Luigi Speranza -- Grice e Nannini: la ragione
conversazionale e l’implicature conversazionali dei corpi animati – filosofia
toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo italiano. Siena, Toscana. Grice:
“Nannini has intuitions in Italian.” Grice: “I agree with Nannini
about the naturalism: the ‘anima’ is there to ‘explain’ ‘spiegare’ the action,
‘l’azione’ – He is the Italian Muybridge!” – Grice: “The Nannini series is the
equivalent of the Muybridge series” Studia a Firenze con Luporini e Landucci e,
inizialmente, con Luporini. Ha
accompagnato la sua attività di ricerca in campo filosofico ed i suoi impegni
accademici con una intensa attività politica a Siena come militante del Partito
Comunista Italiano. È stato Professore di Filosofia Morale all'Urbino e di
Filosofia Teoretica all’Università Siena, dove ha insegnato per alcuni anni
anche filosofia della mente ed è stato principale cofondatore e direttore di
una scuola di dottorato interdisciplinare in Scienze Cognitive. È stato inoltre
più volte, visiting professor presso le Osnabrück, North London, Bremen e
Oldenburg. Attualmente in pensione, è ancora pro tempore Docente Senior presso
l’Siena e dal è direttore di Rivista
Internazionale di Filosofia e Psicologia. I suoi studi giovanili si sono
incentrati sulla filosofia delle scienze sociali, lo strutturalismo francese e
la storia del pensiero antropologico. Successivamente, rivoltosi alla filosofia
analitica ed in particolare alla teoria dell’azione, ha cercato di sviluppare
il “naturalismo metodologico” criticando il ritorno di neo-wittgesteiniani come
Wright alla distinzione storicistica tra scienze della natura e scienze dello
spirito. Sempre muovendosi entro la filosofia analitica, ma rivolgendo il
proprio interesse alla filosofia pratica, ha difeso il non cognitivismo in
meta-etica. A partire dagli anni Novanta Professoresi è infine spostato dalla
teoria dell’azione alla filosofia della mente. In una prima fase si è occupato
soprattutto della storia del concetto di mente, per approdare ad una forma di
naturalismo cognitivo basata su una soluzione fisicalistico-eliminativistica del
problema mente-corpo. Saggi: “Il pensiero simbolico” (Bologna, Il
Mulino); “Cause e ragioni” -- Modelli di spiegazione delle azioni” umane nella
filosofia analitica” (Roma, Riuniti); “Il Fanatico e l'Arcangelo” -- Saggi di
filosofia analitica pratica, Siena, Protagon. “L'anima e il corpo” -- Una introduzione storica alla filosofia dell’animo,
Roma, Laterza; “Naturalismo” cognitivo: Per una “teoria materialistica” dell’animo,
Macerata, Quodlibet, “La Nottola di Minerva” -- Storie e dialoghi fantastici
sulla filosofia dell’animo” (Milano, Mimesis);“Educazione, individuo e società”
Torino, Loescher ), L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena),
SeB Editori. Saggi, Freud e l'antropologia, in La Cultura. Rivista di
Filosofia, Letteratura e Storia, “ Il materialismo “primario”, in, Il pensiero
di Luporini” ( Milano, Feltrinelli); “L'anomalia dell’animo «Rivista di filosofia»,
Corpi animati, nel dibattito contemporaneo, in
L’animo, Milano, Mondadori, I corpi animati e e società nel naturalismo
forte, nella Civiltà delle Macchine», Realismo scientifico e ontologia
materialistica, in «Giornale di metafisica», Nicolaci G., Perone U., Ontologia e
metafisica, Il concetto di verità in una prospettiva naturalistica, in
Amoretti, Marsonet, Conoscenza e verità” (Milano, Giuffré); “L’Io come
Direttore Assente” (in Cardella V., Bruni D., Cervello, linguaggio, società:
Atti del Convegno di Scienze Cognitive, Roma, CORISCO, Orologi, animo e cervello:
Riflessioni preliminari su tempo reale e tempo fenomenico tra fisica teorica e
filosofia dell’animo, in Amoretti, Natura umana, natura artificiale” (Milano,
Angeli); Rappresentazioni naturalizzate, in «Sistemi intelligenti», Kant e le
scienze cognitive sulla natura dell’Io, in Amoroso L., Ferrarin A., La Rocca C.,
Critica della ragione e forme dell'esperienza’ (Pisa, Edizioni ETS); Realismo
scientifico e naturalismo cognitivo, La coscienza può essere naturalizzata?, in
Nannini S., Zeppi A., L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena),
SeB Editori, In-conscio, co-scienza e
intenzioni nel naturalismo cognitivo, in «Sistemi intelligenti», La svolta
cognitiva in filosofia, in «Reti, saperi, linguaggi: Naturalismo cognitivo: Per
una teoria materialistica dell’animo, Quodlibet, N., La Nottola di Minerva:
Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo, Mimesis. Sandro
Nannini. Nannini. Keywords: corpi animati, l’interazione dei corpi animati,
l’ego come direttore assente, freud e il nos come dirretori assenti --. Luigi
Speranza: “Grice e Nannini: il santo, l’eroe, il fanatico, l’arcangelo” – The
Swimming-Pool Library. Nannini.
Luigi Speranza -- Grice e Nardi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Alighieri -- dantesco – Alighieri
– la scuola di Spianate -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Spianate). Filosofo toscano. Filosofo
italiano. Spianate, Altopascio, Lucca, Toscana. Grice: “The Italians are
fortunate: with Alighieri they can philosophise about him!” Primogenito di una famiglia benestante, composta di nove figli,
viene avviato sin dalla tenera età alla carriera ecclesiastica. Entra nel
collegio dei frati francescani a Buggiano e diventa chierico, assumendo il nome
di frate Angelo. Usce dal convento di Buggiano perché non aveva intenzione di
continuare nella vita religiosa, avendone perduta la vocazione. Proseguì gli
studi di filosofia e teologia frequentando il convento di Sant'Agostino di
Nicosia in provincia di Pisa. Volendo proseguire gli studi, i genitori gli
indicarono un'unica strada, quella di entrare in seminario e diventare prete. Venne
ammesso al seminario di Pescia e diventò sacerdote. Qui si avvicinò fugacemente
al movimento Modernista, condannato da papa Pio X con l'Enciclica
Pascendi. Nel 1908 Nardi sostenne l'esame di concorso per una borsa di
studio triennale conferita dall'opera Pia Galeotti di Pescia al fine di
frequentare un corso di perfezionamento filosofico presso l'Università
Cattolica di Lovanio (Belgio). Nel 1909 Nardi aveva da poco iniziato a
frequentare l'Università Cattolica di Lovanio che già decise l'argomento
della sua tesi di laurea Sigieri di Brabante nella Divina Commedia e le fonti
della filosofia di Dante, che venne discussa con Wulf. La lettura dell'opera di
Pierre Mandonnet, nella parte dedicata a Sigieri, non persuadeva N. sulla
soluzione data al problema della presenza di questo averroista nel Paradiso dantesco.
Due pregiudizi la inficiavano: il primo “consisteva in un'inesatta visione
storica di quello che nel Medio Evo e nel Rinascimento era stato l'averroismo.
Il secondo pregiudizio del Mandonnet era quello di ritenere il pensiero
filosofico di Dante conforme in tutto e per tutto a quello d’AQUINO." Nel
momento in cui N. Entra a Lovanio abbandonò il modernismo teologico, ma non
abbracciò la filosofia neo-scolastica che quella Università belga stava
elaborando. Non aveva senso per lui ripetere, sul finire dell'Ottocento,
nell'epoca del positivismo, l'operazione culturale d’AQUINO che prevedeva
l'unificazione di fede e ragione. Il metodo di lavoro che Nardi seguì nel
corso della sua vicenda di studioso e ricercatore, rimase sempre improntato al
massimo rigore filosofico, risentendo come una traccia indelebile
dell'esperienza di Lovanio, dove dovette affrontare studi scientifici. Per
Nardi l'interpretazione del testo coincide con la libertà, ma tale atto libero
non può attivarsi senza uno scrupoloso lavoro di scavo e ricerca del materiale
documentario, l'esatta interpretazione filosofica dei testi. Ottenuta
un'ulteriore borsa di studio dall'Opera Pia di Pescia frequenta corsi di
filosofia a Vienna, Berlino, Bonn. Oltre alla pubblicazione della propria tesi
su Sigieri nella “Rivista di filosofia neo-scolastica”, N. vi pubblica altri
interventi spesso critici con la linea editoriale del periodico. scritto ai
corsi dell'Istituto di Studi Superiori di Firenze perché voleva riconoscere in
Italia la sua laurea in filosofia conseguita a Lovanio. A Firenze discuterà la
tesi di laurea in filosofia dedicata alla figura del medico e filosofo padovano
Abano. Collabora alla “Voce”, rivista fondata da Prezzolini con il quale
mantenne per lunghi anni una fitta corrispondenza. N. volle abbandonare il
sacerdozio. In una successiva lettera
indirizzata al vescovo Angelo Simonetti, spiegava che era stato
l'ambiente familiare a spingerlo a chiedere la sacra ordinazione, con preghiere
e minacce. Di trasferì a Mantova per insegnare filosofia presso il liceo
classico Virgilio, dove vi restò fino al quando si trasferì a Milano. Ha da
Giovanni Gentile un incarico per l'insegnamento della filosofia medievale
presso la facoltà di lettere dell'Roma. Tuttavia non ottenne la cattedra
universitaria (se non dopo molti anni), a causa dell'art. 5 del Concordato in
base al quale la curia romana escludeva i sacerdoti secolarizzati dall’insegnamento. Gli
fu assegnata la “Penna D’Oro” dal presidente del Consiglio Tambroni. Gli fu
conferita la laurea honoris causa da parte dell’Padova e da parte di quella di
Oxford. Le opere e gli studi su Alighieri si è dedicato instancabilmente
per di più in mezzo secolo allo studio del pensiero di Dante, anche quando si
occupava di Virgilio, di Sigieri di Brabante, di Pomponazzi. Nardi ha saputo
mettere in discussione schemi consolidati, ha aperto strade nuove, ha formulato
proposte inedite che ci permettono di avere una più esatta comprensione dei
testi danteschi. Una costante di Nardi è di aver conservato sempre una propria
autonomia, se non un vero e proprio distacco, rispetto agli ambienti
culturali in cui si era trovato ad agire, fossero Lovanio, Firenze o Roma. Il
coraggio con cui seppe polemicamente ribaltare tesi consolidate negli ambienti
accademici, gli fruttarono ingiustamente isolamento e non adeguata
considerazione rispetto alle sue acquisizioni veramente anticipatrici. Basti
pensare alle sue tesi sull'averroismo latino, all'importanza data alla figura
di Avicenna, di Alberto Magno, al rifiuto del preteso tomismo di Dante. E se di
Gentile parlava come di un "vero e grande maestro", dandogli ragione
nella sua polemica con il De Wulf (relatore della sua tesi a Lovanio), Nardi
pur tuttavia non aderirà al Neoidealismo, ma vi trarrà soltanto spunti e
stimoli per le sue ricerche. L'incontro con Dante costituisce per N.
l'episodio decisivo della sua vita intellettuale e morale. Scriverà nel 1956:
"in Dante trovai il vero e primo maestro, quello a cui debbo la maggior
gratitudine". Il senso della sua ricerca è stato interrogare il
"miracolo" della Divina Commedia, questo "singolare poema
sbocciato all'improvviso contro tutte le buone regole dell'arte e del
dittare". Secondo N. nella commedia è custodita la Verità, che si è
manifestata ad un poeta ispirato da una profetica visione. La lunga fatica del
Nardi è giunta a concludere che la filosofia di Dante non si riduce a nessun
sistema codificato; è una sintesi complessa tendente a superare le antinomie e
che mantiene intera la sua spiccata originalità, il suo personalissimo
pensiero. Per arrivare a coglierlo occorre da una parte ristabilire il preciso
significato delle parole in rapporto alla terminologia filosofica e scientifica
del Medioevo, e ricostruire dall'altra l'ambiente culturale e l'atmosfera
spirituale nelle quali Dante si muoveva per arrivare a determinare la fonte, il
libro letto da Dante. N. ha gettato luce su molti elementi e suggestioni
che Dante derivava dalla filosofia araba e neoplatonica. Essenziali per comprendere
Dante sono Alberto Magno e Sigieri più di Tommaso; così come il neoplatonismo e
la cultura araba più dello scolasticismo aristotelico. A N. interessava
particolarmente affrontare il tema della "visione dantesca",
esperienza profetica che seppe tradurre come nessun altro nel linguaggio della
Divina Commedia. La visione di Dante non è finzione letteraria, è rivelazione
reale dell'aldilà, concessa da Dio in virtù di un supremo privilegio. Dante
visse il rapimento mistico ed estatico al terzo cielo come esperienza reale.
Dante credette di essere sceso veramente nell'Inferno, salito veramente al
Purgatorio e al Paradiso. Per N. la Commedia si distacca dagli altri scritti di
Dante, perché ne è il loro compimento. Tale culmine si realizza attraverso
un'esperienza eccezionale, di origine mistico-religiosa a lui soltanto
riservata, una rivelazione che ha il potere di trasformare e rendere nuove
tutte le altre opere precedenti. L'opera dantesca, secondo Nardi, si deve
suddividere in tre fasi: la prima fase, che termina a venticinque anni, è sotto
l'influsso di Guinizzelli, assente del tutto la filosofia. La seconda fase,
quella filosofico-politico, coincide con le rime allegoriche, il Convivio, il
De vulgari eloquentia e la Monarchia. La terza fase, quella della poesia
profetica, coincide con la Divina Commedia, poema che segna il ritorno
all'unità della filosofia cristiana. Dante vi compare come profeta che deve
annunciare al mondo l'avvento di un inviato di Dio per la redenzione umana. La
Commedia è "poema sacro", la sua è poesia religiosa. Nardi vede in
questa terza fase finalmente riconciliarsi la speranza cristiana spezzatasi con
l'aristotelismo e l'avverroismo. Per Nardi l'aristotelismo è inconciliabile con
il cristianesimo, e il tomismo pertanto è "il più strano paradosso del
pensiero umano". La Commedia testimonia della riunificazione della
filosofia con la rivelazione di Dio. Dante visse una visione profetica,
esperienza che mancò ad Aristotele. L’'Accademia dei Lincei gli ha
conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Saggi: “Flosofia dantesca” (Bari, Laterza) – ALIGHERI
-- ; “Critica dantesca” (Milano, Ricciardi); “Filosofia dantesca” (di
Alighieri) (Firenze, Nuova Italia); “La filosofia medievale” (Roma, Ed. di storia
e letteratura); “Alighieri” (Roma, Laterza). Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,."Giornale
Critico della Filosofia Italiana",
Premi Feltrinelli, su lincei, Medioevo e Rinascimento,” Firenze, Sansoni, Alberto
Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, ad vocem
Sigieri di Brabante e Alessandro Achillini, Di un nuovo commento alla canzone
del Cavalcanti sull'amore, “Cultura neo-latina”, Noterella poetica
sull'averroismo di Cavalcanti, Rassegna filosofica, Sigieri di Brabante e le
fonti della filosofia di Alighieri, in “Rivista di filosofia neoclassica” Sigieri
di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Alighieri,
Spianate, La teoria dell'anima o animo e la generazione delle forme secondo
Pietro d'Abano, “Rivista di filosofia neoscolastica”, Vittorino da Feltre al
paese natale di Virgilio, in “Atti del IV Congresso nazionale di Studi Romani”,
Roma, Lyhomo (note al “Baldus” di T. Folengo), “Giornale critico della
filosofia italiana”, “Nel mondo di Alighieri” (Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma); “Sigieri di Brabante nel pensiero del rinascimento
italiano” (Edizioni italiane, Roma); “Alighieri profeta, in Dante e la cultura
medioevale; “Saggi di filosofia dantesca” (Bari, Laterza); “La mistica averroistica
e Pico”; “L' aristotelismo padovano (Firenze, Sansoni) – i lizii -- già edita
in “Archivio di filosofia, Umanesimo e Machiavellismo”, Padova); “Il
naturalismo del Rinascimento, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, Roma, Universitarie; “L'alessandrinismo nel
Rinascimento, Corso di Storia della filosofia. Anno accademico, I. Borzi e C. R. Crotti, Roma, “La Goliardica”
La fine dell'averroismo, Gli scritti di Pomponazzi. “Giornale critico della
filosofia italiana”, Le opere inedite di Pomponazzi. Il fragmento marciano del commento
al “De Anima” e il maestro di Pomponazzi, Trapolino, Il problema della verità,
soggetto e oggetto dell'conoscere nella filosofia antica e medioevale” (Universale
di Roma, Roma); “La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, Corso di
storia della filosofia T. Gregory, “La Goliardica” Il commento di Simplicio al
“De Anima” Archivio di filosofia”, Padova, La miscredenza e il carattere morale
di Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Le opere inedite di Pomponazzi,
“Giornale critico della filosofia italiana” Le meditazioni di Cartesio, Lezioni
di storia della filosofia. “La Goliardica”, Roma, Pomponazzi e la cicogna
dell'intelletto, “Giornale critico della filosofia italiana” Il dualismo
cartesiano, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma,
Il dualismo cartesiano degl’occasionalisti a Leibniz, Corso di storia della
filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Ancora qualche notizia e aneddoto
su Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Marcantonio e Zimara: due
filosofi galatinesi, “Archivio storico
Pugliese” Un'importante notizia su scritti di Sigieri a Bologna e a Padova alla
fine del sec. XV, “Giornale critico della filosofia italiana”, Contributo alla
biografia di Feltre, “Bollettino del Museo civico di Padova”, Letteratura e
cultura del Quattrocento, in “La civiltà veneziana del Quattrocento” (Firenze,
Sansoni); “Appunti intorno a Trapolin, In Miscellanea” (Edizioni di Storia e letteratura,
Roma); “Copernico studente a Padova”; “Studi e problemi di critica testuale.
Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i
Testi di Lingua, Bologna, L'aristotelismo della Scolastica e i Francescani, in
Studi di Filosofia Medioevale” (Storia e letteratura, Roma); “Pomponazzi e la
teoria di Avicenna intorno alla generazione spontanea dell'uomo” (Mantuanitas
vergilana – (Ateneo, Roma); La scuola di Rialto e l'Umanesimo veneziano, in
Umanesimo Europeo e Umanesimo veneziano” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pomponazzi”
(Monnier, Firenze); “I lizii di Padova” (Monnier, Firenze); “Corsi manoscritti
di lezioni e ritratto di Pomponazzi, in Atti del VI Convegno internazionale di
studi sul Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pietro Pomponazzi” (Monnier,
Firenze); “Saggi e note di critica dantesca, Ricciardi, Filosofia e teologia ai
tempi di Alighieri in rapporto al pensiero del poeta, in Saggi e note di
critica dantesca” (Ricciardi, Milano); “Saggi e note sulla cultura veneta del
Quattro e Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova); “Saggi sulla cultura
veneta del Quattro e del Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova, Divina
Commedia, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia dantesca,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Un profilo biografico, Consulenza
scientifica Società Dantesca Italiana. L’ARISTOTELISMO PADOVANO. STUDI SULLA TRADIZIONE ARISTOTELICA NEL VENETO, UNIVERSITÀ DEGLI
STUDI DI PADOVA, CENTRO ARISTOTELICO. L'ARISTOTELISMO PADOVANO. SANSONI, FIRENZE. Il volume di N. è
stato pubblicato a
cura e sotto
gli auspici del centro
per lo studio
della tradizione aristotelica
nel Veneto e del
Comitato per la
storia dell'università di
Padova. Stampato in Italia. N.
adere di buon
animo a che
venissero riuniti in un volume, per
comodo degli studiosi
che ne fanno
ricerca, alcuni saggi sull'aristotelismo padovano
e particolarmente su quell’ interpretazione del
pensiero del “LIZIO” (antica
ortografia di “Lyceo”) che prende
il nome d’Averrois che
7 gran commento
feo », sparpagliati, come numerosi
altri loro confratelli,
in varie riviste
ormai non più facilmente
accessibili. Questi saggi
abbracciano un periodo assai
lungo di ricerche
dal igi2 al
ig^ó, e nel
loro insieme offrono un
quadro sufficientemente completo,
per monografie che si
richiamano fra loro,
della filosofìa a
Padova dai tempi di
Abano (SCHIAVONE, si veda) a
quelli di ZABARELLA (si veda) e PICCOLOMINI (si veda),
quando ormai, a
Padova e altrove, il LIZIO comincia a volgere
decisamente al tramonto,
per il nascere
delle nuove scienze della
natura e del
nuovo metodo di
ricerca filosofica. Fuori della
presente raccolta, già
abbastanza pingue, son
rimasti i saggi stille
opere inedite di POMPONAZZI (si veda), meno
quello relativo alla miscredenza
di VERNIA (si veda), perché
essi potranno essere riuniti
a suo tempo
in un volume
a parte, ed
altresì quello sulla letteratura
e cultura veneziana, apparso in La
civiltà veneziana pella
Fondazione Cini, che
potrà meglio figurare
insieme ad altri, che
vado preparando, sulla
filosofia veneziana del
Rinascimento. Nella
formazione del presente
volume non è
stato sempre rispettato l'ordine
cronologico nel quale
i saggi qui
compresi sono apparsi, per
il bisogno di
contemperarlo con la
successione storica degli argomenti
trattati. Ad ogni
modo, sono stati
sempre indicati in nota
la data e
il luogo ove
ciascuno ha visto
la luce la prima
volta. Inoltre, ritengo
opportuno avvertire che
tutti sono stati più
o meno leggermente
ritoccati, e qualcuno
in modo assai notevole. Quello che
mi ha guidato
in queste non
agevoli ricerche, non è
stato, cerne forse
taluno potrebbe pensare,
il gusto delle
notizie erudite, pur sempre
indispensabili alla ricerca
storica, sibbene il bisogno
di prospettare le
particolari condizioni e
circostanze d'ambiente
culturale in cui
certi problemi filosofici
eran posti dagli aristotelici
padovani, e lo sforzo
da questi sostenuto
per trovarne una
soluzione e per
evadere da abitudini mentali
e pregiudizi che
alla soluzione di
quei problemi s'opponevano. Su alcuni
di siffatti problemi
discussi e ridiscussi
mille volte nel corso
di quasi quattro
secoli, era naturale
che avessi a
fermarmi con insistenza e
abbondanza di citazioni,
perché chi legge avesse
modo di rendersi
conto, quasi toccando
con mano, dell' imprecisione
e non di
rado dell' avventatezza
di talune affermazioni da parte
di non pochi
storici che la
storia delle idee non
hanno mai preso
sul serio, contenti
troppo spesso di
luoghi comuni e vacue
generalità: Per oppormi
appunto a questo
andazzo e per restituire
ai pensatori sui
quali mi sono
fermato i lineamenti della
loro umana fisionomia,
m' è parso
non fossero da sdegnare
notizie particolari e
perfino aneddoti che
rasentano il pettegolezzo, ma
intanto rivelano curiosi
tratti del loro
carattere morale e aprono
uno spiraglio su
quell'ambiente scolastico, per tanti
aspetti così diverso
di quello d'oggi. La
distinzione poi che
s' è preteso
di fare tra
filosofia e cultura s
è rivelata inconsistente, non
solo quando s'
è tentato di giustificarla, col
definire in termini
rigorosamente logici il concetto
di cultura come
diverso da quello
di filosofia, ma più
ancora quando, in
omaggio a quella:
pretesa distinzione, nel tracciare
la storia del
pensiero d'un epoca,
s' è tenuto conto quasi
esclusivamente dei pionieri
e si sono
disprezzate forme di pensiero
meno avanzate e,
diciamo pure, piii
umili, come, ad esempio,
per il Rinascimento,
le credenze magiche
ed astrologiche, condivise da
dotti non meno
che dal popolino,
e le opinioni intorno al
potere delle streghe
e al loro
commercio col diavolo, cui
davan credito, non
meno del volgo,
insigni cherci e
letterati grandi e di
gran fama, non
che giuristi e
teologi i quali
s'argomentavano d' estirparne
la mala semenza
con gli esorcismi
e col rogo. Così
del Rinascimento s'
è mostrato solo
un aspetto, mettiamo pure
il migliore e
più, seducente, ma
unilaterale e incompleto, per aver
relegato nell'ombra il
rovescio della medaglia,
cioè quelle forme
di pensiero che
persistevano non solo nelle
masse popolari e
incolte, ma altresì
nei ceti borghesi
di media cultura, nella
nobiltà, nelle corti
principesche e nel
clero. Eppure anche siffatte
convinzioni rappresentano particolari maniere di
raffigurarsi la vita
e il mondo
e costituiscono anch'esse modi di
pensare la realtà,
che, per quanto
arretrati, furon condivisi dall'
enorme maggioranza degli
uomini nel periodo che
si dice del
Rinascimento. Altrettanto si dica
della distinzione fra ciò
che è vivo
e ciò che è
morto » del
pensiero del passato,
quasi che potesse
morire quel che non
è mai stato
vivo, e che
vivere non fosse
un correre alla morte,
cioè un continuo
rinnovarsi. Singolarmente
penosa appare infine
l'ansia che per
il concetto, la natura,
il metodo, le
sorti della storia
e per il
valore del giudizio storico
dimostrano taluni che,
chiusi nella loro specola
teoretica, senza scomodarsi
colla ricerca e la critica
dei documenti e delle
testimonianze,
indispensabili al giudizio
storico, pretenderebbero di dedurre
a priori gli
eventi della storia universale. Sì, lo sappiamo,
per interpretare il
linguaggio dei documenti e
delle testimonianze ci
vuol cervello; e
per cervello intendo la categoria
», cioè la
capacità a inserire
il fatto accertato nella trama
logica del pensiero.
Ma la categoria
è vuota senza V
intuizione », e
la mola del pensiero frulla
a vuoto se dalla
tramoggia non cala
giù il buon
grano falciato nei
campi arsi dal sole,
battuto vagliato e
seccato sull'aia. Sì
che a ragione pareva al
Vico aver mancato
per metà così
i filosofi che
non accertarono le loro
ragioni con l'autorità
de' filologi, come
i filologi che non
curarono d'avverare le
loro autorità con
la ragione dei filosofi. Il
già celebre e
oggi invece quasi
sconosciuto medico e filosofo
padovano, Abano SCHIAVONE (si
veda), vien classificato
ordinariamente dai rari storici
moderni della filosofia
medievale che si degnano
consacrargli qualche linea,
fra gli averroisti:
da qualcuno è, anzi,
presentato come fondatore
dell'averroismo all'università
di Padova. Ma,
cosa strana, dell'averroismo dell' Abanese tacciono
affatto gli antichi
storici che pur lo
fanno passare come
astrologo, mago, eretico,
e che a
queste accuse, riguardanti le
dottrine di lui,
ne aggiungono ben
altre riferentisi al carattere
personale, per quanto
queste ultime abbiano l'aspetto
di favole se
non, spesso, di
denigrazioni evidenti.
Scorrendo la monografia
che gli consacra
S. Ferrari ', il
sospetto che l'averroismo
del medico d'Abano
non fosse una pretta
leggenda, si accrebbe
in me a
tal segno che decisi
di consultare per
conto mio il
Conciliator differentiariini philosophormn
et praecipiie medicorum.
Sennonché, essendo l'opera relativamente rara
e trovandomi da
quattro anni quasi
sempre all'estero, non mi
fu così facile
procurarmela; quando, nell'essere a
Bonn m'abbattei in
un'edizione senza data,
ma che porta in
testa questa nota
manoscritta: impressus. Me codex est
Venetiis a. 1483
per Jo. Herbart
de Selgenstadt, alemanmmi. Mentre andavo
trascrivendo i passi
più importanti dal punto
di vista filosofico,
quasi quasi non
sapevo credere a me
stesso, finché non
li ebbi collazionati con
altre * Già apparso
nella Riv. di
Filos. Neoscolastica», I\',
Solo qualche lieve
ritocco. I / tempi,
la vita, le
dottrine d’Abano. Saggio
storico-filosofico di Sante Ferrari,
Genova.] edizioni e specialmente
con quella del
1476, di cui,
oltre le copie possedute a
Padova, a Firenze,
a Torino ecc.,
una si trova con
mia grande sorpresa
proprio nella Capitolare
di Pescia. Dico che
non sapevo credere
a me stesso,
perché i passi, a
cui il Ferrari
rimanda, lungi dal
rivelare le preoccupazioni averroistiche che
egli, con critica
bizzarra, crede scoprire ad
ogni pie sospinto
attraverso le dichiarazioni
di Pietro d'Abano, dimostrano,
al contrario, che
questi aderiva espHcitamente
e senza riserve
o esitazioni di
sorta ad un'altra
teoria intorno all'anima, che
era l'antitesi perfetta
di quella del filosofo
arabo di Cordova.
Quei passi sono
così chiari che il
Ferrari stesso si
sente imbarazzato e
suda due camicie
per interpretarli a rovescio,
come fa. Dovrei
forse dubitare della buona
fede di lui
? Certo, nell'opera
erudita del Ferrari
si rivela qua e
là un gusto
matto di sorprendere
nel filosofo da lui
studiato atteggiamenti e
pose d'eretico che
agli occhi dell'autore lo rendono
più simpatico. E
quando gli fanno
difetto i documenti e
le dichiarazioni esplicite,
ricorre a stravaganti congetture o
a insinuazioni ridicole.
Ma io ritengo
Ferrari un perfetto galantuomo,
e per dubitare
della sua completa buona fede
non ho motivi
sufficienti. Penso invece
che gli manchi l'esatta
conoscenza del pensiero
medievale; in maniera che
egli non sa
comprendere nel loro
giusto significato certe dottrine,
le quali non
si possono capire
se non in
rapporto ai movimenti d' idee
a cui mettono
capo. Ora, infatti,
sostiene che Pietro d'Abano
fu accusato di
materialismo; più tardi, invocherà la
stessa condanna per
dimostrare che questi
non era sincero quando
dichiarava prava la
teoria averroistica
dell'unità dell'intelletto. Ora gongola
di gioia perché
Pietro,nel riferire l'opinione
del Commentatore, la
lascia passare senza una
nota di biasimo;
una pagina, dopo,
ti verrà a dire
che la
nota di biasimo,
che l'Abanese quest'altra
volta invece ha affibbiato
agli averroisti, va
presa per ....
un'ostentazione a ufficio di
scudo » !
E via di
questo passo -. Op.
cit., pp. 340-353.
Il Ferrari avrebbe
fatto bene, invece
di rimandare alle opere
di Pietro d'Abano,
che il lettore
non sa procurarsi con tanta
facilità, di offrire
estesamente citazioni più
abbondanti e meno laconiche.
Il pubblico poi
che si occupa
di queste materie
saprebbe, credo, fare a
meno, e quanto
a me molto
volentieri, della traduzione che il
Ferrari sostituisce ai
passi citati, i
quali nel loro
latino scolastico sono molto
meno oscuri. LA TEORIA
DELL ANIMA 3 Confesso
la verità. Arrivato
in fondo al
capitolo dove il Ferrari
parla della Psicologia
genetica e metafisica
», non sono mai
riuscito a raccapezzarmi
sulla vera dottrina
del medico-filosofo d'Abano. La
quale, pertanto, se
si piglia in mano
il Conciliator, è
abbastanza chiara, nelle
sue linee generali, ed
è ben diversa
da quello che
il Ferrari va
fantasticando. Ecco qui uno
dei passi più
importanti e nello
stesso tempo meno ambigui.
Alla differentia 48
^ si discute
la questione se il
seme umano sia
o no animato.
E, a proposito
di questo problema, il
medico padovano espone
la sua teoria
sullo sviluppo dell'embrione e
sull'origine e natura
dell'anima. Egli dice:
Rector autem huius
tain divini operis
[cioè dello sviluppo
embrionale] virtus est dieta
informativa ab anima
parentis decisa, per impulsionem coeuntis
incitata, quam Galenus
de virtutibus nahiralibus, secundo, ca.
2, appellat summam
artem praesidem et
intellectivam sine mente, Aristoteles
autem intellectum vocatum
sive intellectivam divinam, ceu
ei Haly ascripsit.
Nominavit autem eam Aristoteles intellectum
vocatum, ad differentiam
intellectus potentionalis et
agentis pars existentium
animae intellectivae, ut terfio
de anima inquit:
Dico autem intellectum
quo anima opinatur et
sapìt, ad differentiam
intellectus quem ponebat
Anaxagoras chaos dieta ex
eodem consimilia
sequestrantis. Et ideo
apparet hic erroneus intellectus
lacobitarum me persequentium
tamquam posuerim animam
intellectivam de potentia
educi materiae; differentia
9; cum aliis
mihi 54 ascriptis
erroribus. A quorum nianibus gratia
dei et apostolica
m.ediante me laudabiliter
evasi. Da qua quidem
virtute, ló. animalium,
Avicenna: ' Virtus
informativa est illa quae
dat vitam et
est proportionalis virtuti
supercoelestium '. Arrestiamoci
a precisare il
significato di questo
passo. L'Abanese parla qui
non dell'anima umana,
ma della virtù i
il formativa, la
quale più sotto
è così descritta
sulla scorta del De
animalibtis, XVI, e. i, di
Avicenna: Virtus informativa est
illa quae dat
vitam et est
proportionalis virtuti
supercoelestium, et ista
virtus facit similia
secundum quid virtutibus supercoelestibus quousque
sit possibile illam recipere vitam,
et est dispersa
per universam substantiam
corporis sive sit
humiduin sive siccum:
et in spermatis
substantia est potentia potens
recipere hanc virtutem
et est spiritus
primus deferens calorem coelestem
et ipse est
causa omnium partium
spermatis. Estque haec virtus
a corpore abstracta,
cui etiam ab
Arist. accipiens commentator. j°
metaphy. i^Comm. 37]:
Arist. dixit in libro
de animalibus, quod
ipsa sit similis
intellectui in hoc, quod
non agit per
instrumentum corporale et
membrum proprium. La teoria
della virtù informativa,
qui esposta, è
tratta dal secondo libro
del De generatione
animaliuni d'Aristotele 3 e
la si
ritrova quasi negli
stessi termini presso
S. Tommaso 4. Siccome,
per altro, i
Giacchiti di Parigi
credettero che Pietro intendesse parlare
dell'anima umana, per
questa ragione, com'egli dichiara,
lo accusarono dell'errore
d'Alessandro d'Afrodisia e di
Galeno, l'ultimo dei
quali sosteneva che
l'anima fosse la stessa
complexio del corpo
organizzato \ e
il primo che r
intelletto materiale o
possibile dovesse farsi
consistere in una certa
virtìt. risultante ex
universa illa temperatura
vel constitutione » propria
dell'organismo umano ^.
Lo accusavano, dunque, dell'errore
opposto all'averroismo e
contro il quale il
celebre commentatore dello
Stagirita aveva aspramente polemizzato a
più riprese. A
quest'accusa aveva dato certamente motivo
l'appellarsi che Pietro
faceva a Galeno e
al di lui
fidelissimus interpres, Haly
ben Rodoam. Questi aveva
saputo trovare presso
Aristotele, non si sa come,
la teoria dell' intellectus vocatus,
della cui provenienza
aristotelica il Nostro, con
quella sua espressione: ceu
ei Haly ascripsit
», sembra tutt'altro
che convinto. L'
intellectus vocatus è la
traduzione letterale del
ó xixXoù\j.tvoc, voui;
del De generatione animalium 7,
Basandosi su di
essa, Haly sosteneva che
r intelletto separato
di Aristotele, distinto
dall'anima individuale e identico
al voij? d'Anassagora,
fosse la stessa virtù
informativa, ossia l'influenza
degli astri la
quale per mezzo del
seme paterno presiede
allo sviluppo e
all'organiz3 Cap. 3,
736 b. 29 sgg. :
tkxvtwv (xév yùp
év tcò oTuéppiaTi
ÈvuTrdcpxei OTTEp TTOiEÌ yóvifxa
elvai xà CTTrép[xaTa
xò xaXou(i,evov -!>£p(i.óv. xoùxo 8'où
TTup, oùSè xotauxY]
SuvafjLit; Icttiv, àXkà
xò l[jiTrepLXajjt.pavó(XEvov
èv T(p
CTTÉpfxaxi, jcai èv
xo) à9p(óSEi. TTVEUjj'.a
xal rj Èv
xw TTVsufAaxt, quando viene
a parlare del
capitolo de electionihus.
Egli intanto distingue la
ricerca, invero innocente,
dell' bora laudabilis
incipiendi aliquod opus
», affinché l'opera
da intraprendere abbia felice
risultato, pur senza
tentare di modificare
il corso o r
influenza del cielo,
dai tentativi, per
mezzo d' immagini 33 Cfr.
Ferrari, P. d'A.,
pp. 355-356. 34 Cap.
13. 35 Capp. 10
e 14. 36 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI e di
scongiuri, di modificare
favorevolmente le influenze
celesti per la buona
riuscita dell'opera che s'
intraprende. Che la prima
ricerca non abbia
niente d' illogico, dati i presupposti astrologici che
noi conosciamo, o
di temerario dal
punto di vista della
dottrina teologica del
tempo, è evidente.
Perciò l'autore dello Speculum
non solo la
ritiene legittima, ma dichiara
che sia
opportuno, come pensa
anche Pietro d'Abano, conoscer l'ora
favorevole al concepire,
al prender medicine
e alle operazioni chirurgiche
36. Per quel
che riguarda invece
la costruzion delle immagini
a fine di
modificare l' influsso celeste, egli
stima necessario far
molte riserve: «Parti....
electionum dixi supponi
imaginum scientiam, non
quarumcunque, sed
astronomicarum. Quoniam imagines
sunt tribus modis. Est
enim unus modus
imaginum abominabilis, qui
significatione et invocatione
exigit.... Est alius
modus aliquantulum minus incommodus,
detestabilis tamen, qui
fit per inscriptionem
characterum, per quaedam
nomina exorcizando.... Tertius autem
est modus imaginum
astronomicarum, qui eliminat
istas spernendas suffumigationes et
invocationes, et non habet
neque exorcizationes, ncque
characterum inscriptiones admittit,
sed virtutem nanciscitur solummodo a
figura caelesti ». Posta tale
distinzione, mentre egli
condanna gli esorcismi, gì'
incatesimi e la
necromanzia, pensa di
non potersi arrogare il
diritto di condannare
o di negar
l'efficacia delle immagini astronomiche. D' immagini astronomiche,
ammesse dall'autore dello
Speculum, si parla nella
già citata differenza
X e nella
CI del Conciliator. Ma
Pietro d'Abano sembra
andar più oltre
ed ammettere anche quel
genere di pratiche
condannate dall'autore dello Speculum^i.
Si tratta per
altro d'un equivoco.
Egli crede al fascino,
all'arte notoria, alla
pvaecantatio e alla
magia (e questo deve,
senza dubbio, aver
contribuito a crear
la sua fama di
mago e di
necromante) ; ma
intanto spiega i
fenomeni e i resultati
ottenuti con queste
arti, sforzandosi di
trasportarli sul terreno della
magia bianca, allora
ritenuta lecita dai teologi. 36 Conciliator,
diff. io (Champier,
II, 8). 37 Conciliator,
diff. 135 e
156. Champier, III,
8, g, io.
Intorno alle interessanti varianti
del numero 8
nelle varie edizioni
del Conciliator, cfr. Ferrari,
Per la biografia
etc.] Così egli ammette
l'efficacia del fascino
e degl' incantesimi, come r
ammetteva Avicenna e come due
secoli dopo l'ammetterà il
Pomponazzi, ma esclude
da essi ogni
carattere sovrannaturale e segnatamente
l' intervento di demoni
38, pur senza negar
l'esistenza di essi.
Per lui, l'anima
di certi uomini è
fornita, per uno
speciale influsso celeste,
di virtù eccezionali, e
si comporta, nel
modificare le influenze
astrali sulla terra, come
le immagini artificiali
costruite dagli antichi sapienti dell' India
39. — La
praecantatio è utile
al medico, come gli
è necessaria la
fiducia da parte
dell' infermo 40. Ma
le parole dell' incantesimo
verbale desumono la
loro efficacia dalla virtù
celeste, come dalle
disposizioni favorevoli delle
costellazioni deriva
l'efficacia, secondo Albumasar,
della preghiera astronomica
41. L'efficacia, insomma,
di tutte queste
pratiche è desunta dall'astrologia: siamo
fuori del dominio
della magia nera. 8. Una
censura speciale dello
Champier riguarda anche una
dottrina la quale
non ha niente
che fare con
le dottrine di carattere
prettamente astrologico, che
abbiamo riferite; ma che,
anzi, sotto un
certo aspetto, è
opposta a quelle:
intendo la dottrina della
produzione delle forme
nel mondo infralunare. Essa
suona così: Ponentes....
creationem, etsi verissimi in
lege sint, in
philosophia tamen non
sunt admittendi, cum
ipsam levem faciant
omnino, ac primam
quasi causam multiplicibus vexent
laboribus; decorem non
minus et ordinem et
per consequens perfectionem
removentes, secundum Peripateticos, ab
universo «42. Lo
Champier pretende che, con
siffatta dottrina, l'Abanese
venga a contradirsi, quia simul
stare non possunt,
quod lege sint
verissimi, et tamen admictendi non
sint in philosophia;
quia omne verum
consonat ». Dove
non sai se
egli accusi il
filosofo di aver
negato la creazione, o
di avere ammessa
la dottrina averroistica
della doppia verità. Ma
nell'uno come nell'altro
caso, ha frainteso senz'altro il
pensiero di Pietro
d'Abano, come avremo
modo di dimostrare nel
paragrafo che segue. 38
Conciliator, diff. 135. 39
Ibid. 40 Ibid. 4' Conciliator,
diff. 156. 42 Conciliator,
diff. loi (Champier,
III, 2; cfr.
I, 3). Cfr.
soprap. 14 e 16.
38 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI realtà, di
tutte le dottrine
censurate dalla Champier, tre
appena sono tacciate
di eresia e
segnate di un
biasimo speciale, e cioè:
i) quella, ora
accennata, intorno alla
creazione; 2) l'avere Pietro
affermato che Dio
non possa operare
nel mondo infralunare se non per
mezzo d' intermediari; 3)
l'aver ritenuta efficace la
praecantatio. Ora la
prima dottrina è
stata, come vedremo, semplicemente
fraintesa da lui;
la seconda è esagerata,
poiché così come
l'Abanese la intende,
non suonava affatto eretica
ai tempi di
lui; quanto alla
terza, egli non si
è accorto come
la praecantatio e
le altre pratiche
affini avessero perduto in
Pietro d'Abano quel
loro carattere originario
derivante dalla magia nera
che le rendeva
singolarmente sospette. Se lo
Champier avesse esaminato
il Conciliaior coll'animo scevro dai
pregiudizi di una
scuola teologica che
aveva già perduto per
sempre il senso
della libertà nel
campo scientifico, quel senso
di libertà che
si era così
poderosamente affermato nel secolo
XIII ; se
egli, dico, avesse
studiato l'opera del
medicofilosofo con quel
senso di tolleranza
che rivela il
teologo autore ■dello SpectUum,
e non colla
grettezza sospettosa degl'
inquisitori parigini e padovani,
avrebbe potuto forse
risparmiarsi quasi tutte le
sue censure e
castigationes. Notevole, per altro,
che nemmeno lo
Champier, che con tanto
zelo si dette
la pena di
spulciare l'opera ritenuta
pericolosa, abbia formulato le
accuse ben altrimenti
gravi che, con altro
scopo, ha sollevato
contro Pietro d'Abano
il suo moderno biografo.
Sante Ferrari. III. —
Eresie di P,
d'Abano, secondo il
Ferrari: Dio E il
mondo, Scienza e
Fede. 1. L'averroismo di
P. d'A. secondo
il Ferrari. —
2. Dottrina della
creazione; lo schema neo-platonico; il
concetto di creazione
mediata. — 3. Eternità
della materia ?
— 4. Il problema circa
l'eternità del mondo. — 5. La
pretesa tendenza al
panteismo. — 6.
Il miracolo. — 7.
La doppia verità. I.
L'ultimo processo
alle dottrine filosofiche
di Pietro d'Abano è
quello intentato ad
esse nella voluminosa
e farraginosa biografia scritta
intorno al nostro
filosofo da Sante
Ferrari. Anzi che colla
serena comprensione dello
storico, si direbbe che
questo autore si
sia accinto allo
studio del pensiero dell' Abanese colla
stessa parziahtà dello
Champier e, quasi direi,
colla stessa mentalità
degl' inquisitori parigini
e padovani: coll'aggravante di
una minore disposizione
a intenderlo, derivante dalla
scarsa conoscenza, che
ha il Ferrari,
di una filosofia così
complessa e ricca
di motivi come
quella medievale K La scarsa
conoscenza del pensiero
medievale, che verremo documentando, si
rivela subito, fin
dal primo tentativo
col quale il Ferrari
vorrebbe caratterizzare la
dottrina filosofica di P.
d'Abano, ora asserendo
che questi inclina
e simpatizza per l'avverroismo
^, ora sforzandosi
d' inquadrarne il pensiero nel
movimento d' idee noto
sotto il nome
di averroismo latino »
3. All'averroismo più o
meno latino avrebbe
inclinato il maestro padovano: i)
per la negazione
della creazione dal
punto di vista filosofico,
per avere ammessa
la materia eterna,
la necessità d' intermediari tra
la causa prima
e i fenomeni
del mondo infralunare, e
l'eternità del mondo;
2) per una
non ben precisata tendenza
al panteismo e
per un certo
naturalismo che lo porta
a negare la
possibilità dei miracoli;
3) per aver professata la
dottrina della doppia
verità; 4) e
finalmente per la dottrina
dell' intelletto separato. In
questo paragrafo discuteremo
il giudizio del
Ferrari sui primi tre
punti ; al
quarto punto riserveremo
il paragrafo che segue,
giacché ne vale
la pena. 2. Alla
fine del paragrafo
precedente, abbiamo visto che
lo Champier segnala
come errore, et
horrendus, l'affermazione di Pietro
d'Abano, che la
dottrina della creazione, pur essendo
vera dal punto
di vista teologico,
è da rigettarsi da
quello filosofico. L'
interpretazione sbagliata che
lo Champier colla sua
censura dava di un passo
male inteso, diventa ^
Un esempio caratteristico dell'
incapacità a comprendere
e a giustificare, nel loro
genuino significato storico,
le idee del
passato, è il capitolo
che il Ferrari
dedica a P.
d'A. astrologo. Egli
riassume purchessia le dottrine
astrologiche del Nostro,
ma non le
spiega; anzi, ad un
certo punto non
sa far di
meglio che uscire
in questa goffa
esclamazione : Piaccia al
nostro lettore che
non ci smarriamo
in tali labirinti del
pensiero umano che
mettono avvilimento e
pietà» (P. d'A., V 375)
! 2 Pietro d'Abano,
p. 348 e sgg.
3 Per
la Biografia, etc,
p. 92-98. L'accusa
d'averroismo, per altro, risale, sebbene
non precisata come
presso il Ferrari,
per lo meno
al Renan e al
Tiraboschi.] addirittura una mostruosità
storica sotto la
scorrevole penna del Ferrari. Udiamo, infatti,
qual concetto questi
si sia fatto
della relazione tra la
divinità e il
mondo secondo la
mente di Pietro: Le
azioni del mondo
superiore sulla terra
e su noi
vengono infine da Dio;
salvoché le une
producendosi per una
serie di mezzi, sono
coordinate a questi
e ne hanno
la misura, la costanza,
la prevedibilità, oltre
che sono relativamente
ad essi inevitabili; onde
le possiamo in
certo modo ridurre
alle qualità degli elementi,
anche se non
vediamo precisamente il come;
le altre si
esercitano senza movimenti,
absque medii alteratione, o
da Dio stesso
o dalle stelle
imprimenti una speciale virtù, com'
è nel caso
del magnete, la
cui virtù attrattiva è
collegata, lo attesta
l'esperienza, col polo
artico. L'opera divina è del resto
palese nell'ordine universale
e nella finalità che
governa il cosmo.
I platonici (non
si dice Platone)
4 riposero le cause
universali in divinità
secondarie, specie di
ministri alla prima, che
danno le forme
alle cose, onde
Averroè disse che Platone
in un modo
alquanto oscuro aveva
asserito che il creatore
fé' gli angeli
e ordinò poi
loro di creare
le altre cose mortali,
il che veramente
non si dee
prendere alla lettera. Aristotile le
forme delle cose
terrestri volle, secondo
che pareva anche a
Temistio, fossero generate
dal sole e
dal suo giro. Alcuni
ammisero che le
forme fossero nella
nostra terra latenti, quali Anassagora,
Empedocle, Democrito. Altri
parlarono di creazione. I
primi traggono le
cose dal caos,
i secondi vogliono invece
che Dio le
produca dal nulla.
E quest'ultima opinione induxit
loquentes trium legum,
quae hodie sunt,
dicere aliquid fieri ex
nihilo.... adeo quod
diciint quod homo
cum moveat lapidem expellendo,
non est movens,sed
agens illud creai
motum.... Di tali sentenze
possiamo leggere in
Giovanni Filopono.... Ma tra
le due opinioni
opposte e' è
luogo per due intermedie,
anzi per
tre, che convengono
nell'ammettere due tesi:
la generazione essere un
tramutarsi delle sostanze,
e niente prodursi dal
niente. Convengon in
ciò, ma si
discostano poi nel 4
L'osservazione è meravigliosa
! Neanche a
farlo a posta,
Pietro cita subito il
Timeo, nominando espressamente
Platone: Quare, 12. Metaph.
[comm. 44], Commentor:
' Plato suis
obscuris verbis dixit quod
creator creavit angelos
manu....'». Cfr. sopra,
p. 13. Del
resta alla diff. 71
si legge: «Plato
namque posuit substantias
separatas,_ quas ideas appellavit
». modo di pensare
l'agente. L'una pone
che l'agente crei
la forma e la
dia alla materia,
sia poi esso
congiunto o no
con materia: opinione di
Temistio e lino
a un certo
punto di Alf arabi.
La seconda nega che
l'agente sia affatto
legato alla materia
e lo chiama dator
delle forme, come
pensarono Algazel ed Averroè
5. La terza
è quella di
Aristotele, che l'Afrodisio
giudicò non ambigua, e
alla quale non
si può non
assentire; l'agente non fa
se non il
composto di materia
e forma, movendo la
materia finché ne
esca in atto
la forma che
vi giace in potenza....
La sentenza aristotelica
in qualche cosa
somiglia a quella dei
creazionisti e in
qualche cosa ne
differisce.... ma è la
sola vera, perché
sol essa non
porta a conseguenze
impossibili, come vi portano
le opinioni di
Platone e di
Anassagora, che furono da
Aristotele combattute vittoriosamente. Coloro che
invocano la creazione,
etsi verissimi lege
sint, in philosophia tamen
non sunt admittendi
» ^. Dopo questa
che vorrebbe essere
una parafrasi, invero molto
libera, di un
importantissimo passo del
Conciliator, il Ferrari scrive
ancora: «L'essenza della
materia rende inevitabile l'uso di
qualche mezzo o
strumento, per certe
produzioni, a Dio stesso.
In altre parole
Dio produce e
governa i cieli, gli
angeli, le anime,
ma nulla poi
potrebbe fare nei
regni inferiori delle cose
corporee senza il
loro mezzo, per
la troppa distanza tra
i due termini.
Gli è così
che per una
serie di mediazioni, e
con armonia meravigliosa
discende alle infime cose
terrestri l'azione divina,
passandosi per gradi
dalle cose incorruttibili, anzi
dall'imo semplice ed
immobile agli esseri composti, variabili
corruttibili » i. Parrebbe,
dunque, a sentire
il Ferrari, i)
che Dio, sorgente prima di
tutte le azioni
del mondo celeste
su quello terrestre, avesse di
fronte a sé
un principio eterno
di passività che sarebbe
poi la
materia; 2) che
questa materia fosse
eterna al pari di
Dio e non
prodotta ^ ;
3) che l'azione
divina sul mondo '^
Leggasi Avicenna, e non Averroè,
il quale ha
sempre combattuta la teoria
del dator formarum
». Le edizioni
hanno solo un'
A., che ovunque è
abbreviazione d'Avicenna. Il
Ferrari un'altra volta
legge Aristotele, arruffando tutto
il senso di
un passo importantissimo della diff.
57. Cfr. P.
d'A., p. 347.
V. anche sopra,
p. 11. 6 P.
d'A., pp. 249-251.
Il luogo del
Conciliator qui parafrasato
è stato riportato per
esteso sopra, p.
16. 7 Ib., p.
251. 8 P. d'A.,
p. 351. 42 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI corruttibile non
potesse in nessun
modo esercitarsi se non
attraverso una serie
di mezzi, che
sono i cieli,
gli angeli e le
anime. Se gì'
inquisitori parigini e
padovani, che se
n' intendevano, avessero lette
queste cose negli
scritti del maestro d'Abano, non
avrebbero aspettato ad
arrostire un cadavere, né
r imputato sarebbe
sfuggito loro dalle
mani. Il fatto,
invece, è che il
pensiero genuino di
lui è ben
diverso dall'esposizione che ne
fa il Ferrari.
Vediamo dunque di
chiarirlo. Secondo lo schema
neo-platonico di Alfarabi
e di Avicenna
9, riassunto anche dall' Abanese, dalla
prima causa, che
è motore immobile e
quindi idem et
stabilis permanet »,
non può derivare ciò
che è molteplice
e mutevole ; ma solum
unum immediate », cioè
la prima intelligenza
col primo cielo.
Da questa è prodotta
la seconda intelligenza
col secondo cielo; e
così di seguito,
di grado in
grado, secondo un
ordine di emanazione discendente, fino
all' intelligenza lunare,
la quale produce la
così detta intelligenza
agente », gubernantem quae sunt
in activorum et
passivorum spaerà simplicium
et compositorum», cioè tutte
le forme del
mondo infrahmare ^°. Pietro
d'Abano accetta in
parte questo schema,
ma v' introduce profonde modificazioni. Egli pone,
tra la causa
prima e la
materia, una serie
d' intermediari che gli servono
a spiegare, come
a Dante ",
la contingenza nel mondo
inferiore; ma in
nessun luogo afferma
che la materia sia
eterna, come vorrebbe
farci credere il
Ferrari, per il quale
eterna vuol poi
dire non creata.
E sebbene dica, secundum Aristotelem
et Commentatorem, quod
Deus nihil potest in
haec [interiora] operari
absque medio «i^,
è evidente che egli
intende parlare, non di una
necessità di natura
e 9 Pietro d'Abano
come gli scolastici
del suo tempo
mette con Avicenna anche Algazele.
In realtà questi
scrisse un'esposizione delle
dottrine di Alfarabi e
di Avicenna, alla
quale teneva dietro
la sua confutazione fatta dal
punto di vista
della teologia mussulmana
ortodossa. Fino ai tempi
del Nostro solo
la prima parte
era tradotta in
latino; la Destructio philosophorum si
conobbe assai più
tardi. Di qui
l'abbaglio. Cfr. M.
Asin Palacios, Algazel, Zaragoza,
igoi, pp. 141-143.
Il Duhem tuttavia crede che
quando Algazele scrisse
la prima parte
dell'opera, egli accettasse quelle dottrine
neo-platoniche che rifiutò
poi nella Destructio (Duhem, Le
système du monde
etc, Paris, 1914,
t. IV). 10 Conciliator,
diff. loi. Cfr.
sopra, pp. i4-iS11
Farad., XIII, 61-78;
XVII, 37-38; VII,
67-69. Cfr. il
mio saggio Dante e
P. d'A. (nei
Saggi di filos.
dant., pp. 50-55). 12
Conciliator, diff. assoluta, ma
di una necessità
conseguente a quella
a perfecta ratio ))
che è poi
la stessa sapienza
divina, la quale
ha volontariamente stabilito l'ordine
mondano; ordine che è sospeso alla
volontà divina la
quale è immutabile.
Ma se la
causa prima ha fissato
l'ordine cosmico, nel
quale gli eventi
del mondo infralunare dipendono
dal moto e
dalle ^'a^iazioni che accadono
nei corpi celesti,
intermediari tra i
due estremi dell'atto puro
e della pura
potenza —, non
ne segue logicamente che non
possa, in quanto
è superiore a
quest'ordine da sé stabilito,
derogarvi. Anzi troviamo
esplicitamente asserito il contrario: Potest....
primus sua mera
benignitate, cum sit agens
supernaturale, per voluntatem,
absque motu et transmutatione in
haec in inferiora
operari, quicquid dicat peripateticus))i3. Ora
se Pietro può
pensare ad un
intervento diretto, anche se
fuori dell'ordine naturale,
della causa prima sul
mondo della generazione
e corruzione, vuol
dire che la necessità
degl' intermediari, affermata
da lui sulla
scorta di Aristotele e
del Commentatore, non
è la necessità
assoluta dei platonici arabi,
per i quali
è sempHcemente impossibile,
cioè AL secolo XIV
AL XVI anche ancilla
e jamula della
teologia, la filosofia
è riconosciuta indipendente da
quella e autonoma
entro la propria
cerchia di ricerche naturali.
Così, non ostante
tutti i tentativi
più o^ meno ingegnosi
per unificarle, quella
filosofia e quella
teologia non rimanevano meno
distinte, se non
opposte, per i loro
metodi propri di
ricerca e per
il loro spirito. In
questa distinzione, accettata
da tutti i
teologi medievali del tempo
di Pietro d'Abano,
era il germe
latente dell'eresia di cui
a torto si
vorrebbero render responsabili
solo i veri o
pretesi averroisti. Una
volta proclamata la
legittimità della ricerca razionale
e filosofica, per
mezzo di metodi
propri e diversi da
quelli teologici, quale
autorità teologica in
terra avrebbe potuto più
mettere un freno
a coloro che,
intrapreso il cammino della
ricerca scientifica, intendevano
percorrerlo fino in fondo
? ^. E
infatti, si era
appena riconosciuta quella
distinzione, che fu subito
avvertito il contrasto
tra filosofia e teologia,
contrasto che venne
sentito più o
meno da tutti
i pensatori scolastici, da
Sigieri di Brabante
come da Tommaso d'Aquino, da
Pietro d'Abano come
da Duns e
da Dante Alighieri; e
tutti cercarono di
risolverlo con particolari
e diversi atteggiamenti spirituali. Il contrasto,
da prima latente,
doveva portare, e
portò, al conflitto fra
i rappresentanti delle
due principali facoltà
degl'istituti universitari,
quella delle arti
e medicina e
quella di teologia. Nella facoltà
delle arti si
leggevano e si
commentavano i libri d'Aristotele e le trattazioni
di Avicenna, d'Averroè,
di Galeno, di Tolomeo
e di numerosi
altri autori greci
ed arabi. E
vi rifiorirono così, e
si accrebbero, l'antica
astrologia, la matematica, la medicina,
l'alchimia e la
magia, tutte insomma
le scienze create o
sviluppate dal genio
greco ed arabico.
Che queste scienze fossero
infestate da inveterati
pregiudizi metafisici, non toglie
che il loro
sviluppo abbia concorso
in larga misura allo
sviluppo del sapere
scientifico e al
progresso dello spirito umano.
Per mezzo di
esse si inaugurò
nell'occidente cristiano il metodo
della ricerca filosofica,
s' iniziò la libera indagine delle
cause naturali dei
fenomeni del mondo
ter8 E di
porre un freno
si tentò più
volte, ordinando, come
a Parigi nel 1272,
agli scolari della
facoltà delle arti
di astenersi dal
determinare cantra fidem quando
avessero da discutere
di un problema
che /idem videatur attingere
simulque philosophiam. Cfr.
Carthularium University
Parisiensis] restre. Al pregiudizio
teologico si sostituì,
è vero, quello
astrologico. Ma l'errore di
aver riposto le
cause dei fenomeni
naturali in influenze astrologiche,
non è poi
così grave e
imperdonabile, se esso significava
anzitutto libera ricerca
di cause naturali, affermazione
di leggi ed
esclusione dell'arbitrario
dal mondo dell'esperienza. E
intanto quell'astrologia, quell'alchimia, la vecchia
medicina e la
stessa magìa venivano
raccogliendo da ogni parte
ed accumulando preziose
osservazioni ed esperienze, che,
nella Rinascenza, dovevano
portare al superamento dei vecchi
pregiudizi e concetti
metafisici, e contribuire direttamente al
rinnovamento della scienza. Al
quale non si
sarebbe mai giunti,
senza l' inaugurazione di quel
metodo razionale, la
cui legittimità era
stata proclamata
all'unanimità dagli stessi
teologi scolastici, non
solo in teoria ma
anche in pratica.
Vediamo infatti Tommaso
d'Aquino esporre con intera
libertà e senza
prevenzioni le dottrine
di Aristotele, fino a
dichiarare, contro il
parere dei vecchi
teologi, che l'eternità del
mondo non implica
contradizione e che la
tesi della creazione
nel tempo non
può dimostrarsi colla
sola ragione. E Alberto
di Colonia insieme
al pensiero aristotelico esponeva quello
degh altri peripatetici,
greci ed arabi,
pur notando che non di rado
esso cozzasse coi
dommi cristiani. Ora all'esempio
di Alberto si
richiamavano espressamente o tacitamente
Pietro d'Abano e
Sigieri di Brabante,
quando dichiaravano di trattare
«de naturalibus naturaliter
», senza farla da
teologi 9. De naturalibus
naturaliter: ecco il
programma di quegli ambienti laici,
che erano le
facoltà delle arti;
laici, s' intende, solo per
i metodi dell'
indagine scientifica e
filosofica in contrapposizione con quelli
della teologia. Di
questi ambienti laici Pietro
d'Abano incarna perfettamente
lo spirito. In
questo spirito è la
sua vera, la
sua unica eresia;
un'eresia inconsapevole che s'era
già insinuata nella
coscienza di tutti
coloro che avevan fatto
buon viso al
rinascente pensiero aristotelico, e che
era penetrata fino
nelle scuole di
teologia io. Senza
prestargli dottrine
eterodosse che negli
scritti a noi
noti egli ha 9
Cfr. il mio
studio La posizione
d'Alberto Magno di
fronte all'averroismo, cit., pp.
197 sgg. 10 La
filosofia, infatti, questa
povera ancella della
teologia, aveva il compito
di stabilire i
praeambida /idei e
dichiarare il contenuto
delle formule dommatiche. Le
opere teologiche della
Scolastica, compresa espressamente riprovate,
senza attribuirgli quel
continuo sdoppiamento di coscienza
che piace a
chi, per il
gusto di farne un
eretico, ne farebbe
volentieri un ipocrita,
pronto ad affermare il
contrario di quello
che in cuor
suo pensa, per
salvare la pelle dal
rogo; — le
sue audacie dottrinali,
dal punto di vista
della teologia imperante,
sono evidenti: maggiore di
tutte quelle intorno
ai miracoli e
ai fatti meravigliosi. Pietro d'Abano
è lo scienziato
forse più caratteristico di quel
periodo di cui
Tommaso d'Aquino fu
il maggior teologo, e
Dante Alighieri, il
sommo poeta. Per
la vasta erudizione, pur senza
essere un rinnovatore
e un precursore,
rappresenta la scienza della
fine del secolo
XIII e del
principio del XIV, in
tutti i suoi
molteplici aspetti, in
ogni sua tendenza.
L' idea centrale della scienza
di lui è
un' idea astrologica.
E i creatori della leggenda
popolare di un
Pietro mago, sebbene
non cogliessero i
veri caratteri della
sua magìa (magìa
bianca, ben differente dalla
necromanzia), ci hanno
tramandato un' immagine dell'uomo, che
forse è meno
difforme di quel
che non si creda,
dalla sua storica
personalità. la grande Summa
dell' Aquinate, son impregnate
di razionalismo; razionalismo che si
afferma nettamente in
Raimondo Lullo. L'ancella cominciò ben
presto a farla
da padrona ! Ili Se
Pietro d'Abano non
fu un avverroista
nel senso vero e
proprio della parola,
avveroista fu invece
l'eremitano Paolo Nicoletti da
Udine, detto comunemente
Paolo Veneto, il
quale professò a Padova
un tipo d'avveroismo
guardingo, che forse «gli
vi portò da
Oxford e da
Parigi, se pure
non v'era già arrivato
da Bologna, e
che risente della
lettura dell'opera di Sigieri
di Brabante, De
intellectu ad jratrem
Thomam ', oppure degli
scritti di Tommaso
di Wilton impugnati
a Bologna, ottantacinque anni
prima, dal francescano
Guglielmo di Alnwick -. Paolo
\'eneto era andato
a studiare a
Oxford, insieme a un
suo fratello germano,
maggiore di lui,
fra Paolo Fran-cesco,
anch'egli eremitano, alla
fine d'estate 1390,
e v'era * Dal
voi. Sigieri di
Brabante nel pensiero
del Rinascimento italiano. Roma, Edizioni
Italiane, 1945, pp.
115-132, salvo una
modificazione fino al quinto
capoverso. ' Cfr. Sigieri
di Brab. ecc.,
pp. 18-23. Che
l'averroismo padovano abbia origini
bolognesi è ipotesi
verosimile; ma non
si può escludere un'origine oltremontana.
Che poi Averroè
fosse tenuto in
gran conto a Padova
assai prima di
P. Veneto, è
provato dagli affreschi
di Giusto de' Menabuoi
nella cappella Cortelieri
nella chiesa degli
Eremitani, anteriori al 1370,
e dei quali
ci resta la
descrizione di Hermann
Schedel di Norimberga che
era studente a
Padova dal 1463
in poi. Giunto aveva
raffigurato Averroè insieme
agli eremitani maestro
Alberto da Padova e
al beato Giovanni
da Bologna. Cfr.
J. v. Schlosser,
Giusto's Fresken in Padua
n. die Vorlàufern
der Stanza della
Segnatura, in Jahrbuch der
Kunsthistor. Sammel. des
allerhòch. Kaiserhauses », Wien,
1896, XVII, pp.
17, 45, 47,
94; S. Bettini,
Giusto S. M. e
l'arte del Trecento. Padova,
1944, P n? Paolo doveva
ben conoscere quegli affreschi. 2 A.
Maier, Wilhelm v.
Alnwicks bologneser Quaestionen
gegen Averroismus [1323),
in Gregorianum
», XXX, 1940,
pp. 265-308. 76 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI rimasto almeno
un triennio 3.
Il soggiorno di
Paolo in Inghilterra non era
rimasto ignoto ad
Antonio Cittadini da Faenza,
che a Ferrara,
nel 1476, dettò
un commento polemico dei
Logica minora dell'eremitano, in
principio del quale
si legge: Ferunt autem quidam
non auctoritate indigni,
hunc libellum in Britannia,
ubi olim et
dialecticae et philosophiae
studia floruerunt, in
antiquissimis litteris compertum
esse, ut ex
illis constaret, prius
opusculum hoc extructum
fuisse quam Paulus
Venetus natus esset.
Quod eo magis
a non nulhs
creditur, quod certuni est
Paulum apud Britanos
visendorum gymnasiorum
gratia aliquando commoratum
esse, ac postea
in Italiani revertentem
multos libros secum
detulisse, quorum auctores
Italis penitus erant incogniti
4. Più tardi soggiornò
anche in tlorentissima
universitate Parisina », ove
fra Paolo espose
gli Antepraedicamenta di Aristotele
5. Nel 1408, egli
era lettore nella
facoltà delle Arti
a Padova, e quivi
compose quella Summa
naturalium nella quale
è esposta la dottrina
del libri fisici
e della Metafisica
d'Aristotele, con sobrie discussioni
dei problemi agitati
nelle scuole ^. Notevole
in questa Summa
il trattato, diviso
in 42 capitoli, concernente il
De anima, perché
in esso ritroviamo
le tesi fondamentali del De
intellectu di Sigieri.
Ma di questo
scritto aristotelico Paolo Veneto
ci ha lasciato
un'assai più ampia esposizione che
non saprei dire
in quale anno
redatta, ma forse non
di molto posteriore
alla Summa naturalium
7. 3 Reg. Re. mi
Barth. Veneti, nell'Archivio
della Curia generalizia degli Eremitani
in Roma Dd.
3, f. 132
v. Cfr. il
mio studio sulla
Letteratura e cultura veneziana
del Quattrocento, nel
voi. La civiltà
Veneziana del Quattrocento ».
Firenze, Sansoni, 1957,
PP ^^^ ^
i35"364 Cod. Urb.
lat. 1381, f.
2 r. 5 Ghiotta
notizia, segnalatami dal
prof. Giulio F.
Pagallo, in una annotazione al
Cod. 452 della
Bodleniana di Oxford
(cfr. Catal. di H.O.
CoxE, P. Ili,
Oxford, 1854, p.
775). 6 La data
di composizione della
Summa naturalium è
fissata al 1408 dal
codice marciano che
ne contiene solo
tre parti. Cfr.
G. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta
ad S. Marci
Veneiiarum, t. IV,
Venezia, 1872, p. 24,
Lat., Classe XII,
cod. 23. 7 Come
non molto posteriore
è 1' Expositio
super odo libros
Physieorum Aristotelis necnon
super comento Averois
cum dubiis eiusdem, la
quale porta la
data del 30
giugno 1409. Cfr. P. Duhem,
Le niouvement absolu et
le mouvement relatif.
Extrait
de la Revue
de philosophie ». Montligeon
(Orne), 1907, p.
143. Le stesse
variazioni che il
Duhem riAnche in
questa seconda opera
l' influsso esercitato sull'eremitano dal trattato
dell'averroista belga contro
San Tommaso, è decisivo,
come possiamo convincerci
dalla lettura dei seguenti
brani che per
comodità del lettore
riferiamo. Nell'esposizione
del testo 23 del II
libro De anima,
frate Paolo Nicoletti si
pone, ad maiorem
dictorum evidentiam », alcuni dubia
», il secondo
dei quali verte
sul problema Utrum in eodem
animali plures possint
esse anime totales
», che egli risolve
nel modo che
segue, non senza
aver prima confutate altre soluzioni
^ : Circa liane
materiam, siint plures
modi dicendi. Primus
modus est, quod piante
non habent nisi
unam animam totalem,
scilicet vegetativam; bruta duas,
scilicet vegetativam et
sensitivain; homines vero tres,
videlicet vegetativam, sensitivam
et intellectivam; non
tamen simul generantur,
sed successive per
tempus, ita quod primo
generatur vegetativa, deinde
sensitiva, tertio leva tra
quest'opera e la
Summa naturalium, si
posson notare anche
fra quest'ultimo scritto e
il commento Super
libros Aristotelis de
anima, che senza dubbio
rivela una maggiore
complessità e maturità
di pensiero. Nel commento
al t.c. 11 del III
libro, a proposito
del quesito se gli
universali sint in
rerum natura »,
l'autore dichiara d'averne
trattato quanto basta in
alio opere et
in prologo physicorum
». È probabile che, dopo
l'esposizione sommaria delle
dottrine fìsiche e metafìsiche
dello Stagirita, il
Nicoletti si sia
accinto a commentare
le singole opere aristoteliche
alle quali si
riferiva la Summa,
cominciando, come sappiamo, dagli
otto libri della
Fisica e proseguendo
poi col De
caelo, col De generatione
et coruptione, coi
libri Meteorologici, col
De anima e colla
Metafisica. Una vera
biografìa filosofica di
Paolo Veneto non è
concepibile senza aver
tolto in esame
tutte queste opere
che da parte del
Momigliano sono state
piuttosto ricordate che
vedute e lette.
Tornato a Padova nel
1428, dopo le
peripezie che lo
avevano costretto a
lasciare questa città nel
1420 o forse
qualche anno prima
o dopo, l'eremitano s'accinse a
commentare di nuovo
il De anima,
come ci attesta
fra Matteo da Ripalta,
piacentino, allora studente
nello studio padovano.
Questi si procurò nel
corso del 1429
una copia dell'esposizione completa
dell'opera aristotelica,
poiché il maestro
che con tanto
grido era tornato a
leggerla non andò
oltre il capitolo de
gustabili » (libro
II, t. e.
101-104, cap. IO del
testo greco, 422»
8-422Ò 15), essendo
stato colto dalla
morte all'alba del 15
giugno dello stesso
anno. Valentinelli, t.
IV, p. 57. 8
Pauli Veneti, In
libros de anima
explanatio cimi textu
incluso singulis locis, maxima
qiiidem diligentia a
vitijs mendis atque
erroribus quibus hacteniis ex
ignavia impressorum scatebat
purgata ac pristine
integritati restituta etc.
E nel colophon
: Scriptum super librimi
de anima. . . . ex proprio
originali diligenter emendatum
per clarissimum. artium
ac medicine doctorem. D.
magistrum Hieronymum Surianum,
filium prestantissimi
quondam artium ac
medicine doctoris, Domini
magistri lacobi. de Surianis
de Arimino.... Venezia,
Eredi di Ottaviano
Scoto, i nov. 1504,
libro II comm.
al t. e.
23, fol. 46,
col. 4-47, col.
2. 78 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI post completarti
organizationem membrorum generatur
intellectiva 9 Hic
modus dicendi est
superfluiis.... Secundus
modus dicendi est,
quod in quolibet
vivente est solum una
anima totalis; et
quod est ordo
in productione animarum,
quia fetus primo
vivit vita piante,
deinde vita animalis; tamen tales
anime simul non
manent in eodem,
sicut nec due figure,
sed in adventu
secunde corrumpitur prima,
et in adventu tertie corrumpitur
secunda 1°. Iste
modus est impossibilis,
quia tunc aliqua forma
per se ageret
ad corruptionem sui
ipsius..., Tertius modus dicendi
est, quod in
nullo nisi in
homine sunt plures forme
substantiales seu anime
totales, scilicet sensitiva
et intellectiva, quarum prima
educitur de potentia
materie per agens naturale,
secunda autem creatur
a deo, non
obstante quod ita bene
inhereat sicut prima,
adducendo illud philosophi,
16 de animalibus: intellectus
venit deforis»". — Sed hec
opinio includit contradictionem, quia
si anima intellectiva
inheret materie, ergo educitur
de potentia materie
et generatur ad
generationera corporis
animati et corrumpitur
ad corruptionem eiusdem.
Item hec opinio
non est naturalis,
quia ponit intellectum
creari; et Aristoteles una
cum commentatore ponit
ipsum perpetuum et eternum.
Deinde, si anima
intellectiva inheret materie,
ergo intellectio et
volitio sunt subiective
in materia; quod
est centra philosophum et
commentatorem ponentes potentias
rationales esse abstractas a
corpore, et consequenter
actus illarum. Quartus modus,
quem solum puto
rationalem, est iste,
quod pianta habet solum
unam animam totalem,
scilicet vegetativam,
compositam ex partibus
diversarum rationum; et
consequenter animai
imperfectum simpliciter, quod
non habet aliquem
sensum exteriorem nisi sensum
tactus, nec aliquem
motuin ad locum, sed
solum motum dilatationis
et constrictionis, habet
etiam solum unam animam,
scilicet sensitivam, que
propter sui imperfectionem supplet
vices anime vegetative,
ita quod in
ostrea vel spongia marina
eadem anima est
sensitiva et vegetativa.
Animai autem perfectum
habet duplicem animam,
scilicet partialem
vegetativam, in carne
vel osse vel
in aliquo proportionali, et 9
Questa teoria è
la seconda delle
opinioni da me
elencate in Giorn. Crii,
della Filos. Ital.,
XII, 1931, pp.
437-438, ed è
ricordata da Dante, Purg.,
IV, 1-6, come quello
error che crede
ch'un 'anima sovr 'altra in noi
s'accenda ». 10 Questa
dottrina, già accolta
dal francescano fra
Giovanni della RocheUe, fu
difesa, com' è
noto, da S. Tommaso. Cfr.
lo stesso Giorn. Crii.,
pp. 441-442, sesta
opinione. 11 Questo «tertius
modus», che è
una teoria intermedia
fra quella tomistica e
quella schiettamente averroistica,
non è altro
che la nona delle
opinioni da me
elencate, professata da
Alberto Magno, da Giovanni
Peckam e
da Dante. Cfr.
Giorn. Crii., pp.
445-456; ib., XIII, 1932,
pp 45-56 e 81-102;
come pure il
mio voi. Dante
e la cultura
medievale, Bari, Laterza, 1949,
pp. 271 sgg.
Questa è anche
la tesi di Enrico
Bate; cfr. Sigieri,
nel pens. nnam sensitivam
totaleni, ut equus
vel asinus. Homo autem,
preter partiales animas,
habet duas totales:
cogitativam sensitivam,
generabilem et corruptibilem, inherentem
et informantem, et intellectivam
perpetuam et eternam,
informantem et non inherentem '-. Da siffatta
teoria risultano alcune
conseguenze a mò di
corollari : .... Tertio
sequitur quod homo
non est homo
precise per animam
cogitativam, nec precise
per animam intellectivam, sed per
ambas simili.... Cogitativa
enim denominat hominem
esse animai, et intellectiva
denominat hominem esse
rationalem; sed homo est
diffinitive et convertibiliter animai
rationale; ergo ambe anime
concurrimt ad constitutionem hominis.
Quo dato, oportet
concedere quod, sicut
genus est prius
differentia et potentiale ad
illam, sicut universaliter
minus perfectum ad
maius perfectum, ita cogitativa
est prior intellectiva
in homine et
potentialis ad '2 Nella
Summa philosophie natura! is
o naturalium (Venezia.
Eredi di
Ottaviano Scoto, Anno
a salutifera incarnatione
tertio et quingentesimo
supra millesimum. Idibus
Martijs »), V
parte. De anima,
cap. V, fol. 68,
col. 4: Tertia
conclusio: Necesse est in homine
esse plures animas totales.
Probatur: nam sol
et homo generant
hominem, 2° physicorum
(t. e. 26);
ergo homo generatur;
sed terminus generationis
est forma accipiens novum
esse, ut colligitur
ex sententia philosophi,
5° phisicorum (t. e. 7); ergo
aliqua forma hominis
generatur; sed non
intellectiva, 3° de anima
(t. e. 5);
ergo sensitiva generatur.
— Item, philosophus,
primo celi (t.
e. 102) : omme
genitum aliquando corrumpetur
»; ergo homo aliquando
corrumpetur; sed non
intellectiva, 3° de
anima (t. e. 19);
ergo sensitiva. Et ita necesse
est ponere in
homine duas animas:
unam intellectivam, ingenerabilem
et incorruptibilem, secundum philosophum, et
aliam sensitivam, generabilem
et corruptibilem, quam Commentator vocat,
3° de anima
(t. e. 5),
cognitivam (sic, leggi
cogitativam). — Quarta conclusio:
Impossibile est in
aliquo vivente non intellectivo esse
plures animas totales.
Patet, quoniam
si in plantis vel
in brutis ponerentur
plures anime totales,
unanecessario superflueret, quoniam
illa que est
maioris perfectionis totum
actuaret, sicut illa que
est minoris perfectionis,
et omnes operationes
eius exerceret, ex quo in ea
fundantur omnes potentie
inferioris anime. Dicatur
ergo quod in plantis
est solum una
anima totalis, que
est tota in
toto et pars in
parte, et hec
est vegetativa; in
animalibus autem imperfectis est solum
una anima totalis,
et illa est
sensitiva, supplens vicem
anime, que etiam
extenditur ad extensionem
subiecti; et in animalibus
perfectis sunt plures
vegetative [partiales] et
una sensitiva totaUs, multiplicata
ad omnem partem
etherogeneam. Sed in
hominibus, preter formas
partiales vegetativas, sunt
due totales, scilicet sensitiva multiplicata
ad partes etherogeneas,
et intellectiva non
multiplicata ad aliquam partem
illius individui, sed
bene ad omnia
individua speciei humane, eo
quod intellectus est
unus in omnibus
hominibus, iuxta intentionem
Aristotelis et determinationem Commentatoris, 3"
de anima (t. et e.
5) ». illam
13. — Quarto sequitur
quod idem individuum
est diversarum specierum essentialium.
Patet, quia homo
per animam cogitativam
sensitivam est alicuius
speciei generis animalium,
immo supreme speciei, quia,
secluso intellectu, per
cogitativam homo habet discursum
quodammodo rationalem, ratione
reminiscentie reperte in eo
et non in
aho; licet enim
memoria reperiatur in aliis
animalibus, non tamen
reminiscentia ; neque
reminiscentia competit
homini ratione intellectus,
sed ratione cogitative
virtutis, quia reminiscentia
est passio anime
sensitive, secundum
Aristotelem, in libro
de meìnoria et
reminiscentia H. Item,
quia intellectus humanus est
pura potentia in
genere intelligentiarum, per commentatorem, tertio
huius, et per
consequens est primus gradus
illius generis ^5,
ideo per intellectum
constituit primam speciem intellectivoruni, sicut
per cogitativam constituit
ultimam speciem generis animalium.
Nec est inconveniens
duos gradus specificos esse
immediatos, quia species
sunt sicut numeri,
8 inetaphysice (t.
e. io). Et
si concluditur ex
eodem fundamento, quodlibet mixtum
esse diversarum specierum
essentialiter, ratione forme mixti
et forme elementi,
negetur consequentia, quia forma
elementi non se
habet respectu forme
mixti nisi materialiter et potentialiter
per modum dispositionis
prefinientis in materia formam mixti;
ideo non dat
mixto nomen specificum
nec diffinitionem
essentialem. Sed anima cogitativa
non se habet tanquam
dispositio prefiniens animam
intellectivam, cum eque simul
inducantur in corpore,
nec una potest
naturaliter esse sine alia.
Cogitativa tamen dicitur
esse prior intellectiva
et potentialis ad illam
propter suam imperfectionem ^^. Come
è facile vedere,
già in questo
luogo dell'esposizione del libro
secondo del De
anima, la tesi
caratteristica di Sigieri, 13
Anche Sigieri, come
sappiamo, affermava che
la cogitativa è ordinata
in intellectivam »,
talché nec potest
intellectus informare materiam
non informante cogitativa..., nec
potest cogitativa informare materiam non
informante intellectu »;
cfr. Sigieri nel
pens., p. 18. 14
Cap. 2, 453^
14 sgg. Quella
parte dove sta
memora » chiama l'anima sensitiva
anche Guido Cavalcanti,
nella canzone Donna
mi prega», tutta pervasa
di dottrina averroistica ; cfr.
il mio voi.
Dante e la cult,
medievale,'^ pp. 104-105,
137. Gli averroisti
negavano si la memoria
che la
reminiscenza all'intelletto; cfr.
il mio voi.
Nel mondo di Dante,
Roma, Edizioni di Storia
e Letteratura »,
1944, pp. 373-37415
Altra tipica tesi
di Sigieri che
Paolo Veneto svilupperà,
come vedremo fra
breve. 16 Allo stesso
modo anche nella
Summa naturalium, 1.
e. fol. 69, col.
I : Ad
secundum dicitur, quod
anima intellectiva non
adv-^enit enti in actu
substantiali, quia eque
primo adveniunt corpori
sensitiva et intellectiva. Item,
dato quod sensitiva
precederet tempore intellectivam, adhuc advenit
enti in potentia,
quia forma sensitiva
hominis dicitur potentialis ad
ulteriorem actum; non
autem anima intellectiva. Hec ergo
est differentia inter
formam substantialem et
accidentalem, quia forma accidentalis
advenit enti in
actu ultimato, forma
autem substantialis advenit enti
in potentia, licet
non in pura
potentia ». Ol che r
intelletto, pur essendo
in sé una
sostanza separata unica per
tutta la specie
umana, s'unisce ai
singoli con un vincolo
sostanziale, sì da
potersi dire forma,
atto e perfezione dell'uomo, è
accennata in modo
esplicito '7. Ma
1' influsso del brabantino sull'udinese
è ancora più
evidente nell'esposizione
del terzo libro,
del pari che
nei capitoU 35-37
della quinta parte della
Summa naturalium. In quest'ultimo
scritto, frate Paolo
tratta anzitutto della passività o
passibilità dell' intelletto
umano, formando queste quattro conclusioni: Quarum prima
est ista: Intellectus
humanus nullam habet de
se in actu
speciem intelligibilem, sed
ad quamlibet talem
est penitus in potentia.... Secunda conclusio:
Intellectus non est
aliqua una natura sed
solum habet possibilitatem recipiendi
omnes formas materiales.... Pertia conclusio:
Intellectus possibilis humanus
ante intellectionem nullatenus est
actu.... Quarta conclusio
: Intellectus humanus
est immaterialis et incorporeus et
immixtus.... '8. Tutte
e quattro queste
conclusioni ritornano, con
una leggera variazione nel
loro ordine, in
principio dell'esposizione
del terzo libro
De anima '9;
ma qui alla
terza conclusione, che corrisponde
alla seconda della
Summa, il maestro
padovano ricollega il problema
dell'unità dell' intelletto
che nella Summa è
discusso a parte
nel capitolo 37. 17
Tanto nella Summa
naturalium, 1. e,
f. 68, col.
4, Secunda conclusio, quanto nell'esposizione del
De anima, 1.
e, f. 47,
col. 3, combatte la
tesi sostenuta un
tempo a Oxford
da Roberto Kilwardby
e da Tommaso di
Wilton, e accolta
anche da Giovanni
di Jandum, che in
aliquo vivente possit esse
multitudo formarum iuxta
pluralitatem predicatorum essentialium
«. Della qual
tesi nell'esposizione del
De anima egli dà
questo riassunto : Tenentes
pluralitatem formarum in
eodem iuxta multitudinem predicatorum
quiditativorum, dicunt quod
prima forma Sortis est
illa qua ipse
est substantia, et
secunda qua est
corpus, et tertia qua
est corpus animatum,
et quarta qua
est animai, et
quinta qua est homo,
et sexta qua
est Sortes; et
ita de individuis
aliarum specierum; et
imaginantur isti quod,
quantum ad animam
sensitivam, omnia animalia sunt
eiusdem rationis substantialis, a qua sumitur
hoc genus animai »;
et secundum formas
ulteriores specifìcas, sunt
homines, equi et canes
diversarum rationum substantialium; concedentes
omnes tales formas realiter
distingui et fundari
in materia inhesive,
ordine essentiali, secundum quod
taha predicata invicem
essentiahter ordinantur. Ista
opinio est impossibilis
». 18 Summa naturai.,
pars V, e.
35, f. 87,
col. 2. 19 In
libros de anima,
III, ad t.
e. 1-5, f.
128, col. 3-130,
col. 3. 82 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Sul modo
di concepire la
passività dell' intelletto
possibile e il concorso
dell' intelletto agente
e del fantasma
all'atto dell' intendere, l'eremitano
riferisce quattro opinioni,, l'ultima delle
quali è quella
d'Averroè: Quarta opinio est
Averroys intellectui possibili
nihil nisi passibilitates assignantis,
fantasmati vero activitatem
tanquam particulari agenti,
et intellectui agenti
tanquam agenti universali; ita quod
ad primas intellectiones et
species intelligibiles concurrit fantasma tanquam
agens particulare, et
intellectus agens tanquam agens
vniiversale; ad omnes
autem conseguentes se
habet intellectus agens sicut
causa particularis, fantasma
autem sicut causa sine
qua non, intellectus
autem possibilis solum
recipit et nunquam
agit -°. Da questa
opinione il nostro
dichiara di dissentire,
non per quel che
concerne le prime
intellezioni, nelle quali
l' intelletto possibile è totalmente
in potenza, e
quindi del tutto
passivo, sibbene per quel
che concerne le
intellezioni successive, alle quali,
essendo già attuato
dalle prime, è
in grado di
concorrere attivamente, semper
tamen virtute intellectus
agentis ». Di qui
la conclusione formulata
piti oltre, che
cioè: Intellectus ante actuationem
speciei intelligibilis aliter
est in potentia quam
post actuationem eius
21. Dopo aver affermato
l'essenziale passività dell'
intelletto possibile, fra Paolo
si pone nella
Summa naUiralmni il
quesito del rapporto da
stabihre tra questo
intelletto e il
corpo umano, intorno al
quale tam Inter
veteres quam modernos
multa discrepantia fuit »
^-. E prima
di tutto ricorda quod
Plato posuit intellectum
uniri corpori, non
ut formam materie, sed
ut motorem mobili,
eo modo quo
nauta unitur navi et
intelligentia orbi, non
per modum informationis, sed
per contactum virtutis
(alium) a contactu
corporeo. 20 7è., ad
t. e. 5, fol. 131,
col. 3. Il
problema fu a
lungo discusso fra le
varie scuole nella
scolastica della decadenza,
senza che ci
si rendesse ben conto
della sua gravità,
poiché è problema
che investe tutta
la filosofia antica fino
a Kant: come
salvare l'immanenza dell'atto
del conoscere, se esso
ha bisogno d'una
causa esterna che
la produca nel soggetto
conoscente ? 21 Iv.,
ad t. e.
8, fol. 133,
col. 2. ^2 Summa
naturai., V, e.
36. i Quanto ad Averroè,
il nostro eremitano
ne espone il pensiero
in questi termini: Secundo notandum
ex intentione Commentatoris, ij
de anima (comm. 5
et 36), quod
corporalis natura compatitur
secum spiritualem naturam,
et non cedit
ei organum fantasticum
seu imaginative virtutis,
cum sit quid
corporale, intellectus autem
quid spirituale; organum predictum
non cedit intellectui,
et per consequens
illa eadem intentio
que informat virtutem
imaginativam, informat
intellectum materialem...; et
hoc dico quia
intellectus copulatur nobis per
formam suam. Copulatur enim nobis
per intentiones imaginatas, que
sunt eedem cum
intentionibus existentibus in
intellectu possibili; et ita unitur
homini per fantasmata
intellecta in actu.
Intentiones enim imaginative,
per Commentatorem, ut
informant virtutem imaginativam,
plurificantur, quia sunt ibi
cum conditionibus materie;
sed ut informant
intellectum possibilem fiunt una
intentio in ipso,
quia non recipit cum
conditionibus materie. Et ideo inquit
Commentator, quod copulatur nobis
intellectus per continuationem intentionis
intellecte, quia eadem
est intentio informans
intellectum et virtutem imaginativam 23. Siffatta interpretazione del
pensiero del commentatore
di Cordova anzi che
da Sigieri è
suggerita invece da
Egidio Romano, al quale
il confratello veneto
s'appella esplicitamente nel commento
al De anima: Secunda opinio
fuit Averoys dicentis
quod intellectus humanus non
unitur corpori ut
forma, sed per
fantasmata intellecta in actu.
Ad quod declarandum,
est notandum primo
secundum eum in hoc
tertio, iuxta expositionem
Egidij, quod corporalis natura compatitur
secum spiritualem naturam
etc. -4. All'opinione d'Averroè,
Paolo aggiunge quella
di Giovanni di Jandun
che, a mio
parere, egH non
ha ben compreso.
Ecco ad ogni modo
com'egli la riassume: Tertia opinio
fuit Ioannis de
ianduno dicentis quod
intellectus, secundum
Commentatorem, unitur corpori
humano, non ut
forma dans esse, sed
ut motor mobili
dans operari, eo
modo quo unitur intelligentia orbi
et nauta navi;
concedens consequenter quod datur
duplex homo: unus
qui componitur ex
corpore et anima cogitativa; et
alius qui componitur
ex intellectu et
toto residuo; 23 Ib. 24
In libros de
anima, 1. e.
f. 133, col.
4. Cfr. Egidio
Romano, Do intell. pass,
cantra Averr., Venezia,
1500, II parte,
fol. 92 col.
1-9. 84 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI quibus proportionaliter respondet
duplex intelligere, scilicet universale et
particulare ; homo
sumptus primo modo,
solum particularia
intelligit; et sumptus
secundo modo intelligit
solum universalia ^5. A queste
tre opinioni egli oppone
la tesi d'Aristotele,
secondo il quale l' intelletto
è vera forma
sostanziale dell'uomo, cui dà
essere ed operare
^6. Ma com'egli intenda
il pensiero dello
Stagirita su questo punto,
c'è detto nella
Summa naturalium '^v. Tertia conclusio
: Anima intellectiva
non unitur corpori
humano per inherentiam. Patet
tripliciter: primo quia
ipsa est ingenerabilis
et incorruptibilis, iij
de anima (t.
e. 20) ;
modo nulla forma inheret materie per
transmutationem, scilicet materie
que non generatur et
corrumpitur, ut colligitur
a philosopho, primo
de genevatione, et a
Commentore, in libro
de substantia orbis
(cap. 4). Secundo, quia
intellectus est impassibilis
et intransmutabilis, iij de
anima; sed nulla
forma inheret materie
nisi per transmutationem et passionem.
Tertio, quia anima
intellectiva est indivisibilis
et impartibilis per
carentiam partium integralium;
nam quelibet forma inherens
materie suscipit conditiones
intrinsecas materie secundum quas
inheret; cum ergo
conditio materie, secundum quam
forma inheret, sit
habere partes integrales, licet non
partem extra partem,
quia hec est
conditio quantitatis, etc. Quarta conclusio:
Anima intellectiva unitur
homini substantialiter per
informationem, ita quod
est forma substantialis
corhumani, non solum
dans operari, sicut
intelligentia orbi, sed etiam
esse specificum et
essentiale. Probatur: differentia specifica constituens
aliquam speciem sumitur
a forma illius speciei, sicut
apparet ex intentione
philosophi, io metaphysice (t. e.
25), dicentis quod
contraria consequentia materiam
non faciunt differentiam in
specie, sed contraria
consequentia formam; modo differentia
propria hominis est rationale
»; ergo sumitur a
forma humana; sed
«rationale » sumitur
ab eo quod
est intellectivum; ergo
intellectus vel anima
intellectiva est forma
corporis humani. —
Item, rationale »
ponitur in diffinitione
eius non tanquam additamentum,
sed tanquam differentia
eius, ut ponit Porphyrius
et Aristoteles ;
ergo " rationale
» est de
essentia hominis; sed nihil
est per se
rationale nisi per
aniinam intellecti^5 Ib.,
fol. 134, col.
I, cfr. Sigieri,
pp. 100-102. -6 Ib.,
fol. 134, col.
1-2: Quarta opinio fuit
Aristotelis dicentis intellectum
esse veram formam
substantialem hominis.... Ideo
est dicendum cum
Aristotele et alijs
perypateticis veris, quod
intellectus est iorma substantialis
hominis, dans sibi
esse et operari
». ^7 Parte
V, cap. 36. vam;
ergo etc. Unde
ex diffinitione anime
data a phylosopho, ij de
anima, convincitur hanc
conclusionem esse de
intentione sua. Arguitur enim
sic: Anima intellectiva
secundum ipsum est anima;
ergo «est actus
primus corporis »;
patet consequentia a dififinito
ad diffinitionem ;
ergo est forma
substantialis; patet
consequentia secundum phylosophum,
ij de anima,
eo quod actus primus
est forma substantialis
corporis; et nonnisi corporis humani;
ergo etc. —
Deinde anima intellectiva
est illud «quo primo
intelligimus »; ergo
est forma substantialis
hominis; patet consequentia, quia
non est alia
ratio ad probandum
animam vegetativam esse
formam substantialem corporis
vegetantis, et animam
sensitivam esse formam
corporis sensitivi; ergo etc. L'anima intellettiva
dunque è, sì,
forma dell'uomo, in quanto
gli dà l'essere
e l'operare di
uomo, ma non
perché sia inerente al
suo corpo alla
stessa maniera delle
altre forme naturali. Su
questa differenza Paolo
Veneto ritorna anche
nel commento al De
anima -^: Intelligenda est differentia
inter informare et
inherere: quoniam informare
est dare alteri
esse actuale et
hoc dicit perfectionem
in forma, imperfectionem in
materia, quia dare
dicit perfectionem; sed
inherere est ab
alio sustantificari, et
hoc dicit perfectionem
in materia et
imperfectionem in forma,
quoniam sustantificare dicit
perfectionem, et sustantificari imperfectionem dicit, scilicet dependentiam
a subiecto. Ex
isto notabili..., sequitur quod
anima intellectiva, licet
informet corpus humanum, non tamen
inheret illi, quia
non dependet ab
eo; quocumque enim
tali corpore dato, ante
illud fuit et
post illud erit
anima intellectiva, cum illud
generetur et corrumpatur,
anima autem intellectiva sit eterna....
Ouatuor rationibus arguitur
animam intellectivam non inherere
materie; quarum prima
est ista: anima
intellectiva non educitur de
potentia materie; ergo
sibi non inheret....
Secunda ratio: anima
intellectiva est prior
materia; ergo non
inheret illi.... Tertia ratio:
anima intellectiva est
impassibilis et intransmutabilis; ergo
non inheret materie....
Quarta ratio: anima
intellectiva est
indivisibilis et inpartibilis
per carentiam partium
integralium, secundum
philosophum et commentatorem, in hoc tertio; ergo
non inheret materie. Anima
sensitiva o cogitativa
ed anima intellettiva
son dunque, per il
maestro padovano, due
forme totali che
costituiscono l'uomo nella sua
natura di animale
ragionevole. Ma pur essendo
due forme distinte,
sono unite da
un intimo ^^ In
libros de anima,
III, ad t.
e. 6, f.
132, col. 2-3. 86
legame talmente stretto,
che l'una è
fatta per l'altra
e l'una completa l'altra.
Per questa ragione
il Nifo, più
che due anime le
diceva 29 due
semianime costituenti, per
la loro sostanziale unione,
una sola anima
umana; che è anche
il pensiero di
Dante, il quale
ad esprimerlo si
serve della immagine del calor
del sole che
si fa vino,
giunto all'omor che dalla
vite cola »
30. La tesi di fra
Paolo è dunque
identica in sostanza alla
tesi professata da
Sigieri nel trattato
in risposta a quello
dell' Aquinate contro
gli averroisti ;
ma d'accordo col brabantino
il maestro padovano
non è nella
pretesa d'attribuire questa tesi
al commentatore di
Cordova; anzi egli riconosce
che è vero
il contrario: Cominentator tamen
diceret intellectum per
se subsistere, et ipsum
non uniri materie
ut formam; sed
non sui ipsius
{sic, leggi: sum ipsius)
opinionis 3'. Ma se
il nostro eremitano
dissente da Sigieri
su questo particolare, non dissente
affatto da lui
nel ritenere che,
pur essendo forma dell'uomo,
l' intelletto possibile è
unico per tutti gli
uomini. E nella
Summa naturalium 32
ritiene sia questo
il pensiero non soltanto
d'Averroè, bensì quello
d'Aristotele: Unde secundum philosophum,
primo et tertio
de anima, natura nihil
facit frustra et
non abundat in
superfluis, nec deficit in
necessariis; cum igitur
natura alicui speciei
non dederit nisi unum
individuum, et alteri
plura, hoc est
ideo, quia una
species in uno individuo
potest se perpetuo
preservare, et non
alia; ut species angelica
que perpetuo preservatur
in una intelligentia, et non
species humana; sed
ita est quod
species anime intellective potest se
preservare perpetuo in uno individuo,
quia anima intellectiva
est perpetua et
eterna sicut aliqua
intelligentia celestis, ergo frustra
et preter intentionem
nature ponuntur plures
anime intellectuales solo numero
differentes. — Item,
intellectus venit de foris,
secundum philosophum, xvj
libro de animalibus:
aut ergo per creationem,
iuxta opinionem fidei;
aut per motum
a corporibus celestibus, iuxta
opinionem Platonis; aut
per introitum unius corporis,
aliud relinquendo, iuxta
opinionem Pictagore; aut per
novam actuationem unius
corporis humani, aliud non
relinquendo: nullus trium
priorum modorum potest
assignari, quia intuenti
libros Aristotelis notum
est ipsum oppositum 29
Vedi Sigieri... nel
pens., pp. 13-20. 30
Purg., XXV, 76-78. 31
In libros de
anima, 1. e.
fol. 132, col.
3. 32 Parte V,
cap. 37, fol.
88, col. 3. opinari;
ergo est dare
quartum modum; et
cum in eodem
corpore non possint esse
plures anime intellective
simul, secundum omnes opiniones, sequitur
quod unicus est
intellectus in omnibus
hominibus secundum intentionem
Aristotelis. E più oltre: Quarta
conclusio: Intellectus non
numeratur numeratione individuorum, sed
est unicus in
omnibus hominibus. Probatur: pluralitas individuorum
in eadem specie
non est nisi
per materiam, per
philosophum, j celi
(t. e. 92),
vij et xij
metaphysice (VII, t. e.
28; XII, t. e. 49),
ubi probat quod
non possunt esse plures
intelligentie separate solo
numero differentes, per
hoc medium : quecunque
conveniunt in eadem
specie et differunt numero, habent
materiam; sed anima
intellectivam non habet materiam scilicet
ex qua, nec
in qua per
inherentiam; ergo etc. Unde
arguitur sic: anima
intellectiva est ingenerabilis
et incorruptibilis, iij
de anima (t. e. 20),
et non contingit
dare multitudinem infinitam,
j celi (t. e. 68)
et iij physicorum
(t. e. 40),
et species sunt eterne,
j posteriorum (t.
e. 56) et
vii] physicorum; ergo
unica est anima
intellectiva omnium. Patet
consequentia, quia, si
anima intellectiva mutatur
mutatione individuorum
speciei humane, aut
ergo per generationem
et corruptionem, ut
posuit Alexander, et hoc non,
quia repugnat prime
parti antecedentis ; aut
per multiplicationem finitam
animarum recedentium et
advenientium, ut posuit
Plato vel Pictagoras,
et hoc iterum non,
quia omnes sciunt
oppositum scripsisse Aristotelem;
aut per generationem
vel creationem et
incorruptibilitatem, ut ponit
fides, et hoc
iterum non, quia
repugnat secunde et tertie
parti antecedentis; ergo
oportet dare unicum
intellectum in omnibus hominibus,
secundum opinionem et
intentionem Aristotelis. La stessa tesi
Paolo Veneto sostiene
anche nell'esposizione del De
animaci, ma con
una piccola variazione:
nella Summa, la teoria
dell'unico intelletto in
tutti gli uomini
è detta sen33
In libros de
anima. III, ad
t.c. 5, fol.
130, col. 3: Secundo
notandum, secundum Commentatorem, eodem
commento, quod Illa
natura (intellectus) non est
hoc aliquid, nec
corpus nec virtus
in corpore, quoniam,
si ita esset,
tunc reciperet formas
secundum quod sunt
diverse et individuales; et
si ita esset,
tunc forme existentes
in illa essent
intellecte in potentia,
et sic non
distingueret naturam formarum
secundum quod sunt forme,
sicut est dispositio
in formis individualibus, sive in
spiritualibus sive in
corporalibus. Intentio commentatoris
est, quod intellectus humanus
non sit aliquid
singulare vel individuum, ex quo
non est corpus
nec virtus in
corpore; quoniam materia
est ratio individuationis, a
qua separatur intellectus
humanus sicut et
quelibet intelligentia celi. Tria ergo
inconvenientia adducit, concesso
quod intellectus sit hoc
aliquid. Primum inconveniens
est, quod intellectus z'altro rispondere
al pensiero d'Aristotele iuxta
impositionem Commentatoris » ; nel commento
invece è presentata
semplicemente come intentio » e opinio
Commentatoris » :
segno che sul vero
pensiero d'Aristotele s'era
forse affacciato qualche dubbio alla
mente del maestro
padovano. Un'altra tesi tipica
di Sigieri consiste,
come sappiamo, nel ritenere
che l' intelletto agente,
tanto per Aristotele
quanto per il suo
commentatore arabo, sia
Dio. Nella Summa naturalium
34, fra Paolo
ritiene: quod intellectus agens
et possibilis non
separantur ab anima intellectiva, sed
sunt differentie illius
non substantiales..., sed accidentales.... Intellectus
agens est coniunctus
anime intellective per inherentiam
et fantasmatibvis per
presentiam et indistantiam. Per altro nella
risposta Ad primum
(argumentum) » egli accenna
anche alla tesi
di Sigieri, ma
senza aderire ad
essa: Commentator autem vult
intellectum possibilem esse
essentiam anime intellective,
et intellectum agentem
esse primam cavisam,
vitaliter immutantem ipsum
intellectum possibilem; sed hanc
opinionem non teneo
ad presens. Invece, quando
scriveva l'esposizione al
De anima, egli
era ormai convinto che
la tesi di
Sigieri fosse la
sola vera, non soltanto
dal punto di
vista della filosofia
aristotelica, ma altresì da
quello teologico: Dubitatur, si
intellectus agens et
possibilis differunt tam
inter se quam ab
assentia anime, utrum
sint substantie vel
accidentia. In hac materia
fuerunt quatuor opiniones.
Prima fuit Avicenne
et Algacelis, dicentium
intellectum agentem et
possibilem esse substantias invicem
separatas loco et
subiecto, ita quod
secundum eum {sic)
intellectus possibilis est
forma hominis, et intellectus agens
est decima intelligentia
appropriata decime spere, a
qua nostra felicitas
dependet; sicut ergo
iste unus sol non
reciperet nisi formas
individuales et secundum
quod sunt diverse... Secundum inconveniens:
quod species intelligibiles essent
intentiones intellecte in potentia
et non in
actu; quod est
falsum, cum sint
universales et depurate
a conditionibus materialibus.... Tertium
inconveniens: quod intellectus
non poneret differentiam
inter formas universales
et singulares, sive
ille forme corporales
sive spirituales ». E
dopo aver riferite
quattro obiezioni contra
commentatorem », comincia la
sua risposta con
queste sintomatiche parole:
Responsurus prò opinione Averroys,
dico...... 34 Parte V,
cap. 38, fol.
89, col. 1-4. totum
universum illuminat, per
cuius illuminationem possunt omnes
oculi videre, sic,
dicebant illi, est
aliqua una substantia separata irradians
super fantasmata omnium
hominum, per cuius irradiationem possunt
omnes homines intelligere. Hec opinio
est in parte
defectuosa, quia postquam
intellectus factus est in
actu nos intelligimus
quandocumque volumus, secundum quod
posuit supra Commentator
et habetur ad
experientiam; sed talis
substantia separata non
videtur irradiare supra fantasmata
quandocunque volumus, sicut
nec sol illuminat oculum quandocunque
volumus; cum ergo
non intelligamus absque intellectu
agente, ergo intellectus
agens non est
talis intelligentia separata 35. Siffatta
critica della tesi
d'Avicenna, ci fa
presentire come la pensi
il nostro su
quest'argomento: se invece
di identificare r intelletto
agente colla decima
intelligenza celeste, che è
r infima delle
intelligenze separate, Avicenna
l'avesse identificato con Dio,
questo certamente irradia
della sua luce i
fantasmi quandocumque volumus
». Il difetto
insomma di questa teoria
consiste nell'avere identificato
l' intelletto agente con un
intelletto particolare, anzi
che con un
intelletto veramente universale.
Dopo di
che, Paolo Veneto
espone e critica
come seconda opinione quella
d' Egidio, di
S. Tommaso e
di tutti quegli antichi scolastici
che ritenevano l' intelletto
possibile ed agente facoltà accidentali
dell'anima. La terza
opinione, da lui riferita
parimente rifiutata, è
quella di Giovanni
Eucliph, ossia Giovanni WycHf,
il cui ricordo
doveva essere ancora ben
vivo a Oxford,
quando vi giunse
il nostro eremitano
56. Indi prosegue: 35 In
libros de anima,
III, ad t.
e. 19, fol.
142, col. 4. 36
La terza opinione
è così riassunta
(fol. 142, col. 4-143, col.
i): Tertia opinio fuit
Ioannis Eucliph dicentis
intellectum possibilem et intellectum agentem
esse potentias anime
inteUective, non tamen
esse substantias nec accidentia;
sicut enim dicunt
theologi quod pater, filius
et spiritus sanctus
sunt tres persone
realiter distincte, non
tamen tres substantie nec
tria accidentia, sed
una substantia que
est deus, ita intellectus
agens et intellectus
possibilis et voluntas
sunt tres potentie
realiter distincte, non
tamen tres substantie,
nec tria accidentia, sed una
substantia que est
anima intellectiva ;
et sicut pater
non est filius, nec
spiritus sanctus, et
tamen est ille
idem deus qui
est filius et spiritus
sanctus, ita intellectus
agens non est
intellectus possibilis nec voluntas,
et tamen est
intellectus agens illa
eadem anima intellectiva numero, que
est voluntas et
intellectus possibilis. Opinio
ista non est tenenda
phylosophice nec theologice
» etc. Quarta opinio,
que tenenda est,
fuit Aristotelis ponentis
intellectum agentem et
possibilem esse virtutes
et potentias anime non
subtantiales nec accidentales,
sed intellectum possibilem esse accidens
proprium et inseparabile
anime intellective, quo recipit
omnes formas speculativas,
sicut materia prima
per suam accidentalem potentiam
recipit omnes forinas
naturales. Intellectuin vero
agentem voluit esse
substantiam primam, coniunctam intellectui possibili
non per modum
forme informantis nec
inherentis, sed per
modum forme et
habitus presentis et
indistantis; nec aliqua intelligentia, preter
primam que deus
est, potuit esse intellectus agens,
quia, sicut potentialitati prime
materie respondet actus purissimus
in quo sunt
active omnes forme
naturales que sunt in
prima materia passive,
ita potentialitati anime
intellective competere
(correspondere ?) agens
primum, in quo
sunt effective omnes forme
speculative, que passive
sunt in anima
intellectiva, mediante
intellectu possibili 37.
Si enim aliqua
intelligentia depen- dens esset
intellectus agens, per
istam non posset
intellectus pos- sibilis intelligere
primam causam, quia
intellectus agens abstrahit intellecta et
agit ea, secundum
Commentatorem ; modo
nulla intelligentia inferior potest
abstrahere causam primam
nec in illam aliquo
modo agere, ratione
independentie (suedependentie ?) et
imperfectionis. Et hec opinio
non solum est
physica, sed etiam a
theologis tenetur. Nel commento
al De anima,
dunque, ogni riserva
è sciolta, e fra
Paolo giudica la
dottrina che identifica
l' intelletto agente colla causa
prima, cioè con
Dio, non soltanto
conforme al pensiero d'Aristotele
e d'Averroè, ma
senz'altro vera in se
stessa e
tenuta dai filosofi,
non meno che da non
pochi teologi. La tesi
di Sigieri, intorno
alla quale aveva
avuto dei dubbi, aveva
finito per prendere
il sopravevnto nel suo
animo. Altrettanto non possiamo
dire d'un'altra tesi
del brabantino, strettamente
connessa con quella
che concerne l' intelletto agente, la
teoria cioè della
beatitudine per mezzo
del congiungimento della mente
umana coli' intelletto
divino. Su questo punto
Sigieri aveva fatta
sua l' interpretazione che il
Commentatore di Cordova,
nella celebre digressione inserita nel
commento 36 del
III libro De
anima, dava del 37
Allo stesso modo
per Dante, Conv.,
IV, xxi, 5,
l'anima in vita tratta
per virtù celestiale
dalla potenza del
seme, incontanente produtta,
riceve da la
vertù del motore
del cielo lo
intelletto possibile; lo quale
potenzialmente in sé
adduce tutte le
forme universali, secondo che
sono nel suo
produttore, e tanto
meno quanto più
dilungato da la prima
Intelligenza è ».
Sul qual passo,
cfr. B. Nardi,
Dante e la
cultura medievale, pp. 267
sgg., e Giorn.
Crit. filos. Hai.,
XIII, 1933, pp.
54-56. QI pensiero d'Aristotele. Anche
l'eremitano sa bene
come la pensasse Averroè
: Commentator autem dicit
iij de annna
(t. e. 5 et 36),
quod, cum intellectus possibilis
fuerit intellectus adeptus,
idest actuatus omnium specierum
materialium, intelligit intellectum
agentem per essentiam propriam
38. Ma neppur questa
volta egli è
dell'avviso dell'arabo; e postosi
il quesito Qualiter
intellectus noster intelligit
substantias separatas »,
lo risolve affermando
che l' intelletto umano conosce
le sostanze immateriali non
per se et
directe, sed indirecte et
reflexe per cognitionem
motus celi» 39. Così
nella Summa naturalium.
Ma nell'esposizione del De
anima è
anche più esplicito,
se fosse possibile.
Postosi di nuovo il
problema Utrum intellectus
possit intelligentias separatas cognoscere »,
fa questa osservazione
che è presa
alla lettera dal commento
di S. Tommaso: Istam questionem
non solvit hic
philosophus, dicens se
determinaturum alibi, scilicet
in libro metaphysice...; hec
questio tamen non invenitur
soluta per ipsum,
quia complementum illius scientie nondum
ad nos pervenit,
vai quia nondum
est totus liber translatus, vel
forte morte preoccupatus
librum non complevit
40. Ciò non di
meno egli espone
qual fosse il
pensiero d'Averroè e in che differisse
da quello degli
altri interpreti della
dottrina d'Aristotele. Ma giunto
alla fine della
discussione, egli ci fa sapere
quod
hec opinio iam
non tenetur a
theologis vel philosophis
», e ripete quod
intelligentie separate cognoscuntur ab intellectu
possibili non per
se et directe...,
sed indirecte et reflexe
per cognitionem motus
celi » 41. Da
quanto precede, mi
pare risulti in
modo da non
lasciar dubbio, che Paolo
Nicoletti, quando nel
1408 insegnava a Padova,
aveva od aveva
avuto tra mano
per lo meno
lo scritto di Sigieri
in risposta al
trattato tomistico De
unitale intellechis. Questa
e verosimilmente altre
opere del brabantino circolavano già
fra i maestri
dello studio padovano,
o fu il 38
Summa naturai.,Y, e.
41, f. 91,
col. 3. 39 76.,
cap. 42, f. 92, col.
i. 40 In libros
de anima. III,
ad t. e. 36, fol.
152, col. i,
Cfr. S. Tommaso, De
anima.] nostro eremitano a
portarvele, forse da
Oxford o da
Parigi ? Non saprei
che dire, perché
tanto l'una che
l'altra supposizione, in mancanza
di dati sicuri,
è ugualmente ammissibile. Ulteriori ricerche
nella letteratura manoscritta
concernente i maestri che
professarono a Padova
e a Bologna
nei secoli XIV e
XV, potranno gettare
qualche luce sulle
correnti d' idee che fervevano
in quei due
centri d'intensa vita
intellettuale 4^. Per il momento,
a noi basti
di ricordare quel
maestro Taddeo da Parma,
il quale insegnava
a Bologna intorno
al 1320, e che
nel suo commento
al De anima
accoglieva la tesi
difesa da Sigieri nelle
Quaestiones de anima
intellectiva'iì. Ma Taddeo, più
che l'opera del
brabantino sembra aver
letto le Quaestiones di Giovanni
di Jandun, le
quali ebbero in
Italia dal secolo XIV
al XVI la
più larga diffusione
e furono trascritte e
stampate in parecchie
edizioni, discusse con
vivacità e qualche volta
fraintese. Fraintesa in
particolare sembra essere stata
da Paolo Veneto,
e da altri
la dottrina intorno
al modo come l'anima
intellettiva è forma
del corpo, la
quale, come già sappiamo
è in sostanza
quella di Sigieri,
cui espHcitamente accennava.
Il bisogno di
togliere alla dottrina
averroistica quello che
essa aveva d'eretico,
dopo che il
concilio di Vienne aveva
definito esser l' intelletto
forma del corpo umano,
dovette invogliare gli
averroisti italiani a
procurarsi quegli scritti nei
quali Sigieri s'era
difeso contro le
obiezioni di S. Tommaso,
e nei quali,
senza rinunziare alla
tesi dell'unico intelletto avea
tentato di dimostrare
com'esso s'unisse all'uomo con
tale intimo e
sostanziale legame, da
potersi dire forma dell'
individuo umano cui
s'attribuisce l'atto dell'
intendere. L' insegnamento
di Paolo Nicoletti
a Padova è una
inequivocabile testimonianza che
gli scritti di
Sigieri non erano ignoti. Un'altra cosa
questo insegnamento ci
attesta: che la dottrina
averroistica poteva esser
liberamente discussa ed
esposta a Padova, fin
dal primo decennio
del secolo XV,
senza che chi se
ne faceva sostenitore
incorresse nella taccia
d'eretico; tanto vero che
frate Paolo non
sente neppure il
bisogno di 42 Cfr.
sotto, il saggio
XI. 43 Cfr. Sofia
Vanni Rovighi, Le
Quaestiones de anima
di Taddeo da Parma.
Testo e introduzione.
Milano, Soc. Ed. Vita
e pensiero », 195 I,
P 35 sgg. ripetere
la solita formale
protesta, che altri
averroisti avevano cura di
non omettere, cioè
che essi trattavano
dallo spinoso argomento come
filosofi e non
come teologi. E
forse perché gli averroisti
padovani usavano senza
parsimonia di questa libertà, il
vescovo Barozzi d'accordo
coli' inquisitore locale proibì quovis
quaesito colore »
le dispute intorno
all'unità dell' intelletto. Ma il divieto
riguardava la diocesi
di Padova, e non,
per esempio, Bologna
e Pavia, ove
si continuò a
disputare con grande spregiudicatezza. Non mi
stancherò mai dal
ripetere, per coloro
che han l'animo sgombro
da pregiudizi, che
una vera e
propria dottrina della doppia
verità » nel
medio evo e
nel Rinascimento non fu mai sostenuta
da alcuno '.
Molti invece furon
quelli che, contro il
concordismo tomistico, posero
in rilievo l'opposizione di fatto
fra la teologia
e la filosofia,
' intendendo per filosofia
la dottrina della
natura congegnata in
sistema da Aristotele, detto
perciò il filosofo per
eccellenza, e sviluppata dai suoi
commentatori greci ed
arabi. Il primo
a rendersi conto, in
modo chiaro ed
esphcito, di questa
opposizione, fu Alberto Magno.
Il quale, non
solo dichiarava apertamente
che theologica cum physicis
principiis non conveniunt
» -, ma giungeva
fino a sostenere,
non doversi far
caso dei miracoli che
Dio opera oltre
il potere della
natura, quando si
tratta di conoscere quello
che è il
corso degli eventi naturali
3. Perciò, egli che
s'era proposto totam
Aristotelis scientiam prò.... viribus explanare
», dichiarava di
rifuggire dall' interpretazione che del
pensiero aristotelico davano
i dottori latini: quoniam in
istarum quaestionum determinatione omnino *
Dal «Giorn. Crit.
di Filos. Ital.
», XXX, 1951,
pp. 103-118. 1 Vedasi
quanto ho detto
sopra, pp. 55-58,
71-75, e in
Dante e la cultura
medievale, 2* ed.
Bari, Laterza, 1949,
pp. 208-209, nonché
quanto ne ha scritto
E. Gilson, Etudes
de philos. médiév.,
Strasbourg, 1921, PP 5i'75;
id., Dante et
la philosophie, Paris,
1939, p. sgg.
2 A.
Magno, Metaphys., XI,
tr. 3, e.
7. 3 A. Magno,
De gener. et
corrupt., I, tr.
i, cap. 22,
ad t. e.
14. Cfr. la mia
nota La posizione
di Alberto Magno
di fronte all'averroismo, in Riv.
di Storia d.
Filos. », II,
1947, p. 197
sgg. q6 l'aristotelismo padovano
dal SFXOLO XIV
AL XVI abhorremus doctorum
latinorum verba »
4 ; fra
i quali è sicuramente
il suo
confratello italiano, frate
Tommaso d'Aquino 5. La
pretesa teoria della
doppia verità »
non fu dunque una teoria né una dottrina
», ma la
semplice constatazione del disaccordo
o contrasto fra la filosofia
aristotelica e il pensiero
cristiano. Ed era
perfettamente logico che
gli espositori del pensiero
aristotelico diffidassero dei
tentativi concordistici di
Tommaso e d'altri
teologi, e preferissero
attenersi neir
interpretazione d'Aristotele ai
principii fondamentali della sua
metafisica, senza preoccupazioni teologiche,
sia che le conclusioni cui
giungevano s'accordassero o
no coi dogmi della
fede, avendo per
altro cura di
dichiarare che quello
che affermavano come filosofi,
cioè come interpreti
d'Aristotele, non riguardava né
intaccava la verità
di fede, cui
essi protestavano di credere
come fa ogni
buon cristiano 6. Dal
punto di vista
logico e oggettivo,
questo atteggiamento degli averroisti
era perfettamente coerente
e non impHcava in
sé niente di
contradittorio, e tanto
meno costituiva quell'eresia che Tommaso
d'Aquino e alcuni
altri teologi vi
scorsero. Il che compresero
bene non pochi
altri teologi ai
quali il tentativo tomistico di
cristianeggiare la filosofia
aristotelica, per ancorare ad
essa il dogma,
non parve né
di buon gusto
né di 4 A.
Magno, De anima,
III, tr. 2,
e. i, ad t. e.
2 ; La
posizione d'A. M., p.
215. Il Pomponazzi,
che rifugge del
pari da questo fratrizzare, idest miscere
diver.-a brodia »
[Phys. Vili, t.
e. 76, Bibl.
Nation. di Parigi, cod.
lat. 6533, f.
568r), loda anche
lui Alberto Magno,
perché a differenza degli altri
«fratres omnes», cioè
d'Egidio, di Tommaso,
di Scoto e di
Gregorio da Rimini,
s'è astenuto dal frateggiare
», mescolando filosofìa e
teologia. Sicché isti
fratres truffadini, dominichini,
franceschini vel diabolini
habent bene rationem
comburendi Albertum, quia omnes
questiones sunt contra
fìdem nostram licet
dicat in fine, quod
ita dicit quia
ut philosophus loquitur,
et philosophica non
sunt miscenda cum theologicis;
et dicit quod
in theologia aliter
sentit; et dicit quod
est fatuum miscere
eredita cum physicis;
me autem vellent comburere» {Phys.,
Vili, t. e.
85. Arezzo, Fraternità
de' Laici, m.
389, f. 317»'. Cfr.
cod. Parig. cit.,
f. 584^). 5 Cfr.
il mio articolo
Alberto Magno e
S. Tomìiiaso, in Giorn.
Crit. d. Filos. Ital.
», XXII, 1941,
p. 36 sgg.,
e La posiz.
di A. M.,
pp. 200, 210, 219. 6
Non va confusa
con questa tesi
la dottrina, svolta
più tardi da
Giordano Bruno, e anch'essa
d'origine averroistica, la
quale attribuisce alle verità
di fede »
un valore puramente
pratico, che il
filosofo accetta solo come
tale. Dell'origine e
dello sviluppo di
questa teoria ho
parlato n «Giorn. Crit.
d. Filos. Ital.»,
buon augurio. E in particolare
lo compresero gì'
inquisitori che
sorvegliavano con occhio
sospettoso le manifestazioni dell'eretica pravità.
A questi ultimi
importava mediocremente di sapere
come la pensassero
Aristotele e Averroè
sull'eternità del mondo o
sull'unione dell'intelletto all'uomo:
essi invece volevano essere
rassicurati sui sentimenti
personali dei commentatori cristiani d'Aristotele
intorno a questi
argomenti. E per esserlo,
bastaron loro, a
quanto pare, le
pubbliche dichiarazioni che, neir
insegnamento e nei
loro scritti, gli
aristoteli si facevano
premura di non
dimenticare. Ciò spiega come
l'averroismo e l'alessandrismo abbiano potuto avere
una vita abbastanza
florida sino alla
fine del secolo XVI;
e com'essi fossero
apertamente professati a Padova,
a Bologna ed
altrove senza che
per questo corresse sangue, come
fantasticava Francesco Orestano
2. Ch' io
sappia, neppure una goccia
ne fu versato,
a meno che
non fosse dal naso
nell'ardor delle dispute. E
nella libera discussione,
entro e fuori
le aule universitarie, a Padova
e a Bologna,
e non per
editti restrittiva, l'aristotelismo nelle sue
varie tendenze esaurì
la propria vitalità, quando si
comprese che i
problemi da esso
posti erano insolubih,
per esser mal
posti. Ma, intanto,
quella che s'usa
chiamare dottrina della doppia
verità », aveva
ottimamente compiuto la sua
funzione storica, di
assicurare un'assai ampia libertà
d' indagine e di
critica, di cui
il pensiero del
Rinascimento s' è
avvantaggiato ^. A questo
punto nasce per
altro un dubbio
perfettamente legittimo e stimolante:
erano poi sinceri,
averroisti e alessandristi, quando
dichiaravano di limitarsi
ad esporre quello che,
a loro avviso,
era il pensiero
d'Aristotele, ossia la verità
filosofica », senza
aderirvi, ma anzi
ripudiandola, e di credere
alla verità della
fede ? oppure
si beffavano in
cuor loro degli inquisitori,
mettendosi al riparo,
per mezzo di
quelle dichiarazioni, contro le
pene canoniche comminate
agli eretici ? Un
dubbio siffatto solleva
problemi delicati, di
difficilissima 7 Riesame della Beatrice
svelata », in Studi
su Dante »,
IV, Milano, Hoepli, 1939,
p. 24; cfr.
il mio voi.
Nel mondo di
Dante, Roma. N., Sigieri
di Brabante nel
pensiero del Rinascimento
italiano, pp. 89-90. Si
veda anche la
voce Averroismo nel
II voi. déW' Enciclopedia Cattolica.] soluzione. Intanto
si deve constatare
che, in generale,
gì' inquisitori si mostraron
piuttosto propensi a
credere alla sincerità di
quelle dichiarazioni e
a lasciare che,
nel foro interiore, ognuno s'aggiustasse
con Dio come
meglio credeva. Non tutti,
però: che noi
sappiamo della citazione
di Sigieri, di maestro
Bernieri di Nivelles
e di maestro
Gosvino de la Chapelle
da parte dell'
inquisitore di Francia,
il 23 novembre 12769; del
processo intentato a
Biagio Pelacani, maestro a
Pavia, dal vescovo
di questa città,
il 16 ottobre
1396 '°; e dell'editto emanato
il 6 maggio
1489 dal vescovo
di Padova e dall'
inquisitore del luogo,
col quale si
vietava ai maestri e
agli scolari ogni
pubblica disputa intorno
alla dottrina averroistica dell'
intelletto. Quanto al
primo caso, sappiamo tuttavia che
Sigieri e i
compagni interposero appello
alla curia papale avverso
la sentenza dell'
inquisitore di Francia, né
risulta che questa
fosse confermata. Il
processo contro Biagio Pelacani
dev'essere stato motivato
da espressioni veramente ardite contra
fìdem catholicam et
sanctam ecclesiam »,
come quelle che s'
incontrano nelle Quaestiones sul De
anima conservateci nel
Codice Chigiano O.
IV. 41, e discusse
nel 1385 quando
Biagio insegnava a
Padova ". Il maestro
si dichiarò male
contentus » del
linguaggio da lui tenuto,
e dopo aver
chiesto perdono de
commissis », il vescovo
di Pavia restituit
eum ad lecturam
et salarium solita »
12. L'editto invece di
Pietro Barozzi, vescovo
di Padova, e dell'
inquisitore fra Martino
da Lendinara merita
più lungo discorso.
Insegnava allora nello
studio padovano, come
lettore ordinario di filosofia
naturale, Nicolò Vernia
da Chieti, che
per la sua piccola
statura era chiamato
ed egli stesso
si firmava Nicoleto, come
Pietro Pomponazzi, suo
alunno, sarà detto, per
la stessa ragione,
il Pereto (Nicoletto
e Perette son
forme italianizzate della schietta
forma dialettale padovana
Nicoleto e Pereto). Addottorato
in filosofia naturale
a Padova il 30
maggio 1458, dopo
avere studiato la
logica a Venezia
sotto 9 Cfr. Riv.
di Storia d.
Filos., 1947, P
120 sgg. 1° Anneliese
Maier, Die Vorlàufer
Galiìeis in 14.
Jahrhundert, Roma, QQ Paolo
dalla Pergola, occamista,
e la filosofia
nello studio patavino sotto Gaetano
da Thiene, averroista,
conseguì da veccliio anche
la laurea in
medicina, il 29
dicembre 1496. Nell'ottobre 1468,
quando successe a
Gaetano da Thiene come
ordinario di filosofia
naturale, doveva trovarsi
sulla quarantina, se nel
testamento fatto il
3 agosto 1499,
due mesi prima della
morte, accenna alla
sua età decrepita. In
questo testamento, pubbUcato
da P. Ragnisco
^3, accade di leggere
una dichiarazione, nella
quale il testatore,
nell' imminenza della morte
che sentiva avvicinarsi,
vuol purgarsi dell'accusa che
pesava su di
lui, d'aver fatta
sua la dottrina averroistica dell'unità
dell'intelletto: Ego
Magister Nicoletus Vernias
Theatinus antedictus, publice legens in
florentissimo Gymnasio Patavino
ordinariam philosophiam naturalem
sine aliquo concurrente,
quam legi per
annos triginta tres elapsos,
ac disputavi ac
tenui quod opinio
unitatis intellectus
Averrois fuerit opinio
AristoteHs, et post
niultos annos, duni vidissem
et graecos et
arabes doctissimos, repperi
non solum dictam opinionem
alienam esse a
fide nostra et
veritate, sed etiam ab
intellectu AristoteHs, prout
in quadam mea
quaestione intulata
Reverendissimo Dominico Grimani
ad plenum declaro; et
hoc feci prò
removendo nialas opiniones,
qiias /orlasse habnerunt auditores mei;
nani Deum testor
quod numquam credidi
tali opinioni, et cum
sim in aetate
decrepita, et considerans
quod oinnes morimur secundum
naturalem cursum, et
videns incertitudinem temporis, diei
et horae, et
deliberans disponere supra
rebus meis, ut possim
consequi vitam aeternam
in altera vita
promissam bonis iuxta legem
nostram, et, prout
in supradicta quaestione declaravi, etiam
iuxta opinionem philosophorum
hic non potest esse
vita beata, sed
tantum misera.... m. Fra
coloro che s'eran
formata una cattiva
opinione di maestro Nicoleto, oltre
ad alcuni suoi
scolari, era certamente
anche il vescovo Pietro
Barozzi'S. Fine spirito
d'umanista e, come
molti 13 Documenti inediti
e rari intorno
alla vita ed
agli scritti di
Nicoletto Vernia e di
Elia del Medigo,
in Atti e
memorie dell'Accad. di
Scienze Lettere ed Arti
in Padova »,
Anno 292 (1890-1891),
N. S., voi.
VII, disp. 3», p.
280. 14 E cosi,
a che serviva
tutta la sua
speculazione filosofica intorno alla
copulatio o continiiatio
dell' intelletto possibile
con l' intelletto agente, in
cui avrebbe dovuto
consistere la felicitas
dell' Etica Nicomachea
in questa vita ?
15 Intorno al
quale è da
vedere 1' introduzione
di Franco Gaeta, Il Vescovo
di Padova P.
Barozzi e il
trattato De factionibus
extinguendis. Fondazione
Cini, Venezia-Roma.] patrizi veneziani
suoi contemporanei, animato
di religioso ardore, il
Barozzi fu vescovo
di Padova dal
1478 alla sua
morte nel 1507. Pastore
di anime e
maestro di vita
cristiana in una città
dotta, sede d'un
rinomato studio al
quale affluivano scolari da
tutte le parti
d' Italia e
d'oltralpe, non potè
mostrarsi indifferente alle rumorose
dispute la cui
eco si diffondeva lontano. Quel
battagliare intorno al
vero pensiero d'Aristotele, del
suo commentatore arabo
e degli interpreti greci, gli
pareva che inaridisse
le sorgenti della
vita e del pensiero
cristiano. Inoltre, l'accanimento
che molti dei disputanti
mettevano nel sostenere
le interpretazioni d'Aristotele più lontane
dal comune modo
di pensare dei
credenti, doveva alimentare in
lui il sospetto,
suscitato da voci che
correvano, che qualche
maestro dello studio
patavino, mentre si dava
l'aria di essere
un semplice espositore
della dottrina peripatetica, in
realtà avesse finito
per farla sua propria
fino a negare
i premi e
le pene nella
vita futura. L'editto episcopale
e inquisitoriale, pubblicato nellescuole di Padova
il 6 maggio
1489, dopo aver
citato alcuni passi scritturali, proseguiva: Et rursum
[memores] eorum que
ad Colossenses magis
ad rem de qua
in presentiam agimus
accomodate scribit [Apostolus], dicens :
' Videte ne
quis vos decipiat
per philosophiam et
inanem fallaciam secundum traditionem
hominum, secundum elementa mundi et
non secundum Christum
'. Et scientes
sic Inter disputandum
solere animos perturbar!,
ut interdum homines
quod falsum esse sciebant,
prò vero suscipiant
et defendamt.... Volentesque ut et
hi qui philosophiam
discunt, sic discant
ut christianam philosophiam, que
longe omnium prestantissima est,
non dediscant, et
hi qui docent,
dum se philosoplios
esse meminerunt, non obliviscantur se
etiam christianos existere,
ac venena disputationum
malarum iuxta epulas
philosophice discipline non
ponant.... Et postremo existimantes
eos qui de
unitate intehectus disputant ob
eam potissimum causam
disputare quod, sublatis
ita tum premiis virtutum
tum vero supphciis
vitiorum, existimant se liberius
maxima queque flagitia
posse committere: mandamus ut
nullus vestrum, sub
pena excomunicationis late
sententie quam si contrafeceritis incurratis,
audeat vel presumat
de unitatis intehectusquovisquesito colore publice
disputare ^^. Non si trattava,
com' è chiaro,
della scomunica lanciata personalmente contro
il Vernia, che
della dottrina dell'unità 16
Ragnisco, Documenti, dell'
intelletto era, in
quel momento a
Padova, il piìi
risoluto assertore; ma di un provvedimento
che riguardava lui ed
altri, e
che sopratutto denunciava
una pericolosa moda
d' insincerità e doppiezza che
s'andava affermando ed
era nociva non meno
al costume morale
che alla pietà
religiosa. Può darsi che,
vietando ogni discussione
sull'argomento dell'unità
dell' intelletto, il
Barozzi e frate
Martino abbiano spiegato uno
zelo eccessivo ;
ma la mala
opinione che gli
alunni avevano concepito di
taluni maestri e
le voci che
sul conto di
essi correvano, giustificano almeno
in parte il
severo ammonimento. Poiché a
questo in fondo
si ridusse l'editto
episcopale; né si sa
che esso desse
luogo a processi,
né che alcun
maestro fosse ridotto al
silenzio. Anzi è
noto, al contrario,
che Pietro Trapolino, alunno
di Nicoleto, continuò
a professare pubblicamente il suo
moderato averroismo anche
dopo la promulgazione dell'editto. E
lo stesso fecero
altri. Due soltanto, eh'
io sappia, s'affrettaronoa cambiare
indirizzo ai loro pensieri
e a recitare
la loro palinodia:
Agostino Nifo da Sessa
e Nicoletto Vernia
da Chieti, in
gara tra loro. Il
Nifo, com'egli stesso
e' informa ^7,
aveva cominciato averroista della
corrente sigieriana; e,
prima di abbandonare definitivamente questa
posizione, deve aver
giocato d'astuzia da quell'uomo
scaltrissimo che era.
Alla fine del
De intelledu e del
commento al De
animae heatiUidine, pretende
d'aver portato a termine
queste due opere
a Padova nel
1492. Ma io penso
che su questa
affermazione bisogni fare
molta tara: poiché nella
dedica del De
inielleciu a Sebastiano
Badoèr, nell'edizione veneta del
1503, che è
la più antica
che si conosca, il
Nifo dice in
sostanza d'aver rimaneggiato
l'opera, costituita
originariamente da una
Quaestio de intellectu,
che gli avversari gli
avevano impedito di
pubblicare, avendolo
accusato d'eresia. Da
questa accusa era
riuscito a discolparsi, a quanto
pare, per l' intervento
del Barozzi stesso,
del Badoèr e di
teologi e filosofi
amici che ne
presero le difese.
Nella redazione del 1503,
l'autore non esita
a confessare d'essersi indotto a pristinam
mutare sententiam » ; e
questo non soltanto per
ciò che concerne
la forma primitiva
dell'opera, giacché egli ammette:
«placuit quaedam tollere, mutare
alia. 17 D» intellectu,
Venezia, 1503, I,
tr. 2, capp.
8-9. I02 addere plurima
» '8, Rabberciato alla
meglio il De
intellectu e rifattasi una
verginità filosofica, egli
tentava, lontano da Padova,
quella fortuna che
non manca mai
di arridere agli
uomini della sua prolifica
specie. Il Vernia era
noto in tutta
Italia, attraverso i
suoi numerosi discepoli, come
uno dei più
decisi averroisti. Per
noi è un po'
ditficile oggi ricostruire,
nel suo insieme,
la sua dottrina
intorno ai diversi problemi
agitati nelle scuole
del tempo, perché non
sappiamo dove sono
andati a finire
i suoi scritti,
se dati alle fiamme
da lui stesso
prima di morire,
oppure se lasciati insieme alla
sua biblioteca al
monastero di S.
Bartolomeo in Vicenza, ovvero
al figlio adottivo
Nicoletto della Scrofa,
o ad altri. Nonché
le opere scritte
di suo pugno,
non ci son pervenute
nemmeno le reportationes
degli scolari che
pur non dovettero mancare.
Ci restano soltanto,
eh' io sappia, i
seguenti scritti a
stampa elencati dal
Ragnisco: I. la
Quaestio '^ Dicaveram tibi
anno superiori questionem
meam de intellectu.... Eamque, ne
labores iuventutis mee
perditum irent, imprimendam
esse curavissem, nisi emuli
affuissent, qui me
hereseos accusassent. Ac
malui ad
hoc tempus pervenire
morando, quam huiuscemodi
criminis culpam subire. lam
cessant accusationes: emulorum
iniquitas, sic mea fide
postulante, in propatulo
est. Ergo suo
tribuant commodo, si quam
utilitatem accepere qui
me insidiis persequuti
sunt, discantque interea diligentius
legere que volunt
criminari, ut cautius
egisse videantur. Sed
valeant isti, satisque
mihi sit Petrum
Barotium episcopum
patavinum, christianorum nostre
etatis decus et
splendorem, te cui non
minus in fide
quam in philosophia
tribuo, et quamplurimos
alios tum theologos tum
philosophos iudices ac
censores habuisse, qui
semper innocentie mee testes
eritis. Tractaveram hanc
nobilissimam materiam et
de fontibus omnium
antiquorum phylosophorum exhaustam, recenti stilo,
quod omnes fere
commendare visi sunt,
preter paucos, quorum precipuus
fuit Hieronymus Malclavellus,
tunc privatus scholaris, nunc nostre
academie diligens ac
iustus moderator; qui
ut est rectus ingenio, acer
iudicio, splendidus in
omnibus atque liber,
numquam ubi de honore
ac utilitate amicorum
suorum agit, assentari
novit. Hic cohortatus est
me, ut universum
opus in capitula
secarem, asserens antiqua stilo
esse antiquo tractanda.
Hac unica huiusce
viri ratione persuasus, licet
alias adduxerit quarum
illi copia est,
pristinam mutavi sententiam :
placuit quedam tollere,
mutare alia, addere
plurima. Nihil delevi quod
sit contra fidem
catholicam; non enim
potest destrui quod factum
non invenitur ».
Seb. Badoèr morì
il 30 giugno
1498 (cfr. i Diarii
di M. Sanudo,
I, 1004). La
dedica dunque e
il rabberciamento dell'opera sono
anteriori a questa
data, e probabilmente
dello stesso periodo nel
quale il Nifo
aveva preparato anche
l'edizione dei Collectanea
sul De anima,
usciti anch'essi nel
1503, presso la
stessa officina veneziana de
Quarengiis. Sembra pertanto
che l'edizione del
De intellectu, ricordata e
perfino citata da
taluno come uscita
a Venezia nel
1495, non sia mai
esistita ! an ens
mobile sii totitis
philophiae naturalis suhiectum
'9 del 1480; 2.
il prologo alla
Fisica col titolo
De divisione philosophiae;
3. la Quaestio
an medicina nohilior
ac praestantior sii
iure civili ^° del
febbraio 1482 ; 4.
la Quaestio an
caelum sit animatum del
novembre 1491, nell'
infelice riportazione di
uno scolaro che forse
è Alessandro Sermoneta
^^ ; 5.
Quaestio an deniur universalia realia
--, terminata il
17 febbraio 1492; 6.
la Quae19 Stampata
a Padova, nel
1480, nel volume
di commenti d'Egidio Romano, di
Marsilio di Inghen
e d'Alberto di
Sassonia al De
generatione et corruptione, ed
anche nell'edizione scotina
della stessa opera
(Venezia, 1521, fol. 129V-131V).
Nell'edizione padovana precede
la dedica a Enrico
Languardo, vescovo di
Acerenza e Matera.
Ragnisco, Documenti, pp. 276-77;
Id., Nicoletta Vernia.
