual cofa può clfer manifefto che s'alcù laprà bc fare,
qua toauuertico habbiamo.in vn medefimo ccpoil parlar fuo,col
ino ftrarfi alquanto forellic/o, fchiueràl humil baiTczza, nafcódcrà l’artifìtio
della Tua grandezza, Se farà finalmente lucido, &aperco : nelle quali
condicioni già habbiam detto confifter la virtù a 8 della retorica
locutione. Sono trà le parole, quelle, ch'equiuoche fi domandano, a iSofifti
vtili, Se accommodate, come a quel li, che grandemente fi feruon d'elle
nelle lor fallacie, Se ne i loro inganni. A i Poeti poi vtili, Se
domeftichefono quelle,ch'vgualmente lignificando vna ftcflà cofa, finonime fi
domandano. Se intendo io parole proprie, Se finonime, come farebber ( per
cffempio) andare, et caminare, eflendo ambidue quelli verbi proprij, Se
finonimi fràdiloro. Hor che cofa s'habbia da intendere oflcr ciafeheduna delle
dette forti di parole, Se quante fperic di trafportamcnti, o verdi
metafore li ritruouino ; Se che effe metafore fiano di fom ma efficacia,
et forza,& ne i poemi,& nelle orationi,fi e dichiarato (come già di
fopra habbiam dctto)nc i 51 Libri dell'arte poetica. Et tanto maggior fa
di meftier che fia nell'oratore la diligentia, Se lo ftudio intorno
all'vfo delle metafore, quanto che di minor copia d'aiuti, Se rimedij da ili u
(trarli ha l'oratione, e'1 parlar fuo, chcnonhàlalocution metrica
dei Poeti. Oltra che la metafora mafllmamente ha in fe del lucido, o
ver'aperto,hà del giocondo, Se hà del forcm'cro, Se del nuouo, Se è tale
in natura fua, ch'vfata elfer non dee, come tolta da altri, }) ma come
nata dall'ingegno rtcfio di colui, che l'vfa. Horci fa di bifogno che gli
Epitheti, o ver'aggiunti, Se le metafore fi prcn ' dano, Se fi dicano in
modo, che quadrino, Se conuenientia tcngano. Se quello auuerrà facilmente
alhora,chc da proportion dependano. Il che quando altrimenti fufle,vcrrcbbe
maggiormcte adifcopritfi ladifconueneuolezza, Se ladifcrepantia, pofeiachc le
cofe, c'han qualche oppofition trà di loro,alhora fi fan maflimamente
conofeerc, quando l'vna appretto l'altra fi pongo no in parragone. Bifogna
dunqueauucrtire,& confiderar,chc fi come a vn giouinctto, Se fanciullo
ftà bene il veftir di color di 3 j porpora j cofi a chi fi truoua nell'età
fenile, conuiene,& quadra qualch'altro colore, non eflendo ali vna, et
all'altra età diceuole, Se conueneuoleil vcftir d'vn colore (tettò.
Medcfimamente fi dee notare, che s alcun vorrà dar lode, Se recare
ornamento coi parlar fuo, douerà prendere, Se trar le metafore da quelle
cofe, che (otto di qualche genere, faran le migliori, Se le più
nobili, che in quel fi comprendano : Se dalle peggiori per il contrario, Jl
Terzj) libro. Se più vili, s'egli infamia, et biafmo vorrà recare •
vogliodir (per eflcmpio)ch'cflcndocomprefe folto d vno ftedu genere, come
cofe in maggiore, o minore honcltà oppofte, il dir, che colui, che và
mendicando fi raccomandi, Se il dir, chc colui, che fi raccomanda, vada
mcndicandojeilendo cofi il mendicare, come il raccomandarfi, fpetie
contenute fotto'l chiedere* o ver domadare, fi potrà col pigliar l'vna per
l'altra, fare agcuolmente quanto habbiam detto. Si come fece Ificratc in
chiamar Callia Metra girte (ch'importa appretta di noi, mendicante, o ver
Limofinario) in vece di Daducho ( cioè ceroferario, o vogliam dir, porta45 tor
di face, o verdi torchio) . Madicca Callia,ch'Ificratecofidi cendo,
moftraua di non ch'ere inftrutto nelle cerimonie di quei (aeriti ri; :
perche fe inftruto ne futfe, non lo chiamarebbe Metra girte, ma Daducho,
emendo ambidue qucfti nomi contenuti ìotto'l nome d ofiitio, Se di
minifterio nel sacrificio della gran madre Dea, ma 1 vno honorato, Se
honefto, Se 1 altro vile, Se in45 fame. Mcdcfimamcnte coloro, che da gli altri
cran chiamati adulatori di Dionifio, chiaraauan fe ftcflì per ricoprir la
bruttcz zadell'adulationc, artefìci,o ver macftri di quello .li quali
nomi fon ambidue metaforici, ma l'vn trafportato da cofa fordida, et brutta,
Se l'altro per il contrario da cofa honefta . I Ladroni ancora, Se predatori,
per ricoprire in parte l'ignominia del lorocffercitio, foglion nominar fe ftcìE
bufeatorùo per dir meglio, prò 47 cacciatori, oguadagnatori, che vogliam
dire . La onde per U medefima ragione fi può chiamare il peccato per malitia,
peccato 4.2 per errore, Se il peccato per errore, peccato per malitia . Et
di colui, c'habbia veramente furato, fi può dire, Se c'habbia
prefo, 4^ Se c'habbia rapito. Ma quello, che Tclcfo apprciìo
d'Euripide dice di coloro, i quali remauano, o ver vogauano, ch'efiì fignoreggiauano,&
imperauano a i remi, per delccndcr torto nella Mi ila, ha del difdiceuole,
Se dello fproportionaro, pofeia ch'il dominare, Se vfar regio imperio, eccede
di troppo più, che non cóuiene, il vile ellcrcitio del remare, o vogare, che
vogliam dire, 0 Onde non può pallàr nafeo fio l'arti fi tio di tal
metaforica locuzione. Può ancor cadere oltra di quefto nelle metafore
errore intorno alle ftclfe (illabe^uando nelle parole, douefi
truouano, l non dieno inditio di dolce, Se di foauc voce, nel quale error
cad de (per ch'empio ) Dionifio, per cognome Chalcco,
chiamando nei 2 24tDel/a Hgtortca d* Arìttotelcj ne i fuoi clcgi
verfi la poefia, ftridor di Calliope, cflendo ambedue quelle cofe voci, come
che comprefe dalla voce fiano, come 5$ da genere. Laqual metafora fi vede
eller di ferrilo la, non contenendo ledetreduc voci, cioè la pocfia, e lo
ftridore, ne i lor significati, fomigl»anza,o con uenientia alcuna. Appretto di
quello nd conuicn nelle metafore trasportar le parole molto da tòtano,
ma da cose, c’abbian congiugnimene, Se quali parentela con la cosa che significar
vogliamo, Se fian quafi d'vno (letto genere, o di vna ftella fpctie con
quella, nominando le cose in modo chefubi to, che la cosa vien proferita,
appaia a chi ode manifesta la sua conuenietia e fomiglianza come fe ne vede
ettempioin quel famoso, et tanto approuato Enigma, che dice, Io hò veduto
huomo, il qual con fuoco incollaua fopra d'vn'altro huomo il rame,
nel quale enigma s'efprimel appiccamene, che fi fa delle venrofe, iI qual
non ha proprio nome, chiama dunque incollamento lappiccamene delle ventole,
ettendo coli l'vna, come l'altra di quefte cofe, accodamene. Ec in fomma dai
ben formati enigmi fi polTbnp rendei e, Se trarre eccellenti, Se lodate
metafore: pofeiache cflendo le metafore quelle, donde fi forman quelle
oleine proposte, ch'enigmi si domàdano, appar manifetto, che ne i
buo io ni enigmi con lodate metafore fi fia tralportato. Oltra di q
netto fa di meftieri, che le metafore fi prendano, cV fi portino da cofe, che
habbianoin fedeli bonetto, Se non contengano in fc bruttez fi za. Et la
bellezza, Se bontà delle parole, fi come ancor la bruttezza, confitte
primieramente nelle due cofe, ch'aflegna loro LiCi cimo, cioè nel ! non della
voce, Se nel significato . ma vna terza cosa di più è loro ancor necessaria
a questo, con la quale si può di feioghere, et render nulla quella
argomentarion fallace, che fogliono i Sofifti fare, conciofiacofa che vero, et ben
cóclufo non fia, secondo che Brifon voleua, che bruttezza nò fia nelle
parole, uè fia alcuno, eh e fozzam ente parli, lignificandoti, Se dinotadofi o
con quefta, o con quella parola vno ttcflb foggetro, et vna 64 fletta
cofa. Ma quella ragione ha infedcl fallo: pcrciocherrà due parole
lignificanti vn fogge te ftcttb, l'vna più appropriata farà, Se più
fomigliantea quel foggetto,che l'altra nó c,& più ac cómodara, Se
habile a rapprefentarlo, et a porlo quafi dinanzi a gli occhi. Oltra che
fe ben lignificano, Se dinotano vn medeiirao foggetto, nicntedimanco nó cofi
l'vna parola, come l'altra Io fieni fica significa nel medcfimo, o
ver fomiglianre modo, di maniera che perquefta cagione ancora l'vna parola
più honesta, o più brutta, che 1 altra li può (rimare . peroche qualunque
amhedue le parole (lenifichino vna ftellacofa honclh, o vna (Iella cofa
brutta; tuttauia nó ambedue la lignificano in quanto honcfta,o in qtuto
bruc 68 ta,ofepur tal bruttezza, o tale honeftà denotano, non fan
ciò 6p vgualmentc, ma l'vna lo fa più, et 1 altra manco . Le
metafore adunque han da elfer picfe, o ver dedotte da cole, c'habbian del70
l'honeftojdel vago, et del bello ; o quanto al fuon della voce, o quanto
alla virtù, cV potcntia loro, o quanto al fenfo del vede71 re, o ad alrro qual
lì voglia fenfo : concioliacofa che non piccola ditfciéiia li a dal
didurla più nell'vno, che nell'altro de i detti modi, come, perellempio, meglio
fi dirà, l'Aurora rododattila, (cioè che ticn le dita di rofe) che non fi
dirà, l'Aurora Fenicodactila,'cioè che tien le dita di porpora) &c peggio
ancor fi direbbe, 71 l'Aurora erithrodattila (cioè,che tiene le dita
rotte) . Negli Epitheti ancora, o vero aggiunti, fi può trafportar quello
aggmgni7 5 mento, nó folo da cole poco honefte, et da cofe fozze ; come fari 1
(perellempio ) l'epithetodi matricida; ma ancor da cofe mi74 gliori; come (aria
l'epirheto di vendicator del padre.Et Simoni de parimente, mentre che
vidde, che colui, c'haueua conlcguito con le fue mule vittoria, gli
offeriuanon degna merccde,ncequiualenre prezzo, non volfc co i verfi fuoi
celebrarle : allegando, ch'indegna cofa gli faria paruro di fare, in
fpcnder fuoi vedi in lo 75 de di quelle mezalìnc. ma come prima gli
parue,che colui gli offertile conueneuol prczzo,poetizò in lode di quelle,
cominciando in quella guifa. j6 'Ben trattate* et pafeiutes Siate
molti, et molti anni, Di veloci Caualli inclite fi$lic_j; Ec non dimeno eran
figlie 78 parimente d'aline. Puom" ancor fare ilmedefimo effetto d
honeliare,& imbruttir le cofe, col diminuir de i nomi, qual diminuitone è
quella, cheftenua, 6c fa parer minore il male, e l bene; come mordendo,
&cauillando via di fare Ariltofane in quella Coinedia, eh egli domanda
li Babilonij : quando in vece d oro, dice, oretto, o vero oruccio ; in
vece di ve Ite, verticali ola ; in vece di reprenfione, reprenlìoncella ; in
vece di malattia, malat80 tiuccia. Bene e vero che fa di meilierid'auuercire,
et d haucr F f diligente 22 6 'Della ^Retorica
d'^friftotelcj diligente cura, che nell'vfo d'ambedue quefte cofe,cioc
cofi dcU le parole aggiunte, come delle diminutiiic, conuencuol mediocrità
s'offerui. £aj?o 3. c Della fredderà,, overoìnetteT^a* et defetto della
locutione oratoria : et quante* &. quali fìan le oc cafoni, onde e Ha
najea. I UyJ=^Q Vatro fon principalmente le cofe, che poflbn come cau
fc render fredda et inetta, lalocutione Vna caufa conlifte nelle parole
doppie, o per meglio dir, compofte; fi come fc ne veggono cilempi in
Licofrone, quando dice il molti/òrme, o vero il moltiuolto Ciclo; la grandimon
te terra langufticallc, 4 o vero ftretticalle litto . Gorgia LEONZIO (si
veda) ancora chiamauajmendicimufi, gli adulatori, et vfaua quefte parole
falfigiurante, et vcrigiu5 rante. Se Alcidamantc dice, egli con l'animo colmo
d'ira, et con la faccia colorifuoca . dice ancora, ei fi penfaua, che quella
ior così gran prontezza d'animo hauclie da elTer fruttiportante. medclimamente
la permasone dell oratorie orationi,foleuacgli chiamar rerminifera, ovogliamdir
finifera: &la pianura del mare, coloricerula. Tutte le addotte parole
adunque fonoaccommadare alla poefia, perlacópofitione, et doppiezza, che
fi truouain elle. Et quella e la prima caufa della freddez6 za della lodinone.
Vnaltra caufa e poi, laqual confitte nell'vfo 7 delle parole ltranierc,
ouer peregrine, fi come l'vsò Licofrone chiamando Serie, huom pelorio
(parola, che ftraniera in Athcne figniricaua huom di 1 midi rata gtadezza)
Scironc ancora chiamò egli,huoma finmo, (cioè adognvn molefto, parola pur quiui
lira mera.) A lcidaman te parimente chiamò la poefi*,athirma (cioè
giocofa,) dille ancota I Arallhaliadclla natura (riocil peccato della, natura)
&c volendo dire d'vn, c'haucua l'animo da vn mero furor d*ira punto,
per efprimeret il participio, punto, vsò la parola, tethegmenon (parola,
lì come 1 altre due precedenti ftraniera in Attiene). Laterza caula della
fopradetta freddeza ftà porta ne gli Epitheti, quando, o come troppo
lunghi, et troppo da lunga piefi, o come fuor di tempo, et (enza bifogno porti, o
final. i 3 Jl Tcrzj) libro . finalmen re come troppo frà di lor
frequenti, Se inculcati, s'v10 fano. conciofiacofa che apprcllb de i Poeti nò
difeiica il dir (per crfempio (il biàco latte, ma nelle oratorie
orationi,alcuni di così 11 fatti epitheti fon, come vani, difdiccuoli, et alcuni
fe confatieuol foprabbondantia s'inculcherano, diucrran rcprenfibili, come
che troppo fcuoprano,& manifcftino, ch'alia poefia cóuc gano.
Perciòche fe ben conuiene all orationc l'vfo deflì epitheti (pofeiache vengono
a dare vna certa apparenria cTafpctto forcftiero alla locutione,& a trarla
alquàto fuora del cómune,& dcll'vfitaco.) nientedimeno biiogna tentar di
fir quefto co medio1 4 crità, 6c mifura. conciolìacoia che maggiore error fi
farebbe in traboccare in ciò fuor della douuta mifura, che non Ci
farebbe, fe (conlìderatamentc fidicclfe quel, che prima a cafo veni ile
in bocca: perche la cafual locutione non ha il bene,che le conuiene, ma la
troppo ornata ha il male, che le difeonuicne . Et per qnefta ragion gli
ferirti d'Alcidamanteappaion freddi, et inetri» pofeiache ci non lì
feruede gli Epitheti, ouer'aggiunri, come dì condimento delle folidc
viuande ; ma gli vfa come viuande fteffe, così frequenti, et inculcati, così
lunghi, et così aperti, et per confeguente vani, gli pone in vfo.
Perciòche (per ciìempio) no dice egli,i 1 fudore, ma l'humido, o vero il
molle (udore; nedice, agi 1 ! fth mij, ma alla pompa, &folennità de gl'I
fthmij; ne diio ce le legej, ma le leggi regine delle Città, parimente non
dice, li il corfo dell'animo, ma il corrente impeto dell'animo, ne manco
dice fera pi i cernente, ilMufeo(per fignificare quel luogo in Athene
dedicato alle Mu(e,& alle lcicntie)madiceilMufcodel11 lanatura.
medefimamentc non dice, le cure dell'animo, ma le pungenti, et trifte cure
dell'animo, nè dice il largitor delle gratic, ma il d'ogni gcncr di gratie
vniuerial largitore, diccancora 15 ildifpenfator del diletto degli
afcoltatoii. de in vece di dtrc,l a16 feofe trai rami, dice Tafcofe tra i rami
della lelua. e in cambio di dire,gli coperfe il corpo, dice, eli coperfe
le vergogne del corpo. et in vece di dir, la concupifeentia, dice la
contrarintiua, o uer la contra imitatrice dell'animo concupifeentia, in
che concorre infieme, l'elfer parola doppia, con 1 ellerc epiteto, oucr iS
parola aggiunta, onde poetica locution diuiene. Inqucita maniera adunque
c'habbiam veduta, veniuan coloro a trouare, ouer cagionare eccello di vitio
nell'orationc. Onde pai Lindo più % Ff ij tolto torto comodo poetico,
venerper mancanza di decoro, et di con11 cneuolczza, a render ridicola, et fredda
la locutione, et in vno lì elfo tempo a cagionar con quel moltiplicar di
ciancic,& di paip rolevane, oicurczza prù torto, che lucidezza., perche
intefa che gli hà la cola ch'ode, colui, eh alcol ta, ciò che per più
manifellarglielaglis'aggiugne, deftruggc ofctiiando,& ditóni ba in
erto 30 quel, che già prima, di manifelto, et dinoto vi truoua.
Ne/i dee negar,che gli huomini nel lor parlare ordinario nò vrtno alle
volte le parole doppie, ouer comporte, ma ciò fanno, quando la cola, che
voglion lignificare, non habbia nome fempliccjche fia fuo, &oltraciò
le parole, eh iniieme Ci congiungono, fiano atte a far facile,& comoda
compofitionc : come adiuien (per essempio) in quella parola, chronotribin, che significa,
coniumare il tempo, ma è ben vero, che fe ciò troppo frequentemente
li facelle, farebbe al tutto diuenir la locuione poetica. Et da quello
nafee che le parole doppie, &: compoftelono vtiliflìme ai poc ti
Dithirambici, com'a quelli, a cui non difdicc di procedere alti, et gonfiati ne
i verlì loro. Le parole ftranierc poi quadrano, et fono vtili principalmente a
i Poeti heroici, feguaci dell'Epica poesia, per haucr tai verfi in fe del
grande,& del magnifico. La metafora finalmente fi vede clfer più, eh
ad altri verfi, a i Iambici accomodata: cllendo nei tempi nolìri quella forte
di verli accettata,cV porta in vfo, come di lopra fi e detto. La quarta causa
dell'inettezza e freddezza della locutione, depende dall'uso delle
metafore: polciache ancor tra erte fogliono alle volte trovarsi di quelle, che senza
conucneuol decoro fono, alcune per cagion d'vn non sò che di ridicolo, et di
vile, che le contengono ; folendo i Cornici poeti leni irli aneli erti delle
metafore nelle lor comedie. et alcune per il contrario per cagion d'vna
certa gon fiat» altezza, et grau ita tragica. Pollonoancora elfcr defettuofe,&
cagionar freddezza le metafore, per troppa o (cu rezza :& 3$ alhora
adiuien, quando troppo da lontan liprendooo. come (per ertempio) la prefe
Gorgia, chiamando alle volte li negorij pallidi, Se alle volte
fanguinolcnri : et altra volta dicendo, Tu bruttamente feminafti quelli
tuoi negotij, et bruttamente gli gli hai poi mietuti. Le quai metafore non
è dubbio, che troppo 41 del poetico in fe non ritengano, li come auuiene
ancora in quelle, eh' via Alcidamante, quando chiama la Filolbfia, propugnacolo, Jl
lerZjO libro. 22 941 co!o,&: baftion delle leggi ; e l'Odilsea lucido
fpecchio dell'hu 4$ mana vira. Se quando dice, Nellun coli fatto giuoco
apporta al44 la poefia; nominando giuoco il diletto . Tutte quelle metafo
re adunque fono atte a render la locution poco habile a perfuadc4 j re,
per le ragioni, diedi fopra alìegnatc riabbiamo . La metafora ancora, laq
itale vsò Gorgia conerà d'vna Rondine, che nel volar gli haueua fopra la
tetta iafciaro cadere ilerco ; farebbe ftata eccellcntiilìma per vn Poeta
tragico, perciochc le dille, ah Filomena, quelto è ftato vno atto a te poco
nonetto, il quale atto cttendo fatto da vno vccello, non li può domandar
brutto,o poco bonetto ; ma farro da vna Vergine, poco nonetto fenza dubio fi
dee (limare. Buona adunque, et ragioneuol diuenne la riprenfion
di Gorgia LEONZIO (si veda), nominando quello vccello per quello, ch'era
già ftato, &non per quel, ch'eraalhora. (apo 4.. 'Dell'immagine,
0 'ver Comparatane : (f della dtffèr enfia j et conuenientia, ciò ella
tiene con la Metafora . 'Immagine, o ver comparatone, è ancora
ella non altro in fottantia fua, che metafora ; poco effendo differente da
quella. Imperciochc quando alcun parlando d'Achille diccflcegli
impetuofo veniua comevn Leone, farebbe vn coli fatto dire, Immagine : 6c
fc fi dicette, impetuofo venia quel Leone, faria metafora . peroche
ellcndo coli in Achille, come nel Leone, furore, 6c iraconda forrezza,fì vien
trafportando a chiamar col nome di Leone Achille.PolTbn le immagini
accommodarfi,& efferc vtili al parlare oratorio ancora : maalquanro più di
radecome quelle, c hanno aliai del poerico . et nella medefìma
maniera s'hannoda trafportare, et dedurre, chele fteiìe metafore;
non ellcndo elle altro in vero, che metafore 1, differenti da quelle
nel modo detto . Sono adunquele immagini ( per ch'empio )
come quella, ch'vsò Androtione contra d'Idrico, dicendo ch'egli era
li milea quei cani, ch'elìcndo ftati buon tempo in catena, fciolti
fi nalmcnte ne fono, percioche fi comcquelli, fciolti che fono
mor don qualunque perfona venga loro innanzi, cofi Idrico vlcito
di carcere,2 30 Della Hgtorica d!Arittotelcj 7 carcere, e diuenuto
infoiente, et molcfto a tutti. Et come quella ancora, laqualc vsò Theodamantc
alìomigliando Archidamo 8 a Eulfcno, ignudo, &c privo di Geometria. Et
fi può parimente con cambieuol proportione vfare, chiamando Euifcno
Archida£ moin Geometria perito . Coli fatte metafore ancora fi
veggono nella Republica di Platone: douc egli aifomiglia coloro, che
fpo gliono i corpi morti, a quei cani, che mordono i laflì,chc/on rito
rati loro,& a color, che gli tirano non fan danno alcuno . Vn altra vene,
douc parlando egli della popolar moltitudine, dice effer quella fi mile advn
gouernaroroi naue, chefiarobufto di for il ze, ma mezo fordo .& quella
altra ancor,quando in propofito de i verfi de i Poeti, dice, che fon
fimili a quei giouinetti,che fen za hauerfolida, et foftantial bellezza
hanno folamente, vn nò fo che di fiorita vaghezza, che porta quella età .
percioche come pri ma perdon qucfti quel primo fiore, «Se quelli reftano
dalla loro harmonia, et mifura fciolti, nonappaion più ne gli vni, ne il
gli altri, i medefimi, chappariuan prima . Mcdelìmamcnte Pericle parlando de
gli habitatoii detllfola diSamo,gli alTomigiiauaai bambini, ì quali non ricufan
di prendere il cibo, eh è i 3 porto loro in bocca, &: mentre che lo
prendon piangono, diceua ancora eflere i Beotij limili a i Lem : conciofiacofa
che i Leui da fe tteflì co i rami loro fi perqtiotano, et fpezzino ; et i
popoli di Beotia nó celli n di contrattare, et combattere 1 vn con tra
l'altro 14 fempre . Demofthene parimenteaifomiglia il popolo, o ver
la moltitudine della Città a coloro, che nauigando paton continua naufta.
Et Dcmocrate diceua eflcrfimih gli Oratori alle nutrici, lequali
fucchiano,& inghiottifeon per compagnia con elio mi parti), nelle
quai parole fi vede, che più particelle s'interpongono prima, ch'ai fin fi
renda quello, che vi safpetta. 2 $2 'D> s'afpctra. et Te
cofi fatra i nrcrpofitione fi ftcndclfc molto in lungo, prima che fi rendefle
il verbo (mi par ri;)fcnza alcun dubio 11 ofeura ncdiucrrcbbc. Quello è
dunque lapri ma cofa nccellària alla purità della locutionc, polla nelle
particelle congiuntiue, o li congiuntioni, che le voglia in dire. La
feconda conlille poi in nominare, et lignificar lecofe con gli fteflì
fcroplici, Se ignudi nomi loro, et non per modo di circonfcrittioni, et di
delcnttioni. La terza ricerca apprendo, che nella locuiozne fi fugga l'ambiguità.
et le dettecole han da ellèr fempre oflèruate ; fe già le colf trarie di quelle
con detcrminato conligho non fi eleegelfero. il che far fogliono alcuni,
quando non J unendo cofa che dire, voglion pur parere, et inoltrar di dir
qualche cofa. Et co fioro in far ciò vengono a far parer la lor locu non
poetica : &c tra 1 poeti fa quello malli inamente Empedocle,
conciolìacofa che quel circuito, et giro di parole, che troppo abbraccia,
agevolmente inganni : accafeando in quello a gli afcoltatori quel, che fuole accalcare
a molti, quado in odiie gl'Involtini, et pronofticatoti del futuro,fenton
dir le cofe ambigue,& dubbio(e,& in anfibologia raccolte: che fc
bc nó le intédono,dàno nondimen loro alfenlo. j 9 vna così fatta locution
fu quella, Ci clo pallàio il fiume Hai 1, a vn 20 regno opulcnriflìmo da
ri fine. et acciochc manco polli apparir l'errore,& la falfità delle
lor predizioni, per quella ragione han per co fin me quelli, che
predicono, et pronolticano ilfuturo,di 2 1 dir le cofe fempre più in
genere,& in vniuerfal,che pollone pofciachencl giocare al paro, et imparo,
o verdilparo, o caffo che vogliam dire, puòfacilmente pi 11 indouinar
colui, che pronuntia paro, oche pronuntia imparo, chequell altro,che più al parli
ticolar venendo, a fpecifico numero voglia determinarli. 6c più farà
parimente per indouinar colui, che dirà la tal colà hauere ad ellère, che
chi fpecificando il tempo,dirà quando la fia per ef (ère. et di qui è, che
gli oracoli, et gli indonnii, non determina* 13 no nelle lor predittioni
il quando. Tutte querce locuhoniadun 14 que vna fomigliantc ambiguità
coregono, et per quella cau la (chinar li dcono, fc già per qualche fine a
iòmmo ftudio non lì 2j eleggcllcro. La quarta cofa vtilc alla purità della
locutione ftà pofta in dillinguere i generi de i nomi, fi come Protagora
gli 1 iibn^ucua in mafcolini,feminini,& neutri: pofciache cobi lacti
ge %6 Ben ancora, fa di bilogno, che quella conucncuolczza nel parlar lar
fi rendano, Sz s'allignino, che fi dee loro : come (per essempio) dicendo, ella
venuta chetò, Se fatia di confabular, lì par1$ ti. La quinta cola finalmente
(là collocata in bene efpnmere nelle paro!e,la pluiitàja pochezza (cioè la
dualità) et la (ingoiami, o per meglio dire vnità delle cofe. come (per
ch'empio) dicendo, eflì amuati, dicderdclle battiture. Hora vniucrlaimente
parlando q uelle cofe, che fi dicono^o lì fcriuono,fa di mcllieri, che fiano
ben legibili, Se ben proferibili, che l'vna di quelle 3 t cofe, non
puòftar lenza l'altra, et mal potrà quello auuenire in quella locutione,
doue molte congiuntioni, o vogliam dir congiuntine particelle, implicate e moltiplicate (i troueranno: 5 1 ne ancora
in quelle, doue diffidimele lì potran conolcerc le ÌQr tcrpuntioni, Se
dillintioni trà parole, Se parole, per meglio intender' li (entimemi, li come
fi vede auucnir nelle co(c,che fcrif Ce Eraclito: concioliacofa che fatica
lia di puntare, A: diftingue re gli feri tri fuoi, per non li poter chiaro
vedere in clTì con qual parte, o con quella che fegue, o con quella, che
precede, fi deb» 34 ha comporre, o adattare qual fi voglia parte, come
(perclTèmpio) li vede nello Hello principio dell'opera, doue ci dice,
Della diuina mente,chc nel fuoeficr li con ferii a e li lìen te (empre
incapaci, et incomprenfiui fono gli rinomini. Nellequai parole non li vede
ben chiaro con qual parola s'habbia nel puntare a congiu gnere la
particella femprc, cioè ocon efiftente, o con incapaci. 35 Olrra di quello
fi cornette nella location foleci Imo, o vogliam dire, incongrua, et imperfetra
politura di parole,ogni volta eh a due, opiù cole, che rcfpondentia d
altre cofe ricercano, non (ì rende aciafeheduna la(ua correfpon dente : le
già non Ce n'andalle loro vna, ch'ad ambedue comunemente s accomoda Ile,
Se $6 quadralle. come per elfempical mono, Se al colore 1 cllcr
vedu ti non cconimune, ma l'eller lentiti, ad ambedue cómunemente quadra.
Apprcllo di quelìo ofeura, Se poco manifclladiuicn Ja locutione, quando
occorrendo d hauere a congiugner molte parole pervn fentimento principale,
non fi pon verlo l principio la parte, c ha da chiuder quel fenrimento, ma
tutte quelle 38 parole s'interpongono nel mezo tra'l principio, eh
abbia io. Ce del brutto, Se dellabomineuole, fcciò farà pcrapparir maggiormente
con fa divininone, farà bendvfareil nome Se fc per il conciario farà per
apparir pio 6 la bruttezza col nome, doucrà prenderli la diffinitione .
Vtileè ancora all'ampiezza della locutione, il rcderla lucida, Se manifellacon
le mcrafore, &con gli aggiunti, pur che s'auuertifca, et fi guardi di non
entrare in hi quello dentro ai confini della poeila. Giona parimente alla
medehma ampiezza, et grandezza, il nominare vna cofa, come fé la fulfe non
vna,ina mo!te,come fo8 gliono fpefloi poeti fare; dicendo per cflcmp!o y gli'
Achaici ? porti, intendendo nondimcnovn porto folo. Et quell'altro Poeta
dice, in tendendo d vna fola lei ttra, ot;cro epi (loia, quelìc Ict10 tcre
piene di lamenti, Se di pianto . Reca oltra quefto alla già detta ampiezza
giouamento ancoraci feparare alle volte co qual che particella vn nome da
vn'altro nome Tuo aggiunto: come 1 1 auuerria dicendo,la conforte la no
(tra. dotte che fc vorremo hatier più alla brcuità,ch'all'ampiezza rifpctto,
diremo, la conferii te noftra.. Giona oltra ciò alla detta grandezza il ligare
alle volte le parole con la particella copulatiua: li come per il contrario rio
alla breuità e vtilc il dir fcnza così fatte eopulationi, pur che i j non
redi la locution dilciolta, Se dilfoluta in tutto, diremo adunque per ch'empio,
a ingrandirla, Se vi andai, et t>arlai con elfo. Se pcrcagion di
breuità diremo, Andatoui parlai conef. 14 fo. Vtihilìmo ancora alla
medefima ampiezza della locutione, fi dee ftimare l artifitio, ch'vfaua
Antimacho inalTegnare alle cofe, per mancanza ch'elle habbian d'accidenti,
le priuationi di quelli, che le non hanno, il che fa egli quando parla del
colle 1; Tcumelfo in quei verfi, che cosi cominciano, S
ergequiuivn itf certo picciol ventofo colle, Se quel, chefegue. Et fi può
con quello artifitio ingrandir la locutione, quali ch'in infinito.
Se ciò non folo nelle cofe buone, Se che lodar fi vogliono ; ma ancor
nelle cattiue, che a biafmar s'habbiano : alfegnando loro, cofi alPvne,
come ali altre, le priuationi delle qualità, che non fono in elle, fecondo
ch'il far più l'vna cofa, che l'altra ci farà 15 vtile. Et daquefta
maniera d'aitifitio hanno prefo occafionc i Poeti di dedurre, Se formar di
nuouo parole priuatiuc: come pcrelfcmpio, chiamando il canto vocale, con
cento accordo,cioc lenza corde, Se aliro, cioè fenza lira, formando le
parole col mezzo della privazione. Et è atta quella cofa a portar lode, et vaghezza
a quella forte di metafore, che diproportion fidoman» dano: come farebbe
in dire, che il fuon della TróbafuiTe vn fuo* no, o vero vn canto aliro,
ciò fcnza lira • (apo 7. Del deecoro della locuzione oratoria, et quante,
£tf quali fiano le conditioni, le avvertenzie che per Jua cagione fi
ricercano . qual fìa la locution proport tonata > quale la cottumafa 5
et qual la Pathetica, 0 vero affettuofa . » ] m»L 1 S*j^^3EcoRO fi
potrà dire, c habbia la locutione oratoria, j j^ )quana 0 la farà
pathetica, (o voglia dire,bcne efprcfliua gj^^B d'affetti) quando la farà
coltumata, Se quando alle cofe 1 loggette, delle quai li tratti, farà
cóformc,&: proportionata. ProG g ij portionata 2$fT>eIIa r Retorka
d'Arttlotelz^ portionara primicrameic farà ella,quando delle cofe
ampie,gran di> et magnifiche, non fi parlaràcon Itile, Se maniera
humile, àc vile : riè delle balTe, picciolc,& vili, co maniera graue,
fplcdida, | cVgrade. Et quando parimele ad vna parola d'abbietto,
humil fignificato, non fi darà ornamento, Se compagnia di parola,
che maieltà habbia, Se grandezza . peroche quando quello fi
facefie, 4 verrebbe ad apparir comica locutionej come era folitodi
far Cleofone,il qual moire cofe diceua fimili a chi dicerie li vencran$ di
fichi . Pathctica, o vero cfprelTìua d'affetti la locution farà,
fe hauendo ella a moftrar,chc fi lìa riceuuta contumeIia,farà
efpref 4 fina, &e piena d'iracondia : Se fe hauendofi a far mcniion di
cofe, c'habbian dell'impio, Se del brutto, lì diranno con vna certa
indegnationc, stomaco e nausea e qua(ì sforzatamente, Se có ve recondia.
Scper il contrario con vna certa apparente lctiria d a8 nimo, fe di cofe
honorate, Se lodcuoli fi donerà parlare . Se le co femiferabili, Se
calamitofc, con vna cena liumiltà, Se iommiflìó d'animo fi proferiranno.
Se il medeiimo intender fi dee dilcorré9 do per gli altri affetti . Et ha in
vero gran forza vna cofi propriamente efpreflìualocutionc a procacciar
pcrfuafibilità, credenza,óc fede alle cofe. peroche elfendo notoagli
afcoltatori, che per il più le perfonc, che ii ritruouano nel tale
affetto, foglio parlare in quella maniera, che fenton parlar roratore,concludon
có falfo fillogifmo nell'animo loro,chc tale affetto lìacò verità
parimente in lui . di maniera che fe ben non è veramente la cola nel modo,
the l'orator la moltra, o la dice, cglin nondimeno fi danii no a credere, che
cofi fia . Et pare che foglia fempre chi ode fentirfi in vn certo modo
commuouerc, implicarli, Se diuenir partecipe di quello ftelfo affètto, ch'egli
(limi elitre in colui, che patheticamenre parla, ancor che veramente non vi
fia,& non fia ve 13 ro quel, ch'egli dice. Onde molti oratori foglion
cofi commuoucre, Se perturbar d'affetti color, che gli odono, che ftupidi,
Se 14 quafifuordi fe fpauen tati gli fan reftare. Coftumata
locution domanderem poi quella, la qual come con inditio, Se con
fègno i coftumi moftra, folendo feguire a ciafenn genere, òv a
ciafeuno ij habito, locutione ad elfo appropriata, Se accommodata. Et
per genere intendo io, fecondo l'età, come a dir fanciullo, d'età virile,5c
vccchio-,fccondo'l fedo, come a dire donna, o h 11 omo; fecódo la nationc, come
a dire Laccdcmonio, o Thcllalo . Per habiti intendo io poi quelli, Hai quali
può chi fi Ha denominarti nel cale, onel tal modo qualificato nel viuer
Tuo : pofeiache nò tutti gli habiti pollbn la vita dell huomo da qualche
qualità denomi17 nate, et determinare. Ogni volta adunque che le parole s'accomoderanno,
et s'approprieranno a quello, o a quello habito, fi troucrà coftumc nella
locutionc : conciofiacofa che non le mede lime cofe, et nel medefimo modo
dette farà per vlare vn'huomo rozo, et nutrito in villa, che Tfcrcbbc
vnohuom perito, &: clip uilmcntcdiiciplinato . Suol fai e ancora impresone,
Se effetto nell'animo de gliafcolratori quel, che fuole eiler da coloro,
che cópongono orationi principalmente per lafciarle fcrittc, con falò
tieuolfrequcntia, et abbondantia vfato : quando dicono, Chi e quello, che
quello non fappia? a tutti è nota quella cola . perciòche colui, che ode dir
coli, ancora egli nell'animo Tuo vi allenti fcc,comc quello,ch'in vn certo
modo fi vergogna di no elTer parli tecipe di quello, che tutti gli altri fanno.
Ma l'vlare vn'artifitio tcmpeltiuamentc, o intempefliuamenre è commune,
non folo a quella auuertcntia detta, ma a tutte l'altre, ch'appartengono
al decoro. Bene e vero, ch'ad ogni trabocco, che nuoca al detto
de coro, può recare alquanto di remedio, de di medicina quel, che
{ 14 fuoleeifer trito, et commune in bocca d'ognuno.
Etèchcfàdi mellteri, chel huom nel dir l'errore riprenda, 6c corregga fe
ilcf* ij fo? perciochc vedendoli, cha colui, che parla, non iia nafeoflo
quel, ch'egli fa, poi che egli con la correttion lo dimoftra; vie per
quelto ad edere (limato vero quel, ch'egli dice . Oltra di quello e ben fatto
di non vfare inficme, &in vno lidio tempo tutte quelle cofe, che
poflon giouare a far la locution proportionata : Ferciochc con quella
auuertcntia verrà meglio a natconderfi alafcoltator l'artificio . voglio dir,
per elle m pio, che fe le parole faran dure, afpre, et terribili, farà
bene, che terrore, Se durezza non appaia ancor nella voce, et nel
volto,& in altre cofe, che pa rimente fian conformi . altrimenti fi
verranno a difeoprire, et a paleiar cucii gli artifirij, come gli Hanno.
Ma fe delle cofe propoitionatc le vnc fi prenderanno, et l'altre nò, fi
nafeonderà l'ar30 tifino, vfandofi nondimen maggiormente quello.
Bcncèvcro chele le cofe piaccuoli, et priuedi durezza, éc di
turbulenria.làran dette có parlare, alpro, horrido, et duro, o ver per il córrali©
co parlar mice, et quietone dure, noiofe, et afpcre j priua diucrrà
. Della c R(tprica d'Ariti otelts 1 1 ucrra la locutione di
pcrfuafibilità, Se di fede . Frà le parole poi, Ieaggiunte,o ver gli
cpitheti, le doppie di più compoite,& le (ha niere, a colui
maffimamentc quadrano, clic pathecicamcntc, 8c 3 1 có efprcflìon d'affetti
parla, percioche ad vn grandemente irato, farà dato perdono, fé tirato dal
furor dell'ira, per ingrandire vn male, lo chiamerà con parola doppia,
Empiecielo, o con parola ftranicra, pclorio, cioè vailo, 3c immenfo, ch'c
parola (tramerà in Athcne . Polfon quadrar coli fatte parole in vn'altro
caio an» cora, 6c e quando colui, che parla conofeerà di po(Tedcrc,&
d'ha uer già tirati a le gli animi degli afcoltatori,& d hauergli in
Comma qua(i rapiti fuora di loro ftefll, o con lodi, o con biafmi,o có
ira, o con amore, o con quafaltro mezo fi voglia : fi come fa Ifocratenel fuo
Panegirico verfo'i flne,& {penalmente in quella par te, che comincia,
La fama,& la memoria. et in quell'altra parte, 3 5 Quelli che
loftennero,6c quel che fegue . percioche coli fatte impctuole, et vehementi
parole foglion mandar fuora coloro, che cómoflì, et alienati quafi di
mente per qualche potente affetto fo no : et per queflo non è raarauiglia
le coloro, che odono,cómo£fi ancora elfi da vna limile alienacion di fc ftelfi,
le accettan per vere, et le appruouan col loro aifenfo . Onde corali locu
tioni alla poefia grandemente cóucngono, hauendo in fe la poefia vn no 17
fòchedi fpirito, et furordiuino . Incofi fatti cafi adunque può hauer
luogo appreflb dell'oratore vna cotal maniera di loamone et in altri nò :
fegiànó facellcegli ciò códiflimularione, tk con ironia, nel modo, che
Gorgia foleua fare, &c come li vede nel Fedro parimente vfato. {apo S.
Del numero, et ritmo oratorio : et in che fia differente dal metrico de i
Poeti : et d'altre co/e appartenenti al ritmo a gli Accenti . [SS A
forma, Se la figura del parlare oratorio ricerca de (fere, nè cofi
miiuratamentc numerofa, come fefullc metrica,nèfenza numero, et ritmo in
tutto. percioche l'elTcr metrica tolle Yialaperfuafibilità, et la fede,
apparendo in tal Jl Terz^o libro . 2 5 tal guila finta, et piena
d'arrifitio. Er inficine olrra ciò viene a diftrarre,& a diftoglicr gli
auditori daU'atrcnrió delie co fe,che fi dicono; mentre che falor por l'animo
ad attederete afpettar,che ù, 4 mil mifura di nuouo torni. di maniera che
in preuedcrc&afpcttarquel fine, auuicn Ioro,quel, che fi vede accalcare a i
fanciulli, quàdo nelle parole del bàditore, antiueggono, et preoccupano
il nome di colui, eh e eletto per aduocato da chi fia alla libertà dona
. $ to,come a dir,per effèrapio,il nome di Cleonc-L'elfer poi la
loca tionepriua,& lcioltain tutto di rituio,cV: numero, porta fcco vna
; certa infinità fenza termine ; il che a coi! fatto parlar
difcóuiene, douédo egli per ragione haucre i fuoi fini,*& i iuoi
termini, ma no giàmctrici:pofciachepoco foaue,& pocomanifeito,&
noto è l'in 6 finito ; ne con altra cofa prendon fine, de termin le cofe,
che con lo Hello numero ; ne altra cola è il numero della figura della lottinone
oratoria, che ritmo, di cui li metri ancora, et li verfi Con 7 parti . Dee
dunque l'oratione hauer ritmo ; ma nó già quella fpe rie di ritmo, che fi
domanda metro : pofeiache quando quella ha neire, diticrrta poema. et il
ritmo, ch'ella hà d haucre, fa di meftier, che fia, nó grandemente cfquifito,
et efatto, ma fino ad vn 8 certo ragioneuol termine. Hor frà i rithmi 1
heroico primicramente hà in fc del grande, et no molto è atto al parlar, che
fia fcioltoda metro, et pare, c'harmonia in fua compagnia ricerchi. i
o 11 Iambo poi è tanro domelrico all'vlitato parlar della moltitudine, eh e
quafi vna ItelTa colà con cito . Et da quello nafee, che irà tutte le
forti, et fpetiedi verfi, maflfìmamente più d'ogni altra, fuol cader
frequente nel trito parlar comune, quella de i verfi iaII bici. Dal qual parlar
comune della raoltitudine,dec l'oratoria locutionedifcoftarfialquàto : douendo
hauerein fe qualche granii dezza, cVgrauità più, che nó hà quello . Il trocheo
poi par, che per la fua celerità fia più atto, et accomodato
adaccompagnarfi ij con le laltationr, che alla locutione, della qual
parliamo. &di ciò nefainditio l'elTere ilverfo tetrametro fopra tutti
gli altri . ritmi per natura fua fai ta torio ; ilqual di trochei
principalmcn14 te abbonda. Retta dunque il Peane, ilqual molti, fenza auucrtirlo,
ne dargli nome, han feguitod'vfare* cominciando a far ciò daThialìmncho,
che fu il primo : quantunque co chaobiam detti, continuato concili nel
terzo luogo 10 li 240 "Della Ugo/tea
d'Jrittotek 1 6 luoeo, come quel, che contiene in fc la proportione, o per
mec l,o dir la ragione di tre a due. conciofiacolachc 1 vno di quelli di
l'opra dctti,cioc l'heroico, contenga la ragion, che tiene vno ad vno, Se
l'altro cioè il Iambo, o 1 Trocheo (eh vguali nella mifura fono) contenga la
ragione di due ad vno . alle quali due raCioni feguea canto per ordine, come
terza la (cfquialtera, et que,8 ftantlPeane fi contiene. Gli altri ritmi, et m.
Iure dette adunque, repudiar da noi, Se laiciar li dcono,fi per le cagioni di
(opra io aWate, Se fi ancora per ciVer metrici, Se atti al vedo. Et il
Peane dcbbiam riccuerc ; come quello, elicalo fra tutti 1 ri tmi, c habbiam
nominati,non fuolc entrar nel vcrfo:&: per conlcgucntc po trà
inaflimamente nafeonderu loueruantia d'elfo . Hor nell vlo, eh al prefentc
fi fadcl Peane, non è pofta in vfo, fc non vna (ola fpetie. Se quella
folamente nel principio del periodo : douendo nondimeno elTer differente
il fin dal principio . S. miouan dunque due fpctic di Peancoppolte in vn certo
modo fra di orotdcl le quali 1 vna conuiene, Se quadraa i principi), u
come al prelcnx 1 te l'vfano: Se è quella, la cui prima f.llaba è lunga, Se le
tre altre, che (V R uon breui . come fi vede, per elTempio, in quelle
greche parole, Dalogenes ite Licic, (ch'in noftra lingua (uonan, nato
m Delo, over di Licia) et inquefte altre, Chrifeocoma e caete pc dios
( eh in lincrna noftra fuonano, Ornato di chiome d oro, rial eliuoldiGioue).
L'altra fpetie di Peane è quella, per il contrario di cui le tre prime lillabc
fon breui, £v 1 vltima lunga j come, per eirempio,in quelle greche parole,
Meta de gan h.data t oceanon iphanife nix, ch'in noftr, lingua importano, (opra
la terra, et l'acqua, bloccano precipitò la notte. Et col» fatta (pene
di Peane quadra accommodatamente a chiudere, Se terminare. * c
concofiacofa che non cllcndo la (ìllaba breue d integra,* perfee tam.fura,
venga in vn certo modo a render tronca >*C mutilala % 6 la
locutionc,felaf.poncìn fine. Se per quello fa di b.logno di . 7 farla
pofarc,* terminare con lafillaba lunga,accioch* l'altra raccolta, £5* in
fi ritorta, et periodica . £cf che co fa Jia periodo, £c? de i membri, che
fin parti • di quello . et di più maniere qualità di periodi . I
tO^tttì ttf tX't t ' ' i 1 IO Zi lì Itili * 'Ij'ùtlltlf * Uìl»f»f'««J} ?
tìyM 'Vna di due forti è neceflariamente forza, che fi rruoui la
locutione : cioè o pendente, Se dirtela, in guifa che con l'aiuto delle
congiuntine particelle habbia la continuità, et l'vnitàTua, nella maniera che
fi veggono cller le Anabale tra le dithirambi che Cantilene : o veramente
in fe ritorta, &l quali raccolta in giro, a quell'altra forte di
dithirambiche cantilene fomigliante, le x quali Antiftrofe fi domandano •
Di quelle due locutioni, la pendente è molto più antica, e d’Erodoto Thurio
vlata, come fi vede, quando dice, Quella farà 1 efplicatxó dell'hirtoria,
et quel, 3 chefeguc. Et da tutti in quei tempi erada prima approuara,
Se porta in vfo . ma ne i tempi d'oggi non molti fon rettati più,
che 4 l'vfino. Hor quella diftefa, et pendente locutione intendo
io etVer quella,che termine,o fine alcuno per fe (Iella non reca
mai, fin che la cofa, che fi cfplica,& che s'efpone non termini nel
fenj timentoCuo. Et è veramente poco per fe gioconda, per l'infinità) et intcrmination,
che tiene: defiderando per natura tutti 6 di conofeere, et preueder dalla
lunga il fin delle cofe. Et da quello nafte, che coloro, che per arriuarea
qualche termine > et a qualche meta corrono, Cubito, ch'arriuano alle Cuoltc
delle ftrade, fi fenton rifoluer gli fpiriii, &quafi auuiliti lafcian
di ritener più il fiato: come quelli, a cui prima parendo loro
di vedere il fine, c i tei min del corfo, non parca per conCcguente
di 7 Cernir fatiga* Tale adunquequale habbiam detto s'hà da Iti
mar, 8 che fia la locution pendente. La in le ritorta, et raccolta poi
è $ quella, che in periodi Uà collocata, et di periodi fi compone,
tic per periodo intédo io vna locutione, che in fe rtclla raccolta,
pof H h legga 2^-2 ^ez^> 10 feggavn fuo proprio principio, Se
vn fuo proprio fine, &fiadt grandezza tale, che facilmente tutta
inficmc comprender con 1 1 Fintelleteo, Se con l'apprénfion fi porta.
Quella periodica locutionc adunque ha in le del foaue, Se del giocondo, Se è
infierae11 mente bene apprenfibile, o percettibil, che vogliam dire . Soauc, Se
gioconda è ella primieramente, fi perche elfcndo ella in Ce finita, viene
ad effer contraria al non finito, Se non detcrmina1 3 to, ch'è per fé
noiofo;& fi ancora perche airafcohator' odendola^ par fempre>di
pofTeder di nuouo con l'appenfion qualche cofa, per caula che Tempre
periodo per periodo viene a (coprirti qualche termine : doue che perii
contrario il non preuedere inditio di fine alcuno, Se il non terminarti,
Se fpcdirfi nulla,hà in fedel14 l'infoaue, Se del difpiaceuolc
Beneapprcnfibile,cv ben percettibile e ella poi, per poterfi fino al fin luo
con facilità ritener nella memoria. Et quello le adiuicne per haucr ne i tuoi
periodi mi fura, Se numero, ch e la cofa, che fra tutte l'altre e atta a
dar bc1$ ne imprefla nella memoria. E da quello viene,che ciafehedun molto
meglio conlerua nella memoria i verfi, che la profa, Se il parlare
fciolto, per haucr' i verfi più efatto numcro,chegli mifura. Hor'ei fa di
bifogno, che il periodo fi diffonda. Se s incorpo ri con la fentcntia in
modo,chc con ella proceda faluo,& fini Ica infieme, ne in modo alcun
la fpczzi, o la rompa, o la laici lenza feguirla, andare: come fi vede auuenir
ne i Iambici verfi 17 di Sofocle, Calidonia certamente la terra che già fu
habitata daPclope. perciòchc può per la diuilion fofpicai fi il
contrario di quel, che fi drcan, come a dir nel detto eifempio, chcCalidoI
j nia fia terra del Peloponneflo. De i periodi poi, alcuni fon comporti di
membri, Se alcuni altri fon femplici, o vgnoli, che volo gliam dirgli, di
membri cópollo s intede cfler quello periodo il quale elfcndo perfetto, Se
finito in fc fldfo, Se dilli nto nelle parti fue, viene ad elfcr con commodo,
Se nonratigofo o impedito fpirito proferibile. et ciò. nelle diuife, Se
inrenotte parti fue, fi come adiuien nel periodo pure hora per eifempio
addotto, ma nell'intiero giro fuo . Et di cofi fatto periodo le parti Con
quelle> che fi domandan membri. Semplice, et vgnol periodo intcdo io poi
erter quello, che Ila raccolto in vn membro folo. Quato alla grandezza poi,
deono clfer i membri, Se li periodi non cosi corti, che parer pollali monchi,
Se troncati, ne troppo pa rimente Jl 7crzL,o Ithro . . 3 if
rimente lunghi, conciofiacofa che i troppo corti, fogliari fare in li vn
certo modo virare, Se inciampato 1 ascoltatore in odirgli. per cioche
quando procedendo, Se difeorredo egli con l apprenfion dell'animo in
lungo, verfo la mi fura di quel termine, alqual già nella mente,
s'haconceputo, che debba feguir colui, che parla, fe in tal cafo dà
d'intoppo nella cedanone et «ci finir di quello, prima ch'ei non
s'afpctta, e uccellino, che come ributtato da ta le odacolo, in vn certo
modo quali inciampi, Se arredi. Dall'altra parte i periodi troppo lunghi
vengono a lafciare,& a far rima nere l'auditore a dietro, nella
maniera che tra q uei, che infieme paleggiano Se fpatij finno trapalando
alle volte l'vno d'elfi più olrra del rcrmin (olito, prima che in dierro
torni, vienea Ialciar, et abbandonar quali gli altri, che palleggiano, Se fanno
fpatijfcco. Mcdelimamente hanno i periodi troppo lunghi, quello d
imperfcttione,chc finno apparentia più tolto di fermoni interi, che di periodi,
che fon pam d'elfi, Se iì polìbn perquedo assomigliarc a quella forte di poema,
che fi chiama Ànabole. onde fi può a coli Tatti periodi accommodar quel mordace
detto, ch'vsò Democriro Chio contra di Melanippide; il quale in
vece d'Antiftrofi s'affarigaua in comporre AnabolcdilfcdunqucCoftui, che
noia, et fatica fabrica ad altri ; fariga, Se noia fabricaa fe medefimo .
Se in vero le lunghe anabolepeflìme fono al Poeta, che le fa. Qitcdo medefimo
può co ragione ancora adattarli, de dirli contra di quelli, che troppo
lunghi membri dicendo fanno. Dall'altra parte i periodi, che troppo brcui
i Ior membri tengono, non meritan d'elTer domandati veramente periodi, cioè
giri, &circuiri, mandando pertrauerfo precipiti gl’ascoltatori. Hor di così
fatte locutioni, che fon compofte di mcbri, Se per quello fi podbn membruti
periodi domandare, alcune fono fcioltejibcre, Se difobligatej Se altre
fottopofte a oppo3 3 da contrapolìtione. Sciolte, Se libere farien, come a dir
(per ef. fempio) queda, Spelte volte hò io hauuto in ammirarione coloro,
Che quede ibléni adunanzepanagiriche hanno ordinato, Secolor parimente, che
quedi eiTercitanui giuochi, Se conrefe han no inftimito. D'oppodapoi
contrapofmon fon quelle, negli vni, Se ne gli altri membri de le quali, o fi
fan corrifpondef gli vni contrari] a gli altri, o vna delia cola fi fa
corrifpondere ad am3 5 biduc i contrarij. come (per elfempio) l'aria dicendo, A
gli vni,effa borica d'Arinotela Capo io. DeltVrbanita della locutione
oratoria, che co/a la fia^tn che confijla ; quante coje pojfon concorrere
a rendere il parlare orbano . Avendo noi già detcrminato di quelle
cofea bastanza, fegue, che inoltriamo al prefente, onde procacciar
quelle fi poffanoje quali fono atte a rcdereil parlare vrbano,& a farlo
apparir vago,&gra tiofo, perciochel yfare, &porreinarto I
vrbanità del dire, e cofa dahuomo, che fia, o dalla natura bene
inftrutto, Se accommodato a quejlo,o dalla lunga confuetudine aciò artue fatto,
cVerterci tato, mail inoltrare li precetti, et le vie, che fi han da
tenere in farlo, a quella prefente arte, et methodica via J appartiene.
Direm dunque di quello al prefente, et affineremo, et raccoglieremo quelle
colè, che poffono a ciò effere vtili, 4 pigliando alquanto da alto il
principio in quella maniera. E cola per natura a tutti gli h uomini grata, de
gioconda il facilmenteimpararc: et e/Tendo le parole inditij fignificatiui di
qualche cofa ; ne fegue, che giocódiflìme ci fatan tutte quelle parole,
che * cauferan lo imparare, cioè nuouanotitia in noi. Kor le
parole uranierc mal polìon far quelìo, come quelle, che ci fono
ignote: 7 et le proprie ci fon già prima note . ma le parole metaforiche,
o 8 ver trafponate, fopra tutte l'altre lopoffon fare, peroche
s'alcun ( per cllempio^ chiama la vecchiezza ftoppia, o ver biadegià
fcc che, viene a fare, a chi ode,imparare, et gullar nuoua
notitiaper cagion di quella cofa comune, che comè genere Ila lor di
fopra: efrendoambeducxio ècofila vecchiezza^comc la ftoppia,o ver tal
biade, cofefattearidc, &giasfioritc. Fannoancorqucfto me defimo
effetto Jc immagini, o ver comparationi de i Poeti,: per quella cagion,
quando fon ben formate, po/Tbn fare apparire il parlare vi bano; come
quelle, che fecondo c'nabbiam già detto prima ; fono in foftantia metafore,
differenti folo da elle, per 11 quella poca d'aggiunta, che le ricercano.
Onde viene a parer l'immagine manco gioconda, per la Iunghezza,nella qual
lì (rende j Jl Terzj) libro . iz de; n è dice breuemenre quella cofa
eller quella: onde non ha 1 3 occalìon l'incelicelo di chi ode di cercare,
et apprenderci quafi guadagnarli la cofa egli ftellb . Neceflàriamentc adunque
quei modi di locurioni, et quelli Enthimemi fi deono Itimare vrbani, i
quali co facil prefiezza ci pollon fare imparare, &c qualche 1 j nuoua
notitia acquilìarc.Et per quella ragione nè quelli enthime mi, che fon
troppo fuperficiali, et patemi, polFono vrbani,cV'gra tiofi apparire: ( òe
per iupcrliciali intendo io l'elferea tutti apertamente noti, Se leder di cola,
che nó punto importi il faperla, o l'inucltigarla ) ne parimente quelli, 1
quali proferiti che lono, 1 6 ofeuri nondimeno,& non manifefti reftano
: ma folamentequel li, li quali mentre che fi proferifeono Tono
infiememente apprefi, quantunque prima non le nhaueirc notitia alcuna:
oalmen poco doppo, che proferiti lìano, fon dall'intelletto di chi ode,
Se 17 có l'apprcnfion gli fegue, arriuati. Da qucfti enthimemi adunque li
viene a guadagnare, o inficme, o poco doppo,qualche notizia di cosa, che prima
non fi fappia . doue che da quegli altri, che poco fa diceuamo, nè
nell'vno, nè nell'altro modo li può tal 18 guadagnofarc. Quanto dunque
appartiene alla fentcntia,& feti timento della locutione, quelli c
habbiam detti fono gli cnthi12 memi, che fi pollbno (limare vrbani. Quanto poi
allaltellalocutione, rifpetto prima alla figura, Se forma di quella ; alhora vrbanità
vi fi trouerà, quando vi faràinfcrta cótrapofition di conio trarij : come, per
ch'empio, dicendo, Quella, che da tutti in pu blico è (limata per pace, da
colloro in prillato e giudicata per guerra : doue fi vede la cótentione, o
ver còtrapofitione,cirendo 2 1 la guerra cetraria alla pace. Rispetto alle
parole vi fi tremerà primieramente, fe vi fi conterrà metafora, et tal metafora,
che la nonhabbia, nè dell alieno, Se del remoto, pofeiache cofi verrebbe
ad elfer quando la fi profenfee, difficilmente intefa : nè parimente
habbia troppo dell'aperto, Se del luperficiale ; pofeia che cofi non
darebbe ella occafion di diletto alcuno a chi l'ode, a 3 Et vi fi trouerà
ancora, fe fi porrà la cofa in vn certo modo dinanzi a gli occhi, come ch'in
atto quali operante : peroche per l'impreiììon, c habbian le cofe a far
nell'animo di chi ode, fa di mefticri, che più torto li mollrino, o vero
appaiano, come inatto prefente operanti, che come quiete, et atte a
operare in 14 futuro.Fà di bifogno adunque,ch'a quelle tre cofe,fi tenga
l'occhio, alla metafora, alla contcntione,ouerc6trapofirion dei contrariaci
all'efficace euidenria nel por la cofa dinanzi a gli occhi, i f et emendo
le metafore di quattro fpctie, quelle di degniti, et di grada fopra tutte
le altre ccccdonoje quali confiftono in propor i6 tione: ficomc (per
eilempio) fu quella, eh vsò Pericle, quando parlàdo di quei gioueni,
cheran morti nella guerra diccua, che costerà (tata quella giouentù, dalla
città tolta via, comes'alcun 27 togliclìe via dall'anno la primaucra. et Letine
parlando dei Lacedemoni) di ire, non douerh* cóportare, &c tener poca cura,
che la Grecia hauefle da reftar priua d'vno de duoi occhi fuoi.Cefifo doto
ancora,vedédo,chc Charcte ccrcaua,& facca diligétia di re der delle
cole publichc da lui amminiftratc, conto, et ragione a punto in quel
tempo, che la Città ftaua occupata nella guerra Òlinthiaca,indegnato di
quefto fatto, dille cheCharcre aJhor, che gli pareua d hauer quel popolo
in vn forno,tentaua,& faccia ua forza di rendere i conti,& le ragioni
fue . et il medefimoCefìfodoto ellbrtando già gli Atheniclì a mandar gente nell
lfola d'Euboca,per trar di lì frumento, per maggiormente
infumargli diire loro,e(Tèrdi bifogno,ch a quella imprela vfcille fuorail
de 50 creto di Milciade. Ificrate ancora, trattando, Se confutando
gli Atheniclì di far pace,& amicitia con quei di £pidauro,& di
tue ta quella riuiera,hauendo egli quefto a male,perditHiadergli
dif fe loro,ch'cglin cercauan di priuarfi del viatico delle lor
guerre. Pitholao parimente foleua chiamar li (ola di Salamine,la
fruita, 3 2 ouer la sferza del popolo Atheniefe. et la città di Scilo
foleua e3 3 gli chiamar l'arca, o vogliam dire il granaro di Pireo. Pericle
me defimamentecfortando,che fi rogliclTc via la città d Egina, diccua che
gli era da tot via quel fiocco da gli occhi dal porto di Pireo. Mirocle ancora
elfendo con non so chi venuto in mentioned'vnatal pedona, tenuta giufta, et da
bene, dille non parerli elfer punto peggiore huom di quello : perochc
quello (diceua egli) pone in atto la fua malitia con terzi tochi (cioè con
vfure, ch imporran quatro per ccnto,che fon maggiori delle decimali, eh
importan manco di due per cento) et io la pongo in atro con decimali tochi
(cioè con dicci figli, lignificando appretto de i greci, la parola, tocos, co
si rvfura,come i figliuoli.) Alclfandro parimente in vn de i fuoi verfi
Iambici, parlàdo delle figliuole fue, chaucuan già trapalfato l'età
conuencuole a maritarli, dille, Le mievergini hanlafciato fpi rare il
tempo di coparirein giuditio $6 dinazi al tribunale delle Nozze. MedelimamcntcPolicuto
cétra di Speufippo, il qual'cra grandemente molcltato d apoplcflìa,
di ccua,che quello nó potcua trouar mai fermezza, ancor chela
for tuna l'hauefle raccluufo in quella infirmiti penteiiringa (cioè limile
a quello inltromcnto da carcere, che in cinque parti tcneiu 57 la pedona
ftretta, Se perciò pctelìringi li domàdaua.) Ccfifodoto |8 ancora foleua
chiamar le galere, o ver le naui, molini ornati . Il Cinico chiamaua le
tauernein Athene,le Fiditiede gli Athcniefi ; (elfendo le fiditic quelle
femplici, Se modelle publiche cene 39 de i Laccdemonij.) Elione parimece
dille, che gli Athcniell ha40 ucuan verfata la Città lopra la Sicilia. Se in
quelle parolc,nó lo-, lo lì cótica metafora, ma fi pone ancora in ella la
cola dinàzi a gli occhi. come li pone ancora in quella, Onde la Grecia
cfclaroaua, Se vocifcraua. doue fi vede in vn certo modo la mtafora, &:
il poni meco della cofa dinazi a gli occhi, come lì vede ancora in querelle già
dille Cefifodoto,douerfi hauer cura,che le publichc adunaze,nó parelfer più
torto incurlioni militari, che ciuili raccogliraéti.óc il mcdclimo modo di dire
vsò Kocratc cótra di quelli, che a modo di tutbuléte,& inordinate
incorfioni,in quelle cómunif 44 fune adunaze panagiriche lì raccoglie u a
no. Et ancora in quella funebre oratione domàdata rEpitafHo,fi legge, che
gi ulta cofa fa rebbe,che fopraa quei fepulchro,doueeran fepolti quelli,
ch'eran morti nel fatto d'arme appretto di Salaminc,lileualTe i capcgli la
Grecia, poi ch'infiemc có la virtù loro, era fepolta la libertà 45 di
quella, doue fc fi fulfe detto, chegiufta cofa farebbe, che la Grecia
piangere, Se facelfe fopraquel lepolcro lamenti per elTer quiui lepolta la
virtù di coloro, farebbe Hata metafora, Se inliememente ponimcto della cola
dinazi a gli occhi, ma 1 hauere aggiùto elici có la virtù fepolta inlieme la
libertà, vi ha fitto elici e ancor di più la contentione, Se
contrapolition de i contranj. lucrate ancora dille, il camino della mia
orationeattrauerlerà perii mezo de i fatti, et delle attioni di
Charete.doue li vede primieraméte la metafora di proportione,& in quel dir
poi, per il mezo, 48 fi viene a por la cofa dinazi agli occhi. Se
parimente in dire, douerlì chiamare alle volte i pericoli in aiutodc i
pericoli, li cótien 4 tal metafora,chc dinazi a gli occhi la cofa pone.
Licoleone ancora difendedo Chabrio dille, Nó haretc voi alquàto di rtfpetto
(o ^ li giudici). Se di verecundia a quella ftatua di bronzo, che fupplica
a 50 voi per lui. Le quai parole,nó Tempre, ma per quel répo, cV
per quella occalionealhor prefente, contengono in le metafora, ma ben
fonoattea por Tempre la cofa dinanzi agli occhi, perochc in quello flato
di pericolo,in che Ti trouaua alhor Chabria,puòqua drar,che la (tatua
Tupplichi,dàdo(ì alle coTe inanimate,qucl, che conuiene all'animate,come
ch'altro non fiano e(Ic fiatile, che có5 i menrarij,& memonedelle coTe,che
Ti fanno per la republica.Co fìmil metafora di proportion Ti
dircbbe,crTalcuni co ogni manie ra di diligctia (Indiano, Se s'affatigano
per Taper poco, Se per hauer l'animo vile.cóciolìacoTa che l'attribuir
cura,ÓVdiligctia, propriamente s'accomodi al cercar d'accreTcere,& di
migliorare, Se 51 nodi palfàr nel male. Simile ancor METAFORA Taria
diccdo.haueic Iddio nel darci 1 intelletto, acccTo nell'anima noftra vn
lume, poTcil&i e aro beatole qu erte co(e,intelletto, et lumc, conuengono 5$
in queftacótmwvc anione di far manifefto,& recar chiarezza. Simile ancora è
quella, con quefta pace non difciogliamo la guer54 ra, mala proroghiamo :
peroche ambedue quefrecofe, (cioè la prorogarione,& vna così fatta
pace) conuengono in guardar co55 fa, c'hahbiaa venire . Simile ancora èquclla
altra, che dice, Le paci vantaggiofe elìer più egregij Trofei* che non fon
quelli, che j6 ti rizzano nelle battaglie, et ne i fatti d'arme .
conciofiacofa che quelli lì Togliono Tpeìlb Tir percoli*,
ch'all'importantia di tutta la guerra non Ton di molto momento, doue che
quelle Ti pógoi» 57 per il felice fine,che Ga porto a tutta la guerra .
ambedue queftecofe adunque (cioè corali paci,& li Trofei) conuengon nel58
ladetta metafora, in elFcr fegni, et indi ti j, di vittoria. Se cosi fatta
metafora è quella ancora, Le città fono ancora elle grandemente
fottopofteàcondciiation di pagar la pena degli error loro,laqual pena è il
vitupcrio,nel quale apprello de gli huomini errando incorrono : non eilendo
altro il pagar la pena, che lettone, Se danno guidamente riceuuto.
Habbiamo già veduto adunque, che la metafora, et il ponimento della cofa
dinanzi a gli occhi, Terne, Se gioitamenro reca alla cotnpofition del
parlar vrbano. aji (ajtoir. *Di quella locuzione } che pon la cofa dinanXi^
a gli occhi : come le metafore* et le immagini pojfon fruire a rendere il parlare
: priue d'anima,per virtù delle metafore. In tutti i quai lucghi, quell
attribuiteli ei fa energia d'atto, Se dopcrationealle cofe>reca gratia,&
dilcuo,come(per eiTcmpio) in quel luogo. Di nuouo il fallo sfacciato, et lenza
volto di vergogna,daua voi ta in dietro, Se rotolando tornaua al piano. Si
in quell'altro luoli ij go. Il 2 j 2 *Del/a r B^torlca come nell
liola di Carpatilo, il Jl Terzj) libro . e già detto incom modo é Quai
cofc adunque rechin fo r za allalocurionc vrbana,* et onde lìa che talcffecro
facciano, già pienamé S 6 te ( :i può dire) la cagione allegata riabbiamo
. Frale hiperboli ancora, quelle che (on più lodate, 6V ingegnofe, fono
ancora clic 87 metafore; co me (per elfcmpio)quelta,chc fu vfara conerà
d'vno, c haueua la faccia tutta punta, Kk Capo 2jS '
T>effa c B^tortca d % Àrittotek_j (apo 12. ^Deìla diuerjìtà delle
locutioni oratorie, fecondo la dtHintion de t tre generi di cau/e$£f
fecondo che differenti fino le Orazioni, che han da rnoHrar la firz^a nel r e
citar fi h da quelle, che principalmente, accioche habbtano da effer lette, £f
da reflarcj (critte, fi compongono . A di meftieri di fnpere, Se che
nó ad ogni gcner couicne, Se quadra vna ftc Ila forre di locutione,
ma cialcun defli ne ricerca vna, che (ia propria Tua. conciofiacola
che altra locutione habbia da efler quella, che hà da poter leggerli, Se
reftarc fcrirta, et altra quella, e hà da vfar principalmente la forza fua
nella contenderne, Se recitationc : fi come parimente diuerfa ha da elfer
la 1 locution dclibcratiua dalla giudiciale . Et ambedue nondimeno 3
fa di meftieri di conofeere, et di fiipcrc . Pcrcioche la prima, ricerca, clic
fi fappia puramente, Se lenza errore parlar nella legir4 cima lingua greca, Se
di quello Ci contentarci 1 altra è ncceifario di fapere,acciochc 1 huomo
non habbia da cfler forzaro di tacer con la penna, ogniuolta che defiderio
gli venga di far partecipi gli altri dei concetti fuoi: il che fuole
auuenirea color, che fcri5 ucr non fanno. Hor la locutione, c'hà da poter
rimanere feri tta, Se per quello fctittibil fi può domandare > ha da ellere
cfquifmfllma : Se la contentiofa grandemente, anione, &rpronunv 6 tia
ricerca* Della quale due fpetie li rruouano, 1 vna pathciica, Se cfpreulua
d'affetti, et l'altra coturnata, Se di cofhime efprcf7 (ìua . Et da quello
nafee che gli Hillnom van dietro voluntieri a rappxcfentar quelle fauole, che
fon nella delta guifa di 8 affetti, et di coflumi cfpreflute . Se li Poeri
dall'altra pai te vo luniicri dan ricetto a cosi fatta forte d'hiftrioni, che
ben lìano 5 atti a tale efprelfionc. Sogliono ancor de i poeti elfer
lodati quelli > che nei lor poemi non tanto l'attione, quanto la lctùon
riguardano* de i quali (per elfempio) è vno Chcremone : co me quello, che
non altrimenti è efquifito,& diligente in quello, ch'egli fcriue, che
fé orationi, che feritre hauelTer da reftare com ponellc. Se il medemo fi
può dir di Licinnio trà i poeti dithirabi 10 bici, o lirici, che gli
vogliam dire . Et Ce Ci pógono in comparacionc, Se paragone l'vna, Se l'altra
forte di orationi, fi vede chiaro, che quellcchc perche habbian da efler lette
fi fanno, pofte in atto di recitarfi nelle contefe delle concioni ;
fneruate, riftrette, Se angurie appaiono.òV quelle dall'altra
parte,lcquali nel recitarfi, Se contenderfi, fon parure efficaci, Se potenti,
venute poi in mano, Se lcrtc; languide, et roze, Se (per dir cofi) plebee
Con riti 11 feitc. Di che altra cola non e cagione, Ce non ch'a quelle at
doni, il Se contentioni, accommodate, et proportionare fono .
Perla qua! cola quelle orationi, che ali amone, c\: alla pronuntia
fon deftinatc-, feda loro fi tollc via quella atrionc,c\: quella pronuntia,
non potendo poi far lvfficio,& l'effetto loro, in fi pide, fredde, Se
inette appaiono: come (per eflempioj accaderebbe nel proferir quelle
parole,chedifgiunrealle volte fi pògono, Se fciol 13 tcdaligatura,& da
copula. Mcdefimamentc il repcter più volte in foftantia vna fteilà cofa ;
nelle orationi fcrittibili (per dir cofi,) che fi fanno acciò fian lette ;
non fenza caufa è reprouato, et poco lodato : douc che nelle contentiofe, Se
pronuntiabili oratio14 ni, fi vede a^ai dagl’oratori vfato : eflendo così fatte
repetite locutioni, molto bifognofe,di pronuntia,ó\r dattionc. MaèneceiTario
che in così fatte rcpetitioni,faccia colui, che le proferifee qualche
agitatone Se mutatione nel proferirle,pcr inoltrar di dire con vna cofa,diuerfe
cofe. la qual mutatione dàadito, Se ("piana in vn certo modo la via
all'hiftrionica attionc oratoria : come 16 fper ellcmpioj dicendo, Coftui
e quello, c hi vfurpato, Se furato le cofe vofìre, coftui e quello, che vi hà
ingannati, cortili è quello, c'hà finalmente tentato di tradirui. fi come
Filemone hiftrionc parimente faceua nel rapprefen tare, Se recitar la
fattola d'AnalIandridc, nominata la Gerontomania, o pazzia dei vecchi, che
la vogliam dire, Se fpetialmente doue parlano inficine 18 Radaraantho, Se
Palimede. &nelprologo ancor di quell'altra fauola, che i Religiofi,
ouero i Pij n domanda, Se fpenalmétc in quel luogo, doue più volte fi
repctifee, Se Ci replica la parolaio. Quelle forti di locutioni adunque a
chi non le aiuralfe con l'attionc,Óc conlapronuntiajdiuerrebbero^om'in
prouerbio fi diKk ij ce,^ 10 ce, colui, che la trine porrà. Se il medesimo
fi dee fouerchie,c\: inutili fono, Se più torto imperferrione, cheperJi
fettione apportano. Ma lcgiudiciali orationi han di memeri di maggior
politezza, et di piuefquifno Audio ; Se maggiormente fc dinanzi ad vn
giudice folo accalca, ches'habbia da narrar la causa, eiTendo quella la
minima dillantia, che nell'arte del dire 3 3 accafehi trà chi odc>&
chi parla, pofeiache in elfo vien maggiormente JlTerzjo libro.
261 mente veduto, et auuértiro quello, che fia proprio, 6V appartenere
alla cau fa; et quello, che fiaalicno, &c remoto da quella, nò ha
luogo quiui laconcenrio(a,& cócitata attione : et per cófegucuee reità in
chi ode ilgiuditio fchietto, ite incontaminato. 14 Perlaqual cola non
tutti gl’oratori, ch'eccellono in vn di quelli generi di locutione, eccellon
parimente in tutti, percioche donerà matfìmamente ditneftien dell anione^
fa manco perii 3; contrario d'cfquilita diligenti.! bi fogno. et quefto
accade douc è neccllària la voce, de mallimamcnte douegrande,alra, ÒV refo}6
nantc fi ricerca. La locutione dimollratiua adunque viene ad cf » fcr la
più habile a tettare feruta, et la più fcrittibil (per dir coti) eflendo
quello quali l'viUcio fuo, periiqual principalmcnre Ci compone. Nel
fecondo luogo poi larà attaaquelk> la giudicia37 le. Il voler poi aggi ngner
nuouc dioilioni della locutione, con dire, che biiogna>ch'eiia (la
foaue, &gioconda,& che la fia ma3 8 gnifica, c cofa vana,&
fupcrtìua. perochc perche più torto ha ci la da ellercosì, che non ha da
clfcr temperata, ex: liberale,!?»: d al 35? tra virtù, et coftumc tale ?