Studi storici sulla
filosofia padovana della 2»
metà del sec.
decimoquinto, in Atti
del Reale Istituto
Veneto di Scienze Lettere
ed Arti »,
t. 38°, serie
VII, t. II,
1890-1891, p. 625. ^°
Questa Quaestio e
lo scritto precedente
si trovano in
principio del volume: Gualterii
Burley, Expositio in
libros odo de
physico auditu Aristotelis stagerite,
emendata per me
nicoletum verniam theatinum
puhlice et ordinarie
legentem.... Venetiis, 1482,
15 aprile (La Quaestio
è stata ristampata
di recente da
E. Garin, La
disputa delle Arti nel
Quattrocento, voi. IX
dell' Ediz. Naz. dei
Classici del Pensiero Italiano», Firenze,
Vallecchi, 1947, PP 111-123).
Precede la dedica a
Sebastiano Badoèr, censore
di Venezia, il
quale, come il
Vernia, era stato discepolo
di Paolo dalla
Pergola, ed era
un convinto scotista, qual erasi
rivelato a Nicoleto,
per averlo questi
udito argomentare con vigore
in una pubblica
disputa in occasione
d'un capitolo generale di
Frati Minori tenuto
a Venezia. In
questa dedica il
Vernia accenna anche ad
una amplissima quaestio
de inchoatione formarum
che avrebbe dovuto trovarsi
nello stesso volume,
ma che poi
è stata omessa.
L'argomento per altro è
ripreso con certa
ampiezza nella Quaestio
an dentur universalia realia,
di cui sotto. 21
Pubblicata dal Ragnisco,
Documenti, pp. 285-291. ^^
In principio del
raro volume Urbanits
Averoista philosophus sumnius ex
almifico Servoritin Divae
Mariae, comentorum omnium
Averoys super librum Aristotelis
de physico audita
expositor clarissimus. Per
probum virum Bernardinum Tridinensem
de Monteferrato. Venetiis,
1492. Questa importante opera
dell'averroista bolognese dell'Ordine
dei Serviti, la quale
nel prologo dell'edizione
stampata porta la
data del 1334 (ma
v. sotto, p.
318), era stata
ritrovata, coperta di polvere
e corrosa dalle
tarme, nella biblioteca
bolognese dell' Ordine, dal
priore generale dei
Serviti, frate Antonio
Alabanti, che, compresone il
pregio, tanto più
che anch'egli si
professava averroista, ne
scrisse, il 7 maggio
1492, al \'ernia,
come quello che
aveva sempre difeso
le parti d'Averroè, onde
averne il parere
per un'eventuale stampa;
e all'uopo gli mandò
lo scritto d'Urbano
perché l'esaminasse: «Ad te igitur
libellus noster confugit:
tu eum paterno
amplectaris amore; et
tandem tua censura maturoque
Consilio examinatum censeas
si dignus est ut
in claram lucem
professoribus perypatheticis ad
doctrinamque Averoys aspirantibus emergere
possit, ad nosque
rescribere digneris. Quod
si feceris, ut speramus
et oramus, non
minus tibi et
Urbanus noster, operis conditor,
quam Averoys et
qui eius doctrinam
sequuntur, interstio de
gravibus et levihus,
senza data^s; 7.
Del 1481 è la
Quaestio, rimasta sconosciuta
al Ragnisco, An
celum sit ex materia
et forma constitutum
vel non, che
termina: «Et sic
est finis huius questionis
compilate per me
Nicolettum verniam theatinum Padue
philosophiam publice legentem....
Anno domini. M.cccc.lxxxj. Ultimo
mensis Julii »,
e che si
trova in principio della
rara edizione veneziana,
curata dallo stesso Vernia, del
commento d'Averroè alla
Fisica, del 1483,
ove occupa ben dodici
colonne in-folio. Tutti questi
scritti sono schiettamente
averroistici ; e sebbene
non riguardino alcuno
dei problemi scabrosi
pei quali gli averroisti
eran tenuti in
sospetto, tuttavia non è difficile qua
e là imbattersi
in espressioni rivelatrici dello
spirito del loro autore.
Si prenda, ad
esempio, la prima
quaestio ricordata qui sopra.
Dapprima, secondo lo
schema familiare al
Vernia, sono addotte le opiniones
ab Aristotele et suo commentatore deviantes »,
e in primo
luogo quella di
Tommaso che egli, nativo
di Chieti, si
compiace di chiamare
suo compatriota, poiché suddito
anche lui dello
stato napoletano. Tommaso appunto aveva
sostenuto, in principio
del suo commento alla
Fisica, ens mobile
et non corpus
mobile, contra Albertum merito cognomine
magnum, esse totius
philosophiae naturalis
subiectum ». Poi
ricorda le critiche
mosse da Egidio
Romano ^1(05 ego quoque
minimus accedo, ingentem
immortalemque semper gratiam habebimus
» (nel voi.
cit., secondo foglio
non numerato). E il
maestro padovano gli
rispondeva il 29
dello stesso mese,
dando dell'opera e dell'autore
questo giudizio : Vir
ille (ut dicam
quod sentio) cum omnibus
bis, qui Averoym
ad haec usque
tempora secuti sunt, certare
mihi visus est
et plurimos etiam
vincere. Nemini vero
(ut mea quidem fert
opinio) cedit. Cum
enim Averoys verba
sensusque perobscuros aperire
illustrareque aggreditur, nihil
illius explanatione enodatius,
nihil clarius, nihil
denique absolutius dici potest.
Quaestiones vero quae
in naturali phylosophia
et plurimae et
gravissimae occurrunt,
nequaquam dissimulat. Sed
ut est acri
iudicio praeditus, ita
acute subtiliterque solvit,
ut ad rei
perfectionem nihil addi
posse videatur »
{ih). E
mentre approva il
disegno della stampa,
informa che a
Padova nella biblioteca di
S. Giovanni in
Verdara, esisteva un
altro codice dell'opera d'
Urbano, attribuito fino
allora a Giovanni
Marcanova, e promette
che, per far
meglio conoscere il
commento del servita, terrà
un corso sulla
Fisica. La quaestio
del Vernia sugli
universali occupa quattro fogli
non numerati, prima
del commento di
Urbano, ossia 12 colonne
intere e 2
mezze colonne. 23 Nel
voi. Acutissime questiones
super libros de
physica auscultatione ab Alberto
de Saxonia edite,
Venezia, 1504, f.
92va-94vb, con dedica al
filosofo e medico
Gerardo Bolderio da
Verona. alla tesi tomistica,
e il giudizio
di Giovanni di
Jandun sull'Aquinate, ritenuto melior
expositor inter latinos,
unde per excellentiam dicitur
expositor, sicut Averrois
commentator ». Incappa
infine nella tesi
degli scotisti Giovanni
Canonico e Antonio Andrès,
i quali s'eran permessi di
criticare Aristotele. Contro tanta
audacia egli insorge
ripetendo il giudizio, comune
a tutti gli
averroisti, sullo Stagirita: Ad
illa respondet Ioannes
Canoniciis, et similiter
Antonius Andreas, concedendo Aristotelem
male dixisse et
insufficienter ipsum philosophiam tradidisse;
philosophus enim tanquam
sacrilegus insufficienter et
erronee tradidit nt)bis
philosophiam naturalem, ut
Antonius inquit. Sed
minor de istis,
quod cum tam pauca
reverentia centra philosophorum
principem loquantur; ncque unquam
invenio Albertum Magnum,
sanctum Thomam aut doctorem
subtilem talia contra
Aristotelem dixisse. Unde beatus
Hieronymus, de eo
loquens, scribens ad
Eustochium, De vita nionachonim,
ait: ' Absque
dubitatione prodigium fuit
grandeque miraculum in
tota natura, cui,
ut pergit, pene
videtur infusum quicquid naturaliter
capax est genus
humanum ' 24. Cui
concordat Averrois, 3.
De anima, dicens:
' Ipse fuit
regula in natura et
exemplar quod natura
invenit ad ostendendum
ultimam perfectionem possibilem
in materiis. Venendo poi
alla soluzione del
problema, il filosofo
chietinf) sostiene de intentione
aristotelis et sui
commentatoris averrois
cordubensis fuisse, quod
corpus mobile est
subiectum in scientia naturali
».Ancora più tipico
è il caso
della Quaestio aii
medicina iiobilior ac
praestaiitior sii iure
civili. È notevole,
anzi tutto, che egli
abbia lasciato in
pace i canonisti,
strettamente imparentati coi teologi,
gente, gli uni e gli
altri, con la
quale è prudente non
aver briga. Per
dimostrare, dunque, la
tesi affermativa, che cioè
la medicina è
da più del
diritto civile, il
nostro si rifa -4
Lo stesso passo
dell'opera pseudo geronimiana
m' è accaduto
di trovar citato nel
De pietate Aristotelis
erga Deiim et
ìioinines di Fortunio Liceto (Udine,
1645, libro II,
cap. 22), amico
e collega di
Galileo a Padova. Costui, al
pari di Alfonso
Tostado, vescovo di
Avila, In librum paradoxorum (Venetiis,
1508, V, cap.
132, fol. 68ra),
e di Giovanni Genesio Sepulveda,
da Cordova {Opera,
Madrid, 1780, t.
Ili, Epist., VII, lettera
al teologo Fedro
Serrano, del 10
maggio 1554), pensava,
se non proprio a
una canonizzazione, che
fosse almeno altamente
verosimile la salvezza eterna
di Aristotele. Al
quale però il
Tostado,da buon umanista, unisce
le anime di Socrate, di
Platone e di
siffatti filosofi, che Cristo
avrebbe liberato discendendo al
limbo. I06
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI al concetto, comunemente
ammesso, che la
medicina nella sua parte
teorica rientra nella filosofia
naturale » ed
è scienza speculativa; il
che non può
dirsi dal diritto
civile. Ora nella speculazione intorno
alla natura Aristotele
aveva fatto consistere il
fine ultimo e
la perfezione suprema
dell'uomo, a cui si
giunge soltanto mediante
l'apprendimento delle scienze speculative, coronato
dal congiungimento o
copulatio con r intelletto
agente. Ex quo sequitur,
hominem equivoce dici
de homine rationali et
iurista, cum iurista
non sit nisi
equivoce, cum inrista
ultimo fine hominis sit
privatus. Et hoc
est quod Averrois
dicit in prologo libri
Physicorum, quod homo
equivoce dicitur de
homine perfecto per scientias
speculativas et de
homine ignorante eas, sicut
dicitur equivoce de
homine vero et
picto ^^ Ci sarebbe
da chiedersi se
mastro Nicoleto non
fosse per caso in
vena di scherzare,
per dar la
baia ai colleghi
della facoltà di diritto:
ma purtroppo egli
non fa che
ripetere cosa di cui
tutti gli averroisti
erano convintissimi; anzi
taluni di essi, come
Alessandro Achillini e
Tiberio Bacilieri^^^ pensavano che
al raggiungimento della
suprema perfezione e
della felicità cui l'uomo
aspira, bastassero i
libri bene interpretati di Aristotele
e d'Averoè, che
quelli ritenevano aver
conquistato il più alto
grado di felicità
di cui l'uomo
è capace in
questa vita, non ostante
i sorrisi ironici
degli alunni, e
quelli del Pomponazzi -i.
Al cospetto della
morte, come abbiamo
visto, -5 Nel citato
voi. del Burley
sulla Fisica, Venezia,
1482, f. 3vb.
Il passo d'Averroè in
principio al prologo
della Fisica, al
quale accenna il Vernia,
è questo: Declaratum
est in scientia
considerante in operationibus
voluntariis, quod esse
hominis secundum ultimam
perfectionem ipsius et substantia
eius perfecta est
ipsum esse perfectum
per scientiam speculativam;
et ista dispositio
est sibi felicitas
et sempiterna vita. Et
in hac scientia
manifestum est, quod
praedicatio nominis hominis perfecti
a scientia speclativa,
et non perfecti,
sive non hahabentis
aptidinem quod perfici
possit, est aequivova,
sicut nomen hominis quod
praedicatur de homine
vivo et de
homine mortuo, sive praedicatio hominis
de rationali et
lapideo ». 26 Cfr.
il mio Sigieri nel
pens., p. 151. -7
Accade spesso al
mantovano di fare
dell'ironia sulla «copulatio» degli averroisti qui
continuo prandent cum
deo et qui
habent intellectum adeptum
» (comm. al I delle
Meteore, del nov.
1522. Parigi, Bibl. Nat.
cod. lat. 6535,
f. i2or). E
del Bacilieri riferisce:
«Ideo Tiberius iactatus
solum sibi defìcere
quatuor digitos, ad
hoc ut felicitatem istam pertingat
» (Comm. al
XII della Metaph.,
Arezzo, Frat. Laici, ms.
389, f. 248r.
Cfr. Parigi, e.
s., cod. lat.
6537, f. 139V).
([uesta convinzione abbandonava
il filosofo chietino,
persuaso ormai, col volger
degli anni, che
non solo secondo
la fede, ma etiam
iiixta opinionem philosophorum, hic
non potest esse vita
beata, sed tantum
misera ». Evidentemente
nella sua giovinezza anch'egli,
come molti, aveva
ignorato la manzoniana preghiera allo
Spirito divino: «Dona
i pensier che il
memore ultimo dì
non muta ». Averroista
era il Vernia
anche nella soluzione
del problema se il
cielo è animato,
e di quello
«sul moto dei
gravi e leggeri «^s. Anzi, su
quest'ultimo argomento, mentre
perfino molti averroisti
avevano finito per
scostarsi dalla dottrina
d'Aristotele e avevano accolta
la teoria nominalistica
degli impetus, il Vernia
segna un ritorno
puro e semplice
alla tesi dello
Stagirita, seguita da
Averroè, da Sigieri
e da pochi
altri 29. La Quaestio
an denhir universalia
realia è invece
un tentativo di mostrare
l'accordo tra Averroè
e Alberto Magno
sulla dottrina,
convenientemente interpretata, della inchoatio formarum »
; poiché gli
universali di cui
qui si parla,
non sono le intentiones
primae et secundae
dei dialettici, ma le idee
considerate come cause della
realtà, gli universalia
physica, come li chiama
il Vernia, ossia
le forme delle
cose 3°. 28 Nel
voi. cit. delle
Acutissime questiones di
Alberto di Sassonia, pp.
92 t'a-94
vb. ^9 Cfr. A.
Maier, Zwei Grundproblenie der
scholastichen Philosophie. Roma,
Ediz. di Storia
e Letter., 1959,
p. 295. 30 Nel
voi. di Urbano
Averroista, cit., col.
6: «Ex quo
patet error illorum qui
dicunt inchoativum secundum
commentatorem et Albertum esse
potentiam subiectivam [materie],
cum, ut visum
est, sit potentia formalis distincta
a potentia materie,
que est in
substantia forma
substantialis, imperfecta tamen,
cum omnis potentia
materie taUs, quam ponunt,
si distincta ab
ea et sit
accidens Ex quo sequitur
dari universalia realia ad
mentem veriorum philosophorum
peripatheticorum, tum Grecorum,
tum Arabum, tum
latinorum; cum tales
essentie sint universalia physica
et in re,
ut visum ».
Il primo di
tali universali fisici è
per il ^'ernia
la forma corporeitatis
» di Avicenna,
coeterna alla materia. In
proposito, abbiamo questa
informazione nel commento del
Pomponazzi al De
substantia orbis di
Averroè (Cod. Reg.
lat. 1279, fol. yr).
«Credo quod haec
responsio fuerit Nicholeti;
quia etiam ipse tenebat
ad mentem commentatoris
formas corporales de
praedicamento substantiae materiae
primae esse coaeternas.
Et tunc glosabat ipse
commentatorem, hic dum
dicit quod materia
non habet formam quae
reponat eam in
esse specifico et
ultimo, quia si
materia prima baberet formam
ultimam specificam, tunc
non posset ipsa
materia aliam formam recipere,
quia, cum ultimo
non detur ultimum,
ipsa forma esset in
actu completo, nam
infra formam ultimam
specificam non sunt [
nisi ] individua;
et in hoc
commentator dissentit ab AviIo8 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Anche in
questa Quaestio, terminata
il 17 febbraio
1492, non mancano accenni
alla dottrina averroistica
dell' intelletto ; ma
sono accenni più
cauti 31. L'editto
episcopale era stato promulgato evidentemente
per qualche cosa.
Nel settembre del 1492
a Colze nel
vicentino, mastro Nicoleto
dovette pensare al modo
di dissipare i
sospetti d'eresia che
gravavano su di lui,
e, sebbene affetto
da oftalmia, prese
la penna e
cominciò a buttar giù
una specie di
confutazione dell'averroismo.
Nacquero così le
Quaestiones de pluralitate
intellectus cantra falsani et ah omni
ventate remotam opinionem
Averroys et de animae
felicitate. L' idea di
quest'opera gli fu
suggerita (« non iniussa
cano ! »)
da frequenti esortazioni
del doge di
Venezia, Agostino Barbadigo, e
dallo stesso Pietro
Barozzi, che, se da
una parte lo
minacciava di scomunica,
dall'altra cercava di adescarlo
con buone promesse.
La composizione dello
scritto non dovette procedere
molto rapida. Poiché
soltanto nell'estate del 1499
l'opera fu presentata
ai revisori ecclesiastici e al
vescovo per la
stampa r-. I revisori,
frate Antonio Trombetta,
Vincenzo Merlino e Maurizio
Ibernico, prodigarono all'autore
le più ampie
lodi, e il vescovo
Barozzi se ne
dichiarò pienamente soddisfatto. Tuttavia, anche
nel dare atto
del nuovo atteggiamento
assunto, ricorda le voci
che un tempo
correvano sul conto
di lui, e non
osa dichiararle infondate;
anzi lo stesso
paragone che egli
fa del chietino con
S. Paolo, il
quale di persecutore
del nome cristiano era
divenuto un ardente
difensore della fede,
sembrerebbe insinuare il contrario: cenna qui
ponebat talem formarti
specificam ultimam; sed
commentator dicit, quod
talis corporeitas non
est forma specifica
completa, sed est forma
generica imperfecta; et sic dicebat
ipse [Nicholetus] quod materia
prima habet istam
formam genericam sibi
coaeternam, et in ipsa
etiam formam elementorum
». 31 Così, per
esempio, in principio
della 4* colonna:
«Et tu nota
hoc prò Averoy, quod
anima intellectiva non
dat esse corpori
humano; sed hoc quod
dicitur est mendatium
purum, ut in
3° ' De
anima ' declarabo
». E più
oltre (a metà
della stessa colonna)
: Unde intellectiva anima apud
ipsum non creatur,
sed est eterna;
et in hoc
Albertus, et bene sicut
fidelis christianus, ei
adversatur, volens ipsam
de novo fieri per
creationem, et hoc
secundum Aristotelem ». 32
La quale apparve
soltanto postuma nel
volume già cit.
delle Acidissime questiones super
libros de physica
auscuUatione ab Alberto DE
Saxonia edite, Venezia.
A. Calcedonio da
Pesaro, M. D.iiii., ff.
83 y-92 ra. i Cum
prius et disputando
et docendo unum
esse in omnibus intellectum sic
explicaveris, ut totam
pene Italiani errare
feceris, ut aiunt malivoli
tui et minuti
philosophi, ut in
epistula tua ais, etsi
istud non senseris,
fuisti forte causa
ut alii hoc
sentirent. Nunc opusculum composuisti,
quo sentire te
contrarium non solum dicis
verum etiam probas.
Quod cum diligentia
vidimus et approbamus.... Quo
circa, sive ita
senseris sive non,
opusculum istud componere precium
fuit, ut error
pessimus illius maledicti Averroys extirparetur.... Nihil
hac mihi re
gratius, nihil iis
qui te audiverant utilius,
nihil tibi, qui
apud miiltos ob
eam rem infamiam non
mediocreni excitaveras, honorificentius. Per purgarsi
di questa non
mediocre infamia e
per impedire che si
parlasse di un
voltafaccia, mastro Nicoleto
insisteva nel dichiarare che
la difesa un
tempo da lui
assunta dell'averroismo non muoveva
da intima adesione
alla dottrina dell'unità
dell' intelletto, ma era
fatta soltanto disputandi
ac acuendi ingenii gratia
» 33. Era sincero
in questa sua
protesta, rinnovata con
solennità anche nel suo
testamento ? Per
il vescovo e
per l' inquisitore questo non
aveva importanza: ad
essi bastava il
fatto che, comunque l'avesse
pensata un tempo,
ora il sospettato
aveva fatto lodevole ammenda
del passato col
suo ultimo scritto contro l'averroismo. Ma tra
i suoi alunni
d'un tempo ve
n'era sicuramente qualcuno che,
assistendo ai funerali
e alla tumulazione
di lui nella chiesa
di S. Bartolomeo
a Vicenza, e
ripensando al carattere del
maestro, doveva sorridere
di questa commedia
e ripensare in cuor
suo alla novella
di Ser Ciappelletto. Nicoleto Vernia
non era precisamente
quello che si
dice un cuor di
leone. Nello stesso
suo testamento revoca,
come giuridicamente nulla, una
donazione de' suoi
beni alla moglie, fatta
sotto la minaccia
di morte da
parte del cognato
Pietro de Salvato. Nel i486,
era stato richiamato
all'ordine dal Senato,
perché pare facesse i
suoi comodi, leggendo
senza concorrente e trascurando
di studiare «con
grande lagnanza degli
scolari» 34. Il Nifo, già
suo alunno, ci
narra di lui
due episodi che
possono servire a lumeggiarne
il carattere. Il
primo è meglio 33
Nella dedica al
card. Domenico Grimani
[ib., f. 83r).
Cfr. sopra, p. 99. 34
Ragnisco, Nic. Vernia,
pp. 622-623. Cfr.
qui sotto il
saggio successivo. no
riferirlo in latino; Cum
Nicoletus Theatinus, praeceptor
noster, sua aetate
peripateticus eximius, ludibriis
ludificationibusqiie
oblectaretur, plurima
jecisse multi norunt.
Et inter prima,
cum Veronam peteremus, ut
baptizaremus puerum cuiusdam
communis discipuli, et
post crepusculum ad urbem
applicaremus, essetque caupo
prohibitus recipere iudaeos, qui
extra urbem hospes
erat, nobis hospitium conferentibus dixit:
— Te recipere
non possum, quia
prohibitus sum, — demonstrans
Nicoletum; — te
autem possum —,
annuens me. Interrogantibus quare
respondit: — Quia
Iudaeos hospitari prohibitus sum. — At praeceptor subiecit:
— Audi, amice,
a secretis. — Et
mox penem praeputiumque
ostendit. Quem cum vidisset,
hospitatus est nos. Il
Nifo aggiunge che la mattina
dopo, sopraggiunti alcuni della
città ad incontrarli
e a riverirli,
l'oste chiese umilmente scusa, mentre
mastro Nicoleto non
si stancava di
raccontare a tutti, uomini
e.... donne, il
piccante episodio 35. L'altro
aneddoto si può
raccontare anche in
volgare, sebbene sia assai
più sconcio del
primo, se è
vero. Narra dunque il
Nifo che, rimasta
vacante a Padova
una cattedra di
diritto canonico, per la
morte del titolare.
Agostino Barbadigo, che era
allora capitanio della
città, era sollecitato
dagli studenti a corpirla
con un dottore
di diritto canonico
siciliano. Il Barbadigo annunziò che
aveva già pronto
l'uomo che faceva
al caso, e questi
era mastro Nicoleto.
— Ma Nicoleto
è un filosofo, —
osservarono quelli —,
e di diritto
canonico non se n'intende
— -. Montato su
tutte le furie,
il magistrato li
manda a farsi impiccare,
e chiamato a
sé Nicoleto gli
propose di legger diritto canonico
al mattino, per
300 ducati d'oro,
e di continuare a
legger filosolia nel
pomeriggio. Il maestro
non si peritò di
accettare, effondendosi in
ringraziamenti. Se fin
qui la faccenda era
abbastanza sporca, il
peggio vien dopo.
Gli studenti malcontenti andarono
da Nicoleto a
pregarlo di voler far
capire lui stesso
al Barbarigo che
il diritto canonico non
era il fatto
suo. — Che
io vada a
fare una dichiarazione del genere
ad un uomo
che mi giudica
sommo in ogni
ramo dello scibile ?
— Gli studenti
non si scoraggiarono
e lo tentarono per
un altro verso:
si che non
molto dopo, munusculis 35
A. NiPHi, Opuscula
moralia et politica
cum G. Naudaei
de eodem auctore iudicio,
Parigi, 1645, De
re aulica, I,
e. 87, p.
335. III non mediocribus
acceptis ab illis
studentibus », si
presentò al Barbadigo e
con ogni rispetto
lo pregò di
liberarlo da un carico
che, data l'età,
pesava troppo sulle
sue spalle [36.
Chi oserebbe insinuare che l'
idea di
conferire a lui
una seconda cattedra (e
un secondo stipendio)
fosse ispirata al
Barbadigo dal Vernia stesso
? Ma non meno
interessante, per la
religiosità e F
indole morale di lui,
è quel che
apprendiamo dalle lezioni
del Pomponazzi, che,
al pari del
Nifo, del chietino
fu alunno e
collega e, da ultimo,
successore sulla cattedra
di Padova. Il
ricordo del vecchio maestro
padovano e del
suo carattere faceto
e bizzarro accompagnò il
mantovano per tutta
la vita. Così
nella lezione 27 del
commento al De
sensu et sensato
37, tenuta nel
febbraio 1525, tre mesi
prima della morte,
accennando al modo
superficiale col quale Pietro
d'Abano aveva trattato
un quesito intorno ai
sapori, dice: eo
modo quo dicebat
Nicolettus, praeceptor meus,
sicut mus super
farinam et gatta
super carbones ».
Un'altra volta, a
proposito del noi
usato spesso da Averroè,
ricorda: «Dicebat Nicoletus:
advertendus est sermo; loquitur da
papa, ponendo numerum
pluralem38)). Nelle lezioni sul
terzo della Fisica,
narra che il
Vernia aveva spacciata come sua
un'opinione che era
invece di Gaetano
da Thiene, come si
vide dopo la
stampa di questo
: Magister Nicoletus attribuebat sibi
hanc opinionem. Impresso
Gaetano, latro inventus est» 39.
Un'altra volta accennando
alla a via
nominalium », il
Pomponazzi aggiunge: «imo
merdalium, ut dicebat Nicholetus) »
40.In principio del
commento al VII
della Fisica, del
nov. 1517, accenna a
un dissidio tra
gli scolari sui
libri di quest'opera che il
maestro avrebbe dovuto
leggere: Unde lepidissinms vir
nicholetus qui, curti
versaretur discordia inter scolares
(sicut modo versatur
inter vos), an scilicet
primi an ultimi libri
physicorum essent legendi,
dixit: Non timeatis,
quia ego unica lectione
legam omnes 4or
primos 41. 36 ib.,
p. 336. 37 Bibl.
Nation. di Parigi,
Cod. lat. 6536,
f. sgr. 38 Ib.,
Cod. lat. 6537,
In XII Metaphys.,
f. 135V. 39 Arezzo,
Bibl. della Fraternità
de' Laici, Ms.
389, Super j°
Physicorum, i. 3o6r. 40 Ih.,
Ms. 389, Super
I Phys., f.
28v. 41 Bibl. Nat.
Parigi.] Nello stesso commento,
in una lezione
del gennaio 1518, intorno
ai sottili accorgimenti
di Averroè per
salvare Aristotele, narra del
suggerimento dato dal
Vernia a uno
scolaro ignorante che doveva
affrontare un esame: =Credo
ergo quod commentator
voluit dicere hoc;
sed sibi accidit ut
cuidam scholari patavii,
qui volens disputare,
et nihil sciebat, fuit
ad Niccoletum, qui
eum doceret. Volebat
enim iste scolaris ingredi collegium,
et non poterat
nisi disputaret. Quare magister Nicoletus
dixit: — Dabo
tibi unam responsionem
ad omne argumentum; distingue
enim et dicas:
Tuum argumentum tenet propter
quia, et mea
conclusio propter quid. Et ita
vult dicere Averrois....
Tamen possemus dicere
ad omnia illa argumenta....
Oportet enim scaramuzare quandoque
4-. Sempre nelle lezioni
sul VII della
Fisica, incontriamo un altro
aneddoto, ove il
Vernia è alle
prese con Francesco
di Nardo, in una
disputa di moda, de
intentione et remissione formarum »,
che concerneva la
dottrina dei calculatores
», particolarmente invisi al
Pomponazzi: Et ubi Aristoteles
in hoc loco
{Phys., VII, t.
e. 32) fuit
parcus, Entisbery in suo
tractatu et Calculator
fecerunt de hoc
magnos tractatus.
Aristoteles enim dimisit
hec, quia ille
compositiones et ille truffe
spectant ad matematicum;
et calculatores latenter vincunt ph^dosophos;
interponunt enim geometricalia. Sed
philosophus, ut phylosophus
est, non se
intromittit ad hec.
Et isti calculatores sophiste
appellantur; quare non se debent
intromittere in phylosophia,
sed in geometria.
Unde erat magister Franciscus neritonius,
(erat enim vir
doctissimus), et in
uno capitulo fratrum
erat etiam Nicholettus,
protesto ignorantissimus, et arguebat
domino francisco neritonio
in illa disputatione,
et in calculatione argumentabatur; et
dominus franciscus nesciebat respondere, quia
mathematica ignorabat. In hoc enim
argumento erat quater fortassis
totum alphabetum. Dominus
tamen franciscus intrepide respondit
sibi, quod Nicholetus
fecerat ut contigerat
in suo capitulo
cuidam fratri, cui
prior comiserat ut
predicaret de conceptione
virginis. Cum venisset
tempus predicandi, dixit ille
bonus vir qui
debebat predicare illa
die : O
domini auditores, ista
materia de conceptione
est tante difficultatis, quod non
poteritis numquam eam
percipere. Itaque, rogo
vos, ut loco istius
dimittatis me narrare
ystoriam sancti Alexandri,
quam 42 Arezzo, ms.
390, f. lygr.
Allo stesso episodio
il Pomponazzi aveva accennato anche
nelle lezioni In
I de anima
(nel cod. della
Bibl. Nazionale di Napoli,
Ms. Vili, D. 81 fol.
97v), che sono
dell'autunno 1503, ed ivi
fa il nome
dello studente somaro,
che pare sia
un Baldassarre da Chiusi. promptissime capietis.
Sic etiain, dixit
dominus franciscus, contigit
domino Nicoleto :
qui dum in
hac materia quam
posuimus disputandam nihil intelligeret,
incepit nobis cum
suis argumentis
calculatoriis narrare ystoriam
beati Alexandri ! 43.
Ben più
grave è quanto
il Pomponazzi narrava
agli scolari, in una
lezione sul secondo
libro del De
caelo, tenuta a
Bologna il 28 novembre
1519. Stava esponendo
il testo 17,
e poiché taluni dicevano
che Dio e
le intelUgenze celesti prima
intentione agunt propter
se «, mentre
le cose generabili
e corruttibili prima intentione
faciunt propter alia
et secundario propter se
», ha il
coraggio di dire
apertamente che non è
vero: Non videtur verum;
imo videtur totum
oppositum; quia quicquid homines
faciunt, [faciunt] primo
propter se, secundario vero propter
alios. Verbi gratia,
homines student: prima
intentio eorum est hicrari
scientiam et fieri
perfecti et eiusmodi;
secundario vero ut illustrent
domuin suam et
patrem etc. Unde
Aristoteles numquam somniavit,
quod deberet fieri
bonum ut iretur in
paradisum, et evitari
malum ne iretur
in infernum; sed
bene dicit quod debemus
exponere vitam prò
patria et eiusmodi,
et potius mori quam
committere peccatum, ut
acquiramus illarn virtutem, sciHcet
fortitudinem. Ergo quicquid
homo facit, prima intentione facit
propter se, ut
in omnibus discurrere
potestis. Ideo videtur fatuitas
philosophorum dicere hoc
de generabiUbus, scilicet
quod primo agant
propter alia, et
secundario propter se. Unde
Nicoletus, vir lepidus,
qui non credebat,
ut ita dicam, dal
tecto in su,
cum sepissime audiret
beatum Bernardinum de Feltro
predicantem et in
suis predicis dicentem
: ' O
tu, attende tibi; o
tu, attende tibi,
mulier luxuriosa '
44, bonus Nicolettus emebat bonos
pullastros, fasianos, et
si quis diceret
illi: ' Quid vis
tacere, o Nicholette
? ', respondebat:
' Volo attendere
mihi '. Item rapinabat
et eiusmodi, et
si dicebatur illi:
' Quid vis
facere ? ', dicebat:
'Attendere mihi volo'.
Omnia ergo faciebat
propter se 45. Lo
stesso ritratto morale
del buon Nicoleto
», il Pomponazzi tracciava negh
stessi termini agli
scolari bolognesi in una
lezione sul primo
delle Meteore tenuta
il 15 novembre
1522: 43 Arezzo, 1.
e, f. i68r. 44
Bernardino da Feltre
predicò la quaresima
a Padova nel
1492 (cfr. Wadding, Annui.,
XV, p. 7,
XV), e di
nuovo vi fu
nel 1494. quando Patavium.... profectus,
in Ecclesia Cathedrali,
assumpto ilio trito suo
themate ' Attende
tibi ', egregie
populum de rebus
saluti maxime necessariis instruxit [Ib.,
66, XIV). 45 Parigi,
Bibl. Nat.] Erat Padue
quidam frater sancii
Francisci de observantia, qui dicebatur
frater Bernardinus de
Feltro, qui predicabat
et in predicatione semper
dicebat: ' Attende
tibi, attende tibi
'. Unde Nicolettus,
qui legebat Padue,
emebat perdices, capones et
multa bona. Inde
ipse erat malus
homo, et prò
uno quadrante perdidisset hominem,
et nullum habebat
prò amico. Unde, eundo ad
predicam, accepit illud
verbum ' attende
tibi ' suo
modo,scilicet: attende tibi,
idest sguazza et
triumpha. Ideo emebat perdices etc.46. Tale
è il ritratto
morale del Vernia
quale fu conosciuto
dal Peretto: miscredente, crapulone,
rapinatore, che per
un quattrino avrebbe rovinato
un uomo, senza
amici. Così giudicava il
Pomponazzi l'autore delle
Quaestiones sulla pluralità
degl' intelletti e
sull' immortalità dell'anima,
nel quale ai
revisori ecclesiastici
deputati dal Barozzi
e al Barozzi
stesso era parso di
ravvisare il campione
stesso dalla fede,
che aveva debellato definitivamente l'averroismo
e l'alessandrismo ! Tuttavia
non va dimenticato
che dall'estate del
1496 all'autunno del 1499
il Peretto era
stato assente da
Padova, in seguito a
dimissioni dalla cattedra
da lui occupata
e sulla quale era
stato sostituito dal
Nifo 47. Ora
è sicuramente in questi
anni che la
crisi filosofica e
religiosa del Vernia,
iniziatasi nel corso del
1492, venne a
maturazione, se vera
crisi ci fu in
un uomo così
lepido e astuto.
E la testimonianza del Pomponazzi
non può aver
valore per gli
anni in cui
il mantovano lo perse
di vista.Del resto,
queste oscillazioni tra
una spregiudicatezza quasi scettica e
il bisogno di
conformarsi all'ambiente religioso
e di accettarne il
formalismo, è tutt'altro
che alieno dall'
indole, piena di contradizioni, di
un uomo dell'età
di papa Borgia» 46
Ib., Cod. lat.
6535, f. jòyc. 47
Cfr. C. Oliva,
Note snW insegnamento
del Pomponazzi, in
«Giorn. Crit. d. Filos.
Ital. Ritengo che
questo ameno e
spregiudicato maestro, prima che
a Padova, si
recasse adolescente a
Venezia, in casa
del Patrizio Sebastiano Badoèr,
nei cui lari
era stato educato
» il suo conterraneo
e parente Nicolò
Manupello da Chieti
', che, addottorato in
artibus a Padova
il 22 aprile
1444 -, vi s'addottorò anche
in medicina il
18 settembre 1450
3. Altrimenti non si
spiegherebbe come, nella
dedica dell'esposizione del Burleo
alla Fisica d'Aristotele
(Venezia, 1482), egli
potesse dire d'essersi affezionato
al Badoèr a
teneris annis », e
come mostrasse di
conoscere così a
fondo la storia
leggendaria di questa famiglia. Dal
testamento fatto a
Padova il lunedì
2 novembre 1478, e
pubblicato da Paolo
Sambin, si conosce
il nome del
padre, per esser detto clarissimus
artium et medicine
doctor dominus magister Nicolaus
filius honorabilis viri
ser Antonii de
civitate Theatina »
4. E lo
stesso si legge
nell'atto di donazione *
Dal Giorn. Crit.
d. Filos. Ital.
», XXXIV, 1955,
pp. 496-503La nota
su Cristoforo da
Recanati è inedita. I
Expositio excel. mi philosophi
Giialterij de burley
anglici in libros odo
de physico anditn
Aristotelis stagirite emendata
per me nicoletum verniam theatinimi
publice et ordinarie
philosophiam in gimnasio
pattivino legentem
Venetiis. M.cccc. Ixxxii.
die quintadecima mensis aprilis, dedicata
a Sebastiano Badoèr, censore
del comune di
Venezia »: Del Manupello
si legge appunto
nella dedica: affinis
ac conterraneus meus clarissimus
phisicus et mediciis
Nicholaus manupellus Theatinus
in tuis laribus
fuit educatus ». ^
G. Erotto e
G. Zonta, Ada
graduum academicorum Gynnasii Patavini, ab
anno MCCCCVI ad
annum MCCCCL, Padova,
1922, n. 1825. 3 Ib.,
2437. 4 P. Sambin,
Intorno a N.
V., in Rinascimento,
III, 1952, p.
265, docum. I. Il6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI de' suoi
libri al monastero
di S. Giovanni
in Verdara, del giovedì
i6 gennaio 1483
(se il 16
gennaio di quell'anno,
e non piuttosto il
17, fosse caduto
in giovedì 5).
Dai quali due
documenti si rileva che
il buon Nicoletto
si lasciava passare
come artium et medicinae
doctor », quando
dottore di medicina non
era ! Nella stessa
dedica al Badoèr
si legge : cum
enim sub disciplina clarissimi philosophi
pauli pergulensis essem,
a quo etiam tu
eruditus fuisti, pluries
ab eo audivi
te summum philosophum atque
theologum evasisse, nullumque
esse qui te in
docrina francisci de
marronis subtilisque doctoris
lohannis scoti antecelleret ».
Orbene: Paolo da
Pergola il 19
marzo 1442 era reggente
delle scuole annesse
in Venezia alla
chiesa di S. Giovanni
Elemosinarlo a Rialto,
nel quale anno
egli era anche piovano
di questa chiesa;
e reggente di
queste scuole restò fino
alla sua morte
nel 1455 ;
fu sepolto nella
chiesa di cui era
piovano 6, Tanto
Sebastiano Badoèr quanto
il giovane Nicoleto, e,
suppongo, anche Nicolò
Manupello, sono stati sotto
la disciplina di
Paolo a Venezia. Questa scuola
merita d'esser meglio
conosciuta, sia per gì'
insigni maestri che,
dopo il pergolese,
vi insegnarono, sia perché
nella seconda metà
del Quattrocento e
per tutto il Cinquecento essa
fu una specie
di succursale dello
Studio patavino, nella quale
molti giovani veneziani
cominciavano gli studi di
logica e di
filosofia, che poi
andavano a completare
a Padova, ove s'addottoravano. Così
appunto sappiamo aver fatto
anche il giovane
chietino, il quale,
da Venezia, forse
dopo la morte del
pergolese, si recò
a Padova, ed
ivi, dopo essere stato
qualche tempo sotto
la disciplina di
Gaetano da Thiene, conseguì il
dottorato in artihus,
ma non in
medicina, il 30 maggio
1458, primo promotore
lo stesso maestro
Gaetano 7. Dopo questa
data, non si
hanno di lui
altre notizie fino
all' inizio dell'anno scolastico
1465-1466, quando fu
assunto alla lettura straordinaria di
filosofia. Dalla dedica
del Vernia 5 Ib.,
p. 266, docum.
III. 6 A. Segarizzi,
in Atti dell'
Istit. Veneto s.
1. a., LXXV,
1915-1916, p. 646 sgg.
e la breve
notizia dello stesso
in Nuovo Arch.
Veneto, N. S., LXV,
1917, p. 232.
Cfr. anche il
mio studio già
cit. Letter. e
cultura veneziana del Quattrocento,
pp. 111-118. 7 P.
Silvestro da Valsanzibio
O. F. M.
Cap., Vita e
dottrina di Gaetano di
Thiene, Padova, 1949,
pp. 13-14I stesso ad
Enrico Languardo, arcivescovo
di Acerenza e Matera, del
volume di commenti
di Egidio Romano,
di Marsilio di Inghen
e d'Alberto di
Sassonia al De
generatione et corruptione, stampato a
Padova nel 1480,
veniamo a sapere
che dodici anni prima,
quindi nel 1468,
era stato chiamato ad
legendum philosophiam in locum
quondam Gaetani Thienei
philosophi celeberrimi » ;
carriera abbastanza rapida
che mal si
spiegherebbe senza
l'appoggio di potenti
patroni ch'egli aveva
a Venezia. L' intervento di questi
patroni a suo
favore si fece
palese, del resto, nel
maggio del 1469,
con l'edificante episodio
che traggo dagli atti
del «Sacro Collegio
dei Medici e
Filosofi» di Padova ^,
a solazzo dei laudatores
temporis acti », i quali vanno
dicendo che certe
soperchierie avvengono soltanto
ai nostri giorni. Ecco dunque
l'episodio. Ma, prima
di narrarlo, bisogna
sapere che al Sacro
Collegio dei Medici
e Filosofi, che
aveva un numero limitato
di membri, erano
aggregati solo medici
e filosofi padovani e
veneziani, in numero
limitato, dopo aver
conseguita la laurea in
artihus e in
medicina, e a seconda della
disponibilità dei posti. Da
sapersi è altresì
che soltanto ai
membri del Collegio spettava di
farsi promotori »
dell'ammissione di coloro
che ne fossero degni
al tentativum »
e al privatum
examen » per il
conseguimento del titolo
di dottore in
artibus » e in
medicina e al
primo promotore »
toccava il privilegio
di conferire le insegne
del grado al
neo-dottore, previo il
giuramento di rito. Coloro
che non fossero
cittadini padovani o veneziani,
ma fossero maestri
nello Studio di
Padova da molti anni,
sì che non
avessero più bisogno
di essere ballotati
» periodicamente, potevano
essere aggregati al
Collegio, in seguito al
parere favorevole dei
membri di questo
e con le cautele
previste dagli statuti. Ora
sentite questa. Un bel giorno,
e precisamente il
mercoledì 31 maggio 1469,
il priore del
Sacro Collegio dei
Medici e Filosofi di
Padova, che era
il dottore in
artibus » Maestro
Cristoforo da Recanati (de
rechaneto) 9, udito
il parere dei
consiglieri, convoca il Collegio
in assemblea straordinaria
e tiene * Arch.
ant. dell' Univ.
di Padova, S.
Coli, de' Med.
e Filosof., voi.
312. b. 49r. 9 Su
lui, v. Facciolati,
Fasti Gymnasii Patavini,
parte II, p.
104. Il8
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI ai convenuti questo
discorso: Famosissimi
doctores, causa convocationis
excellentiarum vestrarum est
ista, quia die
heri quidam officialis
Magnifici domini pottestatis padue
mihi mandavit, ex
parte prefati magnifici domini pottestatis,
quatenus hodie convocare
facerem collegium ad instanciam
d. M. Nicoleti,
et, in executione
literarum serenissimi
ducalis domini] dicto
d. M. Nicoleto,
assignare debere locum in
collegio cum conditionibus
prout in dictis
literis continentur, et quod
unusquisque super hoc
dicat apparere suum
^°. L' intervento della Signoria
veneziana a favore
del filosofo chietino metteva
in serio imbarazzo
il Collegio, geloso
dei suoi diritti e
privilegi. Forestiero, laureato
nelle arti da
appena ii anni, lettore
di filosofia a
Padova da appena
quattro, il Vernia veniva
imposto dall'autorità politica
centrale, senza che il
Collegio fosse stato
nemmeno interpellato prima,
e senza una ragione
di particolari benemerenze
che gli dessero
la precedenza su altri.
Che modo di
procedere era questo ?
Vero è che
anche Maestro Cristoforo da
Re e anati
era entrato a
far parte del Collegio,
di cui egli
era priore, nel
maggio 1464, mentr'era legens ordinarie
philosophiam naturalem », per l' intervento e l'imposizione
dallo stesso governo
veneziano e senza
il gradimento del Collegio
stesso ". IO Arch.
Ant. dell'Univ. di
Padova, voi. 312,
f. 4gr. " Maestro
Cristoforo Rappi (secondo
C. Benedettucci, Biblioteca recanatese, Recanati,
1884, p. 124)
da Recanati era
nato il 4
ottobre (giugno, sec. il
Benedettucci) 1423, ma
s'era addottorato in
artibus a Padova, il
3 febbraio 1454
(Arch. della Curia
Vescovile di Padova, Diversovitìu, voi.
28, f. 23 v). Non
mi risulta la
data esatta del dottorato
in medicina, che
sicuramente ebbe luogo
pochi anni dopo. Ma
il 25 giugno
1462 ebbe dal
Senato veneziano un
aumento di stipendio come
professore di filosofìa
naturale da molti
anni nello studio patavino,
allo scopo di
impedire che egli
accettasse un invito fattogli dal
vicedomino di Ferrara; que
res universis scolaribus
studii ipsius molestissima est,
non sine incomoditate
et iactura nostri
domini], quia si recederet,
omnes qui illum
audiunt, eum sequerentur
» (Arch. di St.
di Venezia, Senato-terra,
Reg. 5, f.
12 r). Di queste buone disposizioni del
Senato a suo
riguardo il Recanati
non tardò ad approfittare;
poiché sotto la
data del 18
maggio 1464 si
legge {Ib., f.
79 r) : In
studio nostro paduano,
ut notum est,
reperitur Clarissimus doctor magister Christophorus
Recanatensis, legens ordinarie
philosophiam naturalem. Qui, ut
litere Rectorum nostrorum
et rectoris Universitatis Artistarum padue
testantur, neminem in
Italia habet parem.
Et qui vehementer optai
prò honore suo
cooptari in collegio
Artistarum et medicorum
padue, in locum
scilicet primi qui
deficiet, et multi
prestantiorum doctorum ipsius
collegii hoc velie
et cupere videantur.
Vadit IIQ Ma sentiamo
come l'estensore del
verbale continua a riassumere
il discorso dell'avveduto
priore: Sed sibi videtur,
quod ( durum.
est centra stimulum
calcitrare » [Actiis, IX,
5; XXVI, 14].
Et quod ipse
non vult in
hac re nisi quod
vult totum coUegium,
ad quod omnino
oportet super hoc providere: aut
quod ipse d.
M. Nicolletus acceptetur
in dicto collegio iuxta tenorem
literarum, aut quod
colligantur duo experti
qui sint doctores dicti
collegii, et quod
ipsi accedant ad
Magnifìcos dominos pretores [sic,
1. rectores] padue
et etiam ad
Serenissimum dominium, ad
deffendendum iura collegi]
contra dictum M. pars,
ut dictus magister
christophorus, quo, hoc
gradu honoris auctus, animatior et
promptior reddatur ad
perseverandum in sua
lectura, Auctoritate hiiius consilii
cooptetur in dicto
Collegio, in locum
scilicet primi qui quoquo
modo deficiet. De
parte, 88; de
non, 12; non
sinceri 2 ». Ritengo
che di parere
contrario dovesse essere
Ser Vitale Landò,
dottore e milite, non
che Sapiens terre
firme », il
quale ammoni quod serventur
promissiones facte collegio
doctorum medicorum et
artistarum padue », evidentemente col
rispettarne i privilegi
e gli statuti. Anche allora
il Collegio aveva
pestato i piedi
e masticato amaro, ma
poi aveva finito
per rassegnarsi. Simili
ingerenze del governo
veneziano nelle faccende del
Collegio non erano
una novità: che
anche quando di Lauro
Quirini, veneziano e doctor
artium » da
cinque anni, pose la
sua candidatura per
essere accolto nel
Collegio padovano, ove i
veneziani avean diritto
a un certo
numero di posti,
la decisione si trascinò
per oltre un
mese, finché la
domanda fu respinta
con 9 balote
» contro 8
(Arch. Ant. dell'
Univ. di Padova,
Sacro Coli, degli Artisti, voi.
309, ff. 122
v-r27 V, 15
apr. i maggio
-1845). Dopo la morte
di maestro Gaetano
da Thiene (18
luglio 1465), Crist. da
Recanati fu chiamato
dal Senato veneto
con voto unanime
del 9 sett. 1465
(Senato-terra, Reg. 5,
f. 134 v)
a succedergli nella
prima lettura ordinaria di
filosofia. Morì il
30 marzo (gennaio,
sec. il Benedettucci)
1480 a 56
anni, e fu
sepolto nella chiesa
delle monache di S.
Francesco dell' Osservanza, in
vico pontis Altinatis
», in un'arca di
pietra cum doctoris
effigie dormientis »,
e un epistaffio
che lo raccomandava ai posteri
come medico celeberrino
et philosophorum inclyto, quem
universae Italiae Gymnasia
peripateticae scholae principem
luxerunt » (lac.
Salomonius, Insc. ript.
Urbis patav. Padova, 1701,
p. 211, n.
20). Io, purtroppo,
non conosco se
non le Quaestiones recollectae super
Calciilationes sub magistro
Chistophoro de Recaneto, huius artis
principe, die sabbati
mensis novembris 1469,
in festo sanctae Catharinae ».
Ma il Coxe,
Catal. Mss. Bibl.
Bodl., Ili, Oxonii,
1854, segnala l'esistenza di
un'esposizione Magistri Christofoli
de Reganato super de celo
et niundo ad instanciam
Magistri.... Yeronimi de Cammarino, e
forse anche sul De physico
auditu (n. 279,
col. 644-45), nonché di
certe pillulae magistri
Christophori Rechanatensis (n.
488, 5, col. 810).
È un po'
poco per giudicare
delle lodi che
gli tributarono i contemporanei.
Ad ogni
modo, è inesatto
quello che scrive
il Facciolati, Fasti Gymnasii
Patav., II, p.
104, che egli primus
averroi auctoritatem in
Gymmasio Patavino conciUasse
dicitur, eius commentarla
in philosophando unice secutus
». Prima di
lui c'erano stati
Paolo Veneto e Gaetano
da Thiene, di
cui il recanatese
era stato discepolo. I20 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Nicoletum, et
petere quod diete
littere revocentur, tanquam impetrate et
concesse contra formam
statutorum dicti collegi],, ipso collegio
et iuribus suis
inauditis. Et super hoc
factis multis sermonibus
et arengationibus, prefatus dominus
prior posuit ad
partitum, quod quibus
placet quod acceptetur in
collegio d. M.
Nicolectus iuxta tenorem
literarum Serenissimi domini],
ponat suffragia sua
in pisside rubea; quibus
vero placuerit quod
defensentur iura collegi]
contra dictum Magistrum Nicoletum
[per] expertos dicti
collegi], ponat balotam suam
in pisside viridi.
Et facto
scrutinio cum bussolis
et balotis, invente fuerunt
balote quinque in
pisside rubea, in
favorem dicti M. Nicoleti, et
balote xv] in
pisside viride, quod
defensentur iura collegi] contra
dictum Magistrum Nicoletum. Cinque contro
sedici costituisce un
bello scacco per
ser Nicoletto. Tuttavia è
notevole che cinque
membri del Collegio si
mostrassero disposti, fin
dal primo momento,
a incassare il colpo,
non ostante l'affronto
al corpo. Lo
facevano per simpatia verso il
filosofo chietino, o
perché eran persuasi
anch'essi che durum est
contra stimulum calcitrare
» ? Si
trattava ora di eleggere
coloro che dovevano
assumersi la difesa
dei diritti del Collegio
al cospetto dei
rettori della città
e del governo della
Serenissima. Deinde posuit [prior]
ad partitum, de
consensu dominorum
consiliariorum, quod quibus
placet quod elligantur
d. M. Nicolaus de
Sancta Sophia, d.
M. Ioannes Michael
[de Bredepalea], d. M.
lacobus [f. q.
mag. Gratiadei] de
Veneti]s et d.
M. Ioannes Petrus de
carari]s, qui accedant
ad Magnificos pretores
[/. rectores] padue
et ad Serenissimum
dominium Venetiarum, ad
deffendendum iura et
statuta dicti collegi]
contra d. M. Nicoletum et literas
per ipsum impetratas,
ponat balotam suam
in pisside rubra; quibus
vero non placet,
ponat balotam suam
in pisside viride. Et facto
scrutinio invente sunt
balote xx] in
pisside rubra, et balote
due in pisside
viridi negante. Et
sic fuerunt ellecti. In
questo verbale v'
è un piccolo
dettaglio che potrebbe
facilmente sfuggire. Il messo
del podestà aveva
detto, a nome di
questo, che fosse
riunito il Collegio
e che ogni
membro dicesse la sua
intorno alla faccenda
: et quod
unusquisque super hoc dicat
apparere suum ».
E l'estensore del
verbale ci assicura che
furono fatti dai
convenuti molti discorsi
e arringhe » in
proposito e a
sproposito. Gli animi
della maggio12 Arch.
ant. delI'Univ. di
Padova, voi. 312,
f. 49 v. I ranza
s' infiammarono nel denunciare
l'affronto fatto al
Sacro Collegio e ai
suoi statuti, e
infiammati.... si suggestionavano a vicenda
sino a prendere
le decisioni che
presero quel mercoledì 31
maggio. Ma tornato a
casa, ognuno di
quelli che avevano
gridato piti forte contro
la soperchieria che
si perpetrava da
parte della Serenissima Signoria,
si sarà messo
a riflettere che
anche le mura della
chiesa di S.
Urbano, ov'eran raccolti,
avevano orecchie, e probabilmente
più d'uno si
sarà morsa, un po'
tardi, la lingua. Fatto
sta che il
venerdì 2 giugno
il Sacro Collegio
fu di nuovo convocato dallo
stesso priore, non
più nella chiesa
di S. Urbano, ma in
palatio Episcopali, hora
xxij ». Il
priore si fece
eco delle considerazioni che
due giorni di
riflessione avevano maturato nell'animo dei
suoi magnanimi colleghi,
e parlò un linguaggio
più circospetto. Illico et
immediate prefatus prior
dixit: famosissimi domini doctores, vos
vidistis Mandatum mihi
factum nomine collegij [/.
Potestatis], ut accipere
debeamus omnino in
collegio, in executione
literarum ducalium, d. M.
Nicoletum, prout in
literis ducalibus
continetur. Mihi videtur,
ne videamur esse
inobedientes et rebelles Hteris
Serenissimi domini] Venetiarum,
quod bonum esset ipsum
d. M. Nicoletum
acceptare in dicto
collegio ad ultimum
locum, cum protestacione
quod non intendimus
ipsum acceptare in preiudicium
iurium et statutorum
nostrorum, et quod reservamus
nobis ius prosequendi
iura nostra centra
dictum d. M. Nicoletum
et petendi revocationem
dictarum literarum tanqviam indebite,
collegio nostro inaudito,
concessarum et commissarum
dicto d. M.
Nicoleto. Et ita
satisfaciemus Voluntati
Serenissimi dominij impune
et absque alio
inconvenienti et schandalo
dicti collegij. E COSÌ
fu deciso. Un
paio di settimane
dopo, e precisamente dal martedì
20 giugno ^3,
«Nicoletus» comincia a
figurare in coda alle
liste dei membri
del Collegio; poi,
man mano che altri
membri entrano a
farne parte, il
suo nome dall'ultimo posto passa
al penultimo, e,
su su, in
una ventina d'anni
diventa uno dei primi,
e comincia ugualmente
a figurare in quelle
dei promotori nei
verbali di dottorato.
Della protesta e della
riserva cui accennava
il priore del
Collegio, l'egregio 13 Ib.,
f. 52 V. dottore
in artihus Maestro
Cristoforo da Recanati,
non si parlò più,
ritenendosi che il
fatto ricadesse sotto
l' impero di quello che
i giuristi pisani
chiamavano 1' ius
mengicum seu gengicum de
praescriptione », e
che molti filosofi
molto filosoficamente
ritengono un precipitato
storico della giustizia eterna » !
Nove anni dopo,
esattamente il lunedì
2 novembre 1478, il
povero Nicoletto, sano
per grazia di
nostro Signor Gesù Cristo mente
et sensu »,
era tuttavia corpore
languescens »; e pare
si trattasse di
malattia piuttosto seria,
se in quel
giorno provvide a far
testamento, disponendo dei
suoi averi a favore
del monastero di
S. Giovanni in
\'erdara a Padova
'4. Da questo documento
confrontato col testamento
del 1499, pubblicato dal
Ragnisco ^S appare
che nel 1478
egli a Padova abitava in
contrata burgi Capellorum
» e non
ancora in contrata S.
Lucie», come nel
1483, se questa
data è esatta
^^, né ancora «in
contrata putei Bonelli»,
come nel 1499
'7; risulta parimente che
non era ancora
cittadino di Vicenza,
che non disponeva dei
possessi di Colze,
e non si
sa se ancora
avesse avuto a che
fare con la famiglia vicentina
Dalla Scrofa. Questi rapporti sono
strettamente connessi con
l'acquisto poco chiaro della
cittadinanza vicentina e
della villa di
Colze, quando i suoi
guadagni erano aumentati
assai. Su tutti
questi punti potrebbero far
luce ricerche negli
archivi notarili di
Padova e di Vicenza. Ad
ogni modo, parrebbe
che le sue
fortune cominciassero a prosperare,
scapolato alla morte,
dopo il 1481;
ed anche allora con
l'appoggio di autorevoli
patroni. Dal primo
dei tre documenti pubblicati
da R. Persiani
^^, si rileva
che l'amba14 Cfr.
P. Sambin, /.
e. Sui rapporti
del Vernia coi
canonici Regolari Lateransi del
monastero di S.
Giovanni in Verdara
a Padova getteranno luce le
ricerche dello stesso
Sambin sulla biblioteca
di questo monastero. Uno
studio sulla tomba
del Vernia e
sui rapporti di
lui con gli stessi
Canonici Lateranensi del
monastero di S.
Bartolomeo a Vicenza sta
per dare in
luce negli Atti
dell'Accademia vicentina, il
prof. Antonio della Pozza,
direttore della Bertoliana. 15 In
«Atti e Memorie»
dell'Accad. di Se.
Lett. ed Arti
di Padova, Anno 292,
1890-1891, N. S.,
voi. VII, disp.
3^, p. 280.
V. sopra, p.
000. 16 Poiché il
16 genn. 1483,
non cadeva in
giovedì, come nel
docum. Ili pubblicato dal
Sambin, ma in
mercoledì. Quindi o
è sbagliato l'anno, oppure il
giorno. 17 Ragnisco, /. e, p.
284. 18 In La
Riv. Abruzzese di
Se, Leti, ed
Arti, Vili, 1893,
pp. 211-212. sciatore napoletano,
Dott. Aniello Arcamona,
s'adoprava in quest'anno presso
il Senato veneziano,
perché il famoso
dottore Maestro Nicoletto da
Chieti, che da
più anni leggeva
a Padova la filosofia
ordinaria cum maxima
elegantia et sufficientia
ac contentamento omnium
», fosse confermato
in detta lettura ita
ut non subiaceat
de cetero ulli
ballottationi ». Era già
aggregato al collegio
! La domanda
fu accolta con
122 voti favorevoli, e
uno solo contrario. Molto più
importante è il
secondo documento pubblicato dallo stesso
Persiani, del 13
dicembre 1487. Da
esso si rileva che
ser Nicoletto, ottenuta
la stabilità a
vita, aveva messo
su boria, e «sub
pretextu quod non
habeat ccncurrentem sibi parem,
obtinuit pridem a
dominio nostro litteras,
per quas ei concessum
fuit ut legere
possit bora extraordinaria, quo fit
quod venit eo
modo carere concurrente
». Quanto al credersi
superiore ad ogni
altro professore che fosse
a Padova, e
magari sotto la
cappa del cielo,
il Vernia fu buon
maestro ad Agostino
da Sessa, che
si riteneva il primo
homo dil mondo
», com'ebbe a
dichiarare al console veneziano a
Napoli, Lunardo Anselmi
'9. In questo
sì il maestro che
lo scolaro eran
ben lontani dalla
modestia del Peretto
mantovano che preferiva di
confessare con Socrate
: Hoc unum scio,
quod nihil scio
» -°. Ed anche
questa volta ser
Nicoletto era riuscito
ad ottenere r insolito
privilegio con lettera
della Signoria veneziana. Ma
egU non aveva
fatto i conti
con gli studenti,
che, per quanto chiassosi, erano
anche allora i
migliori giudici della
capacità dei loro professori.
E gli studenti
appunto protestarono per r
immeritato privilegio e
per la flagrante
violazione degli statuti accademici
da parte di
coloro che avrebbero
dovuto esserne i vigili
tutori. L' istituto della concorrenza
a Padova esigeva
che per ogni materia
professata i lettori
ordinari fossero due,
e che leggessero e
commentassero gli stessi
testi negli stessi
giorni e alla stessa
ora. Gli studenti
potevano ascoltare la
lezione dell'uno o dell'altro
concorrente, scambiandosi poi
gli appunti e le
impressioni, e avviare
discussioni, sollevando obiezioni 19
M. Sanuto, Diarii,
VII, 678. 20 Giorn.
Crii. d. Filos.] alla
fine della lezione,
e continuando le
discussioni, avviate entro l'aula,
al circolo dei
filosofi, che più
tardi ebbe la
sede sotto il portico
del podestà, a
pochi passi dal
Bò. L' intento perseguito con l'
istituto della concorrenza
era quello di
obbligare i professori a
tenersi al corrente
ed a studiare
: Et hoc ut
fiant dihgentissimi coactique
sint studere, et
ex consequenti satisfacere habeant
scolaribus audientibus ». Ora
Mastro Nicoletto, ottenuto
il privilegio di
leggere senza concorrente, hora
extraordinaria », scelta
a suo piacimento, dice il
documento pubblicato dal
Persiani, minime curat studere, fitque
negligens cum magna
murmuratione scolarium, qui, hanc
ob causam, relieto
studio, venerunt ad
presentiam nostri domimi et
indolentes {sic, 1.
dolentes) supplicantur ut forma
et continentia ipsorum
statutorum superinde loquentium
sibi observetur ».
Non saprei se
fra quei cari
studenti v'era anche il
Pomponazzi, il quale
si laureò in
artihus appena qualche mese
prima che il
Senato obbligasse il
maestro chietino a rispettare
gli statuti sul
fatto della concorrenza
e a rinunziare al
privilegio abusivamente concessogli
(13 dicembre 1487). Ultimo
aneddoto della vita
padovana del Vernia
è il suo dottorato
in medicina avvenuto
un po' alla
chetichella il 29 dicembre
1495. L' 8
settembre dello stesso
anno, dopo trent'anni d' insegnamento della
filosofia naturale, in
riconoscimento dei suoi meriti,
la Signoria veneziana,
con l'approvazione di tutto
il Consiglio, gli
aveva finalmente concesso il
raro privilegio che
un tempo era
stato concesso, per
le loro benemerenze, a
Gaetano da Thiene
e a Maestro
Cristoforo da Recanati, di
leggere senza concorrente.
Parrebbe che ormai non
dovesse avere altra
aspirazione che quella
di portare a compimento
le Quaestiones de
pluralitate intellectus contra falsam
et ah onini
ventate remotam opinionem
Averroys, per riguadagnarsi la
stima del vescovo
di Padova e
per ottemperare all' invito
del doge Agostino
Barbarigo, dimostrando falsi e
calunniosi i sospetti,
che si susurravano in
angulis », di una
sua adesione all'averroismo. Doveva
essere sulla settantina. Eppure alla
distanza di trentasette
anni dal dottorato in
artihus non esitava
a sottoporsi agli
esami per conseguire il
titolo di dottore
in medicina. Promotori
furono i suoi
colleghi Giovanni Aquilano, Lorenzo
da Noale e
Girolamo da Verona; testimoni
i patrizi veneziani
Lorenzo Donato e
Vincenzo Quirini, e
i maestri dello
Studio Pietro Pomponazzi
e Antonio Francanziano -^ Che
cosa l'avrà spinto
a procacciarsi il
titolo di medico
a quell'età ? e
a che cosa
poteva giovargli ?
La risposta forse potremo
trovarla in questa
notizia che si
legge nei Diarii di
Marin Sanudo --, a
di 2 zener
» [1499]. Vene li
miedigi di collegio
di questa terra
[Venezia], exponendo, conzò sia
che a tempo
di le vachation
maestro Zuan de l'Aquila,
maestro Nicoleto, maestro
Hironimo da Verona et
maestro Gabriel Zerbi,
medici, legevano a
Padoa, venissero a miedegar
in questa terra;
per tanto chiedevano,
nel tempo stevano
dicti medici qui,
facessero le angarie
come Ihoro, sì da
pagar il
medico in armada
etc. E li
fu concesso, et
cussi per la Signoria,
consulente collegio, fo
terminato in scriptura. Ecco a che cosa
doveva servire la
laurea in medicina:
ad andare a miedegar
» a Venezia
durante le vacanze,
facendo concorrenza ai medici
del luogo, sia
col fatto di
essere maestri di medicina
dello Studio patavino,
sia perché questi
padovani non facevano le
angarie » che
dovevano fare i
medici veneziani sì da
pagar il medico
in armada ».
Lo stipendio di 180
fiorini non pareva
abbastanza al filosofo
chietino, che, al
dire del Pomponazzi, «prò
uno quadrante perdidisset
hominem» -3, e doveva invidiare
i guadagni che
i colleghi medici
traevano, nel periodo delle
vacanze, a Venezia,
dall'esercizio della loro arte. Due di
essi, Giovanni Aquilano
e il veronese
Girolamo della Torre, erano
stati suoi promotori,
ed entrambi godevano di
onorata nominanza a
Padova e altrove
per la loro
perizia nel miedegar »,
sì che la
loro opera era
molto ricercata. Ma di
gran lunga più
celebre era Gabriele
Zerbi, anch'esso veronese, anatomista e
avversario di Iacopo
Berengario da Carpi, ■che
gli muove gravissime
accuse, forse infondate
o almeno esagerate. Appena
sei anni più
tardi, nel 1505,
morì di morte •efferata, nel
viaggio di ritorno
dalla Turchia, ove
la sua fama di
medico era giunta,
recatavi dai veneziani. 21 Padova,
Arch. d. Curia
Vesc, Acta graduum,
voi. 44, f.
290 r. V. sotto,
p. 162. " I, 31423 V.
sopra, pp. 114. 120 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Coiraiuto compiacente
di questi e
altri colleghi, il
29 dicembre 1495, il
filosofo chietino ebbe
dunque le insegne
di dottore in medicina,
conferitegli da Giovanni
Aquilano, e quattro anni
dopo lo troviamo
a Venezia a
miedegar », in sieme
a Giovanni Aquilano,
a Gerolamo da
Verona e Gabriele Zerbi, ai
quali la piacevole
compagnia del faceto
filosofo non doveva riuscire
ingrata. Ma bel gioco
dura poco. Ed
il primo ad
abbandonare il quartetto fu
proprio maestro Nicoletto,
il quale fece
appena in tempo a
preparare per la
stampa il libro
che lo faceva
tornare nelle buone grazie
del Barozzi. Il
3 agosto 1499,
a Vicenza, dettava le
sue ultime volontà,
e due mesi
dopo trovava pace nella
tomba presso i
Canonici Regolari Lateranensi
della stessa città -4. 22
Sotto al bel
monumento sepolcrale che
ora trovasi nella
cappella dell' Ospedale Civile
di Vicenza, e
già da me
riprodotto in Giorn. Crit.
d. Filos. Ital.
», XXXVI, 1955,
pp. 496-97, si
legge questa iscrizione, in cui
è fatta speciale
menzione della sua
ultima opera: Nico[letus],
Phi[losophus] Cla[rissimus], De
animi plu[ralitate] ac
fel[icitate] edito libro,
Pat[avina] in Acca[demia]
anni[s] XL flor[uit]. Obiit III
Nonas Octobris M.
CCCC. LXXXXVIIII.
Comunemente, quando si
parla oggi d'averroismo,
vien fatto di pensare
alla dottrina dell'unità
dell' intelletto possibile
per tutta la specie
umana; la quale
dottrina vien designata,
con un vocabolo moderno
che si direbbe
coniato apposta per accrescere
la confusione, «pampsichismo». Ma
rari sono coloro
che dell'averroismo mettono in
evidenza quella tipica
dottrina mistica che fu
uno degli argomenti
maggiormente discussi, fra gli
averroisti e i
loro avversari, dalla
fine del secolo
XIII a tutto il
XVI. E, ciò
che è più
strano, ne tacciono
sia il Mandonnet
che il Van
Steenberghen nelle loro
massicce diffuse monografìe dedicate
a Sigieri di
Brabante. Eppure la mistica
averroistica era stata
fatta oggetto di ampia
discussione da parte
di S. Alberto
Magno, di S.
Tommaso e di Sigieri.
Sebbene non fosse
stato ancora tradotto
in latino il trattatello
De animae beatitudine,
essi conoscevano bene
il commento e l'ampia
disgressione d'Averroè sul
testo XXXVI del terzo
libro del De
anima, assai più importante di
quel piccolo trattato, e per chiarezza
e per compiutezza. In questo
testo del De
anima, s'accenna al
problema, se è possibile
che l' intelletto unito
al corpo arrivi
a conoscere le sostanze
separate. Ivi Aristotele
promette che questo
argomento sarà discusso più
tardi ' ;
a noi per
altro non è
giunto alcuno scritto dello
Stagirita, nel quale
il problema ora accennato
sia risolto. S.
Tommaso, dopo aver
dubitato che Aristotele, sorpreso
dalla morte, fosse
mai pervenuto a trat* Dal
volume Umanesimo e
Machiavellismo dell' Archivio
di Filosofia », Padova,
Editoria Liviana, 1949. I
Arist., De Anima,
III, t. e.
36, e. 7,
43ib 18-19. 128 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI tare delle
sostanze separate -,
finì per credere
che il problema fosse risolto
dallo Stagirita in
un'opera non ancora
tradotta in latino che
gli era stata
mostrata 3. Anche
Alberto Magno, che a
questo problema dedica
il suo trattato
De intellectu et intelligibili, ritiene
che quest'opera, rimasta
sconosciuta a lui, era
ben nota a
molti dei discepoli
d'Aristotele, i quali
si sarebbero ispirati ad
essa in quei
numerosi scritti che
Alberto ben conosceva e
nei quali credette
di trovare il
fior fiore dell' insegnamento aristotelico
4. Neil' intento di
chiarire il pensiero
di Aristotele su
questo punto, commentatori greci
come Alessandro d'Afrodisia
e Temistio, o arabi
come Alf arabi, Avicenna
ed Abu Baker Avenpace, avevano
cercato negli scritti
dello Stagirita quale, a
loro avviso, dovesse
essere la soluzione
di quel problema, conforme ai
principi della filosofia
peripatetica. Averroè,
venuto dopo costoro,
aveva intrapreso, nel
detto commento al testo XXXVI
del terzo del
De anima, una
vivace critica delle loro
teorie, in parte
rigettandole e in
parte sforzandosi di correggerle. Alessandro d'Afrodisia
aveva ritenuto che
l'uomo potesse arrivare alla
conoscenza del mondo
immateriale mediante la copulatio
» dell' intelletto
potenziale con l' intelletto
agente. L' intelletto
potenziale è, per
l'Afrodisio, una semplice
preparazione o disposizione dell'organismo vivente
di vita sensibile. L' intelletto agente
invece è la
causa prima di
tutte le cose, la
quale, irraggiando la
luce dell' intelligibilità sulla
materia, la plasma e
trae dalla potenzialità
di essa tutti
gli esseri del mondo
corporeo. Questi imprimono
le loro qualità
dapprima sui sensi esterni
; e per
mezzo di queste
prime impressioni suscitano l'attività dei
sensi interni e
particolarmente dell' immaginativa. L'attività conoscitiva
degli animali inferiori
all'uomo s'arresta qui. Ma
l'organismo umano, sviluppatosi sotto l'azione
dell' intelletto agente,
è dotato d'un
principio vitale più perfetto
che tende più
su. V è in
esso una capacità
o disposizione che,
per quanto legata all'organismo vivente,
lo porta ad
aprirsi una veduta
sul 2 S. Tommaso,
De anima, III,
lez. 12 in
fine. 3 S. Tommaso.
De imitate intellectus
cantra averr., ed. L. W.
Keeler, Roma, Pontificia Univ.
Gregoriana, 1936, Cap.
I, 42, p.
27. 4 Alb. Magno,
De intellectu ed
intelligibili, I tr.
i, e. i. mondo
intelligibile. Questa capacità
o disposizione è
ciò che Aristotele avrebbe
chiamato l' intelletto in
potenza. Soltanto la luce
inteUigibile dell' intelletto
agente, la quale
avvolge € vivifica tutta
la natura, può
trarre all'atto questa
pura potenziaHtà. Ma la
luce divina dell'
intelletto agente attua r
intelletto potenziale per
gradi : prima
per mezzo degl'
intelligibili astratti dai fantasmi
dell' immaginativa ;
poi per mezzo delle
scienze speculative ;
finalmente, quando l' intelletto umano è
intelletto in atto
o in abito,
l' intelletto agente, cioè la
luce divina, lo
riempie di sé,
lo informa e
lo rende capace di
contemplare in se
stesso il mondo
divino dei puri
spiriti. Siccome in questo
stato l' intelletto contempla
Dio per mezzo di
Dio stesso, esso è detto intelletto
acquisito ». La teoria
d'Alessandro, con la sua
graduale ascesa della mente
umana a Dio,
che nell'ultimo grado
della sua elevazione finisce per
essere deificata, sembra
aver sedotto Averroè. Il
quale, per altro,
ne scorge acutamente
le difficoltà. Se il
punto di
partenza di questa
ascesa verso il
divino è l' intelletto in potenza,
e se questo
è semplice attitudine
dell'anima sensitiva
essenzialmente legata all'organismo
del quale subisce le
vicende, bisognerebbe ammettere
che una virtù
organica, generabile e corruttibile,
vincolata cioè dalle
condizioni dello spazio e
del tempo, fosse
capace d'elevarsi alla conoscenza di ciò che
è universale, libero
cioè dallo spazio
e dal tempo, ossia
dalle condizioni della
sensibilità o, come si
diceva nel medio
evo, della materia.
Si può bene
intendere, fino ad un
certo punto, che
la causa prima
operi, come causa agente,
sul mondo materiale
e sull'intelletto potenziale; ma non
si riesce a
capire in che
modo l' intelletto agente
possa farsi forma d'una
virtù organica e
renderla simile a
sé. L' intelletto acquisito» è
concetto che non è punto
chiaro. In quanto acquisito »
parrebbe qualcosa di
diverso dal soggetto
che lo acquista; ma
non si vede
come un soggetto
corruttibile possa
acquistare e far
suo l'eterno. Per queste
ragioni parve ad
Averroè che l' intelletto
potenziale non dovesse essere ncque
corpus ncque virtus
in corpore »;
in altri termini,
la natura di
siffatto intelletto vuol
essere sciolta da ogni
intrinseco legame colla
materia. Sostanza separata esso
stesso, l' intelletto possibile
diviene capace di quella
ascesa al mondo
delle sostanze separate,
mediante la copulatio »
coir intelletto agente. 9 130 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Anche Abu
Nasar Alfarabi s'era
fermato a meditare
sul problema posto da
Aristotele e sulla
soluzione che ne
aveva dato Alessandro. E
nella sua opera
intorno all' Etica
Nicomachea, avendo accettata
la dottrina del
commentatore greco suir intelletto
possibile, s'era limitato
a considerare l' intelletto agente come
causa attiva del
passaggio di quello
dalla potenza all'atto, e
non come forma
che s'unisce ad
esso. Invece, nel trattato
De intellectu et
intelligibili, Alfarabi ammise che
r intelletto possibile,
già pienamente attuato
dagl' intelligibili tratti del
mondo sensibile, diventa
soggetto d'una più intima
unione coli' intelletto
agente, dal quale
riceve una più copiosa
illuminazione che gli
dischiude la vista
del mondo sovrasensibile. In
questa unione coli'
intelletto agente, cui serve
di preparazione l'acquisto
delle scienze speculative,
e che anche Abu
Nasar chiama intelletto
acquisito {intellectus adeptus),
consiste la suprema
perfezione della mente umana
e la beatitudine
finale dell'uomo 5.
Ma Averroè e' informa,
nel De
animae beatitudine ^, che il
povero Abu Nasar, giunto
al fine de'
suoi giorni con
la ferma convinzione
di potere arrivare a
questo alto grado
di perfezione, cui
s'era apparecchiato
procacciandosi tutto il
sapere a lui
accessibile, come s'accorse che
non c'era arrivato,
ebbe a dichiarare
impossibile e vana l'aspirazione
a congiungersi con
le sostanze separate, ritenendo
ormai favole da
vecchierelle le descrizioni puramente immaginarie
che taluni facevano
dell'uomo pervenuto a tale
sovrumana altezza.
Quest'umile riconoscimento della
limitatezza del sapere umano
fatto da Alfarabi,
ormai sul passo
estremo, non aveva per
altro scoraggiato Abu
Baker Avenpace. Il
quale, dice Averroè 7,
s'adoperò a lungo
a risolvere l'arduo
problema, senza perderlo di
vista un batter
d'occhio. Oltre che
nel suo commento al
De anima, Avenpace
tratta di questo
argomento in molti altri
suoi libri »,
di due dei
quali conosciamo i
titoli: 5 Alpharabii, De
intellectu, nell'edizione di
Avicenna, Opera.... per canonicos
emendata. Venezia, eredi
di Ottaviano Scoto,
1508, fol. 68, col.
4. Il trattatello
è stato ristampato
nella traduzione latina
da E. GiLSON, in
Archives d' hist. doctr. et
litt. au moyen
8ge, 1929. Cfr.
B. Nardi, introduzione a
S. Tommaso
d'Aquino, Trattato sull'unità
dell'intelletto contro gli averroisti,
Firenze, Sansoni, 1938,
p. 32. 6 Capp.
3-4; cfr. A.
Nifo, In Averrois
de animae beatitudine,
Venezia, eredi dì O.
Scoto, 1520, I,
testo 59, e
II, t. 11. 7
Avere., De Anima,
III, comm. 36,
digress., parte II
e III. r Epistula
de perfectione 8,
e il Tractatus
de copulatione. Anche la
teoria di questo
pensatore si ricollega
strettamente a quella di
Alessandro e d'Alfarabi,
per quanto concerne
la natura dell' intelletto
potenziale e nel
ritenere che alla
conoscenza delle sostanze separate
si possa giungere
per mezzo del
sapere speculativo, ossia della
progressiva attuazione dell'
intelletto, in potenza. L'atto
col quale l' intelletto
umano dal sapere scientifico s'eleva
alla conoscenza dei
puri intelligibili separati, potrebbe dirsi
un atto di
superastrazione, col quale
dai concetti astratti, ricavati
dalla realtà sensibile,
si astrae quella pura
essenza intelligibile che
è semplice e
identica per tutte le
menti: «Et cum
philosophus ascenderit alia
ascensione, considerando in intellecto
inquantum intellectum, tunc
intelliget substantiam abstractam
» 9. Sembra,
per altro, che Abu
Baker si mostrasse
alquanto perplesso in
merito a questa suprema ascesa,
che dovrebbe coronare
gli sforzi di
chiunque è giunto in
possesso di tutto
lo scibile filosofico;
e che egli, nell'Epistola de
perfectione, la ritenesse
possibile non tanto per
lo sforzo della
natura umana, quanto
piuttosto per un aiuto
divino: intellectio istius
intellectus est de
possibilitate divina, non de
possibilitate naturae »
'". Ad ogni modo,
la maggiore difficoltà,
che travaglia anche la
teoria di Alf arabi
e d'Avenpace, consiste
nel punto di partenza,
cioè nell'aver considerato
l' intelletto potenziale generabile e
corruttibile, come l'aveva
ritenuto Alessandro d'Afrodisia. Non così
possiamo dire di
Temistio. Per questo
parafraste bizantino
d'Aristotele, com' è
stato inteso da
Averroè, l' intelletto
potenziale è immateriale,
uno ed eterno,
al pari dell' intelletto agente
che n' è la forma.
Il problema che
concerne Temistio, è un
altro. Se l' intelletto
potenziale è uno
e ingenerabile, ed uno
e ingenerabile è
l'intelletto agente; e
se il primo è
tratto dalla potenza
all'atto e diventa
intelletto speculativo per r
informazione del secondo,
non si riesce
a vedere come il
concorrere di due
cause eterne possa
dar luogo ad un
effetto generabile e
corruttibile, qual' è
il mio individuale atto d' intendere,
susseguente, in particolari
contingenze di 8 MuNK,
Mélanges de philosophie
juive et arabe,
Parigi, 1859, p.
393 sgg. 9 AvERR.,
/. e, parte
III. '0 AVERR., ib. 132 tempo
e d'ambiente, al
non intendere, e
diverso dall'atto col quale
altri intende quel
che non intendo
io. Nel pieno
congiungimento dell'
intelletto potenziale con l'
intelletto agente consiste anche
per Temistio il più alto
grado di perfezione raggiungibile dall'uomo;
ma il bizantino
non spiega perché questo
congiungimento avvenga soltanto
alla fine e
non al principio dello
sviluppo intellettuale dell'uomo;
egli cioè non spiega
perché l' intelletto agente,
fin dal primo
momento della sua unione
all' intelletto possibile,
non attua tutta
intera la potenzialità di
quest'ultimo, se è
vero che gì'
intelligibili, come pensa Temistio
con Platone, anzi
che tratti dalle
immagini sensibili, sono irraggianti
dall' intelletto agente
su quello potenziale. A risolvere
le difiìcoltà contro
le quali urtava
da un lato la
teoria d'Alessandro e
dall'altro quella di
Temistio, il commentatore di Cordova
pose questi fondamenti.
Anzi tutto, l'intelletto che
è soggetto del
pensare, in quanto
questa funzione conoscitiva si
differenzia dal sentire,
non può essere
e quindi al privatum
examen » per
ottenere il dottorato in
medicina. Ecco il
verbale di quest'ultimo
atto,, rimasto ignoto al
Ragnisco il quale,
confondendo col Vernia Nicolò
Manupello, egli pure
da Chieti e
parente del Vernia, riteneva che
questi si fosse
laureato in filosofìa
il 22 aprile
1444 e in medicina
forse nel 1458: A
nativitate Domini nostri
Jesu Christi 1496
{sic). Indictione 14, die
martis 29 decembris,
in loco solito
examinum. Privatum examen et
Doctoratus in facilitate
Medicinae Clarissimi Artium
doctoris Domini Nicoleti
Verniatis, theatini,
ordinariam philosophiae legentis
absque concurrente, examinati per
Sacrum collegium Artium
et Medicinae doctorum,
corani venerabili Domino presbytero
Antonio de Malgarinis,
cathedralis ecclesiae
paduanae Mansionario, in
hac parte Vicario,
in assistentia spectabihs
domini Leonardi Butironi,
Rectoris, approbati unanimiter
et concorditer ac
nemine penitus discrepante, sub promotoribus
Domino Joanne Aquilano
qui de dit
insignia prò se ac
Dominis Laurentio de
Noali et Hieronymo
de Verona. [Testes]. D.
Laurentius Donato, Camerarius. D. Vicentius
Quirino, artium scholaris. D.
M. Petrus de
Mantua / D. M.
Antonius T^achantianus \ In
questo atto da
me veduto (Arch.
d. Curia Vesc,
voi. 44, cot., f.
2gor) e gentilmente
trascrittomi dal Rev.mo
Mons. A. Barzon, il
dottorato in medicina
di Maestro Nicoletto
è fissato al martedì
29 die. 1496.
Ma che si
tratti d'un semplice lapsus dell'estensore è
provato dal fatto
che l'atto immediatamente precedente (f.
289V) è del 23 dicembre
1495, e il f.
29ir porta la
data del 2
gennaio 1496. Inoltre,
il 29 dicembre 1496, cadeva
in giovedì, e non martedì
come il 29
dicembre 1495. Infine, il
29 dicembre 1496
il Pomponazzi non pcteva fare
da testimone, perché
nell'ottobre aveva lasciato Padova, e
vi fece ritorno
solo dopo la
morte del Vernia
nel 1490, Ma forse
non si tratta
di errore, bensì
dell'aver computato il principio
del 1496 a
nativitate Domini »,
cioè dal 25 dicembre.
Notevole nell'atto riferito
è poi la
presenza, fra i
testimoni, di Lorenzo Donato
e di Vincenzo
Quirini. Il primo
era un patrizio veneziano, e
a lui, questore
a Padova, il
Nifo, alunno del Vernia,
dedicherà, nel 1497,
il prologo d'Averroè
alla Fisica, stampato in
fine del commento
dello stesso Nifo
alla Destructio
destructionum dello stesso
Averroè. Del secondo,
al quale il Nifo
a Padova e
da Salerno ostentava
il suo particolare e
interessato attaccamento, faremo
cenno piìi giti. Ma
potrebbe anche darsi
che il motivo
che spinse il
filosofo chietino ad addottorarsi
in medicina fosse
un altro. Leggiamo infatti nel
Sanudo (II, 314)
che i medici
veneziani il 2
gennaio 1499 si lagnarono
in Collegio perché
Giovanni Aquilano, (( maistro
Nicoleto », Girolamo
da Verona e
Gabriele Zerbo, medici che
leggevano a Padova,
durante le vacanze
andavano a miedigar in
questa terra »,
cioè, a Venezia,
e non applicavano ai clienti
le angarie »
di legge che
dovevano far pagare i
medici di Venezia,
a prò del
medico dell'armata (v.
sopra, pp. 125-126). Pare
che a quei
tempi l'esercizio della
medicina desse guadagni più
vistosi della filosofia;
e a maistro
Nicoleto » dovevano far
gola. Ma col 1496
comincia per la
filosofia padovana un
periodo di crisi che
coincide con la
partenza del Peretto.
Questi, messo a dura
prova dalla concorrenza
del Nifo, dovette
sentirsi spronato ad accogliere
un invito che
gli era fatto,
di andare a stabilirsi
alla corte di
Alberto Pio, a
Carpi. E nella
prima metà d'ottobre 1496
egli rinunziò alla
cattedra e chiese
licenza d'andarsene,
adducendo a motivo
i suoi personali
interessi. Questo risulta dal
decreto del Senato
veneziano, in data
16 di quel mese
(Venezia, Arch. di
Stato, Senato terra,
Reg. 12, f.
ijjr) : Renuntiavit niiper
eximius doctor D.
Petrus de mantua
lecturae ordinariae
philosophiae gymnasij nostri
patavini, cuius retinebat primum locum;
et hoc impulsus
privatis suis negotijs. Sicché i
sapienti del Consiglio
e della Terra
ferma, nella necessità di
provvedere per l'anno
scolastico 1496-1497 alla cattedra
rimasta vacante, nominarono
a succedergli Agostino Nifo, ((
qui erat concurrens
ipsius. D. Petri
de mantua secundo loco
», promovendolo al
primo, col salario
di 90 fiorini, e
dandogli come concorrente, ad
secundum locum »,
il famoso e a
tutti gratissimo dottore
Antonio Fracanzano, vicentino, de
cuius sufficientia et
doctrina litterae Rectorum
nostrorum Paduae dant
amplum testimonium »,
coll'annuo salario di 80
fiorini. Ma il Nifo
non valeva il
Pomponazzi, e d'altra
parte risulta che nel
corso dell'anno scolastico
1497-1498, non sappiamo per
quali ragioni, se per motivi
di stipendio o
per attriti co] 164
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI Fracanzano, ad un
certo momento tagliò
la corda. Sì
che il Senato veneziano,
in seguito a
rapporto del rettore
degli Artisti di Padova,
considerando che maestro
Nicoletto ob suam ingravescentem etatem
continue non potest
legere, quamvis ob eius
sufficientiam est valde
gratus omnibus scolaribus, et quoniam
illam lectionem alias
legebat D. Augustinus
de sessa cum florenis
90 in anno,
vir apprime sufficiens
et gratus illis scolaribus,
qui libenter veniret
ad legendum »,
decide che il Nifo
sia condotto di
nuovo con fiorini
120, ed abbia
a concorrente lo stesso
Fracanzano (Ib., Reg.
13, f. ^yr,
ig giugno 1498). Questi s'era
addottorato in artibus
nel maggio 1489;
nell'autunno del 1492 era
stato assunto alla
lettura della logica, e
questa cattedra occupava
ancora il 21
luglio 1494 (Padova, Arch. della
Curia, Acta grad.,
voi. 44. f.
246V); nel 1495
aveva conseguito la laurea
in medicina, e
quindi assunto alla
cattedra straordinaria di filosofia
che occupava il
29 dicembre 1495 (Arch.
d. Curia, 1.
e, f. 290r).
L'anno successivo, fu promosso,
come abbiamo visto,
alla cattedra ordinaria secundo loco
». Ben poco ci è noto
anche del suo
indirizzo filosofico. Di scritti
di lui a
stampa non conosco
che le otto Quesiiones
in consecutiones Stradi ac de sensu
composito et diviso,
pubblicate nel volume del
faentino Benedetto Vittori,
In Tysberum de sensu
composito ac diviso
cum eiusdem collectaneis
in suppositiones Pauli
Veneti. Nec non
Tractatus Alexandri Sermonete,
Bernardini Petri de
Landìtciis, Pauli Pergulensis
et Baptiste da Fabriano
in eundeni Tysberum.
Item qiiestiones Frachanciani
Vicentini in consecittiones etc.
(Venetiis, impensa heredum q.
Oct. Scoti. 5
dicembre 1517, ff.
56ra-65v), e dedicate
ad Alessandro Sermoneta. Esse
appartengono senza dubbio
al periodo nel quale
il Fracanzano fu
lettore di logica.
Di opere manoscritte ne
conosco invece due.
Una è nel
cod. Ashburn 1048, nella
Laurenziana di Firenze,
ff. ir-38v con
questo titolo: Excellentissimi Doctoris
Domini Antonii fracantiani Vicentini de
casu et fortuna
fatoque quaestiones incipiunt
(9 capitoli, oltre il
proemio). L'altra è
nel codice Vat.
lat. 10728, e porta
questa intestazione: Tractatus
proportionalitatum Domini
antonii fracantiani Vicentini
di ff. io. È divisa
in tre trattati ed è scritta
di mano d'un
allievo, che probabilmente è Girolamo
Accorumboni o Accoramboni
da Gubbio. Ecco quanto
scrive questo alunno
: Finis Tractatus
proportionum Fracantiani,
praeceptoris mei, qui
legit patavii ordinariam philosophiae ;
obiit mo cccccvi,
die 28 aprilis.
Ego vero eram tum
bacchalarius ordinarius in
studio patavino. Pontifex erat
prope bononiam cum
exercitu, ut dominum
iohannem expelleret ». Niente
son riuscito a
sapere del commento
inedito In VII Physicorum
di cui parlano
i Memorabili di
Giovanni da Schio (ms.
nella Bibl. Bertoliana
di Vicenza, lettera
F) e che era
posseduto dal canonico
Fulvio Querengo. Interessante è quanto
riferisce Marin Sanuto
(II, 485), come
il 24 giugno 1499
furon ricevuti a
Venezia in Collegio maestro
de Starniti » (?
!) teatino et
maestro Gabriel Zerbo,
doctori, lezeno a Padoa
in philosophia et
medicina, insieme col
retòr di scolari artista, con
commission dil collegio
di doctori; et
forno alditi in contraditorio
con maestro Antonio
Fraganzan, dotor vicentin, leze
in philosophia, qual
non voria haver
concorente inferior a
lui, né vorìa
essi doctori esso
in nel collegio di
doctori. Or fo
gran parole, et
scrito ai retòri
di Padoa, dagi Information
>>. Non conosco l'esito
di questa bega;
ma è certo
che l' insegnamento della filosofia
a Padova versava
in gravi condizioni. Il Nifo
se n'era andato,
e non farà
più ritorno a
Padova, ove non gli
mancavano gli appoggi
di potenti amici,
ma dove aveva dovuto
cozzare altresì contro
l'avversione di maestri e
scolari. Il 4
ottobre poi era
morto maestro Nicoletto,
che il 3 agosto
a Vicenza aveva
fatto l'ultimo suo
testamento, e con
lui spariva dalla scena
padovana la figura
forse più nota
fra gli studenti di
filosofia e più
popolare per le
sue bizzarrie (v.
sopra, saggi IV e V)
. Nessun
maestro di qualche
rilievo occupava più le cattedre di
filosofia. Di ciò
ebbe a preoccuparsi
il Senato veneziano nella seduta
del 31 ottobre
(Senato terra, Reg.
13, f. 97r). A
succedere al Vernia
fu perciò richiamato Magister
Peretus de Mantua, vir
singulari doctrina preditus
et studentibus gratus »,
per la durata
di due anni,
con 180 fiorini
di salario »; per
concorrente gli fu
assegnato il Fracanzano, vir
doctissimus, qui iam
per annos septem
legit » (dunque
dall'autunno del 1492, quando
fu nominato lettore
di logica) ;
e poiché il vicentino
ricusava l'ufficio di
concorrente col salario
di 80 fiorini, fu
deciso di portarlo
a 130, onde possit
legere contentus et facere
bonam concurrentiam ».
Alla cattedra straordinaria di filosofia
fu accettato il
bolognese Tiberio Bacilieri,
discel65
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI polo, amico e
collega di Alessandro
Achillini, del quale
portò a Padova le
dottrine. Egli aveva
dovuto lasciare la
città natale, in seguito
alla sospensione per
un quinquennio inflittagli
da quel Collegio dei
medici e filosofi
(cfr. sotto, pp.
226-27). E forse
il Bacilieri dovette fare
da concorrente al
Peretto, quando il Fracanzano entrò
per tre anni
al seguito del
nuovo cardinale Marco Corner,
che, elevato alla
sacra porpora a
diciott' anni, aveva
ancora bisogno d'andare «a
Padoa a studia»
(M. Sanuto, II,
929). Ma ritornato sulla
sua cattedra il
Fracanzano nel 1502,
e ripreso il suo
posto di concorrente
del Pomponazzi, il
Bacilieri l'anno successivo lasciò
Padova per Pavia
(cfr. il mio voi.
Sig. di Brah.
nel pens. del
Rinasc. ital., pp.
132-152). Nella stessa delibera
del 31 ottobre
1499 si trova
ancora: Demum legit in
dicto Gymnasio iam
annos sexdecim [dunque dall'anno scolastico
1483-1484, quando il
Trapolin salì sulla
cattedra di filosofia quale
straordinario] Magister Petrus
trapolino, qui iam est
senex et onustus
ingenti numero filiorum,
et habet florenos
250 de salario
in anno, quod
exiguum est respectu
laborum quos sustinet in
legende. Ideo captum
sit quod dicto
magistro Petro addantur floreni
quinquaginta, ita quod
habeat de salario trecentos in
anno et ratione
anni, attento presertim
quod eius concurrens [che
era Gabriele Zerbo]
habet fiorenos sexcentos
de salario in anno. Con
questa delibera del
Consiglio veneziano che
vigilava sulle sorti dello
Studio patavino la
crisi della filosofia
padovana era avviata a
una felice soluzione. Intanto venivan
su ottimi elementi
nuovi, alunni dei
vecchi maestri, che, appena
addottorati e taluno
anche prima, salivano giovanissimi sulla
cattedra. Così il 17 agosto
1499, s'addottorò /;/ artihus
Lorenzo dal Molino,
da Rovigo, già alunno
del Pomponazzi e
del Trapolin che
al giovane dottore conferì le
insegne, e nel
verbale di dottorato
troviamo annotato che egli
era già stato
deputato ad lecturam
dialecticae » (Arch. d.
Curia Vesc, voi.
46, f. 71).
Il 21 maggio
1500, s'era addottorato in
artihus il veronese
Gianfrancesco Burana {Ib., voi.
47, f, 106),
e un anno
dopo lo troviamo
ordinario di logica {Ib.,
f. i62r). Il
veronese Bernardino Plumazio,
già alunno del Nifo,
fu chiamato ad
extraordinariam philosophiae lecturam
» {Ib., f.
248r). Anche Francesco
Trapohn, al quale conferì
le insegne di
dottore in artibus
il padre, il 6
ottobre 1501, troviamo
che electus est
ad lecturam publicam logice »
[Ih., f. i68r).
L'anno scolastico 1503-1504
fu promosso straordinario di filosofia naturale.
E dopo la
laurea in medicina, conseguita il
4 marzo 1506,
anche questa volta promotore.... D. Petro
Trapolino genitore suo
qui dedit insignia
» (e fra i
testimoni era Gaspare
Contarini), passò alla
seconda scuola di medicina,
collega del padre
e, come questo,
collegiato. Il 14
novembre 1500 s'addottorò
in artibns Giacomo Filippo delle
Pelli Negre da
Troia in Puglia,
promotore Pietro Trapolin, ed
anche egli era
già stato eletto ad
moralem philosophiam publice
legendam » {Ih.,
voi. 47, f.
135). Il 1° febbraio
1501 s'addottorò in
medicina Girolamo Bagolino,
di cui abbiamo udito
l'elogio fatto da
Girolamo Avanzo [Ih.,
f. 146 v) e del
quale è ben
nota la carriera
scolastica. Il 6
agosto s'addottorò in artihus
M. A. Zimara,
promotore ancora P.
Trapolin, e l'anno seguente
cominciò a insegnare
prima logica, poi filosofia
[Ih., f.
i62r). Il 5 nov. 1502
conseguì il dottorato
in artihus Girolamo Fracastoro,
anch'egli già ad
lecturam logice deputatus »
{Ih., f. 225r). Proprio in
questi anni, affluiscono
a studiar filosofia
a Padova giovani delle
più ragguardevoli famiglie
patrizie veneziane. Primi fra
tutti Vincenzo Quirini,
Marco Gradenigo, Girolamo Taiapietra,
Santo Moro, Cristoforo
Marcello, Gaspare Contarini, Nicolò
Tiepolo, Antonio Surian,
M. A. Contarini, Lorenzo Venier.
Il Quirini, ancora artium
scholaris », figura in
vari atti di
dottorato come testimone
fin dal 1495; ma
recatosi a Roma,
vi sostenne le conclusion
» nella chiesa dei
Santi Apostoli, il
29 maggio 1502,
presenti Pietro Bembo e
l'oratore veneziano Marin
Zorzi, e fu
addottorato in artihus da
papa Alessandro VI.
Il suo esempio
seguirono anche il Taiapietra
e il Tiepolo,
addottorati essi pure
a Roma, dopo avervi
disputato le loro
brave conclusion »,
il primo nella primavera del
1506, il secondo
nell'estate 1507, da
Giulio II (M. Sanudo,
III, 278; VII,
116; P. Bembo,
Opp., t. Ili,
Venezia 1729, p. 3i4r).
Invece Cristoforo Marcello,
che il 17 ottobre
1500 aveva sostenute
ai Frari, a
Venezia, alcune conclusion »
(M. Sanudo, III,
978), s'addottorò in
artihus a Padova, promotore P.
Trapolin, il 20
ottobre 1501, e
gli fecero da testimoni
M. A. Foscarini,
vescovo di Città
Nova e ancora studente di
diritto canonico, Girolamo
Barbarigo, primicerio di S.
Marco, e Pietro
Pomponazzi (Arch. di
Curia Vesc, voi.
47, f. lògr). Del
dottorato in artihus
di Andrea Mocenigo,
discepolo del Pomponazzi, trovo
questo verbale {Ib.,
f. 256): Anno Nativitatis
dominicae 1503, indictione
sexta, die Sabati XII
Augusti. Privatum examen
in Artibus, in
loco solito examinum,
per Venerandum Collegium
Artium et medicinae
doctorum, et comprobatio unanimiter
et concorditer ac
nemine penitus discrepante, in
assistentia Spectabilis. D. Pauli Zerbo
Rectoris, coram Reverendo d.
Ludovico de rugerijs
vicario. Et deinde
in medio cathedralis ecclesiae,
assistentibus M. cis
et CI. imis dominis Thoma Mocenigo
praetore, patruo, et
Paulo Trivisano equiti, praefecto urbis,
avunculo, et aliorum
praestantissimorum doctorum
scholarium civium et
praelatorum corona, per
R.mum D. Episcopum, eius
domino Vicario recitante,
pronuntiatus fuit Doctor in
Artibus M. cus et doctissimus
vir. D. Andreas
Mocenigo, natus M. ci
et CI. mi D.
Leonardi, fili] olim
Serenissimi principis Venetiarum
D. Joannis Mocenici,
post longas lucubrationes
et scholasticos labores
et publicas disputationes
ac varia virtutis
et doctrinae suae experimenta.
Cui tradita fuerunt
insignia per Excell.mum artium
et medicinae doctorem,
D. Magistrum Petrum
trapolinum prò se
ac Dominis Magistris
Ioanne de Aquila, Symone Estensi,
Hieronymo de foelicibus
ac Bernardino Spirono. Testes: D.
Laurentius Venerio, D.
Antonius Suriano, D.
Gaspar Contareno, artium scholares. È
notevole che anche
qui s'accenni a
pubbliche dispute, tenute verosimilmente a
Padova e a
Venezia, delle solite conclusion ».
L' 11 settembre
dello stesso anno,
s'addottorò in artibus Marco
Gradenigo, ed ebbe
a testimoni il Magnifico
G. Batt. Memo,
suo zio e
podestà di Padova
{Ib., f. 258r). Il 4 luglio
1504, s'addottorò in
artibus Sebastiano
Foscarini, promotore Bartoloneo
da Montagnana {Ib.,
f. 287r) ; un
anno dopo, il
14 giugno 1505,
fu eletto lettore
di filosofia nelle scuole
di Rialto a
Venezia, al posto
di Antonio Giustinian nominato ambasciatore,
e questa cattedra
egli tenne fino
alla sua morte nel
1552 (M. Sanudo,
VI, 185). L'
8 agosto dello stesso
1504 s'addottorò parimente
in artibus Lorenzo
Venier, el Gobeto »,
del quondam Marino
procurator di S.
Marco, e gli furon
testimoni Giorgio Corner,
padre del Cardinale
e podestà di Padova,
Paolo Trevisan, capitanio,
Antonio Surian e Girolamo
Polani (Arch. Cur.
vesc. cit., f.
29or). Prima del dottorato
a Padova, egli
aveva tenuto le sue
conclusion », il
12 giugno, ai
Frari in Venezia,
disputando per più
giorni con Lorenzo Bragadin,
lettore di filosofia,
con Giovanni Badoèr,
dottore e cavaliere,
con Marin Zorzi,
anch'egli dottore, e con
alcuni frati (M.
Sanudo, VI, 31).
Il 21 maggio
1505 fu la volta
di Santo Moro
di Marino, che
ebbe a testimoni
Alvise Molin, podestà di
Padova, Angelo Trevisan,
capitanio, i due celebri
scotisti francescani Antonio
Trombeta e Maurizio Ibernico, lettori
nelle scuole del
Santo, e Pietro
Pomponazzi (Arch. Cur. Vesc,
cit., f. 417^).
L' 11 maggio
anch'egli aveva tenuto «le
conclusion ai Frari,
qual'è impresse» (M.
Sanudo, VI, 163). E
finalmente Antonio Surian,
nipote del patriarca dello stesso
nome, dopo una
disputa pubblica di
due giorni a Padova
e di un
giorno ai Frari
a Venezia [Giorn.
Crii. d. Filos. Hai.,
XXXI, 1950, p.
312), il 9
luglio 1506 ebbe
le insegne di dottore
in artibus da
Bernardino Speroni, prò
se ac Dominis Magistris Ioane
de Aquila, Benedicto
de Odis, Petro
Trapolino, Victore
Maripetro, Antonio de
Faenza, Francisco ab
Equis, Petro de Mantua,
Antonio Carrano et
Carolo de lanua
compromotoribus suis »
(Arch. Cur. Vesc,
cit., f. 371
v). Dal qual verbale
appare che Pietro
Pomponazzi, forestiero, era
stato, dopo quindici anni
di soggiorno padovano,
aggregato al Collegio dei
medici e filosofi
di Padova, Dallo stesso
Archivio della Curia
Vescovile, (voi. cit.,
f. 38ór) si rileva
che xA.ntonio D.
Petri Trapolini »,
il 19 dicembre 1506, ricevve
la prima tonsura
dalle mani del
vescovo Pietro Barozzi, il
quale venne a
morte di lì
a poco, il
io gennaio 1507. Questo
figlio del Trapolino
fu avviato allo
studio del diritto, e,
dopo alcuni anni
di vita dissipata,
rimessosi sulla buona strada,
professò Decretali e
Diritto Civile a
Padova fra il 1526
e il 1528.
Ma morì giovane il
6 settembre 1529,
se sono esatte le
notizie raccolte dal Facciolati
{Fasti Gymnasii Patavini, parte III,
pp. 106, 109,
128, 130, 131). Divenuto un
fiorente centro di
intesa vita intellettuale, lo studio
di Padova attirava,
oltre la nobiltà
veneziana e studenti di
molte parti d' Italia,
molti studenti d'oltralpe,
specialmente dalla Germania e
dalla Polonia. Fra
coloro che vi sostarono
per più anni,
è da ricordare
Nicolò Copernico, che, già
studente di diritto
e quasi certamente
anche delle Arti a
Bologna fra il
1496 e il
1500, a Padova
fu studente di medicina
dall'autunno del 1501
forse sino alla
primavera del 1505, e
a Padova certo
non può aver
trascurato lo studio della
matematica e dell'astronomia. A Padova
avevano insegnato queste
scienze il Peurbach
e il Regiomontano, ossia
Giovanni Muller di
Kònigsberg, e dipoi Francesco Capuano
di Manfredonia, i
quali avevano discusso le
osservazioni di Tolomeo
e quelle di
Albategni in rapporto ad
una revisione, che
si rendeva ogni
giorno più necessaria, delle Tavole
Alfonsine. Si parla
anche della fama
di profondo matematico goduta
da Pietro Trapolin,
considerato nientemeno che il
primomatematico del suo
tempo », sì
che per questa sua
fama accorrevano a
Padova, avidi d'ascoltarlo, scolari d'ogni
nazione » (G.
Vedova, Biogr. d.
Scrittori Padovani, II, p.
361). Alunno del
Trapolin e del
Pomponazzi era stato il
mantovano Benedetto del
Tiriaca che s'addottorò
in artihus il 20
dicembre 1494, promotore
il Trapolin che
gli conferì le insegne,
e testimone il
Peretto suo concittadino.
Dal 1498 al 1506
egli tenne la
cattedra di matematica
e astronomia con tanto
plauso che, avendo
dato le dimissioni,
bandito il concorso per
dargli un successore,
quando gli studenti
seppero i nomi degli
aspiranti a quella
lettura presero ad
agitarsi e chiesero che il Tiriaca
fosse richiamato sulla
cattedra, come fu fatto
con deliberazione del
Senato veneziano in
data 7 settembre 1508.
È arduo pensare
che fra il
1501 e il
1505 il giovane Copernico,
che era tra
i ventotto e
i trent'uno anni d'età,
non l'abbia avvicinato
e si sia
disinteressato dell' insegnamento del giovane
maestro di forse
due o tre
anni più anziano. Un confronto
dei ritratti dell'astronomo polacco,
e specialmente
dell'autoritratto, col giovane
matematico seduto e intento
a tracciare un
disegno nel quadro
del Giorgione i tre
filosofi », m'
ha indotto a
credere che questo giovane sia
proprio Copernico, studente a
Padova. Volgendo le
spalle a Tolomeo e
all'arabo Albategni, egli
è rappresentato dal
pittore di Castelfranco Veneto,
al centro ideale
e prospettico del quadro,
nell'atto di scrutare
la natura che
ha dinanzi e di
volgere le spalle
ad un sapere
che stava per
tramontare. Il 20 aprile
1506 Pietro Trapolin
era a Venezia,
presente alle solenni esequie
fatte a Marco
Antonio Sabellico nella
chiesa di S. Stefano.
Gian Battista Egnazio
fece l'orazione funebre dell'amico umanista
deceduto (M. Sanuto,
Vili, 329). Il Pomponazzi,
circondato dalla stima
e dall'affetto dei
suoi alunni e dei
colleghi, il 15
ottobre 1504, aveva
rinnovato l' ingaggio per tres
annos de firmo
et unum de
respectu » ; e in quell'occasione il
Senato gli aveva
portato lo stipendio
dai 180 ai 250
fiorini, motivando l'aumento
con la singolare
dottrina del filosofo e
coi bisogni della
numerosa famiglia da À mantenere (Venezia,
Arch. di Stato,
Sen. terra, Reg.
15, f. 37r). Quanto
alla numerosa famiglia,
sappiamo che sotto
Natale del 1500 egli
s' era sposato
con Cornelia di
Francesco Dondi dell' Orologio,
dalla quale aveva
avuto una o
forse già due figliolette. Per
parlare di numerosa famiglia,
bisogna pensare che egli
avesse a carico
altri parenti. Tanto
più che lo
stesso motivo del bisogno
in cui versava
per la famiglia
numerosa sarà addotto dal
Peretto per chiedere
un nuovo aumento
di lì a tre
anni, in occasione
del rinnovo dell'
ingaggio. Lo stipendio questa volta
gli fu portato
a 370 fiorini,
e il mantovano s'impegnò «per
annos septem proximos
» (Ib., f.
185V). Le cose dello
Studio patavino procedevano
dunque a gontie vele,
e quando, nel
novembre 1506, ad
Alessandro Achillini
costretto a fuggire
da Bologna, per
la caduta dei
Bentivoglio dei quali era
fautore, fu offerta
la cattedra di
filosofia naturale, secundo loco
», che era
stata del Fracanzano,
morto, come abbiamo visto
il 28 aprile
; si che
il bolognese si
trovò ad essere per
un biennio concorrente
del Pomponazzi. E
in disputa tra loro
al circolo dei
filosofi, al portico
pretorio, fra il palazzo
della ragione e
il Bò, li
ritrasse ambedue al
vivo Paolo Giovio, il
quale nel 1506
era alunno del
Peretto, e a
Padova rimase fino alla
primavera del 1507,
quando fece ritorno
a Pavia. Ma la serenità
che Bologna invidiava
a Padova non
durò a lungo e
un violento uragano
si abbatté su
questa, nel 1509, quando,
per il furore totius
fere Europae virium
in Rem Venetam conspirantium
», come con
bella frase si
legge sulla tomba del
doge Loredan nella
chiesa di San
Zane e Polo, Venezia
corse pericolo mortale
e le milizie
imperiali occuparono Padova il
6 giugno. Sembra
che proprio lo
stesso giorno dell'entrata dei
tedeschi in Padova,
morisse, non saprei
in quali circostanze, Pietro
Trapolin, in età
di 58 anni e venti giorni.
E fu certo
ventura per lui
che, giacendo nella
pace del chiostro di
S. Francesco, ov'era
la tomba della
famiglia Trapohna (nella
stessa chiesa riposa
il Roccabonella), non
ebbe a vedere lo
scempio della città,
il saccheggio della
sua casa e la
sciagura dei suoi
congiunti ed amici.
All'avvicinarsi del nemico, il
5 giugno, i
rettori della città
e il consiglio
cittadino, formato di 16
deputati, discussero a
lungo se arrendersi
o resistere. Et parlò
Alberto Trapolin, che
si voleno tenir
per la Signoria, e
non si dar
al re di
romani, si non
vedono mazor exercito eh'
1 nostro a
preso Padoa, ben
non voleno danno, ni
el nostro campo
entri in Padoa
», dice M.
Sanuto. (Vili, 352). Ma le
difese veneziane eran
deboli, e Padova
cadde. Vi fu un
principio di saccheggio,
ma una grida
rassicurò i cittadini; fu
formato un governo
provvisorio di otto
notabili padovani, e l'ordine
fu ristabilito (M.
Sanudo, Vili, 366-7).
Di questo governo fece
parte anche Alberto
Trapolin, Bertuzzi Bagaroto,
lettore di diritto
canonico e Lodovico
Conte. Qualche settimana dopo
il numero di
otto deputati fu
portato a sedici. Insieme ai
predetti fece parte
di questo nuovo
governo provvisorio anche un
altro dottore padovano,
Giacomo da Lion (M.
Sanudo, Ih., 439). L'ordine relativo
che regnava in
Padova consentì che i
professori dello Studio
continuassero a svolgere
i loro corsi e
a fare esami.
Così mi risulta
che il Pomponazzi
il 2 luglio
1509 era promotore nel
dottorato di Alvise
da Brescia (Arch.
ant. dell' Univ., Sacro
Collegio dei medici
e filosofi, n.
220, f. 30 v). Ed
altri esami si
tennero anche nei
giorni successivi. Ma i
veneziani mal si
rassegnavano alla perdita
di Padova, anche perché
sapevano che non
pochi padovani non
se la prendevano poi tanto
calda per Venezia,
e ricordavano che
nel tentativodi Marsilio da
Carrara, del 1435,
non pochi l'avevano favorito, e
la Signoria per
dare un esempio
memorabile, aveva fatto impiccare
nel 1437 una
sessantina di persone,
fra le quali l'avo
di Alberto e
di Pietro Trapolin.
Perciò si affrettarono a ricuperare
la città, affidando
l' impresa ad Andrea Gritti. Entrate
in Padova, il
17 luglio, le
milizie veneziane si dettero
a saccheggiare, nei
giorni seguenti, le
case dei fratelli Trapolin e
di altri padovani,
compromessi o sospetti,
mentre Alberto, col fratello
Roberto e con
Ludovico Conte, s'asserragliò nel palazzo
del Capitanio, ove
fatto prigione fu
mandato a Venezia, coi
suoi compagni, per
render conto del
suo contegno verso la
Signoria. È appunto
col ritorno dei
veneziani che cominciarono i
maggiori guai per
Padova. Nell'elenco delle case
saccheggiate che menziona
M. Sanudo (Vili,
523, 453), figurano quelle
dei fratelli Alberto,
Roberto e Nicolò Trapolin, e
quella di Francesco
loro nipote, e
figlio del u quon
m dam maistro Pietro,
medico ». La
stessa casa di
maestro Pietro, ove viveva
la vedova Maria,
coi figli Giulio,
Alessandro ed Alba, non
fu risparmiata, e
pare che in
questo saccheggio andassero distrutti
per intero le
opere manoscritte e
i corsi di lezioni
da lui tenute.
M. Sanudo poi
e' informa (IX,
52) che il 14
agosto anche Julio
Trapolin, fo fiol
di missier Piero
», fu fatto prigioniero
e dal capitanio
di Padova spedito
a Venezia con altri
14 compagni per
esser giudicato. Ma anche
ripresa dai Veneziani,
Padova rimaneva sotto
la minaccia degli imperiali
che ne occupavano
i dintorni immediati e
alla fine di
settembre tentarono di
fare di nuovo
irruzione in città. Soltanto
ai primi di
ottobre i tedeschi
levarnoo il campo. Intanto l'università
aveva ricevuto un
fiero colpo: maestri e
studenti nel mese
di luglio ed
agosto cominciarono a
prendere il largo, e
taluni non vi
ritornarono piìi, altri
soltanto più tardi. Fra
quelli che non
ritornarono, è il
Peretto Mantovano,
nonostante l' ingaggio per
sette anni preso
da lui un
anno prima. A dir
il vero, il 3 aprile
gli era morta
la moglie ed era
rimasto con due
bimbette ancora in
tenera età. Nel
luglio o nell'agosto, forse
dopo essersi in
fretta riammogliato con Ludovica
del nobile Pietro
da Montagnana, cittadino
padovano che ritengo abitasse
nella contrada di
S. Lucia, lasciò Padova
con la famiglia,
forse per riparare
a Mantova, portando con
sé il ricordo
dello Studio patavino,
delle battaglie
chev'avevacombattuto, degli alunni
che a lungo
gli attestarono la loro
devozione, primi fra
tutti Lazzaro Bonamico
da Bassano, Gaspare
e Marcantonio Contarini,
e dei colleghi,
e in particolare di
quello che era
stato suo maestro
e poi caro amico,
Pietro Trapolin. Invece
Marcantonio Zimara da S.
Pietro in Galatina
già alunno e
poi fiero avversario
del Pomponazzi, dopo
aver girovagato in
patria, a Salerno
e a Napoli, vi
fece ritorno per
tre anni solo
nel 1525. Non è
esatto per altro
che lo Studio
venisse chiuso per
otto anni, fino al
1517, poiché dagli
Ada graduimi dell'Archivio della Curia
Vescovile risulta che,
per esempio, 1'
8 maggio 15 io fece
il dottorato in
artibiis Matteo Binno
de' Tomasi figlio di
Maesto Jacopo chirurgo
veneziano, ed ebbe
le insegne da Nicolò
Genua (voi. 49,
f. 4V) ;
il 2 dicembre
1511 s'addottorò ugualmente in
artibus Girolamo Oldoino,
e fra i
testimoni era Marcantonio Genua
figlio del dottore
Nicolò; il 13 ottobre
1512 ebbe le
insegne di dottore
pure in artibus il
Magnifico e generoso
Francesco del fu
Chiarissimo Gabriele
Morosini, promotore lo
stesso Nicolò Genua,
e testimoni i
Magnifici Giambattista Spinelli
partenopeo, dottore.] cavaliere, conte
di Cariato e
oratore massimo di
Sua Maestà Cattolica, Pietro
Duodo, podestà di
Padova, Alvise Emo, Capitanio, nonché
i Reverendi Leonardo
Contarini, dottore in artibus,
in teologia e
in decreti, e
Girolamo Giustinian,
canonico patavino (f.
I2ir). Ed altri
dottorati ebbero luogo,, come
può vedersi negli
stessi Ada della
Curia Vescovile e in
quelli più volte
ricordati dell'Archivio antico
dell' Università, per quanto
lacunosi. Certo è, per altro,
che la attività dello Studio,
sia per il
minor numero degli
alunni, sia per scarsità
di buoni maestri,
fu assai ridotta
fino alla ripresa del
1518. Nel quale
anno, al io
giugno (voi. 52,
senza numero dei fogh),
troviamo il dottorato
in artibus di
Speronello figlio dello
Spettabile ed esimio
dottore Bernardino Speroni, nobile
padovano, presenti come
testimoni i Magnifici Paolo Donato,
podestà, e Marcantonio
Loredan, degnissimo
capitanio, non che
i tre nobili
veneziani Almorò Donato, Pietro
Venier, Giacomo Loredan. Dopo la
deportazione a Venezia
dei fratelli Alberto
e Roberto Trapolin, del
loro nipote Giulio,
lìglio di Pietro,
e degli altri che
s'erano compromessi nei
fatti di Padova, più
di 100 per sospetto,
oltra li ritenuti»
(M. Sanudo, IX,
73), fu fatto il
processo a carico
di Alberto Trapolin fratello
di misier Piero dotor
excellentissimo, el qual
Alberto era di
XVI al governo di
Padoa, homo di
gran inzegno, et
anche suo avo fo
apicato a Padoa
a tempo di
la novità di
misier Marsilio di Carrara
dil 1437 », di Lodovico
Conte, fato cavalier
per r imperator presente
novitev », di
Bertuzi Bagaroto, dotor, qual
lezeva publice in
iure canonico a
Padova et havia
300 ducati a l'anno
di la Signoria,
era richo e
famoso », e
di Giacomo da Lion dotor,
el qual fé'
la oration a l'
imperator (cioè poco dopo
il 6 giugno;
l'orazione è riportata
da M. Sanudo, Vili,
468-469) quando se
deteno padoani, ne
la qual dice gran
mal de' venitiani
». Il Consiglio
dei X con
la Zonta fu implacabile
con questi quattro
padovani, che vennero
impiccati il sabato, 1°
dicembre 1509. M.
Sanudo, IX, 358-359, che
ci dà alcuni
particolari della loro
impiccagione, e' informa anche
che i loro
beni furono confiscati,
e aggiunge: Restane a
spazar li altri
padoani »! Della fine
d'Alberto Trapolin e
dei suoi compagni
parla anche il vicentino
Luigi da Porto,
che assistè al
supplizio {Lettere
storiche.... dall'anno i^og
al 1528.... per
cura di Bressan.
Firenze, Le Monnier,
1857, lettera ad
Antonio Savorgnan, del
18 dicembre 1509,
pp. 147-153). Del
Trapolin dice che era
profondissimo filosofo e
teneva alquanto dell'epicureo », sì che
pareva
che non accettasse
con tanta riverenza, né
con tanto desìo
le cose sante
dette da' religiosi con
quanto gli altri
facevano; ma taciturno,
ovvero dicendo alcuna fiera
parola contro i
Viniziani, aspettava l'ora
del fine suo». E
dinanzi alle forche,
«voltato messer Bertucci
al Trapelino disse: '
Ecco il legno
della nostra croce
'. ' Ecco —
rispose egli —
il luogo dove
la nostra innocente
vita da una ingiusta
morte sarà terminata
' ». Pare invece
che Roberto e
Nicolò, altri fratelli
di Pietro, e il
figlio di questo,
Giulio, se la
cavassero a buon
mercato. Poiché di Nicolò
ci vien narrato
(Papadopoli, Hist. gymnasii patav.
t. II, 210,
n. 85) che
andò in Germania
al seguito dell' Imperatore
Massimiliano, da cui
ebbe onori, e quindi
si mise al
servizio di Carlo
V, prese parte
all'espugnazione di Tunisi, della
quale scrisse la
storia; infine si
riconciliò, già vecchio, con
Venezia, e potè
ritornare a Padova, ove
morì a 94
anni nel 1559.
Di Roberto Trapolin
consta (Padova, Arch. di
Stato, Estimo 1518,
voi. 288 (289),
Polizze della Città, Polizza
49, presentata il
29 sett. 1518)
che nel 15 18 si
trovava ad bavere
5 fioli, 4
menori, de li
quali.... tre fiole da
maridare ». e
che egli era confinato
in Venetia, dove sto — egli
diceva — cum
spesa, né posso
veder li fatti miei
et convegno pagar
uno fator et
ogni cosa me
va in ruina
». Il 31 luglio
1543 egli era
già morto poiché,
Trapolin de' Trapolin suo
figlio presenta a
nome degli eredi,
a questa data, la
prescritta dichiarazione all'ufficio
dell'estimo. Di Giulio
consta che nell'ottobre 1515,
insiem.e al fratello
Alessandro, ebbe procura dalla
madre. Maria del
fu Francesco de'
RoselH, nella causa che
questa aveva intentato
per l'eredità paterna.
Gli stessi Giuho e
Alessandro compaiono ancora
insieme alla madre nel
contratto di nozze,
del 7 giugno
1518, della loro sorella
Alba col nobile
padovano Gaspare del
fu Daniele Buzacarini, abitante
nella contrada di
S. Agnese (Padova, Arch. di
Stato, Sez. notar.,
Not. Alessandro Bragadin,
voi 1391, f. 48ir).
Ma Giulio morì
a 44 anni
nel 1529, cioè
l'anno stesso in cui
sarebbe morto l'altro
fratello, Antonio, secondo
il Facciolati, e
fu sepolto a
S. Francesco, insieme
al padre, prima che
la tomba di
famiglia dei Trapolin
divenisse proprietà dei 176
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI nobili De Lazzara,
figli di Marina
Trapolina, che non
è detto in quali
relazioni di parentela
fosse col filosofo
e i suoi
eredi (lac. Salomonio, Urbis
patav. Inscriptiones, Padova,
1701, p. 343, n.
102). Alessandro invece
era ancora vivo
nel 1548, quando, insieme
a M. Antonio
e Pietro, nipoti
del filosofo, provvide a far trasportare
nella chiesa dei
Carmini le ossa del
padre e della
madre e di
altri suoi maggiori,
in una tomba che
avesse da accogliere
lui e tutti
i suoi, come
si legge nelr
iscrizione riportata dagli
storici di Padova
(PapadopoU, Hist. gymnasii patav.,
I, p. 293,
n. 30); anzi,
dalla già citata Polizza 49
dell' Estimo del
1518 risulta ancor
vivo il 3 maggio
1569. E Francesco Trapolin,
che sull'esempio paterno insegnò
a Padova prima la
logica, indi la
filosofia naturale, e di poi la
medicina ? I
documenti padovani tacciono
di lui, dopo
il saccheggio della sua
casa nel luglio
1509. Può darsi
ci sia qualcosa di
vero nella notizia
raccolta anche dal
Portenari, Della jelic. di
Padova, p. 251,
che egli andasse
a legger medicina
a Firenze. G. Cesare
Scaligero, De subtilitate,
CLII, dist. i,
pretende di sapere che Francesco
Trapolin, precettore di
Pietro Pomponazzi, che
anche un'altra volta
lo Scaligero chiama
suo precettore, morì per
aver mangiato un
intingolo ove la domestica
aveva messo della
cicuta invece di
prezzemolo. Se non che
precettore del Pomponazzi
non fu Francesco
Trapolin, ma Pietro, il
padre. Lo Scahgero,
o meglio Giulio
di Benedetto Bordone, addottorato
in artihus a
Padova il 22
giugno 1519, mostra, anche
per questa confusione,
di riferire dopo
molti anni una voce
raccolta per sentito
dire. Certo è
invece, per l'attestazione dell'Estimo
citato (Polizza 51),
che la nobele Madonna
Maria Trapolina » era, nel
settembre 1518, tutrize
et gubernatrice de
i fioli del
q. messer Francesco
Trapolin, q. m. piero....
)>. A questa
data dunque Francesco
era morto. E forse
suo figlio, se
non di Alessandro
o di Giulio, potrebbe essere
quel Pietro Trapolin
che figura come
nipote nell'epigrafe
sepolcrale dei Carmeni
e fa denuncia
dei suoi beni all'ufficio
dell' Estimo il 30 marzo
1569 (Polizza 52,
f. 7). Costui è
sicuramente l'autore delle
21 lettere originaH
scritte fra il 7
aprile 1556 e
il 2 marzo
1574, a Gian
Francesco Mussato nel Ms.
619, 2, della
Biblioteca del Seminario
di Padova. A questo
figliuolo Pietro Trapolin
aveva trasmesso, col
conferimento delle insegne dottorali
in filosofia, e
in medicina il meglio
della sua arte,
ed egli avrebbe
dovuto custodirne l'eredità spirituale. Invece
l'oblio colse il
figlio anche prima
del padre. Poiché se
di quello resta
appena il nome
nelle carte sbiadite della
Curia Vescovile e
dell'Archivio antico dell'
Università di Padova, di
questo ci son
pervenuti almeno i
pochi frammenti menzionati in
principio, insieme alla
gloria d'essere stato ricordato
dal suo grande
discepolo ed amico
Pietro Pomponazzi come suo
precettore (Prologo al
De incantationihiis) : Dicisque
ulterius te quandam
responsionem alias a Petro
Therapolino patavo, nostro
communi praeceptore,
audivisse, quam ipse
Alberto ascribebat.... ». Queste
parole sono rivolte
a Ludovico Panizza, cui
il Peretto indirizzava
la sua opera;
sebbene dalle stampe
non appaia, è attestato
però dal codice
Ambrosiano di essa.
Ludovico Panizza, mantovano, era
studente a Padova
negli ultimi anni del
Quattrocento e nei
primi del Cinquecento;
e nel voi. 47,
più volte citato,
di quella Curia
Vescovile (f. 278V),
c'è anche il verbale
del dottorato in
artibus et Medicinis
D. M.ri Ludovici panicia
Mantuani, filij D.
Dominici de panici] s
», ov' è detto
che dell'uno e
dell'altro grado accademico habuit insignia a
D. M.ro Petro
trapolino ». Fra
i testimoni figura al
primo posto Pietro
Pomponazzi, artium doctor,
ordinariam philosophiam legens
». Il Paniza
è autore di
tre opere a stampa:
di una Qnestio
de phlebotomiis fiendis
(Venetiis, per Bernardinum Benalium,
M. D. XXXII),
dedicata al duca Federico
Gonzaga, e di
un Commentarium de
venae sectione per sex
egregios et praeclaros
iudices diindicatum, cui
si trova aggiunto dello stesso
autore il Lihellus
de minoratione ex
visceribtts.... ad Herndem
Gonzagam Principem iustissimum
et Cardinalem amplissinitmi (Venetiis,
MDXLV). Quest'ultimo volume ha
in principio un bel ritratto
dell'autore e una tavola
raffigurante i sei
medici e filosofi
in atto di
giudicare e approvare la
sua opera. Nella
Qnestio de phlebotomiis,
scritta contro un chiarissimo
medico del quale
non è indicato
il nome, accade al
Panizza di ricordare
l'antico maestro che
gli aveva conferite le
insegne dottorali. Accennando
ad Avicenna che fu
il migliore seguace
d'Aristotele, dal quale
discorda solo «in paucissimis
admodum rebus», egli
continua (f. e. 4r;
Sectio II, cap.
7): Ideo Trapolinus, preceptor
meiis, sue etatis
philosophorum ac medicorum gloria,
autoritate Girardi bolderii
Veronensis, 12 lyS
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI hanc dicebat profitentibus
arteni: ' Insequimini
Avicennam, primo;
insequimini Avicennam, secundo;
insequimini Avicennam,
tertio !
'. E un po'
più giù (f.
g. 2v cap. 24), a
proposito d'un'argomentazione subtilissima
et tota.... metaphisicalis »,
osserva: Ex quo non
mirum si medici
ista non intellexere,
artifices sensitivi
grossique cum sint;
stat enim in
abstractis a materia.... Sed ex
sententia perspicui speculatoris
Petri trapolini, artifices huius artis
res tales e
suis expellere mentibus
tenentur, cum medicina sit
de immersis in
materia et quandoque
feculenta et turpi. Ma
se il Paniza
ricorda il Trapolin
come insigne medico, M.
Antonio Genua, figlio
di Nicolò che
del Trapolin era
stato collega per molti
anni, continuò a
ricordarlo (sicuramente
l'aveva conosciuto da
ragazzo) anche come
filosofo di tendenze moderatamente averroistiche, insieme
al Pomponazzi, nel commento
al De anima,
stampato postumo (a
Venezia nel 1576), ma
composto almeno un
ventennio prima. Altre notizie
su questo maestro,
amico e collega
del Peretto Mantovano non
sono riuscito a
rintracciare, ed ho
riunite quelle che ho
trovato per chi,
come dicevo e
come mi auguro, vorrà
intraprendere più ampie
ricerche sullo Studio
patavino nel Rinascimento. Intanto
son lieto di
potere annunziare che altre
notizie e documenti
sulla famiglia Trapolin,
coinvolta nelle vicende di
Padova al momento
della guerra per la lega di
Cambrai, il lettore
potrà trovare nella
A Criticai Edition of
the Lettere Storiche
» 0/ Litigi
da Porto, a
cura di Cecil H.
Clough, in corso
di stampa presso
1' University Press
di Oxford. vili I QU OLI
BETA DE INTELLIGENTIIS DI ALESSANDRO
ACHILLINI * I. Se
a Padova il
decreto episcopale del
6 maggio 1489, vietava
di disputare quovis
quaesito colore »,
sotto qualsiasi pretesto, della
dottrina averroistica dell'
intelletto, meno che per
combatterla, e maestro
Nicoletto da Chieti
e il suo discepolo
Agostino Nifo da
Sessa si affrettavano
a recitare la loro
palinodia, e la
penna a impugnare
l'averroismo brandiva anche lo
scotista francescano Antonio
Trombetta i, a
Bologna, sotto la liberale
signoria dei Bentivoglio,
Alessandro Achillini potè liberamente
discutere, al capitolo generale
dei francescani tenuto in
questa città, sotto
il generalato di
Francesco San* Dal
voi. Sigieri di
Brab. nel pens.
del Rinasc. Ital.,
cit., pp. 45-90. I
II francescano frate
Antonio Trombetta, ordinario
di Metafìsica invia Scoti
a Padova, aveva
scritto, prima del
Vernia, un Tvactatiis
de humanaruiìi animarmn
plurificatioiie coìitra Averroistas,
che sarà poi
pubblicato a Venezia, per
Bonetum Locatellum, nel
1498, col quale
scendeva in lizza
in difesa della proibizione
del vescovo P.
Barozzi. Il Wadding,
Scriptoves Ordinis Minornni, Roma,
1906, p. 30,
e' informa che
taluni, anzi che col
nome volgare di
Trombeta o Trombetta,
preferivano cultu quodam latino
» di chiamarlo
con quello di
Tubefa; e Antonio
Tubefa è chiamato anche nell'epitaffio sepolcrale
nella chiesa di
S. Antonio a
Padova, che il Wadding
riporta. Sul finire
delle Questione s de
pliiritate etc, cominciate nel
settembre 1492 e
pubblicate nel 1499
(v. sopra, p. 108),
il Vernia scriveva
(f. 92) : Si
quis vero, per
resolutionem ad immediata et
per divisionem ad
minima, argumentationes contra Averroym, in hoc quinto
[commento] philosophice discipline
depravatorem, videre desiderat,
videat, opus contra
ipsum reverendi sacre pagine
magistri Antoni] Trombetta,
philosophi integerrimi et
theologi excellentissimi,
provincie sancti Antoni]
Patavini ministri meritissimi. Nam frustra
visum est mihi
tangere que ab
eo mihi amicissimo
sunt optime declarata ».
E il Trombetta,
che è il
primo dei tre
revisori dell'opera del \
ernia, rende testimonianza, a
sua volta, al
sapere del collega e
alla fede di
lui, si da
procacciargli l'approvazione del
sospettoso Barozzi.] sone,
il primo giugno
1494, presenti forse
il Nifo e
Giovanni Pico della Mirandola,
i suoi Quoliheta
de intelligentiis ^, in
difesa della sua
interpretazione sigieriana della
dottrina averroistica, portata
alcuni anni più
tardi a Padova
dal suo fìdus Achates
», Tiberio Bacilieri,
e da lui
stesso, e a Padova professata da
Geronimo Taiapietra e
da Lorenzo Venier
3, quando ormai il
Nifo, che n'era
stato propugnatore fin
dai primi anni del
suo insegnamento padovano
-, l'aveva apertamente
ripudiata. In quest'opera l'Achillini
è sigieriano da
principio alla fine, sebbene
egli, secondo un
costume molto diffuso,
non faccia mai il
nome dell'averroista brabantino
né d'alcun altro, tranne
si tratti di
Aristotele o d'Averroè
o d'altra autorità pari
a queste. E,
cosa notevole, le
opere di Sigieri
cui egli attinge, sono
quelle stesse dalle
quali il Nifo
prende le citazioni che
ho riferito nel
volume su Sigieri
di Brahante nel
pensiero del Rinascimento Italiano:
il che si
presterebbe a varie
congetture. Come sappiamo, le
tesi difese da
Sigieri nel suo
trattato De intellectu, scritto
in risposta al
De imitate intellectiis
di S. Tommaso,
erano queste: i) r
intelletto possibile è,
in sé stesso,
l' infima delle sostanze separate, ed
è unico per
tutta la specie
umana 4; 2) l'anima
intellettiva dell'uomo risulta
dall'unione dell' intelletto possibile,
separato ed eterno,
colla «cogitativa» che 2
Alexandri Achillini bononiensis
de intelligentiis quolibeta
in quibus quid commenta[for]
et Aristoteles senserint
et in quo
a veritate deviaverint continetur.
Anno domini Mcccclxxxxiiij Kalendis
iuniis in capitulo generali
minorum edita et
impressa Bononie impensis
Benedicti Hectoris [Faelli]
Bononiensis, illustrissimo Ioanne
secundo Bentivolo reipublice
Bononiensis habenas felicitar
moderante. La seconda edizione, fatta
presso lo stesso
editore Faelli, porta
la data del
5 marzo 1506, ed
è dedicata al
conte Annibale Rangoni,
che giovinetto aveva udito
l'Achillini disputare intorno
agli argomenti trattati
nel libro ed aveva
preso attiva parte
alle dispute. Intorno
al Rangoni, cfr.
G. TiRABOSCHi, Biblioteca
Modenese, t. IV,
1783, pp. 252-256. 3
Per il Taiapietra,
vedi più oltre
il saggio X.
Per Lorenzo Venier, allievo del
Bacilieri, è da
vedere il volume
di Nicolò Bonet,
Metaphys., naturai. Philos., Praedicam.,
necnon Theol. natur.
Recogn. ... per
magnif. dom. Laurentium Venerium....
Venetiis, Eredi di
Ottav. Scoto, 1505, con
lettera del Bacilieri
al Venier, e
dedica di questo
al doge Leonardo Loredan. Le
note marginali del
Venier risentono dell'
insegnamento del suo maestro
bolognese. 4 Nifo, De
intellectu, I, tr.
3, e. 18; tr. 4,
e. io; II,
II, tr. 2,
e. 11; De anime
beatit., I, comm.
53; cfr. Sigieri
ìiel pens. è la
più alta delle
facoltà di cui
sia dotata l'anima
sensitiva dei singoli 5 ; 3) in
questa unione coi
singoli l' intelletto, uno
in sé, acquista un'esistenza
individuale e molteplice,
pari al numero dei
singoli ^ ; 4)
mercé questa unione,
l'anima intellettiva può
dirsi forma sostanziale «inerente»
all'uomo, e non
soltanto forma «assistente»; sì
che da essa
l'uomo trae il
suo essere specifico
di animale ragionevole 7 ; 5) r
intelletto possibile è pura potenza
priva di ogni
atto sostanziale; soltanto grazie
all'azione dell'intelletto agente la
sua potenza è
gradualmente attuata 8; 6)
r intelletto agente
è Dio ;
ma esso può dirsi parte
della anima umana in
quanto concorre all'atto
dell' intendere umano e
alla fine dello
sviluppo intellettuale dell'uomo
s'unisce all'intelletto
possibile come forma
9; 7) r intelletto
umano può arrivare
a conoscere le
sostanze separate e Dio
per unione intenzionale
colla loro essenza
'". Nel libello
» De felicitate,
poi, l'averroista del
Brabante aggiungeva
quest'altre tesi: 8) nell'atto
intellettuale col quale
l' intelletto possibile
intende nella sua
essenza V intelletto
agente, cioè Dio,
consiste formalmente la suprema
felicità dell'uomo in
questa vita" ; 9)
al pari dell'
intelletto umano, anche
le altre intelligenze separate conseguono
la loro beatitudine
nell'atto col quale intendono
l'essenza divina i ; 5
NiFO, De iutell.,
I, tr. 3,
e. 18; De
anima, comm. ad
III, t. e. 5;.
cfr. Sigieri, pp.
15-ig. 6 NiFO, De
intell., I, 3,
e. 18 e
26; De a>iima,
comm. ad III,
t. e. 5: cfr.
Sigieri, pp. 15-20. 7
NiFO, De ititeli.,
l, tr. 2,
e. 8; tr.
3, e. 18
e 26; De
anima, comm. ad III,
t. e. 5;
cfr. Sigieri, pp.
15-20. 8 NiFO, De
intell., I, tr.
3, e. 18;
tr. 4, e. io; De
anima, collect. ad III,
t. e. 14; cfr. Sigieri,
De anima intell.,
IX (Mandonnet, Sig. de
Brabant et l'averr.
latin,
llème partie, Louvain,
1908, p. 171),
e la quarta delle
sei Qitaestiones naturales
edite dallo Stegmùller,
in Rech. de tìiéol.
anc. et méd.,
III, 1931, pp.
179-180. Cfr. Sigieri,
pp. 17, 21,
28. Vedasi anche Giorn.
Crit., XX, 1939,
pp. 467-471. 9 NiFO,
De intell., I,
tr. 4, e.
io; II, tr.
2, e. 17;
cfr. Sigieri, pp.
24-26. 10 NiFO, De
intell., II, tr.
2, e. 11; De anime
beatit., I, comm.
53; V. Sigieri, p.
21. " NiFO, De
intell., II, tr. 2, e.
2; De anime
beat., II, comm.
21; V. Sigieri, pp.
24-27. 12 NiFO, De
intell., II, tr.
2, e. 2
e 17; De
anime beatit., II,
comm. 21; De anima,
collect. ad III, t.
e. 14; v.