Quanto adunque alla foauità,lc conditioni, che fin qui fi fono alla locutione
allignate, la faranno ^ tale, feda noi è fiata rettamente determinata, de
diffìnira la virtù diquella. percioche a che fine s'hà da credere, che ha
flato detto clìer necelìatio, che la lìa aperta, Se lucida, Se non haimia
del vile, Se dcll'humile, ma fia conucneuolmente temperata in quel 41
naczo ? pofeiache così dal troppo ella abbondare nel fupertiuo delle
parole; come dalla troppo fuccinta brcuità, puòdiuenirc ofeura, Se poco
mani fella : et per confeguentc nó può eller du41 bio, che mediocrità in tal
cofa non le conuenga. Et alla giocon dita, et dolcezza d'ella, le
conditioni et qualità già dette potran feruire bafìantemente, Ce ben
tcmpcrate,Cv mifchiate, (arano inficine quelle parole,che nó fon lungi dal
parlare vfirato; et quelle, che tengono alquanto del nuouo,6V del forefticro :
et le conueneuole oratorio ritmo, o numero, che vogliam dire, non
le mancarà ; ne parimente il decoro,in modo,che credibile, cv per43
fuafibile, la poflà rendere. Della locuzione aduque habbiamo
a baflanzadctto,sì per quel, che tocca a tutti li generi di caufe comunemente;
et sì per quello, eh a ciafehedun d'eflj era lacualmente ncccllano. Rellachc
dellordin delle parti integrali dell Oiation ragioniamo
. (apofj. 'Delle farti integrali dell'orazione ì del numero-,
et Jufficientia di quelle . Et come diuerfamente errajfer diuerfi altri Scrittori
della Retorica, nella diutjìone dell'orazione, (f nel numero delle farti d'ejfa
. Ve fon le parti dell'oratione oratoria . percioche gli e
ncccilàrio, che Ci proponga la cofa, che s hà da prouare, et che fi proui
la cofa, che ila proponga. Onde il non prouare, et non dimoftrarclaco1IW fa,che
fi efpone, et propon nella caufa, o il voler duiiofìrarc,& prosare, (e
cola alcuna non lì fia cfpofta,&: propo 4 ila prima, fon cofc in
natura lor non potàbili : polciachc cohri, diepruoua, et dimoitra, e forza
che qualche cofa dimoftri : &c all'incontra colui, che propone qualche
cofa, percagion d haj uerla poi a prouare, et inoltrar la propone. Delle quai
due cofe quella vi ti ma non e altro, che Propo fi ti on e, o
proponimento o propofta che vogliam dire, 6c quella non e altro, che
pruoua a 6 far fede : nella maniera, che s'alcun diuideflc le fciennc in
pròblemi, o ver propofti quefiti,&: in dimoftrationi. Ma a i
tempi noitri hoggi vanaméte, et quafi ridicolofamentcdiuidono:conciofucofa
che la Narratione, folamentc nel gcner giudicialealle $ volte habbia
luogo, ma nel dimoftratiuo, &c neldeliberatiuo, come eflerpuò
chcfitruoui narratione, &c fpctialmente tale, quale eglino la
intendono? o come vi fi può parimente trottar quella parte, nella quale fi
procede contra dell auuerfario ì ol Epilogo ancora delle cofe già prima
dimonrate ? Mcdefimamente il proemio, e il porre in parragone, 6c comparatone
le proprie ragioni con quelle deU'auuerfario, et il
recapitularcj alhor nelle delibciationi,cx: nelle codoni truouan folamctc
luogo;qufulo tra i cófiglieri, che dicon la lor fenrentia, cade per caio
qualche oppugnatione, et qualche controuerfia -, folcdo nel ocncr
deliberati uo accafcarc ancor molte volte accufationc, &; difenlìone ;
ma non in quanto è egli delibcratiuo, ouer conful14 tatiuo. Ma ne ancor
l'Epilogo e tempre necellario ad ogni giùdiciale orationc; come a dir
quando, o ella molro breue ila ; o le cofe, ch'ella contiene, fiano per
loro fterte atre a reftar faciimé* \6 te nella memoria, di maniera che quando
vi Ci truova, accadeciò per la lunghezza dell'orarione, che Io comporta. Son
dunque neceflaric la Propostone, o proponimento che vogliam di. re,
&la pruoua a far fede : et quelle due fon veramente effentiali, 5c proprie
parti dell'oratione. Qyellcpoi le quali al più accader può, che trouar vi Ci
pollano, Con quattro, il Proemio, la 19 Propolìtionc,la pruoua a far
fcdc,& l'Epilogo-condoila cofàche l'opporiì, et il contradire alle
volte ali auucrfario, altro veramexo te non riguardi fé non lo ftelio prouarc,
Se procacciar fede. Il porre ancora in comparatone, et parragone le
proprie ragioni con quelle dcll'attucriano, (chccollationc da alcuni è
detta) non e altro in ibftantia, eh 'ampliflcation delle proprie ragioni ;
Se per conferente vien tal cofa a inchiuderfi, et ad hauer
parte nella fterfo far fede, perche colui, che con quello
parragonarc amplifica, qualche cofa di più vicnecgli adimoftrare, cVaproI
I ilare in far quello . Ma non già quello medefimo auuiene del proemio, et
deli Epilogo; eflendo l vno, et l'altro indrizzato a imprimer meglio nella
memoria le cofe, che fi fon dette, o che 11 s'handadirc. Mas'alcun vorrà
far la diuilìon di tarparti nel mo do, chcfolcuan fare li feguaci di
Theodoro ; altra parte farà la narratone, altra lafopranarratione, altra
l'antenarratione, altra laredarguirionc, et la fopra redarguì don e. Ma alhor
fa di bisogno di trouarc, 6c impor nuoui nomi,quado s'han da cfprimerenuoue
parimente nature, et differente nnouc. altrimenti il volere imporre, et formar
nuoui no14 mi, è cofa vana,fuperrlua,cVnugaforia : fi ^ come fece Licinnio
nei libri che fcrif fc di queft arre; nominando al* cune parti
Corrobot ationi, altre digreflìoni, Se al tre
chiamando, rami* è 64. T>eUa ^Retorcia d* ArìHotele^j (apolli
T)i quella parte dell'orazione > ch'i chiamata Proemio 5 et quali auuer
tentici y, £g precetti sfacciati di b [fogno per la buona fir maison
di quello in ciafihedun gener di caufe ; £f de gli "vfficij^ che
conuengono a cotal parler L Proemio oratorio adunque non e a!rro,che
prin cipiotieirorarione; fi come nei Poemi il prologo, et appreflb de i
fonatori di tibie, o di Hauti, quella prima lonata, che fanno di fantafia .
conciofiacola che tutti quelli fianoin vn certo modo princi P»j,c habbian
quali come a {pianar la ftrada a quelli, chan da paf 3 iar per cita. Bene
c vero, che così fatta prepara rione, che dal principia fanno li fonatori,
s'aflòmiglia Ire rial mente al proemio i i 4 Jicl gener dimoftranuo.
perochc i detti fonatori, (è in qualche forte di fonata fi fenton
particolarmente valere, quella prendon per lor principio, et in quella
vagando vanno ; et finalmente có t x buon congiugnimcnto l adattano con la
fonata,che principalmc j te incedono. Questo medefimo nelle dimolìratiue orationi
ciecito, 6c s'appariico di fare, percioche pigliando lorator da
prin cipioadir di quella cofa,& di quel ioggerto,che più gli
aggrada, èv in quello eiUndo proceduto alquanto, dee dappoi con deliro, et
ingegnofo appiccamene congiugnerlo con fa cauti fua ; co7 ine fi vede* che
molti fanno. et n riabbiamo i c Ikmpio dlfo#ra^ x te neirorationcjch'ci
fece in lode d Helcna. cócioliacofa che neffuna conuenientiapaia, che fi
tritoni tra l'i rigane noi e, cV conrenS tiofa profefllon dei boli ih A I ' v
lena, oc inficine ne viene ancor quello di bene, ch'injcosi fatto
digredirei allontanarli dal foggerto parincipale, pare, che il corpo di turca
l'orarionenediucnp ga vario, et nó tutto d'vna ftefla forma. Hora i proemi)
delle dimoilratiue orarioni fi poiIono,comeda lor luoghi trarre dalla
lo 10 deprimieramcce, o dal vituperio: come fece Gorgia nella Tua
ora rione Olimpiaca co quello principio,DigniiTìmi di
amniiratione (Nobilitimi Greci) fon giudicati da molti coloro,& quel
fegue. t perciòfi TerZjO Uro . 2 eSa 'Retorica d'LIZIO ti ditirambici,
o lirici, che gli vogliam dire, fon limili a quei 14 delgener di inoltra
ti uo . come (per eflempio) quello, Per cagió tua, et delle cofe tue, et de
i tuoi doni, et gran benefitij, et per 1 $ cagion de i tuoi trofei, vengo
io a te, o (acro Baccho . Nelle fattole adunque de i poeti, et parimente ne gli
Epici poemi loro, hà d'apparir dal principio vno indino, Se vna inoltra di
tutta 1 o16 pera, che feguir dee : acciochc fi polla preuedere in vn certo
mo do innazi quello, che nel poema, et nell'opera fi contenga,^:
no habbiachiodeda ftarcin tutto fofpcfo, et pendente d'ani mo,co17 me
dubiofo di qucllo,che s'habbia a dire : ellcndo la indetcrmiqation delle cole
atta per fu a natura a fare errando, et vagando aS andare. Se fi darà
dunque a chi ode, vn principio, come che quali in mano, fi farà in quella
gui fa, ch'egli a quello attenendofi, polla andar feguendo con Tapprenfion le
cofe, che fi diranno . Et per quella ragione fù fatto quel principio
. (anta Dea l ira : Se que Ilo . Di (jHcU'buom dimmi 0 Afufa : Se
quell'altro. 3 o Siami Duce a narrar con nuouo carme, • j La guerra,
che d'Europa in Afta fiefej, 3 I I Tragici poeti ancora danno da principio
qualche indino, Se lume di quello, che nella fauola fi contenga : fe non (ubico
da prin 31 cipio, come fà Euripide, almcn nó mancan di farlo in
qualche parte dentro allo Hello prologo, come fa Sofocle, quando dice, 3
3 Polibo fu il mio padre. et quel che fegue . Et nella Comedia pi 34
rimentefifa il medefimo. L'importantiflìmo, et necellàrifumo adunque orrido, c
hà da fare il proemio,& che ptopriamente gli fi con ni cnc, s'hà da (limar,
che fia l'indicare, et aprire i'in3J tentione, e'1 fine, per cagion del quale
fia fatta l'oratione. conciofiacofa che correndo, che la caufa, et la cofa
Itelfa, di cui s'hà da trattare, fia all'ai chiaramente nota, o di
brcuiflìma oratione j 6 Labbia bifogoo, fi può in tal calo foprafeder dal
proemio. Tutti gli altri effetti, et offitij poi, eh e loglio no vfar di farei
proemi;» fon quaficome medicamenti, cV remedij : ne fon propri; fuoi, 37
ma communi all'altre parti dclloratione . Erquem fi pollon prc derc, o
dalla perfona di colui, clic parln,o da quella dellafcoltatore, o dalla ìtetfà
cofa, doue Uà la caufa, o ver dalla perfona del38 l'auuerfario. Da colui, che
parla, Se cWlaunerfario, fi polfon prender tutte quelle cofe,
ch'appartenere, Se leruii poilbnoadi fciogtiere,&a impor calnmnic : ma non
già nella medefima maniera, Se nello rtellb luogo . pcrciochc l'auuerfario, che
fi difende, fe calumnia gli è rtara importa, hi da cercar la prima cofa
da principio di purgarfene, Se di liberarfcne. doue che l'accu fa
rorc 40 volendo impor calumnia, nell'epilogo hà ciò da fare . Et la ca41
gion di querto non è ofeura, ma Ila quafi in pronto, pcrcioche colui, che
s'hà da difendere, fe vuol farli adito, Se rtrada ad edere odito, actefo, Se
creduto, fi di meftieri, eh egli cerchi di i imuouerc,&: tor via ogni
impedimento : Se per confeguenre hà da procurar di difeioglierfi, Se
liberarli prima dalle calamuie. 41 Ma colui dall'altra parte, chàintcntion
di riprenderci di calumniarc, hà da far ciò nell'epilogo, a fin, che gli
afcolratori rac45 glio ciò riferbin nella memoria . Quanto poi a quel, che
riguarda la perfona deH'afcoltatorc,ftà primieramente ciò porto in cercar di
renderlo amico, Se bcneuolo a noi, Se irato, Se male ant44 mato verfo
deU\iuucrfario . Et alle volte ci hà luògo il procurar di renderlo
attento, o ver per il contrario dirtorlo dall attentio4j ne: conciofiacofa che
non fempre fia vtile, Se profltteuole alla causa, l'haucrlo attento . Onde
molti per tal ragione s'ingegnano, Se pongono ftudio di prouocardertramentea
rifogli afcoltatori. A render poi l'auditor docile, Se habile a intender
quel, che s'hà da dire, pollono eflTer vtili, Se condurne tutte l'altre
cofe dette fc ciò ci piace, Se torna ben di fare : Se oltra ciò il procurar
colui che parla, d'apparire huom da bene, Se della giurtitia amico :
pofeiache a coli fatti huomini fi fuole ageuolmentc prertare attcntione, Se
credito. Attcntionc foglion predare gli afeoitatori allccofe grandi, Se di gran
momento, alle cofe lor proprie, &ch'a loro particolarmente tocchino,
Se a cofe,chc rechino ammiratione, Se a cofe finalmente gioconde,& atte a
portar diletto. Se per quefto fa di meftieri d'accennare, Se prometter d
haucrea ji dir cofe tali.& per il c5trario,fe verrà commodo,&
vtilealla cau fa, che gli afcolratori poco attenti fiano, bifognerà
dcftramcnrc far credere, che le cofe, ches han da dire, fiano di poco
momento, che le fiano poco, o nulla attinenti, Se toccanti ad erti, Se
che ci finalmente noiofe, Se odiofe fiano. Ma dee ben non ci etfer nafeofto,
che querte coli fitte cofe, fon tutte fa ora de i meriti della caufa, Se della
foftantia dell'oratione : come quelle, c'han loia mente luogo apprelTo
d'afcoltatori non incorroui,0 non finccii, L l ij Separati in fommaa dar
volonticri orecchio, tk ricetto ancora alle cofe, che fuor della caufa
lono. peroche s'eglino coG farti non fuilèto, non farebbe vtilc, o
necelfario il proemio, fe non quanto con elfo saccennallero, «Se s'aprirò
i capi, tk la fommadell'oratione,& della cofa, eh à trattar s'haucllc:
accioche a guifa di ben formato corpo, haueli'e ancor ella il fuo capo,
tk non rcftalTc come corpo tronco . Apprcllb di quello il cercar
di procacciare attentione e cofa commune a tutte le parti delloratione,quando
ve ne bifogno. concioliacola che in ogni altro luo go dell'oratione può
più ageuolmentc accalcare, che gli animi degli afcolta tori iiano fianchi,
et rimeflì, che nel principio di f6 quella. Onde par, che fia cofa fuor di
ragione, tk degna quali di rifo il volere, ch'alhora lì procacci
attentione, quando foglion J7 tutti mafiìmamente con attentione odirc. Per
laqual cofa ogni volta che loccafion fi porga, o 1 bifogno lo ricerchi,
farà ben di 58 dire, Attendete di gratis, et volgete la mente alle mie
paiole: peroche la cofa di cui vi parlo, non apparrien niente più a
me, 59 che s'appartenga a voi . Io fon per dirui cola tale,chc mai nò
hauere ventala più atroce, et la p.ù marauigliofa . Et quello
era quello>chc intcndeua Prodico, quando diccua, che come
egli vedeua fare a color, chcl'odiuano, fegno d addormcn tarlagli eccitaua
con dir loro, che direbbe, et proporrebbe loro innanzi, €1 cofa, che
valeua cinquanta dramme. Non e dubio alcuno adunque che li proemi) non
riguardino gli alcoltatori, non in quanto 61 afcoltatori, tk propofii folo
ad afcolrar la caufa . percioche tutti quelli, che gli via no, cercano, o
di dare in elfi qualche caluronia altrui, o con difcolpar fe ftcflì,
liberarli con feguen rem ente dal timor, che pollano hauer di chi gli debba odi
re. come fece colui ; che dille» Io dirò,o (acro Rè, non come, ne con quanto
Audio» 64 cV quel, che fegue. et quel! altro dille, A che cerchi tu d
vlar proemio? a che vai tu proemizando 2 Color parimente, che
li truouano hauere il peggio nella cola, che voglion dire, o
nella caufa, che trattar vogliono, o almeno firmano, tk dubitan,
che coli li creda, fogliono vfar proemio : conciolìacofa che in ogni
al tra cofa, che nella caufa ftctfa, ftimao,chc (ia lorpiù vantaggio 66
di far dimora. Onde vediamo, eh 1 noftri ferui, non nlpondono alle cofe, chclor
fon domandate, ma van diucrtendo, tk circuendo d'ogn 'intorno con le lor
parole, tk lunghi proemij fannoJl Ter&o librò. 2 6$ 67 ho. Onde, et come,
scabbia poi da cercar di render l'auditore amico, et bencuolo, Se di tatti
gli altri cofi fatti atFctti,già di fo68 praal luogo Tuo a baftanza fi è
trattato. Et perche molto a ragione, et con buon giuditio dilfe Ho mero -,
Goncedemi benigna Dea, chedouendo ioarriuarca i Feaci, vi venga creduto da
loro, 69 o per lor'amico, o per degno di compatitone ; ci vien con tali
pa rolcainfegnarc, eh à queftiduc affetti bifogna principalmente hauer
l occhio, per cercare, et cattar dall'auditor bcneuolentia. Et nel prœmio
del gcnc-F demoftratiuo fa di bifogno per cagione della detta bcneuolentia
di procurar, che gli afcoltatori fi Itimino, che con le lodi, che a chi* hàda
lodare fi danno, fian congiunte in vn certo modo le lodi parimente, o d'\ loro
fteili, o della ftirpc, et fameglia loro, o de i loro ftudij, o delle lor
profefc 7 1 fioni, o in qual li voglia altro modo riguardin loro .
Perciochc quello, che nel Dialogo intitolato l'Epitaffio dille Socrate,
non elTer cosa difficile il lodar perfone Athpnicfi, dinanzi ad afcoltatori
Athcniciì, ina lì bene alla prefentia de i Lacedemoni, s'hà da ftrmar per
giudiriofamente, et veramente detto. Quanto a i Prœmij poi del gcner
deliberanno, fa di mcftien,che quando bifogno ne viene, egli dal gcner
giudicial gli tolga, come quello, che per natura fua manco di tutti glialtii
generi ha neceffità di proemio, conciolìacofa chegià prima fiano informati
gli afcoltatori di che cofa s'habbia a trattare, et parlare, &c nó
habbia nel retto la caufa bifogno alcun di proemio, fegià non accadente
coral bifogno per cofa, che guardante o la perfona di chi parla, o quella
dcll'auucrfario : ouer quando l'orator ve* delle, che gli afcoltatori non
ftimallcr la cofa di quella grandezza, ch'egli vorrebbe,mao maggiore, o minore.
Per laqual cofa gli fj di meftieri in tai cali, o di calunniar', et riprendere,
o di 76 purgarli, et liberarli dalle calunnie impofte, od'amplificar
la cofa con ampliarla, o con eftenuarla, et diminuirla. Per cagion di
quelle cofe adunque può occorrere alle deliberatine orationi bifogno di
premio, o per cagion finalmente d'vn certo ornaméto, òc compimento
dell'oratione : acciochc non habbiaella, reftandone fenza, da parere in vn
certo modo tronca, e quasi senza capo: come così fatta pare quella oratione,
che fece Gorgia LEONZIO (si veda) in lode de gli Elicnfi : pcrciòchc fenza
altra prepararionc,^ feri za induio alcuno d incominciamento, entrando
fubito nella materia, 0DellaHgtprìcad!driftotelcj teria,quafi
ali'improuifta dice, Elide è vna Città felice, Se quel che
firguc. £af?o ij. Del d'tfi'toglimento delle Calunnie^, le quali
Juole alle volte imporre l >e vna parte auuerfaria alt altra : et de t
luoghi njtilia far cosi fatto dtfeioglìmento . i l^^-^i^J Ntorno alle
Calunnie adunque vn luogo dadiNVJ| tHB . | L, ci • 10 fri 1 nt 3Fi«« r*i\
i» 1 ^, iv «ìLj'i j», et dell' aff&ttuofo> che può occorrer di far
fi in ejfa . ?5?25| A narratione nell’orazioni demostrative dee fàrfi, non
tutta inficine diilefamente continuata: ma dee parte per parte cfler
djlcontinuamenic pofta N £prciòche fa di mcftieri di dimoftrare, et fare
apparire, che fi racconci la lode, o il biafmo, che Ci truoui in tuuc
quelle anioni, et quei Tatti, che fi conM m tengono 2 ?4 T>eSa
'Retorica d y LIZIOl^j 3 tengo n ncll'orarione . conciofia cofa che di due
cofcl'orarion fia cópofta. lvna non ha bifogno d'arre, nó cllendo altro,
che le 4 ftelFc attioni, che fi narrano, delle quali colui, che parla non
è $ caula, et dallo Hello fattole prende. L'altra poi darti tino
hà bifogno : Se quella altro non c, ch'il moftrare, et far
conofeerc, o che la cola veramente Ha, quando la fi conofea incredibile,
o difficile a crederi!, o che la lia della tale, o della tal q uali ù,
o ver che Ha di tanta, o di tanta quantità, Se grandezza ; o final8 mente
tutte quefte cole inficine. Per quella ragione adunque è ben fatto, che
tutre le cofe, che s'han da narrarc,non fi narrin fempre continuatamente
l'vna doppo l'altra: concionacene diffidi fi renda il ricordarli della pruoua,
Se conflrmatione, che cófi fatta continuationc fi faccia poi : come farebbe
dicendo, Da quefte cofe adunque, che lì fon dette,!! può conofccr,chc
coltili fia forte, da quefte, ch'egli fia prudente, Se da quefte,
ch'egli Ila guitto. Et in vero con vn coli fatto modo di narrare,
diuien l oration più fempliee, Se vniforme . doue che l'altro modo
dif continuato, la rende più varia, Se più vaga, Se per confeguente 1
1 manco humilc, et manco vile. Quelle attioni, Se quelle cofe poi, lequali
fon molto note, Se dalla fama aliai diuolgate, fa di meftieri fol di
toccare alquanto, Se con poche parole accennare, il tanto a punto, che
baftia ridurle in memoria altrui. Et per quefto fon molti, che non han bifogno,
che nel trattar con orazione i Ior futi, s'vlì la narratione : come auuerrebbe
( per essempio) a chi voledc lodare Achille, pofeia che i fuoi fatti, Se le fuc
attioni nori Ili me fono a tutti . Ondcfolofadi bifogno di prenderle come
note, Se fcruirfene, Se porle in vfo nella confcrI $ matione.doue che fedi
Criria,& de i farri fuoi s'hà da parlare,fa rà neccllaria la
narratione : nó ellèndo i fuoi fatti, et le fueattioni molto note. Quanto a la
duration della narratione parmi, che facciano oggi cofa degna di rifo
coloro, che dicon douer la 17 narratione elTer breuc. A i quali fi potria
rifpondere nel modo chevno rifpofead vn fcruo fuo; il quale nel rimenar Ja
parta per fare il pane, lo domandaua le o dina, o tenera hauclTè
egli da far quella palla, rifpofcegli dunque, hor non fi può ella
far, che ftia bene, Se nella fua perfettione ? Et il medelìmo lì
potria x 8 dire nel calo noftro a coftoro: conciofiacofa che non bifogni
nel narrare elTer lungo, fi come nel proemio ancora > ne
parimente nei Jl Ter zj> libro. 27 j f rie! prouare, Si far
fede con la conferminone, perciochein coli fatta lunghezza non confitte il
bene edere, Se la perfettion di rai cofe, fi come ancor non confitte
ncllefter breue, Se concifo,ma 0 foloin vna mediocrità conuencuole.
quefta, quanto alla narratione, in altro non è pofta, ch'in dite, Se narrare a
punto tutte quelle cofe, che poftbno etter baftanti a inoltrare, et aprir
bene 1 la caufa (Iella, Se la cofa, che s'hà da trattare, che poiron far
nafccrc in chi ode opinione, o che la cofa fia ftata fatta, o che fi
fia nociuto, o fotta ingiuria con etta,o che il dano, et l'ingiuria
fia di quella importantia, Se grandezza, che noi vogliamo, che fi 1
creda . et all'auuerlario poflbn per il contrario ballare a moftrate tutto il
contrario di quanto è detto . Appretto di qucfto ti fa di biibgno
d'interporre, Seinferir nella narratione tutto quello, che polla importare
a dare opinione, Se coniatura della bontà tua . come faria (per ettempio)
dicendo, Io non mancai di configliarlo, Se cfortarlo fempre a quello, che
ricercaua il douerc, c'igiufto per pervadergli, che non volefte
abbandonare, ÓVtra1 j dire li proprij figli . O ver tutto quello, che polla,
fare apparir l'iniquità, Se malignità deH'auucriario, come faria dicendo,
Et egli tempre mi rifpondeua, ch'in qualunque luogo fi ritrouaftè, 16
nonfarienper mancargli de gli altri figli. La qual rifpofta fu parimente
fatta, fecondo che fcriue Hcrodoto, già da gli Egitti) 17 al lor Rè,
cirendo da lui liberati, oucr finalmente tutto quello vi bifogna inferire,
che polla piacere, Se parer giocondo all'orecchic dei giudici, Se eie
glialcoltatori. Oltra di quefto di minor narratione ha di bi fogno il
difenfore, o vero il reo, chel'acip cufatorcnon hà : Se li punti delle
controuerfie, ch'a lui di far narrando apparire appartengono, fon qucfti,
cioè la negation del fatro, o vogliam dire, che la cofa non fia ftata
fatta, o che no habbia recato danno, oche la non fia cofa ingiutta, oche
l'ingiuftitia, e'1 danno non fia così grande, come l'accufatorc afferma. La
onde intorno a quelle cofe, che come note non può cgli negare, o non
confcfTare, non ha da confumar con parole il 31 tempo: faluo quando tirar
le potette agiouamento d'alcuna delle controuerfie dette, come faria
confettando d'hauer fatta la cofa, over commetto il fatto, ma non già d
hauere per qucfto 31 fatto cofa ingiufta. Dee parimente il difenfore olrra
dùbbiamente confettar d haucr fatto quelle cofe, le quali operandoli M m
ij non fono 2 7 6 T>eUa Hgtorica d J AriBotelc^> non fono atte
a muoucrc, o compalììone, o indegnatione nell'animo di chi l alcolca. diche
cipuòellerc eifcilfpio l'apologo, et ragionamento facto in commendation di (e
da Villi e ad Alcinoo, cheabbreuiato, Se nltrcrto l'elilinea vedi, fìj poi
da lui fatto a Penelope. Ce ne può ellere ancora elìcmpio
qucllo,chc diceFaillo in quel fuo Poema, eh egli domanda Circolo. Se
il prologo parimente della Tragedia, intitolata Ocneo. Dee medegnamente
lanarratione ell'er collumara: Se quello non ci farà difficile di
confeguire, fc non ci farà nafco{lo,che cofa faccianafecre, Se apparir coftumc
nel parlar no Uro. Et vna delle cofe, che polfbn far quello, conlilìe nel dar
parlando inditio, Se (ìgmfìcacion della noftra elcttione : pigliando il
coftume codinone, Se qtialicàdaqucfta, lì come quella prende qualità dal fine,
che nell'action s'attende. Et da quello nafee, che le ragioni, Se li difcorfi
machemacicali non han coftume,pcroche elettionc alcuna non lignificano, ne
manifeitano : come quelli, fine, percagion delqual s'operi, non
contengono . Ma ben lo contengono, et per confeguentc coilumaci chiamar li
pollbno li ragionamenti, Se difcorfi, cheli leggon di Socrate :
come quelli, ch'intorno fono a così fatte cofe, ch'clctcion dernoflra40
no. Verrà no parimente a far la narration coftumaca quelle cofe, che per il più
feguono, Se van dietro aciafehedun collumc. come (per ch'empio) fe noi
d'alcun diremo» coftui, menti e che rifpondeua, in vn medefimo tempo
feguiua di caminarc ; verremo a moilrare vna cerca al fierezza, Se rullichezza
del fuo ani41 mo,Sc del fuo coflume. Parimente rende lanarratione colìumata il
narrare, Se parlar, non fecondo l'cfprcflìon folamente del concecto, come vun
quelli, che parlano hoggi ; ma più torto conindicio d'intcntion
dell'animo, Se d'elemonc. come 42 (ària dicendo, Io veramente voleua far
quello : perche quantunque ciò non fulle per giouarmi punto ; tuttauia elcggeua
di farlo, come che più honclìo fufle : pofeiache l vna di quelle cofe
e cofa da huom diligente conferuator del fuo, et 1 altra e cofa da huom da
bene, conciona che ali huom lagace, ÓV: prudente conferuator del fuo, foglia
ellcr proprio il feguir 1 vtile,& dell'huomo amico della virtù > fu
proprio 1 abbracciar 4J l'honello. Ma fel'elcttione, che nel narrar li
difcuoprc, Se Ci moftra, fufle di cosa, che parer potelTe incredibile;in
tal cafo (idi Jl fa di mcltierid'airegnarfcnefubito la cagione: fi
come cilcmpio lene vede nell'Antigona di Sofocle, la qual nel fuo
parlar molti*.! di tener più cura, Se maggior penfiero del fratello,
che del marito, Se de i figli, allega adunque ella di ciò la cagion
dicendo, che morti i figli, c'1 marito era pollimi di nuouo procacciar degl’altri:
ma elllndole già eltinti di vita la madre, e'I padre,& menando la vita
lor nell inferno; non era più pollìbil, eh altri fratelli hauclfe. Ma le
in pronto cagione alcuna d'allegnar non hai, dei confeilare, Se dire in tal
calo, che ben non ti è nafcolta la incredibilità di tal cola -, madie non
hai potuto far di non feguire in quello la natura tua. et quello dei dire,
perche non lì fuol communemente credere, ch'alcuno di fua fpontanea volontà
cerchi di far altro mai, checofa, che gli fia vri48 le. Deefioltra di quello
formar la narratione in modo, ch'af49 fertuofa.o vero el'prelliua d'affetti
appaia. Se perche meglio appaia tale, lì deono cipri mere per inditi) d'affetti
quelli accidenti, chefeguon loro: Se non folamcnte quelli, il cui confeguimento
al tutto èmanifclto; ma quelli ancora, che propriamente, Se peculiarmente, o a
quel, che narra, o all'auuerfario, o vero a quella, o a quell altra
perfona feguono. come auuerria51 dicendo, coltui nel partirfi di là, doue io
era, non reflò per gran pezza di volgerli in dietro, per pormi gli occhi
addotto. fi Eccome ancor córra di Cratilo dille Elchinc, ch'egli daua
altrui có bocca il fifehio, o (per dir così) la filchiara,& battedo
vna ma J3 con 1 altra, faccua Itrepito . Son dunque quelli modi di
parlare molto atti a rendere a gli afcoltatori credibile, Se perfualibil
la narratione: pcrcioche quelle cotai cofe,ch'cglin fanno foler feguire a
i tali,& a i tali affetti; vegonoadar loro inditio, che tali affetti
(iano,doucelfi nó fapeuano,o nó credeuano che fu itero. 54 Et molte di
così fatte narrationi, Se locutioni fi pollon prender da Homero : come
(per eflempio) quando dice, CosìdilTe ella aduque,& la vecchia Nutrice
li mellefubito le mani a gli occhi. 55 percioche coloro, che cominciano a
fentit venir fuor lclagrime, fogliono a gli occhi por le mani. Có li fatte
narrationi aduquecfpieHiue di coftumi, Se d'affetti, dei procurar fubito
dal fmnei pio del tuo narrare,di fàreapparir te ftcllb d'honelte quaità
dorato, Se di contrarie lauuerlario, acciochegli afcoltatori có fi fatta
imprelGonc,& cócctto di tc,& di lui, t afcoltin poi
in fattoi 2? S Della Retorica d!AriBotelt*j tucto'I corto ctela
tua orationc. Ma bene auueritr dei di far quefto occultamente, in modo che
non fia conofeiuto taleartiritio. Et che non (la ciò diffìcile a fare, fi può
comprender da quel, che vediam fare a coloro, che qualche ambaiciata ci
fanno, o qualche nuoua ci danno . percioche quantunque di loro notitia
prima non habbiamo alcuna, nientedimeno l'ubito che cominciano a parlare,
veniamo a formare vn certo concetto, &vna certa opinion nell'animo noftro
della qualità loro, e del coftume, et natura loro • Fà oltra quefto di
bifogno d'vfar lanarrationc, noninvn luogo folo determinato, ma in 6
1 molti ancora, et alle volte non è ben di narrar nel principio . Quanto
al gencr deliberatiuo, manco, che in altro genere e neccllario in eflo il
narrare : cóciofiacofa che nellun foglia far nar61 ratione, et ragguaglio delle
cofe future, chedeon venire. Effe pure occorre nelle confulte bifogno
alcun di narrare, tal narratone farà di cofe paifate, per cagion, che con la
ricordanza, et con la notitia di quelle, fi venga meglio a poter prender conicttura,
et cófiglio nelle cofe, che han da farli, ÒV da feguir poi. 6j over per
cagion di lodarle, o di biafimarle a giouamento di 64 quello, che s ha da
rifoluer nelle coi u 1 te . di maniera che il far quefto in così fatti
cafi, non è propriamente vfficio, et opera di 6 j chi delibera, o di chi
confuka, ma per accidente. Et s'occorre alle volte, che la cofii, che fi
narra, polla parere a color, che 1 afcoltano, molto difficile ad efTer creduta
j fa di meftieri di prometter loro, che fubito fi farà lor conofeere, et toccar
con mano la cagion di quella: offerendo di volerlcne in ciò ftare al giuditio,
et al parere fteifo di chi più piaccia loro : fi come nella Tragedia di
Carcino intitolata Edipode, falocafta, in prometter femprc di fodisfare alla domanda
di colui,chc quel,che fullè del fuo figliuolo la domandaua.il
medefimo parimente appreifo di Sofocle fà Emone. Jl Terzjo libro \
J7/ Qipo 77. 2)/ quella parte dell'orattorie, che Jl domanda Pruoua a
far fede 5 laqual parte abbraccia la Confer mattone, et la
Confuta tionc_j. ^ come tal parte sh abbia da firmare : et quali
auncrtentie in ejfa fi debbia no bauere in ciajcbedun gener di caufLj
. E pruouc, che s'han da far per far fede, fa di medie ^/J>CL£*5|
ri j che nafeanoda dimoftrarione, et argomentali tione. Et perche quatrro
fogliono cller nelle caufe 5 p IgkgM giudiciali le controuerfie, douc
conliftono i punti ' " * delle caule, fa di bi fogno d'indirizzar le
pruoue, et le argomentationi a quella controuerfia, nella quale farà porto il
punto della caufa . cornea dir che fe lo ftato della controuerfia farà del
fatto,in negar cioè, che la cofa fia ftata fatta,fi douerà nel trattar la caufa
in giudi tio, indirizzar principalmente a quefto punto gli argomenti, e le
pruoue. et il medclimo fi dee fare, fe la controuerfia confiderà in negar
d haucr con tal fatto nociuto, e recaro danno : o vero in moftrar, ch'il
nocumento, e'1 danno non lìa ftato di tanta importanza, di quanta
l'acculatore afferma: o veramente che la cofa fia ftata giudeamente
fatta. Et nella medefima maniera fi dee procedere per la parte
afferma tiua della controuerfia, in affermar, che la cosa da stata fatta. Ne
efTer ci dee nafeofto, che in quefta fola controucrfia,che con fìftc nel
fatto, è neceflario, che 1 vno de gli auucrfarij,o l'accufatore,o il reo, fia
veramente mentitore, o iniquo . conciofiacofa che non pofla in ciò
eflerTignorantia caufa della contentione e diferepantia loro,in modo, che feu
far gli polla, come potrebbe auuenire nell'altre controuet lìe : come faria s
alcuni d'elfere il fatto giufto non giufto contendellero, et diferepanti
foftero . La onde nel punto di quella fola controuerfia, in cui condite
la caufa, fa di bi fogno d'in lì iterc, et di confumar nelle puiouc
il tempo: et non nell'altre controuerfie, Se ftati di caule, doue ella non
confiile . Nelle caule dimoftratiuc poi la lomma del prò uare 2 S o
^Della 'Retorica d' Arinotelo aare hà da eflcr l'amplificar rhoneflà,&
l'vtilità dei fatti, &: delio le amoni, che fi narrano, percioche quanto
all'eller loro, già i i per vere fi deon prendcre,& fi deon credere:
come che rare voi te accafehi, che ricerchinpruona, et dimolìratione del
lor'elicii re : come a di re in cafo, che le fulfer per parere increbili, o
che 13 fufl'c opinione, che fi doueflero attribuire ad altri .
Nellecaufc deliberatine final mete potrà la cótrouerfia accalcare, o in
negar fi, che la cola dairauuerfario conictturata, habbia da
ellèrc, o ver fc confettando, che fi a per elfere, fi niega, che la fia
gl'urta, o vrile, o di tanta vtihtà, et giuftitia, quanta l'auuerfano
arferij ma. Deefi parimente auuertirc, fe 1 auuerfario fuor del
punto della controuerfia, Se fuor della cola lìclla, che fi nella
caufa, diccllc qualche cofa euidentemente falfa. percioche
quando quello ila, cofi fatte cole falfamcntc dette, verrebbeno ad
etfèr chiari inditij, ch'egli nell'altre cofe ancora, che fan nella cauli, non
fulle veridico . Debbiamo appretto di quello fapcrc,che trà lepruoue, et modi
d'argomentare, gli Eilempi fon molto ac commodati, Se proportionati al
gencr deliberatalo: li come gli Enthimemi fi van più accommodando, Se
conuenendo al gener gindiciale, ch a gli altri generi conciolìacofa che
riguardando il deliberanno il tempo auuenirc, faccia di bisogno, che
dalle cofegià panate s'alleghino, et sadduchino eflempi per inrtruttione,
Se conlìglio dellcfuturc dove che ilgiudicial genere le cose riguarda,
cheo già pallate, o già prefenti sono: le quali portando feco necellìtà (non
potendo ellcr, che quello, eh è già Ila to, o prefente è, non fia) vengono
a ftar fottopoftealle deduttioni necessarie degl’entimemi, Se delle
demollrarioni. Nó deo no oltraquefto gli enthimemi, che $ han d addurre,
ellcr 1 vn doppo l'altro fenza interpofition d'altra cofa,
continuatamente porti : ma fa di incineri d'interporre, Se tramezare tra
cllì o^uaU che altra colà, altrimenti con inculcarli, Se quali premerli inai
fieme, verranno a impedirli, Se a dannificarhTvno 1 altro : pofeiache ancor
nello Hello numero, Se nella della quanrirà delle cole, fi dee trouar
conucncuol termine, Se fcruar modo» Se mifura come bene accenna Homero, quando
dice, Poi che nel ruo parlar (caro amico) tante cofe a piito hai
dettequanteogni huomo faggio, Se prudente harebbe detto, Se quel che
leguc. dice dunque tante, Se non tali . Appretto di quello non lì
deon cercare fi ler&o li ho . 2 g 1 ij cercare. et formare
enthimemi a prouar qual fi voglia cola : altrimenti fata pericolo, che tu
non incorra in quel raedefimo inconucnicntc, nel quale incorrer fogliono
alcuni di coloro, che fan profeffion di tìlofofirc. liquali (illogizano
alle volte, Se concludono alcune cofe, che fon più note, Se più atte ad cffcr
credute di quelle, dalle quali, comeda premette le deducono,& le
concludono. Et oltra ciò quando tu vorrai muouer qualche arTetto,o
paflìone,nó dei inficmemente vfar l'cnthime ma.pcrochc quando quefto fi
facctte, faria pericolo, cheol'en thimema non (cacciatte,&: fa.cc(Tc
quafi difparir l'affetto ; o che l'addotto cnthimema,comcnó attefo, et nóauuertito,
reftaù fc vano, et formato indarno: pofeiachei diuerfi
mouimenti dell'animo, quando fi fanno inheme, vengono a ributtarli,
Se impcdiifil'vno l'altro, in maniera cheo totalmente tutti fparifeono, Se
diuengon vani, o almeno indeboliti, 6cfneruati,cV: i fenza quafi alcuna
forza Tettano . Nè parimente quando vogliam rendere il nottro parlare coturnato,
debbiam cercar di vfar Ten thimema in quello fletto tempo: conciofiacofa
che le argomentationi non dicno per lor natura inditio di
coftume,o di elettione alcuna . Quanto alle Sententie poi, fi p jtfbno vfare,
Se nella narratione, Se nel pruouare,& far fede, come quelle, ch'in
efprimere i cottumi grandemente vagliono. fi come auuerrian dicendo, Io
veramente confidai quelle cofe in man di cottili, quantunque io fapcttc
molto bene, che l'huom non 3 3 doueria credere, Se hauer fede in alcuno a
cafo . Et fc cfpreffion d'affetto, et commouimento d'animo vorrem
dimoftrare, potremo aggiugner cosi, Et non ho d'haucr fatto quefto, pentimento
alcuno, quantunque ottefo, Se ingiuriato ne fia rimallo : peroche a lui Tetterà
il guadagno, Se l'vtile, et a me il giufto, Se I nonetto. Sono oltra di quefto
le caufe deliberatine più difficili a trattare, che quelle del gener
giudiciale. Se ciò non fenza conuenienti ragioni . peroche primieramente
le cófulte riguardano il tempo auuenirc, et delle cofe future fono: 37
0cli.giudi:.ij delle già pattate: Lcquali a quelli fteffi, che
fan profeflìonc d'indouinare, Se palefar le cofe occulte, fon più fa38
cilia diuenir note, come affi, ima ua Epimenidc Cretcnlc . Peroche egli
ucll'indouuiare, aprire, Se palefar le cofe occulte, N n non 2 $2
'Della 'Retorica d LIZIO^> non
s'intrometteua nelle cofe, che deon venire, ma in quelle fole, ch'elfendo
già pafiate, cran nondimeno occulte, ignote et d'ofeurezza piene A quefto
s'aggiugne, che nelle caufe, et controuerfic giudiciali, han da fuupor,lc leggi
come fondamenti (labili, et principi) ferrai : ne èdubio, che coloro,
che nelle loro argomcntationi, han fermi, et noti principi),
non poflan piùagcuolmcte rrouarc, et formarcargomenti,&: prno 41
ue. Et ci s'aggiugne ancora, che il gcncrdeliDeratiuo non hà molti refugij
diuerticuli, doue 1 orator porta l oration riuolgcre: come a dir volgerfi
contrala perfona dcH'aiuicrfario, o ver dir cofe, che tocchino la fua
propria perfona ftelìajO vera mente cercar di muouere affetti nella
perfona dclTafcolrato4$ re. ma meno d'ogni altro genere hà egli cotai refugii,
^: co tali ftradc, fe già non vfciflfcinfar quefto dei confini propri; ma
quefto dee far Porator folamente quando mancandogli gli aiuti proprij di
quel genere, fi vedeneceffitato a ricorrer per aiuto altroue : come fon
foli ti di fare gli Oratori Atheniefi, &Ifocrate fpctialmente, il
quale mentre che con le fuc deliberatine orationi configlia, fi diftende
nell'accufarione, et riprenfion di qualchuno : fi come fa nelloration fua
panegirica riprendendo i Lacedemonij : Se nell oration, Sociale domandata,
incolpando >& mordendo Charete. Nelle orationi, èc caufe del gcner
dcmoftiatiuo poi, per non lafciarfi mancar ma tcria,fa di bifogno di
fupplirc accumulando,& riempiendo l'o ratione a gui(a d'Epifodij,
delle lodi di quefta cofa, o di qnel4 S la t fi come via di fare liberare .
pcrciochcfempre nelle fue demoftratiue orationi prende, de introduce di fuora
qualche altra perfona. nèin altroché in quefto confi Itcua in
foftantia quello, di che Gorgia fi vantaua : cioè che mai non gli
farebbe mancara materia da diftender, quanto egli haueffe volutola fua
oratione. percioche s'egli haueflè (per essempio) tolto a celebrare
Achille, harebbe lodaro Pclco, 8c di poi Eaco, Se quindi Gione. Er nella
medefima man cia prendendo egli a lodar lavinù della fortezza, liarchbc
racconterò et cfalrarole atrioni forti di quefto, o di quello . il c\it
far non c alno, che ji quello, che pur'hora derro habbiamo. Quando ti
trouarai adunque non defcttuolo di pruouc,& di demoftrationi per far
fede nella caufa tua, alhora harai da vfare, non folo l'oration coftumata, ma
lcdimoltrationi, Se argomcntationi an55 cora, interponendo trà clfe il coftumc.
ma fe mancar ti vedrai gli enthimemi, et le dimofhationi, alhora harai da riuolgerti
maggiorméte, et con ogni ftudio all'aiuto del parlar coftumato : percioche a
coloro, che fono ftimati huomin da bene, pare che più quadri, &: ftia bene,
òVgioui a far fede, l'apparenza, Se l'opinion della bontà loro, cheì la forza
cfquuica delle lor ragioni . Tri gli enthimemi poi li redarguinui,o
ver conuincitiui, o reprouatiui, elicgli vogliamdire, par che
fiati di maggiore ftima, et maggiormente approuati, che non fono gli
aiterei ni ( per dir coli) Se puri moftratiui, Se prouariui conciofiacofii che douc fi truoua redargui
rione, Se refuranonc, maggiormente fi rendcaltrui manifefta la forza della concisione
dell'argomento : pofeia che li contrari) porti l'vno appreso all'altro, quali
ch'in parragone, più euidente$6 mente fi fan conofecre . Quanto a quelle cole
poi, lequali shabbian d'addurre in confutatione delle ragioni, Se
delle pruouc dell auuerfario, non fi deono (cimare altra fpetiediuerfa da
quella della confermatione, che cófifte nello Hello far fede: il che fa
ancor colui, che confuta; parte con difeioglier con inftantia, Se parte
con addurre, Se formare in contrario fuoi proprij, Se nuoui fillogifmi .
ApprelTbdi quello dee colui, che è il primo a parlare, così nel gener
deliberatalo, come nel giudiciale,efporrc,& addurda prima gli argomenti,
Se le pruoue, che fan per lui, cV di poi opporli, Se con tradire
a quelle cofe, che pollbno elTergli in contrario, difciogliendolc, jS
Se con nuoui argomenti cftenuandole, et confutandole . Ma le fi vedrà, che
molte, Se varie cofe fian quelle, che in contrario fi polfon dire, douerà in
tal cafo da prima opporre, et contradire a quelle: fi come fece Calligrafo in
quella oratione, ch ei fece al popol Meffeniaco, in gran frequentia
adunato, perciochc hauendo egli da prima ripruouato, Se
confutato tutte quelle cofe, ch'egli fapcua, che incontra fi diccuano, o
li faricn potute dire di poi fatto quello, lefuc proprie pruoue, fo
Se ragioni adduiTe, Ma quando l'orator lari il fecondo a parlare, douerà da
prima rilpondere alle ragioni, ck alle obbictN n ij doni 2 S y Tfella
Ttgprkd d'Arinotela rioni fatte dall'ali ucrfarioj cercando di
difeiogliere i detti Tuoi, Q\ et d'argomentare ; et fillogizare incontra:
Òc mafll inamente fc le cole da quel dette, poflbn parer di momento, óc
habili a fi fàrcimpreflìone, et fede, pcrcioche fi come vn'huomo hauuto
per infame, et granato di delitti, non fuolc ellcr nò caro, nè accetto
all'animo noftro, cofi parimente non farà accetta, et con buono animo riceuuta
la noftra oratione, fe partito farà, c'habbia ben detto, et ben prouato
rauuerfario noftro. £3 Fidi meftieri adunque di far dar luogo, et procacciar
nell'a64 nimo dell'afcoltatorc adito, et palio alla futura oratione.
Et quefto ageuolmentc ti auuerrà di fare, fc da prima le cofe, che 6f
ti fon contrarie, confutarai, et annullami. Ter la qual cofa. fc prima
harai fatto ftudio, et diligentia d impugnarle, o tutte, o le più importanti, o
quelle, che polTbn più parere atte ad clferc appruouate dagli afcoltatori,
o quelle finalmente, che almen fon più habili ad clTer confutate, 6c
mandate a ter66 ra; potrai in quella guifa poi più fecuramente produrre,
fic credibili render le proprie tue ragioni . come fa colei, che di47 ce,
Prima m'opporrò f 8c prenderò la pugna in fàuor de gli Dei, Iofempre nò
tenuto in gran veneration Giunone, 6c C% quel, che fegue . nelle quai
parole fi vede che nel far rifpofta, &oppolitione, fa principio da quella
cofa, ch'era più fà60 cile a confurarfi. Et tanto può baftared'hauerne detto
delle pruove, che s'han da far per far fede . Quanto all'vfar l'oration
morata poi, perche il parlare, et predicare apertamente lodi di fe ftellb, pare,
che facilmente polla, o prouocare inuidia, o parer cofa lunga, Se
tediofa,o trouar facilmente obbiettione, et contradittione, 8c il parlare in
poca lode d'altri hà in fe, o deicontumcliolb, o dell agrefte, et del rozo,
fa di meftieri per quefto, ch'à far ciò s'introduca qualche altra perfona, come
che da lei tai cofe fi dicano, come vfa di fare Ifocratc ncll'orarione chiamata
Filippo, et in quella, che Antidofc fi domanda : Et come parimente fuole
Archilocho biafraare, et mordere . pcrochc introduce, 8c fìnge che il
padre ftcflb parli contra della propria figlia, 7j in quei Iambici verfi,
the cominciano, Neftuna cofa immaginar fi può, che non fi polfa afpettare, et credere,
che per danari habbiad'hauere effetto, c* che giurar {ipoteche non
fia mai per eflèrc . Et il medefirao Archilocho introduce parimente
Charonte fabro, et lo fa parlare in quei Iambici verfi, che cominciano,
Non lo farei, fc ben le ricchezze di Giec, Se quel che feguc . Sofocle
medefimamente fa, che Emone nel parlare a Tuo padre, in fauor d'Antigona dica quel
ch'ei dice, non come da (e, ma come ch'odito da altrilhabbia. là di bisogno
parimente di trasmutare e trasformare alle volte gli Ènthimemiin forma di sentenze;
come fat ia dicendo per esempio Dcono color, che fon di prudente intelletto
fargli accordi e le paci loro coi nemici, quando veggon, come superiori
andar le cose profperc, pofeiache in quefta guifa le fanno con miglior
conditioni e con più vantaggiofi patti, la qual sentcntia raccolta in
forma d'Enthimcma farebbe in quello modo, Perche le paci, i patti, et
le conuentioni alhor s'haa da far coi nemici, quando fi potlbn
fare vtihflìme, et vantaggiofiflìme, per qucfto adunque alhora
maf (imamente far fi deono> quando le cofe paflàn felicernen•!*^f
* l te. :: ...Della ^tprìca del
LIZIO (apo Del modo di domandarti > di rifondere yche occorre alle
'volte di farà a gli Orafort nel prouara, £tf argomentar, che fanno. et quante
fiano le opportune occajioni di far fai domanda, riJJtofie 5 £f quali le
auuertentie, che shan d'hauere tn ejfa . et alcune cofe de i C
R^ dtcoiiy £f dell'Ironia, £f della Scurrilità . Vanto appartiene
alle domande, che cogliono occorrer di fard trà gl’oatori, buoniflima occhione
alhor malli inamente, et primieramente, harem noi di domandare, quando di
due cole, che ci farien di bifogno per concluder contra dcll
auuerfariOihaucndoncegli per fc iteiTb detta vna, domandandolo noi dell'altra,
potiamo con ella condurlo a qualche alTordo, Se inconuemcncc : li come auuenne
nella domanda, che fece Pericle a Lampone, peroche hauendol ricerco, che
gli manifeiìafle la qualità dei legreti mifterij dei sacrificij, che li
faceuano a Cerer falutarc Dea, Se elicendogli da Lampon ciò negato, con
dire, che non conveniva saper tai cose a chi non fulfe a cai sacrifitij
già confagraco ; lo domandò Pericle, s'egli le (aperta, Se riipondendo
Lampone, che sì ; fubito foggimi fé Pericle, Se come gli fai tu dunque, non
clTcndo ancor iù confagraco? Vn'alcra opporcuna occaiion di domandare
fccondariamenre farà, quando di due propoficioni, che ci fan di bisogno,
1" vna farà cuidencemence manifefta, Se dcl1 alerà non haremo dubio,che
l'auuerfario non ila per concederla, (e gliela domanderemo, fichauuto c'haremo
la domandata detta propofirionc, non è ben di domandarlo dell'altra, che è
manifefta ; ma fnbico fa di meftieri d inferirla conci ufione, Se chiudere
il fillogifmo: fi come fece Socrace peroche incolpando! Mclito, ch'egli, non
crccfcfle, che fuficr gli Di), lo domandò Socrate s'ei ftimaua, ch'egli
hauellc opinionc, che fufic falche diurno (pino, che Demone lì domandale, il
die ojfcrmando Melito, lo domandò Socrate, s'egli ftimaua, chei Demoni fussero,
o figli degli Dij, o partecipi della lordiuinirà. e confeirandogh ciò Melito,
foggiunlc, Se concluse Socrate, Adunque fi truoua a!cuno,che
crcda,che fiano li figliuoli degli Dij, e no lìen gli Dij ?
Walrraoccalìon di domandare, s'hà da ftimar, chefia parimente quando fi
può far coniettura di poter moltra re, che ì'auucrfario dica, o
cofe contrarie a fé ftcuo, o fuor dell'opinion comunemente
d'ogni vno. Vn'altra opportuna occafione (Se quella lari la
quarta) fi dee ftimar, che fia quando l auuet Cario altrimenti non
può fodisfare alla domanda noftra,fenon rifpondendo fofifticamente.
percioche s'egli in quefta maniera lifpondcrà dicendo, che la colli (ìa, Se che
la non fia, o che parte fia, Se parre non fia, o veramente che in vn certo
modo fia, Se in vn certo modo non (latenza dubio gli afcoltatori verranno
a reftar nella loro apprenfion confuta, Se dubiofi per tai rifpofte. Fuor
delle dette opportunità, Se occafioni adunque non è cofafecura il tentat I
auuedario con cotai domande, conciofiacofa che s egli con la Tua rifpolta
facclfe reftare abbattuta,c^ fopita, Se finalmente vana la domanda nostra,
parrebbe agcuolmente, che fulTemo remarti vinti, perciochenó fi può
riparar quello con domandar di nuouo più altre cofe : non comportando ciò
la debolezza, Se la poca capacità degli afcoltatori. Se per quefta ragione
e ancor benfatto, che gli cu thimemi fi raccolgano in forma più ftretta,
che fia poHibile. Quanto al rifponderc alle domande poi, fa primieramente
di meftieri, cheallcdomandc fatte con doppiezza, et con ambiguità, si risponda
con diftmtionc, Se allegation di ragioni, Se non conciìamente, Se con
breue, Se (empiite affirmazione o negazione. Et a quelle domande, che poflòn
concedendoli parer contrarie, Se dannole a noi, fi di bilogno (libito, che
rifpondendo lì concedono, alfegnar nella (iella rilposta il difeioghmento di
quella apparente contrarietà, prima chel'auuerfario fegua di domandar quel,
the gli reità d haute 2 88 Della Retorica £ frittotelo 1 6 ucr bisogno,
et cerchi di chiudere il fillogifmo ; peroche dif: ficil cofa non c di
vedere &c di conictturare douc fticn porte lefue infidie, et la
ragione, e il punto, eh' ci vuol concludere. Ma ci ti poilon render tai co fé
manifcfte, fi quanto a cofi fatte domande, cV sì quanto alle folutioni
ancora, pcrquello, che fi e detto nella Topica. Oltra di quefto,fc potendo
già per le rifporte noùre concluder con tra di noi l'auucrfario,
ci farà nondimcn domanda della ftefla conclufionc, che vuol fare,
laqual già più non potiam non concedere, ci fà di meftieri d'aflegnar lubito
nella rifpofta, la cagion, che ci muoip ue a quella: come accadde trà Sofocle,
et Pifandro. pcròche domandato Sofocle da Pifandro, s'egli haueua
concorfocon gli altri configlicri, fuoi Colleglli reformatori dello ftato
a dare, et a rtabilire col fuo fuffragio, et con la fua fententia, in
mano di quei quattrocento Cittadini l'integro, et allofuto goucrno della Città:
8c affermando che sì, feguì Pifandro, Hor non giudicarti tu cifere vn tal
fitto cofa iniqua, et pernitiofa ? a che rispose Sofocle che sì, e foggiugnendo
Pifandro, con domandar la conclusione Non faccfti ancor tu dunque cola federata
e ingiusta? La feci certamente, rispose egli, e: foggiunfc subito la cagion,
dicendo, perche non fu pofao fibil di fare altra cosa, che miglior fulfc. Nella
medefima maniera un cittadino spartano, essendo stato del magistrato degl’efori
e dovendo rendere anch'egli ragion di non so che decreto fatto in quel
magistrato, è domandato fc gli patcua, che gli altri suoi colleghi fufter
guittamente stati puniti e condennati a morte e rispondendo egli che sì, seguì
colui che lo domanda, Hor non concorrerti tu ancor có essì a
quel medesimo ingiusto decreto? a che parimente rispofe egli che sì e
foggiugnendo colui con domandar la conclusione, No meriti tu adunque
defletè ancor tu condennato alla medesima pena? No, rispose egli, tic foggiunfc
fu biro la cagion di ceialo, perche gli altri mici colleghi feccr tai
cofe, indotti e corrotti da i danari, dove ch'io non da questo sono mosso, ma
dal parermi che così ricercane, èll’ comportane il giuii rto. Per laqual cosa
non fi dee mai far domanda, doppo la conclusione e doppo che si è concluso
t ne la conclusione stessa domandar fi dee, Te già non conosciamo esser
molto aper il tamenre, Se fccur.imcnte la verità dalla banda nostra.
Quanto appartien poi a i ridicoli, e a quelle cose in fomma ch'esser pollbnoactca
muover nfo, perche pare, che portano conueneuolmente avere luogo, Se vfo irà gl’oratori,
Se spetialmcn 15 te nelle contese loro, Se Gorgia da LEONZIO (si veda) stetsso
dice, se certamente con ragione, che le cose che su'l serio e fui grave
dice l'aver, fario { debbiarti cercar d'ofeu rare, Se far disparire col riso
: 6c il riso di lui perii contrario, con la gravità delle cose serie
: 14 per quello si è di tal materia trattato nella Poetica : dove si son
inoltrate, Se dipinte, quante specie, Se forti fìa t; no di ridicoli . Dei
quali alcuni sono che convengono se stan bene a perfonc libere, ingenue,
de ben nate. Se alcuni altri sono che non fhn lor bene. Onde ciafehedun dee
procurar di fare elettion di quelli che più gli quadrino, Se gli 16 convengano.
Se ("penalmente l’ironia, o dissìmul.iuon, chela vogliam dire, più
pare che ma bene a uomo ingenuo, e ho nclhmcnre educato, che non fa la scurrilità,
conciofia cosa che chi dillìoiula, e usa ironia, ha per fine il diletto di
se stesso, se per cagion di fe (te fio fc ne fcrue dove che lo Scurra, o
buffone, che lo vogliam chiamare, ha nell"uso della Scurrilità per fine il
diletto, se il piacer degl’altri . (apo ip. Della parte dell’orazione,
chiamata epilogo 5 e quanti siano gl’ufìcij, o 'ver le parti di
quello e quali avvertentìe in ciajcheduna d'ejfe si debbiano avere
£c? penalmente quanti modi di replicare, o recapi t filarlo rammemorare,
che vogliam dire, pojfano avere luogo in eJJL. Della parte dell’orazione,
eh' epilogo si domanda, è composta di IV parti, le quali confìttone, in bene
animare, Se bene edificare verso di noi stessi coloro, ch'odono e male verO o
fo del2$ o i 'Della Tintorìe d ' LIZIO ^j 3 (b dcli'autieriano ; In
ampliare e in eftenuare, o ver etimi4 nuir le cole; in commuoucte e eccitare
arìetti passioni dell’anima nelle menti tic gli alcol cuori, e
rinalmen- xe in ridurre compcndiofunente in memoria di chi ode, le 6
cose dette. Conciolìacola che paia, che l'ordin della natura mostri che
primieramente, doppo c harem provato, de inoltrato elfer la ragione e la
verità dalla parte nostra e il falso, el torto dalia parte dell avversario,
iia alhora il tempo di poter dir qualche cosa in lode nostra, e in biaimo
dcl- 7 lauueilario, de di potere in fomma dar qualche perfettior r 8
ne alla caufa,& qualche ripolimento alle cofe dette. Etv- na di due cose
per conseguir quanto è detto, ci fa di raemeri di riguardare, de di
procurare cioè che gl’ascoltatori ci reputino, o per persone giùste, de amabili
aloro, o per persone giuitc e amabili ailblutamcnte, de medesimamente reputino
l'avverfario nostro, o per pei Iona iniqua, de odiabile a lo- } ro, o
iniqua, de odiabile aholutamcnte . Hor le cose che poilon scrvire a fare
apparir le persone tali, quali habbiam detto, si podono avere da quei
luoghi, che già di sopra riabbiamo allignati a poter da ed! trarre, quanto
faccia di bisogno per poter formare, de far parer le persone, o virtuose, 10
o dei vitij amiche. Fatto questo, pare che poi sia tempo di amplificare
con ampliatione, p con eftenuatione le cose, che già si son provate, de
dimostrate perciochc a voler, che il pofTa mostrar l’importanza, de
grandezza delle cose, fa di mestieri che prima si conofea, de si conceda
che le fiano, o 1 2 che le fiano stare: si come si vede, che l'augumento
che fi fa ne i corpi si fà in eflr doppo, che già fono in eflere . Donde
poi s 'riabbia d’avere aiuto per ampliare, o per efrenuare, già sono stati
prima da noi posti di sopra, de affegnati i luoghi. Doppo questo, fatto
che si farà hormai manifesto non solo la qualità, ma la quantità, de
grandezza ancor delle cose, che Ci son trattare; alhor pare che sia tempo di
commuoucrc con afTcìti gl’animi de gl’ascoltatori . Et tali affètti
maiTìmamentc sono, la compadrone, lo sdegno, l'ira, 1 16 l'odio, l’invidia,
l’emulazione, Tinimicitia. de di corali affetri e passioni, già si son prima alsegnati
di sopra i luoghi. Per la qual cosa nieme altro resta, se non l’ultima patte
de|- lepù Jl Terz^o librò. 2$i •l'epilogo, che confitte in
ricapitul.ire, de ridurre nella memoria degl’ascoltatori le cose dette nell’orarzone.
Il modo di far questo fi dee stimare aliai accommodato eifer quelli lo che
alcuni infunano per collocarlo nel prœmio. E tal luogo in vero gli danno
fuor di ragione; come quelli, i quali, accioche le cose fian meglio apprese,
de ritenute dagl’ascoltatori, vogliono, de dan precetto che non vna falò la
volta y ma molte, si replichino nell’orazione. Ma in verità nel proemio basta solamcncc,
e si riccoca di toccare e accennare alquanto la cosa di cui s'ha da trattare,
acciochc poira a gl’auditori non eilerc nafeotto in fortantia
quello, li ("opra di che han da allentire e da giudicare, dove
chcncl- L’epilogo si deon rcpetere, de replicare brevementc per capi le cose,
donde le pruove, de gli argomenti si sono formari. Il principio di cosi fatta
replicatone, de ramracmoratione, potrà conveneuolmcnte farsi con dire, che già si fia
eseguito, de mandato ad effetto tutto quello si è prometto. De subito si dee
repcter quai fian le cose, che il fon 13 dette, de con quai ragioni si
fian provate. PuofTì ancor far la detta recapitulazione e reperitone, con
fare ali incontra parragone delle ragioni proprie, con quelle dell'avversario.
E questa comparatone, de parragonc fi può fare in più modi, o ponendo, de
rcpetendo semplicemente le cose Tterrcda noi, - de le dette dall'avversario,
come che porte a ij fronte l'une incontra dell'altre, come faria dicendo,
Hor colmi intorno alla tal cofa, de fopra del tal Cupo ha detto le tai
co ' Cede noi habbiam detto le tali, e n'habbiamo alsegnato le
tali, 16 Scie tai ragioni: o ver repetendole con dissìmulazione, e
con ironia, come faria dicendo, Cottui certamente hà detto e provaro le
tai cose, de noi le tali de ancor dicendo, Che fa egli Ce le tali, e le tai
cofe hauette dimostrato, e non le 18 tali, fiele tali ? over per mo Ho di
domanda, de dintcrrogatione; come faria dicendo, che cosa è reftata, che provata,
de dimostrata non fi lìa da noi ? e che cosa hà finalmente dimostrato e
prouaro cottui ? Nelle dette maniere adunque fi può far la reperitone,
ponendo a fronte in comparazone, de in parragone le proprie ragioni, e quelle
dell’avversario. Ed ancor si può far con via, e ha più del NATURALE, de men
dell'art- 2 p 2 'Della Retorica del LIZIO. l'artifizioso, ripigliando
e repetendo Iccofc semplicemente 3 i con quel modo, e con quell'ordine,
che si sono dette . E di poi fatto quefto, se ti parrà, potrai, da altro
quafi capo facendoti, feparatamcnte, Se appartatamente repetcr le cole
dette $x dall auucrlario. Nell’ultima estremità finalmente dell’epilogo, e
per conseguente dell’orazione, quadra, e conuiene aliai quella forte di
locuzione, che senza aiuto divnitiuc particelle, che la coniungano,
difeongiunta si proferifee e quello acciò che epilogo appaia in quello estremo
de non orarion dirtela. come faria dicendo, Ho detto, haucte vdito,
già pollcdctc la cofa, giudicate, detcrminate . ]l fine del Terreo et
vltimo Véro della 1{etorica d x slr'iHotclcs a Tbcodetrzs : tradotta in LINGUA
VOLGARE, da P.. VENEZIA oAppreJfi Francefco de Franceschi
SancfL. Piccolomini
Luigi Speranza -- Grice e Piccolomini: la ragione
conversazionale dell’implicatura conversazionale del Lizio – filosofia toscana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo italiano. Siena, Toscana. Grice: “What
Piccolomini is trying to do, but knowing, is providing what I do in from the
bizarre to the banal – a good functionalist interpretation of the rather poor
functionalist explanation by Aristotle of what the Italians call the ‘anima,’
because it ‘animates’ the body (corpore). Insegna
a Macerata, Perugia, e Padova. Analizza il III libro del “Sull’anima” di
Aristotele del Lizio. Saggio: “Peripateticarum de anima disputationum”; “Academicarum
contemplationum”. Tutore di TASSO (si vieda), ricordato in “Il Costante; overo,
dela clemenza”. Formula una teoria
sincretica tra l’accademia e il lizio. ‘Unico’
dei Filomati. Altre saggi: “Universa philosophia de moribus” (Venezia,
Franceschi); “Comes politicus, pro recta ordinis ratione propugnator” (Venezia,
Franceschi); “Libri ad scientiam de natura attinentes” (Venezia, Franceschi); “Librorum
Aristotelis de ortu et interitu lucidissima exposition” (Venezia, Franceschi);
“In III libros de anima lucidissima expositione” (Venezia, Franceschi); “Instituzione
del principe”; “Compendio della scienza civile”; “VIII libri naturalium
auscultationum perspicua interpretatione” (Venezia, Franceschi); “In libros de
coelo lucidissima expositio” (Venezia, Franceschi). Treccani Dizionario Biografico
degl’italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia. Garin, “Storia della filosofia”
(Torino, Einaudi); Malmignati, “Tasso a Padova” (Firenze, Riccardiana); Roma, Pieralisi
(Firenze, Biblioteca nazionale, Conv. Soppr. (S. Maria degli Angeli, Roma, Pieralisi,
P., Cavalli, La scienza politica in Italia (Venezia). Francesco Piccolomini.
Piccolomini. Keywords: apollo lizio, lizio, licio, liceo, lizeo, statua di
apollo lizio, in riposo dopo la palestra, il lizio, Aristotele lizio, i lizij,
i lizii, gl’aristotelici, i peripatetici – gl’accademici e i lizii,
gl’accademicij e i lizij. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Piccolomini” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Pico: la ragione
conversazionale di Beniveni, o l’implicatura dell’accademia di Cicerone -- io priego Dio Girolamo che’n pace così in
ciel sia il tuo Pico congiunto come’n terra eri, et come’l tuo defunto corpo
hor con le sacr’ossa sue qui iace – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Mirandola).
Filosofo
italiano. Mirandola, Modena, Emilia Romagna. Grice: “I liked to say: some like
Pico, but Pico’s my man! Since I always preferred his cousin to the uncle!” – Cf.
clavis universalis – Rossi, cita P. -- philosopher who wrote a series of 900
theses which he hoped to dispute publicly in Rome. Thirteen of these theses are
criticized by a papal commission. When Pico defends himself in his “Apologia,” the
pope condemns all CM theses. P. flees to France, but is imprisoned. On his
escape, he returns to Florence and devotes himself to private study at the
swimming-pool at his villa. He hoped to write a Concord of Plato and Aristotle,
but the only part he was able to complete was “On Being and the One,”“Blame it
on the Toscana!” -- in which he uses Aquinas and Christianity to reconcile
Plato’s and Aristotle’s views about God’s being and unity. Mirandola is often
described as a syncretist, but in fact he made it clear that the truth of
Christianity has priority over the prisca theologia or ancient wisdom found in
the hermetic corpus and the cabala. Though he was interested in magic and
astrology, Mirandola adopts a guarded attitude toward them in his “Heptaplus,” which
contains a mystical interpretation of Genesis; and in his Disputations Against
Astrology, he rejects them both. The treatise is largely technical, and the
question of human freedom is set aside as not directly relevant. This fact
casts some doubt on the popular thesis that Pico’s philosophy is a celebration
of man’s freedom and dignity. Great weight has been placed on Pico’s “On the
Dignity of Man.” This is a short oration intended as an introduction to the
disputation of his 900 thesesall condemned by the evil pope --, and the title
was suggested by his wife (“She actually suggested, “On the dignity of woman,”
but I found that otiose.””). Mirandola has been interpreted as saying that man
(or woman) is set apart from the rest of creation, and is completely free to
form his (or her) own nature. In fact, as The Heptaplus shows, P. sees man as a
microcosm containing elements of the angelic, celestial, and elemental worlds.
Man (if not woman) is thus firmly within the hierarchy of nature, and is a bond
and link between the worlds. In the oration, the emphasis on freedom is a moral
one: man is free to choose between good and evil. Grice: “This irritated
Nietzsche so much that he wrote ‘beyond good and evil.’ Refs.: H. P. Grice,
“Goodwill and illwillmust we have both?” L'esponente
più conosciuto della dinastia dei Pico, signori di Mirandola. L'infanzia
di P., di Delaroche, Museo delle belle arti di Nantes (Francia). Nacque a
Mirandola, presso Modena, il figlio più giovane di Gianfrancesco I, signore di
Mirandola e conte della Concordia e sua
moglie Giulia, figlia di Boiardo, conte di Scandiano. La famiglia ha a lungo
abitato il castello di Mirandola, città che si era resa indipendente e riceve da
Sigismondo il feudo di Concordia. Pur essendo Mirandola uno stato molto
piccolo, i Pico governano come sovrani indipendenti piuttosto che come nobili
vassalli. I Pico della Mirandola sono strettamente imparentati agli Sforza, ai
Gonzaga e agli Este, e i fratelli di Giovanni sposarono gli eredi al trono di
Corsica, Ferrara, Bologna e Forlì. Soggiorna in molte dimore. Tra queste,
quando vive a Ferrara, il palazzo in via del Turco gli permette di essere
vicino agli Strozzi ed ai Boiardo. P. compì i suoi studi fra Bologna,
Pavia, Ferrara, Padova e Firenze. Mostra grandi doti nel campo della matematica
e impara molte lingue, tra cui perfettamente il latino, il greco, l'ebraico,
l'aramaico, l'arabo e il francese. Ha anche modo di stringere rapporti di
amicizia con numerose personalità dell'epoca come Savonarola, Ficino, Lorenzo
il Magnifico, Poliziano, Egidio, Benivieni, Balbi, Alemanno, ed Elia. Entra a
far parte dei Idealisti Fiorentini. Si reca a Parigi, ospite della Sorbona,
allora centro di studii, dove conosce alcuni uomini di cultura come Étaples,
Gaguin e Hermonyme. Ben presto divenne celebre e si dice che ha una memoria
talmente fuori dal comune che conosce l'intera Divina Commedia a memoria. e
a Roma dove prepara CM tesi in vista di un congresso filosofico -- per la cui
apertura compose il “De hominis dignitate” -- che tuttavia non ha mai luogo.
Sube infatti alcune accuse di eresia, in seguito alle quali fugge in Francia
dove venne anche arrestato da Filippo II presso Grenoble e condotto a
Vincennes, per essere tuttavia subito scarcerato. Con l'assoluzione d’Alessandro
VI, il quale vede di buon occhio la sua volontà di dimostrare la divinità
attraverso la magia e la cabala, nonché godendo della rete di protezioni dei
Medici, dei Gonzaga e degli Sforza, si stabile quindi definitivamente a
Firenze, continuando a frequentare l'Accademia di Ficino. MUORE PER
AVVELENAMENTO D’ARSENICO mentre Firenze è occupata dalle truppe francesi di
Carlo VIII. Sepolto nel cimitero dei domenicani dentro il convento di S. Marco.
Le sue ossa saranno rinvenute da Chiaroni accanto a quelle di Poliziano e dell'amico
Benivieni. Siamo vissuti celebri, o Ermolao, e tali vivremo in futuro,
non nella scuola dei grammatici, non là dove si insegna ai ragazzi, ma nelle
accolte dei filosofi e nei circoli dei sapienti, dove non si tratta né si
discute sulla madre di Andromaca, sui figli di Niobe e su fatuità del genere,
ma sui principî delle cose umane e divine. Uno studio coordinato del
dipartimento di Biologia dell'Pisa, del Reparto Investigazioni Scientifiche
dell'Arma dei Carabinieri di Parma dimostra che e avvelenato con l'arsenico. Il
volto di P. ricostruito con le moderne tecniche forensi Di P. è rimasta letteralmente
proverbiale la prodigiosa memoria. Si dice conosce a mente numerose opere su
cui si fonda la sua vasta cultura enciclopedica, e che sapesse recitare la “Divina
Commedia” *al contrario*, partendo dall'ultimo verso, impresa che pare gli
riuscisse con qualunque poema appena terminato di leggere. Tutt'oggi è
ancora in uso attribuire l'appellativo “P” a chiunque sia dotato di ottima
memoria. Secondo una popolare diceria, ha una amante o una concubina
segreta. Tuttavia ha un rapporto amoroso con l'umanista Benivieni, sulla base
di alcuni scritti, tra cui sonetti, che quest'ultimo dedica a Pico, e di alcune
allusioni poco chiare di Savonarola. E comunque un seguace dell'ideale
dell'amor platonico, privo cioè di contenuti erotici e passionali. Anche la
figura femminile ricorrente nei suoi versi viene celebrata su un piano
prevalentemente filosofico. La sua filosofia si riallaccia all’idealismo
di Ficino, senza però occuparsi della polemica anti-aristotelica. Al contrario,
cerca di riconciliare aristotelismo e platonismo in una sintesi superiore,
fondendovi anche altri elementi culturali, come per esempio la tradizione
misterica di Ermete Trismegisto e della cabala. All'interno del testo
delle Conclusiones si scaglia duramente contro Ficino, considerando inefficace
la sua magia naturale perché carente di un legame con le forze superiori nonché
di un'adeguata conoscenza cabalistica. Il suo proposito, esplicitamente
dichiarato ad esempio nel “De ente et uno”, consiste infatti nel ricostruire i
lineamenti di una filosofia universale, che nasca dalla concordia fra tutte le
diverse correnti di pensiero sorte sin dagl’antichi, accomunate
dall'aspirazione al divino e alla Sapienza. In questo suo ecumenismo filosofico
vengono accolti non solo i filosofi esoterici insieme all’accademia e il lizio,
e tutta la filosofia gnostica ed ermetica, anche mistica. Il congresso da lui
organizzato a Roma in vista di una tale pace filosofica inserirsi proprio in
questo progetto culturale basato su una concezione della verità come princìpio
eterno ed universale, al quale ogni epoca della storia ha saputo attingere in misura
in più o meno diversa. In seguito tuttavia ai vari contrasti che gli si
presentarono, sorti a causa della difficoltà di una tale conciliazione. Si
accorse che il suo ideale e difficilmente perseguibile. Ad esso, a poco a poco,
si sostitusce nella sua mente il proposito riformatore di Savonarola, rivolto
al rinnovamento morale, più che culturale, della città di Firenze. L'armonia
universale da lui ricercata in ambito filosofico si trasforma così
nell'aspirazione ad una moralità meno
generica. A differenza di Ficino, emerge un maggiore senso di irrequietezza e
una visione più cupa ed esistenziale della vita. Al centro del suo ideale
di concordia universale risalta fortemente il tema della dignità e della
libertà umana. L'uomo infatti è l'unica creatura che non ha una natura predeterminata,
poiché. Già il Sommo Padre, Dio Creatore, ha foggiato, questa dimora del mondo quale ci appare. Ma,
ultimata l'opera, l'artefice desidera che ci fosse qualcuno capace di afferrare
la ragione di un'opera così grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la
vastità. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova
creatura, né dei tesori né dei posti di tutto il mondo. Tutti erano ormai
pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. Dunque
l'uomo non ha affatto una natura determinata in un qualche grado (alto o
basso), bensì. Stabilì finalmente l'Ottimo Artefice che a colui cui nulla
poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato
agli altri. Perciò accolse l'uomo come opera di natura indefinita e, postolo
nel cuore del mondo, così gli parla. Nn ti ho dato, o Adamo, né un posto
determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché tutto
secondo il tuo desiderio e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura
limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la
determinerai senza essere costretto da nessuna barriera, secondo il tuo
arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Afferma, in sostanza, che Dio ha posto
nell'uomo non una natura determinata, ma una indeterminatezza che è dunque la
sua propria natura, e che si regola in base alla volontà, cioè all'arbitrio
dell'uomo, che conduce tale indeterminatezza dove vuole. Non ti ho fatto
né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi
libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti
prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti. Tu
potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono
divine. Nell'uomo nascente il Padre ripose semi d'ogni specie e germi d'ogni
vita. E a seconda di come ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno
in lui i loro frutti. se sensibili, sarà bruto, se razionali, diventerà anima
celeste, se intellettuali, sarà angelo, e si raccoglierà nel centro della sua
unità, fatto uno spirito solo con Dio.Quindi, sostiene che è l'uomo a forgiare
il proprio destino secondo la propria volontà, e la sua libertà è massima,
poiché non è né animale né angelo, ma può essere l'uno o l'altro secondo la
coltivazione di alcuni tra i semi d'ogni sorta che vi sono in lui. L'uomo non è
né «angelo né bestia. La sua propria posizione nel mondo è un punto mediano tra
questi due estremi; tale punto mediano, però,
non è una mediocrità (in parte angelo e in parte bruto) ma è la volontà
(o l'arbitrio) che ci consente di scegliere la nostra posizione. Dunque l'uomo è
la più dignitosa fra tutte le creature, anche più degli angeli, poiché può
scegliere che creatura essere. Il suo secondo grande interesse è rivolto
alla cabala, che viene da lui spiegata come una fonte di sapienza a cui
attingere per decifrare il mistero del mondo, e nella quale Dio appare oscuro,
in quanto apparentemente irraggiungibile dalla ragione; ma l'uomo può ricavare
la massima luce da tale oscurità. Non esiste alcuna scienza che possa attestare
meglio la divinità che la magia. Connessa alla sapienza cabbalistica è la magia.
In fatti, il mago opera attraverso simboli e metafore di una realtà assoluta e dunque, partendo dalla natura, può giungere
a conoscere tale sfera metafisica attraverso la conoscenza della struttura
matematica che è il fondamento simbolico-metaforico della natura stessa.
Se la magia è giudicata positivamente per quanto riguarda invece l'astrologia
egli ebbe un atteggiamento diverso, che lo porta a distinguere nettamente tra
astrologia matematica o speculativa, cioè l'astronomia, e l'astrologia
giudiziale o divinatrice. Mentre la astrologica speculative ci consente di
conoscere la realtà armonica dell'universo, e dunque è giusta, la astrologia
prattica crede di poter sottomettere l'avvenire degli uomini alle congiunture
astrali. Partendo dall'affermazione della piena dignità e libertà dell'uomo,
che può scegliere cosa essere, muove una forte critica a questo secondo tipo di
credenze e di pratiche astrologiche, che costituirebbero una negazione proprio
della dignità e della libertà umane. L’astrologica prattica (o giudiziale)
attribuisce erroneamente a un corpo celeste il potere di influire sulla una vicenda
umana (fisiche e spirituali), sottraendo tale potere alla Provvidenza divina e
togliendo agl’uomini la libertà di scegliere. Non nega che un certo influsso vi
possa essere, ma mette in guardia contro il pericolo insito nell'astrologia giudiziale
di subordinare il superiore (cioè l'uomo) all'inferiore (ossia la forza
astrale). La vicenda dell'esistenza umana e tanto intrecciata e complessa che
non se ne può spiegare la ragione se non attraverso la piena libertà d'arbitrio
dell'uomo. Tuttavia, alcuni concetti base furono ripresi e rielaborati da Savonarola nel suo Trattato contra li
astrologi. Altri saggi: “Lettera a Barbaro sul modo di parlare dei filosofi”
– cf. Grice: “Full of implicatures – of the worst misleading type!” ; “Commento
sopra una canzone d'amore di BENIVIENI” – amore accademico -- “Discorso sulla
dignità dell'uomo”; “Tesi su tutte le cose conoscibili”; “CM conclusioni
filosofiche”; “cabalistiche e teologiche in ogni genere di scienze”; “Apologia”;
“Heptaplus: della settemplice interpretazione dei VI giorni della Genesi”; “Expositiones
in Psalmos, “L'essere e l'uno”; “Dispute
contro l'astrologia divinatrice”; “Carmi”; Auree Epistole. Sonetti, “Le XII
regole”; “Le XII armi della battaglia spirituale”; “Le XII condizioni d’un amante”
“Preghiera a Dio”; “Tutte le cose e alcune alter”. A lui si attribusce anche la
paternità dell’ “Amoroso combattimento onirico di Polifilo”. Sebbene egli
preferisse farsi chiamare Conte della Concordia. È in particolare Grazias, dopo
essere intervenuto presso i reali Isabella e Ferdinando, ad essere incaricato
da Innocenzo VIII di confutarne l'Apologia.