Sigieri.] o) sì per
r intelletto umano,
sì per le
altre intelligenze separate, «intellectio
qua Deus intelligitur
est ipse Deus» '3. Ora
tutte queste tesi
son difese dall' Achillini nei
suoi Qtioliheta de
intelligentiis; anzi la
massima parte di
quest'opera del maestro bolognese
è dedicata alla
trattazione di questi
dieci punti svolti negli
scritti di Sigieri,
dei quali il
Nifo ci ha rivelato
l'esistenza; il che
m' ha recato,
quando ho potuto
rendermene conto, non poca
sorpresa. La trattazione dell'Achillini verte
intorno a questo
problema fondamentale : Utrum
latitudo intellectuum sit
uniformiter difformis ». Per
intendere l'esatto
signiiìcato di questo
problema, giova ricordare alcune
cose. È noto
che Anassagora, a spiegare
l'origine del movimento
fisico che separa
i semi delle cose
dal \ny\La. nel
quale eran tutti
confusi, e per
dar ragione dell'ordine che
s'osserva nella natura,
sentì il bisogno
di porre una mente
ordinatrice, «non mista
perché dominasse ))i4. Ma parve
a Platone e
ad Aristotele che,
pur avendo affermato un
così operoso principio,
Anassagora non ne
traesse tutto il vantaggio
che poteva e
non gli attribuisse
quella causalità che gli
sarebbe spettata nell'ordinamento delle
cose. Perciò, il primo
ad ogni specie
di cose nel
mondo sensibile fece corrispondere
una propria idea
nel mondo del
pensiero; ed il secondo
pose tante menti
separate quanti, a
suo modo di vedere,
sono i movimenti
celesti. Anzi che
un solo intelletto, abbiamo così
per Aristotele una
gerarchia d' intelhgenze, comprese fra
due termini estremi:
l'intelletto umano in
basso, e la mente
del primo Motore
immobile, puro pensiero,
al vertice. Come le
idee dei generi
e delle specie
hanno una maggiore
o minore estensione, così
questi intelletti hanno
una maggiore o minore
capacità d' intendere, in
rapporto alla funzione
che ad essi è
riservata come motori;
poiché non va
mai dimenticato che solo
per mezzo del
movimento Aristotele, al
pari di Anassagora, era
giunto ad affermare
l'esistenza d'una prima Mente
motrice dell'universo e di altre
menti intermedie fra quella
e il mondo
della generazione, aventi
l'ufficio di adattare r
impulso che viene
dal primo Motore,
a particolari fini
subordinati al fine supremo.
Perciò la prima
Mente è intelligenza al massimo
grado, mentre gli
altri intelletti, giù
giù ^3 Luoghi cit.
nella nota preced. 14
ARisT., De anima,
di cielo in
cielo, fino all'
intelletto umano, possiedono
una capacità d' intendere sempre
più limitata. Rappresentandosi r intelligenza
a guisa d'una
qualità, per esempio,
d'un colore, di cui
s' hanno molti
gradi d' intensità, da
quello piìi cupo a
quello più chiaro,
gli scolastici dal
secolo XIV al
XVI solevano chiamare latitudo
l'estensione compresa fra
la cosa che
possiede quella data qualità
nel minimo grado,
e la cosa
che la possiede nel
grado più alto
e più intenso:
perciò la latitudo dell'intelligenza non
è altro, come
dice l'Achilliniis, se
non la gerarchia stessa
degl' intelletti, avente
il grado più
basso o più dimesso
nell' intelletto umano,
e il grado
più alto o
più intenso neir intelletto
divino. Chiedersi se
la latitudo degl'
intelletti sia uniformiter difformis
», significa per
lui domandarsi se le
varie intelligenze differiscon
fra loro per
gradi uguali oppure
no 16. Ma per
risolvere siffatto problema,
è necessario vedere qual' è
la natura propria
dei singoli intelletti
compresi nella 15 Latitudo
intellectuum est ipsi
intellectus ordinati secundum quod
ex se sunt
ordinabiles ». De
intelligentiis, quol. I,
in Alex. AchilLiNi,
Bononiensis, philophi celeberrimi.
Opera omnia in
iDium collecta.... cum annotationibus excell.
doctoris Pamphili Montij,
Bononiensis, scholae Patavinae publici
professoris. Venetijs, apud
Hieronymum Scotum, MDXLV, fol.
i, col. i.
A questa edizione
mi riferisco anche nelle
citazioni successive, per
ragioni di comodità. 16
In un trattatello
De latitudinibus formarum,
più volta stampato dal
i486 in poi
sotto il nome
di Nicolò d'Oresme,
si leggono in
principio queste definizioni che
giova tener presenti
: Latitudo uniformis
est illa que est
eiusdem gradus per
totum ». Latitudo
difformis est que non
est eiusdem gradus
per totum ».
Questa si divide
come segue: Latitudo secundum
se totam difformis
est cuius nulla
pars est uniformis »; latitudo
non secundum se
totam difformis est
illa cuius aliqua pars
est uniformis». La
«latitudo uniformiter difformis»
è una sottospecie della latitudo
secundum se totam
difformis », ed
è precisamente quella cuius
est equalis excessus
graduum Inter se
equaliter distantium »
{Tractatus de latidinibus
formarum secundum Reverendum
dodorem magistrum Nicholaum
Horen, Venezia, 1505,
[fol. 27]). Sull'autore
di questo piccolo
trattato, l'eremitano Iacopo
di San Martino, detto anche
Iacopo da Napoli,
il quale riassunse
e schematizzò, non
del tutto fedelmente, un
più ampio trattato
di Nicolò d'Oresme,
come sul sommento di
Biagio Pelicani da
Parma che insegnò
anche a Padova
e a Bologna, e
in generale sul
tentativo di costituire
verso la metà
del sec. XIV un
metodo matematico per
il calcolo dell'
intensità delle qualità non
solo corporee ma
anche spirituah, completa
luce ha fatto
la Dott. Anneliese Maier,
nella sua opera
An der Grenze
von Scholastik iind Naturwissenschaft. Roma,
Ediz. di Storia
e Letter., 1952.
pp. 257-384, che è
uno dei più
seri e documentati
contributi allo studio
della filosofia della natura
nel secolo XIV,
condotto con rara
conoscenza delle fonti manoscritte, e
perfetta intelligenza dei
problemi trattati. 184 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI latitudo di
quella perfezione o
qualità che dicesi
intelligenza: e segnatamente se
il primo e
più alto intelletto
sia intelligenza infinita. Nel
qual caso, è
evidente che la
latitudo dell' intelligenza sarebbe infinita. Occorre pertanto
chiedersi in primo
luogo se il
primo Motore, cioè Dio,
muova l'universo con
vigore o virtù
intensivamente infinita, e sia
perciò di vigore
intensivamente infinito. Per intendere
il significato del
qual problema, è
necessario ricordare che l'argomento
principale, col quale
Aristotele era salito a
Dio, è quello
del moto, come
abbiamo già osservato: Dio è
essenzialmente il primo
Motore immobile dell'
universo, è l'universo è
il mosso. Ora
l'universo, per Aristotele
come pei Pitagorici, è
una sfera di
raggio finito, avente
per centro assoluto la terra e
per limite esterno
il cielo delle
stelle fisse. Finito nella
mole, il mondo
si muove con
moto finito in velocità,
e infinito soltanto
in durata, poiché
l'universo è eterno. Dall'
intensità del moto
dell'universo non si può dunque
arguire ad un' infinità
intensiva della virtù
o vigore con
cui Diomuove il
mondo. Ed infatti
Averroè dice espressamente
in più luoghi 17,
che v' è
proporzione tra l' intensità
di vigore nel movente
e la velocità
del mosso; sì che
un'azione d'intensità infinita e d'
infinito vigore non
può esser ricevuta
in un corpo di
grandezza finita. Se
il primo Motore
movesse il cielo
con virtù intensivamente infinita,
questo dovrebbe muoversi
con velocità infinita in
un solo istante.
S. Tommaso credette
di potersi sottrarre alla
conclusione cui era
giunto Averroè, concedendo che tutto
ciò è vero
dei motori naturali
che mettono nel muovere
tutta la forza
di cui sono
capaci; ma non
è vero dei motori
che agiscono con
intelletto e libera
volontà, qual è Dio.
Il primo Motore
dell'universo, per l'Aquinate,
appunto perché dotato d' intelligenza e
di libero volere,
comunica al mondo quel
tanto di movimento
che meglio si
conviene, in rapporto al
fine che si
propone di raggiungere
e alla capacità limitata del
mosso; ma questo
non implica che
vi sia una proporzione necessaria
tra la quantità
di movimento ricevuta dal
mondo e la
virtù del primo
Motore, l' infinità della
quale può dimostrarsi per
altra via i^. 17
AvERR., Phys., Vili,
comm. 79; De
caelo, II, comm.
38-39, 63, 71 ;
Metaph., XII, 41;
De substantia orbis,
cap. 3. 18 S. Tommaso,
Phys., La proposizione
29^ delle 219
condannate a Parigi
nel 1277, suona così: Quod
Deus est infinitae
virtutis in duratione,
non in actione, quia
talis infinitas non
est nisi in
corpore finito, si
esset. E di nuovo
la proposizione 62^: Quod
Deus est infinitae
virtutis, non quia
facit aliquid de nihilo,
sed quia continuat
motum infinitum '9. La
condanna di queste
due proposizioni è
sicura prova che, anche
su questo punto,
gli averroisti parigini
accettavano r
interpretazione che Averroè
aveva dato del
pensiero d'Aristotele. Era di
questo avviso anche
Sigieri ? De
ista quaestione »,
— e' informa
Giovanni di Jandun
-o — credunt magni
viri in philosophia,
Philosophum et maxime
Commentatorem veritati catholicae
adversari ». Che
egli alluda a S.
Tommaso non è
possibile, poiché l'Aquinate
scagionava Aristotele da quest'accusa
d'opporsi alla verità
della fede su quest'argomento. Doveva
dunque trattarsi d'averroisti.
Ora vir magnus in
philosophia » è
titolo che troviamo
dato a Sigieri. Parrebbe
dunque che Sigieri
accettasse l' interpretazione
averroistica della dottrina
aristotelica in proposito. Il
che è confermato
anche dall'ultima citazione
che del brabantino
abbiamo trovato nel
De primi Moforis
infinitate del Nifo. A
quanto ci fa
sapere il suessano,
Sigieri e Giovanni
di Baconthorpe petunt.... primum
Motorem esse universi
mobilis celestis formam perficientem
et non constitutam
» e che
esso è prima illius
perfectio », sì da potere
affermare che, almeno per
accidens, si muove
insieme al cielo
-i. Siccome la quistione
concerneva direttamente l'onnipotenza di Dio
e la sua
trascendenza, s'era accesa
in proposito un'appassionata e interminabile
controversia che si
protrasse fin oltre il
secolo XVI, poiché
troppo premeva ai
teologi aver dalla loro
parte Aristotele. Soltanto
quando si comprese
che la filosofìa aristotelica
non era tutta
la filosofia, l'ardore
della controversia cominciò a
venir meno --. 19
Denifle e Chatelain,
Chart. univ. Paris.,
I, 544 sg. -0
Quaestiones super Averrois
sermonem de substantia
orbis, q. 12. -I
V. Sigieri, p. 41.
22 Giovanni di
Jandun, oltre che
nelle Quaestiones sul
De substantia orbis,
discute il problema utrum
primum Principium sit
infiniti vigoris » lS6
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI L'Achillini, da quel
buon averroista ch'egli
è, ci dà del
problema questa soluzione: Primum,
mens Philosophi fuit deum
esse finiti vigoris.
Secundum, ad oppositum
est veritas ». Provata
la prima parte
della tesi, riferisce
le obiezioni centra Philosophum »,
alle quali fa
seguire la risposta
d'Aristotele. Ma nel far
questo, che è
un procedimento generale
seguito in tutti e
cinque i Quolibeta,
l'Achillini si mette
al riparo da
ogni accusa d'eresia con
questa tipica dichiarazione, fatta
una volta per sempre
: Ad haec
praemitto quod ubi
Philosophum introducam
respondentem, non teneo
responsionem illam»^!. Dopo ben
cinque fitte colonne
di serrate schermaglie
dialettiche e di citazioni
di testi, sì
da darci l' impressione che
egli la pensi proprio
come Aristotele e
il suo ottimo
commentore », eccolo a
dichiararci: Sed quia haec
opiiiio in phiribus
errat, ut patet
consideranti ea in quibus
introducitur Philosophus
respondens, ideo, ea dimissa, pone
secundum dictum principale
: Deus est
infiniti vigoris in essendo
et operando in
tempore et actione.
Ex quo sequitur infinitam esse
intellectuum latitudinem 24. E
le prove di
questa tesi ?
Nessuna, tranne quel
patet, che non è
affatto una prova.
Seguono invece quattro
obiezioni anche nelle Quaestiones
sulla Metafisica (XII,
q. 15) e
in quelle sulla Fisica
(Vili, q. 22) : e
tutte e tre
le volte con
molta ampiezza. Lo
stesso problema è ventilato
da Duns Scoto,
Qiiodl., q. 7,
da Giov. di
Baconthorpe. In I
Seni., dist. 44-45,
da Gregorio da
Rimini, In I
Seni., dist. 42, q.
3, a. I,
e più tardi,
ma anche con
maggior copia, dal
Nifo, dall' Achillini, da
Tommaso de Vio,
detto il Cardinal
Gaetano, che nella
sua Subtilissima quaestio
de Dei gloriosi
infinitate intensiva, terminata
a Pavia, il IO
settembre 1499, credo
abbia raggiunto il
primato della prolissità (è
stampata in appendice
al commento tomistico
della Fisica, Venezia, 1573, pp.
316-335), si da
superare lo stesso
Elia del Medigo,
detto altresì Helias Cretensis,
il quale tratta
di quest'argomento nella
sua interminabile De primo
Motore acutissima quaestio
(in appendice alle Quaestiones di
G. di Jandun
sulla Fisica, Venezia,
1552, f. 133,
col. 1-4) e nelle
Annotationes in dictis
Averrois super libros
Physicorum {ib., fol. 153, col.
4,-f. 155, col.
4). Vedasi anche
M. A. Zimara,
Theoremata, 61, e Fr.
Piccolomini, De caelor.
motoribus, 33-35. Giordano
Bruno, nel primo dialogo
De l'infinito, universo
e mondi (in
Dialoghi italiani, Sansoni, Firenze,
1958,, pp. 387-88), accenna all' importantissimo argomento, per il
quale — dice
Elpino — è
stato ridutto Aristotele
a negar la divina
potenza infinita intensivamente ».
La soluzione che
del problema affaccia Filoteo,
il quale dall'
infinità di Dio
ha dedotto r infinità
dell'universo, consiste nel
cambiarne i termini,
si da mostrarlo definitivamente superato. 23
AcHiLLiNi, De intell.,
ql. contro quest'asserto, alle
quali il filosofo
bolognese fa del
suo meglio per rispondere
in una mezza
colonna, osservando, alla fine,
che rationes philosophorum
super dictis ab eis
fundantur; ideo non
difficile est eas
solvere» =5. Ma
intanto non le risolve. A
questa che è
la quaestio principale
del primo Quolibetum. tengon dietro
tre duhia, coi
quali si tende
a precisar meglio il
concetto
aristotelico-averroistico di Dio e a
porre in evidenza taluni postulati
della soluzione data
al problema principale. Il primo
di questi dubbi
consiste nel chiedersi utrum
tantum deum deus intelhgat
», cioè se
Dio conosca soltanto
sé stesso oppure anche
le cose inferiori
ad esso e
segnatamente quelle del mondo
sublunare. Anche su
questo punto l'Achillini
è averroista: Respondeo per duo
dieta. Primuni: opinio
Aristotelis est, quod sic.
Secundum: illa opinio
non est vera -6. La
prima affermazione è
provata con ben
sei gruppi di
argomenti, che in tutto
assommano a venticinque.
La conclusione dei quali
è la seguente: Ex
his de mente
Philosophi habentur quinque;Primum, deus intelligit
se et non
aliud. Et si
dixeris: verum est
recipiendo, sed aliter non -7;
dicam quod non
potest aliquid intelligere
aliud a se, nisi
recipiendo; ideo non
potens recipere, non
potest intelligere aliud. Productio
autem vilium non
infert passionem in agente;
ideo quamvis deus
non intelligat vilia,
producere tamen potest. Secundum,
aliae intelligentiae in
actu intelligunt se et
perfectius se et
nihil vilius eis.
Tertium, intellectus possibilis ^5 Ib.,
f. 2, col.
3. 26 Fol. 2,
col. 3. 27 Così
appunto dicevano i
teologi: Dio non
intende le altre
cose diverse da sé,
nel senso che la mente
divina sia attuata
da un qualche altro
intelligibile diverso dalla
sua stessa essenza,
e dinanzi al
quale esso sia in
potenza; Dio conosce
le altre cose
conoscendo se stesso,
e quindi senza niente
ricevere. La condanna
che il vescovo
di Parigi, Stefano Tempier,
fece nel 1270
di tredici proposizioni
averroistiche, e che è
il primo sicuro
documento dell' esistenza
d'una corrente averroistica
a Parigi, colpisce
queste due proposizioni:
«Quod Deus non cognoscit singularia e Quod
Deus non cognoscit
alia a se
>>. Cfr. DeNiFLE
e Chatelain, I,
pp. 486-487. Tuttavia,
leggendo attentamente il commento
d'Averroè, Metaph., XII,
comm. 51, e
la Desfriictio destructionum, disp.
VI, dub. 3-4,
nasce il sospetto
che il suo
pensiero non sia stato
ben compreso. Si
veda in proposito,
Giov. di Baconthorpe, In I
Sent., dist. 35
e 39; M.
A. Zimara, Theoremata.] intelligit se
viliora et nobiliora.
Quartuin, nullus
intellectus, nisi forte possibilis,
intelligit aliquid extra
se. Quintum, deus
est simpliciter primo
notum; sed primum
principium complexum, de quo
quarto Metaphysicae, commento
octavo, est notissimum nobis 28. Ai
venticinque argomenti coi
quali è provata
la tesi averroistica,
se ne contrappongono sedici
; ma, mentre
i primi restano insoluti, ai
secondi è data
una soluzione dal
punto di vista averroistico. Dopo
di che l'Achillini
s'affretta a concludere: Sed propter
multa falsa, quae
sequuntur ad hanc
positionem, eam cum auctoritatibus eius
dimittamus. Tenemus igitur
quod Deus cognoscit omnia;
ex quo sequitur
quod non omnis
intellectus intelligens
aliud a se
patitur ab eo.
Sequitur secundo, quod
non omnis intellectio, qua
materialia intelliguntur, est
collecta ab intellectu agente
ex singularibus. Ex
his duobus fundamentis solvuntur rationes
philosophorum, quia super
oppositis corollariorum fundantur
29. Il secondo diibium
concerne la causalità
efficiente del primo Motore.
Aristotele 3° aveva
detto che la
prima Intelligenza muove le
intelligenze preposte al
movimento dei singoli
cieli, come bene supremo
da esse conosciuto
e desiderato, ossia come
fine ultimo cui
tutte le cose
tendono. Il problema
che pone il maestro
bolognese, utrum prima
Forma, quae est ultimus
Finis, sit primus
Motor », verte
non sull' attrattiva che Dio
esercita sugli esseri
in quanto amor
che muove il sole
e le altre
stelle », bensì
sul movimento rotatorio
della prima sfera mobile.
Secondo un' interpretazione del
pensiero d'Aristotele e del
suo commentatore di
Cordova, Dio muove i
cieli soltanto per
mezzo d'un motore
appropriato, cioè d'un'
intelligenza, la quale è
mossa dal desiderio
di assomigliare al primo
Motore 31. Secondo
un'altra interpretazione, invece, Dio
muove il primo
cielo mobile immediatamente v ;
e poiché il primo
mobile rapisce col
suo impeto tutti
gli altri cieli,
ne 28 ACHILLINI, fol.
3, col. 2. 29
Fol. 4, CI. 30
Metaph., XII, e.
7, 10720 2-4
(t. e. 37). 31
Giov. DI Jandun,
Quaestiones sup. Metaph., XII, q.
17, Quaest. sup. Phys.,
Vili, q. 21. 32
Cfr. M. A. ZiMARA,
Quaestio de triplici
cansalitate intelligentiae
(in appendice alle
Quaestiones di G.
di Jandun sulla
Metafisica, Venezia, 1525, fol.
170, col. 2-4);
Theoremata viene che il
primo Motore esercita
su tutto l'universo
una vera e propria
azione di causa
efficiente e non
soltanto di causa
finale. Sigieri, a quanto
sappiamo dall'ultima citazione
del Nifo, riteneva che
il primo Motore
fosse addirittura forma
e perfezione del cielo,
a tal segno
che si muove
per accidens insieme ad
esso ; nel
che egli non
faceva se non
ripetere una dottrina d'Averroè, il
quale in più
luoghi insiste sul
concetto che il primo
Principio è tale
in quanto è
fine, forma e
motore dell'universo 33.
L'Achillini risolve il
dubbio, dimostrando con
quattordici argomenti che Dio
imprime al mondo
un movimento effettivo come primo
Motore di esso;
né questa volta
ha bisogno di distinguere tra
l'opinione di Aristotele
e la verità,
poiché Philosophus in hoc
quaesito non recedit
a veritate »,
quanto all'asserto della causalità
efficiente ; ma
osserva che si
discosta dal vero in
un particolare: «
sed bene in
circumstantia: quia dictum est
de mente eius,
quod Deus est
motor immediate et appropriate movens
caelum, et quod
nulla alia intelligentia ab ipso
movet primum caelum;
sed hoc non
est verum etc.))34. Ed
infatti la tesi,
che il moto
del primo cielo
derivi immediatamente da Dio,
si basa sul
concetto che Dio
è forma del primo
cielo. Ora questo
concetto è schiettamente
averroistico, ed è uno
dei presupposti della
teoria che dalla
finita grandezza del moto
celeste deduce, come
abbiamo visto, il
vigore finito del primo
Motore. Questo necessario reciproco
rapporto tra Dio
e il mondo si
scorge anche meglio
nella discussione del
terzo dubbio :
« Utrum Deus libere
moveat caelum ».
Neil' interpretazione averroistica
del pensiero d'Aristotele,
se Dio è
necessario a spiegare l'esistenza del
moto, e, diciamo
pure, l'esistenza del
mondo stesso, è altrettanto
vero che, posta
l'esistenza del primo
Motore e della prima
Causa efficiente, questa
e quello agiscon come
natura anzi che
come libera volontà
creatrice. « Sigieri non
sembra aver concepito
la possibilità d'una
vera libertà creatrice, che
a lui pare
esclusa tanto dall'
immutabilità divina quanto dalla
necessità delle specie »3\
Posto Dio come 33
AvERR., Metaph., X,
comm. 7; XII,
comm. 5-6, 36,
38, 41, 44; De
subst. orbis capp.
1-2. 34 AcHiLLiNi, fol.
4, col. 4. 35
F. Van Steenberghen,
Les oetivres et
la doctrine de
Siger de Brabant,
Bruxelles, 1938, p. 128; Sig. de
Brab. d'après ses
oeuvres inédites, igo.] prima Causa
motrice del mondo,
questo ne risulta
necessariamente, come la conseguenza
dalle premesse d'un
sillogismo. Aristotele aveva ben
fermato la sua
attenzione sugli eventi che
si dicon contingenti
e fortuiti; ma
anzi che dedurre
la contingenza di tutti
gli esseri creati
dall'essenziale libertà del pensiero
divino, aveva imposto
allo stesso pensiero
divino e all'atto creatore
la necessità del
suo astratto formalismo logico, e
la contingenza e
il caso aveva
limitato al mondo
sublunare, spiegando l'una e
l'altro per mezzo
del concetto delle '(
cause impedibili »
e dell' «
indisposizione della materia
» che spesso è
sorda a rispondere
all' intenzione dell'arte.
Pur trascendente o «
separato », il
primo Motore resta
così prima forma e
prima perfezione dell'universo, al
quale è intimamente
unito non come forma
« constituta per
subiectum », bensì
come forma « constituens
subiectum » 36. Per
dimostrare la tesi,
che secondo Aristotele
Dio muove il cielo
per sua natura
e non liberamente,
sì da poter
non muoverlo o mutarne
la velocità e la direzione,
l'averroista bolognase argomenta
così: tutto ciò
che si muove
per un principio essenziale che
è in esso,
si muove per
sua natura; ma
questo è il caso
del cielo; dunque
esso è mosso
naturalmente 37. Se il primo
Motore potesse non
muovere oppure muovere
in modo diverso da
quel che fa,
il mondo potrebbe
esser diverso da quello
che è, e
anche non essere.
Ma tutte queste
conseguenze sono impossibili per
Aristotele, che dall'
immutabilità del primo Motore
deduce la necessità
e l'eternità dell'universo, come d'un
effetto connaturale e
inseparabile dalla sua
causa. Puro atto senza
alcuna potenza, Dio
causa dall'eternità il II
voi., Louvain, 1942,
p. 607. Tale
è il pensiero
di Siglari in
tutti gli scritti intestati
a lui dai
codici. Per attribuirgli
con qualche fondamento la
tesi opposta, bisogna
supporre che siano
sue le Quaestiones
sulla Fisica edite dal
Delhaye (cfr. Giorn.
Crii., XXIV, 1943, pp.
85-90). Ma per farlo
manca ogni serio
indizio esterno, e
le prove interne
sono troppo deboli. 36 Si
veda il passo
del Nifo riportato
in Sigieri.... p.
41. Su questa distinzione ricavata
da diversi luoghi
di Averroè, cfr.
dello stesso Nifo il
commento al De
anima, III, ad
t. e. 5,
già riferito in
Sigieri, p. 15. Vedasi
anche l'Appendice nello
stesso volume, pp.
175-176. 37 AcHiLLiNi, Quol.
I. dub. 3,
fol. 5, e.
i « Omne
quod movetur per principium quod
est in eo,
movetur per naturam,
octavo Physicorum, t. e.
27. Intelligo in
subiecto maioris: per
se primo, et
non secundum accidens; et
tunc patet propositum
ex diffinitione naturae,
secundo Physicorum, t. e.
3. Sed caelum
movetur per principium
etc, ut vult
Commentator Aristotelem declarasse
in principio septimi
Physicorum, etc. ». I
'( mondo con ordine
e moto necessario.
Dal che «
sequitur nullam esse in
rebus libertatis contingentiam, ad
quas non concurrit homo »
; poiché la
ragione della contingenza
dell'umano arbitrio consiste nel
modo di conoscere,
essenzialmente discorsivo,
che è
proprio dell'uomo; di
guisa che la
mente umana, procedendo per
composizione e divisione
di concetti, «
potest aftìrmativam vel negativam
[partem] concludere, et
consequenter ad utramque
partem possibilis est
assensus ». Or questo
non accade né
nelle altre intelligenze
superiori all'umana, né, tanto
meno, nella prima
Intelligenza 38. Necessario a
render ragione della
realtà dell'universo, dei movimenti
celesti e di
ogni accadere, il
primo Motore d'Aristotele non ha
altra realtà, per
l'averroista, all' infuori
di questa, né altra
ragione di essere
che questa: senza
il mondo da esso
causato e mosso,
il primo Motore
non sarebbe nulla. Perciò
Dio e mondo
formano un binomio
indissolubile, come amore e
cuor gentile nella
canzone guinizelliana, come
il sole e il
suo risplendere: ch'adesso che
fo il sole sì
tosto lo splendore
fo lucente, né fo
avanti il sole. Contro
questa dottrina del
Filosofo, qual'era intesa
ed esposta dal Commentatore
di Cordova, l'Achillini
riferisce ben diciotto argomenti,
avendo però cura
di farci sapere
che cosa gli averroisti
rispondevano. Dopo di che conclude,
secondo il suo costume
: His praetermissis, ad
veritatem revertamur, et
dicamus Deiim ad extra
mere libere et
contingenter agere. Concedanius
insuper quod in Deo
esse et agere
sunt idem, et
tamen non, si
necesse est Deum esse,
necesse est Deum
agere ad extra.
Dicamus tertio quod, licet
necessitas sit melior
conditio essendi, non
tamen est melior conditio
operandi ad extra.
Ncque immutabilitas divina toUit
novitatem in effectu,
quia ab aeterno
determinavit Deus agere nunc.
Ideo contra philosophos
dicamus, quod ab
antiqua vohmtate potest aliquid
novi poni in
esse, sine mutatione
operantis, aut remotione
impedimenti etc. Addo
insuper, licet necesse sit
Deum esse productivum
ad extra, non
tamen necesse est
ipsum producere ad extra.
Concedo etiam nullam
rem quae est
Deus esse contingentem ;
dimitto naturam assumptam,
et tamen de 38
ib., fol. 5,
col. 1-2. ig2 Dee formabiles
sunt propositiones per
accidens et contingentes, propter connotationem
extrinseci. Neque propter
hoc quod Deus multa
producibilia potest producere,
quorum nullum producet, concedendum est
potentiam divinam frustrari,
quia reduci potest et
in aliquo illius
generis reducta est
in actum 39. Con
queste proteste di
attaccamento all' insegnamento teologico, ha
termine il primo
qiiolibetum che tratta
dell' intelletto del primo
Motore, la cui
latitudo è dunque
finita com' è finita
la grandezza del
mondo e del
movimento. L'opposizione fra la
tesi averroistica e
quella teologica non
è che un
aspetto particolare fra la
concezione aristotelica del
mondo e l' intuizione cristiana. Per
Aristotele, come l'espone
Averroè, Dio è principio
teleologico e causa
prima efficiente della
natura; la natura alla
sua volta è
effetto necessario ed
eterno dell'attualità
divina. Dio è
principio in quanto
dà origine a
un principiato; esso è
l'atto che precede
logicamente ogni potenza. L'ordine cosmico
riflette la necessità
e l' immutabilità della
sua prima causa. Dio
insomma è complemento
necessario della natura ed
è esso stesso
natura: è la
stessa natura intellettualizzata, cioè considerata
platonicamente sub specie
aeternitatis. Neil'
intuizione cristiana del
mondo, invece. Dio
è spirito, cioè libera
volontà creatrice, infinita
potenza, infinita sapienza, infinito amore.
Il mondo e'
è, ma potrebbe
non esserci, o
esser diverso; e c'è,
per un atto di liberalità
divina. La necessità delle leggi
di natura non
è assoluta, ma
relativa al decreto della
volontà divina che
liberamente le ha
stabilite e può mutarne
il corso. Così
la contingenza è
alla radice stessa
dell'ordine cosmico; il miracolo
è affermazione e
prova della contingenza della natura
e delle leggi
fisiche. Con siffatta
dottrina il cristianesimo liberava
l'uomo dalla tirannia
del fato cui dovea
piegarsi la volontà
dello stesso Giove.
Al posto degli inesorabili decreti
dell' Ananche si sostituiva
la libera e onnipotente
volontà di Dio,
che ha dato
all'uomo il potere
di cooperare ai suoi
eterni disegni. Libero
e artefice del
proprio destino, l'uomo si
sente così simile
a Dio. Dopo quello
che Agostino e
lo Pseudo Dionigi
e Pier Damiani e
il Cardinal Cusano
avevano speculato intorno
alla natura divina, mentre
nel rinnovato platonismo
cristiano del Rinascimento covavano
i germi che
sarebbero esplosi nei 39
Iv., fol. 5,
col. 4-f.6, col.
i. I dialoghi De la causa
e De V
infinito, la dottrina
averroistica su Dio, anzi
che un progresso,
dove sembrare la
ricaduta in una delle
più anguste forme
di naturalismo già da molto
tempo sorpassate. Ad un
superamento definitivo occorreva,
per altro, eliminare quella
ristretta visione cosmologica
alla quale il concetto
di Dio era
legato, e che
è merito delle
nuove scoperte astronomiche aver
per sempre dissipato. 2. Il
secondo qiiolihetum tratta
delle intelligenze separate, intermedie fra
1' Intelligenza divina
e l' intelletto possibile, proprio della
specie umana. Queste
intelhgenze son sostanze separate preposte
ciascuna al moto
d'uno dei cieli
inferiori alla prima sfera,
che è mossa
immediatamente dal primo Motore. L'Achillini comincia
coll'affermare che, secondo
la dottrina d'Aristotele, siffatte
intelligenze non sono
state prodotte, e per
conseguenza sono eterne;
ma che, secondo
la verità della fede,
è tutto il
contrario. La prima
parte della tesi
è dimostrata con quattordici
argomenti; con altrettanti
la seconda; colla differenza, che
gli argomenti in
favore della prima
parte non hanno risposta,
mentre degli argomenti
in contrario abbiamo la
soluzione. Per quel che
concerne la dottrina
d'Aristotele, il lettore poco
esercitato potrebbe rilevare
una divergenza tra
l'averroista bolognese e Sigieri
su questo punto:
che, mentre quello
dice le intelligenze celesti
non prodotte, questo
al contrario le
dice tutte causate immediatamente o
mediatamente da Dio
che dà l'essere a
tutte le cose 40.
In realtà, la
divergenza è soltanto nel
modo d'esprimersi e non nel
pensiero. Perché le intelligenze
celesti non si
posson dire prodotte
? Perché non sono
state tratte dalla
potenza all'atto, quasi
che ci fosse una
loro potenza ad
essere, la quale
precedesse, anche soltanto logicamente,
il loro atto
di essere. Esse
sono natural40 Sigieri
di Brab., Impossibilia,
I (ed. Mandonnet,
Sig. de Brab. et
l'averr. latin au
XlIIème siede, Ilème
Partie, Louvain, 1908,
pp. 76-77) ; De
necess. et
conting. caus. (Mandonnet,
pp. 111-112); Aletaph.,
II, 8 (ediz. a cura di
Cornelio A. Graiff, Sig. de
Brab. Questions sur
la Metaphysiqiie. Texte
inédit. Louvain, Édit.
de 1' Institut
Super, de Philosophie,
1948, pp. 46-51),
III, 7-8 {ib.,
pp. 93-103). Cfr.
Van SteenBERGHEN, S.
d. B. d'après ses
oeuvres inédites.] mente e
necessariamente, per il
fatto stesso che
esiste la prima Causa
che le fa
essere, a quel
modo che l'esserci
il sole fa sì
che ci
sia lo splendore.
Esse son certamente
causate dalla prima Intelligenza,
ma non prodotte
alla maniera delle
cose che possono essere
e non essere.
L'atto non s'aggiunge
in esse alla potenza,
né l'essere sopravviene
all'essenza: sono puri atti
per loro natura,
ed atti eterni,
come eterno e
necessario è l'Atto primo
che le causa
41. Strettamente connesso con
questo problema è
il primo dei tre
duhia: «. Utrum
ponenda sit creatio
». Anche a
questo quesito il giovane
maestro bolognese risponde,
essere opinione d'Aristotele che non
si dà creazione;
ma soggiunge che
la tesi dello stagirita non
è vera. Secondo
la dottrina aristotelica,
la causa agente ha
sempre bisogno d'una
materia su cui
esercitare la sua azione,
e dalla cui
potenza trae quello
che essa produce. Ora
la creazione implica
una produzione dal
nulla, senza passaggio dalla potenza
all'atto 4^. Allo
stesso modo Sigieri,
parlando dell'anima
intellettiva (e il
discorso vale per
tutte le intelligenze e
altresì per i
corpi celesti), afferma
che, sebbene essa possa
dirsi fatta, nel
senso che è
causata e dipende,
al pari delle intelligenze
celesti, dal primo
principio d'ogni essere, tuttavia non
può dirsi che
è stata fatta
dal niente, ma
anzi che essa «
de se est semper ens,
ab alio tamen
», poiché « in
eius ratione seu
defìnitione est semper
esse, cum careat
materia ». Se non
che, pur essendo
« de se,
seu de sui
ratione, semper ens »,
non ha questo
suo essere «
ex se effective,
sed ab alio ». Per questa
ragione, essa è
certamente causata ed essenzialmente dipendente
da Dio, «
sed non est
verum eam esse factam
ex nihilo » 43.
41 AcHiLLiNi, Quol.
II, f. 2,
col. I :
« Orane agens
extrahit id quod est
in potentia ad
actum: sed in
intelligentiis non est
potentia extrahibilis ad
actum (intelligo de
potentia distante ab
actu, et de
actu informativo eorum aut
potentiali, ex quo et alio
fiat una intelligentia) : ergo
in eis non
est agens. Ratio
tota est Commentatoris, 12
Metaph., comm. 44. Ex
hoc sequitur quod
intelligentiae non componuntur
ex esse et essentia,
tamquam ex doubus
principiis intrinsece componentibus
intelligentiam ». 42 AcHiLLiNi,
Quol II, dub.
I, fol. 7,
col. 4. 43 Sigieri,
De anima iniellect.,
V (ed. Mandonnet,
pp. 160-161). AcHiLLiNi, ib.,
fol. 8, col.
2: « Potentiale
non potest esse
sine actu. Est autem
deus actus vitalis
intelligentiarum et finis,
et caeli est
forma et finis, corruptibilibus autem
dat esse et
conservat movendo. Primo
enim Metheororum :
Est autem ex
necessitate continuus iste
superioribus I Ancor più
evidente è l' influenza
della dottrina di
Sigieri sulla soluzione del
secondo dubbio che l'
Achillini si pone
: « Utrum intelligentiae inferiores
intelHgant superiorem ».
L'averroista italiano
formula in proposito
tre tesi, il
significato delle quali ci
è chiarito da
un luogo dei
CoUectanea del Nilo
sul De anima 'i'^, riferito da me
altra volta. Colla
prima tesi egli
si oppone alla teoria
di coloro che,
al dire del
Nifo, il quale
sicuramente riassume da Sigieri
citato un po'
più oltre, sostenevano che « Deus multiplicat
lumen quod est
quoddam accidens spirituale existens
in mentibus intelligentiarum, per
quod elevantur intellectus illi
ad intelligere primum
» ; la
qual teoria il Nifo
nel commento al
De anime beatitudine
attribuisce a S. Tommaso
e la combatte
appoggiandosi a Sigieri
45. La prima tesi
dell'Achillini, dunque, suona
come segue:Primum: intelligentia
inferior non intelligit
superiorem per aUquod accidens,
ut species, actus,
vel habitus etc.
Probatur primo, quia in
intelligentiis non est
aliquod accidens. Patet
quolibeto 3. —
Secando, omne compositum
est novum; sed
in inteUigentiis non
est novitas; ergo
neque compositio. Maior
est Commentatoris, 12 Metapliysicae, comm.
39, sive sit
compositura substantiale,
sive accidentale, sive
in intelHgentiis, sive
non; ea enim probat
ibi Commentator, quod
intellectio non est
accidens in deo; coehim
autem, quia subiectum
est accidenti, novitatem habet, sciUcet
motum, 8 Pliysicoriim,
comm. 15. —
Tertio, si sic, cum
secunda intelHgentia intelHgat
se per essentiam,
3 De anima, comm.
13, perfectior esset
intellectio secundae de
se, quam intellectio secundae de
prima, et sic
secunda intelligentia esset felix
cognoscendo se, et
non primam; vel
intelligentia duas intellectiones habens
felicitaretur intellectione imperfectiori. —
Quarto, lationibus, ut omnis
eius virtus gubernetur
inde. Ideo, primo
remoto, omnia destruuntur; ideo
duodecimo Metaphysicae, textu
et commento 38; Ex
tali igitur principio
caelum et natura
dependet. Et primo
Caeli, commento 100: A
primo quidem ente
datum est esse
et vivere; bis quidem
clarius, bis vero
obscurius. Et in
libro De substantia
orbis,, versus finem: Ex
quo verificatur, quod dator continuationis motus
est dator esse omnibus
aliis entibus ».
Così anche nelle
Qiiestiones sulla
Metaphysica, ed. CTraiff,
luoghi citati. Invece
l'autore delle Quaestiones super libros
Physicorum, edite dal
Delhaye come opera
di Sigieri. sostiene senza
alcuna esitazione la
tesi « quod
necessarium est aliquid fieri
ex nihilo » (I, q.
24, pp. 53-54),
sebbene ritenga che
alcuni esseri non sian
prodotti da Dio
immediatamente. È un
altro punto sul
quale il dissenso dagli
scritti di sicura
appartenenza a Sigieri
è troppo evidente. Per
attribuire queste Quaestiones
al maestro brabantino
occorrerebbe una qualche testimonianza
sicura che non s' ha,
fino ad oggi, 44
III. ad t.
e. 14; cfr.
Sigieri.... nel pens.,
pp. 27-28, 45 V.
Sigieri, pp. 26-27. 196 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI si sic,
tunc scientia earuin
non esset scitum;
consequens est centra determinata quolibeto
primo, et tertio
De anima, comm. 14: « Intellectus
in formis abstractis
est idem cum
intellecto » ; et
incidentaliter 8 Physicorum,
comm. 40 :
« In abstractis
intellectus et intellectum [idem]
sunt. — Quinto,
quia tunc intellectio,
qua secunda intelligentia intelligeret
primam, et intellectio
qua secunda intelligentia
intelligeret se, essent
alterius generis, quia una
esset substantia et
alia accidens 46. Risulta da
questa prima affermazione,
che l'atto col
quale le intelligenze inferiori
conoscono la prima
Intelligenza, cioè Dio, è
un atto sostanziale
al pari di
quello col quale
conoscon se stesse. Anche
in questo l'Achillini
è d'accordo con
Sigieri, per il quale
l' intendere è perfezione
essenziale dell' intelletto possibile, sì
che « ponere....
substantiam esse in
actu in genere intellectualis naturae
et non intelligentem
in actu, est
ponere contraria et impossibilia
vel incompossibilia » 47.
La seconda tesi
dell' Achillini consiste nel
negare che le intelligenze inferiori
conoscano la prima
Intelligenza come loro causa,
in quanto avvertono
che la loro
natura ha essere da
quella 48. Così appunto
pensavano taluni filosofi,
come riferisce il
Nifo: Dixerunt quod intelligentia
interior intelligit superiorem
per essentiam inferioris; essentia
enim inferioris est
causata ab intellectu
superiori, et omne
causatum ducit in
cognitionem cause; ergo intellectus
interior per essentiam
sui intelligit superiorem. Oportet enim
imaginari essentiam inferiorem
esse obiectum adequatum
sui intellectus; et
sic tanquam obiectum
adequatum intelligitur solum a
semet. Et quoniam
illa essentia est
effectus 46 Achillini, Quol.
II, dub. 2,
fol. 8, col.
3. 47 Sigieri, Quaestiones
naturales (ed. F.
Stegmùller, Nenaitfgcf.
Quaestionen des Sig.
v. Br., in
Rech. de Théol.
ancienne et médiév.,
Ili, 1931 pp. 179-180); De
anima intell., IX
(ed. Mandonnet, p.
171). Cfr. Giorn. Crii.
d. FU. Ital.,
XX, 1939, pp.
467-471. Un'attività accidentale dell' intelletto
è invece l' intendere
per l'anonimo autore
delle Questiones in libros
Arist. de anima,
II, q. 8
(ed. Van Steenberghen, Sig. d.
Br. d'après ses
oeurres inédites, I
voi., pp. 67-69), III,
q. 8 (pp. 135-137);
ma quanto più
il chiaro editore
s'affanna a dimostrare che l'autore
di esse è
Sigieri, tanto più
evidente appare che
non lo è. Si
noti poi che
nella terza delle
Quaestiones naturales edite
dallo Stegmùller, il maestro
brabantino insegna che l'
intelletto possibile ha il
suo atto
primo ed essenziale
per l'unione all'
intelletto agente, e che
questo e
quello son due
sostanze separate; la
qual dottrina ha
non poca importanza per
quello che siamo
per dire. 48 Achillini,
fol. 8, col.
3. 1 I superioris, etiam
continet saltem instrumentaliter essentiam
superioris; et sic
intellectus ille per
essentiam illius secundario intelligit superiorem. Il Nifo
stesso riferisce quattro
dei « molti
argomenti » che Sigieri
opponeva a siffatta
teoria 49. Gli
stessi argomenti quasi alla
lettera oppone alla
stessa teoria anche
l'Achillini: Secundum dictum :
intelligentia inferior non
intelligit superiorem per essentiam
inferioris. — Probatur
primo, quia tunc
scientia non esset scitum.
Patet consequentia, quia
tunc secunda esset scientia ipsi
secundae de prima
etc. — Secundo,
nulla res distincta a
perfectiori est sufficienter
repraesentativa
perfectioris; sed secunda non
est ita perfecta
sicut prima; ergo
etc. — Tertio,
si sic, tunc non
dependeret intelligentia inferior
in suo intelligere
a prima; et sic
secunda esset actus
purus, quia non
esset potentialis respectu
alicuius perfectivi eius
formaliter. — Quarto,
quia tunc intelligentia inferior
beatiiìcaretur in seipsa
tanquam in obiecto repraesentativo omnium
intelligibilium ab ea,
aut felicitaretur in
obiecto secundarie cognito.
— Quinto, quia
tunc aliqua cognitio dei
dependeret; quia omnis
intelligentia inferior dependet; et
omnis intelligentia inferior esset
cognitio dei per
te. — Sexto, quia
tunc nulla esset
compositio in intelligentiis, nisi
forte ex perfectione et
defectu eius; de
qua non loquor
nunc. — Septimo, quia
non salvaretur efììcientia
dei super motu
proveniente ab inferioribus intelligentiis 5°. Anche
per quel che
concerne la terza
tesi, l'Achillini ripete alla
lettera quello che,
secondo il Nifo,
si leggeva «
in quodam tractatu intelligentiarum et
beatitudinis » di
Sigieri: Tertium dictum: intelligentia
inferior intelligit superiorem per essentiam
superioris. — Probatur
primo a sufficienti
divisione. — Secundo, quia
in abstractis intellectus
et intellectum sunt idem.
— Tertio, quia
intelligentiae abstractae perficiuntur per se
invicem; ergo una
est alterius forma,
et non nisi
quia una est alterius
scientia vel amor.
Antecedens patet, 12
Metaph., commento 44 :
« Perfectio uniuscuiusque
moventium unumquemque orbium perficitur
per primum motorem
omnium »; sed
non effective, ncque
materialiter, sed finali
perfectione coincidente cum forma.
— Quarto, necesse
est in omni
intelligentia intelligente
aliud esse aliquid
simile formae et
aliquid simile materica; et
si non, non
esset multitudo in
formis abstractis, tertio
De anima, commento 5
; quia, posita
multitudine, una est
potentialis alteri. Est autem
secunda simile materiae,
ideo recipiens, et
prima si49 Nifo,
De anima, Venezia,
1522, III, coUect.
ad t. e.
14, f. 171, col.
3. 50 AcHiLLiNi, /.
c; Nifo, /.
e; cfr. Sigieri. mile formae,
ideo recepta. —
Quinto, in intelligentiis est
compositio, et non
est alia quani
ex intelligente et
intellecto, desiderante et desiderato;
ergo etc. Maior
patet, 12 Metaph.,
commento 51: Quod est
minoris compositionis est
nobilius in ilio genere,
donec deveniatur ad
simplex. Patet minor,
12 Metaph., commento 44:
«Tantum illic est
causa et causatum»,
secundum quod intellectum est
causa intelligentis. Sed
intellectum non est
causa efEectiva
intelligentis, ncque materialis,
ncque finalis tantum, sed
formalis et finalis
simul, vel formalis
tantum. Ideo subdit Commentator, «
non inconvenire unum
esse causam plurium, secundum quod a pluribus
intelligitur », perfectius
tamen a perfectioribus, et
imperfectius ab imperfectioribus. Et
hoc patet Commentatore, 3
De anima, commento
5 : «
Essentia primae formae est
quidditas eius; aliae
autem formae diversantur
in quidditate et essentia,
quoquo modo ».
Loquitur Commentator de essentia,
ut fecerat 2
De anima, comm.
147: Pomum « est
indivisibile subiecto, et
divisibile secundum essentiam
diversam in eo, secundum
quod habet colorem,
odorem et saporem
», licet in multis
sit differentia etc.
Ex hoc patet
intelligentiarum compositio, quae
cum aliis est,
et earum simplicitas,
quia non compositio
ex aliis; ideo,
3 De anima,
comin. 9: «
Res abstractae sunt simplices, et
non compositae. Ex
his habetur quod,
cum superiores intelligentiae sint
in inferioribus, adhuc
potest intelligentia
interior intelligere superiorem,
non intelligendo tamen
aliquid extra se. Patet
etiam quod, cum
intelligentia superior sit
intellectio inferiori, quod
potest superior principiare
motum productum ab inferiori,
eo modo quo
intellectio est principium
operationis ab
intelligentia productae » i'.
Giunto alla fine
della discussione, l'Achillini
si domanda se una
tale teoria non
contradica alla verità
teologica; e risponde di
no, anzi dichiara
di trovarla in
tutto conforme a quello
che la fede
insegna in proposito
5% E veramente
anche S. Tommaso è
del parere che,
nell'atto della visione
beatifica, l'essenza divina non
è soltanto oggetto
conosciuto, « id
quod intelligitur », ma
altresì forma intelligibile
per mezzo della quale
la stessa essenza
divina è conosciuta,
« forma.... qua intelligitur» 53. Questa
forma attua bensì
l'intelletto umano reso capace
per grazia, ma
l'attua solo idealmente,
« in intelligendo », non
sostanzialmente, poiché l' intelletto
umano ha già un
suo atto sostanziale
anteriore all'unione beatifica coll'essenza divina
54. Non così
per l'Achillini e
per Sigieri* 51 AcHiLLiNi,
/. e, col.
3-4; NiFO, /.
c, 3-4; cfr.
Sigieri, p. 28. 52
ACHILLINI, fol. 9,
col. 3. 53 S.
Tommaso, S. theol.,
Suppl. Questi non fanno
alcuna distinzione fra
l'ordine naturale e lo
stato soprannaturale concesso
per grazia, fra la conoscenza che compete
alle intelligenze separate
per loro natura
e la visione beatifica
di cui parlano
i teologi. Inoltre,
l' intendere delle
intelligenze create, tanto
nell'ordine naturale quanto nell'ordine soprannaturale, è,
per l'Aquinate, una
operazione accidentale che s'aggiunge
alla loro natura
sostanziale già costituita in
atto 55, e
il loro stesso
intelletto è una
potenza altra dalla loro
essenza 56. Per l'Achillini
e per Sigieri,
invece, l'essenza stessa di
qualsiasi intelletto, sì di quello
umano come di quelli
celesti, come vedremo
anche meglio in
seguito, consiste in un
atto sostanziale d' intendere,
dovuto alla loro vmione
coli' intelletto agente
che, per essi,
è Dio. Fra l'
intelletto umano e le
intelligenze celesti v'
è solo questa
differenza, che r intelletto
agente s'unisce al
primo per gradi,
e completamente solo al
termine del suo
sviluppo; alle seconde
invece è eternamente unito
come forma che
attua tutta insieme
la loro capacità. GÌ'
intelletti inferiori a
Dio hanno essere
soltanto in quanto intendono
la prima Intelligenza,
che sola è da
sé e per
sé. Dio così
è il sole
del mondo intelhgibile
; le altre intelligenze
ne sono lo
splendore. In questo
eterno raggiare dalla prima
Luce intelligibile e in questo
eterno rifletterla per diversi
gradi, consiste l'essere
delle menti inferiori alla prima
Mente. Per questo nell'
intelletto non v'
è memoria, che
è ritorno del passato.
Siffatto ritorno del
passato non è
concepibile là dove è
solo un eterno
presente senza mutamento.
I teologi medievali, compreso
S. Tommaso, potevano
attribuire agli angeli la
memoria, in quanto
attribuivano ad essi
un conoscere puramente naturale
e accidentale distinto
dal conoscere « in
Verbo »
; non gli
averroisti, pei quali
le intelligenze conoscono solo in
quanto sono informate
dall'essenza divina. Ed
è sicuramente sotto r
influenza di questa
dottrina averroistica che Dante
rimprovera ai teologi
di avere attribuito
la memoria agli angeli^?;
che è un'altra
delle tante tracce
dell'influsso dell'avveroismo
sul pensiero del
nostro poeta. 55 S.
Tommaso, 5. rheol.,
I, q. 54,
art. 1-2. 56 Ib.,
a. 3. 57 Par.,
XXIX, 76-81. Si veda
in proposito, N., Nel
mondo di Dante, Roma. Il
Quolihetum concernente le
intelligenze celesti si
chiude con un terzo
duhiuni, nel quale
l'averroista bolognese si
chiede se le intelligenze
intermedie distino dalla
prima Intelligenza con certo
ordine, ossia seguendo
una qualche proporzione: «Utrum ordine
quodam recedant intelligentiae mediae
a prima». Il problema
è risolto da
lui coll'affermazione che
così è per Aristotele, non
però secondo verità
58. Anche questo è un problema
tipicamente averroistico, e trae
origine da quel
passo del commento
d'Averroè al dodicesimo della Metafisica,
che dice: Quoniam vero
ordinatio istorum moventiiuTi
a primo motore oportet ut
sii secundum ordinem
stellarum et orbium
in loco, manifestum est
etiam; prioritas enim
in loco eorum
et in magnitudine
facit eos priores
in nobilitate 59. Qual
fosse il pensiero
di Sigieri su
questo argomento, non sappiamo.
Ma conosciamo quello
d'un averroista a
lui abbastanza vicino e
che, come il
brabantino, insegnava a
Parigi nella scuola delle
Arti; voglio dire
Giovanni di Jandun.
Questi discute il problema
« Utrum motores
corporum celestium sint ordinati
secundum ordinem corporum
celestium in magnitudine et in
loco » nelle
Qiiaestiones sulla Metafisica,
e lo risolve
in senso affermativo
^°. La soluzione che
del problema ci
dà il bolognese,
è sostanzialmente identica a.
quella dell'averroista di
Jandun: posto che v'
è tra le
intelligenze celesti un
ordine gerarchico fondato sul
differente grado di
perfezione, egli stabilisce
una corrispondenza fra questo
e l'ordine dei
cieli, in quanto
essi si differenziano per
grandezza e velocità: Primus est
ordo secundum gradum
perfectionis essentialis
earum (intelligentiarum) sic
quod, quanto una
intelligentia est perfectior alia,
tanto est primo
propinquior, non tainen
secundum proportionem
geometricam; patet quolibeto
5. Hic autem
ordo, qui rationes formales
intelligentiarum consequitur, causa
est aliorum ordinum qui
sequuntur. — Secundus
est ordo caelorum secundum magnitudinem
eorum, secundum quam
caelum maius continet caelum
minus. Perfectiore igitur
intelligentia caelum maius regitur
et gubernatur. Oportet
enim informabile corre58
AcHiLLiNi, Quol. II,
dub. 3, fol.
9, col. 2. 59
AvERR., Metaph., XII,
comm. 44. 60 IoANNis
DE Ianduno, Quaestìofies
in Metaph., XII,
q. 19. I spendere
formae sic, quod
altieri caelo altior
intelligentia api)ropriatur.... —
Tertius est ordo
velocitatis in motu.
Caelum enim maius velociori
motu movetur, distinguendo
inter movere et circuire.
Huius sententiae fundamentum
ponit Commentator, secando Caeli, commento
58 : super
(semper ?) eorum intelligentiarum intellectus
est fortior et
desiderium est fortius;
ideo ab eis motus
est velocior 61. Se il
cielo è il
soggetto informabile e l'
intelligenza è la sua
forma, e
se le intelligenze
non hanno altra
funzione che quella di
motori dei diversi
cieli, ne segue
che dal numero
dei cieli e dei
moti celesti si
debba dedurre, come
aveva insegnato Aristotele (>-,
il numero delle
intelligenze. Ora cieli
in senso vero e
proprio possono dirsi
soltanto quelli in
cui brillano una o
più stelle. Perciò
otto e soltanto
otto sono le
intelligenze motrici. La più
alta di esse
è Dio, che
muove immediatamente il cielo
delle stelle fisse,
« quod secum
rapit alia corpora caelestian^B.
Le altre sette
muovono ciascuna uno
dei cieli planetari, nell'ordine
stabilito dagli astronomi.
L'Achillini, come respinge
con Averroè la
teoria degli eccentrici
e degli epicicH, così
sembra rifiutare il
nono cielo, comunemente ammesso sull'autorità
di Tolomeo: «
Or bis stellatus
est finis corporum quae
sunt intra, quoniam
extra ipsum nihil
est»; esso è il
primo e più
perfetto di tutti
gli altri cieli
; « ideo
caelum stellatum deo informatur
» 64. Se non
che i moti
planetari non sono,
per Aristotele, m^oti semplici; sibbene
la risultante di più movimenti
che richiedono più sfere.
Così Aristotele, a
render ragione del
moto di ogni pianeta,
aveva dovuto, sull'esempio
di Eudosso, scindere ogni
cielo planetario in
un gruppo di
più sfere, ciascuna
delle quali aveva un
diverso movimento. Dalla
composizione dei loro moti
risultava il moto
apparente del pianeta.
Una sola intelligenza, secondo
l'avviso dell' Achillini, presiede
al moto 61 Achillini,
Quol. II, dub.
3, fol. 9,
col. 2. Il passo d'Averroè
nel luogo citato suona
cosi : «
Quod igitur magis
propinquum fuerit primo orbi,
habebit maius desiderium,
quoniam propinquitas in
loco illic est similis
propinquitati essentiarum ad
invicem, quae est
propinquitas in scientia et
in inteUectu rationali;
quanto enim. magis
intellectus primi moti erit
fortior, tanto magis
desiderium erit perfectius;
et quanto magis desiderium
erit perfectius, tanto
motus eius erit
velocior ». 62 Metaph.,
XII, t. e.
43-48, e. 8, 1073» 37-1074»
16. 63 Achillini, fol.
io, col. i. 64
Achillini.] di Ogni pianeta
; ma ognuna
delle sfere che
formano quel gruppo planetario è
mossa da una
sua particolare anima
che è causa efficiente di
moto, mentre l' intelligenza che
presiede al gruppo è
soltanto causa finale
a cui le
anime celesti obbediscono
65. Si hanno così
otto intelligenze: la
prima è Dio,
motore del cielo stellato
e quindi di
tutto l'universo: ad
essa obbediscono le sette
intelligenze planetarie, più
o meno nobili
secondo che sono più
o meno vicine
al primo Motore.
Ciascuna delle sette intelligenze
planetarie presiede a
un gruppo d'anime celesti, quanti
sono i moti
dei quali il
moto di ogni
pianeta è la risultante. Tutto questo,
pensa il filosofo
bolognese, si ricava
da Aristotele e dal
suo commentatore di
Cordova: ma secondo
la verità della fede,
fra la prima
Intelligenza, che è
infinita, e le intelligenze inferiori,
non può stabilirsi
alcuna proporzione, poiché queste,
per quanto più
o meno perfette,
sono tutte ugualmente distanti
dall' infinità della
Prima. Ciò non di
meno, anche secondo
la fede, esiste
fra le intelligenze
angeliche un ordine basato
sulla loro diversa
perfezione. Con questa osservazione, mentre
sta per mettere
il piede sulla
soglia della teologia, «
in ianuis theologiae
», l'Achillini pone
fine al secondo
quolibeto. Ma mentre il
filosofo averroista sentiva
il dovere di
arrestarsi sul limitare della
teologia, il teologo
al contrario non sentiva
ritegno di portare
l'abito del ragionamento
filosofico sul terreno della
verità rivelata e
di contaminare, come
spesso avveniva, i dogmi
della fede colle
lucubrazioni della filosofia. Tale è
il caso, fra
i molti che
si verificarono dal
secolo XIII in poi,
della speculazione teologica
intorno agli angeli. L'angelologia ebraico-cristiana era
solidamente costituita nei suoi
capisaldi teorici, come
ne' suoi elementi
rappresentativi e
fantastici, assai prima
del suo incontro
colla filosofia aristotelica. Ma poi
che, per opera
dei filosofi maomettani
ed ebrei l'aristotelismo prese
contatto colla rivelazione,
e a poco a
poco alla primitiva
e rozza cosmologia
biblica si soprappose quella dotta
dei greci ^^^
anche l'angelologia subì
un'uguale contaminazione. « Omnes
gentes quae concedunt
Deum esse, 65 ACHILLINI, fol.
IO, col. I. ^^
Cfr. il molto
interessante e istruttivo
studio di G.
Ricciotti, La cosmologia della
Bibbia e la
sua trasmissione fino
a Dante, Brescia,
« Morcelliana conveniunt in
hoc, quod caelum
est locus Dei
et aliorum spirituum
qui vulgariter dicuntur
Angeli», osservava Averroè^?; e
come lui pensavano
Avicenna, Isacco Israeli
e Moisè Maimonide.
Il problema da
risolvere, per i
teologi cristiani, era
quello di trovare nella
gerarchia angelica, fissata
dallo pseudo Dionigi Areopagita o
da S. Gregorio
Magno, il posto
preciso ove collocare le
intelligenze motrici d'Aristotele
e dei suoi
commentatori. Così, mentre Tommaso
assegna la funzione
di intelligenze motrici ad
alcuni angeli dell'ordine
delle Virtù, il domenicano
Maestro Teodorico di
Vriberg fa delle
intelligenze di cui parlano i
filosofi, un ordine
a parte che
precede l'ordine costituito dalle
anime dei cieli
e quello degli
angeli ^^. Per Dante,
le intelligenze motrici
dei cieli sono
quelle stesse « le
quali la
volgare gente chiamano
Angeli» 69; ma
non tutti gli Angeli,
sibbene quelli che,
in ciascuna gerarchia
ed ordine, sono stati
deputati alla vita
attiva, cioè al
governo del mondo, anzi
che alla pura
vita contemplativa 7°.
E secondo la
nobiltà dei diversi cieli
essi appartengono a
gerarchie e ordini
diversi?' ; sì che
il poeta, al
pari degli averroisti,
può stabilire un
rapporto tra la perfezione
dei cieli e
quella degli ordini
angelici disposti in nove
cerchi concentrici intorno
a Dio: Li cerchi
corporai sono ampi
ed arti secondo il
più e '1
men della virtute che
si distende per
tutte lor parti. Maggior bontà,
vuol far maggior
salute; maggior salute maggior
corpo cape, s'elli ha
le parti igualmente
compiute. Dunque costui che
tutto quanto rape l'altro
universo seco, corrisponde al cerchio
che più ama
e che più sape.
Per che,
se tu alla
virtù circonde la tua
misura, non alla
parvenza, delle sustanze che
t'appaion tonde, tu vederai
mirabil conseguenza di maggio
a più e
di minore a meno
in ciascun cielo,
a sua intelligenza
7^. 67 De
caelo, I, comm.
22. Cfr. C. Baeum ker,
Witelo, in Beitr.
z. Gesch. d. Philosophie
d. Mittelalters, III,
2, 1908, pp.
537 sgg. 68 E.
Krebs, Meister Dietrich,
in Beitr. z. Gesch.
d. Philos.d. Miti., V,
5-6, 1906, pp.
88*-9i*. 69 Dante, Convivio,
II, iv, 2. 70
Ib., II, IV,
10-13. 71 Ib., II,
v, 13-15. 73 Par.] Così
non ragionava certamente
Tommaso; così ragionavano invece Averroè
e gli averroisti,
pei quali le
intelligenze motrici son forma
delle rispettive sfere,
come forma del
cielo stellato è Dio
stesso. 3. Il
terzo quolibeto tratta
dell' intelletto possibile,
che occupa r inlìmo
posto tra gì'
intelletti e costituisce
la « tertia et
ultima pars latitudinis
intellectuum ». A
proposito di esso l'Achillini stabilisce
questa tesi: «
Intellectus possibilis est intensissimum materialium
et remississimum abstractorum
», ossia è la
più intensa delle
forme unite alla
materia e la
meno attiva delle forme
separate 73. Poiché,
come vedremo, l' intelletto umano, per
lui, è una
sostanza separata, unica
per tutta la specie
umana, e, nello
stesso tempo, forma
sostanziale degl' individui ai
quali è unito
per sua natura. Intorno a
questa tesi, son
discussi quattro dubia,
il primo dei quali
concerne la teoria
d'Alessandro d'Afrodisia, esposta e
combattuta da Averroè
74, secondo la
quale l'intelletto possibile sarebbe una
virtù organica tratta
dalla potenza della materia. L'averroista
bolognese confuta questa
dottrina con undici argomenti
tolti dagli scritti
del commentatore arabo. Ma
se r intelletto
possibile non è
una « virtus
materialis », al modo
delle forme che
hanno essere solo
per la materia a
cui sono unite
e dalla quale
sono individuate, se
esso ha una sua
propria realtà indipendente
dalla materia, ne
consegue che in se
stesso sia unico
per tutti gli
uomini. Questa è appunto
la tesi
che l'Achillini sostiene
d'accordo con Averroè, discutendo il
secondo dubbio :
« Utrum [unum]
intellectum. possibilem
habeat omnis homo
» 75. Fra gli
argomenti a sostegno
della tesi averroistica
vi sono questi, desunti
dalla natura della
conoscenza intellettuale: Si sic
[cioè, si intellectus
possibilis esset multiplicatus
ad numerum hominum),
contingeret ut res
intellecta apud te
et apud me sit
unum in specie
et duo in
individuo; ratio patet
supra. — Secundo, si
sic, procederetur in
infinitum in coiiceptibus; quia 73
AcHiLLiNi, f. IO,
col. 1-2. 74 De
anima, III, comm.
5, digress. pars.
III. Cfr. S.
Tommaso, Trattato sull'unità dell'intelletto contro
gli averroisti, Firenze,
Sansoni, 1938, pp. 19-20,
40-42. 75 AcHiLLiNi, fol.
IO, col. 4-f.
II, col. I. I
conceptus essent numero
diversi, et ab
omni per se
intelligibili numeraliter
multiplicato abstrahibilis est
conceptus; ideo ab
illis conceptibus essent alii
conceptus abstrahibiles ;
patet supra. — Tertio,
unus est conceptus
essentialis omnium individuorum eiusdem speciei;
ergo unus est
intellectus possibilis omnium
hominum. Questi tre argomenti
non sono in
sostanza che uno
solo, cioè quello di
cui già facevano
uso gli averroisti,
coi quali polemizza Tommaso
nel De unitate
intellectus, e a
capo dei quali era
Sigieri: Adhuc autem ad
munimentum sui erroris
aliam rationem inducunt. Quaerunt
enim utriim intellectum
in me et
in te sit unum
penitus, aut duo
in numero et
unum in specie.
Si unum intellectum, tunc
erit unus intellectus.
Si duo in
numero et unum in
specie, sequitur quod
« intellecta habebunt
rem intellectam « :
quaecumque enim sunt
duo in numero
et unum in
specie, sunt unum intellectum,
quia est una
quidditas per quam
intelligitur; et sic procedetur
in infinitum, quod
est impossibile. Ergo
impossibile est quod sint
duo intellecta in
numero in me
et in te;
est ergo unum tantum,
et unus intellectus
numero tantum in
omnibus 1^. 76 S.
Tommaso, Traci, de
un. intell. cantra
averr.,ed. Keeler, Roma, 1936,
§ 106, pp.
68-69; cfr. il
mio commento alla
traduzione di questo opuscolo tomistico,
Firenze, Sansoni, 1938,
p. 175, nota
2. L'argomento che deriva
da Averroè {De
anima, III, comm.
5, digress. pars
V, sol. ^ae quaestionis), è
ampliato da Egidio
Romano nel suo
trattato De plur. inteìlectus possibilis,
Venezia, 1500, parte
I, fol. girò,
ed è la
sesta delle ragioni colle
quali Averroè «
positionem suam roborat
et vult ostendere
quod intellectus, qui
dicitur possibilis, est
unus numero »,
in questo modo: «Si
potest estendi quod
una et eadem
species intelligibilis informat
omnes intellectus, tunc
sequitur quod sit
unus intellectus in omnibus
numero. Unde licet
non sequeretur quod
eadem res videretur ab
oculo omnium hominum,
si unus esset
oculus omnium, bene
tamen valeret quod, si
una species informaret
oculum cuiuslibet hominis, quod
unus esset oculus
cuiuslibet hominis. Ergo a simili:
si igitur una species
informat intellectum omnis
hominis, omnes homines
habent unum intellectum. Quod
autem una species
informet intellectum omnis hominis, patet;
nam possibile est
quod plures homines
intelligant lapidem. Tunc
ergo quero: aut
est per imam
^peciem lapidis, aut
per aliam et aliam.
Si per unam,
habeo intentum; si
per aham et
aliam, tunc ille due
species oportet quod
differant numero, et
communicent in forma, cum
ducant in cognitionem
unius naturae. Sed
quotiescunque aliqua dicunt differentiam
in numero seu
in specie, tunc
nullum eorum habet intellectum
in actu, et
habet tantum intellectum
comm.unem; ideo nulla illarum
specierum est in
intellectu in actu,
sed habebunt intellectum communem.
Et
tunc quero de
ilio intellectu comuni,
cum possit intelligi, utrum
intelligatur per eandem
speciem vel per
aliam; sed non est
abire in infinitum;
standum est igitur
in primis, quod
una species potest informare
intellectum plurium hominum
et pari ra[Nel
corso della discussione
delle obiezioni contro
la tesi dell'unità, l'Achillini
inserisce addirittura un
brano di Sigieri, che
noi conosciamo attraverso
una citazione del
Nifo e che questi
dice preso dal
trattato De intellectn,
« misso Thome
in responsione ad illum
Thome» 77. Giova riportarlo,
per un confronto con
quanto scrive il
suessano: Ad, haec supponamus
quod iste terminus
« homo »
significat compositum ex corpore
et intellectu, et
quod « homo
» est per se
unum, directe reponibile
in praedicatione substantiae,
sub « aninali
», intrinsece denoininatum
intellectione etc. Secundo,
non potest intellectus informare
materiam non informante
cogitativa quia non stat
materia sino forma
constituta in esse
per eam; et non
potest intellectus informare
sine sua proxima
dispositione et ultima, quae
est cogitativa. Et
sic patet cogitativam
ordinari in intellectivam, quamvis
cogitativa non sit
forma generica. Ex quo
patet quare operatio
cogitativae et intellectus
possibilis se comitantur,
ut tangit Commentator,
2 De anima,
comm. 15. Ncque potest
cogitativa informare, non
informante intellectu, quia, dato
informabili ultimate disposito
et informativo, ponitur
informatio. Est autem
materia informata cogitativa
informabile propinquum et ultimate
dispositum ad recipiendum
intellectum; et sic potest
una forma substantialis
esse dispositio ad
aliain, dummodo illa forma
praeparans non sit
materiae ratio recipiendi. Hucusque nihil
mali dictum est78.
Tertio, praemittendum apud Averroim
quod intelligentiae sunt
haec et individuae
individuatione non repugnante
esse universali, quia
esse earum in
anima et extra animam
est idem, 3
De anima, comm. 9, et
7 Metaphysicae, commento
41: «In abstractis
non differt quidditas
ab eo cuius est
». Est autem
intellectus possibilis de
genere intelligentiarum, ideo
non repugnat intellectum
dare esse hoc,
quamvis etiam sit universalis.
Ideo
concedo Sortem habere
suum esse hoc ab
intellectu. Sed a
materia, divisa informabili cogitativa. tione omnium;
igitur omnes homines
habent unum intellectum
numero »^ Appare evidente
da questo testo
d' Egidio e
da quello di
Tommaso, come si sia
ingannato il Fiorentino,
di solito attento
e accurato, quando ha
creduto di ravvisare
nel terzo argomento
dell'Achillini, qui sopra riportato, «
due mutazioni sostanziali
» dell'averroismo {Pietro
Pomponazzi. Studi storici
su la scuola
bolognese e padovana
nel sec. XVI. Firenze,
1868, pp. 254-255).
Il « conceptus
essentialis omnium individuorum
eiusdem speciei »
è l' intellectum, cioè
il votjtÓv aristotelico, l'universale che
è certamente unico
per tutti gì'
individui d'una stessa specie. Dall'unità
dell' intellectum Averroè
e, con lui,
l'Achillini deducono l'unità
dell' intellectus possibilis. 77 Nifo,
De intellectu, 1,
tv. 3, e.
18; cfr. Sigieri,
p. 18. 78 Questa
frase che nel
riassunto del Nifo
manca, è evidentemente un'osservazione dell'Achihini, e
mostra che questi
ha un testo
dinanzi a sé. I 20/ informante mediante
dimensionibus, oritur possibilitas
multiplicationis
individuorum sub eadem
specie; quae omnia,
secundum Commentatorem,
propter esse universale
intellectus, informari
possunt ilio et ab ilio
sumere suum esse
hoc et unum,
et verius unum quam
bruta a sensu,
quia mediantibus dimensionibus unitur sensus
materiae, sed non
intellectus 79. Parrebbe dal
confronto di questo
brano con quanto
ci è fatto sapere
dal Nifo, che
l'Achillini abbia fatto
sua una pagina dello
scritto di Sigieri
in risposta al
De unitale intellectus dell' Aquinate. Come
vedremo più oltre,
non è questo
l'unico caso da rilevare. Dopo aver
sostenuta con sedici
argomentazioni la tesi dell'unità dell'
intelletto possibile, attribuita
ad Aristotele, ed aver
risolto le quattro
obiezioni contro di
essa, il bolognese conclude affermando
che la tesi
d'Aristotele e d'Averroè
è falsa, e, contro
il metodo finora
seguito, fa vedere
che cosa si può
rispondere ai sedici
argomenti a prò
di essa. Indi passa
a discutere un
terzo dubbio, e
cioè « Utrum
intel- lactus possibilis sit
pure potentialis ».
Il problema era
stato posto almeno due
volte da Sigieri
di Brabante, e
tutte e due le
volte risolto allo
stesso modo: l'intelletto
possibile, prima dell'atto dell'
intendere, non ha
alcun atto, né
può dirsi so- stanza se
non in potenza.
Affermare, come facevano
Tommaso ed altri, che esso sia
una sostanza in
atto « in
genere intellectua- lis naturae
», prima dell'atto
d' intendere, « est
ponere con- traria et impossibilia
vel incompossibilia»8o; per
questa ra- gione appunto Aristotele
aveva detto e
quod intellectus ante intelligere nullam
naturam habet nisi
istam quod possibilis»^'. L' intelletto possibile
diviene atto e
sostanza « in
genere intellectualis
naturae », soltanto
per l'azione su
di esso del- l' intelletto agente,
che è una
sostanza separata, la
quale, come ormai sappiamo,
per Sigieri è Dio.
Identica è la
soluzione che di
questo problema dà
l'Achil- lini: r intelletto possibile
è sostanza puramente
potenziale « in genere
intelligibilium»^'-, e quello
che lo trae
dalla potenza 79 AcHiLLiNi,
fol. II, col.
2-3. ^0 Sigieri, Qiiaestiones
naturales, ed. Stegmùller,
III, pp. 179-180. ^i
Sigieri, De anima
intellectiva, ed. Mandonnet,
IX, p. 171. Cfr.
Giorn. Crii. d.
Filos. Hai., XX,
1939, pp. 467-471. 8i
AcHiLLiNi, Quol. Ili,
dub. 3, fol.
12, col. i-fol.
13, col. 4. 2o8
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI l'atto è r
intelletto agente che,
anche per 1'
averroista ita- liano, come vedremo
esaminando il quarto
quolibeto, è Dio: Componitur enim
intellectus possibilis agenti;
tali tamen com- positione quod
remanent dnae substantiae
separatae in actu. Ideo,
3 De anima,
comm. 20, istae
substantiae sunt duae
uno modo, et unum
alio modo. Sunt
enim duae per
diversitatem actio- nis; et
sunt unum, quia
intellectus materialis perficitur
per agen- tem. Et
secundo De anima,
comm. 74, et
3 De anima,
comm. 36, omnis actio
attributa alieni propter
aliqua duo existentia
in eo, necesse est
ut unum sit
materia et aliud
forma; sed nos
intelli- gimus per intellectum
agentem et possibilem,
3 De anima, comm.
18; et sic aliquo
modo intellectus agens
est forma nobis, ut
patet 3 De
anima, comm.. 36.
Se r
intelletto possibile non è un
atto prima d' intendere, ma semplice
potenza, ne segue
che l' intellezione che
attua questa potenza, sia
essa l'atto sostanziale
dell' intelletto, poiché la
pura potenza non
è mai soggetto
immediato d'ac- cidenti.
Perciò l'atto d' intendere,
del pari che
l'abito della scienza, è
perfezione essenziale dell'
intelletto possibile e atto
che costituisce la
sua sostanza quando
pensa e ragiona
^3. Anche in questo
egli è perfettamente
d'accordo con Sigieri
^4 Unico per tutta
la specie umana,
l' intelletto possibile è eternamente
congiunto coli' intelletto
agente che ne
attua la potenza, e
possiede, grazie a
questo congiungimento, un
atto di pensiero eterno
in cui consiste
la sua stessa
natura. Di abiti e
di atti accidentali
si può parlare
non in rapporto all'
intelletto in sé,
ma solo in rapporto ai
fantasmi sensibili ai quali
l' intelletto possibile s'unisce
nei singoli individui della specie
umana. Questo, s' intende,
dal punto di
vista averroistico, in quanto
s'ammette un unico
intelletto per tutti gli
uomini. Ma ciò
non è più vero, se
si rifiuta come
falsa la tesi dell'unicità dell'
intelletto possibile. L'ultimo dubbio
del terzo quolibeto
verte sul problema: «
Utrum intellectus possibilis
sit forma dans
esse hominem ». Giacomo
Zabarella, un secolo
più tardi, faceva
le sue mera- viglie perché l'Achillini,
dopo aver sostenuto
l'unità dell' in- telletto, non avesse
visto la contradizione
che e' è
ad affer- mare che lo
stesso intelletto, unico
per tutta la
specie, è forma ACHILLINI, fol.
13, col. I. Cfr.
Sigieri, nei luoghi
cit. I informante, e
non soltanto assistente,
sì da costituire
l'uomo nel suo essere
di uomo ^5.
Ma il filosofo
padovano non sapeva che
anche in questo
il bolognese segue
da presso il
maestro brabantino. Del quale
è appunto la
tesi, a quanto
e' informa il Nifo
86, che r
intelletto, pur essendo
unico in sé
stesso, è « forma
costituens hominem et
hunc hominem :
hominem in esse specifico,
et hunc hominem
in esse hoc
». Anzi il
Nifo ci fa sapere
che Sigieri, nell'opera
della quale il
suessano riferisce alcuni tratti
che son riportati
alla lettera anche
dall'Achillini, come abbiamo visto
a proposito del
secondo dubbio di
questo terzo quolibeto, riteneva,
al pari del
bolognese, dottrina conforme alla
mente d'Averroè quella
che afferma esser
l' intelletto possibile
forma sostanziale dell'uomo.
Come Sigieri, anche l'averroista
italiano poneva nell'uomo
due forme: la cogitativa
tratta dalla potenza
della materia, e l'
intelletto. Ma la prima
è ordinata al
secondo, e questo
è complemento e perfezione
di quella 87
; sì che
la materia già
informata dalla cogitativa è
1' « informabile
ultimate dispositum ad
recipiendum intellectum))88, che
ne è la
forma ultima. Il
Nifo ad esprimere questo intimo
e sostanziale rapporto
fra la cogitativa e
r intelletto possibile,
s'era servito del
termine di «
semianime o semiforme ». Il termine
nell'Achillini non s' incontra,
e non credo s' incontrasse nemmeno
nello scritto di
Sigieri al quale il
suessano si riferiva:
ma il concetto
e' è, sì
nell'uno che nell'altro 89. Forma
sostanziale che dà
all'uomo il suo
specifico essere di 85
Iacobi Zabarellae, Liber
de mente hiimana
(nel voi. De
rebus naturalibus, Venezia, 1590,
pp. 641-684, e
nei Commentarii in
tres Arist. libros de
anima, Venezia, 1605,
dopo il commento
al t. 11,
del libro II), cap.
3 e II. 86
De inteUectu, I,
tr. 2, e.
8, tr. 3,
e. 18; De
anima. III, comm.
ad t. e. 5;
cfr. Sigieri.... nel
pens., pp. 14-20.
Anche il Card.
Gaetano, nel suo commento
al De anima,
stampato a Firenze,
lui vivente, nel 15
io, dopo aver detto
che Averroè separò
l'anima intellettiva dal
corpo, osserva in margine
che questo è
« contra alexandrum
achiUinum, quolibeto 30, et
subgerium in tractatu ad
S. Thomam, qui
volunt quod intellectus uniatur secundum
esse, apud averroem,
et sit unicus
» (III, cap. 2, fol.
59, col.
3). 87 ACHILLINI, fol.
15, col. I. 88
AcHiLLiNi, fol. II,
col. 3. 89 In
Sigieri anzi il
concetto s' incontra fin
nelle Quaestiones super iertio
de anima del
Merton College, cod.
292; cfr. «Giornale
Crit. d. Filos. Ital.
», XXXI, 1950,
pp. 317-25. Lo
stesso concetto appare
anche nelle Quaestiones de
anima intellettiva, ed.
Mandonnet.] uomo, r intelletto
non è per
altro « forma
constituta in esse per
materiam », sì
da dipendere da
questa, come accade
per le forme che
son tratte dalla
potenza della materia,
poiché ha un proprio
essere di forma
separata al pari
delle intelligenze celesti, che
pur son forme
dei rispettivi cieli 9°.
Ed anche in questo
concetto l'accordo dell'Achilhni
coll'averroista belga è perfetto. Forma e
perfezione del primo
cielo Dio, forma
e perfezione dei cieli
inferiori al primo
le intelligenze motrici,
forma e perfezione dell'uomo
l' intelletto possibile, che
è l' infima delle intelligenze. Resta
ora da vedere
come Dio sia
forma anche degl' intelletti
e ragione di
ogni intelligibilità. 4. Il
quarto quolibeto è
dedicato all' intelletto
agente. Se r intelletto
possibile è pura
potenza, l' intelletto agente è
puro atto senz'ombra
di potenza; perciò
esso possiede, fra tutti
gì' intelletti, il
massimo grado d' intensità
nell' intendere. Esso dunque
è Dio. La
identità dell' intelletto
agente con Dio, che
il Nifo attesta
essere stata sostenuta
da Sigieri, è dimostrata dall' Achillini con
questi argomenti: Primo, omnis
felicitas est deus;
sed intellectus agens
est felicitas; ergo
etc. Maior et
minor in secundo
dubio et tertio
declarantur. — Secundo,
omnis intellectus qui
est. omnia facere
est deus; sed intellectus
agens est intellectus
qui est omnia
facere, 3 De anima,
textu comm. 18,
etc. Patet maior,
quia esse omnia facere
est ad omnia
receptibilia in intellectu
possibili, ad hoc ut
in eo recipiantur,
effective concurrere, vel
est ad omnia
factibilia effective concurrere,
vel omnia facere,
idest purus actus;
et quomodocumque intelligatur, soli
deo competit. —
Tertio, illud cuius substantia
est sua operatio
omnimode, est deus;
sed intellectus agentis substantia
est illius operatio
omnimode, 3 De
anima, comm. 19: «Et
est in sua
substantia actio »,
idest, non est
in eo potentia ad
aliquid. — Quarto,
omne quod est
primum educens formam de
materia, est deus;
patet ex quolibeto
primo. Sed intelligentia
agens est primum
educens etc, 2
De aniìna, comm.
59. — Quinto, omne
quod animae nostrae
infundit intellectum, est intellectus agens;
sed deus animae
nostrae infundit intellectum. Patet
maior, quia intellectum speculativum facit
intellectus 90 Achillini, fol.
15, col. 2;
cfr. Quol. Ili,
dub. 3, contra,
ad i, fol. 12,
col 3. Nifo,
De intell., 1,
tr. 2, e.
8; De anima,
III, comm. ad t.
5; V. Sigieri,
pp. 14-20. I agens esse
in intellectu possibili,
faciendo de potentia
intellectis actu intellecta. Minor
est Aristotelis exemplum,
3 Rhetoy'icorum: « Intellectui
deus lumen accendit
in anima ». Ex
hoc patet quare
Commentator, 3 De
anima, comm. 20, dixit
se differre a
Themistio, in modo
ponendi intellectum agentera, et
convenire cum Alexandre;
quia Themistius voluit
intellectum agentem non esse
Deum, quia animae
nostrae est pars;
sed Alexander voluit intellectum
agentem esse deum:
patet ex 3
De anima, comm. 36, ubi
Commentator, recitando opinionem
Alexandri dixit: « Intellectu s
agens est prima
causa agens intellectum
materialem))9i. Il primo di
questi argomenti è
preso da Sigieri?-,
come vedremo anche meglio
fra poco. Il
secondo e il
terzo son ricavati dal
testo aristotelico del
De animai, ov'
è detto che
è proprio dell' intelletto
agente rendere intelligibili
tutte le cose,
e che lo stesso
intelletto agente è
atto per sua
natura, senza alcuna mescolanza, sì che «
non intende ora
sì ed ora
no », ma
intende sempre, senza intermissione; le
quali cose son
proprie soltanto di Dio.
Importante poi è
l'osservazione concernente la dichiarazione di
Averroè, il quale
approva Alessandro d'Afrodisia, per avere
identificato l' intelletto agente
colla causa prima che
trae dalla potenza
all'atto l' intelletto possibile o
hylico. Dopo di che
l'Achillini riporta ben
nove obiezioni che solevano
farsi alla tesi
da lui sostenuta;
l'ultima delle quali
è questa: « Nono,
sequitur deum esse
partem animae nostre, quod
non videtur etc»,
giacché Aristotele 94 aveva
detto che tanto r
intelletto agente quanto
quello possibile bisogna
che siano due èv
t-^ ^u/y^... Sia9opaL
Alla quale obiezione
il bolognese risponde semplicemente
così: «Ad nonum,
declaratum est supra quomodo
deus est pars
animae nostrae, et
quomodo non )). Ed
infatti in un
passo del quolibeto
III, dub. 3, che
abbiamo già riferito
altra volta 95,
egli aveva detto
che, pur essendo l' intelletto
possibile ed agente
due sostanze diverse, s'uniscono nell'atto
dell' intendere di
guisa che in
qualche modo « intellectus
agens est forma
nobis ». 91 AcHiLLiNi,
Quol. IV, dub.
I, f. 16,
col. I. V.
sopra, il saggio
VI. 92 NiFO, De
intell., II, tr.
2, e. 17;
cfr. Sigieri, p.
25. 93 II, e. 5, 43oa
15, 18, 22. 94
De anima. ] Ma in
che modo Dio
s'unisca all' intelletto
umano come forma, è
detto più ampiamente
nella discussione del
secondo dubiuni del IV
quolibeto, ove si
pone lo stesso
problema che s'era posto
Sigieri nel Libey
de felicitate 9^,
« Utrum felicitas
sit deus », e
lo risolve allo
stesso modo del
brabantino. Dio è il
fine supremo di
ogni intelligenza, nel
cui conseguimento consiste la
beatitudine, perché Dio è ciò
che è «
simpliciter perfectum quod secundum
se est eligibile
semper », è
« optimum, pulcherrimum, delectabilissimum »,
è quello che
« nullo indiget »
ed è «
principium honorum et
causa ipsorum ». Soltanto
Dio, dunque, «
est felicitas sibi
aut aliis intelligentiis aut homini,
quia solum ipse
est perfectissimum intelligibile
et appetibile propter se
», e solo
in lui «
eminenter reperitur ratio obiecti
intellectus et voluntatis
» 97, Si dirà
che la felicità
è un atto
che è in
noi, mentre Dio non
è in noi.
L'Achillini risponde che,
come nel primo
quolibeto aveva concesso «
deum esse intellectionem intelligentiarum, nunc
conceditur deum esse
intellectionem intellectus
possibilis et hominis
» 9^. Ma s'obietta
ancora: Tertio, nullum obiectum
operationis quae est
felicitas est illa operatio
quae est circa
illud obiectum; patet
ex differentia Inter obiectum operationis
et operationem. Sed deus est
obiectum operationis quae est
felicitas; patet io
Ethicorum, cap. io: « Perfecta
felicitas est operatio
speculativa optimorum ».
Ergo etc. A questa obiezione
l'Achillini risponde negando
la maggiore : Ad tertium
negatur maior, quia
sufficit inter operationem
et obiectum distinctio rationis.
Dico igitur quod
felicitas (non intelligo
polica[m] quae est
usus virtutis, septimo
Politicorum, sed
contemplativa [m], quae
secundum Philosophum, decimo Ethicorum, cap.
8, est secundum
nobilissimum habitum qui
est sapientia, et secundum
eundem, septimo Politicorum,
est melior quam politica)
non est actus
qualitativus inhaerens intellectui aut voluntati:
quia si sic,
tunc non tenderent
intellectus et voluntas
in félicitatem tamquam
in ultimum finem.
Secundo, quia ille actus
non est perfectissimum. Tertio,
quia oporteret ponere ¥>
NiFO, De intell.,
II, tr. 2,
e. 2 e 17; cfr.
Sigieri, pp. 24-26. 97
AcHiLLiNi, fol. 16,
col. 3-4. 98 ACHILLINI,
fol. 16, col.
4. I « duas
felicitates: imam formalem
et intrinsecam, et
aliam obiectivam et
extrinsecam ; et
sic Aristotelem et
Commentatorem indistincte processisse
in aequivoco, cum
dixeriint felicitatem esse ultimum
fineni et operationem
animae. Quarto, quia
ex quolibeto tertio non
datur accidens inhaerens
intellectui. Concludo igitur quod
tantum una est
felicitas, et quod
ea omnia vere
felicitabilia felicitantur;
et ista est
deus. Hanc sententiam
ponit Commentator, IO
Etliicoritm, capite 8: in Deo
esse felix est
in speculatione sui, in
nobis esse felix
est in eo
in quo est sibi, prout
nobis est possibile 9"). Allo stesso
modo Sigieri sosteneva
che, come «
Deus Deo per essentiam
beatificatur », così
l' intelligenza a lui
più vicina « essentia
Dei ut forma
felicitatur », «
et consequenter omnes residui
intellectus; adeo quod
intellectus hominis essentia Dei
felicitatur, quemadmodum Deus
essentia Dei»ioo. Sebbene distinti
nella loro natura,
l' intelletto causato non potrebbe
intendere Dio, se
Dio non lo
informasse di sé,
giacché, tanto per l'Achillini
quanto per Sigieri,
« intellectio qua
Deus intelligitur est ipse
Deus»; l'operazione colla
quale Dio è inteso
da parte dell'intelletto causato
e l'oggetto inteso formano, nell'atto
dell' intendere, una
cosa sola. In
quest'atto, Dio, informando di sé gì'
intelletti inferiori, fa ad essi
dono di se stesso.
« Ex quo
patet — osserva
il bolognese — quod
felicitas est optimum
deorum donum, quia
non est donum excellentius quam
donare seipsum, et
praesertim si donatum sit
perfectissimum entium. Hinc
apparet quam commode potuit Aristoteles,
13 De animalibus,
substantiam hominis divinam appellare
» '"i. Principio di
siffatta beatitudine è,
pertanto, il congiungimento della mente
um.ana con Dio
nell'atto dell' intendere. Perciò la
felicità consiste formalmente
in un atto
d' intelligenza, poiché solo nell'atto
dell' intendere avviene
il congiungimento dello spirito
causato coli' intelletto
primo : la
beatitudine è il più
alto grado della
vita speculativa, come
con Aristotele aveva detto
Averroè 'o-. A questo
punto giova chiarire
qual era il
pensiero di Sigieri intorno ad
una questione dibattura
specialmente fra i 99
ACHILLINI, fol. IO,
col. 4-fol. 17,
col. I. 100 NiFo,
/. c; V.
Sigieri, p. 25. loi
AcHiLLiNi, fol. 16,
col. 4. Cfr.
Arist., De part.
animai., IV, e. IO, 686»
27-28. "• Eth. Xiconi., X,
comm. al e.
8, 11 jS
20 sgg.; De
anima, III,comm.] teologi. Questi
solevano chiedersi se
l'esser beato si
fonda, come dice Dante
^°3, nell'atto che
vede oppure in
quel ch'ama; in altri
termini, se la
heatitudo risieda formalmente
in un atto di
conoscenza del quale
è soggetto l' intelletto, ovvero
in un atto d'amore
che risiede nella
volontà. Ed è
noto che, mentre i
teologi del vecchio
indirizzo agostiniano e
i francescani ponevano la
beatitudine in un
atto di volontà
al quale precede la
conoscenza, Tommaso e
la sua scuola
la facevano consistere essenzialmente in
un atto d' intelligenza, d'accordo
in questo cogli averroisti,
al quale atto
d' intelligenza tien dietro l'atto
d'amore da parte
della volontà. Se
non che l'una
e l'altra teoria presuppongono
una troppo netta
distinzione fra l' intelhgenza e
il volere. Sigieri
supera il problema,
negando la distinzione reale
fra queste due
« facoltà ».
Ciò risulta da un
importante luogo del
Nifo, che prima
m'era sfuggito. Dopo aver
riassunto « que ex libello
Subgerii.... excipiuntur"4)), intorno
al problema dell'identità
della beatitudine con Dio,
il Nifo prosegue: Ut
igitur positio huius
philosophi intelligatur, oportet
accipere quod sicut unum
precise est intellectum
et volitum sub
diversis rationibus,
intellectum quidem ut
perficiens intellectum ipsum absolute, volitum
ut perficiens illum
sub indifferentia fuga
aut consensus; ita una
numero est intellectio
et volitio, sed
differunt quoniam intellectio est
intellectum absolute, volitio
est intellectum ut acceptum
vel fugitum; sic
unamet res est
voluntas et intellectus
105 : intellectus
quidem, ut perficitur
ac formatur ab
intelligibili sub ratione forme
absolute; voluntas autem
ut perficitur ratione fuge
vel prosequele, ut
superius diximus. Ergo
intellectus et voluntas sunt
unamet res simpliciter
absolute, licet sint
diverse rationes; et inde
videmus Aristotelem et
Averroem nuUam facere differentiam
inter ea, nec
tractatus diversos, nec
capitula diversa, ut in
libro De anima
visum est. Ex quo
sequitur, quod unamet
felicitas est intellectio
et volitio, ac unainet
essentia est intellectum
et volitum; est
enim in abstractis intellectio
rei idem quod
ipsa res, ac
volitio rei idem etiam
cum re volita.
Ergo si
Deus erit felicitas.
Deus erit intellectio et volitio
insimul; et etiam
simul est volitio
quod felicitas, et intellectio
quod volitio et
felicitas etc. Amplius sequitur
quod ociosa est
questio querens utrum
fe103 Pa»'., XXVIII,
109-111. '04 Nifo, De
intelL, II, tr. 2, e. 17;
cfr. Sigieri, p.
26. i°5 Così anche
I'Achillini, Quol. Ili,
dub. 3, fol.
13, col. 4: «Ad
primum, voluntas et
intellectus sunt idem
re, licet secundum
esse vel rationem differant
». I licitas principalius sit
intellectio quam volitio,
an econtra; cum volitio
et intellectio non
differant nisi nomine
vel ratione; nisi questio
fiat sub ratione
respectiva hoc modo,
scilicet utrum felicitas
sit Deus sub
ratione qua intellectio,
an Deus sub
ratione qua volitio vel
amor ^°(>. A questa
felicità, dichiara l'Achillini,
noi tendiamo per natura,
né può
darsi che il
desiderio naturale resti
inappagato in tutta la
specie. Perciò, considerato
in rapporto alla
specie umana che è
eterna, anche l' intelletto
umano, come insegna Averroè, è
eternamente felice, perché
eternamente congiunto con Dio
e colle intelligenze
separate '07. Ma
non felici son
tutti gli uomini, singolarmente
presi, poiché non
tutti arrivano, in questa
vita, a questo
segno. Giacché per
l'Achillini, come per Sigieri,
si tratta appunto
della felicità alla
quale è concesso all'uomo d'arrivare
in questa vita,
mediante l'acquisto della scienza: «
Felicitatem autem in
alia vita, quam
non potuerunt philosophi naturali
ratione inquirere, theologis
relinquimus considerandam » ^°^. Ma
può l'uomo arrivare
in questa vita
a conoscere le sostanze
separate ? Tale
il problema che
il nostro bolognese
si pone subito dopo,
col terzo dubbio.
Nella soluzione di
esso egli fa uso
dell'argomento di Sigieri,
riferito dal Nifo
e da Francesco de'
Silvestri: Secundo, si impossibile
esset intellectum possibilem
intelligere substantias
abstractas, ociose egisset
natura, quia fecisset,
quod est in se
naturaliter intellectum, non
intellectum ab aliquo.
Ratio est Averrois, secundo
Metaphysucae, comm. primo.
Suppono in hac ratione,
quod omnis intellectio
conveniens intellectui possibili convenit homini,
sic quod non
est possibile quod
intellectui competat, quin homini
conveniant: hoc voluit
Aristoteles, primo De anima,
textu commenti 64, et hoc
proposito negato, clauditur via
Commentatori ad ostendendum
caelum intelligere. Ideo,
si possibile est substantias
separatas intelligi ab
intellectu possibili, possibile est
substantias separatas intelligi
ab homine. Hoc
stante, arguo sic : Ouandocumque est
aliqua forma non
apta recipi in maxime
receptivo alicuius generis,
illa non est
receptibilis in minus reciptivo
illius generis; sed
intellectus possibilis in
genere intelligentiarum est maxime
receptivus; patetexquolibeto tertioio9; 106 Nifo,
ib., e. 18. 107
AcHiLLiNi, fol. 17,
col. I. Cfr.
AvERR., De awf/Ma,
III, comm. 36. 1°^
ACHILLINI, ib. i°9 V.
sopra, pp. 207-208. 2l6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI ergo, si
primam formam non
est possibile intellectum
possibilem recipere, non est
possibile alium intellectum
recipere primam. formam; et
sic iam frustrarentur
intelligentiae mediae ab
hoc fine, qui est
deum gloriosum intelligere.
Tunc ultra: quandocumque intellectus abstractus
non potest intelligere
interiora, ut quolibeto primo dictum
est esse de
mente Averroismo; sed
nulla intelligentia media
potest primam intelligere,
ut ex ratione
superiori sequitur; ergo nulla
intelligentia potest intelligentiam mediam intelligere; sed
ncque deus potest
intelligentias medias intelligere, secundum Averroim,
ut patet quolibeto
primo; neque intellectus possibilis potest
eas intelligere per
te; ergo intellectum
naturaliter in se non
est intellectum ab
aliquo. Patet consequentia
de intelligentiis mediis:
quia non a Deo, qui
est supra; non
a seipsis, ut sequitur;
neque ab intellectu
possibili, qui est
infra, per te intelliguntur; et
non est alius
intellectus ab istis.
Et sic patet alia
ociositas in natura
et maxima; et
sic patet quod,
quamvis non sit homo
finis intelligentiarum, tamen,
si non sunt
intelligibiles ab homine,
frustrantur a suo
fine; et sic
ociose sunt intelligibiles etc. Ilaec
omnia ex modis
intelligendi dei, intelligentiarum et intellectus
possibilis supra declaratis
sunt evidentia'".
Passando ad esporre
i fondamenti filosoiìci
sui quali si
basa la tesi che
attribuisce all' intelletto
umano il potere
di elevarsi a conoscere
le sostanze separate,
l'averroista bolognese
distingue, come aveva
già fatto Giovanni
di Jandun "2,
la conoscenza speculativa acquisita
per mezzo dello
studio delle discipline filosofiche,
dalla conoscenza intuitiva,
« qua cognoscimus
substantias separatas per
earum essentias proprias
» ; e in
quest'ultima fa consistere
la felicità suprema
dell'uomo. Sì che la
beatitudine non è
raggiunta coll'acquisto delle
scienze speculative, ma dopo
il loro apprendimento. L'acquisto
per altro delle scienze
è una condizione
indispensabile e sufficiente a
rendere la mente
umana preparata e
disposta al congiungimento coir intelletto
agente, che sappiamo
ormai esser Dio. Ma,
oltre a ciò,
è necessario che
alla perfetta conoscenza
spe- culativa tenga dietro la
pratica delle virtù
morali: Cum igitur fuerit
homo secundum virtutes
morales sufficienter habituatus, sic
quod cessaverit discordia
inter sensitivum appe- titum
et intellectivum; sic
quod rationi regimen
tributum erit 11° AcHiLLiNi,
Quol. I, dub.
I. Questo luogo,
nella stampa veneziana, è
evidentemente difettoso.
"I AcHiLLiNi, Quol.
IV, dub. 3,
fol. 17, col.
1-2; NiFO, De
intell., II, tr. 2, e. II
; In Averroys
de anime beatitudine,
I, comm. 53;
cfr. Sigieri, pp. 22-23. "2 De
anima. III, q.
36; Metaph., II,
q. 4. I «
sine intrinseco repugnanti;
sic quod veruni
erit dominium ra- tionis
super viribns sensitivis,
tunc continuabitur intellectus
possibilis, secundum quod
est felix, homini
et denominabit homi- nem felicem. Ex quo patet
quod quia in
habituatione hominis
secundum virtutes et
scientias magnum tempus
vitae hominis labitur "3. Unito al corpo
umano da un
legame intrinseco, l' intelletto possibile trae
dall'esperienza sensibile le
forme immerse nella materia
e rese immateriali
per un processo
d'astrazione. Quando,
attuato da queste
forme divenute intelligibili
e dal- l'abito delle scienze
filosofiche, l' intelletto umano
si trova congiunto coli'
intelletto agente nell'atto
della beatitudine, alla stessa
beatitudine parteciperanno in tal modo
le cose del mondo
materiale, fatte intelligibili; sì
che l'uomo verrà
ad essere anello di
congiunzione fra il
mondo superiore e
il mondo inferiore, «
nexus superiorum cum
inferioribus, ultra hoc quod
forma hominis sit
intelligentia » "4. Anzi,
siccome Dio nell'atto della
beatitudine è forma
dell' intelletto beato,
e questo è forma
del corpo umano,
ne segue che
anche la stessa materia partecipa
alla beatitudine; di
guisa che attraverso l'uomo la
beatitudine si diffonde
su tutto il
mondo inferiore "5. Ma
poiché l' intelletto agente
è la suprema
Intelligenza, cioè Dio, mentre
l' intelletto possibile è l'
infima, questo non può
unirsi immediatamente alla
prima Intelligenza, sibbene mediante le
intelligenze intermedie. Sì
che nell'atto stesso e,
potremmo dire, coll'atto
stesso col quale
s'unisce all'uomo r intelletto
agente come forma, s'uniscono
all' intelletto pos- sibile anche le
altre intelligenze ad
esso superiori già
informate dalla prima Intelhgenza: Cum intellectus
agens sit suprema
intelligentia, et intellectus possibilis sit
intima, non potest
naturaliter uniri intellectus
agens intellectui possibili immediate,
quia aliae intelligentiae naturaliter mediant. Ideo
oportet quod aeque
cito, sicut incipit
intellectus agens esse forma
et intellectio istius
hominis, incipiat quaelibet alia intelligentia
media informare hunc
hominem. Ex hoc
pate- bunt apud Aristotelem
et Commentatorem novem
gradus feli- citatis, sicut
novem sunt apud
eos intellectus felicitabiles, quorum 113
AcHiLLiNi, fol. 18,
col. I. "4 76. "5
Ib., fol. 18,
col. 2. Per
questa teoria della
beatitudine, v. sopra il
saggio VI, dedicato
alla mistica averroistica.] prinius et
maximus dee convenit,
nonus vero et
intìmus intellectui
possibili, medij vero
medijs intelligenti] s
aptantur ordinate etc, quia
intellectus cognoscens deuni
per plura media
remissius cognoscit et imperfectius.
Ideo prima, quae
est sua cognitio
per essentiam, se perfectissime
cognoscit. Secunda autem
intelli- gentia recipiendo cognoscit
primam, licet immediate
eam recipiat. Tertia vero
mediante secunda; et
sic gradatim descendendo
"6. In questo senso
dice Sigieri, come
ci attesta il
Nifo, che r intelletto
possibile dell'uomo, « ut habet
esse intentionale, est materia
omnium intellectuum separatorum
» "7. Nell'ultimo dubbio
di questo quarto
quolibeto, l'Achillini
riassume e schematizza
quanto ha detto
in questo stesso
quo- libeto e nel terzo,
circa il congiungimento {copulatio,
continuatio) dell'uomo coli' intelletto.
I congiungimenti, a
dir vero, son tre,
e non uno
solo: il primo
è quello dell'intelletto possibile col
corpo umano di
cui è forma
; il secondo
è quello dell' in-
telletto agente coli' intelletto
possibile ; il
terzo è il
congiungi- mento dell' intelletto agente
coll'uomo. Il primo congiungimento è
duplice. Anzi tutto,
l' intelletto possibile s'unisce all'uomo
secundum esse, cioè
come forma sostanziale che
dà all'uomo il
suo essere specifico
di uomo, e ciò
fin dal momento
in cui l'uomo
comincia ad essere
uomo. Indi s'unisce a
lui secundum operationem,
quando l'uomo comincia a
far uso dell' intelligenza "8,
Questo duplice con- giungimento era già
esplicitamente distinto da
Sigieri, secondo la testimonianza
del Nifo "9. Anche il
congiungimento dell' intelletto
agente coli' intel- letto possibile è
duplice : dapprima
l' intelletto agente s'unisce all'
intelletto possibile come
causa agente dell'
intendere, concorrendo
all'astrazione del concetto
dall' immagine o fantasma
sensibile, e promovendo
lo sviluppo intellettuale
per mezzo delle scienze;
indi, al termine
dello sviluppo intellet- tuale, s'unisce all'
intelletto possibile, acconciamente
disposto e preparato, come
forma che ne
attua tutta la
potenzialità e gli dà
la beatitudine '=o.
Siffatta distinzione è
d'Averroè '^i. "6 Ib.,
fol. i8, col.
2. "7 Nifo, De
intelL, I, tr.
3, e. 18;
cfr. Sigieri, p.
19. "8 AcHiLLiNi, Ib.,
fol. 19, col.
3. 119 De intelL,
1, tr. 3,
e. 26; De
anima, III, comm.
ad t. 5;
cfr. Sigieri, pp. 15
e 20. 121 AcHiLLiNi,
ib., col. 3-4. 120
AvERR., De anima.
III, comm. 36. I
" Ed essa vale
anche per il
congiungimento dell' intelletto agente con
l'uomo. Giacché dapprima
l' intelletto agente,
trovando l' intelletto possibile
già unito secundum
esse al corpo di
quest'uomo particolare (per
esempio, di Socrate), illumina della
sua luce i
fantasmi della cogitativa
di lui, diversi dai
fantasmi di altri
uomini, e ne
trae quelle specie
intelligibili che sono intese
in questo particolare
momento da Socrate. Piìi
tardi, quando l' intelletto
di Socrate, convenientemente attuato dagl'
intelligibili tratti dalla
sua particolare cogitativa, si
sarà arricchito di una sempre
più varia e complessa
esperienza, l' intelletto agente
gli dischiuderà, se n'
è degno, il
mondo splendente della
pura luce che
emana da sé, come
da sole d'ogni
intelligibilità '-^ Come in
Sigieri, così anche nell'Achillini s'avverte
lo sforzo per
superare la difficoltà maggiore
dell'averroismo, già avvertita
dallo stesso filosofo di
Cordova, consistente nel
bisogno di conciliare l'universalità del conoscere e
il valore della
personalità umana
individuale. La grande
obiezione che S.
Tommaso fa, dal punto
di vista strettamente
filosofico, alla dottrina
d'Averroè, è appunto questa:
posta l'unità dell'
intelletto, come può esser
vera la proposizione
: « hic
homo intelligit »
? "3 Alla fine
del diibimn «
utrum felicitas -^it
deus >>, l'Achillini si domanda
se l'uomo che
in questa vita
abbia avuto il privilegio
d'arrivare a congiungersi
coli' intelletto agente
come a sua forma,
può perdere volente
o nolente questa
sua beatitudine. La sua
risposta è incerta
e imbarazzata, anche
perché concerne uno dei
più scottanti problemi
che, non molti
anni dopo, sollevò gran
clamore di dispute,
voglio dire il
problema dell' immortalità personale.
Già S. Tommaso
avea notato che, tolta
tra gli uomini
ogni diversità d' intelletto, ne
segue che, dopo la
morte, niente rimanga
della coscienza individuale'=4. L'averroista
bolognese, pur ritenendo
con Sigieri che r
intelletto possibile è
forma del corpo
umano, e che
nel suo atto d' intendere
è essenzialmente legato
ai fantasmi della cogitativa, pensa
che all'eternità dell'
intendere e della
beatitudine non sia necessario
un legame col
singolo, bastando il 122
ACHILLINI, fol. ig,
col. 4. 1^3 Cfr.
la mia introduzione
a S. Tommaso,
Trattato sull'ìtniià dell'intelletto, pp.
43-50. 1-4 Tratt. sull'unità
dell' intell.] legame colla
specie, la quale
nella successione dei
molteplici individui dura eterna: Testatur enim
Aristoteles, quinto Ethicorum,
capite 13: u
Multa enim et natura
existentium scientes et
operamur et patimur, quorum nulluni
neque voluntariuni neque
involuntarium est, puta senescere
vai mori ». Conditio enim
suae naturae, quam
scit esse mortalem, non
patitur nolle, et
quia mors non
est finis neque bonum,
2 Physicotum, textu
et commento 23,
ideo non vult
felix mortem. Neque
desiderio naturali permanentiam
sempiternam appetit in individuo,
sed in specie,
secundo De anima,
comm. 34, et primo
Physicoruni, comm. 81.
Et propter hoc
in proem.io octavi Physicorum dixit
Commentator, fortunitatem ultimam
esse secundum fatuos
vitam aeternam. IMulta
autem mala felicitas hominis compatitur,
quae felicitati dei
aut intelligentiarum repugnant.
Est enim, inter
veros felicitatis gradus,
humanus intìmus. Ideo,
primo Ethicorum, capite
14: « Sapientem
omnes extimamus fortunas
decenter terre ».
Felicitatem autem in
alia vita, quam non
potuerunt philosophi naturali
ratione inquirere, theologis
relinquimus considerandam 125. Il
Pomponazzi, sebbene abbia
dell' intelletto possibile
un concetto così diverso
da quello dell'Achillini, sul
tema dell' immortalità personale è
perfettamente d'accordo con
lui: tranne che per
il mantovano solo
l' intelletto agente è
veramente immortale per essere
una sostanza separata,
come volevano anche Temistio
e gli averroisti
^'^. 5. Visti
quali sono i
diversi gradi d' intelligenza, compresi fra
la mente Prima
che è puro
atto e l' intelletto
possibile che in sé
è pura potenza,
l'Achillini affronta il
problema che s'era posto
da principio, e
cioè « utrum
latitudo intellectuum sit uniformiter
difformis ». Un
siffatto problema era
nato, come dicevamo, dal
tentativo di applicare
a misurare i
gradi d' intensità dell' intelligenza
il metodo delle
calcidaiiones matematiche,
che s'usa per
misurare l' intensità delle
quahtà materiali, come la
velocità, il colore,
la temperatura e via
dicendo. Qualcosa di
simile è stato
tentato nella psicologia moderna per
misurare l' intensità della
sensazione ; e
già 1*5 AcHiLLiNi, Quol.
IV, dub. 2,
fol. 17, col.
I. 126 p Pomponazzi, De
immortai . animae, cap.
io. I e Nicolò
d' Oresme aveva
esteso il metodo
al calcolo del
dolore e del piacere
^-7. Appiglio a porsi
siffatto problema nei
riguardi dell' intelligenza dev'essere stato
quel che si
legge nel Liber
de causis, che è
un estratto della
Elenientatio theologica di
Proclo: In primis Intelligeiitiis est
virtiis magna, quoniam
sunt vehementioris unitatis,
quam Intelligentiae secundae universales inferiores; et
in Intelligentiis secundis
inferiores sunt virtules debiles, quoniam
sunt minoris unitatis
et pluris multiplicitatis. Quod est
quia Intelligentiae quae
sunt propinquae Uni
puro, sunt maioris quantitatis
et maioris virtutis;
et Intelligentiae quae sunt
longinquiores ab ipso,
sunt minoris quantitatis
et debilioris virtutis. Et
quia Intelligentiae propinquae
Uni puro sunt
maioris quantitatis, accidit inde
ut formae quae
procedunt ex Intelligentiis primis procedant
processione universali unita;
et nos quidem abbreviamus
et dicimus, quod
formae quae veniunt
ex Intelligentiis primis in
secundas, sunt debilioris
processionis et
vehementioris separationis i-^. Allo
stesso modo Alberto
Magno: Omnes.... formae ab
ipsa totius universitatis
natura largiuntur; quo autem
magis ab ea
elongantur, eo magis
nobilitatibus suis et bonitatibus
privantur; et quo
minus recedunt eo
magis nobiles sunt
et plures habent
bonitatum potestates et
virtutes 1^9. Siffatto
modo d'esprimersi sembra
fatto a posta
per invogliare ad applicare
il metodo del
calcolo matematico all'
intelligenza. E l'Achillini, dopo
essersi chiesto se
la latitudo degli intelletti
sia « uniformiter
difformis », si
pone altresì il quesito
« utrum quarumcunque intelligentiarum perfectio
attendatur penes appropinquationem summo
». Esula dall'
intento che ci siamo
proposti in questa
ricerca, il seguirlo
nella critica che egli
fa della pretesa
di stabihre un
rapporto quantitativo fra i
vari gradi d' intelligenza, e
perciò ci hmitiamo
a segnalare la soluzione
negativa che egli
dà dei due
problemi, a chi avesse
ancora in proposito
delle fìsime del
genere 13°. 127 A.
Maier, An der
Grenze, pp. 324-325;
cfr. altresì a
pp. 258-259. 128 Liber
de causis, prop. X; cfr. Proclo,
Institutio theologica,
CLXXVII (l'opuscolo era
stato tradotto in
latino da Guglielmo
di Moerbeke nel 1268,
col titolo di
Elenientatio theologica).
"9 Alberto Magno,
De intellectu et
intelligibili, I, tr.
i, e. 5. 130
ACHILLINI, Ouol. ]Dalle pagine
che precedono sembra
intanto potersi concludere che solo
la prima Intelligenza
è fonte di
sapere e di luce
intellettuale. S. Tommaso
agli averriosti che
dall'universalità del
conoscere avevano preteso
di dedurre l'unità
dell' intelletto per tutti
gli uomini, obiettava
che, se mai,
se ne dovrebbe concludere,
secondo il loro
modo di vedere,
« che debba esservi
un solo intelletto non
soltanto per tutti
gli uomini, ma in
tutto l'universo; sì
che il nostro
intelletto non è soltanto
una qualsiasi sostanza
separata, ma è Dio stesso
«'ji. L'Aquinate aveva ragione.
Né Sigieri e
l'Achillini gli danno torto
: che per
essi Dio è l'
intelletto agente che
effettua sì nella mente
umana sì nelle
intelligenze celesti l'atto
dell' intendere e s'unisce
all'una e alle
altre come forma,
a tal segno da
fare in qualche
modo una sola
sostanza con ciascuna
di quelle. Soggetto assoluto
di pensiero e
sorgente d'ogni intelligibilità. Dio causa
col suo intendere
altri intelletti, nei
quali l'atto dell' intender
divino si particolarizza per
gradi, fino all' intelletto
della specie umana
che, informando i
vari corpi dotati di
sensibilità, mentre comunica
ad essi la
sua superiore individualità spirituale,
ne assume l' individualità contingente e
caduca, per farla
partecipe dell'atto divino
del conoscere. Si rileva
altresì dalle pagine
precedenti, che l' interpretazione sigeriana del
pensiero aristotelico doveva
apparire all'Achillini un'
interpretazione organica, sistematica
in tutti i suoi
particolari, e sostanzialmente diversa
da quella tomistica ispirata dal
bisogno di abbreviare
la distanza fra
la « filosofia »
e la fede,
quasi che la
fede non avesse
in se stessa
una filosofìa che la
giustificava appieno. Liberi
da questa preoccupazione apologetica, gli
averroisti potevano discutere
in piena indipendenza di
spirito e con
grande spregiudicatezza intorno a
quello che era
il genuino pensiero
d'Aristotele, s'accordasse o non
s'accordasse colla fede. Giustamente dice
il Laurent, parlando
del domenicano Bartolomeo Spina
avversario del Pomponazzi
: « Per
lui che non ha
subito l' influsso del
rinnovamento che 1'
Umanesimo ha introdotto nella
teologia, affermare che
Aristotele nega r immortalità
dell'anima, equivale ad
affermare che tale 131
S. Tommaso, Traci,
de unit. intelL,
ed. Keeler, §
107; cfr. la mia
traduzione e relative
note, Firenze, Sansoni] dimostrazione è
filosoficamente impossibile. Basta
leggere alcune pagine del
suo lavoro per
rendersi conto dei
principi che han diretto
le sue critiche.
Il vecchio binomio:
Aristotele = Verità, è
il sottinteso, starei
per dire, d'ogni
riga del suo volume....
Non bisogna perciò
stupirsi delle invettive
che lo Spina rovescia
sui suoi avversari:
i termini più
virulenti ricorrono sotto la sua penna» n-.
E la stessa
osservazione il Laurent ripete
a proposito del
tomista del cinquecento,
Francesco Silvestri da Ferrara
'33, Trasportiamo questa osservazione
all' inizio della
polemica averroistico-tomitica, e sarà
finalmente chiarito il
significato della così detta
« teoria della
duplice verità »,
della quale qualche storico
della filosofia s'
è scandalizzato anche
più di quel che
non abbian fatto
nel passato gì'
inquisitori dell'eretica pravità,
talora, se non
sempre, meno irragionevoli di certi
storici della filosofia
'34. Che l'aver
rivendicato il diritto alla
libertà della ricerca
storica nell' interpretazione del
pensiero aristotehco, prima che
all' influsso dell'umanesimo, si deve
all'averroismo. E anche
in questo l'Achillini
è buon discepolo di
Sigieri, nel tenere
cioè costantemente distinto il
pensiero del Filosofo
dalla verità della
fede. La quale, forse,
ha subito maggior
danno che non
vantaggio dall' impegno che
taluni hanno messo
a mostrarne la troppo
intima aderenza ad
un particolare sistema
filosofico. 132 M.-H. Laurent,
Le Commentaire de
Cajétan sur le
« De anima
», in principio a
Thomas De Vio
Cardinalis Caietanus, Scripta
Philosophica: Comment. in De
anima Aristotelis, ed. l. Coquelle,
voi. I, Roma, Angeliciim, 1938,
p. XLIII. 133 Ih.,
p. XLIX. 134 Intorno
al significato storico
della dottrina della
« doppia verità
», si veda quel
che ne ha
scritto il Gilson,
Études de philosophie
medievale, Strasbourg, 1921, pp. 51-75; Dante
et la philosophie,
Paris, IQ39, pp.
258 sgg. ; cfr.
(:ui sopra, pp. 55-58,
ji-j^, 95)8, e
il mio volume
Dante e la cultura
medievale, Bari, Laterza,
1949, pp. 207-211,
nonché 1' introduzione a S.
Tommaso, Trattato sull'unità
dell' intelletto. Quando N. ha ad
occuparsi dell'avverroista bolognese
ACHILLINI (si veda), lo fa
unicamente per i suoi
Quoliheta de intelligentiis e
per le tracce
evidenti in essi di
dottrine sigieriane i.
Ma per il
momento non mi
detti cura di far
ricerche sul curricolo
della sua vita,
bastandomi la data del
1494, quando i
Quoliheta furono disputati
nel capitolo generale dei
frati minori tenuto
quell'anno a Bologna
e per l'occasione stampati.
Successivamente ho raccolto
alcuni dati biografici che
credo utile far
conoscere a chi
voglia occuparsi a fondo
di questo non
comune maestro bolognese,
tenuto ai suoi tempi
in altissima considerazione, e
degno anc'oggi d'esser ricordato
sotto diversi aspetti. I.
Secondo le
notizie raccolte da
Serafino Mazzetti, di solito
accurato e preciso,
nel suo Repertorio
di tutti i
professori antichi e moderni
della famosa università.... di
Bologna 2, A. Achillini,
figlio di Claudio
che dicesi fosse
oriundo di Barberino in
Val d' Elsa
3, e coprì
più volte cariche
pubbliche, sarebbe nato a
Bologna il 20
ottobre 1463. Questa
data presa dal Tractatus
astrologicus di Luca
Gaurico, non sempre
bene informato, dovrebbe però
essere anticipata di
due anni se*
Dal « Giorn.
Crit. d. Filos.
Ital. », XXXIII,
1954, PP 67-108. 1
B. Nardi, Sig.
di Brab. nel
pensiero del Rinascimento
italiano, Roma, 1945, pp.
45-90 (vedi saggio
precedente). 2 Bologna, 1848,
n. 15, p.
11. • 3 B.
Carrati, Genealogie di
famiglie nob. bolognesi, Bologna,
Archiginnasio, Ms. B. 699,
tav. 2. 15 226 condo la
cifra degli anni
ch'egli aveva quando
venne a morte il
2 agosto 1512,
quale si trova
nell'elogio che di
lui si legge nel
Libro segreto del
Collegio delle Arti
e di Medicina
e che riferiremo più
giù. Ma la
cifra di XXXXXI
anni è corretta
su rasura e con
altro inchiostro. Inoltre
il fratello Giovanni
Filoteo Achillini, nel
suo Viridario 4,
compiuto nel 1504,
ci assicura che Alessandro,
in quell'anno, in cui egli
stava scrivendo il X
canto del poema,
aveva varcato d'un
lustro « il
mezzo camin ))
della vita. Parrebbe
dunque che il
Gaurico avesse ragione. 11
Mazzetti inoltre e'
informa che fu
laureato in filosofìa
e medicina il 7
settembre 1484, e
che lo stesso
anno cominciò a insegnar
logica a Bologna,
nel quale insegnamento
durò fino al 1487.
L'anno innanzi, a
23 anni d'età,
era stato ritratto da
Francesco Francia ^.
Dall'autunno 1487 all'estate
del 1494, insegnò filosofìa;
dall'autunno 1494 all'estate
del 1497 passò
a medicina; ma dal
novembre 1497 all'ottobre
1506 resse entrambe le
cattedre, cosa non
comune, spiegabile solo
col favore di cui
godeva presso i
colleghi e presso
i Bentivoglio dei quali
fu sempre caldo
fautore. D'un insegnamento
tenuto dall'Achillini a
Padova, prima di
questo momento, non
mi pare dunque si
possa parlare. Il
Gaurico accenna anche
ad un soggiorno abbastanza
lungo dell' Achillini a
Parigi, del quale purtroppo non
abbiamo altra testimonianza, e
d'altra parte non si
riesce a trovare
un periodo della
sua vita nel
quale collocarlo. A Bologna
ebbe sicuramente ad
alunno il bolognese
Tiberio Bacilieri o de
Bazaleriis, il quale
fu approvato «
in artibus )> il
lunedì 3 luglio
1492 ^ e
« in artibus
et medicina »
il 4 febbraio 1496, «
nemine discrepante ». Fra i
promotori al dottorato era
l'Achillini che «
dedit insignia »
al neo dottore
7. Il 9 dicembre
1499, il
Bacilieri fu aggregato
in sopranumero ai col4 II
Viridario di Gioanne
Philotheo secondo figliolo
di Claudio Achillino Bolognese.
Impresso in Bologna
per Hieronymo di
Plato Bolognese, nel M.D.XIII.
Sotto la f. m. di
N. S. Leone
Decimo, 24 dicembre. Dedica al
Papa. Fol. 184 v sg.
I vv. che
riguardano Alessandro son riportati
più giii, p.
251. 5 II disegno
del Francia è
posseduto dagli Uffizi
di Firenze. Fotogr. Alinari, più
volte riprodotta. Se
l'Ach. era nato
nel 1463, il
disegno è del i486;
se no, di
qualche anno prima. 6
Libro Segreto del
Collegio [delle Arti
e della Medicina']:
dall'anno1481 al 1500
(Bologna, Archivio di
Stato, busta 217);
f. 91 r.
Dal libro dei Partiti.
XI, f. 902,
24 die. 1493
(Arch. di Stato),
risulta che il
Bacilieri riscuoteva già 100
lire bolognesi annue
«prò stipendio lecture
».. 7 Ib.. f.
41 r. legi bolognesi
delle arti e
della medicina ^.
Ma non era
passato un anno dalla
sua aggregazione, che
fu sospeso per
un quinquennio dall'uno e
dall'altro collegio, con
decisione del 9 luglio
1500 confermata cinque
giorni dopo, «
propter nonnulla demerita et
facinora.... facta et
commissa ». Fra
questi « facinora
» pare fossero
anche « parole
ignominiose e turpi
» nei riguardi dei
suoi colleghi. La
punizione fu inflitta
con otto fave bianche
contro una nera.
Fra i votanti
era anche l'Achillini 9. Questa
la ragione perché
il Bacilieri proprio
in quest'anno dovette lasciar
Bologna, e recarsi
a Padova 'o, e
quindi a Pavia ove
rappresentò l'averroismo della
corrente sigieriana che aveva
assimilato alla scuola
dell' Achillini". Il i»
ottobre 1505, scaduto il
quinquennio della sospensione,
egli fu riammesso
a far parte dell'uno
e dell'altro collegio,
per unanime consenso, senza che
ci fosse bisogno
di porre ai
voti la proposta
'-. I Quolibeta de
intelligentiis, preparati per
la disputa del 1494,
rappresentano dunque il
pensiero filosofico dell'Achillini nel
primo periodo del
suo insegnamento della
filosofia naturale prima che
passasse all' insegnamento
della medicinateorica. In
quest'opera, come ormai
sappiamoci, si ritrovano, inserite negli
schemi del metodo
calcolatorio, divenuto di moda
anche a Bologna
come a Padova,
tutte le tesi
fondamentali dell'averroismo,
concernenti Dio, le
altre intelligenze separate, e
in particolare l' intelletto
possibile e la
copulatio di questo con
1' intelletto agente;
tesi tutte, specialmente
quelle riguardanti l'
intelletto umano, desunte
dai tre scritti
di Sigieri, che,
secondo l'attestazione del
Nifo, si leggevano
ancora alla fine del
secolo XV. Ma qui
accade di doverci
porre un piccolo
problema. Nessun dubbio sulla
data di pubblicazione
dei Qnolibeta dell'Achillini, che
nel 1494, trentunenne,
si esibiva campione
della dottrina sigieriana in
una pubblica disputa
alla quale erano intervenuti dotti
di varie tendenze.
È per caso
in questa circostanza che Giovanni
Pico e il
Nifo si trovarono
a far viaggio 8
Ib., f. 54 r9 Ib.,
f. 57r-v; ff.
59 r-62 v. 'o
V. sotto, p.
288. " Cfr. il
mio Sigieri, cit.,
pp. 132-152. '^ Libro
Segreto, cit.; n.
3, dall'anno 1504
a tutto il
1575, f. 4 r.
'3 Cfr.
saggio prec. 228 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI insieme, diretti
a Bologna, disputando
tra loro come
l'unità dell'intelletto
potesse conciliarsi con l'
individualità e la
sopravvivenza dell'anima del singolo '4?
Il Nifo ci
fa sapere di
essere stato averroista sigieriano
prima del 1492,
e pretende d'aver composto nell'estate
di quest'anno, poco
più che ventunenne, il Tractatus
de intellectu nel
quale la dottrina
sigieriana è combattuta. Ho
già espresso piìi
volte i miei
dubbi sulla veridicità del Nifo,
il quale aveva
troppo interesse ad
acconciare il racconto della
sua vita in
modo da meritarsi
le grazie del vescovo
di Padova, Pietro
Barozzi^S. Il piccolo
problema che vorrei porre,
e che non
sono in grado
di risolvere, è
questo: chi portò a
Padova o a
Bologna gli scritti
di Sigieri ricordati dal
Nifo ? Fu
Paolo Veneto che
certamente dimorò a
Oxford e a Parigi
? Fu Giovanni
Pico ? Fu
l'Achillini stesso, se mai
fosse vero, come
pretende il Gaurico,
che anch'egli soggiornò a
Parigi ? Del
resto, gli scambi
fra le due
università italiane e quella
parigina erano frequenti,
e, come sappiamo
di francesi che durante
il Quattro e il Cinquecento
erano venuti a studiare
a Padova e
a Bologna, sappiamo
del pari che
Pietro e Lorenzo Pasqualigo,
patrizi veneziani, erano
stati a studio
a Parigi, e il
primo anzi nel
1494 vi aveva
sostenuto, ventiduenne, ben due
mila conclusioni i^. 2.
Nell'estate del
1498, quando all'
insegnamento della medicina teorica
aveva riunito quello
della filosofìa naturale, l'AchilUni fece
stampare la sua
seconda opera De
orhihus in quattro libri '7.
Nel primo libro
ritroviamo tutte le
grandi tesi della fisica
celeste di Aristotele,
nella più rigida
interpretazione averroistica,
fino al punto
che è ritenuta
assurda la teoria tolemaica
degli eccentrici e
degli epicicli, che
aveva 14 A. Nifo,
In libriim Destvuctio
Destructionum Averrois comment., I,
dub. 8; cfr.
ib., IV, dub.
7; cfr. sotto,
pp. 31Q, 376-77
e 451. 15 V.
sopra, pp. 101-102
e sotto, p.
311, n. 52. 16
V. sotto, p.
289. 17 « Hoc
secundum opus in quatuor libros divido
». Il che
esclude l'esistenza di quel
trattato De proportionibiis niotuum,
che secondo lo Hain,
n. 71, sarebbe
stato stampato a
Bologna « per
Benedictum Hectoris 1494
». Questo trattato,
composto più tardi,
usci postumo, come diremo
più giù, nel
15 15. SÌ il grande
merito di salvare
le apparenze dei
moti planetari assai meglio
che non la
teoria delle sfere
concentriche, ma che mal
si conciliava coi
principi della fisica
aristotelica. E l'Achillini,
come in generale
tutti gli averroisti,
ci teneva alla
fedeltà ai testi che
egli s'era assunto
l' impegno di esporre.
Nel secondo libro di
quest'opera si parla
invece delle intelligenze motrici, cioè
di Dio, primo
motore immobile, e
quindi dei motori preposti
al governo di
ciascun cielo. A
questo punto il maestro
bolognese si chiede
se, oltre alle
inteUigenze separate,
esistano altresì dei
dèmoni. La credenza
nei dèmoni e
nelle loro opere prodigiose
non era diffusa,
alla fine del
Quattrocento, soltanto nel popolino,
ma anche nei
ceti colti, presso i
quali la demonologia
cristiana era rincalzata
da quella neoplatonica. L'Achillini nel
suo rigido averroismo
non sa con esattezza
ove collocare siffatte
nature ibride, di
spiriti imbestiati, e
quale funzione propriamente
assegnare ad esse.
Ammessa per fede, l'esistenza
dei dèmoni è
relegata tra le opinioni
volgari i8. E
quanto ai fatti
meravigliosi che ad
essi vengono attribuiti, il
bolognese è d'avviso
si possano spiegare con
l'arte umana o per mezzo
di cause naturaH,
a dir vero, non
meno meravigliose, come
farà più tardi
il Pomponazzi, e come
aveva fatto molto
prima Pietro d'Abano. Dopo
questa parentesi, egli
torna a parlare
dell' immutabilità di Dio,
ingenerabile,
incorruttibile,
inalterabile, non soggetto a
movimento locale né a mutamento
di pensiero, poiché tutto
atto senza potenza.
Di questa divina
immutabihtà partecipano anche
le altre intelligenze
celesti, sebbene in queste
sia qualche potenzialità,
in quanto ogni
intelUgenza di sotto subisce
l'azione di quella
di sopra, sì
che questa è intelletto
agente per rapporto
a quella che
vien dopo, e
quella che vien dopo
può dirsi intelletto
possibile per rapporto
alla precedente, come già
sapevamo dai Qiioliheia
de intelligentiis '9. Primo
intelletto agente che
immediatamente o mediatamente informa di sé tutte
le intelligenze inferiori,
è Dio. Ma
le intelUgenze inferiori
sono informate da
quelle di sopra
senza subire cangiamento nel
tempo, bensì con
atto eterno, che fa
i8 De
orbibus, II, diib.
i, fol. 37
rb (secondo l'edizione
degli Opera omnia, curata
da Panfilo Monti,
Venezia, 1545, alla
quale per comodità mi
richiamo) . '9 Ib., dub.
2, Secundo principaliter, Septimum
dictum, fol. 39 va.
Cfr. Qiiol. de
intell., V, dub.
3, f. 18
rb; e qui
sopra, pp. 197-198
e 217. 230 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI dire talora
ad Averroè che
esse sono atti
puri senza potenza, cioè
puro intendere senza
mutamento. Ultima delle intelligenze
è l' intelletto umano
che propriamente si disse
possibile o potenziale,
poiché non ha
altra natura che quella
di essere in
potenza. Questo intelletto,
unico per tutta la
specie umana e
forma che dà
all'uomo il suo
essere specifico di uomo,
non passa dalla
potenza all'atto del
conoscere se non è
coadiuvato dall'esperienza sensibile.
In quanto passa dal
non conoscere al
conoscere le cose
del mondo sensibile, che sono
il suo oggetto
proprio, esso è
soggetto a mutamento o
alterazione. Questa alterazione
era intesa comunemente come modificazione
dell' intelletto stesso
ad opera delle specie
intelligibili o rappresentazioni in
esso delle cose conosciute. L'Achillini
respinge questa teoria,
appoggiandosi a un famoso
testo del VII
della Fisica aristotelica -o, che
aveva già richiamato l'attenzione
d'Averroè, e coglie
l'occasione per ribadire un
concetto già da
lui affermato alla
fine del terzo Qttolib.
de iìitelligentiis -i.
Aristotele aveva detto
che nella parte intellettiva
dell'anima non si
dà né generazione né alterazione
vera e propria:
l'atto conoscitivo non
importa un mutamento qualitativo
intrinseco all' intelletto,
ma una semplice variazione
del rapporto fra
questo e le
forme del mondo sensibile
che la mente
conosce in sé
stesse senza bisogno che
una rappresentazione o
« specie intelligibile
», distinta dalla realtà
conosciuta e dal
soggetto conoscente, venga a
inserirsi fra l'una
e l'altro. Un
mutamento qualitativo e intrinseco
subiscono invece le
facoltà sensitive e
con esse la cogitativa, cui l'
intelletto s'unisce nell'atto
d'apprendere le forme del
mondo sensibile. L' intelletto
in sé stesso
è immutabile, come i
principi logici e come le
forme a priori
di Kant; senza di
che nessun giudizio
certo sarebbe possibile;
il mutamento e l'alterazione
sono soltanto nel
contenuto del conoscere, e
soltanto per denominazione
estrinseca s' attribuiscono all' intelletto.
Perciò l'Achillini distingue
con Sigieri l' intelletto dall'anima razionale:
quello è unico
in sé stesso
per tutta la specie
umana; questa invece,
risultando dall'unione dell' intelletto con
la cogitativa, è
individuale al pari
di quest'ultima e diversa
in ogni uomo;
e a questa,
propriamente, e non -°
T. e. 20,
e. 3, 247
b I sgg. -^
Diib. 3, f.
13 ra: Hic
aliquantulum morabimur. a quello,
spetta la funzione
raziocinativa e discorsiva,
consistente appunto
nell'applicazione delle immutabili
forme del pensiero alla
mutevole esperienza sensibile.
Merito dell' Achillini è
appunto questo, che a lui
spetta per altro
in quanto ha ripreso
un motivo di
alcuni pensatori della
prima metà del secolo
XIV --, d'aver
capito che la
dottrina delle specie intelligibili finisce
per offuscare la
conoscenza della realtà, ricacciata al
di là della
rappresentazione che attua
il soggetto conoscente. L'atto
conoscitivo è possibile
solo in quanto
il reale conosciuto è
presente per se
stesso al soggetto
che l'apprende. Vero è
che, per l'Achillini,
le cose del
mondo fisico hanno un
« esse reale
» fuori del
soggetto che le
pensa, e non
possono essere in questo
se non per
il loro « esse intentionale
»; di guisa che
lo sdoppiamento fra
realtà in quanto
appresa e realtà
in sé risorge e
rende plausibili le
obiezioni che altri
aristotelici e averroisti ebbero
a rivolgere al
filosofo bolognese. E primi
fra tutti il
Pomponazzi e Marcantonio
Zimara. Il Pomponazzi si
dichiarò « contra
modernos pedagogos, qui tenent
secundum Averroem quod
intellectus possibilis nihil de
novo recipit »,
fin dal 1500,
mentre commentava a
Padova il De anima
-3. I «moderni
pedagoghi» dai quali
dissentiva erano il Nifo,
l'Achillini e il
suo fido Achate,
Tiberio Bacilieri, che, per
le ragioni accennate
più su, era
diventato collega del mantovano
nello studio patavino.
Questo è confermato
da una nota in
margine al codice
napoletano che ci
ha tramandato il commento
del Peretto: « Nota contra
socios Achillinum Tyberiumque
bononienses » -4.
Più tardi, mentre
commentava a Padova la
stessa opera aristotelica,
nel corso dell'anno
scolastico 1504-1505, il maestro
mantovano dedicò una
quaestio speciale a esporre
e combattere «
opinionem noviter repertam quae
tenet nullo pacto
dari species intelligibiles ».
Veramente questa opinione non
era proprio «
noviter reperta »,
come 22 Vedasi il
mio libretto Soggetto
e oggetto del
conoscere nella filosofia antica e
medievale, Roma, Edizioni
dell'Ateneo, 1952, pp.
2555.23 Bibl. Naz.
di Napoli, mss.
Vili. D. 81,
f. 52 r,
e Vili. E
42, f. 195 r.
-4 Ib.
La nota nel
ms. napoletano Vili.
D. 81, f.
52 r parrebbe
di mano di Antonio
Surian che trascrisse
il testo della
riportazione, di cui forse
è autore quel
Marco da Otranto
che è Marcantonio
Zimara, il quale ne
avrebbe fatto copia
a Basilio Troiano
e questi a
Gian Benedetto Caravegi da
Crema, dal quale
l'ebbe il Surian.] del
resto ben sapeva
il Pomponazzi ^s;
ma nuova poteva
sembrare per il modo
come la presentavano
e per il
vigore col quale la
difendevano i due
«pedagoghi» bolognesi. Ma
nuova o no, il
Peretto non esitava
a giudicarla «
abominevole, fatua e bestiale
» : Et dico
primo quod opinio
ista est abominabilis,
fatua et bestialis
et nihil boni
ab ea potest
capi. Ego enim
nihil intelbgo de opinione
ista. Isti contra
se adducunt duo
miUia auctoritatum et totam
ecclesiam doctorum, ipsosque
glosantes totaliter dilaniant et
lacerant. Vide in
scriptis suis ~^. Che
il mantovano non
avesse presa per
il suo verso
e non avesse capito
l'opinione d'Averroè e
dell' Achilhni, non è da
stupire, dato l'orientamento del
suo pensiero quale
doveva rivelarsi anche meglio
in seguito. Così
anche nell'esposizione del VII
della Fisica, fatta
a Bologna nell'anno
scolastico 15 17-15 18,
giunto al commento
del testo 20,
sul quale si fondavano
gli averroisti della
corrente dell'Achillini, torna
a ripetere : Ista est
pars dignissima in
qua aut ego
erro aut omnes
aiii maxime erraverunt; sed
credo quod potius
iUi decipiantur quam ego;
sed in hoc
constituam vos iudices.
In ista ergo
parte commentator ponit
unum documentum, ex quo traxit
Burleus, quod est de
mente commentatoris, cum
anima sit unica
in omnibus hominibus, ipsam
nihil capere {ins
capit) de novo,
ncque acquirere [ms aquirit)
scientiam per species
de novo advenientes,
sed scientia est substantia
animae. Et non
possum [non] mirari
de istis modernis,
qui faciunt se
inventores et autores
huius viae, cum videant Burleum
ante se de hoc iam
expresse loqui. Imo,
ante Burleum Henricus de
Gandavo tenuit hoc
idem esse de
mente commentatoris; et etiam
Thomas ascribit hoc
commentatori, Hcet propter aham
rationem 27. Non meno aspro,
contro l' interpretazione che
l'Achillini aveva sostenuta del
pensiero d'Averroè, è
il giudizio di Mar 1 25
Infatti nel ms.
napoletano Vili, E.
42, f. 1951,
si legge: «Pro quo,
domini, debetis scire
quod insurgit nova
phylosophia, immo antique; quare Burleum
videatis: expresse super
textu commenti 2oi septimi
physicorum dicit intellectum
speculativum esse eternum
et non dari species
intelligibiles
commentatoris; hec etiam
tenet augustinus sessa, Alexander
Achylinus et multi
alii insequentes i
tos.... ». 26 Ms.
napol. VIII. D.
31, f. 83 r.
27 In
VII de phys.
auditu, Bibl. Nation.
di Parigi, ms.
lat. 6533, f. Jj
330 r
(ad t. e.
20); cfr. ms.
45 della Biblioteca
del Collegio Campana
di 9 Osimo] c'antonio Zimara
da Otranto, in una sua
quaestio « Utrum ad
mentem Averroys intellectus
possibilis recipiat species intelligibiles subiective
». Esposta e
criticata la dottrina
dell'Achillini, della quale
vorrebbe far rilevare
l'assurdità dal punto di
vista aristotelico ed
averroistico, egli conclude: Et
in veritate opinio
istius hominis adeo
est erronea, ut me
pudeat amplius arguere
centra ipsvim. Ipse
enim ignorat adhuc quomodo
forma materialis generatur.
Item habet fateri
quod formae materiales secnndum
suum esse formale
accipiantur in sensibus interioribus,
quia non est
maior ratio quare
in intellectu possibili materiales
formae sint secundum
esse formale, et non
in ipsa
cogitativa et imaginativa.
Quantum autem ista
sint inconvenientia, non
solum sapientibus, sed
etiam yulgaribus sunt novissima [1.
notissima]. Unde licet
mihi dicere de
isto homine, quod dixit
commentator de Avicenna,
in tertio Celi,
comm. 67, quod videlicet
parvitas exercitationis ipsius
viri in naturalibus et bona
confidentia in proprio
ingenio deduxit ipsum
ad maximos errores^S. A risolvere
le obiezioni mosse
alla tesi dell'Achillini bisogna tener
costantemente presente la
distinzione fra anima
razionale e intelletto in
sé. L' intelletto possibile,
in sé considerato e
in quanto unico
per tutta la
specie umana, non
è modificato da alcuna
rappresentazione che gli
venga dal mondo
sensibile. Invece, in quanto
unito alla cogitativa
individuale di Socrate e
di Calila, con
la quale forma
l'anima razionale composta
di ciascuno individuo umano,
esso è certamente
soggetto a mutazione e
ad alterazione, non
per il mutare
di qualcosa in esso,
ma per il
mutare dell' immagine
sensibile che è
nella cogitativa cui è
unito. Che se
l'Achillini dice l' intelletto
possibile pura e nuda
potenza senz'atto di
sorta, prima dell'atto d' intendere, questo
va inteso per
rapporto all' intelletto -8
M. A. Zimara
de sancto Petro
de Galatinis Terrae
Hj^drunti, artium doctoris,
Quaestio qua species
intelligibiles ad mentem
Averrois defenduntur ad Magnificum
patritium \'enetum Antonium
Surianum; s. 1., a
cura di Francesco
Storella, pridie idus
lanuarii 1554. La
stessa « quaestio »
fu pubblicata dal
francescano Girolamo Girelli,
professore di teologia nello
studio di Padova,
in principio del
suo Tractatus adversus quaestionem M.
A. Zimarae de
speciebus intelligibilibus ad
mentem antiqiioritm Averrois
praesertim. Venetiis, 1561.
Il passo riportato
è al f . 7
V. Il Girelli,
che aveva studiato
a Padova, ov'era
stato alunno del Pomponazzi, cita
l'Achillini (f. 23
r e 26
v), ma si
rifa specialmente a Enrico
di Gand e
al carmelitano inglese
Giovanni di Baconthorpe, noti avversari
delle «species intelligibiles.] agente che
è tutto atto
senza potenza ed
è la scienza
in atto, al cui
possesso tende l' intelletto
possibile. Il III libro
del De orhihus
s'apre col settimo
dubbio dell'opera: « an
intelligentia sit forma
dans esse caelo
». Anche su quest'argomento l'Achillini
si sforza di
mantenersi fedele ad Averroè:
ogni cielo è
composto di materia
e di forma;
il corpo sferico di
esso è la
materia, l' intelligenza
motrice è la sua
forma. Per questa
unione ciascun cielo
è un animale
vivente, non di vita
vegetativa o sensitiva,
come pretendeva Avicenna, ma
di vita intellettuale. Le
sfere celesti sono
perciò quegli animali immortali
ed eterni di
cui parlano Aristotele nel IV'
dei Topici -9 e
Porfirio nella sua
Isagoge alle Categorie
3°. Animali viventi di
vita intellettuale, l'atto
dell' intendere e del
volere si predica
dei cieli, di
cui le intelligenze
son forme sostanziali, a quel modo
che si predica
dell'uomo di cui è
forma sostanziale l' intelletto
possibile, che è l'
infima delle intelligenze separate. Sebbene i
corpi celesti siano
dotati di spazialità
e di movimento al
pari dei corpi
del mondo inferiore,
essi son «
corpi spirituali », immuni
da composizione di
materia e di
forma, poiché il loro
essere è costituito
dall'unione immediata con la
propria intelligenza. Questo
concetto averroistico di
una « corporeità spirituale e
immateriale», che piacque
anche al Ficinosi, fu
oggetto di lunghe
controversie fra gli
averroisti e le
altre scuole aristoteliche, e fra gli
averroisti stessi. Dio è la prima
delle intelligenze separate;
e come ognuna
di queste è forma
sostanziale del proprio
cielo, ch'essa avviva di
vita intellettuale e a cui
imprime movimento, così
anche Dioè forma sostanziale
del primo cielo
mobile al quale,
insieme al primo moto,
imprime la propria
perfezione intellettuale 3^ Con
ciò il bolognese
non fa che
sviluppare un concetto
già chiaro nella sua
precedente opera, Quol.
de intelligentiis, I, dub.
2. L' idea di
Dio, quale emerge
da siffatto modo
di vedere, è r
idea di un
Dio strettamente legato
al mondo finito ^9
Arist., Top., IV,
e. 2, i22b
14: tcov ^cóoiv
xà jjièv ■8-VY]Tà
xà •^'à-B-àvaTa. 30
Porfirio, Isagoge et
in Arist. Categor.
comni. ed. A.
Busse, nei Commentaria in
Arist. graeca, voi.
IV, De differentia,
p. io, 11
sgg. 31 Argmn. in
Platon. Theol. ad
Laurent. Medicen [in
Opera, Basilea, 1561, t.
I, Epist. lib.
II, p. 707). 3 De
orbibìts, III, dub.
i, f. 47
rb-vb. i di Aristotele, come
forma e motore
non mosso della
prima sfera celeste, e
anima del primo
« corpo spirituale
» che contiene
e racchiude entro di
sé le altre
sfere animate e
immortali, fino al cielo
lunare, che racchiude
nella sua concavità
la « sphaera activorum et
passivorum », ossia
i quattro elementi
e quelle cose che,
sotto r influenza
celeste, «di lor
si fanno». Forma
e motore di un mondo finito,
è evidente che di siffatto
Dio non si può
dimostrare l' infinità né
l'onnipotenza né la
libera azione creatrice. Del resto,
per ciò che
concerne l'animazione dei
cieli, v'erano teologi disposti
ad ammetterla. L'Achillini
lo sa bene;
ma osserva che da
parte dei teologi
esistono difficoltà non
facilmente superabili ad accogliere
simile teoria. Per
essi, infatti. Dio creò
le intelligenze « in statu
merendi et demerendi
; viatrices enim
aliquantulum fuerunt »,
durante quella «
morula » concessa loro
da Dio per
potere scegliere liberamente
il bene o il
male 33. Ora
che cosa sarebbe
accaduto se l'anima
del primo cielo avesse
peccato ? Il
primo cielo sarebbe
stato dannato. Eppure esso
avrebbe dovuto accogliere
i beati, a
meno che Dio non
avesse preparato per sé e
per i santi
un altro luogo più
adatto, o che
non avesse predestinato
l' intelligenza di quel cielo
alla beatitudine eterna
! Ma il
maestro bolognese taglia corto
su questo e
altri problemi sottili
e imbarazzanti: per lui,
secondo la verità
della fede, non
può ammettersi che Dio
sia unito come
forma ad un
cielo; ciò ripugna
alla sua infinità e
al potere che
ha di trarre
le cose dal
nulla 34. Tutto questo,
per altro, riguarda
i teologi e
non la filosofia, se
per filosofia s' ha da
intendere, come quasi
tutti allora intendevano, il sistema
aristotelico della natura,
cosa che non tutti
gli storici della
filosofia han sempre
avvertito. E problema tutto
teologico è quello
discusso nel dubbio ottavo
dell'opera, che è
il 2° del
terzo libro, intorno
alla creazione dal niente
e al cominciamento
o novitas del
mondo nel tempo. In
oltre venti fittissime
e uniformi colonne
in-folio, interrotte da appena
due capoversi, la
dottrinateologica della creazione
del mondo nel
tempo è sottoposta
ad una serrata e
minutissima critica che
ne dimostra l' inconciliabilità coi 33
Cfr. Dante, Par.,
XXIX, 49-51. 34 De
orb.] principi più Certi
della metafisica aristotelica
35, per terminare, al
solito, dopo tanto
sforzo, con questa
dichiarazione: « Tenendum est
autem deum creasse
mundum et non ab
aeterno, et ab
aeterno ipsum potuisse
creare.... »! 36. Segue il
nono quesito o
dubbio, « utrum
caelum sit finitae magnitudinis in
actu », intorno
al quale l'Achillini,
fedele ad Aristotele e
ad Averroè, mostra
di non tenere
in alcun conto il
tentativo fatto da
alcuni teologi del
secolo XIV, di dedurre
la possibilità d'un universo
infinito dalla infinità e
onnipotenza di Dio;
che anzi dalla
limitatezza dell'universo
aristotelico egli è
condotto a limitare
la potenza divina. Perciò
egli si contenta
di osservare :
« Quod si
theologus concedat deum
posse lacere corpus
infinitum, oportet ipsum dicere
has difiìnitiones quantitatum
non esse diffinitiones
absolute, sed quantitatum
finitarum, quemadmodum oportet ipsum
concedere, quod acquale
vel inacquale non est
passio quantitatis, sed
est passio propria
quantitatis finitae » 37
; nel che
consentono appieno il
Cusano e il
Bruno. Nel decimo quesito
col quale si
conclude il terzo
libro, il maestro bolognese
esclude la possibilità
di altri mondi
fuori di quello descritto
da Aristotele, che
ha per centro
la terra e per
limite la convessità
della prima sfera
di cui è
forma sostanziale Dio stesso. Anche
nel quarto libro
troviamo ribadite le
grandi tesi dell'aristotelismo averroistico intorno
alla natura celeste
presa nel suo complesso.
Sferico è il
cielo, perché corpo
perfettissim.o cui non può
competere se non
la perfettissima delle
figure geometriche, qual è appunto la
sferica 38. Ed
è formato di natura
luminosa che consegue
alla luce intellettuale
dell' intelligenza che l'anima
e lo muove,
diminuendo d' intensità giù giù,
di grado in
grado, fino alla
sfera lunare, la
cui luminosità propria è
appena percettibile nelle
ecclissi di luna
39. Ampio sviluppo maestro
Alessandro dà al
quesito concernente l'eternità del moto
celeste, connesso con
quello dell'eternità del mondo
e dibattutissimo insieme
a questo, nei
commenti al35 Ib.,
f. 5irb: «ad
quartum, stando in
principiis philosophorum,
rationes militant; sed
negatis eorum principiis,
tiinc cessai disputatio
». 36 Ib., i.
52ra. 37 Ib., f.
52ra. 38 Ib., IV,
dub. I, f. 54ra-vb. 49
Ib., dub. 2,
f. 54vb-55rb.] l'ottavo della
Fisica 4°. Circolare
ed eterno, il
moto delle sfere celesti
riflette l'eterna circolarità
del pensiero delle
intelligenze motrici: « Quia
igitur intellectio intelligentiae exit
ab intelligente et revertitur
super idem ut
intellectum est, ideo intellectio est
principium motus circularis,
quoniam in circulo
exit corpus ab
a, ut a
principio, et revertitur
in idem a, ut
in terminum, per
arcum circuii»! 41. L'ultimo quesito
del De orèzèiis,
concerne l' influenza celeste sul
mondo infralunare. In
nessun'altra trattazione quanto in
questa dell'Achillini appare
evidente come le
dottrine astrologiche sull' influenza
dei cieli avevano
finito per prendere consistenza metafisica
nel sistema aristotelico
della natura, nel quale
le sfere celesti,
coi loro motori
intellettuali, e il mondo
elementare, contenuto nel
concavo dell'orbe lunare, son
solidali e quasi
direi complementari fra
loro, legati come sono
da un legame
di causalità 42.
« Si caelum
staret, ignis in stupam
non ageret, quia
Deus non esset
», suonava una proposizione
condannata dal vescovo
di Parigi nel
1277 43. E l'Achillini:
se il movimento
celeste s'arrestasse, non
solo il fuoco non
s'apprenderebbe alla stoppa
e allo zolfo,
ma addirittura « tunc
non essent ignis,
stupa aut sulfur»;
e ciò per la
ragione « quod
in primo instanti
quietis caeli resolverentur omnia inferiora
in materiam primam,
quia desineret caelum
esse conservans
interiora...; aut in
nihil omnia redirent.
Ideo supra dictum est,
quam repugnat naturae
vacuum, aut materiam esse
sine forma, tam
repugnat caelum quiescere.
Ideo Averroes, 12.
Mataphysicae, comm. 41,
auctoritate Aristotelis, 9. Meìaph.,
[t.J e. 16,
[e. 8, io5ob
22 sgg.) :
' Non est
timendum caelum quiescere '
44. Meno male !
Ma nel
trattare della causalità
che il mondo
celeste esercita su tutte
le cose del
mondo inferiore, il
bolognese è indotto
a porsi il problema
della libertà umana.
Sigieri45 e Giovanni
di 40 Ib., dub.
3, f. 55rb-57ra. 41
Ib., dub. 4,
f. 57ra-vb. 42 Su
questo legame fra
il cielo e
il mondo inferiore,
cfr. Averroè, De caelo,
I, comm. 22;
Aristotele, Meteor., I,
e. i, 338b
22; e. 2,
339* 21 sgg. 43 Denifle
e Chatelain, Chart.
Univers. Paris.,
1, p. 552. Cfr.
«Giorn. Crit. d. Filos.
Ital. », XXIX,
1951, p. 379. 44
De orb., IV,
dub. 5, f.
59rb. 45 Cfr. F.
Van Steenberghen, Sig.
de Brab. d'après
ses oeuvres inédites, voi.
II, Siger dans
l' hist. de
l'Aristotélisme, nella collez.
Les philosophes belges, t. XIII, Louvain, 1942,
pp. 624 e
663-665. 238
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI Jandun 46 se
l'eran posto assai
prima, e l'avevan
risolto allo stesso modo.
L' influenza dei corpi
celesti non s'esercita
in modo diretto se
non sui corpi
infralunari. Sull' intelletto
e la volontà umana
questa influenza non
s'esercita se non
indirettamente, nella misura che
lo spirito umano
è legato al
corpo. Ma per se
stessa quest' influenza
non s'esercita sull'atto
del giudicare e del
volere, che può
resistere ad ogni
influenza indiretta. Ora la
nostra libertà trae
origine dal giudizio
della ragione, che per
sé è immune
da ogni diretto
influsso celeste. Al qual
proposito l'Achillini coglie
l'occasione per chiarire l'equivoco che
nasce dal confondere
la libertà umana
con la contingenza, la quale
nel linguaggio aristotelico
è ben altra cosa.
La libertà è
propria del giudizio
che non è
determinato dall'oggetto
appreso; la contingenza
deriva invece da
indisposizione della materia «
che a risponder
molte volte è
sorda »; la prima
è propria dell'uomo;
la seconda spazia
in tutta la natura
sublunare, ove l' impronta
del suggello celeste
è ostacolata dalla cera
mortale 47, Ma anche
in questo l'Achillini
non dice niente
di nuovo. Lo stesso
concetto della libertà,
più che svolto,
è appena accennato. 3.
Poco dopo
la pubblicazione del
De orbi bus
a mezzo della stampa,
il maestro bolognese
preparava l'edizione di
alcuni rari opuscoli pseudo
aristotelici insieme ad
altre cose non
meno rare, fra le
quali egli inserì
anche un suo
trattatello De universalibus, la
cui composizione è
probabile risalga agli
anni in cui leggeva
logica fra il
1484 e il
1487. Nacque così
l'Opus septisegmentatum stampato nel
1501, a spese
dell'editore 46 Phys., vili,
q. 6. 47 De
orb., 1. e,
f. 58vb: «
Ex potentiali in
genere intelligibilium nascitur
libertas, sed ex
potentiali in genere
sensibilium nascitur contingentia.
Hoc voluit Philosophus,
6. Metaph., textu
comm. 5, in
translatione graeca: quare
materia erit causa
praeterquam ut in
pluribus aliter accidentis.... Quod
igitur dixi in
primo opere, Quolibeto
[de intelligeutiis] primo,
[dub. 3, nell'ediz.
del 1494] :
' Sequitur secundo
nullam esse in
rebus contingentiam ad
quas non concurrit
homo ', passum est
ab impressura defectum,
non apponendo '
libertatis ' »
[prima di ' contingentiam
']. Ma nell'edizione
del 1506 e
in quella del
1508, l'autore ebbe cura
di correggere l'errore. bolognese Benedetto
d' Ettore Facili.
La stampa riuniva
insieme queste rarità: Pseudo
Aristotele, De secretis
secretorum, De regum regimine,
De sanitatis conservatione, De
physionomia. De signis tempestatum,
ventorum et aquarum,
De mineralibus; poi il
fragmento De intellectu
di Alessandro d'Afrodisia
nella traduzione medievale di
Gerardo da Cremona,
il De animae beatitudine di
Averroè, cui tien
dietro l'opuscolo De
universalihus dell'
Achillini stesso; infine
l'epistola d'Alessandro il Macedone
ad Aristotele, De
mirahilihus Indiae. L'anno seguente
deve aver curato,
presso lo stesso
editore Ijolognese, l'opuscolo De
primo et ultimo
instanti di Walter Burley, a
spiegazione del quale
egli aggiunse una
breve nota: Alex. Achillini
Bon. Examinatio huius
quadrate figure et addictio oblunge
(f. A 5), cui
seguono (f. A
6-B 6) le
Proportiones di Alberto di
Sassonia (Bononie.... per
Ben. Hectoris, die XXIII
Aug. MCCCCCII. La
rara stampa è
posseduta dalla Bibl. Nationale
di Parigi, Rés.
V. 810). Nel 1503
curava altresì la
stampa del libretto
di Agostino Trionfo da
Ancona, agostiniano. De
cognitione animae et
eitis 'itentiis, cui l' Achillini
aggiungeva una Quaestio
de sensihilibns noribus di
Maestro Prospero da
Reggio, egli pure
agosti.: .no, «
excerpta et sumpta
ex quaestionibus ab
eo Parisius J'.putatis supra
prologo primi magistri
sententiarum » (Bologna, presso Giovanni
Antonio de' Benedetti,
31 maggio 1503) ;
e poco dopo
quella della Destructio
in arborem porphyrianam
dello stesso Trionfo,
presso lo stesso
stampatore de' Benedetti (io
luglio 1503). Nello
stesso anno e
presso lo stesso editore, die
in luce la
Quaestio de subiecto
physionomiae et
chyromantiae, o anche
De Chyromantiae principiis
et physionomiae, dedicata a
Bartolomeo Coclite e
premessa all'opera di questo,
Chyromantiae ac physionomiae
anastasis cum approbatione
magistri Alex. Achillini,
uscita a Bologna
presso il de' Benedetti
nel 1504 e
dedicata ad Alessandro
Bentivoglio, figlio del signore
di Bologna, Giovanni
IL Due altre
quaestiones, una De
potestate syllogismi, l'altra
De subiecto medicinae, dedicate all'alunno
Virgilio Porto da
Modena, l' Achillini stampò a
Bologna, presso lo
stesso Giovanni Antonio
de' Benedetti, nel 1504. Questo Virgilio
Porto era ancora
alunno dell 'Achillini e ne
aveva raccolto le
lezioni su quei
due argomenti. Nel
1505 si addottorò, e
nel nuovo anno
scolastico cominciò a
leggere medicina teorica a
Bologna fino al
1525, quando passò
a medicina pratica; ma
il 6 agosto
1527 venne a
morte ancor giovane 48.
Ecco la dedica
affettuosa del maestro
: Alexander Achillinus Virgilio
Porto Mutinensi, discipulo haud
penitendo, foelicitatem.
Nostra quaedam fragmenta
(ut moris eorum
est), Virgilii mi amantissime, diligentem
eorum collectorem adeunt.
Tu enim urbanitate et
virtutibus et doctrina
is es, quem
inter caeteros nobis dilectos
elegi, apud quem
aptissime reponantur; te
enim semper cognovi nostri
nominis studiosum. Logicalia
quidem alios docebis; medicinalia
vero exacte (ut
assoles) contemplaberis: ex
quibus non minus
gloriae, Alexandre tuo
aurigante, te iam comparaturum
existimo, quam hactenus
ex poeticis muneris
(/. numeris) adeptus
sis. Haec igitur
nostris aliis, quae
apud te sunt, adiungas.
Vale, et libenter
res nostras perlege. 4. L'
II settembre 1505,
presso lo stesso
de' Benedetti, uscì il
De elementis che
si può dire
formi, insieme al
De intelligentiis e
al De orbibiis,
la terza parte
di un'opera complessiva, la quale
abbraccia tutto il
sistema aristotelico-averroistico
della natura, ossia
tutta intera la
sfera cosmica, avente
la terra per centro
e per periferia
il cielo delle
stelle fisse. Consapevole dell' importanza
dell'opera, l'Achillini dedicò
il De elementis «all'invittissimo principe
e padre della
patria, Giovanni II Bentivoglio
», con una
lettera che è
documento importantissimo
per stabilire i
legami che univano
il filosofo al signore
di Bologna. Neil' «
explicit » di
questa e dell'opera
precedente l'Achillini, anzi che
col nome d'Alessandro,
comincia a sottoscriversi « il
figlio di Claudio
Achillini », arieggiando
alla lontana la maniera
degli arabi. A
rendere piìi solenne
l'edizione del De elementis,
il giovane Porto
fece scattare il
suo estro poetico e
dettò questo epigramma,
che si legge
sul frontespizio, e in
cui il
nome di Claudio
Achillini è ricordato
nel momento che per
la prima volta,
per quanto io
sappia, al figlio
veniva dato l'appellativo di
nuovo Aristotele: Cum modo
legisset titulum natura
libelli huius, Achillaeo est
obvia facta seni, 48
Su di lui,
V. TiRABOSCHi, Bibl.
Moden. atque ait: O
nimium foelix hoc
pignore, Claudi, quam melius
dici Nicomachus poteras. Un
altro epigramma scrisse
per la stessa
stampa Ludovico
Boccadiferro, che traduce
va il suo
cognome in quello
meno plebeo di Siderostomo.
Anch'egii era discepolo
dell' Achillini, e più tardi
ne continuerà l' insegnamento averroistico
a Bologna, ma con
assai minore vigore
speculativo. Il De elementis
è diviso in
tre libri. Nel
primo si parla
dei mutamenti e delle
vicissitudini che accadono
nel mondo sublunare e
della materia che
n' è il
soggetto. In 28
diibia son discussi tutti i
problemi concernenti l'esistenza
della materia prima, la
sua natura di
soggetto indeterminato e
potenziale del divenire fisico,
la sua conoscibilità, i
suoi rapporti con la
forma, con le
dimensioni, e il
concetto di privazione.
Niente di particolarmente notevole,
tranne questi tre
punti: primo, il sscondo
dubbio «an Sorte
non existente, Sortes
non sit homo», che
richiama l'attenzione sulla
discussione che fa
di questo problema anche Sigieri di
Brabante, nella Quaestio
utrum haec sii vera:
'Homo est animai',
nullo homine existente
'^^; secondo, il sesto
dubbio, ove si
nega la tesi
che attribuiva alla materia
una forma sostanziale
di corporeità da
essa inseparabile; terzo, il
dodicesimo dubbio, ove si sostiene
che la materia prima
è ingenerabile e
incorruttibile e perciò
eterna, checché ne pensassero
altri con Avicenna. Il
II libro tratta
degli elementi e
della loro mescolanza.
Al qual proposito il
bolognese riprende in
esame l'annoso problema se
nei « misti
» restino in
atto o soltanto
in potenza le forme
elementari, ritorna sulla
« forma corporeitatis
» che Avicenna voleva
inseparabile dalla materia,
e fa un
fugace accenno alla famosa
« colcodea «
dello stesso Avicenna,
« quae est decimus
intellectus in descendendo
a deo, et
est formarum datrix in
concavo lunae assistens
ad regulandam activorum et passivorum
sphaeram et ipsam
conservandam » 5°. Altro 49 De
elementis, I, diib.
2, f. gava.
P. Mandonnet, Sig.
de Brab. et l'averr.
latin
au XI Ile siede,
seconda parte: testi
inediti. Nella coli. Les philos. belges,
t. VII, Louvain,
igo8, pp. 65-70. 50
De eleni., II,
art. 2, f. ii2rb.
SuU'origine e il
significato della parola «
Colcodea », dopo
quanto ne aveva
scritto Alfonso Nallino,
son ritornato in «
Giorn. Crit. d.
Filos. It. »,
XXXIV, 1955, p.
188, per dimostrare che
essa entrò in
circolazione coli 'edizione del
Conciliator di Pietro d'Abano, Venezia.] tema è
quello, allora di
grande attualità, se
e come le
forme sostanziali siano capaci
d'accrescimento e di
diminuzione, di maggiore o
minore intensità (art.
3"). Più importante,
sebbene non nuovo, è
quello che egli
dice della generazione
degli organismi viventi, e
in particolare dell'uomo
(art. 4° e
50). Tutte le forme
degli esseri corporei,
da quelle elementari
a quelle animali, son
tratte dalla potenza
della materia. Ma
mentre le forme elementari
permangono nei «
misti », attenuate
nelle loro proprietà, come
aveva detto Averroè,
la «forma mixtionis
» resta soltanto potenzialmente nel
vegetale, e come
l'anima vegetativa si corrompe
all'apparire dell'anima sensitiva,
nella quale rimane potenzialmente o
virtualmente. L'Achillini in questo
non si dilunga
molto da S.
Tommaso e da
Pietro d'Abano. In certi
momenti, anzi, egli
sembra accogliere la
tipica dottrina tomistica dell'unità
della forma sostanziale.
Con due strappi però:
uno, di minore
importanza, concerne la permanenza
delle forme elementari
nei « misti
» ; l'altro,
assai maggiore, riguarda l'unione
dell' intelletto col
singolo. A rammendare quest'ultimo
strappo che compromette l'unità della
coscienza umana, l'AchilHni
s'adopra con ogni accorgimento dialettico,
pur mantenendosi fermo
sulla tesi averroistica fondamentale
: l'unità dell'
intelletto. È interessante seguirlo nel
suo tentativo. Lo sviluppo
dell'organismo umano s' inizia
con una fase puramente vegetativa,
come aveva detto
Aristotele. Principio delle funzioni
vegetative nell'embrione è
la così detta
« anima vegetativa »,
all'apparire della quale
la precedente «
forma mixtionis » si
corrompe. Così, nella
seconda fase dello
sviluppo embrionale, alla forma
vegetativa subentra quella
sensitiva, mentre la prima
si corrompe. Ma
qui l'Achillini si domanda:
— Allora
dovremmo dire che
prima d'essere animale,
l'embrione nella prima fase
è stato pianta
? — No
— egli risponde
; — perché altro
è esser pianta,
altro è vivere
a mo' di
pianta, come dice appunto
Aristotele 51. L'anima
vegetativa d'una pianta è
termine della nascita
di quella pianta,
ed è quindi forma
determinata e perfetta
nella sua specie;
la forma vegetativa nell'animale, invece,
è forma indeterminata
e imperfetta; più che
punto d'arrivo, è
preparazione e avviamento 51
Ib., art. 4,
f. i24vb. ad un
grado più alto
di vita; questa
è in via,
direbbe Dante 5^, quella
è già a
riva. In questo concetto
del passaggio dall'
indeterminato al determinato parrebbe
dovesse cercarsi la
chiave per intendere come r
intelletto, unico in
sé, s'unisce all'anima
sensitiva a costituire l' individuo
umano particolare. Ed
è concetto aristotelico che mitiga
alquanto la crudezza
dell'altro concetto, essere le
forme sostanziali come
i numeri e
come le figure
della geometria, di cui
non si dà
aqcrescimento o diminuzione senza cambiamento
di specie. Aristotele
appunto, nel De generatione animalium,
II, e. 3,
aveva detto che
nel processo genetico non
nascono insieme l'animale
e l'uomo, né
l'animale e il cavallo
53. Dal che
parrebbe che l'animale,
che precede l'uomo e
il cavallo, dovesse
essere non una
forma determinata e specifica,
ma una forma
generica e indeterminata, la quale
tende là a
determinarsi in cavallo,
qua in uomo. Venendo
a parlare appunto
del processo genetico
umano (art. 50), il
maestro bolognese si
chiede « an
in ipso (homine) animam intellectivam
expectet sentitiva » 54. E
per risolverlo, ricorda anzitutto
quali, a suo
modo di vedere,
ne sono i due
presupposti : Unum, quod
intellectus sit forma
informans materiam, dans esse
hominem. Aliud, quod
prius tempore sit
anima sensitiva in materia,
quam intellectus possibilis.
Quorum primum in
libro De intelligentiis declaravi
55, et etiam
in libro De
orbihus, [II, dub. VI],
quaestione de motu
intellectus. Ouibus addo,
quod ambo illa asseruntur
ab Aristotele, 2.
De genevatione animalium, [cap. 3],
dicente: ' Sed
quamobrem talem animam
prius haberi necesse sit,
ex his quae
De anima disseruimus
apertum est. Sensualem
autem, qua animai
est, tempore procedente,
recipi et rationalem, qua
homo est, certum
est. Quest'
« anima sensitiva
» che precede
l'apparire dell' intelligenza, è una
forma generica e
indeterminata che prepara l'avvento di
un'altra forma più
determinata, per la
quale l'uomo comincia già
a distinguersi dal
cavallo e dagli
altri animali; e questa
è la cogitativa.
La cogitativa è
nell'uomo 52 Purg., XXV,
54. 53 Arist., De
gen. animai., II,
e. 3, 736b
2. 54 De elem.,
II, art. 5,
f. i26ra. 55 Si
veda sopra, pp.
208-209. 244
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI quello che negli
altri animali si
dice estimativa, ed
è, insieme air immaginativa,
alla memorativa e al ((
sensus communis », uno
dei così detti
sensi interni. Come
l'estimativa negli animali, anche la
cogitativa (che talora
è chiamata essa
pure estimativa) ha la
funzione di distinguere
e giudicare sensibilmente le percezioni
particolari e quello
che v' è
nelle cose apprese
di utile e di
dannoso. Per questo
essa è chiamata
anche «ratio particularis »
; ma è
facoltà sensibile, legata
all'organismo, tanto che i
medici e anatomisti
antichi e medievali
le assegnavano come organo
il « ventricolo
medio » del
cervello, mentre all' immaginativa
assegnavano quello anteriore,
e alla memorativa quello posteriore.
Ma oltre alla
funzione ora accennata, la
cogitativa umana ne
ha un'altra, per
la quale si
distingue sostanzialmente
dall'estimativa degli altri
animali: essa è ordinata
a preparare quelle
immagini sensibili, o
fantasmi, quasi riassunto di
tutto il mondo
dell'esperienza sensibile,
che r
intelletto farà oggetto
di elaborazione mentale,
scientifica, traendo fuori dalle
rappresentazioni particolari il concetto
universale. Mentre nell'animale
inferiore all'uomo l'anima sensitiva per
mezzo dell'estimativa si può dire
sia giunta a riva,
ed abbia raggiunta
la più alta
perfezione di cui
è capace, non così
è della cogitativa
umana, la quale,
per quest'ultima sua funzione
preparatoria all'atto dell'
intendere, è ordinata per
sua natura a
congiungersi con l' intelletto
possibile. Questo alla sua
volta, nella gerarchia
delle intelligenze separate, è
quello che tiene
l' infimo grado, perché,
pura potenza d' intendere, è
ordinato, per iniziare
il suo passaggio
all'atto, ossia per divenire
intelletto in atto,
all'apprensione intelligibile
delle forme del
mondo sensibile, di
cui la cogitativa
gli somministra le rappresentazioni particolari. Perciò non
si può dire
che la cogitativa
sia la vera
forma dell'uomo, come pure
dicevano molti averroisti
56, e che
per essa l'uomo si
distingua dagli altri
animali. O se
vogliamo, essa è forma,
sì, ma incompleta.
E questo perché
la cogitativa umana 56
Fondandosi su un
famoso detto d'Averroè,
De anitna, III,
comm. 20 : ■«
Et per istum
intellectum [queni vocat
Aristoteles passibilem-, e che
Averroè denomina cogitativa]
differt homo ab
aliis animalibus ». Al
qual detto gli
averroisti sigieriani ne
opponevano però un
altro, tratto dal primo
commento allo stesso
terzo libro del
De aniìiia: «
Cum per hanc virtutem
[rationalem] difterat homo
ab aliis animalibus,
ut dictum est in
multis locis ». non
è ancora giunta
a riva; a
riva essa giungerà
quando sarà unita all'
intelletto possibile, che,
alla sua volta,
è ordinato per sua
natura ad essere
eternamente unito alla
cogitativa umana, negl' infiniti
individui della specie.
V è insomma
tra la cogitativa umana
e l' intelletto possibile
un vincolo sostanziale, per cui
l'una è ordinata
per natura all'altro,
e reciprocamente, ed entrambi
si completano a
vicenda. Forma completa dell'uomo, sia
in universale, quanto
alla specie, sia in
particolare, quanto ai
singoli, è dunque
l' intelletto possibile unito alla
cogitativa; e non
solo forma assistente,
ma vera forma informante
che dà all'uomo
l'essere di uomo
e ne fa il
soggetto dell' intendere. A
prima vista potrebbe
parere, e certe
espressioni potrebbero
indiirci a crederlo,
che l'anima cogitati^•a,
tratta dalla potenza della
materia, e l' intelletto
possibile, venuto dal
di fuori, fossero due
nature, due quiddità
diverse, due forme,
anzi due anime. Ed
effettivamente esse stanno
nell'uomo a rappresentare due modi
di conoscenza che
all'Achillini, come ad Aristotele
e a
Platone, son parse
irriducibili: Duo igitur svint
principia cognoscendi in
ncibis reperta: unum universaliter, et est intellectus,
et est incorporeus,
inorganicus, incorruptibilis;
aliud vero singulariter,
et est sensus,
et est virtus in
corpore et organica
et corruptibilis, et est
anima cogitativa 57, Ma
poiché la cogitativa
è forma incompleta
ed è ordinata ad
unirsi all' intelletto,
e questo alla
sua volta è
complemento di quella, possiamo
ben dire che
dalla loro unione
risulta un'anima composta, come
aveva detto Sigieri
58, la quale
è tutta intera forma
dell'uomo. Tuttavia, poiché
la cogitativa è forma
incompleta che riceve
il suo ultimo
complemento dall'unione con r
intelletto, possiamo dire
ugualmente che 1' intelletto
termina il processo
della generazione umana,
e che esso ha
da ritenersi forma
dell'uomo a più
forte ragione che non
l'anima cogitativa: Quamvis in
homine duae species
colligentur, ibi est
tantum intellectus, qui est
ultima forma, qua
homo est homo.
Cogitativa igitur forma non
est ultima, sed
ordinatur in intellectum.
Non tamen est homo
unus per simplicem
formam, sed per
composi57 De ehm.,
II, art. 5,
f. lijrb. S^ tissimam;
nullum enim est
mixtiim homine compositius.
Habet igitur homo duo
esse: unum est
esse inateriale a
cogitativa; reliquum vero est
esse divinum ab
intellectu possibili 59. Perciò
l'Achillini nei QuoUbeta
de intelligentns, ai
quali più volte si
riferisce nel secondo libro
del De elementis,
aveva detto : Non potest
intellcctus informare materiam,
non informante cogitativa, quia
non stat materia
sine forma constituta
in esse per eam....
Neque potest cogitativa
informare, non informante intellectu, quia,
dato informabili ultimate
disposito et informativo, ponitur informatio.
Est autem materia
informata cogitativa informabile propinquum et
ultimate dispositum ad
recipiendum inteilectum ^°.
Le quali
parole, secondo la
testimonianza del Nife,
son tolte alla lettera
dall'opera di Sigieri,
De intellectu ad
fratrem Thomam ^i. Il terzo
ed ultimo libro
del De elementis
abbraccia diciannove quaestiones, intorno
alle proprietà degli
elementi, e cioè alla
quantità e alle
loro qualità, al
movimento, alla gravità, alla
figura e al
luogo proprio di
ciascuno. E poiché
le teorie dello Heytesbury,
o Heutisbery, come
lo chiamavano, e
quelle del Suisset, o
meglio Swineshead, erano
venute a scompigliare le idee
dei maestri bolognesi
non meno che
di quelli padovani, anche
l'Achillini s' impegna in
una prolissa discussione del problema
di moda, se di ogni
cosa naturale si dia
un massimo e
un minimo 6=,
sul quale nel
corso delle sue
lezioni e in trattati
speciali ebbe a
soffermarsi più volte
anche il Pomponazzi, imprecando ai
calculatores forestieri e
nostrani ^3. A questo
problema tien dietro
una non meno
prolissa discus59 De
elem., 1. e,
f. i2gra. ^° V.
sopra, p. 206. 6^
NiFO, De intellectu
et daemonibus, I,
tr. 3, e.
18; cfr. il
mio Sigieri, cit., pp.
17-18. ^2 De elem..
Ili, dub. i,
f. 230va sgg. ^3
Pomponazzi, De maxima
et minimo ad
Laurentium Molinum, Ms. Ambrosiano
R. 96 sup.,
f. i52r (vecchia
numeraz. f. 39r)
; In I Phys.,
Parigi, Bibl. Nation., ms. lat.
6533, f. 49
Gr sgg.; Arezzo,
Bibl. Frat. de' Laici,
ms. 389, f. 42V
sgg. (il Pomponazzi
prende di mira
particolarmente il suo concittadino Pietro
da Mantova), nonché
le due opere a
stampa De reactione
e Tractatus penes quid
intensio et re- missio
formarum attendatur. sione sul
quesito « utrum
aliquid moveat se
». E sebbene
l'au- tore dichiari di voler
trattare di ogni
specie di movimento, celeste o
elementare, animato o
inanimato, sostanziale o accidentale, corporale
o spirituale, egli
s' intrattiene più a lungo
intorno al moto
naturale degli elementi
e dei «misti»
e specialmente alla gravità
e « leggerezza
», ritenute con
Ari- stotele e Averroè forme
sostanziali dei corpi,
all'azione del cielo, del
« luogo naturale
», del generante
edi ciò che
rimuove r impedimento al
cadere o all'elevarsi
di un corpo
64. Le stesse idee
averroistiche, che l'Achillini
sosteneva a Bologna,
aveva sostenuto a Padova
il Pomponazzi, nell'anno
1500, commen- tando r Vili
della Fisica 65.
Ad un certo
momento il maestro bolognese accenna
anche al moto
violento dei proiettili.
E come il Pomponazzi,
sostiene egli pure
che il proiettile
lan- ciato «movetur a medio»
e combatte la
tesi dell' « impetus » difesa
dai «parisienses»66^ cioè
da Giovanni Buridano,
da Ni- cola d'Oresme, da
Alberto di Sassonia,
detto Albertuccio o Alberto
il piccolo, per
non condonderlo con
Alberto Magno, e altresì
da Marsilio di
Inghen, e portata
a Bologna da
maestro Biagio da Parma
che d'Albertuccio era
stato alunno a
Parigi ^7. Seguono altri
diciassette quesiti intorno
ai quattro elementi e
alle loro qualità
sostanziali. La soluzione
di essi è
quella averroistica. Ma l'ultimo,
il diciannovesimo, ha
un' importanza speciale per
il tempo in cui è
posto : «
Dubitatur decimonono, utrum terra
sit ubique habitabilis
». Il problema
se l'era già posto
Pietro d'Abano prima
del 1310, nella
diff. LXVII del suo
Conciliator, e l'aveva
discusso con ampiezza,
ricordando i viaggi di
Marco Polo e
la relazione di
frate Giovanni cordigliere, cioè
del francescano Giovanni
del Pian del
Car64 De eleni.,
Ili, dub. 2,
f. I34ra sgg.,
e specialmente sulla
gravità e nerezza, f.
i36rb. 65 Bibl. Naz.
di Napoli, ms.
Vili. D. 81,
f. 1311: Questio
Magistri Petri
Pomponatii.... de motu
gravium et leviiim,
quam fecit Magister Petrus dum
legeret librum 8. Physicoriun
anno domini 1500.
Sullo stesso argomento il
mantovano ritornò nel
commento all' Vili
della Fisica del 1518,
Arezzo, Bibl. Frat.
de' Laici, ms.
389, f. 3iiv-3i2r, ove combatte
la « solutio
de impulsu que
communiter tenetur a parisiensibus »
(ad t. e.
82). 66 De elem.,
1. e, f.
I35va « Secunda
est opinio Parisiensium.... ». 67
A. Maier, Zz£^ei
Grundprobletne der scholastischen Naturphilosophie: das Problem
der intensiven Grosse;
die Impetustheorie. 2*
ediz. Roma, 1951, pp. 1
13-313, e per
Biagio Pelacani da
Parma in particolare] pine 68.
L'Achillini conosce e cita il
Conciliator, ma di
mala voglia e senza
entusiasmo: Quod autem sub
aequinoctiali continue habeantur
ficus, aut quod aer
sit ibi temperatissimae dispositionis, aut
quod aninialia ibi habitantia
temperatam habeant complexionem,
aut quod paradisus
terrestris ibi sit:
sunt res quas
experientia naturalis nobis non
ostendit ^9. Il che
è ben detto
per il paradiso
terrestre, ma non
per le altre cose
ricordate, delle quali
1' « experientia
naturalis » di arditi
viaggiatori e missionari
era cominciata da
un pezzo. Il filosofo
bolognese, che pur
sapeva qualcosa di
ciò che costoro narravano di
aver visto e
toccato con mano,
senza avere il coraggio
di negarlo, si
contenta di dire
che è cosa
che non riguarda i
filosofi intenti alla
ricerca del perché,
bensì gli « storiografi
» cui spetta
d' indagare se un
fatto è o
non è : «
Pro malori parte
veritas illarum (causarum)
ex historia ' quia
est ' dante,
petenda est ;
ideo haec historiographis relinquantur,
et praesertim de
Marco Veneto aut
Dominico Indiano loquentibus » 70. Chi
sia questo Domenico
Indiano non saprei dire.
Ma coloro che
avevan parlato e
scritto dell' India e
delle terre australi
eran più d'uno.
Negli anni stessi in
cui l'Achillini componeva
il De elementis, s'aggirava per r
India e le
terre australi Ludovico
de Varthema, che
pare,, e non senza
buon fondamento, fosse
oriundo bolognese. 5. Il
5 marzo 1506,
uscì « per
Benedictum Hectoris Bibliopolam
Bononiensem » la
seconda edizione dei
Quoliheta de intelligentiis, cui
l'autore premise diciotto
dubia sollevati dal conte
Annibale Rangoni, al
quale l'edizione era
dedicata, insieme con le
soluzioni di essi.
Questi diciotto dubia
nelle edizioni successive sono
stati rimandati in
fine dell'opera. Tutti questi
scritti hanno, in
complesso, carattere stretta68
Che « cordelarius
)) (in francese
cordelier) significhi «francescano» o « cordigliere »,
è sfuggito a
Sante Ferrari, in
quel suo volumaccio, pieno di
tanti spropositi, I
tempi, la vita,
le opere di
Pietro d'Abano, p. 276,
del quale ho
parlato a lungo
sopra, nei primi
due saggi, eil ove
« cordelarius »
è diventato un
cognome, Cordellari ! 69
De eleni., Ili,
dub. 19, f.
i49rb. 70 Ib. mente filosofico,
se per filosofia
s' intende, come s' intendeva allora, la
teoria della natura
completata dalla metafisica. Le stesse
questioni De suhiecto
physiononiiae et chiromantiae e De
suhiecto medicinae, ben
poco hanno che
riguardi da vicino la
medicina propriamente detta.
Tuttavia dalle Anotomicae annotationes, pubblicate
postume dal fratello
Giovanni Filoteo, nel
settembre 1520, e
delle quali parleremo
più oltre, si può
ricavare che maestro
Alessandro, il quale
dal 1494 reggeva una
delle cattedre di
Medicina Teorica, fu
condotto a discutere di
anatomia e di
fisiologia 7". In queste
Annotationes infatti egli accenna
più volte ad
osservazioni da lui
fatte nel 1502 (f.
i6v), nel 1503
(ff. 5v, 15V,
16) e nel
1506 (f. 12 v). Lo
studio bolognese, da
quando l'Achillini assunse
l' insegnamento della
Medicina Teorica ebbe
quasi sempre tre
maestri deputati « ad
lecturam Chyrurgiae »,
che di solito
aveva per testo fondamentale
V Anatomia del Mondino,
sulla guida del quale
si conducevano le
dissezioni dei cadaveri
o « anotomie
», che, alla fine
del Quattrocento e
nei primi del
Cinquecento, si facevano con
speciale messa in
scena, pari a
quella non meno solenne
per la confezione
della Triaca. A
queste « anotomie
» assistevano maestri e
scolari e per
l'occasione si sospendevano per otto
o dieci giorni
le lezioni. Siccome
l'Achillini non fu mai
deputato « ad
lecturam chyrurgiae »,
è verosimile che egli,
come maestro di
Teorica, abbia preso
parte a qualcuna delle abbastanza
frequenti « anotomie »
tenute negli anni
da lui stesso indicati
e in altri
ancora ~-. Nell'anno scolastico
1502-3, fra i
maestri deputati a
leggere 71 A. Pazzini,
La scoperta della
membrana timpanica, nella
rivista // Valsalva, IX,
1933, pp. 298,
scrive: «L'Achillini lesse anatomia nell'università di
Bologna nel 1497,
ma per breve
tempo. Nel 1501
riprese la cattedra e
la tenne fino
al 1508 ».
La notizia è
inesatta per più versi.
Una cattedra d'anatomia
a Bologna allora
non esisteva. Di anatomia
si occupavano il
professore di Teorica,
quando faceva lezione su
un testo di
anatomia, per es.
su talune parti
del Canon di
Avicenna o su alcuni
trattati di Galeno
ecc., e il
professore di Chirurgia.
L'Achillini fu sempre professore
di Teorica dal
1494 al 1506,
e dall'ottobre 1508 al
1512. 7* Oltre a
queste « anotomie
» pubbliche, ve
n'erano del resto
anche di private che
i maestri facevano
per proprio conto,
quando ne avevano la
possibilità, a scopo
d' indagine scientifica. Cfr.
G. Martinotti, L' insegnamento
dell'anatomia a Bologna
prima del sec.
XIX, in Studi
e memorie per la
Storia dell'univ. di
Bologna, voi. II,
Bologna, 191 1, p.
30 sgg. Ma l'autore
non dà esempi
per il periodo
dell'Achillini, né dice
che fossero frequenti.
Chirurgia, insieme a
Domenico della Lana,
che già insegnava da
vari anni, e a Biagio
de' Mercuri, ucciso
il 5 novembre
1505, compare nello studio
bolognese la figura
di Jacopo o
Berengario da Carpi, detto
semplicemente il Carpo.
Questo illustre maestro, che
godeva della protezione
d'Alberto Pio, signore
di Carpi, commentando il
Mondino, ebbe a
correggerlo su molti punti,
e dominò la
chirurgia bolognese del
suo tempo, cui
aprì nuove vie, fino
alla sua partenza
per Ferrara nel
1527. A proposito della scoperta
del martello e
dell' incudine nell'orecchio medio, gli
storici della medicina
sono incerti se
attribuirla all'Achillini o al
Carpo, e sembrano
quasi insinuare che vi
fosse rivalità fra
i due colleghi
bolognesi. Il certo
è che l'Achillini
nelle Annotationes non
ne fa cenno;
e d'altra parte
il Carpo, nei Commentaria
cum amplissimis additionihus
super Anatomia Mundini, stampato
a Bologna, «
per Hieronymum de Benedictis.
Pridie Nonas Martii.
M.D.XXI », quando
il collega era morto
da quasi nove
anni, trattando nel
comm. XXXVII (fol. 477r)
di questi due
ossicini, lungi dall'attribuirsene la
scoperta, e' informa
che « sunt
aliqui qui volunt quod
illa ossicula moveant
aerem intra stantem
et panniculum praedictum
». E anche
nelle Isagogae hreves
et exactissimae in
anatomiam humani corporis
(seconda ediz. del
1530, s. 1., pp.
230-32), lo stesso
Carpo torna a
parlare dei «duo ossicula
» e delle
varie opinioni per
intenderne la funzione. Se
se ne discuteva,
ed altri avevano
opinioni diverse da
quella di maestro Jacopo,
è segno che
questi « duo
ossicula » erano stati
notati da qualche
tempo, forse in
qualcuna delle « anotomie »
tenute dallo stesso
chirurgo, e alle
quali un maestro di
Teorica, qual era
l'Achillini, non poteva
rimanere estraneo 73 Giacché
è risaputo come
nel corso appunto
di queste « anotomie »
e nelle discussioni
inevitabili a cui
davano occasione, furon notate
discordanze, le quali
ogni giorno cresce van
di numero, fra l'esperienza
e le trattazioni
anatomiche di Galeno, di
Avicenna, del Mondino
o di Ugo
da Siena, e
si venne rinnovando la
scienza anatomica. Nel 1506,
Alessandro Achillini godeva
dunque a Bologna della
più alta considerazione come
filosofo e come
medico e 73 Del
resto l'attribuzione di
questa scoperta all'Achillini
si fa risalire a
ciò che ne
dicono Eustachio Rudio
e Giulio Casserio
piacentino. Cfr. G. N.
Pasquali Alidosi, / dottoribolognesi di teol.
filos. medie, e d'arti
liberali dall'anno 1000
per tutto marzo
1623, Bologna] del favore
dei Bentivoglio che
gareggiavano coi signori
di Ferrara e d'
Urbino e coi
Medici nel proteggere
gli studi, le arti
e i begli
ingegni 74, Per
Natale del 1504,
il fratello Giovanni Filoteo Achillini
portava a termine
il suo enfatico
e strampalato poema intitolato
Viridario, stampato a
Bologna, nel 1513, «
per Hieronymo di
Plato Bolognese »,
e dedicato a
« Gioanne de Medici
Cardinale, bora Leone
sommo Pontifice ». Nel
canto X,
Giovanni Filoteo tesse
le lodi di
Bologna; prima delle donne
e dei gentiluomini
illustri, poi degli
studi che dan
fama a Felsina. Fra
i dotti bolognesi
due ne indica
in particolare: l'uno è
Giovanni Zaccaria Campeggi,
allora giurista di
gran fama, che dopo avere insegnato
il diritto a
Pavia e a
Padova, s'era fermato definitivamente a
Bologna (a meno
che Giovanni Filoteo non
intenda del figlio
di lui, Lorenzo,
che, insieme al padre,
teneva la cattedra
straordinaria di diritto
civile, egli pure giurista
di grido e
futuro cardinale, cui
saranno affidate importanti e
delicate missioni diplomatiche)
; l'altro è Alessadro
Achillini, che il
poeta, suo fratello
minore,esalta con orgoglio e
ammirazione (ff. i84v-i85r)
: Dui lumi chiari,
ciascaduii divino: lune il
Campeggio, laltro lo
Achillino. Di luna legge e
laltra quel Campeggio, si
come e voce
e ver, porta
corona. Ne gli altri
studii lo .\chillino
veggio, che Theologia sparge
in ogni zona. lalta
philosophia laudar non
deggio, che fama, e
de laltre arti,
il Mondo introna. Me
glorio, godo, e
laudo il Creatore che
a questo unico
son fratel minore. Chi
legge e intende
lopre sue superne, dove
e insudato in
la sua gioventute, gli darà
laudi gloriose e
eterne. Hor pensi, pervenendo
a senettude, le lucubration,
calami e lucerne scranno al
letto et al
lettor salute. Di un
lustro a punto
il mezzo camin
varca, sei debito farà
Ih orrenda Parca. Che
maestro Alessandro fosse
dottissimo in filosofia
e nelle altre arti
lo sapevamo ;
ma che egli
si fosse addentrato
anche in 74 Nel
bimestre settembre-ottobre 1491,
e in quello
di novembredicembre 1504,
fu anche del
consiglio degli Anziani.
Catalogus omnium doctoriini collegiatorum
in artibus liberalibus
et in facilitate
medica, Bologna] un campo
così diverso come
quello degli studi
di teologia, ci sarebbe
facilmente sfuggito, se
il fratello poeta
non avesse richiamato l'attenzione
su questo aspetto
della sua cultura. A
dir vero, più
volte, leggendo taluni
dei suoi scritti,
m'era accaduto d'
imbattermi, senza farci
troppo caso, in
brani che, ben considerati,
attestano nell'autore buona
conoscenza delle cose teologiche,
pari certamente a
quella di Tiberio Bacilieri, il
quale, averroista alla
maniera dell'Achillini, non esitava
a dichiararsi pronto,
se il papa
l'avesse gradito, a interrompere
l'esposizione d'Aristotele e,
«relieto lumine naturali, propositiones creditas
magna cum facilitate
et brevitate resolutissimas reddere
» 1^. Il 19
maggio del 1506
l'Achillini avrebbe dovuto
essere presente come compromotore
all'esame di dottorato
che quel giorno dovevano
subire maestro Guglielmo
Spinola da Modena, che
per un biennio
era già stato
Rettore dello studio
« et optime se
habuerat in officio
», e maestro
Guido da Pesaro. Dovette invece
farsi rappresentare da
un collega, perché «
tunc temporis iverat
Romam, ut interesset
disputationibus fìendis in capitulo
generali fratrum minorum
tam observantinorum quam
conventualium, grafia sui
honoris, studiique nostri ac
almae civitatis bononiae
» 7^. Nel
saggio che segue, si
dirà quanto basta
di questa disputa
avvenuta il 6
giugno 1506 in casa
e sotto la protezione del
Cardinale Domenico Grimani. Il
patrizio veneziano Geronimo
Taiapietra protagonista di questa
disputa, al capitolo
generale dei frati minori
tenuto a Roma,
giostrava in difesa
di quell'averroismo
sigieriano che l'Achillini,
dodici anni prima, aveva
difeso durante un
altro capitolo generale
di francescani a Bologna.
L' invito deve essere
stato rivolto all'Achillini 75 Nella
dedicatoria a Giulio
II della Lectura
in tres libros
de anima di Tib.
Bacilieri, Pavia, 1508. Cfr.
il mio Sig.
d. Brab. nel
pensiero ecc., p. 136. A convincerci
della buona conoscenza
che all'Achillini non doveva
mancare deUe cose
teologiche, oltre ai
molti luoghi nei
quali egli mette in
rilievo, su vari
argomenti, il dissenso
irriducibile tra filosofi e
teologi, basta ricordare
i brevi accenni
alla libertà degli
angeli {De orò., ITI,
dub. I, f.
47rb), alla grazia
infusa {ib., dub.
2, f. 5ira),
alla duplice natura in
Cristo [De eleni.,
II, art. 2,
f. ii2rb), al
peccato originale e alla
giustificazione {ib., art.
5, f. i29rb),
alla transustanziazione e all'
identità del corpo
di Cristo nel
sepolcro {ib., i29rb-vb)
e simili. 76 Libro
segreto del collegio,
cit., n. 3,
f. 6r. Cfr. L. Mùnster,
Aless. Achillini, in Riv.
di Storia delle
Scienze Mediche e
Naturali] dal Card. Grimani,
per desiderio del
Taiapietra stesso, cui doveva
stare a cuore
d'avere al suo
fianco, nel pubblico
cimento, un maestro di
tanta autorità, del
quale condivideva il pensiero. Però fu un peccato
che maestro Alessandro
fosse assente da Bologna
quel 19 maggio,
poiché maestro Geronimo
de Bombaxia, priore per
quel trimestre del
Collegio di medicina, annota di
suo pugno nel
Libro Segreto del
Collegio stesso: « Et
eadem die habuimus
opulentam colationem a
doctoratis»; usanza non
del tutto infrequente,
e fatta oggetto,
a quanto mi consta,
anche di speciali
norme regolamentari. 6. —
Nell'autunno dello stesso
anno l'Achillini, che
era priore del Collegio
(carica già da lui coperta
altre volte), dovette provvedere alla
sua incolumità personale,
all'appressarsi delle milizie papali:
« Erat enim
tunc temporis universa
urbs in sagis ob
terorem summi pontificis,
qui magnis et
gallorum et italorum copiis ad
eam approperabat, ut
urbem suam liberam
in liberiorem redigeret;
quod sibi sviccessit
fuga optimatum bentivolorum,
qui tunc ei
preerant, suscepta ».
Come fautore dei Bentiviglio,
egli il 7
novembre era fuggito
a Padova, mentre nella
carica di priore
gli era successo
maestro Chiaro Francesco de'
Genuli 77. L' II
novembre Giulio II
faceva il suo
ingresso in Bologna, e
i maestri dello
studio andavano a
rendergli omaggio: Die xi'^
novembris, Beatissimus sumnius
pontifex iullius papa secundus
honorificentissime ingressus est
praetorium fori bononiensis,
tanquam Dominus benemeritissimus; et
nostra collegia iverunt obviani
ei pedestres usque
ad mansionem prope
positam strale maioris, cum
vestibus et biretis
rosaceis et banale
de variis, et beatitudinem
suam associavimus usque
ad sanctum petrum. Sic
enim consue visse alios
collegiatos factitare, a
Domino Paris de grassis,
Magistro ceremoniarum, accepimus
78. Fuggito da Bologna,
l'Achillini era accolto
come maestro nella seconda
cattedra ordinaria di
filosofia naturale, a Padova.
Ivi appunto lo
troviamo come concorrente
del Pompo77 Libro
segreto, n. 3,
f. yr. Cfr.
L. Mùnster, p.
16. 78 Libro segreto,
ib. ] nazzi che occupava
la prima cattedra,
come risulta dal
titolo dalla reportatio del
corso di lezioni
che il Peretto
Mantovano tenne nell'anno scolastico
1506-1507 sul De
substantia orbis di Averroè: Expositio libelli
de substantia orbis
ex. mi ac tempestate
nostra naturalis
philosophiae luminis Magistri
petri pomponacci Mantuani.
Patavij. M.D.VII. xx
mensis Februarij, dum
primum locum ordinariae philosophiae,
ad concurentiam ex. mi allexandri achiUini bononiensis, publice
profìteretur 79. Sebbene il
Facciolati pretenda di
sapere che maestro
Alessandro era stato professore
a Padova nel
quadriennio 14841488, e
che in quest'ultimo
anno aveva avuto
per antagonista il Pomponazzi,
la notizia è
smentita dai rotuli
bolognesi e dagli altri
documenti del Collegio
delle Arti e
di Medicina che danno
presente a Bologna
l'Achillini ininterrottamente
dal 1484
al 1506. Invece
è certo che
il mantovano, che
iniziò il suo insegnamento
padovano solo nel
1489, ebbe a
concorrente, quando ritornò a
Padova nel 1499,
l'alunno e socio dell' Achillini, Tiberio
Bacilieri, lino alla
partenza di lui
per Pavia, e, partito
questo, il Fracanziano.
Prima dunque che con
l'Achillini, il Pomponazzi
s'era scontrato col di lui
« fido Achate »,
che del suo
Enea non era
per altro che
una pallida e sbiadita
ombra ^o. Soltanto dunque
nei due anni
scolastici 1506-1508 il Peretto
si trovò
ad avere per
concorrente l'Achillini, del
quale già conosceva il
pensiero. Ma a
giudicarne dal contenuto dell' Expositio libelli
de substantia orbis,
i dissensi fra
i due, per quanto
senza dubbio notevoli,
non paion tali
da dover degenerare in
risse. Anzi, non
ostante i dissensi,
vi sono nell'esposizione pomponaziana
molte pagine che
il bolognese avrebbe potuto
sottoscrivere a piene
mani. Così, per esempio,
quando il mantovano
combatte la teoria
avicenniana della « forma
corporeitatis » coeterna
alla materia (fol.
yv sgg.) ; o
quando tratta della
dottrina averroistica delle
« dimensiones interminatae »
anteriori ad ogni
forma corporea (f .
I3r) ; o quando
nega con Averroè
che le sfere
celesti siano animate da
un'anima sensitiva, distinta
dall' intelligenza motrice, come pretendeva
ugualmente Avicenna (f.
i/r). Anche sul 79
Cod. Vat. Regin.
lat. ] grosso problema An
caeluni sit compositum
ex materia et
jorma (ff. i8r-24r), il
Pomponazzi si sforza
di mostrare come
le varie opinioni in
contrasto si possan
difendere e come
si possan risolvere gli
argomenti che ad
ognuna si obiettano.
Il suo aristotelismo e il
suo averroismo insomma
non hanno la
rigidità intransigente del pensiero
dell'Achillini. Col quale
il mantovano era in
sostanza d'accordo anche
nel dubitare della
dipendenza delle
intelligenze e dei
corpi celesti dalla
causalità efficiente del primo
motore (f. 28r-30v),
e altresì della
infinità intensiva del vigore
col quale questo
muove l'universo. La vera e
profonda differenza fra
l'uno e l'altro
maestro, trovatisi di fronte
a Padova, è
questa. L'Achillini accetta integralmente l' interpretazione averroistica
d'Aristotele, anche là dove
altri aveva visto
discordanze fra il
testo e il com-
mento e nel pensiero
stesso d'Averroè aveva
notato non poche contradizioni, onde
le molte opinioni
sul vero pensiero
dello stagirita e le
diatribe fra gli
stessi averroisti, ciascuno
dei quali aveva in
serbo il suo
modo di risolvere
quelle discor- danze e contradizioni. Quello
del bolognese rappresenta
uno dei sistemi più
coerenti d' interpretazione del
pensiero d'Ari- stotele, dal punto
di vista rigidamente
averroistico. Per mezzo di
sapienti accorgimenti logici,
suggeriti dalla più
scaltrita arte dialettica, per
via di impensati
ravvicinamenti di testi e
di sottili distinzioni,
le contradizioni spariscono,
i contrasti sono conciliati,
le obiezioni mosse
dai dissenzienti risolte,
le dubbiezze dissipate. Di
guisa che il
sistema aristotelico-
averroistico, costruito con
procedimenti deduttivi che
mentre scimmiottano quelli della
geometria in realtà
si risolvono in una
caricatura del metodo
matematico, ostenta una
compat- tezza in tutte le sue parti,
sì da dare
l' illusione della raggiunta certezza, in
cui l'animo si
quieta e non
sente più l'acre
puntura del dubbio. In
questa superba convinzione
di essere ormai arrivato «
al segno che
si tien gran
miracol di natura
», e pros- simo alla copiilatio
con l' intelletto agente,
l'Achillini non aspira orm.ai
ad altro che
ad assomigliare ad
Aristotele, del quale dice
con Averroè :
« qui divinus
potius quam humanus
; quoniam a M. D. annis
cifra non est
inventus error in
eius dictis alicuius momenti;
naturae enim consiliarius
extitit»! 8', 8i De
phys. auditu,
f. óyvb. 256 l'aristotelismo tal
C vano dal
secolo XIV AL
XVI Al Pomponazzi, al
contrario, questa balda
sicurezza dell' in- fallibilità d'Aristotele
e d'Averroè era
venuta meno. Egli non
soltanto afferma «
quod Aristoteles non
fuit deus et ipse
non novit omnia»
82, ed ugualmente
«quod Commen- tator erravit
neque ipse est
deus «^3, ma
spesso dichiara di non
riuscire a intenderli,
che preferirebbe esser
discepolo che non maestro,
talvolta anzi non
esita a qualificare
pazzesche, dal punto di
vista della stessa
ragione umana, le
loro dottrine. Ma il
più spesso, da
quell'uomo faceto che
era, più che
incapo- nirsi a dissolvere gli
argomenti dei suoi
avversari (cosa non facile
senza accettarne taluni
presupposti, il che
l'avrebbe con- dotto ad
invischiarsi in un
perpetuo circolo vizioso,
senza via d'uscita), preferiva
motteggiare con essi e svignarsela
con qualche piacevole e
magari salace barzelletta.
Esempi: nel febbraio 1520,
stava esponendo il
secondo libro del
De cado, e precisamente
il commento averroistico
al testo 34,
là dove si pretende
di poter dimostrare
con arzigogoli sillogistici
che il mondo « non potuisset
esse nec maior
nec minor, secundum philosophos »,
perché esso ha
da esser proporzionato
alle di- mensioni dell'uomo, «
cum mundus sit
propter hominem ». Questo
modo di argomentare
stuzzica la vena
umoristica del Peretto:
Modo, si
mundus esset maior,
homo non posset
vivere; nam si haberetis
thalamum maximum, non
possetis vivere, quia
ibi esset nimis frigus.
Unde si Sanctus
Petronius esset in
decuplo maior, organum, quod
nunc habetur, non
posset sentiri per
totum. Similiter, si
mundus esset maior,
sol esset nimis
parvus, et sic non
posset calefacere, et
sic corrumperetur homo.
Similiter, si esset minor,
nimis sol calefaceret,
et ita non
possent esse plures celi.
Mundus ergo non
potest esse maior
neque minor; et
est sicut dicebat illa
bona mulier, quod
virga bene manebat
in vulva sua, et
quod virga non
oportebat quod fuisset
nec maior nec
minor, nec grossior nec
subtilior, nec curtior
nec longior; ita
quod era, ut dicitur,
a punto. Et hoc
respondent fatui philosophi
ad istam dubitationem 84. E
perché, mentre il
moto violento dei
proietti è più
intenso da principio e poi va
rallentando, il moto
naturale dei gravi
e dei leggieri «
est in fine
velocior » ?
La ragione ve
la dà Averroè
: ^2 Arezzo, Bibl.
Laici, ms. 390,
f. 41V; cfr.
Parigi, Bibl. Nation., ms.
lat. 6534,
f. I3r. 83 Arezzo,
ms. cit., f.
47V; Parigi, ib.,
ms. lat. 6533,
f. 53V. 84 Parigi,
ib., ms. lat.
6534, f. 6ov. Et
ponit conimentator huius
rationem: v. gr.,
grave descendens in
fine velocius est
quam in principio,
quia confortatur ex desiderio
finis et termini;
ideo intenditur desiderium,
et intento desiderio intenditur
virtus motiva et
motus. Exemplum do
vobis: quando vos itis
ad amicam et
appropinquatis illi, antequam
figatis priapum, vos mandate
fuor el seme
in sulle cosce.
Similiter, quando aliquis est
clericus, non desiderat
papatum; sed quando
incipit liabere sacerdotia magna,
incipit desiderare episcopatum,
postea cardinalatum, et tunc,
quando est cardinalis,
magnopere papatum desiderat, quia
illi est propinquus.
Et ita dicit
commentator....85. Alla fine di
novembre 1522, stava
commentando il primo delle
Meteore, e precisamente
il capitolo della
pioggia, della rugiada, della
grandine, della neve
e della brina.
Seguendo passo passo il
testo aristotelico e
prendendo in esame
le varie opinioni così
poco convincenti intorno
alle cause del
riscaldamento e
raffreddamento, della siccità
e dell'umidità, esce
in queste dichiarazioni: Ego multos
annos consideravi ista,
et ex toto
mihi non satisfacio,
et volo addiscere
2as dubitationes quas
nescio solvere, et solutionem
relinquo istis meis
sociis qui cenant
cum deo et
omnia sciunt.... Domini, ego
dico vobis sicut
dicebat Petrarca: '
Così ben io potessi
con lingua '
exprimere quaelibet mente
concipio.... Domini et filij
mei, dicam vobis
veruni: certe quo
ad nostrum saeculum, multum
laudo fratres sancti
Hieronymi, idest li
lesuati, quoniam non student
et nihil faciunt
nisi dicant '
Pater noster ' et
'Ave Maria'. Et
ita contenti vivunt
et sine molestia.
Et quantum ad alium
saeculum, magis laudo,
et mallem habere
conditiones Socratis, qui ad
hoc devenit et
dixit hoc: 'Unum
scio, quod nihil scio
', quam conditiones
Aristotelis, quem credo
quod multa finxerat se
scire, quae tamen
ipse ignoraret. Dico
vobis quod ista nescio
solvere. Solvant qui
continuo prandent cum
deo qui habent intellectum
adeptum ^6. I soci
che pranzano e
cenan con Dio
e san tutto,
sono evidentemente quegli averroisti
che, come l'Achillini
e il Bacilieri,
ritenevano fosse concesso
al filosofo di
giungere, in questa vita,
al termine dello
sviluppo filosofico e
al congiungimento coir Intelletto
agente, nel quale
consiste il pieno
appagamento del desiderio
umano di sapere. Paolo
Giovio si trovava
a Padova, sui
ventiquattro anni, discepolo del
Peretto, quando questi
ebbe per concorrente
l'Achil8? Ib., f.
i64r. **^ Parigi, ib.,
ms. lat. 6535,
f. i2or-v. I 258 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI lini fuggito
da Bologna; sì
che quello che
egli racconta dell'uno e
dell'altro è testimonianza
di quanto ebbe
ad osservare. Al grande
cacciatore di aneddoti
non pareva vero
di tramandarci qualche fugace
impressione, colta a
volo, intorno ai personaggi
del tempo, nei
quali s'era imbattuto.
Egli infatti niente ci
dice dell'insegnamento dell' Achillini a
Bologna. Ce lo rappresenta a
Padova, averroista che
gode fama di
solido e ben digesto
sapere, mentre il
Pomponazzi, astioso rivale
^7, mosso da ambizione,
gli vuota la
scuola. Un po'
trasandato nel vestire e
nel portamento, ma
con fronte sempre
raggiante, sicuro di sé,
eccolo là al
portico pretorio, nel
circolo dei dotti, mentre
nel rozzo gergo
scolastico affronta l'avversario
e cerca d' irretirlo entro
le maglie dei
suoi bifronti e
cornuti entimemi ^^, E
talora sembra averlo
abbattuto col vigore
delle sue stoccate; ma
il più delle
volte quello sfugge
alla presa delle armi
dialettiche, l' impeto dei
colpi vibrati cadenelvuoto,, stornato da
una facezia o
da un motto
salace, « salsa
dicacitate », che
suscitava, in chi
assisteva a quelle
giostre di sillogismi, le più
scroscianti risate. Negli anni
del soggiorno padovano
l'Achillini attese a
riunire in un sol
volume le opere
che aveva stampate
separatamente a Bologna e
che abbiamo elencate
fin qui. La
prima edizione degli Opera
omnia fu fatta
a Venezia a
spese degli eredi
di Ottaviano Scoto, ed
apparve il 29
luglio 1508. Essa
comprendeva i Quolibeta de
intelligentns, il De
orbibus, il De
universalibus,. il De elementis
89 e le
questioni De principiis
chiromantiae et
phvsionomiae, De potestate
syìlogismi e De
subiecto medicinae. 87 II
Capparoni, Profili bio-bibliografici di
medici e naturalisti
celebri italiani dal sec.
XV al sec.
XVIII. Roma, 1926,
p. 12, dice
addirittura che a Padova
l'Achillini « ebbe a soffrire
l' invidia del Pomponazzi con il
quale sostenne non
lievi dispute, avendolo
ad avversario poco cortese
e corretto ».
Tutto questo mi
pare che aggravi
un po' troppo
il racconto del Giovio. 88
Paolo Giovio, Elogia
virorum literis illustrium.
Basilea, 1577, pp. 71-72
e p. 86.
In questa edizione
dell'opera del Giovio
si trova quel ritratto
dell'Achillini che il
Mlinster riproduce diseconda mano,
dichiarando di non
sapere donde provenga.
Un ritratto del filosofo
bolognese il Giovio
doveva possedere nel
suo museo a
Como. Una copia di
esso, se non
proprio l'originale, si
trova ora nel
ballatoio della sala Fagnani
presso la Bibl.
Ambrosiana di Milano,
somigliante all' immagine degli
Elogia. Altro ritratto
dell'Achillini è posseduto
dal museo dell' Università
di Bologna. 89 La
dedica al Bentivoglio
naturalmente fu omessa. La
partenza di questo
insigne maestro aveva
lasciato un gran vuoto
nello studio bolognese,
e le autorità
accademiche, che non riuscivano
a colmarlo, lo
sollecitarono a ritornare sulla sua
cattedra, minacciandolo dell'ammenda
di cinquecento ducati d'oro
e di pene
anche più gravi,
ove non avesse ottemperato
all'ordine 9°. Così
egli il 14
settembre 150S fece ritorno
in patria, ove
riprese la sua
attività normale di dottore
dei due collegi
delle Arti e
di Medicina, e
il duphce insegnamento della
filosofia naturale e
della medicina teorica; tanto poco
il nuovo regime
papale si preoccupava
dell'opposizione che avrebbe potuto
venirgli dalla filosofia. Al
periodo del ritorno
a Bologna appartiene
il trattato De distinctionibus, edito
quivi, « per
Ioannem Antonium de Benedictis..., Anno
domini 1510. Die
5. Octobris ».
L'opera concerne i concetti
trascendentali di ente,
uno, vero, buono, e
quelli di essenza,
di cosa, di
identico e distinto,
della distinzione reale e
della distinzione concettuale,
delle formalità scotistiche, della
relazione e dei
suoi fondamenti, dell'analogia e dell'uso
di questi concetti;
di guisa che
la trattazione ci dà,
di scorcio, un
sommario di tutto
il pensiero metafisico dell'Achillini intento
a salvare e
a conciliare la
dottrina d'Averroè con quella
dei maggiori maestri.
Nel 1509, come 90
Da una lettera
dei Quaranta riformatori
dello Studio bolognese, in
data 11 sett.
1507 (pubblicata da B. Podestà,
Di alcuni docum.
ined. riguardanti P. Pomponazzi,
in «Atti e
Mem.» della R.
Deput. di Storia Patria
per le provincie
di Romagna, Anno
VI, Bologna, 1868,
p. 142, nota), appare
che i riformatori
avevano già prima
fatte le loro
rimostranze, perché s'era assentato
senza licenza. L'Achillini
s'era scusato « cum
dire che ne
fu concessa hcentia
dal M. co
Sr. Confaloniero d'
Justitia » e
che senza di
ciò non sarebbe
mai partito. Ma
i Quaranta repUcarono
che la licenza
non era stata
né richiesta né
concessa nella forma valida.
Perciò s'affrettasse a
far ritorno, se
non voleva esser
multato di 500 ducati
d'oro o colpito
con altre gravissime
pene « nelle
quali incorrono li nostri
doctori che partono
da Bologna senza
licentia per andare a
legere fora nelli
externi studi ».
Tuttavia l'AchiUini non ritornò
che un
anno dopo. Nel
Lib. Partitorutn (Arch.
di Stato di
Bologna, voi. 13, f.
136V), al 14
sett. 1508, si
trova che con
19 su 19
fave bianche «I conduxerunt
Ex.m Artium et
Medicinae Doctorem, D.
M.m Alex, de Achilinis
ad legendum in
Studio Bononie »
col salario di
900 lire bolognesi, integre e
privilegiate, e alla
condizione di leggere
Teorica ordinaria al mattino
e Filosofìa ordinaria
la sera. La
formula « conduxerunt »
vuol dire che
si tratta di
un nuovo ingaggio. 26o l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI maestro di
Teorica, commentò la
prima fen del
IV libro del Canon
di Avicenna 91. Ripreso
il corso delle
lezioni, egli si
dette nel 1511
a esporre il De
physico auditu di
Aristotele. Ma l'esposizione
fu interrotta dagli eventi
bellici di quell'anno.
È noto come
il grande capitano Gian
Giacomo Trivulzio, al
servizio del re
di Francia, il 23
maggio di quell'anno
avesse ripreso Bologna
al papa e come
avesse riaperte le
porte al ritorno
dei Bentivoglio. Ma Giulio
II, fatta lega
con gli Spagnoli,
non tardò a
usare dei servigi di
questi per far
bombardare la città
e ridurla all'obbedienza della Chiesa.
Sorpreso dagli avvenimenti,
il maestro continuò a
far lezione finché
gli alunni, per
fuggire all'assedio, non disertarono
lo studio 9^. Il 5
febbraio del 1512,
penetrato di sorpresa in
città Gaston de
Foix obbligò gli
Spagnoli a sbloccare Bologna.
Ma dopo la
battagha di Ravenna
dell' 11 aprile, perduto
l'appoggio francese, i
Bentivoglio dovettero di nuovo
prendere il largo. Com'era suo
costume, l'Achillini avrebbe
fatto volentieri a meno
di pubblicare questo
frammento di esposizione
del De physico auditu.
Ed infatti egli
non aveva mai
pubblicato nessun commento a
scritti d'Aristotele o
d'altri, bensì trattazioni originali sebbene
ispirate al pensiero
d'Aristotele e d'Averroè.
Perciò mi sorprende
assai quello che
Ladislao Miinster scrive 93
degli Opera omnia
nell'edizione del 1508
curata dall'autore stesso: «
Si tratta in
gran parte di
opere d'Aristotele, di Alessandro
Afrodisiaco (! !
!), d'Averroè ecc.
provviste di commenti dell' Achillini ».
Ma ch'egli, non
che scorsa, non abbia
mai visto in
faccia questa edizione,
è provato dal
fatto 91 Nel cod.
latino 14 (io)
dell' Università di
Bologna si trova, tra altre cose
dell' Achillini, una Expositio
supra prima 41
Avicennae, datata 7 settembre
1509. L. Frati,
Indice dei codici
latini conservati nella R.
Bibl. Univers. di
Boi., Firenze, 1909,
p. io. V.
sotto, p. 269. 92
II Fantuzzi, Notizie
degli scrittori bolognesi,
I, p. 51,
dice, senza per altro
citare la fonte,
come «l'anno 1512,
alli 15 Gennaio,
tenendosi una radunanza di
Teologi, di Dottori
legisti e d'altri
Uomini insigni, per consultare
se si dovea
ricevere il Legato
proposto a Bologna
dal Conciliabolo di Pisa
(cioè il Cardinale
San Severino, fatto
legato di quella radunanza
e Governatore di
Bologna), gli aderenti
a' Bentivoglio sostenevano l'affermativa, e
fra essi Alessandro
Achillini piià d'ogni altro
aringo con grande
arte ed impegno
per sostenerla. E se
non potè
ottenere l' intento, ne
venne però, che
fu determinato di non
ricevere né questo
né quello destinato
allora dal Pontefice
Giulio II ». 93
0 Riv. di
St. delle Se.
Med. e Naturah
», XXIV, 1933,
p. 71. I che fra
le opere incluse
in questa edizione
pone il De
physico auditu, stampato la
prima volta nel
1512, e il
De niotimm proportione, di
cui diremo più
giù. L'Achillini, dunque, per
sua esplicita dichiarazione, non pensava
affatto a dar in luce
una nuova esposizione
dell'opera aristotelica,
parendogli che bastassero
quelle greche, latine ed
arabe che correvan
per le mani
di tutti. In
ciò fu imitato dal
Pomponazzi, che non
pensò mai a
dare alle stampe
alcuno dei numerosi commenti
ad Aristotele, lasciati
inediti nelle riportazioni dei suoi alunni.
Quello che decise
il bolognese a desistere
dal suo proposito,
è quanto egli
stesso scrive in principio
del frammento: Fugeram olim
Peripateticorum principis Aristotelis
librorum interpretationes
notis mandare, quoniam
expositores tum Graeci, tum
Arabes, tum Latini,
evolvere ipsos cupientibus
textum AristoteUs piane
aperuerunt. Difficultates autem
circa sententias Aristotelis et
Averrois contingentes, ex
libris a me
editis non difficile erat comprehendere. Sed
quia varii auditores
varia fragmenta
philosophica, me legente,
varie collegerant, et
me inscio meo nomine
publicaverant, non passus
sum ut, quae
nostra non erant, prò
nostris haberentur. Ideo coactus
sum haec scripta,
tum apponendo tum variando
tum rescindendo, diligentius
repurgare, ut ipsa, manu
propria elaborata, proprium
auctorem recognoscerent v4. E
alla fine dell'opera: Hucusque (cioè
fino al principio
del libro II,
t. e. i)
nos prosecuti sunt
audientes. Quod si
amplius durassent, noster
labor longior fuisset. Et
haec nostra recognoscens,
fragmenta esse voluissem, sed fractionum
fragmenta sunt, quoniam
eis comminutiva fractio
supervenit, Hispanis Bononiam
armis impetentibvis et
moenia machinis deicientibus
95. Per giocondità del
lettore aggiungerò che
nel II volume della
Storia dell'università di
Bologna di Luigi
Simeoni (Zanichelli, Bologna 1940,
p. 51) si
legge che Alessandro
Achilhni, 94 Alex. Achillini,
Expositio primi Physicoriitn. E infine: Expli ciiint
fragmentorum fractiones physicales
ab Alex. Ach. Bon.
ordinariam Theorice de mane
publice docente. Impresse
per Hieron. de
Benedictis civem bonon. Anno
Domini M.D.XII, f.
iv. Questa avvertenza
è stata omessa nell'edizione
degli Opera omnia
curata da Panfilo
Monti nel 1545. 95
Ib., f. 33rb,
e nell'edizione del
Monti, f. gorb. 202
se non scopritore,
fu almeno «
il primo descrittore
degli ossicini dell'orecchio nel
suo De physico
auditu ». Con
che il Simeoni
parrebbe credere che
in questa opera
l'Achillini si occupi dell'anatomia
dell'orecchio ! E
questa doveva essere un'opinione ben
radicata in lui,
se anche poche
pagine dopo scrive che il bolognese
fu « celebre
tanto come dialettico..,, quanto come
anatomico e medico
», e che
« le opere
che di lui possediano.... che
trattano tanto De
universalibiis come De physico
auditu..., mostrano questo
doppio carattere» (p.
57). Ora nel De
physico auditu non
si parla affatto
di cose attinenti all'anatomia, bensì
di quello di cui Aristotele
parla in quest'opera e, fra l'altro,
anche degli universah,
ma dell'organo dell'udito proprio
no. Un'altra opera composta
dall' Achillini in questi
ultimi anni della sua
vita e lasciata
inedita è il
De proportione motuum. L'argomento riguarda
il rapporto che
Aristotele, nel VII
della Fisica9^, aveva stabilito
tra la forza,
la resistenza e
la velocità del movimento,
e il tentativo
da parte di Tommaso
Bradwardine, di Nicola
d'Oresme e degli
altri « calculatores
» di tradurlo in
un rapporto matematico.
Le dottrine di
costoro, portate in Italia
da Biagio Pelacani
da Parma, «
Parisius doctoratus »,
avevano suscitato vive
controversie tra coloro
che accettavano la novità
delle « calculationes
» e gli
averroisti che alle nuove
dottrine furono piuttosto
ostili. L' Achillini si
mostra pienamente informato
dello stato della
questione, allora
dibattutissima anche a
Padova e a
Bologna. Conosce e cita
il commento del
Campano alla Geometria
di Euclide, l'Aritmetica di
Giordano de Nemore,
i trattati calcolatori
di Tommaso Bradwardine, del Swineshead,
dello Heytesbury, di Nicola
d'Oresme, d'Albertuccio ossia
d'Alberto di Sassonia, di
Paolo Veneto, di
Giovanni Marliani «
in sua quaestione subtili de
proportionibus », insomma
tutta la letteratura
dell'argomento, che noi oggi
ben conosciamo attraverso
le dotte e dihgenti
ricerche della Dott.
Anneliese Maier97. Intento
del maestro bolognese era
quello di salvare
le regole delle
proporzioni formulate da Aristotele
e da Averroè
nel VII della
Fisica e di accordarle
con le teorie
calcolatorie, a differenza
di quello 96 Cap. 5, 249b
27-25ob 8 (t.
e. 35-39)97 Die
Vorlàufer Galileis im 14. Jahrhundert,
Roma, 1949, pp. 79-215; An
der Grenze von
Scholastik u. Naturwissenschaft, Roma,
1952, pp. 257-384. I APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 263 che
pensava potesse farsi,
pochi anni dopo
la morte di
lui, il Pomponazzi 98. L'opera
non potè essere
pubblicata dal filosofo
bolognese perché prevenuto dall'
improvvisa morte. Lo
Hain, n. 71, registra
quest'opera dell' Achillini col
titolo De distyibiitionihus ac proportione
motuum, e la dà stampata
a Bologna, « per
Benedictum Hectoris »,
nel 1494. Ma
il Gesamtkatalog, I,
p. 79, dichiara l'esistenza
di questa edizione
« zweifelhaft ».
Io la direi semphcemente
inventata. Per due
ragioni: primo, perché nell'opera sono
citati il De
orbibtis e il
De elementis sicuramente posteriori al
1494; secondo, perché
il fratello Giovanni Filoteo che
nel 15 15 ne
curò l'edizione postuma,
la dà come inedita,
nella dedica a
Leone X: «
Itaque Alexandri ipsius auctoris nomine
(quando ipse funere
praeventus acerbo non potuit)
ea sanctitati tuae
nuncupatim dico » 99.
Ma il
2 agosto 15 12,
coli 'animo profondamente amareggiato per gli
avvenimenti che avevano
turbato la serenità
dello 98 « Aliqui
ergo ducti inani
gloria voluerunt salvare
Aristotelem ; Inter quos
fuit Ioannes Marilianus,
qui construxit tractatum
in quo intendebat salvare
Aristotelem; et aliqui
fecerunt tractatum centra Marilianum.... Et totus mundus
apud me non
salvaret Aristotelem, et Aristoteles
sibimet contradicit, et
videbitur aperte errasse,
et una regula
alteri contradicit. Fortassis enim
quod decipior; sed
iudicabitis vos per dieta
Aristotelis, quod non
potest salvari. Aristoteles
etiam fuit homo et
decipi potuit, sicut
etiam possibile est
me decipi » (P. Pomponazzi, In
ynm. Phys., ad
t. e. 39,
ms. aretino, Bibl.
de' Laici,390, f.
180V sgg.). Giunto
alla fine della
sua riportazione, l'alunno, che
dal cod. della
Kungl. Biblioteket di
Stoccolma, Va. 24
(cfr. « Giom. Crit.
Filos. It. »,
XXXVII, 1958, p.
354) appare essere
quel Magister Hieronymus Bonus
o de Bono,
da Bologna, laureato
in Artibus et Medicina
il 13 ott.
1519 (Libro Segreto
del Collegio, cit.,
f. 32v), annota:
P^^ ribadire la scoperta
del Mondini, che
le altre pretese
opere anatomiche non erano
che una sola,
pubblicata con titoli
diversi nelle varie edizioni,
e per correggere
l'errore accolto anche
dal De Renzi, pur
così informato. Tuttavia,
io non ho
voluto prestar fede neanche
al Mondini e
al Medici, e
ho voluto rer."8
L. e, p. 13.
"9 Mazzuchelli, Gli
scrittori d'Italia, t. I, p.
102. '2*' G. Fantuzzi,
op. cii., pp.
54-55. 272 dermi conto
de visti della
curiosa vicenda i-'.
Ho potuto così constatare che
la prima edizione
è quella che
vide la luce a
Bologna il 24
sett. 1520, a
cura di Giovanni
Filoteo Achillini, col titolo
di Anotomicae annotationes,
nella stamperia di Geronimo
de' Benedetti, con
dedica a Panfilo
Monti, che di maestro
Alessandro era stato
alunno, ed ora
teneva la cattedra ordinaria di
medicina teorica, «
Bononiensis Gymnasii
splendor immortalis »,
nientemeno ! Questa
dedica porta la data
del 12 settembre
dello stesso anno,
ed ha nel
frontispizio la ben nota
xilografia, sormontata dal
nome « Magnus
Alexander Achillinus » ;
sotto il ritratto
di lui, tre
distici di Annibale Camillo da
Correggio, « Artium
et Medicine discipulus
». La dedica parrebbe
escludere che vi
fossero edizioni anteriori. La
stessa opera, col
titolo De humanis
corporis anatomia, uscì a
Venezia nel 1521,
per Io. Ant.,
et fratres de
Sabio, con la stessa
dedica di Giovanni
Filoteo a Panfilo
Monti. Terza stampa della
stessa opera è
quella che apparve
nel FascicuUts medicinae di
Giovanni de Ketam,
ediz. veneziana « per
Caesarem Arrivabenum », del 1522.
In questa edizione l'opera dell' Achilhni forma
il trattato X
della raccolta, subito dopo
V Anatomia del Mondino,
e porta questo
titolo: Annotationes
anathomie Alex. Achil.
honon.; ed anch'essa
ha la dedica del
1520 a P.
Monti. Dell'edizione di
Venezia, 1516, in fol.
secondo il Capparoni,
in 4° secondo
lo Hirsch, nessuna traccia, sebbene
altri la ricordino
per sentita dire.
Delle edizioni posteriori a
quella del 1522
non mi sono
occupato. Il colmo in
questo pasticcio pseudo
erudito è raggiunto
dal Miinster ^^z^ il
quale, dopo aver
parlato della prima
e della seconda opera
secondo l'ordine del
Capparoni e dello
Hirsch, aggiunge di suo
che le Annotai,
anatomicae del 1520
pare non siano un
nuovo trattato, bensì
l'unione delle due
precedenti! '23. I-' Esempio
tipico non so
se di disinvoltura
o d' improntitudine letteraria, da parte
di troppi scrittori,
avvezzi a copiacchiare
come scolaretti e a
spacciare per certo
quello che hanno
appreso soltanto per sentito
dire. ^^^ L. e,
p. 72. 1^3 Curioso
è il caso
di A. Pazzini.
Nello studio già
segnalato, che è del
1933, sebbene parli
di «scritti anatomici»
(p. 298), egU
con questa espressione parrebbe
tuttavia intendere le
sole Adnotationes anatomicae che nel
Fascicuhis medicinae del
Ketam sarebbero state
pubblicate, dice lui, col
titolo in Mundini
Anatomiam adnotationes. Invece nella
Storia della medicina,
voi. I, Soc.
Editr. Libr., Milano,
1947, p. 614, J Queste
Anotomicae annotationes che
il maestro bolognese aveva lasciato
tra le sue
carte, non costituiscono
propriamente un'opera di anatomia
umana da dare
alle stampe, ma lo
schema forse d'un'opera
che egli andava
preparando e per la
quale raccoglieva osservazioni
che gli era
accaduto di fare nel
corso di diverse
dissezioni anatomiche predisposte
da lui stesso o
insieme ad altri
colleghi. Queste dissezioni
avevano lo scopo di
riconoscere nell'organismo umano
quello che si legge
in Galeno o
in Avicenna, nel
Mondino o in
Ugo da Siena. Nel
corso di queste
ricognizioni accade talora
all'Achillini di notare
errori commessi dagli
anatomisti precedenti, e discordanze
fra quello che
leggeva negli scritti
di costoro e quello
che gli rivelava
l'esperienza. Spesso egli
ha cura di descriverci il
procedimento col quale
egli conduceva la dissezione,
e di
suggerire il modo
più adatto per
mettere a nudo, senza
lederlo, quell'organo o
tessuto che si
ha in animo
di studiare. L'opera, come
dicevo, è semphcemente
abbozzata; ma anche in
questo stato, essa
costituisce un notevole
documento di quello che
s'andava maturando nelle
scuole di chirurgia. Mentre le
rumorose dispute intorno
al modo d' intendere i testi
classici dell'anatomia recavano
assai scarsa luce per
una esatta rappresentazione della
struttura dell'organismo
umano, gì' impetuosi
torrenti di parole
s'arrestavano, le ire si
placavano, quando gli
occhi dell'anatomista e di coloro che
gli facevan corona
nell'anfiteatro, si fissavano
su quello che il
coltello metteva a
nudo, e la
luce dell'esperienza rivelava qualcosa di
nuovo e d' insospettato. Il
che del resto avvenne, nel
secolo XVI, non
solo nel campo
dell'anatomia, ma in tutte
le ricerche concernenti
la natura, e
non per influsso dell'umanesimo e
del platonismo, ma per un
processo di critica interna,
quasi direi di
autocombustione, in seno alle
scuole aristoteliche. Galileo
stesso vien dall'aristotelismo in via
di dissoluzione. Il
Rinascimento è frutto
dell'approfondirsi e
dell'estendersi
dell'esperienza in tutti
i campi del sapere naturale. Com' è
noto, Panfilo Monti
nel 1545, mentr'era
professore vedo che è
ritornato all'errore del
Capparoni e dello
Hirsch. Se avesse dato
un'occhiata alla memoria
del Mondini e
all'opera di M.
Medici, oltre alla correzione
di questo errore,
vi avrebbe trovato
forse qualcosa che poteva
giovargli anche per
l'argomento da lui
trattato, riguardante la scoperta
della membrana timpanica.] a
Padova, raccolse in
un volume gli
Opera omnia dell' Achillini, cioè
tutte le opere
che il maestro
bolognese stesso aveva dato
alle stampe, più
il De proportione
motuuni; e il
volume, edito da Geronimo
Scoto a Venezia,
fu dedicato al
patrizio veneziano e chiarissimo
filosofo Sebastiano Foscarini.
Perché ne lasciò fuori
le Anotomicae a?inotationes
? Non certo
perché egli non le
ritenesse autentiche; ma
verosimilmente perché gh parvero,
come sono, opera
frammentaria, piii schema
e materia di opera
che opera completamente
delineata; o forse anche
perché quelle note
gli parvero ormai
sorpassate e di scarso
valore, dati i
rapidi progressi che
l'anatomia in quegli anni
andava facendo. Sì che
agli occhi dell'alunno
editore l'opera dell' Achilhni degna d'essere
presa ancora in
considerazione e tramandata e
meditata era opera
di filosofo. E
questa sola egli
intese tramandarci con l'edizione
da lui curata
1-4. Con le
Annoiationes il Monti trascurò
altresì gì' inediti
che non dovevano
mancare sia tra le
carte del maestro,
o dispersi in
riportazioni di scolari. 9.
Se ora
ci chiediamo quale
è stato il
giudizio complessivo degli storici
sull'opera globale dell'Achillini, dobbiamo
constatare, anzitutto, che troppi
son coloro che
ne hanno parlato per
sentito dire. E
questo tanto tra
gh storici della
filosofia quanto tra quelli
della medicina. Di
costoro evidentemente non è
da tener conto.
Come non è
da tener conto
di giudizi come quello
del Munster '^s,
il quale da
ciò che dell'Achilhni narra a
modo suo il
Giovio, è indotto
a rappresentarcelo come «
schizzoide >> ! Il
primo che ha
parlato dell'averroista bolognese
dopo averne scorse le
opere, se non
tutte, almeno i
Qitoliheta de intelligentiis, fu,
tra gli storici
della filosofia, Francesco
Fiorentino nel suo Pomponazzi
del 1868, pp.
252-262. E a quel
che ne
disse allora l'onesto
Fiorentino si rifanno
su per giù
gli storici posteriori, trascurando
però taluni giudizi
di questo e altri
esagerandone fino a
renderli irriconoscibili. Che
l'Achillini fosse un
averroista, tutti a
un di presso
s'accorsero; ma 1^4 Tuttavia
le Anotomicae annotationes
non furon mai
del tutto dimenticate e
il nome dell'Achillini vien
ricordato da anatomisti
posteriori, anche quando le
sue opere filosofiche
erano ormai cadute
del tutto in oblio. 125
L. e, p. 59.
APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI se averroista
di più o
meno stretta osservanza
pareva dubbio. La tesi
che l' intelletto possibile,
forma immateriale e
incorruttibile, infima delle intelligenze
celesti, è unica
per tutta la specie
umana, è certamente
tesi averroistica. Ma
pareva al Fiorentino che
il bolognese si
discostasse dallo schietto
averroismo, perché questo riteneva
1' intelletto forma
assistente e non informante
dell'uomo, l'Achillini invece
ammetteva che r intelletto
umano, pur essendo
unico per tutta
la specie, è vera
forma informante che
dà all'uomo il
suo essere di
uomo. Se non che lo storico
calabrese non pare
s'accorgesse che con
questa seconda tesi, senza
rinnegare la prima,
la dottrina averroistica non era
affatto parzialmente abbandonata,
ma anzi approfondita; e
che, grazie a
questo approfondimento, venivano a
cadere tutte o
gran parte di
quelle obiezioni che si
facevano alla tesi
averroistica, di spezzare
l'unità del soggetto umano cui
s'attribuisce l'atto d' intendere.
E già prima,
Sigieri e Tommaso
di Wilton, Paolo
Veneto e Giovanni
Pico, coetaneo del bolognese,
avevano interpretato il
pensiero d'Averroè alla stessa
maniera; e questo
non per motivi
di fede, ma per
eliminare dalla dottrina
aristoteUco-averroistica un
assurdo evidente sul
quale speculavano gli
avversari dell'averroismo;
tanto vero che
l'anima razionale che
yien detta informare l'uomo,
resta in sé
unica per tutta
la specie umana. Non
è pertanto esatto
l'affermare che ogni
seguace d'Averroè riteneva l' intelletto
« forma assistente
» dell'uomo e non
« forma
dans esse ». Il
Fiorentino è stato
colpito anche da
un passo del
De eiementis (II,
art. 5, verso
la fine), ove
si parla dell'unione
dell' intelletto con l'anima
sensitiva dell'uomo, come
abbiamo visto più su,
e dove l'Achillini
torna ad esporre
con nuovi particolari la
sua dottrina sigeriana
già esposta nei
Quolibeta de intelligentiis. Ad
un certo momento
si domanda: « Quomodo stat
opinio Aristotelis cum
fide ?» —
giacché tanto l'interpretazione che dà
del pensiero dello
Stagirita Averroè, quanto quella
che ne dà
Alessandro d'Afrodisia, secondo
la ragion naturale, discordan
dall' insegnamento della
fede. E il
nostro averroista risponde: Il
fatto che entrambe
discordin dalla fede, significa
che tutte e
due son false,
e che su
questo punto, come su
altri non pochi,
bisogna che noi
credenti abbandoniamo il filosofo;
ma dovendo scegliere
a lume di
ragione tra quelle due
interpretazioni, entrambe false,
quella che ha I 276 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI miglior verisimiglianza, sceglieremo
quella d'Averroè, perché, sostenendo questi
che l'anima è
forma informante che dà
all'uomo l'essere di
uomo, viene a
dire che l' intelletto, nell'atto di
unirsi all'uomo, termina
il processo della
generazione umana e quindi
ha in qualche
modo un cominciamento nel tempo,
come appunto insegna
la fede. In tutto
questo non vedo
né incertezza né
spossatezza da parte dell' Achillini; né
tanto meno che
egli si senta
spinto «ad accettare l'averroismo
dopo averlo dichiarato
falso «'^ó. L'opposizione
tra molte tesi
difese da Aristotele
e la verità cristiana era
comunemente ammessa, da
quando Alberto Magno aveva
proclamato che «
theologica cum Physicis
principiis non conveniunt»'-?, e
che al filosofo
che voglia trattare delle cose
naturali secondo i
principi della ragion
naturale, non deve importare
dei miracoli della
fede '-8. È
vero che Tommaso, combattendo l' interpretazione averroistica
del pensiero d'Aristotele, s'era
adoprato ad accordar
questo col pensiero cristiano. Ma
questo concordismo tomistico
non era parso né
di buon gusto
né di buon
augurio, non solo
ad averroisti come
Sigieri, discepolo in
questo d'Alberto Magno,
ma nemmeno ad alcuni
teologi che s'erano
ribellati al tentativo «
de Aristotele haeretico
facere omnino catholicum
». E molti, non
solo maestri in
artibus, ma anche
teologi e commentatori delle Sentenze
di Pietro Lombardo,
dalla fine del
secolo XIII al secolo
XVI, ritennero perfettamente
fondata sul testo aristotelico e
legittima l' interpretazione averroistica,
salvo quando questa discordava
da quella di
altri commentatori
autorevolissimi, come Alessandro,
Filopono od altri
specialmente greci. Ora ai tempi
dell'Achillini e del
Pomponazzi, a Bologna come
a Padova, era
obbhgo di leggere
e discutere il
testo aristotelico e il
commento d'Averroè. Averroisti
si dissero tutti quelli
che, rifiutando il
concordismo tomistico, d' ispirazione avicenniana, mostravano
ripugnanza a «
miscere diversa brodia))i29, e,
per quello che
concerneva il pensiero
aristotelico, s'attenevano
al commento averroistico.
Il che non
implicava ^'^^ Fiorentino, ib.,
p. 259. 127 Metaphys.,
XI, tr. 3,
e. 7. 1-8 De
gen. et corr.,
I, tr. i,
cap. 22, ad
t. e. 14.
Cfr. «Rivista di Storia
d. Filos.] affatto
che essi dovessero
accettare le dottrine
d'Aristotele quali erano
esposte da Averroè,
come loro proprio
pensiero. Gli averroisti potevano
quindi con perfetta
coerenza dichiarare che la
dottrina dell'eternità del
mondo e dell'unità
dell' intelletto era dottrina
vera e necessaria
nel sistema del
pensiero aristotelico; ma che
questa dottrina era
falsa secondo la fede
che s' ispira al
\"angelo e non
ai libri d'Aristotele. Il che
è perfettamente vero
anche per noi. Questo
non hanno ancora
compreso taluni storici
della filosofia. Uno dei
quali '3", dopo aver
detto che «enger
an dem averroistischen Aristotehsmus
schloss sich Alex. Achilhni an (aus
Bologna, war Professor
der Philosophie u.
Medizin, zuerst in Padua
(!), seit 1509
(!) in Bologna,
wo er um
1518 (!) starb).... »,
aggiunge: « So
weit Aristoteles von
dem christlichen
Glaubensstandpunkt (z. B.
hinsichtlich der Schòpfung
der Welt) abweicht, ist
er ini Sinne
der Kirchlichen Lehre
zu korrigieren »
(la sottolineazione è mia e.... pour
cause). Il qual giudizio
vien trasportato di
sana pianta nella
massiccia Storia della filosofia
di N. Abbagnano
(voi. II, I,
U.T.E.T., 1948, p. 70)
: « In
realtà la sua
preoccupazione [dell'
Achillini] costante è quella
di correggere la
dottrina aristotelica nel
senso dell' insegnamento ecclesiastico
» (anche questa
sottolineazione è mia) '31.
Ma egli v'aggiunge
qualcosa di suo,
che aggrava '30 Ueberweg-Moog, Die
Philos. der Neuzeit
bis zuyn Ende
des X Vili. Jahrh.,
Berlin, 1Q24, p. 28. E già
prima E. Renan,
Averroès et l'averr., 3*
ed., Parigi, 1S66,
p. 361: "
Tout en reconnaissant
que sur ces
deux points (l'unite des
àmes et 1'
immortalité collective) la
doctrine d' Averroès est conforme
à Aristote, Achillini
rejette expressement ces
théories comme opposées à
la foi ». E cita H.
Ritter, Gesch. der
neneren Philos., I parte,
p. 383 sgg.,
citato anche dal
Fiorentino. '3' La stretta
aderenza dell'Abbagnano al
Moog appare anche
da quel che l'uno
e l'altro dicono
dello Zimara. Scrive
il secondo: « Noch
strenger hielt am
Averroismus fort M.
Ant. Zimara (aus
Neapel.... gestorb.
1532).... In ihnen
(Schriften) suchte auch
er den Averroismus mit Kirche
zu vereinen. Die
Einheit des menschlichen
Intellektes wird von ihm
als Einheit der
allgemeinen
Erkenntnisprinzipien
gedeutet ». E l'Abbagnano:
«e lo stesso
[di spogliare l'aristotelismo e
l'averroismo dei loro caratteri
originari in omaggio
ad una preoccupazione dogmatica] accade nelle
dottrine del napoletano
M. A. Zimara
[ma se era di
S. Pietro in
Galatina presso Otranto,
tanto che a
Padova lo chiamavano l'Otranto o
l'Otrantino !] (morto
nel 1532), anch'egli
professore a Padova, il
quale interpretava l'unità
dell' intelletto, sostenuta
dall'averroismo, come
l'unità dei principii
universali della conoscenza
». Dello stesso avviso
pare sia anche
G. Saitta, //
pens. ital. nelV
Umanesimo e nel Rinasc,
voi. II, Bologna,
1950, pp. 379-80:
« Le sue
Contradictiones \ 278
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI assai l'errore dell'autore
tedesco: «L'aristotelismo e
l'averroismo sono stati qui
spogliati dei loro
caratteri originari, in omaggio
ad una preoccupazione dogmatica
». Preoccupazione che l'Achillini,
al pari degli
altri averroisti, non
mostra mai d'avere, anche
quando, constatata l'opposizione
fra Aristotele e il
dogma, dice esser
dovere del credente,
che tale voglia rimanere, di
ripudiare Aristotele, non
di correggerlo, che
vorrebbe dire travisarlo. In
questo i nostri
vecchi erano onesti e
coerenti. L'ottimo E. Garin
132 ricorda la
breve preghiera che
si legge in principio
del De elementis:
« Luminum clarissima
lux, qua ac solutiones
ex dictis Aristotelis
et Averrois parlano
dell'unità dell' intelletto di
tutti gli uomini
come l'unità dei
principii universali del conoscere
». Il Moog
e l'Abbagnano non
citano alcuna fonte
della loro affermazione. Il
Saitta invece cita
le Contradictiones dello
Zimara, senza però indicare
un punto preciso.
Ma egli non
deve averle lette: che
lo ritengo troppo
intelligente, se le
avesse lette, da
lasciarsi scappare simile afferm_azione. E
allora ? Allora
il Moog, l'Abbagnano
e il Saitta derivano,
direttamente o per
via indiretta, il
loro giudizio dal libro
del Renan, Averroès
et l'averroisme, ove
appunto accade di leggere
(ed. cit., p.
375): «L'unite de l'
intellect est adoptée
dans le sens de
l'unite des principes
communs de l'esprit,
mais ouvertement rejetée en
ce sens qu'
il n'y aurait
qu'un seul principe
substantiel de la
raison humaine ». E il
Renan cita le
Solutiones contradicionum, Averrois
Opera, t. XI dell'ediz.
di Venezia 1560,
fol. 177V-188V (più
semplice e più comodo
era citare le
stesse Solutiones contrad.
super III de
anima, contr. XVI). Se il
Moog, l'Abbagnano e
il Saitta si
fossero presa la
briga di andare a
vedere questo luogo
dello Zimara, avrebbero
potuto constatare, con non
poca sorpresa, che il Renan
quel giorno doveva
essere febbricitante o ubriaco
o fortemente distratto,
giacché l'averroista
otrantino in quel
luogo dice esattamente
il contrario. Ivi
lo Zimara, che s'era
proposto di conciliare
un'apparente contradizione fra
due affermazioni d'Averroè, riporta
un brano del
commento di Temistio al
De anima, ove
si legge appunto
; « Unde
enim communes illae
animi conceptiones
praenotionesque communes omnibus
haberentur ? Unde indigentia illa
impressaque omnium mentibus
primorum notitia constitisset,
natura duce, nulla
ratione, nulla doctrina
? Unde postremo intelligere mutuo
et intelligi vicissim
possemus, nisi iiniis
singularis intellectus fttisset, quem
communem omnes homines
haberemus ? ». Platone, osserva
lo Zimara, con
un simile ragionamento
aveva dimostrato l'esistenza deUe
idee. Temistio ed
Averroè lo usano
per dimostrare l'unità dell'intelletto; se no, bisognerebbe
ammettere che la
scienza nell'alunno si generasse
da quella del
maestro a quel
modo che, secondo Aristotele, il
fuoco si genera
dal fuoco. «
Hoc autem sequitur
secundum ponentes
pluralitatem inteUectus, ut
ipse (Averroès) opinatur....
». Niente di più si legge
nell'opera dello Zimara,
il quale non
si chiede affatto se
questa dottrina s'accordi
o meno con
la fede. A
lui basta chiarire il
pensiero d'Aristotele e
del suo commentatore,
eliminando le contradizioni. V.
anche sotto, pp.
350-351. 132 L. e. omnes
aliae veritates illiistrantur, me
per umbras materiae tutum ab
errore per Filium
hominis ducas in
te ipsum ». E
l'accenno a una
breve preghiera è
anche in principio
del De physico aiiditu:
«Deus illuminatio mea
sit. Primo dubitatur....
». L'uso di
dar principio ad
un'opera, ed anche
alla lezione, nel nome
di Dio, era
un tempo costume
di ogni buon cristiano non
meno che di
ogni fedele maomettano.
Perciò non parrà strano
di trovare che
anche il Pomponazzi
al suo corso di
lezioni sul De
substantia orhis, cominciato
il 20 febbraio 1507, premettesse
una « oratiuncula
accomodata », della quale
però il raccoglitore
delle lezioni non
riporta il tenore 133.
Né si creda
che questo fosse
formaHsmo o ipocrisia. Nella maggior
parte dei casi,
non vi sono
serie ragioni per dubitare
della sincerità di
chi si protestava
buon cristiano, senza per
questo rinunziare alla
sua libertà d' interprete
del pensiero aristotelico; libertà
che, a mio
avviso, non che
nuocere ha giovato molto
alla fede, non
costretta violentemente
negli artificiosi schemi
d'un sistema filosofico
ormai in via di
dissoluzione. E così maestro
Alessandro, l'averroista Alessandro
Achillini, poteva riposare
tranquillo nella chiesa
di S. Martino,
a Bologna, come tredici
anni più tardi
il Peretto mantovano in
quella di S.
Francesco nella sua
città natale, sotto
le grandi ali del
perdono di Dio. 133
Cod. Vat. Regin.
lat. 1279, f. 3r.
Di averroisti della
corrente di Sigieri
di Brabante nel Rinascimento
italiano m'era accaduto
d' incontrare, alcuni anni addietro,
Giovanni Pico della
Mirandola, Alessandro
Achillini, Agostino Nifo
negli anni della
sua giovinezza, Tiberio Bacilieri e
Antonio Bernardi della
Mirandola '. Ma il
gruppo dei sigieriani doveva
essere più numeroso,
e ad esso
parrebbe che avesse aderito,
in un momento
del suo sviluppo
intellettuale, anche il Pomponazzi,
come mi propongo
di dimostrare a suo
tempo. Ma fu, da parte
del Peretto, l'ultimo tentativo di
salvare l'esegesi averroistica
d'Aristotele; dopo di che,
s'orientò decisamente verso
l'alessandrismo. Invece un altro
convinto sigieriano dei
primi anni del
Cinquecento è il patrizio
veneziano Geronimo di
Cà Taiapietra o Taiapiera.
Costui, figlio del
quondam Quintin di
Cà Taiapietra, dopo essere
stato per otto
anni a studiare
a Padova, richiamato in
famiglia per dedicarsi
alla vita pubblica,
come si conveniva ad un giovane
del suo rango
sociale, s'accostò al cardinale
Domenico Grimani del
titolo di S.
Marco e patriarca d'Aquileia, non
che munifico protettore
degli studi e degli
studiosi -, per
averne appoggio. Fu senza
dubbio per suggerimento del
Grimani che il
giovane Taiapietra si
preparò a un pubblico
cimento per coronare
col dottorato in
filosofia la carriera di
studi intrapresa a
Padova e terminata
con la * Dal
((Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXXI, 1952, pp.
306-330. ' Sigieri di
Brabante nel pensiero
del Rinascimento italiano,
Roma, Edizioni Italiane 1945. ^
P. Paschini, Domenico
Grimani cardinale di
S. Marco, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura] licentia docendi,
ossia col titolo
di magister artium.
L'occasione di una pubblica
disputa s'offrì con
la convocazione, per la
fine della primavera
del 1506, del
capitolo generale dell' Ordine
dei frati minori,
del quale il
Grimani era cardinal protettore. L'uso
di siffatte dispute
in occasione di
capitoli generali dei vari
ordini religiosi era
una veneranda usanza, vecchia d'oltre
due secoli. Sollecitato dunque
dal Grimani, il
Taiapietra si recò
a Roma per dar
saggio del suo
sapere. La pubblica
discussione ebbe luogo in
una solenne riunione
di dotti tenuta
nella residenza abituale del
cardinale a Roma,
il giorno di
sabato 6 giugno 1506
3. L' indomani mattina,
domenica della Trinità,
il giovane dottorando fu
presentato a papa
Giulio II, perché
si degnasse conferirgli il
titolo di dottore
in ariibiis. La
cerimonia è così ricordata
nei suoi diari
da Paride Grassi
4, maestro delle cerimonie
del papa. Dopo
la messa cantata
del cardinale Arboreo e
la creazione da
parte del papa
di un milite aurato, dice
il Grassi: [f. 2i6v]
Creatio doctoris in
artibus per papani
in capella. Cum adhuc
papa sederet, superveneruiit Cardinalis
de Grimanis et orator
venetus qui rogarunt
papam, ut dignaretur
quendam dominum magistrum [Hieronymum
Taiapietra] doctorem in artibus
creare, qui, ut
testificati sunt, bene
se gessit in
disputationibus cum fratribus
ordinis minorum qui
venerant ad capitulum generale etc.
Et sic sua
Sanctitas absolute, idest
sine cerimoniis, ipsum genuflexum
creavit [f. 2i7r]
doctorem hoc modo,
videlicet: papa ante doctorandum
genuflexum hec verba
dixit, videlicet:
Intelleximus a Cardinali
de Grimanis et
ab oratore veneto
quod sis in artibus
exscellens et doctus,
quodque in disputationibus pridianis
que apud edes
suas habite fuerunt
te laudabiHter exhibueris;
propterea nos, tam
ad predictorum relationem,
quam etiam ad intuitum
tue virtutis et
meritum, creamus te
doctorem in artibus, dantes
tibi omnia privilegia
que alii in
quibuscumque studiis et universitatibus habere
consueverunt, in nomine
patris et tìlii et
spiritus sancti '. Quo facto ipse
doctor osculato pede
pape, illi gratias
agens, recessit. Et Cardinalis
de Grimanis et
orator predicti gratias etiam
pape egerunt. Il
venerdì successivo, 12
giugno, la notizia
del fatto era
già arrivata a Venezia,
poiché Marin Sanudo
"^ la registra
sotto 3 Fra i
presenti alla disputa
era l'Achillini. V.
sopra, pp. 252-53. 4
Cod. Vat. lat.
4739, f. 2i6v-2i7r. 5 Diarii,
voi. 6, col.
352. questa data con
parole che attestano
la fedeltà del
cronista: Item, come a
dì.... sier Hironinio
da dia' Taiapiera,
quondam sier Quintino, tene
le conclusion in
chaxa dil cardinale
Grimani. Et el cardinal
episcopo di Urbin
disputò contro una,
dicendo l'era ereticha; il
cardinale Grimani la
mantenne, et vinse;
et così a dì....
il papa lo
dotoroe. Siccome la notizia
giunta da Roma
non indicava il
giorno esatto della discussione
e quello del
conferimento del titolo dottorale, l'onesto
Sanudo lascia i
due spazi in
bianco. In compenso ci
trasmette due notizie
preziose: quella dell'obiezione che il
cardinale Gabriele Gabrielli,
vescovo di Urbino, ebbe
a fare a
una tesi sostenuta
dal Taiapietra, perché,
a suo parere, «
l'era ereticha »,
e quella dell'
intervento del Grimani in
favore del suo
protetto. Del resto, prima
della fine del
mese il neo
dottore era già di
ritorno a Venezia;
poiché negli stessi
Diarii di Marin
Sanudo si legge 6. A
dì 28 [giugno
1556]. Fo gran
conscio. Vene uno
dotor nuovo, vestito de
scarlato, si ha
dotorato a Roma,
sier Hironimo da
cha' Taiapiera, quondam sier
Ouintin. l'o fato
podestà de Verona,
et niun non passò. Da
questo momento egli
entra nella carriera
amministrativa e poUtica, e
non so se
si sia più
occupato di filosofìa. Nei Diarii
del Sanudo il
suo nome ricorre
spesso, ma sempre per
le cariche ricoperte
in servigio dello
stato veneziano. Ciò potrebbe
spiegare perché il
nome di Geronimo
Taiapietra sia sfuggito anche
al diligentissimo Luigi
Ferrari che l'omette sì
nella prima che
nella seconda edizione
del suo grande
Onomasticon. Né in
fondo avrebbe interessato
molto neppur me, se
il suo nome
non fosse legato
a un suo
libro del quale
ritengo valga la pena
dire qualcosa. Questo libro
s' intitola: Sunima divinarum
ac naturalium difficilium quaestionum
Romae in capitiilo
generali fratrum minorum per
Hieronymum Taiapietra, patritium
Venetum, puhlice
discussarum. E fu
stampato a Venezia
« a domino Pincio
Mantuano. Anno Domini
M.CCCCC.VI. die VI
Aprilis ». Il libro
fu pubblicato dunque
il 6 aprile,
cioè due mesi
prima della discussione, che
evidentemente era stata
preparata per tempo dal
cardinal Grimani, cui
la Summa è
dedicata. Recandosi a Roma,
il Taiapietra portava
con sé il
volume, come programma della
pubblica discussione che
doveva aver luogo il
6 giugno. Così
aveva fatto Giovanni
Pico, pubblicando nel i486
le novecento Condusiones
per la disputa
che avrebbe dovuto tenersi
a Roma nel
gennaio 1487; così
aveva fatto anche Vincenzo
Querini, altro patrizio
veneziano, quando
s'apprestava a discutere,
parimenti in Roma,
le sue Condusiones, « in
Ecclesia Sanctorum Apostolorum,
die XXIX Mali »
del 1502 7. L'opera,
come dicevo, è
dedicata dall'autore al
cardinale Domenico Grimani. Nella
dedica il Taiapietra
accenna al distacco forzato
dallo studio patavino: .... quum
mihi mine redeunduni
esset ad meos,
qui me in patriam
ex celebratissimo gymnasio
patavino, in quo
octo iam perpetuis annis
vitam non minus
honestam quam studiosam duxi, centra
propriam ferme voluntatem
revocabant. A Padova dunque
aveva dovuto recarsi
al principio dell'anno scolastico 1497-98,
quando v'era ancora
Agostino Nifo da Sessa.
Costui, alunno di
Nicoletto Vernia, aveva cominciato a
insegnare a Padova
appena ventunenne, durante l'anno accademico
1491-92, nella seconda
scuola di filosofìa straordinaria, ove
professava la dottrina
averroistica di Sigieri
di Brabante. Nel
1495 era stato
promosso alla seconda scuola ordinaria
come concorrente del
Pomponazzi, col quale debbono
essere cominciati fin
d'allora i litigi.
E quando nel 1496
il mantovano si
dimise dall' insegnamento,
il Nifo fu chiamato
a succedergli. In
questi anni egli,
ambiziosissimo e astuto, mentre
si dava da
fare per schivare
l'accusa d'eresia,
combattendo l'averroismo prima
da lui professato
3, per non 7
V. sotto, il
saggio XIII, p.
400. 8 Nifo, De
intellectu, I, tr.
2, e. 9: « Longo
tempore Averroy vacavi et,
ut dixi, hanc
opinionem (di Sigieri)
sequebar ad mentem
eius»; In lib. Destr.,
Ili, dub. 2:
« Peccatum meum
longo tempore». Dalle indicazioni cronologiche
fornite dal Nifo
stesso in quest'ultimo
scritto, Disp. XIV, dub.
I, quaestio 3
in fine, e
dub. 3, quaestio
5, parrebbe che ciò
vada riferito al
periodo prima del
1494. Dalle quali
indicazioni si dovrebbe dedurre
che egli fosse
nato nel 1470,
oppure verso la
fine del 1469, come
nelV Arbole de casa
Nipho (nel voi.
ms. Historia e documenti
della famiglia Nifo,
posseduto da Benedetto
Croce, p. 212). inimicarsi il
vescovo Pietro Barozzi,
anzi per procacciarsene la benevolenza,
come faceva nello
stesso tempo quella
vecchia volpe di maestro
Nicoletto 9, era
riuscito a circuire
molti giovani delle più
ragguardevoli famiglie patrizie
veneziane che a Padova
venivano per fare
i loro studi
e procacciarsi il titolo
di « dotor
» tenuto in
gran conto dal
governo della Serenissima e
quasi direi indispensabile per
l'accesso a talune cariche dello
stato. Suoi discepoli
erano stati Vincenzo
Querini, Geronimo Bernardo
e Antonio Giustinian,
l'amicizia dei quali si
compiace spesso di
ricordare ^°. A
Francesco Bragadin, patrizio
veneto, dice egli
stesso d'aver dedicate
certe sue Quaesiiones de
anima " che
non mi risulta
fossero mai stampate; a
Lorenzo Donato dedica
nel 1497 l'edizione
da lui curata del
prologo d'Averroè alla
Fisica '-; a
Sebastiano 9 V. sopra,
i saggi IV,
V e VII. I''
Tutti e tre
son ricordati nei
Collectanea s\x\De auima,
III, t. e. 36,
e nel
commento alla Desimciio,
prol. I, dub.
8, XIV, dub.3. Da
quest'ultimo luogo si rileva
che tanto Geronimo
quanto il padre
erano morti prima del
gennaio 1497, quando
il commento alla
Destritctio fu stampato. Nel
luogo citato dei
Collectanea, oltre che
ai tre patrizi
veneziani ricordati,
raccomanda il suo
libro anche a
Pietro Campesano, medico e
filosofo di Bassano
che in quegli
anni doveva studiare
a Padova. Egli è il padre
del poeta di
Bassano Alessandro Campesano
(G. B. Vergi, Notizie
intorno alla vita
e alle opere
degli scritt. d.
città di Bass., e.
I, Venezia). " Collect.,
prohemium: «In questionibus
meis libri de
anima inscriptis domino
Francisco Bragadeno patricio
Veneto)'. Marin Sanuuo, Diarii, II,
col. 579-580, ricorda
una disputa avvenuta
in Venezia nell'aprile 1499 alla
presenza del patriarca
intorno ad alcune
tesi pericolose, e fra
coloro che intervennero
ad essa menziona
Giorgio Pisani, Marco Dandolo, Marin
Zorzi, Nicolò Michiel,
Piero Pasqualigo, dottori,
Pietro Corner, lacomo Michiel,
Francesco Bragadin «
doctissimi in philosophia
». Nota invece
la mancanza di
« sier Antonio
Zustinian, dotor, che leze
philosophia ». Su
Francesco Bragadin, v.
Zeno, « Giorn.
di letter. », t.
V, pp. 369,
362-364. 12 Scrive E.
Garin a propo
ito dei primi
scritti del Nifo
{Rinascitnento, II, 1951,
p. 63): «Innanzi
all'edizione della Fisica,
che reca la data
del 1495, v' è
una lettera di
ringraziamento a Lorenzo
Donato.... In uno degli
esemplari da me
esaminati la dedica,
del 1495. è
sul verso di una
carta che sul
recto reca una
lettera con cui
il Nifo presenta
per l'approvazione il suo
commento alla Destructio
destritctionum, compilato
fra il
1494 e il
gennaio '97 ».
E più oltre:
« Ad ogni
modo esce nel
'95 l'edizione curata dal
Nifo della Fisica
col commento d'Averroè
» (p. 65). Dove
il Garin abbia
trovato che questa
edizione della Fisica
del 1495 sia stata
curata dal Nifo,
io non so.
So invece che
la lettera del
Nifo, anzi del Niffus
de Suessa a
Maestro Nicolò Grassetto,
francescano e inquisitor dell'eretica
pravità (vedetelo divotamente
genuflesso ai pie' della Vergine,
a Padova, nella
chiesa del Santo,
di fronte alla
tomba di Antonio Trombetta), è
sicuramente posteriore alla
stampa del Badoèr il De intellectu,
sostanzialmente rimaneggiato e pubblicato
per le
stampe nel 1503,
quando aveva ormai
detto addio a Padova
e prima ancora
all'averroismo i?; per
Geronimo Bernardo compone il
De sensu agente,
compiuto il 14 giugno
1495, ma pubblicato
nel 1497, quando
il Bernardo era morto,
e dedicato a
G.B. Spinelli, patrizio
partenopeo m; al Giustinian
dedica il commento
In XII Metapysicae
pubblicato nel 1505, ma
composto assai prima
su preghiera di Geronimo
Bernardo, il cui
nome il Nifo
accoppia sempre a
quello del Giustinian; a
Santo Moro, altro
giovane patrizio che
aveva commento alla Desiriictio,
non solo perché
si riferisce a
questa, ma perché è
stampata nel recto
di un mezzo
foglio facente parte
dell'ultimo quinterno di questo
volume; l'altra metà
contiene due pagine della
Destnictio (quinterno q,
fol. I2ir-v). Il
verso poi del
mezzo foglio, al cui
recto è la
lettera al Grassetto,
reca il prologo
di Averroè alla
Fisica e la dedica
di questo prologo
al pretore Lorenzo
Donato, per la ragione
che gli editori
del '95 l'avevano
omesso. Niente di
più. 13 V. sopra,
p. 102. Alla
fine del trattato
stampato si legge:
«Et sic consumatus est
liber de intellectu.
26. Augusti, 1492.
In Patavino studio ».
Ora che nel
1492 il Nifo
abbia scritto una
Quaestio de intellectu (cfr. la
dedica del De
intellectu a Seb.
Badoèr, neU'ediz. del
1503) è verosimile; ed
è verosimile che
l'avesse scritta in
senso sigieriano, tanto che
gli emuli poterono
accusarlo d'eresia, com'egli
stesso ci fa
sapere. Ma che questa
Quaestio sia identica
col trattato pubblicato
nel 1503, è difficile
crederlo, dopo quel
che egli stesso
confessa a Sebastiano Badoèr :
« Placuit quedam
tollere, mutare alia,
addere plurima »
! Troppo interesse aveva
il Nifo a
voler far credere
che fin dal
suo primo anno d' insegnamento s'era
liberato dall'averroismo inviso
al Barozzi. Vuole il
Garin un esempio
della fede che
merita il Nifo
? Eccoghelo. Nell'edizione dei
Collectanea ch'egli aveva
pronta il 12
settembre 1498, e che
vide la luce
per la stampa
col titolo In
librum de anima Aristotelis
et Averrois commentatio,
a Venezia, «
per Petrum de Quarengiis
Bergomensem. Studio et
impensa domini Alexandri Calcidonij, Pisaurensis.
M.ccccc.iij. Die x.
Maij », dedicando
l'opera a Baldassar Miliani,
patrizio partenopeo, il
Nifo vede un
segno particolare d'amicizia neU'essersi
il Calcidonio addossate
le spese della stampa
del volume: «
quod et noster
Alexander Calcedonius, communis amicus, tui
et mei amoris
omni solertia sumptibusque
prò his edere instituit ».
Ebbene, nella ristampa
degli stessissimi Collectanea
nel 1522 (Suessa, Super
libros de anima,
Venetiis), in fine
della prefazione che vi
appose, questo barabba
osa scrivere: «Quantum
igitur inique Alex. Calcidonius Collectanea
nostra publicaverit quantumve
venenose, ex bisce patet.
Ego enim publicare
illa non destinaveram,
nisi nono pressis anno
» ! che
e frase oraziana
adattissima a imbrogliare
anche meglio le carte.
Ma V. anche
più oltre, p.
370, n. 8. ^4
L'opera fu pubblicata,
come « codicilus
» al commento
della Destructio, nel
1497. Che al
momento della pubblicazione
tanto Geronimo Bernardo che
suo padre fossero
morti, risulta dalla
frase dello stesso Nifo
in fine del
commento alla Destructio:
«quorum animae in
perpetuum gaudeant »,
confermata dalla dedica
del commento In
XII Metapysicae al Giustinian. avuto alunno
a Padova negli
ultimi anni, dedica
il commento al De
beatitudine animae di
Averroè, rimaneggiando un
vecchio scartafaccio del periodo
averroistico, di mano
del suo alunno veronese Bernardino
Plumazioij; al cardinale
Domenico Grimani dedica
nel 1497 il
commento alla Destructio
destnictionum, servendosi,
per insinuarsi nell'animo
del cardinale, dell'am.icizia d'un
tal prete Prosdocimo
familiare del Grimani;
più tardi nel 1504
gli dedicherà anche
il trattato De
primi motoris infinitate; e
nello stesso anno
dedicherà a Vincenzo
Querini il De diehus
cniicis. Ma non ostante
tutte queste amicizie
e protezioni, non
potè sottrarsi ai «
latrati », com'egli
più volte si
duole, dei suoi colleghi
e avversari. Non
saprei se per
questa o per
altra ragione, nel 1497,
si allontanò da
Padova. Il Facciolati
'^ per altro informa
che « revocatus
est anno MCDXCVIII,
stipendio argenteorum CXX »
; il che
lascerebbe supporre che
fra le ragioni del
malcontento vi fosse
anche quella dello
scarso stipendio. Sappiamo di
professori che correvano
là dov'erano megUo pagati,
e che spesso
la minaccia di
andarsene era un buon
mezzo per farsi
aumentare lo stipendio.
Ma il Facciolati ci
fa sapere che,
non ostante questo
aumento, il Nifo
« anno vertente rursus
abiit », in
cerca di miglior
fortuna, o semplicemente per sposarsi
con Angela Laudi
da Sessa. A
Padova non tornò più,
sebbene siamo informati
che nell'ottobre 1503 e
nel gennaio 1504
egli s'adoprava per
tornarvi 17. Vi tornò
invece nell'ottobre del
1499, dopo la
morte di Nicoletto Vernia,
il Peretto mantovano,
cioè il Pomponazzi, '5 Anche
quest'opera porta in
fine la dichiarazione: «Compievi Patavii. M.ccccxcii.
xiv Maij ».
Santo Moro si
addottorò a Padova nel
maggio 1505 (M.
Sanudo, Diarii, VI,
col. 163). Quando
il Nifo gli dedica
l'opera, sa che
l'antico scolaro di
Padova «nunc... naturae mundique interpretem gravissimum evasisse
». Io non
conosco altre edizioni anteriori
a quella scotina
di Venezia del
1524. Di Geronimo Bernardo dice
(I, comm. 56)
: « accepi
verba haec ut
iacent in codice meo,
quem felix illa
Hieronymi Bernardi memoria
olim mihi misit
». Vi sono non
pochi rimandi al
trattato De inteUectii,
e non di
rado nella stesura che
esso ebbe dopo
la revisione ! 16
Fasti gymn. patav.,
1, parte II,
p. 109. 17 M.
Sanudo, Diarii, V,
col. 171, 766.
Anzi sotto la
data del 25 marzo
1504 si legge:
k Item, ave
lettere de l'orator
nostro in corte, che
domino Agustino Sexa,
qual è li,
vengi a lezer
a Padoa, et li
ha dimandato. Par
contento venirvi, et
è facto più
docto di quello era,
et ha studiato
in grecho ». 26»
dopo due anni
d'assenza '8, per restarvi
ininterrottamente fino all'assedio della
città nel 1509.
V'erano poi maestro
Pietro Trapolin, averroista moderato,
che dall' insegnamento
della filosofia naturale era
passato a medicina
teorica, frate Antonio Trombetta francescano
e fra Geronimo
da Monopoli domenicano, che insegnavano
in concorrenza la
metafisica, l'uno ad mentem
Scoti, l'altro ad
mentem Thomae. Dal
1500 all'estate del 1503
era venuto a
Padova il bolognese
Tiberio Bacilieri, alunno e poi collega
di Alessandro Achillini
del quale condivideva le idee
'9, forse a
sostituire Antonio Fracanziano
che in seguito ad
una lite fra
maestri aveva lasciato
lo studio padovano ed
aveva seguito a
Roma il nuovo
cardinale Marco Corner -0. Ma nell'ottobre
del 1503 il
Fracanziano torna a Padova
ad occuparvi la
seconda cattedra di
filosofia ordinaria, in concorrenza
col Pomponazzi, mentre
maestro Tiberio, che diceva
mancargli appena quattro
dita per arrivare
alla piena e perfetta
copulatio con l' intelletto
agente -", aveva accolto
r invito di
recarsi a Pavia. Sotto
la guida di
siffatti maestri il
giovane Geronimo Taiapietra
aveva fatto i
suoi studi a
Padova; e con
lui c'erano negli stessi
anni, su per
giù, Andrea Mocenigo,
figlio di Leonardo e
nipote del doge
Giovanni; Gaspare Contarini,il
futuro cardinale; Antonio Surian,
nipote del patriarca
di Venezia dello
stesso nome; Santo Moro,
e altri rampolli
delle più illustri
famiglie patrizie veneziane. Maestri
e scolari vivevano
uniti da uno
stesso spirito goliardico non
scompagnato da febbrile
ansia di sapere. Nel
dicembre del 1500,
il Peretto, che
marciava ormai verso la
quarantina, pensò bene
di accasarsi con
una gentil donna padovana figlia
di Francesco Dondi
dell' Orologio. Ed
ecco i^ Cfr. Facciolati,
Fasti, 1. e;
C. Oliva, Note
suW insegnamento di P.
Pomponazzi, III, in
« Giorn. crit.
d. Filos. Ital.
», VII, 1926, pp.
181-183. '9 Facciolati, ib.,
p. iii. V.
sopra, pp. 226-27.
Il 6 ag.
1501, era presente ai
dottorati in artibìts
di M. Ant.
Zimara e di
Girol. Oleari, col titolo
di «extraordinarius philosophiae >> (Arch.
d. Curia Vesc.
di Padova, Acta grad.,
voi. 47, f.
i62r). 20 Fr. Franceschetti, La
famiglia dei conti
Fracanzani di Verona, Vicenza ed
Este con notizie
dei loro antenati
ecc. Bari, presso
la Direz. del Giorn.
Araldico, 1896, pp.
30-31. 21 Pomponazzi, In
XII Metaphys., ad
t. e. 17:
«Ideo Tiberius iactatus solum sibi defìcere
quatuor digitos ad hoc ut
foelicitatem istam pertingat »
(Arezzo, Bibl. Fraternità
de' Laici, Ms.
389, f. 248r;
Cod. Ambros. A. 52
inf., f. 2o8r) . Andrea Mocenigo
intonare per l'occasione
nn epitalamio in latino,
ove tra molte
reminiscenze mitologiche si
leggono questi due distici
molto confidenziali rivolti,
s' intende, allo sposo 22 ;
Ista dies omnes
reliquos divellit amores
: paecipit haec soli
perpetuoque vaces. Substulit ista
dies sectari fornice
tetra scorta suburbano, substulit
ista dies.... Ma la
giocondità della vita
studentesca nel rumoroso
e gaio ambiente dello
studio patavino non
distoglieva questi giovani patrizi veneziani
dallo scopo per
cui erano venuti
sulle rive del Bacchigliene
tra le «
antenoree mura». E
Marin Sanudo 23 ci
fa sapere che
1' 11 maggio
1505, « zorno
di Pasqua di
mazzo, da poi disnar,
sier Santo Moro
di sier Marin,
studia a Padova, tene
le conclusion ai
Frari, qual è
impresse. Arguì molti,
videlicet domino Laurentio Bragadin,
leze in philosophia
[a Venezia], sier Piero
Pasqualigo 24, dotor,
cavalier, sier Marin
Zorzi, dotor, e altri,
et poi andò
a Padoa et
si dotoroe ».
Ugualmente il Sanudo al
26 marzo 1506
annota che «
in questo zorno,
in la chiesia di
Frari, fo tenuto
le conclusion per
sier Antonio Surian, quondam
sier Michiel, nepote
del patriarcha nostro, qual
studia a Padoa.
Vi fu il
reverendissimo patriarcha, e l'orator
di Franza e
molti patricii invidati
e dotori»-s. Con -2
Io. Brunatius, Poìììponatius, nella
Raccolta di opuscoli
scient. e filos., t.
XLI, Venezia, 1749,
pp. 34-35. -3 Diarii,
VI, col. 163. 24
Di Piero Pasqualigo
riferisce il Sanudo,
ib., I, col.
631, sotto il 22
maggio 1497, che
a Roma «
haveva tenuto conclusion
publice et si aveva
facto uno honor
grandissimo et hora
sta dotorado nomine
pontificis dal cardinal
di San Zorzi
». E sotto
il 19 giugno
1498 {ib., col.
964) : « Vene
da Milan in
questa terra Pietro
Pasqualigo, dotor, patricio veneto, stato....
et si trovò
a Milan al
tempo dil capitolo
general di frati minori
dove tene le
conclusion publiche. Vi
fu el ducha
con li oratori, et
fu molto comendato,
come si have
lettere di Marco
Lupomano orator nostro nel
conscio di pregadi.
Questo avia studiato
a Paris, et
è giovane di età
de anni 2....
et è doctissimo
». Il Degli
Agostini, Not. storicocritiche intorno
la vita e le opere
degli scrittori veneziani,
t. II, Venezia, 1754. P 304.
dice che Piero
nel 1494 a
22 anni sostenne
a Parigi due mila
conclusioni. Anche il
fratello Lorenzo Pasqualigo
aveva studiato a Parigi
(Sanuco, ib., col.
51). -5 M. Sanudo,
Diarii, VI, col.
324. La cronaca
di questa disputatio è
fatta dallo stesso
Surian in una
pagina del volume
in cui ricopiava
le lezioni tenute dal
Pomponazzi sul De
anima nel 1500
e nel 1504
(Ms. della Bibl. Naz.
di Napoh, Vili.
D. 81, f.
76V, già descritto
da P. O. Kristeller, in « Revue
intern. de philosophie
», V, 1951,
15, pp. 14819 290 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI questa pubblica
disputa anche il
Surian conquistava il
titolo di « dotor
», come appare
da quanto il
Sanudo ricorda sotto
la data del 12
luglio -6. E
sarei quasi tentato
di credere che, allo scopo di
conseguire il dottorato,
anche Vincenzo Querini affrontasse a Roma la
solenne disputa cui
accennavo e alla quale
assistè anche Pietro
Bembo, egli pure
patrizio veneziano, cavalier ma
non « dotor
« qual era
invece suo padre. Quello
di stampare le
Conclusiones per la
pubblica disputa non mi
consta che fosse
un obbligo; ma
si sa che
Giovanni Pico le aveva
stampate nel i486,
il Querini le
aveva stampate, « impresse
» le aveva
Santo Moro, e
anche il Taiapietra
si af149), ed
è importante perché
c'introduce nel bel
mezzo dell'ambiente
scolastico padovano: «
Que disputatio a
me habita fuit
Patavii per biduum 1505,
more veneto, die
vero 22° marcii.
Et prima
die argumentatus est
dominus Bernardus de
Portenarijs, florentinus patritius, Artistarum rector;
2° loco R.
dominus Cristophorus Marcellus,
patritius venetus,
prothonotarius apostolicus; 3°
magister Antonius Trombeta ordinarius Metaphysice,
Patavii legens; 4"
Dominus magister Hieronymus
de Monopoli, ordinis
Thomistarum, ordinariam Metaphysice legens [cfr.
Quètif-Echard, Scriptores Ord.
Praed., II, p.
76]; 5° Dominus magister Antonius
faventinus ordinariam theorice
medicine legens; 6° Dominus
magister Franciscus de
Caballis, brixiensis, ordinariam practice medicine
legens. Et
disputatio hec habita
fuit in aede cathedrali, in
choro penes altare
maius, coram R.mo
domino D. Petro Barocio, episcopo
patavino, et magnificis
Andrea Griti, pretore,
Paulo Pisani equite, prefecto
Padue, R.mo D.
Hieronymo Barbadico primiI cerio
Sancti Marci. Duravit
disputatio usque ad
24 — horam
satis fe1 liciter die
dominico, et fuit
dominica quadragesime quarta.
1^ die (et fuit
habita in salis
magnis), primo argumentatus
est Dominus magister Mauricius ordinis
Minorum hybernicus, preceptor,
ordinariam theologie legens; 2°
Dominus magister Gaspar
perusinus ordinis Thomistarum [cfr. QuÈTiF-EcHARD, 1.
c, p. 24],
Ordinariam theologie professus
et profitens; 3°
Dominus magister Petrus
Trapolinus, patavinus,,
ordinariam theorice medicine
legens; 4° Dominus
Petrus mantuanus,. olim preceptor;
5" Dominus Antonius
Fracancianus, vicentinus, ordinarius philosophie, ambo
professi et profìtentes.
Et disputatio
fuit mane Venetiis autem
die 26 marcij,
die Jovis, in
aede S. Francisci Minorum; et
interfuit R.mus Patriarca,
patruus meus, R.mus
D. D. archiepiscopus spalatensis,
D. Bernardus Zane,
R.mus Marcus Antonius Foscarenus, episcopus
Emonensis [cioè di
Città Nova in
Istria], R.mus D. D. Dominicus episcopus
Chisamensis, suffraganeus R.mi
D. Patriarche. Argumentatus
est in primis
Dominus Sebastianus Foscharenus, doctor, legens
lecturam physice Venetiis;
2° loco R.mus D. D. Bernardus Zane, archiepiscopus Spalatensis;
3° loco Dominus
Andreas Mozenigus, doctor; 4"
D. magister Petrus
de Cruce ordinis
Minorum, regens ibi; 5°
Dominus Santes Maurus,
doctor etc. Et fuit
dies felicissima. Quare Deo
semper honor et
gloria ». 26 M.
Sanudo, ib., col.
373. frettò a
presentarle stampate. Più
tardi, so di
Matteo Bin, le cui
« conclusiones »,
dedicate a Nicolò
Michiel, Procurator di S.
Marco, furon discusse
a Venezia nel
dicembre 1510-7; e so
pure di Giulio
Ruggiero, discepolo a
Padova di M. Antonio
Genua, che stampa
le sue Positiones,
cioè le sue
tesi, dedicandole al cardinale
Ercole Gonzaga, per la disputa
che doveva aver luogo
a Padova nella
chiesa di S.