Avvelenato -- caso risolto, in Gazzetta di Modena, Gallello et al. Già
all'epoca della sua morte si vociferò che e avvelenato (cfr. S. Critchley, Il
libro dei filosofi morti, Garzanti).
Recenti indagini condotte a Ravenna dall'équipe di Gruppioni di Bologna riscontra elevati livelli di arsenico nei
campioni di tessuti e di ossa pre-levati dalle spoglie del filosofo, che
avvalorerebbero la tesi dell'avvelenamento per la sua morte (cfr. Delitti e
misteri del passato, Garofano, Vinceti, Gruppioni (Rizzoli, Milano). L’avvelenamento,
la cui morte finora si ritene fosse stata causata dalla sifilide, e ad opera
della stessa mano che due mesi prima avrebbe uccide Poliziano, legato a P. da
grande amicizia. Risolto il giallo della sua morte, Pisa, La sua memoria straordinaria.
enivieni fa porre anche una lapide sulle spoglie tumulate nella chiesa di S. Marco
a Firenze. Sul fronte della tomba è tuttora inciso. Qui giace Giovanni
Mirandola, il resto lo sanno anche il Tago e il Gange e forse perfino gli
Antipodi. BENIVIENI, affinché dopo la
morte la separazione di luoghi non disgiunga le ossa di coloro i cui animi in
vita congiunse Amore, dispone d'essere sepolto nella terra qui sotto. Sul retro
invece, in posizione poco visibile, è riportato l'epitaffio, “Girolamo BENIVIENI
per lui e se stesso pose nell'anno. Io priego Dio Girolamo che 'n pace così in
ciel sia il tuo Pico congiunto come 'n terra eri, et come 'l tuo defunto corpo
hor con le sacr'ossa sue qui iace”. GARIN, Vita e dottrina (Monnier); Zeller, L’aristolelismo
del LIIO rinascimentale, Luria, Yates, BRUNO e la tradizione ermetica Laterza; Perone,
Ciancio, Storia del pensiero filosofico,
SEI, Torino, Garin, Vallecchi, Sul richiamo di Pascal a P., cfr. B. Pascal,
Colloquio con il Signore di Saci su Epitteto e Montagne in Pascal, Pensieri,
Serini, Einaudi, Torino, Secret, I cabbalisti, Roma, Conclusiones nongentae. Le
CM tesi. Biondi, Studi pichiani (Firenze Olschki). Conclusiones Magicae numero
XXVI, secundum opinione propria”. Fra le tesi redatte in vista del congresso
filosofico di Roma, Non vi è scienza che ci dia maggiori certezze sulla
divinità della magia (cit. da Secret,
ibidem, e in Zenit studi. P. e la cabala). La natura è una correlazione
misteriosa di forze occulte che l'uomo può conoscere tramite l'astrologia speculative
e controllare tramite la magia. Distingue due tipi di astrologia: matematica e
divinatrice. Nega il valore della seconda (Granata, Filosofia, Alpha Test,
Milano). Lo stesso Savonarola sostenne di aver scritto il suo trattato in
corroborazione delle refutazione astrologice di P. -- cit. in Romeo De Maio,
Riforme e miti (Guida, Napoli). Indizi e prove: e Alberto Pio da Carpi nella
genesi dell’Hypnerotomachia Poliphili.
Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto La scienza
in Italia, opera del Museo GALILEI. Istituto Museo di Storia della Scienza di
Firenze, pubblicata sotto licenza Creative Commone, Mazzali, Basileae, per Sebastianum
Henricpetri, Basileae, per Sebastianum Henricpetri, Doctissimi Viri P.,
Concordiae comitis, Exactissima expositio in orationem dominicam, Bernardini, Apologia.
L'autodifesa di P. di fronte al tribunale dell'inquisizione, Fornaciari,
Società per lo studio del medio-evo, Galluzzo, Firenze); Barone, Antologia, Virgilio,
Milano, Studi Dario Bellini, La profezia, Oltre la C porta, Sometti, Busi, Vera
relazione sulla vita e i fatti, P., Aragno; Cassirer, “Individuo e cosmo nella
filosofia del rinascimento” (Nuova Italia, Firenze); Lubac, L'alba incompiuta
del rinascimento” (Jaca, Milano); Giovanni, La filosofia (Palermo, Boccone del
Povero); Frigerio, "Il commento alla Canzona d'Amore di BENIVIENI; Conoscenza
Religiosa, Firenze, Fumagalli Beonio Brocchieri, Casale Monferrato, Piemme, Garin,
L'Umanesimo (Laterza, Bari); Puledda, Interpretazioni dell'Umanesimo,
Associazione Multimage, Quaquarelli, Zanardi, Pichiana. delle edizioni e degli
studi, in "Studi pichiani" (Olschki, Firenze); Sartori,Filosofia,
teologia, concordia, Messaggero Padova, Zambelli,
L’APPRENDISTA STREGONE SODOMITA DELL’ACCADEMIA Astrologia, cabala e arte
lulliana in P. e seguaci” (Marsilio, Venezia); “Le fonti cabalistiche”; Busi,
"Chi non ammirerà il nostro camaleonte?" La bibliotica cabbalistica, Busi,
L'enigma dell'ebraico nel Rinascimento, Aragno Torino Campanini, Moncada -- Mitridate -- traduttore di opere
cabbalistiche, Perani, Moncada alias Mitridate: un ebreo converso siciliano,
Officina di studi medievali, Palermo, Jurgan e Campanini, con un testo di Busi,
Nino Aragno, Torino Saverio Campanini Fondazione Palazzo Bondoni Pastorio,
Castiglione delle Stiviere; cabala; Ficino Filosofia rinascimentale Mirandola
Umanesimo Prisca theologia.Treccani Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia; Il Centro P., L’Umanesimo, la cabala cristiana,
Discorso sulla dignità dell'uomo, P., Orazione sulla dignità dell'essere umano,
prima parte, su panarchy.org. I
"Carmina" e l'"Oratio de hominis dignitate", su the latin library
The Kabbalistic Library of P., su pico-kabbalah.eu. Giovanni Pico, dei conti
della Mirandola e della Concordia. Giovanni Pico, conte della Mirandola e della
Concordia. Giovanni Pico della Mirandola. Pico. Keywords: amore platonico,
amore socratico, Pico e Girolamo – l’epitafio – amore platonico Ficino – la
dignita dell’uomo, la concordia degl’antichi, la magia, il platonismo di Pico.
Pico e Pico, i apprendisti stragoni sodomiti, o dell’amore accademico. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Pico: the dignity of man," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Pico: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dello stregone sodomita
– filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mirandola). Filosofo italiano. Mirandola, Modena, Emilia Romagna. Grice:
“It is very likely that Cartesio took the idea of the malignant daemon from
Pico, who was obsessed with him – with the daemon, I mean! “Demonio!”” Grice:
“I like Pico. Ackrill suggested that I should translate happiness as taking
‘daemon’ seriously. Pico does: He allows Alberti’s use of ‘demonio’ as a direct
translation of Roman ‘daemone,’ which is Grecian in nature.”Grice: “A daemon is
always ‘maschile,’ succubus, or incubus – and stregus is gender-neutral, too,
as Pico was very well aware when he allowed the burning of a few male witches
at Mirandola. On the other hand, he uses Sextus Empiricus and Phyrro against
Aristotle!” Grice: “Like Gentile, and Rosselli, two other Italian philosophers,
he was murdered – by his successor to the county!” “A very sad thing is that he
was murdered along with his son Alberto.” Grice: “The murderer, a Pico,
succeeded him without much of a revolt – That’s the Renaissance forya!” --- Important if unjustly neglected, murdered,
Italian philosopher. Italian nobile e
filosofo, nipote di Pico. Grice: “He was murdered by his ‘successore
definitivo’ – along with his ultragenito figlio – Descendants of NERONE would
be surprised to learn that his primogenito did not seek revenge – perhaps he
couldn’t care less – MIRANDOLA ain’t ROMA!” Figlio di Galeotto I Pico, signore
di Mirandola. Come lo zio, Pico, P. si dedica principalmente alla filosofia, ma
ha reso soggetto alla bibbia, anche se nei suoi trattati, De monolocale divinae
et humanæ sapientiæ e in particolare nei VI libri intitolati examen doctrinæ vanitatis
gentium, si deprezza l'autorità dei filosofi, al di sopra tutti l’Aristotele
del LIZIO. Scrive una biografia dettagliata di suo zio (“Ioannis Pici
Mirandulae Vita”) e un altro di SAVONAROLA (si veda), di cui è un seguace. Avendo
osservato i pericoli a cui la società è esposta, lancia un avvertimento in
occasione del concilio lateranense: Oratio ad Leonem X et concilium Lateranense
de reformandis Ecclesiæ Moribus (Hagenau, dedicato a Pirckheimer). Muore a
Mirandola, assassinato dal nipote Galeotto, insieme a suo figlio. Mentre spesso
sostene che la filosofia raggiunta una parte della verità, dice in effetti, che
la filosofia da soli è una semplice raccolta di falsità confusi e internamente
incoerenti. In possesso di un tale punto di vista, si schiera non solo con SAVONAROLA,
ma con alcuni dei padri e con i riformatori pure. Su questo punto, è
insistente. Il cristianesimo è una realtà auto-sussistente e che ha poco o
nulla da guadagnare dalla filosofia, le scienze o le arti. Questa tesi centrale
si diffonde attraverso quasi la sua intera produzione filosofica. Scrive di non
lodare o estendere il regno della filosofia, ma di demolirlo. Saggi: “De
studio di divinae et humanae philosophiae,” “De imaginatione” – Grice: “This is
interesting. Pico starts by noting how Cicero mistranslated imaginatio from
‘phantasma.’ Vitters would not have agreed!” – “De pro-videntia dei,” “De rerum
prae-notione,” “Quaestio de falsitate astrologiae,” “Examen vanitatis gentium
doctrinae et veritatis Christianae
disciplinae, “”Strix, sive de ludificatione daemonum”; Libro detto strega o delle
illusioni del demonio,” – Grice: Pico is using ‘demonio’ literally; Descartes
isn’t!” – “Opera Omnia,” – C. Herbermann. Burke, "Stregoneria e magia: P.
e il suo stragone," di SAnglod, The
Damned Art: Saggi in letteratura di Magia, Londra. Herzig, "La reazione dei demoni
alla sodomia: magia e omosessualità nel stregone di P." Kors e Peters. La stregoneria in Europa, Una storia
Documentario. Estratti dal P. Lo stregone, Schmitt, P. e la sua critica al
Lizio (The Hague, Nijhoff); Pappalardo, “Fede, immaginazione e la scessi"
(Nutrix), Turnhout: Brepols. Centro di Cultura; Springer. Nobile, filosofo e
letterato italiano. Signore di Mirandola e conte di Concordia. Assassinato dal
nipote Galeotto II Pico, suo successore. Succede al padre nel governo dei
feudi, ricevendo conferma dell'investitura dall'imperatore Massimiliano I
d'Asburgo. I fratelli, non contenti, assediano e bombardano la Mirandola e gli imprigionano.
Rilasciato solo con la promessa di cessione dei domini. Si ritira a Roma. Critica
il paganismo classico. Scrive una biografia dello zio Pico, intitolata Vita, anteposta a un volume
che ne raccoglieva l'Opera omnia, e riprese alcune sue dottrine, come la lotta
contro l'astrologia. Seguace di SAVONAROLA, si batte inutilmente per la sua
assoluzione, e ne scrive una bio-grafia e tanato-grafia: la vita e morte di
SAVONAROLA. Sostenne da un lato la necessità di un rinnovamento della
disciplina ecclesiastica e dall'altro i problemi della filosofia. Scrive il “De
reformandis moribus,” che invia a Leone X, l'”Examen vanitatis doctrinae
gentium et veritatis christianae disciplinae,” nel quale attacca la filosofia
arcaica; e, non ultimo, “Libro detto strega o delle illusioni del demonio,” sulle
possessioni demoniache. L'”Examen” non
attacca soltanto la filosofia arcaica, ma si scaglia ugualmente contro
Aristotele del Lizio ed AQUINO. Dei due filosofi, contesta la fiducia nella
conoscenza e nella ragione, che permetterebbero con la forza dell'intelletto di
intuire la verità ultima. Al contrario, al pari della dottrina esposta dal Cusano
nel De docta ignorantia, nutre una profonda sfiducia nelle capacità umane,
riconoscendo alla ragione solo la possibilità di giungere a una conclusioni
arbitraria. Riprendendo alcune tesi tipiche della SCESSI di Pirrone e Sesto
Empirico, nega la validità dei sillogismi e dell'induttivismo, svaluta l'idea
della causalità. Nulla è conoscibile, mentre la fede può fondarsi solo su una
rivelazione. Muore assassinato dal nipote Galeotto II assieme a suo figlio. Altri
saggi: “De studio divinae et humanae philosophiae”; “Dialogus de adoratione”; “Quaestio de falsitate astrologiae”. Pompeo, Famiglie
celebri di Italia. Torino, Delumeau, “Il
peccato e la paura” (Bologna, Mulino); Pappalardo, "Fede, immaginazione e la
scessi" (Turnhout: Brepols). Assedio della Mirandola, Assedio della
Mirandola di Giulio II, Caccia alle streghe nella Signoria della Mirandola, Sovrani
di Mirandola e Concordia. Schizzo biografico a cura de Il Centro P.. Treccani
Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia. Giovanni Francesco
Pico della Mirandola. Giovanni Francesco II Pico della Mirandola. Gianfrancesco
Pico della Mirandola. Gianfranco Pico della Mirandola. Pico. Keywords. Refs: Luigi
Speranza: Pico. Keywords: demonio, demonologia – read excerpts of Stryx in the
Italian volgare under entry for translator. Refs.: “Grice, Acrkill, Pico and Alberti, on ‘demonio’,” Luigi
Speranza, "Grice e Pico," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia -- Gianfranco Pico della
Mirandola.
Luigi Speranza -- Grice e Pieralisi:
la ragione conversazionale o la teoria del segno – la scuola di Jesi -- filosofia
marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Jesi). Filosofo italiano. Jesi, Ancona,
Marche. Esalta il valore della pace fra i romani e fra tutte le creature. L’anima
è presente non solo negl’esseri umani, ma anche negl’altri animali, ai quali
appunto l'anima conferisce come agl’uomini un'esistenza eterna al di là della
morte. Per tali motivi sottolinea la necessità etica di trattare gl’animali con
rispetto ed amore. De anima belluarum: sopravvivenza? Una domanda, Rocco,
Venezia. “Della filosofia razionale speculativa parte soggettiva ossia la
logica” (Pace, Roma); “La filosofia razionale pratica; ovvero, dei doveri
naturali” (Pace, Roma); “Sui vizi capitali dell'insegnamento scientifico:
riflessioni” (Pesar). Segno chiamo una cosa qualunque che colla manifestazione
di se indica una qualche altre cosa. Col vedere che e quell oche dico “segno”
si viene a sapere che sia anche l’altro di cui e segno. Segno ARBITRARIO chiamo
quell oche per libera disposizione degl’uomini e stato destinato ad indicar la
cosa che significa. Nel segno naturale
l’eistenza sua coll’esistenza di quell ova naturalmente congiunta. Il segno è rappresentativo
si sta in lugo della cosa che significa, la rappresenta, ne tiene le veci. Come
l’immagine de un uomo si pone in lugo dell’uomo. Ci sono V massime della
conversazione. I la parola si adopre ad esprimere ci oche l’uso stablito vi
esprime. II si deve evitare la ambiguità: una parola che e equivoca non si
adopria almeno nei contribuzioni alla stessa conversazione, ora cosi, or cosa. Ora
nell’uno ora nell’altro dei suo significanti – o signati. Seppure la diversità
loro non è tale che togliesse ogni pericolo di equivocare. III Adoprando un
vocabolo oscuro, che non è di uso e non e di quell’uso che se nuo vuol fare, si
fefnisca il senso nel quale se adopra, onde far nota che s’intende signare con
esso. IV nell’esporre le cosa o dimostrare la verità, la parola è usata nel
senso suo priprio, evitando tropi, figure, ed altre eleganze, che, se giovano
al bello, pregiudicano spesso al vero; essendoche eccitano l’immaginazione a
figurarise le cosa, anziche chiamo l’attenzione a vederle nell’esser loro ad a
conoscerle quali son. V se per la scrazesa dei termini è necessario usare una
stessa parola in un senso alquanto diverso, non si tracuri, per amore di brevità,
di aggiugere ad essa quant’altre parole sieno necessario perche il senso che si
vuole che abbia, riesca caro e preciso. Sezioni: ‘Sopra-sezione: il segno
dell’idea. Segno. Segno naturale, segno arbitrario. Segno manifestativo e
suppositivo o rappresentativo. Segno dell’idea, segno del pensiero. Il gesto –
segno del pensiero. Parola è un segno articolato. La parola ha un aspetto
fisico e un aspetto logico. Quanto considerate semplicemente nell’esere
materialmente è un segno fisico. Se viene considerate in quate e segno di
un’idea od esprime un pensiero, è presa formalmente – logicamente. Le parole
sono comune o propri, di uno o piu eseri, la parola ‘pietro’ e semplice, un
termine complesso e ‘uomo eminentemente virtuoso’, o semplicemente, un santo.
Termine categorematico e sincategorematico. Una parola che DA SE SOLA NULLA
SIGNIFICA (“He implies that and”), ma solamente se si aggiune ad altra, della
quale modifica la significazione specialemente in qualte all’estensione
dell’idea de cui e segno. Essempli de segno sincategorematico sono ‘ogni’ e
‘qualche’. ‘Leone’ permette una figura. Si usa ad indicare una spezie di
animale, una costellazione in forma di leone, o un uomo che si comporta come un
leone. Un termino analogo e ‘saludabile’ che si applica al cibo, al scremento, ed
al stilo di vita. Quando il segno è segno manfestativo d’una idea o segno
suppositivo della cosa rappresentata da esse. Il segno dunque tiene nella
conversazione il luogo della cosa della quali si parla, falle le loro veci, la
rappresentato. Questo loro officio chiamo la loro supposizione, lo stare cio
per le cose, il sustituirise, o, meglio, l’essere sostituiti ad essa. La
supposizione è materiale se il segno sta per se stesso materialmente preso. La
supposizone è formale se il segno e adoprato secondo il suo esser logico, se
sta per quello che chi parla ha destignato a segnare. ‘uomo’, dotato di
ragione. La supposizione formale puo essere semplice o logica reale. La
supposizione formale è logica si il segno sta per l’idea di cui è segno, e ch’è
la cosa da lui immediatamene espresso. ‘L’uomo e una specie’. La supposizione e
reale quando sta per la cosa stessa esistente nella natura sotto quella forma,
in cui l’essere è rappresentato dall’idea, di cui il segno è segno – L’uomo
vive. La supposizione puo esser reale, colletiva e distributiva. La
supposizione formale reale d’una parola puo essere colletiva o distributive. È
colletiva se la parola sta nel discorso per TUTTI e ciasccuno CUPULATIVAmente
gl’individuo di quell nome, ossia gl’essere che sonno nell’estensione dell’idea
dal segno espresso. Come se si dicesse, le parti equagliano il tutto. La
supposizione e distributiva se il termine sta per tutti e ciascuno
DISGIUNTIVAmente gl’esseri prappresentati dall’idea, di cui e segno, sta per
uno di esso, o queso o quell oche sia, e cosi sta per ognuno, ossia vale per
ognuno chi o che è detto delle cose rappresentate dalla idea significate al
segno. Le parti sono inferiori al tutto. Gl’uomini hanno forza minore di quella
d’un cavallo. C’è la possibilità intriseca dell’origine naturale dei segni. Non
pottrebe mai dimostrare dell’impossibilità in cui gl’uomini si arebero trovati
di costituirse un linguaggio per comuniare fra loro e manifestare
recipricamente i proppi pensiere. Sebeene molto e rilento e non senza gravi
difficoltà hanno tuttavia posti nella necessità di farlo putoto elevera a segni
delle cosa e costituirli cosi termini logici. Quelle che per una combinazione o
relazione e coll’aiuto d’un gesto hanno puotuo associare alle idea della cosa.
Nessuna ripugnanza in cio si vede, e finche ripugnanza non si vede, la
possibilità d’una cosa non puo essere a buon diritto negata. La parola serve
all’uomo mirabilmente per TRASFONDERE negl’altri le sue conosence, per mostrare
le ragione nelle quali egli ha scoperto l’essere di tante cosa, che
immediatamente non apparisicono e non si possoni in loro stesse vedere e
perceptire, per guidare in somma per sentiteri gia battuti alla conoscenza di
cose alle quali tutte ciascune da se solo sensa l’aiuto dell’altrui
intelligenza I cui acquisti gl imanifesta la praola non avvrebe trovato la via
di pervenire. Per intedere il discorso si tiene in cota tre fattori. I al senso
che colla definizione il parlante ha dichiarato di voler dare alla sua parola. II
a quello que aparisce DAL CONTESTO avvervi volute significare. III al CONCETTO
che si sa ch’egli puo avere delle cose di cui parla, perche nessuno puo volere
esprimere quell che non sa. Pieralisi. Keywords: segnare, segnato, segnante.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Pieralisi.”
Luigi
Speranza -- Grice e Pieri: ragione convversazionale ed implicatura
convversazionale – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma,
Lazio. or — Lan più profondo, e ben più atto a dissipare ogni cattiva opinione
delle matematiche, il pensiero del nostro (+. Leopardi, che qui ripeto con le
sue stesse parole. LEOPARDI (si veda) dice. È certo che il grande poeta può
essere anche gran matematico, e viceversa. Se non è, se il suo spirito si
determina ad un solo genere (che non sempre accade) ciò è puro effetto delle
circostanze. Ed altrove. Si può dir che da una stessa sorgente, da una stessa
qualità dell’animo, diversamente applicata e diversamente modificata e
determinata da diverse circostanze e abitudini, vennero i poemi di ALIGHIERI e
i Principi matematici della filosofia naturale di Newton. Si o Signori; anche la
matematica è in non piccola parte poesia! Anche il matematico guarda dall’ alto
la realtà delle cose. E, astraendo da ciò che hanno di greggio e di mutabile o
caduco, ne ravvisa le parti perfette e immanenti, ne rileva le mutue relazioni
con linguaggio espressivo ed universale. Anche il matematico trasforma certe
impressioni da pochi avvertite in mirabili edifizi speculativi, come per sola
virtù di fantasia. Al matematico tocca similmente il travaglio di costringer l’idea
nella formula, di cimentare il pensiero alla stregua di lunghi e penosissimi
calcoli ! E (dico con Exkico D’ Ovipio) il sentimento dell’eleganza nel
concetto e della venustà nella forma non spiccano forse nei veri matematici
come nei poeti. Così che spesso una dimostrazione è bella quasi allo stesso
modo di un so- [Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura ’ INT, . 10
TT CRM ne ezzo dei cerchi attribuiti ad Zulero; e già segnalata ]a m falda i
FAIR transitività di certe ca simili — oltre quelle significate comune-
relazioni — come l’esser legato insieme con », © anne mente per le frasi è
contenuto IN,, “è maggiore di”; “è uguale a”, eco. Ma non di meno resta sempre
a Leibniz il merito di aver visto prima d’ogni altro la possibilità d’una
logica matematica, come oggi 8’ inten- de. e di averne tentato la costruzione.
Sentio — Egli _ dior — Logicam quæ habetur in scholis tantum abesse a Logica
illa utili in dirigenda mente circa veritatum
variarum inquisitionem, quantum differt arithmetica puerilis ab algebra
praestantis mathematici. Con tutto ciò nulla Ei dette alle stampe di queste Sue
profonde ricerche: i cui mirabili frutti vengono oggi alla luce per la
pubblicazione dei Suoi manoscritti inediti della Biblioteca Reale di Hannover.
I successori, sopra tutti lo svizzero LAMBERT; ed el’ inglesi Boole, De Morgan
e MacColl, l’americano Peirce e i tedeschi Scimoner e Frege, sapendo che
Leibniz è giunto comporre un algoritmo logico fondato sulle proprietà dei segni
d’inclusione (si p, q), di congiunzione (p e q) e disgiunzione (p o q), di negazione
(non p), di eguaglianza e di assurdo, riuscirono per vie n Verse ricostituirlo
in un tutto organico e a svolgerlo sistematicamente Der altro senz’aggiungervi
gran che di nuovo, come di poi 8'è visto. — Ka è importante [L. Coutunat,
Opusenles x dar st 20 Paro DE i = Uh ba, >. dr La (3 © a 5 = Mu i al 4 n Se
I P #. +9 è i facfiacua di A eredi indamenti delle varie disciplino
matomatiche, tn codesto ricerche, dove l’errore si cla spesso in malintesi o in
particolari di poca o niuna apparenza. molto giova uno strumento per osservare
le minime dit ferenze ideali (differenze che, tra le frange e le piezte del COMUNE
LINGUAGGIO [H. P. GRICE, The informalist’s and the neo-traditionalist’s
language] e senza una Jente che le ineraadisca, passano troppo sovente
inavvertite); uno strumento che ci costringa a pesare e vagliare
scrupolosamente ogni idee; che notomizzi ogni ragionamento, e ne palesi l’intima
struttura e lo scheletro. Non è forse eccessiso pa ragonare la logica
matematica ad una microscopia del pensiero. E tutto l’indirizzo logistico ad
una spere di positivismo della ragion deduttiva. Chi non sente, ad es., il
pregio di aver sott'occhio in brevissimo spazio, così da poterle abbracciar con
lo sguardo, tutte quante l’ipotesi che è d'uopo non perder di vista nel corso
d’ una dimostrazione un po’ complicat. Come l’occhio umano è in sè tutt'altro
che un docile e sicuro strumento degli atti a cui si direbbe ordinato, così la
parola, non sorretta dal metodo, è bene spesso argomento di gravi ‘llusioni ed
errori. E però, l'andare coi piè di piombo è savio proposito in chi muove per
gli ardui sentieri. dell’induzione sperimentale o storica, non ia! consiglio
meno opportuno a chi voglia percorrere con | —’sicurezza Je vie della deduzione
logica, în apparenza tanto - *® N tica circonda una dimostrazione rigorosa,
sembrano n «| più facili e piane. Le cautele, di cui la logica matema- messa
Inavvertita: e che hanno bene un volgersi a cose di poco è niun alle inezie. Se
non che la c SPesso appar Conto, e dj a e AR) LA Uura anche delle I piccole e
delle mezie si Potrebbe, Ml di 8811 1 SELE siii sh ) "4 VCCOrrenz; ben
contortare e giustificare OSBervando, con ( L na siate vi. enza di dar COrpo
(TOSCO TOPARDI, € Non altrimenti il filosofo AFTIVa alle “ rità che
sviluppando, indagando, svelando ; (10 « do, notando le menome cose;grandi ve-
consideran- ‘ grandi nelle loro menome ME piloni E mi soccorre qui un fatto
narrato da Maurizio Cax- ror nella sua Storia delle Matematiche. Prima dell’invenzione
del calcolo infinitesimale -- dovuta principalmente al genio di Leibniz --
sopperivano in parte agli uffici di questo i varî metodi così detti d’
esaustione, degli indi- visibili, delle tangenti, dei massimi e minimi, ecc:
tutti, per altro, così artifiziosi e manchevoli, che a bene usarli richiedevasi
poco meno che il genio dei loro grandi scopritori. Un illustre matematico
olandese, l’ Hurcess, che tutti Ji dominava nella vastità del suo ingegno,
mosse all’ incirca quest’ objezione al Leibniz: Dove Voi giungete col vostro
algoritmo degli infinitamente piooali, 20 giungo del pari co” miei artifizì
geometrici; © non © * problema da Vtrattato, ch’ io non sappia risatvei “A gli
altri processi a me noti. Rispose I Laine Li 5 milmente per designare la
potenza mo di @ nol "i \ono ancora A 400 dl m Volte di seguito, ISS (*)
Loc. cit., III, 79. PIE = ut ste lo studio delle relazioni d’inelusione è di
pri * . licazione fra concetti generali ed astratti | i è, non ostante i
tentativi ignorati DS fortunati) di Jungins 6 Leibniz, e dei I i @ ; loro
discepoli, nulla poteva far presagire una sua rina- scenza, 0 um suo sviluppo
ulteriore. Dal canto loro le matematiche formavano una collezione di scienze
speciali d’ indole tecnica — scienza del numero, della quantità. dell’
estensione, del moto — collegate fra Joro sopra tutto dalla comunanza del
metodo. Ma come Pascal secnalava a’ suoi tempi (e molti di noi constatammo, non
senza stupore, all’ inizio dei nostri studî) codesto metodo deduttivo proprio
delle matematiche era quasi straniero alla Logica formale, che nondimeno
presumeva studiare ogni foggia di raziocinio. Esisteva dunque implicitamente,
sino ab antiquo, una logica matematica al tutto indipen- ente e remota dalla
Logica classica 0 sillogistica, pale- satasi da gran tempo incapace di render
conto dei razio- cinii matematici: e i filosofi non sapevano altrimenti spie-
gare codesta dualità, che appellandosi ad una cotal di- stinzione fra Jogica di
qualità ‘e logica di quantità ; ma senza troppo indagare il come © il perchè
d'un così deplorevole contrasto. Siffatta condizione di cose cambiò sostanzi A
1850 in poi. Da un Jato | matematici furon
DreSt sa scrupoli logici ignoti fino £ quel tempo i * Re e Ve ee
sostanzialmente dal 7 [Couturat, Les principes des mathémaliques, PAIS o (i.
Cixror ed altre menti di eletta indole critica, essi si dettero ad analizzare i
loro processi dimostrativi, a rive- der la catena dei loro teoremi, a indagare
e notare tutte le ipotesi che s’ eran di nascosto insinuate nei loro ra-
ziocini: in somma a scalcinar le pareti e a scoprire i fon- damenti dei loro
edifizî speculativi, per costatarne la mag- ciore o minor solidità e
resistenza. L'analisi infinitesimale, i cui principî serbavano ancora qualcosa
di misterioso e di paradossale, fu definitivamente stabilita sulla dottrina
ricorosa dei limiti; la teoria delle funzioni fu approfon- dita e liberata da
molti pregiudizi d’ origine intuitiva : onde il maraviglioso e proteiforme
sistema dell’ analisi matematica astratta si palesò capace di reggersi tutto
sul concetto di numero intero e sugli assiomi aritme- tici; e potè constatarsi
in modo non dubbio la in- sufficienza dell’ intuizione, come principio e fonte
delle nostre conoscenze intorno al numero e alla quantità. La (ieometria e la
Dinamica, spogliate a poco per volta d'o- eni elemento intuitivo, divennero
infine veri sistemi 2p0- tetico-deduttivi: dove — premesso un certo numero
d’as- siomi e postulati (che possono anche dissimularsi, sotto veste di
definizioni) — tutto il resto procede per sola virtù del DISCORSO RAZIONALE.
Nacquero e si organizzarono la geometria di posizione, la dottrina degli
aggregati e dei gruppi di trasformazio- ni (tre colonne della odierna
matematica pura): da cui si manifestò che Je scienze del numero e della
grandezza non erano giù primordiali — come si stimò lungo tem- po — ma che anzi
riposavano sopra dottrine di carat- [4 I, : PIRA, todi. À Po se i nn i == ir!
te; ti = = a tere piuttos ESS piuttosto logico che malematico, e sopra nozioni
che nulla. avevano di quantitativo (*) |? I | . Dall’ altro canto Ja Logica,
specialmente per opera di matematici, usciva proprio in quel tempo dal suo
torpo- re secolare (**). Dapprima, accorgendosi di non aver nem- meno esplorato
e dissodato l’intero campo, dove Aristo- tile l’avea circoscritta, scopriva nel
ristretto dominio delle relazioni d’inclusione fra concetti ben altre forme di
de- duzione, che i troppi famosi modi del sillogismo ; IV deì quali su XIX — e
cioè le forme in Darapti, Bramantip, Fesapo e Felapton — si trovaron FALLACI,
ove non si congiunga alle due premesse una certa PROPOSIZIONE ESISTENZIALE. Appresso,
ispirandosi ai metodi e al simbolismo dell’algebra, la logica formale si
costituiva, per la prima volta dopo Leibniz, sotto il duplice aspetto d’un calcolo
delle classî e d’un calcolo delle proposizioni: due indirizzi paralleli, dove
spuntano analogie mirabili; il primo dei quali è più elementare e si scosta
meno dalla logica classica, dove l’altro, che oggi tende a prevalere, è più
generale e va più lontano. Di più, considerando che la mente nostra — così
nella vita quotidiana, come nell’ investigazione scien- tifica — ha da operare
con ben altre relazioni, che non (*) Primo ad osser consapevole di codesta
verità è Boole (uno tra i fondatori del calcolo logico) che afforma «non
appartenere all'essenza delle matematiche l'idea di numero e di quantità (Laws of Thought, Profaziono. Couturat. V. p.
os. Mac Cont. La' Logique symbolique et ses applications’, Congrès intern. de
Phylos., Paris, free UE 1200.) a o di predicazione fra concerti, 1a notomizzare
classificare ogni atudiarno quelle proprietà formati, | vol di deduzione: 0
AMHumevk pertanto | { (° il carattere universale di Logica delle rebazioni nel
quale ; DE A gi va confermando ogni giorno, Mo gtiamo ni più prgn. Mae” do” i
lavori di Sonmonpen, Ponnskt, Wurwrenap, Rue 4 gle tri, E poichò le relazioni
più semplici è più suggestive | is sono appunto quelle, che intercedono fra gli
oggetti. pr A contorni ben definiti delle discipline matematiche, gi ape
Di 7 i ng pa dep) as a fia ali pf fg pù
pri pei rt | si, ff. ppt sie 4 = LIE, E mn. 1 lf La dt eo” proget È * td xa *%
carattere di per nossologion; fatti Geometrie indipendenti da. gempré d'accordo
con l'intuizione (Geometrie, dove sol per appross Ls non troppo den era LIEZE
eg ei deh an so 30 forze dipenda da tutto il movimento passato (ipotesi
suggerìta specialmente dai fenomeni d’isteresi)—oppure una ipotesi di
solidartetà, per la quale il campo di forze, lungi dall’essere indipendente dal
punto isolato che gi muove, subirebbe nel moto una variazione locale
progressiva, come se fosse occupato da un mezzo partecipe del movimento
generato da quello (ipotesi che appunto si affaccia nella muova dinamica degli
elettroni). * dx * Se nel considerare il lato puramente formale delle
discipline matematiche sl perde di vista — o addirittura si esclude —ogni
materia reale o possibile delle loro implicazioni, sì cade in quel difetto che
chiaman nominalismo: la cuì forma genuina consisterebbe nel credere o supporre
di aver dinanzi un complesso di simboli e di convenzioni arbitrarie, vuote di
contenuto e senza alcun valore oggettivo. Questa è infatti la taccia, nella
quale incorrono più di frequente i matematici, con la tendenza a foggiar da sè
stessi il loro mondo, a riguardare le idee matematiche come pure creazioni
della mente. La formazione dei concetti matematici è un atto pienamente libero,
dice Cantor, salve soltanto la compatibilità d'ogni concetto coi rimanenti. Se
non che i matematici non sempre si curarono di rispettare questa condizione
alla lettera, la qual cosa avrebbe fornito loro senz’al- troalcun che di
esistente nella sfera di quei concetti. Pur sarebbe ingiusto il tacere, che un
tal peccato non [Grundl. e. alla. Mannichfaltigheitslehre, Loipzig] potò mai
partorire effettivamente alcun danno alla pratica, hd alla dottrina: in grazia
forse di quella certa armonia, che (secondo SPINOZA) fa sì che le operazioni
del nostro intelletto siano a priori intonate coi fenomeni dell'universo. Per
es. quegl’enti, che poi si chiamaron quantità immaginarie, non eran dapprima
che meri simbolì dì mon eststenza; e pretto nominalismo fu l’ostinagione dei
matematici nel conferire ai medesimi certe proprietà formali è nell’operar su
di essi, come se celassero qualche substrato reale. Or bene, in oggi le
interpetrazioni tangibili e le applicazioni positive di que’ ‘ giuo chi dì
parole non si contano più! Che cosa di più arbitrario e convenzionale delle
regole d’un giuoco, d’onde sì traggono spesso deduzioni su deduzioni, prive d’
ogni senso reale? Eppure il calcolo delle probabilità [KNEALE, citato da GRICE],
così largo di aiuti all’esperienza e fondamento del metodo statistico dei
grandi numeri, ha origine da questioni relative a dadi e a giuochi di carte. È
fuor di dubbio che i matematici vanno assumendo, di giorno in giorno
atteggiamenti sempre più nominalistici. Ma non è più tempo oramai di quel
nominalismo grossolano ed empirico, che dall’ Hobbes sì concepìva presso a poco
nei termini che ho detto sopra; bensì del trattare e maneggiar come simboli gli
oggetti dell’investigazione matematica, ragionando in questa maniera. Se nell’
universo fisico o mentale esiste un quid, ce i so disfaccia alle condizioni da
me imposte a que’ pinta per esso dovranno verificarsi i tali e tali altri fatti
da me dimostrati. Oppure. Le mie premesse C) di iP » Pi bai Di Ce e ì tie free
ì Lai © * #, > #.. Pi e = dei ci RI A n RA Osono da 1 co per compatibili,
sino a prova in sensanio. Ora è chiaro, che altro è negare e disconoscere aì
simboli qualsivoglia contenuto reale o possibile, altro è — come quì—trascurare
ogni loro interpetrazione speciale; e operar su di essi prima ancora di
conoscerne il senso reale, e senza inquietarsi perchè non pajano aver corpo
oggi, e non trovin per ora alcun riscontro positivo nei fatti. Il peggio che
possa accadergli —dice Voi, o Signori— è di perdere il tempo. Ma il nominalista
risponde, non senza ragione, che il mondo immaginario in cui vive è pieno
d’attrattive per lui; ch'egli fa l’arte per l’arte, e che la soddisfazione e
l’onore dell’ ingegno umano son fini più che bastanti a giustificare qualunque
ricerca scientifica. Nè io saprei dargli torto. Voi fate la scienza del reale —
egli dice—noi moviamo a ricercare il possibile. A voi basta acconciarvi alle
cose che esistono, così da cavarne il miglior partito pei vostri bisogni; la
vostra sapienza mira sopra tutto a prevedere ciò che sarà per succedere, a
somiglianza di quanto è accaduto in addietro o che suole accadere al presente:
noi per di più ci occupiamo di quel che accadrebbe, se certe condizioni si
avverassero, se tale o tal altra parte della realtà si mo- dificasse. Negherete
di darci ascolto, proprio ora che da più parti si cerca di ridere a spese di
quelle tali objettività e realtà, che sapete? Meditiamo insieme, piuttosto, al ‘tu
solo, o ideal, sei vero’ del sommo poeta. Pig Ogni dottrina deduttiva ripete l’esser
suo, la sua vita da quel processo intellettuale che va sotto il nome generico
di SILLOGISMO (in senso lato) dot. o IMPLICAZIONE CONVERSAZIONALE (what an
utterer implies in conversation), ; renza; e che permette di trarre plicazione,
infe- due 0 più promesse. Or che big necessarie da conclusioni necessarie?
lovrà intendersi per «Adlo mitica presente della critica, non par che si po
rispondere in modo assoluto. Le varie tendenze sui che circa il modo di
concepir la natura e gl’uffici del x; ragione potranno dar forse qualche }lume
in proposito. Il matematico sospende il giudizio. Pago, se il paragone e
l’analisi dei vari tipi di raziocinio, sanzionati dall’uso, gli consentono di
riconoscere un certo numero di fatti generali e costanti come norme della
ragion deduttiva. E se può coordinarli in un tutto coerente ed armonico. Così è
che i logici-matematici — da Boole sino a Peirce, a Schroder, a PEANO (si veda),
a Russell — riuscirono dapprima a compilare un elenco, indi » formare un corpo
di nozioni e principî, da cui par che dipenda ogni efficacia e virtù di
ragionamento. I frutti migliori da lo studio delle varie fogge di
argomentazione e d'’illazione familiari alle scienze matematiche. Nè vi sono
ormai discrepanze fra i risultati, benchè l’opera non possa dirsi anche
perfetta. i È, credenza generale è ben fondata, che la matematica ipeta Ja sua
certezza dall’intima comunione con le leggi -omutabili della logica, ossin coi
principî costitutivi ne son sarebbe forse men Vero il s0g> po fe __
viceversa — la stabilità e permanenza di i ei a fl lungo tempo cimentati ©
tempra 9° SO: 0% 3 veli ira e FAZIONE Non si tratterebbe, se mai, d’ circolo
vizioso: e d’un intreccio di eventi capaci di determinarsi a vicenda; nel quale
parve anzi ad alcuno di ravvisare come un saggio eloquente e nativo di quel
processo, che i matematici chiamano per
approssimazioni successive. Non vediamo noi l’esperienza modificar senza tregua
i nostri concetti fisici. E questi, così modificati, condurre man mano a nuove
previsioni e e a nuove esperienze. E così, per via di approssimazioni
successive, i concetti divenir sempre più maneggervoli e le esperienze più
conclusive? Tutto sta che il processo sia convergente: e qui si può creder che
sia, per ragioni induttive e storiche. E chi sa che in modo simile a questo non
siasi costituito, afforzato ed affinato in noi stessi il poter deduttivo? Se
così fosse, anche gli assiomi logici avrebber carattere strumentale, e Ja loro
vantata necessità diverrebbe illusoria. Si adduce in proposito, che non di rado
anche uomini insigni, persino fra i matematici, dissentirono circa il valore o l’esattezza
di qualche ragionamento; e che certe fogge d’argomentare, avute un tempo per
buone, non appagano più le esigenze moderne. Per es., il grand’uso che si fa
una volta dell’intuizione geometrica e meccanica nel ricavar conseguenze, che
non si stimaron per questo meno apodittiche, o men necessarie delle altre. Se
non che il dissenso par che volgesse non tanto sulla bontà e verità dei
principî, quanto sull’ uso non sempre
di- [Bòcuer, The foundam. conceptions ele] sciplinato e legittimo — che potò
farsi di quelli. Così se oggi escludiamo che l’intuizione possa giustificare
una deduzione rigorosa, gli è solo perchè vogliamo, che il ragionamento proceda
secondo norme precise e leggi ben definite; dove l'intuizione è sempre ribelle
a codesta disciplina, rifuggendo per sua natura da qualunque determinazione.
Che delle successive conquiste della matematica nessuna ha distrutto le
precedenti; che nel progressivo sviluppo delle discipline matematiche nulla vi
è stato da rinnegare, nulla da mutare sostanzialmente; che il trionfo di
concetti nuovi non ha mai propriamente infirmato le verità ciù acquisite. Questi
fatti trovan la lor ragione nella cura costante, che i matematici posero a non
discostarsi mai da quei pochi processi logici, che sono stati seguiti
spontaneamente, naturalmente, senza discussione e senza eccezione, da tutti gl’uomini,
in tutti i tempi, in tutti i luoghi. Ma con tutto ciò, si osserva, non è tolto
assolutamente il pericolo, che i modi e le forme di raziocinio, da noi ricevuti
e adoperati con tanta fiducia, ci facciano urtare un bel giorno in qualche
contradizione: onde per lo meno avverrebbe che certi assiomi logici, i quali
ora stimiamo validi universalmente, in realtà sarebber soggetti a qualche
restrizione. Un tal dubbio non è logicamente impugnabile; non avendosi pur
troppo alcun mezzo di escludere a priori (ossin con la stessa certezza di un
teorema logico) la possibilità d’ un evento [E. D' Ovipio, * Uno sguardo alle
origini oto.]= — | = OTT î dk così sgradevole. Non si può avere una certezza
apoditica della compatibilità o consistenza di tutte indice le premesse
inerenti nl discorso; in quanto per condude che gli assiomi logici A, B, €,...
sono immuni da ogg germe di contradizione, bisogni esser certi che i prineigg
A', BI, C,.. su cui poggia In dimostrazione sono es stessi compatibili. In qual
cosa richiede a sua volta ssa nuova dimostrazione; e così via senza speranza di
veci ta, come il cane che insegue la propria coda. A dar credito all’objezione
suddetta molto ha contri buito la recente scoperta di alcune antinomie e contradizioni
nella teoria degl’aggregati e dei numeri trasfiniti. Sono argomento di valorose
discussioni i paradossi di BURALI-FORTI, di Richard, di Zermelo-Kéonig. Ilustri
matematici e filosofi prendono parte alla disputa: e e qualcuno ne trasse
motivo a dichiarare il fallimento delle nuove tendenze logistiche. Se non che
bisogna guardarsi dall’ esagerar l'importanza d’un fatto tutt’ altro che nuovo
alla storia delle scienze. Antinomie occorsero in matematica più d’ una volta,
e tutte ricevvero prima © poi soluzione adeguata; in tutte si trovò, prima o
por, qualche errore di raziocinio. È celebre tra i filosofi greei la
contradizione di Zenone di VELIA d’Achille e della testuggine, dipendente dalla
relazione 1=/ +! ++... in infinito; dove )’ unità è posta eguale ad un numero,
che varia restando sempre minore di 1, È grande oggetto di controversia Ja
serie 1-1+t1-—1 +41. infinito, la cui somma vale .1, 0, !|» 0 non ha valore
plate» determinato, secondo il criterio che si adotta nel definire il
limite È î | vt ta? . in generale e la
somma d' infiniti numeri. In ambo gli esempì disparve ogni contradizione,
quando fu nota una esatta definizione del limite: ond' è verosimile, che la
presenza d'idee non ancora ben definite sia la sola cagione, che ci permette
talvolta di spinger qualche dottrina poco matura a conseguenze non conciliabili
fra loro. Tutte l’antinomie derivano, per un verso o per l’altro, dal
considerar l’infinito; che per ciò appunto alcuni (i finitisti, come Renouvier)
vorrebbero escluder senz’altro dal dominio della ragione. Consiglio prudente,
ma vano. Atteso che l'infinito è nella natura di troppe quistioni, e “ naturam
expellas furca, tamen usque recurret. Concetti d’ una sfera così vasta, che
parve giù sogno il presumere di segnarne con precisione i confini, son oggi
divenuti logicamente maneegevoli, e prestano ottimi servigi alla ragion
deduttiva. Certi altri — come tutto il pensabile, tutto ciò che non è numero, e
simili — par che abbiano ‘n sè veramente alcun che di vago e d’ indefinito. E
non è meraviglia, se partoriscono equivoci. Le concezioni ed operazioni
matematiche si estendono ad ogni classe finita d’enti, e a certe classi
infinite, che si posson chiamar transfinite. Ma è fuor di dubbio che esistono
ancora innumerevoli classi, a cui non sono applicabili. — rr” [PEANO, Supor
theorima do Cantor- Bernstein, Rev. do Math.] l pn h miglior nce) quasi tutti |
risultati del Caswrog: ma, quando anche non si giungesse ad escluder da queste
al foggo OENÌ traccia di contradizione,e ci convenise sfron- daro una parte
della dottrina dei numeri transfiniti, © rocidere qualche altro giovane
rampollo del grande 40 hero matematico, la Critica ci ha da gran tempo as-
vozzi a bon altri pontimenti 6 1 ben altre rinunzie! Ep- pure ci fu chi non
dubitò di ascrivere a demerito dei logici-matematici l’ aver concorso mettere
in luce co- deste difficoltà e ad agitarle; quasi che a loro fosse Im putabile l’esistenza
di così fatte antinomie. xMk Tutti sanno che ogni teorema di matematica è
subor- dinato a certe condizioni od ipotesi, — esplicite o no — che ne
definiscono il campo di validità. Un teorema è vero, qualunque volta ne sian
verificate le ipotesi: il che fa già intravedere il carattere logico, o
formale, delle verità matematiche, e il genere di valore che queste pos-
siedono — valore, che si potrebbe anche qualificare come una necessitd ipotetica.
Gli studi logico-matematici intorno alle varie discipline deduttive cercano
appunto di dar risalto a questo carattere © di scoprirlo dove non è palese,
organizzando ciascuna di quelle (fin dove è pos- sibile) secondo uno 0 più
sistemi ipotetico-deduttivi. Un ordine di proposizioni, la verità delle quali
riposi unicamente SU certi postulati od ipotesi peculiari a cia- ©) Couturat,*
Lea prino pino. des Mathém *, (loc. cit.) pag. 4. È pd fel 6 r, i i he » Ù x
"Te o Pg di L) LL 24 PARTI PUNTALI da Pe fi.“ è : n e: ‘cuna disciplina ©
sugli assiomi logici ; di Guisa che | ; de tutto si svolga per virtù propria da
questi soli va combinati algebricamente fra loro a tenor delle dei canoni che
informano il calcolo logico: ‘ sistema ipotetico-deduttivo ’, ncipii, C88Ì e
tale,, “ dipresso, ll Il processo algoritmico porta non solo a distinen
organicamente i giudizi a priori, o primitivi, da i derivati, o dedotti —
insomma gli assiomi e POstulati dai teoremi — ma così anche e nella stessa
misura (fra le nozioni intorno a cui versano questi giudizi) le jdee primitive,
o indecomposte, da quelle che ne sono ripro- duzioni e derivazioni formali, e
che insomma risultano effettivamente composte mediante le prime, combinate fra
loro e con le categorie della Logica. Le due distinzioni sono in verità molto
affini, e la seconda non è meno antica dell’ altra, nè par che le spetti un
valore molto diverso: ma con tutto ciò non l’è stata riconosciuta ’pra-
ticamente un’ eguale importanza prima dei nostri tempi. Si cercava bensì di ridurre
al minor numero gli assiomi e i postulati, ma per lo più senza porre studio di
sorta nel definire tutti gli elementi che occorrono ad una trat- tazione
deduttiva col minor numero possibile d’ idee fon- damentali: onde il vantaggio,
che si acquistò per Ul lato, si perdè bene spesso dall’altro, atteso il numero
© la qualità delle idee primitive, a cui si volle raccomalt dato il sistema. (Così, per citare
un esempio, benchè ve fuor di dubbio oramai che gli oggetti della Geometri*
Cera Si posson comporre di due sole materie prime Ideali: per es. il punto e la
sfera, ovvero il punto i — “REI il moto: vedemmo pur non è molt DA simo ufficio
di “‘ Grundbegriffe der meno che le nozioni di Corpo rigido, Parte d'un coi
Spazio, Parte d’uno spazio, Occupare uno snai vg l pazio, Tem- po, Quiete,
Movimento). i do: Decorne ‘0gistiche da istituire intorno ni principii d’ una
disciplina deduttiva consiston pertanto in un du- plice lavoro di riduzione: e
cioè riduzione di tutti î con-- cetti a poche idee primitive per mezzo di
definizioni op- portune; e riduzione di tutte le proposizioni a un certo numero
di postulati o proposiz.' primitive attraverso il processo deduttivo. Lo studio
principale è sulla maggiore o minor
convenienza di questa o quella definizione, di tale o di tal altro postulato:
ed ha in sè tuttavia qualche cosa di soggettivo e d’ arbitrario, in quanto vi
sia sempre una certa libertà nella scelta delle nozioni e proposizioni da
assumere in officio di primitive. Se non che, giusta il nuovo modo di considerare,
non c’ è luogo a parlare d’ idee più semplici e di proposizioni più evidenti’
che certe altre idee o proposizioni: non vi sono, in fin dei conti, che idee
non definite e prop. non dimostrate. È logici-matematici non concepiscono la
differenza fra altre che ne derivano at- come dovuta all’ esser quelle 0)
Proporre alm edo geometrie ’ niente le proposizioni prîmitive e le traverso il
processo deduttivo Li cf per sè stesse più evidenti, più credibili, meno
impugna bili: ma al contrario essi vedono nei postulati delle pro- posizioni
come tutte le altre; la cui scelta può, Saper di- versa, a tenor degli scopi
che Sl Ven raggiungere, ipa . to el paragone del vari aspetti anzi tutto dal 1
lo il variar dell Mo | | M' (10) tl 0] ial4, » il trattato, 8600N e Scelte, Ri
— 1 i gu morelli i Na at rd IV wr si ndo an immagine nsgni felice di (. VAILATI
he, 00 i rapporti fra 1 postulati e Je proposi. diremo fis I int hà ‘ basarià a
dipendono 8 potevano un tempo Daragona- zioni | ; v f lli che intercedono fra
il monarca ed i sudditi TU i (}l i : la NI, ? autocratico; ora Invece 1
postulati, rinun- d'un governo ric fi A | siando a quella specie di diritto
divino, ba, cui pareva investirli la loro vantata evidenza, son divenuti come |
capi elettivi d'un regime democratico, Ja scelta dei quali sj deve (0 Sì
dovrebbe) alla riconosciuta capacità d’eser- citare per qualche tempo una
funzione nell’ interesse del pubblico. PASCA (si veda) dichiara che, se la geometria
vuol essere davvero una scienza deduttiva, bisogna che i suoi schemi di
raziocinio non dipendano dal significato degli enti geometrici — nel modo
stesso che non dipendono da questa o quella figura illustrativa — e che
soltanto le relazioni imposte a quegli enti dal postulati fondamentali abbian
peso e valore nella. dedu- ostia. Con ciò veniva Egli a dire in sostanza, che l’ente
primitivo di qualsivoglia sistema deduttivo. deve Wi da Mep 5. arbitrarie,
dentro certi col Neben, proposizioni primitive; in modo ché delle parole o dei SEGNI,
che RAPPRESENTANO quale i Malche soggetto primitivo, sia unicamente determinato
Voti Praa ui Fironzo, "EMI pi; Logica matem. ', nolla Rivista « Joonai*
Vorles, ‘ is dif ok tina a Te I 43 dalle proposizioni che versano intorno n] DI
. it il : anche, prima, per influenza di Gr medesimo, E ‘ La ® 10 Pr.ttok r Î)
familiare ni Geometri 1° uso d’ intendere ’ i ta già . n] P | ta Pe 9, MI |
linea o superficie come aggregato di parola La ‘Pa j di elementi À 3 “eMenti,
di eni non occorre specificar la natura, purchè gi sappia che si pog- Sd valo.
nori. ao di Go I | te parametri variabili. Codesta facoltà di astrarre da ogni
senso speciale dei con- cetti primitivi consente di operare simbolicamente
sopra espressioni di contenuto instabile; e però di abbracciar col discorso in
una sola dottrina generale éd astratta parecchi ordini di oggetti particolari e
concreti: a quel modo che la risoluzione d’un solo problema algebrico contempla
- sempre più casi, non solo diversi numerica- mente fra loro, ma altresì
differenti per la qualità dei loro dati. Come già dissi, ln verità o
consistenza di tutto il st stema delle premesse logiche non è dimostrabile. Il
carattere universale delle dottrine logistiche appare anche in ciò che — mentre
il più de’ sistemi filosofici dispitano intorno al criterio dell’esistenza —
quelle a pre» sumon dirci che cosa sia il dato. Ma si uerpoan parlar
d’esistenza (o della sua negazione, i ; logici come di un quid non definito,
cui gli gg impongono certe condizioni: di guisa che, P-**- arguir stenza nota o
supposta di certi oggetti si Pes" più su V esistenza di altri oggetti;
eoc: Ort che, i DI 44 sagione tutti convengano fra loro; jo mi rag mbo qualche
contradizione latente, è un ‘atto, che non gi può confermare Def CeGUZIONe 1
non ia ate: ad alcuni principi rispetto mi altri, di cu orse (I riori la
consistenza); un fatto, dal quale che una certezza induttiva o storica)
accolgano IN gro gi conceda 4 ] non si può avere A} contrario non è dimostrato
ancora che in un domi- nio di pura logica (inteso con qualche larghezza) non si
possa trovare un’ immagine o interpretazione dei concetti primitivi poniamo dell’aritmetica per cui tutte quante le proposizioni di questa
scienza risultino verifi- cate. Allora — ove si conceda Ja compatibilità delle
pre- messe loriche—avrem’ottenuto senz'altro una vera e propria dimostrazione
della compatibilità di codesti assiomi aritmetici, sul fondamento di soli
principii logici. E una volta ammessa Ja consistenza degli assiomi aritmetici e
logici, resta poi molto agevole stabilir quella dei postulati inerenti ad altri
sistemi deduttivi. Molti stiman superflua, nella più parte dei casi, una dimostrazione
siffatta. Così, p. es., PEANO (si veda). La pro- che i postulati dell’
Aritmetica o della Geometria non pz ie di a no 8 pr ma li scegliamo di ui i ole
n pts (sia pure implicitamente) e proposizioni, a QONERE a di Geometria, La dui
on Vrntinta | d: RE 0 Sia Sira analisi dei principi di ques 0 P. i, «è Su Rev.
de Métaphyg, la compatibilità des aziomes de l’ Ari | a et de Morale, prio
19op- enni 45 scienze consiste nel ridurre Je afferm azioni gratui Ina ivi CORO
fogli it atutte al numero minore. possibile di giudizi necessarii î ©
sufficienti. metrici ò Sod- p unto, Possiede Geometria. Noi pensia- ino il
numero, dunque il numero esiste, Una prova di consistenza sarà per altro
opportuna, ‘allorquando i po- stulati siano epoteticî e non rispondenti a fatti
reali (i Che la logica — e forse anche l’aritmetica — oc- cupi un posto a parte
fra le varie discipline Ceduliiza appare altresì dal fatto, che per l' intelligenza
d’un ni stema ipotetico-deduttivo non è propriamente necessario il sapere di
che cosa si parli, cioè conoscere un senso dei varii concetti primitivi. (basta
percepire il nesso lo- rico e la concatenazione delle parti, il valore dedotti
x di ognuna, ecc.) e il tutto può 1r0g9S) SARE per simboli logici: laddove,
sotto pena di non . Sai conviene esser tutti d’ accordo circa un us À “«.g 6
buire alle frasi come “ a e d sig È pia gr Logi- non d,, e simili, che dinotano
di o a incon- ca; e alle radici stesse della Logica 3 o on vige che tra
barriere insormontabili, oltre a ge io credo, Il solo processo empirico. (Per
re le prime nozioni il Russel qualificava di costanti logie s irreducibili, di
cui non Si apprende s l’uso; cioè per mezzo d’ esempî ® °° guaggio comune). | 1
da è in +, (34 Super theorema de Cantor-Bernstet ) Ora il sistema dei postulati
aritmetici 0 geo disfatto dall’ idea che del numero, o de] ogni scrittore d’
Aritmetica o di loc. cit. i . ii ( Cai 40 Mae gta o til enni TARA: smog 0 compatibilità
delle | n consistenza © * ui Ile Dotegj | TO UL I i ‘distinguono ancora ©
dimostrano lidi Dendoy, i (uso RAT TATE ‘ti 2 i za sioni primitive (il fatto,
che Nessuna gj sj esplicitamente a Spese delle Utre) et N Jativa dei postulati
(cioè che NesSUNO Agg" degli altri): cONdizioni ce dovrebbe iutte
concorrere In Un perfetto sintonia Ipotetico-deduti. ma che non sono però
necessarie al rigore geometri. so: in quanto dal trascurarle non viene
infirmato il nesso ingico delle varie proposizioni, nè si toglie al sistema di
\oter essere un tutto coerente e consequente a sè stesso, Accade talvolta, che
fra due interpretazioni quali che sjano de’ concetti primitivi si può dimostrar
che. inter- cede una corrispondenza perfetta, di guisa che per certi rispetti
si possan confondere in una le varie classi di enti capaci di verificare il
sistema: questo dicesi allora categorico, e nel caso opposto disgiuntivo. Ad un
siste- ma disgiuntivo è lecito sempre congiungere nuove pro posizioni primitive
(indipendenti dalle altre) così da re- stringerne il dominio: esso lascia
aperta una strada è diverse possibilità; Jaddove qualunque proposizione vera,
che si possa enunciare negli enti primitivi d’ un sistema Catega IC, ® È a % .
LI 44% di 271100, € Sempre deducibile dalle proposizioni primitive 1 ([Uesto,
pogisti va dello I* relati iu se di definil capa ipendenz® ri VO. Un piccol
humero di li escludere ide. lO perciò di sa POSSANO, 0 no paragoni permette di
constatare © “uivalenza ’ di due dati sistemi: bastal” Pere, se i concetti
primitivi dell’ uno si PA Pre Droposizioni primitive di ciascuno sian de- +=
—aemsre ug si n il v iva eee —— ne PTT, PESO quoibili, 0 1% da quelle dell’
altro, Distinzioni ed osservazioni ignorate dalla Logica classica, e di cui la
mo- jorna doo saper grado Mm Matematici. Il nuovo concetto ai definizione
possibile ha messo in chiara luce, che privilegi attribuiti a certe proprietà
così dette essenziali hanno un valore al
tutto relativo, Le differenze tra proposizioni affermative e negative, fra proposizioni.
generali e particolari, categoriche e ipotetiche, ecc., sono tutte assorbite da
una sola e fondamental distinzione fra proposizioni, che affermano la mutua
dipendenza di due o più fatti; e proposizioni esistenziali, che affermano la
possibilità dell’avverarsi di due o più fatti ad un tempo. Altre distinzioni
trasmesse dalla logica scolastica alle moderne teorie della conoscenza sono del
pari sottoposte ad una critica più rigorosa, e ne uscirono in certo modo
trasfigurate, restaurate ed arricchite di nuovi e più importanti significati —
p. es. quella fra giudizî categorici e giudizi ipotetici. A logici matematici
si debbono alcuni miglioramenti li non dubbia importanza, recati da poco tempo
alla teoria della definizione. E prima di tutto lo schema tradizionale, che fa consister
la definizione nell’ assegnare il genere e le differenze specifiche, — ossia
nel “ercar delle classi, onde quella che si vuol definire risulti per prodotto
logico — venne allargato in maniera Mito se il caso (molto più generale) lan A
"" definire si possa avere in funzione di classi (*) Q, | | n pat JE
I Vattam, Il Pragmatismo e la Logica matematica) pr Tr -——— Beans" 48 £- i
pera cao b; a n i operazioni quali che sano, Durchè “i ( Pe" riori, 0 in
‘altro modo aequisite: Poi ago ‘ci si dilataron per. altri versi, pri
soddisfare 4 VIBOBR che subiamo 8PEANO (si veda) ofinire non UN termine siii ma
pile Di frage, ar quel termine comparisca in uno Speciale atteggia. mento:
onde, sotto forma digit: e dii ie 81 confor. mara il fatto (intravisto già da
ATO, che Je definizioni di parole isolate appartengono, in qualità di semplici
modificazioni o casì speciali, alla grande categoria delle DEFINIZIONE EMPLICITE;
e st legittimaron quelle, che PEANO chiama definizione per astrazione, la quale
tolge motivo a creare un nuovo concetto da ciò, che una qualche relazione
manifesta di possedere alcune proprietà cardtimali dell'eguaglianza (come p.
es. dal fatto, che due quantità di merce, atte a permutarsi con una stessa
quantità di altra merce, si scambiano anche fra loro, nasce i concetto di
valore A ecc.). eis vpi non solo ha posto in chiaro, “ovare della definibilità
d’ una data parola o di x Male concetto è cosa priva di senso, fin tanto che
bon 5 8appia con Precisione di quali E, le o con- ‘AM BI vuo) far Uso nella d A
ni età, to Una spiegazione del ui definizione; SA Inoltre ha da Dortanti di
scienza 6 fil ‘ he parecchi termini molto na Melli, di cui non g; Osofia si
trovano appunto ag “e una d “rebbe ragionevole il chiedere 0 = definizion #3 a
scolastico: ed ha pé noto, n ori an0osso * priori, Uri È I esi più elast i n |
QUIS © IN senso oo bregiudizio agnostico, che di 00° li ‘ontribuito 6 ni Aa 1A
De 4) tie La TR RI 1 0g I I no, e a PE cApnertt hoy dello com (1), #4 La
fusione progrensiva della Logien con Ja Matoma: rica — cho ni compieva
Implieltamente, 6 quasi Pronti sciamente, nei Invori di Boole, Behrbder 6 €,
Petroo da an Into, è di Wolorstrass, Cantor e PEANO (si veda) dall'altro —
costituisce senz’ alcun dubbio un fatto di somma impor: tanza per la filosofia
delle matematiche, Una riforma di così gran conseguenza domandava un’
esposizione siste matica, che fosse come una sintesi dei molti studi, che hanno
concorso a produrla, Questa sintesi è stata ten- tata di fresco e con esito
nssai promettente, da Russell nei principii delle matematiche -- Cambridge -- la
quale ricapitola, discute e coordina i risultati d'un gran numero di ricerche
critiche sui fondamenti delle matematiche, e Je nuove teorie che son nate da
queste ricerche. È insomma un tentativo di ricostruzio logica di tutta quanta
Ja matematica ‘ puri | 4 la ‘ “| ì » 00 vd =" n E n LO p pe re | da LI = e
| na ai | A: ‘ P È x 2 è sà i Yi, % sd ; n 4 . i fi Ù da ah matematica in una ‘
definizione nom: dottrir iitivi di quella; per ognuno di quad pun sconveniente
interpretazione nel vasto Pitt, cane” “sioni logiche. In grazia, a codesto
artificio Ra se np opportuno in un lavoro di in Po purea concludere, che tutte
quante le i > ù matematica ci AERITANO ia A nove COMCEtt »rreducibili
(costanti logiche) e riposan su dodici propocìzioni ‘ndimostrabili; che sono
appunto le idee prime e gl’assiomi della logica, 0 (come altri direbbe) j datj
a priori, o ì principî costitutivi della ragione. La matematica (così 1’ A. sin
dall’ inizio dell’ opera) è Vin “ sieme di tutte le proposizioni o giudizî
della forma “ + p implica 9g "» «dove p e gq son proposizioni che con- “
templano, sì }' una che l’ altra, le stesse variabili, e “ non includon
costanti, da quelle logiche in fuori,.Togliendo a materia, o soggetto, di
codeste inferenze logiche certi ordini di fatti naturali, si avrebber le
matematiche applicate. Benchè non appartenga alla matematica in sè il
riconoscere, sin dove que’ fatti si pieghino a Verificare i principî e le
ipotesi d’ una teoria matema- tica astratta. I Se non che fra quei canoni o
postulati della ragion deduttiva — i quali, secondo Russell, bastan da soli a I
sca - att matematico — non Agura Mr Stenziale; vale a dire nessun giudizio
gingola, del concetti prim fama 0 i f Rin > possibilità di ‘oggetti capaci
di comportarsi nel | Ul altro modo. Ipotesi di questa sorta occorronIn QUaAsi
tutti è _» AMT ! tutti i sistemi matematici, che da quelle mA*°ti 4 ® di 14
fl" i L E d 2 i A "D per ) ro” Vidic E ditta ° Lo fe ii - 5a f 3553 è
3 € Ale ES — ci iciii "5 ca ra 28288 Cn © >: = DR: ponti È poi - E CL.
E = s È 3 É 5 E @ - ] inca . te r. eo P de] con PIPMESINORO SLI pari). Sotto RI
} to questa restrizione pare n A è legittima la conclusio re a le matematiche
non abbian d’ ne del R., che costituirsi,..___—’— ‘Mobo di proprii assiomi ver
OSURWITSI deduttivamente; ma c) di pi; retierali n n Ia che bastino a ciò Je
più BeNerali premesse comuni e gi nuà a: i ° BI può dir necessarie ad ogni
umano discorso (ben g'intende. ove « | PROT, OA “He, Ove si congiungano a que-
ste le definizioni logiche dei vari; des egg sicchè, in fond “ anil concetti
matematici); co- tod I | °, Siano una sola e medesima cosa il meodo deduttivo
«€ ti Il uiiaià 0 logico e il metodo matematico. o discorso volge al suo
termine, e non ho che appena adombrato Je difficoltà che si elevano e i dubbi
che si muovono contro la concezione logica delle mate- matiche astratte; se non addirittura
contro tutto il nuovo indirizzo logistico, che vorrebbe escludere dal processo
dimostrativo qualunque elemento arbitrario ed autonomo, qualunque mezzo o
spediente anarchico; e bandire insomma ogni foggia di deduzione e ogni
strumento di analisi, che non siano debitamente censiti e qualificati. È sempre
in onore sino dai tempi del Kasr l’objezione oggi rinfrescata dall’autorità d’un illustre
scienziato che se la matematica è veramente una disciplina formale; dunque
obbligata a procedere da un piccol numero d’idee fondamentali, operando con
norme fisse e inviolabili, ben numerate € distinte — se insom- #,% | Vatis i I
tia- ma le sue verità fozsaro analitiche in og I abi GT o jJorido no — come
avrebbe potuto mai consesiure l
fecondità di cui si vanta @ buon drit- sieme dei numeri me ben fondat sviluppo
e la e et l'hypothèse ®, p. 19. (+) Poincare, È La sc eru î ; è Mo # : - 54 SR
in dovrebbe piuttosto consistere jin Derpet to? O ne I in affermazioni del
tutto ovvie e ban Ue ri, ali, Con» ‘ntieitamente nelle premesse; e risolvergi
tenute implie itamente ] Isolversi Dertanto ‘n una vasta e infeconda tautologia
? Dunque. gj petizioni, Stima che Mento la logica, senza riflettere che il
metodo logico non può la matematica null'altro sia che un prolung; andare che
dal generale al particolare 0 dall’ eguale a l’eguale, e che la deduzione non
può mai sollevargi dal particolare al generale?
D'onde verrebbero allora quelle stupende generalizzazioni, di cut si fa bello
ogni ramo della matematica? E un fatto, o Signori, che l’aritmetica, la geometria
e le altre discipline fin quì elaborate con norme rigorosamente logistiche,
contemplano le stesse cose, arrivano alle stesse conclusioni e riproducono in
somma gli stessi corpi di dottrine, di cui s'ebbe già cognizione per vie più
sollecite, con l’aiuto d’altri strumenti o di mezzi più gros: solani. E un
fatto si è, che persino la logica formale, com è istituita, ad es, nel formulario
mathematico di PEANO (si veda), è proprio tutt'altra cosa che una pura e
semplice TAUTOLOGIAt; chè anzi vi trovan posto parecchie gen® 5 n sta tutto
simili a quelle, che incontriamo Si ittiche (p, es. nell’algebra) e in nessun
M° Ss Via d’appelli all’intuizione 0 plt'etpatelo Rica n Diutttosto da vedere
come sia sorto Il ul le: + intanto Sterilità della Logica e del sù; ci "0
dialettico; e cercar di spiegare la maraviglio Bil fecondi : Ità della “ TRVero ben deona ai e a “degna di
meraviglia che’ — - SEZ SÒ discipline, dove l'intrecciarsi in Ogni senso e il
moltipli carsi all'mfinito di conseguenze ottenute per sola virtà di raziocimo
da poche proposizioiote ol ammesse per vers, costituisca un mezzo euristico
8pesso più efficace e più valido, che non l’esperienza e l'osservazione diretta
(sia pur diligente e assistita da buoni strumenti); e dove questo è anzi
l'unico mezzo che serve, non solo ad evocar cose vecchie o giù note, ma ben
anche a scoprir nuove leggi e nuove relazioni. E che questi rami di scienza,
lungi dal mostrarsi a noi stazionarii o non progressivi, sian proprio quelli,
dove il crescere delle conoscenze è più rapido e 1 frutti ne son più
sostanziosi! Si ha un bel dire, a proposito dei SILLOGISMI onde risulta una
scienza così fatta (poniamo la geometria) che tutto ciò che si afferma nelle
conclusioni è già IMPLICITAMENTE contenuto nelle premesse. Che è questo,
insomma, se non ri- conoscere — per via d’ una rozza e poco appropriata
metafora — che le proposizioni tolte in ufficio di fondamentali bastano da sè
sole a produrre tutte quante le conclusioni, senza ulteriore concorso dei
sensi? E però quella massima non sanziona un difetto, ma piuttosto un pregio e
un vantaggio del processo deduttivo sol 'inditto vo; nè può aversi per
objezione contro l’uso del sillogismo- chè tanto varrebbe n dispregio dell’arte
scultoria Il tatua è già tutta IMPLICITAMENTE nel togliendo il superfluo, la
estrae gine del Buonarroti. dire, che una bella $ masso, d’onde l'artista, —
giusta la poetica imma i e strumento di ricerca (VAILATI a tarsi di ripetere in perpetuo ‘ A è A”, ‘ A
non è BE n A presso a poco. Qual mera viglia, se così AES e s’ingra indi. Da: A
oltre misura Ja distinzione tra giudizii analitici e sint etici? È Costretti
gli uni (i giudizii analitici) a restar negli angt et | sti confini di cotali
insulse ripetizioni, avvinti. alle Dr rili tautologie, che gi avevano per
patrimonio della | Lo — 5164 pura, era ben Naturale, che a tutti gli altri si
cer n. Casse una | cai | se una base fuori della ragione; che i primi. si 8 È,
gi mein nti d spiegare il fees Sl: Il potere qj se ai giudizi sintetici. si i -
Duramente logic; ost le nontee cognizioni. A de az Sciute, hi n "70 sola
capacità di esporre. NIRKES 2a contro, ; to e. *dagogi SCR di dattic: SE de ve,
P° % iu; ca si; lb Si arl e sempre l'effetto e iaia 57 di operazioni
extralogiche, svolgentisi nelle profondità misteriose ed oscure dell’intuizione
| Se non che questo modo di vedere pare oggi oltre-passato, e di buon tratto.
Le indagini logistiche misero in sodo, che i pochi principii a eni alludevo
poc'anzi sono radicalmente inetti a giustificare da sè soli Ja massima parte
dei raziocinii, che tutti riconosciamo per ortodossi e legittimi. Il meccanismo
della ragion deduttiva apparisce oggi assai più ricco d’ingegni e di ruote,
assai più complicato e più vario, che non si credesse nn tempo. Se così è, se
l'albero logico sorge in realtà da più ceppi e si nutre da molte radici, ben
s'intende come parecchi e varii principii associati in una stessa deduzione
possano dar conseguenze non implicate da alcuno di essi in particolare: dunque
più generali di ognuno. Non senza ragione Leibniz designava col nome di
combinatoria l’arte d’inventare per mezzo del raziocinio. Un matematico,
avvezzo alla straordinaria fecondità e alle sorprese del calcolo combinatorio,
non fa gran caso di udire ad es., che un piccol numero di postulati sia capace
di generar conseguenze inesauribili. Qualsivoglia deduzione logica ne arreca,
generalmente parlando, un’ economia di lavoro; € ci porge, nelle sue
conclusioni, qualche nuovo fatto — che altrimenti non conosceremmo, senza
l’aiuto di particolari esperienze. Dunque ci spinge avanti d’ un passo sulla
via del sapere, non meno d’ un risultato, che emerga dai laboriosi pro- cessi
dell’ induzione. Si dovrà perciò dire che quella Com- binatorin è un metodo
sintetico? Dicasi, e non faremo Rae esdreiài quistiono ilipurchè 8° intendano
sintesi p parole; ut rogrich® iptellettuali, che nulla ripetano. dall’ in n. ©
ogieh® ita sonsibiile; © quando PUT gi voglia be; loro ET i sn Re: : qualche intuizione,
sia questa un’ eretwizio n. a dire una apercezione di fit. consognionze, ©
null’ altro. non gi possa disconoscere alla I certo potere di generalizzazione,
( maggiore nella Logica applicata; 0 pai discipline, dove intervengono postwta
es consistenza e vigore al discorso. Uno dei e don tico consi una ale, vale
princi" 0 —— e-@ ai sul”.59 ‘in Geom. Projettiva, i principî di Hamzlton e
di Herz ‘n Meccanica—si prestino a rappresentare, abbracciare e compendiare un
numero immenso di fatti. Per certo non chiederemo alla logica quello che non
può dare. Come sarebbe il charirci intorno al fatto psicologico dell’
invenzione. Ma in che si distinguerà l’invenzione vera dalla falsa, se non
perchè l’una si può, prima o poi, dimostrare e giustificare logicamente? L'invenzione
non acquista valore di verità, finchè non è dimostrata. Ed anche sotto
l’aspetto psicologico, il suggetto a cui si conosce l'invenzione vera non è già
l' esser questa generata da un capriccio d’immaginazione e da fantasie, come
tante ne vengono ai bambini ed ai matti. Ma sì da una certa logica istintiva e
prudente, che per essere inconsapevole, non è meno conforme alla logica
cosciente e riflessa. Quella non fa che anticipare, con un | vago presentimento
— che è come il fiuto della ragione — I gli atti della logica discorsiva.
Dunque nessuna opposizione fra l’euristica e la dialettica; le quali anzi vanno
d'accordo, secondo una certa armonia prestabilita Ck La scoperta diretta e
immediata per intuizione geniale, la divinazione artistica, avranno sempre
grande stato € potere nel regno della conoscenza: ma opporre il fatto
dell'invenzione ai progressi della logica dimostrativa sa- [Courunat, La
Logique et la Phylos. er do Métaphys. et du Morale} vr PIL! d ii rp, fede e
valore al contrappunto i ino 60 negar rebbo com® Sion musicale. Nelle objezioni
di «qu Ù : si A ; distingue abbastanza, io credo, Do im sorta non" |
assetto statico © razionale d’una dige tes a) i PRA. alita operative ©
dinamiche, Le | gole sue d ts: vistiche (conviene riconoscerlo) mirano: iù a
statico delle varie discipline deduttive e: AA po di verità stabilite, che alla
landa a, na gcientifici tendenze 10 I° equilibrio scienza, come cor operativa
della scoperta scientifica. du xè si creda, che i progressi. nell’assetto logi
4 0 delle C | matematiche siano per nuocere allo sviluppo delle £ A tx
intuitive ed artistiche. Perchè, mentre si fo sa Mi cresce il dominio della
ragione positiva, cresce fo mt i tempo e Si allarga Ja zona di confine fra “que
est £ le altre regioni del sapere (che nuovi ‘e maggio ori a pe: et sti
compensano del terreno ceduto) :. e così. al | ul ne dell’istinto intellettuale,
V attiv ità SMI IE! nio — che appunto. sì esercitano sj 11 scenza più ev
oluta—ungi dall 7 vale; m ‘esciranno anzi accresciute in dii Di > si
"OTe. d'or VELA, CATA Adi # È Ber # però dia i Îi officio, © o si to
prrzci alle sue operazioni. Per es. che ina Esa. E 2° ne, potrebbe scortare e
dirigere la: noetra messinesi ©a81, dove riman tuttavia dell’ in cede © dalai
come È radiati È Rini % pins ai quasto piut osto. hei soddisfare Hi Pera di
‘alti, Ig 2 Nel fa della conoscen: uit 20, £ =) EVS ne ì 1 L ' I ssi, i P | Il
è Li dota lì ro Ò rn Ma; i I ba lia LI Ni la (a i di cdi Ar Pe \ Mei E i a È; n
w di il ni À il è 4 I n ha su : gu We ht + MP, Î LL, "a i! UM è _ r À è
LEO ) * LA p \ LI i è I Î IRA di % 4 AU UI LIS è, " SN el i) 1] (01 Pi % \
"è x 62 I scolastica: on che questa, giù dl e fine “Al mpi, pare oggi
troppo insufficiente allo coni Critica della ragione sarà tuttavia da istituin
e nto d' una Logica meglio ui: allo o stat ge n zione al suoi te e però Ta sul
fondame attuale delle scienze. Me si dovrà esagerare 0 frintendere vo ui rg Nè
per ciò ee della logica formale; che non si arroga già d esser A as scienza
dello spirito, nè presume occupare, 0 assoni ire tutta quanta la filosofia
speculativa. Qualsivoglia dottrina logica presuppone delle nozioni e dei
postulati a logica stessa non è in grado di giustificare: alla dr Ètica
toccherà il farne stima. Ma noi teniamo per fern no, © che la critica non possa
‘intendere con efficacia «sd È st’ opera, se non quando la Logica. abbia si ai
in gran parte) il proprio “compito « denudare e circoscrivere i dati
primordiali della | da cui tutto il resto procede: e che, prima. di sui u piuta
l’enumerazione di tutti. i principii analitici, - 1 - fe abbia il diritto di
cercar fuori della. ragione w n SOS eeno a principii così detti sintetici? La
Logica for ì ale sar con per noi la necessaria i Sri, las pe dentic 7 sun’ ra
autorità ct, È lei. sola: spette # orà di se T \ vane trio. Voler filosofare
fuo © imporlî o. prestabilir RESA gione, è come prete 3: Boi. ragione, 0 © i
contro la © di saltar fuori q scia di volare più su del rtmosfer rt ell ombra
Le "Op si det 0) ISEE Aia CotruRar, Pira: * CovrunaT, i i a x; Z di ST INI
a 1a sola La' V23 UR LARLIINI cdl To ii i + 190° dia. 23] si Ji pasti pui IT È
Ui Cd È: + tai DI =“ i TAL by a = as Ma LA La") ASTRI Mi Tau 200 VRETRA \
RE URTI se Von 1 399, I > dr Pieri. Keywords: implicatura. Luigi Speranza,
“Grice e Pieri”. Pieri.
Luigi Speranza -- Grice e Pievani: la ragione
conversazionale d’Enea l’antenato, o l’implicature conversazionali dei maschi –
la scuola di Gazzaniga -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Gazzaniga). Filosofo italiano.
Gazzaniga, Bergamo, Lombardia. Grice: “Only in Italy, Dietelmo becomes Telmo –“
Grice: “I like Pievani – he defends Darwin when everyone attacks him! Talk about rallying to the
defense of the under-dogma!” Studia
a Milano. Conduce ricerche in biologia evolutiva e filosofia della biologia,
sotto Eldredge e Tattersall presso l'American Museum of Natural History, New
York. Grice: “Some Italians would not consider him an
Italian philosopher seeing that he earned his maximal degree without (i. e.,
not within) Italy!” – Insegna a Milano. Bologna,
e Padova. Opere: “Il management dell'unicità (Guerini, Milano); “Homo sapiens e
altre catastrofi” (Meltemi, Roma); “Immagini del tempo nel cinema d'oggi” (Meltemi,
Roma); “Sotto il velo della normalità” (Meltemi, Roma); “Il cappellano del diavolo,
Scienza e idee, Milano, Cortina); “Introduzione alla filosofia della biologia”
(Laterza, Roma); La teoria dell'evoluzione. Attualità di una rivoluzione scientifica
(Mulino, Bologna); Chi ha paura di Darwin?, IBIS, Como-Pavia, Creazione senza il
divino, Einaudi, Torino; “In difesa di Darwin. Piccolo bestiario dell'anti-evoluzionismo
all'italiana” (Milano, Bompiani); “Perdere la libertà per sante ragioni. Dal
nascere al morire: la mano della chiesa sulla vita dei luterani (Milano,
Chiarelettere); Nati per Credere (Codice, Torino); La vita inaspettata. Il
fascino di un'evoluzione che non ci aveva previsto, Cortina, Milano, Introduzione a Darwin (Roma, Laterza); La
fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi, Bologna, Mulino, Homo sapiens. Il cammino dell'umanità,
Atlante dell'Istituto geografico Agostini,
“Anatomia di una rivoluzione: la logica della scoperta scientifica”
(Mimesis); “Evoluti e abbandonati. Sesso, politica, morale: Darwin spiega
proprio tutto, Torino, Einaudi, Il
maschio è inutile. Un saggio quasi filosofico, Milano, Rizzoli, Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da
sempre ed è bene così, Einaudi, Torino; Lectures, Giappichelli, Come saremo.
Storie di umanità, Codice, Torino, "Homo Sapiens Le nuove storie
dell'evoluzione umana", Geografica,
Imperfezione. Una storia naturale, Milano, Cortina, Perché siamo parenti
delle galline? E tante altre domande sull’evoluzione, Scienza, Trieste,; Sulle
tracce degl’antenati. L’avventurosa storia dell’umanità (Scienza, Trieste). Fanto
è vero, ammette Darwin, che "forse in nessun caso saprei dire con
precisione perché una specie abbia riportato la vittoria su un'altra nella
viande battaglia per la vita" (p. 143). La distinzione epistemologica con
le sienze fisico-matematiche tornerà in altri esempi cari a Darwin. Ciò che
conta. per il momento, è notare la forte accentuazione ecologica della sua
pauposta teorica, che da un lato smitizza l'immagine di un Darwin asserto-te
della guerra generalizzata tra i viventi e dall'altro rivaluta l'ambivalen-ta
tra competizione e dipendenza. tra lotta per le risorse e cooperazione, in una
rete intricata di relazioni tra fattori biotici e abiotici. Dalla lotta per
l'e-sistenza discende, in ultima istanza, "un corollario della massima
impor tanza" che riguarda anche i singoli caratteri delle specie: La
struttura di ogni essere organico è correlata, nel modo più essenziale ma anche
spesso difficile a scoprirsi, con quella di tutti gli altri esseri viventi con
i quali viene a trovarsi in competizione o per il cibo o per la dimora, o con
quella degli esseri da cui deve difendersi o di quelli che sono sua preda. (p.
144)* È da questa trama di relazioni ecologiche che nasce la celebre
immagine della "ripa lussureggiante" (tangled bank) della chiusa di
OdS: È interessante contemplare una ripa lussureggiante, rivestita da
molte piante di vari tipi, con uccelli che cantano nei cespugli, con vari
insetti che ronzano intorno, e con vermi che strisciano nel terreno umido, e
pensare che tume queste forme costruite in modo cosi elaborato, cosi differenti
l'una dall'altra, e dipendenti l'una dall'altra in maniera cosi complessa, sono
state prodotte da leggi che agiscono intorno a noi. (p. 553)* Il mondo di
Darwin è un mondo di relazioni, concorrenziali o di interdi-pendenza, plasmate
dal tempo. Nell'artiglio di una tigre, come nella zampa di un coleottero o in
un seme alato, sono scritte storie sedimentatesi per migliaia di
generazioni. 6. Un sottotitolo fuorviante In tale contesto, non è
ben chiaro perché Darwin abbia allora accettato il sottotitolo proposto in fase
di revisione dall'editore Murray: "la conservazione delle razze favorite
nella lotta per la sopravvivenza". Molti hanno cercato strumentalmente in
questa espressione il "lato oscuro" dell'evoluzione dar-winiana, la
possibile giustificazione storica e scientifica di atrocità su base razziale ed
etnica. In realtà la teoria discussa da Darwin in OdS è ben lontana da un'idea
di guerra tra "razze". La competizione è prevalentemente tra
individui singoli. non tra gruppi. Ancor meno essenziale è che questi gruppi
siano "razze" o non piuttosto tribù e famiglie. Circa le "razze
umane" in par-ticolare. Darwin ha parecchi dubbi persino sulla loro
oggettiva esistenza, dato che gli studiosi le hanno classificate nei modi più
diversi. e considera il termine troppo vago. A p. 108, paragona la razza al
"dialetto di una lingua". Per il resto. le razze umane in OdS
sono citate raramente e incidentalmente, come casi aggiuntivi. per esempio alla
fine del capitolo dodicesimo a proposito di gruppi umani molto isolati in zone
montuose (p. 458).Dietelmo Pievani. Telmo Pievani. Pievani. Keywords: il
maschio, maschile, maschilita, maschilita fascista, fascist masculinities, il
concetto di maschio, dysmorphismo sessuale – sessualita e mascolinita, il
maschio – uso del maschio in opposizione a sostantivi astratti come
mascolinita, o maschilita. i macchi, homosociale, Romolo Enea l’antenato. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Pievani” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Piovani: la ragione
conversazionale d’Enea, l’eroe al portico, o l’implicatura conversazionale
assente – la scuola di Napoli -- filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli,
Campania. Grice: “Like Austin, and then again like me, Piovani could invent
lingo. The whole point of ordinary-language philosophy was an attack on
‘philosophical language,’ and there we are, Austin, Grice and Piovani INVENTING
unordinary philosophical language! In
Piovani’s case is ‘assenzialismo’!” –Studia a Napoli. Insegna a Trieste,
Firenze, Roma, Napoli. Dei lincei. Scrive su alcuni fogli del regime. La sua
ricerca filosofica ha avvio all'indomani immediato della tragica conclusione
della seconda guerra mondiale e di ciò porta i segni anche nell'elaborazione
della propria caratterizzazione etico-politica, presto approdata alle ragioni
del liberalismo democratico. Dinanzi alla drammatica conclusione dell'esito
volontaristico dell'attualismo, la necessità di ripensare il modello
idealistico lo induce ad un'intensa riflessione sul significato e sul valore
dell'individuo nel suo farsi persona. Spazia dalla filosofia del diritto alla
filosofia del concetto, soprattutto a quello meridionale, ricopre incarichi
nelle più importanti accademie italiane. Fonda il centro di studi vichiani.
Pratica una fenomenologia dell'individuale. Per il pensatore napoletano
l'individuo non è concepito come un'entità chiusa ed ego-istica tendente
all'assolutizzazione ma, al contrario, accettando egli la sua natura di vivente
limitato, afferma sé stesso nella responsabilità della propria azione.
Concorrono elementi esistenzialistici, l’analisi dell’esperienza comune. Di ciò
è documento “Norma e società” (Napoli, Jovene). Utilizza anche temi della prima
azione blondeliana. La necessità di fondare la persona grazie a un criterio o
norma, che è la ragione dell’agire e del pensare -- la logica della vita morale
-- fa scoprire il tema di fondo della
filosofia morale. Il soggetto è un volente non volutosi -- vale a dire
che il soggetto, per quanto approfondisca il proprio essere che è il suo
esistere, deve arrestarsi dinanzi alla constatazione di essere dato, di non
essersi voluto. L’alternativa esistenziale dell’accettazione della vita ne
riscatta, con la volontà di essere a fronte della possibilità contraddittoria
del suicidio, l’originaria datità. Ma questa accettazione, che è la sola
possibile fondazione della vita morale, rifiuta ogni ostinazione singolaristica
e comporta che la vita è vita di relazione, dove questa non è conquista ma
condizione consustanziale del soggetto che si accetta e dunque accetta l’altro,
a iniziare dalla propria alterità rispetto a se stesso. L’essenziale
instaurazione personalitaria consente la fondazione del diritto e della morale.
Entrambe formazioni storiche, fondate dinamicamente in quanto capaci di
comprendere ogni forma in cui si sostanzi l’attivo desiderio dell’uomo di
soddisfare l’insaziabile bisogno di valori, anch'essi costruiti dalla scelta
esistenziale dei soggetti storici. Sostiene che l'essere umano non possa fare
affidamento su alcun tipo di fondamento poiché, essendo un essere limitato e
storico, è di fatto costretto a fondare continuamente i suoi punti di
riferimento. A questo proposito assumono appunto un ruolo primario il valore, considerate non come assoluto
bensì prodotto della specificità individuale. Del resto proprio il valore
esalta la responsabilità dell'azione degl’individui, che, altrimenti, verrebbe
mortificata nel riferimento obbligato a qualcosa di assoluto. Si può dunque
parlare di un pluralismo etico che non significa relativismo ma relatività e,
dunque, rispetto. Una posizione che sembra chiaramente riprendere il pensiero
di Kant e, in particolare, il tema dell'agonismo etico. Per il ricorrere di
questi temi, la sua filosofia può riassumersi nella formula tra esistenzialismo
ri-pensato e storicismo ri-novato. Tra questi, un numero di “Gerarchia”, su cui
scrive riferendosi alla partecipazione
emotiva degl’italiani al conflitto. Questo modo di sentire e di interpretare
gl’eventi deve essere posto in luce perché esso indica che un ventennio di
regime fascista è riuscito a dare agl’italiani almeno quel senso di
pre-occupazione della tutela e della difesa dei propri interessi, che è il
presupposto indispensabile per la formazione di una autentica e completa
coscienza imperiale. Roma e Tirana, in Gerarchia, Evoluzione liberale, in
Biblioteca della libertà, P,, Enciclopedia filosofica di Gallarate, Bompiani,
Milano. Altre saggi: “Il significato del principio di effettività” (Milano,
Giuffre); “Morte e tras-figurazione
dell'Università” (Napoli, Guida);“Teo-dicea sociale” (Padova, Milani);
“Linee di una filosofia del diritto” (Padova, MILANI); “Gius-naturalismo ed
etica moderna” (Bari, Laterza); “Filosofia e storia delle idee” (Bari,
Laterza); “Conoscenza storica e coscienza morale” (Napoli, Morano); “Principi
di una filosofia della morale” (Napoli, Morano); “Oggettivazione etica ed
assenzialismo” (Napoli, Morano) – l’implicatura assente; “La filosofia nuova di
VICO” ((Napoli, Morano); “ Per una filosofia della morale” (Milano, Bompiani);
Tra esistenzialismo e storicismo: la filosofia morale (Napoli, Morano);
Tessitore, Napoli, Società nazionale di scienze lettere e arti, Jervolino,
Logica del concreto ed ermeneutica della vita morale. Newman, Blondel, Napoli,
Morano, Acocella, Idee per un'etica sociale. Soveria Mannelli, Rubbettino,
Amodio, degli scritti su P., Napoli,
Liguori, Lissa, Anti-ontologismo e fondazione etica (Napoli, Giannini); Nieddu,
Norma soggetto storia: saggio sulla filosofia della morale (Napoli, Loffredo);
Nieddu, Incontri blondellani”; “Volontà, norma, azione” (Cagliari, Editore);
Perrucci, L'etica della responsabilità” (Napoli, Liguori); Morrone, La scuola
napoletana: lettura critica e informazione bibliografica, Roma: Edizioni di
Storia e Letteratura (Sussidi eruditi); Olivetti, Enciclopedia, Appendice,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia, Etica Enciclopedia, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia, Centro di studi
vichiani del Cnr di Napoli. La lezione etica più che mai attuale di Tessitore,
Il Messaggero, di Tessitore, Napoli, 1 studi vichiani. Pietro Piovani. Piovani.
Keywords: “i principi metafisici di Vico”, Vico, principio. Luigi Speranza,
“Grice e Piovani: I principi metafisici di Vico”, filosofia nuova di VIco, la
Gerarchia, Roma e tiranna – colletivo, guerra, esperienza condivisa, ventennio
del regime – il debito di Vico a Roma --- la Roma di Vico e la Roma antica –
interpretazione filosofica – idealismo, Hegel, implicatura assente,
assenzialimso --. The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza --
Grice e Piralliano: la ragione conversazionale del gruppo di gioco
dell’accademia – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosophical
acquaintance of Elio Aristide. Accademia.
Luigi Speranza -- Grice e Pirandello: all’isola
-- la ragione conversazionale -- e dov’è il copione? è in noi, signore – il
dramma è in noi -- siamo noi – I ciclopu – identita personale, l’uno, nessuno, decadentismo
– reduzione siciliana – la scuola di Girgenti -- filosofia siciliana –
filosofia italiana -- Luigi Speranza (Girgenti). Filosofo
italiano. Girgenti, Sicilia. Grice: “Pirandello would say he is no philosopher,
but then I’m a cricketer!” --. Medaglia del Premio Nobel Premio Nobel per la
letteratura. Grice: “I quoted Brecht! I should have called Pirandello!” -- Per
la sua produzione, le tematiche affrontate e l'innovazione del racconto
teatrale è considerato tra i più importanti drammaturghi del XX secolo. Tra i
suoi lavori spiccano diverse novelle e racconti brevi (in lingua italiana e
siciliana) e circa quaranta drammi, l'ultimo dei quali incompleto. Io son
figlio del Caos. E non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in
una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in
forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del
genuino e antico vocabolo greco Kaos. Figlio di Stefano Pirandello e Caterina
Ricci Gramitto, appartenenti a famiglie di agiata condizione borghese, dalle
tradizioni risorgimentali, nacque in contrada Càvusu a Girgenti..Nell'imminenza
del parto che dove avvenire a Porto Empedocle, per un'epidemia di colera che
stava colpendo la Sicilia, il padre decide di trasferire la famiglia in
un'isolata tenuta di campagna per evitare il contatto con la pestilenza. Porto
Empedocle, prima di chiamarsi così, era la Borgata Molo. Quando si decide che
la borgata diviene comune autonomo. La linea di confine fra i due comuni venne
fissata all'altezza della foce di un fiume essiccato che taglia in due la
contrada chiamata u Càvuso o u Càusu, pantalone. Questo Càvuso appartene a metà
alla Borgata Molo e l'altra metà a GIRGENTI. A qualche impiegato dell'ufficio anagrafe
parve che non e cosa che si scrive che qualcuno e nato in un paio di pantaloni
e cangia quel volgare càusu in caos. Il padre, partecipa alle imprese
garibaldine. Sposa Caterina, sorella di un suo commilitone, Rocco Ricci
Gramitto. Il suo nonno materno, Giovanni Battista Ricci Gramitto, e tra
gli esponenti di spicco della rivoluzione siciliana e, escluso dall'amnistia al
ritorno del Borbone, fuggito in esilio a Malta dove muore. Il bonno paterno,
Andrea Pirandello, e un armatore e ricco uomo d'affari di Pra', ora quartiere
di Genova. La famiglia vive in una situazione economica agiata, grazie al
commercio e all'estrazione dello zolfo. La sua infanzia e serena ma, come
lui stesso racconta, caratterizzata anche dalla difficoltà di comunicare con
gli adulti e in specie con i suoi genitori, in modo particolare con il padre.
Questo lo stimola ad affinare le sue capacità espressive e a studiare il modo
di comportarsi degli altri per cercare di corrispondervi al meglio. Fin
da ragazzo soffre d'insonnia e dorme abitualmente solo tre ore per notte. E molto
devoto alla Chiesa cattolica grazie all'influenza che ebbe su lui una domestica
di famiglia, che lo avvicinò alle pratiche religiose, ma inculcandogli anche
credenze superstiziose fino a convincerlo della paurosa presenza degli spiriti.
La chiesa e i riti della confessione religiosa gli permettevano diaccostarsi ad
un'esperienza di misticismo, che cercherà di raggiungere in tutta la sua
esistenza. Si allontanò dalle pratiche religiose per un avvenimento
apparentemente di poco conto: un prete aveva truccato un'estrazione a sorte per
far vincere un'immagine sacra al giovane Luigi; questi rimase così deluso dal
comportamento inaspettatamente scorretto del sacerdote che non volle più avere
a che fare con la Chiesa, praticando una religiosità del tutto diversa da
quella ortodossa. Dopo l’istruzione elementare impartitagli privatamente,
fu iscritto dal padre alla regia scuola tecnica di Girgenti, ma durante
un’estate preparò, all’insaputa del padre, il passaggio agli studi classici. In
seguito a un dissesto economico, la famiglia si trasfere a Palermo. Frequenta
il regio ginnasio Vittorio Emanuele II e dove rimase anche dopo il rientro dei
suoi a Porto Empedocle. Si appassiona subito alla letteratura. Scrive “Barbaro",
andata perduta. Aiuta il padre nel commercio dello zolfo, e puo conoscere
direttamente il mondo degl’operai nelle miniere e quello dei facchini delle
banchine del porto mercantile. Studia a Palermo e Roma. Studia filologia sotto
Monaci. Studia Bücheler, Usener e
Förster. Scrive “Foni ed evoluzione fonetica del dialetto della
provincia di Girgenti.” Si trasfere a Roma, dove poté mantenersi grazie agli
assegni mensili inviati dal padre. Qui conobbe L. Capuana che lo aiutò molto a
farsi strada nel mondo letterario e che gli aprì le porte dei salotti
intellettuali dove ebbe modo di conoscere giornalisti, scrittori, artisti e
critici. Un allagamento e una frana nella miniera di zolfo di Aragona di
proprietà del padre, nella quale era stata investita parte della dote di
Antonietta, e da cui anche Pirandello e la sua famiglia traevano un notevole
sostentamento, li ridusse sul lastrico. Questo avvenimento accrebbe il
disagio mentale, già manifestatosi, della moglie di P., Antonietta. Ella era
sempre più spesso soggetta a crisi isteriche, causate anche dalla gelosia, a
causa delle quali o lei rientrava dai genitori, o Pirandello era costretto a
lasciare la casa. La malattia prese la forma di una gelosia delirante e
paranoica, che la porta a scagliarsi contro tutte le donne che parlassero col
marito, o che lei pensava che volessero avere un qualche tipo di rapporto con
lui; perfino la figlia Lietta susciterà la sua gelosia, e a causa del
comportamento della madre tenterà il suicidio e poi se ne andrà di casa. La
chiamata alle armi di Stefano nella Grande Guerra peggiorò ulteriormente la sua
situazione mentale. Solo diversi anni dopo, egli, ormai disperato,
acconsentì che Antonietta fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico. Morirà
in una clinica per malattie mentali di Roma, sulla via Nomentana. La malattia
della moglie lo porta ad approfondire,
portandolo ad avvicinarsi alle nuove teorie sulla psicoanalisi di Freud, lo
studio dei meccanismi della mente e ad analizzare il comportamento sociale nei
confronti della malattia mentale. Spinto dalle ristrettezze economiche e
dallo scarso successo delle sue prime opere letterarie, e avendo come unico
impiego fisso una cattedra di stilistica dove impartire lezioni private di
italiano e di tedesco, dedicandosi anche intensamente al suo lavoro letterario.
Inizia anche una collaborazione con il Corriere della Sera. Il suo primo
grande successo fu merito del romanzo Il fu Mattia Pascal, scritto nelle notti
di veglia alla moglie paralizzata alle gambe. La critica non diede subito al
romanzo il successo che invece ebbe tra il pubblico. Numerosi critici non
seppero cogliere il carattere di novità del romanzo, come d'altronde di altre
opere di P.. Perché P. arrivasse al successo si dovette aspettare a quando
si dedica totalmente al teatro. Lo scrittore siciliano aveva rinunciato a
scrivere opere teatrali, quando l'amico N. Martoglio gli chiese di mandare in
scena nel suo Minimo presso il
Metastasio di Roma alcuni suoi lavori: Lumie di Sicilia e l'Epilogo. Acconsente
e la rappresentazione dei due atti unici ebbe un discreto successo. Tramite i
buoni uffici del suo amico Martoglio anche A. Musco volle cimentarsi con il
teatro pirandelliano: Pirandello tradusse per lui in siciliano Lumie di
Sicilia, rappresentato con grande successo al Pacini di Catania. Cominciò da
questa data la collaborazione con Musco che incominciò a guastarsi dopo
qualche tempo per la diversità di opinioni sulla messa in scena di Musco della
commedia Liolà nel novembre al teatro Argentina di Roma: «Gravi dissensi» di cui
Pirandello scrive al figlio Stefano. La guerra fu un'esperienza dura per
Pirandello; il figlio venne infatti imprigionato dagli austriaci, e, una volta
rilasciato, ritorna in Italia gravemente malato e con i postumi di una ferita.
Durante la guerra, inoltre, le condizioni psichiche della moglie si aggravarono
al punto da rendere inevitabile il ricovero in manicomio dove rimase fino alla
morte. Dopo la guerra, lo scrittore si immerse in un lavoro frenetico,
dedicandosi soprattutto al teatro. Fonda la Compagnia del Teatro d'Arte di Roma
con due grandissimi interpreti dell'arte pirandelliana: Marta Abba e Ruggero
Ruggeri. Con questa compagnia cominciò a viaggiare per il mondo: le sue
commedie vennero rappresentate anche nei teatri di Broadway. Nel giro di
un decennio arrivò ad essere il drammaturgo di maggior fama nel mondo, come
testimonia il premio Nobel per la letteratura ricevuto per il suo ardito e
ingegnoso rinnovamento dell'arte drammatica e teatrale. Degno di nota fu lo stretto
rapporto con Abba, sua musa ispiratrice, della quale Pirandello, secondo molti
biografi e conoscenti, era innamorato forse solamente in maniera
platonica. Molte delle opere pirandelliane cominciavano intanto ad essere
trasposte al cinema. Pirandello andava spesso ad assistere alla lavorazione dei
film; andò anche negli Stati Uniti d'America, dove famosi attori e attrici di
Hollywood, come Garbo, interpretavano i suoi soggetti. Nell'ultimo di questi
viaggi andò a trovare, su invito, Einstein a Princeton. In una conferenza
stampa difese con veemenza la politica estera del FASCISMO, con la guerra
d'Etiopia, accusando i giornalisti statunitensi di ipocrisia, citando il
colonialismo contro i nativi americani. Pirandello e la politica: l'adesione al
fascismo. Non aveva mai preso specifiche posizioni politiche, tranne
l'ammirazione per il patriottismo garibaldino di famiglia, unica certezza in
un'epoca di crisi. La sua idea politica di fondo e legata principalmente a
questo patriottismo risorgimentale. Una sua lettera apparsa sul Giornale di
Sicilia testimonia gli ideali patriottici della famiglia, proprio nei primi
mesi dallo scoppio della Grande Guerra durante la quale il figlio e fatto
prigioniero dagli austriaci e rinchiuso, per la maggior parte della prigionia,
nel campo di concentramento di Pian di Boemia, presso Mauthausen. Non riuscì a
far liberare il figlio malato neppure con l'intervento di Benedetto XV. Nella
sua vita condivise alcune delle idee dei giovani fasci siciliani e del socialismo;
ne I vecchi e i giovani si nota come la sua idea politica e stata oscurata
dalla riflessione umoristica. Per Pirandello, i siciliani hanno subìto le
peggiori ingiustizie dai vari governi italiani -- è questa l'unica idea forte
che ci presenta. Nella prima guerra mondiale e un interventista, anche se
avrebbe preferito che il figlio non partecipasse in prima linea alla guerra,
cosa che invece fa, arruolandosi volontario immediatamente e rimanendo ferito e
prigioniero degli austriaci, situazione che e estremamente angosciosa per lo
scrittore. Nel primo dopoguerra non adere subito ai fasci di combattimento,
tuttavia pochi anni dopo esplicita l'adesione al fascismo, ormai istituzionalizzato.
E ricevuto da Mussolini a Palazzo Chigi. Chiese l'iscrizione al partito
fascista inviando un telegramma a Mussolini, pubblicato subito dall'agenzia
Stefani. Eccellenza, sento che questo è per me il momento più proprio di
dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l'E.V. mi stima
degno di entrare nel partito nazionale fascista, pregerò come massimo onore
tenermi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera. Il
telegramma arriva in un momento di grande difficoltà per il presidente del consiglio
dopo il ritrovamento del corpo di Matteotti. Per la sua adesione al fascismo e
duramente attaccato da alcuni intellettuali e politici fra cui il deputato
liberale G. Amendola che in un a saggio arriva a dargli dell'accattone che
voleva a tutti i costi divenir senatore del Regno. Pur non ritrovandosi
caratterialmente con Mussolini e molti gerarchi, che ritiene persone troppo
rozze e volgari, oltre che poco interessati al teatro, non rinnega mai la sua
adesione al fascismo, motivata tra le altre cose da una profonda sfiducia nei
regimi social-democratici, così come non si interessa mai del marxismo, solo ne
“I vecchi e i giovani” mostra un leggero interesse per il socialismo -- regimi
nei quali si andano trasformando la democrazia liberale, che ritene a loro
volta corrotta, portando ad esempio gli scandali dell'età giolittiana e il
trasformismo. Pova inoltre un deciso disprezzo per la classe politica che
avrebbe voluto vedere, nichilisticamente, cancellata dalla vita del Paese, e
una forte sfiducia verso la massa caotica del popolo, che anda istruita e
guidata da una sorta di monarca illuminato. E tra i firmatari del Manifesto redatto
da GENTILE. La sua adesione al FASCISMO e per molti imprevista e sorprende anche
i suoi più stretti amici. Sostanzialmente egli, per un certo conservatorismo
che comunque ha, guarda al duce come ri-organizzatore della società. Un'altra
motivazione addotta per spiegare tale scelta politica è che il fascismo lo
riconduce all’ideale patriottico ri-sorgimentale di cui e convinto sostenitore,
anche per le radici garibaldine del padre. Vede nelli una idea originale, che
dove rappresentare la forma dell'Italia destinata a divenire modello. Puo apparire
un punto di contatto colli fasci il sostenuto relativismo filosofico di
entrambi. Ben diverso pero è il relativismo morale dei fasci, fondato sull'attivismo
e il suo relativismo esistenziale che si richiama allo scetticismo razionale. Si
fa interprete di un relativismo pessimistico, angosciato, negatore di ogni
certezza, incompatibile con l'ansia attivistica o il relativismo ottimistico
dei fasci Sempre nel solco di Amendola e dei critici anti-fascisti vi è anche
un commento più pragmatico alla sua iscrizione al Partito fascista, la quale avrebbe
avuto origine nel suo ricercare finanziamenti per la creazione della sua
compagnia di teatro, che ha così il sostegno del regime e le relative
sovvenzioni. Il governo fascista, pero, perfino dopo il Nobel, gli prefiere
sempre Annunzio e Deledda, anche lei vincitrice del premio, come letterati
ideali del regime. Ha molta difficoltà a re-perire i fondi statali, che
Mussolini spesso non vuole concedergli. Non sono infrequenti suoi scontri
violenti con autorità fasciste e dichiarazioni aperte di a-politicità. Sono a-politic.
Mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco. Se
vuole potrei aggiungere casto. Clamorosoe il gesto narrato da C. Alvaro in cui a Roma
strappa la sua tessera del suo fascio davanti agli occhi esterrefatti del
Segretario Nazionale. Nonostante ciò, una rottura aperta col fascismo non
si onsume mai. Si conclude senza troppa fortuna l'esperienza del Teatro
d'Arte. Dopo lo scioglimento, in tacita polemica con il regime fascista che a
suo avviso era troppo parco di sostegno ai suoi progetti teatrali, si ritira. Forse
a parziale compensazione di questo mancato sostegno, e uno dei primi trenta accademici,
nominati direttamente da Mussolini, della neo costituita Reale Accademia
d'Italia – i reali italiani! In nome del suo ideale patriottico, partecipa
alla raccolta dell'oro per la patria donando la medaglia del premio Nobel. Questa
scelta di adesione ai fasci è stata spesso sia minimizzata sia accentuata dalla
critica. L’ideologia fascista non ha mai parte nella sua vita o nel suo teatro,
abbastanza avulse della realtà politica, così che non fu in grado di vedere e
giudicare la violenza dei fasci. Il contenuto anarchico, corrosivo, pessimista
e quasi sempre anti-sistema del suo teatro e guardato con sospetto da molti
uomini del partito. Non lo considerano una vera "arte fascista". La
critica non lo esalta, spesso considerando il suo teatro non conformi all’ideale
fascista. Vi si vede una certa insistenza e considerazione della borghesia
altolocata che i fasci condanno come corrotta e decadente. Gl’arzigogoli
filosofici dei personaggi dei suoi drammi borghesi sono considerati quanto di
più lontano dall'attivismo fascista. Anche dopo l'attribuzione del Nobel
parecchi teatro e accusato dalla stampa di regime di disfattismo tanto che
anche fine tra i controllati speciali dell'OVRA. Nonostante i suoi elogi al
capo del governo, il Duce fa sequestrare l'opera “La favola del figlio” cambiato,
per alcune scene ritenute non consone, impedendone le repliche. A lui e imposta,
per contrasto, la regia dell'opera dannunziana La figlia di Jorio! Le sue volontà
testamentarie, che negavano ogni funerale e celebrazione, metteranno in
imbarazzo i fascisti e lo stesso Mussolini, che ordina così alla stampa che non
ci fanno troppe celebrazioni sui quotidiani, ma che ne fanno data solo la
notizia, come di un semplice fatto di cronaca. Il rifugio di Soriano nel Cimino
ama trascorrere ampi periodi dell'anno nella quiete di Soriano nel Cimino, un'amena
e bella cittadina ricca di monumenti storici e immersa nei boschi del Monte
Cimino. In particolare rimase
affascinato dalla maestosità e dalla quiete di uno stupendo castagneto situato
nella località di "Pian della Britta", a cui volle dedicare
un'omonima poesia, che oggi è scolpita su una lapide di marmo posta proprio in
tale località. Ambienta a Soriano nel Cimino (citando luoghi, località e
personaggi realmente esistiti) anche due tra le sue più celebri novelle Rondone
e Rondinella e Tomassino ed il filo d'erba. A Soriano nel Cimino, è rimasto
vivo ancora oggi il suo ricordo a cui sono dedicati monumenti, lapidi e
strade. Frequenta anche Arsoli per molti anni, soprattutto durante i
periodi estivi, dove amava dissetarsi con una gassosa nell'allora bar Altieri
in piazza Valeria. Il suo amore per il paese si ritrova nella definizione che
egli stesso diede ad Arsoli chiamandola La piccola Parigi. Appassionato di
cinematografia, mentre assiste a Cinecittà alle riprese di un film tratto dal
suo romanzo Il fu Mattia Pascal, si ammala di polmonite. Ha già subito due
attacchi di cuore. Il suo corpo, ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti
della vita, non sopporta oltre. Al medico che tenta di curarlo, disse. Non
abbia tanta paura delle parole, professore, questo si chiama morire. La malattia
si aggrava e muore. Per lui il regime fascista vuole esequie di stato. Viene nvece
rispettate le sue volontà espresse nel testamento. Carro d'infima classe,
quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni -- né parenti né amici. Il
carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. Per sua volontà il corpo,
senza alcuna cerimonia, e cremato, per evitare postume consacrazioni
cimiteriali e monumentali. Le sue ceneri furono deposte in una preziosa anfora
greca già di sua proprietà e tumulate nel cimitero del Verano. Camilleri e
altri quattro dettero il via a un lento e travagliato adempimento delle sue
ultime volontà (in caso non fosse stato possibile lo spargimento). Far
seppellire le ceneri nel giardino della villa di contrada Caos, dove e nato. Ambrosini
trasporta l'anfora in treno, chiusa in una cassetta di legno. A Palermo il
corteo funebre venne però bloccato dal vescovo di Agrigento Peruzzo. Camilleri
si reca al vescovo, che rimase inamovibile. Propose allora con successo l'idea
di inserire l'anfora in una bara, che venne appositamente affittata. Il corteo,
per un breve tratto a piedi e poi a bordo di una littorina, giunse a Girgenti. Dopo
una cerimonia religiosa, l'anfora con le ceneri e estratta dalla bara e riposta
nel Museo Civico di Agrigento, in attesa della costruzione di un monumento nel
giardino della villa. Solo dopo parecchi anni dalla morte, realizzata una scultura
monolitica di R. Mazzacurati, artista vincitore del concorso indetto,
costituita principalmente da una grossa pietra non lavorata, le ceneri vennero
portate nel giardino e versate in un cilindro di rame inserito nel terreno, che
venne chiuso da una pietra sigillata con del cemento. Una parte rimanente
delle ceneri, trovata anni dopo attaccata ai lati interni dell'anfora, non
essendo più contenibile nel cilindro ri-colmo e ri-aperto per l'occasione,
venne dispersa, rispettando il desiderio originario di lui stesso. Davanti agli
occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque sistema
filosofico. (L. Pirandello, dai Foglietti). E convinto che qualunque filosofia e
fallita di fronte all'insondabilità dell'uomo quando in lui prevale la bestia
-- l'aspetto animalesco e irrazionale. La sua e una teoria della pluralità
dell'io. Pubblica i saggi “Arte e Scienza” e “L'umorismo” -- caratterizzati da
un'esposizione di stile colloquiale, molto lontana dal consueto discorso
filosofico. I due saggi sono espressione di un'unica identita artistica ed
esistenziale che ha coinvolto lo scrittore siciliano che vede come centrale
proprio la poetica dell'umorismo. In “L'umorismo” confluiscono idee, brani di
scritti e appunti precedenti. Sue varie chiose e annotazioni a L'indole e il
riso di Pulci di A. Momigliano e parti dell'articolo di Cantoni nella «Nuova
Antologia». Il suo umorismo si inserisce in un rigoglioso e più che secolare
campo di meditazione e ricerca sull'omonimo tema; e rappresenta il momento ri-epilogativo
probabilmente più soddisfacente di una serie di acquisizioni teoriche che la
cultura ha chiare e consolidate . Bisogna infatti aspettare il saggio di Genovese,
“Il Comico, l’Umore e la Fantasia o Teoria del Riso come Introduzione all’Estetica”
(Bocca, Torino) per avere un saggio di ampia informazione e documentazione, di
solido spessore speculative pur nell'ispirazione idealistica da cui prende le
mosse. Tecnicamente persuasivo, insomma, e con ben altre fondamenta teoretiche,
praltro, in un panorama di non rara fossilizzazione culturale, va detto che
l'opera di Genovese è stata appaiata forse soltanto dal coraggioso saggio, e
Homo ridens. Estetica, Filologia, Psicologia, Storia del Comico” (Firenze,
Olsckhi). Distingue il comico dall'umoristico. Il comico e definito come avvertimento
del contrario, nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. Vedo una
vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile
manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi
metto a ridere. "Avverto" che quella vecchia signora è il contrario
di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta
e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto
un "avvertimento del contrario. L'umorismo, il "sentimento del
contrario", invece nasce da una considerazione meno superficiale della
situazione. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che
quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un
pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente,
s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a
trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non
posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me,
mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro. Da
quel primo *avvertimento* del *contrario* mi ha fatto passare a questo *sentimento*
del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico. Quindi,
mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la
situazione *evidentemente contraria* a quella che dovrebbe normalmente essere,
l'umoristico nasce da una più ponderata ri-flessione che genera compassione e
un sorriso di comprensione. Nell'umoristico c'è il senso di un *comune sentimento*
della fragilità dell’uomo da cui nasce un compatimento per la debolezze dell’altro
che e anche la propria. L'umoristico è meno spietato del comico che giudica in
maniera immediata. Non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci
fa ridere adesso ci fa tutt'al più sorridere, o piantare. La filosofia dell'umoristico in nasce già quando pubblica
le due premesse de Il fu Mattia Pascal dove richiamandosi al “Copernico” di
Leopardi riprende l'ironia che attribusce l’eliocentrismo alla pigrizia del sole
stanco di girare attorno ai pianeti. Si vede una notazione dell’umoristico
nella contrapposizione di due sentimenti opposti. Dopo l’accettazione
dell’eliocentrismo, i terrestri accetano di essere una parte infinitesimale
dell'universo e nello stesso tempo la sua capacità di
compenetrarsene. L'analisi dell'identità condotta da lui lo porta a
formulare la teoria della crisi dell'io. Il nostro spirito consiste di
frammenti, o meglio, di elementi distinti, più o meno in rapporto tra loro, i
quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento, così che ne
risulti una nuova personalità, che pur fuori dalla coscienza dell'io normale,
ha una propria coscienza a parte, indipendente, la quale si manifesta viva e in
atto, oscurandosi la coscienza normale, o anche coesistendo con questa, nei
casi di vero e proprio sdoppiamento dell'io. Talché veramente può dirsi che due
persone vivono, agiscono a un tempo, ciascuna per proprio conto, nel medesimo
individuo. Con gli elementi del nostro io noi possiamo perciò comporre,
costruire in noi stessi altri individui, altri esseri con propria coscienza,
con propria intelligenza, vivi e in atto. Paradossalmente, il solo modo per
recuperare la propria identità è la follia, tema centrale in molte opere, come
l'Enrico IV o come Il berretto a sonagli, nel quale inserisce addirittura una
ricetta per la pazzia: dire sempre la verità, la nuda, cruda e tagliente
verità, infischiandosene dei riguardi, delle maniere, delle ipocrisie e delle
convenzioni sociali. Questo comportamento porta presto all'isolamento da parte
della società e, agli occhi degli altri, alla pazzia. Abbandonando le
convenzioni sociali e morali l'uomo può ascoltare la propria interiorità e
vivere nel mondo secondo le proprie leggi, cala la maschera e percepisce se
stesso e l’altro senza dover creare un personaggio, è semplicemente “persona”. Esemplare
di tale concezione è l'evoluzione di Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno,
nessuno e centomila. Ancora sulla crisi dell'identità del singolo
impotente con la sua razionalità di fronte al mistero universale che lo
circonda, in Il fu Mattia Pascal, espone metaforicamente la sua filosofia del
lanternino, tramite il monologo che il personaggio di Anselmo Paleari rivolge
al protagonista Mattia Pascal, in cui la piccola lampada rappresenta il
sentimento umano, che non riesce ad alimentarsi se non tramite le illusioni di
fede e ideologie varie ("i lanternoni"), ma che altrimenti provoca
l'angoscia del buio che lo circonda all'uomo, l'animale che ha il triste privilegio
di "sentirsi vivere. Nella lanternisofia, il lanternino che proietta tutto
intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra
nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe se il lanternino non fosse acceso in
noi, ma che noi purtroppo dobbiamo credere vera, fintanto ch'esso si mantiene
vivo in noi. Spento alla fine da un soffio, ci accoglierà la notte perpetua
dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto
alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra
ragione? (Il fu Mattia Pascal, Il lanternino) La sua sfiducia verso la fede
religiosa tradizionale lo porta ad accentuare così il proprio vuoto spirituale,
che cercò di riempire, come il citato personaggio del Paleari, con l'interesse
personale verso l'occultismo, la teosofia e lo spiritismo, che tuttavia non gli
daranno la serenità esistenziale. Il contrasto tra vita e forma Luigi
Pirandello svolge una ricerca inesausta sull'identità della persona nei suoi
aspetti più profondi, dai quali dipendono sia la concezione che ogni persona ha
di sé, sia le relazioni che intrattiene con gli altri. Influenzato dalla
filosofia irrazionalistica di fine secolo, in particolare di Bergson,
Pirandello ritiene che l'universo sia in continuo divenire e che la vita sia
dominata da una mobilità inesauribile e infinita. L'uomo è in balia di questo
flusso dominato dal caso, ma a differenza degli altri esseri viventi tenta,
inutilmente, di opporsi costruendo forme fisse, nelle quali potersi
riconoscere, ma che finiscono con il legarlo a maschere in cui non può mai
riconoscersi o alle quali è costretto a identificarsi per dare comunque un senso
alla propria esistenza. Se l'essenza della vita è il flusso continuo, il
perenne divenire, quindi fissare il flusso equivale a non vivere, poiché è
impossibile fissare la vita in un unico punto. Questa dicotomia tra vita e
forma, accompagnerà l'autore in tutta la sua produzione evidenziando la
sconfitta dell'uomo di fronte alla società, dovuta all'impossibilità di fuggire
alle convenzioni di quest'ultima se non con la follia. Solo il folle, che pure
è una figura sofferente ed emarginata, riesce talvolta a liberarsi dalla
maschera, e in questo caso può avere un'esistenza autentica e vera, che resta
impossibile agli altri in quanto non è fattibile denudare la maschera o le
maschere, la propria identità (Maschere nude è infatti il titolo della raccolta
delle sue opere teatrali). Questa riflessione, che si rispecchia nelle varie
opere con accenti ora lievi ora gravi e tragici, è stata, ad opera soprattutto
dello studioso Adriano Tilgher, interpretata come un sistema filosofico basato
sul contrasto tra la Vita e la Forma, che talvolta ha fatto esprimere alla
critica un giudizio negativo delle ultime opere precedenti al "teatro dei
miti", accusate a volte di "pirandellismo", cioè di riproporre
sempre lo stesso schema di lettura. Il relativismo psicologico o conoscitivo
«La verità? è solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola Ah! E
la seconda moglie del signor Ponza Oh! E come? Sì; e per me nessuna! nessuna! Ah,
no, per sé, lei, signora: sarà l'una o l'altra! Nossignori. Per me, io sono
colei che mi si crede. Ed ecco, o signori, come parla la verità. -- Dialogo
finale di Così è (se vi pare)). Dal contrasto tra la vita e la forma nasce il
relativismo psicologico che si esprime in due sensi: orizzontale, ovvero nel
rapporto inter-personale, e verticale, ovvero nel rapporto che una persona ha
con se stessa. Gl’uomini nascono liberi ma il caso interviene nella loro
vita precludendo ogni loro scelta. L’uomo nasce in una società pre-costituita
dove ad ognuno viene assegnata una parte secondo la quale deve
comportarsi. Ciascuno è obbligato a seguire il ruolo e le regole che la
società impone, anche se l'io vorrebbe manifestarsi in modo diverso. Solo per
l'intervento del caso può accadere di liberarsi di una forma per assumerne
un'altra, dalla quale non sarà più possibile liberarsi per tornare indietro,
come accade al protagonista de Il fu Mattia Pascal. L'uomo dunque non può
capire né l’altro né tanto meno se stesso, poiché ognuno vive portando consapevolmente
o, più spesso, inconsapevolmente, una maschera dietro la quale si agita una
moltitudine di personalità diverse e inconoscibili. Queste riflessioni
trovano la più esplicita manifestazione narrativa nel romanzo Uno, nessuno e
centomila. Uno perché ogni persona crede di essere un individuo unico con
caratteristiche particolari. Centomila perché l'uomo ha, dietro la maschera,
tante personalità quante sono le persone che ci giudicano. Nessuno perché,
paradossalmente, se l'uomo ha centomila personalità diverse, invero, è come se
non ne possedesse nessuna, nel continuo cambiare non è capace di fermarsi
nel suo io". Il relativismo conoscitivo e psicologico su cui si basa la
sua filosofia si scontra con il conseguente problema dell'incomunicabilità tra i
siciliani. Ogni personaggio siciliano ha un proprio modo di vedere la realtà. Non
esiste un'unica realtà oggettiva, ma tante realtà quante sono i siciliani che
credono di possederla. Dunque, ognuno ha una propria verità. Questa incomunicabilità
produce quindi un sentimento di solitudine ed esclusione dalla società e
persino da se stesso. Proprio la crisi e frammentazione dell'io interiore crea un
altr’ io diverso e discordante. L’io consiste di frammenti che ci fanno
scoprire di essere -- uno, nessuno – molti -- centomila --. Il personaggio come
il Vitangelo Moscarda di “Uno, nessuno e – molti centomila e i protagonisti
della commedia ‘a fare’, “Sei personaggi in cerca di autore” di conseguenza
avverte un sentimento di “estraneità” –
alienazione o alterita – strano – etimologia -- dalla vita che lo fa sentire
forestiero della vita, nonostante la continua ricerca di un senso
dell'esistenza e di un'identificazione di un proprio ruolo, che vada oltre la
maschera, o le diverse e innumerevoli maschere, con cui si presentano al
cospetto della società o delle persone più vicine. Il peronaggio accetta
la maschera, che lui stesso ha messo o con cui gl’altro tende a identificarlo. Prova
ommessamente a mostrarsi per quello che lui crede di essere. Incapace di
ribellarsi, pero, o deluso dopo l'esperienza di vedersi attribuita una nuova
maschera, si rassegna. Il personaggio vive nell'infelicità, con la coscienza
della frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che laltro lo fa vivere
per come esso lo vede. Il personaggio accetta alla fine passivamente il ruolo
da recitare che lui si attribuisce sulla scena dell'esistenza. Questa è la
reazione tipica del personaggio più deboli come si può vedere nel romanzo “Il
fu Mattia Pascal”. Il soggetto non si rassegna alla sua maschera. Accetta pero il
suo ruolo con un atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Ne fanno
esempio varie opere come: Pensaci Giacomino, Il giuoco delle parti e La
patente. Rosario Chiàrchiaro è un uomo cupo, vestito sempre in nero che si è
fatto involontariamente la nomea di iettatore e per questo è sfuggito da tutti
ed è rimasto senza lavoro. Il presunto iettatore non accetta l'identità che gl’altro
gli ha attribuito ma comunque se ne serve. Va dal giudice e, poiché tutti sono
convinti che sia un menagramo, pretende la patente di iettatore autorizzato. In
questo modo ha un lavoro: chi vuole evitare le disgrazie che promanano da lui
dovrà pagare per allontanarlo. La maschera rimane – ma almeno se ne ricava un
vantaggio. L'uomo, accortosi del relativismo, si rende conto che l'immagine che
di sé non corrisponde in realtà a quella che l’altro ha di lui e cerca in ogni
modo di carpire questo lato inaccessibile del suo io. Vuole togliersi la
maschera che gli è stata imposta e reagisce con disperazione. Non riesce a
strapparsela e allora se è così che lo vuole il mondo, egli e quello che l’altro
credono di percipere in lui e non si ferma nel mantenere questo suo
atteggiamento sino all’ultima e drammatica conseguenza. Si chiude in una
solitudine disperata che lo porta al dramma, alla pazzia o al suicidio. Da tale
sforzo verso un obiettivo irraggiungibile nasce la voluta follia. La follia è
lo strumento di contestazione per eccellenza della forma fasulla della vita
sociale, l'arma che fa esplodere la convenzione e il rituale, riducendoli
all'assurdo e rivelandone l'inconsistenza. Solo e unico modo per vivere,
per trovare l’io, è quello di accettare il fatto di non avere un'identità, ma
solo frammenti -- e quindi di non essere uno ma nessuno -- accettare
l'alienazione completa da se stesso. Tuttavia il colletivo non accetta il
relativismo. Il soggeto chi accetta il relativismo viene ritenuto pazzo dal
colletivo. Esemplari sono i personaggi dei drammi Enrico IV, dei Sei personaggi
in cerca d'autore, o di Uno, nessuno e centomila. Divenne famoso proprio
grazie al teatro che chiama “teatro dello specchio”, perché in esso viene
raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell'ipocrisia
e delle convenienze sociali, di modo che lo spettatore si guardi come in uno
specchio così come realmente è, e diventi migliore. Dalla critica viene definito
come uno dei grandi drammaturghi. Scrive moltissime opera, alcune delle quali
rielaborazioni delle sue stesse novelle, che vengono divise in base alla fase
di maturazione dell'autore: Prima faseIl teatro siciliano Seconda faseIl
teatro umoristico/grottesco Terza fase Il teatro nel teatro (meta-teatro)
Quarta fase Il teatro dei miti. Generalmente si attribuisce il suo interesse
per il teatro agli anni della maturità, ma alcuni precedenti mostrano come tale
convinzione necessiti di una rivalutazione. Compose alcuni lavori teatrali,
andati perduti poiché da lui stesso bruciati (tra gli altri, il copione de Gli
uccelli dell'alto). In una lettera alla
famiglia, si legge. Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso
penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione
strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell'aria pesante chi vi
si respira, m'ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso
dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi
entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone
che si agitano in un centro d'azione, non ancora fermato, uomini e donne da
dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d'un subito
saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare
quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono
nella mia mente: è una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di
applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi! -- da
una lettera ai familiari. È in questa dimensione che si parla di teatro
mentale: lo spettacolo non è subito passivamente ma serve come pretesto per dar
voce ai "fantasmi" che popolano la mente dell'autore (nella
prefazione ai Sei personaggi in cerca d'autore Pirandello chiarirà di come la
Fantasia prenda possesso della sua mente per presentargli personaggi che
vogliono vivere, senza che lui li cerchi). In un'altra missiva, spedita
da Roma, sostiene che la scena italiana gli appare decaduta: «Vado spesso
in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana caduta tanto in
basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa -- da una lettera ai familiari. La
delusione per non essere riuscito a far rappresentare i primi lavori lo
distoglie inizialmente dal teatro, facendolo concentrare sulla produzione
novellistica e romanziera. Pubblica l'importante saggio Illustratori,
attori, traduttori dove esprime le sue idee, ancora negative, sull'esecuzione
del lavoro dell'attore nel lavoro teatrale: questi è infatti visto come un mero
traduttore dell'idea drammaturgica dell'autore, il quale trova dunque un filtro
al messaggio che intende comunicare al pubblico. Il teatro viene poi definito
da P. come un'arte "impossibile", perché "patisce le condizioni
del suo specifico anfibio":: un tradimento della scrittura teatrale, che
ha di contro "il cattivo regime dei mezzi rappresentativi, appartenenti
alla dimensione adultera dell'eco. È in questo momento che Pirandello si
distacca dalla lezione positivista e, presa diretta coscienza
dell'impossibilità della rappresentazione scenica del "vero"
oggettivo, ricerca nella produzione drammaturgica di scavare l'essenza delle cose
per scoprire una verità altra (come è spiegato nel saggio L'Umorismo con il
sentimento del contrario). Fondò la compagnia del Teatro d'Arte di Roma
con sede al Teatro Odescalchi con la collaborazione di altri artisti: il figlio
S. Pirandello, O. Vergani, C. Argentieri, A. Beltramelli, G. Cavicchioli, M.
Celli, P. Cantarella, L. Picasso, Renzo Rendi, M. Bontempelli e G. Prezzolini
-- tra gli attori più importanti della compagnia figurano Marta Abba, Lamberto
Picasso, Maria Letizia Celli, Ruggero Ruggeri. La compagnia, il cui primo
allestimento risale con Sagra del signore della nave dello stesso Pirandello e
Gli dei della montagna di Lord Dunsany, ebbe però vita breve: i gravosi costi
degli allestimenti, che non riuscivano ad essere coperti dagli introiti del
teatro semivuoto costrinsero il gruppo, dopo solo due mesi dalla nascita, a
rinunciare alla sede del Teatro Odescalchi. Per risparmiare sugli allestimenti
la compagnia si produsse prima in numerose tournée estere, poi fu costretta
allo scioglimento definitivo, avvenuto a Viareggio. Prima faseTeatro Siciliano
Nella fase del Teatro Siciliano P. è alle prime armi e ha ancora molto da
imparare. Anch'essa come le altre presenta varie caratteristiche di rilievo;
alcuni testi sono stati scritti interamente in lingua siciliana perché
considerata dall'autore più viva dell'italiano e capace di esprimere maggiore
aderenza alla realtà. La morsa e Lumìe di Sicilia Roma, Teatro Metastasio,
Il dovere del medico, Roma, Sala Umberto, La ragione degli altri, Milano,
Teatro Manzoni, Cecè, Roma, Teatro
Orfeo, Pensaci, Giacomino, Roma, Teatro Nazionale, Liolà, Roma, Teatro
Argentina, Seconda fase: Il teatro umoristico/grottesco. Pirandello e Marta
Abba Mano a mano che l'autore si distacca da verismo e naturalismo,
avvicinandosi al decadentismo si ha l'inizio della seconda fase con il teatro
umoristico. Presenta personaggi che incrinano le certezze del mondo borghese:
introducendo la versione relativistica della realtà, rovesciando i modelli
consueti di comportamento, intende esprimere la dimensione autentica della vita
al di là della maschera. Così è (se vi pare), Milano, Teatro Olimpia, Il
berretto a sonagli, Roma, Teatro Nazionale, La giara, Roma, Teatro Nazionale, Il
piacere dell'onestà (Torino, Carignano) La patente, Torino, Alfieri, Ma non è
una cosa seria, Livorno, Rossini, Il
giuoco delle parti, Roma, Quirino, L'innesto, Milano, Manzoni, L'uomo, la
bestia e la virtù, Milano, Olimpia, Tutto per bene, Roma, Quirino, Come prima,
meglio di prima, Venezia, Goldoni, La signora Morli, una e due, Roma, Argentina.
Nella fase del teatro nel teatro le cose cambiano radicalmente. Il teatro deve
parlare anche agli occhi non solo alle orecchie, a tal scopo ripristinerà una
tecnica teatrale di Shakespeare, il palcoscenico multiplo, in cui vi può per
esempio essere una casa divisa in cui si vedono varie scene fatte in varie
stanze contemporaneamente. Inoltre il teatro nel teatro fa sì che si assista al
mondo che si trasforma sul palcoscenico. Abolisce anche il concetto della
quarta parete, cioè la parete trasparente che sta tra attori e pubblico. In
questa fase, infatti, tende a coinvolgere il pubblico che non è più passivo ma
che rispecchia la propria vita in quella agita dagli attori sulla scena. Ha
un incontro con Filippo. Conseguenza,
oltre alla nascita di un'amicizia e che Filippo sente come accadde in passato
per lui, il bisogno di allontanarsi dal regionalism dell'arte verista pur
conservandone però le tradizioni e le influenze. Incontra Eduardo, Peppino
e Titina De Filippo. Sei personaggi in cerca d'autore, Roma, Valle, Enrico IV,
Milano, Manzoni, All'uscita, Roma, Argentina, L'imbecille, Roma, Quirino, Vestire
gli ignudi, Roma, Quirino, L'uomo dal fiore in bocca, Roma, Degli Indipendenti,
La vita che ti diedi, Roma, Quirino, L'altro figlio, Roma, Nazionale, Ciascuno
a suo modo, Milano, Dei Filodrammatici, Sagra del signore della nave, Roma, Odescalchi,
Diana e la Tuda, Milano, Eden, L'amica delle mogli, Roma, Argentina, Bellavita,
Milano, Eden, O di uno o di nessuno,
Torino, di Torino, Come tu mi vuoi, Milano, dei Filodrammatici; Questa sera si
recita a soggetto, Torino, di Torino, Trovarsi, Napoli, dei Fiorentini, Quando
si è qualcuno, Buenos Aires Odeón, La favola del figlio cambiato, Roma, Reale
dell'Opera, Non si sa come, Roma, Argentina, Sogno, ma forse no, Lisbona, Teatro
Nacional. Alla fase del teatro dei miti ase si assegnano solo tre opera. La
nuova colonia Lazzaro I giganti della montagna Romanzi Copertina de Il
turno, Madella. Scrive sette
romanzi: L'esclusa, a puntate su La Tribuna (Milano, Treves); Il turno (Catania,
Giannotta); l fu Mattia Pascal, Roma, Nuova antologia. Suo marito, Firenze,
Quattrini. (poi Giustino Roncella nato Boggiolo, in Tutti i romanzi, Milano,
Mondadori, I vecchi e i giovani, Milano, FTreves. Quaderni di Serafino Gubbio
operatore, Firenze, R. Bemporad et figlio. Uno, nessuno e centomila, Firenze,
Bemporad; Novelle. Le novelle sono considerate le opere più durature. I critici
hanno cambiato tale opinione ritenendo le opere teatrali più degne di essere
ricordate. Fare distinzione tra il contenuto di una novello o romanzo e un dramma è difficile. Molte novelle sono
state messe in opera a teatro. “Ciascuno a suo modo” deriva dal “Si gira”. “Liolà”
ha il tema preso da “Il fu Mattia Pascal”; “La nuova colonia” e presentata in “Suo
marito”. Analizzando le novelle si puo renderci conto che ciò che manca è una
delineazione tematica, una cornice. Sono presenti un crogiolo di personaggi ed
eventi. Il tempo in cui una novella e ambientata non è definito. Alcune si svolgono nell'epoca umbertina, poi
giolittiana e del dopo-giolitti. Diversamente accade nella novella siciliana. Iil
tempo non è fissato. E un tempo antico, di una società che non vuole cambiare e
che è rimasta ferma. I paesaggi della novellistica sono vari. Per quella detta
siciliana si ha spesso il tipico paesaggio rurale. In alcune si trova il tema
del contrasto tra le generazioni dovuto all'unità d'Italia. Altro ambiente
delle novelle è la Roma umbertina o giolittiana. Il protagonista e sempre
alla presa con il male di vivere, con il caso e con la morte. Non si trova mai
rappresentanti dell'alta borghesia, ma quelli che potrebbero essere i vicini
della porta accanto: il sarto, il balie, il professore, il piccolo proprietario
di negozi che ha una vita sconvolta dalla sorte e dal dramma familiare. Il personaggio
ci viene presentato così come appaie. E difficile trovare un'approfondita
analisi psicologica. La fisionomia e spesso eccentrica. Per il sentimento del
contrario, il personaggio ha un carattere *opposto* a come si presenta. I
personaggi conversano nel presentarsi per come essi *sentono* di essere. Ma
alla fine, e sempre preda del caso, che li farà apparire diverso e cambiato.
Novelle per un anno -- è uno dei più grandi scrittori di novelle, raccolte
dapprima nell'opera Amori senza amore. In seguito si dedica maggiormente per
tutta la sua vita, cercando di completarla, alla raccolta Novelle per un anno,
così intitolata perché il suo intento e quello di scrivere 365. Novelle per un
anno, Firenze, Bemporad; Milano, Mondadori); Scialle nero (Firenze, Bemporad); La
vita nuda, Firenze, Bemporad, La rallegrata, Firenze, Bemporad, L'uomo solo,
Firenze, Bemporad, La mosca, Firenze, Bemporad, In silenzio, Firenze, Bemporad,
VII, Tutt'e tre, Firenze, Bemporad, Dal naso al cielo, Firenze, Bemporad, IX,
Donna Mimma, Firenze, Bemporad); Il
vecchio Dio, Firenze, Bemporad, La giara,
Firenze, Bemporad, Il viaggio, Firenze, Bemporad, Candelora, Firenze, Bemporad,
Berecche e la guerra, Milano, Mondadori, Una giornata, Milano, Mondadori). Si
svolge la produzione letteraria di Pirandello meno conosciuta dal grande
pubblico, quella delle poesie che, contrariamente alla composizione teatrale,
non esprimono alcun tentativo di rinnovamento sperimentale estetico, e seguono
piuttosto le forme e i metri tradizionali della lirica classica, pur non
rimandando a nessuna delle correnti letterarie presenti al tempo dello
scrittore. Nell'antologia poetica Mal giocondo, pubblicata a Palermo, ma
la cui prima lirica risale quando P. aveva appena tredici anni, emerge uno dei
temi dell'ultima estetica pirandelliana del contrasto tra la serena classicità
del mito e l'ipocrisia e la immoralità sociale della contemporaneità. Sono
presenti, come nota lo stesso P., anche toni umoristici, specie quelli derivati
dal suo soggiorno a Roma. “Mal giocondo” (Palermo, Libreria Internazionale
Pedone Lauriel); Pasqua di Gea, Milano, Galli (dedicata a Schulz-Lander, di cui
si innamora a Bonn, con una chiara influenza della poesia di Carducci. Pier
Gudrò, Roma, Voghera, Elegie renane, Roma, Unione Cooperativa) -- il cui
modello sono le Elegie romane di Goethe); Elegie romane, traduzione di Goethe,
Livorno, Giusti, Zampogna, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, Scamandro,
Roma, Tipografia Roma, Fuori di chiave, Genova, Formiggini, Pirandello nel
cinema Inizialmente Pirandello non amava molto il cinema, considerato inferiore
al teatro, e questo interesse maturò lentamente, negli anni. Il rapporto tra P.
e il cinema fu complesso, ambiguo, conflittuale, a volte di totale rifiuto,
altre volte di grande curiosità. E fu certamente la curiosità per questa nuova
modalità di narrazione per immagini, che si era già strutturata come industria
cinematografica, che lo spinse a scrivere il romanzo Si gira, poi ripubblicato con
il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. In questo romanzo il suo
giudizio sul cinematografo è spietato sia quando teme che il pubblico abbandoni
i teatri per correre a vedere su uno schermo "larve evanescenti"
prodotte in maniera meccanica e fredda, sia quando descrive il mondo della
produzione cinematografica popolato di personaggi volgari impeg confezionare
prodotti commerciali per soddisfare il palato delle masse e gli interessi degli
uomini d'affari. Nello stesso tempo la struttura stessa del racconto letterario
e l'ipotesi, da lui stesso formulata, di trarne un film prefigurano un'idea di
linguaggio cinematografico di grande modernità: il film nel film. Momento
cruciale per la storia del cinema, nei primi decenni del suo sviluppo, fu
l'avvento del sonoro. Anche in questo caso ad un iniziale rifiuto seguì una
svolta significativa. In una lettera a Marta Abba, Pirandello scrisse. L'avvenire
dell'arte drammatica e anche degli scrittori di teatro è adesso là. Bisogna
orientarsi verso una nuova espressione d'arte: il film parlato. Ero contrario,
mi sono ricreduto" Pirandello sul set de Il fu Mattia Pascal con Pierre
Blanchar e Isa Miranda Il lume dell'altra casa di Ugo Gracci. Il crollo di M.
Gargiulo, Lo scaldino di Genina. Ma non è una cosa seria di Augusto Camerini, La
rosa di Arnaldo Frateili Il viaggio di Gennaro Righelli Il fu Mattia Pascal di
Marcel L'Herbier La canzone dell'amore di
Gennaro Righelli, primo film sonoro italiano è tratto dalla novella In
silenzio. Come tu mi vuoi di George Fitzmaurice con Greta Garbo Acciaio di Ruttmann.
Il fu Mattia Pascal di Pierre Chenal, Questa è la vita di Giorgio Pàstina, Aldo
Fabrizifilm a quattro episodi, tutti tratti da una novella: La giara, Il
ventaglino, La patente e Marsina stretta. Come prima, meglio di prima di J.
Hopper Liolà di A. Blasetti Il viaggio di Vittorio De Sica Enrico IV di Marco
Bellocchio Kaos di P. e Taviani, adattamento da Novelle per un anno, Le due
vite di Mattia Pascal di Monicelli Tu ridi di P. e Taviani, adattamento da
Novelle per un anno; La balia di Bellocchio, adattamento da Novelle per un anno;
P. nell'opera lirica La favola del figlio cambiato di Gian Francesco Malipiero,
Liolà di Giuseppe Mulè, Six Characters in Search of an Author di Hugo Weisgall,
Sagra del Signore della Nave di Michele Lizzi, Sogno (ma forse no) di Luciano
Chailly. Altre opere: Mal giocondo, Palermo, Libreria Internazionale Pedone
Lauriel); A la sorella Anna per le sue nozze, Roma, Tipo-Litografia Miliani e
Filosini, Pasqua di Gea, Milano,
Galli, Amori senza amore, Roma,
Bontempelli); Pier Gudrò, Roma, Voghera, Elegie renane, Roma, Unione
Cooperativa; Traduzione di Goethe, Elegie romane, Livorno, Giusti, Zampogna,
Roma, Società Editrice Alighieri, Beffe della morte e della vita, Firenze,
Lumachi, Lontano. Novella, in "Nuova Antologia", Quand'ero matto....
Novelle, Torino, Streglio, Il turno, Catania, Giannotta); Beffe della morte e
della vita. Firenze, Lumachi, Notizia letteraria, in "Nuova
Antologia", Dante. Poema lirico di G. Costanzo, "Nuova
Antologia", Bianche e nere. Novelle, Torino, Streglio); Il fu Mattia
Pascal, Roma, Nuova Antologia, Erma bifronte. Novelle, Milano, Treves); Prefazione
a Giovanni Alfredo Cesareo, Francesca da Rimini. Tragedia, Milano, Sandron, Studio
preliminare a A. Cantoni, L'illustrissimo. Romanzo, Roma, Nuova Antologia, Arte
e scienza. Saggi, Roma, Modes, L'esclusa, Milano, Treves, Umorismo, Lanciano,
Carabba); “Scamandro” (Roma, Tipografia); “La vita nuda” (Milano, Treves); “Suo
marito, Firenze, Quattrini); “Fuori di chiave, Genova, Formiggini, Terzetti,
Milano, Treves); “I vecchi e i giovani, Milano, Treves); Cecè. In "La
lettura", Le due maschere, Firenze,
Quattrini, Erba del nostro orto” (Milano, Studio Lombardo); “La trappola” (Milano,
Treves); “Se non così” "Nuova Antologia", Si gira ( Milano, Treves);
“E domani, lunedì” (Milano, Treves); “Liolà” ( Roma, Formiggini); Se non così Con
una lettera alla protagonista, Milano, Treves); “Un cavallo nella luna” (Milano,
Treves); Maschere nude, Milano, Treves, Pensaci,
Giacomino, Così è (se vi pare), Il piacere dell'onestà, Milano, Treves); Il
giuoco delle parti. Ma non è una cosa seria. Milano, Treves, Lumie di Sicilia.
Il berretto a sonagli. La patente. Milano, Treves, L'innesto. La ragione degli altri, Milano, Treves, Berecche e la guerra, Milano, Facchi, Il
carnevale dei morti. Firenze, Battistelli, Tu ridi. Milano, Treves); Pena di
vivere così, Roma, Libreria nazionale, Maschere nude” (Firenze, Bemporad); Tutto per
bene. Firenze, Bemporad, Come prima meglio di prima. Firenze, Bemporad); “Sei
personaggi in cerca d'autore -- commedia da fare” (Firenze, Bemporad); Enrico
IV (Firenze, Bemporad); L'uomo, la bestia e la virtù” (Firenze, Bemporad, La
signora Morli, una e due. Firenze, Bemporad, Vestire gli ignudi. Firenze,
Bemporad, La vita che ti diedi. Firenze, Bemporad, Ciascuno a suo modo.
Firenze, Bemporad, X, Pensaci, Giacomino! Firenze, Bemporad, Così è (se vi
pare). Firenze, Bemporad, Sagra del signore della nave, L'altro figlio, La
giara. Firenze, Bemporad); Il piacere dell'onestà. Firenze, Bemporad, Il berretto a sonagli. Firenze, Bemporad, Il giuoco delle parti. Firenze, Bemporad, Ma
non è una cosa seria. Firenze, Bemporad, L'innesto Firenze, Bemporad, La
ragione degli altri. Firenze, Bemporad, L'imbecille, Lumie di Sicilia, Cecè, La
patente.Firenze, Bemporad, All'uscita. Mistero profano, Il dovere del medico.
La morsa. L'uomo dal fiore in bocca.
Dialogo, Firenze, Bemporad, Diana e la Tuda. Firenze, Bemporad, L'amica delle mogli. Firenze, Bemporad, La
nuova colonia. Firenze, Bemporad, Liolà. Firenze, Bemporad, O di uno o di
nessuno. Firenze, Bemporad, Lazzaro (Milano, Mondadori); “Questa sera si recita
a soggetto” (Milano, Mondadori); “Come tu mi vuoi” (Milano, Mondadori); “Trovarsi”
(Milano Mondadori); “Quando si è qualcuno” (Milano, Mondadori); “Non si sa come”
(Milano, Mondadori); “Novelle per un anno, Firenze, Bemporad, Milano,
Mondadori, I, Scialle nero, Firenze, Bemporad, La vita nuda, Firenze, Bemporad,
La rallegrata, Firenze, Bemporad, L'uomo solo, Firenze, Bemporad, La mosca, Firenze, Bemporad, In silenzio,
Firenze, Bemporad, Tutt'e tre, Firenze, Bemporad, 1Dal naso al cielo, Firenze,
Bemporad, Donna Mimma, Firenze, Bemporad, Il vecchio Dio, Firenze, Bemporad, La
giara, Firenze, Bemporad, Il viaggio, Firenze, Bemporad, Candelora, Firenze,
Bemporad, Berecche e la guerra, Milano,
Mondadori, Una giornata, Milano,
Mondadori, Teatro dialettale siciliano, 'A vilanza, Cappiddazzu paga tuttu, con
Nino Martoglio, Catania, Giannotta, Prefazione a N. Martoglio, Centona.
Raccolta completa di poesie siciliane con l'aggiunta di alcuni componimenti
inediti, Catania, Giannotta, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze,
Bemporad, Uno, nessuno e centomila, Firenze, Bemporad, Prefazione a E. Levi,
Lope de Vega e l'Italia, Florencia, Sansoni, Introduzione a S.D'Amico, Storia
del teatro italiano, Milano, Bompiani); In un momento come questo, in "Nuova
Antologia",Giustino Roncella nato Boggiolo, in Tutti i romanzi, Milano,
Mondadori, Tutti i romanzi, Milano, A. Mondadori, Novelle per un anno, Milano,
A. Mondadori, Maschere nude, Milano, A. Mondadori); Lettere a Marta Abba,
Milano, Mondadori, Saggi e interventi, Milano, A. Mondadori. Oltre al Nobel
ricevette diverse onorificenze: Cavaliere di Collare dell'Ordine equestre
del Santo Sepolcro di Gerusalemme nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di
Collare dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme Arcade Minore
della Secolare Accademia del Parnaso Canicattinesenastrino per uniforme
ordinariaArcade Minore della Secolare Accademia del Parnaso Canicattinese —
Canicattì Intitolazioni. A lui è stato dedicato un asteroide. Enciclopedia
Italiana Treccani alla voce Girgenti. In A. Camilleri. Biografia del figlio
cambiato, Milano, Lettere da Palermo e da Roma, Bulzoni, Roma, Il risorgimento familiare.
Medicina e Insonnia. in.. Riferimenti autobiografici a questo problema che
affligge si trovano in numerose sue opere: Il turno, L'amica delle mogli, Il fu
Mattia Pascal, L'uomo solo, La trappola, La giara G. Bonghi, Biografia di P.., Edizione dei
classici italiani A. Camilleri, In
effetti, afferma in un lettera ai familiari da Roma. I professori di questa
università, nella facoltà mia, sono d’una ignoranza nauseante (Lettere giovanili
da Palermo e da Roma Bulzoni, Roma, difese pubblicamente durante una lezione un
suo compagno rimproverato ingiustamente dal rettore. M. Manotta, L. Pirandello, Pearson Italia
S.p.a., Da Album Pirandello, I Meridiani
Mondadori, Milano, A. Camilleri, Biografia del figlio cambiato, BU. La storia
di Luigi e Antonietta è infatti quella di un matrimonio di una Sicilia di fine
'800, combinato per interesse, da parte di due soci nel commercio dello zolfo.
Antonietta porta la dote che assicura ai giovani sposi sbarcati da Girgenti in
continente e approdati a Roma, una vita tranquilla e permette a Luigi di affermarsi
come scrittore. Il matrimonio d'interesse è sublimato grazie alla letteratura e
diventa un matrimonio d'amore con la moglie ideale (in Anna Maria Sciascia, Il
gioco dei padri. Pirandello e Sciascia, Avagliano, S. Guglielmino, H. Grosser,
Il sistema letterario Milano, Principato, Storia, G. Mazzacurati, Introduzione
e biografia, dalla Prefazione a Il fu Mattia Pascal, Einaudi; Vita di
Pirandello; Pirandello e la moglie Antonietta, G. GiudiceTipografico Torinese, M.
Manotta, Pearson Paravia Bruno Mondadori, L. P., S. P., A. P., Il figlio
prigioniero: carteggio tra L. e S. Pirandello durante la guerra Mondadori, Motivazione del Premio Nobel per la
Letteratura. TUTTI I NO DI MUSSOLINI A P.. L'arci-fascista non piace al Duce; G.
Afeltra, Mia cara Marta, l'amore platonico di Pirandello Tra Pirandello e M. Abba ottocento lettere di
emozioni Einstein e l'invito. Lo scontro
che nessuno vide L. Lucignani,
Pirandello, la vita nuda, Giunti, Pirandello e la prima guerra mondiale. Chiede
di entrare nei Fasci (La Stampa); F. Sinigaglia, I volti della violenza a teatro,
Lucca, Argot. Non e l'unico filosofo che si iscrive al partito fascista nel
pieno della vicenda Matteotti. Ungaretti si iscrisse appena nove giorni dopo il
funerale di Matteotti (Stato matricolare di Ungaretti, Università "La
Sapienza" di Roma. La sua adesione al fascismo, G. Giudice, Pirandello (POMBA
Torino); Pirandello e la politica, su atutta scuola. G. Lagorio, Troppi
idiotic. E P. partì; P., nudità e FASCISMO; P.. Gli anni del fascismo; Mussolini,
Nel solco delle grandi filosofie -- relativismo e fascismo, in Il popolo
d'Italia. Le idee di Mazzini e di Sorel influenzano profondamente il fascismo
di Mussolini e GENTILE (S. Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino. Sorel
è veramente il notre maître (Mussolini, Il Popolo in Opera Omnia); Interviste:
parole da dire, uomo, agl’altr’uomini, Rubbettino; riportato da Giudice. Prefazione
alle Novelle per un anno, Milano, Storie dalla storia, L'oro alla patria Il
Sole 24 ORE M. Sambugar, Letteratura
italiana per moduli, Incontro. R. Dombroski, L'esistenza ubbidiente – la
filosofia sotto i fasci (Guida); L'Ovra a Cinecittà di Marino, Boringhieri, Il Post); I giganti della montagna,
taote. Così, in una bara in affitto,
riportammo a Girgenti le sue ceneri. Malgrado i divieti prima del gerarca, poi
del pre-fetto, e infine del vescovo. In Camilleri e lo strano caso delle ceneri
di Pirandello. N. Borsellino, Il dio di Pirandello: creazione e sperimentazione,
Sellerio, R. Alajmo, Le ceneri di Pirandello, Drago, in Saggi poesie, scritti
varii Mondadori, Milano). I filosofi hanno il torto di non pensare alle bestie
e davanti agl’occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque
sistema filosofico. D. Marcheschi, L'umorismo, Milano, Oscar Mondadori, X. Marcheschi rivela che copia intere pagine del
saggio da opere precedenti di Dumont, Binet, Séailles, Negri, Marchesini,
nonché dalla Storia e fisiologia dell'arte di Ridere di Massarani. Vedi
articolo de Il Giornale, in “Caro P., ti ho beccato a copiare. P., L'umorismo e altri saggi, Giunti; S.
Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario Milano, Principato, TP.: guida
al Fu Mattia Pascal, Carocci, Scrittori sull'orlo di una scelta spiritista
Sambugar, La sua filoofia s'inserisce in un contesto culturale in cui è
presente il concetto di relativismo: la teoria della relatività di Einstein, il
Principio di indeterminazione di Heisenberg, la teoria quantistica di M. Planck.
Simmel fonda il suo relativismo sulla convinzione che non esistono leggi
storiche obiettivamente valide. Dizionario di filosofia). E nelle arti
figurative il relativismo è ripreso dal cubismo caratterizzato da una
rappresentazione dell'oggetto considerato simultaneamente da diversi punti di
vista. S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario Milano, Principato, Maschere
nude, Zorzi, Newton Compton); Providenti, Epistolario familiare giovanile Quaderni
della Nuova Antologia, Le Monnier, Firenze, Roberto Alonge, Pirandello,
Laterza, Bari, Elio Providenti, Luigi Pirandello. Epistolario, Quaderni della
Nuova Antologia, Le Monnier, Firenze); U. Artioli, L'officina segreta di
Pirandello, Laterza, RomaBari, Luigi Pirandello, una vita da autore, repubblicaletteraria.
C. Vicentini, Il disagio del teatro (Marsilio, Venezia). La prima
rappresentazione della commedia La morsa si ha a Roma, al Metastasio, ad opera
della Compagnia del "Teatro minimo" diretta da N. Martoglio che la
mise in scena assieme all'atto unico Lumie di Sicilia. Cedendo alle insistenze
di Martoglio acconsentì a che La morsa e Lumie di Sicilia sono rappresentate
nella stessa serata. I due atti unici hanno diverso esito presso il pubblico,
che accolge con favore La morsa, mentre non grade Lumie di Sicilia (in
Interviste, Parole da dire, uomo, agli altri uomini" di I. Pupo, Rubettino,
Legato a ricordi della fanciullezza di
Pirandello. Da. Savio, Il carnevale dei
morti. Sconciature e danze macabre nella narrative, Novara, Interlinea. l mio
primo libro fu una raccolta di versi, “Mal giocondo”. In quella prima raccolta
di versi più della metà sono del più schietto umorismo, e allora io non so
neppure che cosa e l'umorismo ("Le lettere"); “Il cinema di Amedeo
Fago P. NASA. Enrico 4., Firenze, Bemporad e figlio, Esclusa, Milano, Fratelli
Treves, Fu Mattia Pascal, Milano, Treves, I P.. La famiglia e l'epoca per
immagini, E. Zappulla, Catania, la Cantinella, R. Alonge, Roma-Bari, Laterza, U.