Antonio nel luglio 1557
^8 ; e
l'esempio suo sarà
seguito due anni
dopo da un altro
discepolo del Genua,
M. Antonio Mocenigo
29, nipote di Vincenzo
Diedo patriarca di
Venezia, per la
disputa che doveva aver
luogo, come nel
caso di Antonio
Surian, a Venezia e
a Padova. Non conosco
il contenuto delle
tesi o «
conclusion » sostenute dal
Surian e dal
Moro; conosco invece
quello delle Conclusiones del Querini
e del Bin,
delle Positiones del
Ruggiero e dei Panidoxa
theoremataque del Mocenigo.
Il Querini, discepolo del
Nifo quando questi
aveva già abbandonato l'averroismo, si
dichiara apertamente contro
Averroè come aveva fatto
il maestro. Invece
averroista è il
Bin; e anche il
Ruggiero e il
Mocenigo sostengono apertamente la dottrina
averroistica del Genua
combinata con quella di
Simplicio. Allo stesso
modo il Taiapietra
è un risoluto
sostenitore dell'averroismo
della corrente sigieriana,
del quale, dopo la
partenza del Nifo
da Padova, era
stato sostenitore Tiberio Bacilieri.
Ciò apparirà meglio
dall'esame del contenuto della sua
opera. Un'aperta professione d'averroismo
accade d' incontrare tìn sulla
soglia del libro,
cioè nel proemio
intitolato anch'esso al Grimani.
Dopo avere accennato
ad Aristotele come
« regula *7 La
rara stampa veneziana
della Casa G.
Tacuino, è posseduta dal
British Museum, 1172,
h. i (i).
All'amico Carlo Dionisotti
son debitore della cortese
segnalazione e del
microfilm. ^8 Positiones hasce
de vero et
bono Julius Rugerius
ad disceptandum proposuit. In
quibus si quid a religione
ac summa veritate
dissentire lector animadvertet, id
non ex animi
sententia, sed ex
Aristotelis ac veterum Philosophorum placitis
pronunciatum sciat. Venetiis
mdlvii, f. yor Finis.
Disputabuntur triduo Patavij
in tempio D.
Antoni], mense Julij, Die...,
Hora.... Nella sezione
ottava «de homine
quatenus intelligit et
speculatur » (fol.
54V sgg.), accade
d'incontrare tutte le
tesi dell'averroismo
Simpliciano del Genua,
coli' idea della
« progressio » dell'unico
intelletto « ad
secundas vitas »
nei diversi corpi
umani ecc. Cfr. sotto,
XIII, p. 388
sgg. 29 V. sotto,
XIII, p. 3
9 ^gg.. 292 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI in natura
» secondo il
noto concetto d'Averroè
3°, il giovane filosofo veneziano
continua: Post queni prinius
floruit Averroes cordubensis,
qui ex graecis expositoribus velut
ex optimis quibusdam
fontibus philosophiam non tam
hausisse quam expressisse
visus est. Eos enim insequi et
incessere delectatus est
apprime, unde is
solus est qui
condigne et recte apud
omnes commentatoris nomen
adeptus fuit; tantum enim
est ex agro
fertili messem tacere.
Hinc est, ut
qui Averroem exacte legerit,
et suis quaeque
locis singulatim singula
contulerit, eius doctrinam
facile percipiet ab
optimis manasse auctoribus.
Quid enim aliud
est commentator Averroes
quam Alexander, Themistius, Simplicius,
ac demum ipsemet
Aristoteles transpositus ?
Ouamobrem et nos
divino beneficio confisi,
non vana similiter
gloriae cupiditate impulsi,
et absque ulla
prorsus invidia, sed solum
utilitatem aliquam studiosis
afterre anhelantes, penes horum
virorum sententiam quarumdam
diftlcilium quaestionum summam seu
compendium ordinare suscepimus:
ea enim benivolentia
perypatheticos prosequor omnes,
et praesertim summum Aristotelem eiusque
magnum commentatorem Averroem,
omnium philosophantium vere duces,
ut si quid
ex illorum disciplinis
deprompserim, quod utile,
pulchrum lionestumque putem,
id quippe omnibus communicatum
esse velim, quo
omnes literati una mecum
ipsorum rapiantur amore
eosque digna veneratione
prosequantur et colant. Verum nos,
divini Platonis De
legibus imitati, ut
scilicet ne cuivis liceat,
quae aediderit, aut
privatim ostendere, aut
in usum publicum concedere,
antequam super id
publici et idonei
constituti iudices ea
viderint et probarint
(quod maxime observant venerabiles illi
magistri parisienses), opus
hoc nostrum in studiosorum communem
usum concedere ullo
pacto voluimus, antequam gravssima amplissimi
Venetiarum prothoflaminis censura
et lima castigetur; cuius
quidem titulis et
laudibus (nisi defraudetur) solum ipsemet
accedit religiosissimus antistes
Antonius Surianus; simulque nisi
prius in clarissimorum
virorum conventu et
corona opus hoc manutenerem
et tutatus essem. E il
« prothoflamen »
di Venezia, cioè
il patriarca Antonio Surian, zio
di quell'altro Antonio
Surian, che era
stato discepolo a Padova
del Pomponazzi e del Fracanziano,
e che del Peretto
ci ha tramandato
le lezioni sul
De anima del
1500 e del 1504,
contenute nel codice
della Bibl. Naz.
di Napoli, Vili. D. 81, studiato
dal Kristeller, il
buon patriarca di Venezia,
dicevo, dopo aver
letta l'opera del
Taiapietra, lungi dallo scandolezzarsi di
questa aperta esaltazione
d'Averroè, 3° De anima.
III, comm. 14. che
avrebbe fatto fremere
il vescovo di
Padova, Pietro Barozzi,
gli scrive questa
candida letterina che
si legge in
fondo al volume: Filii [sic)
diarissime, praeclarum opus
tuum, in quo
Aristotelis peripatheticorum
principis et Averrois
eius fidi et
luculentissimi commentatoris
sensum diligenter et
ad unguem examinasti,
non mediocri gaudio voluptateque
lectitavi, eo quod
te philosophum
praestantissimum noverim, tum
et ortodoxae matri
ecclesiae obsequentissimum. Quo fit
ut te quam
maximis prosequamur
laudibus, magnisque honoribus
te decorandum extollendumque censeamus. Exinde enim
persuaves et amenissimos
tibi fructus acquires, nec
modicam saeculo utilitatem,
patriaeque nostrae gloriam allaturus
es. Vale. Eppure l'averroismo
dell'opera non concerne
soltanto una o due
tesi che vi
siano difese quasi
di passaggio, ma
domina tutto intero il
volume, dalla prima
all'ultima pagina; salve sempre,
s' intende, le solite
proteste d'obbligo, chiaramente espresse o sottintese, che
l'autore cioè non
persegue altro intento che
quello di esporre
qual è il
genuino pensiero d'Aristotele e del
suo fedele commentatore,
senz'alcun pregiudizio per la
fede e per
gì' insegnamenti della
Chiesa. L'opera si divide
in due libri
: il primo
concerne otto problemi dibattutissimi nelle
scuole di filosofìa,
alla soluzione dei
quali son dedicati altrettanti
trattati, e in
ciascuno di essi
un capitolo è consacrato
alla esposizione della
vera dottrina del
Filosofo e del suo
fedelissimo interprete, mentre
altri son riservati
a combattere più le
obiezioni dei «
cacoaverroisti », com'egli li
chiama (lib. II,
tr. i, e.
7), che non
quelle degli avversari dell'averroismo. Nel
primo trattato si
discute il problema
se unico sia il
principio di tutte
le cose, o
possa esser molteplice; e
nel quinto capitolo
« philosophi et
commentatoris vera positio inducitur
cum suis rationibus
et fundamentis ». Nel
secondo trattato, si
parla della immaterialità
e semplicità divina; e
nel cap. 14 « philosophi
et commentatoris vera
positio inducitur ». Nel
terzo trattato si
dimostra la tipica
tesi averroistica « Deum
tantum seipsum, idest
essentiam propriam intelligere
ac intueri »; e nel
cap. 11 «
vera positio philosophi et
commentatoris in hac
materia ponitur ».
Nel trattato quarto si
pone il quesito
« an primus
motus, qui est
diurnus, sit immediate a
Deo glorioso »,
e si critica
la tesi dell'averroista Giovanni
di Jandun, il
quale sosteneva che
Dio non può muovere
il primo mobile
se non per
mezzo della prima
intelligenza; nel cap. 6
poi è esposta
la vera opinione
del filosofo e del
SUO commentatore su
questo argomento. Nel
trattato quinto è presa
in esame la
vexata quaestio, se
Dio sia causa efficiente delle
cose eterne, cioè
delle intelligenze e
dei cieli, poiché delle
cose corruttibili non
v' è dubbio
che esse non
possono esser prodotte immediatamente da
Dio. È noto
che il teologo agostiniano
Gregorio da Rimini
riteneva che, secondo Aristotele, Dio
è causa finale
ultima delle intelligenze
e dei cieli, ma non causa
efficiente del loro
essere 31. Il Taiapietra, d'accordo con
Sigieri -, è
del parere che,
pur essendo coeterne a
Dio, sì le
intelligenze motrici che
i cieli incorruttibili son tratti
all'esistenza da lui
per via di
vera causalità efficiente, e
in proposito intraprende
una lunga disquisizione
che dura per diversi
capitoli contro il
teologo agostiniano; giacché è
bene si sappia
che, per quanto
riguarda l' interpretazione
del pensiero d'Aristotele,
vi furono teologi
che si spinsero anche più
in là di
taluni averroisti. Nel
cap. 13 è
esposta la vera dottrina
del filosofo e
del commentatore «
cum suis rationibus
et fundamentis »,
che è poi
la dottrina sigieriana. Nel trattato
sesto, è discusso
un altro problema
oggetto di lunga contesa,
fin dai tempi
di Sigieri, se cioè
Dio nel muovere il
mondo si palesi
di virtù intensivamente infinita
ossia, come soleva dirsi,
di infinito vigore.
Dopo aver combattuto r
interpretazione che d'Aristotele
avevan dato S.
Tommaso, Alberto Magno e
Duns Scoto e
quella di alcuni
averroisti che, a suo
giudizio, falsavano il
pensiero d'Aristotele e
d'Averroè, l'autore passa ad
esporre, nel cap.
io, la «
vera positio » dell'uno
e dell'altro, riaffermando
la sua fiducia
nel commentatore : Quum inter
tot celebres philosophos,
nullus adhiic posteriorum
philosophantium aut
priorum,praeter Aristotelem, inventus sit
qui commentatori Averroi
in rebus naturalibus
aut divinis exponendis equipolleat,
unde merito nomen
magni et certe
maximi commentatoris est assequutus,
ideo, primae philosophiae
principiis innitendo, in
hoc quesito ad
mentem philosophi et
commen31 Lectura in
II Sent., dist.
i, q. i;
cfr. Giov. di
Baconthorpe, In II Sent.,
dist. i, q.
i; Giov. di
Jandun, Meiaphys., II,
q. 5; id., ■Quaestiones sup.
De siibst. orbis,
q. 14. 32 Cfr.
F. Van Steenberghen,
Sig. de Brab. d'après ses
oeiivres inédites, II voi.,
Louvain] tatoris dicimus infinitum,
ut proposito attinet,
alias infiniti distinctiones omittendo,
dupliciter intelligi posse:
vel secundum tempus et
durationem, vel secundum
virtutem et vigorem;
quorum unum vocant latini
infinitum extensive, et
alterum intensive. Pro quo
sciendum quod si
primum principium secundum
primum modum infinitum intelligatur,
hoc utique ad
mentem philosophi et commentatoris
concedendum est, quoniam
primus motor motu locali
uno et continuo
movet per infinitum
tempus; et sic etiam,
secundum eos, quaelibet
intelligentia est infinita;
quaelibet enim intelligentia
movet, secundum Aristotelem,
orbem proprium motu locali
circulari infinito. Potest
et secundo modo intelligi primum
principium esse infinitum
in qualitate actionis, scilicet in
vigore; et hoc
pacto negat philosophus
et commentator. Ma
rendendosi conto che
un'affermazione sì grave
poteva sonare sgradita alle
orecchie dei teologi,
il nostro s'affretta a
dichiarare: Sed quamvis isti,
philosophus scilicet et
commentator, sic dicant, nihilominus
tamen dico secundum
fidem et veritatem, quod deus,
qui est primum
principium, est virtutis
infinitae, scilicet in qualitate
actionis, ita quod
quantum est de
se potest velocitare motum
in infinitum, immo
movere in instanti,
nec est limitata sua
virtus ad actionem
determinatam ; et
hoc absque omni ambiguitate
verum est, non
tamen potest convinci
aut comprehendi ex sensatis;
et ideo non
est mirum si
philosophus ac caeteri antiquorum
naturales, sensata tantum
insequentes, illud minime comprehenderunt. Quum
enim deus ipse
naturae sit auctor, potest
utique plus facere
quam possit natura
vel naturaliter comprehendi,
quoniam quemadmodum ipse
omnia excedit in infinitum,
sic etiam profecto
in agendi potentia.
Iccirco iuxta illud quod
primo Esaias et
postmodum Paulus dixerunt,
propter ista et alia
quae oculus non
vidit nec auris
audivit, nec in cor
hominis ascendit, sacrosantae
ecclesiae sanctissimis doctoribus sine aliqua
haesitatione credendum est,
et absque aliqua
demonstratione aut sensuum
experientia etc. E la
stessa dichiarazione ripete,
come d'uso, tutte
le volte che gli
accade di toccare
un problema intorno
al quale vi sia
conflitto fra la
filosofìa e la
teologia. Nel settimo trattato
si chiede se
il numero delle
intelUgenze motrici debba dedursi
dal numero dei
movimenti e delle
sfere celesti, oppure se
ve ne siano
di non addette
al moto dei
cieli; e nel cap.
4 è esposta
al solito l'opinione
del filosofo e
del commentatore, che il
Taiapietra ancora una
volta toglie a
difendere. Inoltre nel cap.
12, è esposta
la vera opinione
del filosofo 296 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI e del
commentatore, che la
nobiltà delle intelligenze
va posta in relazione
con la maggiore
ampiezza e altezza
delle sfere da esse
mosse. Nell'ottavo ed
ultimo trattato del
primo libro, si dibatte
l'annoso problema, se
la materia di
cui constano i cieli
sia « eiusdem
rationis cum materia
horum inferiorum » ; e di
nuovo nel cap.
12 viene esposta
e difesa come
vera la dottrina d'Averroè,
la quale combacia
perfettamente con quella del
principedei filosofi, e vi
si dice che
la materia dei cieli
non è in
potenza a diverse
forme, ma soltanto
a diverse posizioni locali. Il
secondo libro si
divide in sei
trattati. Il primo
dei quali verte sulla
natura dell'anima umana
e precisamente sul
problema « utrum humana
et rationalis anima
sit una vel
plures, dans esse homini
et immortalis». Fin
dal primo capitolo
di questo trattato, l'autore
ci palesa candidamente
qual è il
suo intento: anzitutto rigetterà
tutte le opinioni
che più s'allontanano
da Aristotele e da
Averroè; poi riferirà
quelle che più
si avvici- nano al loro
pensiero : «
Demum veram philosophi
et commen- tatoris addemus
sententiam ab ea
quascunque amovendo
cavillationes, ut eius
veritas clarior appareat....
». Ed egli non
meno candidamente spera
che dalla sua
fatica verrà non poco
giovamento alla restaurazione
della filosofìa, che
al co- mune giudizio degli
averroisti pareva in
quei tempi non
poco decaduta: Unde speramus laborem
hunc nostrum non
modo rem peri- patheticam, idest
Averroycam, adiuvaturum esse,
verum etiam aucturum, quum
forte scriptum hoc
non tantum erit
causa de- clarandi rem
obscuram et latentem
multum in philosophia,
sed etiam aliis, hoc
est bene dispositis,
initium fiet vel
occasio Iabo-
randiindoctrinaphilosophi et commentatoris, et
ad communem utihtatem quamphira
scitu nobilissima scribendi.
Et sic forte in
Italia reviviscet philosophia,
quae temporibus meis,
M.D.V., cum philosophis pessum
ivit, adeo ut
hac tempestate pauci vel
nulli reperiantur philosophi;
sunt autem in
precio triviales, nebulones et
sophistae 33; sperandum
est tamen naturam
ali- 33 È un
lagno che Averroè
aveva fatto dei
filosofi del suo
tempo, nel famoso prologo
alla Fisica; ed
è curioso vedere
come gli averroisti della fine
del Quattrocento e dei primi
del Cinquecento lo
ripetano pei loro tempi.
V insiste in
particolare il Pomponazzi,
parafrasando sia il prologo
al primo libro
della Fisica sia
quello al terzo
(Cod. lat. della Bibl.
Naz. di Parigi,
n. 6533, f.
6v e lagr;
Arezzo, Fratern. de'
Laici, ms. 3QO, f.
(x-jv, e ms.
300, f. igir.
Cfr. «Giorn. Crit.
d. Filos. Ital.). quando nostri
misertam iri, et
nobis integram redituram
philo- sophiam et philosophos;
natura namque non
deficit in necessariis neque abundat
in superfluis. Iccirco
laborandum est prò
viribus ut ad nos
redeat niater nostra
pliilosophia. Con questa
speranza nel cuore,
che la filosofia
aristotelico- averroistica
minacciata da un
lato dal concordismo
tomistico che la svisava,
e dall'altro dalla
retorica umanistica che la
disprezzava e dileggiava,
il nostro giovane
averroista si ac- cinge a
difendere quella che
era apparsa la
più ostica delle tesi
averroistiche, qual' è
quella dell'unità dell'
intelletto. Ed anzitutto egli
espone e combatte,
sulla scorta d'Averroè,
la dottrina di Alessandro
d'Afrodisia, intorno alla
quale si dif- fonde per ben
sei lunghi capitoli
(2-7). Nel cap.
4 accade d' in- contrare questa allusione
all'ambiente filosofico padovano: «
Conantur quidam alexandrei
et acutissimi viri
prò Alexandro ad rationes
Averroys et auctoritates
Aristotelis respondere.... >>. Giusto un
anno prima, nel
1504, il Pomponazzi,
che stava commentando a
Padova il terzo
del De anima,
s'era posto il problema
dell' immortalità dell'anima,
e pur dichiarandosi
ancora propenso a ritener
possibile una soluzione
positiva del problema secondo
la ragione, aveva
dimostrato in che
modo la tesi d'Alessandro
avrebbe potuto sostenersi.
Forse alludendo al Pomponazzi,
il Taiapietra nel
rintuzzare le ragioni degli
alessandristi osserva :
« Etsi Alexandrea
opinio lumini tantum innitendo
naturali non minus forte
substentabilis sit 34 iuxta
fundamenta sua, quam
et averroyca, hoc
nihilominus in loco
ipsum ad intentionem
philosophi minime loquentem
fuisse proculdubio ostendemus
» (cap. 5).
Nel qual passo è
quanto mai significativa
la distinzione fra
ciò che è sostenibile
« lumini tantum
innitendo naturali », e ciò
che è sostenibile «ad
intentionem philosophi». A
prescindere dai francescani che di
questa distinzione facevano
largo uso, essa è
una novità nella
storia dell'aristotelismo; Aristotele
non ha visto tutto
quanto si può
vedere col lume
di ragione; la ragione
umana può spaziare
forse oltre i
confini del mondo
ari34 Come appunto
diceva il Pomponazzi,
commentando il terzo
libro del De anima
nel 1504 (Vedasi
P. O.
Kristeller, Two impubi.
Questions on the
Soul of P. Pomponazzi,
in « Medievalia
et Humanistica », Vili,
1955, pp. 87-90,
94), quando il
Taiapietra era ancora
studente a Padova.]stotelico :
è un' idea
sulla quale insiste
più volte il
Pomponazzi e che
doveva ferire a
morte l'autorità di
cui Aristotele, «maestro e
duca de l'umana
ragione ))3s, aveva finora
goduto. Dopo la critica
della tesi alessandrista, il
nostro espone e confuta
la dottrina di
Abubacher, « Averroys
socius )>, di
Avenpace, « eius
magister «, quasi
fossero due persone
diverse, di Avicenna e
di Alfarabi (cap.
8) ; e
qui eccolo nel
cap. 9, in quo
Aristotelis et Averroys
vera positio ponitur
in hac materia cum
suis motivi s, ad
esporci l' interpretazione sigieriana
del pensiero di questi
due filosofi: Clini binas
hiicusqne illustrivim peripatheticorum opiniones ostenderimus, qiias
tamqnam impossibiles omnino
ad, mentem philosophi reliquimus,
superest videre et
de tertia, quae
est Averroys se unicum
ad intentionem Aristotelis
loqui pollicentis. Aliorum autem
sapientum opiniones hoc
in tractatu non
indagamur. Item quia
intentio nostra in
praesentiarum non est de
omnibus loqui, sed
tantum manifestare quae
fuit opinio commentatoris, et
quorundam errorem refellere,
qui temporibus nostris nonnulla monstra
in hac materia
(ut finxerunt de
intentione Averroys) enixi sunt.
Tum etiam, ut
sententia est philosophi, thopicorum primo,
capite IX, quolibet
proferente contraria opinionibus
sapientum sollicitum esse
stultum est. De anima
igitur disceptantes quadrifariam
circa ipsius incoeptionem
loqui poterant: primo,
quod quandoque producta fuit
in materia, quandoque
corrupta: quem modum
sequutus est Alexander aphrodiseus,
ut disputavimus in
pracedentibus abunde satis, in
quo quidem tamquam
demonstratum nobis palam est,
rationalem animam non
a corpore incipere,
neque in corpus desinerei
illam quoque prò
parte insequi visi
sunt arabum sapientes, ut
supra piane constat.
Secundo, quod
novum acceperit esse, quod
nunquam perditura sit: et
hic dicendi modus
Platonis est, cui contradicit
philosophus et commentator,
Divinorum XII, tex. co. XXXIX;
et primo Coeli,
tex. co. CXX;
alioquin natura possibilis verteretur
in necessariam; nullum
enim novum est perpetuum. Tertio,
quod nullum eius
fuerit initium, sed
dissipanda quandoque foret:
et is quoque
modus impossibilis est; omne
namque aeternum a
parte ante est
etiam aeternum a
parte post, et econtra,
ut sententia est
philosophi et commentatoris, ibidem, primo
Coeli et mundi
3^; nec aliquis
hominum dudum id percepit,
quod quum perscrutata
non sit dignum,
absque auctore 35 Dante,
Conv., IV, vi, 8.
36 T.
e. 104-109 (e.
IO, 27gb 32-280=1
31). A questo
principio del De coelo
fa appello il
card. Bessarione, In
calimin. Platonis, III,
e. 22, sostendo
che, per Aristotele,
se l'anima è
immortale ed eterna
a parte post, deve
esserlo anche a
parte ante, con
tutti gli assurdi
che dal punto di
vista aristotelico ne
seguirebbero, se l'anima
intellettiva fosse dimissum fuit.
Quarto, quod, ncque
quandoque cadet, nec
exordium ulluni aliquando
acceperit: si igitur
rationalis anima nec incepit
cum corpore, nec
in corpus desinet,
sed semper fuit
et aniplius semper erit
immortalis ac substantia
semper existens simplex et
immixta, humano orbi
secundum esse unita,
non tamen corruptibilis nec
alterabilis secundum eius
substantiam, opinio redditur Aristotelis
scilicet et Averroys
et multorum tam
antiquorum quam modernorum peripatheticorum, ut
Themistii, Theophrasti,
Pythagorae et caeterorum
eiusdem sectae. Id
igitur in quo veriores
scilicet peripathetici concurrunt,
est rationalem animam nec
incipere cum corpore,
nec etiam incipere
ab aliquo corporis, nec
desinere in potentiam
corporis, nec in
corpus ipsum, sed esse
semper qviid immortale
divinum et impatibile.\'erum id
in quo discreti
et differentes sunt
isti viri, hoc
porro loco a me
perscrutandum non expectetur:
tum quia prò
nunc tantum philosophi et
commentatoris opinionem venamur,
ex qua ad caeteras
quascumque discrimen colligere
poterimus; tum quia praeter
opinionem opus nostrum
multum excresceret. Hanc sententiam
comprobant Aristotelis auctoritates
multae; quarimi quae
adversus Alexandrum iam
adductae sunt nobis sufficiant.
Motiva autem philosophorum
sunt multa, et primum
quod ad hoc
movit Averroym, fuit
ratio fortis quae
ex libro De substantia
orbis piane colligitur,
quoniam nulla forma inducta
in materia non
mediantibus interminatis dimensionibus
et non per dispositiones
qualitativas et quantitativas
praecedentes, simul accipit esse
cum toto. Sed
rationalis anima hominis huiusmodi est.
Ergo etc. Amplius amne
quod est dominus
suorum actuum est
abstractum et immortale. Sed
anima humana intellectiva
talis est. Ergo
etc. Maior utique evidens
est ex se:
quod enim non
habet dominium suorum actuum,
ad unam tantum
partem determinatur; quemadmodum
ad delectabile appetitus
sensitivus; et talis
proculdubio est materiae
immersus. Minoris
autem veritas inductive declaratur: nam
si uni vero
philosopho vel religioso
offeratur inoltre
moltiplicata col numero
degli uomini. Si
che il Bessarione
ne aveva concluso: «Igitur
alterum de his
duobus dicat necesse
est: aut enim unum
eundemque intellectum omnibus
esse, aut una
cum corpore animam interire
». E se
egli poteva ritenere
[ib., e. 27)
che nessuno era riuscito
finora a dimostrare
la falsità della
tesi averroistica dell'unità dell' intelletto,
secondo i principi
della filosofia aristotelica,
il Pomponazzi, che,
pur ritenendo perfettamente
aristotelica questa dottrina, la
considerava stoltezza {fatuitas),
almeno fin dal
1504 (cfr. Kristeller, 1. e,
p. 93, e il ms.
napol. Vili. E.
42, f. i86r),
troncò nell'inverno
1515-1516 le sue
precedenti esitazioni, e
prese a sostenere
con risolutezza la tesi
che, pur essendo
quello dell' immortalità
dell'anima un « problema
neutrum », tutti
i principi formulati
da Aristotele, e segnatamente
quello stabilito in
questo luogo del
De caelo, sembrano concludere alla
mortalità dell'anima. Pochi
mesi dopo scrisse
il trattatello De immortalitate
aniniae. Ma sullo
sviluppo del pensiero
del Perette intorno a
questo argomento, cfr.
«Giorn. Crit.», XXXII,
I953. PP 45 e 175.
puella, appetitus tunc
tendit in fornicationem, quia
delectabile; intellectus autein
reicit et fugit,
quia malum et
propter offensionem dei proximique.
Ecce igitur qualiter
hominis intellectiva anima
domina est suorum
actuum, quia scilicet
potest delectabile fugere vel
persequi; non sic
autem appetitus ipse. Et haec
fuit ratio divini
Platonis in Phaedone,
ibi inter omnes efficacior, quam
olim ab eo
accepit platonicus Plotinus,
in tractatu de immortalitate
animae, quam etiam
adducit divus Albertus
in libro De origine
animae. Et fuit
haec ratio apud
aliquos tantae effìcaciae et
auctoritatis, ut palam
dixerint, quod qui
conatur hanc solvere rationem
fatuus est. Rursum, quod
intelligit omnia tam
materialia quam immaterialia
est iinmateriale, et
per consequens immortale;
haecenim se consequuntur,
ut constat in
intelligentiis; sed intellectiva hominis anima
omnia comprehendit, tam
scilicet materialia quam etiam
iinmaterialia ; igitur
immaterialis est, et
ex consequenti immortalis. ]\Iaioris
primam partem innuit
philosophus, iii. Deanima,
tex. co. iiii,
quum dixit, quod
omne recipiens debet
esse denudatimi a natura
rei receptae. Secunda
etiam pars patet; alioquin rationalis
anima esset organica,
et sic determinata
ad unum, cuius tamen
oppositum in nobismetipsis
comprehendimus. Minorem vero in
nobis proculdubio quottidie
experimur. Quare etc. Et
confirmatur, nam anima
nostra intellectiva universaliter et abstracte
intelligit; ergo et
ipsa est abstracta
et immortalis; secus ipsa
esset aut aliquis
quinque sensuum, aut
sextus sensus, et sic
per consequens non
iniiversaliter intelligeret ;
quod apud perypatheticos est valde
absurdum et manifeste
falsum. Adhuc, si ista
rationalis anima non
est abstracta et
immortalis, tunc aut est
complexio, aut forma
superaddita complexioni; sed
non primum, quia tunc
esset accidens, quod
nullus sanae mentis fateretur; minus
etiam secundum; sequeretur
enim ipsam esse organicam et
extensam, et sic
fìeret determinata ad
unum quemadmodum et
caeteri sensus, cuius
tamen oppositum in
nobis manifeste percipimus omnia
et universaliter percipientes. His ita
prealibatis, inquiunt veriores
perypathetici hunc intellectum
materialem esse formam
perpetuam ex utroque
latere, loquendo praecipue ad
intentionem philosophi et
commentatoris, unicamque
omnibus hominibus inesse,
ac minime generabilem aut corruptibilem
nec eductam de
potentia materiae. Amplius opinantur ipsam
facere per se
unum cum homine
constituto in esse per
cogitativam; et ponunt
quod intellectus ipse
non potest informare materiam
non informante cogitativa;
non enim stat materia
absque forma constituta
in esse per
eam ; nec
potest intellectus informare sine
sua proxima et
ultima dispositione, quae quidem
est cogitativa respectu
intellectus; unde, esto
quod cogitativa ipsa non
sit forma generica,
ordinatur nihilominus in intellectum propter
ipsius essentialem ordinem
ad ipsum. Nec
econverso potest cogitativa
informare materiam et
ipso quoque non informante
intellectu; positis enim
informabili ultimate
disposito et ipso
informativo, necessario et
ipsa insurgit inforniatio
37. Est autem
materia informata cogitativa
informabile propinquum et ultimate
dispositum ad humanum
recipiendum intellectum; et sic
potest una formia
substantialis ad aliam
esse dispositio, dummodo forma
illa praeparans non
sit materiae ratio recipiendi. Adduntque post
haec hunc eumdem
intellectum primo et adequate
informare totum orbem
humanum; secundario vero
illius partes, ut scilicet
sunt individua hominis.
Nec intellectui humano, quamvis sit
unicus et individuus,
pluribus dare esse
aeque primo hominibus, utputa
Socrati, Fiatoni, Ciceroni
et sic de
aliis, repugnat; in
via namque philosophi
et commentatoris constat intelligentias esse
individua, ut xii.
Primae Pìiilosophiae et in
libris De coelo;
et illa eadem
esse cum suismet
quidditatibus; unde
intellectus materialis, quum
sententia commentatoris, secundo
Physice auscultationis, infima
sit intelligentiarum, erit
et ipsa individuum et
sua quidditas; septimo
enim Methaphysicae, comm. xli, et iii.
De anima, comm.
ix et x,
in abstractis a materia
non differt quidditas
ab eo cuius
est. Intellectus igitur
materialis individuum erit et
singularis; ob id
tamen nihil prohibet, licet intellectus
ipse sit etiam
quidditas universalis, dare
esse hoc et singulare
homini, ut iam
dictum est. Et
sic apparet quomodo
esse hominis, in
eo quod homo,
est ultimo per
hunc intellectum, et quomodo
difterentia hominis, in eo quod
homo, sumitur ultimate
ab hoc eodem
intellectu ; et
sic quoque individuum ipsum humanum,
idest constitutum ex
cogitativa tanquam ex materiali,
et ex ipso
intellectu tanquam ex
formali, utputa Sortes vel
Plato, habent esse
hoc ad ipso
intellectu ultimate. A
materia autem divisa informabili
cogitativa dimensionibus mediantibus informante, nascitur
possibilitas
multiplicationis individuorum
sub eadem specie;
quae omnia propter
esse universale ipsius intellectus, ut
supra diximus, informari
possunt ab ilio,
et ab eodem sumere
esse suum verum
hoc et unum. Et
breviter autumant intellectum
ipsum primo esse
formam adequatam totius suae
sphaerae humanae; secundario
vero partium sphaerae,
ut particularium hominum,
hoc scilicet pacto quod,
inquantum quidditas, partiri
possit per materias
informatas dimensionibus et cogitativis,
inquantum autem individuum, est id
esse per quod
individuum hominis est
hoc ultimate. Dicuntque praeterea
opinionem esse Averroys,
ut intellectus uniatur homini
non tantum ut
ars et motor
instrumento et organo, sed
etiam secundum operationem
et esse. Yocant autem aliquid alteri
vmiri secundum esse,
quando illud habet
esse et nomen ab
eo; non autem
audiunt esse prò
operatione, iuxta illud '
vivere viventibus est
esse ', nec
prò esse educto
de po37 Questa
tesi si trova
alla lettera nei
Quolibeta de intelligentiis di Alessandro
Achillini (v. sopra,
pp. 206 e
246,), e il NiFO, De
intellectu, I, tr. 3, e. 18,
la dice tolta
dal trattato De
intellectu di Sigieri
(cfr. il mio Sig.
di Brab. nel
pens. ecc. tentia niateriae; sed
per esse intelligunt informationem quam corpori tribuit
intellectus. Dicunt etiam quod,
quando aliqua forma
unitur alicui materiae,
duo debemus considerare:
primum, prout ipsa
forma materiam constituit
in esse, scilicet
prout forma materiam
informat eique nomen et
difììnitionem concedit simul,
prout ipsa forma
a materia sustinetur ac ab ea
dependet in esse
et conservari secundum
suum genus causae,
ac etiam ab
ea in operari
dependet; secundum autem prout
aliqua forma aliquod
subiectum sive materiam in
esse constituit, ipsa
tamen per subiectum
vel materiam in esse
non constituitur, sicut
se habet intelligentia
et orbis; et huiusmodi
asserunt se habere
rationalem animam ad hominem,
sive ad orbem
humanum et suas
partes, ut iam
dictum est. Dat ante
intelligere hanc distinctionem
Averroys, Physicorum primo, comm.
Ixiii, ubi ait:
' Et quia
coelum caret hoc
subiecto, ideo caret forma
quae substentetur per
hoc subiectum, et
fuit necesse ut forma
eius sit liberata
ab hoc subiecto,
et non habet constitutionem per
corpus codeste, sed
corpus codeste constituitur per illam,
ut scies alibi
' etc. Ex
quibus apparet aliquam esse
formam subiectum suum
tantum constituens, non
autem per illud constituta,
sicut est de
forma codi et
de anima intellectiva
in proposito nostro;
alia vero est
forma constituens subiectum suum in
esse, ac per
illud ipsa quoque
in esse constituta» Hoc idem
dicitur in vili. Physicae auscultationis, ex
comm. lii.... Illud idem
etiam et in
capite ii. De
substantia orbis.... Hanc
eandem sententiam possumus sumere
a commentatore iii.
De anima^ comm. V.
et comm. xx, non
minus quam a
Themistio, ibidem in Paraphrasi
sua de anima.
Caeterum quod
ista sit opinio
commentatoris Averroys, ex
verbis suis intdligi
potest. Ait enim.... Nel cap. IO,
il Taiapietra riferisce
le obiezioni che
a lui facevano gli
altri averroisti, i
quali ritenevano che
per Averroè r intelletto
è separato dall'uomo,
sì che «
intentio fuit commentatoris, quod
intellectus possibilis, licet
sit unicus in
omnibus hominibus, non tamen
proprie dat esse,
sed operationem, eo modo
quo dicunt aliqui
intelligentiam uniti coelo,
non dando ei perfectiones
primas, sed tantum
secundas, et hoc
modo anima ipsa intellectiva
unitur homini, secundum
commentatorem, mediantibus scilicet
fantasmatibus ». Ed
anzi tutto riferisce cinque
obiezioni ricavatedalle opere
dei vecchi averroisti. A
queste ne aggiunge
ben ventisette che
gli movevano i contemporanei, irritati
dal vedere la
dottrina d' Averroè interpretata in
modo così diverso
dal consueto :
« ex modernis autem inveniuntur
quos adeo positio
nostra in via
commentatoris fastidit, quod,
ut eam penitus
delerent, omne quasi possibile induci
contra illam attulere
», Nel riferire
questi argomenti, egli
usa sempre il
plurale « dicunt
», « volunt
» etc. Ma giunto
alla fine del
capitolo, abbandona il
plurale e addita un
certo dottore contemporaneo
di cui però
non fa il
nome: « Ex his
potissime vult iste
doctor colligere positionem
hanc contradicere
fundamentis Averroys expresse,
ut supra dictum est.
Et fortius et
uberius instetit iste
homo in hac
materia, quam aliquis alter
quem ego unquam
viderim. Et iudicio
meo multum laboravit hic
vir, sed frustra....
». E nel
capitolo successivo,
rispondendo a queste
obiezioni, torna ad
accennare a costui {ad
vigesimum septimum): Et certe
sum admiratus de
isto homine qui aliquas
tam frivolas rationes
aduxerit ». Quasi con
certezza si può
ritenere che questo
dottore averroista che inveiva
contro quello che
egli riteneva un
travisamento delpensiero
d'Averroè, fosse Marcantonio
Zimara?^. Ad ogni modo
è indubbio che
la controversia non
era tra averroisti
e antiaverroisti, ma tra
averroisti e averroisti,
cioè tra primi cugini,
se non proprio
tra fratclh carnali.
Ed erano maestri dello
studio patavino: «Sed
post hos invenio
aliquos qui in gymnasio
publico patavino se
magnos philosophos faciunt, voluntque per
urbem digito ostendi
ac ab omnibus
observari; sed quo iure
non video »
(/&.). Alla spocchia
di questi «
chacoaverroyci expositores »
il Taiapietra oppone
la sua superba "1^ Cfr.
sotto, p. 340.
Marcantonio Zimara, che
nel 1505 dedicava ad
Andrea Mocenigo, discepolo
del Pomponazzi (v.
sopra, p. 289) la
Quaestio de principio
individuationis, le Annotationes
in Ioannem Gandavenseni super
Quaestionibits Metaphysicae e
la Quaestio de triplici
causalitate intelligentiae (in
appendice alle Ouaesiiones
di Giov. di Jandun
sulla Metafisica, Venezia,
1505), era quello
che meglio rappresentava l'averroista
combattuto dal Taiapietra
(v. sotto, p.
34 ) sgg.). Non
è tuttavia da
escludere che egli
si riferisse direttamente
al Pomponazzi, che, discutendo
dell' immortalità dell'anima,
nel 1504, aveva combattuta
la dottrina sigieriana
in questi termini
(cfr. Kristeller, 1.
e, p. gì) :
« Alia
est opinio quorundam
se averroistas existimantium, qui
dicunt quod anima
ita se habet
ad corpus sicut
forma ad materiam. Vult
autem opinio ista
quod fuerit de
intentione Averrois, animam intellectivam
esse formam dantem
esse ipsi corpori.
Formarum autem dantium esse
aliquae sunt constitutae
in esse per
subiectum et eductae de
potentia subiecti et
insunt ex mutua
dependentia ei; aliae vero
sunt quae nec
sunt constitutae in
esse per subiectum,
nec sunt eductae de
potentia subiecti, nec insunt ei
ex mutua dependentia, tamen dant
esse ipsi subiecto.
Et talis
forma praesupponit corpus organizatum actu
existens, et [non]
inducitur absque disposinone praevia, sed
praesupponit omnes conditiones
requisitas ». Le stesse cose
nel ms. napol.
Vili. E. 42,
f. i84r. Cfr.
« Giorn. Crit.
Filos. Ital. »,. XXXVII,
1958, p. 346. certezza
di essere nel
vero : «
Et haec et
tanta dixi, quia
hanc viam ad mentem
commentatoris caeteris subtiliorem et probabiliorem esse
existimo, ac ab
omni contradictione remotiorem
» (cap. 11). E più
oltre: «Et ista
est resoluta doctrina philosophi, et
panis non est
tradendus canibus »
(ib.). Nel
mio studio sulla
diffusione del commento
di Simplicio al De
anima e sulle
ripercussioni ch'esso ebbe
nelle controversie della fine
del secolo XV e di
quello successivo, ho dimostrato
che i
primi a trarne
profìtto furono Giovanni
Pico della Mirandola e
il Nifo, e
come l'uno e
l'altro, ma specialmente il secondo,
avessero trovato in
Simplicio una conferma del
loro averroismo di
marca sigieriana 39.
La quale opinione è
condivisa dal nostro,
che nel cap.
XII così scrive: Post
haec omnia invenitur
una alia opinio
quae Simplicio ascribitur,
qui ex intellectu
et cogitativa aggregai
animam rationalem, quasi ex
istis compositam, quae,
si recte intelligatur,
ad iiostram opinionem reducitur.
Puto enim quod,
quum ipse fuerit
unus ex bonis Aristotelis
expositoribus (ut omnes
graeci latinique philosophi de
ipso testantur), voluerit
cogitativam realiter distingui ab
intellectu ; verum
quoquo modo rationalis
anima ex cogitativa et
intellectu componi dicitur,
prò quanto cogitativa omnino habet
introitum in essendo
animam hominis licet
non ultimate, et distinguendo
ipsum, ac ipsum
in specie non
ultimate reponendo. Et confirmatur
hoc, quia quae
ad invicem quoquo modo
vel vere componuntur,
ad invicem et
distinguuntur. NTon autem credo
Simplicium tenere cogitativam
et intellectum esse idem
realiter, secundum tamen
gradus distinctos, quoniam
tunc realiter essent plures
intellectus generabiles et
corruptibiles, sicut de cogitativis
evenit. Et hanc
sententiam confirmat Averroys, duodecimo Methaphysicae, comm.
xxxviii, ubi ait: ' Et
ex hoc quidem apparet
bene quod Aristoteles
opinatur, quod forma hominum, in
eo quod sunt
homines, non est
nisi per continuationem eorum
cum intellectu qui
declaratur in libro
de anima '. Unde
patet quod Averroys
vult quod differentia
hominis, inquantum homo, ultimate
sit ab intellectu.
Hoc idem sentit
Averroys in Libro destruc.
desiruc,
[disp. i], in
solutione dubii xxxiii, et
viii ibidem. Quare
etc... Et sic
etiam verificatur quod
intellectus is non est
actus corporis, idest
non est forma
educta de potentia materiae
ab agente scilicet
naturali, ut testatur
philosophus; ob id
tamen nihil prohibet
quod intellectus ipse
sit actus corporis, idest
forma informans corpus
et dans esse
corpori, ut supra iam
diximus.... Et ex
his habetur haec
Simplicii positio in via
peripatheticorum optime tirmata. 39
Vedansi più oltre
i saggi XIII
e XIV. Indi il
giovane maestro, dopo
aver fatto vedere
in che la tesi
d'Averroè sull' intelletto possibile differisca
dalla dottrina di Temistio
e di Plotino
(cap. 13), e
dopo aver risolte
le obiezioni degli altri
averroisti e degli
avversari dell'averroismo
(capp. 14-18), torna
ad insistere che
la sua maniera
d' intendere il pensiero d'Averroè
concorda in tutto
e per tutto
con quanto asserisce il
commentatore di Cordova
e, con lui,
pensano i migliori averroisti,
a capo dei
quali è Sigieri
(cap. ig) : Ecce
ergo qvio modo
vult ipse (Avwroes)
intellectum, inquantum
quidditas, partiri per
materias informatas dimensionibus et cogitativis;
inquantum vero est
individuum, esse id
per quod individuum hominis
est hoc. Intellectus
ergo, ut habet
esse reale, est forma
suo orbi; ut
autem habet esse
intentionale et universale, est materia
omnium intellectuum separatorum.
Et ista videtur
esse plana sententia
Averroys in hoc
quaesito, ut de
mente eius tenent praeclarissimi viri
et maxime, inter
alios, Subgerius,
praecipuvis averroysta. Et iste fuit
discipulus Alberti et
contemporaneus Thomae, et
qui, in quodam
suo tractatu De
intellecttt adversus Thomam, opinatur,
in via Averro^'S
et philosophi, intellectum materialem esse
formam perpetuam ex
utroque latere. Dal modo come
si parla qui
di Sigieri, è
evidente che il Taiapietra
aveva presente il
trattato De intellectu
del Nifo che era
stato stampato a
Venezia nel 1503.
Ma mentre questi s'era
già separato dell'averroismo professato
a Padova nei suoi
primi anni d' insegnamento, il
giovane filosofo veneziano è
ancora perfettamente averroista,
e si direbbe
che dalle opere del
Nifo abbia attinto
soltanto quel che
gli serviva per
conoscere il pensiero dell'averroista brabantino,
del quale si faceva
difensore e propugnatore
dinanzi al capitolo
generale dei frati minori
a Roma, contro
le argomentazioni del
Nifo stesso ch'egli rintuzza. Il
secondo trattato del
secondo libro ha
per oggetto 1'
« ultima prosperitas et
beatitudo », ossia
1' £ÙSai!J.ovia aristotelica, intorno alla
quale dissertarono a
lungo gli averroisti.
Sigieri, a quanto riferisce
il Nifo, ne
aveva parlato in
un libretto De felicitate, ed
aveva sostenuto in
proposito forse le
sue più ardite tesi
40. Per Aristotele
il fine supremo
dell'uomo, in quanto uomo,
consiste nel pieno
appagamento del desiderio
che la 40 Nifo,
De intellectu, II,
tr. 2, e.
17; De beatitudine
animae, II, commento 21.
Vedasi il mio
Sigieri. mente ha di
sapere, cioè di
conoscere la realtà,
non solo nelle sue
manifestazioni contingenti, ma
nelle sue cause
e ragioni eterne. Occorre
quindi che la
mente risalga, al
di là del
mondo sensibile e di
quel che nasce
e muore, all'eterno
e immutabile, al mondo
metafisico, al cui
centro è il
principio di ogni intelligibilità e
il fine ultimo
cui le cose
tutte tendono. Ma può
r intelligenza umana,
legata com' è
alla sfera della
sensibilità, giungere a conoscere
in se stessa
la pura realtà
ideale di Dio e
delle intelligenze motrici
intorno a lui
? Aristotele non dà
una soluzione chiara
di questo problema;
e perciò i
suoi commentatori greci ed
arabi l'avevano cercata
nel pensiero platonico e
neoplatonico, elaborando quella
tipica dottrina della copiilatio della
mente umana con l'
intelletto agente, della quale
si fece un
necessario complemento dell'etica
aristotelica. Se r intelletto
umano non fosse
capace d' innalzarsi a conoscere
in se stesse
le sostanze separate,
aveva detto Averroè nel
commento i al
secondo della Metafisica,
il desiderio umano di
conoscere la verità
sarebbe vano, ed
inutile sarebbe l'esistenza di
tali sostanze che
noi non potremmo mai
arrivare a conoscere
nella loro vera
natura. È certo
interessante veder posto il
desiderio umano di
conoscere a fondamento dei
nostri giudizi intorno
alla realtà. Ma
a ciò non badarono
i pensatori medievali.
I quali si
sforzarono piuttosto d'
intendere come la
conseguenza fosse dedotta
dalle premesse, contro S.
Tommaso che negava
la legittimità di questa
deduzione 4'. In
che modo giustificasse
la legittimità della deduzione
Sigieri, è fatto
conoscere dal Nifo,
al quale s' ispira anche
questa volta il
giovane patrizio veneziano
nel riecheggiare che fa
la dottrina sigieriana: Onod si
foret hominibus omnino
impossibile (conoscere in se
stesse le sostanze
separate e Dio)...,
tane natura ociose
egisset; fecisset enim id,
qnod est in
se naturaliter intellectum,
non comprehensum ab
aliquo, et sic
esset frustra, quemadmodum
si fecisset solem non
comprehensum ab aliquo
visu. Hanc sequellam diversi diversimode
deducunt; quidam enim
eam sic deducere consueverant. Supposito
primo quod omnis
intellectio, conveniens intellectui
possibili, non conveniat
quin etiam homini competat, hoc
expresse sensit philosophus,
primo De anima, Lxiiii, quicquid
dicant alii; hoc
quippe supposito negato,
aufertur omnis via commentatori
ad probandum coelum
intelligere; quare 41 S.
Tommaso, In Metaphys.,
II, lect. i. si
possibile est substantias
separatas intelligi ab
intellectu possibili,
possibile est quoque
substantias separatas intelligi
ab hoc homine. Quo
stante, tunc arguunt
sic. Quandocumque aliqua
reperitur forma apta non
recipi in maximo
receptivo alicuius generis,
illa eadem non est
receptibilis in minus
receptivo eivisdem generis. Sed intellectus
possibilis in genere
intelligentiarum est maxime receptivus, ut
constat iii. De
anima 42. Igitur
si primam formam non
est possibile intellectum
possibilem recipere, ncque
etiam est possibile alium
intellectum primam ipsam
recipere formam. Unde omnes
frustrarentur intelligentiae mediae
ab hoc scilicet line, qui
est deum gloriosum
et sublimem intelligere.
\'erum quandocumque intellectus
abstractus non potest
intelligere superiora, ipse non
potest intelligere inferiora;
sed nulla intelligentia
media potest primam
intelligere, ut iam
deductum est; igitur nulla
intelligentia media potest
et intelligentiam mediam intelligere ;
sed neque deus
" potest intelligentias medias
intelligere, ut Divinovum xii,
de mente Averroys
43 concluditur. Et neque
intellectus noster possibilis,
ut fatentur adversarii,
eas intelligere potest. Igitur
intellectus possibilis, naturaliter
in se intelligibilis, non
est ab aliquo
comprehensus; sic patet
ociositas maxima in natura.
Ex quo habetur
quod, nisi abstracta
intelligerentur a nobis,
essent utique ociosa.
Et
haec fuit deductio Subgerii 44,
viri in familia
averroyca non obscuri
(Lib. II, tr. 2,
e. 3)Ma
il Taiapietra sa
che non tutti
gli averroisti convengono nel modo
di argomentare di
Sigieri; dal quale
dissente in particolare
Giovanni di Jandun: Alii
autem, ut Ioannes
Gandavensis in Quaestionihus
suis de anima, quaestione
trigesima septima 45,
aliter deducunt. Et
ipsi accipiunt primo quod
substantiae separatae comparantur
ad intellectum nostrum ut
formae natae intelligi;
intellectus vero noster comparatur
eis ut subiectum
natum recipere illas
comprehensive et spiritu aliter; quod
ex verbis Averro3^s
multis viis probari potest. Primo,
namque intellectus possibilis
ultimus est abstractorum;
sed semper infìmus
intellectus est materia
superioris, infima enim intelligentia
perficitur a superiori
sicut materia perficitur a
forma, ut dicunt
philosophi. Et confirmatur:
quoniam vilius est potentia
respectu nobilis, et
nobile est tanquam
actus respectu vilis; igitur,
quemadmodum substantiae separatae
sunt natae ntelligi secundum
earum naturas, ita
noster intellectus est
natus 42 Arist., De
anima, III, t. e. 5 (e.
4, ^zgz, 21-24)
e 14 (429b
30sgg.). 43 Poiché secondo
Averroè, Metaphys., XII,
comm. 51, Dio
conosce soltanto se stesso
e non le cose inferiori
a sé. 44 Cfr.
NiFO, De intell.,
II, tr. 2,
e. 11; De
beat, an., I,
comm. 53. 45 O
meglio, « trigesima
sexta ». Ma
anche questa svista
è nel Nifo, De
intell., 1. e. 3o8
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI perfici ab eis
secundum suani naturain.
Amplius, intellectus
possibilis est materia
omnium abstractorum et
omnium intelligibilium; sed.
materia non corruptibilis
ab ipsis formis
est apta et potens
suscipere omnes formas;
intellectus igitur noster
potest recipere omnia intelligibilia. Accipiatur
igitur prò constanti, quod intelligentiae sint
potentes intelligi ab
intellectu nostro potentia quidem
naturali; et similiter
intellectus noster potest intelligere illas
potentia naturali, sicut
et ipsa materia
potentia naturali potest omnes
suscipere formas. Quo
stante, arguit modo Ioannessic: intellectus
possibilis, corpori continuus,
est receptivus et passivus
intellectionis abstractarum [intelligentiarum] ; ergo
habet naturalem potentiam
recipiendi intellectiones earum,
per earum scilicet essentias;
ergo, si aliquando
per cognitionem non attinget eas,
tunc natura egisset
ociose, quoniam fecisset
illam potentiam naturalem intellectus
nostri ad illas
capessendas, quae tamen in
actum nunquam adduceretur.
Et quod haec
sit Averroys ratio,
declarat ibidem Ioannes
exemplo eius. Et
sic patet quomodo Ioannes
deducit illam sequellam,
exponendo totam potentiam intelligendi
ex parte nostri
intellectus, et non
ex parte intelligentiarum, ut
fecit Subgerius, qui
totam intelligendi potentiam
ad substantias separatas
convertit {ib.). La
stretta dipendenza dell'averroista veneziano
dal Nife, si rivela
oltre che dai
testi citati, anche
da un particolare
caratteristico, là dove s'accenna
(cap, 5) a
quell'esposizione del
pensiero averroistico che « veriores
averroyci.... exceperunt a filio
Averroys in tractatu
suo De intellectu
» 46. Ma comunque
interpretata, la dottrina
averroistica sulla « copulatio
» e sulla
« felicitas Averroistarum
», di cui
era solito beffarsi il
Perette, è evidentemente
contraria all' insegnamento teologico. Perciò
il Taiapietra s'affretta
ad aggiungere : Verum quicquid
dicatur principiis innitendo
naturalibus ad mentem philosophi
et commentatoris, nihilominus
secundum veram theologorum sententiam
dicimus nullam generi
humano in hac vita
contingere posse foelicitatem
et beatitudinem, sed
illam ei servari post
mortem in alio
statu. Viatori enim
non potest 46 NiFO,
De intell., I,
tr. 4, e. 12: «Amplius,
filius Averroys in
tractatu de intellectu»; II,
tr. 2, e.
5: « Declaravit
has tres demonstrationes filius Averroys
in tractatu de
intellectu», cfr. ib.,
e. ii; a anche nei Collectanea III,
ad t. e.
36: «et hanc
domonstrationem dedit Alpheeh Averroys filius
in tractatu quem
edidit ad instantiam
patris, et eam multum
laudavit »; e più oltre:
« et si
inspicies librum Alpheeh
Averrois filij »; e
ancora più giù:
« Et in commentariis, quos
scripsi in libro
felicitatis Averroys et
eius filii ». inesse
foelicitas nisi in
patria, nec etiam
abstracta ab eo
cognosci possunt cognitione matutina,
sed tantum vespertina,
ut sacri nostri recte
sentiunt theologi (cap.
5). Con
siffatta dichiarazione, egli
ha ottenuto il
duplice scopo, di rassicurare
i teologi sulle
proprie intenzioni, e
di poter discutere con
tutta libertà intorno
al vero pensiero
del filosofo e del
commentatore. E di
questa libertà, procacciata
a prezzo di quella
dichiarazione, approfitta nel
modo piìi ampio,
attenendosi al famoso commento
36 del terzo
libro del De
anima. Anzi tutto, coll'esporre
e criticare la
dottrina di Alessandro intorno al
modo come l' intelletto
umano giunge ad
unirsi con r intelletto
agente, che per
l'Afrodisio è Dio
(capp. 6-11), e quella
di Avenpace e
di Temistio (capp,
12-14); poi con lo
spiegare e difendere
la tesi che
ad essi oppone
Averroè, « qui inter
omnes philosophos post
Aristotelem perfectior fuit
et subtilior » (cap.
15). Nei capp.
17 e 18
il Taiapietra combatte r
interpretazione che del
pensiero d'Averroè dava
Giovanni di Jandun, il
quale « opinatus
est quod foelicitas
nostra consistat in
actu sapientiali, et sit sapientia
quae habetur Divinormn
xii, a textu
commenti xxix usque
in finem ».
Come si vede la
fehcità in siffatta
teoria era a
portata di mano:
per quanto astrusa, la
Metafisica aristotelica non
è poi inintelligibile, e sopra
tutto abbastanza facile
a capire è
la parte del XII
libro che parla
appunto delle sostanze
separate che muovono i
cieli, e della
pura mente di
Dio. Ma il
possesso delle scienze speculative
non basta alla
suprema felicità dell'
intelletto umano, occorre l' inerenza
formale del primo
vero nella mente umana,
la cui potenza
resti così tutta
attuata. Il possesso delle
scienze speculative è
condizione per giungere a
questa beatitudine dell'
intelletto, non il
fine ultimo cui aspira
la mente umana,
che riposa solo
nel possesso del
vero eterno « fuor
del qual nessun
vero si spazia
». Ora a
questo possesso s'arriva soltanto
con la coptilatio
o continiiatio dell' intelletto possibile
con l' intelletto agente,
sì che la
potenzialità del primo sia
tutta sommersa e
assorbita nell'attualità del secondo
: Ipse (commentator), commento
xxxvi (3ÌÌ De
anima) totiens allegato, inquit
quod in adeptione
illa nos intelligimus
omnia et sumus sicut
dii, et quod
ille modus intelligendi
non -currit cursu scientiarum cogitativarum, quae
habentur per discursum, sed 3IO est
per substantiam intellectus
agentis, in quo
omnia intuitive cognoscimus. Convincitur
ergo ad intentionem
commentatoris, quod ea in
cognitione intuitiva nos
utique foelicitamur; non autem
in illa quae
in Metaphysica per
demonstrationem habetur
{ib., cap. i8). Del
tutto aderente all'
interpretazione sigieriana del
pensiero d'Averroè, quale ci
è nota per
l'esposizione che ne
fa il Nifo 47
e che concorda
con quanto pensava
Alessandro Achillini 48,
è anche l' interpretazione che
della « vera
dottrina » del commentatore
ci dà il
Taiapietra: Superest modo circa
ambiguitatem hanc magni
commentatoris afferre
sententiam, quam omnes
viri sublimes in
philosophia ac in secta
averroyca primarii nobiscum
integre et perfecte
sentiunt. Opinamur enim
itaque foelicitatem esse
deum. Nam assumpta
foelicitatis diffinitione prò
maiori, tunc si
addatur haec minor, videlicet:
sed deus est
ultimus finis, optimus,
propter se eligibilis, ad
nullum aliud ordinabilis,
cuius gratia omnia
eliguntur, bonus et
perfectus, pulcherrimus, delectabilissimus, per se
sufficiens, honorabilis, principium
et causa omnium
bonorum; ex his ergo
optime convincitur, quod
deus est foelicitas.
Foelicitas enim, quia
rationem totius boni
amplectitur, omnem quietat voluntatem; quia
vero rationem totius
entis continet, universum saciat intellectum.
Sed in nullo
nisi in deo
verius reperiuntur ratio totius
boni et totius
entis. Ergo etc
49. Et hoc
forte, et sine forte,
balbutiendo intellexerunt vetustiores
; nec valet
quod dicunt quidam moderniores,
quod bene concluditur
deum esse foelicitatem simpliciter,
sed non homini
propriam.... Sed profecto hoc
nihil est, ut
piane ostendimus in
superiori capite: hanc
enim conclusionem habent Averroes
et Aristoteles expresse,
x. Nichomachiae, capite
vii, scilicet quod
deus est foelicitas
sibi et aliis intelligentiis et
etiam homini 5°.
Solum enim ipse
est perfectissiinum intelligibile
et appetibile propter
se; in eo
enim eminenter reperitur ratio
obiecti intellectus et
voluntatis, immo solum
ipse est eminenter omnia
bona continens. Et
confirmatur, quoniam id quo
foelicitantur dii omnes
est suprema hominis
et omnium foelicitas; sed deus
est quo omnes
foelicitantur; omnes enim
intellectus foelicitantur
intelligendo deum; sed
intellectio qua ipse
deus intelligitur est ipse
deus; igitur omnia
deo foelicitantur. Et
haec ratio tota est
philosophi, x. Nichomachiae,
cap. x. Quare
concluditur quod deus, ipse
formaliter est foelicitas.
Amplius, quo foe47
Cfr. il mio
Sigieri, p. 24. 48
V. sopra, pp. 213-215. 49
Alla lettera dal
Nifo, De intellectu,
II, tr. 2,
e. 2. 50 Allude
forse al passo
àeWEtìi. Nicom., X,
e. 7, ii77b
30-32, forse meglio al
cap. 8, ii78b
21-32, e al
cap. 9, ii79a
23-32. licitatur deus, foelicitantur
et alii omnes
intellectus, ut expressa est
sententia philosophi, Divinorum
xii, et praecipue
commentatoris, ibi, comm.
xxxviii. Sed deus
non foelicitatur nisi
dee, ut inquit vii.
Politicoruni : '
deus foelix quidem
est et beatus, propter nullum
autem extrinsecorum bonorum,
sed propter seipsum ipse'51.
Deo,
ergo, nedum homo,
sed omnia foelicitantur. Sed nihil
foelicitatur nisi foelicitate.
Deus igitur ipsa
est foelicitas. Et ex
hiis verifìcantur omnia
verba Aristotelis in
toto libro Ethicoriim,
ubi de foelicitate
sermonem habet (cap.
ig). Giunto alla fine
del secondo trattato,
il giovane filosofo, rendendosi ben
conto che siffatta
felicità è irraggiungibile all'uomo in
questa vita, torna
ad avvertire il
lettore che tutto quello
che abbiamo udito
da lui su
questo argomento, ad
altro non mirava se
non a chiarire
qual è in
proposito il vero
pensiero d'Aristotele e
d'Averroè: Hoc enim, in
explanandis auctoribus, expositoris
officium esse consuevit, ita
quod, quid ipse
velit auctor, et
determinet et ad verbum
interpretetur, etiam si
illud falsum sit,
ut auctorum integrae et non manchae,
fideles et non
depravatae sententiae circa quaeque
apud omnes recipiantur5-. His
autem sacri nostri 51
Poi. (ediz. Immisch.
Leipzig, Teubner, 1929),
VII, e. i,
i323b 24 sgg. 52 Così
anche il Nifo
nella lettera all'
inquisitore Nicolò Grassetto, della quale
è stato fatto
cenno sopra p.
285, nota 12
: «in exponendis
enim auctoribus,
commentatoris officium solet
esse, quid ipse
auctor velit ac sentiat,
etiam si id
interdum minime verum
sit, interpretari ».
Di questo che è
non solo diritto
ma dovere di
ogni interprete onesto,
si valsero tutti gli
averroisti per esporre
con la massima
libertà il pensiero
d'Aristotele e dei suoi
interpreti. Ma il
Nifo, per entrare
nelle buone grazie dell'inquisitore, aggiunge:
« Itaque ut
in illis quae
ad philosophiam pertinebant, philosophi
ac interpretis munere
functi, ipsum auctorem exposuimus; ita
in his quae
fidei catholicae contraria
erant, ultra expositoris terminos evagati
(quemadmodum hominem christianum
decebat), ipsi auctori contradicimus
eiusque opiniones ac
dieta omnia theologorum
nostrorum auxilio confutavimus
» (quello che
il Taiapietra e in
generale gli averroisti
non fanno). Del
che l'inquisitore gli
dà atto: « placetque mihi
quod in philosophia,
christianae fidei non
immemor, in plurimis philosophos
redargueris, nihilque in
toto opere invenerim quod castigatione
dignum censeam »
(in fine del
volume che contiene il
commento del Nifo
alla Desfritctio e
il De sensu
agente, nell'ediz. veneziana del
1497). Di questo
zelo nel redarguire
e confutare le
dottrine dei filosofi ancora
di più che
nel commento alla
Destriictio, il Nifo
fa mostra nel De
intellectit, riveduto e
corretto per l'edizione
del 1503, ove è
evidente il proposito
di rifarsi una
verginità filosofica antiaverroistica, adoprandosi
a far credere
che il suo
distacco dall'averroismo
risalga al 1492
e preceda quello
del suo maestro
Nicoletto Vernia: « Hec
sunt que preceptor
defendit ad mentem
Platonis et Aristotelis theologi iuxta
christianam nostrani religionem
multa addunt, quae nos
ex testimonio prophetarum
credimus; et ideo
ea tantum asserta esse
volumus, non quaerentes
ad liaec aliquam
rationem, sed quantum ortodoxa
ecclesia praecipit, procul
dubio asseveramus. Itaque, ut
philosophum decet ac
peripatheticum hoc in
tractatu quae ad philosophiam
pertinebant, more phisici
interpretis, declaravimus, ubi non
parum boni fecisse
arbitramur, quum multa in
naturali philosophia obscura
et latentia iuxta
sententiam philosophi et
eius magni commentatoris
Averroys in lucem ediderimus et ea bene
dispositis aperte propalavimus
(cap. 21). A questo
secondo trattato ne
seguono altri quattro,
concernenti rispettivamente
quattro argomenti di
filosofia naturale
fieramente controversi tra
gli aristotelici delle
varie tendenze, e cioè
: « Utrum
nec ne apud
philosophum plures substantiales formae ad
invicem realiter distinctae
in substantiali composito sint ponendae
» (tr. Ili)
; « Utrum
ad intentionem philosophi dementa remaneant
formaliter in mixto
» (tr. IV) ; «
Utrum simplex elementum alterari
possit et a
se » (tr.
V) ; «
De quo- rumcunque simplicium
sive mixtorum primo
ac proprie dicto elemento »
(tr. VI) ;
e su tutti
e quattro questi
argomenti il Taiapietra difende
con risolutezza ed
energia la dottrina d'Averroè come
quella che combacia
perfettamente coli' in- segnamento di «
quello glorioso filosofo
al quale la
natura più aperse li
suoi segreti», come
pensava Dante 53. Ma
di siffatti argomenti il
nostro palato, che ha assaporato
Hume e Kant, non ha più
il gusto, che
non hanno perduto
invece i neotomisti, ai
quali è giusto
che queste pagine
siano segnalate. Tale il
programma che l'allievo
dei maestri padovani
aveva preparato per la
solenne disputa romana
del 6 giugno
1506. A parte l'accenno
abbastanza vago che
Marin Sanudo fa dell'obiezione
del cardinal Gabrielli
ad una delle
tesi sostenute dal dottorando,
perché « l'era
ereticha », non
sappiamo a quali altri
assalti dovette tener
testa il giovane
averroista veneziano; sappiamo soltanto
che egli giostrò
da bravo e che
il giorno appresso
« il papa
lo dotoroe ».
O tempora ! in
eo libello quem
inscripsit De animorum
pluralitate, quem confecit compluribus annis
post nostrum De
intellectti librum »
(Nifo, De anima, edizione del
1522, comm. al
t. 5 verso
la fine). Eppure
il Nifo sapeva bene
che il Vernia,
nella dedica dell'opera
al card. Domenico
Grimani, aveva dichiarato di
avere scritto anch'egli
il suo trattato
nel 1492. Cfr. sopra,
p. 108. 53 Conv.,
Ili, V. 7. Nel
volume su Sigieri
di Brabante nel
pensiero del Rinascimento italiano, ebbi
a riunire alcune
importanti testimonianze
intorno a due
e forse tre
scritti dell'averroista brabantino,
che si leggevano ancora
a Bologna e
a Padova alla
fine del secolo XV.
Queste testimonianze si
trovano per la
massima parte nel De
intellectn et daemonibiis
di Agostino Nifo,
il quale pretende d'avere scritto
quest'opera a Padova
nel 1492, quando già
s'era distaccato dall'averroismo sigieriano
cui egli aveva prima
aderito. E pare
che in quegli
anni, se non
proprio nel 1492, prima
certo del 1497,
egli avesse scritto
davvero una Quaestio de
intellectu in senso
sigieriano, e che
in seguito, fra il
1496-98, per evitare
la taccia di
eresia e guai
maggiori, rielaborasse
quella Quaestio, sino a farne
il trattato De intellectu,
stampato per la
prima volta nel
1503, e dedicato
a Sebastiano Badoèr morto
appunto nel 1498:
che di edizioni anteriori non
esistono tracce (cfr.
sopra, p. 286).
In tal modo il
Nifo cercava di
far credere che
egli aveva preceduto
il suo maestro Nicoletto
Vernia nell'abbandono dell'averroismo (cfr. sopra,
p. 311, n.
52). Nel De intellectu
e nel commento
al De animae
beatitudine di Averroè, il
Nifo si riferiva
a due opere
di Sigieri o,
com'egU scriveva, « Sugerius
», « Suggerius
», « Subgerius,
vir gravis, secte Averro3^stice
fautor, etate Expositoris
[cioè di S. Tommaso], discipulus
Alberti », «
Subgerius contemporaneus Thome
». Queste due
opere sono un
« tractatus de
intellectu, * Dal «Giorh.
Crit. d. Filos.
Ital. tertio loco
inscriptus, qui fuit
missus Thome, prò
responsione ad tractatum suum
contra Averroim »,
e un «
liber de felicitate »
che pare identico
col « tractatus
intelligentiarum et
beatitudinis », ricordato
dallo stesso Nifo
nei suoi Colledanea sul De
anima, nell'edizione veneziana
del 1503 e
in quella del 1522,
nelle quali «
Subgerius » è
diventato « Subiegius
» (si vedano le
citazioni nel mio
volume, pp. 18-30).
Ma nel suo trattatello De
primi motoris infinitate,
portato a termine
nel 1504, quando da
cinque anni aveva
lasciato Padova, il
Nifo sembra attribuire a
Sigieri un terzo
trattato « de
motore primo et materia
celi» (cfr. il
mio voi. cit.
p. 41). L'espressione «
in tractatu suo
de intellectu, tertio
loco inscripto » potrebbe
intendersi di un
volume di scritti
sigieriani, ove il
« tractatus de
intellectu » si
trovasse trascritto al terzo
posto fra altre
opere dell'averroista belga. Delle
varie dottrine attribuite
a questo Sugerius
o Subgerius dal Nifo,
due giova qui
ricordare: quella che
tende a mettere in
evidenza il procedimento
deduttivo onde Averroè
aveva concluso che, se l'
intelletto umano non
potesse intendere le sostanze
separate, queste sarebbero
inutili {ociosae. Cfr,
sopra, pp. 215-16) ; e l'altra
che afferma che
ogni intelligenza inferiore «
intelligit sviperiorem per
essentiam superioris »,
ossia in quanto l' intelligenza superiore
l' informa di sé
intenzionalmente e s'unisce ad
essa (v. sopra,
pp. 195-198). Orbene: quanto
alla prima di
queste due tesi,
sappiamo che il domenicano
Francesco Silvestri da
Ferrara, nel suo commento
alla somma Contra
gentiles (III, cap.
45, n. 5), l'attribuisce a
« Rugerius in
tractatu suo de
intellectu, misso Beato Thomae
prò responsione ad
tractatum suum contra Averroistas ». In un
primo momento, avevo
pensato (vedasi il mio
voi. cit., p.
23) che il
Silvestri dipendesse dal
Nifo e che «
Rugerius » fosse
un errore di
stampa per «
Sugerius ». Però avevo
aggiunto : «
ma può darsi
che egli citi
da un manoscritto in cui
il nome di
Sugerus. era già
stato mutato in Rtigerius. Qualche luce
viene ora a
gettare su questa,
che non è
affatto una quisquiglia, l' importante
notizia nella quale
mi sono imbattuto scorrendo
il codice Marciano
(Lat., CI. VI,
271 = 2882), che
contiene le Annotationes
in jo UJjro
de anima lectae in
hoc anno qui
fuit 1521, die
vero iovis quae
fuit 2^ mensis ianuarij, ah
excellentissimo ac celeberrimo
domifio Ioanne de Mofìtedocha hyspano,
unum (sic) trium
sui temporis philosophoriim peritissimo,
trascritte fra il
1523 e il
1524 dal padovano Aurelio Tedoldi,
dottore nelle arti,
« ad laudem
dei — dic'egli
— et meae amicae
quam maxime amo
» (f. 256 v)
! i. Giovanni Montesdoch,
spagnolo, aveva studiato
a Bologna, e nello
studio bolognese aveva
insegnato filosofia naturale
in concorrenza col Pomponazzi
fino all'anno scolastico
1514-15, e per alcuni
anni aveva letto
anche la Metafisica.
Ma in seguito a
contrasti che ritengo
egli avesse col
Pomponazzi -, lasciò Bologna e
andò a insegnare
a Roma. Da
Roma appunto, per un
ingaggio vantaggioso propostogli
dall'ambasciatore veneto
Marco Minio, passò
a insegnare filosofia
naturale a Padova, verso
la fine del
1520, o i primi di
gennaio dello stesso anno
1520 (secondo lo
stile veneziano; quindi
1521), iniziando il corso
delle lezioni con
la lettura del
commento averroistico al De
anima. Nella lez.
43^, sul t.
e-. 14 del
terzo libro, egli venne
a porsi appunto
il dibattuto problema,
come un' intelligenza inferiore conosca
le intelligenze superiori
ad essa. Dopo aver
riferite varie opinioni,
egli accennava a
quella « moderna »
sostenuta dall'Achillini, che l'
intelligenza inferiore conosce quella
superiore « per
essentiam superioris ». Siffatta
tesi, osservava il
Montesdoch, può dirsi
« moderna » solo
in quanto alcuni
moderni, come l'Achillini,
se la sono appropriata. Ma
prima di loro
e' è stato
Ruggiero : 1 Cosi
anche nel Marciano
lat., CI. VI,
273 = 2884,
che contiene le lezioni
dello stesso Montesdoch
sul primo e
il secondo della
Fisica, del 1523-24, il
Tedoldi che le
stava trascrivendo nel
1526, interrompe la 16*
lez. sul secondo
libro, con questa
informazione autobiografica
(f. 365r) :
« Et sic
sit finis huius
lecturae nostrae prò
praesenti anno 1522, quae
fuit die mercuri]
8^ mensis augusti
et hora ii'^
ad laudem dei et
beatae mariae [atque
amicae meae quam
maxime amo, quia
hodie] hora 19^ [habui
eam in brachiis
meis.... 1». Le
parole tra parentesi quadrate son
coperte d' inchiostro e
solo alcune appena
leggibili. Sotto è un
quadrato che doveva
contenere un motto
o un piccolo
disegno. Ma anch'esso è
stato coperto d' inchiostro
nero. E alla
fine della lezione
66» sul primo libro
del De caelo,
commentato dal Montesdoch
nel 1522 (Cod. Marciano
lat., CI. VI,
272 = 2883),
il Tedoldi, che
la stava copiando nella primavera
del 1524, annota:
« Sed quia
hora est nimis tarda,
et quia maxime
crucior amore meae
amicae, ideo valde fessus
cogor non amplius
scribere ». 2 Tanto
che, lasciata Bologna
da un pezzo,
il Montesdoch conservava ancora del
Peretto un ricordo
disgustoso. Nel commento
infatti al proemio della
Fisica (lez. 6*,
f. i6r) fa
menzione di lui
come « nimis monstruosus »,
e troppo grossolani
ne dichiara i
ragionamenti: « dicit rationes nimis
grossas ». 3l6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Alia positio
et opinio est
quae est opinio
non moderna, dato quod
moderni eam sibi
tribuant. Sed ante
eos fuit Rogerius; fuit magnus
vir, cuius opera
non habentur impressa,
nec vidi ea nisi
in bibliotheca sanati
dominici de bononia,
et ea etiam vidi
romae in sanato
Ioanne de viridario.
Fuit etiam opinio
Ioannis de ripa; tamen
Alexander Achillinus sibi eam tribuit,
quomodo 2^ intelligentia intelligat
primam (Ms. Maraiano
cit., f. 138V)
3. Che questo «
Rogerius » sia
il « Sugerius
» o «
Subgerius » di cui
parla il Nife
non v' è
dubbio. Ma l' importanza
di questa informazione del
Montesdoch consiste nell' averci
egli indicato dove aveva
visto le opere
di questo «
Rogerius » sostenitore della dottrina
che l'Achillini spacciava
per sua. Queste
opere non ancora stampate,
bensì manoscritte, erano
state viste da lui
a Bologna, nella
biblioteca del convento
domenicano di S. Domenico,
e dipoi a
Padova, nella biblioteca
del monastero di S.
Giovanni in Verdara
dei Canonici Lateranensi. Veramente nel
ms. Marciano si
legge : «
et ea etiam
vidi romae in sancto
Ioanne de viridario
w ; ma
è evidente che
al posto di «
romae » deve
leggersi « paduae
» (supponendo che
il nome di Padova
fosse scritto con l'
iniziale maiuscola, l'errore
di lettura si spiega
facilmente) ; a meno che
non debba leggersi «
romae [et] in
sancto Ioanne de
viridario ». Quanto al
codice veduto a
S. Domenico di
Bologna, parrebbe trattarsi di
quello usato da
Francesco Silvestri che, come
abbiamo visto, ne
ritenne autore, anch'egli,
« Rogerius», che si
ha ragione di
ritenere identico a
« Sugerius ».
Questo codice non figura
affatto nei cataloghi
di S. Domenico
pubblicati dal p. M.-H. Laurent [Fabio
Vigili et les
hibliothèques de Bologne au
début du xvie
siede d'après le
ms. Barb.
latin 3185, 3 E
nella lez. 30^
(f. q^v) lo
stesso Montesdoch aveva
detto: «Una est opinio
Ioannis de ripa,
cuius opera sunt
bononiae in conventu
sancti lacobi, qui est
fratrum Eremitarum. Et
ipse bene intellexit
opinionem averrois in hoc
loco, sicut aliquis
alius.... Omnia autem
[ab] Ioanne de ripa
accepit Alexander Achilinus ».
Come risulta dall'opera
del p. Laurent, citata
più oltre, il
commento al primo
delle Sentenze, cui
qui si allude, era
posseduto non solo
dalla biblioteca del
convento di S. Giacomo
(p. 132,
nn. 77 e
79), ma altresì
da quella di S. Domenico e
da quella di
S. Francesco (p.
no, n. 21).
In questo scritto (quaest. 2)
non solo Giovanni
da Ripatransone si
dilunga in ben
quattro articoli sul tema
qui accennato, ma
ci offre un'ampia
esposizione del suo modo
d' intendere la dottrina
averroistica sulle intelligenze
separate e suir intelletto
umano, molto vicina
e spesso identica
a quella di Sigieri.
in «Studi e
Testi», 105. Città
del Vaticano, 1943).
Dove è andato a
finire e come
è scomparso ?
Siccome esso fu
visto dal Silvestri, che
nel 1516, proprio
a Bologna nel
convento di S. Domenico,
aveva portato a
termine il suo
commento alla somma Cantra
gentiles, e dal
Montesdoch, si può
pensare che esso sia
stato fatto sparire
come opera d'averroista
inviso ai domenicani, che
l'averroismo ritenevano una
pericolosa eresia, a differenza
di altri, per
esempio degh eremitani
e dei carmelitani, assai meno
ligi al tomismo.
Tanto più che
nel 1494 Alessandro Achillini,
come ricorda il
Montesdoch, aveva fatte sue
le dottrine dell'averroista brabantino,
pur evitando di nominarlo,
nella pubblica disputa
tenuta al capitolo
generale dei frati minori,
nella primavera avanzata
di quell'anno (v. sopra,
pp. 195-98) 4. Quanto
all'esemplare che il
Montesdoch dichiara d'aver visto
nella biblioteca di
S. Giovanni in
Verdara, a Padova, ho
avuto il sospetto
che esso potesse
essere una copia
di quello di Bologna,
ordinata da Giovanni
Marcanova, negli anni
che questi insegnava a
Bologna, e quindi
passata al monastero
di Verdara insieme alla
biblioteca di lui.
Ma dallo studio
di L. Sighinolfi,
che della biblioteca
del Marcanova ha
pubblicato r inventario (nei « Collectanea
variae doctrinae » in onore di
Leone S. Olschki,
Monaco di Baviera,
1921, pp. 187-222), non
risulta. Questo per
altro non vorrebbe
dir molto, perché spesso
r inventario è
assai generico e
contiene non pochi
numeri di opere anonime,
fra le quali
potevano ben trovarsi incastrate quelle
di Sigieri. Al
notaio premeva più
di elencare il numero
dei volumi che
non il loro
effettivo contenuto, contentandosi d'un' ispezione
molto superficiale, che spesso rende difficile
riconoscere l'esatta natura
di opere appena accennate con
titoli piuttosto vaghi,
anche senza contare
i non pochi errori
di trascrizione commessi
dal Sighinolfi. Si potrebbe
pensare, è vero,
che gli scritti
di Sigieri fossero entrati per
altra via che
non fosse quella
del legato testamentario del Marcanova.
Ma è sicuro
che essi non
figurano nell'elenco che il
Tomasini redasse dei
manoscritti di Verdara nelle
Bibliothecae Patavinae maniiscriptae
puhlicae et privatae 4
Ma potrebbe anche
darsi che l'opera
di Sigieri restasse
sconosciuta o fosse dimenticata
dal Vigili, poiché
il suo catalogo
è lungi dall'essere completo. 3l8 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI (Udine, 1639),
^ nemmeno in
quello manoscritto della
Marciana (Ital., ci. XI,
323 = 7107);
sì che bisogna
rassegnarsi a pensare che,
già prima del
secolo XVII, gli
scritti di Sigieri
fossero ormai spariti anche
dalla biblioteca dei
Canonici regolari
Lateranensi di Padova. In
questa biblioteca, ch'era
assai ricca, non
mancavano commenti ad Aristotele
e trattazioni concepiti,
queste e quelli, secondo lo
spirito averroistico. V'era,
fra l'altro, l'ampia esposizione del
servita Urbano Averroista
sul commento d'Averroè alla
Fisica, che il
Marcano va aveva
fatto copiare a sue
spese a Bologna,
nel 1456, in
due grossi volumi
corretti e postillati di
sua mano. Quando,
nel 1492, a
Venezia, l'opera d' Urbano
fu data alle
stampe su un
vecchio codice bolognese per
volontà del priore generale
dei Serviti, Antonio
Alabanti, dietro
suggerimento di Nicoletto
Vernia, questi s'accorse
e fece notare che il codice
trovato dall 'Alabanti conteneva
la stessa esposizione alla
Fisica, che nella
copia di S.
Giovanni in Verdara era
attribuita al Marcanova
(cfr. sopra pp.
103-104). Ma l'osservazione del
Vernia passò inosservata;
e anche quando dal
monastero padovano il
codice passò alla
Marciana, nei cataloghi di
questa l'opera d' Urbano
restò attribuita al
Marcanova, sebbene nelV explicit
sia detto (Lat.,
CI. VI, cod.
104, colloc. 2815, f.
58orv) che il
nome dell'autore non
si conosce: « cuius
nomen non habetur
« 5. Ed alla
stessa biblioteca di
S. Giovanni in
Verdara e ai Canonici
regolari Lateranensi, che
abitavano quel monastero, era particolarmente affezionato
l'averroista maestro Nicoletto Vernia, il
quale, gravemente ammalato,
il 2 novembre
1478, faceva testamento a
loro favore e,
qualche anno dopo,
faceva ad essi donazione
dei suoi libri
(vedasi sopra, p.
115). Per quella volta
la negra Parca
lo risparmiò, lasciandogli ancora più
d'un ventennio, per
il piacere dei
suoi colleghi ed alunni,
per le sue
filosofiche speculazioni e
per diverse marachelle non
precisamente filosofiche. Ma
quando sentì ^ A
proposito dell'opera d'
Urbano, che nel
prologo dell'edizione del 1492
si dice cominciata
il primo d'aprile
1334 (cfr. sopra,
p. 103), gioverà avvertire
che il p.
R. M. Taucci,
de' Serviti, /
maestri della fac. teolog.
di Bologna, in
« Studi stor.
sull' Ord. dei
Servi di Maria
», I. 1933. PP 31-34.
osservando che l'unico
maestro servita di
nome Urbano fiorì nell'ultimo
decennio del sec.
XIV e nei primi quattro decenni del
sec. XV, propone
di correggere la
data 1334 in
1434. che la morte
stava ormai per
ghermirlo, il 3
agosto 1499 dettava le
sue ultime volontà,
in Vicenza, lasciando
ancora tutti i suoi
libri, « omnes
libros graecos et
latinos », ai
Canonici regolari
Lateranensi del monastero
di S. Bartolomeo
di quella città, perché
fossero posti nella
loro biblioteca, e
chiedeva altresì d'esser sepolto
nella loro chiesa
(v. sopra, pp.
108 e 126). Nella
biblioteca di S.
Giovanni in Verdara,
a Padova, parrebbe dunque che
il Nifo, discepolo
del Vernia, avesse
letto le tre opere
da lui citate
e attribuite al
« grande averroista
» Sugerius o Subgerius,
ov'egli dichiara d'avere
attinta la dottrina, un
tempo da lui
seguita, sul modo
come l'intelletto possibile, unico
per tutti gli
uomini, s'unisce ai
singoli e può dirsi
vera forma «
dans esse homini
» (v. sopra,
pp. 208-10). Lo stesso
Nifo, nel commento
alla Destructio destructionum, apparso per
la stampa nel
gennaio 1497, accenna
ad una discussione avuta col
conte della Mirandola,
mentre « in
corbula » si recavano
a Bologna (I,
8 ; v.
sotto, p. 376).
Ritengo che questo viaggio avvenisse
gli ultimi giorni
di maggio 1494.
Per la Pentecoste di
quell'anno, in occasione
del capitolo generale
dei frati predicatori tenuto
a Ferrara, c'era
stata una solenne
disputa pubblica alla presenza
del duca Ercole
I, e il
giovane domenicano Tommaso de
\'io, venuto apposta
da Padova ove
insegnava Metafisica, s'era trovato
di fronte Giovanni
Pico della Mirandola, il
quale gli aveva
mosso niente meno
che cento obiezioni (cfr.
Mortier, Histoire des
Maitres Généraux de
l'ordre des fr. Precheurs.
t. V, Paris,
1911, p. 143).
Pochi giorni dopo, verso
la fine del
mese di maggio,
anche i frati
minori aduna- rono a Bologna
il loro capitolo
generale e, secondo
il costume, diramarono inviti
ai maestri e
ai dotti delle
città vicine che avessero
desiderato partecipare alla
disputa pubblica che si
sarebbe tenuta, more
solito, in quell'occasione. A
Bologna sarebbe sceso in
lizza uno dei
maestri dello studio
che già cominciava a far parlare
di sé per
la sua serrata
dialettica e per certa
nuova maniera d' intendere
l'averroismo. L' invito
doveva solleticare il
battagliero conte della
Mirandola e il Nifo,
che verosimilmente era
accorso da Padova
alla disputa nella quale
era campione un suo collega.
E penso che
tutti e due insieme
sian partiti da
Ferrara per trovarsi
alla disputa che il
jo giugno, seconda
domenica dopo Pentecoste,
l'Achil- lini avrebbe tenuto
a S. Francesco
in Bologna. E quale
non dev'essere stata
la sua sorpresa
nel sentire che maestro
Alessandro Achillini discettava
intorno alle Intelli- genze, da quella
del Primo Motore
che è puro
atto, giù giù fino
air intelletto possibile
umano che è
pura potenza, e con
grande risolutezza e
abilità dialettica faceva
sua la dottrina averroistica di
quel « Sugerius
», del quale
anch'egli aveva letto gli
scritti che a
Padova si conservavano
in S. Giovanni di
Ver- dara, ove ritengo
li avesse visti
e letti anche
il Signore della Mirandola. Questa
risolutezza del collega
bolognese deve averlo tanto
più meravigliato, che
a Padova il
decreto vescovile del 1489
aveva assai limitato
la libertà di
giostrare sull'unità dell' intelletto
umano, ed egli e il
Vernia si vedevan
costretti a dissipare i
sospetti che si
nutrivano su loro
come averroisti. Nel trattato
De intellectii, scritto
dal Nifo col
proposito fin troppo palese
di rifarsi una
verginità antiaverroistica, in
gara con maestro Nicoletto,
si direbbe ch'egli
prendesse di mira i
Quolibeta de inielligentiis, pur
senza nominare l'autore
di essi, delle cui
dottrine svelava la
fonte negli scritti
di Sigieri, dal- l'Achillini taciuta. Il
nome di Marcantonio
Zimara, largamente diffuso
nel se- colo XVI, è
strettamente legato alla
storia dell'aristotelismo, e in
particolare di quella
corrente che fu
l'averroismo, anzi di uno
speciale indirizzo di
questo in contrasto
con altri indi- rizzi che si
reclamavano ugualmente da
Averroè, il Commen- tatore per eccellenza
d'Aristotele, l'arabo Averrois
di Cordova « che
il gran commento
feo ». Invece
il nome del
figlio di lui, Teofilo,
è rimasto presso
che sconosciuto, fra
gli storici della filosofia italiana.
Peggio : uno
di questi che
di recente ha
dedi- cato al pensiero italiano
del Rinascimento tre
grossi volumi, Giuseppe Saitta,
essendogli accaduto di
metter la mano, senza
volerlo, sul massiccio
e diffuso commento
di Teofilo Zimara, «
Marci Antonii F.
», al De
anima, ha attribuito quest'opera al
padre, ignorando l'esistenza
del figlio. E fin
qui poco
male. Ma egli
s' è spinto
assai più in
là ; che
non pare si sia
reso conto che,
mentre Marcantonio è
un averroista schietto e
tutto d'un pezzo,
il figlio al
contrario combatte
apertamente l'averroismo e
propugna un platonismo
cristia- neggiato, che, divenuto
di moda tra
gli umanisti dopo
Marsilio Ficino, si proponeva
di conciliare Aristotele,
liberato dal- l'esegesi
averroistica, con Platone,
con Plotino, con
Proclo e con Simplicio.
E questo è il male
peggiore che poteva
capi- tare a Teofilo, che
cioè il grosso
volume dedicato al
cardinale Guglielmo Sirleto, e
dal quale s'attendeva
qualche fama, non solo
gli fosse tolto,
ma ne fosse
travisato il pensiero,
col ravvicinarlo
all'averroismo.* Già pubblicato
negli «Atti del
IV Congresso Storico
Pugliese». («Archivio
Storico Pugliese», Vili,
1955). Sono stati
apportati alcuni notevoli ritocchi. Ma
anche intorno a
Marcantonio Zimara accade
di leggere nei libri
di storia della
filosofia grossi spropositi,
che mi pro- pongo di
correggere, raccogliendo quello
che di certo
si sa in- torno a
lui e al
figlio e intorno
alle loro opere.
Ben inteso, non si
tratta di richiamare
l'attenzione dello storico
su due astri di
prima grandezza o,
come si direbbe
oggi, su due
fi- gure di primo piano
nel complesso panorama
del nostro Ri- nascimento: si tratta
soltanto di mettere
nella giusta luce due
onesti pensatori che,
pur senza elevarsi
gran che sulla coltura
del loro tempo,
meritano di non
esser dimenticati, perché di
quella coltura sono
eminentemente rappresentativi.
I. -
Marcantonio Zimara. Di lui
sappiamo con certezza
che il 30
luglio 1501, a ore
13, sosteneva a
Padova la discussione
preliminare al dottorato in
artibus, ossia fece
il tentativum nella
chiesa di S. Urbano,
ove da un
cinquantennio soleva riunirsi
il « Sacro Collegio degli
Artisti e Medici»;
e che una
settimana dopo, il venerdì
6 agosto, a
ore 20, nell'aula
solita d'esami in
Vesco- vato, sostenne il privatum
examen e conseguì
il grado di
dottore in artibus. Il
filosofo e medico
Pietro Trapolin gli
conferì le insegne del
grado a nome
del Sacro Collegio.
Tutto questo è perfettamente documentato
dagli atti del
Collegio stesso, nell'Archivio
antico dell' Università
di Padova, e dagli
Ada graduum presso
l'Archivio di quella
Curia vescovile (voi. 47, f. i62r).
Da notare: presenti
come testimoni al
giu- ramento e al dottorato
erano Pietro Pomponazzi
e Tiberio Bacilieri; il
primo ritornato da
poco a Padova,
ove insegnava filosofia naturale
come ordinario primo
loco, il secondo
ve- nuto via da Bologna
per contrasti coi
colleghi, e straordinario della stessa
materia. In questi
atti. Marcantonio è
detto figlio « quondam
Nicolai Zimara de
Sanctopetro de Galatina
terre Hydrunti ». Altra cosa
certa è ch'egli
potè fare gli
studi di filosofia
a Padova grazie all'aiuto
dello zio materno
Pietro Bonuso, prelato della
chiesa di S.
Pietro in Galatina,
al quale il
1° ot- tobre 15 13 dedicò
l'edizione dei Subtilissima
Hervei Natalis Britonis Quodlibeta
undecim cum odo
ipsius profundissimis tradatibus, da
lui curata per
l'editore veneziano Giorgio
Arrivabene. Anche nella
dedica della Quaestio
de primo cognito (Venezia, 1508)
a Marcantonio Contarini,
figlio di Carlo,
accenna espressamente a questo
zio : «
Petro Bonusio, propresuli, avunculo, qui
me semper eque
ac filium carum
habuit fovitque, cuique non
minus quam parenti
mee animam hanc debere
me libens profiteor
». Baldassar Papadia i
lo dice nato
da povera e
oscura gente intorno al
1470: e cita
in proposito un'
Epistola ms. di
Francesco M. Vernaleone, che
esisteva a suo
tempo presso i
Signori Caroti. Sulla scorta
della Quaestio de
regressu E xcellen fissimi
Domini Marci Antonii
Zimarea (nell'Ambrosiana di
Milano, Cod. S. Q. +. II.
36, ff. 232V-236V),
fui indotto, nella
prima edizione di questo
saggio, a supporre
un primo soggiorno
padovano, anteriore al 1490,
perché l'autore di
quella Quaestio accenna più
volte a discussioni
avute con Maestro
frate Francesco da Nardo,
che insegnava Metafisica
a Padova «in
via Thomae», mentre
frate Antonio Trombeta
insegnava la stessa
disciplina « in via
Scoti », e
che morì il
17 luglio 1489
(cfr. A. G. Erotto
e G. Zonta,
La facoltà teologica
di Padova. Padova, 1922,
pp. 195-197): «Ad
argumenta praeceptoris magistri Francisci de
Nardo, dico...; sed
advertatis quod praeceptor meus antequam
ingrederetur ad scolas
ad legendum, allocutus
fui eum supra
hoc, ....et dixit
mihi » (f.
135V). Ma pili tardi,
visto il codice
della Nazionale di
Napoli, Vili. E. 42,
che contiene il
commento del Pomponazzi
ai primi due libri
del De anima
datato 1514, ma
certamente dell'anno
scolastico 1508-1509, e
il commento dello
stesso Peretto al terzo
libro, del 1504,
m'accorsi con mia
sorpresa che quella Quaestio, attribuita
allo Zimara nel
codice Ambrosiano, non è
affatto di questo,
sibbene del suo
maestro, il mantovano Pietro Pomponazzi,
che più volte
ricorda d'essere stato
discepolo del tomista di
Nardo. Quindi cade
l' ipotesi di un soggiorno
dello Zimara a
Padova, prima di
quello indicato dal Papadia,
il quale dice
che lo zio
materno, Pietro Bonuso, «
r inviò adulto
a Padova ».
Forse intorno al
1495 o poco
dopo. Fra i venticinque
e trent'anni, egli
poteva dirsi veramente adulto. E
se a Padova
giunse quando erano
già morti Francesco da
Nardo e Pietro
Roccabonella, vi trovò
tuttavia maestri provetti che
godevano già di
gran fama o giovani che erano
sulla via di
procurarsela: il faceto
Nicoletto Vernia, I Memorie
storiche della città
di Galatina, Napoli averroista spregiudicato, finché
il vescovo di
Padova, Pietro Barozzi, col
decreto del 6
maggio 1489 non
l'obbligò a ravvedersi, Pietro Trapolin,
anch'egli averroista, ma ben più moderato
e guardingo, gli
scotisti Antonio Trombeta
e Maurizio Ibernico, il
Peretto Mantovano che
già rivelava una spiccata
tendenza a ribellarsi
all'averroismo di moda,
il vicentino Antonio Fracanziano,
concorrente del Pomponazzi, Tiberio Bacilieri
che a Padova
professava l'averroismo di marca
sigieriana del quale
a Bologna era
acerrimo propugnatore
Alessandro Achillini. Agostino
Nifo aveva lasciato con
gran disdegno lo
Studio patavino fin
dall'estate del 1499, non
sappiamo se malcontento
dello stipendio o
per dissensi coi colleghi.
E il 4
ottobre dello stesso
anno il Vernia
moriva, e la sua
cattedra venne appunto
coperta col richiamo
del Peretto, cui fu
dato a concorrente
il Fracanziano. Di questi
maestri, il Trapolin
fu primo promotore
del dottorato in artihus
del « Sanpetrinate
», come lo
Zimara amava chiamarsi; ma
di lui non
ho trovato cenno,
né in bene
né in male, nelle
opere dell'alunno \ Del Pomponazzi
invece parla spesso; sebbene
il rispetto per
il precettore non
gì' impedisca di combatterlo su
varie dottrine, e
di pigliarlo di
mira più volte in
modo assai vivace
nella Tabula dihicidationum in dictis
Aristotelis et Averrois,
e particolarmente nella
Quaestio de immortalitate animae.
Del Bacilieri combatte
la tesi che identifica l' intelletto
agente con Dio,
che egli attribuisce, come fa
anche il Pomponazzi,
ai « bononienses
». Al Trombeta accenna anche
alla fine delle
Annotiones sul settimo della
Metafìsica di Giovanni
di Jandun :
« in his
omnibus subtilissime
repraehenditur Ioannes a
praeceptore meo Magistro
Antonio Trombeta nostre
aetatis in metaphysicae speculationibus viro
emeritissimo»; nei Theoremata,
iii: « Antonius
Trombeta excellens in
scientia divina et
preceptor meus venerandus » ; e
nella Quaestio an
gravia et levia
etc. del ms. Magliabechiano, XI,
67, segnalatomi dall'amico
Eugenio Garin: « quantumcumque, ut
dicebat magister meus Trombeta, Franciscus
de Neritono dixerit
» (f. 23r).
Che egli poi avesse
a maestro anche
Maurizio Ibernico è
attestato dal francescano Girolamo
Girelli sulla fine
del suo trattato De
speciebus intelUgibilibus diretto
contro lo Zimara:
« Ipse 3 Su
di lui, V.
sopra, il saggio autem
forte erravit propter
amorem magistri sui,
qui fuit Mauritius Hibernicus
». Non sappiamo con
certezza quand'egli cominciò
a insegnare come lettore
pubblico; poiché le
lezioni In primuni
Posteriorum del Cod. Ambros.
D. log inf.,
ff. i7r-29r, potrebbero
essere state tenute privatamente
o anche pubblicamente
in anni precedenti al
dottorato in filosofia,
come mi risulta
essere intervenuto a Padova
per il mantovano
Benedetto del Triaca (1494), per
Lorenzo dal Molino
di Rovigo (1499)
e per Francesco Trapolin, figlio
di Piero (1501).
In fine della
nona lezione sul primo
libro degli Analitici
Posteriori (f. 28r)
accade di leggere questo
curioso invito in
versi: Scire volunt onines,
niercedem solvere nemo: hoc
dixit noster qui
claret in orbe
Zimarra. In catedra manens,
dixit prò omnibus
una: solvite, precor, omnes,
si vultis doceri. In
domino testor, magnum
sumpsisse laborem; hac prò
doctrina, propriam vendidisse
casellam. E in margine
: « Quare
vobis dico :
si librum Posteriorum vultis ut
aperiam, solvite, praecor,
omnes ». Ma non
dovette passar molto
dalla laurea, che
fu assunto alla «
lettura » straordinaria
di filosofia naturale.
Intanto, per procacciarsi da
vivere e poter
continuare gli studi,
curò per gli eredi
di Ottaviano Scoto
l'edizione delle Quaestiones in duodecim
II. Metaphysicae di
Giovanni di Jandum,
arricchendola di citazioni e
note marginali. L'
edizione scotina, licenziata il
1° di febbraio
1505, oltre alle
note marginali, recava in
appendice alcune opere
originali che possiamo
considerare tra le prime
del nostro, anteriori
a questa data. La
prima è una
diffusa Quaestio de
principio individuationis ad
intentionem Averrois et
Aristotelis, di ben
venti colonne. Essa è
dedicata « Magnifico
ac excellenti artium
Doctori domino Andreae Mocionigo
Patricio Veneto ». Questo (( M.cus
et Doctissimus vir,
D. Andreas Mocenico, natus M.ci
et Cl.mi D. Leonardi,
filli olim Serenissimi
principis Venetiarum D.
Jo. Mocenici »,
era stato proclamato dottore in
artihus, il sabato
12 agosto 1503,
nella cattedrale di Padova,
con grande solennità,
come s'addiceva al
suo alto rango, «
assistentibus M.cis et
Cl.mis dominis Thoma
Mocenigo praetore, patruo,
et Paulo Trivisano
equite praefecto 326 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI urbis [Paduae],
avunculo, et aliorum
praestantissimorum doctorum,
scholarium, civiiim et
praelatorum corona, per Rev.um
D. Episcopum [il
bellunese Pietro Barozzi],
eius domino Vicario recitante
». E ciò
dopo essere stato
esaminato « per Venerandum
Collegium artium et
medicinae Doctorum », e
« post longas
lucubrationes et scholasticos
labores et publicas disputationes ac
varia virtutis et
doctrinae suae experimenta
». Primo promotore del
dottorato era stato
Pietro Trapolin, che anche
questa volta conferì
al neo dottore
le insegne del grado.
Nella dedica lo
Zimara parla del
nodo d' indissolubile
amicizia che lo
legava al Mocenigo.
In realtà erano
stati ambedue alunni del
Trapolin e del
Pomponazzi, insieme al
« gobeto »
Lorenzo Venier, ad
Antonio Surian e
a Gaspare Contarini,
« artium scholares
», i quali
nel verbale del
dottorato del Mocenigo figurano
da testimoni (v.
sopra, p. i68). Nella
stessa dedica il
nostro accenna al
turbamento del suo animo
per le notizie
che gli giungevano
da S. Pietro
in Galatina, saccheggiata
dal ritorno nel
1504 delle milizie
spagnole per cacciarne le
francesi: « Pluribus
profecto quam promiseram
magnifìcientiam vestram speculationibus donassem, nisi iniqua
fortuna patriam meam
Sanctum Petrum de
Galatinis, hispanis militibus
populationi dedisset ». Alla
Quaestio de principio
individuationis tengon dietro
le Annotationes in Ioannem
Gandavensem super Quaestionihus Metaphysicae eleganter
discussae in via
Aristotelis et sui
magni commentatoris
Averrois, anch'esse dedicate
ad Andream Mocionigum.
Su molti punti
lo Zimara aveva
ripreso con semplici note
marginali il modo
come Giovanni di
Jandun espone il pensiero
d'Averroè. Ma su
altri punti le
sue riserve esigevano maggiore spazio
che non fosse
quello d'una breve
nota; perciò aggiunse al
volume questa seconda
appendice, ove espone con
ben maggiore ampiezza
le ragioni del
suo dissenso dall'averroista di
Jandun, la cui
interpretazione della dottrina averroistica aveva
suscitato aspre critiche
da parte degli averroisti padovani
e bolognesi, tanto
che Giovanni Pico
della Mirandola giudicava che
egli, « ferme
in omnibus quaesitis philosophiae, doctrinam
Averrois corrupit omnino
et depravavit »
{Conclus. secundum Avenroem,
3). Intento di
queste Annotationes è dunque
quello di stabilire
qual è il
vero pensiero del commentatore
di Cordova. Ma nel far
ciò, il filosofo di
Galatina si diffonde
talora sino a
riesaminare a fondo
l'argomento discusso e
a scrivere un
vero e proprio
trattato, come fa a
proposito della questione
12^ del terzo
libro, in una disquisizione di
ben oltre 26
colonne. Una terza appendice
è formata dalla
Quaestio de triplici causalitate intelligentiae, concernente
la natura, la
dipendenza e la finalità
delle intelligenze celesti «
secundum Aristotelis et sui
Commentatoris Averrois sententiam
», problema dibattutissimo dal
secolo XIII al
XVI, intorno al
quale lo Zimara, come
già Sigieri di
Brabante, difende la
causalità efficiente di Dio
contro quegli averroisti
che, come l'eremitano
Gregorio da Rimini, la
negavano. Una frase
in principio: «vidi plures
tempore meo, 1502,
philosophantes », parrebbe
indicare che la Quaestio
fu scritta in
quest'anno. Con questo volume,
stampato nel 1505
e che si
diffuse rapidamente in tutta
Europa, Marcantonio Zimara
di San Pietro in
Galatina in terra
di Otranto si
presentava agli studiosi di
filosofia come un
interprete agguerrito e
acuto del pensiero d'Aristotele e
del suo grande
e fedele commentatore Averroè, in
un momento quando
il suo maestro
e dipoi avversario, il mantovano
Pietro Pomponazzi, non
aveva ancora stampato una
sola riga. Non
tutti accettarono, si
capisce, l'esegesi
dell'Otrantino, com'era chiamato
a Padova, anzi molti
presero a impugnarla,
su questo o
quell'argomento; ma a nessuno
era consentito ignorarla. Nello stesso
anno in cui
curò l'edizione della
Metafisica dell'averroista
di Jandun, ne
preparò altresì quella
delle Quaestiones super
Parvis Naturalibus, per lo stesso
editore veneziano,
dedicandola a Bartolomeo
Montagnana, iunior, professore di
medicina nello Studio
patavino e appartenente
a una celebre famiglia
di medici padovani.
La qual dedica m' indurrebbe quasi
a sospettare, che
egli si stesse
preparando al dottorato in
medicina, adulando con
lodi sperticate, come era
d'uso, un membro
del « Sacro
Collegio degli Artisti
e Medici », che
aveva il diritto
di farsi «
promotore » della
« grazia », del
« tentativo »
e infine dell'
« esame privato
», nonché quello di
conferire le insegne
dottorali al candidato. In
appendice a questo
volume, lo Zimara
stampò la Quaestio de
moventis identitate et
moti ad intentionem
peripateticorum subtiliter et resolute
Patavii discussa, e la dedicò
al giovane « Giovanni
Cristoforo Capitani, figlio
del chiarissimo medico Pietro», per
riconoscenza dell'appoggio che ne aveva
avuto: cui denique quicquid
dignitatis in Patavino
gymnasio nuper assecutus sum,
uni acceptum refero
». Dello stesso periodo,
perché ricordata nelle
Solutiones del 1508 {Super
III de anima,
1^ Contr. sul
comm. 5) è
anche la Quaestio qua
species intelligihiles ad
mentem Averrois defenduntur
ad Magnificum patritium
Venetum Anfonium Surianum, pubblicata s.
1. da Francesco
Storcila il 12
gennaio 1554, e incorporata
nel Tractatus adversus
quaestionem M. Ant.
Zimarae de speciehus
intelligibilihus (Venezia, 1561)
del francescano Girolamo Girelli
che era stato
alunno del Pomponazzi.
Lo Zimara prende
risolutamente posizione contro l'Achillini, il
quale aveva negato
le famose «
specie intelligibili », d'accordo
in ciò col
carmelitano inglese Giovanni
di Baconthorpe e con
Enrico di Gand.
Dell' Achillini dice anzi quel
che Averroè {De
caelo, III comm.
67) aveva detto
d'Avicenna, « quod videlicet
parvitas exercitationis ipsius
viri in naturalibus et
bona confidentia in
proprio ingenio deduxit ipsum
ad maximos errores
». L'argomento era
stato discusso a Padova
nel corso del
1505 dal Pomponazzi,
il quale non si
mostrò meno aspro
contro l'Achillini; e
proprio Antonio Surian ce
ne ha tramandata
la quaestio nel
codice ms. della Bibl.
Naz. di Napoh,
Vili. D. 81
(ff. 83r-84r). Un'altra
e pili ampia riportazione
si trova in
altro ms. della
stessa Biblioteca, Vili. E.
42, ft. I95r-20ir. Dalle controversie tra
i vari interpreti
d'Averroè, trassero vantaggio gli
avversari dell'averroismo, per
insinuare che il «
gran commento »
formicolava di contradizioni, e
che neppure Aristotele ne
era immune. Sebbene
il Pomponazzi non rifuggisse
dal dirsi talora
« averroista »
o « commentista
», nel senso che
egli, seguendo una
consuetudine di Padova
e di Bologna, leggeva
il testo d'Aristotele
e il commento
d'Averroè che lo accompagnava,
e sulla parafrasi
e discussione dell'uno e
dell'altro conduceva la
lezione, non di
meno, con tutto
il rispetto per l'uno
e per l'altro,
non esitava a
mettere in evidenza le
incertezze e le
contradizioni del commentatore,
al quale non risparmiava
le sue critiche
e i suoi
sarcasmi. Discepolo del Peretto
mantovano, lo Zimara,
che per diversi anni,
dal 1500 al
1505, ne aveva
seguito le lezioni,
si propose di scolpare
tanto Averroè quanto
Aristotele dalle contradizioni ad essi
attribuite e di
mostrare che esse
potevano, con qualche sottile
distinzione, risolversi nel
modo più plausibile. Nacquero così,
fra il 1505 e il
1508 le Solutiones
contradictionum in dictis
Averrois che nella
prima redazione uscirono, precedute dalla
Quaestio de primo
cognito, a Venezia,
il 1° luglio 1508,
con dedica al
patrizio veneziano, «
magnifico Marcoantonio
Contareno magnifici domini
Caroli filio », al
quale il
Pomponazzi dedicherà nel 15
16 la
prima stampa del De
immortalitate animae, e
che nel 1508
era ancora un
« giovane », sebbene
versatissimo negli studi
della filosofia aristotelica. Pochi giorni
prima gh aveva
dedicato i trattati
logici di Aristotele col
commento d'Averroè, da
lui curati per
gli eredi di Ottaviano
Scoto (Venezia, 1508,
20 giugno). La Quaestio
de primo cognito
si riallaccia alle
lezioni dello Zimara sul
prologo della Fisica
aristotehca (I, t.
e. 2-5, e. i,
i84a 16
sgg.). L'autore di
essa discute ampiamente
e critica le interpretazioni che
del testo aristotelico
avevano dato il Burleo
e Gregorio da
Rimini, dalla parte
dei « nominales
», poi quelle di
Duns Scoto e
di S. Tommaso,
e infine oppone
ad esse quella che
giudica più conforme
al commento d'Averroè. Le
Solutiones sono opera
composta a tavolino,
« succisivis horis ac
tumultuarie ». Ma
che lo Zimara
prendesse di mira in
particolare il Peretto,
del quale si
tace il nome,
è messo in evidenza
dalla lettera, stampata
al f. 46r
del volume, coli'
intestazione « Sylvius Laurentius
a portu caballensis
clarissimo artium et medicine
doctori Marco Antonio
sanctipetrinati et
hidruntino, ere publico
in Gymnasio patavino
philosophiam profitenti », la
quale porta la
data « ex
patavio, idibus Junij a
Natali cristiano M.
D. VII ».
Questo ammiratore e
forse discepolo
dell'otrantino ricorda appunto,
che « Petrus
mantuanus noster philosophantium nunc
primi fere nominis,
publico auditorio profiteri solet,
hoc Averroi esse
genuinum, ut, cum implicita
omnibus viribus nervisque
explicare contendit et adnititur,
maxime implicat, eoque
fertur, diffidente conscientia,
quo denique ipsum
impetus errabunde opinionis impellit ».
Del che egli
pensa fossero da
incolpare gli amanuensi e
gli stampatori del
commento averroistico, per
incuria dei quali circolava
nelle scuole pieno
di errori. Ma non
soltanto al Pomponazzi
intendeva opporsi lo Zimara,
sì anche
a Giovanni di
Jandun, a Gregorio
da Rimini, al Burleo,
ad Alessandro Achillini
e al Bacilieri,
che, a suo avviso,
con errate interpretazioni, facevano
cadere in contradizione il commentatore
arabo. Pomponazzi, che non
condivideva con lo
Zimara e l'Achillini
la fiducia nell'
infallibilità d'Averroè, scrollava
le spalle ed osava
negare la stessa
fiducia perfino ad
Aristotele, pur ritenuto da
Dante « maestro
e duca de
l'umana ragione », e
dagli averroisti «
regula in natura
et exemplar quod
natura invenit ad demonstrandum
ultimam perfectionem humanam
». Le contradizioni di
Averroè avevano il
loro fondamento in non
poche contradizioni del
testo aristotelico, che
si facevano sempre più
palesi con le
nuove traduzioni del
periodo umanistico. Perciò intorno
al 1530, lo
Zimara riprese in
mano il libretto, e
ne preparò un'edizione
più completa, con
l'aggiunta di nuove contradizioni
ch'egli s'adopra a
risolvere, associando nel titolo
alle contradizioni del
Commentatore quelle del
Filosofo: Solutiones
contradictionum in dictis
Aristotelis et Averrois. Dalla lettera
di Silvio Lorenzo
da Porto appare
che nell'anno scolastico Zimara, dottore
non solo in artibus
ma anche in
medicina (non sono
però in grado di
dire in che
anno egli sostenesse
gli esami in
questa materia), professava pubblicamente
filosofia naturale nello
studio patavino, occupando evidentemente
una delle due « letture
» straordinarie col modico
stipendio di 47
ducati d'argento, secondo il
Facciolati [Fasti gymn.
patav., p. II,
274), ed è naturale
che aspirasse ad
esser promosso alla
« lettura » ordinaria.
Ora a
metà settembre 1508
era rimasta vacante
la « lettura »
ordinaria « secundo
loco » che
per due anni
aveva tenuto Alessandro Achillini,
richiamato sulla sua
cattedra a Bologna (v.
sopra, p. 259).
Se la cattedra
vacante fosse stata
assegnata al « Sanpetrinate
», questi sarebbe
venuto ad essere
il «concorrente» diretto, cioè
l'antagonista, del Pomponazzi,
che oc- cupava la cattedra
ordinaria «primo loco»,
e da due
anni, seb- bene non fosse
cittadino padovano, era
stato aggregato al «
Sacro Collegio degli
Artisti e Medici
» della città.
Ma per riuscire ad
avere il posto
ambito lo Zimara
avrebbe dovuto vincere le
ostilità che si
era creato colle
polemiche ingaggiate contro il Peretto, il
quale godeva di
grande stima nello
Studio patavino, e contro
l'Achillini, del quale
era ben vivo
il ricordo. Provvedere a
coprire la cattedra
ordinaria rimasta vacante era
compito del Senato
veneziano; e gli
aspiranti s'eran dati da
fare per procacciarsi
autorevoli appoggi fra
i membri di questo,
che ne discusse
nella riunione del
21 ottobre 1508. Le
proposte fatte furon
tre o quattro.
Marin Zorzi propose Marco
Antonio della Torre,
« fiol dil
quondam missier maistro Hironimo da
Verona, qual à
leto e leze
in philosophia. Misier Alvise
Pixani, savio a
terra ferma, messe
di condur missier Marco
da Otranto, che
etiam leze in
philosophia extraordi- narie ». Zorzi
Emo propose «
il Sexa che
è a Napoli,
o ver il Toseto
», cioè Ludovico
Carensio, detto il
Toseto, padovano, ma che
da diversi anni
insegnava filosofia a
Ferrara, e che nel
15 17 ritornerà in
patria a ricoprire
una delle cattedre
di medicina. È interessante vedere
che fra gli
aspiranti era anche
« il Sexa »,
cioè Agostino Nifo
da Sessa, il
quale aveva già
coperto la cattedra ordinaria
di filosofia «
primo loco »
a Padova, fino al
1499, e n'era
partito, a quanto
pare, per litigi
coi col- leghi. Ora egli
non cessava di
brigare per tornarvi,
ma preten- deva uno stipendio
che il senato
veneziano non era
disposto a pagargli. Leonardo
Anselmi, console di
Venezia a Napoli, informava di lì a
poco, che il
Sexa « voj
vegnir a Padova
a lezer im philosophia.
El qual dice
voi ducati 500
e non mancho, perché dice
è il primo
homo dil mondo,
e a Napoli
leze et medica; sì
che non havendo
ditti danari, non
voi vegnir» (Sanudo). Ma
appena qualche giorno
dopo si dichiarava disposto
a venire per
400 ducati all'anno,
con ferma di tre
anni. Queste manovre
del Nifo dovettero
esser note al Pomponazzi,
che nel già
citato commento al
De anima del 1508-9
prese ad attaccarlo
con rinnovata virulenza. Dopo Zorzi
Emo parlò Polo
Pisani. Vista la
difficoltà di addivenire a un accordo
e di far
prevalere il suo
candidato, Alvise Pisani ripiegò
sulla proposta «
de indusiar »,
e così « fu
presa la indusia,
di 8 ballote
» (M. Sanudo,
Diarii, VII, col. 653),
e lo Zimara
dovette rassegnarsi a
rimanere alla « lettura
» straordinaria. Né mi
consta che egli
fosse promosso nel
quinquennio immediatamente
successivo. La guerra
contro la lega
di Cam- bra! ebbe gravi
conseguenze per lo
studio padovano. Il 6
giugno 1509, le
truppe imperiali al
comando di Leonardo Trissino entrarono
in città, e
lo stesso giornopare venisse a morte
Pietro Trapolin. Per il momento,
cioè per qualche
mese, il turbamento dell'ordine
pubblico non fu
grande; si tennero ancora esami,
e il Pomponazzi,
per esempio, figura
ancora come promotore in
un dottorato del
2 luglio. Il peggio
venne dopo, quando
i veneziani il
18 luglio rioccuparono
il castello, e
cominciarono i saccheggi
e le vendette contro coloro
che di buon
animo o contro
voglia s'eran com- promessi coi «
tedeschi ». Una
delle famiglie maggiormente colpite fu
quella dei Trapolin.
Alberto e Roberto,
fratelli del filosofo, furon
presi prigionieri nella
riconquista del castello. Ma
già due giorni
prima le loro
case e quella
di un altro
loro fratello, Nicolò, furono
saccheggiate. Ed anche
la casa di
Pietro, che era nella
contrada di san
Leonardo, non lontano
dai Car- mini, non fu
risparmiata, i suoi
scritti dispersi, e
il figlio Giulio il
14 agosto fatto
prigioniero e spedito
a Venezia con
altri compa- gni (v. sopra,
p. 172). Il
governo veneziano fu
abbastanza cle- mente con molti
di coloro che
s'erano sottomessi al
dominio im- periale su Padova;
ma fu implacabile
con quattro dei
maggiori responsabili di favoreggiamento, che
il sabato i^
dicembre 1509 mandò al
capestro: «Primo era
Alberto Trapolin, fo
fradello di misser Pietro
dotor excellentissimo, el
qual Alberto era di
XVI al governo
di Padoa, homo
di gran inzegno,
et anche suo avo
fo apichato a
Padoa a tempo
di la novità
di misier Marsilio di
Carrara dil 1437.
Il secondo era
Lodovico Conte.... Il terzo
Bertuzi Bagaroto, dotor,
qual lezeva puhlice
in iure canonico.... Il
quarto, Jacomo da
Lion, dotor, el
quale fé' la oration
a l' imperator, quando
se deteno i
padoani, ne la
qual dice gran mal
de' veneziani» (M.
Sanudo). Fu in questo
periodo di rappresaglie
e specialmente quando alla
fine di settembre
le truppe imperiali
tornarono ad assediare la
città, che molti
cittadini si allontanarono
da Padova e insieme
ad essi molti
maestri dello Studio.
Fra questi certamente anche il
Pomponazzi, il quale
sulla sua cattedra
di Padova non fece
più ritorno. E Marcantonio
Zimara ? Si
dice da alcuni
che lo Studio rimanesse chiuso
per otto anni,
fino al 1517.
Ciò non è del
tutto esatto. Dagli
Ada graduum presso
l'Archivio esistente della Curia
Vescovile di Padova
(voi. 49), risulta,
per esempio, in modo
indubbio, che 1'
8 maggio 1510
Matteo Binno de Tomasis,
figlio del chirurgo
Mastro Giacomo, fece il
dottorato in artihus
(f. 4v), che
1' 11 febbraio
1511 fece il dottorato
in iure civili
Marco Mantova (f.
45), che il
2 dicembre dello stesso
anno Girolamo Oldoini
fece anch'egli il
dottorato in artihus (f.
84V), e che
il 13 ottobre
1512 s'addottorò in artihus
il magnifico Francesco
del fu Gabriele
Morosini (f. I2ir). Sappiamo ugualmente
di altri conferimenti
di laurea sia in
arti e medicina,
come in diritto
e in teologia.
Lo Studio patavino, dunque, anche
negli anni successivi
al 1509 e
ai fatti accennati, continuò
a funzionare; ma
evidentemente in modo ridotto,
e meno intensa
fu la sua
vita. Ciò si
constata in modo palpabile esaminando
gli stessi Ada
gradimm, e più
ancora gli Atti del
« Sacro Collegio
degli Artisti e
Medici » (Arch. deirUniv. di
Padova, presso quel
Rettorato, fase. 321),
ove tra il 1509
e il 1512
è un salto.
Di Marcantonio Zimara
nessuna traccia in questi
Atti, per questi
anni, se ho
ben veduto. Parrebbe, dunque,
che anche lui
se ne fosse
andato. Dove ? L'edizione
dei Quodliheta dell'Hervaeus
che uscì a
Venezia, «per Georgium Arrivabenum,
1513, die primo
octobris », ed è
curata e postillata
dallo Zimara, potrebbe
far pensare che questi
nel 1512-1513 fosse
a Venezia. Ma
la lettera con la
quale dedica la
sua fatica allo
zio Pietro Bonuso
mi induce a dubitarne.
Dice infatti in
essa che già
da otto anni
è lontano dalla patria.
E aggiunge: «Ego
enim, postquam Patavium, bonarum artium
fontem, applicui, ita
impensam die noctuque philosophie studio
operam navavi, ut
hinc recesserim nunquam....
Anno tamen elapso
sarcinulas collegeram, accinxeram
me itineri ad
te advolaturus, quando,
preter spem, accademia nostra
ad dignissimam me
philosophie lectionem totis cervicibus
succollavit ». Ora
se egli si
laureò in artibus nell'agosto 1501,
bisognerà pensare che
a Padova fosse
andato almeno un quattro
anni prima, cioè
al più tardi
nel 1497. La lettera
dovrebbe quindi essere
del 1506. E
i conti infatti tornano: «anno
elapso», cioè nel
1505 egli dovette
essere chiamato, « preter
spem », alla
« lettura »
straordinaria di filosofia naturale.
Sebbene dunque l'edizione
dei Qiiodlibeta dell' Hervaeus
uscisse alla luce
il primo ottobre
1513, essa era già
stata preparata e
consegnata all'editore veneziano fin
dal 1506. Alla guerra
contro la lega
di Cambrai tenne
dietro quella della lega
sacra, e la
Lombardia, la Romagna
e 1' Emilia
furon corse da milizie
francesi, spagnole e
papali. Lasciata Padova, ove
aveva nutrito la
speranza di farsi
strada e di
accrescere lo splendore della
sua famiglia, non
fu facile al
povero filosofo trovarsi un'altra
cattedra a Ferrara
o a Bologna,
com'era stato facile al
Peretto mantovano. Perciò
egli dovette decidersi a
ritornare fra i
suoi a S.
Pietro in Galatina,
ove effettivamente nel 15
14 lo
troviamo sindaco e
già ammogliato con una
tal Porzia, secondo
le notizie raccolte
da Alessandro Tomaso Arcudi
4 e da
Baldassar Papadia 5,
i quali prendono queste notizie
dalla Cronaca di
S. Pietro in
Galatina lasciata manoscritta dal
medico filosofo e
letterato Silvio Arcudi, morto
a 72 anni
nel 1646. Prima di
rimetter piede nella
terra natale, o
appena vi fu arrivato,
egli dovette pensare
a propiziarsi Giovanni
Castrioto, duca di
Ferrandina, sotto la
cui giurisdizione, per disposizione del
governo spagnolo, si
trovava S. Pietro
in Galatina. A quest'uopo
mise insieme il
curioso trattatello dei Prohlemata e
lo dedicò al
principe. Non mi
consta che lo facesse
stampare; io ne
conosco solo l'edizione
che ne fu
fatta a Venezia nel
1536 ed altre
posteriori. Nella dedica
appunto al duca di
Ferrandina egli dice
di ammirare in
lui sopratutto (( charitatem
qua literatos amplecteris,
hac tempestate qua oh
bellorum importunitates pax
una cum litteris
inferire visa est ».
Siamo dunque negli
anni che tengon
dietro al 1509.
E poiché Castrioto morì
il 2 agosto
1514, il libretto
è certamente anteriore
a questa
data. Sindaco della piccola
sua città natale.
Marcantonio si trovava a
rappresentare quella comunità
nella cauta ma
energica difesa delle istituzioni
e dei privilegi
di essa contro
le soperchierie di
Ferdinando Castrioto, successo
a Giovanni. Intanto, un
anno dopo, nel 15
15, gli
nasce il figlio
Teofilo, del quale diremo
fra poco. Arcudi parla anche
d'un altro figlio avuto
prima, Nicolò, il
quale fu dottore
in leggi a Roma,
ove testò nel
1569. Altri due
figli dovettero nascergli più
tardi. Ma le
cure familiari e
quelle pubbliche non
lo distolsero del tutto
dagli studi. Usceno
a Venezia, curate da
lui, per gli
eredi di Ottaviano
Scoto, le seguenti opere
di Alberto Magno
« in via
peripathetica philosophi theologique
profundissimi: Naturalia ac
supernaturalia (cioè la
Fisica, il De
generatione et corrupfione,
il De metheoris, il
De mineralihus, il
De anima, il
De intellectu et intelligibili e
la Metafisica), accompagnati
da molte annotazioni marginali; i
Parva Naturalia e gli Opuscula
(nella dedica a Marcantonio
Venier del fu
Cristoforo, lo Zimara
parrebbe 4 Galatina letterata,
Genova. 5 Op.. cit..
pp. 57-58. MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA dichiarare
che le sue
« castigationes et
lucubrationes » si limitano
al De
causis, ma verosimilmente sue
sono anche quelle apposte al De natura
locorum); e le
Due partes Summe....
de quatuor coèvis. Nell'edizione
di quest'ultima opera,
apparsa il 30 settembre
1519, lo Zimara
è detto «
philosophiam Padue publice profitentem
», espressione che
forse va intesa
così « dum philosophiam
Padue publice profitebatur
». Poiché sembra poco
probabile che in
quegli anni egli
fosse tornato a Padova
6. Dov'era, dunque ? Quasi certamente
a Salerno, chiamatovi da
quel principe Ferdinando
Sanseverino che amava
circondarsi di uomini dotti
e dava impulso
al rifiorire degli
studi nella sua città.
Infatti nella dedica
allo stesso Sanseverino dei Theoremata
compiuti e pubblicati
a Napoli nei
primi mesi del 1523,
egli dice: «
Animadverti hoc ipsum
superioribus annis.... dum philosophiam
Theoricamque medicinae publice in
tua Salerno profiterer
». A Salerno aveva
insegnato anche il
Nifo, dopo ch'ebbe lasciato Padova.
Lo Zimara accenna
ad un insegnamento
di più anni in
questa città, e
ci fa sapere
che, oltre alla
filosofìa, vi avea professato
anche la medicina
teorica. Tuttavia il suo
animo era rivolto
a Padova. Dopo i
fatti del 1509,
dei quali abbiamo
fatto cenno, lo studio
padovano condusse per
più anni una
vita stentata. Gli scolari
eran molto diminuiti,
non essendo attratti da maestri
di grande rinomanza.
La città, che
dall'affluenza della
popolazione scolastica traeva
lustro e vantaggio,
reclamava a gran voce
che si provvedesse
sollecitamente al bisogno,
per il rifiorire dell'università, perché
« sia ritorna
il Studio come
era prima» (Sanudo). E agli
oratori padovani che
questo chiedevano con
insistenza fu risposto dal
Principe: «eramo contenti, e
si pratichi di
condur li dotori,
perché nostra inten6
Però riferisce M.
Sanudo, che Marcantonio Loredan,
capitanio a Padova,
venuto in Collegio
a Venezia, informò come
nello studio di
Padova erano a
quel momento « 22
dotori che leze
artisti e 26
giuristi, e portò
una letera per
certo dotor verìa a
lezer. Scrive ha
fato perteghe 21
mila 800 ».
Se per avventura questo «
dotor » fosse
lo Zimara, bisognerebbe
pensare che egli si
fosse sobbarcato nel 15
19 al
lungo viaggio a
Venezia, sia per
sorvegliare la stampa di
Alberto Magno, sia
per condurre in
porto le trattative per la
« lettura » a Padova. 336 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI zion è di ritornar
il Studio »
; la quale
assicurazione fu rinnovata il
21 dello stesso
mese. Anzi, narra
il Sanudo che, dovendosi
comenzar il Studio a
Padoa, fo eletti
tre doctori, quali
dovessero praticar condur li
doctori a lezer
che fusseno excelienti;
i quali doctori sono
questi: sier Zorzi
Pixani, sier Marin
Zorzi, et sier
Antonio Zustinian. Sono ballotati
in Collegio i
rotuli dei maestri
chiamati a leggere
sia nella facoltà
di legge come in
quella delle arti
e medicina (XXIV,
672). Pareva ormai che
le cose si
mettessero bene. Per
la filosofia «
al secondo loco »,
era stato chiamato
da Ferrara Nicolò
Prisciano ed era stato
promosso il veronese
Girolamo Bagolino. Ma
il duca estense sollecitava
nel marzo del
1520 il Prisciano
a tornare « a
lezer a Ferrara
» (XXVIII, 333,
9 marzo 1520)
; se non che
il maestro di
lì a poco
morì, e fu
necessario provvedere alla sua
successione. Il 14 settembre
1520, riferisce il
Sanudo, « fo
scrito a Roma a
rOrator nostro, come
de lì si
ritrova el Spagnolo
[cioè Montesdoch], qual
leze l'ordinaria di
philosophia, il qual alias
desiderava venir a
lezer a Padoa
al primo loco: per
tanto, havendo optima
fama, vedi si
'il persevera in
voler venir, et concludi
con più avantazo
el poi etc. Questo
maestro, ancor poco
conosciuto, era stato
collega di Alessandro Achillini
e più tardi
del Pomponazzi a
Bologna, ma aveva dovuto
abbandonare quella città
nell'estate del 1515. Non
sapevamo dove fosse
andato. Il Sanudo
ora ci fa
sapere che era andato
lettore di filosofia
a Roma, non
essendo stato accolto a
Padova. Mentre si cercava
di avviar pratiche
per condurre lo Spagnolo,
pare si
fosse pensato anche
al « Mantoan
», cioè al Pomponazzi
che era
a Bologna; e il consigliere
Marco Minio suggeriva il
nome di Branda
Porro, che leggeva
filosofia a Pavia, ov'era
stato alunno di
Tiberio Bacilieri (M.
Sanudo, XXIX, 268, 3
ottobre 1520). Ma
li studenti, nell'incertezza di
avere valenti maestri, abbandonavano
Padova e anche
quelli che s'apparecchiavano al
dottorato andavano «
a conventar altrove »,
in barba alla
legge, quand'erano sudditi
della Serenissima. Sicché
i rettori di Padova, Marin
Zorzi, podestà, e
Alvise Contarini, capitanio, MARCANTONIO E
TEOFILO ZIMARA scriveno il
Studio va in
mina, per non
vi esser doctori che
lezano, e li
scolari forestieri vanno
via, e li
nostri subditi, non stimando
le leze, non
voleno più star,
non avendo doctori da
i quali possano
udir.... » {Ib.,
348). L'allarme indusse i
Savi del Consiglio
e Terra ferma
a prendere una decisione
sulla proposta « di condurre
a lezer nil Studio
di Padoa.... domino
Zuan Montesdocha, Ispano,
leze a Roma, a
la lettura dil
primo locho di
Philosophia, cum salario fiorini 600
a l'anno.... Et
domino Marco Antonio
Ziniara, San Petrinas, di
terra di Otranto,
leze a Salerno
a la ordinaria di
teorica overo praticha
di Medicina, con
salario fiorini 300 a
l'anno » [Ib.). Presa
la decisione, le
trattative col Montesdoch
furon portate sollecitamente a
termine ; quelle invece
con lo Zimara andaron per
le lunghe. Con
l'andata a Padova
dello spagnolo, che godeva
di meritata fama,
lo Studio parve
rifiorire. Il che fece
piacere al governo
veneziano, che, il
13 maggio 1521, s'affrettò ad
informare i due
rettori di Padova
« come li
Riformatori dil Studio [che
erano allora Zorzi
Pisani, Francesco Bragadin, Antonio
Justinian, par habino
auto aviso domino Marco
di Otranto è
per venir, però
a visi li
scolari» [Ib., XXX, 181). Se
non che, a
questo punto, debbo
segnalare un' indicazione che trovo
nel già citato
cod. Ambros. S.
Q. -(-. II.
36, e che presenta
qualche difficoltà per
accordarsi con le
indicazioni precedenti. In questo
codice, prima della
Quaestio de regressu, attribuita allo
Zimara, ma che
invece è del
Pomponazzi, come ho detto,
v' è anche
(f. 229r) una
Quaestio de immortalitate
animae domini Marci
Antonii Zimarae Venetiis
discussa corani Duce et
Senatoribus, la quale
è cosa diversa
dalla Quaestio sullo stesso
argomento nel cod.
Parigino, Bibl. Nationale, ms. lat.,
di cui dirò
più giù. La
Quaestio Ambrosiana è assai
più succinta. In
essa son ricordati
il cardinale di
S. Domenico, cioè il
Gaetano, « et
praeceptor meus »,
che è il Pomponazzi
(f. 23ir-v). Alla
fine si legge. Gratias itaque ago
dominationibus vestris quae
dignatae sunt nostrae
lectioni adesse. Haec dieta
sufficiant de ista
difficillima quaestione, et fuit
punctus Pascatis domini
nostri yesu christi. finis
». Orbene la Pasqua cadde
non il 31
marzo, ma 1' 8
aprile. Invece l'anno
successivo 1521 la
Pasqua cadde proprio 22 l'ultimo di
marzo. Dunque nel
manoscritto Ambrosiano, che è
una copia di
mano di fra
Zaccaria da Milano,
del 1553, v' è
certamente un errore
di trascrizione. Supponendo che
per la Pasqua
Zimara fosse venuto da
Salerno a Venezia,
per saggiare il
terreno, egli potrebbe avere
avuto abboccamenti coi
Riformatori della Studio, onde
conoscere meglio le
condizioni che il
Consiglio era disposto a
fargh, parendogli pochi
300 fiorini; e
quindi, ripartito per Salerno,
in maggio avrebbe
fatto sapere di
esser disposto ad accettarle
e ad assumere
l' insegnamento a Padova. Tutto
questo, ben inteso,
presupponendo che la
Quaestio veneziana de immortalitate
animae sia davvero
dello Zimara, Ma ormai
era tardi, poiché,
mentre al primo
luogo leggeva l'ordinaria di
filosofìa il Montesdoch,
al secondo luogo
era stato chiamato da
Pavia Branda Porro.
Per il momento Zimara doveva
rinunziare a Padova
e restarsene a
Salerno^ Ma il 16
marzo 1523 lo
troviamo lettore di
Metafisica nelle scuole pubbliche
di S. Lorenzo
a Napoli, Ciò
appare dalla expiicit dei
Theoremata usciti a
Napoli a questa
data, con un epigramma
di Pietro Gravina:
«Compievi hoc opus
Neapoli, anno Domini Millesimo
quingentesimo vigesimo tertio,
dum scientiam divinam publico
stipendio legerem apud
sanctum Laurentium, sub regimine
Reverendi patris Fratris
Antonini de Antorosa de
Neapoli cui ego
plurimum debeo ». A
Napoli forse egli
era già l'anno
precedente, quando, secondo Arcudi 7 e Papadia,
il filosofo e
il suo conterraneo,
il giurista Vernaleone,
sarebbero stati inviati
dalla comunità di Galatina,
per protestare presso
il vice-re contro
i soprusi di Fernando
Castrioto, e per
chiedere che fossero
rispettati i suoi antichi
privilegi. L'Arcudi anzi
riferisce una lettera dello
Zimara « Nobilibus
Magnificisque viris Sindico et
Regimini Universitatis S.
Petri in Galatina
», per esortare
i suoi concittadini
a mantenersi calmi ed
attendere con fiducia. Ma
anche da Napoli
il suo pensiero
doveva esser rivolto a
Padova; e l'occasione
di tornarvi si
presentò nell'estate del 1525,
quando Montesdoch chiese
al Senato veneziana licenza di
andarsene, e questo
glie l'accordò. Pietro Bembo
in due lettere
a Gian Batt.
Rannusio ci fa sapere,
non senza amarezza, come le
cose andarono. Giovanni Montesdoch
a Padova era
tenuto in grande
considerazione ed era riuscito
a farsi un
nome, secondo la
testimonianza del Bembo, quale
non aveva avuto
prima. Ma non debbono
essergli mancate accuse
per la sua
spregiudicatezza neir
interpretare Aristotele, sì
da parte degli
averroisti sì da parte
dei teologi, se
è vero quanto
egli stesso ci
fa sapere in una
lezione del 1525
sul terzo del
De anima (Parigi,
Bibl. Nation., ms. lat.
6450, pp. 139-40):
« Cum isti
fratres vident philosophum, dicunt:
haereticus est; ut mihi
olim accidit, dum disputarem
in capitulo generali
fratrum S. Dominici...; et
quia eos male
tractabam, dixerunt 3*^
die, me esse
haereticum ». Non so se
per queste ragioni,
oppure, come insinua
il Bembo, nella lettera
a Gian Batt.
Rannusio del 17
agosto di quell'anno, per ottenere
l'offerta d'un aumento
di stipendio, senza farne
aperta richiesta, il
maestro spagnolo chiese
licenza d'andarsene altrove. Il
Bembo, che pure
era informato dei maneggi
per condurre il
Montesdoch a Pisa,
ove poi effettivamente andò con
lo stipendio di 800 fiorini,
sperava che con l'offerta
di « cento
ducati d'aumento »
lo si potesse trattenere con
vantaggio dello Studio
padovano, poiché dopo la
morte del Pomponazzi
si prevedeva uno
spopolamento dello Studio bolognese
: « Se
lo Spagnolo resta,
questo anno averemo qui
la maggior parte
degli artisti dello
studio di Bologna. E
già il Sig.
Ercole Gonzaga, fratello
del Marchese, che è
stato forse tre
anni o più
a Bologna per
udire il Perette,
fa cercar casa qui,
per venir ad
udir costui» [Ib.). Ma
le cose non
andarono secondo il
suggerimento e il
desiderio del prelato, che
arrivava a cose
fatte; poiché Marin Sanudo
(voi. XL, col.
34) ci fa
sapere che era
già stato « posto,
per li ditti
[Savii del Conscio
e Savii di
terra ferma], condur a
lezer in ditto
Studio [di Padoa]
in philosophia domino
Marco di Otranto,
qual ha lecto
in molti Studi, videlicet in
la lectione de
philosophia, per do
anni di fermo et
uno de rispetto
in libertà di
la Signoria nostra
con salario di fiorini
450 a l'anno
». La decisione rimasta
segreta dovette divulgarsi
alla fine 8 opere,
Venezia, e il
Rannusio non tardò
a informarne l'amico. Il
quale gli rispose
da Padova esprimendogli
il suo disappunto. Da questa
lettera si rileva
che responsabili del
negato aumento al Montesdoch
e della chiamata
dello Zimara furono i
due patrizi veneziani
Marin Zorzi e
Francesco Bragadin, riformatori dello
studio di Padova,
i quali si
avvicendarono per molti anni
in questo ufficio
con altri patrizi
che avevano fatto gli
studi a Padova
e vi avevano
conseguito il titolo
di « dotor
». E il risentimento
del Bembo si
rivolge specialmente contro
il primo dei due
riformatori: « M.
Marino ha voluto
guastar questo bello ed
onorato Studio, di
cui egli è
guardiano; e gli è
molto ben venuto
fatto il pensiero.
Se le altre
sue imprese così bene
gli succederanno, sarà
felicissimo. Non parlo
di M. Francesco, percioché
io intendo da
ogni lato, che
il voler condur qui
codesto Otranto è
solo invenzion di
M. Marino, e non
di lui. Il
quale Otranto è
già da ora
tanto in odio
di questi scolari tutti
dall'un capo all'altro,
che se ne
ridono con isdegno. Perciocché
dicono che ha
dottrina tutta barbara
e confusa, ed è
semplice Averroista; il
quale autore a
questi dì assai si
lascia da parte
da i buoni
dottori ed attendesi alle sposizioni
de' commenti Greci,
ed a far
progresso ne' testi. E
costui pare che
sia tutto barbaro
e pieno di
quella feccia di dottrina,
che ora si
fugge, come la
mala ventura. Siate
sicuro, che questo povero
studio quest'anno, quanto
alle arti non avrà
quattro scolari oltrequelli
del nostro dominio,
che ci staranno mal
lor grado, e
sarà l'ultimo di
tutti gli studi
». E più giù : Questi sono
i governi e
giudicii di M.