Artioli, L'officina segreta” (Bari, Laterza); Barilli, La linea Svevo-P.,
Milano, Mursia, E. Bonora, Sulle novelle per un anno in Montale e altro
novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia, N. Borsellino, Ritratto e immagini, Roma-Bari,
Laterza, N. Borsellino e W. Pedullà (diretta da), Storia generale della
letteratura italiana, Il Novecento, La nascita del Moderno, Milano, Motta, Michele
e Rössner, L’identità italiana, Atti del Convegno internazionale di studi
pirandelliani, Graz Pesaro, Metauro, Arcangelo Leone De Castris, Storia di Pirandello
(Bari, Laterza); A. Benedetto, Verga, Annunzio, Pirandello (Torino, Fògola); L.
Lugnani, L'infanzia felice (Napoli, Liguori); Macchia, “La stanza della tortura,
Milano, Mondadori, Pirandello e
dintorni, Catania, Maimone, F. Medici, Il dramma di Lazzaro. Asprenas, A. Pagliaro,
“U ciclopu, dramma satiresco d’Euripide ridotto in siciliano (Firenze,
Monnier); G. Podestà, "Humanitas",
F. Puglisi, L'arte; Messina-Firenze, D'Anna, F. Puglisi, P. e la sua lingua,
Bologna, Cappelli, Puglisi, P., Milano, Mondadori, F. Puglisi, P. e la sua
opera Catania, Bonanno, C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo
italiano. D'Annunzio, Pascoli, Fogazzaro, P.” (Milano, Feltrinelli); A. Sichera,
Ecce Homo!Nomi, cifre e figure di P. (Firenze, Olschki); Scrivano, La vocazione
contesa (Roma, Bulzoni, Taffon, Il gran teatro del mondo, in Maestri
drammaturghi nel teatro italiano. Tecniche, forme, invenzioni, Roma, Laterza, G.
Venè, “Fascista. La coscienza borghese tra ribellione e rivoluzione” (Venezia,
Marsilio); Veronesi (Napoli, Liguori); Vicentini, “Il disagio del teatro” (Venezia,
Marsilio); R. Vittori, Il trattamento cinematografico dei 'Sei personaggi' (Firenze,
Liberoscambio); Zappulla, P. E LA FILOSOFIA SICILIANA, Catania, Maimone, Filosofi
siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone. Casa d Fabbri Lanterninosofia
su Pirandello Treccani Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Conferenza Episcopale Italiana. nobelprize. Audiolibri
di Luigi Pirandello, su LibriVox. di P.,
su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.:etteratura fantastica,
Fantascienza. Movie
L., su Internet Broadway Database, The Broadway League. P., su
filmportal.de. Centro Nazionale Studi Pirandelliani, su cnsp. Istituto
di studi pirandelliani allo Studio P.. E. Licastro, Pirandello fra Spengler e
Wittgenstein. GIRGENTI(das alte AGRIGENTVM), einer der sieben Haupt- orte, in
welche sich Sicilien politisch teilt, liegt wenige Kilo- meter von der
südlichen Küste der Insel und zählt etwa 20 000 Einwohner. Gegen Norden
erstreckt sich seine Provinz bis Cammarata, westlich bis Sciacca, gegen Osten
bis an den Flufs Maroglio, und umfalst die Gegenden Aragona, Favara, Naro,
Canicattí, Casteltérmini, Cianciana, Cammarata, S. Stéfano, Ribera, Sciacca,
Bivona, Re- calmuto, Raffadali, Licata u. a. Die mundartlichen Grenzen
entsprechen aber nicht genau den Verwaltungs-Grenzen; wir finden deshalb, dals,
während es zwischen GIRGENTI und den kleinen es umgebenden Gegenden, wie z. B. PORTO
EMPEDOCLE, Siculiana, Montaperto, Aragona, Recalmuto, Favara, aufser einer
gewissen Dehnung der Aussprache nur sehr seltene oder fast keine
Verschiedenheiten giebt, man das- selbe von den Gegenden, die sich mehr von ihm
entfernen, nicht sagen kann. So z. B. Canicattí und Casteltérmini nähern sich
mehr der mundartlichen Gruppe des Innern der Insel (Caltanissetta), wo die
Aussprache im allgemeinen sehr gedehnt ist, und in ihren Gegenden bemerkt man
besonders die Diphthongierung des e (g, e) und des o (e, ?), welche in Girgenti
(Hauptort) und an den Küsten ganz unbekannt ist. So nähert sich auch Licata
etwas den Mundarten der Südost- spitze, namentlich in der Entwickelung des kz
(aus pl, cl, tl) zu et (canu, occu, veciu, wie in Noto, Múdica); ferner gehört
Sciacca fast ganz zu der mundartlichen Gruppe der westlichen Küste der Insel,
da in ihr die Hauptmerkmale selbst, die ge-wöhnlich in der ganzen Provinz sind,
fehlen: /+ Hiati =gy, statt =/ (filiu = figgyu, agrig. fitu); Perfekt -avit =
áu statt ú (purtáu, purtá); 9+a, 0, u=j: jammi, jaña (agrig. gammi, gaña) u. s.
w. Bei der Verfertigung dieser Arbeit habe ich besonders die folgenden Werke
benutzt: F. Diez, Grammatik der romanischen Sprachen. Meyer-Lübke, Grammatik
der romanischen Sprachen. Italienische Grammatik. Leipzig 1890. H. Schneegans,
Laute und Lautentwickelung des sicilianischen Dialektes. Strafsburg; Hüllen,
Vokalismus des alt- und neusicilianischen Dialektes. Bonn; Giovanni, Cinquanta
Canti, novelline, sequenze e scritti popolari siciliani. Palermo; Giovanni,
Venticinque Canti e novelline popolari siciliane. Palermo] und manche andere,
die ich in derselben nicht unterlassen habe zu citieren. Sehr viel aber hat es
mir auch geholfen, dals ich aus der Provinz GIRGENTI gebürtig bin und in mir
selbst die beste Grundlage meiner Arbeit gefunden habe. Für die gütige
Teilnahme an der Arbeit sage ich Foerster hiermit meinen herzlichsten Dank;
ferner mufs ich auch dem Herrn Prof. E. Monaci, meinem hochver- chrten Lehrer
in Rom, danken und den Freunden Prof. E. Si- cardi von Palermo, Dr. Giovanni
Taormina von Siculiana für die mir liebenswürdig gesandten Nachrichten. Laute und
Lautentwickelung der Mundart von GIRGENTI. Halle a. S.,
Druck der Buchdruckerei des Waisenhauses. Foerster in dankbarer
Verehrung gewidmet. GIRGENTI (das alte AGRIGENTVM), einer der sieben
Hauptorte, in welche sich Sicilien politisch teilt, liegt wenige Kilometer von
der südlichen Küste der Insel und zählt etwa 20 000 Einwohner. Gegen Norden
erstreckt sich seine Provinz bis Cammarata, westlich bis Sciacca, gegen Osten bis
an den Flufs Maroglio, und umfalst die Gegenden Aragona, Favara, Naro,
Canicattí, Casteltérmini, Cianciana, Cammarata, S. Stéfano, Ribera, Sciacca,
Bivona, Recalmuto, Raffadali, Licata u.a. Die mundartlichen Grenzen entsprechen
aber nicht genau den Verwaltungs-Grenzen; wir finden deshalb, dafs, während es
zwischen Girgenti und den kleinen es umgebenden Gegenden, wie z. B.
Porto-Empe-docle, Siculiana, Montaperto, Aragona, Recalmuto, Havara, aufser
einer gewissen Dehnung der Aussprache nur sehr seltene oder fast keine
Verschiedenheiten giebt, man dasselbe von den Gegenden, die sich mehr von ihm
entfernen, nicht sagen kann. So z. B. Canicattí und Casteltérmini nähern sich
mehr der mundartlichen Gruppe des Innern der Insel (Caltanissetta), wo die
Aussprache im allgemeinen selir gedehnt ist, und in ihren Gegenden bemerkt man
besonders die Diphthongierung des e (g, e) und des o (8, p), welche in GIRGENTI
(Hauptort) und an den Küsten ganz unbekannt ist. So nähert sich auch
Licata etwas den Mundarten der Südost-spitze, namentlich in der Entwickelung
des liz (aus pl, c, tl) zu c (canu, ou, veccu, wie in Noto, Módica); ferner
gehört Sciacca fast ganz zu der mundartlichen Gruppe der westlichen Küste der
Insel, da in ihr die Hauptmerkmale selbst, die ge-wöhnlich in der ganzen
Provinz sind, fehlen: /+ Hiat i = gy, statt = 1 (filiu - figgyu, agrig. fitu);
Perfekt -avit = áu statt (purtáu, purtá); 9+a, 0, u-j: jammi, jaña (agrig.
gammi, gana) u. s. w. Bei der Verfertigung dieser Arbeit habe ich
besonders die folgenden Werke benutzt: F. Diez, Grammatik der romanischen
Sprachen. Meyer-Lübke, Grammatik der romanischen Sprachen; Italienische
Grammatik. Leipzig; Schneegans, Laute und Lautentwickelung des sicilianischen
Dialektes. Strafsburg Hüllen, Vokalismus des alt- und neusicilianischen
Dialektes. Bonn. Giovanni,
Cinquanta Canti, novelline, sequenze e scritti popolari siciliani. Palermo; Giovanni,
Canti e novelline popolari siciliane. Palermo] und manche andere, die ich
in derselben nicht unterlassen habe zu citieren. Sehr viel aber hat es
mir auch geholfen, dals ich aus der Provinz GIRGENTI gebürtig bin und in
mir selbst die beste Grundlage meiner Arbeit gefunden habe. Für die
gütige Teilnahme an der Arbeit sage ich Foerster hiermit meinen herzlichsten
Dank; ferner mufs ich auch dem Monaci, meinem hochverehrten Lehrer in Rom,
danken und den Freunden Sicardi von Palermo, Taormina von Siculiana
für die mir liebenswürdig gesandten Nachrichten.Diakritische Zeichen.*
Vokalismus. ç = offenes e, e = geschlossenes r, i = sehr offenes i,
beinahe e, a = sehr offenes u, beinahe o, !. Halbvokale. Konsonantismus.
*Kons. = gedehnte Aussprache des Anlautes: dumama, decottu, bannera, ve,
"Roma, k? = fl: zuri (flore), xmmi (flumen), % = ts:
carraratu, 2= ds: vurza, i = palat. c, g = palat. g, J2
= ital. gh in ghiotto, $ = franz. ch in „cheval", del = Il (es
wird bei uns nicht mit Schneegans gebildet, „in-dem man die Zungenspitze nicht
wie bei d gegen die obere Zahnreihe drückt, sondern gegen die Gaumen-höhle,
nachdem man sie nach hinten umgeschlagen hat"; denn es ist nicht das
Gaumen-d der Sarden, klingt vielmehr palatal: es ist ein mit dem Zungen-rücken
auf dem Mittelgaumen hervorgebrachtes g, wobei die Zungenspitze den Rand über
den oberen Alveolen berührt, 4 = mouilliertes / (ital. gl), ñ =
mouilliertes n (ital. gn), += ti + Vok. - ist die stimmlose zu der
stimmhaften d!, Sf = sti+ Vok. — wobei die Zungenspitze sich gegen den
Mittelgaumen mehr nähert als bei s, i — faukales n in sanu
(sangue), le = ital. ch + Vok. im Hiat (liy = liz), 'm)
'n) = Vokm, Vok.n. *) Man entschuldige die Ungleichartigkeit
ciniger Zeichen mit dem Fehlen entsprechender Zeichen im Vorrat der
Druckersi. A bleibt in der Regel sowohl in GIRGENTI (Hauptort) als in der
Provinz unverändert: capu (caput); fava (faba); lizavi (clave); amu (hamu);
vraca (braca); lagu (lacu); paci (pace); vaggu (radiu); maju (maju); gratu
(gratu); gradu (gradu); nasu (nasu); manu (manu); bañu (*baneu); "raru
(raru); ala (ala); pata (palea); cavaddu (caballu); annu (annu); gattu (cattu);
passu (passu); parti (parte); arcu (arcu); árbulu (arbor); ama (arma); marba
(malva); áutu (altru); cáudu (caldu); fúusu (falsu); canta (cantat); canca
(cambiat); santu (sanctu); latte (lacte); matressa (metaxa); labbru (labru);
pati (patre). Besondere Fälle - lat. mälum. Im allg. Sicilianischen fehlt
die entsprechende Form zum ital. melo aus griech. melon (u82ov); statt ihrer
findet sich nur pumu; ammilatu, d.h. „del sapore o del colore d'una mela"
ist aus ital. melo geholt und wird metaphorisch wie in „parlari ammilatu"
gebraucht. Mu-luni (aus Angleichung des i an das tönende u) ist der ital.
mellone. Lat. gravis (ital. grave und greve, cf. Canello, Arch. glott. ital.)
ist allg. siz. gravi adjektivisch und ad-verbial, aber gelehrt, z. B. „casu
gravi, malatu gravi"; zun ital. greve „con valore puramente
materiale" entspricht agrig. gravisu; sonst hat *grevis in grevu
„geschmacklos" „dumm" und „pesante nello scherzo", deshalb
grizanza, und in grevia „mal' umore, pesantezza di spirito" seine Stelle
ein-genommen. Lat. alacer hat sich nur im Sinne von „pronto, attivo,
vivace" im ital. alacre, alacrità, alacremente, aber ge-lehrt und
entlehnt, erhalten; im Sinne von „lustig, fröhlich, freudig, heiter" ist
vulglat. *alécrus an seine Stelle getreten: ital. allegro, allg. siz. allegru,
oft bei dem Volke: allégiru, mit i - Einschiebung. Lat. ceraseus hat sich
im ganzen Sicilianischen sing. crasa, plur. crasi erhalten; cf. sard. kerasa,
neap.-röm. ierasa, ¿erase (nicht ierase, wie Meyer-L., Ital. Gram. schreibt).
Lat. Suffix -aria, -arius erscheint im allg. Sic. und im Agrig. als -ara, -aru;
als ara, -are; als -cra, -eri; als -er, - ergu. Beispiele:
panaru, picuraru, nutaru, vurdunaru, azaru, jin-naru, frivaru, murtaru u. a.
(echt volkstümlich); sigritarzu, calanar, ssafalaru, mancataru,
nivis-sargu u. a.; 1) vueri, giseri, camperi, lucanneri, luktigeri u.
a.; rifrigger, maggisterzu, virser u. a. Doppelformen: abbirsarm
entgegenstehend und virseru Widersacher, Teufel, adversarius; arginteri
Silberarbeiter und Argintaru Name eines Berges aus argentarius; cavaddaru
Führer der Lastpferde und cavaleri (die Landbewohner nennen cavalera eine
Mandel, die harte Schale hat) aus *caballarius; galera (auch galia Galere)
Gefängnis, z. B. „mannari 'ngalera" zur Zwangsarbeit verurteilen und
gallaría (?), cf. Canello, aus calaria von sãñov; quartara Krug „la quarta
parte d'un barile" und quarteri Stadtviertel aus quartarius; cannilaru
Lichtzieher und cannileri Leuchter aus *candela-rius u.a. Man konnte hier auch
svarzu, sbar (ital. svago) Belustigung und sgarru, sbatu (ital. sbaglio) aus
*ex-varius, varius = Badeós, cf. Canello, hinzufügen. Die volkstümliche
Entwickelung von -arius ist aber nur -aru, wie Schneegans gut erklärt
hat; - arzu ist besonders ital. Einfuhr, v. g. calendario, proprietario,
segretario, locatario „colvi che prende a pigione casa, bottega etc.",
Fan-fani, Voc. ital. neben locandiere „padrone d'una locanda" (statt
lucataru oder lucataru findet sich aber agrig. lucateri neben lucanneri in
demselben Sinne wie im Ital.); - eri, - eru sind besonders französisch oder
italianisierend auf franz. Ur-sprung, vgl. boucher, agrig. vucteri, altfrz.
jusier, agrig. giseri, prov. campier, agrig. camperi u. a. Allg. sic.
jittari, jetta, jittatu dürfte nicht auf ejéctat beruhen (Meyer-L., Ital.
Gramm.), sondern, wie im franz. *jecère, a durch j beeinflufst
sein. Lat. natare (ital. notare, nuota) ist in Girgenti natari, nata in
der Regel geblieben, und so auch aqua — acqua; caseu - cau (s + Hiat i). Zu dem
calab. miercu (Meyer-L.) entspricht agrig. mercu (ital. marco, marchio
Zeichen), miercu in Casteltermini, Canicatti, mircari (cf. altfranz. merc,
merchier). Lat. habeo = aju, neben e, eju; darüber ist zu bemerken:
a) e kann einfache Kontraktion von aju sein, vgl. t'e mannatu, l'e amatu
Licata = t'aju mannatu, l'aju amatu) e= aju a + Infinitiv (von aj'a...,
cf. franz. j'ai à ...). Die einfachen Formen des FVTVRVM sind in GIRGENTI
mundartlich ganz und gar ungewöhnlich: t'e fari moriri, t'e mannari a
"Roma = t'aj'a "fari moriri, t'aj'a mannari a "Roma (ital. ti
faró morire, ti manderó a Roma); y) die Form eju = aju, speziell aus
Casteltermini, kann so gebildet sein: zwischen e (gewöhn-liche, einfache
Kontraktion von aju) und a + Infin. ist ein j vorgekommen, vgl. z. B.
affirratu e janci (e = ai Artikel und hanéi, anci von ganci, ital.
gancio); ej a jiri = e a jiri; später wird ej a zu eja, wie in m'eja
namurari = m'aiu a "na- murari, danach wird eja zu aju analogisiert
eju. Sehr häufig ist ferner a von aju a, besonders in der Stadt Girgenti und an
den Küsten: m'a namurari, m'a fari 'stu piacri = mai a fari stu piaciri; d) die
literarischen Formen aja, ajamu, ajati, ajanu sind mundartlich ungewöhnlich;
nur in einer verwünschenden Ausrufung - "mannagga! (mal ne abbia) findet
sich agga von habea. Agrig. lizovu, covu in Licata, aus clavus ist nicht
klar; aber vielleicht läfst es sich aus clavr = clau-u = clau-v-u erklären. -
Lat. sapio (ital. so) ist in GIRGENTI saie (p+i im Hiat = ē) regelrecht
geworden. - Muncu (ital. monco) aus mancu ist nicht volkstümlich; statt seiner
sagt das Volk: ¿uncu (cf. ital. cionco), oder „sen:a manu", aber
mancari,mancu, mancanza (für monco neben manco im Ital., of. Canello). Suffix -abilis =
abili, abuli: curabili, maniatuli; öfters aber hat ital. -evole seine Stelle
eingenommen: ludevuli, cum- passiunevuli, durevuli u. a.
Suffix-aticum = aggu; cumpanaggu (ital. companatico); sarvaggu
(silvaticu) u. a. Gelehrtes -aticu is geblieben in: stallaticu (ital. stallatico,
auch stallaggio), viaticu, estaticu. Mlat. amandola (ital. mandorla)
giebt ménnula (cf. occ. amenlou). Neben kuarke (ital. qualche) aus
qualeque, findet sich uft, auch in agrig. lorki, vielleicht aus *kaurki;
möglich finde ich es, weil ich viele Male kaurkidunu (ital. qualcheduno),
be-sonders in Porto-Empedocle, gehört habe, obwohl das k sonst immer u an sich
zu ziehen pflegt; vgl. kuatela von kautela (auch cotela). Endlich,
der betonte Vokal a, sowohl in offener als in geschlossener Silbe, wird in einigen
Mundarten der Provinz, besonders in Aragona und Recalmuto, nach Guttur, und
Lab. in ua diphthongiert, z. B. guaddu, cuani, curcuari, puani. §2. e @ (= è
litt. lat.) bleibt gewöhnlich in GIRGENTI (Hauptort) und im allgemeinen
an den Küsten. Im Innern der Provinz, und besonders in einigen Gegenden, wie z.
B. Casteltermini, Canicatti, wird e zum Diphthong ie. e bleibt:
crepa (crepat); leva (levat); tema (tremit); prega (precat); nega (negat); deci
(decem); peju (pejus); meti (metit); pedi (pede); sedi (sedit); teni (tenit);
seru (seru); feli (fel); peta (petra); lebbru (lepore); nela (nebula); merlu
(merulu); ecklqu (vetulu); metu (melius); teña (teneat); menzu (medius);
ferru (ferru); beddu (bellu); pettu (pectus); setti (septe); sé sex); vespa
(vespa); festa (festa); jinessa (genestra), erba (herba); certr (certu);
perdi (perdit); sempri (semper); centu (centí). frieri, wieni, tieri,
nierier, miete, mienzu, viers, viene, bieni, liévitu, miévula, mierlu,
mienzu, viersu u.s. w. (Casteltermini, Canicatti). Dieser Diphthong
findet sich immerim Munde des Volkes, und er ist das bemerkbarste Kennzeichen
dieser Gegenden. Dafs die gebildeten Stände beim Spre- chen
versuchen ihn zu vermeiden, versteht sich, weil er immer einem Ohre, das an
gebildetes Sprechen gewöhnt ist, unangenehm auffällt. Und so wird es kommen,
dals eine gebildete Person, nehmen wir an in Casteltermini selbst, um nicht mit
dem Volke: „viersu, mienzu, mierlu" zu sagen, „versu, menzu, merlu"
sagen wird, was dann nicht die Mundart von Casteltermini, sondern gewöhnliches
Sicilianisch ist, das von jedem Gebildeten in Sicilien gesprochen wird. Die
Leute aus dem Volke, die die Wörter am meisten dehnen, sprechen: „viersu,
miensu, mierlu" in einer noch mehr offenen und gedehnten Weise aus, als
die besser Gebildeten, welche die Diphthongen doch immer aussprechen, aber in
einer weniger unangenehmen Weise. Damit will ich sagen, dals die
Diphthongierung des e existiert in einigen Gegenden des Innern der Provinz,
abgesehen von der Affektation und der Dehnung, mit welchen sie ausgesprochen
werden kann; und dals es, nach meiner Meinung, unverantwortlich ist, aus der
einfachen That-sache, dals die Gebildeten diesen Diphthong zu vermeiden suchen,
zu schliefsen, wie jemand es gethan hat, dals es die blofse Wirkung affektischer
Rede sei. Dals der Vokal, welcher die folgende Silbe schliefst,
einen Einfluls auf das e ausübt, finde ich sicher (cf. neap. und calab.).
Wir finden ½ B.: piettu, liettu, frummiente, priezza, lamientu, bieddu,
mienzu, viellzu, bieni, pietti, lamienti u.s.w. - und: erba, beddo, petta,
picuredda, palummedda, cublizaredda, petta, testa, terra, ichliga u. s.
w. Wenn wir hierauf keine Rücksicht neh- men, wie können wir die
zwei Formen: „bieddu" und „bed-da", „pietti" und „petta",
„vieklizu" und „velkza", „patum-mieddi" und „palummedda"
erklären? Anmerkungen. Linnina aus lens, lendis, mit den calab. lindine,
campob. linenc (dagegen im ital. lendine) scheint auf ein et zurückzugehen.
Vestice aus bestia (ital. bestga) würde zu Gunsten eines g sprechen, ist aber
nicht volkstümlich entwickelt. Lat. HERI (ital. ieri) ist agrig. ajeri, wie im ganzen
Sicil. (cf. span. ayer = ad heri). Bei múntua (ital. méntova) ist e
nach m zu a geworden. Ital. scendere, allg. sic. sinniri aus lat. descendere
(kaum vermischt mit discindere, wie Meyer-L., Ital. Gramm.). 'Ntinna (wie
das ital. antenna) scheint auf ein lateinisches zurückzuführen. e zu i im
Hiat.: diu, auch "di (Deus): „Di nun móta" Gott behüte; „pi
l'amuri di di" um Gottes willen; miu (meus); in Casteltermini findet
sich ma = miu, mia (vgl. ia = iu) „ma pati", „ma mati", in der
ganzen Provinz aber auch me frati, me mati, und fraturzu me neben fraturäll
miu; endlich riu aus reus. § 3. alls vulglat. e = a) è, B) i, y)
vulglat. i = kl. lat. i wird agrig. i. a) aus lat. è: mi (me); ti (se);
si (se); sivu (sebu); fici (fecit); liggi (lege); sita (seta); cridi (credit);
pisu (pesu); vini (renes); sira (sera); tila (tela); cannila (candela).
Besondere Fälle: Volkstümlich (aber meist ital. Einflufs) e statt i
zeigen die Wörter: statera, neben statía (cf. ital. sta-dera); veru (veru);
fera (feria); tettu (tectu), sirenu, Unbe-wölktheit, heiterer Himmel (ital.
sereno); kuatela (cautela); iercu, cerki, cerca, cercanu, v. cercare; nettu
(ital. netto); tirrenu (terrenu); -emu (-emus); vulemu, facemu u. s. w.; ie
(-U, i) in Casteltermini, Canicattí: buliemmu, jemmu; vieru, niettu u. s. w.
Ferner kuetu (quietus) vgl. ital. queto, das Canello, Arch. glott. ital.
„forma semi-popolare" nennt. Findet sich auch e statt i in den folgenden
ital. Lehn-wörtern: re (re); spera (spera); velu (velo); frenu (freno); reñu
(regno); sigretu (segreto); prufeta (profeta); debitu (debito); sinceru
(sincero); eredi (erede); cullega (collega); essemu (estre-mo); misteru
(mistero); ecu (eco); -esimu (-esimo); primavera (primavera). aus lat. I:
ficatu (ficatu); liga (ligat); siti (siti); vidua (vidua); pilu (pilu); mitr
(miliu); sajitta (sagitta); pinna (pinna); friddu (frigidus); siklza (sitla);
ssita (strigile); nivru (nigru); vitu (vitru); pudditu (pullitru); vinti
(viginta); capissu (ca-pistru); massu (magistru); virga (virga); pasi (pisce);
viscu (viscu); rissa (rixa). Besondere Fälle. e statt i zeigen auch
hier die Wörter: veci und 'mmeci = in + vice, ital. invece (vice); stelu,
gelehrt (stilu); selva, gelehrt (silva) - ital. stelo, selva; fermu
(fir-mu) wohl Eintlufs des r; ferner vor n in menta (mintha); ssega aus ital.
strega (striga); lenza (lintea); menu (minus); cumenia (aber auch 'ncuminia);
tenta (triginta): die Form tinta ist mir ganz und gar unbekannt. Die niedrigen
Leute zählen immer nach zwanzigen und sagen z. B.: 'na vintina e deci, di
vintini, du vintiari e deci, ti bintini, um tenta, quaranta, cinquanta,
sissanta zu sagen. E statt i zeigen auch empru (impiu) gelehrt; vérgini, neben
virgini als kirch-licher Ausdruck: Vergini Maria. Neben rissa (rixa), findet
sich ressa, gelehrt, wie im Ital. (Canello); dema- nu gelehrt - Besitztum
- neben duminzu ebenso gelehrt - Herrschaft -, Doppelformen aus dominium.
Dagegen i zu a oder ai, etwa durch das franz., in ammáru, ammáina, aus adminare
(altfranz. amaine), heute amène, ist einfach unmöglich und mufs
andern Ursprung haben, vgl. Flechia Arch. Glott., Meyer-Lübke it. Gr.)
aus lat. i: ripa (ripa); lisía (lixiva); lima (lima); amicu (amicu); fatiga
(fatiga); radici (radice); viti (vite); nidu (nidu); ritu (risu); vinu (vinu);
carina (carina); suspira (su-spirat); filu (filu); viña (vinea); milli, oft
auch mirza (mille, milia); faidda (favilla), scrittu (scriptu), lintikhzu
(lentiscu); cincu (quinque). Anmerkungen. Es fehlen in Girgenti die
entsprechenden Formen zu den ital. trebbia (durch Vermischung von
tribulum und tribula, Meyer-Lübke, op. cit. § 52), merxo (wenn es zu mitis
gehört), segala, elce, stegola (stivula, stiva Caix, Studi 595, wenn man nicht
mit Mussafia Beitrag 111, 1 zu hasticula stellt); vetrice, artetico (s.
Meyer-L.): finden sichaber in der Regel crisima, carina, lítica, ital. cresima,
carina, letica (von litigare). In Recalmuto, besonders bei den
Landbewohnern, wird i fast zu e, mit groser Dehnung ausgesprochen: decu
(dicu); felu (tidu); venu (vinu); veña (viña); durena (duzzina).
$4. 8. ! (= ö litt. lat.) bleibt o in Girgenti und im allgemeinen
an den Küsten; wird in Casteltermini, Canicattí in -uó- diph-thongiert.
Beispiele: tova (*tropat); prova (proba); novu (novu); vo (bovef); omu
(homo); coc (cocu); jocu (jocu); coct (cocit); rota (rota); sonu (sonu);
soru (soror); scola (scola); ópira (opera); sóggiru (soceru); folu
(foliu); córe (coriu); oggi (ho- die); okhiz (oclu), coddu (collu); fossa
(fossa); notti (nocte); cosa (coxa); postu (posto); nossu (nostru); forti
(forte); corda (corda); or (ordeu); corpu (corpu); corvu (corvu); porcu
(por-cu); cornu (cornu); morsu (morsu); sonnu (somnu); lonu (lon- gu) -
und: uokki, suonnu, suonu, tuovu, ruoppu, muoddu, muortu, juornu,
buonu, suoru, tistimuoni, cuoddu, cuornu, I. S. w., aber immer tova,
¿oppa, modda, morta, "bona, cor-na, picotta, cosa, fora, u. s. w.
Besondere Fälle. Agrig. munti, frunti, funti (seltener fonti) scheinen
auch auf ein vulglat. ont zurückzugehen (im span. aber ?). Purpu, gruncu
und gulfu, urma, gelehrt, ent-sprechen den ital. polpo, grongo, golfo, orma;
aber tornu, oni, forsi, corpu ital. torno, ogni. forse, colpo (s. Meyer-Lübke
Ital. Gramm. § 65). Zu bemerken sind auch arrustu cf. sard. arrustu; atturru
(torreo) cf. calab. atturru, sursu, neap.-calab. sursu, ital. smso, aber grossu
(sard. russu), sorba (calab. surba, lecc. survia) - lat. cofinu (ital. cófano)
ist agrig. cufinu, durch die Versetzung des Accents vortonig und ge-
schlossen geworden. Lat post, po in Girgenti, unterliegt in Casteltermini
energischer Diphthongierung: à zu úa, pua. Endlich a statt o zeigen die Wörter:
nannu, nanna (Grofsvater, Grofsmutter), = ital. nonno, nonna, und vassa =
ital. costra signoria, „vassa si ni va", vassa veni ca'". -
Schnec- gans erklärt das durch die mit der Häufigkeit des
Gebrauches sich einstellenden Lässigkeit der Lautbildung.Aus vulglat. o =
a) litt. lat. ü, 8) i, d) vulglat. e = litt. lat. u wird agrig. u. a) aus
lat. ö: pumu (pomu); duga (doga); vuci (voce); nute (votum); cuti (cote); rudi
(rodit); spusu (sposa); via (hora); zzuri (flore); curuna (corona); curti
(corte); sulu (solu); tuttre (*tottus); furma (forma); curca (collocat, vgl.
altfranz. colche, ital. corica). Anmerkungen. O statt u zeigen die
gelehrten Wörter vittora, groba (gloria), códici, nonu, nobili (nobuli bei den
Volke), mobili und doti, divoto, sacerdoti (sacardoti) schon volkstümlich
geworden. Neben ura (HORA) findet sich gra aus há hora, Zeitadv., z.
B. „pra veñu" (ital. ora vengo), „gra -¿i vajr" (ital. ora ci
vado). - Besonders zu bemerken ist auch "nomu (NOMEN, ital. nome), cf.
Romania. O ist auch in: prdini, firçõi, prontu, conta, 'Roma, "Ragona,
ripasu, pilu, tonaca, testimonu bemerkbar, und in den ital. Lehnwörtern
flora, votu, dom, conti, nodu (nicht mit p, wie Schneegans sagt; -
überhaupt ist die Aussprache ganz im Süden charakteristisch immer offen und
gedehnt). - -Onem, -ionem, mundartlich zu -uni: añuni (angone); rub-buni
(von robba Priestermantel); 'mrzacuni (von 'mracu, ebriacu); raguni, caguni,
staguni u. s. w., bleiben bei gelehr-ten Wörtern als -igni: lustioni (ital.
quistione), naxioni, pas-sioni, tintazioni, suggizioni, affizzioni, uccasioni
u. a. Neben forma Gestalt, gelehrt, findet sich regelrecht furma, aber nur im
Sinne von „Leiste". Dem ital. uovo (aus (vum) entspricht agrig. quu.
Auffällig ist endlich culossa (colostrum, s. Meyer-Lübke, Gramm. d. rom.
Spr.). 8) aus litt. lat. й: lupu (lupu); cuva (cubat); guritu
(cubita); guva (juvat); gúvini (juvene); jugu (jugu); fuji (fugit); cruci
(cruce); cútica (cutica); furza (furia); gula (gula); сии (cuneu); rugga
(rubia); puzzu (puteu); calunma (calumnia); uti (utre); supra (supra); duppe
(duplu); gulutu (glutu); stuppa (stuppa); russu (russu); turri (turre);
savurra (suburra); cunnuttu (con- 1) So Meyer-Lübke, Fanfani hat
corica.ductu); vucca (bucca); musta (mustu); crusta (crusta); curtu (curtu);
furca (furca); gurgu (gurge); turtura (turtura); surcu (sulcu); vurpi
(vulpe); súrfaru (sulphur); prúvuli (pulver); curpa (culpa); sunnu
(sunt); unna (unda); tuncu (truncu); runca (runcat); kumm (plumbu); unnici
(undeci). Anmerkungen. — ? statt u zeigen auch hier: docca (ductia);
satoll (satullu); lonta (ital. lontra) alle gelehrt, und die ital. Lehnwörter:
tossicu (tosco); lotta (lotta); conzu (conio, neben ruñu); vrigña (vergogna);
culonna (colonna); gottu (auch" bottu: un bottu d'acqua) ital. gotto. Moli
aus mulier (ital. moglie) ist gelehrt und sehr selten, ebenso gobbu aus gublus
(ital. gobbo); nozzi aus nuptias (ital. nozze); das Volk sagt: muléri
(muliére), jimmu, nguayyu oder spusalizzu. Zu bemerken ist Izoviri, lovi
(pluere - plovere, Grundform plovia, of. Foerster, Zs. f. R. Ph. III.): to, so
(tuus, suus — vgl. ital. tuoi, suoi, aus tü-i, sũ-i für tui, sui, Schneegans).
Colobra und colubra ist mir ganz und gar unbekannt. Unklar ist jornu aus
diurnus (Analogie zu notti? Mussafia). Zu dem ital. scuo-tere (excutere)
entspricht agrig. scotiri. Auffällig ist Suffix -uru)lum = okku
cunokka, finokkau, pidokku, gunoklizu. Fommu (fuimus), foru (fuerunt) und
die Formen des Condit. fora, foratu, fora, foramu, foravu, faramu sind nicht
klar. Zusatz. In Casteltermini, Canicattí wird dieses ó (+ u, i) in nó
diphthongiert: juornu, aber Plur. jorna, vollizu, nolli, Tinuokkau, piduokhau;
fuommu, tuoru u. s. w. y) aus vulg. lat. u = litt. lat. u: fumu (fumu);
sucu (sucu); suca (sugat); lue (luce); mutu (mutu); crudu (crudu); fus
(fusu); una (una); muru (muru); mulu (mula); purci, puer (pullice); guñu
(juniu); lulu (juliu); gula (acuc|ulla); gustu (gustu); fruttu (fructu);
nuddu (nullu), susu (sursum). Anmerkungen. - Statt -itu Partizipendung
findet sich fast immer -utu: tradutu, finutu, zzurutu, partutu,
sintutu. Ganz selten ist o statt y: unklar ist gró aus gruem; ebenso lordo
aus luridus, was Ovidio (Grundr.) als Anlehnung an sordo (?) erklärt. 1)
Die Landbewohner sagen junettu, wie altfrz. juignet.§ 6. griech. v. Griechisch
i, i wird meist durch u, seltener durch i wie-dergegeben; doch manchmal findet
sich auch o und e statt u, i, wie im Ital. Beispiele: vurza, grutta,
cutuñu, tunnu, tuffu (mustárau, crókkmula, mit Versetzung des Accents); aber
torsu (ital. torsu, thyrsus), martorzu geistliches Schauspiel in einigen
Gegenden der Provinz während der Passionswoche, neben martirz, gelehrt
(Doppelformen aus martirium, wie im Ital., cf. Canello, op. cit. 32f.); lonxa
gelehrt (cf. ital. lonza); tollu (ital. stollo); brutiru, aber libezin,
ménnulr, cémmalu, gettu, die zwei letzteren gelehrt. In tapúnu (toúravor) kann
das a vom Verbum tapanari verschleppt sein (Meyer-L., Ital. Gram. § 16, 16)
oder aus Angleichung an den folg. lat. Vokal: - tepúnu - tapinn. § %. ae,
oe (schon vulglat. e) sind agrig. als et behandelt: celu, fenu, fetu, neu
(naevum); ¿ena, grecu, ebreu (Abbreu, Abbré), juden (judé), prestu, seralu,
spera, tedmo, fería, preda, eru, die vier letzteren gelehrt. (Foedus, laetus,
suepes, taeda, perit, quaesi, caccus fehlen). - In Casteltermini, Canicattí
wird dieses g in -ic- diphthongiert: fienu, fictu, griecu. lat. au.
Es ist nicht leicht, eine bestimmte Regel für die Entwickelung des lat. au
festzustellen. Man kann im allgemeinen sagen, dals im Sicil. LAT. AV, sowohl
primär als sekundär beibehalten ist, jedoch Ausnahmen fehlen nicht, obwohl
viele durch ital. Einflufs gebildet worden sind. Primäres au bleibt au:
táuru, addaure, vaucu, CAVSA (neben “cosa”, Doppelformen wie im Ital., cf.
Canello), lausu (neben lodi gelehrt), pause, gelehrt; canlu, Niculau, öfters
bei Anreden Niculá.Zusatz. — an wird oft zu aru agu verdehnt: túgurn, addáguru,
cávusa, rúcule u. s. w. au — 0: oca (ital. oca); robba (ital. roba), bei
den Landbewohnern ist robba das Landhaus; cos (ital. cosa); pocu, neben picca
(ital. pocn); póriru (ital. povero); cotu kann aus cautus kommen, obgleich es
keine entsprechende Form zu ital. chiotto, neap. hipte,' aus quietus |cf. Diez
(kaum) durch franz. coit] ist; oru (ital. oro); o (ital. 0, aut); goja (ital.
gioja); nolu (ital. nulo), godu, júdivi, neben udiri (ital. godo), lodi gelehrt
(ital. lode), lodr, loda, lúdane (ital. lodo, loda, lodano) - tisore, auch
fisoru, tisole bei dem Volke (ital. tesuro); parole, palore (ital. parola);
frori gelehrt (ital. frode), lúnare (ital. lodola), foci, gelehrt (ital. foce);
clanstrum, anru, unsu, planta, guute fehlen. Zusatz. o diphthongiert in no: prore, cuotu:
(Casteltermini, Canicatti, puoru auch in Recalmuto). « - ar (ital. al)
vor m: rarma (sacua, ital. calma), sarme (sauma, ital. salma aus oágua).
Sckundäres - aut (Perfect - avit) ist in Girgenti (Haupt-ort) und in der ganzen
Provinz, aufser von Sciacca (-au), - geworden: amú, purtú, currú, mannú
etc. Das sekundäre aus al entstandene an hat in der Provinz von GIRGENTI eine
mehrfache Behandlung. Es ist merkwürdig. wie man in einer Gegend selbst, nehmen
wir an, in der Stadt GIRGENTI, zwei oder drei verschiedene Entwickelungen des
al hören kann: z. B. autu, ácute, neben utu, antu; srauzu, siu-vuzu, scuzu,
scanzu; sautu, sautu, satu, santu u. a. - Die volkstümliche Entwickelung des al
ist aber au: autu, scruzi; sautu, fausn, caudu u. s. w., das Zerdehnen des an
zu avu ist ganz gewöhnlich; die Formen atu, satu, scazu u.s. w. entstanden aus
áu, «(u) (autu = atu); wichtig ist die Form untu, santu, scanzu u.s.W., wo l zu
n geworden ist. Diese Form findet sich nur bei dem niedrigen Volke, besonders
Landbewohnern. Meyer-Lübke, Ital. Gram., er- 1) Ovidio (Arch. glott.)
erklürt das neap. kiuote aus dem lat, plotus, und Canello das ital, chiotto aus
dem neap. kivote.klürt die Form antu (altru) aus der Verbindung unaltro; aber das,
glaube ich, kann nicht auf fanzu, canza, santu u. s. w. bezogen werden.
Merkwürdig ist auch an aus unbet. au in anceddi (Casteltermini). Vgl. altfrz.
ancun. In callu neben caudu (ital. caldo), falla (ital. falda), nur bei den
niedrigen Leuten zu finden, ist Id zu ll geworden. In Cianciana wird al vor d zu ai: caidu,
faida, so auch ale: caidára, caichúri. - S. Kons. Unbetonte Vocale.
Vortonige. Ohne Einflufs von Kons. bleibt a bewahrt als a: für die unter i
und u zusammengefallenen Vocale (e, e, й, 0, й, й) ist zu bemerken, dafs diese
i- und u-Laute (sowohl vortonig als nachtonig) nicht immer ein ganz reines i
und u sind, sondern ein Mittellaut (i, 4) zwischen e und i, o und u, cf.
Meyer-Lübke, Ital. Gram., Schneegans. Doch dieses Schwanken finde ich nicht so ausgebreitet
und zuchtlos, wie Schneegans leicht annehmen lassen würde. Auf die gewöhnliche
Schreibung des sicil. Dialektes mufs man sich im allgemeinen sehr wenig
verlassen, und die selbst von Schneegans dargereichten Texte zeigen es
deutlich; in der That: uno, subito, solito, danno, anno, successo (in den
Cicalate), impiegato, Municipio, saluto („le Maschere"), tanto,
spartavano, ognun, mode (bei Papanti), mio, argento, mano, lo esercixio,
pavento, eccidio, campo, immenso, obboé, dire, contento, dente, allegria,
mascherati, verità sind keine sicil. Wörter mehr, sondern ganz und gar
italienische, mit italienischer Schreibung. Wenn ich also kein Gewicht
auf diese ungenaue Schreibung lege, und mich nur an den echten Volksausdruck
und meine natürliche Aussprache halte, so finde ich, besonders in der Provinz
von Girgenti: 1. dals i und u im Auslaut den reinen und bestimmten Laut des i
und u wirklich nicht mehr haben, sie sind unklar, offen und fast lautlos: ital.
anno ist sicil. weder anno, noch annu, sondern annu; dals dieser Mittellaut
zwi-schen e und i, o und « besonders in gelehrten und italienischen Lehnwörtern
mit e und o zu bemerken ist, z. B. alligrin, prisenti, filici, riggimentu,
sicunnu, cmlentu, prepositu u. a. Formen wie scordatille machen keine
Ausnahme, weil es ein zusammengesetztes Wort ist (scorda+ti+ lu, vgl. ital.
scorda+ te+lo) und das o von seinem Accent (córda) aufgehalten ist, sonst
scurdári, scurdústi, scurdátu. Teátu (Schneegans) neben tijatu ist gelehrt
(ital. teatro), ebenso mascherati volkstümlich mascarati (durch Einflufs des
r). Lat. au ist als au bewahrt geblieben in den Wörtern aurikki, Laurenzu
(oft zu Lagurenzu, daher Lagrenzu bei dem Volke, besonders Landbewohnern),
ferner in audaci, au-tunnu, rumentu, nauszatu, cautela (neben cotela s. unten)
gelehrt und Lehnwörter; sonst wird es zu a: agustu, ascuta, ascutari, agur (wie
schon im Vulglat. agustus, ascultare, agurium), Agustinu, aceddu (anceddu
Casteltermini); arikkini (ital. orecchini, Ohrringe), xzatari (flautare), ladari,
ladatu Castel-termini, Cianciana. Neben aurikli, arikki, arilkini, Laurenzu,
areddu, finden sich oft auch oribli, orillini, Lorenu, oceddi, wohl vom Ital.,
wo anl. o unverändert blieb, während es inl. zu u werden mufste in: pusari,
ripusari, purureddu, gudiri (neben gódir), lydari, rubári. - Beachte au in
auliva, aulivi. Romanisches au entstanden aus al-Kons. bleibt au, wie in
autirra (altezza), oder durch Einflufs des l, das u an sich zieht, wird au zu
va in kuadara (caldaia), kuacina (calcina), luadári (caldicare), aus kaudara,
lavina, kaudzari; neben diesen finden sich aber auch die Formen callara,
callari, fal-laru, fallarinu (deriv. v. falda), caidara, caidiari, faidduzza in
Cianciana, fadali aus au verkürzt. In cotela aus cautela und cocina aus caucina
(calcina) ist au (primär und sekundär) zu o geworden. Vor Labialen wird
al nicht zu au, sondern zu ar: par-ment (palmento), marva, arbulu, sara. Ferner
in Girgenti vor Dentalen: artaru (altare); farsari (falsare). Unter Einflufs
von Kons. - Der Übergang der unbetonten Vocale a, e, i zu a vor oder nach einer
Labialis(s. Schneegans, Meyer-L.) ist in Girgenti (Hauptort) sehr
selten. Beispiele: cannavi, nie cánnuru (cannabis), carrabbina, livari,
rimita, rimiteddu, seltener rumitu, rumiteddu (here-mita); birritta,
carnalivari, arristitari, misura, misurari, dimannari, addimanna neben
dumannari, dumanna, aubi- dienti, disublidienti, assimitari, súbitu,
úrtimu, annivuricúri, simenza, siminari, ammintuari, ammintuatu,
addiminari, milincana, rivirsari; aber duviri (debere); dumani (demane), cf.
ital. dovere, domani. Dagegen findet sich häufig u vor oder nach Labialis in
einigen Gegenden der Provinz, besonders in Licata, z. B. luvanti (levante);
luvari, buvatuvilla (ital. levare, levátevelo), rumitu, rumitedde, dumanna,
burritta, pu-naru (ital. paniere), musura (misura); ammuntuari, sulnitu
(subitu); mulungana (melengiana), annuvricari (anivricari), car- rubbina,
sumenza, fumurar (fimus + ariu), sduvacari (deva-care) - in Casteltermini:
Musummulisi (die Bewohner von Mussomeli), vutieddu (vitellu) u. a.
Durch Einflufs des folg. p ist a an die Stelle von urspring-lichem vortonigen e
getreten in sapurtura (ital. sepoltura); sre- purcru (ital.
sepolcru). Einflufs des v: a) e, seltener i, o + i= a + v: faraci
(ferace); sarbari (servare); kuarela (querela); sacardoti (sacerdote); arsira
(hersera); Arasimu (Erasmus) Cianciana; Sarafina (Seraphina); sarüzzu (ital.
esercizio); viparedda (ital. vi-perella); arruri (errore); carzaratu (ital.
carcerato); purcaría (ital. porcheria); massaria (ital. masseria);
Castartermini (Castel-termini), viklareddu (ital. vecchierello), battaria
(batteria); sarvaggu (silvaticu); maravila (mirabilia); arreprensilli (ital.
irreprensibile); arasiluli (irascibile); marabinenne (moribondo); tartuca
(tortuca); partualle (Portogallo). Anmerkung. In GIRGENTI, wie im
allgemeinen im ganzen SICILIA, kann auch hier von den Formen des Futurums
keine Rede sein, weil keine eigentliche Form des Fut., sondern nur die
Verbindung des Infinitivs mit den Verben aju, seltener rotu, sich noch ganz
deutlich in seinen zwei Teilen findet. - Formen wie arir, amiró, saró u. a.
sind Einfuhr der Schrift-sprache; doch habe ich manchmal amaró, avaró (ameró,
avró) gehört. 8) i, e + I = u + r in GIRGENTI: GURGENTI (Girgenti),
survigzu (servizio). p) r + e, seltener o = v + a: rapprisintari (v.
represen- tare); racenti (recente); raclúta (ital. recluta); raccoliri
(recol-ligere); valogu (horologiu); forasteri, Lehnwort (forestieri) u.
a. Dieses a wird zu ü in manchen gelehrten Wörtern, rütturi (rettore),
rüdattu (redatto), rütipunte (ital. dietropunto, retro-puntu), rättorica
(retorica). Einflufs des k auf au. Das k zieht u an sich: liun-dara,
kuacina, lundiari, kuatela. Einflufs des n: e, i + n werden a + n: antari
(ENTRARE), anconta (incontra), anutuli (inutile); ancumenãa (incomincia),
ssanuto (ital. sternuto), manziornu, manzió (ital. mezzogiorno); vorñ: añuranti
(ignorante), añumina (ignominia), añranza (ignoranza). Sporadische Veränderung:
suluczu sulusiari von singultu, singultare. otn=atn: eamusu, camsiri,
ermasatu (cognoscere); anuri (honore) ricanusenza (riconoscenza), disanuratu
(deshonoratu); anniputenti (omnipotente). Vor der Gruppe mm wird i zu a:
ammattutu (ital. imbattuto); masate (ital. imbasciata); cmenagrute (ital.
immagrito); Ammaculata (Immacolata). Vor m wird e zu i in: mümorga
(memoria) Lehnwort. Nachtonige. Ohne Einflufs von Kons. bleibt
nachtoniges a in-und auslautend bewahrt: stómacu, timpanu und tégula, "rose,
cosa, badda, cuda, canta, puma; für die unter i und « 4u-sammenfallenden Vocale
(ẽ 7, i, 0, й, ù) s. Vorton. Kein auslautendes e in cincu (quinque, ital.
cinque); agrig. sunca (cf. altital. dunqua) bestätigt ein schon im Vulglat.
dun-qua aus dunque in Anlehnung an unquam. Ferner zu bemerken sind puru (ital.
pure); comu (ital. come, cf. senes. como): conta, fina = cont'a, fin'a;
fora = foras (ital. fuori und fuora); manu bleibt manu auch im Plur. (cf.
altital. le mano). Aus-laut. ae wird i: curuni, culonni; auffillig ist die
tonlose Par-tikel ca = ital. che (dafs) und ca — quae Pron., wie z. B.:
Sacêu di tértu ca | du soru siti, Ca státi emmernu 'nrémmula
abitati (Giov. Canti etc.
Cianciana.) und „vó ca veñu" (ital. vuoi che venga) u. dgl. -
Für die Weglassung einer Endsilbe Unter Einflufs von Kons. - Vor r wird
e, seltener o zu a: númaru (numeru); cámmara (camera); vipara (vipera);
ruccaru (ital. zucchero); vómmaru (vomere); Gásparu, neben Gaspinu
(Gaspero); Luñfaru (Lucifero); bifara (biffera); gámmaru (ital. gambaro);
misara Casteltermini (misera), cán-taru (ital. cantero); cólara (xohepa);
jüniparu (juniperu); Ettari (Ettore); Cristófaru (Cristoforo); cárcari (ital.
carcere) - nach i: érramu (onuos). Labialis +e, i = Lab. +u:
pruvuli (pulvere); murula (nubila); simuli (similis), súltu, urtumu,
Licata (subitu, ultimu); und Suffix -couli, -abuli, -ibuli (-abile,
-ibile). L verlangt u vor sich: áttula (dactilus, ital. dattero);
utuli (utilis), ácula (aquila), ménnula. Vor e findet sich a für i,
seltener o: calacu (calice), ca-nonacu, tonaca, cronaca, mantacu, sinnacu,
monacu, monaca, parracu, funacu, aber kúvica («f. ital. chiavica) neben
cluuca gelehrt, ital. cloaca - nie vor n: pampina, guvini, cufinu (ital.
cófano); órfan ist Lehnwort. Für den Schwund des tonlosen Mittelvokales. Die
Aphärese ist in Sicil. sehr häufig, weil alle Würter vokalisch
auslauten: a-Aphärese in einzelnen Wörtern: cttula, Castel-termini
(kleine Axt, ital. accetta); Ragona (Aragona), Gur-gentz (Agrigentum), sañaturi
Licata (lasañaturi, Rollholz, von lasaña); rina (arena), gula, Nadel (acucula),
ramu (aeramina), pretia (apotheca); sparau, sporaci (asparagus); - @) bei mit «
anlautenden Femininis, die mit den Artikeln la, 'no (una)zusammentreffen:
la'ffizioni (la affezione); la icetta (la accetta), 'na marena (una
amarena); - y) vor Nasalen: 'mmátula (am-matula, Adver. umsonst, von griech.
uárnv?) 'Ntonia,
'Ntuniktiza (Antonia, Antonietta), 'nüddi Porto-Empedocle (ital.
anguille), 'ncina (ital. angina); 'ncinala (ital. anguinaglia),
neuviceddi Porto-Empedocle (ital. acciughine); 'naría (ital angaria), 'narsári
(ital. angariare); 'mmasaturi (ital. ambasciatore); 'mminsilatu,
'mminsitari (amminsitatu, amminsitari, it. vezzeggiare); 'nusari (angosciare);
'ncunza (ital. ancudine); 'ntinna (antenna). i-Aphärese. a) in einzelnen
Wörtern: munnizza (im-monditia); rinnina (hirundina, aber hier scheint
Umstellung zu sein: hurindina statt hirundina); Nazzu (Ignatiu); - 8) bei
Verben, vor Nasalen: 'mmarazzari (ital. imbarazzare), 'mmarrari
(ital. imbarrare), 'mmasari (invasare); 'mmástiri (imbastire); 'ncarcari
(incalcare); 'nzzammari (inflammare); 'mpinciri (im-pingere) und 'nnucienti
(innocente); 'mmastu (ital. imbarazzo, impaccio); 'mmernu (inverno); 'mmeru (in
verso, verso, circa); mmesta (v. vesta, ital. federa); 'mminzioni (inventione);
'nien-tivre (incentivo); 'nienzu (incenso); 'néura (ingiuria); - y) in formalhaft
gewordenen präpositionalen Verbindungen: 'mpuntu (in puntu); 'mpresa (in
prescia); mpiñu (in pegno); 'mparu (in pare); 'mpixzu (in + pizzu, in punta);
'mpró (in pro); 'ncapu (in capo, sopra); 'nkzaru (in chiaro); 'nima (in cima)
'ncostre (accosto, in + costu); 'ncoddu (in collo); 'ncanir (in cambio);
'nfunnu (in fondo); 'uninari (in denari); 'noceu (in cio'che) u. a. 3.
c-Aphäresc. a) in einzelnen Wörtern: rumitu, rimita (eremita), rumitorzu,
rimitorzu (eremitoriu), vispicu (episcopu), -réticu (ereticu), limósina
(Elenuocion); cillenza cillen:asi (eccellenza, eccellenza si); sarczzu
(esercizio); kgesa (ecclesia); ¿angel (evangeliu); - 8) vor Nasalen:
'mpiña (frz. empeigne) 'mmracu, mmracari (ebriacu). 0-Aphärese in:
spitali (hospitale), riganu (origanu), ralogu (horologiu), auch roggu
([lo]roggu); micidaru (homi-cidariu); miupáticu (omeopatico); la 'bbidienza
obbe-dienza). 1- Aphärese in: vindicu (umbilicu), 'na (una); napocu
(una + poco = etwas, z. B. nap d'acqua etwas Wasser,cf. una picca
Messina); lu 'ffizzu (lo ufficio); vor Nasalen 'nyuentu
(unguento). ae-Aphärese in: rúggini, rugga (aerugine); ram
(acramina), stimari (aestimare). Die Anreden und die Vornamen erleiden
oft stärkere Aphärese: ñuri und nu, ñura, ña von siñuri, sinura (Herr und
Herrin). Es ist aber zu bemerken, dafs diese zwei For- men sich nicht für
einen wirklichen Herrn und für eine wirk-liche Herrin passen, sondern für einen
Mann und ein Weib aus dem Volke. Ferner: ñuri taugt als Anrede eines
Kut-schers; 'mpari von cumpari (ital. compare), z. B. 'mpari Pé (compare
Giuseppe); - ñursi, murnó und nasi, nanó (Signor si, signor no). Die Eigennamen
erleiden fast immer Aphärese: Minicu (Domenico), Peppi (Giuseppe, cf.
ital. Beppe), Sare (Rosario), Tanu (Gaetano); Vanni (Giovanni) u. a
Besonders ist zu bemerken: mu, mullu gieb mir, gieb es mir (von dammi, dammelo:
dammüllu); sutu = nisutu (aus nesiri = ital. uscire, uscito); ncavà also (von
dunca, unca, 'nca + va, 3. Pers. Praes. Ind. von andare); emu (habemus);
tidicari kitzeln (von ital. titillare und solleticare, *(ti]tillicare); mótaca
(von una vota ca = ital. una volta che ...); tellia Cianciana (=
tantilika, ital. un tantino); ña! (von dunca, anca); ici, ña (dunca von
donique, cf. Foerster, R. E.). Die a-Prothese ist besonders von den mit ad
erweiterten Verben gebildet, die oft den Urverben, des Sinnes wegen,
an-geglichen worden sind; dadurch ist es entstanden, dafs dies a anderen Verben
vorgesetzt wird und endlich den Substantiven, auf welche sie Bezug haben (cf.
Meyer-L., Gramm. d. rom. Spr.). Wir haben also mit arl anlautende Verben, bei
welchen die Präposition nd einen reellen Wert hat, sogar oft ihren lateinischen
Wert: ldummisiri und dórmiri (cf. oudormisco und dormo); appurtari und purtari
(of. affero und fero); abbanuri cintauschen und riñari wässern, baden; uurnari
tagen von jornu, all'aymur-nute bei Tagesanbruch; aldumari Licht machen von
lumi;2. und Verben, bei denen die aus Angleichung vorge- kommene
Präposition ad ganz und gar schmarotzerisch ist: accumenta neben cumenia,
abballari neben ballari, addi-mannari neben dimannari, assapiri neben sapiri,
addifén- niri neben difenniri u. a. Substantive, auf welche diese
Verben Bezug haben: abballu, addimanna, addimanneri u. s. w. Ajeri,
apprima könnten auch ad einschlielsen. Die Resonanz des et entwickelt oft
ein a: arridiri (ridere); arriparu (riparu); arrinésiri (riuscire); arripezzu
(rappezzo): arraccuntari (raccontare) - fast alle Volksnovellen beginnen:
si cunta e s'arraccunta ...; arrazzimi (von razza); arrisettu (risettu);
arriccamari (ricamare); arriccamu (ricamo). ite bei Verben wird fast
immer zu ar, arra: arraccóliri (recolligere); arraccumannari (ital.
raccomandare); arrassumi-tari, arritiniri (retinere); arrispúnniri (respondere);
arristai (restare) u. a. Besonders ist zu bemerken: ad attia
Aragona (a lia = ital. a tc); unquániki Aragona = ital. qualche, aber
sicher von un + qualche; a-Prothese bei den femin. Substantiven auch ohne
Einfluls des Artikels la: aggenti, abbili, amenta, addan-nazioni; artá (etá);
ferner abboné = bonum est; accussi = cosi; abbasta = basta; accura = cura
findet sich nur in der Verbin- dung duna accura = ital. datti cura, es
kommt aber gewifs ron duna a + cura = ital. prendi a cura. Die
Synkope ertolgt sehr selten und nur unter Einflufs des halbrokalischen v. So
wird es kommen, dals, wenn das / zu et werden kann, die Synkope erfolgt, sonst
nie, ½. B. póllici (pollice) und purci, puci. Ein schönes Beispiel
giebt uns »salicem" mit seinen zwei Formen: sálair; gelehrt, neben
sarcu; surer (sorice); spirda (spiriti); purpu (polpo). Inlautendes ¿ aus
e fällt vor r ab: o(i)ritá (veritá); pri-culu (pericolo); oprari (operare);
disperdri (disperdiri); krilhia (chierica); mráculu (miraculu); tati (tirati);
tari (tirare); vita-teddi Cianciana (ritirateddi); dettu (dettiru); mitti
(mettiri); vittu(vittiru) Licata. Auffällig ist in érramu (ital. ermo) e vor i
zu n geworden. Abfall des inlautenden u vor r: sapritu (sapuritu)
Licata; cruna (curuna); 'ncrunatu (incurunatu); frusteri (forestiere);
crusu (curiusu) Licata. Bei den Formen des Infinitivs + le (lo pronom.
Artikel) erfolgt die i-Syncope immer: mannarlu (= mannari + lu, ct. ital.
mandarlo); purtarlu (= purtari + lu, cf. ital. portarlo) u.s.w. Die
Kontraktion ist sehr häufig, besonders unter Auf-hebung des Hiats. Es ist hier
zu bemerken, dals dic Artikel lu, la, li nach da, di (de), pi (per); a ihr /
verlieren und dadurch haben wir: do = da lu von da 'u, du =
di lu von di 'u, da = di la von di'a, da = da la von da 'a,
pa= per la von pi(r) 'a, pu — per le von pi(r) 'u, pj = per li von pi(r)
'i, U= a lu von a 'u, e= a li von a 'i. Beispiele: Do munti = da lu
munti (ital. dal monte); du mari = di le mari (ital. del mare); da mati =
di la mati (ital. della madre); pa genti — pi la genti (ital. per la
gente); pre menu = pi lu menu (ital. per lo meno); scupittinu pj
denti = pi li denti (ital. spazzolino pei denti); u forti ca = a lu
forti ca... (ital. una volta che ...); e vintunu = a li vintunu
(ital. al ventuno ...). Für e, eju = aju. Fina, conta sind aus finu
ta, contu + a (cf. ital. contra, oltra) gezogen; ebenso sa aus sia, ava aus
avía: „sa ladatu "diu" ital. sia lodato dio; „ava jutu" = avia
jutu (ital. era andato) in Cianciana; ma aus miu und mia: „ma pati, ma mati
" in Casteltermini, Licata; au, za aus xiu, xia (ital. zio, zia).
Ferner jencu aus juvencu; orallannu = ora è l'annu; vosenia= vostra eccellenza;
cossía, vossa = ¿ostra signoria; Saru aus Saria (Rosario). Es ist zu
hemerken, dals der durch einen ausgefallenen Kons. hervorgerufene Hiat dagegen
durch j be-hoben wird in majisi (magese); pajisi (pagese); majulda (cf.
ma- gida); sajitta (sagitta); fajida (favilla); projiri (porrigere);
fri-jüri (frigere); rijuddu (regillu); fújiri (fugere) - beachte noch castzari
(castigare); und oj (hodie); raja (radia) - ferner frúula (fragola); aber
paúni (pavone). Sehr häufig bei der Proklise: a list' ura, a 'st'
ura =« ista ora; em' a-fari = emu « fari; aj", ej a + Infinitiv = ju
a, eju a etc:; $) nach betontem Vokale: di = dui (ital. due); jü
=jiu, in (ego); mi = mei (ital. noi); qua' = guai; Di = Diu (Deus); me' =
mcu, „me' pati, me' frati", auch me'= mea, „me' mati" und „fratursu
me'"; po'= puoi und poi (potes und post); -a'=-au (-avit): purta', liga,
curca; -i =-iu (-ivit): jiuniï, curri, muri; se'= sci (sex); assa'= assai
(satis); d) bei Anreden und Eigennamen: rumpa' (cumpari, ital.
compare); cura' (curatulu, ital. cur- torc, castaldo); piccil (picciliddi
Kinder); nu (nuri Kutscher): do, don (donnu: "do Matteu, don Cola,
aber donnu Mi- nicu); Sa und San (Santu: Sa Lenardu, Sa Luigi, Sa Lenil,
San Franiscu, San Petu, aber Sannu Minicu, sannu statt santu, wenigstens so in
manchen Texten geschric- ben, ich glaube aber, dals man San Numinicu =
San Duminicu (Domenico) lesen mufs, in der That wird nd immer zu un, vgl.
cannila = candela; ebenso vielleicht auch oben mufs donnu Minicu = don
Numinicu sein); pa, tr' (papa, tata); mả' (mama'); Li (Lina); Ti' (Tina);
Ste' (Stefanu); Anne' (Ametta); Nute' (Nuien u, 'Innocen:o); Ro' (Roccu);
Pe (Peppi) u. a.; d) besondere Fälle: in Licata statt voli
(ital. vuole); je Cianciana statt jeva (ital. giva): Giufa li je' mittennu
(Giovanni, Canti et cet. Cianciana); mide statt milemma (ital. mede-simo).
i-Epenthese zwischen Labiale + r: Sittemmiru, Ottúviru, Nevémmiru, Diemmiru
neben Sittemri, Otturru, Nuemru, Duemii; úmmira neben ummra (umbra); piruni
(prunu); 'mmirazza neben 'mmraxza (in brachiis); () 9+r: sóggiru, soggira schon
in früher Zeit socerus, ital. suocero; mágiru statt magru findet sich in
Girgenti sehr selten; allégiru neben allegru; s + m bei fremden Wörtern: Cósimu
(Cosmo); cataplasima (nataháoua); biasimu; spasimu; asima neben d) 9+1:
'ngilisi (inglese); Ingilitterra (Inghilterra) Casteltermini. Zusatz. Der
Einschub eines 2, wie er in ital. inchiostro, chioma, älter * inclaustrum,
*cloma vorliegt, findet sich nie in Girgenti: inlzossu, koma sind ganz gelehrte
Wörter; das Volk sagt inca, coma nur im Sinne von „sopore, disposizione al sonno",
z. B. „coma 'ntesta"; ferner scuma neben spuma (ital. schiuma), rifutari,
favu, furina (lat. fuscina, ital. fiócina). 2. u-Epenthese, durch
Guttural hervorgerufen, zwischen «) guranu (grano), néguru (nigru), gulutu
(gluttu); 8) c+*: neuruc, curucifissu (croce, crocetisso), 'ncgrustari
(incrostare), curudu (crudo), curucelone (corbello). Die Formen aut -ati,
-uti an Stelle der ital. Substantiva auf -á, -ú (roci tronche) sind nicht
epithetisch. Sie kommen gerade von dem lat. vierten Falle auf - ate(m), -
ute(m) her: piatati (pietate), voluntati (voluntate); caritati (caritate),
cirtuti (virtute). In GIRGENTI sind diese Formen sehr selten, nur bei dem Volke
findet sich oft die Form auf -ái (von -«(1)i): aitai, nicissitai (etú,
necessitá). 2. Die Formen auf -aju, -au bei Verben (ital. -ó, -o)
sind auch nicht epithetisch: aju = habeo, saccu = sappio, seju = sedeo; —
staju, daju sind analogisch zu aju — neben daju findet sich auch duñu
analogisch zu suñu (sum).3. Die a-Epithese ist sehr häufig: Neben Lúnidi,
Már-tidi, Mércuri, Jóvidi, Vénniri, Silbatu, Dúminica (Namen der Wochentage)
finden sich: Lunidia, Martidia, Mercuridía, Juridia, Venniridia,
Sabbatulia, Duminicadia, cf. dia = dies span., prov. Bei Pronomen:
In Licata, Casteltermini findet sich jia von ji (ego), mia, tia statt mi, ti —
me, te (zur Vermeidung des Hiats mija, tija). - Gewöhnlich, bei dem Volke, ist
die Form Dia, Dija = Dii, Dei, Dee. In Casteltermini findet sich
ada = ad; vgl. sardisch. 1. Sehr häufig, immer bei dem Volke, ist auch
die ni- Epithese nach betonten Vokalen: a) bei Verben: eni = é
(est); pinsni = prinsú (ital. pensó); curcani = curcú (coricó), addivintani =
addivintá (diventú), funi = fu (fuit); $) bei Pronomen und
Zahlwörtern: jini = ji (iu ego), tini, seni, Casteltermini, — ti, sé (tre,
sei): d) bei Adverbien und Konjunktionen: nuni = line (plus);
rucussini - accussi (cosí); cúni — cú (qua); lani = da (lá): pirioni
(öfter pirco(n)i) = pirió (perció). Siddu, seddu in Licata = si †ildu
(ital. s'egli, si + illu). Vokalzusatz am Wortende zeigt auch das Sicil.
bei kon-sonantisch auslautenden Fremdwörtern: tammi (Tram), onni-bussi, lapisi,
gassi (gas), wie toscan. - c. Sonderbar und wichtig ist die Weise, in der
das Volk das geistliche Lateinisch in Gebeten ausspricht: „Stababat matri
ilclorosa | iusta croce lacrimusa | ed abbatti filiussu" (Dum pendebat
Filius), Casteltermini - „Oi cruxisi vada spissonia passionama tempori | piassi
cuci graxia | Reixi de la china" Casteltermini (Text: O Crux, ave spes
unica, - Hoc Passionis tempore - Plis adauge gratiam - Reisque dele crimina) „Posuarenti supra caputti causanti rexi o
scrittu Jesusi Naxia-renu rexi joduro omini (Text: Posuerunt super caput ejus
causam ipsius scriptam: Jesus Nazarenus, Rex Judaeorum), Giovanni, 50 Canti et
cet. u. a.; Giovanni, Canti et cet. Angleichung des anlautenden Vokals an
den betonten Vokal: a - á: piatá (daher piatusu), matassa, gazanti
(gigante), valanza neben vilanza (bilancia), cf. altirz. garant, frz.
balance — aquali (equale), aquannu (hoc annu). i - i: birritta
(baritta), filinza (fuligine?), ficili (fucile). U —ú: ruñuni, sutuzzu
aus *si(n)glutiu. f) Angleichung des nachtonigen Vokals an den betonten:
á — a: ánasu (anisu), cálacu, párracu, ássacu. i - i: tírici (tiraci),
pítila (pigliala) Licata. ù - U: disituti, anútui. %) Der pronom. Artikel
lu (lo) bei den Verbalformen hat den Wandel von unbetontem sekundären i zu u
hervorgerufen: facitulu, luvátulu, mittitulu, maritatulu (Licata). Ferner
ist die Angleichung des unbetonten sekundären Vokals an den Endvokal u
besonders in Licata sehr häufig: avissur, vitturu, avissumu, scannulu.
Zusatz. Aus Angleichung an die 1. Pers. Praes. (-4) findet sich in Licata: appu
statt appi (ital. ebbi), vittu statt vitti (ital. vidi), persu statt persi
(perdetti), vinnu statt vinni (venni) — in Girgenti aber appi, vitti u.s.
w. Der Vokal a drängt sich oft an die Stelle eines anderen anlautenden
Vokals: aserätu (esercito), assequiu gelehrt (osse-quio), assirvari
(osservare), asistiri (esistere): „un assisti "li" (non esiste piu),
afennir (ofiendere), affiru, gelehrt (officio), arcasioni (occasione), aduri,
adurari (odore, odorare), abbré, abbreu (ebreo), aternu (eterno), ammitu
(invito) u. a., s. Die Veränderungen, die der Konsonantenanlaut im Satz-innern
erleidet, hat schon Schneegans § 24, S. 145-50 sehr fleissig nachgewiesen und
erklärt. Es steht fest, dafs besonders ki (quid); a (ad); pi (per); e (et);
"kau (plus); fa (facit); va (vadit); sta (stat); si (es); é (est); ddú
(illac); ti (tres); 'nla (intra), wie übrigens alle vokalisch anlautenden
Oxytona, die Dehnung von p, 6, m, f, c, 9, d, t, n, s und die artiku-latorische
Verschiebung (wie Schneegans schreibt), von v - sowohl primär als sekundär — zu
b; j zu ge; d aus gi zu i;."— aus d— wieder zu d; n+j=n; n+o;n+6 =
m+ b = mm; bewirken: Beispiele - nach Schneegans loc. cit. Labiale:
p: = i ppezau di pani! a ppala:zu la ppinnin, a pperru a ppexsul.
b: — s. unten § 26. m: — pi mmati (per matrem) latti e mmeli. f: -
si ffoddi, ti fimmini. Gutturale: c: = ki ccosa: a ccasa! g: - a
gyamm a l'aria: Dentale: d: - dittu pi dditta; é dduci - s. unten.
t: — a ttia, é Hoppu — (é troppo). n: — ti notti, é menti. 8: — ddá
ssupra, lii ssonnu! (sowohl primäres als secundäres aus et entstandenes
wird b: uncora é biru; ste binenme; lizu bicinu; ...j wird zu ge = ti gudici;
te gorna, á grunta. ¿' aus gr entstanden wird zu vr: La mmidia di li
ggenti é rranni assá (GIRGENTI). mis donn in wie sei migans meint:
Imfermu mi la vita bedeutet nicht: Imfermu nni la vita, sondern: mi
liidda (illa, ital quella) vita; pri ddi junini, nicht pri li juvini, sondern
pri kiddi éuvini; trattamu a ddu siñuri! = a kiddu siñuri! pri ddi mobili = pri
liddi mobili. n tj=ñ: u ñardinu (un jardinu) u ñornu (un jormi); do
Nakinu (don Jakinu) u ñocu (un jocu). 1+01=m+6= mm: 'mmarca (in barca);
'mmucca n + 11 (in bocca) mmita (in vita) ni mmeñe (non vengo). Doch
eine wichtige Anmerkung habe ich bei Schneegans nicht gefunden; nämlich, dals
einige Konsonanten, besonders 6, d, r, g, manchmal auch m, n, et schon im
Anlaut eine gedehnte Aussprache haben, und dafür im Satzinnern nicht mehr
verstärkt werden. Das d, z. B. von decottu, duman-na, dannatu, dugana, ist
nicht dasselbe wie in deci, duñu, domu, dormiri, doti, dori, durz; während
dieses im Satz-innern verdoppelt wird: a deci, a deci (ich schreibe im Anlaut d
= dd) u. s. w.; bleibt jenes ganz und gar wie wenn es isoliert gesprochen
würde, weil es schon für sich selbst gedehnt ist. - Zwischen decottu, so
vereinzelt ausgesprochen, und decottre (ddecottu) in E mmi vinni decotti Pi
dormiri la notti giebt es gar keinen Unterschied. Immer als *Ъ (bb)
lautet das anlautende b: Tritturi, batia, buttana, bestia, bagganc u. s. w. nur
in Indienan, budienti, Aphärese aus ubbudienza, ubirdienti u. dergl. findet
sich das einfache b; wie obiges et verhält sich auch i: "ie, riggina,
veñu, rumitu, robba (in ranni, rossu, arusa ist das et aus gi entstanden); g:
gelu, genti, "genti, gilu, "golu;" nur in nome,
nappa, norea, sonst nu (nos), masiri, nespule n. s. W.; m nur in mermcar
(marner)miraculu, mraculu, merda (ital. merda), sonst mennula, menu, mari,
munti u.s. w.; et nur in rippu, sonst Ciccu, ruffu, celu, cima u. s. w.
Über die Konsonanten im Auslaut ist wenig zu sagen, da im allgemeinen das
Sicil. sich hierin wie das Ital verhält. Auffällig ist suñu = sum (vgl. neap.
songo, donyo, stonyo, calab. sonyo, *ponyo, *donyo). Lat. non findet
sich als nun, oft 'un: "'un ci volu jiri, un aju lii ti
fari", im Satzinnern wird das n t j zuñ: „pirli nu ñoki?" (ital.
perché non giochi?), n + 0 = mb = mm „nu meñu (non venio) - aber no,
Verneinungswort; in ist ni geworden, ada = ad findet sich in Cianciana,
„ada mia, ada tia" (ital. a ma, a te), con wird cu. In einsilbigen Wörtern
bleiben 1, &, nehmen aber wie im Italienischen ebenfalls einen Vokal an:
feli, meli. sali, cori, aber pj = per (pri, durch Umstellung er — ve tindet
sich nie in GIRGENTI), in mehrsilbigen Wörtern bleibt i nur in crru, marmaru,
sonst frati, soru, ebenso 1, bar-came (aus baccanal Ovidio Arch. Glott.. - Iu
sempri, quattu (wie schon im Vulglat.) findet sich die Umstellung -er, re,
welches oft nach st fällt, nicht nur in nossu, vossu, die doch bei dem
Volke ofters zu nosu, vosa werden; sondern auch in capissu, maissu, aber
auch masu. S fällt in einsilbigen Wörtern ab: nu, vu, ti, ve, "lu, po, sé,
ha, da' (neben duna) str; die Formen mit i: nui, rui, poi, sei. hai, düi sind
nicht volkstümlich (vgl. ital. noi, voi, poi, sei, has, das); -aut (avit) = -á
in GIRGENTI: purtá, amú, curcú; est =é, oft eni bei dem Volke; -nt verliert
sein t nur bei 3te Pers. Praes. amanu, vidina, lodane; sonst fallt es
ganz: amaru, rittira, ludar. Labiale. §1. P - a) Anlautend wird
gewühnlich beibehalten: passu, pati, puru, ponti, pilu, peta, pirnici
(perdice), putia ([a)potheca); puse (pulsu); pirani (prunu); pifania
(epiphania): - wird = 1 in badda, baddóttule (ital. palla,
vallottola),-busa (pasciá); ballaccuni (ital. pollaccone); bizzocca (ital.
pinzochera); buttana, buttaneri (ital. puttana, puttaniere); — wird o in
vastunaca (ital. pastinaca); vispicu (episcopu) durch Dissimilation (bemerken
auch die Umstellung vispicu statt piscopu, vgl. span. obispo). Inlautend
bleibt p: ripa, capu, lapa (apis + Artikel / zusammengewachsen); pipi, lupu,
scupa, sapiy in varvasapiu (zusammengesetztes Wort: varva-sapiy, vgl. ital.
barbas-súro) — wird = bb in cubbu (cupu z. B. arz cubbo = it. aere cupo),
cúbbula (cupola); lebbru, lebbiru (lepore); lebbra (lepra) - wird = v in
pouru, puritá - durch Binfluls des folgenden r, cf. Meyer-L. Cons. riciri
(recipere, cf. ital. ricevere). Vor dem Tone — e nur in arrivari, sti- rari,
cuverta Fläche des Schiffes, neben cuperta Decke, sti-vari ist auch zum
Seewesen gehöriges Wort — y mit f vertauscht in gulfu (ital. golfo), tufeu
(ital. trofeo), alle beide gelehrt. p +, im Hiat = ¿c: sicca (sepia), saccu
(sapio), arca (apium, apia), saccenti (sapiente); bleibt im Anlaut in
ital. Lehnwörtern piatusu, piaté, tempu, pir, duppre, impiassu, piuma,
esempiu u. a. • pp bleibt pp: stuppa, ssuppre (struppu); cippu (rip-pu);
lippu, puppa, scoppu. &) in Verbindung mit Kons. y + Dent. wird
gewöhnlich an diesen assimiliert in: pt = tt: attu (aptu); rutta
(ruptu); accatta (captat); setti (septe); grutta (crupta); cattivu (captivu),
volkstümlich nur im Sinne von „Witwer", cattiva, Witwe, vgl. dasselbe im
Sard. battíu, battía. - In pt, griech. Anlaut, füllt p ab: tisana (ptisana). ps = ss: jissu (gipsu); kissu
(eccum ipsum); scrissi (scripsi); = s in casa (capsea); - nach et fällt y ab:
scarsu (excarpsus) — im Anlaut sarmu (psalmus). /: crapa (CAPRA); grúpiri
(APRIRE); — wird zu 2 nurin liereri (cani livreri) gelehrt. vgl. ital.
lerriere, sonst supra, suprana, sapro u. s. v. Durch Einflufs eines
Nasals wird p oft zu l in Castel-termini: cumbitu (ital. compito), cambana
(campana), esembir (exemplu), timiniluni statt timpuluni (Maulschelle), bleibt
in Girgenti, tempu, rumpiri, tempru. Sporadisch sp - se in scantari, daher
scantu, scantusu, nach Traina, Sicil. Wtb. 872,viene da *spantari, che a sur
volta à scorciato de sparin-tari"; vgl. sard. ispantu, ispantusi; und
siche Schneegans S. 69. - Scattusu (nicht scuttica, wie Schneegans
schreibt) kommt nicht von dispettoso, sondern von scattari, ef. Traina.
Sic. Wtb. scattu 880, vgl. ital. schiattosn. Für rascari, neben
raspari, scuma neben spuma, vgl. ital. raschiare neben raspare, schiuma neben
spuma. Sonst sp bleibt: respa, vi- spanni, cripu, nespola, spata,
spalda, spissu, spusa, spusa U. S. W. Spl findet sich nur in
splumenti, splénnite, spleniri, splmuri, gelehrt und Lehnwörter, sehr selten im
Volksmunde, der shrannenti, sblémitu, sblemi, solénniri, shamári
aus-spricht. § in Verbindung mit 1. pl = lit: lzanu, laga, lattu, kummu,
lizazza, lioviri, lau, lizuma, culkia. - Volkstümlich in PORTO-EMPEDOCLE ist
„plaga" im Sinne von Erdstrich - Ufer - pilaija geworden, neben
kraga, Wunde. Mundartlich in Licata pl = c: canu (planu), caja
(plaga), ñummu (plumbu), coriri (plovere), canziri (plangere) u. s.
w. Zusatz. Scola (scoplus) mufs ital. Lehnwort sein (vgl.
scoglio). Pruculi ist nicht aus pluvure, sondern aus pur- ruli, mit
Metathesis des v. In entlehnten und gelehrten Wörtern bleibt pl: plausibili
(ital. plausibile); placari (ital. pla-care); plebi, cumplimente (rumblimentr
in Casteltermini): plácitu (ital. placido) u. a., - «) Anlautend, mit starker
und gedehnter aus-sprache, bleibt 1, in: "beddu, bedde, bon, bone,
boutire, bañn, bena, batia, batissa, basta, bastari, hitlivi, ballari; - bleibt auch in
entlehnten und fremden Wörtern, wie: hallakkinu, bagasa, battisimu, tuggacca,
bajunetta, balena,
baruni, battatuni, basalicó, 'bastardu, battaria, bannera, barrera, bamminu, botta,
-benna, borza, bar- cuni; - wird = e in vo (bove); vivu, viviri (bibere);
vucca (bucca); vancu, rastuni (bastone); vilanza (bilancea); vasari (basiare);
varca (barca); vasu (basso); vutti (botte); vestza (bestia); varba (barba);
varbarottu Kinn; vastasu (von BaGrá(u); vucceri (frz. boucher) u. s. w. -
wird = m: matu, mia- tiddu (beatu, beatu + illu); muniuré (t. bot. stirax
benzoin, ital. belgiuino). Inlautend, bleibt und wird verdoppelt in den
Lehn-wörtern: robba, nóbbili, débbuli, súbbatu, cible, (aber vollis-tümlicher
civu „pasto degli uccelli"), plebbi (plebe); sebba, rabina, neben
volkstümlichem ragga (ital. rabbia); parab-bula (parabula), aber parola, palora
- nach r: varba (barba); erba (herba); orbu (orbu); arbulu - wird volkstümlich
= 2: cuvari, cavaddu, duviri, lavuru, maravita, pru- vari, aviri,
cannavu, nuvula, fava, sivu, viviri, scrivu (ar-vule, neben arbulu, ist sehr
selten); guvitu, suvaru (suber). Von diesem o geht et oft in u auf, wenn
nach et ein u steht: neula (nebula); taula (tabula); diaulu (diabolu); faula
(fabula); parola, palora = paraula (parabula). - Auffällig ist jimmu (gibbus);
mmiucr (ebriacu), vgl. ital. imbriaco: calab. imine (gibbus); rogu, gelehrt
(rubus) entspricht dem ital. rogo - fabbro fehlt im allg. sic.; ebenso ove
(ubi); unni kommt von unde her. B wird zu m in ssúmmula neben dem häufigen
tottula (orgoußos), durch Einflufs des vorhergehenden m. - Sporadisch / -- f in
vifardu, ital. ribaldo. (ital. nebbia, nibbio) können sich nur durch
Abfall des b erklä-ren: neha, mihus (miblius vgl. Wölflins Arch.),
affiliari (ital. affibbiare) von *affilare. - et + u = pp: «ppi (habui);
appimu, appiru, rippi (*bibui); cippi (bibuit); rippine, minppire. in
Verbindung mit Kons. bt = tt: suttirrangu (subterraneu); suttili (subtile);
detta (deb'tu); sutta (subtu). les := ss: assenti (absente); assólviri, gelehrt
fällt vor st, se: sustanzn, astiniri (abst.); scuru (obsc.); entlehnt osenu
(obscoenu). - mb = mm: tumma (tromba); gamma (gamba); rummáttivi
(combattere); kumm (plumbu). - hr = vi volkstümlich: uraco (braca); vraxzu
(brachiu); aber labra, labbru, gelehrt, in frevi, frivaru (febris, februarius)
ist die Umstellung des i zu bemerken. In Verbindung mit 1: Il = j in
Sciacca janru, jan- lizz:a; in GIRGENTI: Inancu, hiankia (vgl. ital.
bianco, bian-chezza); agrig. gastima (blasphema) ist mir nicht klar. Bl bleibt
in fremden und gelehrten Wörtern: blannu (blandu): ble, oft bili (frz.
bleu); blusa (frz. blouse); problema (pro-blema); aber Iunnu (ital. biondo).
Volkstümlich in Porto-Empedocle findet sich pilorca, pilotili? (ital. blocco,
blocchi), pilaja (plaga). f. - im Anlaut bleibt f: filu, fava, fusu, fim-
mina, furnu, ferru, focu u. s. w. — wird sporadisch zu b in -burietta,
Iurcittata, hurcittuni (it. forchetta, forchettata, for-chettone).
buffet). Tafánu (ital. tafano, aus tabanus) ist nicht volkstüm- lich. — f
zu bo in carabba (arab. garâfi, ital. caraffa), spora-disch. Im Inlaut findet
sich f verdoppelt in: riffa (cast. rifa), goffa (cast. gafa). Schneegans; aber “mafia,”
ital. “matfia”. - Cunortu, cunurtari, wohl von rum-hortari, nicht von
conforto, confortare. In Verbindung mit Kons. - fi bleibt fr: frenu, fra-pula,
frati, friddu, frana, frunna u. s. w. - f sogar zieht oft das et an sich: frevi
(febris), frivaru (februarius), friscari (fistulare, *fisclare, *fiscrare, -
friscari), frummicula, neben furmicula, sfrazcu (ital. sfarzo). - sf wird oft
sp: spilari, spolatura = sfilare, sfilatura; spunnari = sfunnari;
spu- yari = sfogare; spogu = sfogo; spari = sfare; spatte =sfatto. — of
bleibt in Girgenti: 'nfami, nfunnu (in fondo); cunfusu; nfattu (in fatto),
'nfernu (inferno) etc. — wird zu mp in PORTO EMPEDOCLE: 'mpunnu (in fondo),
'mpami (in fame); 'mpattu (in fatto) 'mpernu (infernu) - zu mb in
Casteltermini: mbami, mbiernu, mbrimmitati (infirmitate), 'mbattu. d) In
Verbindung mit 1: f = x, mit starker Aspiration bei dem Volke, beinahe $
im gebildeten Stande: xamma (flamma); xzatu (flatu); zuri (flore); xzumi
(flumen); xzumara (flumara), xasc (flascu), x2águr (v. flagrare) etc.,
sporadisch zu ke in gunkari, gunkratu (ital. gonfiare, gonfiato) neben
vun-curi, vuncatu. In gelehrten Wörtern bleibt fl: femma, flim-máticu, flussu,
riflussu, flora, floridu, fluidu, fluttu, flas-sioni, flaggellu, flotta,
flautu. Anlautend, bleibt v: ventu, vuci, vucca, vernu, vuturu, orddan,
indir - mit einer sehr weichen Aussprache. - Wird = m in mascu (vascu),
minnitta (vin- dicta), minniña, minniñari bei dem Volke, neben vinniña,
vinniñari (vindemia, vindemiare), macabbunne (ital. vagabondo), mocaveña neben
vocaveña (vo + ca + veña, vuoi che venga, ital. viavai). - Das deutsche w
findet sich durch gu wieder-gegeben, aber schon als gu, wie Schneegans richtig
bemerkt, ist es aus dem Ital. nach Sicilien gekommen: guerra neben verra
Kinderwut, guastu, quastari, quai, guardari gelehrt, guadañari, guadañu; - VAGINA,
ital. guaina, ist aber agrig. vajina. Im Inlaut bleibt v: navi,
vivu, lavi, nivi, moviri, cava, favu, lavari, novi (nove), leva (levat), novu
(novu) - juvini (juvene) ist gelehrt (ital. giovine), ebenso brevi
(breve); - o schwindet in neu, vo (bove), pau (pavo), pauni (pavone),
paura, fauri (favore), Guanni (Giovanni); fajulda, jina (avena), lisa (lixiva).
- Übergang des o zu g in núgula neben nu-vula, annugulatu neben annuvulatu,
ragatusu (ravitosu); grugini (juvene), purguli, pogir in Casteltermini; neben
pau, paum, fauri, faurire finden sich oft pagu, pagun, fagur, seltener pagura,
Giuganni, wo sicher au zu agu verdehnt wird, vgl. taguru (tauru),
addaguru (lauru), Lagu-renzu (Laurentiu), agulivi (aulivi). Unklar ist sinzli
(gingiva) männlich, statt * sincia (sard. sinzia), vgl. lisin; saliva fehlt im
allgemeinen Sicil., statt seiner findet sich spu-taxza; auch rivu fehlt. In
addiminari (ital. indovinare) ist der Einflufs des Nasallautes, der oft
teilweise Assimilation aus-übt, i -n zu m-n (vgl. minnitta, vindicta) zu
bemerken. d) In Verbindung mit Kons. n+o=mm (durch ne):mmintari (inventare) 'mmidiari, 'mmidguse (invidiare, invi-dioso),
'mmidia (invidia), 'mmersu (inversus), cumméniri (con-veníre) 11. s. w. d
+ 0 = bb (durch 22): abbente (adventu), abbirsarzu (ad- versariu).
r+ i=*+b: sérbiri, sirbútu (servíre, servito), sarbari, sarbatu (servare,
servato). s+ x=s+0: sutar, sointariar (v. venter, ital. sven-trare),
sbummicari (s + vomicare, vomitare), sbinari, sbinatu ital. svenaro, senato,
shinniri (ital. svendere) u. s. w. § 5. m. - a) Anlautend bleibt m:
minutu, maturu, munita, maravita, mira, in marmaru, merda, mraculi (ital.
miracolo) hat m die gedehnte Aussprache des Anlautes — m zu 2, durch Dissimilation, in videmma,
vidé, neben midemma, midé (ital. medesimo) - sporadisch zu b in minaca (nach
Avolio 42, von arab. menaca) - m zu n in nespula (mespilu) gemeinrom.; nillza
(mitulu), cf. ital. nicchio, niechia, also wie in nite = ital. nibbio, worüber
bereits gehandelt worden ist. Im Inlaut bleibt m: nomu, ramu (ramu); fumu
(fumu); premi (premit); lima (limo); “amari” (AMARE) — wird sogar häutig
verdoppelt: fimmina, cummedia, cummidianti, com-maru, tommaru, nummaru,
cucummaru, cámmaru. 8) mti =ñ: vinniña (vindemia), vinniñari
(vindemiare); • siña, neben sima gelehrt (simia), sparañari (ital.
risparmiare); aber lmia (ital. lumia) neben limuncellu. scanneddu,
culouna, anniputenti, autunnu, sonnu; vgl. ital. ogni; balénu (BéDEuvOS, Diez,
ital. baleno) ist gelehrt.ml, nd = nt, un: contari, conti, sinteri gelehrt
(ital. sentiero, sem'tariu); nur nach Synkope des inneren
Vokales; sonst limitu (limitu); linnu, Ercumaru, circunnari. om bleibt rm: furmicula, furma,
furmari, fermu, firmari. Gutturale und Palatale. c. I. c ta, 0, U.
Anlautend bleibt gutturales c: cavaddu, casa, cornu, cantari, cantunera, cura,
cori, conta, cútina, cóppula etc. - wird zu y in: gattu, gámmaru, júvitu,
guvitata (neben vúvitu, cuvitata durch Assimilation), garófalu, garrubba,
ganiu, gamma, jagga (ital. gabbia, fi. cage, cf. Wölffins Arch.). - gulfu
(Ró2os) ist ge-lehrt, ital. golfo. Die Wörter cantu, piania, peria, piriari,
scurcari zeigen keine Palatalisierung des c vor a, sondern erklären sich, wie
schon Schneegans gesagt hat, aus französischer Herkunft: cantu (chantre),
piania (planche), perca (perche); piriari (percher); scuriari (ecorcher). ¿armu (charme), iar-mari (charmer) fehlen in
Girgenti; aus cheminée erklärt sich riminia. Franzosische Worter sind
ebenso tabare und tasen, taskettu, wo das c (cabaret, casque) zu t
geworden ist. - Famiari neben camiari „riscaldare il forno" ist nicht
klar; es kann keine Angleichung an flamma sein, da fl immer zu 2 wird
(flamma = xiamma); vielleicht aber an fum. P) Inlautend bleibt e nach dem
Accent: spica, littica, lattuca, fastuca, tartaruca, locu, focu, pocu, jocu,
sucu, dieu, ficatu; lagu (lacu) ist gelehrt (ital. lago), pregu (precor), pagu
nach Schneegans aus Angleichung an den Infinitiv prigari, pagari.
Inlautendes e vor dem Accent zu g: pagari, prigari, arrigurdari, arrigurdanti,
lagusta, addugari (adlocare); Sira-yusa; aber carricari, vucari (ital. vogare),
affucari (adfaucare, ital. affogaro), asucari (exsucaro, ital. asciugare),
cicala (cicada), sicuru (securu), jucari. - C schwindet in putia. II.
c+e, i = ie, ci. a) Im Anlaut: centu, cerou, cra, cmiri, ¿erca, cincu,
cimici, riveddu, ccir, tima, cu,cirasa etc. - è wird zu g in fremden und
gelehrten Wörtern: ginisi (span. ceniza), gileccu (span. chaleco), gitá, Licata
(cittá), gafaluni (cefaglione). Inlautend bleibt ic, ii: viünu,
radici, paci, nuüi, dei, pici, cuci, cruci ete. Unklar ist kirkiri (ital.
cicerchia = cicercula, nach Avolios wahrscheinlich richtiger Erklä-rung Rest
der alten gutturalen Aussprache des c, vgl. sardisch). Sporadisch è zu et
in babalusi, Licata (span. baba + lueir, ital. lumaca). — è zu et in sóggiru,
sóggira, wohl weil Propar- oxytonon (soceru). Ee, e im Hiat. = ix:
aaru, fasia (facio), laziu (laceu), mustarola, abbracari, eraru, risu
(ericiu), jarill (glacies); ¿occu (ecco hoe), -axu (-accus): ramurazza,
ca- tinain, vista, gintari, sicca,u, mula:u, cudar:u; - ux21
(-uceus): sanguzzu, santurru, curviäu, piduzau ete; aber face (facies),
minacer gelehrt. In Verbindung mit Kons. c+f(-x-) = ss: matassa,
rissr, tossicu, tessiri, fissu, lissu, lassari; - wird -s in Lisannaru,
Lisannara (Alexandru, Alexandria), lisia (lixiva), nésiri (exire), cosa (coxa):
seliri (exeligere), salari (exh.), asu- rari (exsuc.), masidda, - als s
findet sich in esempru, spiri-mentu (exper.), esilu gelehrt (vgl. ital.
esempio, esperimento, esilio). c+t=It: fattre, notti, otte, pettu,
fruttu, dotta, di- fette, aspettu, vettr etc. c+*= gr: grassu,
gradila, gridari, cunsagrari, sigri- tarm, sigretu; nach dem Accent in
agru, magru, sagru, aber auch agru, magre, sagiru. né = ni: cunzari
(ital. conciare) ammunciddlari (amon- cellare), dun«ellu (do'n'cella),
vilanza (bilancia), lanza (lancea), unza (uncia). In Verbindung mit
1 + Vok. cl = liz: ohkzu, lizovu, logavi, kesa, kzaru, lanu, lavi, lugiri,
finokkzu, kizamari ete. Mundartlich wird è in Licata (vgl. et in Noto,
Modica); anu, caru, cesa, covu, cav, camar, speciu (speclujlu), macca (macla)
etc. In einigen gelehrten Wörtern bleibt cl: clamurusu,clamuri, clavicula, aber
lizossu; cli, clac zu 1: quali, spirali, juli, graditi, armiti, nie zu ye:
quayga, gradigga, vie z. B. in Palermo. §7. qu. a) Im Anlaut bleibt
qu in quattu, quaranta, quannu, quantu, quinnici. Vor o wird oft zu cu, cutilan
(quotidian). - Für corki neben quarki, corkidunu, auch cor- runu neben
quarkidunu, quarkunu, s. 1, § 1. Vor e, i bleibt qu nur in gelehrten
Wörtern: quarela, questura, questurinu, quistioni, querannari u. a. Das Volk
sagt aber oft: curela, custura, custioni. Auffallig ist quetu, volkstümlich.
QVID (ital. che) ist lie' geworden; cu muls, wie Schneegans gut bemerkt, auf
cui Dat. beruhen. Qu durch DISSIMILAZIONE zu è in cersu, úncu,
cinquanto. Inlautend bleibt qu in gelehrten Wörtern: ossequzu, ossequari,
equipaggu; wird aber zu y in cunsiyuiri (ital. conseguire), cunsiguenza (ital.
conseguenza), aguali (ital. eguale). Mit verdoppelter Tenuis findet es
sich in acqua (ital. acqua). “qv” zu “c” in “acula”, “aquila”, sicutari
(sequitari); niculizia (ital. liquirizia), cincu (cinque), cocu (coquus),
licori (liquore), anticu, sunca (dunqua) — vor e zu è in cociri, toriri. §8.. I. y +0,
0, U: a) im Anlaut bleibt ya, go, yu: gaddu, gaddina, gódiri, yustu, yula
etc. Nur im Satzinnern wird y manchmal zu h: ¿aju hustu, piccatu di la hula
be-sonders in Licata; jaddu, jaddina, justu (gustu); jabbari, jabbatre,
jabbillotu (von gabella), nur in den Mundarten von Sciacca und
Casteltermini. Häufig auch in Girgenti, wie in vielen anderen Mundarten der
Insel, findet sich die Prothese des y vor gutturalen Vokalen: gunu, juna (unu,
una), gómini (omini), gavutu, yavutizia (altu, altezza); in li gulivi (autivi),
li yuriklie, könte aber in letzterem Fall Aphärese des a sein, of. au zu ayu
verdehnt. In grapu, grapi, grapiri, graputu (von aperire) ist auch die
Metathesis des i zu bemerken. Inlautend wird y +«, o, u in GIRGENTI
gewöhnlich beibehalten: ruga, laya, fayu, magu, fragula, liya, ligaturi,
juyu, prigatoru, prigari (von preyare aus precare), rinneyu,rinnigate,
rinnigari, rigale, arrigulari, annegu, annigari, figura, figurine, figurari.
Seltene Fälle: allg. sieil. ist h aus g in litica (litigat), wie ital. lética;
in PORTO EMPEDOCLE findet sich pilaja (Erdstrich, Ufer) neben lzaga (plaga) und
in GIRGENTI gayanti neben gaganti (gigante). Ego (nach Schneegans) wird zuerst
zu eju, dann eu (wie z. B. in Ribera), dann, mit j-Prothese jec, und aus jeu
—jüu, wie Deu--Diu, meu, miu. In GIRGENTI findet sich nur in (ef. ital. io),
mit vanni, 50 und 25 Canti etc.) auslautend u mit a vertauscht. - Auf
älteres et führt garn „blafs", vgl. ital. giallo, wie denn auch im span.
portug. ein lautwidriges et vorausgesetzt wird; nur im fiz. jaune ist es
berechtigt. II. y te, i = ge, gi. a) Im Anlaut wird y to, i volkstümlich
zu j: jenniru (generu), jissu (gipsu), jimmu (gibbu), jinessa (genista); bleibt
ge, gi in gelehrten und fremden Wör- tern: genti, genu, goa,
gilatina, "gilatu, gebbia, giru, galle, gestu, gergu, ginia, gilusía,
gilusu, gelu, géniri, ginirali u.a. Auffällig ist agrig gunokly, gunoklya,
ayyunik-lizari, agyunilhzatu (also älteres *gunuclu durch Vokalharmonie) neben
dinokkzu (DISSIMILAZIONE bei Ähnlichkeit y - k zu d - li). Sporadisch zu
s in sincili (gingiva), cf. sard. sinzia. 8) Inlautend schwindet y te, i
und wird i zu j: majisi, majissu, majidda, pajísi, sajimi, sajitta, jitr
(digitu), projii, rigiri (regere), frigri (frigere); fujiri (fugere), fuj
(fugit), rigiddu (regillu), bleibt als de, gi in gelehrten Wörtern: priguni,
vir-gini, virginitá, virtiggini, riggissu, riggissari, greggi, leg-giri,
riggina, magissatu, furmagiu, tragie u. a. d) In Verbindung mit Kons. n +
g nach dem Ton = i: saiu (sangue); staña (stanga); linua (lingua); gana
Zahn; fanu (fango); loir (longu); zu ñ aber in añuni (angone); zu ni nur in
san- csuca (sanguisuga) - n+ ge, gi = ni: kjanciri (plangere);
ssincri (stringere); tinciri (tingere); finüri (fingere); nura (in-giuria);
ancilu (angelu); munciri (mungere); nicñu (ingeniu); funca (fungea). Nur in
Licata bleibt ng: mungiri, pungiri, punigusu, ligangiri, tiniiri u.s. w.g + n
verbindet sich zu ñ: puñu, mañu (magnu), reñu, sinu, añeddu, liñu, stañu,
cuñatu, piñu, diñu. Canusiri (ef. ital. conoscere) kommt von dem vulglat. *
conoscere, cf. Meyer-L. — ngi zu ni in sponia, nzunza (ital. spugna, sugna). -
ngl zu i in ciña, uña, ciñali, gelehrt (ital. cigna, ugna,
cignale). yin = mm: domma, enimma, frammentu, flemma, gelehrt. go
bleibt go: griddu, granatu, granula, grecu, gro (grue), gradu, gren, grivanza -
manchmal fällt y in gra: ranni, raufa, ravusu, rasta (grasta), radu,
ranatu. Im Inlaut, neben agru, mayru, allegru, findet sich agiru,
mayiru, alle- giru, s. § 18; ferner nigure, xaguru (nigru,
flagrore). gl. = t: lommaru (glomere); alannara (glande), abuttiri
(glutire); qualari, vilari, ssiari, ssia, - ylobu, ylora sind gelehrt, ebenso
giarza, ital. ghiaccio. j. Anlautend bleibt j: jencu (juvencu);
jiniparu (juniperu), jittari, jettitu, jittena (s. jecere), jugu, jocu,
ju-culanu, jucari, jucata, jovidi, jumenta, juntri, judici etc. - In
gelehrten entlehnten Wörtern wird j zu g: ga (jam), guvini (juvene); gustu,
gustizza (justu, justitia), gudixm, gu-dicari, gurari neben jurari,
volkstümlich. Für Gesú, Gesuziu, Guvanni, ital. Gesù, Giovanni. In den
Mundarten von Cian-ciana und Casteltermini (manchmal auch in GIRGENTI) findet
sich statt j: grugini Casteltermini (juvene), gustizia, gustu, garnu,
grattena, agruccu, agruccatu, agruccari (v. guccu) (vgl. frz. juc). - So
wird j - ge auch in den adverbialen Verbindungen, wie z. B. a gocu, a giettito,
a grunta, pi giunta u. s. w. Inlautend wird j volkstümlich auch als j
bewahrt: peju neben peigu (pejus) gelehit, majuri neben magguri (ital.
mag-giore); maju (maju), dijunu, dijunari. - Von dem golehiten et wird durch
Einflufs des n, zu è in 'niuga (ital. ingiuria).Dentale. Sowohl im Anlaut
als im Inlaut bleibt t gewöhnlich unverändert: tantu, tauru, tu, tortu, tila,
tempu, talari, tizzuni; - viti, vita, latu, cuntata, batia, putia, ba-tissa, legitimu,
ssata, siti, rota etc. Tonloses
t vor dem Tone =d nur in padedda, gridari, rudeddu, gradita (vgl. ital.
pa-della, gridare, budello, gradella); gelehrt ist grada, cf. ital. grada
(grata); tt bleibt tt: gatta, sajitta, batti (battit), gutta neben
yuccia, cf. ital. goccia (*guttea). - It gekürzt in t: matinu (ital. mattino).
ut statt it findet sich in mintiri, minti, mintutu (mittere) durch Einflufs des
Nasals des Anlauts. y) in Verbindung mit Kons. it bleibt rt: porta,
marteddu, morti, murtaru, mur-tidda etc. - wird zu rd in spirdi
(spiriti). ut=nt: lisantu, lianta, cente, frunti, munti, funti ete.
st = st (nie st): agustu, mustu, gustu, testa, castedu etc. ti=t: pati,
mati, vite, tovati, quattu, metu, uti etc. str = ss: ssata, assu, massu,
nossu, rossu, culossa ete.; bei den niedrigen Leuten findet sich manchmal
et statt $$: masu neben massu (maistru), noss (nostru), voss
(vostru), ásacu neben ássacu (astracu, ital. terrazzo). t=lil:
veklzu, silliza, niklia; in fist'lare (ital. fischiare) ist das l zu r
geworden: fiscrare und dann durch TRASPOSIZIONE o Metathesis friscari statt
fishzari. Mundartlich in Licata i =й: vei, sicia, nicca; cf. cl, pl=. t,
volkstümlich = iñ: peru, maxa, ssaari (ex-tractiare), palar, prezal,
accarizari. Suffix - antia = spiranza, luntananza, crianza, mancania a.sV
entia - crsa: prisenza, sensa, sintenza, simenza, cusenza, pruvidenza; -
itia = ira: duczza, cuntintizia, frankirza; - atium = azzU:
minurza, palazau; - itiun = irzu: timulizzu, capizzu u. s. w. (s. Schneegans).
- (angustiare), ef ital. angosciare. Rasuni, stasuni u. dgl. sind, wie
Schneegans gut bemerkt, eine Popularisierung der fremden Form mit et - doch
hört man sie sehr selten - Sir-vizu neben sirvizzu, prisenza neben prisenza,
stazioni neben stazzuni, oxzu, privinzioni sind alles gelehrte
Wörter. Unklar sind paien:a (patientia, ital. pazienza), wobei Schnee-gans
an eine volksetymologische Ableitung von paci denkt, und scorca (scortea), das
Avolio von écorce ableiten möchte. d: Im Anlaut bleibt gewöhnlich d: donu,
duru, deci, dormiri, dinari, durari, doti, dari, mit weichem Ausdruck im
Gegensatz zu decottu, dugana, duguneri, dannari, dumannu, s. II: Cons. -
Sporadisch d zu t in tusellu (span. dosel); zu s in sunca (dunqua); fällt in
attula (dactylus). f) inlautend wird d auch beibehalten: nidu, nudu,
gra-du, fidi, pedi, cuda, sehr weich ausgesprochen, aber nie in ? übergehend -
doch manchmal verstärkt es sich in t, bes. bei Proparoxytona: tispitu, stúpitu,
ácitu, vgl. ámitu. - D zu n, durch Dissimilation in lónara ([alaudula),
sporadisch zu / in ricala (vgl. ital. cicala, franz. cigale); schwindet in
'ncúnia (incudine). dd zu on in rénniri, vgl. ital. rendere. d) in
Verbindung mit Kons. dr = t in quatu, citu (ital. quadro, cedro). id bleibt id:
tardu, pirdutu, pérdiri, virdi u. s. w. Id = Il in calle (caldu),
calliari ('caldicare), falla, ful- larr, fallarinu (v. falda); callara,
callaruni (caldaja), nur bei den niedrigen Leuten. nd = nn: camila, funu, quann, bunnu,
cunfún-niri, mannari u. s. W. &) in Verbindung mit Hiat. i: de
volkstümlich = j: jorme (diurnu), seju (sedeo), viju (video), raja (sing. raju
sehr selten, radiu), criju, ligeju (cludeo); oji (hodie); caju, appoju,
appu-jari (v. podiu). - In gelehrten, entlehnten Wörtern bleibt dị: darule,
dialugu, dialette, mediu, rimedre u. a. Segga (sedia), Keine Umstellung
des d findet sich in mpatidiri, da es nicht von impallidiri, wie Meyer-L. (It.
Gram.) glaubt, sondern von patedde (Schalmuschel) kommt, das heisft,,restringersi,
per paura o per freddo, coma und patella."raggu, gurnali, gurnalista,
gurnaleri sind ital. Wörter, ebenso pranzu, manzu (mandium), roxzu, shixzu,
frizzu. - Auffällig ist orzu (ordeu) volkstümlich. In menzu, mazzornu, man-inó
(mezzo giorno) ist der Einflufs des Nasales des Anlautes zu finden. s. a) im
Anlaut bleibt s gewöhnlich: sali, sucu, siti, sonu, se (sex), soru, suitta,
sudari, simen:a, sava, surfaru, sampuña (sambagna), sirina ete. - wird zu et nur
in sorba (sorba), salbara (arab. sebbara). - Simia, neben siña, siroceu sind
ital. Lehnwörter. - Nur st, sp, sc, nie et () inlautend wird s auch beibehalten: risu,
fusu, casa, rasu, spusu, misi, cosa, rosa ete. Die Form riciñolu, Nach-tigall,
ist in Girgenti unbekannt, statt seiner findet sich vi-siñol, gelehrt (cf.
ital. rosignuolo). y) ss bleibt ss: russu, grossu, passaru, passu,
grassi, missa, passari etc. - Porau (possum) mufs, wie Schneegans bemerkt,
analogisch zu fazu sein. Vasu, grasa, nisun beruhen auf si. in Verbindung
mit Kons. sc vor oder nach Palatal-vokalen =$: camúsiri etc.. rs bleibt
rs: ursu, cursa, scarsu, pirsuna, pirsuasu etc. - wird zu rz in vurza
(bursa). ns = nz: pinzari, 'nzémmula (insimul), lunitu, 'nziñari, 'ncusu
(insursum), 'nzumma (in summa) etc. &) in Verbindung mit Hiat. i.
Schneegans hat kaum recht, nach meiner Meinung, zu sagen, dafs s + Hiat.
i = e (ital. g) wird. Diejenigen Beispiele, die er giebt, beweisen die
Thatsache nicht; denn occasionem, prehensionem, phasianus lauten nicht cacuni,
pricuni, facani, sondern prisuni, casuni, fasanu, alle drei sind aber aus dem
Ital., prigione, cagrone, fagiano, entlehnt und sehr wenig gebraucht. Camisia
lautet nicht camica (wie im Ital.), sondern cammisa; *asium (ital. agio) nicht
au, sondern asu. Also lautet von allen Beispielen bei Schneegans nur
caseus = cazu und dieses ist auch gelehrt (vgl. ital. cacio), da das Volk statt
seiner immer tumaxzu sagt.Welches ist nun die volkstümliche Entwickelung von s
+ Hiat i? Ich lasse es bei den Beispielen bewenden: cam-misa (camisia); vasu
(basiu); vasari (basiare); ginisi (cinisia); ¿irasa (cerasea); lizesa
(ecclesia); riversu (ital. rovescio); fasola fasoli (phaseolus) alle
volkstümlich; dann cau gelehrt, asu, rasune, fasam, prisuni Lehnworter)
im Anlaut wird n beibehalten: nodu, nasu, nudu, novu, niguru (nigru), nidu,
natali etc.; — schwindet gewöhnlich in nun (non): „un sacõu nenti, un ti ni
volu dari, un ti porzu ajutari, un et é bersu" u.s. W. - Zusatz eines n
findet sich in nesiri (exire), nguanta (ital. guanto), nita Geschwür, nxiru
(seria). - Für nomu, "nappa, "nocca siehe II. inlautend, bleibt
n auch fast immer: luna, gaddina, fini, lana, manu, pani, jina, fenu, bona,
finessa, minutu, finokkau. etc. - N-n, durch Dissimilation, in 1-n in vi-lenu,
cunfaluni; n-m zur -m in arma (anima), armali (animale) – DISSIMILAZIONE [cf.
H. P. GRICE, ‘soot’, ‘suit’ – DISTINCTIVE FEATURES]. 8) in Verbindung mit
Kons. n vor s schwindet, wie allg. rom. isula, misura, spusu, spusa, misi etc. d) nn
bleibt nn: annu, pinna, nannu, nanna, pannu etc. 8) nị =ñ: cuñu, suñu,
duñu, tiña, viñu. - In gelehrten Wörtern bleibt n: calunma, crimoma, querimonia
u. a. Auffällig ist ssamu, ssamari, ssamatu (von extraneu), volkstümlich. l. a)
im Anlaut: liu, loda, lumi, locu, liggi, lattuca, luntanu, littica etc. - l zu
g durch Dissimilation in gitu, golu (aber schon vulglat. jilium, jolium). - I
zu et in rimarra (limarra von limu), rusiñolu (cf. ital. rosignuolo). B)
inlautend bleibt l zwischen Vokalen: gula, pala, mula, pilu, gelu, cuturi,
pilucca etc. - Wechsel des / und et miteinander in palora (parola), grola
(gloria), ¿artiri (barile), acqua-loru (acquarolo), rogu aus lorogu (horologu).
- 1- 1 zu r-1 in fragelle (flagellu), caramedda (frz. chalemel). - I zu t in
úmitre (amylum), cf. ital. ámido. - 1-1 zun - 1 in canollia (aber schon
volkslat. conucla); Filmena (für Filumela).d) Il = dd [für die Aussprache s.
Diakr. Zeichen]: idda (illa), -beddu, -ada (bellu, -a), sedda (sella); midudda
(medulla); cipudda (cepulla), nuddu (nullu), griddu (grillu), cavaddu
(ca-ballu), foddi (folle), peddi (pelle), stidda (stella) etc. - In ge-lehrten,
italianisierenden Wörtern wird Il beibehalten: bell, bella, billia neben beddu,
bedda, biddixza, pullu, satollu, valli, aber vadduni, abbaddatu (ital. vallone,
arvallato), villa (villa), aber viddanu, sogar milli (mille); beim Volke findet
sich aber öfters mira (milia). Ferner balla (frz. balle) neben badda. (ital.
palla Kugel), fratellu Klosterbruder neben frateddu Vetter; coll Last neben
coddu Hals (s. Schneegans). U—1 zu un - 1, durch DISSIMILAZIONE, in pinnula
(ital. pillola). d) I vor Kons., im Silbenauslaut. I + Labialis zu r:
tarpa (talpa), purpa (pulpa), corpu (colpu), curpa (culpa), purpu (polpu),
sarpari (salpare), vurpi (vulpe); arba (alba), sarvaggu (silvaticu); sariza
(salvia), sarvari (salvare); surfaru (sulfaru), parmentu (palmentu), parma
(palma), ermu (elmo). In pru-vuli ist die TRANSPOSIZIONE o Metathesis des r
(aus / + Lab.) zu bemerken. l + Gutturalis zu r: arcova (ital. alcova);
surcu (sulcu); sapurcru (sepuleru); carcañu (calcaneu); 'ncarcari (incalcare);
barcuni (balcone); quarki, corki (qualisque, ital. qualche); curcari
(collocare) - cravaccari von cavarcari (cavalcare). 1+c= r in purci (pulce);
sarõu (salice); farci (falce). - l+ ¿ vocalisiert in caucu (ital. calcio);
quacina (aus caucina calcina). - I + et schwindet in puci neben purci, duci
(dulce), ducizza (dulcitia); - l+i = n in fanci (falce) bei den
Landbewohnern. l + Dental. 1. l + Dent. = v: artaru (altare); Marta
(Malta); Car- taggiruni (Caltagirone); surdatu (soldato); sordu (soldo);
ger-suminz (gelsomino); farsari (falsare); sarsa (salsa); nurtu (insultu);
garnu (afrz. jalne). Anmerkung. Wenn jemand aus dem Volke, der einen
Anstrich von Bildung hat, entweder durch Schulbesuch oder Dienstzeit, mit einem
aus höherem Stande spricht, wird er immer liardu (caldu), mortre (molto), artu
(altru), martempu (maltempo), farda (falda), sarsica (salsiecia), sarte
(saltu),sartari (saltart) u.s. w. sagen, in der Meinung italienisch, oder
wenigstens ein feines Sicil. zu sprechen. - Wirklich volkstümlich ist aber
artaru (altare), nie otaru, neben ataru; die anderen Wörter sind entlehnt und
fremd. 2.1 + Dent. vocalisiert: autu (altu), autu (altru), sau-tari
(saltare), sautu (saltu), fauda (falda), fausu (falsu), ceusa
(gelsu), meusa (milsa). - In diesem Fall ist die Einschiebung des o, 9 sehr
häufig: avutu, avutu, sagutu, cavudu, favusi, cevusu. In Cianciana findet sich
/ + Dent. in ¿ vokalisiert: fúida (falda), caidára (caldaja), cáidu (caldu),
caidiari (caldi-care), caidiatu caldic + atu) - nur bei den niedrigen Leuten
geht / + d in ll über, wie in falla, fallaru, fallaririnu, callu, calliári,
callara, callaruni. - Formen wie atz, atu, satu, satari, sasixxa, caxi
sind sicher contrahiert (ar = (), ebenso in pusu (pulsu), vuturu
(vulture), voxi (volsi), ascutari (auscultari), cuteddu (ital. coltello).
1. bei dem niedrigen Volke, besonders Landbewohnern, wird / + Dent. zu n: antu
(altu), antu (altru), santu (saltu), santari (saltare), fanzu (falsu), canzi
(calx), ascunta (auscul-tat), punsu (pulsu), sanzizza (salsiccia), monta
(volta), auch mota. / + Hiat. i. h = 7 in der ganzen Provinz, ausser
von Sciacca und Ribora: fitu, mitu, gitu, golu, mutúri, pita, tata, vota,
cun-rilu, famila, olu, melu u. s. w. ohne Ausnahme. r - a) im Anlaut findet
sich nur als scharf gerolltes alveolares y (v): re, renniri, ridiri, russu,
ris-tari, rasu, Roma, rosa u. s. w.; - ranni, varusu, rat-tari sind aus gr
entstanden. 8) inlautend, bleibt et gewühnlich als weiches
ungerolltes vaibberi (barbierc), feimmu (fermu) - nach Labialen schwindet
o in derselben Mundart: fevi (sicil. frevi), firaru (sicil. frivuru), pimu
(primu), pivari (privare). - Aus Dissimilation schwindet i aber in der ganzen
Provinz in crivu (vgl. kalab.neap. krivu). Zutritt eines &, fast immer bei
auslautendem t erfolgt in: anata (cf. ital. anatra), inhiossa, gelehrt, (ct.
ital. inchiostro), cilessi (ef. ital. vilestre), jinessa (genista) - nach
anlautendem t in tisolu (tesauru), tuniari, vgl. Diez Wtb. trono. - /-zur
- 1, durch Dissimilation in: arbulu (arbore), in- ruca, rasola (rasoriu).
Sporadisch et zu n in Gaspanu (Gaspar), fisini (viscere); r zu l in siloccu
neben siroccu. Metathesis der y in: prevula (pergula), sfrazzu (ital.
star. 20), ssanutu (stirnutu), scravalu (scarabeu), vrigoña (ital.
vergogna), friscari (fiserare), prevuli (purvure), tubbu (torbido), proji
(porrigere), prummettiri (ital. permettere), cravuni (carbone) - crapa (capra),
crastu (castru), frevi (febris), frivaru (februariu), graniu (cancru),
catteda (cathedra). - Dagegen stehen furmentu (frumentu), purpama (propagine), tirdinari
(tredenari). d) or bleibt er: ferru (ferru), terra (terra), carrettu
(v. carTu), cord (currit), turri (turre) u. s. w. 0) / + Hiat. i.
1? + Voc. =• + Voc: argu= arus. §1 - fera (feria), munaster (monasteriu),
cannilaru (*candelaria), syarra (*ex- variu), axxaro, jinnaru, fricara,
murtare, panare, nularu, rurdunaru, panaru u. s. w. In gelehrten
Wörtern bleibt : coru, sigritarn, mug- gisterzu, messaru, rifriggerne u.
a. — Auffallig ist virsérge (adversariu) volkstümlich.-Im letzten Augenblicke,
als ich eben diesen meinen ersten kleinen Versuch nicht ohne einiges Bangen in
die Welt hinausschicken und den Fachgenossen vorlegen wollte, langte in Bonn
eine neue Arbeit über die sicilianischen Mundarten an von meinem durch eine
Reihe sprachvergleichender Arbeiten hochverdienten Landsmann, Gregorio aus
Palermo, unter dem Titel, Appunti di fonetica siciliana, Palermo. Indem ich
dieses Zusammentreffen als einen besonders günstigen und glücklichen Umstand
betrachte und nicht wenig darauf stolz bin, dals meine süfse Muttersprache
Gegenstand einer solch vertieften und andauernden Forschung zu sein gewürdigt
ist, so habe ich noch andere Gründe, mich des Erscheinens dieses wichtigen
Buches zu freuen. Ich sehe nämlich, dafs wir nicht nur in fast allen Punkten,
wo wir uns mit unserem unmittelbaren Vorgänger, der vortrefflichen Arbeit von
Heinrich Schneegans, dieselbe stellenweise berich-tigend, beschäftigen,
jedesmal zusammentreflen, was sich durch unsere Kenntnis des Sicilianischen als
Muttersprache ohne weiteres erklärt, sondern obendrein wir uns beide in
demselben Gedanken begegnet sind, unsere Arbeiten Foerster) Die Hindernisse,
die das endliche Erscheinen des nach dieser Jahreszahl offenbar schon länger
als ein Vierteljahr fertiggedruckten Buches so lange verzögert haben, sind in
der Einleitung nicht angedeutet. Durch die Güto des Foerster konnte ich das
oben eingetroffene Wid-mungsexemplar sofort benutzen. - Meine Arbeit wurde bei
der hohen philosophischen Fakultät der Universität Bonn als Doktor-dissertation
eingereicht und angenommen. Die Korrektur des letzten Bogens erhielt ich in
Bonn zu widmen, der bereits vor acht Jahren die erste wissenschaftliche
Bearbeitung des Sicilianischen nach den in Deutschland allein erreichbaren
Schriftdenkmälern veranlalst hat in der Bonner Dissertation von Hüllen und
welcher der Untersuchung der Mundarten unserer beiden grofsen italienischen
Inseln seit Jahren liebevoll seine Kräfte widmet. Durch die bis jetzt
erschienenen Arbeiten steht die Laut-Ichre des heutigen Sicilianischen im
grofsen und ganzen fest und fertig da; allein bei der unendlichen Mannigtaltigkeit
der Lautentwickelung, die fast mit jedem Orte wechselt, ist es klar, dals ein
vollständiger Aufbau erst dann wird vorgenommen werden können, wenn eine
möglichst grofse Anzahl von Einzelnuntersuchungen über die lautlich irgend
wichtigeren Punkte unserer herrlichen Insel, und zwar möglichst von
Sicilianern, erschienen sein werden, wozu ich mit dieser Arbeit mein
bescheidenes Scherflein beizutragen gewagt habe. Auf eine
eingehendere Würdigung der Arbeit Gregorio's kann ich mich hier nicht
einlassen. Ich bemerke nur nebenhin, dals ich in einigen Punkten, wie Erklärung
des grevia von graivius - ai kann sicil. unter diesen Bedingungen nie e geben
-, der analogischen Erklärung des - oklin aus uculu durch Anlehnung an culu,
Ableitung von bruicetta von broccus - ich kenne nur burietta, das ja irgendwo
in brucetta umgestellt sein könnte, das aber von furca kommt und dem ital.
forchetta genau entspricht, während natürlich brocca zu broccus gehört -,
Anwendung des Zeichens ti statt des einfachen t für lat. ti (ich wenigstens
kenne es blols als einen einzigen Laut !, welcher bestimmt der stimmlose zu dem
stimmhaften da ist), die Annahme, dals lat. -ss- allein et geben könnte in
grasu u.s.f. - meiner Ansicht nach ist
stets ein folgendes i im Spiel, auch in casa, vgl. frz. causse, portug. caixa
-, die Ableitung des porzu von possum (statt von potio, die Auwendung des
Doppelzeichens ij statt des einfachen n, da man nach ñ nichts einem / ähnliches
hören kann, u.ä; nurin einem Punkte möchte ich, weil es meine Heimat betrifft,
wiedersprechen: Auf wird gesagt, dals in GIRGENTI sich manchmal die
Diphthongierung des et und des p findet, was aber nie der Fall ist.
Thatsächlich sind nämlich caétuóf-fuli, suoddi keine agrig. Wörter; statt ihrer
sagt man immer und nie anders als cacóciuli, sordu, sordi. Bonn. L. P.Luigi Pirandello. Pirandello. Keywords: e dov’è il
copione? è in noi, signore – il dramma è in noi -- siamo noi – R Chiede
d’entrare nei fasci, La Stampa, Gentile e Sorel, Mussolini e Nietzsche,
Mussolini e Sorel. – ridotto in siciliano. U ciclopu, decadentismo, identita
personale, l’io e la societa, il collettivo, l’intersoggetivo. Refs: Luigi
Speranza, “Grice e Pirandello” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Pirro: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale rovesciata nel’idealismo di
Gentile – la scuola di San Severo -- filosofia pugliese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (San Severo).
Filosofo italiano. San Severo, Foggia, Puglia. Studia a Roma sotto SPIRITO (si
veda). Studia ALLMAYER sotto PLEBE. Insegna a Perugia e Palermo. Studia GENTILE
(si veda). Pubblica “L'attualismo di GENTILE e la religione” (Sansoni, Firenze).
Fra i suoi saggi si ricordano anche “Filosofia e politica in CROCE” (Bulzoni,
Roma). Si interessa alla ricerca storio-grafica e svolse numerosi saggi su Terni.
Esponente di spicco della vita culturale della città umbra, studia gl’aspetti
poco indagati di quella che fino ad allora era una città ancorata ad una dimensione
prettamente industriale. Sotto la giunta di Ciaurro, co-ordina il progetto per
la realizzazione di un museo archeologico nel convento di S. Pietro sotto. Peroni. Nei
suoi studi di storia ricostrusce prima della pubblicazione de Il sangue dei
vinti di PANSA, episodi della guerra civile tra cui l'assassinio del sindacalista
CARLONI e del dirigente d'azienda CORRADI. Fonda il "Centro di studi
storici", un'associazione culturale di ricerca storica a cui viene collegata
la rivista “Memoria” L'obiettivo di “Memoria” è quello di porre fine all'amnesia
organizzata, facendo conoscere a tutti le vicende di una città figlia non solo
dell'industrializzazione. Accanto ad un nuovo sguardo per le vicende passate “Memoria”
inaugura una stagione di storiografia libera da condizionamenti ideologici e
basata sulle fonti. Suscita critiche per la ricostruzione d’alcuni
episodi di violenza avvenuti durante la resistenza anti-fascista, critiche di storici
locali, che lo accusano di revisionismo. In realtà il suo lavoro è sempre
suffragato dalla presenza della fonte documentale. Le vicende ricostruite, come
ad esempio quella dell'uccisione di CORRADI o URBANI, ad opera dei partigiani non
sono mai trattate dalla storio-grafia ufficiale. Consigliere dell'stituto per
la storia dell'Umbria e dell'stituto di cultura della storia dell'impresa
Momigliano, dell’istituto per la storia del risorgimento. Il saggio “Regnum hominis: l'umanesimo di GENTILE” fa parte
della collana della Fondazione SPIRITO e FELICE di Roma. Un saggio dedicato al risorgimento
pubblicato da Morphema intitolato “Risorgimento.” Un saggio "Dopo GENTILE dove
va la scuola italiana" (Firenze, Lettere). Il consiglio comunale di
Terni delibera di dedicare la sala Tacito di Palazzo Carrara in Terni a P.. Con
l'occasione si presenta il carteggio "La vita come Ricerca, la vita come
Arte, la vita come Amore", titolo riferito all’omonimo saggio di SPIRITO In
occasione delle celebrazioni della fondazione del Liceo Tacito di Terni, gli
viene dedicate nell'atrio della scuola, una targa con una dicitura tratta da
una poesia di Gibran. Altre saggi: "Italia e Germania", raccolta
di saggi da “Studi Politici". Pubblica una raccolta di memorie di scritti
di garibaldini intitolata "Corre l'anno” “Terni e l'affrancamento di Roma
nelle memorie dei garibaldini; il saggio "Filosofia e Politica e GENTILE"
(Aracne). Il comune di Terni delibera la posa di una targa in memoria presso la
dimora di P.. La soprintendenza archivistica
dell'Umbria e delle Marche dichiara il suo archivio di notevole interesse culturale
ai sensi del T.U. dei beni cultural. Viene scoperta sulla casa a Piazza Clai a
Terni una targa commemorativa. Viene pubblicato da Intermedia "L'unica
via è il Pensiero: scritti in memoria". Altre saggi: “Una missiva a SPIRITO”“Filosofia
e politica in GENTILE” (Firenze, Sansoni); “La riforma GENTILE e il Fascismo”, Giornale
critico della filosofia italiana” (Firenze, Sansoni); La politica dell’idealismo
italiano” (Firenze, Sansoni); “La prassi come educazione nella gentiliana
interpretazione di Marx” (Firenze, Sansoni); “Cultura e politica” (Firenze,
Sansoni); “Filosofia e politica: il problematicismo” (Roma, Bulzoni); “La
repubblica fascista”; “Per una storia dell'Umbria durante la repubblica
fascista” (Perugia, IRRSAE); “Terni nell'età rivoluzionaria e napoleonica,”Arrone,
Thyrus, Terni e la sua Provincia durante
la repubblica sociale” (Arrone, Thyrus); Ugolini, Petroni, dallo Stato
Pontificio all'Italia unita” (Scientifiche, Napoli); “Interamna Narthium materiali
per il museo archeologico di Terni” (Arrone, Thyrus); Le acque pubbliche gl’acquedotti
di derivazione e l’utilizzazioni idrauliche del territorio di Terni nei sommari
riguardi: tecnico, legislativo e storico” (Terni-Giada, ICSIM); Una scuola una
città: il liceo ginnasio di Terni” (Arrone, Thyrus); “Terni nel risorgimento” (Arrone,
Thyrus); “Sull'avvenire industriale di Terni, scritti di L. Campofregoso;
Perugia: CRACE/ICSIM, “Garibaldi visto da GENTILE” (Roma, Istituto per la
storia del Risorgimento Italiano); "Per Garibaldi" (Arrone, Thyrus);
“I giustizieri, La brigata GRAMSCI tra Umbria e Lazio, di Marcellini, Mursia,
Regnum hominis, L'Umanesimo di GENTILE” (Collana Scientifica Fondazione SPIRITO
e FELICE, Roma, Nuova Cultura); “Scritti sul Risorgimento” (Furiozzi), Terni,
Morphema); La vita come ricerca, la vita come arte, la vita come amore” (Terni,
Morphema); “Italia Germania” Saggi di Filosofia Politica, Amazon, Filosofia e
Politica in GENTILE” (Aracne, Roma); Carloni: Storia e Politica (Intermedia, Orvieto);
Manifesto del convegno su Petroni; Garibaldi Terni Mostra documentaria e
pubblicazione Istituto della storia del risorgimento Petroni, Dallo Stato
Pontificio all'Italia unita. Convegno di Studio Terni, La Rivoluzione Francese,
Terni, La nascita della Repubblica e gl’anni della ri-costruzione”; Biblio-media-teca,
Terni, 7ricerca storico documentaria; sezione della mostra in collaborazione
con archivio di stato di Terni e Biblioteca comunale di Terni; in
collaborazione con centro per la promozione, istituto per la storia dell'Umbria
contemporanea (Arrone, Thyrus); Intorno alle miniere di ferro e alle ferriere
dell'Umbria meridionale, scritti di Vaux et al.; Terni: CRACE/ICSIM; Passavanti,
Atti del Convegno di studi (Terni) (Arrone: Thyrus); Convegno dei lincei (Terni),
Cesi e i primi lincei in Umbria, atti del Convegno dei lincei: Terni” (Arrone: Thyrus);
dei lincei, “MAZZINI nella cultura italiana:”, atti del Convegno di studi,
Terni” (Arrone: Thyrus); Magalott, erudito, giureconsulto, docente di diritto” (Arrone:
Thyrus); “Per Garibaldi” (Arrone: Thyrus); Valentino patrono di Terni, atti del
Convegno di studi: Terni (Arrone: Thyrus); “La vita come arte” (Sansoni,
Firenze); “La vita come amore” (Sansoni Firenze); “La riforma della scuola” (Sansoni,
Firenze); “Il problema dell'unificazione del sapere”; “Dal mito alla scienza” (Sansoni,
Firenze); “La mia ricerca” (Sansoni, Firenze); “Dall'attualismo al problematicismo”
(Sansoni, Firenze); di GENTILE; Il
concetto di “pedagogia, in Scuola e Filosofia” (Sandron Palermo); “Giornale critico
della filosofia italiana” (Sansoni, Firenze); “La scuola laica” (Vallecchi, Firenze);
“Sistema di logica’ (Laterza, Bari); “La scuola” (Vallecchi, Firenze); “Che
cos'è il fascismo”; Discorsi e polemiche” (Vallecchi Firenze); “Saggi critici”
(Vallecchi, Firenze); Scritti pedagogici” (Treves, Milano); “Origini e dottrina
del fascismo” (Istituto Fascista, Roma); di Croce Contributo alla critica
di me stesso (Napoli); Conversazioni critiche (Laterza, Bari); “La letteratura
d’Italia” (Laterza, Bari); “Cultura e vita morale” (Laterza, Bari); “Etica e
politica” (Laterza, Bari); “Pagine sparse” (Laterza, Bari); “La guerra civile”;
“Memoria” (Thyrus, Arrone); “La storia rovesciata” – cf. PISONE – implicatura
rovesciata -- ; “L'umanesimo di GENTILE”
(Cultura, Roma); “L'uomo e la storia” (Thyrus, Arrone). Il percorso storico,
"Regnum hominis". L'ospite di passaggio, la difesa. Sull'avvenire
industriale di Terni; Rassegna storica del Risorgimento. La vita come ricerca,
la vita come arte, la vita come amore. Vincenzo
Pirro. Pirro. Keywords: l’idealismo di Gentile, Istituto Nazionale Fascista,
Origini e dottrina del fascismo, che cosa e il fascismo – discorsi e polemiche
vallecchi, Firenze, Mazzini, per una storia dell’umbria durante la repubblica
fascista, la repubblica fascista, gentiliana interretazione di Marx; la
filosofia di Gentile, filosofia e politica in Gentile, Gentile nella grande
guerra, il partito ha un capo che e dottrina vivente, Gentile e Mussolini, il
concetto di stato, il concreto di Mussolini nel astratto dello stato, Pirro
interprete di Gentile – la universita fascista di Bologna, la formazione dei
dirigenti del regime – la repubblica fascista, storia e filosofia, la critica
de Pirro alla damnatio memoriae di Croce, lo studio della filosofia nel
veintennio fascista, l’origine del fascismo filosofico – Gentile, filosofo del
fascismo – dizionario filosofico del fascismo, stato, spirito nazionale,
italianita, romanita, propaganda, democrazia, repubblica, Italia, stato italiano
-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Pirro” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Pirrone: la ragione conversazionale della diaspora, da Crotona a Meta-ponto
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited
by Giamblico.
Luigi Speranza --
Grice e Pisone: la ragione conversazionale del portico dell’orto – il gruppo di
gioco del Vesuvio -- Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Ricordato come seguace della filosofia del portico
un Pisone, che si è identificato con Lucio Calpurnio P. *FRUGI*, tribuno della
plebe, pretore e console della repubblica romana, combatte la rivolta degli
schiavi in Sicilia e la doma. P. ottenne la censura. P. lascia un’opera storica -- "Annales"
-- che si estende dalle origini. In essa, P. combatte le tendenze che si
introduceno in Roma e il ri-lassamento morale. Della gente Calpurnia. Politico,
militare e storico romano. Talora detto
Censorino – cf. P. Cesorino -- tribuno della plebe, si fa promotore della lex
Calpurnia de repetundis, la prima legge romana che vuole punire l’estorsioni
compiute nelle province dai governatori. Pretore. Dopodiché, eletto console con
PUBLIO MUZIO SCEVOLA (si veda) e gli fu comandato dal senato di restare in
Italia per domare una rivolta di schiavi. P. riusce a sconfiggerli, senza però
ottenere una vittoria definitiva e dove passare il comando a PUBLIO RUPILIO. Autore
di “Annales”, un'opera in almeno VII libri, che andava dalle origini e che sono
tra le fonti precipue di LIVIO (si veda) e Dionigi d'Alicarnasso. Gl’Annales --
di cui restano una quarantina di frammenti -- si propone di descrivere la
pretesa onestà dell'epoca antica, contrapponendola alla contemporanea
corruzione operante a Roma. Che si tratta però di un'opera a tesi pre-costituite
lo dimostra il fatto che, durante il suo consolato, avvenne l'assassinio di TIBERIO
GRACCO, e che, nonostante l'estrema gravità del crimine -- che tra l'altro
viola il sacro obbligo dell'incolumità personale che s'accompagnava alla
tribunicia potestas – P. e l'altro console non prendessero alcun provvedimento
in merito. Smith, Dictionary
of Greek and Roman Biography and Mythology, Boston: Little, Brown and Company. Cicerone,
Brutus; In Verrem, De officiis, Catalogo Perseo; Cornell-Bispham, The fragments
of roman historians, Oxford, Historicorum Romanorum reliquiae, Hermann Lipsiae,
in aedibus Teubneri; discussione su vita, opere e frammenti). Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia, Dizionario
di storia, PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute, Predecessore Console
romano Successore Gaio Fulvio Flacco e Publio Cornelio Scipione Emiliano II con
Publio Muzio Scevola Publio Popilio Lenate e Publio Rupilio V · D · M Storici
romani, Portale Antica Roma Portale
Biografie Categorie: Politici romani, Militari romani Storici romani Militari, Storici,
Consoli repubblicani romani Calpurnii. P. is the father-in-law of GIULIO CESARE and spends
years of his political life trying to prevent the civil war. He is a follower
of L’ORTO, under Filodemo’s tutelage. Filodemo lives in P.’s villa at
Herculaneum -- his library has been discovered there. Pisone – Roma – filosofia italiana
(Herculaneum). Pisone Cesonino. When he moves to Rome, Filone becomes friends
with Pisone Cesonino, who gives Filodemo a room at his villa at Herculaneum in which to live. At the villa, Filodemo co-ordinates P.’s ‘gruppo di
gioco’. Filodemo composes
poems and a history of philosophy. After he died, Filone’s parchments remain in
P.’s villa, where they were subsequently buried by the eruption of Vesuvio. With
the excavations, a number of parchments from the library are recovered. More remain buried. Lucio Calpurnio Pisone Cesonino. Lucio
Calpurnio Pisone Censorino. Lucio Calpurnio Pisone Frugi. Kewyords: Portico.
Luigi Speranza --
Grice e Pisone: la ragione conversazionale del DE FINIBVS o del lizio romano –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma) Del Lizio, con mescolanze del portico e
dell’accademia -- cioè eclettico -- trionfa della Spagna, ed e console. Detto eloquentissimo e
dottissimo, scrive V libri "DE FINIBVS" He is a friend of CICERONE,
although they eventually fall out. Cicerone uses him in his ‘On moral ends’ to
articulate the philosophy of the Portico. P.’s tutors had been Antioco and STEASEA
di Napoli. Marco Pupio Pisone Calpurniano. Marco
Pupio Pisone Frugi Calpurniano.
Luigi Speranza --
Grice e Pitea: la ragione conversazionale della filosofia ligure -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. He settles in Marseglia, and achieves fame as a philosopher.
Luigi Speranza --
Grice e Pitodoro: la ragione conversazionale della la setta di Velia -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil of Zenone – il Velino. Grice: “We know who
Parmenide’s lover – beloved – was: Zenone. And P. is Zenone’s. Cf. Grice,
“Aristotle – and the LIZIO – on the multiplicity of BEING.” IZZING.
Nella bimillenaria tradizione filosofica occidentale il termine essere ha
giocato un ruolo decisivo, e questo ha contribuito a rendere a poco a poco del
tutto incomprensibile il significato originario dei frammenti che ci restano
del poema di Parmenide di VELIA e suoi scolari, Zenone, e P.. Ho già notato che
la contrapposizione folkloristica di Parmenide di VELIA, guru dell'essere
e d’Eraclito, guru del divenire, è degna dei giochi televisivi a quiz, ed ha lo
statuto epistemologico della canzoncina della Vispa Teresa. Tuttavia, è
bene ricordare al lettore almeno alcuni significati principali assunti
dal termine essere nel pensiero occidentale dalle origini ad
oggi. Trascurando qui gli antichi Greci, il primo significato rilevante d’essere
è quello che lo identifica prima con l’uno dei neoplatonici e poi con il divino
monoteista. Si tratta di una vera e propria onto-teologia unificata, come dice
poi Heidegger. A questa onto-teologia unificata, mirabilmente
sistematizzata d’AQUINO (si veda) e dalla teologia domenicana medioevale
— che risacralizza così in forma razionale l’unità ontologica del macrocosmo
naturale e del microcosmo sociale —, reagì fortemente prima il nominalismo sia
laico (Abelardo) che religioso (Guglielmo di Occam), e poi il panteismo
rinascimentale (Bruno). Il periodo storico della costituzione formalistica
del soggetto, da Cartesio a Kant, è un periodo di declino storico della
onto-teologia, e questo non certo a caso, in quanto l’onto-teologia
consacra in quel periodo storico il dominio simbolico delle vecchie classi
signorili e tardo-feudali, e la borghesia nascente era interessata ad
infrangere razionalmente il nucleo metafisico di questa onto-teologia, e
cioè l’unità delle categorie dell'essere e delle categorie del pensiero.
Il grande filosofo Kant infranse questa unità ontologica, sostituendo la
nuova religione gnoseologica borghese alla vecchia religione onto-teo-logica
tardo-feudale e signorile, e si acquistò così la riconoscenza perenne di tutto
il nuovo clero universitario. La restaurazione della categoria d’essere
da parte di Hegel è basata sull’attribuzione all'essere di una genericità
assoluta, che si concretizza e si determina progressivamente mediante una
logica dialettica (Scienza della logica, ecc.). Per Marx e poi per Lukécs
il termine essere non può che significare l’insieme pensabile concettualmente
della totalità espressiva della società e della storia. L'uno-tutto non è
però più declinato in modo religioso e bimondano - come per Plotino ed i
neoplatonici - ma è costruito concettualmente con l'intreccio della permanenza
ontologica -- ciò che è, ed è eternamente -- e della determinatezza storica: il
proprio tempo appreso nel pensiero. È questo l’unico possibile ritorno a
Parmenide di VELIA, non certo la ripetizione ieratica e sapienzale (più
esattamente: pseudo-jeratica e pseudosapienziale) secondo cui è da pazzi (e
tutto il mondo moderno sarebbe pazzo, al di fuori di un professore
universitario in pensione di Brescia) ritenere che le cose possano mutare
nel tempo. Parmenide, di cui presuppongo qui l'appartenenza alla scuola di
CROTONE nella CALABRIA, già ampiamente attestata dalle fonti classiche,
pensa radicalmente un numero solo, il numero uno. Sostenendo la
cosiddetta sfericità dell'essere, non bisogna pensare che alluda ad una
sorta di palla splendente in cielo. Il termine sfairikòs significa
infatti congiuntamente sferico ed anche congiuntamente globale, totale e
“complessivo”. In greco moderno, duemila e cinquecento anni dopo Parmenide di
VELIA (la non conoscenza del greco moderno, custode semantico
incomparabile dei significati originari della filosofia classica, rappresenta
uno dei più pittoreschi elementi di ignoranza dei professori europei di
filosofia), il termine sfairikòs continua ad avere lo stesso doppio
significato semantico. Ssi dice, ad esempio, un'idea globale del problema
-- mia sfairikì andilipsi tou provlimatos. Non avrei fatto questa
deviazione semantica se non avessi voluto sottolineare il fatto che il termine
parmenideo di sfericità dell'essere non allude ad un gigantesco pallone
aerostatico in cielo, ma metaforicamente connota semanticamente e
concettualmente lo stesso oggetto teorico che Hegel e Marx (senza contare anche
Adorno, Marcuse e Lukacs) hanno più tardi connotato in termini di
totalità espressiva. Certo, sarebbe sbagliato attualizzare eccessivamente
questa analogia, perché da un lato Parmenide di VELIA non puo ancora
isolare l'essere sociale dall'essere naturale, ma li pensava in
strettissima unità ontologica -- questo isolamento, parzialmente anticipato dal
LIZIO, dovve aspettare l’illuminismo borghese per poter essere concettualizzato
e sviluppato -- e dall'altro non puo ovviamente ragionare sulla base
della distinzione kantiana e della successiva ridefinizione hegeliana di
intelletto – Verstand -- e di ragione -- Vernunft. È quindi chiaro che il
concetto di sfericità di Parmenide di VELIA ed il concetto di totalità in Hegel
e Marx non ricoprono esattamente lo stesso spazio teorico. E tuttavia,
pur non ricoprendolo, sono largamente comparabili, e questa comparabilità deve
essere messa alla base del ragionamento. Ma qual è l'esatta
natura storico-genetica ed ontologico-sociale del concetto parmenideo d’essere?
Di quale sfericità, cioè di quale totalità è il riflesso astrattizzato?
Ammetto che non possiamo saperlo con certezza. Non possiamo arrivarci con il
metodo deduttivo diretto, e neppure con il metodo induttivo indiretto. Dovremo
arrivarci con quello che Peirce chiama il metodo abduttivo, e cioè non il
metodo del LIZIO -- la deduzione -- o il metodo di Mill -- l’induzione --,
ma il metodo di Sherlock Holmes e di Hercule Poirot. Succede X, un fatto
straordinario ed inesplicabile. Se però Y è vero, X smette di essere
straordinario ed inesplicabile, e diventa invece razionalmente
spiegabile. L'essere di Parmenide di VELIA è un tipico esempio di
sfida all'abduzione. È infatti straordinario decidere di chiamare essere
la totalità sferica di tutto ciò che può essere pensato. È allora
plausibile che ci sia un sostrato sociale che fa da riferimento materiale a
questa concettualizzazione ideale. Si tratta di discutere spregiu- [L'Essere
di Parmenide come metafora della stabilità e della permanenza nel tempo della
buona legislazione] dicatamente tutte le ipotesi che ne possono essere date,
scartare le meno plausibili, ed accettare la più plausibile. Rethel,
che è stato uno dei grandi fondatori del metodo della deduzione sociale delle
categorie filosofiche (e che appunto per questa ragione è oggi trascurato
e dimenticato), cerca di dare una spiegazione materialistica della
categoria parmenidea di’essere. Rethel nota acutamente che il concetto d’essere
in Parmenide di VELIA è caratterizzato da una totale genericità indeterminata --
è infatti indeterminato come l’apeiron d’Anassimandro --, e si chiede allora
che cosa possa aver causato questa indeterminatezza astratta assoluta. Se
infatti io penso in modo astratto — sostiene Rethel — ci vorrà qualcosa
di astratto che faccia sì che io pensi astrattamente. E Rethel ritiene di
individuare la sorgente materiale e sociale di questa astrattezza nella
moneta coniata, moneta coniata originatasi prima in Lidia, poi passata
dalla Lidia alle isole greche di Chio e di Egina, e progressivamente diffusasi
in tutto lo spazio economico e culturale greco. La moneta implica il
passaggio dal baratto concreto allo scambio astratto, perché con una
moneta si possono comprare le cose più diverse, indipendentemente dai
materiali con cui sono costruite. Non c'è dubbio che la
moneta, insieme con la fusione dei metalli (e del ferro in particolare),
abbia giocato un ruolo decisivo nella costituzione materiale della
civiltà greca a VELIA, nella CAMPANIA d’ITALIA. La moneta è stata anche un
fattore primario per il sorgere dell’economia schiavistica antica, perché ha
permesso di comprare gli schiavi come si comprano tutte le altre merci, mentre
prima ci volevano guerre di conquista di tipo assiro-babilonese. E
tuttavia a mio avviso Rethel si sbaglia. E si sbaglia di grosso,
nonostante il fatto che almeno ci ha provato, e gli sciocchi che continuano a
proporre un concetto indefinibile, ieratico, sapienziale, sacerdotale e
falsamente profondo, come dice Hegel, d’essere non gli arrivano neppure
alle caviglie. Chi ci prova può sbagliare, ma chi non ci prova neppure
rest asempre a pestare sul suo quadratino di terra, come un tempo
facevano i soldati nel cortile delle caserme. Rethel sbaglia perché
proietta nel lontano passato della CAMPANIA dell’ITALIA – a VELIA --
l’importanza che la forma merce— e quindi il denaro come merce astratta
per eccellenza - ha assunto nell’Europa, importanza che ha determinato
prima l'economia politica di Smith e poi la critica dell'economia
politica di Marx. Per gl’anticihi, ed in particolare per i Greci del tempo di
Parmenide di VELIA, ciò che conta non era la forma astratta del valore di
scambio e della moneta coniata che ne era la portatrice astratta, ma era
proprio l'esatto contrario, e cioè la buona legislazione comunitaria che
ne permette la limitazione e la sua sottomissione al metron. Come si
vede, la realtà storica e concettuale è invertita rispetto a come se la
rappresenta Rethel. Il concetto generale ed astratto d’essere,
infatti, presumibilmente non deriva dalla proiezione della funzione
mercantile-astratta della moneta coniata, la cui introduzione nel mondo
greco equivale appunto (e qui Sohn-Rethel ha ragione) all’irruzione del
Nulla nel mondo dell'essere, ma proprio al contrario, e cioè dal concetto
di buona legislazione comunitaria, che essendo “buona” è pensata come non
migliorabile e non modificabile, e quindi eterna, stabile e permanente.
Parmenide allude certamente alla sua polis di VELIA, ed i suoi frammenti
descrivono proprio le cavalle che salgono sulla akropolis della sua città
per un sentiero erto e difficile. E sono queste cavalle concrete le
portatrici materiali del concetto astratto d’essere inteso come
proiezione metafisica della buona legislazione comunitaria, dotata per
ciò stesso di stabilità e di permanenza, e quindi d’eternità.
Riflettere su Parmenide di VELIA in modo ieratico-sapienziale,
destoricizzato, desocia- lizzato (e quindi privato di ogni chiave di
interpretazione semantica) e pomposo- giornalistico non serve a niente,
se non ad incrementare quella particolare forma di idiozia presente in
molti filosofi di professione fondata sull'idea che meno ci si fa capire,
più si è profondi. Se invece ci si accosta a Parmenide di VELIA in modo
storico-genetico ed ontologico-sociale, allora si guadagnano molti punti di
vista illumi- nanti, nuovi ed inediti. In primo luogo, che i filosofi
classici pensano in modo sferico, sulla base cioè dell'idea di totalità
espressiva, e questo modo sferico è esattamente quello che verrà poi
restaurato in forma storica da Hegel e da Marx. In secondo luogo, che la
permanenza e la stabilità eterna della buona legislazione comunitaria sta
alla base dell'idea sociale d’eternità della cultura occidentale. In
terzo luogo, che tutte le forme di sensismo e di empirismo non possono
giungere a questo tipo di comprensione, e nonostante si presentino come
più concrete sono paradossalmente molto più astratte della stessa idea d’essere,
perché questa idea allude alla cosa più concreta di tutte, e cioè
all'idea della coesione sociale e comunitaria, mentre l’empirismo
sacralizza invece concettualmente la dispersione caotica degli atomi
sociali individualizzati. In quarto luogo, infine, che il concetto d’uno
non ha bisogno necessariamente di un supporto teologico per essere
pensato (il Dio monoteistico), perché l’uno stesso è del tutto au-
tonomo ed autofondato in modo logico ed ontologico. Bisogna quindi
rispettare l'onto-teo-logia, ed io la rispetto mille volte di più
dell’empirismo e del sensismo, ma essa non può essere l’ultima parola di
una trattazione ontologica dell’essere. In quanto a Parmenide di VELIA
(ed affermo volutamente una cosa paradossale e provocatoria!) la sua
trattazione dell'essere socia- le del suo tempo è filosoficamente del
tutto omogenea alla trattazione che ne farà Lukécs (e sulla sua scia, ma
più modestamente, chi scrive) nel suo tempo. In entrambi i casi, l'essere
sociale è pensato in modo unitario con una categoria sferica. La differenza
ovviamente sta nel fatto che in Parmenide di VELIA non può esistere la
storia, intesa come concetto universalistico di tipo
trascendentale-riflessivo (concetto sorto nell’Europa sulla base di una
genesi ideologica borghese), e per questa ragione la buona legislazione
comunitaria, concepita in modo pitagorico, viene rappresentata nella
forma della stabilità, della permanenza e della eternità temporale. Oggi,
sulla scorta d’Eraclito, sappiamo invece che il polemos non si può
esorcizzare. Pitodoro. Keywords: VELIA, VELINO. Pitodoro.
Luigi Speranza -- Grice e Pizzi: la ragione
conversazionale e la regola conversazionale di Boezio – la causa della cosa – alla
memoria di Wrigley, del Trinity -- adduzione e prova – filosofia lombarda --
filosofia italiana -- Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “About time an Italian philosopher takes ‘la regola di Boezio’
seriously!” Studia a Milano. Grice:
“At Oxford, the Wykeham professorship of logic is hardly considered philosophy
– recall that in the middle ages, logic was part of the Faculty of Arts – hence
required study for lawyers, etc. – not necessarily philosophers. Oxford now has
the Sub-Faculty of PHILOSOPHY – and Logic is actually studied WITHOUT (not
WITHIN it) at the “institute of mathematical logic” on St. Giles. ‘He is a
logician” implicates, as mucas “he is a theologian” does – that he is NOT a
philosopher. I distinguish between logic and PHILOSOOPHICAL LOGIC. But a
philosophical logician is (via grammtical trasformation) a PHILOSOPHER who
philosophises on what people (non-philosophers) are doing at the Institute of
Logic at St. Giles! Studia il
condizionale contro-fattuale. Insegna a
Calabria e Siena, “Logica della prova” a Milano. Cura Hughes e Cresswell, ed
offre una panoramica completa e aggiornata della logica intensionale. Ampliando
questa linea di ricerca, compila due antologie con introduzioni. Una dedicata
al tempo e una dedicata al condizionale (se-ismo). Compone una serie di saggi
in cui viene introdotta una logica dell'implicazione consequenziale. Il scopo
della logica dell’implicazione con-sequenziale è riformulare le basi della
logica connessiva nel quadro della logica modale. Questa traduzione consente di
assiomatizzare un sistema G-HP che risulta complete e decidibile mediante
tableaux con un sviluppo verso una generalizzazione di questi risultati. Altri
temi di ricerca sono il problema della definizione a della reduzione della
necessita ai termini di contingenza, l'applicazione del quadrato
dell’opposizione e del cubo dell’opposizione al modo, l'approccio al modo in
termini di multi-imodo, cioè mediante l'impiego di un linguaggio base avente
come primitivi una moltitudine d’operatori modali – contro la tesi
dell’aequi-vocita di Grice. Nel campo della scienza il tema su cui filosofa in
modo preminente è stato quello del contro-fattuale della causa, a cui dedica
saggi destinati a un pubblico interessato all'epistemologia giudiziaria alla
Hart/Honoré– causation in the law. If you are looking for the cause of what he did, what
he did was very wrong – implicature! Sempre
in questo settore compone un saggio sull’adduzione, dove analizza un caso
giudiziario controverso, il disastro di Ustica. Sul tema di Ustica compone un
saggio che contiene una discussione metodologica delle indagini ancora aperte
sul caso, in merito alle quali cura attualmente un blog. Altre saggi:
“Introduzione alla logica modale” (Saggiatore, Milano); “La logica del tempo”
(Boringhieri, Torino); “Leggi di natura, modalita, ipotesi” (Feltrinelli,
Milano); “Eventi e cause: na prospettiva condizionalista” (Giuffre, Milano);
“Diritto, abduzione e prova” (Giuffre, Milano); “Ripensare Ustica,
Createspace); “Implicazione logica”;
“Causalità (filosofia) “Adduzione”; “Strage d’Ustica, claudio pizzi it.
wordpress.com. The kind of implicature – “implicazione conversazionale” --
known as connerive implication has been the focus of an original research
program. The main formal contributions in this area
are due to Robert Angel and Storrs McCall (8), but the basic idea of connexive
implication was clearly outlined by Everett Nelson in the Thirties (13). Nelson
was critical of the so-called law of simplification, viz. the principle that,
for every p and every 4, the conjunction of p with q implies each one of the
conjuncts. Clearly inferences of this form are valid when p and q are jointly
consistent. But what should we say when they are not, for instance when q is
just -p or when q is -(P→P), which states that p cannot imply itself'?
The idea of connection which Nelson was trying to capture is characterized by
the property that, if we have the truth of A - B (where "-" relation
of connexive implication) we cannot also have the truth of A 4 -B. If we accept
the logical principle A → B- -(A → -B) - which we shall name “LA REGOLA DI
BEOZIO” following Kielkopf?- along with unrestricted substitution, then this
leads to a rejection of Simplification in the form (p^q) → q. If we had, in
fact, (pAg) → g as a law of logic, we would have by Uniform Substitution both
(pAp) - p (asan instance of A → B) and also (pA-p) - -p (as an instance A →
-B), a result: which is incompatible with LA REGOLA DI BOEZIO, If we
assume that p → pis a valid formula, and there seems no reason not
to do so, and we accept it as an instance of A - B, then by applying Boethius
Rule we obtain what is known as Aristotle's Thesis: -(p - -p). Aristotle's
Thesis is the cornerstone of connexive implication, since it states a new
version of the Principle of Non-Contradiction. Indeed, in connexive logic p —
-p is the paradigm contradiction. If L is a symbol for an arbitrary
contradiction, then it follows from Aristotle's Thesis that L- p cannot be a
connexive thesis since p could be exactly L, that is, an arbitrary tautology
(Henceforth we will symbolize an arbitrary tautology by T). It is thus clear
that connexive logies are "non-Scotian" in the sense that in such
logics contradictions can imply only contradictions while tautologies are
implied only by tautologies. What is the correct formulation of Boethius'
Rule in the object language? In the first papers written by Angell and MeCall
we find the law : (p → q) - -(p → -g)-Angell's original system PAI (see (1])
was axiomatized as follows. (p→4)→(19→7→0p→7) (р→
-(gA)) - ((дЛр) → пг)) (р - q) → ((рАг) → (г Л)) (рА
(q Аг)) → (дА (рАг)) (р → q) → -(р → -q) -(pA-(p/p)) (p → q) - -(p→ 7g) (g→p)→(p→g пр - р Transformation Rules: RL. IfF SandPS → S' then I S' R2. If S and F S' then FS
NS' R3. If S and v is a propositional variable occurring in S, and S' is
obtained by Uniform Substitution of any t for u, t S' RA If S, and S' is
got by replacing any part, or all, of S by an erpression equivalent through
rules of abbremation, then 5' It should be noted that Modus Ponens is
formulated in terms of "—" and the same holds for R4, which amounts
to a Rule of Replacement for - -equivalents. Axiom 3 is a strong version
of the so-called Factor Law (Factor for short). If we define S and = as
usual in terms of A, - and V; we obtain the standard propositional
calculus PC as a sub-system. Notice that Axiom 5 is equivalent to (p → q) →
(pD 9). Thus, thanks to R1, any theorem of the form A - B also holds in
the weaker form A B. We then have at our disposal the derived rule A ++
B/A = B, but we do not have the converse rule, which would amount to
having as a rule Replacement of Proved Material Equivalents. This restriction
leads to some paradoxical results, for example that (pAp) cannot be replaced by
p since (pAp) - p is not a theorem of PAL (Note that we cannot derive this wff
by using (pAg) - q since the latter is not a theorem of connexive
logic).McCall's system CC1 (see (9]) turns out to be equivalent. to a system
obtained by extending PAI with the following axioms: p - (pAp) Ap) (pAp) - ((p- p) - (pAp)) ((p → q) → q) - g) (q Aq) - (р - р) pV
(((p→ p) → p) V ((gq) → p))) For a detailed criticism of PAI and CC1 the reader
is referred to (11]. These criti-cisins were accepted by Angell (see [2]), but
the attempt to overcome the difficulties pointed out by Montgomery and Routley
involves extending the formal language of connexive logic as it was initially
formulated, McCall's recent reformulation of connexive logic - named CFL in 9)
- also requires a reformulation of the language of the original formal system
since its formation rules prohibit wifs with iterated 2. Analytic and
synthetic consequential implication The logic of consequential
implication (see [15]) differs from the logic of connex-ive implication in a
number of respects, which can be outlined as follows: Firstly. The rule of
BOEZIO (that great Italian master!) is represented in the object language by (p
→ q) D -(p - -q) and not by (p → g) - -(p → -q). We will distinguish
these two wits by calling the first the Weak Boethius' Thesis (WBT) and
the second the Strong Boethius' Thesis (SBT). Secondly, Factor holds only
in the following weakened form: (WWE)→(T→ →PAT))→((p→9)3(p^r)→(qAr)).