Marin Giorgio, che pare
appunto, che porti
odio a tutti
quelli, che sanno le
belle e buone
lettere, o che
le vogliano apparare
e sapere ». Anche
di Sebastiano Foscarini,
che più volte
coprì la carica di
riformatore dello Studio
padovano e dimostrò
« rara dottrina »
nello esporre a
Venezia, nelle scuole
di Rialto, «
le cose diffìcili di
Aristotile e di
Averrois il gran
commentatore, Bembo
pronunzia, in una
lettera allo stesso
Rannusio, un giudizio analogo:
«il qual Foscarini non
so come par
che sempre abbia
avuto in odio
tutte le buone lettere
in ogni facoltà
». ' A. ZhNO,
in «Giorn. de'
Letterati d'Italia. t" Opere.] Bisogna però
riconoscere che, l'una
e l'altra volta, Bembo scriveva con
l'animo irritato, per
le difficoltà che,
tanto Zorzi quanto il
Foscarini, opponevano a
due suoi raccomandati. A questo
s'aggiunga che il
patriziato veneziano era
stato in gran parte
educato, per quanto
concerne la filosofia,
alla tradizione
aristotelico-averroistica, e che
a questa si
mostrava assai attaccato, come
provano numerosi documenti.
Il Bembo, invece, veniva
dalla scuola di
retorica ed era
insomma un « umanista
», e piuttosto
che sobbarcarsi allo
studio della filosofia aristotelico-averroistica, rinunziò
al titolo di
dottore i>i artihus, del quale invece
s'adornava suo padre,
Bernardo, « dotor e
cavalier ». In
lui l'avversione per
l'aristotelismo e
l'averroismo, ereditata dal
Petrarca, era, potremmo
dire, congenita. Come gran
parte degli umanisti,
egli non ebbe
mai il gusto per
i problemi della
filosofia e della
scienza che appassionavano i maestri
e gli scolari
della facoltà delle
« arti ». Il
suo aspro giudizio
su « codesto
Otranto » è
espressione di un conflitto
più vasto, non
ancora risolto, nel
pensiero del Rinascimento, che vide
coabitare tra le
mura della stessa
città Pietro Bembo e
Marcantonio Zimara.
Titolare della «
lettura » ordinaria
di filosofia [i.a
poTrf) nxXq Seuxépac?
yoù acù(jLaTOct.S£CTt
^coaig) 30, è
detta uscire fuori
di sé {slq
tÒ e^co Trpotcóv)
3', con frase che
curiosamente ricorda un'analoga
espressione hegeliana. La mente
che permane in
se stessa, in
un atto contemplativo che dura
eterno, è identificata
da Simplicio con quello
che fu detto
1' « intelletto
agente » che
è atto sostanziale per sua
natura e « non intende
ora sì ora
no », come s'esprime Aristotele
32; invece la
mente in quanto
esce fuori – GARIN (vedasi), PICO (vedasi). Vita
e dottrina, R. Università
degli Studi di
Firenze. Facoltà di
Filosofia; Firenze; N.,
Sigieri di Brabante nel
pensiero del Rinascimento
italiano. Roma, Edizioni Italiane; Individualità
e immortalità nell'averroismo e nel
tomismo, Archivio di
Filosofia. Organo dell'
Istituto di Studi Filosofici
», voi. dedicato
al Probletna dell'
immortalità, Roma. 28 Sigieri
di Brab. Simplicio. Arist., De
anima, III, e. 5, 43oa
22. 376 di sé s' identifica
con l' intelletto in
potenza o intelletto
possibile o passivo. Il
conoscere umano comincia
dall'esperienza sensibile, e consiste
in una liberazione
progressiva dalla passività e
nel ritorno (àvaSpo^xv))
alla pura contemplazione del. mondo
ideale 33. Questo concetto
di un intelletto
che permane in
se stesso,, e, uscendo
da sé, s'unisce
al mondo della
sensibilità per ritornare a
sé, in un
circolo eterno, sedusse
il signore della
Mirandola, intento a risolvere
il problema averroistico
della « copulatio
», ossia del
congiungimento dell'unico intelletto
colr individuo, che
era stato il
problema di Sigieri,
anzi dello stesso Averroè
34. Questo problema doveva
essere assillante nel
suo animo. Il Nifo
narra a questo
proposito l'episodio d'un
incontro con lui e
di una discussione.
Il Suessano, che professa filosofia a
Padova, aveva avuto dal
suo alunno Girolamo
Bernardo, di famiglia patrizia
veneziana, un esemplare
della Destrttctio
destructionum Algazelis di
Averroè, che pochi
conoscevano, e stava preparandone
un commento che,
iniziato nel 1494,, fu
stampato a Venezia.
Un passo di
Algazele fermò a. lungo
l'attenzione di lui.
Diceva il filosofo
arabo; Forte aliquis diceret,
quod opinio Platonis
est vera, videlicet quod anima
est una et
antiqua, et dividitiir
divisione corponim, et in
corporea separatione redit
ad suam radicem
et unitur. Due cose
sono notevoli in
questo passo d'Algazele:
anzitutto, che la dottrina
dell'unità dell' intelletto
venga attribuita a Platone;
indi, che vi
s'accenni alla possibilità,
intravista da alcuni, di
conciliare la tesi
dell'unità con quella
della molteplicità numerica e
individuale delle anime.
Ora il Nifo racconta
com'egli, abbattutosi nel
conte della Mirandola,
che insieme a lui
era diretto in
dihgenza alla volta
di Bologna, ebbe a
palesargli i suoi
dubbi su quest'argomento. E
il Mirandolano, che
evidentemente la pensava
come di Platone riferisce Algazele,
cercò di far
capire il suo
pensiero al com33
Simplicio, p. 240
sgg. 34 B. Nardi,
Introduzione a S.
Tommaso d'Aquino, Trattato
sull'unità dell'intelletto
contro gli averroisti.
Firenze, Sansoni] pagno di
viaggio con questo
curioso paragone. Come
per costruire una volta
o un arco
fa mestieri di
quella impalcatura di legno
che li sostenga
e che dicesi
centina; ma poi,
quando son costruiti, la
volta e l'arco
si reggon da
sé, senz'armatura; così una
sola idea di
tutte le anime
sorregge ed aiuta
ognuna di esse a
venire all'esistenza, via
via che per
virtù di generazione si formano
i loro corpi;
quando poi il
corpo vivente è già
formato, rimane in
esso un'ombra o
vestigio che dicesi anima.
Alla morte del
corpo, le anime
singole ritornano al loro
« semenzaio »,
che è quell'unica
idea della quale,
nella loro individualità particolare,
erano ombra, vestigio
e riflesso 35. Per
Platone dunque, quale
era inteso da
alcuni prima d'Averroè,
e quale piaceva
al Pico d' intenderlo, tutte
le anime singole sono
un'anima sola nella
loro «radice»; sono
invece molte, in quanto
suoi germogli nei
corpi, ossia in
quanto l'anima che è
una in sé si comunica
e si propaga
negl' individui della specie
umana, uscendo, come
diceva Simplicio, fuori
di sé. Anche a
fare un po'
di tara sui
particolari' del racconto
del Nifo, la sostanza
del racconto sembra
conforme allo spirito della
filosofia pichiana, nel
momento in cui
il Mirandolano, senza rinnegare
il suo averroismo
del periodo padovano,
s' industriava di svolgerlo in
senso platonico. Non saprei
se dal Pico
o da altri
il Suessano abbia
avuto notizia del commento
di Simplicio al De anima.
Certo è che egli
ricorda più volte
l' interpretazione
simpliciana della dottrina aristotelica in
opere composte a
Padova prima del
1498, prima di lasciare
quello studio. Una
di queste sono
i Collectanea super lihros
de anima, che
il Nifo aveva
approntato per la pubblicazione, nel
1498, e mandato
a Baldassare Miliani, patrizio partenopeo,
coli' intento che
ne accogliesse la
dedica, e all'abate Roselo
Salinatore, suo concittadino,
per averne il giudizio
Essi furon pubblicati,
con dedica del Nifo
al Mihani, dall'editore
veneziano Alessandro Calcidonio,
mentre l'autore, se
la sua asserzione
merita fede, aveva 35
Nifo, In librum
Destructio destructionum Averrois
commentari!, disp. I,
dub. 8; cfr.
disp. IV, dub.
7. I Collectanea furono
stampati dal Nifo una
prima volta, e
di nuovo insieme
al suo nuovo commento. L'ultimo
dei Collectanea, assai
prolisso, ma ricco
d' importanti notizie, riguarda
il famoso t. 36 del
terzo libro del
De anima, e la
non meno famosa
digressione d'Averroè intorno
a questo testo. stabilito di
non darli alla
luce prima che
fossero trascorsi i nove
anni oraziani dalla
loro composizione; sì
che si può
pensare che essi siano
una delle prime
fatiche del suessano
poco più che ventenne. Ora in
principio di questi
Collectanea sul terzo
libro, il Nifo accenna
alla questione dibattuta
fra gli espositori,
cui si riferisce la
seconda delle «
conclusiones » di
Pico « secundum Simplicium », di quale
intelletto Aristotele intenda
parlare in questa terza
parte della sua
opera: Verum circa intentionem
huius tertii apud
expositores fuit difficultas non
parva. Primi enim
expositores, quos impugnare videtur lamblicus,
sentire [videntur] intentionem
huius esse de intellectu
imparticipabili, qui actu
est summus ac
vita essentialiter optima
et per se ab anima
separabihs. Ad quos
obiicit lambHcus et inquit:
« Quidnam et
qualis separabilis ab
anima intellectus, et quod
prima substantia et
impartibilis et optima vita
et summus actus
et idem intellegibile
et intellectio et
intellectus et eternitas et
perfectio et quies
et terminus et
causa omnium, 12. Metaphysice
dictum est. Non
ergo et hic
de Deo pertractandum. Sed
hoc lamblici argumentum
pace sua nihil
est.... Ideo et aliter
lamblicus inquit: «
Magis vero nunc
qualis quis a nostra
anima participatus intellectus
dicendum))39. Sed quid velit
lamblicus, SimpHcius laborat
exponere. Ubi debes
scire, quod duplex est
intellectus: participatus et
imparticipatus. Omnis enim forma,
scilicet quae idea
dicitur, indivisibilis est
et terminus seipso; anima
autem est divisibilis,
ut reflexa ipsius
denotat actio: erit ergo
anima hominis vita
hominis secundum se
partibilis ac divisibilis. Verum,
prout intellectu participat,
in impartibilitatem cadit ac
in terminum et
indivisionem. Erit ergo
anima hominis vita hominis,
cuius intellectus est
forma. Anima
enim ipsa in-dividua est in
corpore, ut Stoici
inquiunt. Ut vero
particeps est intellectus, impartibilis
ac indivisibilis redditur
partitione et reditione. Differt
vero intellectus participatus
ab imparticipato : ille enim
non manet in
se, sed alterius
anime est forma;
imparticipatus autem in se
manet, ac per
se separatus est
et terminus. Et sic
imaginatur aliud esse
animam, et aliud
intellectum, lamblicus;
anima enim vita
est animalis humani;
intellectus vero forma erit
anime. Sed
quoniam lamblicus non
videtur differre a
Plotino, ideo, ut melius
lamblici opinio clarescat,
Plotini sententiam expedit enarrare. Erit ergo
ordo: deus forma
est intellectus; intellectus 37 Ciò
è dichiarato dal
Nifo alla fine
della prefazione premessa
all'edizione identica a quella
del 1503, a
quanto ho potuto
vedere. 2'-6, n.
13, 370, n.
8. 38 Cfr. Simplicio,
p. 217, 23-27. 39
Simplicio, vero anime;
anima rationalis vivi
humani. Erit ergo
intentio, apud lamblicum, huius
libri de intellectu
participato, qui forma est
anime rationalis, que
homo est, platonice
loquendo.... Alitar et post
hunc Simplicius. Intentionem
enim huius libri de
anima rationali dicit
esse. Imaginatur enim
aliud esse vitam hominis, et
aliud rationalem animam,
et aliud animam
totam ipsius. Vitam enim
appellat ipse cum
prioribus intentionem hominis, scilicet animalis
humani, que est
actus et perfectio
specilìcans hominem; rationalis
vero anima est
actus huius anime, sicut
lumen diaphani; ex
quibus duobus resultat
tota anima hominis. Erunt
ergo anime humane
partes due, scilicet
rationalis anima et vita
ipsa, qxie simul
totam hominis animam
constituunt. Est autem apud
ipsum duplex intellectus,
scilicet quo ad
divina copulatur anima, et hic forte
agens est intellectus;
alter quo ad materialia, et
hic quandoque potestate
et imperfectus existit, non
quia in se
non intelligit, sed
quoniam ab alio
scientiam habet, ut a
primo, et respectu
hominis quandoque et
perfectus est et completus,
et hoc quando
perfecte toti homini
unitur. Erit ergo intentio
huius [libri] loqui
de parte, idest
de anima rationali, qua anima
scilicet hominis intelligit
et sapit; idest,
de rationali anima, que
pars est anime
hominis, scrutandum.... 4°.
In questo passo
dei Collecianea, a
parte l' interpretazione più o
meno esatta che
il Nife ci
dà del pensiero
di Simplicio, è certo
che vi sono
frasi prese alla
lettera dal commento
di questo. Ora, nel
secondo commento che
il Suessano reca a
termine, maestro a
Pisa, avendo egli
modificato il suo modo
d'intendere, ci fa
questa confessione:
Animadverte, tamen in
Collectaneis nos dixisse,
de mente Simplicii,
intentionem Aristotelis hic
esse de anima
rationali que est pars
anime humane, cum
in greco eum
non viderim tunc. At
postquam eum legi
in proprio fonte,
reperi eum opinari
ut dictum est, et non ut
in Collectaneis dixi. E
non di meno
il commento di
Simplicio è ricordato
e discusso parecchie volte
negli stessi Collecianea,
nel corso del secondo
libro, con espressioni
le quali non
lasciano dubbio che l'opera
del commentatore greco
fosse familiare al
Nifo. Se questi pertanto
non la possedeva
in greco, vuol
direche la possedeva tradotta.
Questa traduzione, anteriore
d'un mezzo secolo a
quella di Giovanni
Fasolo, mi è
sconosciuta. Essa 40 Nifo,
De anima, Venezia,
Collect. ad t.
e. i. 41 Nifo,
ib., comm. ad
t. e. i. ad
ogni modo doveva
essere molto imperfetta,
sì da accrescere le
oscurità che sono
già nel testo
greco. Il Nifo
poi dovette affrontare la
lettura di Simplicio
con l'animo di
trovarvi una conferma alle
proprie idee sigieriane. Egli stesso
confessa di avere
per lungo tempo
aderito alla dottrina di
Averroè nell' interpretazione che
di questa dava Sigieri
nel Tractatus de
intellectu scritto in
risposta al Tractatus de
unitale intellecUis di
Tommaso. I capisaldi
di questa dottrina, che
Nifo dichiara d'avere
attinto al trattato
di Sigieri43, sono i
seguenti: i) l'intelletto
possibile è unico
per tutta la specie
umana) esso, per
attuare tutta la
sua potenza, ha bisogno
di trovarsi unito
in ogni momento
a una moltitudine d' individui umani
che gli forniscono
le specie sensibili, senza delle
quali esso niente
può intendere; 3)
l'unione tra r intelletto
possibile e la
« cogitativa »,
che è la
più alta facoltà dell'anima sensitiva,
è un'unione sostanziale,
e non semplicemente accidentale, come
pensavano altri averroisti,
sì che può dirsi
che l'uno e
l'altra son parti
ond' è costituita l'anima razionale
dell'uomo) l'anima razionale,
costituita dall'unione della cogitativa
coli' intelletto, che
in sé è
unico, può dirsi veramente
« forma informante
», e non
soltanto « assistente »
dell'uomo, tale cioè
che dà a questo il
suo essere di animale
ragionevole, contrariamente a
quanto asserivano altri averroisti,
i quali sostenevano
che l'anima intellettiva è soltanto
forma assistente. Questa dottrina
sigieriana è presentata
dal Nifo come schietta
farina del sacco
averroistico, senza che
sia fatto il nome
di Sigieri né
quello di Simplicio,
nel commento che il
suessano scrisse a
Padova sul dodicesimo
della Metafìsicae nell'esposizione della
Destructio destructionum (disp.
I, dub. 23;
IV, 7; XIV,
i, quaestio 4).
Invece nel De
intellectu essa è
esposta due volte: nel
lib. I, tr.
3, e. 16,
è presentata come
dottrina di Simplicio; nel cap.
18, come dottrina
di Sigieri tendente
a trovare una via
di mezzo «
inter latinos et
averroycos. Siccome m' è
già accaduto di
richiamare l'attenzione sulla
dottrina che il Nifo
attribuisce a Sigieri,
non è forse
inutile che con
essa si raffronti questo
riassunto che nella
stessa opera il
suessano 43 Cfr. B.
Nardi, Sigieri di
Brab., cit., p. 14.
43 I
luoghi del Nifo
sono riuniti nel
mio volume ora
citato. ci ammannisce, ancora
una volta, del
pensiero di Simplicio, prima di
averne conosciuto il
commento «in proprio
fonte»: Si rationales animae
erunt plures et
intellectus unus, sic
Simplicii erit positio.
Imaginatur enim
Simplicius, ex intellectu
et omnibus praecedentibus formis,
in corpore humano
praeviis, constitui
rationalem animam, quae
quidam est totum
quoddam constituens in esse
hominem. Et
quoniam cogitativa seu
sensitiva anima praecedens est
multiplicata, procul dubio
rationalis anima est numerata
per corpora. Quemadmodum
enim materia est
una privatione formarum in
se, et tamen
per formas partitur
et fit altera alteraque,
sicut altera atque
altera est forma;
sic intellectus unus potentiae
fit alius atque
alius, prout alteri
atque alteri sensitivae
unitur secundum esse;
et sic fiunt
plures animae rationales
secundum corpora, licet
intellectus sit unus. Et si
dicas: Ergo rationalis anima
est corruptibilis, concedunt
rationalem animam esse
corruptibilem totam ratione partis, quae
est totum praecedens
eam in corpore
humano; tamen intellectus in
se incorruptibilis est.
Est enim una
anima numero unius hominis:
cuius una pars
est intellectus incorruptibilis, et altera
pars est totum
quod praecedit, scilicet
sensitiva et vegetativa, quae est
unum faciens cum
intellectu. Et sic
totum id est corruptibile
ratione praecedentis partis;
intellectus autem sempiternus. Et
hoc sentire videtur
Aristoteles 12. Divmornm dicens: In quibusdam
enim nihil prohibet;
ut si est
anima tale; non omnis
», idest tota,
« sed intellectus;
omnem namque impossibile est f orsan
» 44. Ecce quo
pacto Aristoteles dicit
totam animam esse corruptibilem, sed intellectus
permanet. Et si dicis:
Quando corrumpitur totum,
ubi remanet intellectus ?
dicunt quidam quod
remanet in se,
sicut materia: quando enim
generatur homo, statim
accipit intellectum tanquam partem animae
suae; et quando
corrumpitur, perdit animam,
licet intellectus remaneat.
Et apud
Simplicium salvatur multitudo
rationalium animarum, et
quomodo rationalis anima
dat esse homini,
et salvatur sempiternitas intellectus.... liane positionem
multi credunt esse
mentem Platonis, que- madmodum Algazel. Inquit
enim: «Et forte
aliquis diceret, quod opinio
Platonis est vera,
quod anima est
una et antiqua, et
dividitur divisione corporum;
et in corporea
separatione redit ad suam
radicem et unitur
». Haec ille in
libro Destructio destructio- nuììi, dubio
octavo primae disputationis. Ubi Averroes,
in so- lutione illius
dubii, inquit: «Et
ideo anima Petri
et anima Gui- 44
Arist., Metaph., XII,
t. e. 17,
e. 3, io7oa
25-27. Allo stesso
modo intende questo luogo
d'Aristotele il Nifo,
In duodecinmm Metaphysices Arisf. et
Aver.... ad Antoniiim
lustinianum Patritium Venetiim
(Venetiis.... Die 30 lulii
1526; ma la
prima edizione a
spese di Al.
Calcidonio è del 1505),
t. e. 17.
In quest'opera degli
ultimi anni del
suo soggiorno pado- vano,
Nifo è ancora
s sieriano, ma
non cita Simplicio.] lelmi quodammodo
possunt dici una et eadem,
ut puta ex
parte formae, et sunt
multae alio modo,
videlicet respectu subiectorum.
Et ibidem, in
solutione dubii 23.
ait: « Omnes
communiter opinati sunt, quod
animae innovatio est
relativa, scilicet quod haec
innovatio est eius
adiunctio cum corporeis
possibiliter dictam
adiunctionem recipientibus, eo
modo quo praeparationes et po-
testates speculorum recipiunt
adiunctionem solis radiorum. Ergo ex
mente Averrois positio
haec videtur esse,
et non tantum Simplicii. Idem
etiam sentire videtur
Averroes comm. 38.
duo- decimi Divinorum.
Inquit enim: «Et
ex hoc quidem
apparet bene, quod Aristoteles
opinatur quod forma
hominum, in eo quod
sunt homines, non
est nisi per
continuationem eorum cum intellectu, quod
declaratur in libro
De anima ».
Ecce quo pacto piane
positionem hanc Simplicii
sentit Averroes, occasione
horum verborum et multorum
aliorum. Aliqui credunt
positionem hanc esse intentionein
Averrois, scilicet quod
rationalis anima sit composita
ex intellectu potentiae
et toto praecedente,
scilicet vegetativo sensitivoque :
ex quibus terminatur
ac conficitur forma quaedam
simplex, quae actu
est vegetativa, sensitiva
ac ratio- nalis; quae forma
sit hominis, secundum
esse multiplicata per homines
ac numerata, licet
intellectus sit unus
in se, ut
diximus. Questo il Nife
scriveva prima di
conoscere il testo
greco di Simplicio; ma
anche quando ebbe
tra mano l'esposizione simpliciana del
De anima nella
lingua originale, e
ne trasse vantaggio per
recare a termine
nel 1519, insegnante
a Pisa, il suo
ultimo commento sull'opera
d'Aristotele, stampato
insieme ai Collectanea,
corresse, sì, molti
errori e inesattezze in
cui era incorso
nelle opere giovanili,
ma per quel che si
riferisce all'interpretazione della
dottrina di Simplicio intorno all'unità
dell' intelletto possibile
e al modo
di unirsi di questo
coll'anima sensitiva, rimase
fermo nell'opinione che la
tesi del commentatore
greco fosse sostanzialmente identica con
quella d'Averroè45. E
sebbene fosse ormai
tra- scorso un ventennio da
che aveva lasciato
lo studio padovano, il
ricordo di quegli
anni lontani, in
cui gli pareva
d'aver tro- vato nella dottrina
di Sigieri un
modo plausibile di
risolvere gli argomenti tomistici,
e di Sigieri
discuteva con Pico
della Mirandola, sembra ad
un tratto ridestarsi,
sebbene in modo molto
confuso, nella sua
mente: Simplicius arbitratus est
omnium hominum intellectum
unum numero esse; rationales vero
(animas) prò hominum
numero 45 Nardi, Sigieri
di Brab. IL COMMENTO
DI SIMPLICIO AL
DE ANIMA multiplicari. Non
desunt qui positionem
hanc Avverei tribuant, ut
Rogerius et Suggerius
uterque Bacconitanus, Thomaeque coetanei. Hi
enim in eorum
libellis, quos adversus
Thomam scrip- serunt prò
defensione Averrois, non
modo positionem hanc
Averroi, sed omnibus graecis
expositoribus attribuerunt.
Questo inestricabile garbuglio
di nomi e
di idee era
tutto quello che il
Nifo, divenuto ormai
tomista a modo
suo e conte palatino, col
privilegio di fregiarsi
del titolo di
« Medices », conferitogli da
Leone ricordava del suo
insegnamento a Padova; ma
era un ricordo
che diventava di
giorno in giorno più
sbiadito e confuso
nel suo spirito
abbagliato dallo sfarzo delle
aule principesche e
tutto preso dalla
brama di procacciarsi privilegi
ed onori, senza
celare le tardive
fiam- melle che accendeva nel
suo maturo cuore
il seducente aspetto di
qualche bella cortigiana. Anche quando
Nifo ne fu
partito, a Padova
si continua per molto
tempo a studiare
il commento di
Simplicio al De anima
e ad interpretarne
il pensiero in
senso averroi- stico. Castellani
da Faenza, che
a Ferrara aveva
avuto per maestro il
bresciano Vincenzo Maggi
o Madio, alessan- drista, narra47
com'egli avesse trovato
il commento di
Sim- plicio oscuro ed involuto
nella maniera d'esprimersi,
e che anche dopo
la seconda e
la terza lettura
gli rimanevano pa- recchi dubbi. Ma
avendo avuto occasione
di recarsi a
Padova, trovò in questa
città uomini eminenti nello studio
della filosofia e
delle buone arti,
che gli chiari- rono appieno le
sue dubbiezze :
e Ita sane
complura Simplicii tenebricosa dieta
illustrarunt claraque et
apertissima red- diderunt ». Quale
idea il Castellani
si fosse fatta
della dottrina di
Sim- plicio intorno alla mente
umana, dopo averne
discusso coi dotti padovani,
si può capire
da questa esposizione
che egli 46 76.,
p. 44. 47 luLii
Castellanii, Faventini, In
libvos Aristotelis de
humano intellectii disputationes sive
lucidissimi commentarii ex
doctrina chri- stianorum auciorum
ac philosophorum antiquoriim
descripti. Ad Cosmum Medicem Florentinorum
ac Senensiuni ducem.
Venetiis, MDLXVII. Lib. I,
cap. 2, fol.
5v-yr. 384 ne fa e
che giova conoscere: Simplicius igitur,
atque ii qui
illuni praecipue sectantur
et eius sententiam explicant,
humanam nientem unani
tantum numero esse dicunt,
istamque in intelligentiarum ordinem
col- locant; tametsi eam
longe omnium infimam
et humano orbi assistere arbitrantur.
Quam etiam liomini
nequaquam dare esse affirmant
(ita loquuntur philosophi,
et saepe eorum
verbis facilioris doctrinae gratia
uti nos oportebit);
sed aliud statuunt genus animae,
quam Cogitativam vocant,
a quo informatur
homo : ex Cogitativa
enim et corpore
organico, tanquam ex
materia et forma, conflatur
liomo; ex mente
et homine, tanquam
ex nauta et navi,
nobilius quoddam atque
divinum compositum oritur, quippe quod
intellectus nobilissimam ac
divinam tantum homini operationem praebet. Come
già il Nifo,
dunque, anche questi
maestri padovani del tempo
del Castellani, facevano
risalire a Simplicio
la tesi averroistica dell'unità
dell' intelletto. Ma
mentre il suessano attribuiva a
Simplicio la tesi
sigieriana, un tempo
difesa da Paolo Veneto
e, piìi tardi,
d’Achillini, Bacilieri e
Taiapietra, secondo la
quale r intelletto unico
s'unisce alla cogitativa
in modo da formare
con questa una
sola anima individuale
e razionale che, tutta
intera, è forma
dell'uomo e dà
a questo il
suo essere di uomo,
i padovani cui
accenna il faentino
ritenevano, al contrario, che l'
intelletto s'unisce alla
« cogitativa »
soltanto come « forma
assistente « e
non come «
forma informante », ossia,
secondo l'espressione aristotelica,
« sicut nauta
navi «, Continua poi il Castellani,
sviluppando concetti accennati anche in
alcune delle stampata
a Parigi, in « Officina
Christiani Wecheli,
ispirandosi al Bessarione,
osserva molto giustamente, che coloro
che hanno bisogno
di confermare la
loro fede coH'autorità di
Aristotele, non sembrano
aver molta fiducia nella
parola di Cristo.
E un altro aristotelico
italiano, ma non averroista,
bensì alessandrista, Giulio
CASTELLANI (vedasi) da Faenza,
diceva che coloro
che esitano a
prender posizione e a
dichiarare il loro
pensiero per ciò
che riguarda i
problemi dello spirito umano,
per paura di
trovarsi in contrasto
colla fede, « profecto
huiusmodi homines ignorare
videntur, quam Christiana fìdes
et charitas a
philosophandi ratione distet, et
quam nullius sint
ponderis Aristotelis inventa
et argumentationes ad
sanctissimae religionis nostrae
decreta labefactanda ».
E conclude con un linguaggio
da gran galantuomo, senza falsi
pudori: « Audacter
igitur etiam possumus
de animi nostri substantia
ac perpetuitate disserere,
perpendereque diligenter
quid de eo
discernendum voluerit Aristoteles.
Si quideni cum nos
philosophamus, ex aliorum
sententia loquimur,
semperque, ut christiani,
Sacrarum Litterarum preciosissima monumenta pie
colenda et observanda
supponimus ». Ecco dunque
a che cosa
si riduce la
così detta «
dottrina della doppia verità
», della quale
si sono scandalizzati
gli storici moderni della
filosofìa. Non se ne scandalizzarono invece gl'inquisitori dell'eretica
pravità; ai c]uali
interessava mediocremente di sapere
come la pensasse
Aristotele. Ad essi
bastava di sapere che
sia gli averroisti
che gli alessandristi
non ponevano in discussione
le verità rivelate,
bensì la dottrina di
Aristotele. Che se
poi Aristotele non
s'accordava alla fede di
Cristo, tanto peggio
per lui; e
tanto peggio per
chi lasciava Cristo per
Aristotele. S'oda, per esempio,
quest'avvertenza che Polo
Loredan, patrizio veneziano, rivolge
al lettore nell'atto
di congedare per la
stampa il suo
commento al De
anima condotto secondo lo
spirito alessandrista del
Pomponazzi, del Porzio
e del Castellani, e
dedicato nel 1596
al serenissimo duca
d'Urbino, Francesco Maria da
Montefeltro: «Pie lector,
haec mea commentarla pie legito,
et tantum mentem
Philosophi hic interpretari
scito; et me
interpretem christianum et
Sanctae Romanae Ecclesiae
filium esse advertito,
et prò Domino
nostro lesu et Ecclesia
mori paratum habeto;
Aristotelem christianum non extitisse
notato, nec ipsum
Christiane scripsisse nec Christiane
expositum observato. Fidem
Christi Dei et Dei
filli tot tantisque
miraculis firmatam inspicito,
auctoritate Aristotelis non
indigeto, et si
quae veritatem catholicam turbantia legeris,
tamquam falsa et
ab Aristotele impio
prolata prò firmo et
indubitato habeto tenetoque.
Vale ». Perciò le
autorità ecclesiastiche, dai
primi anni del secolo
XIV in
poi, avevano finito
per acquetarsi a
siffatte dichiarazioni, e lasciarono
sia agli averroisti
che agli alessandristi la più
ampia libertà di
discussione e di
critica. Le difficoltà che i
dantisti trovano ad
intendere come Dante
possa aver messo nel
suo Paradiso, a
fianco d’AQUINO, un
averroista qual era stato
Sigieri di Brabante,
e farne l'elogio
che ALIGHIERI fa pronunciare allo
stesso Aquino, derivano da due
cose: primo, dal
non aver capito
la particolare natura della
filosofia di Dante;
secondo, dal non
aver capito che
cosa è stato l'averroismo. Questi commentatori
di Dante, invece
di guardare alla figurazione dantesca
in se stessa
e in rapporto
al pensiero del poeta
che pone Averrois che
'1 gran commento
feo tra gli spiriti
magni del nobile
castello, si son
lasciati forviare dalle raffigurazioni cui
accennavo in principio,
e nelle quali Averroè
è prostrato nella
polvere ai piedi
di S. Tommaso. A
queste figurazioni d' ispirazione domenicana
e tomistica parrebbe opporsi
invece quella d' ispirazione agostiniana
che Giusto dipinse, poco
prima del 1370,
nella cappella dei
Cortelieri annessa alla
chiesa degli Eremitani
a Padova, ove aveva
insegnato Gregorio da
Rimini. Dalle descrizioni
che un secolo dopo
ne lasciò Hermann
Schedel, in questo
affresco del Menabuoi Averroè
era dipinto a
fianco di Maestro
Alberto da Padova, teologo
eremitano, e del
beato Giovanni della Lana
da Bologna, filosofo
e teologo ed
anch'esso eremitano, morto.
Questo affresco deve
avere impressionato il
giovane eremitano Paolo Veneto
che pochi decenni
dopo, reduce anch'egli,
al pari di
Gregorio da Rimini,
dalle scuole di
Oxford e di Parigi,
e salito sulla
cattedra di filosofia
nelle scuole annesse al
convento agostiniano di
Padova, ispirò il
suo insegnamento alla dottrina
sigeriana, sforzandosi di
dimostrare in che modo
l' intelletto, unico per
tutta la specie
umana, riesce ad individualizzarsi nei
singoli. lAlla stessa
dottrina sigeriana s'
ispirano verso la
fine del secolo
XV, Pico della
Mirandola, Alessandro
AchiUini, NIFO (si veda), Bacilieri
e altri. L'averroismo che
ormai pareva avere
esaurita la sua vitalità
a Parigi
ed a Oxford,
sopraffatto dallo scotismo
e dall'occamismo, s'era
ridotto ormai nelle
sue due ultime
fortezze di Padova e di Bologna.
Accade ancora di
trovare qualche altro averroista
altrove, come Luca
Prassicio a Napoh,
che già vecchio intervenne nella polemica
fra Pomponazzi e Nifo.
Ma nel suo
rigido attaccamento al
testo averroistico, egli
parlava un linguaggio
che si faceva
di giorno in giorno
più incomprensibile. Anche a
Bologna, ove l'averroismo
sigeriano aveva trovato alla
fine del Quattrocento
nell'Achillini un difensore
ardito e destro, non
ebbe in Ludovico
Boccadiferro un successore degno di
tanto maestro. A
Padova invece l'averroismo
prese a rinnovarsi, sotto
la spinta del
Platonismo. E uscita a Treviso
la traduzione che
Barbaro aveva fatto
delle Parafrasi di Temistio. A
questo interprete bizantino e a Teofrasto,
Averroè stesso aveva
fatto risalire la dottrina
dell'unità dell' intelletto.
Non fa quindi meraviglia che
gli averroisti si
ponessero a studiare
con particolare interesse la
parafrasi temistiana del
De anima, nella 2l' aristotelismo padovano traduzione del
Barbaro, visto che
la traduzione medievale
di Guglielmo di Moerbeke
era diventata estremamente
rara, e del resto
era oltremodo ostica
all'orecchio degli umanisti. Ma
assai più della
parafrasi di Temistio,
contribuì al rinnovamento dell'averroismo padovano
la conoscenza del
commento di Simplicio al
De anima, rimasto
sconosciuto ai medievali. Il primo
che, a mio
parere, conobbe ed
usò il commento di
Simplicio al De
anima fu Pico
della Mirandola, il
quale ne estrasse ben
nove tesi delle
900 preparate nel
i486 per k disputa
da tenere a
Roma, che poi
non ebbe luogo.
Il commento di Simplicio
dovette attirare l'attenzione
del Pico, perché pareva
contenere un elemento
che poteva essere
pre— ^ zioso a risolvere
il problema centrale
dell'averroismo e che è
il problema centrale
di tutta la
filosofia, e cioè:
in che modo r
intelletto che è
un principio di
conoscenza universale e che
nella sua natura
trascende l' individuo, si
comunica a questo, puntualizzandosi nello
spazio e nel
tempo. Come ho
dimostrato più volte, il
significato storico ed
il valore filosofico dell'averroismo consiste
appunto nello sforzo
di risolvere questo problema,
che, posto dai
medievali in termini,
se vogliamo, contingenti e per noi
inconsueti, è il
problema eterno della filosofia.
Il trattato di
Sigieri di Brabante,
De intellectu, scritto in
risposta al trattato
di S. Tommaso
contro gli averroisti,
questo trattato di
Sigieri che si
leggeva ancora a Padova
negli ultimi decenni
del sec. XV,
suggeriva al signore della
Mirandola, studente a
Padova ed averroista,
una soluzione della quale
si ha l'accenno
in due delle
« conclusiones secundum Avenroem»:
da un lato,
l'anima intellettiva è una
sola in tutti
gli uomini; dall'altro,
sembra possibile a Pico,
da un punto
di vista strettamente
averroistico, che la mia
anima, così particolarmente mia
da distinguersi dall'anima di
ogni altro uomo,
possa conservare la
sua individualità anche dopo
la morte. L'elemento prezioso
che il commento
di Simplicio forniva al
Pico, consiste nell'
idea, derivata da
Proclo e da
Giambhco, di un intelletto
che, uno in
sé, è capace
di parteciparsi, uscendo fuori
di sé, in
una discesa progressiva
verso le «seconde
vite», cioè la vita
vegetale e quella
animale, per poi
ritornare in sé, in
un circolo eterno
che ricorda, anche
nella curiosa coincidenza dell'espressione verbale,
il processo hegeliano
dell' idea in sé
che, uscita fuori
di sé, ritorna
a sé come
spirito. Non è il
caso d' indugiarmi piìi
oltre ; ma
non posso non ricordare
la curiosa immagine
che il Pico
suggeriva a Nifo, professore
a Padova, durante
il viaggio che
insieme ebbero a fare
diretti entrambi a
Bologna. L'unità dell'
intelletto umano non è
altro che l'unità
dell' idea platonica,
che si comunica ai
singoli rimanendo, in
se stessa, una,
indivisibile e
immoltiplicabile. Ma, nel
comunicarsi ai singoli,
essa lascia in questi
un' impronta e
un vestigio che
permane e costituisce r
individuahtà dei singoli.
E, per rendere
il suo concetto, il
mirandolano ricorreva a
questo paragone. Come
per costruire un arco
o una volta
è necessaria quell'
impalcatura che chiamano centina;
ma quando l'arco
o la volta
sono costruiti, si reggono
da sé, senza
bisogno di sostegno;
così l'anima individuale è
una partecipazione dell'anima
universale, la quale nel
corpo di ogni
individuo umano' lascia un'impronta in cui
consiste l' individualità di
ogni uomo. In tal
modo il mirandolano
non ripudiava affatto
il suo averroismo del
periodo padovano; ma
anzi l'approfondiva e lo
giustificava con un
concetto neoplatonico, sì che il
problema, nel quale si
dibattevano senza via
d'uscita gli averroisti, pareva avviato
alla soluzione. NIFO (vedasi), professore
a Padova, uomo di
vasta erudizione, ma
confusionario e pretenzioso,
credette in un primo
momento di aver
trovato nel commento
di Simplicio la
piena conferma alla
tesi sigeriana, che
egli ci attesta di
aver accolto nella
sua prima giovinezza
e poi con
molta disinvoltura abbandonato.
La vivacità chiassosa
ed arrogante che
il Nifo metteva
nel difendere le proprie
idee e nel combattere
le altrui, contribuì ad
attirare l'attenzione sul
commento di Simphcio,
del quale frattanto fu
preparata l'edizione in
greco che uscì
a Venezia, presso
i Manuzio. Colui
che pur senza
condividere le idee del
Nifo, anzi combattendole
apertamente, si diede con
ardore a studiare
il commento di
Simplicio al De
anima, fu Marcantonio de'
Passeri, detto il
Genua, professore di
filosofia nello studio di
Padova sino all'anno della
sua morte. Di
costui ci resta
un importante commento
al De anima, pubblicato a
Venezia, ad opera
di fedeli alhevi che
si giovarono dei
manoscritti lasciati dal maestro.
Altre due redazioni
dello stesso corso,
tenuto in anni diversi, ci
restano manoscritte nella
Biblioteca Vaticana. Averroista,
il Genua riteneva
di poter proclamare
il pieno accordo fra
Averroè e «
il divino Simplicio
», sia sulla
tesi dell'unità dell' intelletto,
sia su quella
che vuole, contro
la corrente sigeriana del
Nifo, l'anima razionale
forma assistente e non
inerente o «
informante » del
corpo umano. Inoltre,
egli constatava l'accordo tra il commentatore
greco e quello
arabo anche su altri
punti, segnatamente sulla
conoscenza. Nel far ciò,
egli si ado prava
a sviluppare alcuni
motivi platonici che realmente
erano latenti nel
pensiero averroistico. Naturalmente il Genua
fu uno dei
più risoluti avversari
dell'alessandrismo, e riprese
per proprio conto,
come altri averroisti, la polemica
contro POMPONAZZI (si veda) e PORZIO (si veda), i quali,
al pari di Maggi,
di Landò e
di Giulio Castellani, s'erano dichiarati
per Alessandro d'Afrodisia. L'avvicinamento di
Averroè a Simplicio,
mentre forniva nuove armi
agli averroisti, sembrò
per un momento
smussare l'antagonismo tra la
filosofìa aristotelica e
quella platonica, la quale
aveva avuto nel
Ficino un sagace
rinnovatore. La scuola del
Genua pareva anzi
aver trovato nel
neoplatonismo la soluzione di
quelle difficoltà, che
furon lo scoglio contro il
quale l'averroismo doveva
naufragare. L'entusiasmo dei discepoli
incoraggiava ed assecondava l'opera del
maestro. Fra questi
merita di essere
segnalato Fasolo, professore di
lettere umane nello
studio padovano. Era da
otto anni allievo
del Genua e
ben tre volte aveva
udito il maestro
esporre il De
anima, quando condusse a
termine la traduzione
in latino del
commento di Simplicio sul
trattato aristotelico, stampata
a Venezia. Nella lettera
indirizzata agli alunni
del Genua, e
premessa alla traduzione del
secondo libro di Simplicio, Fasolo, dopo
aver loro ricordato, come
il maestro solesse
a tutti gli
altri commentatori
d'Aristotele anteporre Averroè
e Simplicio, afferma
che tutto quanto v'
è di buono
nei libri dell'arabo,
questi 1' ha appreso
dal commentatore greco.
E sebbene egli
riconosca, che, su alcuni
punti, non s'arriverebbe
a capire Aristotele senza il
commento averroistico, tuttavia
ne mette in
rilievo lo stile, più
che disadorno, irto,
oscuro, barbarico, mentre l'esposizione di
Simplicio è piana,
senza ambiguità, ed elegante.
Forte di
questa constatazione, e più ancora
dell'esempio del maestro, che
non si stancava
di lodare la
divina esposizione dell' interprete
greco, il Fasolo
rivolge una calda
esortazione ai suoi
condiscepoli, perché vogliano,
ora che il commento
di Simplicio è
reso facilmente accessibile
a tutti, cessare di
logorarsi il cervello
sulle pagine scabrose
di Averroè, e s'affidino
invece all'espositore greco.
Si buttino pur
via tutti gli altri
commenti, quelli d'Alberto
Magno, d' Egidio
Romano, del Burleo, del
Suessano e d'altri
insieme a quello
d' Averroè, e si studi
invece di giorno
e di notte
soltanto Simphcio: «
alios negligite; Simplicium unum
vobis die noctuque
versandum proponite w.
Questo vivace appello
rivolto dall'umanista padovano
a cacciar dalle scuole
Averroè, era fatto,
a dir vero,
più in nome dell'eleganza e
del buon gusto
letterario, che non
nel nome della filosofìa;
e pochi l'accolsero.
Sicché Averroè continuò ad
essere stampato, letto
e discusso «
in utramque partem
» nelle scuole di
filosofia. Ma quell'appello, ad
ogni modo, è
significativo del disgusto
che cominciava così apertamente
a manifestarsi per
l'averroismo ormai prossimo al
tramonto. Chi credesse che a questo
tramonto abbiano contribuito
lo spirito della controriforma
e i divieti
ecclesiastici, s' ingannerebbe.
Chiarito ormai quello
che era il
significato dell'averroismo
come sistema interpretativo del
pensiero aristotelico, fu
riconosciuta tanto agli averroisti
quanto agh alessandristi
la più spregiudicata libertà
di discussione delle
loro dottrine « filosofiche
». Se qualche
tentativo fu fatto,
da parte di
qualche zelante, di Hmitare
siffatta hbertà, si
tratta di zelo
eccessivo e di eccezioni
sporadiche. L'averroismo
volse al tramonto
sul finire del secolo
XVI e sul cominciare
del secolo successivo,
perché al tramonto
vol- geva ormai
l'aristotelismo, del quale
l'averroismo pretendeva
d'essere la più
fedele interpretazione. L'aristotelismo a sua
volta finiva per
interna dissoluzione, sotto
i colpi della
critica occamistica, la quale,
svalutando la conoscenza
astrattiva, metteva in evidenza
lo pseudo matematismo
dei procedimenti gnoseologici che
sono alla base
del sistema aristotelico
della natura, e additava
nella conoscenza intuitiva
lo strumento della ricerca
scientifica. La stessa opposizione
tra ciò che
è vero per
fede e quello che
è da pensare
secondo la «filosofia»,
se pur in
qualche modo giovò a
rivendicare la Hbertà
della critica entro
i confini della filosofia aristotehca,
finì per rendere
sempre più estraneo
al cristianesimo
raristotelismo averroistico, il
quale si rivelava incapace di
sistemare l'esperienza religiosa
che trae impulso dal
Vangelo. 11 platonismo
invece era parso
al Ficino una
specie di propedeutica al
cristianesimo, sì che
sembrava agevole sviluppare in
senso cristiano i
motivi religiosi che
racchiudeva. S'aggiunga a questo
l'asperità di un
linguaggio che lacerava le
orecchie abituate dall'umanesimo all'armonia
e al numero della
retorica classica. Ma quello
che determinò il
crollo definitivo dell'aristoter- lismo e
dell'averroismo, fu il
nascere di una
nuova filosofia della natura,
fondata su un
nuovo metodo di
ricerca scienti- fica: la logica
dell'esperienza. Mentre i
precursori di Copernico, da
Nicola d'Oresme in
poi, avevano rimesso
in discussione l'antica ipotesi
pitagorica del moto
della terra, l'averroista
bolo- gnese Alessandro
Achillini alla fine
del secolo XV
e nel primo
decennio del XVI combatteva
perfino, come troppo
ardita, la dot- trina tolemaica degli
eccentrici e degli
epicicli, per ritornare a quella
aristotelica delle sfere
concentriche alla terra,
considerata il centro immobile
dell'universo. E mentre
alcuni scolastici del sec.
XIV avevano dimostrato
la possibilità di
un universo infinito creato da
Dio, ed avevano
preparato la via
al Cardinal Cusano e
a BRUNO (si veda), gli
averroisti continuano ancora
a sostenere che
il mondo non
si esten- desse al di
là dell'ottava sfera
o, tutt'al più,
del primo mobile,, che
Dio stesso, nella
sua onnipotenza, non
potesse creare altri mondi
diversi da questo,
e che il
moto del primo
mobile fosse un movimento
assoluto, come punti
di riferimento assoluti erano, per
loro, il centro
della terra e
la convessità della
prima sfera. Questa angusta
concezione dell'universo fisico
crollava come un castello
di carte, il
giorno in cui,
col dialogo della Cena
delle ceneri e
con quello Dell'universo
infinito e mondi, il
concetto dell' infinito
faceva irruzione nella
filosofia della natura e
conduceva alla scoperta
della relatività di
tutte le determinazioni spaziali
e temporali. L'averroismo
fu sepolto sotto le
rovine della fisica
aristotelica. Ed anche il
tentativo del Pico
e del Genua
di svolgere ta- luni motivi del
pensiero averroistico in
senso platonico, col- l'aiuto
del commento di
Temistio e di
Simplicio e sopratutto- col sussidio
di Plotino, non
valse a salvare
1' averroismo come sistema.
Per ciò che
si riferisce al
commento di Simplicio,
nel quale avevano riposto
le loro speranze
il Genua ed
i suoi padovani,
non passarono molti
anni che PICCOLOMINI (si veda), il quale
dopo la morte
del Genua ne
occupò la cattedra
fino al suo ritiro,
potè dimostrare, con
un accurato esame dell'opera del
commentatore greco, che
la dottrina di
Simplicio, al pari di
quella di Proclo,
di Giamblico e
di Prisciano Lido, non
s'accordava affatto, come
avevano preteso il
Genua e il Nifo,
colla teoria averroistica
dell'unità dell' intelletto.
E se nell'averroismo v'erano
effettivamente quei motivi
platonici che ne svolse
Pico della Mirandola,
ciò che dell'averroismo sopravisse e,
mettiamo pure, sopravive
alla dissoluzione del sistema,
ha finito per
fondersi col pensiero
platonico successivo. Lo stesso
problema del rapporto
dell' intelletto coli'
indi- viduo, ossia del valore
universale dell' intendere
e dell' indi- vidualità dell'atto che
intende, che è
il problema centrale
del- l'avveroismo medievale e
del Rinascimento, s'
è rivelato mal posto,
pei termini nei
quali era enunciato,
e conveniva mutare i
termini per trovarne
la soluzione. Abano
Abbagnano Abubacher: (v. Aven- pace). Accoramboni Achillini
Achillini Achillini Aeternitni
a parte post,
aeternum a parte ante
Agenti univoci e
sinonimi: v. Cause Agostino
(S.): Agostino Moravo:
Alabanti A.:
Albategni o Albattani:
Alberto G. G. Alberto
Magno Alberto di Padova:
Alberto di Sassonia,
o Albertuccio: Albumasar: Alcocodem:
Alessandrismo: Alessandristi:(v. Averroisti). Alessandro d'Afrodisia Alessandro di
Hales: Alf arabi (Alpharabius), Abu
Na- sar) Algazel (Al-Gazali) :
Alnwich Alpheeh, Averrois filius:
Alvise da Brescia:
Ammonio: Anassagora: Anatomia:
Angeli: Anima razionale
0 intellettiva (v. anche
Intellectus e Uomo) Animarum descensus et indivi- duano:
Anima umana {Immortai . dell')
Anima delle piante
e degli animali: Anima mundi Annibale Camillo
da Coreggio Anselmi Antonio
Andrès: Antonio da
Faenza, v. Cittadini
A. Antonio da Rimini:
Antorosa (Antonino de)
Apollonio di Tiana:
Aquila (Sebastiano dell') Aquilano (de
Aquila) Aquinate, Aquino,
v. Tommaso d'Aq. Arcamona Arcudi
Arcudi Arcudi Argelati
Aristotele Aristotele
Infallibilità d'Aristotele (Contradizioni d') Aristotele concordato
con Platone: Aristotele (Pseudo)
Aristotelismo Averroismo Asìn
Palacios M. Astrologia
Giudiziaria: 27, Aulo
Gellio Avanzo Avenpace (v.
anche Abubacher) Averroè
(Averroys, il Commenta- tore per eccellenza
di Arist.) Averroè (Contradizioni d')
Averrois filius, Alpheeh. Averroismo: Avicenna:
Bacilieri Baconthorpe Badoèr Baeumker
Bagaroto Bagolino Gir.:
Baldassarre da Chiusi:
Barbarigo Barbarigo Barbaro Barozzi Barzon
Basilio Troiano: Bate
Baumgartner M. Beatitudo Copulatio, Felicitas, Perfectio. Bembo Benavides,
Bonavites Benavides
Marco, Marco Mantova Benedetto del
Tiriaca o del
Triaca Benedettucci Benozzo Gozzoli Benzi
Bernardi A., Mirandolano: Bernardino
da Feltre: Bernardo
Gir.: Bernieri da Nivelles:
Bertela Bertoldo di
Mosburg: Bessarione:
Betoni Gir.: Bettini
Biagio Pelacani Pelacani B. Bin
o Binno Jacopo
de' Tornasi: Bin o
Binno Matteo de’Tomasi: Boccadiferro BOEZIO Boezio
di Dacia: Bolderio
Bonamico Bonaventura: Bonaventura
Bonet Bonus o
de Bono Gir.:
Bonuso Bovio (Dal
Bò) Gir.: Bradwardine
Bragadin Bragadin Branca
V.: Branda Porro:
Brenzio Bres.san B.
Brotto Brunacci Bruno
Bruns Burana Buridano
Burleo (Burley) Gualt.
Buzacarini Buzacarini Calcaterra
Calcidio: Calcidonio Calcidationes
(v. anche Latitudo formarum Calculator, v.
Suisset. Calfurnio Campano Camillo
da Coreggio: Campeggi Campeggi Campeggi
G. Z.: Campeggi
Campeggi Campesano Campesano
Caninio Cantimori D.:
Capitani Capitani Capparoni
Capuano Caravegi G.
Ben.:Carensio L., detto
il Toseto Pa- dovano:
Caro Carpi (Iacopo
Berengario da Carrano Carrati
Casio Gir. de'
Medici: Casserio Castellani
Castrioto F. : Castrioto Causa Prima:
Causalità efficiente e
e. finale: Cause
intermedie: Cause univoche esinanirne:
Cavalcanti Cavalli (de
Caballis, ab Equis) Champier Cr.
Champier Sin.: Charpentier
Chirurgia CICERONE: Cicogna
Cieli: numero, ordine,
dipendenza dal primo
Motore, animazione, sfere celesti, v. Motori celesti,
Eccentrica ed epi- cicli,
Influenze celesti. Cielo, se
finito o infinito:
Circolazioni cosmiche: Cittadini
A. da Faenza:
Clough Cecil H.:
Coclite Cogitativa (o
Intellectus passivus,
Imaginativa) Colchodea:
Commentatore, v. Averroè.
Complexio anche Mixtio Concorrenza (Istituto
padovano della) Contarini
Contarini Contarini Contarini
Conte Contingenza: Copernico
Capulatio o Continuatio
intellectus possibilis cum intellectu
agente (v. anche Intellectus
adeptus, Fe- licitas Corner Corner
Corradino da Bergamo:
Corrado d'Oria Coxe
Creazione Cristo « primogenitus
omnis crea- turàe Cristoforo
da Recanati Croce Cusano
Dalais Dalbò M.: Da Lion
Dallari Dalla Scrofa,
famiglia vicentina; Dal Molino
Damaselo Dandolo M.
: Dante Da Porto
D'Arco C. De
caitsis (Liber) De
Corte Degli Agostini De
Ketam Del Bene
Della Pozza A.:
Democrito Demolins Demoni: Denifle
H. e Chàtelain
Ch. De Renzi
De Wulf M.: 8.
Dimensiones interminatae :
Diede Diedo P.
Diedo Dio (v.
anche Causa prima
o Motore primo) :
causa efficiente e finale,
forma del primo
cielo Motore primo; Infinità e
onnipotenza di D., se
conosca «alia a se Dionigi
Areopagita (Pseudo): Dionisotti
Domenico Indiano: Donato
A.: Donato Donato Donato
Dondi dall'Orologio C.
Dondi dall' Orologio
Dorighello Dotti Dotti
Du Chastel P.
Duhem Duns Scoto
G. Duns Scoto G.
(Pseudo): (v. Vitale
du Four). Duodo Eccardo
di Hochheim: Eccentrici
ed epicicli: (v.
anche Cieli). Egidio Romano Egnazio Elementi
(v. anche Complexio
e Mixtio): proprietà, Elia
del Medigo: Emo
Emo Z.: Empedocle GIRGENTI Enrico
di Gand: Enrico
di Harclay Entisbery (cioè
G. di Heytesbury) Eternità del
mondo Eucliph G., V.
Wyclif. G. Eudemo Endosso: Eustachio
Rudio: Facciolati lac:
Faenza Antonio da E. Cittadini.
Fantuzzi Faseolo o
Fasolo Favaro Federico
Romano: Felici (Gir.
de' Felicitas (v. anche
CopMlaiio Ferrari Ferrari
Ferrarini Ficino Fidentius
Petruslunctarius: Filippo de
Thoriaco, Filopono
(Philoponus, Ioannes
Grammaticus) Filosofia. La
F. pei medievali, F.
e teologia (v. anche
Verità) F. e
cultura, F. e
Medicina, 158; migrazione della
F., rinnovamento della F. in
Italia: Filosofo per
eccellenza: v. Aristotele.
Fiorentino Fr. Fogolari
Fontana Forma sostanziale
: successione delle forme,
produzione o generazione delle
forme, dator formarum
forma corporeitatis forma
mixtionis formarum intensio
ac remissio anche
Calcu- lationes forma constuens e
forma constituta Formativa Informativa. Foscarini Foscarini
Seb. Fracanziano o
Fracanzano Franceschetti Fr. Francesco
Securo da Nardo: Francia Fr.
Frati Gabrielli Gaeta Gaetano
(Card.), v. Tommaso de Vio. Gaetano da
Thiene Galeno (Galenus, Galienus)
Galil^ei Gambalunga F.
: Gand, v.
Enrico di G. Gandavo
(de), Gandavensis, Jandun
(Giov. di). Garin Gaspare
da Perugia: Gaurico Gazzoni Generazione
[cause della) Generazione univoca Cause
univoche. Gentile Gentile da
Foligno Genua (De lanua)
Genua (De lanua,
de' Passeri) Genua
(De lanua, de'
Passeri) N. Genua
M. A., figlio
del preced.: Genuli Gerardo
da Bologna Gerardo da
Cremona Gesuati Ghero
Giacobiti, V. lacobitae. Giamblico (lamblicus)
Gian Michele de
Bredepalea: Gian Pietro de
Cararijs: Giason dal
Maino: Gilson Giordano
Bruno G. Giordano de
Nemore: Giorgio da Trebisonda,
Giorgione: Giovanni Grammatico Filopono. Giovanni della
Lana: Giovanni del Pian
del Carpine Giovanni da
Ripatransone Giovanni da Schio Giovio
Girelli Girolamo da
Monopoli Girolamo dal Muro
Nuovo: Girolamo (Pseudo
S.) Girolamo da Verona, v. Torre (G.
della T.). Giulio Giustinian
Giustinian Giusto de'
Menabuoi Gonzaga Gosvin de
la Chapelle: Grabmann
Gradenigo Graiff Grassetto
Grassi Gravia et
levia: Gravina Graziadio da Venezia Gregorio Magno
(S.) Gregorio da
Rimini Grimani Gritti Grutero
Guglielmo di Moerbeke,
v. Moerbeke. Guido da
Pesaro Guinizelli G. :
loi. Hain Lud. Haly
ben Rodoam: Halyabbas:
Hauréau Hayduck Helias Cretensis,
v. Elia del
Me- digo. Hervaeus Natalis:
Hervetus Heytesbury W.,
v. Entisbery. Hirsch Aug.
Homo significai coniposituni
ex corpore et intellectu: Honiinis dignitas:
Homo, microcosmus, nexus
supe- rioruni cuni inferioribus
: Horen Oresme (Nic.
d'). H vie eh: lacobitae
(Giacobiti) Iacopo da
S. Martino, o
I. da Napoli: Iacopo da
Venezia: Ibernico, Maurizio
I. Ideae, ideales rationes: Imaginativa, Cogitativa. Imagines astrologicae: Impetus: Individiiationis principiitìn:
Informativa [Vis): Intellectus
(talora Mens). I.
vocatiis, assimilativus, Accomodatus
acqitisitus, adeptus (v.
Co- pìtlatio), I- possibilis,
potentialis, materialis possibilis unitas poss.
pura potentia in genere
intelligibilium, poss. unio ad corpus agens perfectionis, in
actu, in habitii, speculativus, progrediens ad
secundas vitas, I.
descensus, ascensus, I.
tviplex in homine,
impartecipabilis, partecipabi-
lis, pariicipatus, forma
animae, passivus (v. Imaginativa,
Co- gitativa), Intellectum (Intelligibile, species intigibilis. Idea)
: Jntellectiis et voluntas:
Intelligentia prima (v.
Dio, Motore primo immobile)
Intelligentiae separatae (v.
anche Sustantiae separatae): Intelligen-
tiariim individuatio, Int.
motrici (v. anche Cieli),
In- telligentia inferior cognoscit superiorem
per essentiam superio- ris,
Se e come
la mente umana conosca
le Int. separate, Intelli- gentiae propinquae uni
puro et longique ab
ipso Intelligentiae an dent
esse caelo, dipendenza dal
Primo motore, Intentiones
imaginatae, phanta- smata: Intentiones
priinae et seciindae
Ioannes Canonicus: Ippocrate: Isacco
IsraeHta: Jandun (Giovani di).
Io. de Gan- davo,
Gandavensis Kant Keeler Kibre
Pearl Krebs Kristeller Lana
(Domenico della) Lancellotti
(P. D. Secondo)
Landò Languardo Latitudo
formarum anche Forniarum
intensio et remissio)
Latituto intellectintiir. Latomus I.
Berganus: Laurent Lemay
R. Leone X: Libertà
e contingenza: Libertà
e necessità: Liceto
Lippi Lodovico o
Luiz A. Lodovico da
Varthema; Longo Longo
Loredan Loredan Loredan
Loredan Lucano Luigi da
Porto: Lullo Luogo
naturale: Lorenzo da
Noale: Madio, v.
Maggi. Madruzzo Maggi o
Madio Maier Malchiavello
Malipiero Mandonnet Mantova
Marco, v. Benavides. Manupello Manuzio
Aldo, il giovane,
Manuzio Marco Polo: Marino:
Marliani Marsilio da Carrara MarsiUo di
Inghem: Martino da
Lendinara (Fra) Martinotti
Materia prima: Matteo
da Ripalta: Maurizio
Ibernico (C Fihely, detto
M. I.) Mazzetti
Mazzuchelli Medici Medicinae prae stantia: Memo
Memoria e Reminiscenza: Mente
[Mens), v. Intelletto,
Ani- ma intellettiva. Mente
prima (v. anche
Dio, Intelligentia prima): Mercati
Mercuri (Biagio de')
:Merhno Michalski Michiel
Michiel Microcasmus: v.
Homo. Miliani Miliavacca Minio
Minio-Palnello Miracoli: Mistica
averroistica Mixtio
elementaris (v. anche
Coniplexio): Mocenigo Mocenigo
Mocenigo Mocenigo Mocenigo
Moerbeke Gugl. di
Mohler Moisò Maimonide: Molin
Momigliano Mondi (Impossibilità di
pili) Mondini Fr.
Mondino de' Liuzzi:
Mondo intelligibile [Reminiscenza del): Monopsichismo, o Panpsichismo: Montagnana (Bartol. da) (iunior). Montagnana Montagnana
Montecatino Montesdoch Monti
Panf. Moog W., Ueberweg. Moro Morosini
Morosini Morosini Mortier
Moto naturale: Moto
violento: Moto celeste (Eternità
del) Motore immobile
(Primo); se muova con
vigore infinito forma dell'universo,Aloiori celesti
(v. anche Intelli- genze separate e
Cieli): rapporto coli' am- piezza e la
velocità dei cieli: Mùller
Regiomontano. Miindus qualibet aetate
perfectus: Munk S.: Mùnster Mussato Musuro Nallino Napoli,
V. Iacopo da N.
Nardi Natura umana
(Decadenza della) Necromanzia:
Nemesio: Nicoletto Vernia, v. Vernia
N. Nicolò di S.
Sofia: Nifo (Niphus) A. da Sessa
(Suessanus) Nobili Nogarola
Numenio Occam Odi o
Oddi (Rin. degli) Odoni
Oldoino Oleari Oliva Omero: Oratio astronomica: Oresme
Orestano Orlandi Pagallo
Paganini Panpsichismo, v. Monopsichismo. Panizza Paolo
Apostolo Paolo dal Fiume Paolo
dalla Pergola Paolo Veneto
(P. Nicoletti da Udine Paolo Francesco
Veneto: Papadia Papadopoli
Pardi Particolari (Conoscenza
dei): Pascal Pasolini
Paschini P. Pasquale
Pasquali-Alidosi Pasqualigo Pasqualigo
Passeri, v. Genua. Pazzini Peckam
(fra Pelacani B.
Pelli Negre (G.
F. delle): Pendasio
Peretto, v. Pomponazzi. Perfecfio (v.
anche Forma e Copnlatio). Pernumia Pernumia
Persiani Peurbach Philosophus Aristotele. Piccolomini Pico
della Mirandola Pico
della Mirandola G.
Fr. Pietro de
Cruce: Pietro da
Mantova: Pietro da
Reggio Pietro Veneto Pinelli Pio Pisani
Pisani Pisani Pitagora Pitagorici
Platone Tentativi di accordare
P. con Aristotele Platonici Plotino
Plumazio Plutarco d'Atene Podestà Polcastro Polcastro o
Porcastro Poliziano Polo Pomponazzi
P. da Mantova,
detto il Peretto Mantovano Ponte (Gir.
da) Porfirio Portenari Portenari
Porto Porzio Praecantatio Prassicio Fratelli Prisciano
Prisciano Lido Probabilia Proclo Profezia
Prospero da Reggio Querengo Querini Quétif-Echard Quirini Quirini
e Querini Ragnisco log, Raguseo
Rangoni Rannusio Rappi Cristoforo Crist. da Recanati. Rasis Regiomontano (Miiller
G. da Kònigsberg) :
Reminiscenza, v. Memoria. Renan Ricco
Risurrezione dei morti:
Ritter Roberto Kilwardby Robortello Roccabonella
Rochelle (fr. Giov.
de la) Roselli
Roselli Roselli Trapolin Rugerijs (Lod.
de): Rugerius, per
Sugerius Ruggiero Sabellico
Saitta Salinatore Salomonius
Salvato da Cagli:
366. Sambin Sanseverino
Sansone Sanudo o Sanuto
Saraceno Savorgnan Scaligero
Scardeone Schedel Schegkius
Schlosser Scienza umana anche Intellectus, Intellectum,
Ideae). Scoto Ottaviano Secondo Segarizzi Securo Francesco da
Nardo. Sepulveda Genesio Serapione
Sermoneta Serrano Sessa,
Suessano, Sexa, v.
Nifo Sighinolfì Sigieri di
Brabante Silvestri (Frane, de'
S., detto il Ferrariensis) Silvestro
(Padre) da Valsansibio Simeoni Simone
o Simeone d'
Este: Simoni Simone Simpliciani Simplicio Sirleto
Sisto IV Socrate Solerti Solino Sostanze separate
(v. anche Intel- ligenze sep.): Se abbiano una
causa efficiente Se e
come la mente
umana conosce le Sparaini
(Assalone de') da
Cesena: Species intelligibile
s, v. Intellectum. Speranza Speroni Speroni Sperone Spinelli Spinola
Starniti (? maestro
de') Steenhawer J., Latomus. Stefano d'Alessandria: Stegmùller
Steinschneider Steuco A.
Eugubino: Storcila Suessano,
v. Nifo Suisset, cioè
R. Swineshead, detto il
Calculator Surian A., Patriarca
di Venezia: Surian A.,
nip. del prec:
Suriano Suriano Sylvius
Laurentius a Portu
Caballensis: Swineshead, v.
Suisset. Taddeo da Parma:
Taiapietra Taiapietra Tasso
Taucci R. M.: Tavole
Alfonsine: Tedoldi Teodorico
di Vriberg Temistio Teofrasto Teologia, v.
Filosofia e Teol.
e Verità Pretesa dottrina della doppia Terra, se
dovunque abitabile: Théry Thorndike Tiepolo Tiraboschi Tiriaca Benedetto del T.
Tolomeo Tomasini Aquino Tommaso di
Strasburgo Vio Tommaso di Wilton Torre
(Gir. dalla T.
da Verona Torre (M.
A. Dalla Tosetto Carensio.
Tostado Traini Trapolin
Tropolin Trapolin Trapolin
Trapolin Fr., senior: Trapolin Fr.,
iunior: Trapolin Trapolin Giulio Trapolin Lanzaroto Trapolin Trapolin Marina
in De Lazzara Trapolin Trapolin Trapolin
Pietro, senior: Trapolin
Pietro, iunior: Trapolin Trapolin Trapolin Trapolin Ubaldo Trevisan Trevisan
Trincavelli Trionfo Trissino
Trombeta o Tubeta
Tumminelli Turchi Ueberweg
Ueberweg F.-Moog Ugo
Benzi da Siena: Ulrico
da Strasburgo Universale anche
Intellectus universalia
physica, realia Universo aristotelico
(v. anche Dio, Causa
prima. Motore primo): se
finito o infinito eternità e necessità
dell'u.: Valentinelli l'aristotelismo padovano Valier Vanni-Rovighi
Van Steenberghen Vedova Venier
Venier Venier Venier Verbeke
Verci Verini Fr.
Secondo Verità Pretesa dottrina
della doppia Vernaleone Vernaleone
Vernia Vernia Nicoletto
da Chieti : V Vimercate Frane,
da Virgilio Virtus sancta Intellectus
assimilativus Visione beatifica Vitale
Vitale Vittori Volta Voluntas et intellectus Wadding Wyclif
Xiberta Zabarella Zaccaria
da Milano Zane Zeno Zimara Zimara
Zimara Zimara Zimara Zerbo Zerbo Zonta
Zorzi Firenze. Bruno Nardi. Nardi. Keywords: dantesco, Alighieri, animo,
Pomponazzi, Virgilio, Enea, inferno, il concetto d’animo, la filosofia romana
nel secolo d’augusto – il secolo d’oro della filosofia romana – il secolo
augusteo, pico, abano. Refs.: H. P. Grice, “Lasciate ogni speranza voi
ch’entrate,” The Swimming-Pool Library. – Luigi Speranza, “Grice e Nardi: il
paradiso filosofico” --.
Luigi Speranza --
Grice e Nasta: la ragione conversazionale e la setta di Caulonia -- Roma – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia, Reggio
Calabria, Calabri. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide, “Vita di
Pitagora.” Grice: “Cicerone
argues: Nasta spoke Greek; therefore, he was no Roman!” – Nasta.
Luigi Speranza -- Grice e Natoli: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo tragico –
origini dell’antropologia romana -- filosofia siciliana – filosofia italiana --
Luigi Speranza (Patti). Filosofo italiano. Patti, Messina,
Sicilia. Grice: “I like Natoli. He philosophises on the ‘uomo tragico’ at the
source of western civilisation, and also the experience of ‘pain’ at the source
of it.” Si laurea a Milano, dove
ha trascorso gli anni nel Collegio Augustinianum. Insegna a Venezia e Filosofia
della politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di
Milano. Attualmente è Professore di Filosofia teoretica presso la Facoltà
di scienze della formazione dell'Università degli Studi di
Milano-Bicocca. Attività accademica In particolare, Salvatore Natoli è il
propugnatore di un'etica neopagana che, riprendendo elementi del pensiero greco
(in particolare, il senso del tragico), riesca a fondare una felicità terrena,
nella consapevolezza dei limiti dell'uomo e del suo essere necessariamente un
ente finito, in contrapposizione con la tradizione cristiana. Filosofia
del dolore Una particolare e approfondita analisi sul tema del dolore è stata
condotta da Natoli in diverse sue opere. Il dolore è parte essenziale
della vita e per gli antichi filosofi greci era l'altra faccia della
felicità: «I greci si sentono parte e momento della più grande e generale
natura, crudele e insieme divina, si sentono momento di quest'eterno e
irrefrenabile fluire, ove non vi è differenza tra bene e male allo stesso modo
in cui il dolore si volge nella gioia e la gioia nel dolore» La natura
infatti dava la vita e nello stesso tempo crudelmente la toglieva. Il dolore in
realtà fa parte della vita ma non la nega: il dolore può essere vissuto e reso
sopportabile se chi soffre percepisce non la pietà dell'altro ma che la sua
sofferenza è importante per chi entra in rapporto con lui e con la sua
sofferenza. Se chi soffre si sente importante per qualcuno, anche se soffre ha
motivo di vivere. Se non è importante per nessuno può lasciarsi prendere dalla
morte. Secondo Natoli l'esperienza del dolore ha due aspetti: uno
oggettivo, il danno («Nel momento in cui la sofferenza è motivata attraverso la
colpa, colui che soffre non solo patisce il danno, ma ne diviene anche il
responsabile»); e uno soggettivo, cioè come viene vissuta e motivata la
sofferenza. La stessa sofferenza è interpretata in modo differente da diverse
culture: per alcune il dolore fa parte della contingenza del mondo fenomenico, dell'apparenza
per altre invece, è vissuto intensamente come ad esempio nel cristianesimo dove
al dolore viene associata la redenzione. Vi è una circolarità tra il dolore e
il senso che fa sì che, pur essendo il dolore universale, ad ognuno appartenga
un dolore diverso. Vi è dunque un senso del dolore e un non senso che il
dolore causa. Il dolore infatti contraddice la ragione che non sa darsi
spiegazione del perché il dolore abbia colpito proprio quell'individuo e per
quali colpe quello abbia commesso e, infine, perché il dolore travagli il
mondo. Il tentativo di rispondere a queste fondamentali domande fa sì che
l'individuo scopra nuove forze in lui che generino un vittorioso uomo nuovo
che, partendo dall'esperienza del dolore, s'interroghi sul senso dell'esistere,
tenendo sempre presente però, che il dolore può segnare anche una definitiva
sconfitta. Nel dolore l'uomo può scoprire le sue possibilità di crescita
ma questo non vuol dire disprezzare il piacere, sostenendo che questo, invece,
ottunde gli animi. Il piacere invece affina la sensibilità come accade per chi
ascolta frequentemente una buona musica. Il piacere invece è negativo quando
diventa «monomaniaco, eccessivo, quando, anziché sviluppare la sensibilità, la
fossilizza in un punto di eccessiva stimolazione. E l'eccessivo stimolo
distrugge l'organo.» A differenza del piacere, dell'amore che è dialogo tra
due, che è espansivo e affabulatorio anche quando è silenzioso, l'esperienza
del dolore chiude il singolo nella sua individualità e incomunicabilità, poiché
«il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il
corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio, l'universo delle
possibilità, e la realizzabilità delle medesime possibilità.» Sebbene il
dolore sia "insensato" si cerca di spiegarlo con le parole spesso
inutili ed allora si cerca dapprima la parola "efficace" che offre la
tecnica o la parola "efficace" della preghiera, della fede, che non
annulla il dolore, ma dà una speranza nel miracolo. L'efficace uso della parola
per spiegare il dolore fa sì che gli uomini trovino conforto nella comune
sofferenza, in quella universalità del dolore dove però ognuno rimane nella sua
singolarità di senso. La parola efficace della tecnica per un verso ha
alleviato il dolore ma per un altro può creare delle condizioni di vita
tali per cui la stessa tecnica controlla il dolore senza togliere la malattia,
creando così un'esistenza prolungata senza futuro sotto la continua incombenza
della morte: «A partire dal Settecento, ma ancor più nel corso
dell’Ottocento, la tecnica è stata sempre di più associata alle filosofie del
progresso: infatti ha emancipato gli uomini dai vincoli naturali, ha ridotto il
peso della fatica, ha attenuato il dolore, ha accresciuto il benessere, ha
conteso lo spazio alla morte differendola sempre di più… ma la tecnica, oggi, è
nelle condizioni di interferire in modo profondo nei processi naturali
modificandone i cicli…» Una soluzione all'inevitabilità del dolore può
essere l'adesione a un nuovo paganesimo secondo l'antica visione greca
dell'accettazione dell'esistenza del finito e della morte dell'uomo. «Il
cristianesimo ha alterato l'anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un
mondo senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si
crede che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata
da un sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia
vuole che ci sia.» Anche il cristianesimo infatti teorizza l'uomo finito,
ma non essere naturale destinato alla morte, ma come creatura di Dio. Per il
cristiano la vita finita condotta secondo il dovere porta all'accettazione
della morte come passaggio a Dio. Per il neopaganesimo la vita finita è degna
di essere vissuta senza speranza di infinitezza ma vivendola secondo un ethos,
che non è dovere di obbedire a un comando morale con la speranza di un premio
eterno, ma buona e spontanea abitudine di una condotta consapevole
dell'universale fragilità umana. Saggi: “Soggetto e fondamento” -- studi
su Aristotele e Cartesio (Padova, Antenore); “La critica del linguaggio”
(Venezia, Marsilio); “Ermeneutica e genealogia -- filosofia e metodo” (Milano,
Feltrinelli); “L'esperienza del dolore -- le forme del patire” (Milano, Feltrinelli);
“Gentile” (Torino, Boringhieri); “Vita buona vita felice -- scritti di etica e
politica” (Milano, Feltrinelli); “Teatro filosofico -- gli scenari del sapere
tra linguaggio e storia” (Milano, Feltrinelli); “L'incessante meraviglia -- filosofia,
espressione, verità” (Milano, Lanfranchi); “La felicità -- saggio di teoria
degli affetti” (Milano, Feltrinelli); “I nuovi pagani” (Milano, Saggiatore); “Dizionario
dei vizi e delle virtù” (Milano, Feltrinelli); “La politica e il dolore” (Roma,
EL); “Soggetto e fondamento. Il sapere dell'origine e la scientificità della
filosofia” (Milano, Mondadori); “Delle cose ultime e penultime” (Milano, Mondadori);
“Natura, poesia, filosofia” (Milano, Mondadori); “Progresso e catastrophe -- dinamiche
della modernità” (Milano, Marinotti); “Dio e il divino” (Brescia, Morcelliana);
“La politica e la virtù” (Roma, Lavoro); “La felicità di questa vita -- esperienza
del mondo e stagioni dell'esistenza” (Milano, Mondadori); “L'attimo fuggente o
della felicità” (Roma, Edup); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente”
(Milano, Feltrinelli); “Il cristianesimo di un non credente” (Magnano,
Qiqajon); “Libertà e destino nella tragedia” (Brescia, Morcelliana); “Stare al
mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Parole della
filosofia o dell’arte di meditare” (Milano, Feltrinelli); “La verità in gioco”
(Milano, Feltrinelli); “Guida alla formazione del carattere” (Brescia, Morcelliana);
“Sul male assoluto -- nichilismo e idoli nel Novecento” (Brescia, Morcelliana);
“I dilemmi della speranza” (Molfetta, La Meridiana); “La salvezza senza fede” (Milano,
Feltrinelli); “La mia filosofia -- forme del mondo e saggezza del vivere” (Pisa,
Ets); “L'attimo fuggente e la stabilità del bene – la Lettera a Meneceo sulla
felicità di Epicuro (Roma, Edup); “Edipo e Giobbe -- contraddizione e paradosso”
(Brescia, Morcelliana); “Dialogo sui novissimi” (Troina, Città Aperta); “Il
crollo del mondo -- apocalisse ed escatologia” (Brescia, Morcelliana); “L'edificazione
di sé -- istruzioni sulla vita interiore” (Roma-Bari, Laterza); “Il buon uso
del mondo -- agire nell'età del rischio” (Milano, Mondadori); “Figure
d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger (Milano, AlboVersorio); “Eros e philia”
(Milano, AlboVersorio); “Nietzsche e il teatro della filosofia” (Milano, Feltrinelli);
“Le parole ultime -- dialogo sui problemi del fine vita” (Bari, Dedalo); “I
comandamenti: non ti farai idolo né imagine” (Bologna, Mulino); “Le verità del
corpo” (Milano, AlboVersorio) – IL CORPO -- Sperare oggi (Trento, Margine); “Le
virtù dei Giusti e l'identità dell'Europa -- la salvezza senza fede” (Feltrinelli);
“Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche. Il senso del dolore. In L'esperienza del dolore. L'esperienza del dolore nell'età della
tecnica. Siamo finiti. E anche la tecnica lo è, da Europa, I Nuovi pagani, Saggiatore, Milano, Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Intervista per Il Rasoio di Occam, Video
intervista su Asia, su asia. Dov'è la vittoria? “l'Italia civile che resta
minoranza” intervista di, Il Fatto Quotidiano. Salvatore Natoli. Natoli.
Keywords: uomo tragico, origini dell’antropologia romana, Gentile, corpo. Chora
di Platone, antropologia degl’italiani, filosofia siciliana, Gentile filosofo italiano
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Natoli” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Nausito: la ragione conversazionale della
scuola di Firenze, pre-romana -- Roma – filosofia toscana -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
italiano. Firenze, Toscana. A Pythagorean – cited by Giamblico, “Vita di
Pitagora.” He
rescues Eubulo di Messina, another Pythagorean, from pirates. Grice: “Cicerone
argues: Nausito speaks Greek; he is, therefore, no Roman!” – Nausito.
Luigi Speranza -- Grice e Nearco: la ragione conversazionale della
diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Taranto). Filosofo
italiano. Taranto, Puglia. A
Pythagorean, he plays host to CATONE (si veda) Maggiore when Catone recaptures
Taranto from the Carthaginians. Grice: “When in Athens, and although he knew some basic Greek, Catone
refused to speak it – and demanded an interpreter. I assume he demanded an
interpreter when he was asking for his breakfast at Nearco’s!” --. Nearco.
Luigi Speranza -- Grice e Nicoletti: la ragione conversazionale -- quadratura
ed implicatura conversazionale – la scuola d’Udine -- filosofia friulana -- filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo friulano – filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia
Giulia. – Grice: “His diagramme for ‘arbor porphyriana’ is also brilliant –
ending with “Plato,” “Socrates.”” -- Grice: “I especially like his squaring the
square of opposition!” -- Grice: “A veritable genius, this Nicoletti.” -- Not
under ‘Venezia’! -- paolo di venezia: philosopher, the son of Andrea Nicola, of
Venice He was born in Fliuli Venezia Giulia, a hermit of Saint Augustine
O.E.S.A., he spent three years as a student at St. John’s, where the order of
St. Augustine had a ‘studium generale,’ at Oxford and taught at Padova, where
he became a doctor of arts. Paolo also held appointments at the universities of
Parma, Siena, and Bologna. Paolo is active in the administration of his order,
holding various high offices. He composed ommentaries on several logical,
ethical, and physical works of Aristotle. His name is connected especially with
his best-selling “Logica parva.” Over 150 manuscripts survive, and more than
forty printed editions of it were made, His huge sequel, “Logica magna,” is
a flop. These Oxford-influenced tracts contributed to the favourable climate
enjoyed by Oxonian semantics in northern Italian universities. Grice: “My
favourite of Paul’s tracts is his “Sophismata aurea”how peaceful for a
philosopher to die while commentingon Aristotle’s “De anima.”!” His nom de plum is “Paulus Venetus.”— Paolo da
Venezia Nota disambigua.svg Disambiguazione"Paolo Veneto"
rimanda qui. Se stai cercando lo scrittore e vescovo nato a Venezia, vedi
Paolino Minorita. Paolo da Venezia in una stampa Professore Paolo da
Venezia, o Paolo Veneto, vero nome N. (Udine), filosofo. Eremitano, studente
all'Oxford e docente a Padova ove ebbe tra gli allievi Paolo Della Pergola.
Divenne ambasciatore veneto presso la corte polacca. Per le sue idee teologiche
e esiliato a Ravenna ma, dopo, gli fu consentito di tornare a Padova. Seguace
di Occam e Brabante e autore di vari trattati, tra cui alcuni commenti al Lizio.
Il suo trattato “Logica magna” e utilizzato come testo di insegnamento della
logica a Padova e può essere considerato la maggiore opera di logica formale
prodotta dal medioevo. Opere: “Logica,” “Commenti alle opere di
Aristotele” “Expositio in libros Posteriorum Aristotelis,” “Expositio super
VIII libros Physicorum necnon super Commento Averrois,” “Expositio super libros
De generatione et corruptione” “Lectura super librum De Anima” “Conclusiones
Ethicorum” “Conclusiones Politicorum” “Expositio super Praedicabilia et
Praedicamenta.” “Scritti sulla logica: Logica Parva or Tractatus Summularum,
“Logica Magna”; “Quadratura”; “Sophismata Aurea. Altre opere: “Super Primum
Sententiarum Johannis de Ripa Lecturae Abbreviatio,” “Summa philosophiæ
naturalis,” “De compositione mundi. Quaestiones adversus Judaeos. Sermones. N
Dizionario di Filosofia Treccani, riferimenti in. Vedi Pergola, Dizionario di Filosofia Treccani. Garin,
Storia della filosofia italiana, Edizione CDE su licenza della Giulio Einaudi
editore, Milano, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Dizionario di Filosofia Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Conti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Conti: Esistenza e verità: forme e strutture del
reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo medioevo. Istituto Storico
Italiano per il Medio Evo, Roma, Nuovi studi storici, Perreiah: "A
Biographical Introduction to N, Augustiniana. N. Logica, Venetiis,
Imperatore, Imperatore, Gori, Filosofico, Conti, Zalta, Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information,
Stanford. Filosofia. DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI FRIULANI PAOLO DI NICOLETTO
PAOLO DI NICOLETTO (? - 1429) AGOSTINIANO, TEOLOGO, FILOSOFO Informazioni ★ Udine † 15 giugno 1429, Padova Forma
alternativa Paolo Veneto Attività agostiniano, teologo, filosofo Luoghi di
attivi tà Venezia, Oxford, Padova, Buda, Ulma, Cracovia, Kosice, Siena,
Bologna, Perugia Immagine del soggetto Paolo di Nicoletto in cattedra (Venezia,
Biblioteca nazionale marciana, ms. Lat. VI, 123 [2464], f. 162v). Come
per la maggior parte dei protagonisti della vita intellettuale nell’epoca di
mezzo, anche per l’udinese P. di N., più noto come Paolo Veneto, disponiamo di
poche informazioni sicure relative alle sue origini. Nacque certamente a Udine,
negli anni intorno al 1370, da Nicoletto del fu Antonio di Venezia, stabilitosi
nel capoluogo del Friuli per lo meno dal 1352, quando fece richiesta della
cittadinanza, ottenuta il 21 marzo 1361. Il nome della madre, Elena, privo
peraltro di ulteriori informazioni, ci perviene da un’indicazione di Antonio
Joppi, a tutt’oggi comunque non suffragata da prove documentarie. Uno tra i
suoi primi biografi, il notaio cividalese Marcantonio Nicoletti (1536-1596), lo
ascrive alla propria famiglia, che deriverebbe da un Nicoletto la cui sepoltura,
nel chiostro domenicano di S. Pietro Martire, risalente al tempo del patriarca
Antonio Caetani, era ornata di un’iscrizione con le insegne nobiliari. Antonio
Joppi identifica quest’iscrizione, in seguito andata perduta, con quella
descritta in una nota manoscritta in calce ad un’edizione latina di Platone,
relativa ad un «Nicolettus de Broio auctor de Venetiis». Secondo questa linea
di eruditi, dunque, P. sarebbe membro della nobile famiglia dei Nicoletti di
Udine, poi di Cividale, le cui vicende furono ricostruite da Francesco di
Manzano nel 1894. Probabilmente negli anni intorno al 1383 P. fu accolto
nell’ordine degli Eremiti di S. Agostino, presso il convento di S. Stefano a
Venezia. Qui egli compì il suo noviziato e la prima formazione culturale sino al
9 dicembre 1387, quando il priore generale dell’ordine Bartolomeo da Venezia lo
assegnò come studente al convento dei Ss. Filippo e Giacomo di Padova, sede
dello “studium generale” della provincia della Marca Trevigiana. Di lì a pochi
anni, il 31 agosto 1390, il priore generale destinò P., insieme con il cugino
più anziano Paolo Francesco da Venezia, come studente “de gratia” (cioè a spese
della provincia, e non dell’Ordine), allo “studium generale” di Oxford, per
intraprendere il percorso di studi avanzati che doveva condurlo al magistero in
teologia. In quegli anni lo scisma d’Occidente aveva infatti reso difficile per
gli studenti italiani il compimento degli studi superiori presso l’università
di Parigi, di obbedienza avignonese: pochi anni prima lo stesso Bartolomeo da
Venezia aveva in effetti precluso formalmente questa possibilità agli studenti
agostiniani. Durante il triennio di permanenza ad Oxford P. ebbe la possibilità
di conoscere ed approfondire gli sviluppi più recenti ed avanzati dell’insegnamento
filosofico e di quello logico in particolare. Tornato a Padova, sempre insieme
al cugino, mise a frutto questa esperienza nel corso del suo insegnamento come
“cursor”, probabilmente dal 1393 al 1396, e poi come “lector”, sino al 1401.
Risale a questi anni la composizione delle sue opere logiche più fortunate, la
Logica parva e la Logica magna. La prima, diffusa ancor oggi in oltre 80 codici
e in 25 edizioni a stampa, è un manuale sintetico, ma molto aggiornato,
composto sul modello dei manuali inglesi contemporanei, che arrivò negli anni a
contendere il primato nel settore alle duecentesche Summulae logicales di
Pietro Ispano e fu persino reso obbligatorio nel curriculum universitario
padovano dal Senato di Venezia nel 1496. La seconda, molto più estesa, conobbe
invece una diffusione assai più limitata, anche perché, rivolgendosi agli
specialisti, forniva un panorama approfondito e molto dettagliato di tutte le
più recenti dottrine logiche. Testimonianza in quegli stessi anni (1396-1397)
dell’interesse immediato che le novità importate da P. seppero suscitare si
riscontra nel carteggio di Pietro Tomasi, studente a Padova e poi “magister” di
filosofia a Pavia, che si rivolse al suocero Gian Ludovico Lambertazzi,
professore di diritto presso lo studio padovano, e allo stesso Paolo Francesco
di Venezia per ottenere copie delle due opere ancora in corso di redazione. Fu
con tutta probabilità a Padova che P. trascorse i primi anni del XV secolo,
impegnato a completare il suo curriculum accademico con un’intensa attività
didattica e di studio. Frutto del suo lavoro di baccelliere in teologia fu la
Super primum Sententiarum Iohannis de Ripae lecturae abbreviatio, terminata
prima del 1402, mentre al suo insegnamento in arti e in filosofia (anch’esso
parte dei doveri di un baccelliere in teologia) si debbono ricondurre varie
opere di carattere esegetico, come le Conclusiones Ethicorum, le Conclusiones
Politicorum, le Conclusiones Posteriorum Analyticorum e probabilmente anche due
opere logiche come la Quadratura e i Sophismata. Il suo primo grande commento
aristotelico, la Lectura super libros Posteriorum Analyticorum, fu compiuto nel
1406, quando già P. aveva ottenuto il grado di “magister artium et theologiae”.
A quest’opera logica fecero seguito, rispettivamente nel 1408 e nel 1409, due
opere di filosofia naturale: la Summa philosophiae naturalis e l’Expositio
superPhysicam Aristotelis. A partire dal 1408 troviamo il teologo agostiniano
tra i promotori dello studio padovano, quindi l’inizio del suo insegnamento universitario
deve essere collocato prima di questa data (in precedenza la sua attività
didattica si era svolta all’interno dello studio agostiniano di Padova). Nel
periodo che va dal 1408 al 1420 egli compare regolarmente, sempre nel ruolo di
promotore, nei registri delle lauree padovane, con le sole eccezioni degli anni
1409, 1412 e 1419. Tra coloro, oltre una trentina, che ottennero i gradi sotto
il suo magistero si annoverano i patrizi veneti Nicolò Contarini, Pietro
Giustiniani e Marco Lippomano, il benedettino Giovanni Michiel, l’umanista e
scienziato Giovanni Fontana. Suoi studenti furono inoltre il medico Michele
Savonarola, il giurista Ludovico Foscarini e Giovanni Antonio da Imola, che gli
succederà sulla cattedra padovana. Oltre a dedicarsi ad un’intensa attività
accademica, in questi anni P. assunse anche responsabilità all’interno della
sua congregazione ecclesiastica, cominciando da quella più elevata: il primo di
maggio 1409, poco più di un mese prima di essere deposto dal concilio di Pisa,
il pontefice Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, lo nominò vicario
generale dell’ordine agostiniano. Nulla si sa della sua attività da lui svolta
in questa carica e neppure se nei mesi successivi egli fosse al seguito del
papa al concilio di Cividale. È noto invece che pochi mesi dopo, nel febbraio
1410, forse in conseguenza del declino politico di Gregorio XII, rassegnò il
suo incarico. Nel medesimo periodo, tuttavia, P. fu anche priore provinciale
della Marca Trevigiana e come tale, per ordine del Consiglio dei Dieci di
Venezia, comminò il 28 agosto 1409 la pena del carcere al confratello Simone da
Ancona, reo di aver continuato a sostenere il pontefice deposto a Pisa. In
breve tempo le relazioni di P. con il governo della Serenissima si fecero
ancora più strette: verso la fine del 1409 fu inviato come “orator” a Buda
presso il re d’Ungheria e re dei Romani Sigismondo del Lussemburgo, allora
diviso da un’aspra contesa con la Repubblica Veneta per il dominio della
Dalmazia, con l’incarico di preparare il terreno per un’ambasceria ufficiale
che doveva tentare un accordo. Il suo soggiorno presso la capitale ungherese
ebbe termine nel gennaio 1410, ma nel luglio dello stesso anno il governo
veneto utilizzò nuovamente i suoi servizi come ambasciatore a Ulma in Germania
e presso Federico duca d’Austria e conte del Tirolo. In seguito a questi
incarichi la Serenissima compensò P. con la somma di cento ducati e con il
sostegno nel conseguimento della cattedra padovana retta in quel momento da
Biagio Pelacani da Parma. L’anno successivo quest’ultimo lasciò in effetti lo
studio padovano per quello parmense e l’agostiniano fu nominato al suo posto.
Ancor più importante la missione che fu affidata a P. il 23 gennaio 1412: in un
momento assai critico per la Repubblica Veneta, con le truppe imperiali di
Sigismondo che occupavano il Friuli, egli fu inviato presso la corte di
Ladislao Iagellone, re di Polonia, con l’incarico di fare il possibile per
stabilire con la Polonia un’alleanza in funzione anti-ungherese, così da stringere
Sigismondo da sud e da nord e forzarlo ad abbandonare la sua impresa italiana.
Le istruzioni diplomatiche contenevano anche la raccomandazione di manifestare
al re polacco la piena disponibilità di Venezia a sostenerlo, nel caso questi
volesse lanciarsi a sua volta nell’avventura imperiale. P. giunse a
Cracoviaprobabilmente a fine febbraio o inizio marzo 1412, poi a fine marzo si
trasferì a Kosice, in Slovacchia, dove si trovavano re Iagellone e re
Sigismondo, che avevano già firmato un accordo. Il risultato di questa prima
fase dell’ambasceria fu di ottenere l’offerta da parte del re polacco di
fungere da mediatore tra Venezia e Sigismondo per dirimere la questione della
Dalmazia. P. rientrò a Veneziaprima del 10 maggio, ma fu subito rimandato dal
re polacco, in quel momento a Buda alla corte di Sigismondo, visto il credito
che era riuscito a guadagnarsi presso di lui. L’agostiniano si unì quindi agli
ambasciatori Tommaso Mocenigo e Antonio Contarini, che dovevano trattare la
pace con Sigismondo, ma nonostante l’appoggio di re Iagellone l’iniziativa
diplomatica non poté che constatare l’impossibilità di trovare uno spazio di
mediazione tra i due contendenti e a fine giugno 1412 l’ambasceria fu di
ritorno a Venezia. P. appariva ormai aver raggiunto in questi anni notevoli
traguardi: titolare di una cattedra prestigiosa nell’ateneo padovano, ben noto
negli ambienti accademici per la sua dottrina e le sue opere, autorevole
rappresentante del proprio ordine, poteva per di più vantare una notevole
esperienza diplomatica ed importanti relazioni a Venezia e nelle corti
dell’Europa centro-orientale. La sua attività di commentatore aristotelico
proseguiva inoltre alacremente: sono da ascrivere probabilmente a questo
periodo, vale a dire tra il 1410 e il 1420, uno Scriptum superlibros De anima,
una Expositio super De generatione et corruptione e la monumentale Lectura
super libros Metaphysicorum. Ma improvvisamente nel 1415 la sua fortuna
accademica e politica cominciò a subire qualche contraccolpo: il 6 giugno il
senato veneziano votò una censura che colpiva P., insieme con il medico Antonio
Cermisone, per essersi assentato da Padova e dai propri doveri accademici senza
permesso; tre mesi dopo il Consiglio dei Dieci lo invitò a discolparsi da
accuse (non meglio precisate) e gli proibì di lasciare Padova senza una licenza
espressa del consiglio stesso; ancora, un anno dopo, nel maggio 1416 la
richiesta di P. di ottenere la licenza fu respinta e solo nel giugno dello
stesso anno fu concessa, in considerazione dei doveri concernenti la sua carica
di priore provinciale, ma con la condizione che non si recasse a Costanza o in
altro luogo dove si fosse celebrato il concilio. Le circostanze di questi
provvedimenti disciplinari non sono ulteriormente note, ma forniscono l’informazione
che P. era nuovamente divenuto priore provinciale della Marca Trevigiana (lo
era già dagli ultimi mesi del 1414) e soprattutto che non godeva più della
fiducia di Venezia, che non lo voleva presente al concilio. Peraltro l’anno
successivo il senato veneziano, con un atto certamente onorifico, gli concesse
il privilegio di indossare il berretto nero dei patrizi, privilegio poi esteso,
alla sua morte, a tutti i membri del convento di S. Stefano. Di lì a qualche
anno, tuttavia, i rapporti di P. con il governo della repubblica veneta si
guastarono irrimediabilmente. Per motivi che permangono tuttora ignoti il
teologo agostiniano, nuovamente eletto priore provinciale dal capitolo
dell’ordine tenuto a Ferrara nel maggio 1420, venne sottoposto ad un procedimento
disciplinare da parte del Consiglio dei Dieci che si concluse in settembre con
il suo bando quinquennale a Ravenna, da estendere a dieci anni qualora avesse
infranto il divieto di riattraversare anzitempo i confini del dominio veneto.
P. chiese ed ottenne una proroga di un mese, allo scopo di rimettere nelle mani
del priore generale Agostino Favaroni le questioni connesse con la sua carica
di provinciale, poi nell’ottobre 1420 fu assegnato dal generale al convento di
Siena e gli fu concessa la licenza di insegnare nello studio di quella città.
Da quel momento P. non rimise più piede in territorio veneziano fino ad un anno
prima di morire. A Siena rimase per quattro anni; in questo periodo i suoi
biografi, e per primo Cristoforo Barzizza che tenne la sua orazione funebre
presso lo studio patavino, collocano un episodio in cui P. avrebbe agito come
un inquisitore, sfidando e sconfiggendo in una disputa l’eretico Francesco
Porcario, forse un fraticello, che finì per questo sul rogo. Il Barzizza parla
a questo proposito anche di uno scritto antiereticale di P., di cui sinora
tuttavia non sono state rinvenute tracce. Il 26 maggio 1422 venne designato
reggente, per l’anno 1423, dello studio agostiniano di Siena; il 14 marzo 1423
redasse per la prima volta un testamento, in cui lasciava al convento padovano
i suoi libri e titoli veneziani («de camera imprestitorum comunis Venetiarum»),
che egli deteneva su licenza del priore generale, per il valore di mille ducati
d’oro, come forma di risarcimento per i gravami e le spese che detto convento
aveva dovuto sopportare per la sua lunga permanenza, nonostante il suo convento
nativo fosse quello veneziano di S. Stefano. L’anno successivo, il 23 marzo
1424, P. venne assegnato al convento di Bologna, con licenza di insegnare nello
studio cittadino in qualsiasi materia. Durante il soggiorno felsineo si ricorda
una sua disputa con il maestro Nicolò Fava, valente filosofo e dialettico di
inclinazioni dottrinali opposte a quelle di P. La sua permanenza a Bologna
tuttavia non durò a lungo, poiché già nell’ottobre 1424 fu assegnato al
convento di Perugia, nuovamente con licenza di insegnare presso lo studio
cittadino. Gli anni successivi, a Perugia, videro P. impegnato in attività
didattiche (gli fu concesso ad esempio di esaminare alcuni studenti agostiniani
per il conferimento del titolo di “lector”) e nella stesura del suo ultimo
commento aristotelico, l’Expositio super Universalia Porphyrii et super
Praedicamenta Aristotelis, che fu completato l’11 marzo 1428. I registri dell’ordine
agostiniano informano inoltre che il 3 luglio 1426 P. redasse una seconda
versione del suo testamento, in cui furono aggiunti come beneficiari la sorella
Lucia e il confratello e assistente Nicola da Treviso, e che il primo di agosto
dello stesso anno gli fu concessa licenza di recarsi a Roma ogni volta che i
suoi lavori lo rendessero necessario. Nel 1427, in occasione delle dimissioni
del priore di Perugia, gli fu conferito l’incarico di reggere il convento
durante la vacanza e di scegliere il nuovo priore ed inoltre a lui toccò di
svolgere la funzione di visitatore presso lo stesso convento e quello di Todi.
Infine, nel giugno 1428, in seguito ad una supplica fatta pervenire insieme con
la raccomandazione del cardinale di S. Croce, il Consiglio dei Dieci di Venezia
revocò finalmente il bando comminato otto anni prima e P. poté far ritorno a
Padova e riprendere il suo insegnamento, anche se soltanto per pochi mesi,
giacché il 15 giugno 1429, mentre teneva il corso sul De anima di Aristotele,
morì. Oltre alle opere sopra ricordate, rilevanti soprattutto la sua attività
di commentatore aristotelico e di maestro di teologia, P. lasciò anche una
raccolta di Sermones quadragesimales, uno scritto antigiudaico, le Quaestiones
XXII de messia adversus Judaeos, un’opera mariologica, il De conceptione
Beatissimae Virginis Mariae, una versione latina della Composizione del mondo
di Ristoro d’Arezzo e diverse orazioni. Secondo il giudizio di Alessandro
Conti, il più recente studioso del suo pensiero, P. fu «il più importante
pensatore italiano del suo tempo ed uno dei più importanti ed interessanti
logici del medioevo». La sua fama e le sue opere contribuirono a fare dello
studio patavino un centro intellettuale di rinomanza europea; le sue dottrine,
improntate al realismo degli universali in ambito ontologico e ad una linea
vicina a quella dell’aristotelismo moderato di Alberto Magno e di Tommaso
d’Aquino nel campo della filosofia naturale, innescarono in Italia un dibattito
scientifico i cui sviluppi condussero nel corso del XV secolo ad un
rinnovamento dell’orizzonte culturale europeo. CHIUDIAndrea Tabarroni
Bibliografia M. NICOLETTI, Vita dei tre Paoli, ms BCU, Joppi, 628. F.
MOMIGLIANO, Paolo Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del
suo tempo (Contributo alla Storia della filosofia del secolo XV), Udine,
Tipografia G.B. Doretti, 1907 (estratto dagli «Atti dell’Accademia di Udine»,
s. III, 14); R. CESSI, Alcune notizie su Paolo Veneto, «Bollettino del Museo
civico di Padova», 12 (1909), 79-92; G. GENTILE, Intorno alla biografia di
Paolo Veneto, in Studi sul Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1920, 76-86; F.
BOTTIN, Logica e filosofia naturale nelle opere di Paolo Veneto, in Scienza e
filosofia all’Università di Padova nel Quattrocento, a cura di A. POPPI,
Trieste, Lint, 1983, 85-124; A.R. PERREIAH, Paul of Venice: A Bibliographical
Guide, Bowling Green (Ohio), Bowling Green State Universiy, 1986; S. DE FANTI,
La missione diplomatica di Paolo Veneto al re di Polonia: il decisivo
contributo polacco allaconoscenza della biografia del Nicoletti, in Memor fui
dierum antiquorum. Studi in memoria di Luigi De Biasio, a cura di P.C. IOLY
ZORATTINI - A.M. CAPRONI, con la collab. di A. STEFANUTTI, Udine, Campanotto
editore, 1995, 69-90; A.D. CONTI, Essenza e verità. Forme e strutture del reale
in Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del tardo medioevo, Roma, Istituto
storico italiano per il medio evo, 1996; C. FROVA - R. NIGRI, Un’orazione
universitaria di Paolo Veneto, «Annali di storia delle università italiane», 2
(1998), 125-137; PAULUS VENETUS, Super primum sententiarum Johannis de Ripa
lecturae abbreviatio. Liber 1, ed. crit. parz. F. RUELLO, Firenze, Edizioni del
Galluzzo, 2000; PAULUS VENETUS, Logica Parva. First Critical Edition from the
Manuscripts with Introduction andCommentary, ed. A.R. PERREIAH,
Leiden-Boston-Köln, Brill, 2002.LOGICA PAVLI rectam atgemendatam. Additis
quotationibus Postilis ad textus declaratione. Necnon Tabulao figuris. VENETI
HABES INHOC ENCHIRIDIO summam totius Dialecticæ, mira quad a brevitatem atos
facilitate ad utilitatem stude tium conscriptam ab eximioætatis suæ magistro
Paulo Veneto Nupero diligenti studio cor Venetes EMANUELE ITECA NAZ GOMA ME
YOLL .pkrior dla Lohan Somerilatarei long
COMO0Io (ICO? CO ? ri 1 1 ROMA ni logica OLUTELY A parva. A Pauli Veneti
Heremita Onspiciens librorum quorundam magnitudinem redium constituentem in
animo studerium nec non et aliorum nimiam brevitatem quibus nulla se ethica re
est annexa doctrina. Ideo volens cap.s. et medium retinere utriusg sapiensnam
5.ethic, turam extremt, compendium utile construxi iuveni t.co.6. ВB bus pluribus diui sum
tractatibus, Quorum primus summularum
tradit notitiam. Septimus contra primum obiicit, solutionem ad dens
responfiuam. Quia ergo doctrina quecuncka communiori ut ait t-C.4 . PHILOSOPHUS
in prohemio phylic. sumic exordsum, ideo Dislot tractatus primus terminum sic
diffinies incipitapriori. miningp De definitione termini et eius divisione
quide. i. II suppositionum declarat
mareriam. III consequentiarum ostendit doctrinam. IV terminorum vim instruir
probativam. V ligandi regulam docet obligatiuam. VI insolubilia solvendi dar
artem et viam. VIII tertium fortificat prationem argumentativa. cap. 1. prio.
c. TERMINUS EST SIGNUM ORATIONIS CONSTITUTIVUM. Et BOEZIO ut pars propinquae
iusdem, ut: “homo”,lyani in. 1, de mal. Et notanter dicitur propinqua quia
oratione vocatur “dictio”, remota vocatur litera vel syllaba, di 2. ecin. i
Dstio igitur et non litera uel syllaba, est terminus. defyllo. Terminum quidam
est per cate. T differē. Tio habet partes propinquas et remotas,
propinquatop.c. 2 cius vide
SIGNIFICATIVUS est ile qui per se sumptus nihil representat --: ut s. “me,”
“te,” “omnis”, “nullus,” “quilibet”, “quicunque”, “alter”, et consimiles.
Terminorum quidam si secunda significant naturaliter et quidam AD
PLACITUM.Termi divisio p nus naturaliter si significans est ille qui apud omnes
eius qua vide de m efd RE-PRAESENTATIVUS, sicut ly “homo“animal", in
primor mente. Terminus AD PLACITUM significans est ille qui ye.c.i.et NON apud
OMNES eiusdem est re-praesentativus sicut ille ipsum. Terminus “homo” in voce vel in scripto, qui
apud nosft. B Paul. sin significat ‘hominem’, sed apud alias nationes nihil
significant, ut sunt greci (“anthropos,” “aner”). Reefo.Terminorum quidam est
categorematicus, et quida3 S.colū. SYNcategorematicus.Terminus categorematicus
est pri. diui. ticularia particulariter. Præpositiones determinatsub certocafu.
Aduerbiauerbum, et coniunctiones ha minum.i.rem quæ non est terminus datoque
effet,ficut TRACTATVS Secunduz se significativus, quidamnon.Terminus perle signi
Voety fancarious est ile qui per se sumptus aliquid re-praesen mologiã tasuely
“homo,” ly “animal”. Terminus non per se signi ille quitam perle quam cum alio
habet proprium fie Tertia significatum – ut: “homo”: siueen imponatur in oratio
divisione, lieu extra, semper significar ‘hominem’. Terminus Dehac
SYNcategorematicus est terminus habens officium qui vide la perfesumptus
nullius est significativus. ut signa distric tiusilo.butiva – ut: “omnis”,
“nullus”, et signa particularia – ut: ali mafo. 2. “aliquis”, “alter”, et
præpositiones (“to”), et adverbial et coniuctiones. Signa namqz distributiua
habent officium, fal.3.quia determinant distributive, universalia yłr, et par
bent coniungere terminus vel orationes. Terminorum quidam est prime intentio
Pau.lo.nis, et quidam secundæ intentionis. Terminus primæ ma, sol. intentionis
est terminus mentalis significans non ter D“homo, significat sor. et pla.
quorum nullus potest esse terminus. Terminus autem secunde intentionis est
terminus mentalis significans solum modo terminum A vel propositionem, ut ili
termini mentales, nomen, verbum, participium, propositio, oratio et huius modi.
Nis est terminus vocalis vel scriptus significans solum B modo terminum vel
propositionem utili termini vocales vel scripti, nomen, verbum participium,
athuius modi. Terminorum quidam funcin complexi, et quidam complexi. Terminus
in 6.diui complexus vocatur dictio – ut: lylapis,ly lignum. Sed fioVide
terminus complexus est oratio – ut: “homo [est] albus”, lor. et Paul.in placo,
deum effe. et huiusmodi. De nomine. liter considerat: ideo de his restat
deffnitiones assignare. NOMEN est terminus significativus lo.ma.f. SINE TEMPORE
cuius nulla pars aliquid significat separa dissintta – ut: “homo”. In ifta definitione ponitur terminus lotionoie
cogeneris, quia omne nomem est terminus. et non econ proqua verso: dicitur
significatiuus, quia termini non significativi depri non funt nomina apud
logicum, licet bene apud grammaticum – ut: “omnis”, “nullus”, et similia. Dicitur ‘sine tempore’, ad
differentiam verbi et participia, quæ significant *cum* tempore. Ponitur:
‘cuius D nula pars aliquid significant separata’ -- ad diferentiam orationis,
cuius partes significant separate mo pyo er.c.c
Terminorum quidam eat s.diuifio prime impositionis, quidam
secundæ.Terminus prime impositionis est terminus vocalis vel sriptus signi
Boe.in ficans non terminum -- ut “homo”, et
“animal” in voce vel in scripto.Terminus autem secundam impositio. In
princ. L3 Via de nominee et uerbo ex quibus oratio с componitur et propositio, logicus
principa . Defini. V uuset extremorum unitiuus, cuius nulla pars aliquid
significar separata, ut “curre” c vel dispur i io b i. tar. Ec dicitur primo,
temporaliter significativus, ad eric. i. tiw oro pin . p i disnes positum cum
apposito sicut verbum. ceterg autem par trcuiæ ponuntur. Sicut in deffinitione
nominis. Ratio est terminus significativus, cuius ali- B garlicant separatę.
Orationum alia perfecta, alia hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant
separata, ut “homo [est] albus” deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca
Jüfferentiam nominis et verbiquorum partes non fi cite suz etc . cogeneris,
quia omnis propositio est oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non
obstante quod ilum generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a
boviti imperfecta. Oratio perfecta est ila quæ perfectum len no Ide uim uce cio
imperfecta est ila quæ imperfectum sensum gene. ferinõis rat, Notandum quò d
tres sunt species orationis perfectæ quia orationum perfectarum. Alia INDICATIVA
– ut: “Homo currit” . Alia est oratio imperativa – ut: “doceioannem.” Alia ed
incelreligie ineis oratio optative – ut: “Utinam essem bonus logicus”. fint ap
te nate. VERBUM est terminus temporaliter significati differentiam nominis quod
significat sine tempore. Secundo dicitur, et extremorum uniciuus: ad
differentia participium quod significar cum tempore, sed non unitfup 0 -3 gñare
fectū sen bus vide ilo, ma. fol. Propositio eit oratio indicatiua verum vel falsum significans –
ut: “Homo currit” -- ponitur oratio lo non e converso. Secundo dicitur
indicativa. quia Cola indicari va est propositio, non autem imperativa nec
optativa.Vicimoannectitur: verum vel falsum significans: propcer tales
orationes. Cortes potest, plato in PS pro qui
alia categorica alia hypothetica. Propositio ca divisio. Categorica est
ila quæ habet subiectum prædicatum et Vide in copulam tanquam principales
partes fui – ut: “Homo est animal.” l o,m a . f o animal. Subiectum est ly
“homo”, prædicatum uero,101.col, ly “animal”. Copula illud verbum “est”: quia
coniungit tum. Dicitur quod habet IMPLICATUM prædicatum. vide licet,ły
“currens” quod patet in resolvendo illud uerbum “currit.” -- in: sum currens,
es currens, est currens, et suum participium. Subiectum est de quo aliquid dicitur
– ut: “homo”. Prædicatum vero quod dicitur de altero – ut: “animal.” Sed copula
Quid (u bicctuz semper est verbum substantivum: “sum currens”, “es currens vel
hom”, “est homo et currens.” De quidp. propositione hypothetica posterius
dicetur ad cuius tum et C differentiam point urilla particula: principales
partes quid co . D sint indicatiue. Quia non significant verum nec falsum.
Diffini cum sint orations imperfectæ. Ca. 6. luifiones sub propositione
contentas sequitur D numerare. Propositionum Prima subiectum cum predicato. B
rir est propositio categorica et non habet prædica. Solutio Et si dicatur “homo
cur . Dubo . fui.quia principales partes hypotheticæ non sunt pula, subiectum
et prædicatum: sed plures categoricęut. Propoli diuifiotionum categoricarum alia affirmativa, alia
negativa. Propositio categorica affirmatiua est ila in ligiex.i. qua verbum
principale affirmatur, ut “Homo currit.” Propositio categorica negativa est
illa in qua er: Tertia bum principale
negatur – ut: “Homo NON currit” S. Propositionum categori:Diffusi carumalia
vera, alia falsa. Propositio categorica ue us&hac ra est ila cuius
primarium et adequatum signifi-materia carð est verum – ut: “Tu es homo.” Hæc
enim est uera. “Tu es vide in homo.” quiate esse hominem est verum.Voco filoma.
divisio A tio. i. gi her. C. 5. . a4 1
mo. Cetera autem significate, utte esse animal, teelic substantiam, et
huius modi, sunt significate secundaria, et pones illa non dicitur propositio
vera nec falsa. Propositio categorica falsa est illa cuius primariam et
adequatum significatum est falsum – ut: “Tu es asinus.” ria, alia contingens.
Propositio necessaria est ila, cuius primarium et adequatum significatum est
necessarium – ut: “Deus est.” Propositio contingens est illa cuius
significatum primarium et adequatum est contigens – ut: “Tu es homo”. Et voco significatum contingens
ilud C quod in differenter potesse se verum vel falsum. Propositionum
categoricarum alia alicuius uide.i. quantitatis, alia nullius. Propofitio
categorica alicu prior.n.ius quantitates est illa quæ est universalis,
particularis, .in pri, indefinita, vel singularis. Propositio universalis est
illa in qua subởcitur terminus communis signo universali determinatus – ut:
“Omnis homo currit”. Terminum communem voco in presenti nomen appellativum et
pronome pluralis numeri. Signa universalia sunt ista: “omnis,”
“nullus,” “quilibet,” unus gfavteros, ncuter, quails D. :.libet, quantusliber,
et huius modi. Propositio particularis est illa in qua subiicitur terminus
comunis igno 4. diui afol.significatum
primarium et adequatum propositionis, u r e a a d f. quod est simile orationi
infinitive vel coniunctiue il 267.secundlius. undete esse hominem, vel q “Tu es
homo.”, diciturfiA dępris. Significatum primarium et adequatum illius, “Tu es
homo.” Propositionum categoricarum alia fio vide possibilis, alia impossibilis.
Propofitio categorica por ilo.ma.fibilis eft illa cuius primarium et adequatum
significatum est possible – ut: “Tu curris.” Propositio categorica et
adequatūfi. usa ad impossibilis est illa cuius PRIMARIUM SIGNIFICATUM est
impossibile – ut: “Homo est asinus.” Propositionum categoricarum alia ne
cella larem, nomen proprium aut
pronomen demonstravi Suum singularis numeri, ut: “iste”, “ista”, “istud”. Ex
quibus fe B quitur iam quæ est caregorica nullius quantitatis. Et dicitur quod
illa quæ non est universalis, nec particularis, nec indefinita, nec singularis
-- ut exclusive et exceptivæ et re-duplicative, videlicet, “Tantum homo currit,
omnis homo preterfor. mouetur, “Omnis homo in quantum homo est animal”. Luxta primam secunda Qualis, ne, ue
laf, u. Quanta, par, in, fin, Prima pars sic intelligitur, quod ad
interrogationem de propositionc factam r Quæ respondetur categorica, vel
hypothetica. Secunda autem asserit quod ad interrogatione factam per Qualis? Respondetur
affirmatiua vel negatiua. Sed in tertia denotata a quod ad interrogationem
factam g Quan tarmñdcatur, universalis, particularis indefinita, ucl
singularis, et hoc fm exigentiam propositionis propositę. De duabus alijs pposition
am divisionibus. Ræterfu pradictas diuisiones dugalią declaran- Prima cur.
Propositionum categorica divisio – ut: “Homo currit.” Propositio categorica
modalis est illa in qua ponitur aliquis modus -- ut possibile est sor, cur
particulari determinatus – ut: “Aliquis homo disputant.” Si Idem in gna
particularia sunt ista: “aliquis,” “quidam”, “alter”, reli7. tract. A quus, et
huiusmodi. Propositio indefinita est illa in huius in qua subijcicur terminus
communis SINE aliquo signo – ut: c.i.& in “Homo est animal.” Propositio
singularis est ila inqua lo.ma. . fubijcitur terminus discretus, vel terminus
comiscum . col. pronomine demonstratiuo singularis numeri. Exem :4. plumprimi.
sor.currit. Exemplum fecundi: “Ille homo disputat.” Voco autem terminum discretum
vel singu. с P. ultimam divifiones ponitur iste versus. Querca, uel ră alia
dein efle, alia modalis. Propositio catego Dricadein efic est illa in qua non
ponitur aliquis modus 1: Figura de in effe. r e r e .Modi autem sunt sex . c possibile,
impossibile ne Seconda. necessarium, contingens verum et falsum. Propositionum
modalium: quædam est in sensu diviso et quædam in sensu composito. Propositio
modalis in sensu diviso est ila in qua modus mediat inter accusativum casum et
verbum infinitivi modi – ut: “Fortem possibile est currere.” Propofitio modalis
in sensu composito est illa in qua modus totaliter præcedit, vel finaliter sub
sequitur – ut: “Deum esse est necessarium.” Impossibile est
hominem esse asinum. Ex his divisionibus originantur tres figuræ. Quarum prima
dicitur de in effe. Secunda modalis de sensu diviso fchabés admodum primæ.
Tertia modalis de sensu composito: leda cæteris disperata. Quartum
declarationes ha besin exemplo hic posito. A G libet ho currit. adaz hó ñ
currit, Nurbo de currit. Lontraric. Contadictorie dictorie subalterne, subalterne Figura: demesse
Gulltra gda3 ha cuifit,
subcontrarie reasu diuisio Contrarie Nullum hoie3 possibile est! curtcit
. Contradictorie Sub-alterne Sub-alterne de sensu dictorie Lörra mine polee
curitie . Modalis de sensu diviso. sub-contraric Modalis de sensu composito. Nec
currere est los. Impose est currere for sub-alterne Contra sub-alterne dictorie
Aliquem, ho Contrarie de sensu composito: Fig. Loncra . dictonic Contingens et por, non
currere Figura Que libet ho minepole? currere . Pole for currtre, A liquê home
minē ñ pole est currere, sub-contraric
Secunda præcise proeodemuelpro eisdem, sunt contrariæ in figura – ut:
“Quilibet homo currit,” “Nullus homo currit.” Particularis affirmatiua et particularis negativa de consimilibus
subiectis prædicatis et copulis, supponentibus precise proeodemuel pro eisdem
sunt sub-contrariæ in figura – ut: “Quidam homo B Tertia currir, etquidā homo
non currit. Universalis affirmativa et
particularis negativa, ucl universalis negativa et particularis
affirmativa. de consimilibus subiectis predicatis et copulis, supponentibus.
precisepro eodem vel pro cisdem, fu Tabula omnium capitulorum huius logicæ
primus est de mentis summulis quiconti De syllogismo: Tractatus secundus est
determis. Car.Ź Cap. primă de definitioc De verbo 3 6 De diuifione propofi. De
figuris propositio pothetica po. copu. ne ciusdem. cn ūt materialiter etqñ
PERSONALITER De propositione hy. De ampliationibus po. disiuncti. 15 De praedicabilibus
Tractatus tertius. de eiusdem di relativorum net De oratione De propositione
norum quando fuppo num deuppolitionibus có De cognitione termi De appellationib
De converfionetibus supponis et de
diuisio De suppositione per de natur appõnuz sonali tractatus divisa De nomine
tionum De duabus alös diui De
supposition ma. de equipollentős de signis confunden de propositione hy de
relativis proqui bussupponunc De propositione hy. De modo supponen cinens C fionibus propõnuzs teriali et de
diuisione DE DECEM PRAEDICAMENTA de decem prædica, consequentősconti. de
resolubi de propositionibus Tractatus quintus est tionc obligationis et De
obiectionibus co tradictasreg. TABVLA uo tionc consequentiæ et De hypo.
descriptibio eorum divisionibus De regulis generalibus consequentiæ for De gradu pofitiuocô malis De regulis con.
for. q De gradu comparati De regulis
poenespropositiones quáras Delydiffert positions non quan De exceptivis De ly
necessario et contingenter parabiliter sõpto poncs superius, atq De gradu superlati -minos pertinentes et De
ly incipit et defi : impertinentes
nir nens. De officialibus pro De
defini libus. po. de reg. eius. inferius
De regulis poncs pro De exclusiuis universalibus De convertibilitate uo. tas
Dedecem lis alñsregu De ly totus positioncs hypotheticas De ab æterno De
infinitum de probationibus ter obligatory artis: De reduplicativis De regulis
poencster De immediate De semper De regu.pancs pro tinens minorum continens. De
deffic go cioc insolubilib? et di s Obiectiones cöcrare tra insolubilia
Obiectiones contradi milibus
propositioni bus regulas huius de defin De obiectionibus có finitioncs
.hui? De exclusivis insolu De insolubili
difiun- ulti. ca.contra modos mi. De insolubili particu huiuspri De insolubilibus no é de obic
Obiectiones contra Obiectiones addicta est de obiectionibus contra De
obiectionibus factis contra re propositionum huiusprimitrac. De Amilibus et
diffig Obiectiones contra pr De deposition ibuster Obiectiones contra re
minorum Tractatus Sextus De insolubili uniuer Cali bus bilibus riuo ctivo
figurarum apparentibus Obiectio. Gulasprimo et gulas huiuspri de insolubilibus
Obiectiones contra dif habens. .huius
uifioncciusdem. Gulas huiuspri lari vel indefinito mitra. de predicabili. De insolubili copula.
trac.in maceria syllogismorum n a contra dicta huiuscertñ.tra, inm a Štionibus
factis con car . las.huius terti las.
huius terti tracta. Venetijs ExpensisheredumLucæ TABVLA teria consequentiară,
tracta. tëtracta. Obiectacontraregu Obiectacontraregu tracta. las, huiustertij
las. huiusterto tracta Antonñ Iunte Florentini
Registrum illaiquaiferi predicaturde terrogatoez factapqualise
fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai
deturq rifibiť totaratio quafuperi pzedicaturdein quareficpdicaturde illiseq?
feriozivelecóuersofzquod éppziapafsioilliustermini dictiévľoriadealiquod illon
bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin vniuoc'pze
iquappuúvelaccñspzedir. Dicabilisdeplib ieoquod caturde genere fpeciezpria
quale accắtaleipuertiblrfi bľfuoidiuiduoautepuerfo Eréplüpzimi:vtbóèrifibil
dirurindecepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimueltpredicarsitu lub
bileéhoalbueaial.Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl'me
teri’lb alubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatioefriaťė mi? coup” subcocpozecosp?
praedicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato a
dicamentivtbóestaial.pze, aialifpes specialis simahoľ dicat ioautaccica est
piedi afinuszlbiftisfua idiuidua carioterminox diuersoz pze foztesz plato.
bzunellus fa dicamentorum vt homo é ale uellus. Secundum predicame bus. Termin
superiora dre tu est pdicamentu quátitutis liquúdicitureffeillequicon Lui
generalisfimúeftquäti. tinerillúznecóuerfoficutli tasfubý sunt duo genera aial
respectuisti terminihó alterna ärnulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz
adreliquúvz continuuz? di bocaliquidvltra. Lermin’in scretu primi
generisiftefür feriozad reliquú dicitur effe fpetieslinea superficiescoz
illequi continent urabeo. nnó pustempus locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu
funtindiuiduabiliuea fupfi iftiustermini bomo. hiclocus. Secundigeneris
Lozpozea Jnco:pozea infinitesuntfdeties. f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius
et cetera. Redicamentu zestcoő ciumeltpaffiovelpafsibilis dinario pluriuztermi,
qualitas. Quartuzestforma nozuFmsubzlupza. Etdiui,
vetcircaaliquidpitasfigura us trinarius
quaterna rizë Animatum Jnanimatuz indiuiduaverofunthicbina Sensibile Animal
Tertium piedicamentum è predicament z qualitatiscu iusgeneraliffimum est quali
Lozpus insensibile Rationale irrationale. Tas fubquofuntquattuo: ge Animal rationale
nera subalterna: non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eft naturalis p
potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis
Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies.boc cozpusboc rempus Primi
generis speties fune Quintum predicament em grāmaticalogi cazrhetorica
dicamétuació iscuiusgener quaq individua sunt becgrå rasubalteznafuntfer quozu
matica logicab rbetorica. Nullu ėsuperiusad reliquum Lertijgenerisfpessunto
risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz cozrupere equáquayindir
calidúz frigidubuidum zfic uidua funt fic generareboiez cum. quarú idiuidua
suntheç fic corruperee quum Iertijz dulcedobiamaritudohocal quartigeneris
spessuntau. bumhocnigp buius modi. Gere in longudi minuereila Quarti generis
species sut tum. quozumindiuiduafffic circulus triangulus quadra auger
eilögumficdiminuer gulus2 huiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generisspés uidua
funt. biccirculus.bicfunt cale facerez frigefacere triangulushicquadrágulus.
Quar idiuidua funtficcalefa Quartii predicamétü Ċpdi cerefic frigefacer.
Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris species funtmouct fur ralissimú eft
relatio vel ada. Súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttriagenera(
diuiduafuntficmouerefurfu alterailebita, zsup2 ficmoueredeorfum. Sertus Primum
est caparatio.Se predicamétaé predicaméruz cuduzé fuppofitio. Lertiuzė
paffioniscu generatiffimu supposition primigenerisfpe estp dalisinfenfudiuitocillaiä
nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actum ca tur. Jurtaprimamfamzvi,
sumzverbúinfinitiuimodi timam diuifiones ponitifte vt foztempoffibileé currere
versus. Quecavelip.qualif propositio modatisisenfu nevelaf. vquanta. parifin.
cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitp ad i taliter pcedirvei finaliter16
terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumef Teénecessa facta gquerespondeturcar
rium. Impoflibileé bominė tbegozica vel ipothetica. Se effe asinum. Erbis
diuifio cudaaur asseritquodaditer nibus origináturtresfigure rogationé
factamoqualisre quanpriaordeieffe. Seci, fpondetur affirmatiuavľne
damodalisofenfudiuisore gatiua. seditertiadenotat habens ad moduprime.ter, qad
interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantare spodeatvniuerfaľ pofito
fiacefisdispata qua particularis indefinita vel fin ruideclaratóesbes ierobic
gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur
figure. Uifiones duealie decla Quidam
bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie
Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer. Contradictorie Qutuber bomo currit
Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez
poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibile eft soz. currer Subcontrarie
Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra
Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft.
currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit
fecunde figurebere ptnll? bócurrit. necieptra
gulegeneralespriaé dictorie.Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalis
affirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne.Disbó
currit7 quida b?fubiectis7predicatisfup bomocurrit. qztermininifup
ponétib”precisepeodévét ponunt precisepzoeodevĽp proeisdéfuntatrarieifigu,
eisdez. Znona. n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó
currit. 2nllur provtroq; reru.Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft
particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula
particularisnegatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituantur
propofitoea infiguraitaquattuoz ponétib?pcirepeodévelp
alijsregulisipfarumcogno, cirdez suntcontrarieifigu fciturlerseu natura. quarum
ra.vtgdabócurrit?qdåbo prima eftianonestpossibile nócurrit. Lertiaregľaviuě duo
ztraria effefimulvera falis affirmatiuaapricularis benefimulfalsa.Primapars
negatiavelvlisnegatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö
fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatisfupponen funt fimulfalfa. Quilibzboè
tib?pcirepeodezvelpejsó albus znullusboestalb”.Et sunt tradictoneifigura,vt
iafimiliter Dmne animaleft quilibzbócurriteqdábóñ bomocnulluzaialefthomo
curritP.ull'bócurrit?qui Secunda regula eftiftanon dåbócurrit.Quartaregla
eftpoffibileduofubcötraria vniuersalis affirmatiazpti effefimulfalsa.
fedbenefim culari saffirmatia. Etviuer, vera. Patet pars prima ifin salis
negatiuaa particularis gulis discurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis
probaturquoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal se
peodez velpeisdezftit 16 bus. Aliquis bono n eft alby alternein
figura.vtglibzbó Aliquod animal eft homo. Et currit gdambó currit. Dar aliquod
animal non eft homo lus homo currit. gdazbol Tertia regulaeftifta. Honė
mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimulveravelfimulfalf. L madiuifio eftiftaterminori
vocaturlravelfyllaba. Pzie distributi abiitofficiuq2dtē 25boral definitio,
sebutcomienicu damagnitudiez caritus eft ilequi permitesperjeigranasoatione.
Tedium cóftitué aligdrepritatveuboliaial. kupindistan'tbeineciligaya
tezinajoftudentiuznecno terminiple fignificatius Pericarione perforsales
aliornimia; breuitatez.gbɔ eft ilequi perfe sumptusni, beit perqúemymim nulla
fereeftanera doctrina. Bil representatproisnulluseftpermainang Ideo
volensmediuftinere 7files. Secundadiuifio eft, vtriusq zsapiésnäzertremi.
iftatermiogquidazsignifi, ppendium vtilecostruriiuue cantnaturalrzquidãadpla
nibɔplurib, diuisuztractati, citum. Lerminusnatural'rfi bus.quorprimusfuimularu
gnificansestile quiapooés traditnotitia. Secud fuppo .
eiusdeestrepsentatiuusficut firionú declaratmateriá.ter ti-pregntia non dit
doctrina. Po AD PLACITVM significansé il Quartus terminoqviistruit
lequinóapudoéseiusdez é pbatiua. Quint’ligidiregu, representatiu'ficurilletermi
lazdocetobligatiuaz.Sert? nusbó in voce vel in scripto isolubiliafoluendidarartem
apud nos significatboiem. via. Septimus atraprimú apoaliquascertasnatoer
obijcitfolutione zaddensre, nibil significat vt f untgreci: fpófiuaz. Dct
aubotertium bebrei. Zertia diffinito é ifta fodificarpróem argunitati, Q
termino kquidaeftcatbe uá. Quiag doctrinaque cun, gozematiczgdáfincathego
acoiozivtaitphusinpzo rematic termi’cathegoze, bemio physicozum füiteros,
maticuseftillegtampiezz duuideo tractatuspzim’ter/ cialiob3 ppziùfignificatum
mũiico funitsicipapioi otlibófue.v. ponarinó eft tibölianimalinte. Lermi?
Gential uit diferenmis. ut box Florin simp prout firepmimusi Cedex gramaticaj.
Lorical minátdistributiver particu!
complerus eftozó vthomo laria particulariter Õpofitio alborozes platodeuzeffe
nesdeterminatfbcertocâu 2buiusmodiic. Aduerbia verbúzcõiúctóes Uia noier verbo
er biitcõiungere terminosvel quibus ozatio compoi ozóes quarta diuifio est ia
tur ppofitiologicus pzici. g terminoxquidaz eftpziei paliter cófiderar. Jdeo'dbil
tentiois.7 quidábeitencois reftat diffinitiones ad-signare Terminus pe
intentónis eft Homéest terminus signift terminus mentalis significaf catiu?
Fineté pozecuiusnulla nonterminu. i. réānonéter parsaliquidfignificatseper
minusdatoq effetficutlibó ratavthomo. In iadiffinite significatsoz tem z
platoné. å poif terminus locogencris. Ruinulluspot effe terminus. q2oc nomen
est terminus.e Lerminusaütbe itentóisé nóego. diciturfignificatinis terminus
mentalis significát quia termininó significatui solimo terminil ppofitone non
sunt noia apud logicilicz ptilitermini mentalesnon bi apud gramaticivtomis
verbti participiúppofio nullus similia. Tertio di, zbuiusmodi.Qüitadiuifio
citurfie tempore addiffere, est istag terminoz quidãcst tiñverbia participüa
SIGNIS pe IMPOSITIONIS quidife. ter ficant cum tempore. Duar minus pe impositois
estteri toponit cuiusnullaparsali nus voca vel scriptusfigni quidfignificata
ddifferentia ficansnoterminu.vtlibóz orationis cuiuspartesfigni,
liaialivoceveliscripto.ter ficät. (Uerbúeftterminato min’autem se impositionis
eft požaliter figificatiu?zertre terminus vocalis vel script?
monvnitiuuscuiusnullap8 significas solúī modoterminu aliquid significat
separatave vel propositione vtilitermi currit vel disputato icifpria nirocales
vel scriptinomen mo temporaliter significati, verbti participitizhuium ói uusad
differentiam nominis Serta diuifio eft ifta. Termi quod significat fine tempore non
quidifuntincópleri 29 Secundo dicitur ertremo damcompleri. Terminusin
rumvnitiuusaddifferentia complerus vocaturdictiovt participü quodfignificatcií
lilapislilignum. Izterminus tempože. sed non vnitfuppo fituscum
appofitoficurvero quenonfuntppofitionesno · bum. cetereatparticťepo obftáteqa
fintindicatie q?i nuiturficur toenois. Significant verum nec falsum . P
Ropofitioeftoratioi dicitur.vtbomo predicatuz, puma,plicare Progofito
catbegozicaet prodicaria, madevenirate Alia iperfecta . Diario pfec bignier
parte dignins e.me,ose ista quebetßbiectuzzpiedichuo ublitt taeftila
queperfectu fenfi catu copula generat animo auditous. partes tanös pzincipaler,
peplicireutimplicie. vtbomocurrit. sui.vthomo eltaial. i), Etfidicarurbomo
currite Horá dumotres funtspe propofitio catbegozicaznon
Dratioefttérmin'lignifi cumfintozationesiperfecte catiu? Cuius aliqua pars ali
quidfignificat. Vt boalb?de uz effe. Ulria particula poni turaddifferentia
nominis? Propofitionu zaliacaibego verbi. grumpartesnonfigni
rica:Aliaypothetica. ficant. Dzationuzaliapfecta ibiectumes tubomo predica
Diario imperfectaestilla tum verolianimal.7 copula aiperfectuzfenly;generari
illud verbumestq:coniungit animo audito us vt bomoal fbiectum cumpzedicato.
busdeumeffe d Juisiones1 opposito ne contentas segtur nuerare Pria eft ifta 5
cies orationis perfecte Drationuzperfectar. alia indicatiuavthomo currit babz
predicatum dicitur qa babz implicicum predicatuz v z li currens quod
patzinreroí alia imperatiua. ptooce joannem . Aliaoptatiua. Desum eseltasuum
participiu uendo illud verbum curritin vtinameffembonus logicus Subiectuz
estoe& aliquidad fubiecit”alori fal veroqd fümfignificás.vtbô animal. Sed
copula fempererspularerreigitpilianca. currit. poniturozatolocoge
verbuzfbftátiuü. l.luzeselt veteteaiomm neris.q:oisppofitioestoza De
propofitione yporbeti-inwirtelde eius. tioetnoneguerro. Secundo
capofteriusdiceruraddif, dicitur indicativa quod sola diferentiam cuius ponitur
il la catiuaeitppofitio.nonátim particulaprincipalespartes
peratianecoptatiua.Ulrimo fui. annectitur verumvelfalsuz Secunda
oiuifioeftifta. fignificansproptertalesoza Propofirionuz cabegozi, tiones
foztespór. platoicipit car. Alia affirmatiua aliane facit, egineris, matiua eft
ilaiquaibupäin num cathegozicarum aliane kleinesitimplicies apaleaffirmat öcbócurrit.
ceffariaaliacontingens,ppo diferencia Presidurijgezo pzopo çatbegozica
negatifitione cefariae ftilacuius artean = uaeftillai qobiipricipalene
primarium zadequarumfigi gáf. Vt: “Homo currit.” Tertia ficatum est
neceffariumvtoe divisio est iappofitouzcatheus est.popofitiocontingens
goricaralia veraalia falsa. Eftilacuiu sfignificatumpzi, Propocatbegozicaveraéila
mariumza dequatumeftcó tui? pzimariuzadeqtuligni tingensvttues bomo. Etvo
ficaruié verúztuesbobecco fignificatumcontingensil n. Eltperatues hóq2reeffe
lud quodindifferenterpotest boiezcftveru.Uocosignifi esseverumvelfalsum.Sex
catu primaritiza deq tuppo tadiuifiopropofitionumca! fitionisqó
eftfimileorationi thegozicaruzaliaalicui'quă ifinitiuevel piúctie illius. vn '
titatis alia nullius. P2opo ca deteeffeboiem velqotues
'thegozicaalicuiusquantitati bódicitfignificatu;primari estillaque
évniuersalispar uza de quatúilliustuesbó ticularis indefinita vel singu
ceteraåt significata vt teeffe laris. Flop. vniuersalise aialteefe
Tbstantia7huiul, ilainqua fubijciturerminosnasdistri mõisunt significata
secuidaria comunis figno vniuersalides
gacia.Prop cathegõicaaffer Quintàdiuifio.propofitior burinemobil
7penesillai diciep povera terminatus vtomnisbócursliepy. necfalla.
Propocathegorica rit. Terminuzcómunemvoco falfa eft illacui? pzimarius7
inprentinomenappellatiuuz adequatü significatum estfal fumvttuesarinus pionomen
pluralis numeri Signa vnüerfaliafuntiaoil Quarta diuisioppónuzca nullus
quilibet vnus quis qz thegou caşialiapoffibilisali vterq; neuter qualislibzquá
aipossibilir.ppocathegorica tufliberzhuiuf modi. pzopofi
poffibiliseftilacui'paimari tioparticularis eftillainqua uz?adeqrufignificatúépor
iubijcitur terminuscóisfigno fibile vt tu curris particulari determinatus vt
Propofitio cathegoricai, aliquisbo difputat. Signap, poffibiliscst¡la cuiuspama
ticularia funeiaaligs gdå al rium7 ad equariifignificatus
terreliqu’rbui?mór.pzopo eftiposibilevebóěafinus indcfinitacfiillaiqualbijcie
feprobatio: ctfromloco Fifolo terminuscómunisfinealiafip Reterfupiadictasdi
gno:ytbomo estanimal. Propofitio fingulariséil, rantur.Primaeiftappofiti
lainquafubijciturterminus onucatbegozicap.altadeief discret? Vel termino
coniunif realiamodalis. Propofitio cumpnomine demostratiuo cathegozica
deielleèillaiä fingularis numeri. Ermprimi non ponituraliquis modus. ut Toutescurrit. ermfiillebo vtbỏcurrit.
Diopofitioca disputar. Uocoautemtermi, thegorcamodali scillaina num discretumpelfingularé
ponituraliquismod?vtpof nompoziùautp nomenomo fibileefoxtemcurrer. Modiy
Scromodi ftratiuú singularis numeri vt autem suntf erscilicet porsi,
ifteiftaistud. Erquib? fequi biler impossibileneceflariu
turiamqueécatbegozicanĽ contingensverum falsum liusquantitaris 7diciturgil
Secundadiuifio p:opositi laanoé vniuersalis necpar onum modaliumquedamcst
ticularisneci definitanecfin infenfudiuiso quedazifer gularisvterclu fiue ercep
sucomposito Propositio motiue vztantumbocurrit.om dalisinfenfudiuitocillaiä
nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actumca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumz
verbúinfinitiuimodi timam diuifionesponitifte vtfoztempo ffibileécurrere
versus. Quecavelip. qualif Propofitio modatisisenfu* nevelaf. vquanta.parifin.
cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitpad i taliterpcedirveifinaliter16
terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumefTeé necessa facta gquerespondeturcar
rium. Impoflibileé bominė tbegozicavel ipothetica. Se effeafinum. Erbisdiuifio
cudaaurasseritquodaditer nibusorigináturtresfigure rogationéfactamoqualisre
quanpriaordeieffe.Seci, fpondetur affirmatiuavľne da modalis ofenfu diuisore
gatiua. Sed itertiadenotat habens admoduprime.ter, qad interrogatione factaze
tiaveroormodąlisofenfu2 quantarespodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata qua
particularis indefinitavelfin rui declaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum
eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. visiones
duealie decla Quidam bó curri Quetz
bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie
Contrarte Subcötrarie currer C Lontradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie
Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft.
Có posibile eftcurrere poffibileeft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit.
Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria
Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere
ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne
Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecundefigurebere ptnll? bócurrit.
necieptra gulegeneralespriaé dictorie.
Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit. neciftefubala
zvniuerfalıf negatiadepfitt terne. Disbó currit7quida b?fubiectis7
predicatisfup bomocurrit.qztermininifup ponétib” precisepeodévét
ponuntprecisepzoeodevĽp proeisdé funtatrarieifigu, eisdez. Znona.n.fbinfuppóit
ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru. Jnaliavero'
bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua
tuozfgula particularis negatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup.
fituanturpropofitoea in figura ita quattuoz ponétib? pcirepeodévelp
alijsregulisipfarum cogno, cirdezsuntcontrarieifigu fciturlerseu natura.quarum
ra.vtgdabócurrit?qdåbo primaeftianonestpossibile nócurrit. Lertia regľaviuě duoztraria
effefimulvera falisaffirmatiuaa pricularis benefimulfalsa. Primapars negatia
velvlis negatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö
fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatis fupponen funtfimulfalfa. Quilibzboè
tib pcirepeodezvelpejsó albusznullusboestalb”. Et sunt tradictonei figura,vt
iafimiliter Dmneanimaleft quilibzbó curriteqdábóñ bomocnulluzaialeft homo
curritP. ull'bócurrit?qui Secundaregulaeftiftanon dåbócurrit. Quartaregla eft poffibileduofubcötraria
vniuerfalisaffirmatiazpti effefimulfalsa.fedbenefim cularis affirmatia.
Etviuer, vera. Patetparsprima ifin salis negatiuaa particularis
gulisdiscurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probatur
quoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal sepeodezvelpeisdezftit16
bus. Aliquis bononeftalby alterneinfigura. vt glibzbó Aliquodanimalefthomo.Et
currit2gdambócurrit. Dar aliquod animalnonefthomo lusbomocurrit. 2gdazbol
Tertiaregulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimul
veravelfimulfalfa poffibileouo contradictoria patetifta reguladifcurrédo alter.
Hecranonfoludefuit Pfingťaptradironia. Quar primevelfecüdefigureimo
taregulaeft14. Sivniuerfaľ tertie.Etvocoibinegatio eft vera fuapticularis velin
ne prepofitaquandocolligit definitafibifubalternaeftde modofuemod?pzecedarfi
ralnego. Unfib effetvera uesequatur.7 postpofitaqui gizboestalb?6fikreffzver
coniungiturverboinfinitiui raaligshoestalbosznóez modi. eréplüpzimi.nópofsi.
q:iadefactobe veraaliquis bileésoz.curreredelsoz.cur hoéalbɔ.znóiaquilzboeft
rerenóé poffibileereplúfi albɔ.Eteodémódicodenei possibileésoz. nócurrerevel
funtregule. quorpria reequiuale tiftiptingenscft eftia. Hegpäepofitafacitz foz.
nócurrergpumă regula quipollerefuocótradictozio EthneceffeeTo2. Non currer
viinoquil; bocurritequalet equiualetiftiimpossibileest
isti.Aligshónócurrit.Etnó soz. Currerr recundam regur nullus homo currit
equiualz isti lam zifta non nece f l e e soz . ni aliquishomo currit. Eurrer
cquiual; huic possibi Secundaraeftistanegató leésoz.currergtertiamrei
poftpofitafacitegpoller fuo gulamzita dicaturdecete contrariopbaf. näiftaquils
risquibuscunq3 quare7c. bomo noncurritequipollet SDnuerfioeitcranspofi ufti
nullus homo currit. 2nul tiosubiectiinpzedicar lushomononcurritequipol rum7
econuerfo:vtbomoé ictifti quilibet homo currit. Animal animal é homo. Etlý
Lertiaregulaeftistanega diuiditur in conversione fimi rio prepofitaz
postpositatai plicemperacciisopercorra cit equipollere suofubalter, pofitionem.
Lonuerfiofim no. Vnde bnon quilibethoñ pleresttranspositiosubieci
curritequipolletistialiquis in predicatú 7e2°manentee bomocurrit. Etifta
nonnul: Adem qualitateaquantitate lusbomononcurritequipol
vtnulluanimalcurritnulluz letifti aliquis homo non cur curr ése animal.
Lonuerfiog rit.Undeversus. Precótra, acadésetranspofitiosubiec dic. Post
contraprepostaz.sb tiipredicatu epomanteca gatiuisquare 7c. roz. nó currere
èpossibile .6 Quipollentia rumtres ergo non neceffeesoz. curre
demqlitarefzmutataquanti uerfavera?Querfensfalfa. tate. vtoishó estaialaliqd
Håbé per aaliqrolanoné aialébo. Lóuerfiopptrapo fbftárianullarojaernte7ti
fitioneeträf posiectiipdica befalsaaliqui fubstätianon tiire converso
manéteeadem énonrosaq2 suutradictori qualitaterquitirate. kmura uzé
vertivžoisnonfubftan tistermisfinitisi terminosi tia ;estrora.
finitosvtquoddaaialficurs Lotradictiopuerfiõefim ritqodano currensnóénon
pliciarguiťpaiofic'becéve aialUtatfciafáfponóhis ranullusbõémuliē.zbecē
puerhonib? puertatponun falfa nulla mulieré bóigif, furistiosus, Feci
simpliciter Secuido becéveranull?ce puertifeuapacci. Altopcon cusvid;
ens:7becefalfanul traficfitpuerfiotota.Jng? lumensvidetcecúergorc.
ponúťquattuorlrevocales Lertio ßéveranuloom ? S.a.e.1.0.2fignificatplezar
éibbiezljéfatfanullusbó firmatiaz. 2vlemnegatiuaz éidomogac. Adpzim DICIE i.pticularezvelidefinităaf,
giftanó suapuertens.fzia firmatiua.o.veropticulare; nulla mulieré aligfbó.qioz
velidefinitanegatiua. Luš effephilis limitatioipuerté dicitfecifimplr.i.
plisnega teripuersa.Ad63picogi tiua7 pticularis affirmatiua fitde sbiecto pdicatu.qziicft
puertütfimplr.puertiťeua p:edicatúlyens13lyvidens pacci.i, vlis negariazplis
ens. ióficpuertiéšnullüvi affirmatiua puertufp accñs densensécecii.Ad tertium
Artopara. i.vlis affirmatia difimiliterquiaiépuertens zpticularisvelidefinitane
ei?Izianullüensiboiecdo gatiuacouertuntpoponem. m?. vľiainullobõieédom?
Harzuerfionúsimplerévti quianon debétterminimuta lioz.q2vniuerfaliterfipuerfa
recafumquarerc. é vera puertens é vera 7 eco plures cathcgoricar
ipuerfióepaccñsestpuerfa coniunctaspnotam conditio falla. vtbeaialchó.2pueri
nis copulationis difiunctiois tensveraboéaisl. Jnquer velalicuiistarumequiualen
fioneveropatrapènemécó tez.Vttuesbóituefanimal
uerfo.lzñéita i puersione p accideiis velpatraponez:ná р Ropofitioypothe,
ticaeftillaģb abet Iresigitfuntfpesypotheti
Deimpoffibilitatepossibly CARnoequälente sifigifica, litate
neceffitatezcoringen, do'ozaditionaťcopulatia
tiaeiusdemnonopzdicerea difitictia. Alievero vt
localiterqzoiscóditionilisvera cális ztörať nó
funtypotheeftneceffariazoisfalraéim tice. fzcathegorice.Propofi poffibilis.
Hulla atitestque tioaditionalisèillaiäjiun fitcótigens.iftereguledicte gun et plures
catbegoziceper suntdecóditionalidenomia noriaditionisvtfituesbó taalyfiquarezi.
tuesaial. Propofitionü con ditionalium alia affirmati uaalianegatia.Propoaditic
Dpulatiua eftillaque onalis affirmatiua éillaiqua babetplures cathego
5nórepared afirmaturnotaəditoiserel ricas gnota copulationisiui plüpofitúest.
Londitionalis cemcõitictas. vttuesboiz negatiua estillaiquanotacó ditionisnegatur
vtnonfitu eshotuesafinus 7brempp batper affirmatiua. Adveri ratezcóditional
affirmatiue requiriťzfufficitg oppofitú tusedes. Dzopofitionúcopu latiuarumalia
affirmatiuaa lianegatiua. Affirmatiuae illainquanota copulationis affirmatur
eremplumpofitu eft. Hegatiua per oeltillai quanotacopulationisnegaE
pritisrepugnetåtecedentivt fitues bótuesanimal.bec vt non tues bomoztuesasi
vera eft quista repugnanttu nus. csbomo tunoessial. An Et semper negariua proba
tecedés vocatillappoqim turper affirmatiuam. mediate sequiturnotãcóditi Åd
veritatem copulatiue onis: cófeques veroeftalta. Afirmatiuer equiriturquam
f'meibad itaotuesboeftafcedens? Libet partemerreveramvtcu tuesaialest
consequens.Ad eshomoatuesanimal. falfitatezconditionalis affir, Et adf alfitatem
copulati, matiuer equirit. 2fufficitque affirmatiue fufficitvnam
"sistemahor oppofitum cófequentis ftét partemeffefalsa; vttues
behurinefrom cumancedente vifituesbó atucurris.
tu sedes. Hec aut ftant fimul Bd possibilitatem copula
tuesbomoztunofedes.ió tiuerequiritur qualibetpar itaconditionaliseft falsa.
técepossibiléznll'ä altériiz tatomagis welalijs Jhiunctiuaeftillaique Deus évelfoztesmouef.
Ere coñitigüturplescathe pltiftvttues P'tunones.Et itbegorica. gozicepnotazdi
functionis; adcótingentiaeiusdemrege Detuesbomoveltuesafin? Ritur qualibet
partemeffeco Propositionúdifuciuarú tingentezznulla alteri repu alia
affirmatiuaalia negatia gnarenecét contradictoria il; disunctiva affirmativa
éil, laqvtantirpseftalbɔl'ipfe a inqua affirmatur notadi currit. Ponitur
tertiapartir litctóisvtpatuit. negatiade culaqebecdifiunctiuaeftne roeftillai
quanota difiuctó ceffariatunoesbóveltues aditsiplānis negaturprñtuesboľ
aial.ztinullapsalterirepu notá quodtuescapza. zbecsemppbat gnatzõlibyéatigés.
lzboc firdresinsme affirmatiuagneceffetnega ióqzcötradictoriaptiuzre, Lisantca
tiuanifipponeretnegatóvt pugnátvzt uesbó7tunes Forrit pattunonesafinusveltunoes
aial. veldicatomeliusqad foipropofitioneapza. Affirmatiua estq2nul neceffitates
difilactiverequi laillannegationumtranfitin rifzfufficitcoplatiuafacta notam
difiunctionis. tropugnante
poribilem.eremplüpzimivt tuesafinus. Etadfalfitatem tuesbo ztucurris. Szadi,
eilisre quiritur qualspartem possibilitatemei?fufficitvna effefalfamvttucurrisl'nul
partezeffeipossibiléautvná lusbaculusstatinangulo. alterii copoisibilez.
eremplu Md posibilitatem difüctie figutcomke partesplenepost primivttu curris.
7tuésafi, affirmatiuefufficitvnaj par tilesramom nus.erempluzkivttuésztu
temeffepossibilem. Vt homo ferposibilisetideopom nes. Ad neceffitatez. copla
eftafinusvelantichristuseftfuficitermedpogriner tiueregrit quamlib; premer Sed
ad impoffibilitate eius ludvorbi uficiompor seneceffaria; vtboestaialz requirif
qualibet partéeffe tot dimimurront14éria de’eit. Etadarigentiazip impoffibilem
vt homoeftafialiudfornogri. husregriť zfufficitynapzar nusvelnullusdeuseft.
tezelleptingentez.alteraatt Adneceffitatemdifiunctie ni pofsibilez nec
eidéicópofi affirmative fufficitvnazpar bilemvttucurris7tuesbó
temeffeneceffaria;veliuicé pel deus eftz tucurris. cótradici. Eréplum pzimivt
de partibɔcontradictozijser} Ad Veritate zoifiuctiueaf, fe impoffibile z.
Etadcontin Röme ftiguduozycótrario afirmatiuefuficitvnazparte
gentiamcopulatiuafacta siune imposfibilealiud effeveram. pttu.cshomop gtib
oppofitisfitcótiges, metafarim #coco scadcon coinout:fed quo hoc eftueru, cuno
filin ilascopilgrimur, fatke porousopofiris,codicarilkidekie
Erionisdifnightutplan qnoradiinch omnis,Admiños vilpropofiriones, congle:fed l
Frelsabond murgiipropa Mit Saint Erine et filace prolaindao
importinisdefinitiva entrare difusique significatia sseéincóueniensa
Popu-rarios gudwors contrario zeliuniecorigens unum idiom conigat et difiurgatriper
Sadcuila copulatiua falton Iparibusopofieasofusdeles in diversors Et
iceforcimoodradilosiaoliikaepoksidaé estimat arhdheof magister bisin
coligititommdig ogdifinitivaerit Drinsers. viétime quod propria
fueimpropriauide itq,amibe“pareddfentnene ožnnimado props liéefetwimmign
ruenhomo neltuesani bec.n.éneceffariatunocur
iusmodi, ris. vel tu moueris . q becco Lermin e quoc e termin ? pulatia
éipoffibiťtucurrif fimplerplura fignificarFzdi tunomoueris.Etbecéptin
uerfasrationes ficutlicanis géstucurrisvľtunomoue ghignificatcanelatrabilefi
ris.q2 beccopulatiuaéptin, duscelestez piscémarinuz. Genstunócurris tumoue
zbocdiuerfisrationibus. risfecúduregulasdatasde Paedicabile fecúdomó fti
copulatiuis. mifvideliczcóiterzp ergoétermin?vnwoc?pze. prie
Predicabilecóiterfup túiterminoaptus. natusde aliquopdicari. zfictātermi
nuscõis finglaristacói dicabilisingddeplerib?ori tibus(pe. ptaialpredicatur
deboiezdeafinogorritfpe ineoqdquidqzaditerroga plerusqizplerusdiciepze
tionezfacta; perquideftbo dicabile. Sippziesicfumen velafin? rndeturqeltaial.
do difinit. Paedicabilee ter Ben'oiuiditur. naquodda minouiuoc'apt nat deplu
estgenus gnälifsimu. zquod rib?pzedicari. ficnull?ieri damgenussbalternum
nusfingularisnec tráfcedes Benus generaliffimúéter autpofit? Dicitur
pzedicabiming ficégen?qd nopot lefeuvniuersaleqóidéė.q2 essespecies.
ytfubftátia. Be null’ralisestterin vniuoclis nus subalternúeftterminus
Undetermin’vniuoc'est quificeft genusqdpóteffe termin? fimpler plura signifi
species vtaial.eeniz genus cásfm vnicáraionezficutli respectuhominis speciesde
boqo significatfoztezplato rorespectucorporis té oiađuagiftcataF5bác
Spesestterminusvniuo/ rationeať raroale. Perboccus nó fupremuspzedicabil
qodiciturterminus fimpler ercluduttermini3 pofiti. sed significans pla
ercluditter minumfingularezzvnicara tione ercludit terminu trásce détez.
videlzensaligdzbu iad plib?vtlibópdicatur aloztez placóeieoqd
aditērogatöezfactapgdest foz telvpťlatorideurgébő Spéfoiuiditur q2qdazeft
specialissimazadå Malterna
Segfcapituluopdicabilib? Faria videlzgen?
speciediffe"Redicabiledupťrfu rentiáppriazaccides. Sen? ptú diuidit
iquinqz vniuer Spēs Balternaetermina cutlialbuqapredicatur. de
cu'filspeciespóreffegen? Boieieoqd qualeaccicale vtanimal.
qzaditëroğröezfactaequa Spésspecialiffimaéteri lisehódlafin?pótpuenien nusqcum
fitfpesnópóteê terrñderiqdalb?.2bocno genus. vt bóvel aliter conuertibiliter.
Quia nó con Spės spalissimaétermin? uertiturlialbuaialiq°illoz,
vniuocuspdicabilisigdde Suffitientiapdicabiliūbe plurib'orñtıb nuerofolum
turistomó quoë vleautest znotáterdiciturfoluiq2liai piedicabile
effentialiteraut alnéspéss pálissima.ztúert accíítaliter termin?vniuoc?
predicabilir Si effentialrautigdauti igddeplib’orntib?núero quale.
Siiqualeilludéoria 22defostez placóeiznofoi Siigd autdeplurib'orīti,
làdeorñtib?nuero.qzitd e b?sperilludeitgen?.autde orñtib’spé. vtdeboierlebe
přib?orritib? nuero Toluet: Differentiaéterin’viuoc? illudéspés. Siveroepdica
paedicabiťde plib”iquale bileaccnraťrautgiqualeac cénale.vtroaleqapdicatur
cntalepuerribľrz. illudėp ocfoztez platoneieoqaqle pri. veliqualeacclitaleno
qzaditërogatóemfactaper puertibiťr.2 illud éaccñs.er qualisest fortes
respondetur predictispotpuiciafitper quod eft rationalis. dicato directavľ
idirecta er Peopriú eftterinviuoc fentiaľbľaccñcať. Predica
Þdicabilisdeplib’ieoquod tiodirectaeiaiqafupipze quale accñtalepuertiběrut
dicaturdefuoiferiozi. Debo rifibileqapdicatdesozteet éaial. Paedicatioidirectaé
platbeieoqdqualeqzadin illai quaiferi’predicaturde terrogatoezfactapqualise
fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai
deturq rifibiť.7 totaratio quafuperi’pzedicaturdein quarefic pdicaturdeilliseq?
Feriozi velecóuersofz quod éppziapafsio illius termini dictiév ľoriadeali
q°illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila
Acchrétēmin’vniuoc'pze iqua
ppuúvelaccñspzedir. dicabilisdeplib”ieoquod caturde generefpeciezpria
quale accắtaleipuertiblrfi bľfuo idiuiduo autepuerfo Eréplüpzimi: vtbóèrifibil
dirurin decepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimuelt predicarsitu
lub bileéhoalbueaial. Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo
dicafl me teri’lbalubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatio efriaťė mi?
coup”.subcocpozecosp pdicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato ať
dicamenti vtbóestaial. pze, aiali fpess pecialissimahoľ dicatioautaccicať eft
piedi afinuszlbiftisfuaidiuidua cario terminox diuerfoz pze foztesz plato.
bzunellusfa dicamentorum vt homo éale uellus. Secundum predicame bus. Termin
superiora dre tú eft pdicamentu quátitutis liquúdicitur effeillequicon Lui'
generalis fimúeftquäti. tinerillúzne converso sicut li tasfubý funt duo genera
aial respectuisti terminihó alternaär nulluestsuperius qz significat
quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz?di bocaliquid vltra. Lermin’in scretu.
Primi generis iftefür feriozadreliquú dicitur effe fpeties linea superficiescoz
illequi cótineturabeo. nnó pustempus?locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu
funtindiuiduabiliuea fupfi iftius termini bomo. hiclocus. Secundi generis
Lozpozea Jnco: pozea infinitesuntfdeties.f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius
et cetera. Redicamentu zestcoő ciumelt passio vel passibilis dinario
pluriuztermi, qualitas. Quartuz est forma nozu Fmsubzlupza. Etdiui, vetcirca
aliquid pitas figura us trinarius
quaternarizë Animatum Jnanimatuz individua vero funt hicbina Sensibile Animal
Tertium piedicamentum è predicamentuz qualitatiscu iusgeneraliffimum estquali
Lozpus Jnsensibile Rarionale Jrrationale. tasfubquofuntquattuo:ge Animal
rationale nera subalterna non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eftnaturalis
p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis
Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies. boc cozpusboc rempus Primi
generis spetiesfune Quintum predicamétoem grāmatica logicaz rhetorica dica
métuacióis cuius gener quaqindividuasuntbecgrå rasubaltez nafuntfer. quozu
matica logicab rbetorica. Nulluė superius ad reliquum Lertijgenerisfpessunto
risspés sunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz ?cozrupereequáquayindir
calidúz frigidubuidum zfic uiduafuntfic generare boiez cum. quarú idiuidua sunt
heç ficcorrupereequum.Iertijz dulcedo biamaritudohocal quarti generis
(pessuntau. Bumhocnigp buiusmodi. gereinlongudiminuereila Quartigeneris
fpeciessut tum. Quozum indiuiduafffic circulus triangulus quadra
augereilögumficdiminuer gulushuiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generis spés uidua
funt. biccirculusbicfunt calefacerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar
idiuiduafuntficcalefa Quarti i predicamétü Ċpdi cereficfrigefacer. Sertigo,
camerurelatóis. Lui'gene. Neris fpeciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada.
súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttria genera( dividua sunt ficmo uerefurfu
altera ilebita, 16zsupa fic movere deorfum. Sertus Primum estcaparatio. Se
predicaméta é predicaméruz cuduzéfuppofitio. Lertiuzė paffioniscu’generatiffimu
fuppofitio.primigenerisfpe estpassio. Etb fi Ľrfergene tiessuntvicinusequale?li,
rafbalternarisebūtia ;sub milequarumindiuidua sunt. zsupaav; generari corrupia
hicvicinusbocequalezboc ugeridiminuialterari7fzlo fimile dñszmagister.
qxidiuidua quúconīpiäri diduasütir, süthicprbiconszbicmagi tuboiezgenerariftueqmco
Tertijgeneris (péssútfili? rūpi. Iertüzquarti generis fuus discipľ?
quaruiidiui; spetiessuntaugeriinlon duasuntbicfili? bicferubic gúdiminuiilatu
quani diui. piscipulus. dua funt ficaugeriilogu fic cumouči. primi7figeneris,
Secridi generis spēsfuitpr fpessúthominez generarie Secundi generis spėssunt
v3generarecourtīge augere OU Rzmolle. quarüindiuidua diminuerealterare. cfmlo,
funt hoc durumboc molle. Cu mouere.Primiz figener -- b Logica Parva: Critical Edition from the
Manuscripts with Introduction and Commentary, Perreiah, Leiden: Brill; Logica
magna, Venezia: Albertinus Vercellensis, Octavianus Scotus; Logica magna:
Tractatus de suppositionibus, Perreiah, St. Bonaventure, NY: The Franciscan
Institute; Logica magna: Part I, Fascicule 1: Tractatus de terminis, Kretzmann,
Oxford; Logica magna: Part I, Fascicule 8: Tractatus de necessitate et
contingentia futurorum, Williams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 3:
Tractatus de hypotheticis, Broadie; Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 4:
Capitula de conditionali et de rationali, Hughes Oxford; Logica magna: Part II,
Fascicule 6: Tractatus de veritate et falsistate propositionis et tractatus de
significato propositionis, Punta, Adams, Oxford; Logica magna: Part II,
Fascicule 8: Tractatus de obligationibus, Ashworth, Oxford; Sophismata aurea,
Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Super I Sententiarum Johannis
de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Ruello, Firenze, Olschki; Expositio in
duodecim libros Metaphisice Aristotelis, Liber VII, in Galluzzo, The Medieval
Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden, Brill; Expositio in
libros Posteriorum Aristotelis, Venezia, Hildesheim: Olms, Summa Philosophiæ
Naturalis, Venezia; Expositio super octo libros Physicorum necnon super commento
Averrois, Venezia; Expositio super
libros De generatione et corruptione, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus
Scotus; Scriptum super libros De anima, Venezia; Quaestio de universalibus,
extant in nine mss. There is a partial transcription from ms. Paris, BN 6433B
in Conti, Sharpe: Quaestio super
universalia, Firenze, Olschki; Lectura super libros Metaphysicorum, extant in
two mss. (The ms. used here for the quotations is Pavia, Biblioteca
Universitaria, fondo Aldini; Expositio super Universalia Porphyrii et Artem
Veterem Aristotelis, Venezia. Amerini, AQUINO (si veda), Alexander of
Alexandria and N. on the Nature of Essence, Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale; Alessandro di Alessandria come fonte di N.. Il caso degli
accidenti eucaristici,”Picenum Seraphicum, N. on the nature of the Possible
Intellect, Musco; Ashworth, A Note on N. and the Oxford Logica” Medioevo;
Bertagna, N.’s commentary on the Posterior Analytics, Musco; Bochenski, A
History of Formal Logic, Thomas (trans.), Notre Dame, IN: University of Notre
Dame; Bottin, Proposizioni condizionali, consequentiae e PARADOSSI
DELL’IMPLICAZIONE [cf. Grice, Strawson] in N.” Medioevo; La scienza
degl’occamisti: La scienza tardo medievale dalle origini del paradigma
nominalista alla rivoluzione scientifica, Rimini: Maggioli; N. e il problema
degl’universali, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padua:
Antenore; Logica e filosofia naturale nelle opere di N., Scienza e filosofia a
Padova nel Quattrocento, Padova: Antenore; Conti, A. Note sulla Expositio super
Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis di N.: Analogie e differenze
con i corrispondenti commenti di Burley,” Maierù, English Logic in Italy,
Naples: Bibliopolis; Universali e analisi della predicazione in N., Teoria; Il
problema della conoscibilità del singolare nella gnoseologia di N.,” Bullettino
dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano; Il
sofisma di N.: Sortes in quantum homo est animal, Read, Sophisms in Medieval
Logic and Grammar, Dordrecht: Kluwer; Esistenza e verità: forme e strutture del
reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo Medioevo, Rome: Edizioni
dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo; N. on Individuation”,
Recherches de Théologie et Philosophie médiévales; N.’s Theory of Divine Ideas
and its Sources”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale;
Complexe significabile and Truth in RIMINI (si veda) and N.”, Maierù/Valente,
Medieval Theories on Assertive and non-Assertive Language, Firenze, Olschki;
Opinion on Universals and Predication in Late Middle Ages: Sharpe’s and N.s
Theories Compared”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale;
N.’s Commentary on the Metaphysics”, Amerini-Galluzzo, A Companion to the Latin
Medieval Commentaries on Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Materia prima
e rationes seminales negli scritti di metafisica di N., Medioevo; Galluzzo, The
Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill;
Garin, Storia della filosofia italiana, Torino: Einaudi; Gili, L., N. on the
Definition of Accidents,” Rivista di Filosofia Neo-Scolastica; Karger, La
supposition materielle comme suppositions significative: N., PERGOLA (si veda),
Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Kretzmann, Medieval
logicians on the Meaning of the Proposition”, The Journal of Philosophy;
Kuksewicz, N. e la sua teoria dell’anima, Olivieri, Aristotelismo veneto e
scienza moderna, Padova: Antenore; Loisi, L’immaginazione nel commento al De
anima di N.,” Schola Salernitana, Mugnai, La expositio reduplicativarum chez
Burleigh et N., Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Musco,
Compagno, Agostino, Musotto, Universality of Reason, Plurality of Philosophies
in the Middle Ages, Palermo: Officina di Studi Medievali; Nardi, N. e
l’averroismo padovano, Saggi sull’averroismo padovano dal secolo XIV al XVI,
Florence: Sansoni; Nuchelmans, Theories of the Proposition: Ancient and
Medieval Conceptions of the Bearers of Truth and Falsity, Amsterdam: North-Holland;
Medieval Problems concerning Substitutivity (N., Logica Magna, Abrusci, Casari,
Mugnai, Storia della Logica: San Gimignano, Bologna: CLUEB; Pagallo, Nota sulla
Logica di N.: la critica alla dottrina del complexe significabile di RIMINI (si
veda), Congresso di Filosofia, Florence: Sansoni; Paladini, Why Errors of the
Senses Cannot Occur: N.’s Direct Realism”, Studi sull’Aristotelismo Medievale;
Perreiah, Insolubilia in the Logica parva of N.,” Medioevo, N.: A
Bibliographical Guide, Bowling Green, Ohio: Philosophy Documentation Center.
Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, 4 vols., Leipzig: S. Hirzel, Graz:
Akademische Druck- und Verlaganstalt; Ruello, N. thélogien ‘averroiste’?,”
Jolivet (ed.), Multiple Averroès, Paris: Vrin; Introduction,” Ruello, Super I
Sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Firenze, Olschki;
Strobino, N. and MANTOVA (si veda) on Obligations,” in Musco; Van Der Lecq,
N. on Composite and Divided Sense, Maierù,
English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis, Wallace, Causality and Scientific
Explanation, Ann Arbor: University of Michigan. Nicoletti. Keywords. Refs.: H. P. Grice,
“Paolo da Harborne, and Paolo da
Venezia,” lecture for the Club Griceiano Anglo-Italiano, Bordighera. Luigi
Speranza, “Grice e Nicoletti: quadratura ed implicatura” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza --
Grice e Negri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercato). Filosofo italiano. Mercato, Napoli,
Campania. Allievo di ALIOTTA (si veda), con il quale si è laureato a Napoli
prima in Lettere e poi in Filosofia, ha sempre considerato come suo maestro
Gentile, di cui tuttavia non è stato direttamente un discepolo.
L'intensità con cui Negri ha approfondito il pensiero gentiliano si è
concretizzato dapprima nello studio dell'allontanamento di SCIACCA (si veda) dall'attualismo
poi in testi quali: “Giovanni Gentile,” “L'estetica di Gentile,” e “Gentile
educatore.” Innumerevoli sono gli scritti dedicati all'idealismo
hegeliano, tra cui i saggi “La presenza di Hegel,” “Ricerche e meditazioni
hegeliane,” e “Hegel nel Novecento,” e le traduzioni di opere hegeliane come
“La vita di Gesù” e “Le orbite dei pianeti.” A queste traduzioni si
aggiungono anche quelle di grandi classici del pensiero filosofico, economico e
sociologico. Ha ricevuto il Premio San Gerolamo. A N. si deve
anche la valorizzazione di alcune grandi personalità della cultura italiana,
come quelle di Emo, Michelstaedter ed Evola. La sua carriera lo ha
visto professore di Storia della filosofia in alcune delle più importanti
università italiane: Bari, Perugia e Roma, dove ha lavorato presso l'Università
degli studi di Roma Tor Vergata fino alla fine del suo incarico
universitario. Nel corso della sua esperienza intellettuale è stato
impegnato in un'intensa attività saggistica e pubblicistica, scrivendo sulle
più importanti riviste culturali italiane e straniere, tra le quali: il
«Giornale Critico della Filosofia Italiana», il «Giornale di Metafisica», «I
Problemi della Pedagogia», «Rinascita della Scuola», «Dix-Huitième Siècle»,
«L'Enseignement Philosophique», «Studia Estetyczne», «Idealistic
Studies». Collaborato con molti dei maggiori quotidiani nazionali: «Il
giornale d'Italia», l'«Avanti», «Il Messaggero», «Il Sole 24 Ore», «Il Tempo» e
«il Giornale». Inoltre, ha diretto varie collane di testi filosofici per
la Marzorati («Ricerche filosofiche», «Testi e interpretazioni»), la Seam
(«Filosofi italiani del '900», «Sentieri del giorno e della notte») e la Pellicani
(«La storia e le Idee») e riviste come gli «Studi di storia dell'Educazione»
della Armando Editore. Gli è stato assegnato, a Palermo,
dall'Associazione internazionale di studi e ricerche Nietzsche fondata da
Fallica, il «Premio Nietzsche». Saggista sempre molto prolifico, ha
continuato a pubblicare opere originali non solo nella scelta degli argomenti
ma anche dei contenuti: il Discorso sopra lo stato presente degli italiani, il
De persona. L'indomabilità dell'individuo e Problema Europa: Unità politiche e
molteplicità culturali. N. Sciacca: dall'attualismo alla filosofia
dell'integralità, Edizioni di Ethica, Forlì. Collegamenti esterni N.,
la voce in Enciclopedie, Treccani L'Enciclopedia italiana. Biografie Portale
Biografie Filosofia Portale Filosofia Ultima modifica 1 anno fa di un utente
anonimo Bertrando Spaventa filosofo italiano Michele Federico Sciacca filosofo
italiano Idealismo italiano Corrente filosofica predominante in Italia nella
prima metà del XX secolo. Antimo Negri. Parole chiave: implicatura. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Negri,” The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Negri: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Padova
-- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo Padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano.
Padova, Veneto. Grice: “Only in Italy a philosopher philosophises on
Pinocchio!” -- Grice: “I like his idea of a new ‘grammar of politics,’ even if
he uses the extravagant metaphor, delightful though, ‘fabbrica di porcellana’.
He has a gift for metaphor, sure!” – Grice: “’la lenta ginestra’ to qualify
Leopardi’s ontology is genial!” -- Grice: “Negri reminds me of ‘pinko Oxford’!”
Tra gli anni sessanta e gli anni
settanta, fu uno dei maggiori teorici del marxismo operaista. Dagli anni
ottanta in poi, si dedicò invece allo studio del pensiero politico di Baruch
Spinoza, contribuendo, insieme a Louis Althusser e Gilles Deleuze, alla sua
riscoperta teorica. In collaborazione poi con Michael Hardt, ha scritto libri
molto influenti nella Teoria politica contemporanea. Accanto alla sua
attività teorica, ha svolto una intensa attività di militanza politica, come
co-fondatore e teorico militante delle organizzazioni della sinistra
extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. A causa della sua
attività politica è stato incarcerato e processato, all'interno del processo 7
aprile, con l'accusa di aver partecipato ad atti terroristici e d'insurrezione
armata. Venne, tuttavia, assolto da queste imputazioni, per poi venire
condannato a XII anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale
nella rapina di Argelato. Saggi: “Stato e diritto -- la genesi illuministica
della filosofia giuridica e politica” (Padova, Milani); “Lo storicismo” (Milano,
Feltrinelli); “Forma giuridica” (Padova, Milani); “Flosofia del diritto” (Bari,
Laterza); “Il concetto di partito politico” (Padova, Moderna); “Lo stato piano
e il comune” (Milano, Feltrinelli); “Il concetto d’integrazione nella storia di
Italia” (Milano, Giuffrè); “Il concetto di stato” (Milano); “Il capitale e lo stato”, “Della ragionevole
ideologia” (Milano, Feltrinelli); “Incidenza di Hegel. Napoli, Morano, Enciclopedia
Feltrinelli Fischer); Scienze politiche, (Stato e politica), Milano,
Feltrinelli); L’organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); Partito operaio
contro il lavoro, in S. Bologna, P. Carpignano, N., “Crisi e organizzazione
operaia” (Milano, Feltrinelli); “I proletariato” Proletari e Stato. L’autonomia
operaia e compromesso storico, Milano, Feltrinelli); “La fabbrica della
strategia” Padova, “Cooperativa libraria editrice degli studenti di Padova, Collettivo
editoriale librirossi, La forma Stato, per la critica dell'economia politica
della Costituzione italiana” (Milano, Feltrinelli); “Il problema dello stato e
sul rapporto fra demo-crazia e sociali-smo” Milano, Unicopli-Cuem, “Il dominio
e il sabotaggio: sul metodo marxista della trasformazione sociale,” Milano,
Feltrinelli, “Manifattura, società
borghese, ideologia: Una polemica sulla struttura e la sovra-struttura,” Roma,
Savelli, Marx oltre Marx [Grice, “Grice oltre Grice”]. Quaderno di lavoro sui
Grundrisse, Milano, Feltrinelli, “ Dall'operaio massa all'operaio sociale. sull'operaismo,
Milano, Multhipla, “Comunismo e guerra,” Milano, Feltrinelli, Politica di
classe: il motore e la forma. Le cinque campagne oggi. Milano, Machina Libri,
“Otto Dix,” Milano, Studio d'arte Grafica, “L'anomalia selvaggia: potere e
potenza in Spinoza” (Milano, Feltrinelli);“Macchina tempo. Rompicapi,
liberazione, costituzione,” Milano, Feltrinelli, Pipe-line. Lettere da
Rebibbia, Torino, Einaudi, Boutang, Diario
di un'evasione, Cremona, Pizzoni, Le verità nomadi: lo spazio di libertà” (Roma,
Pellicani); “Fabbriche del soggetto: profili, protesi, transiti, macchine,
paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo
ontologico, in "XXI secolo. Bimestrale di politica e cultura", “Lenta
ginestra: l'ontologia di Leopardi, Milano, Sugar, “Fine secolo. Un manifesto
per l'operaio sociale. Milano, Sugar,” “Arte e multitude” (Milano, Politi, “Il
lavoro di Giobbe. Il famoso testo biblico come parabola del lavoro umano,
Milano, Sugar); “Il potere costituente. Ssulle alternative del moderno,
Carnago, Sugar, Spinoza sovversivo. Variazioni (in)attuali” (Roma, Pellicani, “Dioniso,
o lo stato postmoderno” (Roma, Manifestolibri); L'inverno è finito. Scritti sulla trasformazione
negata” (Roma, Castelvecchi); “I libri del rogo, Roma, Castelvecchi); Partito
operaio contro il lavoro; Proletari e Stato; Per la critica della costituzione
materiale; La costituzione del tempo. Prolegomeni. Orologi del capitale e liberazione
comunista” (Roma, Manifestolibri); Spinoza (Roma, DeriveApprodi, Contiene: S
Democrazia ed eternità in Spinoza); “Sogni Incubi”, L’incubo, Visioni. Politica
e conflitti nella crisi della società del lavoro” (Milano, Lineacoop, La
sovversione” (Roma, Liberal, Kairòs, alma venus, multitudo. Nove lezioni
impartite a me stesso” (Roma, Manifestolibri, Desiderio del mostro. Dal circo
al laboratorio alla politica, a cura di e con Fadini e Wolfe, Roma, Il manifesto,
Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, con Hardt, Milano, Rizzoli, Europa politica. [Ragioni di una necessità],
a cura di e con Friese e Wagner, Roma, Manifestolibri, Luciano Ferrari); “Bravo
ritratto di un cattivo maestro. Con alcuni cenni sulla sua epoca” (Roma,
Manifestolibri); “L'Europa e l'impero. Riflessioni su un processo costituente,
Roma, Manifestolibri); “Moltitudine e impero, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il
ritorno. Quasi un'autobiografia” (Milano, Rizzoli, Guide); “Impero e dintorni”
(Milano, Cortina); “Moltitudine. Guerra e democrazia nell’ordine imperiale” (Milano,
Rizzoli); “La differenza italiana” (Roma, Nottetempo); Movimenti nell'impero.
Passaggi e paesaggi, Milano, Cortina, Global. Biopotere e lotte” Roma,
Manifestolibri, Goodbye Mr Socialism, Milano, Feltrinelli, Settanta (Roma,
Derive); Approdi, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica,
Milano, Feltrinelli, Dalla fabbrica alla metropoli” (Roma, Datanews, Il lavoro nella Costituzione” (Verona, Ombre
Corte, Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti
della governance” (Verona, Ombre Corte, Comune. Oltre il privato ed il pubblico, (Grice:
“Cf. Grice on ‘common language’ and ‘private language’”) Milano, Rizzoli, Inventare il comune, Roma, Derive Approdi, Il
comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte (Verona, Ombre Corte); “Questo
non è un Manifesto” (Milano, Feltrinelli); “Spinoza e noi, Milano-Udine,
Mimesis); “Fabbriche del soggetto. Archivio (Verona, Ombre corte); Arte e
multitudo (Roma, DeriveApprodi); “Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle
Grazie, Galera ed esilio. Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Assemblea,
Milano, Ponte alle Grazie, Da Genova a domani. Storia di un comunista, Milano,
Ponte alle Grazie. Che l'Europa
politica sia necessaria, è chiaro per le ragioni stesse che ne hanno
determinato l'attuale processo costitutivo: la ricerca della pace fra le
nazioni che la compongono, lo spazio economico comu-ne, la comune
determinazione culturale, ecc. Ma che l'Europa sia necessaria sembra
evidenziarsi con molta forza anche da altre ragioni, non più semplicemente
statiche ma dinamiche, non più solo storiche ma politiche ed attuali. La
necessità dell'Europa nasce dal confronto con la messa in forma del mercato
globale, cioè dal confronto con il processo di costituzione imperiale che sta
realizzandosi. Nell'impero, essendo impensabile una democrazia assoluta
(un uomo uguale un voto); essendo del pari assai dubbia, quando non si tratti
di pura mistificazione o illusione, l'immagine di una società civile globale,
sarà infatti necessario delimitare uno spazio che consenta l'espressione e la
decisione democratiche della molti-tudine, nonché la sua organizzazione
politica. Ora, lo spazio politico europeo (costituito su una continuità
culturale lunga e singolare e una dinamica costituzionale specifica)
sembra corrispondere a quella necessaria delimitazione. lo non so se in questo
spazio sia possibile pensare un soggetto politico adeguato alle dimensioni dell'impero.
Quel che è certo è che fuori da questo spazio, e senza un soggetto adeguato,
non c'è più democrazia per l'Europa. Se queste sono le condizioni nelle
quali dobbiamo muoverci, interroghiamoci qui di seguito. È
possibile costruire questo spazio? E possibile costruire, in questo spazio, un
soggetto politico che si confronti agli altri nell'impe-ro? O, meglio, che si
confronti con gli altri a proposito dell egemonia imperiale? E possibile una
unione politica che ne valza la pena? A noi non sembra che si possa dare
risposta positiva a questi interrogativi se si consente alle posizioni che oggi
sono prevalenti nella discussione politica europea. Alcune di queste posizioni
appartengono al dibattito comunitario (1), altre partecipano del dibattito politico
sull'Unione (2).Ora le pesizioni che attengono al dibattito comunitario, si
pongono fra gli estremi di questa alternativa: 1,1 La Comunità curopes
come pura area di mercato e regolazione di questa: 12 la Cawumira euroyea
cme Confederazione ti Stati-nazio- È chiaro che in eninambi questi casi
la Comunità europea è disgonata come una subornizzazione imperiale, ovvero come
una delle enganizazioni deventrate nella piramide imperiale. In questo caso
l'unione politica non produce né democrazia né una nuova sagrettività
all'interno dell'Impero. Si obierta tuttavis, da qualche voce, che
assumendo la «deter- minante mititares come pil importante di quelia
cconomica si potrebbe sovrarre l'Europa alla funzione subaltema cui
l'Impero la destina Cio surebbe tuttavia vero salo alla condizione,
manifesta- mente tale, che l'Europa potare immectatamente presentarsi,
nel sua insieme, come potenza militare. Ma enca non si presenta casi: amalmente
la determinazione militare è separata, gestita dai singoli Sti-narione.
Di conseguenza proprio quando ci si riterisce alla deter- munante
militure, si finisoe per escludere / Euroga da ogri collocario ne o ruelo
decisivi nell'ambito imperiale. So poi l'insistenza sulla determinante mitare
forse semplicemente un trucco per rattermare la centralità dello Stato-nazione
nella realtà europea ed internaziona-le, allora l'efficacia dell'obiezione
verrebbe del tutto meno. Un'altra altemativa si disegna quando si
considerino le posizioni che partecipano del dibattito politico sull'Unione: L'Unione
politica europea è da un lato, in questa prospet-tiva, considerata come un
Super Stato giuridico-amministrativo (msomna, un Impera nell
Impero); 22 in altra foma l'Unione europea può anche enere
immaginata (come spesso avviene nel diburtito arruale) come una
Costituzione senza Stato, ovvero come una struttura statale caratterizzata da
numerosi Iivelli di organizzazione piuttosto che promona da un centro
sovrano. Si tratta, in entrambi i casi, di una figura costituzionale
sparia orvero chi una macchina sebole del potere costituente. Sono,
queste ultime figure, entrambe canuterizzate da un deficit democratico
pesantissimo. In 2.1 lUnione curopea sembra essere affidata ad una magistratura
buroeritica che produce le istituzioni come con- seguenza di una dinamica
fonzionalista. In 22 | Unione curopea e consenata a macchinazioni
pelitico-giuridiche piuttosto similt a quelle che reggevano
l'amministrazione del Sacro Romano ImperoGermanico e riconducibili alla
combinazione di una architettura puffendorfiana e dell'immaginazione
reazionaria del romanticismo. Secondo alcuni giuristi, tuttavia, si
dovrebbe riporre fiducia nei dispositivi giuridici dell'Unione Europea
esistenti. Una volta messi in moto, essi potrebbero funzionare come «potere costituente»
di una nuova sovranità europea. Questo potere costituente «spurio» può essere,
a parere dei giuristi, prodotto sia da un'attività istituzionale intera (le
Corti europee) sia dall'effettività del combinato sussidiario delle istituzioni
europee e degli Stati confederati. Le burocrazie interne alla comunità
divengono cosi il «deus ex machina» che non solo supplisce al deficit
costituzionale ma ne prepara il superamento. Queste ipotesi non sembrano
credibili. Esse infatti prevedono una sorta di governance costituente,
difficilmente ipotizzabile in una situazione caratterizzata, a) oltre che dal
deficit democratico di base, b) da conflitti certi fra le élites europee, e) da
pressioni contrarie, e/o distruttive, esercitate dalle élites imperiali,
americane, russe, ecc. In ogni caso, qualora la discussione politica e
costituente continuasse in questi termini, forse avremo un'Unione Europea... Ma
non ne varrà la pena, perché essa sarà, dal lato dei governanti, completamente
subordinata al comando imperiale; dal lato dei governa-ti, bloccata, chiusa in
una passività che potrà trovare solo vacue vie di fuga, di rivolta o di
repressione. A quali altre condizioni è dunque possibile un Europa
politica che ne valga la pena? Essa è possibile solo se il progetto dell'Unione
e quello di una mobilitazione democratica della moltitudine europea sono
concomitanti ed agiscono con forza dirompente a livello e nelle dimensioni
dell'impero tutto intero. Voglio dire che un'Europa politica (che ne valga la
pena) è possibile solo se la moltitudine europea è sollecitata alla
costituzione dell'unione politica attraverso la mobilitazione di strati sociali
potenti (sia nella produzione di merci che nella espressione di valori), di
strati sociali che vogliono dunque con l'Europa, più libertà qui e nel
mondo. Vale forse dunque la pena qui di sottolineare che quel che
dovrebbe interessare coloro che vogliono un'Europa politica, non è tanto la
costituzione di un demos quanto la produzione di un soggetto politico. Ma far
uscire un soggetto politico dalla moltitudine, dunque costruire un'Europa
politica che ne valga la pena, non sarà possibile se non vi saranno divisione,
lotta, decisione di valori di libertà. Ci sia permessa una breve
parentesi. L'Europa era stanca quando, dopo un secolo di guerre fratricide, a
metà del secolo ven-tesimo l'antica utopia cosmopolita venne riproposta e
riformulata nel progetto politico dell'Europa unita. Il paradosso di questa
decisione fu di essere animata piuttosto da necessità strategiche nella lotta
contro il comunismo sovietico che da una effettiva ricerca di unità politi-ca,
di solidarietà economica e di ricomposizione costituzionale. I federalisti
europei si batterono a lungo contro queste insufficienze, ma furono sempre
prigionieri del quadro strategico precostituito. In particolare, esso escludeva
la sinistra e le masse proletarie dal progetto europeo. Una divisione di classe
sovradetermina dunque il progetto europeo e preesiste alla sua attualità. Un
demos europeo non sarà dunque possibile costruirlo se non si scava dentro
questa preistoria e, al limite, se non si riattivano realisticamente quelle
profonde divisioni, al fine - laddove sia possibile - di superarle. In ogni
caso, si tratta di prendere in considerazione i conflitti (passati ed attuali)
perché solo questa considerazione potrà permettere di articolare, nel presente,
eventuali convergenze politiche. La fine della Guerra Fredda, di per sé, non
risolve nulla, a meno di pensare che nel conflitto internazionale di allora non
fosse in qualche modo incluso il conflitto di classe. Di contro, lo sviluppo
negli anni '90 delle tendenze imperiali rischia di accentuare (come si è
cominciato a vedere) alterative molto caratterizzate alla costruzione
dell'unità europea da parte degli Stati-nazio-ne. Il Regno Unito gioca
pesantemente come arma euroscettica il proprio ruolo di alleato privilegiato,
nella politica finanziaria e militare, degli Usa. Le altre potenze europee
guardano con sospetto la supremazia continentale della Rft unificata. Ecc.,
ecc. Se si vuole superare questa situazione, il dibattito sull'Europa, ed il
riconoscimento del suo farsi da parte dei popoli che la costituiscono, dovrà
attraversare nuove fasi di confronto e di espressione alternativa di valori, di
opzio-ni, di tendenze. Senza bagnarsi in queste scadenze di vita e di sangue,
sarà difficile procedere nel dibattito europeo... Chi ha dunque interesse
all'Europa politica unita? Chi è il soggetto europeo? Sono quelle popolazioni e
quegli strati sociali che vogliono costruire una democrazia assoluta a livello
di impero. Che si propongono come contro-Impero. Insomma, si tratta di
quegli strati produttivi (più o meno pro-letari) che necessariamente (per
ragioni dettate dalla natura della loro forza produttiva) chiedono: uno
statuto di cittadinanza sempre più universale, ovvero la più ampia mobilità per
sé e per gli altri; reddito garantito, ovvero la
possibilità materiale, per le moltitudini, di essere flessibili nella
produzione di ricchezza e nellariproduzione della vita; c) la proprietà comune
dei mezzi di produzione: s'intende, dei nuovi mezzi di produzione. Se infatti
il lavoratore intellettuale non ha la proprietà del proprio utensile di lavoro,
cioè del cervello, allora non è più nemmeno un proletario ma uno schiavo. Si
vuole dunque la libertà. C'è un nuovo proletariato che è stato creato dal
nuovo modo di produzione capitalistico. E una moltitudine che, nella
postmodemità, si aggrega e ricompone nei più diversi luoghi produttivi -
infatti, ogni attività è diventata un luogo da quando la localizzazione
capitalista della produzione è diventata un non-luogo, da quando la fabbrica
for-dista si è dissolta nella società postfordista. E un esodo permanente ed
alternativo, dove un proletariato immateriale e precario si dispiega e si scontra,
dentro il quadro della globalizzazione, con l'Impero. Sarà possibile affidare a
questo proletariato europeo, come linea di esodo, il progetto Europa? Insomma,
porlo contro tutti i tentativi di fare dell'Europa una grande potenza sovrana,
un super-potere capitalisti-co, un blocco di forze conservatrici (verdi o
gialle, nere o rosse che sia-no)? Insomma qui si chiede un Europa di gente
intelligente e povera, divertente e mobile, che sconquassa ogni assetto di
potere costituito. Può cominciare attraverso l'Europa una marcia
zapatista della forza-lavoro intellettuale? Europa delle regioni, Europa delle
Nazioni, Europa provincia imperiale, ecc., ecc.: e se, di contro, cominciassimo
a parlare dell'Europa come non-iuogo rivoluzionano nell Impero? Vale la
pena di sottolineare che le condizioni qui poste rap presentano un diagramma
nella costituzione non solo politica ma biopolitica dell'Europa unita. Dico
«biopolitica», perché oggi le condizioni giuridiche universali (della
citradinanza, del reddito, della proprietà comune) costituiscono la
precondizione, ovvero il substrato ontologico, dell'esercizio stesso della
libertà. La politica ha investito la vita cosi come la vita ha investito il
politico: nella costituzione dell'Europa unita questo rapporto non può che
essere ritenuto fondamentale ed irreversibile. Per concludere
provvisoriamente, mi sembra dunque che si debba dire: un soggetto europeo
(e con esso un'Unione europea che valga la pena) potrà essere formato solo da
una nuova sinistra europea. La questione della costruzione dell'unità europea e
quella della formazione di una nuova sinistra sono sincroniche. Il nuovo
soggetto europeo non rifiuta dunque la globalizza-zione, anzi, costruisce
l'Europa politica come luogo dal quale parla-re contro la globalizzazione,
nella globalizzazione, qualificandosi (a partire dallo spazio europeo) come
contropotere rispetto all'egemo- nia capitalistica nell'Impero. Per
ravvivare la discussione è forse qui utile proporre una reminiscenza del
«potere costituente», e di come esso potrebbe agire, se immaginassimo l'Europa
come «anello debole» nella catena del dominio imperiale, e quindi la
costituzione unitaria dell'Europa come prodotto di una vera e propria «guerra
civile» all'interno dell'Impero. Al fine di dare realistica base a queste
ipotesi, è necessario assumere che il comando imperiale non è per nessuna
ragione disponibile ad ammettere un'Europa unita (ed unita a partire dalle
nuove forze sociali antagoniste) come «contropotere» nella globalizzazione.
Questo rifiuto è organizzato e rappresentato da frazioni importanti del
capitale globale e trova la sua base nel conservatorismo della destra americana
e nel pensiero unico del liberalismo mondiale. L«unilatera-lismo» americano non
è solo «americano» ma capitalista, conservatore e reazionario. La grande
metamorfosi imperiale ha sconvolto i parametri tradizionali della scienza
politica e del diritto pubblico, e ha spinto importanti frazioni del capitale
collettivo (globale) verso un accanito conservatorismo. L'«unilateralismo» è un
tentativo di bloccare ogni movimento delle moltitudini e di fissare su
condizioni immutabili il dominio del grande capitale sull'Impero. Da questo
punto di vista, la proposta di un'Europa unita, che sappia (perché altrimenti
non potrebbe trovarsi unita) dare spazio alle nuove forze sociali che la
rivoluzione del modo di produrre ha creato - bene, questo, i padroni
dell'Impero, i governi della destra e il capitale collettivo non lo
voglio- no. Bisogna dunque che si apra una lotta dura su queste alternative
e che ci si impegni attorno ad essa su un programma di trasformazioni radicali.
Solo in questo caso l'Europa potri diventare reale: e, diventando reale,
presentarsi come «anello debole» della costituzione imperiale e quindi
possibilità di nuova libertà per le moltitudini. Ma ritorniamo al centro
politico del nostro dibattito e discutiamo altre obiezioni. All'obiezione
che l'iniziativa capitalista (neoliberale) nel costruire un Europa
sub-imperiale è già troppo avanzata perché, a questa anticipazione, possa darsi
qualsiasi risposta (dunque l'unica possibilità è la difesa degli
Stati-nazione), si deve rispondere: la resistenza nazionale non è più
possi-bile, lo Stato-nazione (anche confederato) è già del tutto assorbito
nelle dinamiche imperiali... Quindi c'è possibilità solo di rilanciare la lotta
nell'Impero. La rivendicazione di «realismo» non consistenella propaganda della
ritirata alla Kutusov, né nelle pratiche dell' «curoscetticismo», bensi
nell'insistenza (anche in situazioni di ritardo, di sconfitta...) sulla
costruzione di alternative globali che possono dar luogo ad eventi di
rottura. Noi dunque diciamo: puntiamo sulla costruzione di una sinistra
(nuova) a livello europeo, piuttosto che su ogni altro obiettivo. Sulla
via della costruzione di questa (e dell'Europa) noi possiamo/dobbiamo investire
il non-luogo imperiale, in maniera sov-versiva. All'obiezione che
l'Europa è povera, che non ha materie prime né petrolio, che ha una finanza ed
una moneta completamente subordinate al mercato mondiale, che non ha la bomba
né la capacità di decidere della guerra, ecc.. si deve rispondere che
l'Europa è ricca di forza-invenzione e di forme di vita. Nella depossessione di
materie prime, nella debolezza finanziaria e monetaria, nella estrema impotenza
militare, non è la reinvenzione del «demos» o una solidarietà antica (demotica)
che pre-miano, ma piuttosto una nuova immaginazione biopolitica che, nel
rapporto con la mobilità tellurica dei lavoratori e dei poveri e la
mobilitazione delle nuove intelligenze, si faccia esodo dalla miseria delle
forme economiche e politiche della modernità. Ciò detto, è necessario
sottolineare il fatto che ogni qual vol-ta, dall'inizio degli anni 70, l'Europa
ha cercato di operare un passaggio istituzionale decisivo, sempre si sono
tempestivamente determinate acute situazioni di crisi. Esse hanno avuto origine
nel ventre molle dell'Impero, in quel Medio Oriente dove si forma il prezzo di
uno dei beni essenziali dell'Europa, il petrolio, e dove dominano i governi più
reazionari del pianeta. Questa coincidenza non può non essere presa in
considerazione da una sinistra europeista. Essa deve aver coscienza che
costruire l'Europa significa lottare, ad un tempo, contro coloro che fanno il
prezzo del petrolio e contro i governi reazionari del Medio Oriente,
contro i Talebani del dollaro e quelli del petrolio. Per approfondire l'intera
argomentazione fin qui condotta e rafforzare le conclusioni (l'Europa politica
unita non dovrà essere tanto una nuova figura della sovranità quanto una
«macchina da guerra» per l'estensione dei nuovi diritti fondamentali ai
soggetti dell'Impero) vale la pena di aggiungere qualche riflessione sulmodello
europeo di solidarietà sociale ovvero sul rapporto che si stende, nella
tradizione e nell'avvenire, tra il diritto del lavoro e la costituzione
europea. Per trattare di questo tema penso che dovremo, prima di tutto,
ricordare quanto sia ambiguo il riferimento ad un modello europeo di
solidarietà sociale: un modello che, avendo trovato le sue origini nell'Obrigkeitstaat
bismarckiano o nel rozzo sociologismo della III Republique, si è sempre
caratterizzato (dal punto di vista giuridico) nella forma della subordinazione,
(dal punto di vista economico) nel calcolo del costo di riproduzione della
forma lavoro (del salario diffe-rito), (dal punto di vista politico) in
funzione della pace sociale e del consolidamento dell'autorità statale - ed è
stato spesso tradotto in solidarietà imperialista o bellica... Gli Istituti
Nazionali per la Previdenza Sociale hanno linanziato gran parte delle guerre
del X.X seco-lo. In esse s'è esaltata la disciplina biopolitica dello
Stato-nazione, quella che ben si conclude nel nazional socialismo. Ciò
detto, resta tuttavia da aggiungere che il modello europeo di Welfare ed il
diritto del lavoro che gli si incastonava dentro, sono venuti man mano
registrando i movimenti antagonisti della forza lavo- TO. È sulla
base delle lotte dei lavoratori che Welfare e diritto del lavoro si sono man
mano, in Europa, emancipati dalle determinazioni corporative, populiste,
colonialiste, imperialiste che li avevano percorsi. È così che siamo
arrivati ad un momento, fra i '60 e i '70, nel quale ci siamo illusi che il
modello europeo si fosse liberato dalle sue iniziali condizioni, che dunque
Sinzheimer avesse vinto e che l'ambiguità del modello europeo di solidarietà
potesse definitivamente fondarsi su - e nutrire - la democrazia. Non è
stato così... A partire dagli anni 70, le conquiste democratiche del
Welfare europeo sono state scontrate dal neoliberismo ed i loro effetti spesso
neutralizzati. I metodi della repressione hanno annullato forze altrimenti
irresistibili e le hanno piegate alla sovradeterminazione del mercato globale,
politicamente riconosciuto come potenza autonoma: D'altra parte
l'attività del diritto del lavoro «all'europea» è stata assai disturbata,
quando non sia stata colpita nei suoi stessi presupposti. Ché infatti, se il
suo progresso era conflittuale, legato alle lotte di un soggetto forza-lavoro
(che aveva ottenuto riconoscimento costituzionale), ora questo soggetto (il
sindacato) non era stato solo attaccato nella sua figura istituzionale,
rappresentativa,ma gli erano state sottratte le condizioni di esistenza,
Chiamiamo: postfordismo la situazione nella quale il sostrato ontologico
(classe operaia) e la figura politica (sindacato) del conflitto industriale non
esistono più come attore centrale. Che cosa significa più, nel
postfordismo, parlare di un modello (di una tradizione) europeo di solidarietà
sociale quando (senza insistere sulle differenze ma supponendo omogeneità) le
condizioni stesse della continuità non sembrano più darsi? Che cosa
significa, in assenza di un soggetto conflittuale forte, in condizioni ormai
definitivamente stabilizzate di flessibilità e di mobilità della forza lavoro
produttiva, riattualizzare o reinventare un diritto del lavoro su scala
continentale? E nella globalizzazione dei mercati, che cosa significa
accostare Labour Law e European Constitution? Talora ho l'impressione che si
dovrebbe fare come Roosevelt all'inizio del New Deal: imporre per decreto un
nuovo soggetto sindacale per permettere la messa in forma di un nuovo Welfare:
ma come è immaginabile oggi un tale disegno? Ad accrescere le difficoltà
di dar risposta a questi quesiti insorge un altro tema/problema: quello
dell'immigrazione. Nelle condizioni di globalità dei mercati, questo
problema (è bene precisarlo) non si «aggiunge» a quello della regolazione
(giuri-dica o politica) della forza lavoro indigena: gli è, al contrario, con-sustanziale
sia dal punto di vista dell'economia industriale (disponibi- lità
indefinita e costo limite zero del lavoro) - sia dal punto di vista delle
politiche budgetarie (pensioni-stiche, assistenziali, scolastiche e formative,
sociali in genere...) Sarebbe interessante qui riferirsi a, ed insieme
forzare, quella categoria «frontiera» che Balibar - nei suoi ultimissimi
scritti - considera ormai più ampia di «Stato-nazione». E comunque sparare a
zero sull'attuale concetto di cittadinanza immobilizzato su spazi ormai
derisori per la vita di un uomo qualunque e del suo bisogno di
lavorare... Di qui altre due questioni, alle quali siamo introdotti dal
problema dell'immigrazione, ma che non hanno rilevanza semplicemente in questa
prospettiva. La prima è: come viene configurandosi il controllo biopolitico
sulla forza lavoro postfordista, mobile e flessibile, indigena o nomade?
E poi: come potrà un diritto del lavoro (su scala europea) determinare
un'eccezione (su scala globale) contro il controllo bio- politico e la
gerarchizzazione imperiale della forza lavoro?Antonio
Negri. Keywords: implicature, potere-potenza, l’incubo, la differenza italiana,
grammatica politica, assemblea, Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Negri," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Neri: l’implicatura
conversazionale dell’aporia della realizazione – filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano.
Milano, Lombardia. Grice: “Neri is an interesting philosopher – he speaks of
the aporia of the realization, which is intriguing, and considers that
‘objectivism’ started with Galileo, which is realistic!” Professore a Verona. Allievo di Banfi e Paci, rappresenta
una delle ultime sintesi della Scuola di Milano, di cui riprende alcuni dei
temi portanti: ricerca fenomenologica, analisi storico-politica, studi
estetici. Rispetto ai suoi maestri, del cui pensiero è stato uno dei
maggiori interpreti, sviluppa un percorso di ricerca originale, caratterizzato
da una critica delle ideologie del Novecento e dei loro fallimenti, e da una
lettura non dogmatica della storia contemporanea, volta a metterne in luce
discontinuità e aporie. Forte di un'indole scettica e fedele al principio
dell'epoché fenomenologica, Neri ha ripercorso le vicende della dialettica
marxista, focalizzando in particolare la sua attenzione sull'Europa
centro-orientale, e sulle varie forme di controcondotta e dissenso che, a
partire dagli anni sessanta, sono andati germinando in quel contesto storico. I
suoi autori di riferimento Husserl e Merleau-Ponty, Bloch e Lukács, Kosík e
Kołakowskirivelano la tensione intellettuale tra ricerca teoretica e storica
che ha caratterizzato il lavoro di Neri, dalle principali monografie, ai saggi
su aut aut e Il filo rosso, fino al materiale inedito conservato presso
l'Archivio N., da pochi anni istituito presso l'Università degli Studi di
Milano. Durante gli anni universitari, trascorsi tra Pavia e Milano, Neri
ha l'occasione di frequentare gli ultimi corsi di Banfi, ormai lontano dalla
fenomenologia e intento a perfezionare (e radicalizzare) il suo umanesimo di
stampo marxista, e dell'ancor giovane Enzo Paci che, in quegli stessi anni di
dopoguerra, intraprende un confronto innovativo con gli esiti della ricerca
husserliana, e in particolare con i contenuti della Crisi delle scienze
europee, oggetto di numerosi corsi. Proprio questo "apprendistato
fenomenologico", secondo l'espressione di Fausti, ha consentito a N. di
acquisire un metodo di ricerca che lo ha accompagnato, non solo nei suoi studi
delle opere di Husserl, Merleau-Ponty, Patočka (dei quali traduce e cura varie
pubblicazioni), ma, più in generale, nell'analisi del pensiero storico e
politico novecentesco. A questi interessi va ad aggiungersi quello per l'arte e
l'estetica, decisivo in questi primi anni, e dovuto in particolare agli
insegnamenti di Formaggio, con cui N. si laureò. Neri continuerà a interessarsi
a questi temi anche negli anni successivi, dedicando diversi scritti a Panofsky
(della cui Prospettiva come forma simbolica cura nell'edizione) e a Caravaggio,
e interrogandosi sul rapporto tra fenomenologia ed estetica. Agli anni di
studio, segue una fase di ricerca che lo porterà nei primi anni sessanta a
Praga, ospite dell'Accademia delle Scienze della Cecoslovacchia e, in seguito,
negli Stati Uniti d'America, dove è visiting scholar a Pennsylvania. A Praga,
Neri entra in contatto con la giovane generazione di intellettuali cechi che,
in questi anni cruciali, portano avanti l'idea di riformare il socialismo dal
suo interno, a partire da una profonda reinterpretazione del materialismo e
della prassi marxiana. È grazie a N. che in Italia si diffondono le opere di
Kosík e di Patočka che, pur così profondamente diversi, condividono con Neri
l'interesse per la fenomenologia e la politica. Durante la sua esperienza
americana, N. dedica a Marx una serie di lezioni e conferenze, i cui testi
inediti, facenti parte del Fondo N., sono conservati presso la Biblioteca di
Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Analizzando il pensiero di
Marx, N. si rifà in particolar modo, oltre che all'insegnamento di Kosík, agli
scritti di Petrović e alla scuola jugoslava legata alla rivista Praxis. Tornato
in Italia, inizia un lungo periodo di insegnamento a Verona, durante il quale
incentra i suoi corsi sulla fenomenologia post-husserliana, su Bloch, sull'idea
filosofica di Europa e la sua eredità, a seguito del fallimento dei principali
progetti politici novecenteschi. Escono in questi anni le sue opere più note: “Aporie
della realizzazione”, sulla filosofia e l'ideologia dei paesi del socialismo
realizzato, e “Crisi e costruzione della storia”, dedicato, ancora una volta,
al maestro Banfi. In più occasioni, manifesta il suo debito nei confronti
dei suoi maestri milanesi, per averlo iniziato allo studio della fenomenologia.
In tal senso, il passaggio dall'insegnamento di Banfi a quello di Paci è
decisivo. «Al centro non era piùscrive Neri poco prima di morire, ricordando
quegli anniil "disperato razionalismo" del fondatore della
fenomenologia: il fuoco della rilettura era diventato il "mondo della
vita" e la critica dell'obbiettivismo moderno». Un pensiero che ben si
presta a una generazione di giovani studiosi che, durante gli anni sessanta, si
raccolgono intorno a Paci, desiderosi di affinare un pensiero che consenta di
riguadagnare un sguardo disincantato, ma non indifferente, sulla realtà sociale
e culturale circostante, contro «l'asfissiante razionalismo» di Banfi e, più in
generale, contro l'impronta culturale del PCI. Neri rientra in questa
nuova leva di studiosi e in questi termini si possono interpretare anche i suoi
studi fenomenologici. «Con il tema del mondo della vitaribadisce N., in un
altro tra i suoi scritti più tardila fenomenologia mostrava di saper affrontare
i problemi posti dalle scienze storiche e sociali, dall'antropologia culturale
e infine anche dal pensiero marxista». L'esempio di Paci, tuttavia, che cercò a
tutti gli effetti di coniugare metodo fenomenologico e dialettica marxista, è
seguito dall'allievo solo parzialmente, lasciando la sua impronta più visibile
nel volume Prassi e conoscenza, una cui parte è dedicata ai critici marxisti
della fenomenologia. Col passare del tempo, tuttavia, Neri adotta una posizione
di sempre più evidente rottura, prediligendo a qualsiasi tentativo
conciliatorio una critica fenomenologica del socialismo realizzato e delle sue
distorsioni. A tal proposito, il confronto con Kosík e il dissenso, all'interno
del socialismo reale, giocano un ruolo di primo piano. Come si evince
dalla sua “Aporie della realizzazione,” distingue due fasi e due generazioni di
filosofi, all'interno della complessa crisi del socialismo in costruzione. Da
una parte, la prima generazione è rappresentata da Lukács e da Ernst Bloch.
Proprio al pensiero di quest'ultimo, alle sue concezioni di storia e di utopia
e ai suoi numerosi ripensamenti, Neri dedica una lunga analisi, che tornerà
periodicamente anche negli anni successivi, come testimoniano i programmi
dei suoi corsi universitari. A Bloch è ispirato, d'altronde, il titolo del
libro, che N. ricava da una pagina di Principio speranza. È all'interno della
dialettica tra realtà e realizzazione, tra condizione presente e speranza
futura, che N. individua l'andatura del socialismo reale, della sua filosofia e
della sua ideologia. Solo con la seconda generazione di filosofi, tuttavia, le
aporie della realizzazione socialista vengono veramente al pettine; la
malinconia di Bloch cede infatti il passo allo sguardo scettico di Kołakowski e
al tentativo di Kosík di rileggere la dialettica marxista in termini concreti,
al di là di ogni deriva ideologica. Dello stesso tenore è anche il libro su
Banfi, Crisi e costruzione della storia, di pochi anni successivo, in cui N. si
confronta con lo stesso tema della realizzazione, inteso stavolta nei termini
del tentativo banfiano di costruire un percorso storico su basi razionali,
oltre la crisi della civiltà moderna, verso una nuova prospettiva umanistica.
Alla luce del ritratto offertoci da Neri, che si concentra in particolare sugli
anni trenta, intesi come momento cruciale per lo sviluppo della teoria
banfiana, emerge un'immagine di Banfi particolarmente complessa, nella quale la
svolta ideologica e l'adesione al comunismo non offuscano il perdurare di uno
spirito critico e di una prospettiva europea, che si sviluppa al di là dei
particolarismi delle filosofie nazionali. L'Archivio N. -- è stato creato
presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano
l'Archivio N. In tale archivio è raccolta un'imponente quantità di materiali
inediti, che comprendono riflessioni, appunti per corsi e seminari, annotazioni
di viaggio, corrispondenze. Sono considerati di particolare rilievo, in vista
di futuri studi sul pensiero filosofico di N., i 149 quaderni, contenenti le
riflessioni del filosofo, dalla metà degli anni cinquanta, fino alla sua morte.
Attraverso la lettura di questi scritti, ora completamente consultabili e in
corso di digitalizzazione, è possibile chiarire il rapporto e gli scambi di
Neri con altri rappresentanti della filosofia milanese: da Banfi a Paci, da Dal
Pra a Preti. Grande importanza rivestono anche i commenti in presa diretta su
alcuni tra i più rilevanti avvenimenti storici del Novecento: dall'invasione
sovietica dell'Ungheria, alla Primavera di Praga, fino al crollo del socialismo
reale. A ciò si aggiungono le riflessioni sul ruolo della filosofia nella società,
sul modo e l'opportunità di insegnarla, e sulla sua tenuta, di fronte alle
scosse della storia. Saggi: : “La fenomenologia della prassi (Milano, Feltrinelli); “Il partito socialista
italiano” (Milano, Feltrinelli); “Crisi e costruzione della storia” (Napoli,
Bibliopolis); “Il sensibile, la storia, l'arte” (Verona, Ombre Corte, F. Tava, su
Open Commons of Phenomenology. G. Scaramuzza, Presentazione, in Atti della
Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente,
Milano, Materiali di Estetica, Archivi. su sba.unimi. degli scritti di in aut
aut, n. Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la
Fondazione Corrente, Milano, in Materiali di Estetica, Quando tra noi Ricordo, amici, colleghi e studenti, Pizzighettone,
Viciguerra, L. Fausti, Tra scepsi e storia. Un percorso filosofico, Milano,
UNICOPLI,. L.Frigerio e E. Mazzolani,
Iin Sistema Università, A. Vigorelli,
Fenomenologia e storia. A partire da Patocka: itinerario filosofico, in Leussein, F. Tava, Open Commons of Phenomenology. sba.unimi.
Fondo librario. Grice: Mussolini
used to say that Garibadi spoke of the ‘popolo’ while he speaks of the
‘nazione’ – and a nazione has a plusvalue over popolo. Il popolo e l’asino, l’asino e il popolo utile
paziente e bastonato. Grice: “Neri made
a great contribution or the spreading of Husserl’s interpretation of their own
Galileo n Italy. Who is this Jew to tell us anything about our glorious Pisan?
Husserl saw Gailei as a Platonist. Neri made a translation of Husserl’s essay on
Galileo and included in a saggio with the title GALILEO in it – in this way, he
gathered the attention of every Italian philosophical Galileian!” Grice:
“Perhaps the best introduction to Italian socialist politics are the
commentaries Neri made to the cartoons in the asino, which he entitled,
bitingly, the bite of the ass!” Grice: “Oddly, bite is an attribute of ass –
when a retrospective of the cartoons was held, the cliché journalese when
‘satira morente’ -- -- estetica di Diderot, senso e sensibile, il sensibile, la
sensazione, il Galileo di Husserl. Guido
Davide Neri, su sba.unimi. Neri. Keywords: aporia della realizzazione, il mordo
dell’asino, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Neri” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Nerone: il melodramma di Boito -- Roma – la scuola d’Anzio -- filosofia
lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Anzio). Filosofo italiano. Anzio, Roma, Lazio. Filosofo
epicureo e imperatore romano. Demetrio Lacon dedicated a philosophical essay to
Nerone, making it extremely like that Nerone was himself a follower of the
doctrines of The Garden. ao ss TN Bo ZA SI gia SE er
ES 7 VIS \ Rai COSI Sega pr e da ansa Mi, pe sud o, e
RICORDI MILANO 1( @ISERI (mpradigeile) POS \ DI Li ‘A DG DI 8 li 7
LALA Ss INI (EL fn ra SI ; CS ‘ pi” x "n ':
lr” t DS Ù Ì N ? Ò FINE Nine {UMBERTO PIZZI BULOGNA Via Zamboni Imprimé
en Italie BOITO TRAGEDIA IN IV ATTI AUMENTO COMPRESO LE PERSONE DELLA TRAGEDIA:
NERONE SIMON MAGO FANUÈL ASTERIA RUBRIA TIGELLINO GOBRIAS DOSITÈO PERSIDE
CERINTO IL TEMPIERE TERPNOS PRIMO VIANDANTE SECONDO VIANDANTE LO SCHIAVO AMMONITORE I
VARII AGGRUPPAMENTI DEL CORO: Ambubaje - Fanciulle Gaditane - Acclamatori - Cavalieri
Augustani - Liberti - Fautori di parte frasina - Fautori di parte azzurra
Popolo Schiavi Plebe Senatori Una compagnia di Artisti Dionisiaci, Tre decurie
di Guardie Germane Eneatori Sacerdoti del Tempio di Simon Mago - Matrone -
Classarii - Pretoriani - Cristiani Aurighi della fazione verde - Aurighi della
fazione azzurra. PANTOMIMI, DANZATRICI, APPARITORI: Una puella Gaditana L’
Arcigallo Un venditore d’idoli Un venditore di tavole votive - Un
mercante orientale Un flamine - L’auriga vincitore L’ auriga vinto Un lanista
Due Mercurii Due Caronti Alcuni Etiopi Viandanti - Lettigarii - Clienti Servi
Danzatrici Gaditane Corrieri Mauritani I due Consoli - Littori Preconi Due
Tribuni della plebe Legionarii - Galli - Greci Rheti Indiani, Armeni, Egiziani,
Fanciulli patrizii, Fanciulli cristiani, Fanciulli Asiatici, Cavalieri, Phaiangarii,
Matrone, Marinai, Citaredi, Sistrati, Auledi, Ieroduli, Flabelliferi, Tre
Tempieri, Alcuni Decurioni, Alcuni Centurioni, Guardie Germane, Gladiatori,
Alcuni bestiarii, Istrioni, Sagittarii. Tai % VA Il bh
NI E fighe: Ri di ST Mr Acenta) MAN CI 1a SOR MN LIERE
T #1"Ri N. TIRA GGEDRARENCF OUATTPEROSTASITI PAROLE E MUSICA DI BOITO RicoRDI
PRIMA MILANO, TEATRO ALLA SCALA PERSONAGGI N. Pertile; SIMON MAGO, Journet
E e Galeffi MORERTA SC del 5 Raisa MERA e, » Bertana ME UCINO
n e e Pinza BIRBRIAST: Nessi O i a BERSIDE N. . Sig Mita Vasari
MINT ne, » BERLEMPIERENS e, i Venturini PRIMO VIANDANTE.Tedeschi
SECONDO VIANDANTE Menni LO SCHIAVO AMMONITORE Baracchi MIS
SOL INLLÎNI MAESTRO DIRETTORE E CONCERTATORE
TOSCANINI Maestri sostituti: CALUSIO – CLAUSETTI FORNARINI
FRIGERIO - RAGNI - ROSSI - RUFFO VOTTO Maestro del Coro: VENEZIANI
Maestro della Banda: MORRONE Maestri suggeritori: PETRUCCI e DELEIDE Coreografo
: PRATESI - Prima ballerina: FORNAROLI Direttore della messa in scena: FORZANO
Direttore dell’allestimento scenico: CARAMBA Scene, costumi ed attrezzi
su bozzetti di POGLIAGHI Scenografo: MARCHIORO colla collaborazione di
MAGNONI Primo Violino di spalla: Giro MNastrucci Primo dei
secondi Violini: Odoardo Peretti Prima Viola: Koch Primo Violoncello:
Valisi - Primo Contrabbasso: Zfalo Caimi Primo Flauto; Tassinari Ottavino:
ATrevisan Primo Oboe: Trapani Corno Inglese: Ghignatti - Primo Clarinetto:
Cancellieri Clarone: Capredoni - Primo Fagotto: Mazzini Paltrinieri
Sarrussofono: Giuseppe Regarbagnati - Primo Corno: Michele Allegri
Prima Tromba: Edriondo Botti Primo Trombone; UVsberto Montanari
Basso Tuba: Saverio Scorza - Prima Arpa: Giuseppina Sormani Organo
e Pianoforte: Antonino Votto - Celesta: Eduardo Fornarini Xilofono,
Sistro e Batteria: Augusto Bergami Gran Cassa e Piatti: Arancesco Veronesi
Timpani: Barilli ispettori del Palcoscenico: Duma e Cellini
Vice ispettore: Rocchi Direttori del macchinario: Giovanni e
Pericle Ansaldo Costumi della Sartoria Teatrale Chiappa Attrezzi
della Ditta Aancazi et C. di Sormani Tragella et C. Gioielleria della Ditta
Angelo Corbella Parrucchieri: Biffi e Sartorio Piume e Fiori della
Ditta Virginia Ranzini Istrumenti musicali della Ditta Strumenti Musicali
Bottali La è fa 9.41 TNT Hi PI n RARI T IR d wa È Lal
AVALETCAUIT ATE PAIA RO i. È
un campo situato (per chi va da Roma ad Albano) lungo il lato destro
dell'Appia, alla sesta pietra milliaria. La via segue una linea obliqua
fra questo e gli altri campi che si estendono dall’altro lato. La notte è
nuvolosa. La luna pènetra a stento le dense nubi che la nascondono.
Sull’Appia e sulle sue tombe l’oscurità è appena diradata da un barlume
cinereo che non projetta ombre ; il campo nereggia più cupo. Sul
lato destro della via, dalla parte di Roma, s’innalza un grande sepolcro che si
prolunga nell’erba; gli si allinea d’accanto, progredendo verso Albano,
una tomba recente su cui sta per estinguersi una lampa funeraria. Tra
questa tomba e il milliario lo spazio è libero; poi segue una pietra sepolcrale
quadrata e, poco discosto da questa, un vasto tumulo erboso che porta sul
suo vertice le vestigia d’un’ara. Altre tombe si schierano sulla fronte
sinistra della via. Molti rottami d’antichi monumenti sono sparsi intorno al
grande sepolcro ed ingombrano anche il breve spa- zio che lo divide dalla
tomba recente. Fra questi ruderi un uomo, nelle tenebre, sta scavando
una fossa. È Simon Mago. Sul margine della via un altro uomo guarda,
immobile come in vedetta, nella direzione d’Albano ; egli porta il cappuccio
della lacerna sul capo. È Tigellino. La notte è piena di canti che giungono
dalla vasta campagna, dalle lontananze dell'Appia; frammenti di canzoni
portati dal vento, dispersi dal vento.VOCI LONTANE E SULLA VIA Canto d’amore
Vola col vento, a SIMON MAGO Torna col vento... i? E
lui: Passa un viandante che va verso Roma TIGELLINO con una bisaccia a spalle
ed un bastone.No. LA GUARDIA DEGL’ACQUEDOTTI SIMON MAGO lontanissima
Forse lo atterrì quel grido. Terza vigilia...TIGELLINO Odilo ancor, là...
verso via Latina. SIMON MAGO Pur ch’ei non l’oda! TIGELLINO
È profonda la fossa? | SIMON MAGO Profonda. Ma dalla parte
d’Albano s'è udito un urlo di spavento: Tigellino sbalza sul-
la via e incontra Nerone fuggente, ravvolto in una toga funebre e che
porta un'urna cineraria fra le braccia. TIGELLINO ‘ accorrendo al
grido Mio Signor N. ansando di terrore ed accennando dietro di
sè: L'Enanidzlatt. TIGELLINO dopo aver osservato È il tuo delirio.
N. No. La vidi...surse. Cinta di serpi... squassava una face... Poi
la ingojò la terra. TIGELLINO lo sorregge, lo fa sedere sulla pietra
sepolcrale che sta fra il milliario ed il tumulo. Qui
ti posa. TIGELLINO Dove lasciasti il corteggio? N. A
Boville. VOCE FERALE NEL LONTANO N.-Oreste il matricida Ancor più nel lontano
risuona il canto di "prima : Canto d’amore Vola col
vento, Torna col vento. Ricominciano le canzoni della notte. Volano
per l’aria le parole d’una stro- fa amatoria di Petronio Dolce ridente
Lalage. Giunge sull’Appia da Roma un’allegra comitiva al lume d’una torcia.
Vanno a passo vivo verso Albano. Risuona una voce con questo
epigramma Citarizzando scorda l'Impero... TIGELLINO sottovoce,
come parlando Balza il vento e ne porta le canzoni Or dai monti, or
dall’Urbe. N. trasalendo ed alzandosi Ancor quel grido! TIGELLINO
È la canzon d’un ebbro; porgi. Fa per prendere l’urna che N. stringe fra
le braccia. N. No. lo l’urna porterò sino alla méta. N. entra
nel campo coll’urna fra le braccia. Tigellino al suo fianco lo guiderà
fra le tenebre, lentamente. Giunti alla fossa si arrestano. N. Simon.
Mago dov'è? Nerone depone l’urna sul suolo, presso la fossa.
SIMON MAGO che non s’è mosso dal campo Qui supplicante I Mani
d’Agrippina. VOCI LONTANE trasfondeva col bacio il iabro al
[labro... l’anima errante progenie nova dal ciel... . ave,
anima. Una voce lugubre si sparge nella not- te; s'odono queste parole:
Voce dall'Oriente! Voce dall’Occidente! seguite dal popolarissimo verso
d’una atellana: Torna Onesimo dai campi... e dal grido ferale:
N.-Oreste il matricida N. subitamente, atterrito AN! tu
mi salva! Lava il mio matricidio! Orrenda vita Vivo, pe’ gioghi di
Campania in fuga, Meco traendo il delirio, le Eumenidi
Flagellatrici e lo spettro materno! SIMON MAGO Dagli insepolti corpi
emanan larve. Pronta è l’inferie. TIGELLINO Finchè il rito dura,
Vigilerò. i Poi s’avvicina a Simon Mago e con accento concitato,
staccandolo da Nerone, sommessamente gli dice : Spingilo a Roma,
incìta L’audacia in lui; s’ei teme siam perduti. Ritorna sulla via
Appia e s’apposta presso la colonna milliaria. N. prono sulla fossa
ed immobile, incomincia come chi proferisce parole preparate con arte:
Queste ad un lido fatal insepolte ceneri tolsi, Qui le trassi
dove stende Roma sue tombe; Sacro sempre fu ridonare agli estinti la
patria. S’inginocchia. Ecco, mi prostro, m’atterro,
m’accuso. Se dei defunti lo spirto penètri Nell’alme nostre, il
mio contempla, madre, Interno orror. quasi senza suono, inorridito e
coprendosi il volto colle mani lo son l’ultimo vivo Di tua
tragica stirpe, in me il Destino Tutte aduna sue forze e le consuma.
M’invade il Nume antico! È l’opra mia L’opra del Fato! ergendosi
fieramente E ben dicea quel grido: Io sono Oreste! PSA 0)
Ho. d, PRI SIMON MAGO E tua Tauride. N. intuendo con gioja il
pensiero di Simon Mago ..è Roma! Passa una famiglia di
gladiatori; la precede il lanista, riconoscibile alla lunga ferula
che impugna; gli sta a fianco uno schiavo con una lanterna. TIGELLINO Vanno
silenziosi verso Roma. dall’Appia, sommessamente ma energico Zitti!
Vien gente. sottovoce, ma concitato Presto. N. a Simon
Mago, con ansia T'affretta. Si sotterri l’urna. SIMON MAGO A te. N. esita
ad afferrare l’urna. Paventi? N. No. SIMON MAGO Presto.
N. angoscioso M’ajuta. Simon Mago lo ajuta a
calar l’ urna nella fossa. grescreazbiapiz indenni DO SIMON MAGO
N. Più profondo. Più profondo ancora. Simon Mago
comprime l’urna nella buca; poi, con la vanga la copre di terra
finchè la fossa è ricolma. N. a Simon Mago È fatto? SIMON
MAGO È fatto. N. Nascondi la vanga. Simon Mago va
a nascondere la vanga fra i ruderi, poi ritorna, prende dal-
l’acerra alcuni grani d’incenso, li spar- ge sull’ara thuraria,
immerge l’aspersorio nell’idria, raccoglie da terra il velo nero, lo distende.
SIMON MAGO copre la testa e il viso di N. col velo, insino al petto.
Ti copra l’atro vel. N. Ajuta! Ajuta L’anima mia!
SIMON MAGO tracciando con l’aspersorio dei segni arcani nell’aria
Redimo te! Ti prostra. Amen rispondi. N. tutto prosteso,
toccando con la fronte la terra, ripete: Amen. Dalla via
Latina giungono col vento gli antichi anapesti d’Ibycos: Eros vibra da l’umide
ciglia lo stral che riapre l’antica ferita d’amor. Passano sull’Appia due
giovani viandanti; quello che canta poggia il braccio sulle spalle dell’aliro.
Vanno verso Roma. Ancora dalla via Latina s’odono gli anapesti:
...ed io fremo siccome l’ardente corsier che ritorna alle
gare del Circo. ì H ì s dI ì i i fl È
I ANI IOTTZION LE SIMON MAGO Ti rialza. Lo ajuta a
sollevare il capo e îl petto, malo mantiene ancora genuflesso. Spargi i
libami. La luna si fa più torbîda. Simon Mago s’affretta a porgere a
Nerone la tazza libatoria. N. h I E sangue? SIMON MAGO
È sangue; innaffiane la fossa, E nel versar torci il volto. N.
Ho paura. La luna s’è rannuvolata. Nerone piglia la tazza, ma esita
a versare il sangue sulla fossa. SIMON MAGO Versa. Coraggio
N. inclina la tazza, gira il capo e, attraverso il velo che lo
copre, scorge dietro di sè, fra il gran sepolcro e la tomba, una figura
spettrale sorta da sotterra, che innalza una face ardente ed ha il collo
avviluppato da serpi come un’Erinni. A quella vista egli balza în piedi
inorridito e corre a ripararsi dietro il tumulo, gettando un
grido: Orror! SIMON MAGO (NANO Dopo un attimo di sorpresa va a
prosternarsi ai piedi dell'apparizione. TIGELLINO che ha udito le
grida, vede quella sembianza d’Erinni ed esclama: D’onde uscì ? UN VIANDANTE
Qual grido? UN ALTRO VIANDANTE Olà! chi grida? TIG ELLINO
Via di qua! IL PRIMO VIANDANTE Chi è costui ? IL SECONDO
VIANDANTE Chi è costui? IL PRIMO VIANDANTE È Tigellino. N.
come attratto da un fascino verso quella figura ferale che lo guarda:
A sè m'attira. TIGELLINO afferra Nerone al braccio
sinistro e lo sforza a seguirlo al di là del tumulo. Vieni Il velo, che
copre il capo di N., cade. Appena il volto di N.. si scopre, L’
ERINNI drizza il braccio verso di lui e con un grido irruente lo nomina:
N. N. fugge con Tigellino dalla parte di Albano. L’Erinni fa un passo per
inseguirlo, ma il corpo di Simon Mago, prosternatole davanti fra le
tombe e î ruderi, le preclude ogni via ed essa rimane come im- pietrita,
col braccio teso, atrocemente pallida e cogli occhi sbarrati e fissi sul
tuinulo da dove è scomparso N.. La campagna è ancora immersa nelle tenebre;
solo la face dell’Erinni sparge un circuito di luce. SIMON MAGO
sempre genuflesso, a capo chino, osserva celatamente, girando in basso gli
sguardi, se il campo e la via sono rimasti deserti; accerta-tosene, si rialza,
afferra ai braccio quella figura atteggiata a stupore catalettico e le
dice, calmo: Sei colta. ARA fo L’ ERINNI (ASTERIA) senza scuotersi,
con voce incolore, come irasognata Chi ama la morte Toccar
mi può. SIMON MAGO abbandonando il braccio d’Asteria, ma badando sempre ad
impedirle la via Non sperar ch’io paventi. L’idre al tuo
collo attorte O son morte o morenti. ASTERIA appoggia la face al
sepolcro, appressa le mani al suo collare di serpi e con gesto lento di
minaccia risponde: Sperder potrei la malìa che le assonna E
avventartele. Simon Mago prende la face e la solleva per rischiarare la
persona d’Asteria. Asteria veste una specie di kalasiris egizia, a
tinte fosche; ha le braccia nude, i capelli nerissimi sparsi in molte
trecce sottiti SIMON MAGO Donna Strana ed
audace, avernalmente bella, Tu sembri al raggio di questa facella
Medusa, Ecate, Sfinge, Fumenide o dimòne. Chi sei? Chi
cerchi? Qual forza ti spinge ? Perchè insegui N.? ASTERIA È
il mio Nume e lo adoro! A notte cupa, Quando negli antri del funereo
suolo Vagolo al pari di piagata lupa Ululando il mio duolo,
lo lo invoco! Egli è l'Angelo crudel Che popola di spettri le
tenèbre, Che scuote sulle plebi infami ed ebre Il sublime flagel.
il mio Nume e lo adoro. Sotto un vel ora apparve a me davante. Poi sparve
là. Con un impulso subitaneo si slancia sulle tracce di Nerone, ma SIMON MAGO
trattenendola a forza, l’arresta di colpo. Ferma! o il tuo Dio ti sfugge.
ASTERIA dibattendosi dolorosamente fra le mani di Simon Mago Vo’
seguirlo.... pietà! L’orror m’attira Come un amante.... e nell’estasi
vivo De’ violenti sogni.... ebbra di pianto. E son dell’idre
incanto E il colùbro m’allaccia e il sen mi cinge E il petto mi
rinserra E stringe.... e lambe.... bduerra.ra E nell’amplesso
della viva spira Sento ancora quel Dio che mi martira SIMON MAGO
Dove ancor lo scontrasti? ASTERIA Sulle rive D’Anxur, tre
notti son. SIMON MAGO Ed ei nel viso
[ha&scorta”? ASTERIA Oh! come mi guardava fiso !
Ma il suo corsier impaurito il trasse Lontan, fuggendo, al lume
della luna. Rimane ancora un poco assorta in ciò che descrisse. Ma
tu chi sei che dell’anime lasse Tenti il facil segreto e il facil pianto?
SIMON MAGO Son tal che rialzar può il volo infranto Del sogno tuo. ASTERIA
Tu SIMON MAGO Sì. Nessun mai sappia Chi sei, nè ciò ch'io
dissi. ASTERIA Mai. SIMON MAGO raccoglie l’acerra. S’ asconda
Quest’ acerra. ASTERIA indica a Simon Mago il posto da dov’essa è
apparsa: Qui. SIMON MAGO Dove? Asteria prende la face e conduce
Simon Mago fra le due tombe ove i rottami nascondono un forame del suolo
da cui si discende in una cripta. ASTERIA Qui, sotterra, E un antro
oscuro d’ avelli cristiani Che si riapre dietro a quei delùbri.
Dicendo queste ultime parole accenna ad una località oltre il tumulo,
verso Albano. Simon Mago depone l’acerra presso l'apertura della
cripta, poi va a raccogliere l’ara thuraria, il velo nero e l’idria in
cui pone la tazza c l’aspersorio e ritorna là ove discende; lascia cadere
gli oggetti nel forame della cripta, salvo l’acerra e il velo. SIMON
MAGO Dammi la face. Asteria porge la face a Simon
Mago che sta per discendere nel sot- terraneo. SIMON MAGO Qui sarai
domani Col sol morente. Scende due gradini e s’arresta.
Ascondi quei colùbri. Così dicendo porge il velo nero ad
Asteria che lo prende e lo bacia e se ne avvolge il collo e il petto.
Simon Mago, coll'acerra e la face, è sceso nella cripta fino alla
cintola. S’arresta ancora una volta per dire ad Asteria: Ma pensa
al fato che invochi su te. Bada! il tuo Nume ha carezze omicide. ASTERIA. Amor
che non uccide Amor non è! E s’abbandona sulla tomba che le
sta dietro; quivi, giacente, rimane. Simon Mago scende tre gradini della
‘cripta con la face in pugno e scompare sotterra.
Incominciano a diffondersi le prime trasparenze dell’alba. Il cielo si
rasserena. La profonda quiete dell’ora s’estende su tutta la campagna
romana. Una donna in bianca stola, Rubria, viene dalla parte di Roma,
s’arre- sta davanti alla tomba recente, estrae un’ampolla e la vuota
nella lampa funeraria; il lumignolo si ravviva e riarde. La donna
s’inginocchia, inclina il capo sulla tomba, congiunge le mani e, nell’alto
\ silenzio che la circonda, prega così: RUBRIA Padre nostro che sei
ne’ cieli, sia Benedetto il tuo nome. Venga il tuo Regno alla tua gente
pia, Sia fatto il tuo voler in terra, come Nell’ Empiro immortale.
li nostro pane cotidian ne dona, Come noi perdoniam tu ne perdona. Fa
ch'io riveda quel che m’abbandona. Liberaci dal male. ASTERIA che
giace sulla stessa tomba dove l’altra ha pregato, con voce fievole come
un sospiro O soave preghiera! RUBRIA si alza, guarda dalla
parte d’onde viene il sospiro e dice: Anima che sospiri, sorgi e spera. ASTERIA
lentamente sorgendo O divine parole! RUBRIA
appressandosi ad Asteria colle mani sporte e offrendole fiori Spargiam
insiem le rose e le viole Sulla terra dei Santi. mani ZO SIT
ASTERIA Il dono pio Porgi. E prende, con movenze estatiche da
sogno, i fiori e ne cosparge la tontba, insieme a Rubria, e le zolle
d’intorno; ma, giunta all’ultimo fiore, esita, s’arresta, lotta un
istante contro un impulso interno, poi dice: No.... no.... stuggir
devo gl'incanti Del tuo pregar. Io cerco un altro Iddio ! E fugge
impetuosamente verso Albano. Rubria ritorna davanti alla tomba a pregare.
Un viandante, Fanuèl, passa sull’Appia, d’accosto a Rubria, la vede,
s’arresta, la guarda assorta nella sua preghiera. RUBRIA solleva il
capo, volge il viso, lo vede e lo nomina: ‘ Fanuél! FANUÈEL Non
t’alzar. Il nostro addio Sia questa prece che sale al Signore Fra i
bagliori dell’alba. Rubria ricomincia a pregare con intenso fervore. Fanuèl
continua a guardarla fissamente. RUBRIA levando gli occhi pieni di
lagrime al cielo In te sperai! FANUEL con voce commossa
Piangi ? Perchè ? RUBRIA Ho un peccato nel core. FANUEL
Lust? RUBRIA Fanuèl. Non ti vedrem, più? mai? FANUÈL
Seguo mia stella verso ignoti porti. guardandola fiso negli occhi
Confessa il tuo peccato. RUBRIA Perdonar mi saprai se
tutta dico La mia colpa? Mentre Funuèl sta per rispondere, s’avvede che
l'apertura del sot- terraneo si rischiara e che un uomo, con una face in
mano, viene salendo lentamente dalla cripta. FANUÈL
sottovoce, a Rubria, indicando il posto Un agguato! V’è un uom fra
i nostri morti. Fa qualche passo nel campo per ravvisario. (E Simon di
Sebàste. RUBRIA tutta sgomenta e a bassa voce Il gran Nemico!
FANUÈL Corri dai nostri, va, narra gli avelli Spiati. x
RUBRIA guardandolo con ansia btu ‘ FANUEL Poichè un
periglio incombe lo resto coi fratelli.) Rubria si vela il
viso e s’avvia rapidamente dalla parte di Roma. La luce, mite ancora e senza
raggi, a grado a grado discopre le cose remote, gli edifici sparsi qua e
là nel fondo della campagna, gli archi del doppio acquedotto dell’aqua
tepula e Marcia, qualche fastigio dei monumenti sepolcrali della via
Latina. Molto lontano, forse dall’ottavo milliario, s’odono squillare,
nel puro silenzio dell’alba, alcuni appelli di trombe. Simon Mago, senza
accorgersi d’essere osservato, s'è messo in ascolto, si dirige verso il
tumulo, lo sale insino alla cima e guarda attenta- mente dal lato donde
giungono gli squilli. FANUÈL che ha seguîto collo sguardo ogni
passo di Simon Mago, s’inoltra nel campo e lo chiama: Simon. SIMON
MAGO dal tumulo, volgendosi Tu! Qui?! Gloria al tuo Dio
dall’ alto Di queste tombe! Vieni e vedi. Fanuèl. esita
sorpreso, poi sale anch’ esso sul tumulo ov’ è Simon Mago. Le trombe
continuano a squillare. SIMON MAGO S' avanza una gran nube Di turbe.
Echeggian trionfali tube. È il matricida, ei vien col suo corteo D'
istrioni e d’ Eumenidi all’ assalto Del mondo reo, Poi, con un
gesto largo che abbraccia tutto l’orizzonte : Pensa: i Reami, i popoli,
le. Glorie, Le corone, gli scettri, le Vittorie, Tutti i raggi di
Roma e di Nerone Non son che luci moribonde e torbe D’ innanzi al
sogno mio, d’innanzi a te: Sui sette colli un Tempio (o Visione !),
Un Tempio eterno che soggioghi l Orbe, MinESSO l’altare ‘tu,
Profeta. e’ Re. . Tutto l'incenso che 1’ etere assorbe Vapora,
immensa nuvola, al tuo piè! Guarda quaggiù. Pel sangue che
l’inonda L’arca d’oro di Cesare sprofonda, Furibonda ruìna e
precipizio. Plebi nefande confuse nel vizio Plaudono a Roma che
canta e che crolla. Tremano tutti: Cesare, la folla, Le coorti.
Fischiò dagli angiporti Già il greculo rubel. Cadono i morti Nel
Circo e cadon nel triclinio i vivi E i Numi in ciel! Ma tu su quei
captivi Del fango e della porpora distendi Le tue mani, la tua
virtù mi vendi; Due Sovraumani vedrà il mondo allor! Vendi il
miracolo, t’ offro dell’ or. FANUÈL scende dal tumulo e terribilmente
esclama: Anàtema .su te! Maledizione! L’oro tuo piombi teco in
perdizione! saran to” di è ide SIMON MAGO
L’ira tua scagli invan contro il mio scherno, Povero nunziator d’
un Regno eterno Senz’ oro e senza eserciti. FANUÈL La condanna orrenda e
forte Or su te confermi il ciel: colla massima veemenza
lo t'estirpo da Israel! SIMON MAGO Fra noi due c’è
guerra a morte! Si sfidano collo sguardo come due fieri nemici prendendo due
vie opposte. Fanuèl ritorna sull’Appia e se ne va verso Roma. Simon
Mago scende dal tumulo e s’allontana dalla parte di Albano.
N. e Tigellino ritornano ‘da un sentiero dei campi e s’arrestano al
tumulo. La toga di Nerone, tutta scomposta, lascia vedere una mi- rabile
tunica oloserica tinta di porpora jacintina e sparsa di palme d’oro. N.
porta al braccio sinistro un’armilla di pelle di serpe chiusa da una
borchia di gemme. Ha, come Tigellino, un focale di seta annodato intorno
al collo, sul petto una collana d’ambra mista a molti amuleti: dalla
cintola gli pende un largo smeraldo ovale attac- i cato ad una catenella
di perle. N. Nessun ci segue? TIGELLINO osserva il
sentiero donde sono venuti. No. Sosta il corteo Lungo i
campi di Persio. N. guarda paurosamente il sepolcro dove sorgeva Asteria. TIGELLINO
Ebbene ? Sparve. N. sempre cogli occhi rivolti al sepolcro,
cupamente S’ergea fra Roma e me! TIGELLINO Andiam. Che
guardi ? A. Oli ren N. volge gli sguardi inquieti sul posto dove ha
sotterrato l’urna ed È esclama atterrito: Si scorge il
labbro della fossa! Tigellino va a calpestare quelle zolle per disperdere
le tracce del seppellimento. Nerone lo ha seguìto. S'odono dalla
parte di Roma dei clamori lontani. TIGELLINO prendendo per mano
Nerone Andiamo. N. staccandosi da Tigellino e con grande agitazione
TIGELLINO Fuggir? Dove? N. Non so. Dove migra il
cantor trova una patria E sola gloria è 1° Arte! TIGELLINO E di che
temi? Crede il Senato al tuo messaggio, crede Colta Agrippina
ordendo la tua morte, Poi da sè stessa uccisa. N. Alla menzogna
Fingon dar fede. TIGELLINO E lor viltà ti giova. N. Se rivarco le mura a
chi mi volgo? Al Senato? alla plebe? TIGELLINO che da
qualche istante porge l'orecchio alle grida che s’avvicinano, corre sul tumulo,
guarda verso Roma e risponde: E luna e l’altro Per te dall’ Urbe
accorrono. N. atterrito e con sùbita ira Qual folgore Sparse a Roma il
clamor del mio [ritorno? TIGELLINO arditamente dal tumulo lo.
N. con maggior ira e minaccia Tu, ribaldo? Violenza porti
Sui dubbii miei? TIGELLINO Si. Per salvarti. Mira! Si slega
dal collo îl focale di seta rossa e, mentre l’agita nell’aria, soggiunge:
A questo cenno il corteo s’ incammina. Mentre Tigellino sventola
ancora îl focale, s’ode squillare non lontano una chiamata di bùccine
come per un esercito in marcia. Dalla via di Roma i clamori aumentano.
TIGELLINO scendendo dal tumulo Ecco i corrieri Mauritani. Mira! N.
Da ogni parte m’assalgono! TIGELLINO T'appressa. VOCI INDISTINTE che si
appressano da sinistra Ei s’appressa, esso è là, s'ode il [clamor,
ALTRE VOCI Ecco i Numidici corsieri.. Gioja! Il Popolo
irrompe in scena, restando pur sempre sull’Appia e correndo verso Albano.
ALTRE ANCORA Ei viene! ei viene! egli è là! egli [è salvo!
Corri! s'ode il clamor! ei viene! è là! Tre Precursori Mori, a cavallo,
passano di galoppo sull’ Appia, risplendenti . d’armille e di falère.
Ser IOGE N. invaso da terrore si rannicchia fra il
gran sepolcro e i ruderi. Chi mi scorge m’uccide. TIGELLINO
avvicinandosi a N erone Ecco le schiere. con grande concitazione
Se indugi sei perduto. N. rimanendo nascosto fra le
tombe Ah! dove fuggirò? Chi mi nasconde? Tigellino abbassa il cappuccio
della lacerna sugli occhi e s’avvicina alla via, ripartendo la
sua vigilanza ora sul corteo, ora su N. POPOLO È salvo! Gioja!mALTRE
VOCI Corri! Corri! Ei vien! PRETORIANI Largo, la via sgombrate
POPOLO Avanti, olà! ALTRI Corri! là! Corri! là! Vengono gli
Eneatori colle loro squillanti bùccine di bronzo. AUGUSTANI Udite! Udite!
Segue un vasto carro tratto da cavalli, pomposamente ornato, dove stanno
ag- gruppate, gittando fiori e cantando, le Ambubaje cinte il capo
di mitre siriache. Le fanciulle Gaditane seguono la teoria del corteo
danzando e gettando fiori. Portano incensieri, cetre e lire. AMBUBAJE
Apollo torna. Nubi di fior volino ai zeffiri, |’ lri [baleni nell’
etere. Apollo torna, e con esso Tutto un esercito in danza.
Il corteo s’arresta fra fluttuazioni cou- trarie. POPOLO Avanti!
Avanti, olà! Apollo torna. Avanti! GOBRIAS Torna Onesimo dai
campi. POPOLO Largo alle schiere, largo! Gioja! Gioja! TIGELLINO
L’exaforo s’appressa, ivi ti crede Il popolo clamante. Odi le
grida, scuotiti. PRETORIANI Largo! Largo! Sgombrate ! Si ristabilisce
l’ordine di marcia del corteo. AMBUBAJE AI colle! al collel
AI colle! La marcia nuovamente impedita s’arresta. POPOLO Fermi,
olà! ALTRI Avanti! Avanti! VOCI DIVERSE Largo Largo al corteo !
Olà! L’amazzone Greca s'avanza. Largo agli Augustani! Giunge l’exaforo.
La via sgombrate! ll corteo si rimette în marcia. Preceduto dalle
fanciulle Gaditane, passa un gruppo di Phalangarii. Poriano sulle
spalle un fèrcolo su cui si innalza una statua di rame,
rappresentante una Amazzone. TUTTI Apollo GOBRIAS L’orco già da’
piè mi tira. Le fila del corteo si spezzano ancora. PLEBE Eilwieny
E giunto là! Avanti! Gioja! nia e N. Mi lascia.
TIGELLINO L’eneator t'annuncia. N. Ecco, rinasco Libero e forte. Andiam! DOSITÈO
É là! B là! S’appressa! Fendiam la calca! Ei vien! GOBRIAS Fi
torna, è salvo il Dio del Circo! PLEBE È 1a! È salvo il Dio
dell’Odeo! Qui si ristabilisce ancora una volta l’ordine di marcia del
corieo. Passa una turba confusa d’ Armeni, d’Etiodi, d’Indiani,
di Greci, d’Egiziani. Passa- no alcune schiere di soldati ausiliarii
coi braconi alla barbara e passano dei Rheti e dei Galli. GOBRIAS
Roscio risorto Novello Turpione! DOSITÈO Tu snidi il Nilo, fendi
l’Istmo, instauri La terra e il mar. GOBRIAS Trionfator d’ Armenia!
POPOLO Trionfator Eccelso Bello Forte Silenzio! È sacro il coro.
Passano Ambubaje e Augustani. AMBUBAJE E AUGUSTANI Ave,
Nerone, voce di Ciel, Beata Roma che t’ode! Canta, Apollo,
Canta l’ode d’amor non prima udita [dal mondo! TUTTI Ave, N.! Canta lode
d’amor! TIGELLINO Corri al trionfo! Affàcciati alla plebe! N. Ascolta.
TIGELLINO Or su. N. fa per avviarsi ardito verso
l’Appia, s’accorge di passare sulle zolle dov'è sepolta l’urna e
indietreggia. Ah! dove passo TIGELLINO Corri dritto alla mèta.
N. Cantano i versi miei. Passano tre decurie di Guardie
Germaniche.Fra le file dei soldati circolano parecchie Ambubaje 0 camminano
appajate ai soldati giojosamente. Frattanto si avanza un carro, tirato a
mano da quattro schiavi, dove sono accatastati degli attrezzi teatrali. Dietro al
carro e d’intorno camminano gli i Artisti Dionisiaci che indossano le loro
vesti teatrali. DIONISIACI L’ebra Mimàllone già diè fiato alla [Bacchica
tromba, Doma un giogo di fior la lince, le [Mènadi ardenti
Evion gridano ed Evion Peco [remota ripete. TUTH Evion! Evion!
Evion! Evion! Entra l’exaforo che s’avanza lentamente. I littori
che lo precedono, coi fasci laureati, respingono la folla. L’exaforo è
portato da sei schiavi Etiopi, una corona di giovinetti asiatici lo circonda e
una torma di Pretoriani a cavallo lo segue. AUGUSTANI E DIONISIACI Ave, N.,
tua lieta stella splende. TIGELLINO spinge N. verso la folla
plaudente, poi corre sull’Appia e comanda ai littori: V’arrestate. VOCI
Chi è là? CATE BELEN e) ANTI GOBRIAS Apri il velario.ALCUNE VOCI
Chi è là? ALTRE VOCI Apri il velario. ALTRE ANCORA È
Tigellino. LO SCHIAVO AMMONITORE Fortuna a tergo! N. în tunica
di jacinto e d’oro irradiato dai primi raggi del sole No! Fortuna in
fronte ! Un grido di gioja irrompe dalla folla. TUTTI Evion!
Evion! Ah! Gioja! Gioja! Almo Sol! Alma Roma! Ave, N.! i giovinetti
Asiatici schiudono le cortine della lettiga, mentre d’intorno a N. piovono
fiori e nastri e fronde di palma e ghirlande, fra le grida e gli squilli
del trionfo. Tutta la scena è irradiata dal sole. REA
REATO VIRA IRIDATA PEIZI TI DIE III DI IAT VET DOTI III IDA LT ANIRI DRE IRR
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VP Ù ci SESIZ: Dre rana “ o repo nes ton oe erirzomee ERA <A
Mirra 7 d SARI CIRIE PI DAPIIA PEN ERI IENA EIBTATE DATRONEI
ILVTI SVSTE GITE DELITTI RITI: sviene ETTER SPINTE AREACIRI EL BIEIIVTICA VARI
vi È nica È un tempio sotterraneo; visto nel
senso longitudinale appare diviso in due parti. Un'ampia cortina, tesa
fra due pilastri addossati alle spalle d’un arco trasversale, separa il
sacrario, riservato ai sacerdoti ed ai loro misteri, dalla ce//a ove pregano i
fedeli. La cella è affollata da gente d’ogni classe e d’ogni paese: Matrone
adorne di ric- chissime vesti, portanti in capo una preziosa ?24%24/ od
altre acconciature sfarzose; schiavi in rozza tunica, e, fra questi,
alcuni colla fronte segnata dallo stigma dei fuggitivarii; qualche
liberto in pomposa lacerna dissimula, sotto dei nèi artificiali, gli
sfregi del volto; eleganti cavalieri ed aurighi d’ogni fazione. Di fianco all’
ingresso un mercante d’idoli ed un venditore di tavole votive spacciano la
loro merce. Un tempiere sta presso al vassojo delle offerte. DITE DNTAZI
EVA MIR TE DONIZETTI EA TOI IA ano D’un tratto la cortina si spalanca e si
scopre agli occhi dei fedeli il sacrario. Tutti coloro che stanno nella
cella s'inginocchiano. Simon Mago, in manto e tiara d’argento, col petto
scintillante di gemme, sta sulla gradinata dell’altare e fra le mani, coperte
d’un drappo prezioso, tiene alto levato un calice d’oro. Un raggio
fulgidissimo scende dalla volta del tempio e illumina tutta la persona
del Taumaturgo. Due sacerdoti situati più basso sostengono, sotto il
calice, un bacino d’oro. Altri otto sacerdoti sono scaglionati sugli
altri gradini fra le statue policrome, e la loro immobilità è tale che si
confondono con queste. Quattro fiabelliferi ergono dietro il Mago i loro
flabelli di piume bianche; due 4ierodulîi reggono, colle braccia alzate al
disopra del capo, due urne d’oro da cui vaporano degli aromati fumanti.
Un altro innalza un vaso di bronzo su cui arde una fiammella turchina, un
altro tiene aperto davanti al petto un dittico dove sono tracciati dei
simboli. Ai piedi della gradinata stanno schierati alcuni giovanetti con delle
grandi arpe e delle cetre e dei sistri. Presso i pilastri dell'arco sono
appostati due tempieri, e nel centro dell’arcata Gobrias. (giovane
discepolo di Simon Mago) e Dositèo, vecchio sacerdote, stanno rivolti
verso la folla. Nella cella i devoti guardano, in atto d’ansiosa aspettazione,
il calice raggiante. D’un tratto un largo fiotto di sangue trabocca
spumeggiando dal calice e cade nel bacino sottoposto. Nello stesso
momento sorge dal braciere ardente una densa colonna di fumo che invade
il sacrario e nasconde Simon Mago alla vista dei credenti. La cortina si
chiude; Dositèo e Gobrias sono rimasti al di là della cortina, sul limitare
della cella. SIINO ZARA SENTE DITTE AI SPIRI
TREIA FIIOZIIUSAI DIRPTI SAOIITT RI ERENIITIA È ielialieo e en i
PARTA IATA FINTA AADHRED ERO GMAT IMITA TOMICA VENTI LITI ZIZAIE DAL LEDA
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0 IRR DIGO IE III NILE DD DS TRE T TTI IRPI MATRICE NCAA LA! SIATE ITS AA
TRLAEE EMILIA (NEL SACRARIO) SIMON MAGO a Gobrias,
mentre î fedeli continuano a cantare il loro salmo. Odi il fedel gregge
mugghiar L’incomprensibil càbbala al ciel. GOBRIAS colla tazza în mano e
con piglio ilare appressandosi a Sîimon Mago Vedi il festin sacro
brillar! Sul lettisternio profuso è il vin! Tempra il falernio succo la
neve; Voglio al divin scifo libar. Corre al desco ove coglie una tazza
già piena e poi ritorna nel gruppo. Dositèo lo segue e lo imita.
PFA AA ARTCRI PRITAL A, DI IALIA IICIAICI MI TA I ALZO LI I
MIINTPE CLIMA ORATORI FU FRI TI ALI ALTI EMPATIA TT R IRE VAT
PITRITTN AAT ZIALE LOSZAE PON TTT PAL RI SEA RA EDI TINTA I IZ IEZE DINI DI
IONIO AITIIIIII VCO TATO ORICA TMT RITA TA MATTI (NELLA CELLA) | I FEDELI
inginocchiati Stupor Portento GOBRIAS e DOSITÈO | È compiuto il
Mister. I FEDELI alzandosi disordinatamente Miracolo Simon al ciel volò GOBRIAS
i Preci ed offerte. Iltempiere girafra i fedeli con un piat- ! to
per raccogliere le offerte. ALCUNI FEDELI Proùrche, Bythos, Sigeh,
Logos, [ Anthropos, Zoè Noùs Ecclesia, Eccelsa Og-[doade; Gobrias entra nel
sacrario seguito da Dositèo. TUTTI Noi t’adoriamo. ALCUNI FEDELI Profondo
Abisso, imperscrutata [origine i Degli Enti primi e immenso
mar [degli Esseri; TUTTII Noi t'adoriamo. 2a
reo anti lar FIORIRE TAN LETI IONI TP INTO MATTI PATO: E DMN AT SCA TETI
i FIOPETEERA SP RARI ZENO SII IERI LIDIA STASI INDIZI IE ETA
TMTIRET RSI Ma pria dal vergine labro si deve un Dio propizio la
prima asper- [gine con comica ipocrisia Pio sacrifizio che il suolo
irrora Inclina leggermente il labro della taz- za verso terra în atto di
burlesca devozione e sparge qualche poi ripiglia con Dositèo e Cerinto:
occia di vino, Ma poi ch'è greve il nappo ancora, L’àugure beve dietro l’altar.
Tracanna tutto il vino d’un fiato. SIMON MAGO Zitto! GOBRIAS Siam
ilari, si. beva! Ribeve, DOSITÈO e CERINTO Zitto SIMON MAGO
Zitto GOBRIAS S'esilari l’alma! Si beva! SIMON MAGO S'ode
ancor l’inno. cortina. Gobrias è corso a spiare aitraverso la |SIMON MAGO
a Gobrias Che tenti? GOBRIAS RATORI MOIS NET ZITTA TEA
O Esploro, II ALTI GADGET TILT ELLA IVI su se ALCUNI FEDELI Per te preghiam,
per te che gemi [e sanguini Nell’ombra eterna, agitabonda
[Prunikos ALCUNI FEDELI In te speriam, in te, Divin Paràklito,
Disceso in terra col celeste Pneuma. TUTTI In te speriamo. ALCUNI
FEDELI In te crediam, nel tuo Mister, nel [calice Cruento che in tua
man fervendo [imporpora. TUTTI In te crediamo. FAI ISIONA TA
LITRI MOTI DI IEEE TI ISLA NI NITTI RIA III ER i LATI ATINTATZ TA DEDICATI VA
DIL TRITATI RATES ATI APREA TIVA DCI IPER LIDIA TAL ITOT DATATI ELI ORI DIARI
STORIE NETTI rrà GOBRIAS | Alcuni fedeli, nella cella, appendono
; degli ex-voto alle ginocchia dell’idolo, SME FRANE altri depongono
delle monete nel piat- to delle offerte che sarà portato in giro
dal tempiere. Un vecchio col capo co- perto da un palliolum che gli
ripara anche le spalle, e sorretto dauno schiavo, sale sul basamento
dell’idolo. Guarda! Essi appendono votive [tavole. S’ode un
tintinno d’argento e d’oro. SIMON MAGO Favole attendono, vendiam lor favole.
GOBRIAS Presso la statua, sul plinto sacro Del
Nume un vecchio parla. I RIZZI METTI TIE IENA ATRIA TITLES NADIA
PMT A SNO GILLIAM LISTINI MESIA TI SIMON MAGO IL TEMPIERE Che chiede
? | Date le offerte. rase nes Miane i SRD GOBRIAS
Parla all'orecchio del simulacro. SIMON MAGO ALCUNI FEDELI Oh!
quant'è fatua dell’uom la fede! Dell’effigiato Nume il bronzo o l’è-
Paura e speme e il Tempio impera. [bure Per te cammina, profetizza e
palpita. GOBRIAS e CERINTO Cingiam la chioma
coll’eliocriso. SIMON MAGO Nostro è chi teme, nostro è chi spera. | DEI i
Tutti al miracolo che li conquide Noi t'adoriamo i. Drizzano i volti, l’animo e il canto. |
Pregate, stolti! Pregate! Intanto L’àugure ride dietro l’altar.
SIR TRN SEG ME ASI LZ BEL DITE MAS IERER IT MERITI PMI DEI ELIAA Gobrias beve
presso il lettisternio. GOBRIAS e DOSITÈO alternatamente No, senza riso
non posson gli àuguri Guardarsi in viso. Gobrias tracanna, poi corre al
desco e s’incorona comicamente brillo con una ghirlanda di fiori
gialli. CERINTO a Gobrias Ah! Ah! AN! Bevi SIMON MAGO ALCUNI FEDELI
No, no, non ber! Pazzo cervel i Noi t’adoriamo! Pronto a celiar. !
GOBRIAS Vo’ ber! Mio dritto quest'è Vo’ ber! interrompendosi CERINTO
No, non déi ber! I SACERDOTI Zitto laggiù! Zitto! Lo scempio
cessiam! GOBRIAS Mio dritto Quest’ è. ALCUNI FEDELI Mo MAGO i
Proàrche, Bythos, Sigeh, Logos, Nel tempio ci ascoltan. I [ Anthropos, Zoè,
Noùs, Ecclesia, eccelsa Og- [doade: SIMON MAGO I SACERDOTI
Zitto Un gruppo di sacerdoti circonda Go- | TUTTI i brias, tentando
strappargli la tazza di mano; egli colle braccia alteladifende. Noi t'adoriamo
Cerinto, Simon Mago e Dositèo non | È | fanno parte del gruppo che
assedia\ Il salmo nella cella è cessato; ritorna Gobrias. la calma anche
nel sacrario. | AUF IESE CARS MSA IMI DS LNLOIAABRI0R SO ER (000 INTO
RAZOR RIO IAS PINZA F AVA RAO E PINI A ITA TINTE TT SSN ZLATE ITA
CRI To ce een eee Li e ee ene ai arri) VIII
SALZA È PO i LITTA NI ALTEA SIENA! I) OZZANO INTATTI
ZIA AIIEIIZZ IA LEDA TIA EEA ADONE ZIE REALTA TOA N AOL AE eg
SIMON MAGO a Gobrias Non cantan più. Tu scaccia quelle
genti Pria che giunga N.. Gobrias corre allegramente verso la
cortina che divide la cella. A Dosîtèo Spegni le faci. Arda il sulfureo
cero. A Cerinto, indicando il manto e la tiara Riponi quella
spoglia. GOBRIAS sul limitare della cella, rivolto alla
folla Ite, credenti, e nel varcar la soglia Inchinatevi al
Genio dell’Impero. I fedeli si alzano, s’inchinano davanti la statua di N.,
alcuni vanno a baciare i piedi dell’idolo, altri abbassano il capo davanti la
co- lonna del serpente di bronzo e tutti escono dalla porta a sinistra.
Intanto Dositèo eseguisce gli ordini di Simon Mago: spegne i lumi,
accende un cero che sparge una luce verdastra e lo colloca ai piedi
della gradinata. SIMON MAGO a Dositèo Dositèo, Precedimi nell’antro
ond’io riempio D’oracoli la cella. Sovra l’altare, iridescente stella,
Scintilli il prisma. Gobrias, rimasto immobile sul plinto, corre a
spiare dalla porta del fondo. Ai citaredi ed ai sistrati E
voi dall’ipogeo Suscitate gli arcani echi del Tempio. Dositèo e tutti
costoro escono dalla porta bassa dell’antrum. GOBRIAS accorrendo nel
sacrario Giunge N. Simon Mago sale l’altare mentre Gobrias vuota un
simpulum di vino. Gobrias ripone il simpulum nel recipiente del vino e
sale a salti la gradinata. RI INERTI LI III TOI E RIOT DTD E TRIED DTA
LINZ MIE € RATE, SID RITI SIMON MAGO Tu qua ti nascondi. Apre l’uscio
segreto e indica a Gobrias il nascondiglio dietro l’altare. Se il tuon del
bronzo romba Smuovi quel fulcro e tutto si sprofondi L’altar nella
sua tomba. Gobrias penetra nel nascondiglio. Simon Mago chiude l’uscio segreto
su Gobrias, poi ridiscende ed esce dalla porta dell’antrum. Ritorna
subito dopo tenendo Asteria per mano. La porta laterale della cella si
spalanca e discopre un'ala sontuosa ove si scorgono N., Tigellino,
Terpnos, e dietro d’essi alcuni Pretoriani e una decuria di Guardie
Germane. N. e Terpnos entrano nella cella, la cui porta subito si richiude.
SIMON MAGO ad Asteria Su quell’altar tu déi salir.
ASTERIA Travolta Son ne’ misteri tuoi, ti seguo e tremo. SIMON MAGO
N. qui t'adorerà. Lo ascolta. ASTERIA Oh, sogno mio supremo! Oh, so-
NERONE [gno mio! accompagnato sulla cetra da Terpnos, i canta:
Un supplicante attende e prega SIMON MAGO Che il sacro vel per lui
si schiuda. Lo ascolta! Ei già t'implora. ASTERIA Ma sull’altar perchè
Tu aderger vuoi queste membra [mortali? SIMON MAGO salendo la
gradinata e conducendo a forza Asteria riluttante insino all’altare Non
indagar. Sali al tuo sogno! Sali! ASTERIA Pietà SIMON
MAGO Sali con me! Sali con me! ASTERIA Fi m’ha nomata! SIMON
MAGO sottovoce Egli la Dea ti crede Che sulla notte e
sui terrori ha [ regno. Bada a te! Se ti sfugge solo un
[segno Di tua mortalità, se scosti il piede Da quest’ara e
dal raggio che t’indìa, Tutto crolla. PRAIA II ATEI RTRT NATIA LIE
TODI LONTANE TEA III BISTLIO LEI ZZATINA TIMO TITANIO MITI N. Placata alfin
Ramnusia, in terra, i Indulga; arrida Asteria in ciel. N., con un gesto
appena accen- i nato, congeda Terpnos che esce tosto ‘dalla porta
d’onde è entrato. N. rimane ginocchioni ad aspettare a capo chino, toccando
amuleti appesi al petto e applicandoli alla fronte. ASTERIA
Mi danni alla tortura ! SIMON MAGO dopo aver cercato con un gesto
di far tacere Asteria, le chiude colla palma la bocca. Nell’antro ov’ io
m’ascondo Tutto vedrò ed udrò. Tu, schiava mia, Ravviva in lui la speme o
la paura E tuo schiavo sarà chi ha schiavo il mondo. Simon Mago scende.
Asteria è rimasta sull’altare, soggiogata dalle parole di Simon Mago,
appoggiata all’ara, immobile. ! | I} î ge frenate
rs È DIPANA N DIZIA IE INIT ATA R TIRI I SILE NI LIDI MEDE RATE PERITI
NETTI SITAFINIDI DI UTO RATIO ATER II TO LIMO TNTIZI ATER IRITRN IR DI LITI
DIRI LATITANTE TL 2 Simon Mago schiude un poco la cortina e passa nella
cella. Non ri- mane altra luce che quella del cero e del braciere
ardente; anche la fiamma dell’ara è spenta. SIMON MAGO a N., dopo
socchiusa la cortina T'è concesso varcar l’occulta soglia. N. s’incammina,
arriva sino al limite del sacrario e fa per entrare, ma Simon Mago lo arresta.
SIMON MAGO affrettatamente Erri. Col destro pie’ N. s’arresta
sgomento e corregge il passo, ma non varca ancora la soglia. T'inchina.
N. s’inchina. Passa. N. varca la soglia. SIMON MAGO Gli sguardi
abbassa. Il tetro ammanto spoglia. N., a capo chino, eseguisce tutti i
comandi di Simon Mago. Simon Mago lo conduce, tenendolo per mano, davanti allo
specchio magîco. La fioca luce del sacrario non arriva a illuminare
Asteria. SIMON MAGO Ecco il magico specchio in cui rifrange Sua luce
astrale l’infinito Abisso. Solo uno sguardo intensamente fisso
Giunge a discerner la spirtal falange. Qui la vedrai, se tieni gli
occhi intenti, In quel baglior di porpora e d’elettro. Poscia, indicando
lo scudo appeso accanto allo specchio e la mazza di ferro, soggiunge:
E se uno spettro appar che ti spaventi, Batti quel bronzo e
sparirà lo spettro. Abbandona Nerone, solo, davanti allo specchio magico ed
esce dalla porta dell’antrum. ZEN } Un raggio iridescente scende
dalla volta del Tempio e illumina Aste- ria la cui immagine si riflette
nello specchio. A N. Ah! sparisci! Atterrito impugna il
maglio di ferro e sta già per colpire lo scudo, ma subito s’arresta. No
No. Sei del miraglio L’illusion. i Avvicina lo smeraldo all'occhio.
Ma ben ti raffiguro. Strano mister. Par specchiato sembiante. S’avvicina,
con intensa curiosità, allo specchio e lo tocca; abbandona i lo smeraldo.
Ah! qual pallor sul suo volto.... e sul mio! Vediam. Si volge e
vede Asteria sull’altare. Ahimè ! Inorridito fugge verso l'angolo opposto
a quello dello specchio e si copre gli occhi colle mani. Non m’accecar!
Porta la mano destra alle labbra in segno d’adorazione e, senza osare
d’alzare gli sguardi, si avvicina ai piedi della scalea e bacia il primo
gradino. Tremenda Protettrice dei morti! Un giorno in Tauri
Tu promettesti pace a un matricida. La stessa grazia imploro;
inginocchiato su d’un ginocchio solo al par d’Oreste Io non senza cagion
la madre uccisi. Dal suo spettro mi salva ! Ripiomba col volto
sulla gradinata dell’altare.ASTERIA sempre immota, fissandolo, con un
accento languido di sogno Sorgi e spera. N. sollevando la testa e
gli occhi a poco a poco insino ad Asteria Oh! come viene a errar presso il mio
core La voce tua! Al par d’un bronzo echèo Risponde il core.
Sorge lentamente e, guardando Asteria, si toglie dal collo il monile
di smeraldi; mentr'egli compie quest’atto, Asteria con eguale lentezza:
e cogli occhi fissi su Nerone si toglie dal collo le serpi avvolte e le
lascia cadere nella cista mystica che le sta d’accanto. PON ET NETTA MOVE
IPO A REI RL! REATI PILATO E BILI VITTI RO ESITA EZIA NITTI TTI DAD e IN I
TANARRE DETTATI ATTI AES INIT ALII STI DIRITTI TIA PALI AIRIS PIL
REA ISIS I TIRA IN DIETE USE NTI DET MA NTATZI MASO METZ LETTA EI MNT REIT
PATRIA N. Tu dal sen disnodi La vivente lorica, io surgo e getto
L’offerta ai piedi tuoi. Getta la collana di smeraldi sul tripode
dell’altare, alla portato deîla iano d’Asteria. Poi, seguendo con lo
sguardo le movenze d’Asteria. prosegue: Ecco; la Dea si china.
Coglie il monil e il sen s'’ingemma. Bella Fra i lividi smeraldi
Scendi Scendi Sul sognator de’ prodigiosi imeni Come sciolta dal ciel cade una
stella Scendi vèér me, Selène! Ecate! Asteria |! Vago Eòne lunar!
Magica Iddia Dai mille nomi, scendi! Ognun di quelli Sarà un nome
d’amor ! Ma immota resti, Dea degli alti silenzi, al par
dell’astro D’onde tu migri nell’ore incantate. No... nel tuo cor sangue
umano non pulsa Ma il freddo icore de’ Celesti. Guarda lo... rapito dal
senso, amor spirante, T'imploro S'è gettato sui gradini dell’altare
sempre cogli occhi fissi in Asteria e colle braccia tese verso di lei.
Essa rimane immobile presso all’ara, colla testa arrovesciata; come
irrigidita dall’estasi. Oh! duolo! Una Immortal tu sei ! Donna ti voglio
e anelante nei fremiti Fieri del bacio! Ah! ch’io. non maledica La
tua Divinità! Già il sacrilegio Portai su Vesta, allor che a forza
avvinsi Rubria, vergine sacra, a pie’ dell’ara Asteria si lascia sfuggire
un breve grido. Nerone s'è rialzato € prosegue: Ma delitto più nuovo e
assai più forte Consumerò Si slancia, salendo tre 0 quattro gradini, per
afferrare Asteria. Scoppia un fragore spaventoso come di bronzo terribilmente
percosso e s'ode dalla bocca spalancata del mostro che sorge dalla pareie
dell’antru, FISICI: LA VOCE DELL’ORACOLO N.-Oreste! N. Asteria
! È Nello stesso tempo s'è spento il raggio che illuminava Asteria. Il sa;
crario ripiomba nell'oscurità. N. ricade come fulminato sulla
gradinata. Asteria, lentament$ scende qualche gradino, s’avvicina a N.,
chinandosi a poco a poco, gli si rannicchia d’accosto, mezzo prostrata,
mezzo seduta; î due corpi si toccano. I loro volti riverberano, fra le
tenebre, la livida luce del cero e il riflesso della bragia. ASTERIA | N..
— i come sognando | lentamente fra le parole di Asteria i
Passa una bieca ora di febbre... un Cieca la salma nell’orror
ripiomba... | [sogno... 6) ? 19 L’alma sull'alta vetta erra Tek Lo)
| Sento..nell’aura cieca..in fondo i i SI [all’ebbre a le larve SA
non | Parvenze il lento incubo nero. orbe....m’invade il ciel... |
[Oscilla: Al par delle spiranti anime il cero.i Lungo l’altar bagliori erranti
volano. LA VOCE DELL’ORACOLO N., fuggi ! N. Mugola un tetro suono entro
il sacrario. L’aura s'annugola ed ulula il tuono. Ma tu il nefario orror
distruggi, Asteria; Fida guardia tu se LA VOCE DELL’ORACOLO N.,
fuggi N. senza sgomento, ad Asteria, con lentezza estatica L’oracol grida
invan su me, non temo. sorridendo sicuro Vedi, riverso giacio agonizzando
Sotto i tuoi piedi... Ah! dammi il bacio... il bacio Blando...
lento... che muor col sogno e bea L’alma e dissonna il senso O Amore BEI
BRASIOA ZI FILI RINO RITA DIANE AZIO VOLI TRI TRE TITTI DUI RARI PARTI IM I
RATEALE DORIA TORI TSEI SC ATRCIOZIA IT FATICA EACIAITIOC ANIA IGO INCI MELI TN
VLAN TTT VIALI AI TEGIOIGI DI UTI AAICLIIICT I NETTO TI DIS TRTT VSLTAE TATTO
ETICI CINZIA TN TITTI LATINO ENI ASTERIA Oh! Amor! Si baciano. LA
VOCE DELL’ ORACOLO sempre più tuonante TIP EISUTENTO iP PR ESSERE
Fuggi, N.! N. balzando in piedi, ad Asteria, terribilmente
Sciagura a te! Sei Donna!! Asteria sviene sui gradini dell’altare. POF DI
DITTA LA VOCE DELL’ ORACOLO ENTETANZA ASIA TATA Fuggi, N.! N.,
in agguato, guarda attentamente dalla parte dell’antrum ONORI ITA Prcietruee N. sottovoce,
origliando Spiato son, là. LA VOCE DELL’ ORACOLO Fuggi, N.! N.
scendendo dalla gradinata, rivolto verso l’antrum Ruggi, Simon |! Afferra
il cero e corre a cacciarlo violentemente, dalla parte della fiamma,
nella bocca dell’Oracolo. DOSITEO Aìta! i: N. ridendo È
colto! Dietro la parete, attraverso una grande lastra di fengite, che si con-
fondeva cogli altri marmi, traspare un grande chiarore. PIMOPI
LAICO YIIEV A NSTIE IE DIA ATEI NATZIONE II LPPMLIVI LITIO III TP TITO TI OLA
ERETTA SOZITINZAP RN SIDENTE STIPI. \SVISTIA TESA ZIE DATO PEDARA GRIP RARE
GRATTTRT EP TETI TOA ATTI TI MALR SFENLI RIVILTDEL N. par la vampa! Il
chiostro insidioso Crolli! Impugna la mazza di ferro e con un colpo
violento spezza la lastra di fengite che cade in frantumi. Attraverso lo
squarcio della parete si scorge Dositèo, svenuto sul pavimento
dell’antrum, colla barba e le / i vesti în fiamme. Ah! An! An! È Dositèo
che arde! Accorrono sacerdoti a spegnere le fiamme sul corpo di Dositèo e con
grande agitazione lo trasportano in parte non vista del sacrario, a
destra. N. corre mella cella, ne spalanca la porta centrale, chiamando:
Pretoriani! Entrano tosto Tigellino, i Pretoriani, la decuria della
Guardia Ger- mana, Terpnos e i servi colle faci. N. strappando le
cortine del sacrario e gridando, invaso da un gajo furore; Accorrete!
Ecco! Mirate! Squarcia il velo del sacrario. Squarciato è il vel
del Tempio! Ah! AN! si rida! Non vi sfugga Simon, ei là
s’asconde. Indica l’antrum. Tutti vi si precipitano, chi dall’uscio e chì
dallo squarcio del muro. Terpnos ha deposta una face accanto allo
specchio. N. resta solo nel sacrario e colla mazza che gli è rimasta in mano
continua allegramente l’opera di distruzione. Si scaglia per primo
contro l’idolo-automa. N. Guerra agli Dei! S'allegra il gioco!
Vediam che n’esce! Vediam, vediam! E con un colpo di maglio io decapita e
lo atterra. L’idolo cadendo agita le braccia dinoccolate, si rompe e
n’escono i congegni interni. Nodi, rotelle! Macchine da scena!Intanto Gobrias è
uscito dal suo nascondiglio e, mezzo assonnato e barcollante, contempla
con grande stupefazione, dall’alto della gradinata d’ond’è sbucato, la ruina
del sacrario, mentre Nerone atterra un’altra statua. GOBRIAS Eh!
son briachi (incespica) i Numi! N. D’onde sbuca costui? d ; sa
wcmerra sana ce iran» — rst Le o RPBNISIBBIOERAT PODERE GA INVSSIO ERESSE
I VELI SC LIE SEIERISPOBERI ODIO IOPPI ARR CIRONDAPO) RENI I MARI CES ESSO RE
RIESI n fl s / SIIT TTI ILI IIE O MTERI VITE TL FI rare FIA DERE MA
RE BIDET SR: SAT £ RICE TIT I RR ZI LIME TOA IA At ARTI ee | TIRA ZIO
ICRTEE IO GIÙ TAIL LARIO TI GOBRIAS Da quest’altare, Come il sorcio
ridicolo del monte. NERONE Ebbrioso compar, tu assai mi piaci;
T'ascrivo al mio Teatro. Gobrias s’inchina e scende incespicando. GRIDA DALL’ANTRUM AI fiume! Al fiume!
Rientrano tumultuosamente Tigellino, i Pretoriani, Terpnos, le Guar- die
Germane col loro Decurione, conducendo Simon Mago colle braccia legate. N.
a Simon Mago, deridendolo O Gran Verbo di Dio! al Decurione
Libero ei sia; Costor dai ceppi han gloria. a Simon Mago
O Paracleto! Già udii narrar di te che t'ergi a volo Nell’aria.
(ride) Ebben, ah! ah! tu volerai Nel Circo il dì delle Lucarie. SIMON
MAGO sciolto dai ceppi SÌ. Purchè il sangue Cristian scorra in quel
giorno. N. Tutto, purchè tu voli. al Decurione, indicando Asteria
che s’è riavuta: Decurione! Questa, degli angui amor, falsarda
Erinni, Incubo dei sepolcri, a morte! A morte Nel vivario dei
serpi! Il Decurione e due Guardie afferrano Asteria.ASTERIA
dibattendosi angosciosamente Invan mi danni E mentre la trascinano
fuori dal Tempio ripete con accento disperato: Non morirò. Ma deh! per grazia,
uccidimi! lo non son che una povera errabonda Sposa di serpi; alla
mia razza il tosco Non è letal, mi cerca un’altra morte. Liberati da me,
perchè, se vivo, Ti seguirò così, sempre, rapita Dal volo del tuo
turbine, travolta Dal gurge tuo, perchè il mio Dio tu sei, Perchè
t’adoro N. Vedremo Al vivario Asteria è trascinata dai Pretoriani e dalle
Guardie Germane fuori dal Tempio. Il coro la insegue minaccioso.
CORO AI vivario! al vivario! a morte! a morte! N.
piglia la cetra dalle mani di Terpnos, sale sull’altare ed esclama:
Or che 1 Numi son vinti, a me la cetra, A me laltar! Gobrias prende
dalla mensa una corona d’alloro e gliela porge. N. s’incorona. Gobrias,
Tigellino, Terpnos, i Pretoriani si schierano davanti all’altare. lo
canto. S'atteggia come l’Apollo Musagete e incomincia a preludiare.
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= vec saio cen L’orto dove s’adunano i Cristiani, nel
suburbio di Roma, è illuminato dagli ultimi riflessi del tramonto. A
sinistra v'è un casolare con un vasto pergolato sostenuto da quattro
colonne. A destra v’è una fonte rustica sul cui margine di pietra è deposta
una ciotola e un’idria. Poco discosto v’è un sedile di rozzo legno. Dietro
alla fonte, e d’intorno, le zolle fiorite formano una leggera prominenza.
Nel fondo s'estende un uliveto. Sotto la pergola vi sono due tavole; una
di queste ha la forma d’un sigma lunare e porta i resti d’una cena
frugale, l’altra è di quelle che servono ai coronari per intessere
ghirlande ed è piena di fiori e di fronde. Intorno I a questa tavola
stanno sedute parecchie donne ed alcuni fanciulli. Dall'altro lato alcuni
Cristiani circondano Fanuèl il quale è appoggiato al margine del fonte.
Un’aura di soave pace è diffusa su questa umile gente e sull’ orto.
Un’immensa attesa riempie le anime. FANUÈL în atto di chi continua
una narrazione udir pronte E vedendo le turbe ad Salì sul monte, Le
benedisse E disse: Beati i mansueti, Perchè saranno della terra i Re.
LE DONNE CRISTIANE ripetono sommessamente: Beati i mansueti. FANUÈL
Beati quei che piangono, perchè Saranno lieti. LE DONNE
Beati quei che piangono. FANUÈL Beati quei che vivono in desìo,
Perchè li udrà il Signore. GL’UOMINI Beati FANUÈL Beati quelli che
hanno puro il cuore, perchè vedran la gloria del Signore. PWOASCI Beati
FANUÈEL E beati, fra Vanime fedeli, Tutti gli afflitti, 1 poveri, gli oppressi,
Perchè per essi È il Reame de’ Cieli. TUTE Beati! Rubriîa
esce dal casolare con una lampa in mano; è seguita da Perside e da
fanciulle che portano in grembo dei fiori sciolti e lì depongono sulla
tavola insieme agli altri. Tutte le donne si radunano intorno ai fiori.