Thirdly, a distinction is drawn between the logic of "analytical" and
"syntheti-cal" conditionals. The latter are conditionals whose truth
depends on a set of true statements which are contextually understood but not
explicitely stated. Counter-factual conditionals are paradigm examples of
context-dependent statements, and so they should be formalized as synthetical
consequential conditionals. However, intuitions concerning the logical
properties of synthetical conditionals are not clear. It appears that in
ordinary language such as Oxonian, or ITALIAN as spoken at BOLOGNA, we have a
whole family of different condition-als, whose logical properties we frequently
confuse. To clarify the situation we can state two minimal properties of the
so-called "circumstantial operator «**, which can be read as "ceteris
paribus" ("other things being equal") or "rebus sie
stantibus" ("things being thus and so")%. The minimal
requirements for the logic of this operator are axiomatized as fol-
lows: (i) (i) (*ート)3 (p→上). The most natural definition of a synthetical
conditional is A > B = D/ *A - B. But many other definitions are
possible which satisfy the properties required forconsequential implication.
The weakest connective of this family is defined as fol-lows: 1 > B =
D/ (T → (*A 5 В)) A (-(Т → -В) Л-(Т→ - * А)) 3. Translations between logics of
consequential implication and standard modal logics If we want to stress
the similarities between connexive implication and consequential implication,
we should note that they are both compatible with Nelson's informal treatment
of implication. Historically speaking they both have a com-mmon ancestor in
Chrysippus conception of conditionals and so may be called Chrysippean
conditionals'. If, however, we want to stress the differences,
apart from the analytical/synthetical distinction which is mirrored by
the proposed extension of the object language, the most important difference
between the two formal theories is just their attitude toward Factor.
Intuitions about Factor are not clearly related to Aristotle's Thesis and
Beethius' Rule and they should be subjected to a specific analysis. Indeed it
may be claimed that Factor is implausible in the light of the underlying
motivations for introducing the notion of connexivity. To see why consider the
following argument. Suppose that p→ q stands for "If Smith is a
bachelor is a male" pAr stands for "Smith is a bachelor and
married" gAr stands for "Smith is a male and is married".
Then p → q stands for a statement describing a necessary connection
and pAr stands for a contradiction, while q Ar stands for a contingent
statement. Since the conjunction of p and r in this particular example is
consistent, deriving r by application of Simplification is connexively sound.
So along with (p - q) D ((pA) → (gr)) (Factor), we have also (gAr) → r and so,
by transitivity of *-*", (p +q) → ((р\т) - r). So assuming the necessary statement p - q we
conclude that "Smith is bachelor and married" (pAr), connexively IMPLICATES
(via “implicazione conversazionale”) "Smith is married" (r). But this
result is connexively unsound, since the conjunction symbolized by pAr is
inconsistent while r is not. This argument could of course be questioned
since it relies on the presupposition that some instances of Simplification
should be accepted. Now it does seem plausible that at least the following
weakened version of simplification should be a theorem of connexive logic,
since it states that Simplification holds provided the antecedent is not
equivalent to a contradiction and the consequent is not equivalent to a
tautology: (WS) (-(IHPAS)AT(TAT))3(0Ar)-) In fact, this law can be
proved even in the weakest calculus of consequential implication in the class
of systems which will be introduced in the next section".It should be
pointed out that consequential implicature (“implicazione conversazionale”) has
different origins from connexive implication since it originated in modal logic
as a variant. of strict implication. Given that contradictions may imply and be
implied only by contra-dictions, and tautologies imply and are implied only by
tautologies, the key idea of consequential implication can be expressed by
saying that it connects two propositions A and B when we have: A strictly
implies B: 0(A B) (ii) A and B have the same modal status. The sense of
(ii) is that if A → B is to hold then A and B are both necessary, or both
impossible, or both possible, or both not-necessary. Summing up, a relation of
consequential implication holds between A and B when we have C(A > B) A(0A =
0В) A (0A = 0В) A (-DA = -OB) A (-0A = -OB), which is equivalent
to •(AD B) A (DA = OB) A (04 = 0B), a wif which in normal modal systems
equals the simple D(AS B) A (OBS DA) A (OB O QA). The equivalence between A → B
and the latter formula suggests that we look for a translation between the
languages of modal logie and consequential implication. At this point it
is useful to set out some results about the interrelations between modal
systems and systems of consequential implication. For sake of simplicity we
will confine ourselves to the analytical fragment of logics of consequential
implica- Let Lo be the set of wifs resulting from standard combinations
of propositional variables p, q.r, parentheses (.), the primitive functors {L,
5, ) and the standard definitions of -, A, v. 0. Let L. be a language
which is like Lo with the only difference that replaces Let us define two
mappings: @ from L.., to Lo and a from Lu to L., by the following
conditions: 1a, pip)=p 28.中( )=上 3a. o(AD B) =・A)コo(B) 1a. 0(4-B)=0((A) (B)^
(0(B)>0())^(0(B)0(A) 1b. 4(p) = p 2b. (上) 上 36.2(A3B)=4(4)つ(B)
4b. 0(0A)=T= 0(A) A normal system in L_ is a set X C L containing all the
truth-functional tautologies and the wiis derived from the following
axioms: (PC). All the theorems of the classical propositional calculus
PC (a) (p→q4→r))(pir) (b) (T → (рал -(Т → -р) Л -(Т → 9)) Р (р → q) (с) - (Т → - (рАг)) > ((р→ g) Р ((рАт) → (дЛг)) (d) (Jp→g)2(9→ (p → 1) D (1→p) (1→ p)D (p→L) p. - p The rules are Uniform Substitution (US), Modus
Ponens (MP) and Replacement of Proved Material Equivalents (Eq). We shall
call the smallest normal system of consequential implication CIw. If we add the
Weak Boethius Thesis (p - q) D -(p → -q) (WBT) to CIw then we obtain a system
which we shall call CI, and if we add (p → q) (pS q) we obtain another system
which we shall call CIO. Let us now consider the weakest normal system of
modal logic, i.e. the well known system K which is axiomatized by adding to the
standard propositional calculus PC K1. 0(p)q D (Op 3 0g) with
MP,US, Nec (F A → - DA) as the only rules of inference. We now define a
translation between the systems X C L. and between Y C Lo as follows:
We say that X translates Y when, for every A € L... we have A € X iff ф(A) € Y. We will say that (A) is the modal counterpart
of A. We say that Y translates X when, for every A € Lo, we have A € Y
iff 4(A) € X. 4(A) will be called the consequential counterpart of A.
Using these definitions we can prove the following metatheorems [19]): If Y translates X and X is normal in L.., then Y is
normal in Lo. If Fk 4 then Fciw #(A) If X translates Y and Y is normal in La then X is
normal in L... If FCiw A then Fk (A) For all A € L, Fciw A = 4(ó(A)) For all A € La, Fa A =ф(@(A)) K
translates CIw and CIw translates K If
X is normal in L., and Y is normal in L, then X translates Y iff Y translates
X. Suppose that X° C L.., Y" C Lo and X
is the smallest normal system L_, such that X" § X; Y is the smallest
normal system in Lo such that Y° CY; (a) € Y whenever a € X"; 4(a) € X
whenever a € Y. Then X and Y translate each other. The proposition states that
and induce a one-one embedding between the theses of any normal system of modal
logic and the theses of the system of consequential implication which
translates it. Hence we can show that there is a one-one translation between CI
= CIw + (p → q) D -(p→ -g) and K + Op 3 Op (ie. the deontic system KD) and also
a one-one translation between CIO = CIw + (p → 9) D(pOg) and K+Op 3 p,
i.e. KT. Since -(p → -p) is equivalent to (p→q) D-p→ ng), CI is the
weakest system containing Aristotle's Thesis®.These results about translations
provide us with a decision procedure for all extensions of CIw whose modal
translation is decidable. Tableaux methods which are appliable to normal modal
logics turn out to be practical methods to test the validity of consequential
wifs. A remarkable by-product of this modal translation is that it
provides us with a tool for analyzing typically connexive wifs, and for
studying the properties of systems which are intermediate between systems of
connexive implication and systems of consequential implication. An
example of the kind of investigation which can be carried out in this way
concerns what we labelled earlier the Strong Boethius' Thesis SBT (which is
axiom 8 of Angell's PAI). The first question to ask is, of course, whether SBT
is a theorem of the basic systems of consequential implicature – “implicazione
conversazionale” -- CIw, CI, and CI.O. This question was anwered
negatively. In fact, the system KT has the so-called double cancellation
property (DCP), which we can state as follows: (DCP) If X is a normal
modal system, -x CA = OB and -x 0A = B, then -x A = B. Let us
suppose that (p → q) - -(p- -g) is a theorem of CI.O; then, by Reductio, in KT
we should have @(p → q) 3 (-(p → -q)) as a theorem, hence also (T - p) = (-(T →
-p)), which we know to be impossible, since the latter wif is equivalent
to the non-theorem Op = Op. The Strong Boethius' Thesis SBT cannot then
be a theorem of any system at least as strong as CIO. Let us call e-normal
every normal modal system such that the "erasure transformation"
yields valid PC-wffs (see [4], P. 23). Then, since Op Op is consistent
with every e- normal modal system, SBT is also consistent with any
consequential system which translates an e-normal modal system. The next
question is: since SBT is consistent with CIw, which is the modal system translating
CIw + SBT? The answer is as follows. Let us call the required system CIw- and
let us call the smallest fragment of La which contains the following Kdf:
(1D) OT (2F) 00p 3 00p The semantic properties of Kdf are obtained
by standard correspondence theory and can be described as follows:
Quasi-seriality: Wwva(wRy 3y aRy) ofunctionality Vutzty (wRy
AaRya(ヨr(wRがへ♥ぱRつ2=3))The latter wif is equivalent to the simpler VwVrVy(wRy
AzRy AaRa 52 =By an application of the Henkin technique for completeness
proofs, we obtain the following completeness result: THEOREM. A is a
theorem if and only A holds at all the frames which are quasi-serial and
O-functional. This characterization result allows us to find a
quasi-serial and (Q-functional frame which refutes the converse of SBT. We have
thus: THEOREM. -(p → ~g) → (pq) is not a CIw→ theorem. This result
is not a trivial one, since in the light of the application of (DCP) we have,
for system CI.O. (a) Fcio A - Biff Icio B = A from which it follows
by replacement of material equivalents that (b) Fcto A → Biff Icio B →
A. We thus have the rather unwelcome result that if SBT were added to
CI.O the system would contain its converse as well, and also the equivalence +
(A → B) - -(A → -B). Even if not strictly trivial, Ciw→ has
properties which throw a negative light on the Strong Boethius Thesis. For
example, it can be proved that the Denecessitation Rule (- DA → A) is
admissible in any modal system X iff Modus Ponens for + (If Fcro A → B and Fcio,
Fcro B) is an admissible rule of its consequentialist translation. Now in
Kdf we have a proof of the wff (Op = p), while (Op = p) is refuted (see
(18)). This proves that Kdf does not admit denecessitation, and hence
that CIw- does not admit Modus Ponens for →. But it can be proved that every
extension of CIw- which admits Modus Ponens for -, (such as CI.O) contains the
undesirable equivalences (p → q) = (g - p) and (p → q) = -(p → -q).
Having Modus Ponens for "—" means the possibility of
interpreting "—" as an implication connective, but this
destroys the very possibility of entertaining non-trivially the Strong Boethius
Thesis. It can also be proved that adding the characteristic axiom of CI.O,
namely (p → q) D (p D4), to CIw-, yields the equivalence p = (T = p),
whose modal counterpart is the collapse - formula P= Op). 5. Factor
and consequential implication - Let us now consider the formula which
distinguishes connexive logic from consequential logic, namely Factor. In
systems of connexive logic we find two variants of this law, which we we will
call "Strong Factor" (SF) and "Weak Factor" (WF).
(SP) (p → q) → ((р^т) → (gAr)) (For the latter see, for instance,
(9]). An equivalential variant of WE may also be found in the literature,
viz. which is of course equivalent to (p - q) ((pAr) - (g))(see for
instance (2]). WFEq is unproblematic, since it can be shown that it is a
theorem of even the minimal system CIw. Since K is the modal translation of
CIw, it may be proved that the following wils are K-valid (where "_"
is the symbol for strict equivalence).((pニタコロ((p/r)→(9^z)) (E)((ニタ)^(ロp=D4))2(0(g^7)2口(pAr)) (m)((#=4)^(0p^04)) 2(0(g^r)3Q(p/r)) Thus by applying the so-called Theorema
Praeclarum ((PS q)A(r 5 s)) 5 ((PAr) D (gAs)) it turns out that (p → q) 5Ф(рЛг) - (gAr)) is K-valid, and hence that (p +q) 3((рлг) → (gA)) is a CI-theorem. The problem of derivability
then concerns the two wffs SF and WF The first result to be noticed is
that SF is inconsistent with any system of consequential implication which
contains the Weak Boethius Thesis or, which amounts to the same thing, Aristotle's
Thesis. If SF were a theorem of CI, in fact, we would have the following
proof: (р - -р) - ((рЛ-р) - (-рЛ тр)) (р- -р) - ((рАтр) - -р) 3) (p→ Jp) =1 1-
((рА-р) → тр) 1→
(p - T) SF(-P/g) 1), PC + -(p--p) = T, Eq , 2), Eq ,
Az. (d) The modal counterpart of line 5) is the wif -OOp, which is inconsistent
with every normal system containing OT, namely with the modal counterpart of
Aristotle Thesis. In fact an instance of it is -QOT, while in KD from T we
have However, it is to be noted that WF is consistent with every
extension of CIw translating some e-normal system. This can be easily proved by
replacing every occurrence of "—" with "=" in the axioms
and checking that the resulting wifs are PC-valid and (ii) the rules preserve
the PC-validity of the transformed wffs. If we now apply the
transformation to WF we obtain (P=q) > ((pAr) = (gA)). which is a
PC-thesis. Thus, by a standard argument, we can prove that WE is
consistent with CIw and with every extension of CIw whose axioms have
PC-valid The problem with WF is indeed not inconsisteney but the fact
that adding WF to Cl yields counterintuitive results, which may be compared to
the result of adding Strong Boethius Thesis to system admitting
Denecessitation. It is remarkable, in fact, that by adding WE to CI we lose the
asymmetry of the arrow, since we may prove the equivalence between (p → q) and
(q p). This may be seen looking at the following proof, in which A and A are
introduced by the two definitions: (Def) 0A =DJ -(T→-A).Thanks to such
definitions (one of which is of course redundant) and to the mentioned
embedding results, we know that every theorem of K belongs to CI + DefO.It is
useful to recall that in CI + DefO (we have the equivalence (→)(口(pコg)^(コ(p) ^ (0g 3ロp)) =n→q We may
then exhibit the following proof: 1) (p→9)3((pAr)→(9^r))
(р → q) 3 ((р\-р) → (gA-р)) (р → q) D (1→ (g-р)) WF , тр/г ,
1= (р.Л-р) ,
(d), (e), (f) (→) ,
5), Defu K 7), (-) 6), 8). 6)(p→g)コロ(p=q) 7)ロ(p=4つ((ロp3ロ/)^(Op3^4) ^ロ(92p))
8) 0(p=q) > (9-p) 9) (p→9) 3(91p) A simple consequence of 9) is the theorem
(1)(p→g)=(g→p) which asserts the equivalence between → and
-. On the other hand, suppose we add (S) (p - g) 3 (g -p) as
an axiom to CI, so to obtain a system CI+S. Obviously we have (-) as a theorem
of CI+S. But since we already know that (p - q) > ((pAr) → (qA)) is a
theorem of CI, we have by replacement (p → 4) - ((р\г) - (gA)), i.e. WF, as a theorem of CI+S. So, if X is
any system containing CI, CIW is equivalent to CI+S. Factor and a
non-contrapositive variant of consequential implication An interesting
property of systems of consequential implications is that by introducing the
definitions of the modal operators in terms of the arrow we may define
different arrow-operators which are variants of the standard arrow operator
which have the minimal properties originally required for connexive
implication. For example, we may define a new arrow in terms of O as
follows (→)4→B=Dロ(43B)^(QB3>4)
and also define a second couple of modal operators as (ロロ4=D/T=4 (ペ)4=Dr→ロ4、 Of course we have that A - B imples A → B but
not vice-versa, while it is straightforward to prove that D°A is equivalent to
CA and 0°A is equivalent to •A' The logie of = can be proved to be
slightly different from the one of →, even if it is clearly a logic of a
connective endowed with the properties of consequential implication. Among its
theorems we have in fact (WB→)(p=9) 3ー(p= -9)(AT →)
-(p→ p) (1→)((p34)^(p) コ(p=g)
(2=)(1=4=(4→1) We lose Contraposition for → in its standard
form but we have the advantage that Simplification holds in the manageable
variant (S →0(pAq) D((pAq) → q). It may be proved (but we will not
do so now) that the fragment of CI containing only truth-functional wffs, and
→-wfis can be axiomatized in a system which we will name CI→, and that the
truth-functional and →-fragment of CIO, CI.O=, is definitionally equivalent to
CI.O itself*. What we want to do now is to extend CI not with WF but with
its →-variant which is (WF →)(p → q) 3 ((рАг) → (9Л г)). Since (Og A Op) implies (gAr) @(pAr), a
straightforward result of this new axiomatization is that (3 →) ((р » q) A(0q> D)) О ((рАт) → (дЛг)) ЛО(дАт) рО(рЛг)) is a theorem (by Theorema Praeclarum). But
since (3 →) is indeed equivalent to (WF) thanks to (-), we have that every
theorem of CI+WF is also a theorem of CI+WF=. What we may now prove is
that there is a one-one embedding between CI= +WF and a modal system which in
the literature is known as KD!, where KD! is KD +045 DA. An established result
concerning KD! is that KD! is characterized by the class of the frames
whose accessibility relation is both functional: Vryz(rRy AaRz Sy = 2)
and serial: VaZycRy. Now we can prove the following two theorems:
MTI: If -KD: A then Fci»+ WE WA MT2: If -cI»+WP A then F-KD: ' A MT1 The
proof is by induction on the length of the proofs. We already know that the
consequential counterparts of axioms of KD are theorems of CI→+WF and that the
rules of KD preserve such a property. What we have to add to what is already
known is the proof that Op D Opie.-(T → -p) (T → p) is a theorem of CI+WF→. The
proof is as follows: 1) (p→4)3((p^r)→(g^r)) (p
→ 4) Р ((рА тр) → (g Л -р)) (р → q) D (1→ (фЛ -р)) (p→q)
00(93 p)) 5) 0(pハリ→う(T→(9つ(P^q)) 6) 0(pAg) → (pAq) →9)) 7) 0((p^4)つ(T→(92p^g)))WF, пр/т ,
1= (pA-p) 3.Dejo' 4)p Ag/p (S →) 6), 5)0p 2 0p 7)T/9,DefD%,F
D°p=Op MT2 (Sketch of the proof) We simply have to show that the modal
counterparts of the axioms of CI+ WF→ are valid in all serial and functional
frames, that is in all serial and functional models. We already know that the
modal counterpart of the axioms of CI hold in all serial models, so a fortiori
in all serial and functional models. We have simply to show that the modal
counterpart of WF→ is valid in every serial and functional model. This
fact is established by the following closed tableaux, where the first world w
sees one and only one world w10, w' The above wif is then KD!-
valid and, by the completeness of KD!, a KD!-theorem. Thus, since the wff
D(p 5 q) 5 0((pAr) 5 (gAr)) is a theorem of all normal systems of modal
logic, (Op 3g)^(ogコ 0p)) 3 (口((pAr) コ(gAr))^(>gAr)コ•(pAr)) is a KD! theorem. But this formula is the modal
counterpart of WF→. This completes the proof of the definitional
equivalence of the two systems. The partial collapse of modal
distinctions which occurrs in KD! is mirrored by a counterintuitive theorem of
CI+WF→: as we can easily check by using the KD!-tableaux, a theorem of CI+ WF →
is the converse of Boethius Thesis, namely (CB) -(p→ ng) > (p → q)
which can be proved also in a -version. The preceding negative result
about weak and strong Factor Law casts a shadow over all systems of
consequential implication containing WE. The analytic fragment of the system
named CA*1 in [14) contains WF and, being closed under the replacement of
material equivalents, it can be proved to contain also the undesirable
equivalence (p → q) = (q → p). This system then has an interest only as a
limit case of a connexive-consequential system. Another example is given
by McCall's system CFL, whose language does not allow the iteration of arrows,
CFL is axiomatized as follows: 1.(p-42((*→p)2(→g2(p34)つ(19コt)2(par)) 3. (p→9)コ((pAr)→(rAg))
(pA(g^r))→((p^q) ^r)) (pA-p)
- (qA-q) p - (pAp) (рАр) - р 9, -p → P ((p/9)→(P^→P)^(pV→4)) 3(p→g)) (р - 9) 3 -(р- -q) (9
→ -p) 5 (p--g) pコ(p→ (pap)(p → (pp)) Рр The only primitive rules are Uniform Substitution and
MP for 3. In CFL p → (pOp) is assigned the meaning of "p is
true" (not [p is necessary]) and p - q turns out to be equivalent to (T →
(p q)) A (q p). In Meyer showed that if
we define the arrow in this way: (*)A → B =Dj (A - 3B) ^ (A = B)
then the first degree fragment of the systems S1-S5 is exactly CFL. The result
is unwelcome, since the arrow seems to identify a particular subclass of
material equivalences. On this subject, note also that we have (A - B) > (B
5 A) and ((A - B) A B) D A. So, if we want to interpret "—" as
an implicature connective (“implicazione conversazionale”), we have to face
something which recalls the fallacia consequentis. McCall sees two
possible ways to solve this problem: dropping the restriction to first degree
wils, or introducing axioms which are not equivalential. It is worth
noticing that the minimal system of consequential implication CIw satisfies
both McCall's conditions. Its formation rules are here unrestricted, while
axiom (f), ie. (L-p) > (p -L), is a simple example of a wff which does not
admit Meyer's interpretation: the wff ((1 -3p) Ap =1) 3 ((p- 3 1) Ap al) is in
fact underivable even in S5, so that (f) is not a theorem of CFL. However, a
more direct move would be to remove the factor law WE and replace it with some
of its weakened variants. If we introduce this modification it is no
longer true that the resulting system is coincident with the first degree
fragment of S1-S5. Note that (p - q) D ((pAr) - q) is neither a law of
connexive logics, nor of the logics of consequential implicature (“implicazione
conversazionale”). If it were, by substituting p for q we would have (pAr) - p,
which is not a theorem of consequential implication logics. If we call (p → q)
> (pAr) - q) the principle of monotonicity, we can then say that → symbolises
a particular kind of monotonic implicature (“implicazione conversazionale”). Add
that also Weak Factor may justifiably be said to express a monotonicity
principle of implicature. Thus the representation of the arrow as a symbol for
aparticular kind of non-monotonic implication receives a support from the fact
that we have to exclude Factor Law from logics of consequential implications
and to work only with suitable modifications of it. ANGELL, A propositional logic
with subjunctive, not indicative, conditionals, Journal of Symbolie
Logic. ANGELL, R.B. Tre logiche dei condizionali congiuntivi in Pizzi,
cur. Leggi di Natura, Modalità, Ipotesi,
Feltrinelli, Milano; AQVIST, L. Modal Logic with Subjunctive Conditionals and
Dispositional Properties, Journal of Philosophical Logic, CHELLAS, Modal Logic,
Cambridge KIELKOPE, C. Formal Sentential Entailment, Univ, Press of America,
Washington, LEWIS, Counterfactuals. Oxford, Blackwell, LOWE, If 4 and B then A, Analysis, McCALL, S.
Connexive Implicature and the Syllogism, Mind. MeCALL, S. Connexive
implicature in Anderson and Belnap, Entailment. The logic of relevance and
Necessity, Princeton U.P., MEYER, R.K. The Poorman's Connexivo Implicature,
Relevant Logic Newsletter, MONTGOMERY, H. e ROUTLEY, On systems Containing
Aristotle's Thesis, Journal of Symbolic Logic, VINCENTIS, Implicature del
Portico and Stoic Modalities, in Corsi, Mangione, MUGNAI (si veda),Le teorie
delle modaliti, Bologns, CLUBB, NELSON, Intensional Relations, Mind, P., BOEZIO’s Thesis and conditional logic, Journal of
Philosophical Logic, P., Decision Procedures for Logics of Consequential
Implication, Notre Dame Journal of Formal Logic, P. Varieties of Non-Monotonie
Conditionals, in Carsetti, Mondadori, Sandri, Semantica, complessitá e linguaggio
naturale, CLUEB, Bologna, P., Weak vs. Strong, BOEZIO Thesis: a Problem in the
analysis of Consequential Implication, in A. Ursini and P. Agliano, Logi and
Algebra, Dekker P., C. Implicazione, implicatura crisippen
e dipendenza contestuale, Diancia, P. e WILLIAMSON,
Strong Boethius' Thesis and Consequential Implication, Journal of Philosophical
Logic, THOMPSON, Why is conjunctive simplification invalid?, Notre Dame journal
of Formal Logic, BENTHEM, Essays in Logical Semantica, Reidel, Dordrecht. WILLIAMSON
Verification, Falsification and Cancellation in KT, Notre Dame Journal of
Formal Logic. Claudio Pizzi. Pizzi. Keywords: la regola
di Boezio, la tragedia d’Ustica, il se, condizionale contro-fattico, Grice, il
modo, operatore di modo, cubo di Aristotele, il cubo dell’opposizione,
opposizione quadratica, opposizione cubica, prova, causa, probabilita, l’idea
di causa, ‘Actions and Events’ – causa ed aitia – il significato di causa in
Cicerone – di causa a cosa – causa come latinismo – uso di cosa come causa –
evoluzione della cosa dalla causa – della causa della cosa – implicazione,
interplicazione, explicazione, interplicazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Pizzi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza -- Grice e Pizzorno: la ragione
conversazionale -- J. Grice è la politica assoluta – filosofia del sindacato,
filosofia fascista – filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Trieste, Friuli,
Venezia Giulia. Studia a Torino. Insegna ad Urbino, Milano e Fiesole. Oltre agl’importanti
studi sulla materia sociologica conduce ricerche di sociologia economica e
politica, in special modo sulle organizzazioni sindacali e il conflitti di
classi sociali, sulla politica e i suoi aspetti, sui rapporti tra sistemi
politici ed economici nella società. Saggi: “Le V classi sociali” (Il Mulino);
“Comunità e razionalizzazione” (Einaudi); “Lotte operaie e sindacato”, “Le
regole del pluralismo”; “I soggetti del pluralismo”; “Classi, partiti,
sindacati (Bologna); “Le radici della politica assoluta” (Feltrinelli): “Il
potere dei giudici” ("Il nocciolo", Laterza); “Il velo della
diversità: studi su razionalità e ri-conoscimento (Feltrinelli); “Sulla maschera”
(Il Mulino). Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia. Grice: “The reason why Pizzorno – bless his soul – does not
criticise fascism, is that he possibly finds his theory of ‘communitarianism,
razionalization and community, and the appeal to Tonnies’s community, almost
too fascist to be true! – it’s the ‘bund’ – and other fascist conceptions against
which i sindacati had to fight during the ventennio fascista!”. Grice: “The
pity with P. is that he focuses on sindacati as from 1968, when he was getting
drunk in Paris! He should have studied the sindicati during the veintennio
fascista!” -- Grice: “I am pleased that P. quotes me. He apparently says that
he is not into ‘conversation’ in the *sense* (senso) of Grice. Footnote there.
When the index was compiled, P., who is at Oxford at the time and could have
asked (or axed), had no idea what my Christian name was, so he follows
Speranza’s advice: ‘when you do not know the first name or Christian name use
‘John’’ – so he did. (The corollary to Speranza’s corollary is: when you don’t
know the surname, use ‘Smith’). So
Grice, J. I became in his name index!”. Avrei dovuto annotarmi il giorno
esatto, in fondo cambio la mia vita (se mai si può dire che ci sono giorni che
cambiano la vita di una persona), ricordo solo che era l'estate del 1953, e che
era la prima volta in assoluto che andavo a un colloquio di assunzione.
Probabilmente ero intimidito, ma non poi moltissimo, anzi, piuttosto
distaccato, perché quello che mi stava accadendo, o meglio, che si disegnava
come un'assai evanescente possibilità che accadesse, apparteneva a un mondo
cosi diverso da quello cui le mie vicende avevano appartenuto fino ad allora,
che il suo realizzarsi o meno non solo lo tenevo per incommensurabile con i
riferimenti di cui disponevo, ma non arrivava a suscitarmi nessuna precisa
emozione. La stagione parigina per il momento era inevitabilmente da chiudere.
Non avevo più lavoro fisso (da un anno non ero più lettore d'italiano ai licei
Louis Le Grand e Henry IV, e ci stavamo mantenendo, mia moglie Anne e io, con
il suo stipendio di giovane ingegnere in un laboratorio di disegno acronautico
e con miei incarichi saltuari e lezioni private). Concluso tra un anno il mio
diploma a Hautes Études, cosa avrei poi fatto? Mi avevano offerto un incarico
di Histoire et ciilisation italienne all'Università di Algeri. Non avevo detto
di no ed ero pronto ad accettarlo, un vagabondaggio dispersivo in più,
dopotutto, come lo erano stati gli anni di Vienna e di Parigi, ma questa volta
assai più per ripiego che per entusiasmo o curiosità; e speravo che mi
capitassero altre occasioni. Non erano quelli anni in cui le «occasioni» ti
capitavano addosso mentre camminavi per la strada, ma una me ne capito.
Il colloquio me lo aveva procurato un'amica dei tempi dell'università. Olivetti
sta cercando giovani laureati, mi scrisse, per aiutarlo a mettere in piedi
un'organizzazione culturale. Quando vieni a Torino ti vedrebbe
volentieri. Mi trovai così dall'altra parte di un tavolo al quale era
seduto Adriano Olivetti, che mi guardava, in quel modo che poi capii era il suo
naturale, non dritto in faccia, ma quasi di sottecchi, con uno sguardo che si
muoveva qua e là verso il basso, timidamente, si sarebbe detto, ma di cui si
capiva la cura di essere insieme gentile e seriamente interrogativo, e forse
celava un'attenzione a non imbarazzare l'altro. Gli raccontavo di quello che
avevo fatto a Parigi, il lettorato, le ricerche alla VIème Section di Hautes
Etudes. Non ricordo se accennai al lungo lavoro antropologicoteatrale
sulla «maschera», frutto di quelle ricerche, e che avevo appena finito. Se non
lo feci, malgrado mi stipasse ancora piena la mente, fu forse perché ero
trattenuto dall'incongruità di quel tema rispetto al mondo nel quale attraverso
quell'intervista mi si prospettava di farmi penetrare. Ma se la ragione era
questa sbagliavo. Non soltanto perché quel mondo, scopri poi, includeva
personaggi dai più vari e multicolori trascorsi culturali; ma anche perché, in
due sensi più specifici, uno facile da intuire, uno invece del tutto
imprevedibile, come si vedrà, proprio quel mio lavoro sarebbe stato una sorta
di chiave di entrata in quel mondo. Ritenni invece più appropriato raccontargli
che nel 194849, con lo pseudonimo di Andrea Marini, avevo scritto diverse
corrispondenze da Parigi per «Comunità», allora settimanale, e che negli anni
successivi, quando ero a Vienna, per «Comunità» mensile avevo scritto alcuni
articoli di critica d'arte. Lui mi chiese se avessi mai sentito parlare di
«Economie et Humanisme», la rivista dei domenicani di sinistra, le cui idee,
seppi poi, erano molto vicine alle sue. No, non ne avevo mai sentito parlare, e
lui, per non imbarazzarmi, attenuò subito il rilievo di quella circostanza.
Cercò di spiegarmi a quale incarico mi avrebbe destinato se fossi andato a
Ivrea. Sarei stato assunto in fabbrica, ma il compito non avrebbe avuto a che
fare con le attività produttive, si sarebbe trattato piuttosto di un compito
culturale, fuori della fabbrica, non era ancora ben definito, lo si sarebbe
definito un po' alla volta. Non siesprimeva del tutto chiaramente, ma pensai
che fosse logico per me non capire situazioni così lontane dall'esperienza che
avevo avuto fino ad allora, e non feci troppe domande. Invece le ragioni della
non chiarezza erano altre, lo avrei capito in seguito, e quando lo capii mi
trovai davanti, come dirò, a scelte non facili. Nei giorni seguenti non
dico che dimenticai l'intervista, ma non ci pensai troppo, non contavo che
avrebbe avuto seguito, e poi, come succede in questi casi, anche per chi non
abbia pratica dell'eserciziario stoico, si mette in marcia la premeditatio malorum,
quell'operazione mentale che censura ogni pensiero sui possibili eventi
desiderabili, in modo da evitare che ci si debba sentire delusi se poi
tutt'altro succede. Andai a Roma, dov'erano i miei, che volevo far conoscere a
mia moglie, che avevo sposato in Francia, e anche per riuscire io a conoscere
qualcuno, dopo anni che di fatto mancavo dall'Italia. Inoltre, avevo mandato a
«Nuovi Argomenti», se ben ricordo consigliato da Franco Lucentini, mio compagno
di disoccupate riflessioni nei caffè della rue de Tournon, quel saggio sulla
«maschera» di cui ho appena parlato. Mi avevano risposto che il saggio era
piaciuto, ma era troppo lungo e poco adatto alla rivista. Era la solita
risposta, mi ero detto; ma poi aggiungevano che l'avevano passato a un loro
lettore, Bobi Bazlen, il quale ci teneva a parlarmene, eventualmente per
consigliarmi cosa fare. 2. Bobi Bazlen Si è scritto a iosa, a parer
mio esageratamente e imprecisamente, sul ruolo che ha avuto per una certa
cultura italiana questa sirena ombrosa e misteriosa, si è detto della sua
influenza su Montale per la scoperta di Svevo e di altre sue scoperte di
scrittori marginali e fuori della via maestra, e del suo gusto per l'inedito,
l'anomalo, l'inconsueto, il prezioso. Se ne è scritto molto, dicevo, e negli
anni è capitato anche a me di leggerne, ma allora, rientrando in Italia, pur
montaliano e sveviano di adolescenza com'ero, questo personaggio mi era
sconosciuto. Ne chiesi a Giampiero Carocci (credo che anche a lui fossi stato
indirizzato da Lucentini, perché in quei giorni, rientrando in Italia dopo
anni, andavo un po' a ten toni, soprattutto fuori da Torino, quanto
a incontrare persone interessanti); e lui mi parlò con molte, anche se
sibilline, esclamazioni elogiative, di questo Bobi Bazlen, delle sue vastissime
letture in molte lingue, del suo gusto raffinato e sicuro, della sua intuizione
critica e via discorrendo. Concludendo che era certo la persona più appropriata
per giudicare il mio saggio. I grandi elogi che Bobi Bazlen profondeva su
quel mio testo, quando, sorridente e cortesissimo, mi ricevette nel suo
appartamentino di via Margutta (o era via del Babuino?), per le vaste letture
antropologiche che vi trasparivano, di un tipo che nessuno in Italia, diceva,
si sognava di fare (ragione per la quale, del resto, era difficile pensare a
una rivista nella quale pubblicarlo...), per l'interesse della tesi che
esponevo e via discorrendo, mi lusingarono certamente assai; ma, senza sapere
veramente il perché, e pur ringraziando ripetutamente e con il dovuto
imbarazzo, rimanevo, come dire, un pochino sulle mie. Bazlen aveva letto bene
il mio testo senza darlo a vedere avevo
manovrato il discorso in modo da accertarmene , ma non volle entrare nella
discussione del contenuto, Il suo, capii, era un apprezzamento di gusto, di
pelle. E, forse influenzato dall'impressione di quell'incontro, quando lessi
molti anni dopo alcuni suoi scritti, Lettere all'editore (o un titolo simile),
mi sembrò di capire che quello era in genere il suo modo di giudicare.
Apparteneva, ne dedussi, a quel tipo di persone che leggono voracemente di
tutto, senza qualche piano preciso, e hanno la capacità di intuire
immediatamente quali siano le cose di qualità e quali le altre, o meglio, quali
avranno successo e quali no, ma non sanno articolarne le ragioni. Sanno
mostrare, in un testo, dove stia la pepita d'oro e dove la spazzatura, e quando
te lo mostrano non puoi che dargli ragione, ma si astengono poi dal tradurre i
loro giudizi in un linguaggio critico. Probabilmente perché rifiutano di
costringere le loro intuizioni in concetti disciplinati, concetti, voglio dire,
che siano ricevibili da una disciplina critica, e quindi sortoponibili a un
uditorio non familiare, in grado, per dir così, di valutarli autonomamente,
staccandosi dal dialogo diretto con la persona che li formula. Destinano i loro
giudizi a pochi intimi, sottovoce, quasi in a parte, pronti a ritrarsi di
fronte a chi li metta in discussione; che poi diresti che si sentirebbero offesi,
se, ascoltandoli, ti venisse di chiedergli «perché?» perché quel testo lo
ritengano di gran valore, e invece quell'altro buttar via; potrai tutt'al più
mormorate qualche sfumato accenno didissenso, questo lo sopportano, anche se
con esclamazioni di meraviglia per tale inaspettata non concordanza; o con
congedante freddezza, se il dissenso dovesse venir reiterato; ma la domanda di
spiegazioni no, non puoi farla, perché non saresti più uno dei loro, uno per il
quale le ragioni dei giudizi debbono rimanere ovvie, intese tra affini,
sigillanti l'implicita comune appartenenza. Chi abbia conosciuto Bobi
Bazlen meglio di me (io gli parlai a lungo solo quel pomeriggio, e poi un'altra
volta, in casa di amici, ma stava in un angolo sorridente e silenzioso, mi
accorsi che forse era timido), magari dissentirà da questa mia
caratterizzazione. Ma il tipo che mi sembrava di aver riconosciuto era
quello. Ed è un tipo che ritrovo in altri amici miei, pur diversissimi per più
di un tratto da Bobi Bazlen. Mi viene in mente, e la collego con il tipo che
sto cercando di ricostruire, una indimenticabile performance di Fruttero e
Lucentini in sei trasmissioni televisive, di alcuni anni fa. Gli era stato dato
l'incarico di commentare per il pubblico televisivo, ogni serata, un certo
numero di libri, recenti e no. Lo facevano pantofolando con grande agio e
ironia da una stanza all'altra di casa Fruttero, da uno scaffale all'altro,
prendendo un libro potevano essere i
Promessi Sposi, piuttosto che la Cousine Bette o Il mondo secondo Garp o invece
un romanzo appena uscito lo tenevano in
mano qualche secondo, se lo mostravano scambiandosi esclamazioni di
compiacimento, approvazione, entusiasmo o visibilio appena trattenuto,
raccontavano un po la trama, ma non più che in due parole, indicavano quali
erano i passaggi più straordinari, da non mancare, e quando avevano riposto il
libro su di un tavolo non si era ancora capito perché mai lo dovessimo ritenere
un bel libro. Uno spettacolo, fatto di nien te, ma a modo suo
esilarante. Uscii contento degli elogi ricevuti, si è sempre contenti
quando qualcuno ti dice anche solo di aver letto con interesse un testo che hai
appena scritto, e che magari sei insicuro che valga; ma senza che avessi l'impressione,
per dirla un po' volgarmente, di aver intascato un granché. Il saggio non mi
aveva detto dove avrei potuto pubblicarlo (me ne dimenticai, e solo alcuni anni
dopo Edgar Morin, a cui l'avevano dato da leggere, lo passo ai «Cahiers
Madeleine RenaultJean Louis Barrault», che lo fecero tradurre in francese e lo
pubblicarono), né mi aveva fatto altre proposte di collaborazione o incontri.
Insomma ero al punto diprima. Ripensavo soprattutto, andandomene verso piazza
di Spagna, a quella specie di elogio della «non professionalità» sul quale
Bazlen si era dilungato con esclamazioni e giudizi che mi argomentava e
amplificava come se fosse ovvio che dovessi condividerli (e non erano giudizi
estetici, in questo caso, ovviamente, ma etici; o forse, è vero, eticoestetici).
Essendo al corrente delle mie peregrinazioni fuori d'Italia, ed essendo al
corrente di quel mio, dopo tanto andare, essere ancora senza un mestiere (e lo
avevo informato che aspettavo una risposta da Adriano Olivetti per una
possibile assunzione), credette forse di mostrarmi amicizia dicendo che anche
lui era stato sempre senza un mestiere, perché appena si accorgeva che in
qualche modo stava per venire imprigionato nella gabbia anche dorata di un
mestiere si ritraeva, come per istintiva renitenza. E cosi che aveva sempre
conservato la sua libertà, concludeva. Io sorridevo annuendo, ma senza
contribuire con miei argomenti, perché di quel tipo di libertà mi sembrava di
aver già goduto in eccesso, e mi sentivo ben disposto a non ritrarmi se si
fosse aperta la porta di qualche gabbia dorata, come quella dell'Olivetti,
appunto. Ma forse la vera ragione, di fronte al suo elogio della non
professionalità, della mia renitenza ad andare al di là di quel mio annuire un
po' stac cato, era che quel mio testo stesso su cui ci eravamo
incontrati, pur non strettamente accademico, rifletteva per me chiaramente una
tensione verso qualche cosa che sarebbe proprio potuto diventare mestiere
(anche se poi il mestiere che ho acquisito, o che credo di aver acquisito, è
stato un po' diverso), frutto com'era di lunghi mesi di letture concentrate su
un preciso tema, giornate intere alla biblioteca del Musée de l'Homme, a
pranzare con un panino, storzi di chiarezza nell'esporre una tesi, rigore, o
speranza di rigore, nello sceverare la letteratura antropologica attendibile da
quella che non lo era. E in fondo ciò cui io ambivo era proprio di impadronirmi
meglio di quel mestiere. Sarebbe ora stata interrotta, quella mia tensione, nel
caso fossi entrato all'Olivetti? L'incontro con Bobi Bazlen mi aveva lasciato
al punto di prima. O così mi pareva. Ma mi sbagliavo, come si vedrà.
Quando si ha, era il mio caso, un gran rispetto per le vie segrete del destino,
ci si deve astenere dallo sforzo ibristico di immaginarne le tracce prima di
calpestarle veramente.Una settimana o due più tardi ricevetti una lettera che
mi convocava a Ivrea. Arrivai in questa città un po' sformata, cosi fuori dal
mondo in cui avevo vissuto fino a qualche mese prima, ma che sarebbe stata per
tre anni la mia non so quanto capace,
durante quei tre anni, di infondermi il sentimento che vi appartenessi, ma
certo anche oggi, dopo più di quarant'anni, rimasta ben distinta e pesante
nella mia memoria , lasciai la valigia all'albergo Dora, che avrei imparato
esser luogo celebrato nel folklore del mondo dirigenziale Olivetti per
incontri, intrighi, sollazzi e imbarazzi, ritornai sui mici passi, oltrepassai
la stazione, per imboccare la ben acciottolata via Jervis, costeggiai la
lunghissima facciata di vetro della fabbrica, mi sembrava di scivolare lungo
una pagina di «Domus» o «Casabella», e salii al Sancta Sanctorum, cioè negli
uffici della presidenza. Adriano Olivetti era già da qualche tempo ma
lato, mi dicono, ma intanto avrei potuto incontrare qualche dirigente, Mi
conduce prima degli altri nel suo ufficio, gentilissimo, Ignazio Weiss,
direttore del Servizio pubblicità, e il primo nome che mi fa è, sorpresa!
sorpresa!, quello di Bobi Bazlen, suo caro amico, mi dice, il quale gli aveva
parlato di me e del bel saggio che avevo scritto. Mi fa i complimenti per i
miei studi, si augura che io possa entrare all'Olivetti, ma che stessi in
guardia, mi avverte, il lavoro che mi avrebbero assegnato poteva anche non
corrispondere alle mie aspettative (non ne avevo), poteva essere più semplice
di quello che io ero in grado di fare (e io a quel punto non mi sentivo davvero
capace né di fare lavori semplici, né di farne di complicati), ma proprio per
questo anche noioso e magari deludente. Incoraggiato da quell'accoglienza che
lasciava prevedere un esito positivo del processo dal quale senza merito e
senza manifesta volontà ero ormai risucchiato, gli strologai una complicata
risposta sul fatto che anche quando i compiti appaiono più facili di quanto si
sia in grado di assolvere, rappresentano pur sempre una sfida, perché il
passare da impegni difficili a impegni facili può in un certo senso
considerarsi cosa difficile, e via cosi ingarbugliando. Spero che abbia creduto
che il mio ragionamento contenesse concetti più profondi di quelli che in
realtà conteneva, poiché, tradotto in soldoni, credo consistesse nel dire
niente più che quando a qualcuno fanno fare un lavoro poco interessante è una
bella noia per lui accettarlo, e se lo accetta, ma questo punto era lasciato
fuori dal concettoso ragionamento, lo fa solo perché lo pagano bene. Poi
passai nell'ufficio di Geno Pampaloni, che allora non sapevo ancora fosse colui
che esercitava il vero potere nei rapporti tra il mondo della cultura e
Adriano, e cioè la vera eminenza grigia di costui (o era forse soltanto
eminenza ligia, come sussurravano gli infaticabili ideatori di maliziosi
calembours aziendali? Ideatori del resto non da poco, avrei ben presto
imparato: erano Libero Bigiaretti, Franco Fortini, Egidio Bontante e simili, i
quali si divertivano a prendere di mira più di altri proprio il povero e
potente Pampaloni). Anche lui assai cordiale (ma la cordialità, si sa, è
l'immancabile sigla di questo tipo di incontri), mi disse che si era andato a
leggere con attenzione tutti i miei articoli su «Comunità», che gli erano
piaciuti, erano ben scritti, soprattutto le corrispondenze del 194849 dalla
Francia, aggiunse qualche altro complimento, e poi incominciò a spiegarmi
all'ingrosso cosa mi sarebbe stato chiesto di fare nel caso venissi assunto. Il
presidente (incominciavo a imparare che a Ivrea questo era il nome con cui
designarlo in colloqui ufficiali, «Adriano» quello parlando tra amici) voleva
dare impulso a una rete di centri sociali con bibliotechine che andava creando
in vari paesi del Canavese, e appoggiandosi su di queste voleva far nascere una
specie di movimento culturale non
politico, diceva, anche se naturalmente Olivetti una tendenza politica l'aveva,
di sinistra, ma né comunista né democristiana, forse vicina a quella che era
stata del Partito d'Azione, e aveva appoggiato Unità popolare contro la legge
truffa (era no, come sbagliarsi!, le stesse mie posizioni) e poi aveva le
sue idee su come trasformare il governo locale, l'idea di piccole comunità, che
io del resto conoscevo, e via discorrendo. Pensai che avrei capito meglio
quando l'avventura fosse incominciata, e tornai a Roma. Dopo pochi giorni
arrivò la notizia che ero stato assunto. Di fatto. Ma prima sembra che
occorresse un ulteriore passaggio formale, e di che natura fosse me lo chiari
(ma «chiarire», si vedrà subito, non è il verbo appropriato) un episodio che mi
resta ruttora insondabile, e che mi limiterò a raccontare esattamente come è
avvenuto (o come me lo ricordo, devo naturalmente di re; ma mi sforzerò
di mettere all'opera tutta la mia perspicacia mnemonica, facilitato del resto
dal racconto che a più di un amico feci immediatamente dopo, quando speravo
ancora che me lo decifrassero loro). Manca ancora un colloquio con il capo del
personale, mi disse Pampaloni, vai nell'ufficio del dottor Z. Il dottor
Z. mi aspettava, mi fece subito entrare, si sedette al suo tavolo, mi fece
sedere su di una sedia dall'altra parte del tavolo, io dissi: sono A.P., mi
hanno indicato di passare da lei. Sì lo so, rispose, e mi guardò. Aspettavo che
mi facesse qualche domanda, mi desse qualche istruzione, o insomma mi dicesse
qualche cosa, ma lui si limitava a guardarmi. Aveva sulla bocca un sorriso
stereotipato che non capivo bene se significasse incoraggiamento per me, o
imbarazzo per se stesso, Io gli restituivo lo sguardo, con un dovuto sorriso
timido, ma lui taceva. Cominciai a muovere lo sguardo sugli oggetti del tavolo,
sempre mantenendo il sorriso timido, che non avici saputo come mutare, ma lui
continuava a tacere e a sorridere enigmaticamente. Adesso mi dirà qualcosa,
pensavo, è già passato qualche minuto, e spostavo di quando in quando lo
sguardo anche sui mobili o sulle pareti. O forse che gli devo dire io qualcosa,
mi chiedevo, ma cosa posso dirgli? I minuti passavano, il silenzio totale
continuava. Forse si tratta di un test, mi dissi, vuol veder come reagisco al
silenzio, come mi comporto in una situazione imbarazzante (in quei giorni si
parlava molto di test strani cui venivano sottoposti futuri dirigenti
aziendali, per verificare come si comportavano in situazioni inattese). Ma più
che restare zitto non mi sembrava di poter fare. Forse gli devo raccontare
qualcosa di me, ma se lui non mi fa domande sarebbe sgarbato da parte mia
aprire il discorso. Dirgli che son contento di essere assunto all'Olivetti può
essere fuori luogo, perché ufficialmente l'assunzione non si è ancora
perfezionata. Così continuavo a tacere. E taceva lui. Il mio disagio
cresceva. Forse anche il suo? Come capirlo, la situazione continuava ad
apparire inscrutabile. Passarono diversi minuti. Quanti? Non potevo ovviamente
guardare l'orologio. Erano molti, moltissimi, nella mia percezione soggettiva.
Dieci, quindici? Come finirà, mi chiedevo, cercando di rilassarmi
interiormente, e aspettando la fine. Che non potrà mancare, mi ripetevo. La
frasetta che pronunciò alzandosi, l'unica, non la ricordo esattamente, sarà
stata del tipo «le auguro buon lavoro», o «spero che si troverà bene». Mi
strinse la mano e mi accompagno alla porta. Il silenzio era finito. Ero assunto
alla Ico (In gegner Camillo Olivetti) spa. (Gli amici cui raccontai
l'episodionon seppero spiegarmelo, e, stranamente, mi sembrò che non gli
dessero importanza, Esclusero l'ipotesi del test. Il dottor Z. lo ritrovai anni
dopo, in una circostanza anch'essa un po' imbarazzante, come racconterò, ma di
altro tipo.) Ero quindi diventato impiegato di un'azienda industriale di
gran prestigio, con regolare contratto del settore metalmeccanico. Quanto
era esattamente il mio stipendio? 120.000 lire al mese, poi quasi subito
aumentate a 140,000 se ricordo bene (nello stesso periodo sembra ci fossero
stipendi, fra i dirigenti, anche cinque o sei volte superiori, e più); ma,
fossero state anche meno, si trattava di uno stipendio contrattualmente
stabilito, il primo di questo tipo nella mia vita. Tutto ciò senza che potessi
dire di aver veramente scelto, o senza che fossi in grado di spiegare, se mi
fosse capitato di aprirmi con un amico, la parte che questa vicenda poteva
rappresentare in un mio progetto di vita. Forse avrei detto che si trattava di
un'«esperienza», termine magico, si sa, che è sempre possibile invocare per
giustificare a se stessi e accreditare di fronte agli altri ogni
attraversamento di giorni difficili o strani. Almeno per chi è per lo più il mio caso è riluttante a sovrapporre lo schermo del
«progetto di vita» alla figura velata, ma riposante, del «destino». 4.
Lavoro manuale, ma non davvero Una regola per gli impiegati nuovi
assunti, esclusi gli amministrativi, voleva che prima di venir assegnati alla
loro specifica mansione dovessero lavorare per un mese come operai. Era un modo
per far loro imparare a conoscere bene l'oggetto (che allora era costituito dai
vari tipi di macchine per scrivere e che
non si dicesse da scrivere, veniva raccomandato e per calcolo) che l'organizzazione di cui
entravano a far parte era impegnata a produrre e vendere. Si trattava di
un'esigenza di apprendimento, per dir così terminologico, sapere cosa
significavano i termini che designavano le centinaia di pezzi di cui questo o
quel tipo di macchina era composto; e naturalmente sapere come funzionavano.
Perché sarebbe potuto occorrere che ognuno, nel compito specifico che svolgeva,
vi si dovesse riferire. Ma si trattava anche, più o meno esplicita, di
un'esigenza moralistica: aver fatto provare a tutti i dipendenti di che natura
fosse il lavoro manuale della «produzione» (parola mitica, questa, del
linguaggio aziendale, con connotazioni moralistiche il cui pieno valore avrei
ben presto imparato ad apprezzare), quello da cui, come impiegati, ricevevano
il contenuto ultimo del loro compito, e simbolicamente quindi parificare i
lavoratori del braccio e quelli della mente. Era insomma una sorta di rito di
passaggio che siglava l'appartenenza di tutti alla stessa comunità, in nome
della moralità della produzione. Cosi fui messo anch'io a lavorare
manualmente in un reparto dove si aggiustavano macchine difettose. Me ne stavo
seduto a un banco, insieme con qualche diecina di altri operai in un grande
stanzone, a smontare e rimontare, macchine, secondo precise istruzioni, senza
far nessuna fatica fisica, e semmai, soprattutto all'inizio, con qualche fatica
intellettuale perché dovevo sforzarmi di capire le istruzioni che ricevevo su
come andavano rimessi insieme tutti quei pezzi. Non c'erano costrizioni
temporali per completare la mia parte di lavoro. Avevo anche pochi rapporti con
gli operai che lì intorno facevano, meglio di me, il mio stesso lavoro, e
l'unica cosa che mi accomunava a loro era la bottiglietta di chinotto, bevanda
di cui avevo ignorato l'esistenza fino a quel giorno, e che adesso avevo
imparato a tenere sul bancone vicino alla macchina, sorseggiandola di tanto in
tanto; e non perché avessi sete, ma perché mi permetteva, facendo finta di
bere, ma in realtà limitandomi a bagnare la lingua, di interrompere di tanto in
tanto il lavoro. Insomma, non sentivo di essere coinvolto in un esperimento
serio. L'unica costrizione, importante è vero, viste le mie abitudini parigine,
era quella di entrare in fabbrica e firmare il cartellino alle sette e trenta
in punto. La sveglia mattutina, le otto ore di lavoro giornaliero, l'andarmi a
coricare presto la sera, la sospensione del lavoro intellettuale, avevano così
ben regolarizzato il mio ritmo fisico, che in un mese, ricordo esattamente,
ingrassai di due chili (da 60 a 62, o da 62 a 64, non ricordo esattamente, ma
giù di li). Davvero non un'esperienza stremante. In quei giorni so che
anche in altre fabbriche era d'uso la stessa pratica di iniziazione degli
impiegati nella comunità aziendale. E probabile che da tempo se ne sia
perso ovunque, nonché l'uso, il ricordo. Già all'Olivetti quando vi fui
sottoposto io era molto discussa per quella vaga tinta di ipocrisia che la
colorava. È vero che se fosse stata fatta seriamente avrebbe accresciuto fra
gli altrimembri della comunità aziendale la conoscenza delle condizioni in cui
lavoravano gli operai. Lavorare al montaggio, per esempio, sotto costrizione di
tempo, poteva dar l'idea di che cosa si provasse a fare quel lavoro ma questo, d'altra parte era difficile
chiederlo a impiegati nuovi assunti, che avrebbero ritardato il lavoro della
linea (quella che in linguaggio giornalistico si chiamava a quer tempi la
«catena») in cui li si tosse inseriti. L'ipocrisia stava nel far credere che
chi lavora in un posto sapendo che ci resterà solo un mese, passi attraverso la
stessa esperienza di chi lavora a quello stesso posto ma sapendo che ci resterà
anni. E inoltre nel voler credere che l'esperienza operaia che contava fosse
quella delle condizioni tecnologiche, che si fa durante le ore passate sul
luogo del lavoro, e non quella delle condizioni economiche, che si fa sui
luoghi della vita, nelle ore dell'intera giornata e degli anni. Una
mattina chiesi un permesso, dissi che dovevo andare in un ufficio lontano, o
qualcosa di simile, sarei stato via una mezz'oretta, e appena fuori mi
intrufolai invece, quasi di soppiatto, nella biblioteca, che era proprio li,
vicino all'uscita dell'officina dove la voravo. Avevo voglia di
interrompere quelle ore di forzata assenza di pensiero con un minima parentesi
di attenzione intellettuale. Mi ricordo ancora nitidamente cosa lessi: era il
dibattito, in «Nuovi Argomenti» e in un altro paio di riviste appena uscite,
tra Ernesto De Martino e i suoi critici, sull'antropologia, se dovesse essere
storicistica o meno. Era estraniante leggere di questo dibattito tra un
montaggio di macchine e un altro. Ma era estraniante per me anche per un'altra
ragione. Negli anni precedenti in cui, a Hautes Études, i miei studi erano
stati essenzialmente di antropologia culturale, mai mi ero trovato di fronte a
un dibattito di quel tipo, così lontano dalla letteratura antropologica internazionale,
così impasticciato di terminologia crociana, preoccupato più di definire i
rapporti con Croce che con la ricerca che si sviluppava nelle discipline
antropologiche dove queste erano più avanzate e scaltrite. Per cui, scuotendo
la testa, tornai in officina, più incerto che mai su cosa sarebbe successo di
me in questo sovrapporsi di mondi diversi. Dopo circa un mese, si
avvicinava la fine del rito di passaggio, Pampaloni mi chiamò e mi disse che lo
si poteva concludere e che mi avrebbe mandato in giro per il Canavese, sotto la
guida di un dirigente locale del Movimento di Comunità, per farmi visitare
lebiblioteche comunali che si stavano organizzando, più qualche altra delle
iniziative del Movimento. Si sarebbe trattato di una specie di ispezione e alla
fine avrei dovuto scrivere un rapporto. Durante questa esperienza di visite
«sul campo», che durarono qualche settimana, mi furono presentate altre persone
che avrebbero potuto orientarmi sulla realtà sociale della fabbrica. Mi accorsi
ben presto che sia l'ambiente dirigenziale, sia quello intellettuale, intorno
ad Adriano Olivetti, erano radicalmente divisi. Chi mi prese per mano a farmi
percorrere e ricostruire i nervi del governo olivettiano, che Pampaloni si
limitava a delinearmi a fior di pelle, fu Franco Momigliano, che allora reggeva
quella che si chiamava la Direzione delle relazioni interne, comprendente
Servizio del personale, Servizi sociali e altre funzioni affini.
Momigliano era responsabile sindacale del Partito d'Azione quando conobbe
Adriano Olivetti, che lo assunse per occuparsi delle relazioni del personale
nella fabbrica di Ivrea, Era un liberalsocialista, di colorazione vagamente
marxista, ma senza nessuna ortodossia, semplicemente incline a quella generica
concezione economicistica, che più o meno tutti avevamo nella pelle in quel
periodo. Le categorie con cui analizzava la situazione della fabbrica e dei
rapporti tra proprietà e maestranze mi sembrarono subito molto familiari ed
efficaci, le conclusioni dell'analisi, però, inaspettate. Per spiegare il senso
della mia sorpresa sarà utile che io qui ricostruisca l'atmosfera di quegli
anni nell'industria italiana. 5. L'eccezionalismo olivettiano Erano
gli anni di quella che si può convenire di chiamare, col gergo allora usato, la
«controffensiva padronale». Le elezioni del 1953, con il fallimento della
cosiddetta «legge truffa», avevano bloccato il tentativo politico di emarginare
le sinistre e di escluderle da ogni interferenza sul governo del paese. Ma
l'esigenza di chi guidava la ricostruzione capitalistica dell'economia restava
quella di annullare, nei luoghi della produzione, l'autonomia che le maestranze
avevano conquistato durante gli anni immediatamente successivi alla
liberazione. L'offensiva fallita a livello elettorale si era quindi diretta
verso i luoghi dove si concentrava la classe operaia di persuasione comunista.
Lo richiedevano le esigenze del buon ordine produttivo, lo richiedevano
soprattutto gli Stati Uniti, che erano indignati, come si sforzava di far
capire la famigerata ambasciatrice Vera Luce, che nelle fabbriche italiane,
anche quelle che godevano di commesse americane, gli operai fossero
rappresentati da sindacalisti comunisti o loro alleati. O così almeno sembrava,
e si diceva. Anche se una domanda era lecita: erano veramente gli americani,
cioè gli uomini d'affari americani che trattavano con gli italiani, a essere
così preoccupati, o non piuttosto gli industriali italiani che volevano far
intendere che fossero gli americani a premere in quel senso? Mi ricordo che mi
posi la questione un giorno alcuni mesi
dopo che ero arrivato quando Pampaloni,
nel discutere i risultati delle elezioni della Commissione interna, che avevano
di nuovo registrato una maggioranza della Cgil, mi disse con tono allusivo,
quasi fosse una cosa di cui non bisognava parlare in giro, che questo risultato
avrebbe creato difficoltà all'Olivetti con gli americani. Lì per lì rimasi
impressionato, ma subito dopo mi chiesi se quell'aria di segreto non avesse
proprio lo scopo di farmi andare in giro a divulgare la notizia. Ero però, lo
sappiamo oggi, più diffidente del necessario, e avrei dovuto credere alle
convergenti allusioni di parte padronale e rumorose denunce delle sinistre: il
ricatto americano c'era, ed era esplicito e pesante, e operava, fra l'altro,
condizionando le commesse alle fabbriche italiane (ma l'Olivetti ne aveva meno
bisogno di altre) e soprattutto della Fiat, alla loro capacità di eliminare
l'egemonia della Cgil nelle commissioni interne e fra le maestranze!
Sostanzialmente il risultato che si voleva ottenere in quegli anni era quindi
la pace sociale nei luoghi della produzione, anche a costo di accettare una
limitata forma di condivisione del poterecon l'opposizione nei luoghi
istituzionali. Condivisione (si sarebbe chiamata poi, negli anni Settanta,
«consociativismo», quando il fenomeno divenne più esplicito) che era
inevitabile: la Costituzione repubblicana assegnava al Parlamento un ruolo centrale,
così che una minoranza forte, com'era quella delle sinistre già in quegli anni,
era in grado, volendolo, di bloccare i lavori parlamentari e quindi l'opera del
governo; senza contare il potere di scambio che poteva far pesare sulla
bilancia un partito che controllava le regioni rosse. Scambi di favori
legislativi e amministrativi, al centro e alla periferia, tra maggioranza e
opposizione, servivano a smussare il conflitto, che sarebbe diventato
drammatico se si fosse messo in opera con coerenza quanto era contenuto nelle
premesse dell'ideologia proclamata. Certo, servivano anche per, come dire,
ingrassare la macchina della politica, e ci potevano guadagnare gli uni e gli
altri, pur a spese della maggioranza dei cittadini, Dapprima limitati e
coperti, più tardi, negli anni Settan ta, tali rapporti sarebbero
diventati la regola. Nelle fabbriche, invece, gli interessi si
contrapponevano con immediatezza e l'offensiva era senza quartiere,
probabilmente anche animata da personali sentimenti di vendetta da parte delle
dirigenze industriali che, nei non lontani anni successivi alla liberazione,
avevano visto sfidata la loro autorità, quando non anche ferita la loro
dignità. Da qui, in molte di esse, il moltiplicarsi di licenziamenti arbitrari
di membri di Commissione interna e di attivisti sindacali in genere (fu a
proposito di uno di questi casi che udii in quegli anni per la prima volta il
nome di un operaio della Riv, che, quindici o venti anni dopo, mi sarebbe
diventato collega e molto amico, Aris Accornero), e anche di umiliazioni agli
operai comunisti, messi a spazzare i locali quando magari erano vecchi operai
abili nel loro lavoro specializzato, e contemporaneamente di corruzione di
sindacalisti. Leggendaria in quegli anni era la vicenda del cosiddetto «reparto
confino» (ufficialmente Officina sussidiaria ricambi) della Fiat. La
direzione vi aveva raccolto gli operai sindacalmente attivi, quasi tutti
comunisti, isolandoli completamente dal resto delle maestranze, obbligandoli,
operai qualificati o specializzati che erano, ai lavori più umili e inutili e
sottoponendoli ad angherie di ogni genere. Questi metodi erano possibili
sia perché perdurava (e andrà avanti almeno fino ai primi anni Sessanta) una
disoccupazioneche, pur decrescente, era sufficiente a mantenere alto, per un
operaio, il timore di perdere il posto; sia perché, come ho accennato prima, si
era formata una separazione tra livello politico e livello sindacalindustriale
nella strategia dell'opposizione. Come avrei imparato ben presto, appena
entrato in contatto con gli ambienti della Cgil, e come mi era stato invece
assolutamente impossibile capire quando vivevo all'esterno del mondo
industriale, il Partito comunista si interessava della situazione delle
fabbriche meno di quanto i sindacalisti di base, che erano isolati e depressi e
in perdita di consenso (era iniziata la serie di sconfitte nelle elezioni per
le commissioni interne sui luoghi di lavoro), sentivano di aver bisogno.
Togliatti viene a Torino e ci parla della situazione internazionale, mentre
alla Fiat funziona il reparto confino, mi disse un giorno un sindacalista
comunista. E ricordo ancora vividamente, alla fine degli anni Cinquanta, quando
partecipavo a un seminatio organizzato dalla Società umanitaria nella sua sede
di Meina, con quadri operai della Cgil, il racconto di un operaio comunista che
qualche anno prima era stato arrestato dalla polizia di Scelba. Mi rimane
nella memoria la sua particolareggiata descrizione delle torture che la polizia
infliggeva agli arrestati: alcuni venivano picchiati, ad altri schiacciavano i
testicoli, mi preciso. In questo clima generale la Olivetti era
l'eccezione. Non licenziamenti arbitrari, non reparti confino, non maltrattamenti
psicologici di operai, non corruzione di sindacalisti, non interruzione degli
incontri regolari tra la direzione e la Commissione in terna, nella quale
continuava a venir eletta una maggioranza della Cgil, senza che la direzione
prendesse provvedimenti repressivi, come appunto era comune in altre fabbriche.
Assunto in maniera così improvvisa ed enigmatica in questa azienda, ero curioso
di capire a cosa fosse dovuta la sua eccezionalità, di cui avevo già sentito
parlare. Soltanto alla bontà e onestà del padrone? Al suo successo
economico che sembrava folgorante? I colloqui che avevo con Momigliano (e
naturalmente anche con altri «in tellettuali di fabbrica», che un po'
alla volta venivo a conoscere, soprattutto Michele Ranchetti, che era
l'assistente di Momigliano, e poi Libero Bigiaretti, Luciano Codignola, Roberto
Gui ducci, Antonio Carbonaro, Luigi Ortina, che era il capo dell'otficina
in cui avevo svolto il mio tirocinio di lavoro materiale, e lui stesso figlio
di un imprenditore, e qualche altro), mi permettevano un po' alla volta non
solo di dare una prima risposta all'ingenuo quesito iniziale, ma anche di
delineare un quadro per molti versi inaspettato. La tradizione di buoni
rapporti tra padrone e maestranze risaliva ai tempi di Camillo Olivetti, fondatore
dell'azienda e padre di Adriano. Ingegnere geniale, imprenditore ardito,
padrone bonario, di idee socialiste (aveva organizzato la fuga di Turati in
Svizzera nel 1926), la sua grande figura barbuta era rimasta leggendaria tra i
vecchi operai, e più d'uno, quando cominciai ad andare in giro per la fabbrica
per il mio lavoro, mi raccontava in tono affettuoso buffi aneddoti su questo
vecchio, morto una decina di anni prima. Adriano, al suo ritorno dalla Svizzera
dopo la guerra, aveva ripreso in mano l'azienda (che durante gli anni di guerra
era stata diretta dall'ingegner Gino Martinoli, altro dirigente industriale di
riconosciuto carisma, fratello della moglie di Adriano) e continuato una
politica di buone relazioni con il personale. Adriano aveva, sì, dato un forte
apporto innovativo all'azienda nella riorganizzazione degli anni Trenta e continuava
a darlo soprattutto con le sue intuizioni originali nel campo pubblicitario e
delle relazioni pubbliche, ma la considerava piuttosto uno strumento per i suoi
interessi di natura generalmente culturalpolitica. O almeno, questo era il
rimprovero che dall'interno dell'azienda gli veniva fatto, soprattutto da
quello che si poteva chiamare il partito degli ingegneri. Non che costoro
fossero nella loro maggioranza reazionari e mirassero ad assimilare lo stile
dei rapporti politici interni all'Olivetti a quello delle altre grandi aziende
italiane. Si trattava di dirigenti in gran parte selezionati da Camillo, i più
vecchi, o dallo stesso Adriano, o da altri selezionatori che condividevano le
sue posizioni. Ma essi ritenevano che Adriano sacrificasse l'efficienza della
fabbrica ai suoi scopi di innovatore culturale, e questi li giudicavano un po'
troppo grandiosi, sia in relazione alla realtà eporediese (imparai allora che
questo era l'aggettivo che si riferiva alla città di Ivrea), che Adriano voleva
trasformare facendone un laboratorio esemplare di buon governo locale, sia
soprattutto in relazione alle sue ambizioni di giocare un ruolo trascinatore
nel mondo della cultura italiana e internazionale. Chi difendeva Adriano
sosteneva che l'attività culturale di Olivetti, i suoi rapporti con il mondo
dell'arte, dell'architettura e dell'urbanistica, cosi come delle scienze
sociali e della letteratura,producevano una tale ricaduta pubblicitaria, che
tutto quello che veniva sottratto agli investimenti in fabbrica ritornava
dall'espansione di mercato che in quel modo si otteneva. Mi ricordo che un
giorno un operaio con il quale parlavo dei progetti di Adriano mi obiettò, non
capii se con ingenuità o con cinismo, che tutto quello che si faceva era buona
pubblicità che serviva all'azienda, perché in fondo, cosa produceva la
fabbrica? macchine per scrivere, no? e chi doveva comprarle, se non quella
gente li, gli intellettuali, insomma! Altri sostenevano che soltanto rendendo
la città di Ivrea sopportabile a una borghesia colta si poteva far accettare al
tecnici d'elite di cui una fabbrica così avanzata aveva bisogno il sacrificio
di abitarvi (non c'erano ancora autostrade in quegli anni e la pendolarità con
Torino non era pensabile). Ma erano, come si vede, poco convincenti, o in ogni
caso parzialissime, giustificazioni funzionaliste. 6. Dialettica contro
paternalismo L'analisi di Momigliano muoveva da sinistra, ma concludeva
su posizioni che lo collocavano in qualche modo sulla stessa linea del partito
degli ingegneri. La sua critica era rivolta al paternalismo implicito, anche se
accorto e non sfacciato, di Adriano. Adriano, per i suoi fini, a volte dà agli
operai anche quanto non chiedono, mi diceva. In questo modo implicitamente li
corrompe, desta il sentimento di gratitudine, e per gli operai non è bene
sentirsi legati da gratitudine al padrone. Questi operai finiscono per essere
non soltanto dei privilegiati, ma anche dei viziati. Mi citò una volta un
episodio di alcuni rappresentanti operai della Cgil (di tendenza anarchica, se
ricordo bene) che dovevano andare a Torino al funerale di un sindacalista eroe
della resistenza. Sai cosa hanno chiesto alla direzione? esclamò: di essere
portati a Torino con una macchina dell'azienda! Te li immagini operai anarchici
o comunisti di quaranta o cinquanta anni fa chiedere favori di questo tipo al
«nemico di classe»! Occorreva invece, mi diceva, che i dipendenti
dell'azienda si ponessero con la direzione in rapporto dialettico (decisamente
avrei dovuto riabituarmi all'uso abbondantemente polisemico di questo termine
che avevo imparato come servisse ai miei amicifrancesi per ironizzare sul
linguaggio politico italiano), attraverso i loro rappresentanti, che questi
avanzassero le loro rivendicazioni, e se la direzione gliele concedeva, bene;
se no, e se se la sentivano, che entrassero in vertenza. La direzione, d'altra
parte, doveva dare quello che il mercato le permetteva di dare, non offrire il
non richiesto, soltanto perché in certi momenti il padrone aveva determinati
motivi di politica personale per fare il generoso. Il mio compito qui, mi
diceva, è di governare il personale facendo gli interessi di questa azienda sul
mercato, e insieme rendere possibile ai dipendenti di perseguire gli interessi
loro autonomamente, assicurando, fino a che mi è possibile, che non vengano
alterate le regole del gioco: e cioè impedendo sia ogni forma di repressione
sindacale, come quelle che si verificano nelle altre fabbriche italiane; sia
ogni forma di corruzione dei dipendenti da parte del padrone. (Fu del resto in
uno di questi colloqui che mi accenno alla possibilità, ancora non ben
definita, che Adriano intendesse formare un suo sindacato, inglobando, che in
termini crudi voleva dire comprando, quello che restava della Uil locale,
collegarlo con il Movimento di Comunità e cosi rovesciare l'egemonia della
Cgil. In questo caso lui si sarebbe rifiutato di concedere qualsiasi
trattamento di favore a questo nuovo sindacato padronale, anche se Adriano,
come era probabile, glielo avesse chiesto.) In altre parole, Momigliano vedeva
il suo ruolo come quello del rigido guardiano delle regole quali l'ordine
giuridico del capitalismo le aveva stabilite. All'interno di quest'ordine i
capitalisti dovevano fare i capitalisti, gli operai fare gli operai, e formarsi
la loro coscienza di classe antagonista grazie al confronto, appunto,
dialettico nelle trattative sindacali. Mentre mi esponeva le sue idee non
mi fu difficile riconoscerle come quelle di un lettore assiduo di Sorel (io
stesso lo ero stato). Glielo dissi, e riconobbe infatti non soltanto che da
giovane aveva letto appassionatamente Sorel, ma che suo padre era stato
sindacalista rivoluzionario e seguace del pensatore francese. Non gli dissi
invece che la sua strategia mi ricordava un'altra figura, di cui probabilmente
lui non aveva sentito il nome (e mi sarebbe stato troppo complicato, e non
interamente lusinghiero, illustrarglielo), quella di Bug Jargal, il
protagonista di 1793, il romanzo di Victor Hugo sulla rivoluzione di Haiti. Bug
Jargal era il capociurma dei lavoratori schiavi del maggiore proprietario
agricolo delpaese. Esercitava il suo compito in nome del padrone, nella maniera
più rigida e crudele, non risparmiava una sola delle fustigazioni o altre
punizioni che la legge del luogo prescriveva, e verso la quale in tal modo
attirava l'odio degli schiavi. Quando la rivoluzione scoppia, viene alla luce
che Bug Jargal ne era l'ideatore e il cape. E il successo della rivoluzione
sarà dovuto proprio all'odio contro i padroni stranieri che i modi tirannici di
Bug Jargal avevano contribuito ad attizzare tra la popolazione. Non leggo quel
romanzo da oltre cinquant'anni, e forse il mio riassunto non corrisponde
esattamente alla trama, ma cosi me la ricordo, e cosi è rimasta in me da allora
come metafora del dilemma drammatico di chi vuol conseguire il bene passando
per il male, e, più precisa mente, di chi vuol risvegliare la coscienza
di quelli che ama, presentandosi come il male che in tal modo, facendosi
odiare, insegna a odiare. Dilemma che si affaccia, anche se copertamente, in
più di un rapporto, che voglia essere eroico, di amore e formazione, fra
genitore e figlio, per esempio, o fra maestro e allievo, che Nietzsche più di
ogni altro ha scandagliato, e che Sorel appunto ha saputo intravedere anche
nella costruzione della politica rivoluzionaria. Naturalmente l'abbraccio in
cui scoprivo allacciati gli operai dell'Olivetti e il direttore Momigliano non
aveva questa drammaticità. Non solo perché Momigliano non faceva fustigare
nessun operaio, né, fosse anche venuto il momento, avrebbe capeggiato nessuna
rivoluzione, ma soprattutto perché le regole cui quei rapporti con il personale
ubbidivano non istigavano odi né impulsi rivoluzionari. Il merito di Momigliano
era appunto quello di saper mantenere i rapporti su quel tono di corretta intransigenza
e di osservanza di regole trasparenti. Ammiravo Momigliano e lo sentivo
congeniale quando discutevamo. Mi piaceva la sua moralità secca, senza
pleonastici ricami ideologici o fervori umanitari, una moralità laica per
eccellenza. II realismo delle sue analisi derivava dalle categorie economiche
che usava per determinare i moventi dell'agire dei soggetti con i quali aveva a
che fare, il realismo delle sue scelte personali derivava dalle categorie
giuridiche che usava per definire i ruoli suo e degli altri. Pensavo che fosse
giusto il suo modo di vedere la situazione e il modo di muoversi in essa. Che poi
occorresse anche prevenire che tra gli operai nascesse gratitudine verso il
padrone mi giungeva come un giudizio rivelatore cui non mi era difficile aderire
in teoria (avevo già a suo tempo riflettuto sul caso Bug Jargal), ma sul quale
potevo aver qualche esitazione in pratica. L'opposizione al formarsi di
qualsiasi sindacato giallo, invece, coincideva con le mie convinzioni di
sempre, e non avevo dubbi che sarei stato dalla parte di Momigliano e contro
Adriano se l'evento si fosse verificato (e vedremo che cosi fu). 7.
Rifiuto Comunità Queste analisi della situazione politica della fabbrica
influenzavano ovviamente l'animo con cui stavo conducendo il mio compito di
ispezione dei centri comunitari del Canavese. Certo non era senza una qualche
attrazione per un intellettuale capitare in quel di Aglie o Pavone o Strambino
(eravamo, si ricordi, nel 1953) ed entrare in una sala pulita e ben illuminata,
con tavoli e seggiole, a volte anche qualche persona che leggeva, e vedere
negli scaffali alle pareti allineati i volumi delle edizioni Einaudi o Laterza
o Editori Riuniti o altri di quel genere. Ma poi parlavo con il responsabile
del centro e mi accorgevo che non molto vi succedeva, che se c'era qualche
segno di vita associativa, mostrava ben poca vivacità e autonomia, e che se un
significato poteva avere la presenza di quella biblioteca in quel paesetto,
era, oltre che di farci venire al sabato qualche operaio della fabbrica che
pendolava gli altri giorni con Ivrea, quello di attrarvi qualche giovane che in
fabbrica non ci andava ancora, ma sperava di potersi far assumere un giorno
proprio grazie al mostrarsi interessato alle attività del centro co
munitario del suo paese, Segretario del Movimento di Comunità del
Canavese era allora Barolini, uno scrittore colto e gentile, sposato a
un'americana, il quale non aveva più voglia di fare quel mestiere e voleva tornarsene
in America (probabilmente, ma non ricordo bene, con una posizione nella
Olivetti americana, che si andava sviluppando in quegli anni). Si era mostrato
subito cordialissimo con me; capii più tardi, però, scontata la sua naturale
gentilezza, il senso di quella cordialità immediata, quando mi accorsi che
Adriano, o, meglio, Pampaloni, aveva in mente di offrire a me la sua carica, e
Barolini non vedeva di meglio che qualcuno arrivasse presto a sostituirlo. Ma
un po' per le ragioni che ho già detto, un po' per come nel frattempo, con
l'aiuto di Momigliano e degli altri amici, riuscivo, o mi sembrava di riuscire,
ad analizzare la situazione complessiva, e in particolare i rapporti tra il
movimento culturale e l'azienda in quanto tale, io andavo rapportando a Pampaloni
valutazioni abbastanza negative di quello che osservavo, e quando a un certo
punto, dopo qualche settimana, lui mi propose di diventare segretario di
Comunità nel Canavese e impegnarmi a risollevare la situazione trovando modi di
ravvivare l'attività dei centri, gli risposi che non ero interessato e che
preferivo svolgere qualche compito nel quadro dell'azienda vera e propria. Mi
ricordo che alla fine di quel colloquio alzò la cornetta del telefono, chiamò
Momigliano e gli disse: «Hai vinto tu anche questa volta». Poi continuò dicendo
che ora si poneva la questione di assegnarmi qualche mansione
nell'organizzazione aziendale e che a questo doveva pensarci la Direzione delle
relazioni interne, quindi lui, Momigliano. A guardar bene, questa
mia vicenda era stata scandita da un doppia finzione. Olivetti mi aveva assunto
per un compito che al momento di assumermi non aveva chiarito bene in che cosa
consistesse, e questo perché non voleva farmi capire che, con uno stipendio
pagato dalla società, in realtà voleva farmi svolgere un lavoro funzionale ai
suoi fini privati, che poi sarebbero diventati, nel lungo periodo, fini
politici. Né era stato molto più trasparente Pampaloni quando mi aveva indicato
il compito specifico per quelle prime settimane di rodaggio. Io d'altra parte,
rifiutando un incarico che si era andato chiarendo dopo che ero stato assunto e
assunto con un contratto di impiegato metalmeccanico, mi facevo forte della
posizione sicura in cui ero stato messo da quel con tratto. Mi sono
spesso domandato se avrei avuto lo stesso coraggio di rifiutare nel caso in cui
l'alternativa fosse stata non il riassorbimento nell'organizzazione aziendale,
bensi il licenziamento e quindi la disoccupazione nuda e cruda. (Vero è che,
come racconterò fra poco, la scelta mi si ripresento implicitamente tre anni
dopo, e non esitai a scegliere una assai probabile, e poi, ahimè!,
realizzatasi, condizione di disoccupato. Ma allora erano passati tre anni
decisivi, in cui mi ero rafforzato, avevo acquistato amici che sapevano
apprezzare le scelte che facevo, non ero più il tremante studente di Hautes
Études, che aveva appena lasciato la buia stanza dell'Hotel Marignan, in rue du
Sommerard, nel Cinquième.)In ogni caso presi quella decisione senza troppo
riflettere sulle conseguenze. L'unica difficoltà fu nel rimanere fermamente
negativo durante il colloquio con Pampaloni, per il quale provavo simpatia,
anche se di un tipo del tutto diverso da quella che provavo per Momigliano.
Come del resto diversissime erano le due personalità. Di finissima cultura
letteraria ed elegante critico, a Pampaloni era del tutto estranea la moralità
contrattualistica rigorosa che guidava Momigliano. Non mirava a metterti con le
spalle al muro per via di logica, piuttosto a sedurti con allusioni, ed era
dovuto probabilmente a questo stile il suo successo con Adriano, del cui cuore
tenne in mano per un periodo entrambe le chiavi. Sembrava allo stesso tempo
capace di tortuose strategie volte all'accrescimento del suo potere e di
autodistruttivi, imbarazzanti coinvolgimenti sentimentali. E l'avversione che
poteva provocare il suo machiavellismo veniva coperta dalla simpatia con cui si
guardava alla sua ingenuità, in fondo generosa. Cattolico di sinistra
tormentato, quasi figura uscita da un romanzo di Bernanos o di Mauriac, non era
chiaro se si trovasse più a suo agio nei nidi di vipere o nei nidi di colombe.
Lui, a dir il vero, preferiva dichiarare la sua ispirazione a Péguy, il cui
cattolicesimo impegnato e vicino a idee socialiste offriva un modello di più
immediato riferimento per il mondo entro il quale Pampaloni in quegli anni
voleva muoversi. Ma sia il suo stile letterario così diverso dal tono alto, a respiri lunghi,
di Péguy sia le vicende politiche e
giornalistiche in cui finirà per trovarsi coinvolto, hanno finito per pottarlo
lontano anni luce dall'immagine eroicosacrificale che ci è rimasta dello
scrittore francese. A lungo rimasi incerto su come valutarlo, o, meglio, su
come capirlo. Qualche hanno fa vidi in libreria e immediatamente comprai un suo
libro, Fedele alle amicizie, che è una raccolta di suoi articoli ordinati in
modo da comporre una specie di autobiografia. Ritrovai la sua prosa
sapientemente evocativa, lo stretto controllo di ogni narcisismo, il suo
raccogliere le «cose viste» e offrirle come un servizio al lettore. Un lungo
pezzo sulla «saga degli Olivetti», impeccabile per le cose che diceva,
deludente per quelle che taceva, lui che tanto aveva visto e avrebbe potuto
dire, Allora capii qualcosa del suo doppio modo di stare al mondo. Quello di
viverne, senza troppo discriminare, le strategie, gli intrighi, come anche gli
impegni generosi di parte e di amicizia; e quello, invece, di rappresentarlo
agli altri attraverso la letteratura, scegliendo con tocchi leggeri ed
evocativi gli aspetti che proteggano il lettore, e in conclusione se stesso, da
ogni scavo della realtà che sia un po' meno accessibile di quella che non sta
proprio li sotto i nostri occhi. Cosi evita possibili drammatizzanti faccia a
faccia con l'inaspettato e il discrepante, e può invece passare alla pagina che
segue con il sorriso dell'accomodante e un po' ironica nostalgia. Non so se ho
raccolto i frammenti giusti di questa persona che in fondo ho conosciuto assai
poco. So però che le due o tre volte che lo reincontrai dopo Ivrea provai una
non forzata simpatia, e che quando mi disse che aveva letto alcuni mici scritti
e me li elogiò, me ne inorgoglii. 8. Spiegare la fabbrica Ero rimasto
senza compiti precisi e Momigliano ebbe l'idea di affidarmene uno nel quale
erano falliti, nel corso degli anni, tutti quelli che ci si erano provati:
redigere il manuale di fabbrica. Molte aziende americane, e qualche azienda
italiana, avevano pubblicato, in una forma o nell'altra, e distribuito ai
dipendenti, un libretto, la cui funzione consisteva nel cercar di far conoscere
agli operai la fabbrica nella sua complessità; con l'idea che, al di la di quel
settore con cui ognuno si trovava direttamente in contatto per le sue mansioni,
l'insieme della struttura produttiva era probabile restasse a molti abbastanza
misteriosa. Cosi l'operaio si sarebbe sentito parte della fabbrica, e chissà
che anche la produttività non ne avrebbe ricevuto vantaggio. O cosi si
immaginava potesse essere. La gran parte delle aziende italiane mancava di
questo manuale perché non era interessata, anzi probabilmente era contraria, a
che gli operai avessero una conoscenza della fabbrica più ampia di quella
strettamente funzionale al loro lavoro specifico. I sindacati d'altra parte
temevano che l'azienda descrivesse la realtà della fabbrica in maniera diversa
da come la descrivevano loro, e gli sottraessero quel monopolio, per dir così,
delle definizioni della realtà produttiva che per lo più detenevano. All'Olivetti,
invece, più di un dirigente, e Adriano stesso, ritenevano utile che l'azienda
si fornisse di un simile strumento, ma i timori su come esso si potesse
presentare erano molti, e così i timori che i sindacati reagissero
negativamente, e ne nascessero grane inutili.Momigliano mi illustrò tutte
queste difficoltà, mi raccontò dei vari tentativi andati a male, mi forni una
pila di manuali di fabbriche americane di vario genere e di altra
documentazione già esistente sull'Olivetti e mi elencò le qualità che il
prodotto che mi era stato affidato doveva possedere. Doveva essere
assolutamente obiettivo e neutro, senza valutazioni negative o positive di
questa o quella situazione lavorativa, doveva descrivere le diverse componenti
del processo produttivo e i rapporti di interdipendenza fra di esse, e la loro
rispettiva posizione nel flusso della progettazione, fabbricazione, montaggio e
distribuzione del prodotto. Linguaggio secco, senza fioriture e tanto
meno imbonimenti (di cui abbondavano i manuali americani che mi lessi
rapidamente senza troppo frutto) e tecnicamente preciso, ma semplice, alla
portata di un operaio comune. Mi son chiesto poi se Momigliano, che già
nell'illustrarmi le difficoltà aveva a malapena nascosto il suo pessimismo
sulla realizzabilità dell'impresa, non avesse gia deciso che quel manuale era
meglio non si facesse, e mi avesse proposto di lavorarci per trovarmi un
compito che mi tenesse nella sua Direzione, e nel frattempo mi permettesse di
impadronirmi dei dettagli dell'organizzazione aziendale, Avrei infatti dovuto
andare in giro per la fabbrica, capire la natura delle lavorazioni e della
logica produttiva, parlare con chiunque potesse farmi capire questo o
quell'aspetto dell'organizzazione aziendale, ingegneri, capi intermedi e operai
(ma con gli operai non avrei potuto parlare senza passare per il capo reparto),
e discutere sia del loro lavoro specifico, sia della visione d'insieme che si
facevano dell'organizzazione e della posizione produttiva in cui erano
collocati. Di tutte queste informazioni, era il compito, traessi
l'essenza e mi mettessi a scrivere un limpido manualetto! Mi fu subito chiaro
che, qualunque fosse stato l'esito, il valore di apprendimento che avrebbe
avuto per me il compito in cui stavo impegnandomi sarebbe stato assai superiore
al possibile valore che il prodotto avrebbe potuto avere se mai fosse arrivato nelle
mani di altri. Avevo tutte le ragioni visibili di mettermi all'opera con
entusiasmo. Se ne aggiungeva però anche una invisibile, che la memoria è ora
quasi riluttante a far affiorare tanto si presenta con la parvenza di
un'improbabile testimonianza di ingenuità. Ma tant'è, perché ancora una volta
non cedere alla sollecitazione maieuticache ogni scrivere del proprio passato
esercita sui sentimenti più remoti? La ragione cui mi riferisco è
questa. Intorno ai sedicivent'anni (spero di non sbagliarmi troppo indicando
quell'età) io mi ritrovai a provare un intenso e, ora mi sembra, inspiegabile e
quasi incredibile desiderio di capire esattamente, voglio dire, nel dettaglio
dei gesti, in che cosa consistessero esattamente gli atti del «la
vorare». Non avevo infatti mai visto una persona nell'atto di fare un lavoro
produttivo. Del resto l'attributo «produttivo» è troppo specifico, e non credo
che allora mi fosse presente. Era il lavoro fisico in quanto tale che non
sapevo che apparenza avesse. Si noti che a quell'età, differentemente da tanti
mici compagni, trovandomi in Eritrea del tutto isolato per molti anni dalla mia
famiglia, io avevo già lavorato per guadagno, avevo lavorato come dattilografo
in uno studio di avvocato, poi come produttore di una piccola agenzia di
pubblicità, avevo fatto il capomagazzino e capo zona in un'organizzazione
di lotta contro le cavallette nel bassopiano sudanese, avevo dato lezioni
private di storia e filosofia per il liceo. Ma evidentemente non consideravo
che quello fosse lavoro. Né, prima, consideravo che tosse lavoro quello che
vedevo tate a mio padre, o a tutti quelli che lavoravano con lui negli uffici
che, quando andavo a prenderlo, visitavo. Si potrebbe quasi dire che avessi e senza averlo ricevuto dai libri, perché
nessuno mi aveva certo spiegato Marx al liceo un senso innato della distinzione marxiana tra
lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Di che gesti era fatto, insomma, il
lavoro materiale? Gli anni passati all'università tra filosofi o a Vienna tra
artisti o a Parigi tra antropologi e antichisti non solo non mi avevano
ovviamente dato la risposta (eppure era solo un'immagine che chiedevo, non
avrei avuto bisogno dopo tutto di vedere più che qualche documentario, ma a
quei tempi non ne giravano su questo tema, o erano irrealistici); ma avevano
semmai ispessito l'arcano di quella mia curiosità. Ecco che ora mi veniva
assegnato proprio il compito di descrivere il lavoro materiale dell'uomo, e
nella sua forma più moderna. Avrei non soltanto osservato la variegata
tipologia dei possibili gesti del lavoro, ma avrei imparato che esistono metodi
per descriverli e misurarli scientificamente (sarei cioè entrato in contatto
con quella sorta di metalavoro che svolgono coloro che operano all'Ufficio
tempi e metodi, di cui incominciavo a sentir parlate come di una realtà
misteriosa e dominante); avrei capito, o cercato di capire, i problemi che il
lavoro generava per la persona che lo compiva e per chi doveva coordinarlo. Mi
tardava di mettermi all'opera. Pensai di farmi anzitutto un'idea d'insieme
dell'organizzazione parlando con qualche ingegnere che fosse in posizione un
po' meno specializzata di altri, al quale mi avrebbero presentato Momigliano o
Ranchetti. La mia ignoranza della realtà di un'azienda era assoluta. Persino
apprendere che un'organizzazione aziendale si divideva in amministrazione,
produzione, distribuzione, che ognuna di queste componenti dipendeva da una
direzione separata, che la produzione era composta di progettazione, attrezzaggio,
fabbricazione e montaggio; che la progettazione era il cervello dell'azienda,
dove lavoravano gli ingegneri più originali e prestigiosi, artisti del disegno
di macchine; che l'attrezzaggio, dove si costruivano le macchine utensili, cioè
le macchine per costruire macchine, era l'officina dove lavoravano gli operai
specializzati, i migliori operai della fabbrica, per preparare i quali, lungo
cinque anni di studio teorico e manuale, l'azienda possedeva un apposito
severissimo istituto tecnico per meccanici, e che questi operai erano anch'essi
da considerare un po' come degli artisti nel loro mestiere, guardati con
ammirazione e invidia dagli altri operai, e non soltanto per la loro posizione
salariale, ma perché la loro figura appariva quasi come quella di un'élite
leggendaria nel folklore aziendale; che la fabbrica era divisa in officine, le
officine in reparti, i reparti in squadre persino queste nozioni elementari, che avrei
potuto quasi tutte apprendere dalla lettura di qualche libro di testo di
organizzazione aziendale (di cui del resto incominciavo a fornirmi, e che mi
proponevano letture, non sto a dirlo, cosi stridentemente discrepanti rispetto
a tutte quelle che avevo fatto fino ad allora), erano una scoperta viva per me.
Mi inoltravo passo a passo in questo ambiente, che, familiarissimo a tutti
coloro che mi attorniavano, si presentava invece a me come una terra incognita
e avvincente. Avvicinavo con apprensione dirigenti di questa o quella
divisione, capiofficina e, con ancor più interesse, perché erano di origine
operaia e avevano asceso la gerarchia aziendale, capireparto e capisquadra timoroso che le domande che avrei fatto
potessero tradire la mia ignoranza, o che addirittura mi venisseopposta
preliminarmente l'inutilità del lavoro che andavo facendo. A volte, essendomi
prima informato di chi fosse la persona da cui sarei andato, e avendone
ricevuto giudizi di rispetto e notazioni sul prestigio di cui costui godeva in
fabbrica, si acuiva il mio interesse a parlarle, ma anche la mia timidezza nel
presentarmi. In questo modo andavo costruendo un po' alla volta l'ambiente
della fabbrica come una cerchia di riconoscimento (per usare un termine che non
usavo allora, ma che mi è familiare oggi come appartenente alla teoria nella
quale, continuando a pensare a quelle cose, sono andato ingrovigliandomi), cioè
come un ambiente in cui le persone si muovevano quasi davanti a sguardi
virtuali dai quali si sentivano valutati e dai quali il loro lavoro riceveva
senso e ambizione. Un intellettuale senza radici come mi sentivo certamente io in quel momento,
essendo state oramai trascinate via da successivi venti le esili radici che mi
avevano tenuto precariamente fisso a questo o quel terreno, negli anni
dell'università a Torino o in quelli di Vienna o di Parigi un intellettuale senza radici, dicevo, è
generalmente capace soltanto di immaginare cerchie di riconoscimento che siano
pubbliche, che appaiono forti e ambite solo appunto perché pubbliche, cioè
sanzionate attraverso comunicazioni che circolano apertamente tra tutti, per
giornali, libri, premi, onori, celebrazioni, nomine istituzionali. Più tardi
avrei imparato che anche per gli intellettuali esistono, e tali da vincolarli
intimamente, cerchie locali, assai limitatamente aperte al pubblico: gli
studenti, i colleghi di un'università o di un istituto di ricerca o di un
giornale, i propri pari di una determinata disciplina. Ma li trovavo una
cerchia che si chiudeva all'interno di una fabbrica e del suo intorno formato
da una piccola città più qualche paese, e chiuso in questa cerchia vedevo
costituirsi un sistema di moralità forte, in cui le persone, per la qualità del
loro lavoro, ma non solo, venivano giudicate, ammirate, imitate o evitate,
fatte oggetto di affabulazioni e leggende e motteggi, cui conseguivano rispetto
o disprezzo, deferenza o dileggio o noncuranza, ma senza che tutto questo
fuoriuscisse, trovasse corrispondenza in cerchie estranee, si comunicasse a
persone non coinvolte. Cosi mi sorprendevo a speculare su come fosse diverso
per i Pampaloni, i Momigliano, i Michele Ranchet ti, i Libero Bigiaretti,
i Luciano Codignola, i Marco Forti, gli Ottiero Ottieri, i Giovanni Giudici, il
senso di ciò che facevano inquella fabbrica, del prestigio che vi potevano
godere, dei riconoscimenti da cui si facevano definire. La loro vera identità
si era costituita, o, almeno, mirava a costituirsi, in un mondo diverso, tra
intellettuali, cioè tra professionisti del far circolare il nome dei degni di
riconoscimento tra una cerchia larga di pubblico anche remoto; quell'identità
ognuno di loro avrebbe poi potuto arricchirla, ma a suo beneplacito, se gli
fosse convenuto, con i giudizi che riceveva da quanto faceva nella fabbrica.
Come era differente, voglio dire, il senso dell'attività che costoro andavano
svolgendo quotidianamente dal senso del lavoro dell'operaio attrezzista
Giovanni Bovero, del caporeparto Giorgio Pautasso, dell'ingegner Carlo
Corniglia e così via e così via, tutto racchiuso, quel senso, nella tensione
verso il prestigio che un po' alla volta si era formato fra i compagni di
lavoro, fra i superiori, nella loro officina, poi per «voci» nelle altre
officine, poi magari tra qualche conoscente fuori fabbrica: ché era questa la
realtà che gli permetteva di pensare a se stessi con un po' di orgoglio, pur
senza che nulla si trasmettesse a chi era fuori portata di quelle «voci».
E mi sembrava di poter estendere queste considerazioni alla situazione
esistenziale dello stesso Adriano Olivetti e all'ambiguità dell'immagine che di
lui si disegnava in azienda (in ditta, come si usava dire), al cui
riconoscimento in qualche modo egli sfuggiva. per la molteplicità delle cerchie
remote, ed estranee alla ditta, davanti alle quali, da gran signore della
cultura internazionale, egli andava rappresentandosi. Apparteneva troppo poco a
loro, ai suoi dipendenti, intendo, quel personaggio, troppo ricco di un
patrimonio simbolico che andava cumulando per il mondo senza che loro vi
partecipassero, e neppure ne capissero esattamente la natura, quando pur lui
utilizzava il patrimonio materiale che proprio il loro lavoro gli
forniva. Andavo facendo queste riflessioni, o mi sembra che andassi
facendo allora queste riflessioni, mentre entravo in contatto con una realtà
che chiunque avrebbe considerato delle più normali; ma io mi trovavo in quello
stato d'animo stupito e prensile, proprio di chi viaggia per un paese
sconosciuto di cui ha sentito a lungo e vagamente parlare e ogni osservazione
che va raccogliendo gli offre l'occasione per completare qualche percorso
cognitivo già tracciato a casa propria, ma rimasto sospeso fino all'affiorare
di questo o quell'inedito frammento di realtà.Ho sottolineato che quelle
riflessioni «mi sembrava» che le facessi, perché è probabile che allora non ci
fosse nulla di più preciso che il sentimento nebuloso che avrei potuto farle.
Soltanto in seguito maturerà lentamente in me la curiosità di capir meglio la
vera natura del fenomeno della reputazione, del prestigio, della fama, che è
poi a dire, con un termine comprensivo, del riconoscimento con cui gli altri ci
definiscono, e dell'effetto che questo riconoscimento, o l'ambizione di esso,
hanno su di noi, su quello che miriamo di compiere e sull'idea che riusciamo a
farci di noi stessi. In quei giorni tutto restava in nuce, in uno stato d'animo
di attenzione acuta, ma insieme di rinvio a sperate, più chiare comprensioni
future. Non potevo parlare con gli operai «era meglio che non lo facessi», mi era stato
detto per la doppia ragione che non
andavano disturbati nel loro lavoro, il quale era quasi sempre a cottimo. cioè
pagato per la quantità di produzione completata ogni ora, e ci avrebbero
rimesso se li avessi costretti a interromperlo; e poi perché qualunque cosa
dicessi avrei potuto esser visto come un membro della direzione che
interpellava direttamente un operaio, e così commetteva un interferenza sia nei
confronti del capo del reparto in cui quell'operaio lavorava, sia nei confronti
dei sindacati, i quali erano l'altro organo autorizzato a parlare in fabbrica
con gli operai. Li osservavo lavorare passando lungo le file delle lavorazioni,
dei montaggi, mi soffermavo davanti a questa o quella operazione, cercando di
mostrare interesse più per la tecnica che per i gesti e il ritmo, ma dedicando
attenzione nascosta proprio a quel li. Mi informavo poi con i
capisquadra, o all'Ufficio tempi e metodi, dei dati esatti relativi ai ritmi.
Purtroppo non li ricordo più ora con sicurezza, anche se in quei giorni me ne
ero impressi molti a memoria. Non erano ritmi chapliniani, né alle lavorazioni,
né ai montaggi, i gesti sembravano calmi. Unanime poi era l'opinione confermatami da sindacalisti e da operai con
cui in seguito parlai che
l'operaio preferiva fare operazioni di minor durata, e ripetere sempre la
stessa operazione meccanicamente, piuttosto che variare operazione, o farne di
più complesse da ripetere soltanto dopo passato un certo periodo di tempo. Le
operazioni brevi e sempre le stesse rendevano possibile un atteggiamento
meccanico verso il lavoro e assicuravano l'assenza assoluta di impegno mentale,
e permettevano di pensare ad altro mentre si compivano quei gesti meccanici
(«penso alle cose da fare a casa» «penso
alla partita», dicevano: le distrazioni generalmente non mettevano a rischio
l'esattezza di una operazione). Era l'opposto di quanto andavano scrivendo, su
giornali e riviste, gli intellettuali ben intenzionati che proponevano di
riformare il lavoro nelle fabbriche. Ed era invece in linea con quanto
sostenevano i sindacalisti, soprattutto di estrema sinistra, i quali
consideravano che grazie all'esecuzione meccanica dei gesti lavorativi
l'operaio manteneva la sua autonomia e il suo non coinvolgimento in quello che
faceva, che non costituiva il suo lavoro, ma sempre inevitabilmente il lavoro
del padrone. Un altro rovesciamento dialettico su cui meditare!? Erano
tutti d'accordo invece nel sostenere che si doveva affrettare l'eliminazione di
quelle operazioni che si prestavano a venire eseguite così meccanicamente da
poter essere affidate a una macchina. E infatti, in certi casi potevo osservare
che la stessa operazione che in un'officina qualche operaia eseguiva manualmente,
veniva già affidata a una macchina nell'officina vicina. Un'operaia prendeva da
un cestello un bulloncino, lo collocava su di un altro pezzo già preparato nel
quale doveva venir incorporato, con una leva spostava la testa di una pressa,
col piede azionava un pedale, la pressa schiacciava il bulloncino e
l'operazione era completata. Erano passati dieci o quindici secondi. E subito
l'operaia ricominciava, prendeva dal cestello un bulloncino, lo collocava sul
pezzo... e avanti così (questo voleva dire che nella giornata di otto ore
quell'operaia aveva ripetuto quella stessa operazione circa duemila volte). In
un'officina vicina avevo visto l'identica operazione eseguita non dal braccio
di un operaio, ma da un braccio incorporato in una macchina e totalmente
automatico, che prendeva il bulloncino, lo collocava sopra il pezzo già preparato
e così via. Li un operaio si limitava a sorvegliare diverse di queste macchine,
e a intervenire solo quando s'inceppavano. Si trattava diuna tase di
transizione, mi spiegavano, tutte le operazioni di quel tipo sarebbero state
ben presto interamente automatizzate. Lo scopo dell'Ufficio tempi e metodi era
proprio quello di ridisegnare il lavoro di fabbricazione e di montaggio in
operazioni sempre più elementari, fino al punto che per eseguirle il braccio
umano poteva venir agevolmente sostituito da un braccio automatico disegnato
all'uopo. Dopo qualche settimana avevo girato la fabbrica in largo e in
lungo e paradossalmente la conoscevo meglio di molti che ci lavoravano dentro
da anni e sul serio. Quando arrivavano visitatori illustri mi chiedevano di
accompagnarli perché gli spiegassi le varie lavorazioni e funzioni. Avevo oramai
parlato con qualche decina di ingegneri, funzionari amministrativi e capioperai,
e con alcuni di essi cominciavo ad avere, relativamente al mio compito, un
rapporto di familiarità. Mi accorgevo che alcuni si erano fatta del mio ruolo al di là dell'impegno che avevo in quel
momento di redigere il manuale di fabbrica un'impressione tutta sbagliata. Non al
corrente del mio rifiuto di adattarmi al compito originariamente assegnatomi da
Adriano (preludio di ovvia e prossima caduta in disgrazia cortigiana), e
vedendomi andare in giro per la fabbrica con la benedizione della presidenza,
si figuravano che fossi nelle grazie del presidente stesso, e che questi mi
avrebbe destinato, dopo una mansione ovviamente di iniziazione, a incarichi
dirigenziali importanti. Li lasciavo pensare cosi (a meno che non gli scappasse
qualche allusione sul tema, in questo caso smentivo animatamente) e
approfittavo della loro buona disposizione per trar vantaggi per il mio lavoro,
Malgrado però tale circostanza favorevole, e malgrado avessi letto e riletto
manuali di fabbrica i più esotici, e incominciato a buttar giù pagine di questo
o quel previsto capitolo, cercando di semplificare, appianare, ammorbidire,
distendere, sciogliere la mia prosa, abituata a un anno di attorcigliamenti
intorno al significato delle maschere dei Dogon o della tragedia greca, il
lavoro procedeva molto a rilento. 9. Adriano Intanto era ritornato
Adriano. Non mi disse nulla riguardo al mio rifiuto di occuparmi delle sue
biblioteche e centri comunitari. Miinvito a qualche riunione con visitatori
stranieri che volevano conoscere la realtà aziendale, e due o tre volte,
probabilmente su suggerimento di Pampaloni, mi chiese di scrivergli discorsi
che doveva fare agli operai o a qualche altro uditorio. È difficile ricostruire
ora l'atteggiamento che si andava formando in me nei confronti di Adriano
Olivetti mano a mano che lo conoscevo meglio e che si scioglievano i reciproci
atteggiamenti iniziali, di cortesia un po' convenzionale da parte sua e di silenziosa
deferenza da parte mia. A casa sua, durante qualche ricevimento, o in casa di
amici, i Momigliano, i Pampaloni, avevo avuto qualche occasione di parlargli a
tu per tu di cose non attinenti al lavoro, ma senza mai andare a fondo degli
argomenti avviati. Una volta, a un gruppetto di persone in casa di amici c'era anche, ricordo, Vasco Pratolini, tutto
sorridente e sperso in quella realtà per lui nuova e verso la quale si sforzava
di mostrare una diligente curiosità di neorealistico visitatore , Adriano
parlava delle sue idee sulla riforma sanitaria, e sosteneva, mi ricordo, che
quando gli operai erano in assenza per malattia avrebbero dovuto venir pagati
più che con la loro paga solita, perché dovevano sostenere maggiori spese. Gli
ascoltatori annuivano tra il cortese e il perplesso, nessuno notava ad alta
voce come fosse paradossale che proprio un imprenditore parlasse così, o
osservava che in ogni caso la soluzione andava raggiunta con altri mezzi.
Quando non parlava a un piccolo pubblico, durante i ricevimenti Adriano si
sprofondava in un angolo di divano, in silenzio, mentre la gente chiacchierava
intorno a lui, guardava nel vuoto tenendo in bocca l'indice di una mano, e arcuandolo,
probabilmente perché non gli scivolasse via dalla bocca, sì che nella guancia
gli appariva una sorta di rigonfiamento. Erano le occasioni in cui
provavo per lui una non ben determinabile simpatia, lo vedevo personaggio ricco
e famoso e potente e insieme insicuro, tormentato; ideatore di opere capaci di
durare, ma anche continuamente ansioso di fare più cose di quante gli riuscisse
di ben definire; seduttore con il gusto di attrarre a sé e influenzare (e,
alcuni dicevano, «intimamente corrompere») le persone che lo incuriosivano, o
che gli era capitato di ammirare fuggevolmente, per poi magari sentirsi in
diritto di lasciarle scivolar via per i rivoli non importa se fangosi del
mercato; e insieme persuaso di essere un incompreso, e quindi timido e sospettoso;
calcolatore machiavellico e insieme compassionevole e generoso; e lo vedevo li
su quel divano, circondato da persone, assai poche delle quali gli erano in
qualche modo familiari, in verità totalmente solo, forse consapevole che le
forze per fare quello che avrebbe voluto fare stavano declinando malattia dopo ma
lattia, forse incerto se quello che gli restava da fare valesse la pena di
essere intrapreso. Si diceva di lui che fosse rimasto profondamente
colpito da giovane dalla preferenza che il padre, fondatore della fortuna familiare,
aveva mostrato verso il fratello più giovane, Massimo, dalla personalità
geniale anche se labile, e morto precocemente subito dopo la fine della guerra.
Si diceva anche che al momento delle leggi razziali la famiglia Olivetti si
fosse riunita e il patriarca avesse deciso che uno di loro si sarebbe dovuto
sacrificare e iscrivere al Partito nazionale fascista, indicando all'uopo
Adriano, il quale del resto legalmente non era definibile come ebreo, la madre
essendo protestante (il nonno era un pastore valdese). Così Adriano, pur
furioso contro il padre, si era dovuto iscrivere. La leggenda è solo in parte
vera. I rapporti di Adriano col fascismo, e più specificamente con la tendenza
corporativa di sinistra che faceva capo a Bottai, risalivano ai primi anni
Trenta ed erano funzione dei suoi progetti di pianificazione urbanistica e di
riordino sociale in genere. Erano parte, cioè, di quell'onda di speranza che
aveva avvicinato al regime architetti e urbanisti e altri intellettuali
fascisti che si sentivano di sinistra e che immaginavano di poter influire
sulle intenzioni corporatiste e pianificatrici intravedibili nel regime in
quegli anni. Adriano vi vide qualche segnale di contiguità con le sue idee e ne
scrisse su riviste quali «Il Lavoro fascista», «L'Ordine Corporativo», e fondò
infine una rivista di tendenza corporativista, «Tecnica e Organizzazione», che
continuò anche dopo la guerra. Dopo 1'8 settembre era passato in
Svizzera, lasciando la direzione dell'azienda a Gino Martinoli, suo cognato
(era fratello di Natalia Ginzburg, oltre che della prima moglie di Adriano), il
quale l'aveva diretta con molta abilità e molto consenso tra le maestranze e i
dirigenti; tanto che al ritorno Adriano, sempre secondo «voci», era diventato
geloso dell'ascendente del cognato e, con l'accordo della famiglia, gli aveva
fatto abbandonare la direzione. Martinoli, che poi conobbi e con cui
collaborai in diverse occasioni, persona dolcissima e in qualche modo ingenua,
ne rimaseassai ferito. Continuò poi una brillante carriera di alto dirigente
industriale e, quando in pensione, di generoso organizzatore di ricerche
sociali. In Svizzera Adriano era andato elaborando le sue idee politiche,
aveva redatto un progetto di Stato comunitario che aveva inviato per lettera a
una serie di personalità allora rifugiate in Svizzera come lui, e (mi
raccontava anni dopo l'allora vicepresidente, e poi presidente, dell'Eni
Boldrini, il quale tra gli altri aveva ricevuto la lettera) immaginato persino
la bandiera che questo Stato avrebbe dovuto inalberare, non mi ricordo il
colore (forse era pur sempre tricolore), ma mi ricordo lo stemma, una campana,
la stessa che diventerà poi il marchio di Comunità; ed era disegnata a mano in
chiusura della lettera. Verosimilmente quella lettera conteneva l'abbozzo del
progetto che Olivetti avrebbe pubblicato subito dopo la fine della guerra
nell'elegantemente curato volume L'ordine politico delle Comunità (dello
Stato secondo le leggi dello spirito), uno dei primi della nuova casa editrice
da lui appena fondata con l'aiuto di Luciano Fuà. Ne ebbi subito una copia,
quando arrivai, e così l'avevano tutti gli intellettuali e semiintellettuali,
lì intorno, ma tutti ostentavano di non averlo letto, e sorridevano (a meno che
non fossero true believer comunitari, e ce n'erano pochi), se uno glielo
chiedeva. Come sempre in ambienti che vivono sotto l'ombrello di un personaggio
carismatico, circolavano le battute sul linguaggio olivettiano; e così
bisognava star attenti, in un salotto di Ivrea, a non informarsi di che misura
avrebbero dovuto essere le dimensioni di qualche oggetto, piatto, mobile,
edificio, macchina o territorio o altro di cui si parlasse, perché la risposta
era già sulla punta della lingua dell'eventuale ben informato interlocutore:
«né troppo grande, né troppo piccolo», che era appunto la dimensione che
Olivetti insisteva dovesse essereassai ferito. Continuò poi una brillante carriera
di alto dirigente industriale e, quando in pensione, di generoso organizzatore
di ricerche sociali. In Svizzera Adriano era andato elaborando le sue
idee politiche, aveva redatto un progetto di Stato comunitario che aveva
inviato per lettera a una serie di personalità allora rifugiate in Svizzera
come lui, e (mi raccontava anni dopo l'allora vicepresidente, e poi presidente,
dell'Eni Boldrini, il quale tra gli altri aveva ricevuto la lettera) immaginato
persino la bandiera che questo Stato avrebbe dovuto inalberare, non mi ricordo
il colore (forse era pur sempre tricolore), ma mi ricordo lo stemma, una
campana, la stessa che diventerà poi il marchio di Comunità; ed era disegnata a
mano in chiusura della lettera. Verosimilmente quella lettera conteneva
l'abbozzo del progetto che Olivetti avrebbe pubblicato subito dopo la fine
della guerra nell'elegantemente curato volume L'ordine politico delle
Comunità (dello Stato secondo le leggi dello spirito), uno dei primi della
nuova casa editrice da lui appena fondata con l'aiuto di Luciano Fuà. Ne ebbi
subito una copia, quando arrivai, e così l'avevano tutti gli intellettuali e
semiintellettuali, lì intorno, ma tutti ostentavano di non averlo letto, e
sorridevano (a meno che non fossero true believer comunitari, e ce n'erano
pochi), se uno glielo chiedeva. Come sempre in ambienti che vivono sotto
l'ombrello di un personaggio carismatico, circolavano le battute sul linguaggio
olivettiano; e così bisognava star attenti, in un salotto di Ivrea, a non
informarsi di che misura avrebbero dovuto essere le dimensioni di qualche
oggetto, piatto, mobile, edificio, macchina o territorio o altro di cui si parlasse,
perché la risposta era già sulla punta della lingua dell'eventuale ben
informato interlocutore: «né troppo grande, né troppo piccolo», che era appunto
la dimensione che Olivetti insisteva dovesse esserezione giusta, Olivetti a un
certo punto si spazientisse e volesse metter mano alla cazzuola, ma, bloccato
al suo tavolo, finisse per ritrovarsi bambino a combinare i cubetti del Lego.
Si presentò con il suo Movimento, diventato apertamente politico, e alcuni alleati,
alle elezioni del 1958, e dopo una campagna costosissima ottenne un seggio di
deputato, quello del capolista, il suo, invece dei setteotto, più almeno tre di
senatore, che si aspettava. I maligni sussurravano che con metà dei soldi che
aveva speso la De di seggi gliene avrebbe dati ben di più. In realtà trattative
per presentarsi alle elezioni nelle liste della democrazia cristiana se ne
erano avute a più riprese, e la segreteria romana, che era favorevole, aveva
dovuto cedere all'opposizione dei democristiani locali che invece non ne
volevano sapere (probabilmente anche per timore di dover cedere seggi; questo
era soprattutto il caso di Pella, che non voleva vedersi capitare Olivetti nel
suo biellese). Adriano, del resto, aveva molta ammirazione per Fanfani; e
inoltre era recente la sua conversione al cattolicesimo. Da documenti ritrovati
dopo la morte si è visto che quella conversione non era soltanto funzionale al
matrimonio religioso con la nuova moglie, come molti pensavano, ma rispondeva a
un reale atteggiamento di ammirazione per il cattolicesimo come dottrina di
ordine socialet Dopo qualche mese si stancò di fare il deputato, si
dimise e lasciò il suo seggio a Franco Ferrarotti, che aveva avuto il secondo
posto nella lista grazie a una campagna elettorale molto attiva e abile nel
Canavese. Negli anni prima di morire Adriano lottò contro la malattia e
contro la famiglia che voleva togliergli il controllo della società, temendo
che ne sperperasse le risorse per le sue fantasie politiche. Seppi della
sua morte a Teheran, dove mi trovavo per il primo lavoro che mi era stato
offerto dopo gli oltre due anni di disoccupazione seguiti al licenziamento
dall'azienda. Qualcuno mi disse che era morto viaggiando verso la Svizzera,
dove andava a trovare la figlia bambina, e che quando si era accorto
dell'attacco al cuore si era trascinato per il corridoio, sballottato per gli
urti del treno in corsa, da uno scompartimento all'altro, senza che dapprima i
viaggiatori che lo vedevano agitarsi capissero bene di che cosa quell'uomo
stesse in quel modo strano andando in cerca. 10. Organizzazione
aziendale o corte del principe? Armanda Guiducci, letterata pura,
era sempre presente e attiva alle nostre discussioni culturali e politiche, ma
restava assolutamente estranea a tutto quanto riguardasse la fabbrica e non
capiva come invece noi, pur fondamentalmente formati in una cultura filosofica
e letteraria, ne potessimo essere coinvolti, mostrandoci appassionati a interpretare
quanto vi succedeva. Si stupì assai quando, avendomi chiesto come giudicassi
l'esperienza che stavo attraversando, io le dissi che la consideravo
fondamentale, un po' come una mia seconda università. Me ne chiese il perché, e
le parlai della straordinaria, almeno per me, esperienza che era quella di
operare quotidianamente all'interno di un'organizzazione produttiva a vincoli
forti, dall'ordine rigoroso, dove ogni mossa è finalizzata a precise e
prevedibili conseguenze, dove è necessario entrare in questo gioco di
ricostruzione delle aspettative diffuse riguardanti il proprio comportamento se
non si vuole che esso risalti subito non soltanto come insipiente, ma come
diretto a vuoto, vano, poco serio, egotistico. L'osservazione delle
interdipendenze produttive, delle prevedibilità incorporate nel più minuto
operare di ogni persona, della coerenza tra ambiente tecnico e mosse umane, mi
aveva aperto un mondo che era estraneo, sì, a quello nel quale mi ero formato,
ma che si mostrava capace di affascinarmi quanto più mi accorgevo che stava
diventando naturale muovermi in esso; quasi si aprisse davanti a me, mi occorse
ironicamente di pensare, in maniera analoga a come si erano elettronicamente
aperte davanti ai miei passi le portiere che dividevano uno dall'altro i
reparti della fabbrica, suscitandomi, la prima volta che le avevo attraversate,
una stupita incredulità (erava mo, si ricordi, nel 1953), che mi aveva
fatto sostare di botto, ritornare indietro, esaminare tutto intorno gli
stipiti, poi guardare in alto, riattraversare due o tre volte, improvviso e non
mimato Jacques Tati, per fortuna in quel momento senza spettatori, prima di
capir bene (ma l'ho mai capita bene?) la diavoleria. E ricordo l'infantile
vanità di ostentare confidenza con l'ambiente tecnico, durante la visita di un
mio vecchio amico parigino che condussi in giro per la fabbrica. Passammo per
quelle stesse porte che ci si spalancavano davanti, io con una naturalezza che intendevo
sottolineare stando attento a trattenermi dal far commenti, ché dovevo mostrare
come per me fossero superflui, mentre però spiavo con la coda dell'occhio le
contenute espressioni di sorpresa dell'amico, che anche lui si trovava per la
prima volta di fronte a quel tipo di marchingegno. Ma c'era di più,
nell'esperienza che si faceva all'Olivetti, che non i calcoli
dell'organizzazione e gli stupori della tecnica. Almeno per chi girasse negli
ambienti della presidenza e dell'alta dirigenza, la Olivetti non era soltanto
una per quegli anni modernissima organizzazione produttiva, era anche una
corte. A chi mi avesse chiesto come meglio prepararsi per andarci a vivere,
prima dei lavori di Herbert Simon o Jim March, gli avrei consigliato di
leggersi attentamente il Castiglione o le memorie del duca di Saint
Simon. Un'atmosfera di corte la percepisci ai primi imbarazzi. Ti accorgi
che qualcuno si comporta nei tuoi confronti in maniera che non ti aspettavi e
capisci, o credi di capire, o credi che ti vogliano far capire, che quel nuovo
comportamento va riportato a qualche evento che ha alterato i tuoi rapporti con
una terza persona da cui lui e te in qualche modo dipendete. Se tardi a capire,
allora è lui che ti ci conduce con qualche innuendo. Se la terza persona cui si
allude, cui si sembra alludere, risulta essere «il presidente» che è come dire «il principe» gli effetti di questo comportamento inatteso
non sono da prendere alla leggera, te li ritrovi addosso per giorni. Vai a
parlare con altri, cerchi di capire, sempre il più obliquamente che puoi, se
hai proprio visto giusto, se sei irrimediabilmente in «disgrazia», a che cosa
ciò possa essere dovuto, se intorno a te gli altri pensano che questa
situazione durerà. Rivedo una pagina di diario in cui raccontavo di un amico
che si era accorto di essere in disgrazia: A. mi racconta scrivevo dei modi con cui il Presidente gli esprime il
suo malgarbo, o scarsa simpatia, oppure indifferenza. Capita che saluta tre o
quattro persone in mezzo alle quali si trova lui, e lui lo scavalca, e poi
magari, come ripensandoci, ritorna indietro e gli dà la mano, ma assai
frettolosamente. Alcuni amici gli hanno riferito che il Presidente si è
lamentato con loro perché lui aveva svolto male il lavoro che gli era stato
affidato. E evidente che ad A. costa molto parlare con altri, anche suo amici,
quale sono io, di questi segni della sua 'disgra zia', e che a lungo si è
sforzato di tenersela per sé. Mi dice: le racconto a te queste cose perché tu
sai di che natura sono, sai che cosa significa 'essere in disgrazia. Se
mi guardo dentro con attenzione continuavo in quella pagina di diario mi accorgo di sentire una punta di
soddisfazione ascoltandolo. Malgrado mi sia amico e lo abbia in simpatia e sia
riconoscente della gentilezza che mi dimostra anche essendo io, appunto, in
disgrazia [...] mi urta la sproporzione tra quanto lui dà mostra di credere di
sé e quanto in realtà vale. Adesso, vederlo riabbassato dalla sua disgrazia lo
giudico un riequilibrio dovuto. Ma mi rimprovero immediatamente di questo
sentimento, che per fortuna resta tenuissimo e scompare. Occorre dare
importanza a giudizi più fondati nei nostri rapporti con gli altri. Si
tratta di una pagina, è chiaro, il cui interesse non sta tanto in ciò che
racconta, quanto in ciò che implicitamente rivela; poiché illustra la
tortuosità delle situazioni cortigiane: scritta da una persona che si trovava
«in disgrazia», come era appunto il mio caso, la quale annotava gli stati
d'animo di un amico a sua volta «in disgrazia», e osservandoli si faceva
tentare da sentimenti di approvazione della disgrazia altrui, subito però
vergognandosene e cercando, con più o meno successo, di espellerli. In
simile clima si sviluppavano poi strane tecniche di rapporti burocratici. Ti
capitava di essere molto in confidenza con qualcuno, e aver con lui rapporti
normali e cordiali. Un giorno lo vai a trovare, ti risponde appena, non ti
guarda, se sei nel suo ufficio ti fa capire, o ti dice esplicitamente, che non
ha tempo per parlarti e che è meglio che te ne esci. Lo incontri dopo qualche
giorno e magari lui è ritornato alla cordialità di prima. Incominci a guardarti
meglio in giro e ti accorgi che questa tecnica del caldo e freddo non è
sporadica, la scopri in altri casi, la trovi applicata sistematicamente, te la
senti, insomma, tutt'intorno come una pellicola che ti si può appiccicare
addosso quando meno te lo aspetti e hai terrore di restare poi incapace di spiccicartene.
Capisci allora che si tratta di una tecnica che ha la funzione di permettere a
chi pur non sia collocato in posizione gerarchicamente eccelsa di autoattribuirsi
il potere di determinare «microdisgrazie» e «microfortune», sia facendo credere
di possedere autonomamente questo potere, sia alludendo che si tratta di un
potere che costui riceve dai suoi contatti con la fonte ultima di tutti i
poteri aziendali. E questo ti umilia ancora di più, perché ti rendi conto che a
lui non costa nulla comportarsi in quel modo offensivo con te, non teme tue
rappresaglie, quindi tu sei poco più che spazzatura, e neppur ha senso che te
la prendi con lui, la colpa evidentemente sta in te. 11. L'illuminismo
magico Aggiungi, altro tocco, come dire, rinascimentale, la presenza di
una dimensione che ti sfuggiva, nei confronti della quale tutt'al più potevi
difenderti ironizzando, una dimensione misteriosa, quella dei riferimenti
magicoreligiosojunghiani di Adriano. Negli ambienti intorno ad Adriano se ne
scherzava, ma si sapeva anche che quei riferimenti, e le tecniche di
valutazione umana che ne derivavano, influenzavano i giudizi che Adriano si
formava delle persone che lo interessavano, e persino le decisioni su chi assumere.
Si diceva che Adriano si servisse di due grafologi (non intendo assolutamente
affermare che la grafologia sia magia, ma spesso chi bazzica con l'una bazzica
anche con l'altra), in due città differenti, e che mandava a entrambi le
domande di assunzione di dirigenti e collaboratori vicini (si era
imperativamente richiesti di scriverle a mano). I grafologi consultati erano
due perché, non si sa se per residuo di spirito scientifico o per diffidenza,
Adriano li controllava uno con l'altro. Un giorno, quando Adriano era via,
capito che alcuni amici che lavoravano agli uffici della presidenza avessero in
mano le chiavi degli schedari dove erano conservate le analisi grafologiche.
Vennero da me e da altri a raccontarcelo ridacchiando. Avevano visto tra le
altre anche la mia. Curiosissimo, chiesi subito cosa conteneva. «E buona, è
buona..» «Ma cosa contiene
esattamente?», cercai di insistere. Non me lo vollero di re, ripetendo
solo «si, si, è molto buona». Ne dedussi che doveva contenere anche qualche
malevolo negativo giudizio, ma lasciai andare, oramai i giochi erano fatti, ero
già assunto, e da tempo «in disgrazia», in ogni caso.Potrà sembrar strano che
una persona come Adriano Olivetti. di formazione tecnica, oltre che di ampia
cultura moderna, frequentatore di letterati, filosofi e intellettuali laici in
genere, si muovesse poi, privatamente, quasi nascostamente, entro questo «scenario
magicoreligioso», come lo descrive Pampaloni in quel suo ricordo che ho citato
prima, nel quale qualche riga dopo definisce Olivetti «uno strano illuminista»
(«magico»). Ma bazzicando in quegli anni, per ragioni di lavoro, tra la
letteratura (libri e libercoli, riviste, opuscoli) di cui si pascevano i
dirigenti industriali e gli imprenditori, mi accorsi che la cosa era poi meno
eccezionale di quanto a prima vista si sarebbe potuto credere. Astrologia, ermetismo,
cultura magica varia abbondavano tra le letture dei capi della nostra industria
in quegli anni (e oggi?). Cercai di darmene spiegazione congetturando che il
grande, incontrollato potere umano (potere sul destino di altri uomini) di cui
quella classe di persone arrivava a godere, a volte, per vicende varie, senza
esserselo aspettato, e quasi sempre senza esservi umanamente e culturalmente
preparati preparati, voglio dire, a
capire e osservare le regole che quello specifico tipo di rapporti umani
comportava li lasciasse spesso assai
incerti sulla natura di quel potere, e sulla legittimazione, non soltanto
giuridica, con cui giustificarlo. Ne scaturiva un desiderio di spiegazioni
facili e rapide (è gente che non ha molto tempo libero, si sa) del mondo in
generale (magari dei mondi, ancor più in generale), e quindi anche del loro
ruolo nel pezzo di mondo in cui qualche destino li aveva condotti a operare e
comandare. Quel tipo di letteratura glielo soddisfaceva. In quel mondo,
dunque, o ai suoi margini, mi andavo muovendo, cercando di spiegarmi le sue
sottigliezze e i suoi giuochi, in termini augurabilmente più razionali di
quelli dell'astrologia, non con l'ambizione di teorizzarlo, ma semplicemente
per sentirmi, e apparire, meno impacciato, quando non sapevo se entrare
nell'ufficio di un incerto amico o non entrarvi; se salutare il potente
direttore amministrativo che faceva finta di non vederti o far finta di non
vederlo a tua volta, e rivolgergli, o no, la parola quando stavate quei
terribili secondi insieme nell'ascensore; se ritenerti offeso da qualche
sgarbo, o invece no, perché in realtà quell'atto nel codice di corte sgarbo non
era, e in ogni caso, poi, cosa avresti veramente fatto, una volta che avessi deciso
che era sgarbo, e che, si, ti dovevi sentire offeso?Mi resi conto ben presto
che anche a capirne il gioco non bastava a liberartene veramente. Fossi rimasto
qualche anno ancora, presagivo con un certo, non so quanto palesato a me
stesso, spavento, anch'io, nel mio piccolo, se devo dir cosi, pur restando,
cioè, per quel rifiuto iniziale di collaborare con «Comunità», nella mia
situazione di originaria e non superabile cortigiana «disgrazia», avrei finito
per omologarmi, avrei cioè adottato le stesse superflue strategie, le stesse
mosse felpate, le stesse calcolate cautele, e sarei stato percorso dalle stesse
subitanee agitazioni, e adombramenti segreti, e poi piccole agognate
soddisfazioni, che vedevo rivelarsi negli sguardi delle persone attorno a me.
Forse è anche per questo, senza rendermene conto chiaramente, che colsi
l'occasione di rompere radicalmente con quel mondo quando partecipai alle
elezioni del Consiglio di gestione contro il sindacato del padrone. O forse non
solo per questo, vedremo, ma, in somma, così andò. 12. I primi
passi «miei» Prima però occorre che dedichi qualche riga all'unico lavoro
serio che riuscii a portare a termine in quella fabbrica. Stabilito, per
ammissione di tutti, che un manuale di fabbrica che accontentasse insieme il
presidente, gli ingegneri, i capi, la Commissione interna, e servisse poi agli
operai, era impresa impossibile, si pose il problema di cosa altro farmi fare.
La soluzione, per la direzione, fu semplice. Mi dissero: hai ormai esperienza
sufficiente della situazione organizzativa dell'azienda: pensa tu a un servizio
che possa essere utile, facci tu una proposta, compila un ordine di servizio,
con un buon memorandum che ne illustri le ragioni. Mi chiusi
nell'ufficetto che mi avevano assegnato e mi misi a pensarci su. Si noti che
non mi dettero una scadenza, potevo prendermi tutto il tempo che volevo. Ero un
po' preoccupato, perché dovevo dedurne che la mia presenza contava poco, era
vista come un sopportabile costo e niente più. Ne parlai con amici, che però mi
rassicurarono: sappi che l'ingegner B. (uno dei dirigenti carismatici dei
«Progetti»), quando fu assunto, anni fa, restò setteotto mesi senza che gli
dicessero cosa l'avessero preso a fare. Poi la sua carriera svetto. Sorrisi
all'idea che la mia carriera potesse maisvettare, ma pensai che era in ogni
caso nel mio interesse avere una mansione precisa al più presto possibile. Mi
informai di cosa fosse veramente un «ordine di servizio» mirante a istituire un
nuovo ufficio, come dovesse esser redatto, e dopo qualche tempo ne produssi uno
con il quale, in cinque o sei pagine, proponevo la costituzione dell'Ufficio
studi relazioni sociali (nome un po' barzotto, al quale però si dovette
arrivare dopo negoziati e veti vari) praticamente un centro di ricerca di
sociologia del lavoro (ce n'era già uno per le applicazioni della psicotecnica,
ma non per ricerche che restassero autonome dalle richieste della direzione del
personale). Con mia, e non solo mia, sorpresa (avevo già capito abbastanza di
come funzionasse l'organizzazione aziendale per non essermi armato del
necessario corazzante scetticismo), la mia proposta fu accolta, e ricevetti
persino lodi per come era redatto il me morandum. Mi assegnarono
uffici e personale, e non mi sognai di lamentarmi anche quando ben presto mi
accorsi che si trattava sia di uffici sia di personale che non si sapeva come
altro impiegare. Gli uffici erano nel cosiddetto «convento» (immagino che
esista ancora era appunto stato
originariamente un convento), luogo sacro nella tradizione della famiglia
Olivetti, poiché era servito da abitazione a Camillo, che da li aveva guidato i
primi passi dell'azienda, una quarantina di anni prima. Nessuno voleva andare a
lavorarvi perché era collocato in un posto un po' staccato dalla fabbrica e
dalla direzione, e ciò rendeva difficili i rapporti quotidiani con gli altri
uffici. Ma a me stava alla perfezione, tre o quattro grandi stanze, in pieno
verde, bosco e campi da tennis vicini. dove potevo andare appena finito il
lavoro. Quanto al personale, era anch'esso «residuo», per dir così, erano cioè
impiegati che nessun altro ufficio desiderava tenersi. La segretaria, mi
informarono amici, era considerata una specie di strega (un po' ne aveva
l'aria, pur dovendo essere stata una bella donna da giovane), che litigava con
tutti e veniva quindi immancabilmente trasferita da un ufficio altro. Ma con me
andò d'accordo, fu gentilissima e lavorò senza una pecca, o senza una pecca
grave che io ricordi, almeno. Era la prima volta in vita mia che avevo una
segretaria a mia disposizione, e probabilmente ero particolarmente gentile
anch'io (ma non è stato diverso negli altri otto o dieci casi in cui mi capito
di avere segretarie che hanno lavorato per me). Quanto all'assistente, era un
impiegato sulla quarantina, laureato credo in legge (e, anche scontando il
basso livello delle università italiane del dopoguerra, mi domando per quali
mai vie traverse), giudicato da chi lo conosceva, e non se lo voleva vicino, un
tipo un po' strambo, con vaghe ubbie culturali. Devo dire che non riuscii a
utilizzarlo del tutto efficientemente, ma ci andai d'accordo, ogni tanto
entrando con lui persino in discussioni culturali, nelle quali mi spiegava le
sue teorie del mondo, il quale mondo, mi accorsi una volta, secondo lui
esisteva dal 4000 a.C. (la persona, si noti, non era credente). Quando gli
obiettai che, a quanto si poteva sapere, esisteva da molto più tempo, mi
rispose che intendeva dire che era l'uomo che esisteva da quelle sei migliaia di
anni. Debolmente insistei che anche per l'origine dell'uomo la data andava di
molto anticipata. Sembrava pronto a negoziare anche la data dell'origine
dell'uomo, ma almeno qualcosa che ci fosse soltanto dal 4000 a.C. gli sembrava
necessario trovarlo. Il linguaggio? Anche su quello, gli dissi... Infine gli
proposi di considerare che quella poteva essere una buona data per fissare
all'incirca l'origine della scrittura, e lui sembrò pacificato e pronto a
riprendere il ragionamento; che non ricordo quale fosse, cioè che cosa mirasse
a dedurre da quella datazione, una volta impietosamente sottrattogli il
riferimento ad Adamo ed Eva. Avevo insomma di fronte un interessante caso di
disordinato provinciale desiderio di sapere o meglio, bisogno di sistemare un certo scarso
numero di disparate informazioni che si
muoveva da un'incredibile assenza di basi culturali elementari, supplita al più
da alcune nozioni bibliche ricevute forse in catechismo e non più corrette. Ne
dovetti concludere che in ben poche situazioni avrei potuto da lui farmi assistere.
Bloccata l'ansia del mio assistente di discutere sull'origine del mondo,
negoziai con la direzione (cioè, in questo caso, Momigliano, ma credo che lui
si consultasse con Pampaloni) il lancio di una ricerca sui cosiddetti «capiintermedi».
In gran parte della letteratura aziendalistica di allora la «questione dei
capi» era considerata cruciale per l'andamento di una buona organizzazione
aziendale. Costituivano la mediazione indispensabile tra la direzione che dava
gli ordini generali e la mano d'opera che doveva eseguire. Se di origine
operaia, come era spesso il caso, non conoscevano i metodi nuovi di
organizzazione, o non li credevanonecessari. Se di origine tecnica (alcuni
capiofficina erano ingegneri, la gran parte erano periti tecnici industriali)
potevano trovare difficoltà ad avere rapporti sciolti con gli operai. La
riuscita di eventuali innovazioni organizzative o tecniche (che erano con
tinue) dipendeva inevitabilmente da loro. E da loro dipendeva anche il
cosiddetto «morale» dell'azienda, quell'entità che resta in definibile,
malgrado gli sforzi definitori della letteratura aziendalistica, ma che è assai
facile, passati alcuni giorni in un'azienda a guardare e parlare, capire se sia
alto o sia basso: Lavorai diversi mesi e alla fine consegnai un rapporto
di ricerca di una cinquantina di pagine, corredato da diverse decine di pagine
di protocolli d'interviste. Credo di aver riletto per la prima volta quel
rapporto ieri, dopo quanti sono ormai? 43 anni! Mi aspettavo di peggio, è ancora
leggibile. E ho scoperto persino alcune cose interessanti che avevo
dimenticato. Feci, tutte io (mica potevo fidarmi di mandarci il mio cosmogonico
assistente), più di 50 interviste (34 scelte con regolare campionamento, le
altre a informatori qualificati), a operai, a capi, a dirigenti. Mi si rivelò
allora quanto fosse forte in me il gusto del l'intervistare. Da allora
per anni e anni, a ogni occasione di ricerca, mi sono organizzato per
intervistare io stesso il maggior numero possibile di persone, e nel corso
della mia vita di lavoro sociologico calcolo, all'ingrosso, che avrò fatto, tra
l'una o l'altra ricerca, da solo o con aiuti, diverse centinaia di interviste.
Ricordo l'ultima, quattro o cinque anni fa, insieme con Donatella della Porta,
e con solo iniziale imbarazzo, a un politico locale in attesa di sentenza
definitiva di condanna per corruzione. Nella situazione di intervista «non
strutturata» (così si chiamano nel nostro gergo le interviste in cui non si usa
un questionario predeterminato, ma soltanto una traccia che puoi adattare a
seconda di come procede il colloquio) ti attrae il gusto di far parlare una
persona che non conosci su temi che tu scegli, e su cui magari lei all'inizio
non capisce bene di cosa esattamente si tratta, ma dopo un po' ti accorgi che
le viene voglia di dire più cose di quanto tu le chiedi, perché si trova di
fronte a un'occasione rara: qualcuno che sta ad ascoltarla su argomenti che lei
conosce, o crede di conoscere, e che la lascia parlare. Ti si apre così la
possibilità di penetrare nella nicchia delle immagini familiari di una persona
(pensai una volta di chiamare questa attrazione il «complesso di Asmodeo», ricordando
il diavolo che scoperchia i tetti delle case, caro a François Mauriac),
scavando al di sotto dei riassunti vaghi, che lei di primo acchito sarebbe
pronta a darti, ma che tu ti sei preparato a non accettare ciecamente per
buoni, delle situazioni che t'interessano, per arrivare ai gesti, agli atti
visibili che le hanno create, alle connessioni inattese con altre situazioni; e
mentre l'ascolti cercar di trarre da sé il più presentabile di sé, la vedi poi
finir per rivelarti ciò che lei stessa arriva a capire mano a mano che ti
parla. La ricerca fece venire alla luce tra altre cose che ora hanno perduto il loro
interesse che anche in un'organizzazione
tanto attenta al cosiddetto «fattore umano», qual era l'Olivetti, i germi
dell'autoritarismo erano vivi, e cosi l'insofferenza per esso. Ma la protesta
oscura che veniva alla luce non era tanto quella contro l'autoritarismo del
comando aspro o ingiusto, piuttosto, invece, quella contro l'esercizio
dell'autorità che rende possibile l'indifferenza, il non ascolto, lo sprezzo
per la collaborazione offerta, il non riconoscimento della tua esistenza. E
capivi che quella forma di «potere culturale» (come altro chiamarlo?), di cui
si fa forte chi ti tiene condiscendentemente a distanza, si rifiuta di prendere
in considerazione ciò che chiedi o che proponi, ti ignora o non ti parla, ti
esclude, mostrando la tua irrilevanza, dalle decisioni che riguardano il modo
in cui tu devi lavorare, insomma ti fa «sentire una merda», come mi si diceva,
perché non sai quello che solo sa chi sa era quel potere a creare dispetto, o
ribollimento interiore, e umiliazione. Mentre il puro comando gerarchico,
prevedibile, apparentemente anonimo, quasi prodotto da una macchina, che non fa
emergere responsabili contro cui indignarsi, è uguale per tutti, stabilisce
automaticamente chi deve ubbidire e chi corrispondentemente deve comandare, si
presenta come assai meno offensivo dell'altro, e tutt'al più provoca
risentimenti astratti. Forse in quelle deplorazioni e querele veniva a galla
una certa nostalgia dei rapporti paternalistici che avevano retto l'azienda
fino a poco tempo prima, e ancora vigevano qua e là, pur perdendo terreno di
fronte all'introdursi di rapporti gerarchici più freddi e distanti. Ma
c'è dell'altro, credo, in questo processo dello stratificarsi soggettivo in
termini di sapere, che lo fa più escludente e più offensivo di altre forme di
distanza sociale. Lo ritroverò quando, anni dopo, condurrò ricerche nelle
sezioni dei partiti di sinistra, e me ne rioccuperò con più attenzione.Nello
stesso tempo si manifestava, in chi aveva l'età per confrontare, la
consapevolezza che gli atteggiamenti impositivi fossero assai mitigati rispetto
a prima della guerra, e che erano assai rari i casi di scortettezza da parte
dei capi; anche se si riconosceva che pure durante il fascismo all'Olivetti il
rispetto degli operai si era in qualche modo mantenuto. Del resto, durante il
fascismo, la dialettica interna di fabbrica, come sembrava di poterla
ricostruire dai ricordi di chi era stato operaio allora, non era così
linearmente determinabile come ce la si può immaginare sulla base dei luoghi
comuni. Il ricordo era che i fiduciari dei sindacati fascisti (e questo mi sarà
confermato in colloqui che ebbi altrove con operai anziani della Cgil), quando
c'erano controversie con la direzione, intervenivano spesso, non senza effetto,
in favore degli operai. Ritornando all'importanza del possesso di sapere
come criterio duro di separazione sociale, mi andavo domandando se il prestigio
che all'Olivetti veniva attribuito dall'alto agli intellettuali non percolasse
giù fino ai livelli inferiori dell'organizzazione e rafforzasse la separazione
tra chi vedeva incluso nei suoi compiti quello di conoscere, informarsi,
accrescere il suo sapere, fosse pure non immediatamente funzionale alle sue
mansioni, e chi di questa possibilità era privo. Simile atteggiamento
rafforzava anche quel contrasto, che è consueto in tutte le organizzazioni, tra
line e staff: o volendo italianizzarlo con la più espressiva terminologia
militare, tra comando e stato maggiore (di cui staff, si sa, è la traduzione
inglese). Lo staff include chi dice come si deve lavorare; la line chi comanda
che si deve lavorare. Nello staff risiede il sapere, e la responsabilità di
accrescerlo; nella line c'è il rapporto tra persone, o, come ci si esprime con
un certo orgoglio usando la terminologia militare, il comando di uomini, con
relativo possesso dell'ascendente necessario per farsi ubbidire. E non ci si
meravigli se mi servo della terminologia militare; non è soltanto per confronti
che ho personalmente avuto occasione di poter fare, ma anche perché si dà caso
che lo stesso Adriano Olivetti non trascurasse di notare le analogie tra una
fabbrica e un'unità militare. Pensava in particolare alla nave da guerra; tanto
che aveva assunto, per farli diventare dirigenti, una certa quantità di ex
ufficiali di marina (che nel dopoguerra si trovavano ovviamente in abbondanza
sul mercato). Uno di questi, l'ingegner Tufarelli, che arrivò poi ai vertici
aziendali non solo dell'Olivetti, ma anche, successivamente,della Fiat a cui
era passato, fu assunto lo stesso giorno in cui ero stato assunto io, e
restammo a lungo amici, comunicandoci i nostri primi disvelamenti della
fabbrica; e mi diceva appunto come Adriano gli avesse sostenuto l'importanza di
quell'analogia, perché nave e fabbrica richiedono insieme, per esser guidate
bene, sapere tecnico e capacità di comando di uomini. Per parte mia, mi
colpiva una diversa analogia, la quale richiama piuttosto una fondamentale
capacità umana, la capacità di investire di valore una situazione che in
partenza appare di inferiorità. Cerco di spiegarmi. L'appartenere allo staff,
allo stato maggiore, proprio per il prestigio del possesso di «sapere» che lo
caratterizza, comporta, a parità di altre condizioni, una presunzione di
superiorità, e quindi un potenziale atteggiamento di spregio per chi non vi
appartiene. Corrispondentemente, lavorare nella line (nel caso dell'esercito,
«con la truppa») comporta lo svolgimento di compiti altrettanto indispensabili
di quelli dello staff, ma assai meno prestigiosi. Per evitare frustrazioni e
malcontenti occorre riequilibrare le attribuzioni di prestigio. Ciò avviene
attraverso un processo di reinterpretazione dei significati dei compiti
organizzativi. Di quelli che rischiano di venir sviliti si mettono in risalto
qualità arcanamente preziose, più innate che acquisibili, la «capacità di
conoscere gli uomini», il «saper come si risolvono situazioni umanamente
difficili», il «saper motivare i dipendenti», e, in una parola, appunto, il
possedere ‹«l'arte del comando di uomini». La capacità di distinguersi in
quelle posizioni organizzative viene allora apprezzata per un suo valore
intrinseco, e genera prestigio, che si può contrapporre allo stesso sapere
tecnico, quasi a permettere di tenerlo, o di pretendere di tenerlo, a vile; e
chi svolge quei compiti potrà inorgoglirsi. Si capisce meglio, considerando
questo meccanismo psicologico, anche il fallimento del fordismo prima maniera,
che, nella fabbrica, aveva mirato a ridurre tutti i rapporti gerarchici a
rapporti funzionali. Queste osservazioni trasparivano nei colloqui che
andavo facendo, anche se non le ripresi esplicitamente nel rapporto che
scrissi. Nel quale, pur marginalmente, trattai invece di un'osservazione
curiosa che, dopo decenni di lontananza da quegli ambienti, mi sono accorto che
avevo scordato, e che leggendo il rapporto mi è ritornata nella sua vivezza e
nella sorpresa che mi aveva provocato: che la capacità o meno di usare il
disegno industriale distingueva due classi di lavoratori, e l'accedervi
rappresentava l'ambizione maggiore degli operai non specializzati che ne erano
privi. Era quasi commovente ascoltare come tra molti di quegli operai
l'idea di imparare un giorno a usare il disegno si ponesse come una meta di
emancipazione dal lavoro bruto cui erano in quel momento impiegati. Esser
capaci di disegnare una macchina, un meccanismo, un processo produttivo, e
operare poi con quel di segno, rappresentava la possibilità di avere a
che fare con una realtà della mente, invece che con la realtà delle mani, del
corpo, con cui aveva invece a che fare il loro lavoro di operai comuni. Era una
manifestazione emotiva del riconoscimento di superiorità che l'astratto gode
sul concreto. E non era soltanto perché il possederlo poteva rappresentare
promozione sociale. Nelle loro parole si esprimeva forte l'esigenza di
liberarsi dall'indecifrabilità bruta della macchina, e ridurre a segni ordinati
la materia che li so vrastava. Consegnai il rapporto, fu lodato.
Occorreva ora, mi si disse, discuterlo in gruppi più ampi, organizzare riunioni
con capi e dirigenti. Ma tutto questo non avvenne. Stava succedendo
dell'altro. Per qualcuno, il finimondo. Il finimondo Il
Movimento di Comunità si era trasformato da culturale in politico . Partecipa
alle elezioni amministrative, ottenendo una clamorosa vittoria nel Canavese, e
Adriano Olivetti era diventato sindaco di Ivrea. Contemporaneamente viene
fondata, col nome di Autonomia operaia (sic!), l'organizzazione sindacale del
Movimento, che assorbe la socialdemocratica Uil. Contro il parere di
Momigliano, che ne era il superiore diretto, viene allontanato il capo del
personale operai, Filiberto Pomo, un ex capo partigiano carismatico, e il suo
assistente, accusati di porre ostacoli all'introduzione in fabbrica del
sindacato di Comunità. A Franco Momigliano vengono sottratte gran parte delle
sue competenze (alcuni mesi dopo verrà trasferito a un ufficio studi economici
dell'Olivetti a Milano). Luciana Momigliano Nissim, moglie di Franco,
reduce da Auschwitz, pediatra, che aveva a lungo diretto l'asilo ed era
diventata da poco direttrice dei servizi sociali, viene licenziata. In
un'assemblea di fabbrica aveva attaccato la politica di Comunità. Si
rovesciavano amicizie di un decennio. Mancavano pochi mesi alle
elezioni della Commissione interna e del Consiglio di gestione; un organismo,
questo secondo, che non aveva potere effettivo di negoziare per le maestranze,
ma che conservava un certo valore simbolico, poiché l'Olivetti era una delle
poche aziende che l'aveva mantenuto in vita dai tempi della sua diffusa
introduzione nel dopoguerra. Si poteva prevedere che la campagna elettorale
sarebbe stata assai calda. Non c'era da meravigliarsi che le riunioni allargate
per discutere il mio rapporto di ricerca tardassero a venir convocate. Un
giorno vennero a trovarmi in ufficio tre rappresentanti sindacali della Cgil;
tra di loro c'era quella che nella memoria Olivetti resterà poi come «la mitica
Bertolè», un'ex partigiana comunista, dal grande ascendente sugli operai e dall'abile
capacità negoziatrice negli incontri con la direzione aziendale. Mi chiesero se
accettavo di presentarmi alle elezioni del Cdg con la loro lista. Mi ricordo
che non stetti molto a pensarci su, dissi subito di si. Perché lo feci, e
con tanta immediatezza? Forse pesò (come in numerose altre occasioni, quando mi
sia capitato di accettare proposte di mutamento di lavoro o di residenza, o
anche per decisioni più intimamente personali) l'interiorizzazione di una
regola di condotta (chi sa per quali stratagemmi educativi instillatami) che
non manca mai di impormisi in questo genere di situazioni, secondo la quale è
doveroso, includibile, di fronte a una sfida che ti si presenta improvvisa,
rispondere senza stare a pensarci su, senza mostrare di calcolare le
conseguenze, ché a indugiare a calcolare ti sembrerebbe mancanza di coraggio,
grettezza, non sentiresti più di essere quello che ti eri immaginato di essere.
Non la ritengo una qualità positiva. Probabilmente deriva da qualche oscuro
timore che a prender tempo per deliberare calcolando non saprei tenere in mano
con chiarezza le fila dei criteri con cui determinare vantaggi e svantaggi. E
che forse dovrei accorgermi che quei criteri non ci sono veramente e mi
sperderei. Naturalmente, per tanta prontezza, che non è, dunque, sicurezza,
della decisione, il contenuto ha da non essere disaccetto. Questa volta la
scelta rispondeva al bisogno di fare cose di sinistra, dopo avere perdiatra,
che aveva a lungo diretto l'asilo ed era diventata da poco direttrice dei
servizi sociali, viene licenziata. In un'assemblea di fabbrica aveva attaccato
la politica di Comunità. Si rovesciavano amicizie di un decennio.
Mancavano pochi mesi alle elezioni della Commissione interna e del Consiglio di
gestione; un organismo, questo secondo, che non aveva potere effettivo di
negoziare per le maestranze, ma che conservava un certo valore simbolico,
poiché l'Olivetti era una delle poche aziende che l'aveva mantenuto in vita dai
tempi della sua diffusa introduzione nel dopoguerra. Si poteva prevedere che la
campagna elettorale sarebbe stata assai calda. Non c'era da meravigliarsi che
le riunioni allargate per discutere il mio rapporto di ricerca tardassero a
venir convocate. Un giorno vennero a trovarmi in ufficio tre rappresentanti
sindacali della Cgil; tra di loro c'era quella che nella memoria Olivetti
resterà poi come «la mitica Bertolè», un'ex partigiana comunista, dal grande
ascendente sugli operai e dall'abile capacità negoziatrice negli incontri con
la direzione aziendale. Mi chiesero se accettavo di presentarmi alle elezioni
del Cdg con la loro lista. Mi ricordo che non stetti molto a pensarci su, dissi
subito di si. Perché lo feci, e con tanta immediatezza? Forse pesò (come
in numerose altre occasioni, quando mi sia capitato di accettare proposte di
mutamento di lavoro o di residenza, o anche per decisioni più intimamente
personali) l'interiorizzazione di una regola di condotta (chi sa per quali
stratagemmi educativi instillatami) che non manca mai di impormisi in questo
genere di situazioni, secondo la quale è doveroso, includibile, di fronte a una
sfida che ti si presenta improvvisa, rispondere senza stare a pensarci su,
senza mostrare di calcolare le conseguenze, ché a indugiare a calcolare ti
sembrerebbe mancanza di coraggio, grettezza, non sentiresti più di essere quello
che ti eri immaginato di essere. Non la ritengo una qualità positiva.
Probabilmente deriva da qualche oscuro timore che a prender tempo per
deliberare calcolando non saprei tenere in mano con chiarezza le fila dei
criteri con cui determinare vantaggi e svantaggi. E che forse dovrei accorgermi
che quei criteri non ci sono veramente e mi sperderei. Naturalmente, per tanta
prontezza, che non è, dunque, sicurezza, della decisione, il contenuto ha da
non essere disaccetto. Questa volta la scelta rispondeva al bisogno di fare
cose di sinistra, dopo avere pertanto tempo espresso opinioni di sinistra.
Aggiungi il sentimento di voler mostrare solidarietà con le persone che in quei
giorni venivano colpite, alcune di loro molto amiche; forse il desiderio di
acquisire valore ai loro occhi. Per il Cdg si votava separatamente
secondo settori organizzativi. Quello in cui mi presentavo io era chiamato
«Uffici della presidenza» e contava 61 elettori. Formato da personale scelto o
direttamente da Adriano o da suoi assistenti, era ovviamente ritenuto un covo
di comunitari. Ma andando in giro per parlare con questo o quel conoscente (non
si doveva trattare ufficialmente di propaganda elettorale) mi accorsi che ero
guardato con sorrisi di simpatia, e quasi con ammicco. Il giorno successivo al
voto il giornale di fabbrica della Cgil, il «Tasto», annuncio che io ero
risultato eletto con 31 voti. Il risultato era cosi inaspettato che i
comunitari chiesero una riconta, la quale concluse che io avevo ricevuto 30
voti, non 31, e quindi non risultavo eletto. Non me ne preoccupai più di tanto,
la carica non era attraente, mi bastava il successo ottenuto, molti venivano a
complimentarsi, e del resto complessivamente nella fabbrica il sindacato di
Comunità era stato sconfirto. Poi ci ho ripensato: fossi stato eletto, la
direzione avrebbe avuto difficoltà ad allontanarmi da Ivrea e poi licenziarmi.
Che invece fu proprio quanto avvenne qualche mese dopo. Mi fu dato un anno di
tempo per trovare un altro lavoro e nel frattempo fui assegnato al Centro di
ricerca operativa dell'Università Bocconi (era finanziato in gran parte
dall'Olivetti) come assistente del professor Francesco Brambilla, che lo
dirigeva, spirito geniale e bizzarro dal quale, nell'anno che ci lavorai
insieme, imparai un po' di statistica, ma non molta. Il primo novembre
1956. 'I di dei mort alegher!, caricatici sulla Topolino che avevo comprata a
Ivrea di seconda mano, mia moglie, mia figlia di due anni, io e un po' di
valigie, ci dirigemmo verso Milano. A Rho al sole si sostitui un chiarore
lattiginoso sporco, impenetrabile, e, per mesi e mesi, piogge a parte, tale
sostanza plano tra il cielo e la città, tanto da convincermi che in quella
Milano dai camini ancora non filtrati, quello e nient'altro era da chiamarsi
«sole». Ma in qualche giorno di aprile anche il sole come usa nel resto
d'Italia riapparve. Si conclusero così quei tre anni di un'esperienza che
più inaspettata per me non avrebbe potuto essere, durante la quale di-ventai,
in qualche definizione di questo termine, sociologo, acquisii conoscenze
dirette del funzionamento di quella che veniva allora marxisticamente chiamata
la struttura dei rapporti di pro-duzione, strinsi amicizie alcune delle quali
durarono a lungo. A uno degli amici di allora, l'ingegnere che era stato
direttore delle costruzioni dell'azienda, che, malato da anni, usavo andare a
trovare quando mi capitava di passare da Milano, una sera raccontai che avevo
intenzione di scrivere delle memorie sul periodo all'Oli-vetti. Si mostrò
stupito, ma certo voleva leggerle appena le avessi scritte. Sul pianerottolo,
dove mi aveva accompagnato con fatica, lo salutai battendogli una mano sulla
spalla: «Ciao, vecchio», gli dissi. «Ciao, vecchio? Ciao morto, devi dire» mi
ribatté, in una delle sue abituali, esplosive esclamazioni di ironia. Era
Roberto Guiducci, il miglior amico tra i sopravvissuti degli anni di Ivrea, eta
l'ultima volta che lo avrei visto, gli posso solo dedicare, non far leggere,
queste pagine, che non ho scritto in tempo. Alessandro Pizzorno. Pizzorno.
Keywords: politica assoluta, razionalita e riconoscimento, razionalizzazione,
soggetti del pluralism, lotta operaia, sindacato, la politica assoluta,
fascismo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Pizzorno” – The Swimming-Pool
Library.
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