Alcuni uomini vanno accanto alle donne, altri entrano nel caso- lare,
altri si disperdono nell'orto. Fanuèl, appoggiato ad una colonna della
vite, guarda Rubria. Incominciano a spargersi le prime ombre della notte. RUBRIA
Vigiliamo. È la sera. Arde la face. D’intorno ad essa ci aduniamo in
pace. Viene il Signore ma nessun sa quando; Beati quei che troverà
vegliando. Si mette fra le donne ed i fanciulli ad intrecciare ghirlande ed a
cantare con essi una canzone. RUBRIA, PERSIDE, LE DONNE
alternatamente A me i ligustri, A te l’allor. Tuffiam le
industri Mani nei fior. A me il ciclame E l’asfodel, L'’aulente stame
E il tenue stel. Avrem corimbi D’edera inserti, Corone e nimbi,
Ghirlande e serti. A me il viburno E l’amaranto. Rigira il canto
Mutando turno. Sua gioja espanda La cantilena Viva e serena
Come ghirlanda. OR! date a piene Mani le rose Vigili spose,
Lo sposo viene. Spogliate i clivi, Le valli e gli orti! Fiori sui
vivi Fiori sui morti Fiori silvani Gialli e vermigli OR! date gigli
A piene mani! Casto segreto D’amor ci leghi. Canti chi è
lieto, Chi è triste preghi Lieto è chi muore Nel Dio verace. Amore!
CISA Fede Amore! Amore! i Speranza! ci pritaza erica nr
srendiina VIRNA STELLARI IRINA AZ IALIA TIZIA TRE LIV NE PISA POR
TINI ESTATI NOIA negro ETRE LIETI) POS FRITTI ETTI LETT IIS CLI IE AMET
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MISSILI RITA PICCHI TE LISI IIZ SISSI RIENZO IAT IIIZORTTII DIE RIE PL
ASTERIA] ! } | fievole, dal fondo Pace. ALCUNI CRISTIANI
sommessamente cTsrEATI e en Risponde il ciel ! (IbEEINDI
chinandosi e giungendo le mani Adoriamo! Fra gli alberi dell’uliveto si
scorge una figura nera che s’avvicina lentamente. È Asteria. ALCUNE DONNE
Un fantasima E fuggono tutti, tranne Fanuèl e Rubria. Asteria s’avanza
come persona esausta e dolorosa. Giunta sul limite dell’uliveto
s’appoggia al tronco d’un albero, guardando il casolare. Le sue vesti sono
lacere, non porta più le serbi intorno al collo; mormora, gemendo, parole
interrotte. ASTERIA Di pace una dolente a lor favella Crudeli ed essi
fuggono. RUBRIA ode i fievoli lamenti, accorre ad Asteria, la sorregge
pietosamente e la conduce a sedere presso la fonte dicendo: Sorella,
Che hai? tu gemil. Dimmi la tua pena. Oh! come tremi! ASTERIA
vede il volto di Rubria rischiarato dalla lampa. Dolce Nazzarena SÌ
tu se’ quella che il mio duol lenivi Sull’Appia, orando, un dì, nella
quiete Dell’alba T'ho cercata tanto Ho sete. Rubria fa cenno a Fanubl, il
quale s’affretta a riempire la ciotola coll’acqua del fonte e gliela porge. A
ORTO Co ee vee te en e ee e ea ASTERIA sorridendo a Rubria ed estraendo
un fiore dal seno Quest'è un tuo fiore. RUBRIA Bevi. Avvicina la tazza
alle labbra dell’assetata. Asteria beve avidamente. Arsa languivi. Mentre
Asteria alza le mani per sorreggere la tazza, si vedono le sue braccia
ferite e sanguinanti. Tu spargi sangue ASTERIA dopo un lungo sorso, senza
por mente all’osservazione di Rubria Oh, il fresco umor dei rivi!
sorridendo languidamente a Rubria e poi a Fanuèl; a Rubria: Ma tu non
seai. Vengo da dove non s’esce mai vivi Per salvarti. Per te mi svincolai
Dall’amplesso dell’idre. mostrando le cicatrici Ecco i lor baci.
Rubria fa per bendare la ferita di Asteria. Non m’ajutar. con
parola sempre più concitata e ravvivandosi rapidamente Questi
attimi fugaci Serba per te, te stessa ajuta, fuggi! alzandosi
Fuggite tutti! sulla vostra traccia Vien Simon Mago. RUBRIA Spavento |!
cari ARR SA SMR a ZII PETIZIONI ATI ETENT ATTI MALIGNA VAIO NT IISIRTARI PIGRI
FICA EI TIGRI MM TOTI TITANI MILANI ABITI TA ITA! III TA LA PVASVDAT: OSCENI sN
TT DA TTT TL LT e rene toe O EIA. x a serest PR LATTA x nti creni
SIOE ZIONI DANTE RITA AZ TI DI TATTICA OZ TTEELATIAA CEI ITA IZ RISO
PIATTA IRAN NETTE AITINA IDATA EVO TOCI IL AE RR TANINTIZAZ CPTATZI CIOTTI IZZO
TIZIA INIZIATI SEP AIA I Ù s |ASTERIA i I I var
tenanionIE Distruggi Ogni altra speme che non sia la fuga. Tremendo
egli è ! Bene udii la minaccia: Ei vuol sangue cristiano. RUBRIA a
Fanubl, atterrita Il tuo Asteria si è già allontanata dalla parte
dell’uliveto. RUBRIA ad Asteria T'arresta ! ASTERIA con subita
veemenza e come spinta da un impeto invincibile Il riacceso mio dimon mi
fuga Scompare tra gli alberi del fondo. RUBRIA s’avvicina a Fanuèl
che è rimasto presso al fonte e la guarda, immobile; dopo un momento d’ansioso
silenzio Fanuèl Fanuèl Parla ti desta. ” Salvati, per pietà! Tu indugi
ancora? Vien! Fuggiam ! Fenda il mar l’agile prora E dia le vele al vento!
L’infinita Via del vol s'apre a noi, corri alla vita Vieni! mi suscita un
Dio quest’alato FANUÈL fissandola, immoto Confessa il tuo peccato. dopo
un silenzio Non parli più? L’alato impeto muore AI solo rammentarne?
Un dì m°hai detto: Ho un peccato nel cuore. SIRIO IEZZO IRIS IIRAIAIII
REISER LTT. RUBRIA interrompendolo Ed or te ne rammenti
FANUÈEL A tutte l’ore M’è quel tribolo fitto entro la carne Confessa.
RUBRIA No. Pria fuggiam poi dirò Come potresti or tu
quest’affannata Anima interrogar sì che risponda Sàtana è là nel
tenebrore, Vuol la tua morte FANUÈL Tutto ignoro di te, tutto,
anche il nome. Quando t’accolsi nella fe’ novella Non te lo chiesi,
ti chiamai : Sorella. M’odi ; ogni sera, mentre oriam, furtiva Tu ne
abbandoni; l’orma fuggitiva Ove ten porti? ove? e perchè celarla?
Forse allor corri al tuo peccato ? Parla ! Parla! Consenti alfin
(ti pregai tanto) L’alto abbandon del lagrimato errore ! E
un’estasi soave in fondo al pianto GOBRIAS con voce artefatta, nasale, dal
timbro bieco dal folto dell’uliveto Pietà d’un cieco che la Grazia implora Del
charisma Cristian ! RUBRIA inorridita Sàtana è qui! Corre
disperatamente alla tavola dove arde il lume. S'’arresta, guarda intorno,
spegne il lume. Poi fra le tenebre ritorna verso Fanubl. L'orto è
immerso in una densa penombra. S’intravvedono nel fondo Simon Mago e
Gobrias poveramentie vestiti. Simon Mago ha il capo coperto da una
calàutica î cui lembi sciolti gli mascherano tutto il viso. S'arrestano
là dove finiscono gli alberi. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias Va guardingo,
attento esplora; guidami per mano. GOBRIAS prende la mano di Sìmon Mago e
risponde sottovoce Nessun m’ode, è tarda l’ora. Qui s’attende invano. SIMON
MAGO Ricomincia il tuo lamento GOBRIAS Ah! Pietà d’un cieco! RUBRIA SIMON
MAGO sommessamente e con grande ansia a sempre sottovoce Fanuèl
che non si scuote Non l’ascoltar; quel cieco vaga- (Or t’inoltra lento, lento,
cammi- [bondo Mi fa rabbrividir. Non l’ascoltar DI st avvicinanando
meco. GOBRIAS con Simon Mago al casolare e gira intorno gli sguardi.
Dilaniata strappo dal profondo Scerno due figure umane chiuse Cuore il mio
grido e non ti vuoi Odo un suon di voci arcane, di sin- [salvar !)
SIMON MAGO {in bruno ammanto. SIMON MAGO [gulti e pianto.) rapidamente a
Gobrias e sottovoce Sigi mi raffigura, S'ei mi
s'oppone, ad un mio cenno è colto. Tu corri allor nel Tempio a dar novella Ed
agitar, coi nostri, la congiura Dell’incendio. Se ajuto qui m'è tolto,
L’ultima audacia disperata è quella.) ETZZZZ TANA RIA ME PSI RITA TETI
FOTI TO RL TAN RNA RIO + OR PREDICA ETA RIPARI NEI COPI DIO ZII TITO RATA LD AT
VE UE EIUS LAI RI MD RUBRIA disperatamente, ma convocesommessa Mi guardi e
taci? Che pensi? FANUÈL I amaramente SIMON MAGO Che penso Va quando vedi
ch’io mi scopro È peccato d’amor il volto. RUBRIA D’amore immenso
FANUÈL Questa fu l’ora della grande angoscia S’avvicina, calmo, a Simon
Mago, Rubria rimane presso la fonte. FANUÉL ad alta voce Che vuole il cieco SIMON
MAGO a Gobrias Parla tu. GOBRIAS a Fanuèl La luce del charisma Cristian.
FANUÈL terribilmente Così non sia! Mago Simon, cieco e de’
ciechi Duce! dj È Ù \ONTSZE TIIPO LI OPZIONI IONA MUTI ET ATTIMI
EDIZ) MSN LINA PIA III NI DTT Me OI III TOO EA TE DALIA DI TITOLI CPT ART DT î SSN
(AS TEAM EEDE TAI EAZIANTZNGLTT POSTI NI FAZI PORTIERE ITINERE TIE
E AITINA NEI AR NZIMECII AI ATI E PETTO BIO I ZI UT AMI SIDE BIZ
SEDI VITE da TTI O SOG a 3 ITA LIETALITETE CESTRIIITI ME TECA IENA RETTA EPOCA
LA Ende SERA ILE STATUE AL SIMON MAGO atterrito si scopre il volto e si
getta ai piedi di Fanuèl. Attèrrati a’ suoi pie’, anima mia. Gobrias s’è
allontanato dall’orto. Rubria entra nel casolare e poco dopo n’esce con
alcuni Cristiani. Fra gli alberi del fondo si vede un Centurione.
SIMON MAGO sempre ai piedi di Fanuèl continua Furar tentai ciò che
negasti, or prego. La colpa mia rinnego, Tu sol mi puoi salvar, morte
m’attende. Un’opra ch’ogni uman segno trascende N. m’impone, Non
si sfugge a N.! Dove ch’io mova un Centurion mi spia. Ma tu, Profeta del
novello Eòne, Tu, coi portenti della tua magìa, Tu sol mi puoi
salvar. FANUÈL Così non sia! Si vedono comparire dall’uliveto due
decurie di Guardie Germane colloro Decurione ed alcuni Pretoriani accompagnati
da portatori di fiaccole. SIMON MAGO rialzandosi di colpo e indicando
Fanuèl ai Pretoriani A voi l’uom. I CRISTIANI si slanciano
contro Simon Mago, gridando Morte SIMON MAGO chiedendo ajuto alle guardie
Olà I CRISTIANI mentre lo afferrano Morte a Simone ! PERE e De FANUÈL
interponendosi, con un gesto pacato, libera Simon Mago dall’assalto; poi
dice ai Cristiani: Non resistete al malvagio. L’esempio Ne diè il
Signore. Il Signor sia con voi. Nessun chieda ragione Se piace a Dio di
far possente un empio Per infrangerlo poi.Simon Mago s’allontana. Fanuèl
ripiglia dolcemente Vivete in pace, e in concento soave D'amore, mani
aperte alla carezza. Sia sulle vostre labbra il bacio e l’Ave E
l’allegrezza. La giornata è compìta Pel fratel vostro e il suo carco
depone. Voi camminate in novità di vita Ed in pienezza di Benedizione.
Oscurandosi Quando torna la sera, col mesto incanto delle rimembranze,
Unite anche il mio nome alla preghiera, Unite anche il mio nome
alle speranze. trattenendo la commozione V’amai dal dì che il cuor
vostro ho raccolto, Non so quale m’attenda ora crudel Ma so che più non
vedrete il mio volto. I CRISTIANI donne e uomini, gemendo Fanuèl Fanuèl FANUÈL
s’appressa al margine del fonte, poi soggiunge: Ed or, fratelli, io
tocco questa pietra Come un altar, benedicendo a voi. I CRISTIANI
inginocchiandosi sotto îl gesto di Fanuèl Amen RETTA IAN TENZA I TAMA LETI PILA DITO
TINA E SRI IATA ITA TATA ATO AZZ DETRITI ATI ZZZ AAA III STRA ZZZ I I FANUÈL
entra în mezzo alla schiera dei Cristiani. V’abbraccio con un bacio
santo. Bacia alcuni uomini ed alcune donne. Seguitemi cantando un
lieto canto. Si avvia lentamente verso il fondo per darsi in mano alle guardie.
RUBRIA mettendosi davanti a, Fanuèl, mansueta e piangente Così tu lasci
sulla mia pupilla La lagrima cocente dell’addio FANUÈL Donna, ho le
labbra di mortale argilla. Passa senza baciarla. Poi, vedendo che Rubria rimane
in disparte, lungi dalla schiera che lo segue, soggiunge: Qui sola resti?
RUBRIA subito, con voce appena sensibile SÌ. FANUÈL rivolto
ai Cristiani che lo accompagnano Cantate a Dio! Le donne hanno
raccolti tutti i fiori e li spargono davanti i passi di Fanuèl, cantando
e allontanandosi fra gli alberi dell’uliveto. RUBRIA con impeto e con tutto il
fervore dell'anima, spargendo fiori davanti i passi di Fanuèl Oh date a
piene Mani le rose interrompendosi con un singulto di dolore I
CRISTIANI Vigili spose ANSA DITTA IRE FUSTI ZIBIDO LIT n RIOT DEE IE OELIERLI E
SITI POTTE DEI SLERSSORIIA ANIA I6 SDONSSIOIZG N ISIEZO III ì cinrii ALTARE ERI
AZIONA IATA nr SIONI ASTANTI TIA II TIZIA AMI NL TERA IV ZII II DO
RATTAZZI TLT RA RDATAI IZATFNTAI I VORII DTEIA TT AAF Ln ara e ST
GPTDT ELICA VOTATI LN DDT RIT ATI TSI ITINERE o e A È CREARTI IE IEIRRIA
MALARRIIRO E ARTT PONE A MRO II SOI EI CREO ERIC AREE ITA TELIT AIR TIAGO ASTE
IE E RETE I RT MENA TITO EU RIETI TTI DIREI Ln TT TAM ma ter ie a. PERSIDE
Spogliate i clivi, Le valli e gli orti! Fiori sui vivi! I
CRISTIANI allontanandosi Fiori sui morti! Fiori silvani A piene mani Casto
segreto d’amor ci leghi. Canti chi è lieto, Chi è triste preghi. Lieto è chi
muore Nel Dio verace. Amore Fede Amore LA CANZONE LONTANA Rubria è
rimasta sola nell'orto. Il canto s’affievolisce allontanandosi. RUBRIA
dopo aver seguito collo sguardo il i cammino dì Fanuèl Sì,
per salvarti. Ma il mio sogno [è infranto. S’accosta al margine del
fonte e bacia il posto della pietra toccato da lui. Si rialza. Tende
l’orecchio verso la canzone cristiana che si sperde sempre più nella
lontananza. Un sogno santo un dolce sogno fu Laggiù, lontan, nella canzon
che [muore, L’odo ancor. RUBRIA L’odo ancor e canta:
[amore ! Amore. sforzandosi d’afferrare gli ultimi suoni L’odo ancor. dopo
un lungo silenzio, angosciosamente Non l’odo più E cade ginocchioni. Ma
RIM AA 7 NI VAIO QAVTI MALLINMA VO: IT RICA OS NT e tane
carl ieri ian ] a MITA LIETI } Ì i tino.
19 a 0; dI iaia DS x LESLIE TENTA NA LIZ È STATO LANE
SAI LZ ATI Si vede l'interno dell’oppidum fra i suoi grand’archi
centrali, quello di destra che sbocca nell’arena e quello della f0r/a dompae, a
sinistra, che s’apre verso il foro boario. In questo grande atrio ha sua foce
un criptoportico che si prolunga nel fondo seguendo la lieve curva della fronte
del circo; è chiuso, alla diritta di chi guarda, dal muro delle carceri, e la
sua parete a mano manca è popolata di botteghe e di taverne. Nella
stessa parete, leggermente concava, si scorgono i primi gradini d’una scala
interna che ascende alle precinzioni più alte. Presso all’arco che sbocca
nel circo si vede internarsi nel muro, di prospetto, il primo ramo d’una
scala che sale al podin. Un’ ampia nicchia, fiantheggiante la forfa pompae,
accoglie la famosa scultura Rodiana che rappresenta Zeto ed Anfione in
atto d’avvincere Dirce alle corna d’un . toro inferocito. La viva luce
diurna entra dall’arco esterno nell’oppidurm. Ai pilastri degli archi è affisso
l’editto dei giuochi. Vortici di folla irrompono da ogni lato. La maggior calca
ferve intorno ad una quadriga; quivi le fazioni del Circo si affrontano
levando grida di trionfo e d’ira, i agitando toghe e cappelli e pezzuole
verdi ed azzurre. Parecchi brandiscono degli stili, altri minacciano
colle pugna gli avversarii. L’auriga, che ritorna vittorioso dalla gara,
porta i colori di parte prasiza, ha le redini attorte dietro la schiena e i
cavalli rivolti nella direzione del criptoportico, impugna un coltello
per difendersi de CARE I AZZ RP LIRE DI TI O MAIOTZI DEDITI RZ DI n I prerreni
FELICIA vano cavia nta PO TAZTI ARE TATE dagl’assalitori. I VERDI
Gloria Vittoria GL’AZZURRI Morte Morte Infamia I VERDI .
Scorpus! Gloria del Circo! A te la palma! GL’AZZURRI Furasti con perfida frode,
Furasti con perfida gara La palma cruenta! I VERDI Vittoria Vittoria
La folla vociferando segue la quadriga e s’interna nel criptoportico. Simon
Mago, seguìto a distanza dal suo Centurione, incontra Gobrias che viene
dall’arena. GOBRIAS a Simon Mago, scherzosamente, coll’inflessione
particolare di chi parla ridendo I Verdi han vinto, è salva Roma. SIMON
MAGO sottovoce a Gobrias Ebben GOBRIAS sottovoce, dopo essersi
appressato a Simon Mago, e rapidamente Siam pronti. La fune incendiaria acoppierà
verso il celio. SIMON MAGO sottovoce E chi la scaglia? GOBRIAS Asteria,
SIMON MAGO con accento di grandz sorpresa Asteria?
GOBRIAS Sì. Viva la trassi Dal baratro de’ serpi ed or
ti giova. SIMON MAGO M’odia, mi tradirà. TT RICIPIIA SLEALE TESTI TI A e e tnt
ri I i nevi ia ceca mann ast romiiomito nea ra re ORTO PATIRE RR
RI II LIONE DINI ONTE IIN i $ i GOBRIAS con accento di
chi rassicura Ama i Cristiani, Vorrà salvarli e te salva con
essi. SIMON MAGO dopo un momento di riflessione Sai l’ordine
de’ giuochi? GOBRIAS indicando l’editto affisso ai pilastri della
porta pompae ed avviandosi a leggerlo È là, si legge.
Dal fondo del portico sopraggiungono alcuni gladiatori armati per
combattere e disposti în ordine di parata; divisi per coppie, preceduti
da quattro Eneatori con trombe, da un porta-insegne, dal Lanista
e da un servo, entrano nel circo. GOBRIAS 1 gladiatori di Preneste -
Passano. Il supplizio di Dirce, pantomima Coi tori e i veitri e colla
morte vera Di femmine Chrestiane. SIMON MAGO interrompendo A mesi deve.
GOBRIAS continuando la lettura Laurèolo in croce sbranato dagli
orsi. SIMON MAGO È Fanuèl. Continua. GOBRIAS ferminando la
lettura Il volo d’Icaro con un gesto d’addio canzonatorio a Simon
Mago Buon ti sia Se ne va correndo e scompare nella curva del criptoportico.
Dal circo giungono grida di Euoè Euoè Euge Euge Macte Macte mentre un’ondata di
folla entra correndo dall’esterno nell’Oppidum. Entra dalla porta d’ingresso
una lettiga pomposissima portata da quattro lettigarii. Una puella
Gaditana esce dalla taverna con alcuni suoi corteggiatori e si mette a
danzare in mezzo al crocchio, sotto il criptoportico, una sua danzetta mite e
lieve, al suono di un corno, del tîmpano e di crotali, mentre un
giovanetto, colla doppia tibia alle labbra, l’accompagna. N. e Tigellino
scendono la scala del podio e s’arrestano presso all’arco del circo. N.
Che vuoi dir? TIGELLINO sommessamente Una congiura. N. Contro me?
TIGELLINO Contro Roma. I Sacerdoti Di Simon Mago, per sottrarlo a morte,
pria che la torre ei salga ond’ei dovrìa slanciarsi a volo, incendieranno
l’Urbe. La puella Gaditana col tibicino e coi liberti, continuando la danza, si
eclissano nella curva del criptoportico. N. attento ai clamori del circo ed
interrompendo Tigellino Taci. Le grida del circo giungono nell’oppidum da
varie altezze e distanze, seguite da risate e da urli, frammiste a
squilli di buccine. GRIDA DAL CIRCO Non vuol morir! Pollice verso Ot,
So E ibiza ea resin det m m m &m et VNDERITE ATTI TERZA RIAITZI
SLI MET III NNT PRIA UNE RATE EEN ALTRE VOCI Basta! Vogliam
le Dirci! MOLTE GRIDA Uccidi A morte Segue un momento di tregua Tigellino
se ne vale per ripigliare il racconto. TIGELLINO Seguo lor traccia.
N. imperiosamente, interrompendo Tigellino Taci. Ricomincia il
tumulto del circo; s’odono a diverse distanze le grida: Age jam Evax Ahè Ahè Euge
Eho Eho Vogliam le Dirci TIGELLINO I Pretoriani chiedono un cenno mio
per afferrarli. N. ascoltando le grida del circo ACK VOCI DEL CIRCO No no no
Basta TIGELLINO risolutamente a Nerone, mentre continuano le grida
lo salvo Roma. Da ogni parte del Circo si odono le grida di Basta Le
Dirci La Tragedia Basta N. in uno scoppio di collera Taci! Non odi la
plebe che rugge Voglion le Dirci S’aggira concitato verso il criptoportico.
Sono entrati dalla taverna Gobrias, Terpnos e Alitùro. Scorgendo Alitùro
esclama: Olà Presto Alitùro S'affretti la tragedia, Alitùro esce
correndo. A Ì “ c s; i er 5 mero az sn OR E = REIT FE DIET
TREIA EDITO ISCRITTE DARI SA TRTE CETAA COEN EMILIA BOI DST AT ONTO ET CR ITA
AE PIEVE LEI OPA LI RITZ NE TIA STRA TIZI NANI enna Dal fondo del criptoportico
accorrono moltissimi pantomimi colle maschere sul viso, portando grosse
funi. Ad alcune guardie che sopraggiungono: E voi scacciate Quei
gladiatori. Allo spoliario i morti! Date le Dirci al popolo Affaccendato
come un ordinatore di spettacoli, chiede a Gobrias ed a Terpnos con
grande concitazione Son pronti i tori e le funi e le rocce del Citerone e i
veltri e i sagittarii chiamando com forte voce I personaggi d’Anfione e Zeto I
due personaggi si presentano Zeto porta una clava e delle funi, Anfione
una cetra. Ecco l’effige del supplizio. Guarda Tebe una Dirce ed io ne
uccido cento. Cento aspetti ha la scena In scena ISTRIONI In scena Tutti
s'ingolfano nel criptoportico e scompajono. N. conduce da parte Tigellino e gli
dice sommessamente, con calma ironica: Astuto agrigentino, e non t’avvedi
ch’'io già tutto sapea? Guai se all’incendio che m’offre il ciel t'opponi.Ciò
ch’io struggo Risorge. Il mondo è mio! Pria di N. nessun sapea quant’osar
può chi regna. Dal fondo del portico s’avvicina lentamente un corteo strano ed
atroce. Le donne cristiane, precedute da Fanuèl, vestite come la dirce del
marmo rodiano, inghirlandate di verbene, colle mani legate e fra le mani
un tirso od altri emblemi bacchici, camminano fra due file di truci bestiarii
che le percuotono a colpi di flagelli se quelle s’arrestano. Seguono alcuni
Sagittarii in completo assetto di caccia con archi, faretre e saette. Una
frotta di pantomimi colia maschera muta sul viso chiude il corteo. Simon Mago
ed ‘è suoi sacerdoti s’accaniscono contro Fanuèl e lo insultano mentre egli
passa. Frattanto la più sordida plebe del circo s'è riversata nell’oppidum.
N., presso la. porta pompae, attende cupidamente il passaggio delle
vittime. i TIRI ADATTA MISTI TI ICI FITUIZO TE LOVE TIRI I DT II PIE BROZZI
BILIA RSI NA IRINA PREIS ZII SZ VI SIONI TIE ISORIZ VINILE DIZION SRIZZIA GIONE
LEE: n: IAA III NANI MPIN ID RS ZI ZITTA LIE CIZ ANTI MOMAL TIIA PIACE ELP DZ
MERZIA LA DIRTI TRADITA N TDI II ZI EN DEISAIIOP TRI E SEIT III TAG TOTI I SIIT
AEATAS RISTAIC II AE SAMI SE SAT IZII LAT PM MELI DATI AREA) E DE Li LA PLEBE
Morte Morte SIMON MAGO mostrando Fanuèl alla Plebe Ecco il capo delia
torma Le Dirci hanno varcato il portico e sono spinte dai bestiarii verso l’arena.
SIMONIACI Latra i tuoi salmi Abbaja Abbaja LA PLEBE $ | i ! TOGATI Raca
SIMON MAGO Raca Il suo vino è sangue. LA PLEBE Abbaja A morte
FANUÈL con voce alta e serena Credo in un dio solo ed eterno.I cristiani
e le cristiane ripetono fervorosamentie le parole di Fanuèl. SIMONIACI E PLEBE
Abbaja Abbaja Latra Latra Sulla scala del podio è comparsa una Vestale. Ha il
capo coperto dall’insula e il viso nascosto da un velo; ogni suo vestimento è
bianco. Un littore co’ fasci abbassati la precede, un flàmine la segue. Giunta
all’ultimo gradino della discesa s’arresta, tende il braccio e la mano
verso Fanuèl. La folla, sorpresa, indietreggia. LA PLEBE Una Vestale ALCUNE
VOCI FRA LA FOLLA Sien salvi Sien salvi SENI EE Mat de te I Lerma TT 1—Ih È*
È*ÉÈI* O*èZIè @-@èEQIà Nei ste Lean e MST ALP TAI RO TI SEZ ATTRATTI
PIREO REMI II NEO LE ice APRITE RL EZIO TLOZ E ZU ML ARTI RANA TIPI TANA SORIA
TTD MADAME DE I LI PETER AT SIETE PAD IOE SIT IO APZIOT NTTSIT IA DAR
TASTI AE ACE ONT NET SERENA RE NR DLE MAT TT DATA TERE CE e terribile e nelle
prime parole un po’ ansimante per ira Chi là dov’'io mi son osò parlar di
clemenza? LA VESTALE sempre colla mano tesa verso Fanuèl e immobile
Stende Vesta con me la man che riscatta le vite. N. lentamente,
studiando ogni parola, mentre guarda a Vestale velata collo smeraldo Ave,
0 Vergine sacra, scopri il volto, poi giura (Legge è di Numa) che in
questi rei non qui ad arte [t'imbatti. LA VESTALE con voce di
persona atterrita Una Vestale a giurar non s’astringe. N. comuno
scoppio di collera Per Giove! Chi le strappa quel vel? SIMON MAGO Io. Il
littore tenta d’interporsi co’ fasci,ma Simon Mago s’è già slanciato
sulla Vestale e le strappa il velo. ALCUNI Sacrilegio !
FANUÈL la riconosce, accorre ad essa, discaccia Simon Mago ed
esclama: Sorella! RUBRIA Fanuè! Sviene fra le braccia di Fanuèl.
SIMON MAGO È una cristiana. Re I ATI OA PRIA RI, de Pa LA PLEBE È
una cristiana, N. ravvisandola, la nomina Rubria irridendo Ben tu
svieni. SIMON MAGO Morte LA PLEBE A Porta Collina! Muoja! N.
Freneticamente Muoja Nel branco delle Dirci! LA PLEBE Sì.
NERONE con un rapido cenno impone silenzio. Dopo una brevissima sospensio-
ne riprende solenne e tranquillo Dal capo L’insula
sacra il flàmine le svelga Il Flàmine strappa dal capo di Rubria l’infula e la
gitta. Cadan le vesti a brani. FANUÈL Io la difendo. I bestiarii si avventano
su Rubria svenuta, le lacerano le vesti. Fanuèl è circondato dai sagittarii. La
plebe s’accalca intorno, mentre due bdbestiarii sollevano Rubria sulle teste
della folla ruggente e la trasportano nell’arena dove è spinto anche Fanuèl
insieme alle Dirci e ai Cristiani che cantano con voce alta e serena. CRISTIANI
e CRISTIANE Credo in un Dio solo ed eterno. SE = PRA DE RR ATTRA DI RI PEN TL
ILAGIA SITA I TIPO EP ART è ATI DET AT SEA, ILS IN I VIIITUE RI TANTE
SIRREIO BAITA LINEA MODI IT de TIVA DE STLTIIIAI ER LA PLEBE A morte Abbaja
abbaja Raca Raca Morte N. con esaltazione Mano alle funi, alle belve, alle
donne Tutte un Eroe denudator le abbranchi, Le avvinca nude in groppa al
furiale Nembo de tauri, ebbre d’orror, fugate Dai veltri in caccia, irte
di dardi, esangui, Belle, riverse, i grembi al sol, nel raggio del concavo
smeraldo agonizzanti. N. si avvia al podio. Tutti i pantomimi sono
entrati nel circo. Scorgendo Simon Mago o E tu non voli? Ah! AN! La plebe
sghignazza. N. indicando Simon Mago a Tigellino e ridendo Dalla torre
dell’Oppido sia tosto Slanciato in ciel. Non voli? Ascendi all’etere,
Agli astri, al sole! Icaro, vola! sino alla scaia di legname che sta a
sinistra del criptoportico. GOBRIAS, TIGELLINO, LA PLEBE I ridendo,
a Simon Mago, e beffandolo Vola, La guardia germana, afferrato Simon Mago, lo
trascina rapidamente I Se sai volar Icaro, vola! I SIMON MAGO
si difende con tutte le sue forze; vede Gobrias e lo chiama in soccorso:
Gobrias! GOBRIAS Va! non temer! prolunga la difesa. mo Correndo e
ridendo s’allontana e scompare nel fondo del portico. DELIO NEVA PETRI SEEM ONE
O LIMONI ENELA VD PIET A IOIZIETTIIA STET ZA DIE IMI TRITATA SLIDE SVITARE
PILOT RIE DINI INIZIA DEVIATO TIENITI SIMON MAGO implorando ajuto da
Tigellino Mi salva TIGELLINO rigidamente, ai Pretoriani Sguainate
l’armi SIMON MAGO al colmo dello spavento Tregua La guardia germanica
colle armi in pugno caccia Simon Mago, pungendolo e minacciandolo, sui gradini
della torre dell’oppidum. N. Icaro, vola! Vola! Vola al sol! N. ridendo
sempre più eccitato, entra nel circo. Nel circo non cessano i clamori: si odono
le grida feroci A morte le Dirci, Vogliamo la Tragedia, Non vuol morir!
Pollice verso Ad un tratto s’odono degli urli di spavento che vengono dal fondo
del criptoportico e dalle parti più alte dell’edificio dove s’incomincia
a scorgere qualche cirro di fumo. Le grida di terrore aumentano e
s’avvicinano. Il fumo penetra nell’oppidum e s’ode Gobrias che grida:
L’incendio è nelle fornici Altre voci gridano Soccorso! Il circo divampa Salvate
le donne Fuggi! Fuggi Di qua No Fermi Ajuto Attraverso le nubi dell’incendio si
scorge la gente che fugge, che s’urta, che cade. - Una fiumana di popolo irruente
invade il cripto-portico, spinta verso lo sbocco della porta pompae. L’Oppidum
non è più che una voragine di fumo. PA LED AZ SEPARATI ZA LIM NITAL TU TOA OL
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un sotterraneo del circo dove si depongono i morti. La luce riflessa d’una
torcia che s’avvicina dirada a poco a poco le tenebre, rischiarando a destra il
vano d’una porta e la rampa d’una scala erta ed angusta. Un rombo lugùbre
giunge dall’alto e ad intervalli uno scroscio come di cataste o di mura che
ruinino. Asteria, con una fiaccola in mano, discende la scala; giunta alla
soglia del sotterraneo s’arresta per illuminare chi la segue, ASTERIA Scendi.
Fanuèl la raggiunge. Entrano insieme. Cerchiam fra i morti. FANUÈL Orror
di tomba Emana lo spoliario. S'ode ancor da quest’antro funerario
La gran vampa che romba. ASTERIA Cerchiam. Incomincia ad aggirarsi
lentamente guardando a terra lungo la parete centrale. Al lume della
torcia che tiene in mano s’intravvede, là dove passa, la struttura
irregolare del sotterraneo. Fanuèl va frugando a sua volta
nell'ombra lungo la parete di destra. Si parlano a distanza. DCO LI RESI SII
PTTASTINTENITI IC AREE SITA SOLITA ‘i pe FANUÈL Cadde la prima, ASTERIA
vivamente Allor qui giace. Tardi per lei scoppiò da
questa face Il folgore incendiario! Fanuèl s'imbatte in un
corpo, si china, lo tocca, riconosce al tatto le fasce crurali d’un auriga.
Va oltre. Ecco là dei cadaveri. Indica un gruppo di morti
stesi a terra nell’angolo della parete sini- stra. Fanuèl accorre e li
guarda. FANUÈL Un reziario, due sanniti, un trace. ASTERIA atterrita
Simon Mago! FANUÈL Ove? ASTERIA indicando con ribrezzo, senza accostarsi,
iv cadavere di Simon Mago gittato un po’ più lontano, in un’insenatura
del muro Là. FANUÈL dopo averlo guardato fissamente Da Dio
fu infranto. Abbominato sia. S'avvia verso il centro del sotterraneo. Il suolo
è ingombro d'armi gladiatorie. ASTERIA Cerchiam. Fanuèl scorge, sopra un
letto funebre, giacente come una morta, una donna în veste bianca. FANUÈL
chiamando con voce agitata Accorri. i BZ IiMRANZIAR TINA TIE I A d
ASTERIA accorre colia face. È lei? FANUÈL cade in ginocchio,
posando la testa e le braccia sul corpo di Rubria. Martire mia! Gieltz, Respira,
Vivrà Asteria appoggia la face ad una pietra vicina, poi corre dal lato
sinistro del corpo di Rubria per ajutarila. Squarciale i panni Salvala Asteria,
mentre Fanuèl parla, lacera la veste di Rubria sul fianco. È svenuta.
Cerca le sue ferite, Io l’ho veduta Sanguinar nuda nel nembo
infernale Salvala Cerca cerca sotto il core Là sotto il core la ferì lo strale
D'un sagittario. aspettando ansiosamente Ebben? ASTERIA guardando
la ferita di Rubria attraverso lo squarcio delle vesti Spavento Muore. FANUÈL
Muore Non muoja qui non nell’orrore Di quest’antro Fa per sollevarla e
portarla altrove. ASTERIA opponendosi con impeto La getti nella strage divampa
il celio, arde il velabro, è l’odio d’un dio su Roma. Il circo è un mar di
brage. Se la tocchi l’uccidi scoppia un fragore terribile sulla volta del
sotterraneo. Crolla il podio Asteria ha visto qualche riflesso dell'incendio
sulla scala d’onde scese e la risale correndo e scompare mentre Rubria
apre gli occhi. ALI RUBRIA Ah! FANUÈL tutto chino ‘presso di lei Non
temer, son con te. RUBRIA trasognata Fanuèl. Dove son? dove fui? Tu
salvo Io viva L’anima mia fuggiva M’offusca un vel Colta da una reminiscenza
d’orrore, getta un grido, si sforza di sollevare il capo. FANUÈL con grande
dolcezza No. Una mano pia ti ricoperse con la bianca stola. Riposa. Oblia.
RUBRIA Chinar dovrei le mie ginocchia a terra d’innanzi a te. Tenta di
sollevarsi, ricade. Son ferita non posso. FANUÈL Rubria RUBRIA Pietà
l’orror mi riafferra Il Mostro il turbin rosso. Viscere e carni Ascondimi
M’ajuta! FANUÈL inorridito Fu il mio grido d’amor che t'ha perduta!
(o [4 sd RL STT IRENE RIME ID TI III DI LTTE INT I RIINA TOR
ILE TI i i Ì i Ki | Ì i 4 i i
| RUBRIA D’amor io t'amo tanto dopo una breve pausa Fanuèl morirò?
FANUÈL seduto accosto a lei sullo stesso letto e posandote
dolcemente la mano sulla testa e accarezzandole i capelli e la fronte PISTE STE
SIT ATI RIETI PATITI LIO III O I TAI sc Vivrai. RUBRIA
dolcemente SI SI Oh com'è buona e calda la carezza della tua man Bacia
la mano di Fanuètl. PRANZI LETI TIT LIA pu PSI IL Più accanto a me più accanto.
Così COSÌ.Tu m’insegnasti questa gran dolcezza Di sorrider nel pianto.
M’odi la morte A ogni attimo mi strugge Non pianger, Fanuèl, stringimi forte,
Finchè mi stringi, l’anima non sfugge. $r O ALLE TA I Dopo un lungo riposo ed
un silenzio di raccoglimento, soggiunge: Servivo un falso altar. Tutte le sere
Venìa' coll’ idria del mio tempio... al fonte Dell’orto santo e
dopo le preghiere tornavo all’atrio antico, a piè del monte tentai confonder
nella stessa vampa l’ara ardente di Vesta e la pia lampa della vergine saggia.
Ecco il peccata. Or tutto è confessato, attendo il tuo perdono. Tutta or mi
sai, sorridimi. Monda e beata or sono. ERMETICA A FANUÈL alzandosi e
ponendole le mani sulla fronte e baciandola, con soavissimo fervore, Benedizion
d’ immenso amore accensa sul capo tuo col mio bacio si posa. I iituitiolititiiceste
netti rie ss n ur si n PRETI LTL DATI IE VIII RUBRIA sottovoce Fanuèl!
Fanuèl! Estasi immensa! Fanuèl torna a sederlesi a lato. Rubria posa la testa
sul petto di Fanubl. FANUÈL Tu sei la sposa, l’egra mia sposa che sul cor
mi giace. RUBRIA Dimmi, ove siamo? FANUÈL In un asil di pace. Dormi
quieta. RUBRIA con voce sempre più fievole Sento che ascende l’ombra d’un
vespero strano. Dammi. Fa degli sforzi per continuare a parlare; non può.
FANUÈL Che vuoi? RUBRIA con istento La mano. Fanuèl s’affretta a darle la
mano. Narrami ancora, mentre m’addormento, del mar di Tiberiade, tranquilla onda
che varca in Galilea. FANUÈL quasi cullandola Laggiù, fra i giunchi di
Genèsareth, oscilla ancor la barca ove pregò Gesù. Raccoglie Rubria sul suo
petto. Quella cadenza languida di cuna invita a stormi i bimbi sulla prora. Dormi
tranquilla, dormi. Meo: AIUTO SRL ZE MEIER DAI RUBRIA con un fil di voce
Ancòra ancòra. FANUÈL. Lenta salìia dal Libano la luna, era quell’ora in cui
sorgon gl’incanti. RUBRIA come un soffio, spegnendosi Ancòra ancòra. FANUÈL
colle mani giunte e gl’occhi rivolti al cielo Escian le turbe oranti per la
lunare aurora. Sente Rubria inerte fra le sue braccia, la chiama: Rubria.
Asteria ritorna scendendo velocemente la ripida scala. Fanuèl continua a
ricercare la vita sul cadavere di Rubria. ASTERIA L’ incendio ne avvolge, ogni
scampo di là n'è tolto. Divampan le torri, crollano gli archi. Vede un uscio
sprangato nella parete sinistra. Un lampo di speranza! Si slancia affannosa
attraverso gli ingombri del suolo verso la porta d’uscita, leva la spranga,
apre. Sei salvo. Ecco una porta. Esce un istante per esplorare; rientra. Libero
è il passo sulla soglia d’onde è entrata Accorri, accorri! FANUÈL sul
cadavere di Rubria Morta. Asteria scuote Fanuèl e lo trascina insino
all'uscita. VELA EDARISCAI RED RR MR ARIE rat tn IRSISILI E I FTT ITANI
EN AZZIONDANT TI FIATI DE e AR TANI PINNA DIR RE ENIT NIE ST Va CNMI TE
FANUÈL dalla soglia, con un ultimo sguardo Rubria, addio. Scompare dalla
porta d’onde entrò Asteria. Asteria udendo quel nome ritorna vicino alla morta.
ASTERIA con esirema violenza Rubria? Tu? Quella che il mio truce iddio ghermì
sull’ara, tu, rispondi, tace. Lo spoliarium incomincia ad essere invaso dal
fumo. Dimmi Pardor del suo bacio vorace verso cui tende spasimando il mio, poi,
d’un tratto, con immensa pietà martire santa. S'inginocchia, estrae dol seno il
fiore della via Appia e lo lascia cadere sulla morta dicendo: Pace, pace, pace.
Si sprofonda una parte della volta. Asteria si salva fuggendo da dove è uscito
Fanubl. DEAR er a i Ù detiia Told e ID i DITER) II RIETI EA ia AI PA a I HU LA
n PRI ARENA QUARERAA LOGO ATSIRONT NO Id vi NABLAPOTNO DO
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PTT, K He VARI LIRE) ;) 7107 000! LATO: AI ATC
(4 #0 viti ; mg: pi PUMP AA BOITO: “NERONE” IL MELODRAMMA. Lucio
Domizio Enobarbo. Sepolto a Colle Pincio presso la tomba di famiglia dei
Domizii Ahenobarbi Nerone.
Luigi Speranza -- Grice e Nesi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – adulescentuli oratiuncula – Sono
dalle celeste sphere Venere: perche amore inspiro: dagl’elementi fuoco:
perché d’amore accendo da uoi con vocabul greco CHARITÀ chiamata: perché
col mio ardore della GRAZIA della salute viso degni – filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I once had a fight with
Nowell-Smith; he was saying that a philosopher should not be a moralist; I told
him that by that token Nesi wasn’t one!” – “De moribus” Figlio di Francesco di
Giovanni e di Nera di Giovanni Spinelli, si dedica interamente agli studi
filosofici. Strinsge stretti rapporti con i principali umanisti fiorentini
dell'epoca, tra cui ACCIAIUOLI e FICINO (si veda). Influenzato dall'operato di Savonarola,
ricopre anche diverse cariche politiche. Altri saggi: “Adulescentuli oratiuncula”;
“Orazione del corpo di Cristo”; “Orazione de Eucharestia” “ Orazione
sull'umiltà” “Sulla carità”; “De moribus”; “De charitate”; “Oraculum de novo
saeculo, Canzoniere, Poema. Treccan Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Obviously,
Nesi is not having Davidson in mind. But Nesi is wrong in identifying GRAZIA with CHARITA,
‘greco vocabull” – this is an etymological blunder. The charities were indeed
three – Eglea, Eufrosina, e Talia – and they danced mainly to eroticse Mars, or
more frequently Giove and Mars together --. Of course the expression ‘gratia’
is not cognate! – For Davidson, charity is what the Italians refer to ‘carità’,
formed out of ‘carus’ – the spelling with ‘ch’ is a French corruption! So to be
charitable, in Davidson’s interpretation, is to be kind, caro. Not graceful!
--. Grice: “If Davidson doesn’t know his Greek mythology, that’s not my fault
--. Instead of his singular principle of charities, I will take the liberty to
sub-divide it into three maxims – The first maxim refers to the first charity,
Aglae: splendour; thes second maxim refers to the second charity, Eufrosina,
mirth; the third maxim refers to the third charity, Talia, cheer. In Kantian
format, these counsels of prudence become: be splendorous – or try to make your
conversational move one that is splendorous; be merry – or try to make your
conversational move one that will carry mirth to your co-conversationalist; and
‘be cheerful’, try to make your conversational move one as if it was spawned by
Thalia!” -- Giovanni Nesi. Nesi. Keywords: adulescentuli oratiuncula, principle
of charity, Davidson on charity on Grice. Who was the first Englishman to use
‘charity’ as a hermeneutic principle? Butler. Grice speaks of self-love and
benevolence. Benevolence – and charity? Grice is not so much concerned with
Beneficenza or Malificenza, but with Benevolenza, and Malevolenza – where does
charity fit? What was Ciceronian for charity. What is pre-Christian about
charity? Charisma, charitas, folk etymological
confusion here – caritativo – carita – caro, “le tre carità in armónico
conubio” “tre carità”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nesi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Nicolao: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma
–filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Among his pupils are the two sons that Marc’Antonio has with Cleopatra.
He writes a biography of Ottaviano, and the two became friends.
Luigi Speranza -- Grice e Nifo: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale ludicra – la scuola di Sessa --
filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sessa). Filosofo italiano. Sessa, Caserta, Campania. Grice: “I
like Nifo; first, because he wrote a treatise he called ‘ludicrous rhetoric;’
second, because he tried to refute Pomponazzi against the mortality of the soul
– surely the soul is ‘mortal’ is a category mistake --.” Alla corte di Carlo V (L. Toro, Sessa Aurunca). Studia
Padova sotto Vernia. Insegna a Padova, Napoli, Roma e Pisa, guadagnando una
fama tale da essere incaricato e pagato da Leone X di difendere l’immortalità dell’animo
di Leone X contro gl’attacchi di Pomponazzi e degli alessandristi. Ricompensato
con la nomina a conte palatino con il diritto di assumere il cognome del Papa,
Medici. La sua prima filosofia si ispira ad Averroè, modifica poi la propria
visione giungendo a posizioni più vicine al domma romano. Pubblica un'edizione
delle opere di Averroè corredate di un commento compatibile con la sua nuova
posizione. Nella grande controversia con gli alessandristi si oppose alla tesi
di Pomponazzi per il quale l'animo razionale non e separabile dal corpo
materiale e, dunque, la morte di questo porta con sé anche la scomparsa
dell'anima. Sostenne, invece, che l'animo di Leone X, quale parte
dell'intelletto assoluto, non e distruttibile e alla morte del corpo di Leone X
si fonde in un'unità eterna. Tra i suoi allievi, presso Salerno, tra gli altri,
ricordiamo, Rosselli, filosofo calabrese autore di un testo molto controverso,
Apologeticus adversos cucullatos (Parma), in cui cerca di affermare le sue
dottrine che tendono a discostarsi da quello del suo maestro. Lo si ritiene
protagonista di un curioso episodio. Pubblica il trattato “De regnandi peritia”
(la perizia di regnare), che alcuni ritengono essere un plagio del più noto “Il
Principe” di Machiavelli del cui manoscritto e venuto in possesso. Gli e
conferita la cittadinanza onoraria di Napoli ed iessa e estesa ai figli ed agli
eredi in perpetuo.A lui è dedicato il Convitto Nazionale di Sessa Aurunca,
della quale e anche sindaco. Saggi:“Liber de intellectu”; “De immortalitate
animi”; “De infinitate primi motoris quaestio” [cf. Bruno, Galilei, Novaro,
infinito]; “Opuscula moralia et politica”; “Dialectica ludicra,” “De regnandi
peritia.” Furono poi più volte
ripubblicati, in quanto ampiamente diffusi, i suoi numerosi commentari su
Aristotele, di cui i più importanti sono “Aristotelis de generatione et
corruptione liber N. philosopho Suessano interprete et expositore”; “Expositiones
in libros de sophisticos elenchis Aristotelis”; “Expositiones in omnes libros
de Historia animalim, de partibus animalium et earum causis ac de Generatione
animalium, In libris Aristotelis meteorologicis commentaria” (Venezia, Ottaviano
Scoto); Physicorum auscultationum Aristotelis libri octo”; “Super Libros
Priorum Aristotelis”; “Commentarium in III libros Aristotelis De anima”; “Dilucidarium
metaphysicarum disputationum in Aristotelis Deum et quatuor libros
metaphysicarum”. “Dialectica ludicra”. Biblioteca del Convitto, Dialectica; “Dialectica
ludicra”; “In libris Aristotelis meteorologicis commentaria”; “In libros
Aristotelis De generatione et corruptione interpretationes et commentaria, Biblioteca
del Convitto Nifo di Sessa Aurunca; “In libros Aristotelis de generatione et
corruptione interpretationes et commentaria.
G. Gabrieli, "Raccolta Storica dei Comuni", Istituto di Studi
Atellani, Sant'Arpino, C. De Lellis,
Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, Napoli, G. Paci, G. Marco,
I sindaci della città di Sessa, Sessa Aurunca, Zano. La filosofia nella corte (Milano,
Bompiani). Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G.
Marco, G. Parolino, Incunaboli e cinquecentine nelle biblioteche di Sessa, Minturno,
Caramanica, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, E. De Bellis, Il pensiero logico, Galatina, Congedo, Ennio De Bellis,
Aspetti storiografici e metodologici, Galatina, Congedo, E. ellis, Collana Quaderni di “Rinascimento”. Istituto
Nazionale di Studi sul Rinascimento (Firenze, Olschki); A. Poppi, I liceii di
Padova, Dizionario biografico degli italiani, Ratisbona. Grice: “I enjoyed Nifo’s
rambling on dreaming – quite an complement for Descartes on clear and distinct
perception!” Grice: “Part of my cooperative principle is based on Nifo –
echoing Aristotle rather than Kant. Or rather echoing Kantotle. In this case,
it’s Aristotle’s key concept of a ‘virtue’ – a collective virtue, like
solidarity, lies at the bottom of my conversational principle of cooperation.
The virtue is ONE of course, which is good. Each maxim then attends to some
virtue. Nifo is better than Castiglione in that his Italian is better. He
relies on Cicero, rather than on this or that court poet! So there’s VERITAS,
HONESTAS, CARITAS, and the rest. Each is seen as a virtue, and the point is to
find the ‘middle point’ or mesotes. A bore is a bore but if you include this or
that ‘implicatura ludicra’, two gentlemen can enjoy a nice conversation. Nifo
is having the Northern Italian courts in mind, away from that nefarious
influence of the Pope, who had paid him to demonstrate the immortality of his
soul! The virtue model of conversation is an interestin gone – “De re aulica”
is the way Nifo considers this, and he makes interesting observations on how to
attain a middle way, i.e .how to win frineds and lose enemies!” –Of course
there are overlaps. My model is Kantian, but what is a counsel of prudence if
not a nod to Aristotle’s virtue of prudentia – the principle is thus a
principle of conversationl conviviality, urbanity --. There are conceptual
problems with a purely Aristotelian model, rather than Ariskantian one. One is
not after VIRTUE, but the MESOTES – So the ideal is not to be searched for.
It’s not pure HONESTAS, but that which fits civil conversation. Oddly, Italians
were more concerned with ‘vitii’, which due to their Roman dogmatic
assumptions, they correlate with ‘vice’. For each vice, we should not look for
the VIRTUE, but to the MESOTES --. Kant could not make head or tail of this! PORTET
primum colituere quid Abri materia: nomen Co quid verbum: deinde
quid eji negatio, quidue effirmatio: atque enuntiatio or oratio.
MISSIS ventofis exor- dijs: breuibus LIZIO quid pertractare vult
proponit. Nam rei intentio: et subiectum apud graecos ide funt: differunta;
ratione. Vt enim fubiectum habet rationem finis, intentio nuncupatur, ve vero
habet rationem materia: in qua propria infunt accidentia, subiectum, fue
materia à noftris appellatur. Eft autem intentio libri prefentis, fubictum,
fiue materia enun-tiatio ipla: cuius partes constitutiva, que integrales
dicuntur, fünt nomen et verbum. Prima
vero et prima-riz pecies sunt affirmatio de negation. Genus autem enuntiationis
est oratio. Hanc igitur intentionem proponit, et inquit{ Primum oportet
conflituere}hoc eft definire{quid nome et quid verbum,ve integrales par tes
enuntiationis, verbum illudf oportet} non dicit necessitatem simpliciter, sed
conditione. nam fi de enuntiatione per tractaturus est, opus est ve primo de
nomine, deg; verbo percurrat. {Deinde} 8e quati fecundo lo coquid eit negatio,
quidue affirmatio? tanquam primaria enuntationis species atque, tertio
quid/enuntiatio} quid {& oratio} enuntiatio quidem ve intentio, subiectum,
ac materia: oratio vero vt genus fubicâi. Multa graci, vt Ammonius,
Philoponus: et latini, vt BOEZIO (si veda) et AQUINO (si veda) contendunt.
circa feriem verborom: qua, quia ventofa sunt, ad commodumé; non multum
accepta, hac fufficiant. Boetius hiclubie- iedle. ctum,materiam ac
intentionem libri ait efle interpretationem. Nam inscriptio libri ab cius
intentioneficri obilimer es affolet, vt inquit Philoponus in primo
Priorum. Obij- ire Dertrum. ciunt côtra quidem viri clarissimi, qui
subtiles perhi- bentur. Nam interpretatio vel fumitur pro VOCE ARTICVLATA
CVM INTENTIONE QVICQVAM SIGNIFICANDA PROLATA, vel pro voce articulata
prolata ad signiticandum esse vel non esse, primum quidem non. nam tunc effet
nimis commune, effet enim compositis et simplicibus commune quoddam. Hoc autem falsum eft, quia hber hic eit de medijs. Nec
secundum, quia liberhic non eit de Secunda põ. voce, sed de
intentione voces. Propter ha enuntia- Confutatie. tionem in mente fubiectum
efle fingunt. Hacpueri. lia funt, nec digna nostra disputatione. Verum
fipfi chuntiationem mentalem subiectum esse fatentur, ad quem de vocali,
vel scripta inquirere attinebit? Pro- enie quid. pter hac quod graece
“ermenia” appellatur, latine sive “enuntiatio,” sive, “interpretatio” dicatur,
ide eft. Et de hac eft liber præsens, de mentali
quidem ve quod, de vocali vel scripta, vt SIGNVM, de re vero vt caula. Nam
veritas in voce est ve SIGNVM, in mente vt subiectum, in re vt in caufi, vt
dicit Ammonius, necaliter Boctius (entit.Multa alia dici folêt, qua quia
facilia, pretermittimus. Excufaio nottri enim frequenter circa facilia fimbrias
dilatant, circa vero ardua et occulta voces fummittunt. Tu vero a nobis
contrarium expeêtabis, quantum videlicet a nobis fieri poteft. Sunt
quidomigitur ea que in uoce, carum, que IN ANIMA PASSIONVM NOTE. iEt que
feribuntur, corum que in noce. Et рета луна quemadmodum nec littere
omnibus cadem, fie nee noces cedem. diete scriptura med nico
De nomine, de di verbo, chuntiatione, ac oratione. pertractare propofuit,
ante tamen quam de his prole- Cản de veche quatur, quadam communia
de vocibus, scripturis, ac TI ferime ANIMA PASSIONIBVS intercipit,
fed de caufa intercepti babetsr. ambigunt expofitores. Herminius
necesitatem illus ny- Canfa Hervnd modi intercepti fuifleautumat,
vt propofita rei com- modum infinuaret. Sed hoc ftare non poteft. na
vtilitatis commodiue narratio prohemij pais est, vt LIZIO. in Rhetoricis
tradit. fumus autem nuncipfo in tractatu, quod verbú igitur innuit. Porphyrius
interpofitz rei Confa Perply caulam propter veterum difienfus circa
vocum figni- ry• ficationes, inquit. nam veterum quida voces,
formas, fue IDEAS SIGNIFICARE credidere, alij CONCEPTIONES, alij SENSVS
fenfation esúcipfas, alij res exiftentes. quia igitur Ariftoteles de
nomine deá, verbo pertractaturus erat, contrarias di politiones, ac aduerfa
impedimenta eli-dendo, veteri quaftioni generatim curfimé; fatisfecit.
Sed nec hoc itare potett. Primo quod quafio hac Cofitaio. partem ad
quamlibet definita, que difturus eft de no mine et verbo, non impedit. Secundo
hac res eit gravis, eltés altioris negocij, tranfcenditg; limina præsentis
voluminis, quum de ideis, deá; formis contendat. Melius igitur cum
Alexandro, Ammoniog; fontien dum, quod Ariftoteles hac praaccipit. Tum ve
genus Expofitie cane definiendarum rerum colligat. Tum differentiam
có-, Fa) Secunda ve fitutivam, videlicet, g› nomen verbum quaque ad placitum
ignificent. Tum differentiam difcretiuam, vidclicet, vt nomen fine vero
et falso, enuntiatio, et ora tio cum vero vel falso. Hac enim Arift. animaduertens quedam communia de vocibus,
scripturis, ac PASSIONIBVS preaccipit. Affumitigitur quatuor ad pralentem Que LIZIO
pertractationem conferentia, res videlicet, conceptiones, voces, atque
litteras. Oportet autem primo petere hac quatuor non fruftra ele, fed aliquem
propterfi-nem.fiquidem neg; natura, negars aliquid fruftra fa ciant. Secundo
petimus horum quatuor, duo effena- tura lefe habentia, vt res
conceptionesá; duo vero po- Prima Petitio. fitione, vt voces et
littera. Veigitur fcias qua horum Secunde. natura fe habeant, quaue
politione, ponit praceptum Preceptum, ciusinodi, e qua aque omnes cadem
funt, hac natura se habent, qua vero non apud omnes eadem, hec pa-fitionefe habent.
Huius precepti prima pars co patet, a natura in cunétis niformis est et fimilis.
Pofitio vero cuariat. Qua ere quum res 8e conceptiones apud omnes erdem fist,
natura fe habent, voces vero &e lit-tera, quum cuarient, pofitione
habentur. Arguitigi- Syllogi frang lit tur, quecung;
funtalorum SIGNA VEL NOTE, positionefe habent. VOCES et scripta SVNT NOTA
VEL SIGNA ALIORVM. nam VOCES SVNT NOTÆ CONCEPTIONVM, cum. Igitur, voces et
scripta sunt positione. praponit mi norem.d.{Sunt quide igif ea, qua in voce
cuiufmodi funt nomina et verba-fearum quin anima palsionum notz, et que
feribuntur] Svnt NOTÆ SIVE SIGNA: {corú que in voce} Hec vt minor quali
concludit, et inquit. (Er} hoc verbum in greca coltructione, quicquid graci fen
tiất, vim habet lape illativam apud LIZIO. quafi dicat. {Igitur quemadmodum nec
littera omnibus ex dem, fic nec voces eedem}verbum, {ic} in verbis gracis non est,
sed ex vi constructionis sub audiendum. Secunda igitur pracepti pars perficua,
videlicet, ep ea que in voce, et que icribuntur, politione fe habent. Aliter
intelligi poteft, vt dicemus. Queritur verbum illud,
Dulintio:2• figitur} quo modo tenct. Expolitor latinus ait dixiffe igur,
quali ex premifsis concludens hune. videlicet. in modum de nomine deé; verbo
per tractandum, nomina et verba voces funt. igitur de vocibus per traêtandum. Graeci
omnes verbum illud efle notim executionis, de non illationis, affirmant, quod
mihi conuenien- Secanda dula tius eft. Quarit secundo
Ammonius cur primo è vocibus, quamè rebus sermocinari capit. Dicendum de eis
primo, tanquamà magis huic libro conueniétibus, Tertia dubs quicquid
Ammonius dicat. Querit terto Porphynius cur dixit {Sunt quidem igitur ca que in
voce}& non, {funt quide igitur voces; Itéd cur no dixit litter vti,
REsPanpb fea que feribuntur, dicit. Porphyrius vuleg nomen et verbum
funt partes orationis. prolatz eft enim oratio prolata totum quoddam
integrale ex nomine &verbo conftitutum.nomen vero et verbum fcripta
partes ora tionis fcripta, et qí partes funt in toto magis quam contra, totum
in partibus, nam continet totum partes, et no econtra. Idcircoinquitffunt
quide igitur ea, qua funt in voce} hoc eft nomé et verbum, que funt in yo
ce, hoc elt oratione prolata vt partes fearum que funt IN ANIMA PASSIONVM NOTÆ,
&e ea que feribuntur f videli... cet nomen et verbum in scripta oratione
{corum quie Confitatio. funtin voce.} Sed hac expolitio ridenda
eft. Tum pri mo, quia cum ditficultate intelligitur partes eile in toto, elle
in enim non competit partibus nill improprie quarto Phylica auscultationis, clt
autem loquendum veplures. secundo Topicorum. Tum quia in tam exiguo sermone æquivocaret
de eflein. Nam dum dicit ¿corú qua funti n anima} fumit effein. vna
ratione, dã dicet fea que in voce} alia ratione. Similiratione errant qui
volunt esse in capi vt inferius continetur in quo fuo fuperiori. Nam
primo in verbo effe in, acciperetur proprie lecundo vero improprie. Quare
melius effe in, in vtrog; codem modo accipiendum est. Nam nomen et verbum
funtin voce vt in subiecto, vt i res artificialis in re naturali. erit igitur lenfus
{funt quidem igitur ea qua in vocef vt nomen et verbum, qua in vo cebarent, vt
in materia et fubiecto, NOTE carú PASSIONVM QVÆ IN ANIMA SVNT, etiam ve in
materia 8e fubie-Eto. Nam conftat tune Ariftotelem non aquiuocaffe
verboillo effe in. Quarit quarto Ammonius cur Arift. Querte dubi» ait
paísionum, pathema enim grace palsio eit, palsio aurem affectus. modo
affeCtus non eft conceptio, fiue fimilitudo, quam LIZIO intelligit.
Dicendumgtria. videlicet similitudo, CONCEPTIO et PASSIO idem Salstio funt,
alia tamen ratione CONCEPTIO enim et intelletio vt intelligédi principium, est
ratio: ve veroà reipla de-rivatur, similitudo sive species, vt intellectum ipsum
perficit, PASSIO vnde et intelligere et sentire in quodam pati faltem perfective
confiftit, ve dicit in his qua de anima. vnde qui verbum graecum naBorar in
latinum conüertunt “AFFECTVVM,” nee grieciliant, nec graecam constructionem
(entiunt. Quinto quarunt, mul 2uinte duMk
taefiein voce, qua non sunt PASSIONVM NOTE, v gravitas, acuitas, et ACCENTVS
[H. P. Grice on STRESS as non-propositional], et id genus. Dicendum
propositionem LIZIO indefinite effe legendam, non autem vniversaliter. Sexto petijt.
vtrum yt ea, quein vo Sexta duba. ce note funt eorum que in anima,
ita ca que feribuntur, corum qua in voce. Respondet Alexander go lic,
wleeRGie et tunclittera est legenda fie{ funt quidem igitur ca qua in
vece, earum que in ánima PASSIONVM note, quem- admodum qua icibuntur, corum
qua in voce. Nam verbum illud sa graecum, quod
latine frequentilsi-mein et convertitur. Interdum
Alexander vult apud graecos accipi pro nota similitudinis, ve proficut, vel
quemadmodum, &id genus. Hec Alexan. diceret. Huic obijcit Porphyrius.
Primo, quia ad simplicem obiedia Pore fenfum nihil addi oportet. Secundo,
quia in tam breui flore. ordine, tamque brevi oratione non est partitio
intercidenda. Tertio, fita lehabent que scribuntur ad voces, ve voces ad ea,
que in anima, tune ve voces varijs litteris permutantur, fie PASSIONES VARIIS vocibus
cua-riabuntur. Mibi videtur cum Alexandro et Alpaxio, Lupi proprie &ita secundo
modo exponi potelt, vt LIZIO pro-lequendo de nomine verbog; primo colligat
inter voces et scripta convenientias. Secundo INTER RES ET PASSIONES. Voces
igitur et scripta conveniunt primo guam-bo sunt ve SIGNA, voces quidem
conceptionum, scripta vero vocum. Secundo o vt voces non sunt omnibus ezdem, ita
scripta. Inquit, {fint quidé igitur qua in vo cetearum qua in anima, PASSIONVM
NOTE et qua feri-bütur, corum qua in voce. jQuare voces et scripta conveniunt
in hoc q ambo funt vt NOTE SIVE SIGNA. Ethec ell prima convenientia. Deinde subfcribit
secundam. d.{8 quemadmodum qua feribuntur non cadem om nibus, fieneg; voces
exdem. fHac eit secunda convenientia. Dixit
autem fin ANIMA} quod graece elt psyche, et non in intellectu, quoniam
intellectus etiam ad diuinum refertur, aut pincellectus novas PASSIONES non
fufcipit, sed de his in libro nostro de intellectu, et de anima. Ea
ergo, qua sunt in voce et ca qua funt in feriptis conteniunt primo e AMBO NOTA
AC SIGNA SVNT. Secundo omnibus cadem non sunt. Tune ad obiedta con-
Defryle fle. tra Alexandrum. Ad primum dicendum illum simplicem sensum esse
potentia et virtute amplum et composituim. Similiter si oratio est brevis,
compendio efe oblonga. Ad hectèrtium argumentum probat ibi no esse in toto similitudinem,
sed in parte efe potelt, vt Alexander fentit. Quorum tamen be note
primo, cedem omnibus pafrio=- Serptere nes anime funtiet quoram bac similitudines,
res iam ecdem. Debis quidem igiur: dietum ef in his que de Anima, altes
vius enim bec sunt negocif. Capit LIZIO, vt Alexander dicebat,
ponere Cim.j. differentiam inter ca que positione talia sunt, et ca
que natura talia. Ea qua in voce et ca qua scribuntur, positione talia funt. Nune vero qu ANIMA PASSIONES et resfint natura tales, declarat. Potest autem
textus esse pra-milla, et por esse simplex narratio. Siquidem pramif- f, syllogifnus
erit, que eadem apud oes: sunt per naturam talia-natura.n. vt Ammonius inquit,
est vniformis semper. PASSIONES ET RES EADEM APVD OMNES. Igitur, natura tales
crunt De syllogilmo accepit minorem est in textu. Si vero est narratio
tín, elt tune secunda pars differentia, et inquit. {Quorum ti he nota
primo:fune PASSIONES ANIMA oibus eadem: et quorum ha similitudinestres iam
eadem } funt. Igitur, PASSIONES ET RES OMNIBVS EADEM. 8e ita tales per naturam.
Hac fortaf-fe expositione LIZIO, verba examinádo : argumentum Herminij
contra Alexandrum imbecille est. Noenim Alexã. vult o apud omnes fint
paísiones eademi apud quos voces, ed vt dixi, g› vel tangat minorem, vel
par- 2iPeply. tem differentiz secundam perficiat. Animadversione dignum
Porphyrium in defendendo Alexandrum: affirmare guca quorum voces apud omnes
cadem: 8e ipsa sunt eadem et hoc generatim tam vniuucis ipsis,
quamaque vocis. Devaio vcis quidem cxipsorum no minum ratione conflat. De
a quiuocis vero, QVONIAM ANIMVS AVDENTIS SEMPER fibi nomen ad significationem
debitam, adquamúe A PROFERENTE EMITTITVR [H. P. Grice, UTTERER and REPICPIENT
or ADDRESSEE], ac- Confutatis cipit. Sed hoc ftare non poteit. nunquam
enim æquivoca propositio esset distinguenda, nam ANIMVS AVSCVLTANTIS SEMPER cam
conformiter animo proferentis Вкуб Нас.
acciperet. Hermenius aliter sermones LIZIO, intelli Nam VOCES SIGNIFICANT
PASSIONES PRIMO ET SECVNDO RES, PASSIONES autem, tantum Crufidatio. res
decernunt. Sed hoc ftare non potest, primo quod Arittote. dixithac, non
igitur lapide efiet hic repetendum. Secundo verbum illud eadem ad quid
adderetur? Ellet enim inutile, nifi LIZIO com munepafsioni- Dubitais: bus
et rebus fumat, vt dicit Alexan. Sed tune dices ad quid verbum illud {primo jadditurAlexander
vuleno mina SIGNIFICARE PASSIONES AC RES, vt nomen iftud homo 8e naturam ipsam
hominis existentem, et eius CONCEPTIONEM SIGNIFICET. verum quia nomen num aque
primo duo fignificare non poteft, idcirco LIZIO adijcit ¿primo., Nã ea
nomina, qua in voce sunt, PRIMO PASSIONES Cantre Alex. fones SIGNIFICANT,
SECVNDO vero RES. Recentiores obii ciunt nam ordo significationum est iuxta
ordinem conceptionum. Sed RES PRIVS INTELLIGITVR, quam cius PASSIO. Igitur,
PRIVS voce significatur. Ad hac nomen semper predicatur de sua SIGNIFICATIONE. Nomen illud “homo” non prædicatur DE HOMINIS
CONCEPTIONE. Igitur, [cf. Grice, ‘shaggy’ does not mean, ‘what the utterer
thinks is shaggy] il- Difesie Ale lam non significat. Dici
potell pro Alexandro ep nomen in voce primo primitate, vrita dicam, subordinationis
PASSIONES PRIMO SIGNIFICABIT. Primitate auré ap- Tradraiale prebélions,
res primo, Quaretextus debet stare. Quo rum tamen ha primo} non autem
{primorum.} Nam graecus codex habet protos et non proton. Vbi enim proton
legerctur, vt fortalle BOEZIO (si veda) noster habebat in latinum primorum
eifet convertendum. Collige igitur inter hzequatuor ordinem: quz
leri- buntur SIGNIFICANT ea que in voce, qua in voce, eas PASSIONES QVA IN
ANIMA qua in anima, ea que in re con- A.D,Th. fiftunt. Licet non
fit ordo effentialis, nam qua feribun tur, et in voce funt, poflunt eque primo PASSIONES
SIGNIFICARE, quum cripture pro supplemento vocum sint adinuente. Verum quia res
hac ad modum est laboriosa, ac difficilis, tranimittit nos ad librum de anima. Est
autem quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus fine vero falsoque,
aliquotiens autem iam cuire. celfe est horum alteran incife fie c in
noce. Cirea compositionem enim er dinifionem e/t neritas atque falsitas.
Haltenus hac communiter de ijs quatuor accepit, vt nomina et verba efle
in voce et ad placitum fignif-cativa colligat: Tum vt genus primum: Tum vt
communem habeat differentiam illorum, cú quibus et ora- tio et enuntiatio
ipfa conueniunt. Est enini oratio et enuntiatio in voce et EX IMPOSITIONE AVT PLACITO SIGNIFICANTES et
per eiufmodi genus communemé; différentiam differt à rebus ipfis
conceptionibusé; Nuncau-tem ipfa lignificare fine vero et falfo declarat, vt
vide- licet secundam colligat illorum differentiam, aut, Alexandro placet,
ostendit enuntiationem significare cum vero falsoque -- vt per hoc etiam et
enuntiationis differen tiam colligat, notin nominis. Et licet littera pofsit
multipliciter ad formam fyllogifmi reduci, ve facilius res in telligatur
littere syllogilmus non eft aliter formandus, nifi veiacet.Ideo inquit. Est
autem quemadmodumin Sylingl/was. th anima aliquotiens quidem
intellectus fine vero et fat- fo, aliquotiens autem cui neceffe eft horum
altcrum in- effe, hoc elt aut verum aut falfum, fic et in voce:hac eft
maior. Addit et ipfam minorem dicens, circa
compofi tionem enim et divisioné intellectuales est veritas atque
falfitas. Sed circa simplicium intelligentiam, neg; veritas neg; falsitas. Igitur
in voce etiam circa compofitionem vel diuifionem crit veritas aut falfitas circa
simplicitatem neg; fic neg; fic. Et fic habetur totus syllogismus, per quem
habebitur, vt dicemus in textu proximo, gy nomina ipfa et verba ab enútiatione
differút.na nomina 8e verba fimplicia funt, et fic crunt fine vero et fallo,
enútiatio compo aut diuifio: igitur cú vero aut fallo. Et ita habentur genus et
differentiz nominum et verborum. Quantú vero ad verba graca attinet noc-ma graece,
latine est, tum intellectus, cum conceptus, et gativa. Simplex vt hominis autequi. Et discursivus
-- vt syllogilmus. Modo patet verum vel falsum esse in compositione.
Simplicia vero effe abfq; vero et falso. Hac quo ad
verba. cus fità fimili tín, velà fimili et caufa. Refondet expo
fitor ab Ammonio accipiens hanc manifeftationem ef Le non tín à fimili,
fed etiam à caulà, quam effetusipfe imitatur. Eft enim intellectus caufs, qua
vero in voce effectus. Sed hoc farenon poteft. quia non videtur cofatio
non enim vt materia, autforma: quia conceptus nulla- tenus funt aliquid
vocum,nec corum que in vocenec vt fnis,nam finis vult esse vitimum, vt
fecundo aufcul. shafin tationis
phyfica dicitur. Modo conceptus eft prior et voce et vocum veritate. Nec
vtagens, nam ab co gires eft veinon eft oratio dicitur vera aut falla,
vtab agen-te,vt dicitur in predicamentis. Ideo vt frequenter di- Selotie
proprie ximus verü et falfum funt in intellectu vt in fubiedo, in voce
aut fcriptis, vt in figno, in rebus vt in caula. Vis igitur arguendi non
eit demontratiua, fed dialectica à fimili tantum. Multa adijci pollunt,
que ab expositoribus tum graecis, tum latinis perquire. Hac enim ra- ptim scribimus. Nomina
quidem igitur ipsa aut verba consimilia furt fi-ne compositione co divisione
intellectui – ut: “homo” vel “album” wwFajd quando non additur aliquid;
nam nondum falum aut стт
eff. Huius autem fignum hoc eft. hircoceruus er enim significat aliquid quidem sed
nondum verum aliquid ant falsum, mifi esse aut non esse addatur aut simpliciter,
vel secundum tempus, Hac litera poteft introduci vno modo vt fit
conclu fio, quomodo expofitor induxit, innilus forfitan verbo illatiuo
igitur, Alio modo poteit inducis vt fit minor syllogifmi, fub
accepti sub syllogifmo princi-pali: qui fic erat. compofitio vel diuifio in
intellectu funt cum vero et falso, intellectus line compofitione et diuilione
nec font cum vero nec cum fallo, ex quo voluit habere hanc conclufionem,
in vocefunt quedam cum vero vel falso, quadam non cum ve.. ro aut falso. modo
addit minorem dicens, nomina ipsa verba similia funt intellectui, qui elt line
compositione et divisione. hoc eft nomina et verba sunt voces fimplices:
fubaudi conclusionem. igitur fignificantabiq vero de falso. Illa itaque
particula illativa igitur, addita elt vt notaretur conclulionem
contine- ninhac minori, propterea fupplet exemplum dicens: vthoc
nomenhomo aut album quando non additur aliquid, nam nullo illis addito, nondum
corum, ali- Sigum, qued falfum, aut verum eft. Rem hane
Ariltoteles confirmare videtur figno, quod poteft loco à maiori fic formari. fi
aliquod no-men fé folo fignificat cum vero aut falfo maxime effet
hircoceruus. Tunc dat oppofitum confequentis di. cens: fed nondum
verum aliquid aut falfum: nifi elle aut non efle addatur. et hocaut
fimpliciter, aut fecundum tempus. Sicigitur patet nomina et verba
feor-fum accepta fignificare, &e non cum vero aut fallo.
Dubitationer. Sed circa verba textus quarunt primo cur vius eft nomine
compofito, et non entis, Huius caufe poflunt ef- Prima confa
feplures: vt è verbis Ammonij excipi poteft. Primo. quia nomina ciulmodi videntur
potifsimum falfitaté significare: propter partium incompofsibilitatem.
Secundo vt innucret nonfolum nomina fimplicia ad veritatem fignificandam
egere verbo, fed etiam noni Tatia naipfa compofita. Tertio vutur exemplo
in filtis, vt innueret veritarem non folum reperiri in rebus, fed
in Secida duba, his qua funt ab intellectu folo. Secundo quarunt
cur ait compolitionem fignificare cum vero vel falso: et non significare
verum vel falsum . Similiter et nomi-na lignificare fine vero et fallo, et non
ait nomina non Significate ch fignincare verum aut fallum. Dici
potelt e difterunt di fignificare verum, et fignificare cum vero. Nam
hoc nomen verum fignificat verum, vt hoc nomen falfum significat falsum.
quia significant fe: non tamen cum vero: quia fuum significatum non significant
cum ve- Tertiedubi, ro, aut fallo : nili addatur verbum. Tertio
quarunt quid LIZIO vult per limpliciter, aut iccudum tem Primarifie
pus? Reipondent guidam primo o verbum prafens interdum dicit efle simpliciter
vt fubitantiam, ut cum dicitur deus elt.Quandog; tempus tantum, ur dics
elt. Dixit igitur aut fimpliciter, aut fecundum
tempus propter hac. Sed hac expolitio non placet. Nam LIZIO loquitur de esse et
non effe generatim vt funt note extremorum: que abftrahunt ab his.
Expofitor aliterait tempus præsens elie simpliciter. Catera ut prateritum ac
futurum elle fecundum quid:hoc cit fecun-dum tempus. Sed hac expofitio forte
non valeto quia Confutaie quelibet differêtia temporis eft tempus fecundü
quid. Quoniam per aliquid differt ab alijs differentijs. Aliter
Ammonius, quod verbum porcitaccipidu- pliciter. vno modo abfolute, ve
eft, fuit, vel erit,alio Prepria falatie modo cum aduerbijs
temporis: eft nunc, fuit heri, erit cras. Primo modo dicitur simpliciter.
Secundo modo dicitur lecundú tempus,fed vtcung; fit. Textus pater.
Sed contra hac dubitant nonnulli recentiores. vi- 2wste detur enim
nomen vel verbum fignificare cum vero aut falfo. Primo,
quia AD PLACITVM SIGNIFICANT. Igitur posibile eft vnum nomen imponi ad significandum
idem q deus elt. Sed casu posito illa significat cum ve ro vel falso igitur
nomen vipote A.aut a. Secundo hac eft vna copulativa vera, “Omnis homo est risibilis”
8e econtra. Modo hoc elle non potelt nili verbum ccon-tra significet cú vero
vel falso. Sorticole in rehac di Prime palitio. feordant. Nam quidam corum
voluerunt ciulmodi no mina, vt.a.vel.a. lignificare polle cum vero aut falfo,
et confequenter concedunt elle enuntiationes aut pro politiones.Hoc probant.
quia concedenda aut negan-da funt enuntiationes vel propofitiones: fed hac funt
concedenda vel neganda, aut dubitanda. Igitur funt Secunda
pifio enuntiationes. Alij timpliciter calus hofce nullatenus amitunt, et ita
negant a. efle propolitionem. vel verum, aut falfum fignificare vt per verba LIZIO
vi-detur, et per rationem:quia funt implicia: qua nunquam cum vero,aut fallo
fignificant, nili addatur effe vel son efle. Sed hac folutio ftare non
potelt: quia vbig; LIZIO accepit litteras pro enuntiationibus: vt in do
priorum frequenter. Alij concedunt hos cafus, quod videlicet. s. vel.a,
possunt, fignificare cum vero vel falso: fed dicunt ciulmodi non effe
enuntiationes, aut propolitiones, quia non fignificant cum vero vel falfo per
modum complexi. Sed hoc videtur dificile. nam cuicung; competit ratio
fignificandi ci debetur modus. Quare fi his competit ratio significandi
complexa, criam et modus debebitur. Propter hec videtur Refepreprie. mihi
elle dicendum nomina et verba quo ad primam corum impositionem non fignificare
nifi incomple-xum,neque cum vero, neque cum falso. Quo vero ad novam impositionem,
cum fint AD PLACITVM possunt fignificare cum vero vel falfo, nunguam tamen
erunt propolitiones, aut enuntiationes. Propterea non valet. A significat cum
verovel fasfo, igitur est propofitio aut enuntiatio. Oportet enim addere in
antecedente g significet ex prima impositione, et non ex nova institutione.
Etper hac verba LIZIO et Alexandri rationes poflunt moderari. DE
NOMINE: Quad fit npe usJrparata Cum interpoluit communia
quedam, e quibus de genus et differétias nominis nancifci pollet, núc de
no mineipfo aggreditur. Sed videtur ordinem cuertif- se, nam
in lbro priorum egit de propofitione antequá deter-determino, modo ita fe
habet nomen ad enuntiatio nem, vt terminus ad propofitionem. Secuido,
do- Etrina debet ènotiori incipere. Sed nobis funt prius notatota, vt in
physica traditur auscultatione, igitur prius ab enuntiatione, que est totum,
quam è nomine &e verbo: que funt illius partes. Et fi de nomine 8 verbo
prius quam de enuntiatione ipla, cur prius è no-mine? Ad primum quicquid, velint
veteres graeci, LIZIO in prioribus refolutorie procelsiffe,ideo è compolitis
procesit. Nune vero compofitorie, ideo è partibus. Ad fecundum Esculanus
fingit nomen elleve materiam, verbum verovt formam. fed quia materia
precedit formam, ideo è nomine. Sed hoeftare non potest: quoniam materia
non eft fcibilis, nifi per analogiam ad formam, vt in auscultatione physica di
tum eft. Igitur èforma ipsa, et con- Saunde An sequenter è verbo
procedendum esset. Ammonius ait nomen ipfum fubftantiz modum detinere,
verbum Confilatio. vero accidentis. Modo substantia efo prior
accidente. Necimihi placet hoci quia lubitantia non nifiper cognitionem
accidentium cognofcitur. Ideo dicen-dum nomen ideo effeprius tradandum, quia
facilius cognolatur. nam verbum abique ipfo nomine co-gnolci non poteft.
Significat enim esse: quod fine extremis non eft intelligere. At nomen iptüm
cum fit absolutum quoddam: intelligi potelt abíque verbo. Quantum autem
ad verba dicibus inventur ounquodlatine el, tum grur, sco ergo et rationabiliter
profecto, ve videlicetannotaret definitionem ciulmod ex diuifione proxime
factacol lectam effe. Hac enim est regula definitionum inue-niendarü, vt
Sexto Topicorum traditur. et fecundo po Iteriorum, vt poft dinifionem
fiat partium compofitio. vti conclusio. Qua ratione procefsit hic. Diximus enim
voces anima pafsiones lignificare: 8c cum nomina pal fonesilliumodi delignent:
voces crunt fignificatiur. Vode genus ipfüm Ariftoteles naCtus eft.
Dechiratum eft etiam omne SIGNIFICANS EX POSITIONE ET NON NATVRA SIGNIFICARE AD PLACITVM. Quod graece est
fythece latina FEDVS, PACTVM [– cf. Grice’s High-Way Code, Deutero-Esperanto],
INSTITVTIO, AVT PLACITVM. Sed cum constet nomina significare EX POSITIONE,
iu re AD PLACITVM SIGNIFICANT. Rurfum declaratum est nomen significare fine
vero et falso: omne autem sic significans est sine tempore significativvm: 8e
quius nulla pars se or- ipum significat. LIZIO itaque hac omnia considerant,
per modum consequentis definitionem nominis deduxit. Multa alia hic recentiores
addunt, que, quia patent omittimus. Pater In nomine nim, quod et
equiferus: equas ipse nühil mis se refien ac erple mibel fio
per se significat, quemadmodum in hac oratione, equus Eficant. e
Jerus. Erat vitima definitionis pars, e nulla nominis particula seorfum separata
aliquid significet nunc illam exponit. Et maniseltat hanc vitimam definitionis
particulam in nominibus compositis. in quibus, vt inquit Ammonius, minus
videtur, vt quasi syllogizet è maiori ad minus. Nam in hoc nomine, quod est
equiferus, pars hac “ferus”, aut equus feorfum nihil fignificat: quemadmodum in
hac oratione: “Eqvvs sft ferus”, aut eqvvs ferus. Quantum ad graeca
verba attinet, verbum equiferus graece elt “calippus”, à “calos”, quod latina est
“bonus,” et “hippus”, ‘equus’, sed quia minus sonat “equibonus”, ve-equiferus,
BOEZIO et alii tranftulerunt “equiferus”, Et vbi BOEZIO (si veda) transulit
“ferus” ipsüm nihil per se significat. Graece legitur “equus”, sed non
refert. Amplius verbum illud quemadmodum in hac oratione “equus ferus”: potest
legi cum verbo, sic: “Eqvvs eft ferus” et abíq; verbo: “Eqvvs ferus.” Solum enim vült habere quod pars nominis et si significet
feorfuminon ita significat, sicut quan do crat in oratione. In capit autem
particulam definitionis vitimam exponere: quia, vt ex Ammonio colligitur, hac
particula eft vt caterarum finis, e omnibus principalior. Modo finis est
intentione primus, de ctiam cognitione. Verum non quemadmodum in simplicibus
nominibus, fie fe habet etiam incompositis. In illis enim millo modo
Neminir coi + liet part frar pars est significativa, in bis nero
unt quidem, sed mullius separata sut in eo nomine, quod est “eqviferus”,
particula “fervs.” Sed dices igirur nomina simplicia et nomina com- Cảm.
8. posita non differunt. Ideo respondet, quod differunt. Quia in simplicibus
nominibus pars nullo modocit significativa neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam: at in compositis videtur quidem ali hil feorfum significat.
Quantum ad graecam litteram attinet verbum illud vuir, graece est vouleta. Melius
tamen, vt mihi videtur, sonat apparet, aut videtur. nam nomina composita, ex
quo imposita sunt a conceptione composita, videtur quod illorum partes seorfum
aliquid significent. Nomina vero implicia, cum instituta sint à conceptione simplici,
partes corum feor-fum nec significant, nec significare videntur. Ex
his poteit syllogilmus fsc componi. nullius nomini simplicis nulius nominis
compositi pars significatie- separata: omne nomen aut simplex, aut compositum:
igitur nullius nominis pars significat separata. Minor fupponitur. Prima pars
maioris et secunda declarate funt in textu. Sed querit vtrum alicuius
nominis pars significet separata? Et videtur quod sic. Quia cuiuslibet com. nis
separata fie pofiti ex pluribus nominibus pars significat separa- дерест. ta. Sed aliqua nomina componuntur ex pluribus
nominibus vt “eqvifervs,” de id genus. Omnesad quæstionem et
graeci et latini conveniunt partes nominis comparari posse ad totius compositi
intellectum, aut in ter fe. Primo modo nulla significat separata, nif in
oratione homo est bonus. Seorfum enim illud idem partes ha significant, quod in
oratione tota significabant. Et hoc modo intelligit LIZIO. Nam licet “eqvvs”
et “ferus” forfum aliquid significet, no ntamen ad intellecum totius. Propterea
inquit Ammonius, nullum nomen componi pluribus è nominibus, quatenus nomina sunt,
sed quatenus tranfeunt in vim syllabarum. “Eqvvs” enim et “ferus” in hoc nomine “eqvifervs,” syllabarum
vices detinent. Averroes autem in paraphrafehu solsin AuT-jusloci vtitur alijs
verbis, quéd partes nominis nunquam per se significant separata, sed per
accidens: quod est dicere: non quatenus sunt partes nominis, sed quatenus
scorsvm sunt, transeunt in 'vim non num. At in oratione partes feorfum
idem significant, quod in oratione, quia vtrobique quatenus nomina funt.
Xamine fint Ad placition uero: quoniam mullum nomen eft fus natue
Pady fo,ud ra ann ed eun fo significantnang or illieratifoni, ue qui
ferarum: quorum tamen nullum eit nomen. Nune tertiam explanat
definitionis partem. Nam primam, quod nomen fit vox et significativa ex his,
que communiteraccepit, vult elle manifeltam. Illam vero, quod finetempore
ex definitione verbideclara- bit. reftat igitur vt tertiam exponat.
Quantum vero ad graeca verba attinct, animaduerte, quod. verbum
verbotransferendo littera LIZIO eft, SECVNDVM PLACITVM vero: quoniam natura
nominum nihil elt, fed cum fit NOTA, nota cnim graece eft SYMBOLVM, latine
etiam SIGNVM. Sed cum hac litera ad verbum translata minimefonet, ideo
tranftuli AD PLACITVM vero: quoniam nullum nomen eit lua A NATVRA SIGNVM, sed
cum sit EX INSTITVTO. Hoc enim differt &à rebus, de AB ANIME PASSIONIBVS, vt
diximus. Et quod natura fignificans non sit nomen exemplo à fonisani-malium
perluadet, de inquit. Significant nanque fua natura et illiterati
font, ve qui FERARVM: quorum ta-men proprer significationem, quam habent
naturat lem y nullum est nomen. Igitur, NOMEN AB INSTITVTO SIGNVM ESSE DEBET: 8
hae ratio valet, fue fit locus à findliun/ contrario, fiue fit locus è simil,
sive aliter. Animinomme son maduerte quod animalium tom dicuntur “agrammatoi”,
hoc elt “illiterate.” Quoniam scribi non possunt: de A NATVRA SIGNIFICANT. Quia
codem modo est in omnibus animalibus. Habet
enim a natura animal ipsum per fuz vocis sonum SIGNIFICARE AFFECTVM [Cf. Grice
on Darwin, The expression of emotion in man and animals]. Quare
propter duo ciufmodifoninomen eifenon pofiunt. rum quia illiterati, tum quia è
natura. Recte igitur diêtum est ad placitum. Mouent qualtionem ex
Alexandro talem. verba sunt voces, voces sunt nomina; igitur, verba funt
nomina, conclufso falsa: et non pro maiori, igitur pro minori. Respondet
Ammonius, quod nomen et verbum sunt voces secundum materiam, vt archa est lignum
fecundum materiam. Materia enim nominis et verbià natura est, vz VOX. Forma
autem nominis ab arte atque institutione, ve archa . quo quidem ad materiam a
natura eit, quo vero ad formam ab inititutione ac arte. Sic nomen quo ad materiam est res naturalis, quo ad
formam est res ab ar-teevtigitur non valet, hgnum est à natura, ianua est
lignum; igitur, ianua est à natura. Obijcit autem huie Ammonius: quoniam si
nomen est ab insttitutione, de non a natura: tunc SIGNVM aptius in nominis
definitione caderet quam vox. Respondet ipse hoc esse
factum: quia in definitione accidentis in concreto debet poni subicectum loco
generis, et accidens pro differentia. At cum nomen accidens sit voci, ideo di
citur nomen est vox Sed hzc repontio nen mihi placet. Primo, quia li nomen esset
forma artificialis, tunc esset quid additum voci. Hoc autem falsum
elt. Nam aut erit substantia, aut accidens i non substantia vt patet. si
accidens: non absolutum, ve patet. nec relativvm: quia tunc esset relatio
realis. nam fundamentum reale est ve vox ‹ terminus realis vt RES SIGNIFICATA. Amplius
nomen videtur absttractum. igitur in definitione debet cadere subiectum in
obliquo. Selatio apris, Videtur igitur mihi nomen ipsum nihil aliud esseni-li
VOCEM ARTICVLATAM CVM INTENTIONE SIGNIFICANDI ALIQVID PROLATA [H. P. Grice: “He
uttered x thereby intenind to mean that p”]. Vt enim vrina est SIGNVM SANITATIS
nullo addito sibi: sed quatenus ab intellectu efficitur SIGNVM SANITATIS. Sic vox
est nomen nullo addito. Sed quatenus ab
intellectu instituitur AD SIGNIFICANDVM. Sin-dapfus enim non nomen est. Sed si AD
SIGNIFICANDVM INSTITUITVR: fiet NOTA SIVE SIGNVM: qua ratione nomen fet vt BOEZIO
(si veda) inquit, &e hoc inquit LIZIO cum ait: quoniam naturaliter nomen
mhil est: fedi quando fit NOTA, et ita nomen est vox fecundum materiam et
formam sic instituta vel sgnums Tunc ad argumentum Alexandri dicerem ibi
elie deceptionem propter accidens: vt non sequitur homo est animal, animal cit
dictio. Igitur, homo est dictio. Aut non fequitar. homo est animal, animal est
genus. Igitur, homo est genus. Variatur enim veforticola
fentuntlippositio. Nam, in prima, “animal” supponit formaliter, in fecunda
materialiter cideo non valet.. Sed dubitát graci. nam LIZIO ait
nominum naturaliter nihil efle . hoc eit nominum significatio non est
naturalis. ACCADEMIA vero et Soctates in CRATILO volunt nomina e natura ipsa esse.
Etita ifti font contranj: quod apud graecos habeturre motum. Circa hane
dubitationem quidam, vt Ammonius Pelitiones. Narrat, voluerunt
nomina esse simpliciter de omnino ab institutione: et nullatcnus e
natura, cuius opinionis fuerunt Hermogenes: e discretus Diodorus. Alay diserunt nomina elle simpliciter A NATVRA, quatenus sunt
rerum naturales SIMILITVDINES. Cuius positionis fuerunt CRATILO haredeus: atque
Heraclitus ephesius. Ammonius voluit nomina ipsa esse naturalia
quantim ad etymologiam . nam omne nomen vult esse impositum è proprietate
repertainre. vt lapis quasi pedemledens: et petra quasi pedetrita.
Quantum vero ad significationem ipsam ab institutione sunt, Et ficinter hos duos
confultat. Et si dicitur viam rem naturalem plura nomina habere. Respondet,
quia à diversis proprietatibus nomina diversa nancilcitur. Sed
pacchorum hoc ftarenon potest. Primo, quia tunc nullum esset æquivocum à
calui, nam omne nomen significaret a proprietate rei, et ficcanis esset
analogum, et non æquivocum casu. Secundo vtin natura
accidunt casus, quorum nulla causa potett darinili per accidens, ita et in
arte. de per consequens possunt dari nominaà calu, nullaque rerum
proprietate. Er videtur hac sententia LIZIO ani primo elenchorum voi
inquit. nomina quidem finita funt, &e ora tionum multitudo, res autem
numero infinita: necef- fe cit igitur plura eandem orationem et vnum
nomen fignificare. Propter quod mihi videtur elie dicen- Solitie
proprie dum in vniuocis et fpeciebus nomina effe omniaim- polita fint,
«* quineca nen 2 mologia: licer in multis illa nos lateat. In
aquiuocis vero et fingularibus nomina effe cafu affero. Vnde BOEZIO (si veda)
in pradicamentis. commento primo. inquit. æquivocorum alia sunt casa, alia consilio:
casu ve Alexander Priami filius : e Alexander magnus. Augustinus Aurelius: e Auguitinus Niphus [“His
favourite example was his self!” – H. P. Grice]. Casus enim id egitvt idem
trilque nomen imponcretur. Du- fint in mente, bitant forticole :
vtrum nomen in mente fit nomen. Videtur quod non per LIZIO
definitionem. namnomen eft vox. In mente autem nulla eft vox. Pro ala parte eft
quod nomen prima et fecunda, vt di-cunt, intentionis est in mente. Amplius in
mente eft cnuntiatio,fed omnis enuntiatio conftat ex nomine et verbo. Igitur in
mente funt nomina& verba. al mio fal cendum apud Boetium in
pradicamentis, capite de fubftantia. in mentenon elle orationem, et per
consequens nec enuntiationem. Id autem, cui fubordi- natur oratio fiue
enuntiatio graceefologus, latine in- terior ratio appellatur. Enuntiatio vero ipfa grace elt - exologus : hoc
eit exterior ratio. Apud enim graecos logus est communis rationi et orationi.
Apud nos vero interior ratio vno nomine vocatur vt ratio, ex-terior ratio vero
oratio. Tunc dico in mentenec effe enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec
verba, fed bene conceptiones compositas et simplices. Compositas quidem quibus orationes
fiue enun tiationes ipfe fubordinantur, fimplices vero quibus nomina et verba:
et ita concedo in mente non effe nomina neque verba: fed fignificationes,
quibus Nullum oft no hacfubordinantur. Ad
argumenta in contrarium fecie, fa patet folutio i nellam enim elt nomen
prima autfe. cunda intentionis, licet fit nomen prima aut secunda impositionis.
Onine enim nonien cit ab impositione. Ad secundum patet folutio in mente
eitratio, in voce oratio fue enuntiatio, qua ratio- nilubordinatur.
Ipfion vero non bomo, non nomenet,, fed nel neque Nenfe onbi nomen
pofitum ift, quo ipfum appellare opertet. Nes в finE не que
enim e/t oratio, neque negatio, fed nomen nocetur ambiguum. O goniam fimiliter
in quolibet eft, co co quod +/, c co guod non eft. Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod
tunnonhomo, et id genus, Catonis et id genus ef- fentnomina. Nam his
competit definitio data. Refpondet LIZIO de excludit duo à ratione
nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus. nominum: et lic definitioni
date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di-
Accipit igitur duo - primum quod non homo et catera id genus non funt
nomina. Secundo quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. et
hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum,fed vel neque
nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc eft fecundum. Hec
perordinem declarat, et primo quod nonfit el nomen impofitum. Videturenim cum
duobus con - uenire. cum oratione propter complexionem : et cum negatione
propter particulam negativam. ideo probans secundum inquit. Neque enim eft
oratio, seque negatio. Deinde probat primum: et fingit il- li
nomen, quo nunc appellari liceat et inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi
fingere liceat ambiguum: quia vt dicit, et quod eft, et quod non eit in
oratio-ne rerum fine difcrimine vllo lignificat: 8 hocinquit. Quoniam
fimiliter in quolibet eit, et co quod elt: o co quod non et. Hircocervvs enim
non homo est, Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca
verba attinet ambiguum graece est aorilton: quod latine non eft infinitum.
Nomina cim graeca fune diuersa. Graeci enim infinitum dicunt apeiron. Ambiguum
quod indifferens cft ac innominatum aori-nomen est vox. In mente autem nulla est
vox. Pro ala parte est quod nomen prima et fecunda, vt dicunt, intentionis est
in mente. Amplius in mente est enuntiatio, fed omnis enuntiatio constat ex
nomine et verbo. Igitur, in mente sunt nomina et verba. al mio fal cendum
apud BOEZIO (si veda) in pradicamentis, capite de subftantia. in mentenon
elle orationem, et per consquens nec enuntiationem. Id autem, cui subordinatur
oratio sive enuntiatio graece “esologus”, latine INTERIOR RATIO appellatur. Enuntiatio vero ipsa graece est “exologus,” hoc eit:
EXTERIOR RATIO. Apud enim graecos “logus” est communis rationi et orationi.
Apud nos vero INTERIOR RATIO vno nomine vocatur vt ratio, EXTERIOR RATIO vero
oratio. Tunc dico in mente nec esse enuntiationem, nec orationem, nec nomina
nec verba -- sed bene CONCEPTIONES compositas et simplices. Compotitas quidem
quibus orationes sive enuntiationes ipse subordinantur, simplices vero quibus
nomina et verba: et ita concedo in mente non esse nomina neque verba – SED
SIGNIFICATIONES, quibus Nullum oft no hac subordinantur. Ad
argumenta in contrarium fecie, fa patet solutio i nellam enim est nomen
prima aut secunda intentionis, licet sit nomen prima aut secunda impolisionis.
Onine enim nomen cit ab impositione. Ad secundum patet solutio in mente
eit ratio, in voce oratio sive enuntiatio, qua rationi subordinatur.
Ipfion vero non bomo, non nomenet, sed nel neque Nenfe onbi nomen
positum ift, quo ipsum appellare opertet. Nes в finE не que
enim e/t oratio, neque negatio, sed nomen nocetur ambiguum. O goniam similiter
in quolibet eft, co co quod +/, c co guod non eft. Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod
tunnonhomo, et id genus, Catonis et id genus essent nomina [FLATVS VOCIS]. Nam
his competit definition data. Respondet LIZIO de excludit duo à ratione
nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus. nominum: et lic definitioni
date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di-
Accipit igitur duo - primum quod non homo et catera id genus non funt
nomina. Secundo quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. et hocinquit,
ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum,fed vel neque nomen pofitum
elt, quo iplum appellare oporteat. hoc est secundum. Hec perordinem
declarat, et primo quod non fit el nomen impofitum. Videturenim cum duobus con
- uenire. cum oratione propter complexionem : et cum negatione propter
particulam negatiuam. ideo probans fecundum inquit. Neque enim est
oratio, seque negatio. Deinde probat primum: et fingit illi nomen, quo
nunc appellari liceat et inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat
ambiguum: quia vt dicit, et quod est, et quod non eit in oratione rerum
fine difcrimine vllo significat: 8 hocinquit. Quoniam fimiliter in
quolibet eit, et co quod elt: o co quod non et. HIRCOCERVVS enim non homo eft,
Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca verba attinet
ambiguum graece est aoriston: quod latine non est infinitum. Nomina cim graeca
fune diversa. Graaci enim “infinitum” dicunt “apeiron”. Ambiguum quod
indifferens est ac innominatum aori-guum propter quandam indifferentiam ad id
quod eft et ad id quod non eft: et per hoc differtà nomine communi i quod
licet fit indifferens, non nisi is que funt fub eo indifferens eft.
Differt tamen aoriftatio tranfcendentis ab aoriltatione termini
predicamentalis: quia acriftatio tranfcendens eft fecundum quid illa
pradicamentalis fimpliciter, vt didum eft. Echa dubitatio.
Querunt ctiam, vtrum enuntiatio pofsit aoriftari? Iamblicus Platonicus orationem
fiue enuntiationem aoriftari polle contendit propter aorilta- tionem
fubieti aut predicati fue nominis aut ver- Viram aratio bi, motus
fortalle, quia quod parti contingit inef- valea infni fe, toti quoque
accidit: ve quinto Physicorum hafari. betur, vbi enim capiti crifpitudo
inest, et homini inesse necesse eft. Confatatio, Sed hoc fare
non poteft. ait enim neque enim oratio neque negatio eft: sed omnis finita.
Rurfus in capitulo de nomine de verbo nomen 8e vetbum aoriftari afferit, nullbi
tamen orationem. Balutio sprie. Tenendum igitur nullam orationemi
nollamque cnuntiationem aoriftari posse. Tuno ad rationem pro iamblico dico
quod omne quod parti inest ne- Oratienen pir cefle est toti inesse. Non
tamen quicquid partem infuir. de nomina, necesse eft totum ipsum
denominare: nam albedo dentes denominat athiopis, nequa- quam
athiopem. Dubitant et ad huc forticola: quia videtur nomen ambiguum esse
nomen: quia valet est nomen ambiguum tigitur nomen ab inferiori ad suum superius.
Respondendum non valere: ficut non valct, est
homo mortuus: igitur homo . itemque nec valet, eft albus dentes: igitur
albus. Non enim argui - tur ab inferiori ad fuperius, sed a secundum
quid ad fimpliciter. olioul cafir a nomicie rine Ipsum
nero “Philonis”, aut “Philoni”, co catera id genus non minima fant, sed nominis
casus. ratio autem cius in alits quidem est cadem, quancuam differunt.
Nam est, aut fuit, aut crit addideris, neque verum
neque falsum est. nomen uero ipsum semper, “Philonis” est, aut
non est, non dum verum aut falsum dices. Quidam, vt PORTICO, casus esse
nomina, et rectum esse casum concedunt. Rectum quidem casum,
quia e mente ipsà cadit: et ab ipso cateri casus. obliqua vero nomina, quoniam
voces sunt SIGNIFICATI un AD PLACITVM sine tempore. Excludit igitur casus ipsos
è nominis ratione, et inquit, ipsum vero “Philonis” aut “Philoni” NON NOMINA
SVN: sed nominis casus – H. P. Grice: “Ryle – with his ‘Fido’-Fido theory of
meaning – woud agree! -- Addir tamen convenientiam inter casus et nomina, et
differentiam: et inquit, ratio quidem cius, hoc est nominis: qua
pauloante generatim AD-SIGNATA est, in aljs quidem eadem est: quasi
dicat, quod ratio generalis nomini, qua proxime AD-SIGNATA est, vna eit
nomini ipsi, atque casibus quan-quam differant. nam cum ipsis casibus est, aut
fuit sut crit addideris, neque verum neque falsum eit, nomini vero ipsi, cum supple
addideris, semper verum aut falfum dices. ve “Philonis” ipf est, aut non est
cum addes, nondum enim verum aut falsüm dices. Nomen igitur et casus nominum
conveniunt in ratione nominis generali, differunt autem et quoniam nomen
addieum verbo cit., semper reddit orationem aut veram aut falsam. Ex his
vult habere Definitie LIZIO, hanc esse nominis definitionem. nomen est
pajada. VOX SIGNIFICATIVA AD PLACITVM, cuius nulla pars significat separata,
determinata, atque recta: per hanc rationem habetur tota nominis essentia. Per
hac patet solutio ad rationem PORTICO. licet enim rectus cadatè mente, non
propter hoe dicitur casus. dicetur enim etiam verbum habere casus: sed id
dicitur casus, qui ab alio cadit per inflexionem, vt BOEZIO (si veda) et
Ammonius addüt. Curvero vsus Dubiationes est verbo substantivo, curúc generalem
pramifit nominis rationem, Ammonius, è quo expofitor no- Iter accepit, facile
declarat: nam substantivo vius est, quia cum cateris verbis cafus faciunt
nonnunquam orationes veras. Pramilit vero rationem
generalem, quia doarina incipit ab vniversaliori, adiecit specialiorem, vt
generalem compleret. Animaduertendum quod Auerroes, in paraphrase buius
capituli velle videtur quod tam nomina ambigua, qua vocat infinita, quam cafus
nominum, sint nomina: de hoc ideo dicit, quia vult nomen dividi in hac. Omne
autem diuifum predicatur de dividentibus. Sed quia hoc videtur contradicere ver
bis Ariftotelis pro verificatione littera : vult hac non effe dicenda nomina absoluta,
nam propter excellentiam videtur rectum nomen: et determinatum nomen esse
nomina: quia videlicet in illis nominis ratio praftantius faluatur: et ita vule
hac elle nomina non privationes nominum, licet abfolute dum nomen profertur de
potioribus intelligatur. quemadmodum accidens eft ens, et substantia est ens:
verum ens absolute intelligitur principaliter de substantia. Principaliter igiturnomen dicitur dere-eis et determinatis
fiue finitis, licet communiter de verifque dicatur. Multa captiunculatoreshiefa-bulantur, qua cum puerilia sint,
pratereunda elle diludico. Multa quoque de nominis dittinatione Ammonius
addit: que cum fint potius gram-matica dieta, grammaticis relinquantur. Hac de
nomine. Ratio uero est vox significativa, cuius partium alis qua separata significatina
est, ut dicio: sed non ut affirmatio, uelati “homo” significat quidem aliquid,
non autem quoniam fie, aut non fit: sed crit affirmatio aut negatio fi quicquam
fibi adideris ana vero hominis fllaba mullatenus significat, non enim in hac
dictione “sorex”, “rex” significat sed tantum nunc vox est:i n compositis vero signifiacat
aliquid sed ut diximus non pro fc. Сет. Illud, vt diximus, quod principal hic
perquiritur, elt enuntiatio: huius partes et materia nomen, videlicet. et
verbum declarata sunt, pars vero veforma, qua eit ofo, nunc declarator cur vero,
vt Ammonius dubitat, non co ordine rem affecutus eit quo in prohemio pol-Nas
licebatur, dictum est. Anima ducrtendumigitur, gno mini et verbo et ofoni
cóia sunt vox, SIGNIFICARE, ET NON PER NATVRAM, SED AD PLACITVM, vtrum vero
catera particula, vt fine t pe, vel cum tpe, an rete et determinate
fucaoriftice, ii ex diftis patet : differt aut oño ab vtroque: qm illius pars significativa
est ve dictio, nois vero de verbi non nili per accis, vt diximus, in definitione praterijt an A NATVRA SIT ofo
ipsa SIGNIFICATIVA, an AD PLACITVM, quia de hoc erit poftea difputatio. Apponit
ait illa duo vt q fit vos et fignificativa, vt habeat genus. proximum,adiecit
cuius pars fignificat vt dictio, &c nó vt afirmatio vthabeat differentiam:
qua differt è nomine et verbo. Prime
dubs. Sed ad intellm huius definitionis dubitemus de lin- An oratio
fit gulis. Et primo, vtrum ofo fit vox: et videtur o nó:
ofo Refonio fer non est una vox sigitur non est vox. Antecedens
arguitur: oratio eit muita voces – MVLTA VOCES NON SVNT UNA VOX; sigitur; oratio
non est una vox. Rident forticula concedédo e oratio elt multa uoces, de
ulterius p plu res sive multe voces sunt vox fuc una sola uox, quem admodum
plures hoies sunt unus solus hó, et oita fit probant: quoniamhac vox est una sola
vox, et illa vox est una sola vox. Igitur
hac vox, et illa vox sunt una sola vox. Sed hac vox et illa vox sunt plures voces.
Igitur, plures voces sunt una sola vox: et fie concedút plu res voces esse unam
solam vocem divisive, utd iêum elt. Sed dices contra hos, quia li plures voces sunt
una sola vox, igitur per conversionem in parte una sola vox esset plures voces.
Amplius plures voces non sunt hae una sola vox, nec illa una sola vox;
igitur, nulla una sola vox: et per consequens plures voces non sunt vna sola
Definio, vox.. Respondêt forticola et defendunt partem fuam 9 pradicatum illius
propositionis, plures voces sunt vna sola vox, confunditur propter vim
copulationis, qua includitur in verbo illo plures. Refoluitur. n. plares lie, et
illa 8e illa, vt diximus, mo nota copulationis habetvim confundendi, dita negant
conversionem, quia variatur suppofitio. In prima illa particula “vox” supponit
confufe; in secunda determinate. Et si dicatur quomodo convertitur, quare ipsos,
quia est extra propositum. Ad fedam dicunt, eplares voces nulla vna sola vox sunt,
qí nec illa nec hae. cum quo ti flatg plures voces fint vna sola vox, qí in
hac, iste terminus “vox” stat confusetín, in illa determinate aut diferete: pP
quod ha non contradicunt plures voces sunt vna fola vox, et plures voces nulla
vna sola vox sunt, cum termini non codem modo supponant. Quanquam hac
fint acute dicta, et non possantim probari, fcasno esse LIZIO di (ta, nec
necellaria, nec in talibus captiun-colis debemus detineri. Multi. n. vt logicam feruêtad vaguem amittunt philosophiam,
et mora in his impe-dit hominem feire veritatem. LIZIO igitur dicerent op
oratio est vna vox vnitate verbi, de ficpôt dici plures voces simplices, na
vero composita ex ilis proprer vnitatem verbi. Aliqui
dubitant fecundo cur di . Secunda duba. xit in neutro genere, cuius partium
aliquid significant Contra The. separatim, et non dixit cuius pars aliqua
signiticat separata. Hac dubitatio procedit ex ignorantia graecorú verborum In
graaca .n. ;ingua pars, que graece “meros” dicitur, neutri est generis, ideo ad
nos debetvenire, cuius partium aliqua separata significat s &rita poderatio
expositoris frivola est, vt multa alia. Tertio dubitat Tetie
dubi. Afpafius contra illam particulam ve dictio, qi alicui competit
definitum, cui non competit definitio. Na hypothetica est oratio, 8e tó partes
cius significant, vt orationes. Ridet Porphyrius hic esse diffinitam solam
orationem simplicem, co quia prior in omnibus reperitur: cui relponfioni etiam
Alpafium confentire ferüt. Obijcit huic, vt mihi videtur, BOEZIO (si
veda): on definitum non debetelle in plusquam dehnitio, Igitur cum
oratio sit communis simplici et compolita: dehnitio etiam di cit esse
communis. Sed hac rônon cogit: dicerent. n. gy licetortio quatenus oratio
sit cois simplici et composite, ta quatenus hic defcibitur non converit nisi
simplici perle, quia cotrafte et no coiter hic defcribit. Miliusigif
contradico eis: quia LIZIO poftea diuidet oionem in enuntiativa, et non enuntiativa,
et enuntiati uam rurfus diuidet per simplicem et compositam: et nullibi
iam ipsam compositam definit alia definitione, igi tur vult cam effehic
definitam. Secundo oño comper sinato tit vniuoca, simplici, et composita:
igitur debet dari vna definitio communis vniuoca, et nullibi dedit
llamsigi turefiet mancus. Alex, vero et Ammonius refpondét
Refienfie.s. p hac definitio eft cois omnibus vt iplum definitum: namêt
oratio compolita haber partes que lignificant, vt dictio. Huic
opponuntalij ve Philoponus et Syrianus, quia Arift.ait vt ditio:& non
vtalfirmatio.mo ofo compofita habet partes qua fignificantut affirmatio:et ita
male adiecifiet, et non ut affirmatio. Alij foluunt o dietum philofophi
debet intelligi luppiendo fic, ut dictio neceffario, et no necellario ut affirmatio,
et sic competit omnibus. Ego aut dico pace tantorum fe/priepre dixerim o LIZIO
dixit ut dictio: qin licet partes oratio-nis compofita fint orationes, th non
ut orationes, fed ut dictiones lignificant feparata: &c hocfatis. Dubitát
Quarte dubie quarto, curadiecit ut dictio et non ut aftirmatio, fatis
chim fuifet dicere ut diêtio, nunquam enim dictio elt afirmatio.
Repondent quidamiquia LIZIO folitus est nonnunquam dictionem pro
affirmatione accipere: ne igitur ufus impediat, fuppleuit et non ut aftirmatio:
et SIGNANTER ait, et non ur affirmatio, quia negatio addit ad affirmationem,
propterca fi non ut affirmatio fatis habetur etiam ep nec ut negatio. Hac
refponlio fic dia, f el alicuius expolitoris graeci, tacco, gán ipli
yerbaverba LIZIO melius intelligút, et verecundú est pugnare contra graecos de
verbis gracis. Hoeti non tace- botg vbig; LIZIO di diftione vocat -
gracce phafim vocat:affirmationé vero cataphafim. Sin aliter no me mini me
legitie, no ti nego cataphalim compon ex ca- Nie apria ta et phalis. Ideo
dico et fuppleuit nó vt aftirmatio, ad DE-NOTANDUM partes orationis vt dixi
posse significare vt af-firmatio: sed LIZIO, vult no licintelligere led
quatenus habent vim dictionis. Hoc.
n. fuppleuit propter orationes compositas: cuius partes funt affirmationes: sed
non vr affirmationes: sed vt dictiones significant. Viti mo
quarit Philoponus: vtrú hc definitio competat solum orationi perfetta? Ridito
foli perfeta hec competitiqí partes non dicuntur nifi in relatione ad totú:
totum aût et perfectú ide: et cú oratio hie definiatur in relatione ad partes,
videf rationabiliterhie dehnin vt perfecta. Sed contra obijcit BOEZIO
primo: quia omne comositü haber partes, cum aúttam pertecta g impertecta
habeat partes:rationabiliter qualibet crit totú et perfecti. Secundo
tune partes orationis et cu iufg compositi no essent partes nifi in sine
compositionis: quia tunc folum compofitum dicitur effe copofitú. Mihi
videf orationes ha non militent: quia nó dicit aliquid cópolitum, nili propter
forma et materia, cum orationi imperfetta defit aut forma aut materia, aliter
effet pfecta, rationabiliter no dicit compolitú nec totum: Tunc ad rationes
dico: ep oratio imperfecta no eft totum, qui vel caret verbo fimpliciter vel
verbo principali: 8 p consequens caret forma: 8e ficnec eit compositum
nec totá, fed quada, vocum multitudo. Ad secundum dico, partés non sunt partes
nisi pofti est ipsum tot,ante enim dicunt partes in potétia mlngitur
intellectus altu componat subiectum et pradicatim cum verbo. nô erit adtu totü:
et ficnce actu partes, et fic concedo id ad quod deducit, Melius igit cótra
illos poteft obijci, gin ftatim oratione hic definitam fubdiuidit perfectam et
imperfecta: qui rem incogrue egillet, nifi Definitio ena» vtrig;
hãc definitioné elle coem voluiflet. Colligeigi innis abfoluta tur
definitioné oratio vero est VOX SIGNIFICATIVA, cuius partiú aliqua
fignificativa eft feparata: vt di tio, &e non staffirmatio: hoc eft significatione
simplici, non compolita, aut similia. Ori aût aliquid significare vt pars pot esse
dupliciters aur pars copofita, ve in hypotheti-cataut ve syllaba, vt in voce
composita, idco duo facit, Primo declarat o pars ofonis lignificat nó vt pars
co polita, videlicet,no vtaffirmatio vel negatio.Secundo o nec vel syllaba. De
primo inquit veluti homo fignifi cat quidé aliquid, nó aút fignificat o eft aut
non est, sed erit affirmatio aut negatio si sibi quici addideris, hoc eit
verbu solu. Et ficper exemplu patet prima pars. Deinde
declarat secunda, et inquit.vna verohois fyllaba nullatenus fignificat:quod
probat p exemplú et locú à maiori: et inquit. No.n.in hac diétione “forex”, “rex”
significat, sed tín vox eit sola, no habens vim significan- Cotra, tu
dices: quia in compositis ve in “hircoceru” sgnificat pars. Ridet in compostis
noibus significat aliquid ipsa pars feorium, sed, vt diximus, non pro se ad
intellectum totius, cuius erat pars. Sicigif patet ou pars orationis nec significat
vt pars compolita, nec vt syllaba Oratio igitur eft vox significativa cuius
partiú propin quarú aliqua est significativa separata per se quidem vt dictio,
non autem semper vt affirmatio vel negatio. Ордір пра од. Et auten oratio onnis significat ina quidem, non tamen ut
inferanientam, sed quem ad miodom dictum est secundum imturaxin institutionem.
Syllogizabat ACADEMIA in co libro, qui CRATILO inferibi Cámag. tur, ofoné
esse NATVRA, ET NON INSTITVTIONE sic. oro est instrumentum virtutis
interptativa naturaliter nobis ine- xiltétis. Per ipsam.n. SIGNIFICAMVS –
“We, the utterers” (Grice) -- aia affectiones, ceu Pitevais, per instrumentum.
omne aüt instrumentum virtutis naturalis eft natura: veluti virtutis viGuz
oculi, auditiua au res:& eid genus. igif ofo NATVRA, SED NON INSTITUTIONE
est -- hic erat ACCADEMIA fyllogifmus. Huicridet LIZIO et consentit maiori. negat
tá minore.nam virtutis interpreta tiug primü inftrumentú et proprium est
pulmo, guttur, dentes, lingua, et id genus: qua NATVRALIA sunt. ofo vero
est effectus illius virtutis mediamtibus illis instrumétis et ita minor falsa est.
Inquit. Eft aút ofo ois significati- ua quidé, non tamen ve instrumentú, sed
quéadmodá di etü eft )fm institutione, et ita ACADEMIA minor falsa est.
Quantum vero ad verba graca attinet organon, vult BOEZIO (si veda) esse
pofitú pro natura:quia (vt dictú ett) Pla-to omnium artiú inftrumeta fm naturam
ipfari artiú cófiltere ponebat: et ita erit sensus o ofo significat no ve instrumentum.
hoc est naturo Jed/vt diatü eft in capitulo de nome) fm synthecen, hoc eft Pm
inititutione, Gue placita Gue fodus, Giue paciú. Melius ait LIZIO organon
no pro natura pofuit, sed pro inftrumen to:quia perhoc(vt Ammonius et Alex.aiunt)
LIZIO minorem ACADEMIA negareintendit. Sed adhucfo lutio LIZIO non videtur
tuta. ACADEMIA n.quidam Hermippus et Numenius obijciút.na idem videtur de
effectu. Oratio.n. effectus eft virtutis naturalis per in oratio ipfa natura
crit. Secundo, ofo est inftrumentú intellectus, qui eft virtus naturalis. nam
intelleêtus ora tionefignificat, syllogismo, qui ofo elt,
ratiocinatur: definitione, que rurfus oratio eft, definir.Sed
vefupra. omne virtutis naturalis in trumenté eft natura. igitur oro
natura erit, non aut inititutione. Ad hac Ammonius tolutioneinnuit o
quéadmodú in tripudio motus ipsea natura est, modificatio illius (vtita dicã)
ab inflitutione et artificio, ita in oratione voces sive soni natura sunt, modificationes
vero institutione : et ita quatenus voces sive soni ofones natura sunt,
quatenus tales voces institutione formanf. Tuncad rationépri
mam maior falsa est. poteft enim aliquis esse effettus virtutis naturalis per
instrumenta naturalia ve tripudia et esse institutione. Ad secundum ait
Ammonius (p intellectus non cit natura: quonia nullius corporisaCus est:
sed quasi SVPRA NATVRA et sic nihil prohibet virtutis SVPRA NATVRAM esse
eflectú institutione. Sedhzcre- fponfio ftare non pot: quia faltem
intellectus est virtus naturalis: distinguendo NATVRALE CONTRA ARTEM. Igitur
effectus suus debet esse naturalis -- vt distinguitur contra Artem. Propterea
dicendum o artificialium principivm imsoltio peria mediarú eil VOLVNTAS. He enim est immediata causa institutionum
et propterea gg concurrant intellectus et naturalia intrumenta virtutis
interpretatiuz, quia tamen ola subiacent VOLVNTATI, ideo inslitutione sunt
ET NON NATVRA et hoc nefcivit explicare Ammonius, licet forte hoc voluerit
balbutiri. Alexander aphrodifius R5 Ales. enititur probare
orationem esse institutione: quia cuius qualibet pars est insttitutione, totum
institutione oft, sed orationis partes vt nomen et verbum institutione sunt:
igie tota oratio. Hac ratio pace sua petere videtur, quia Plato et Socra in lib. CRATILO volvere etiam nomina et verba NATVRALITER
SIGNIFICARE. Amplius similis qualtio est de nome et verbo: qn ipsa sint
effectus virtu Ri melier. tis NATVRALIS instrumenta
naturalia. Ideo melius a SIGNO idé probari pót: que apud diverfos sunt
diuería institutione esse vident. id. n. QVOD NATVRALE EST SEMPER EST VNIFORME sed
orones apud DIVERSAS LINGVAS diuer-fie spectantur, gaide SIGNIFICENT, itur NON
NATVRA, sed Dubitationes institutione sunt: et hac est sua mel
forratio. Sed circa hac recentiores ambigunt, trú nomen, quod SIGNIFICAT
ALIQVID, SI IMPONATVR DE NOVO AD SIGNIFICANDUM ALIUD, remaneat IDEM NOMEN, verbi
causa, ifud nomen “homo” significat Socratem et Platonem, verum si ponatur AD
SIGNIFICANDUM IDEM QVOD “EQVVS” remaneat IDEM nomen. Secunda
dubitatio, vtrum oratio, que de no no imponitur AD SIGNIFICANDO ALIVD primo significabat,
vt hc oratio, “homo eit animal” -- dato prina rideat non nulli recentiorum
g nomen impositum de novo ALITER AD SIGNIFICANDVM et significabat NON EST IDEM
NOMEN. Hoc probant exemplo: quia sicut ex variatione forma artificialis resultat
alia arg; alia res artificialis, ita ex variatione fignification resultabút
Confutatis. alia atg; alia nomina. Sed hac positio stare non pót. Prima quia
ad variationem cius quod de foris de per accidens accedit nihil debet variari: sed
nomen et verbum SIGNIFICANT EX VOLVNTATEM,ita go significatio deforis accidit
nomini et verbo, igitur nomen per illius variationem non variabitur.
Amplius li ad variationé signification varientur nomina, ad convenientia erit
eadem. Igitur “homo” et “anthropus” erunt vnum nomen: Selatio pra quod
nemo dixit. Ideo dicendum, ey nullatenus varia-pris tur nomen: licet
varietur significatio cum illa fit accidens ipsi nomini. Pót tamen dici
variatum extrinicce, qué-ad modum colúna sit dextra vel finiitra ipso animali
va riato. nec valet: significatio formalis variatur, igif nomen, quia illa est
fibi extrinseca, sicut colúna dextreitas. Ad rationem dico e variata forma
artificialis in. trinfece variatur res artificialis: modo non sic est in
nominibus. Ad secundam midentidem o oratio de novo imposita, significandum non
complexum, vim habet dictionis. Hoc absolute dictum est falsum – QVIA VOLO
“HOMO” SIGNIFICET MIHI equi bos animal, et facio hanc propositionem: “Homo est
bos” -- patet o qualibet dictio et pars significat ve dictio, igif tota non significar
ve di Etio. Amplius hac oratio de nouofic significans est oratios igitur
partes cius significát ve ditiones per deffinitionem datam. Propterea dico quod
oratio pôt imponi ad significandum aliquod complexum de non o dupliciter. Vno
modo ponendo o partes significent, ex quarum significatione resultet significatio
totius, hoc modo significat vt oratio, ve argumenta cogunt. alio modo ponendo q
oratio significet, primo illud complexum de novo nihil de partibus afteredo,
hoc eit non p hoc e significatio cius resultet ex significatione nova partium.
Et hoc modo bene dicunt g› significat vt dictio, quoniam sua significatio non
resultat ex significatione partium: quo in casu non erit oratio, licet partes
lint noia: nec propositio, licet significet complexum, sed dictio erit tín, de
hac re supra disputatum eit. Everationibus Enuntiativa vero non
omnis, sed illa, in qua verum aut falsum est, non ait in omnibus el:ucluti
deprecativa oratio quidem e/ft, fed neg, neraneg; falsa cetere quide igitur
relin quantur, nam ad Oratoria, aut poeflm illarum magis consideratio attinet: enuntiativa
vero presentis contemplationis ed. Divisio enuntiationis, vt BOEZIO est
autor, hac ra- Cim ao. tione sit fumpta oratione pro genere, ofonum
alia im períecta, vt – “Plato in Lycio,” Alia vero pfecta - perfeita
vero(filiceat bimebrem facere.) Alia enuntiatiuv, alia non enuntiativa
qua e; diuisio, ideo p alterum membrum negativum dat, oi subdividentibus
mêbris genus cõe nomen non haber.nó enuntiatiue vero alia elt depreca ciua, ve
adfit letitia bacchus dator. Alia imperativa: vt accipe, daé; fidé. Alia
interrogatiua, vt quo temeri pe-des?an quo via ducit in vrbemiAlia vocatiua, vt
o qui rex hoiumo; deûg, aternis regis imperijs. Enuntiativa Faree
mane vero elt vt dies eft:dies no elt. No countiativari vero fie. {pecies expofitor reducit adtres. on illa
quinqueor- dinata lunt ve vnus ex intellectu alterius dirigaf:quod quidem
in tribus sit modis. Primo adattédendü men te, et ad hoc oratio
deferuit vocativa. Secundo ad re-fondendum voce, et ad hoc facit interrogativa.
Tertio ad exequédum opere, quod etiá trifaria fit, aut pex prefsionem
defiderij, et ad hoc facit optativa, vel refpa Etu superioris, et ad hoc
facit depcativa: autrelpediu inferioris, et ad hoc facit imperativa. Siquis aut vellet poffet reducere etia has ad bimêbré,
qua res cú non multum côferat, fit hoc fatis. LIZIO.itaq;
mirabile brevitate vtens: vt Ammo inquit. tria facit fere infimul. orationem dividit,
enunciativa definit: intentioné ad spēm altringit. Dividés ofonem ait.
enuntiatita vero non ois. Et lic innuit orationú aliá elle enuntiatiui, alia
non enuntiativa. Deinde innuens definitioné inquit. sed illa in qua verum
vel falsum est. eft igit ENVNTIATIO ORATIO IN QVA VEL VERVM VEL FALSVM EST. Ve
vero clarior esset hac definitio subscribit differentia, qua differtà ca teris.
Qua in definitione posita est, et inquit. non aútin cibus est veri, videlicet
vel falsum, veluti depracativa oratio et cretera id genus oro quidé est, sed
neqi VERA, nco; falsa. Deinde abijciés à consideratione piti orationes nó enuntiatiuas
aftringit intentione in fp.m. Nã huculo; de partibus interpretationis: et de
cólipfa oratione locutus est. Et inquit. catera quidé igitur relinquantur, ná
ad ORATORIA SIVE RHETORICA, aut poesim sive poeticam magis illarum confideratio
attinet. Enuntia-tia vero pátis contemplationis est,
qua {pés est ofonis potionhuius vero species sunt affirmatio et
negatio. Hac igitur sunt que LIZIO breuibus cóplexus eft. Quantum
vero ad verba graeca attinet verum vel falsum C falsum in enuntiatione sunt, in
intellectu, atque: rebus. Inre film, bus quidem vt in causa, gn ab eo
quod res eft vel non est enuntiatio sit aut vera aut falsa. Inintellectu
vero, quia intellectus subie tú oium verorum, et ita in intellectu sunt vti in subiecto.
In ENUNTIATIONE VERO IPSA SVNT IN SIGNO, ceu SANITAS IN VRINA. Sed lupradictis
emer gút dubitationes. Prima, videf o LIZIO male definierit enuntiationé per
verum vel falsum: qi verum vel falsum aur sunt dfia, aut propria siquidé
propria non erit bona definitio. si dria, tunc contituit ipés: 8cita p suas
spés definisset. Secunda cur solum de enuntiatione est consideratio. Logica.n.
est (cia cois, igit de oibus. T'ertia de propositione tra @af in lib. priori,
et in lib. polteriori. git non hic de enuntiatione: cuidem fint. Ad primá rádet
Ammonius, g enútiationé signanter definit p verum vel falsum: quia lunt fines
clus: et definitio dat p finé multotiens. totiens. Vel dici pot, g sunt ve
propria, qua ponuntur loco differentiz, qua nobis latet, etiam si sint
differentia et constituunt /pês genus definiri per pés tieri potest, vt
dicit Alexandrus quando vel differentia latent: aut ge-nusnon sit penitus vnivocum.
Ad secundam ridet Theophraltus philosophus o omnis oratio aut instituta
ordinatad; est ad auscultatione auditionege: aut res ipsas. si ad auscultationes
ato; auditiones, sic pertinet ad rhetorem atque poetam, vt ACCADEMIA ofidit in
phedro. et Socrates plilebo. Si vero ad res, fie enuntiatio inflita ta est
ad librum posteriorú et ad feiam: et ita crit propria huic considerationi. Ad
tertiá dici pot, enuntiatio differta propositionesm propolitio ordinatur
ad syllogismus, et quatenus ordinaé ad syliogismum dicitur propositio, qua si
ordinaf ad demonsirationem, ca. sed si ad syllogilmum limpir vocat propositio
absolute. Enuntiatio vero dicit quatenus subordinat
intelleêtui p voces exprimentis de rebus verum falsumume. Et ita diffèrunt
quia enuntiatio est extra menté ti in voce aut scripto: propositio extra et
intra menté, Enuntiatio etia dici pot propositio, et conclulso, et problema:
problema in dialectico syllogilmo, conclusio in demonstratione, itêá; dici põt
qualtio: et id genus: propositio non nili premissa. Hac ti latius explicabuntur
in libro priorum et pofteriorú Quarút rurlus forticola, an eiusmodi propositiones,
tonat, corufcat, lego et id genus funt enütiationes. Secudo an difterat dicere,
ego lego, ego Augustinus scribo, et dicere lego,icnbo. Ad primam rident
non nulli forticole quilliulmodi propositiones, nec sunt orationes, nec enuntiationes:
benetn sunt complexa quedam in virtute. Moventur aurem argumento pillarú vna
pars vipote SUBIECTI EST IN MENTE – videlicet: “ego.” [Grice: “Those Latins
dropped pronouns!”] Alia vero in voce, vipote pradicatá. enutatio at de
ois ofo est penitus in voce vel scripto et c ita ciusmodi esse non possint
orones vel enttiatio- Cofittiones. Sed ifti delirt penitus. Nã ciufmodi
funt in voce aut feripto: et in eis eft verum vel falfum: igitur
enuntiationes.Hac.n.fuit LIZIO definitio. Neccon- perfe pres tra cos
alter arguo: sünt. n.hac defe derifibilia. Anima duerte igit g› ciulmodi sunt
enuntiationes, qui verba sunt subiectum et predicatum et copula, in ilta
distione lego -- aut ambulas: est subiectum vi prima vel secunda: pfone
verbi, qua sua natura illá importat. Est pradica- qua sunt pronomina et
prima et SECUNDA PERSONA, deno tatur affectio aliqua sive pracilio quadá, verbi
causa cum dicit ego Augustinus Scribo, denotatur qua -- ut solus scribo, aut nullus ita bene
scribit. Et tunc iuxta hanc re bit. Tenet captiúcula per regulá. Secunda,
non valet: “Ego, Augustinus, curro” -- igié ego sum. Ef.n. antecedens verum vi
ego solus curreré: consequens vero falsums sit deus ego sum qui sumqi
alia a deo vel non sunt, vel nonita bene. Bene tamen concedent hasfum,
es,id genus. Sed ilti propter captiunculas lepe tradunE in pueriles fabulas. Hac.
n. rilu digna fatis funt. Nãdá dico ego fum vel tu esaut in his volunt effe
intelligen da fubielta, aut non.fi no: igitur erit aliqua cnuntia-tio pfeêta, et
non cum subieto. Si vero volunt esse subie- Ea intelligenda. sed intellectus
pót explicare voce om ne quod concipit: et non aliter pót, ( dicendo: “ego sum:
vel tu es,” igitur “es” æquivalet “sum.” Et ego sum : es et tu es. Secundo,
tunc hec esset nugatoria tin deus est: tín ego scribo: et id genus, Propterca
vide mihi lilliulmo-di ofones non differre quantum ad rem: sed solum qua
ad vium thetoricum atque: ornatum. quo. n. Ad veritatem idem est
dicere “tu es,” et es, “ego scribo,” et scribo. Ad dunttamen rhetores pronomina
ipsà prima et secunda persona nónung emphaticos: veluti illud Maro-nis: Me ne
incapto desistere viêta? fub illo pronomine, “me,” intellexit reginam deorum,
et fororé, et Iovis coniugem. Similiter Cicero. Ego omni officio ac potius
pietate erga te catenis satisfacio. sub illo pronomie, “ego”: feillum talem qui
cum Ientulo familiarissime vixit, et qui tot beneficia ab eo acceperat
intellexit. Addunt igitur rhetores eiusmodi ad amplitudinem licet quoad
propositionum veritatem, quam logicus considerat, nulla sit differentia –
cf. G. N. Leech on H. P. Grice as proposing a CONVERSATIONAL RHETORIC – not a
conversational DIALETTICA. Et hoc modo intelligendum est
illud Prisciani grammatici. Hae fatis. Et autem una prima oratio enuntiativa,
affirmatio, dea Enuncidiona inceps negatio: cater e ucro omnes
coniuncione sunt und. aliu est voafim alie con. Necesse et autem
omnem orationem enuntiativam esse ex alia vere cum verbo, dut casu
verbi quando o hominis ratio nif refm pes ee.: “est”, aut “fuit”, aut “erit,” aut
tale aliquid adyciatur nequag oras per afpr. tio crantistina si
Qgaobren an quoddam se or nonmul ta “animal, resibile, bipes”? Neque enim
quis propinque di» Pie: Mete. C- Mar. cuntur: una crit.
Erit alterius boc trafare negoay. Coniucniunt expositores et graeci et
latini, g› definitá Сетьат enuntiatione nunc dinidat LIZIO: et volút gi LIZIO
brevibus duas divisiones enuntiationis explicet: quarum vna est o enuntiationum
quedam est vna simplex, quedam vna coniunctione. Qua expositor eo approbarge
etiam in rebus aliquid est vnvm simplex -- vt indivisibile, aut continuum, alteri
colligatione, aut compositione, aut ordine, Secunda vero vt expositor ait subdivisio
est enuntiationis vniusin affirmatione et negationem. Vnderecétiores volunt divisiones
esse huismodi enuntiationum quadam est cathegorica, quadam hypothetica sive
CONDICIONALIS. Cathegoricarum alia est affirmativa, alia negativa. Mouct BOEZIO
dubitatione /vtri id quod ait prima ad affirmationé referaf, vt lit posterior
negatio, An id quodait prima ad simplicem retulerit orationem: vt secunda sit
que ex ofonibus iungif. Hac BOEZIO quæstio resolvit in tres. Prima verum divisio
enuntiationis p vna et coniunctione vna sit prior divisione p affirmationem et
negationem. Secunda vervm affirmatio sit prior negatione. Tertia vtrvm simplex sit
prior coniuncta. Ridet Andivltemi expositor, è quo accepcrút recétiores: g
prima divisio. ciatie in visena enuntiationis sit per cathegoricam sive
vna simplice et hy [ne vnom fit gri] potheticam CONDICIONALEM sive coniunctione
vnam. Huius ratio ab expositore colligit, quia prima entis divisio est per vnvm
et multa Igiê prima enuntiationis divisio esse debet similiter. Alia vero divisio
est potius subdivisio enuntiationis simplicis. Sed pace horum dixerim hoc stare
non pot, gi eriá hypothetica o CONDICIONALIS siue coniunctione vna est
affirmatiua vel negatiua. I giê no divisio secunda sive sub-divisio alerius
uel. P erit, guat fit per firm tiun et negationem. Secundo errant recentiores
qi volunt hanc divisionem esse per cathegorica et hypothetica sive
CONDICIONALIS: qi tune sola condicionalis esset coniunctione vna. Am
mo.n. et BOEZIO volunt hypotheticam no esse nili duobus modis s aut condicionalem,
aut disiunctivam qua ét species conditionalis est vt dicemus. Vñ et grace hypothelis conditio cit. Igit hypothetica
condicionalis est tm. Ideo dicendum ad primão hac dua divisiones enuntiationis
aquales conertibiles cú ipsa sunt. Vt.n. ens dividitur per vú et multa:
8e per adiú Se potentia et id genus. Qu oe ens aut est vnum, aut multa.
Similr o€ ens aut actu aut potentia. Sicois cúciatio aut vina simplex aut
coniuncta. Et ois etiam aut affirmativa aut negativa. Etita
equales sunt divisiones euimodito non vna sub-divisio alterius. Dico secundo hac
diviso p vnam et coniunctione voi no est divisio per cathegoricam et
hypothetica sive CONDICIONALIS, Nô.n.vt BOEZIO et Ammo, aiút: cathegoricum
opponi hypothetico: sed coniunctione vni. Eit aut coniunctio non vno ma:
sed interdi copulatione, interdüt pe, interdum leco, et id genus. Ha.n. sunt
coniunctione vnz, pn sol exoritur, diescit: quia coniunguntur coninctione
tpis He hmilr, vbi tu disputas, Socrates iacet, et aliz eiusmodi. Que ti non sunt
hypothetica. Recte igitur LIZIO verbo côiori vtens, dicit catera vero oes
coniunctione fune vna: et non di- ateet secteasoes se apoiteacas Ad ed am
sepondet Animo.g affirmatio solum ex parte vocis sit prior Additie
expo negatione quia est simplicior. Nam negativa enuntiatio affirmatiua addit
particulam negativa. Expolitor aûradiecit duas alias rones, et affirmatio sit
prior ex parte intellectus, om affirmatiua significat compositionem
intellectus, negativa slignificat divisione. mỡ compositio est prior divisione,
cum non sit divisio nisi compositori. Sed o ex parte rei: qi affirmatio significat
esse, negatio non esse modo cile et vir habitus na- esfuttio addi turali
prior est PRIVATIONE (cf. Grice, “Negation and privation”). Sed hac additiono
placet Prima quidem non: om a pari diuto elet pior compositione gi non
cit compositio nisi divisiorum. Am plus vt diot Ammo, affirmatio et negatio quo
ad compositione et vitatem non difterurit: qu veragi eli composta ex verbo de
noie. Lacetilla dicatur divisio reri. Secunda vero minime sgi PRIVATIO naturatr pracedic habitü, vt de in
Predacamentis Prius. nicatulus cocus elta viders, et ita fatis
citrelponio Amo.( BOEZIO Simplee stiam approbat. Ad tertiai rádet BOEZIO
gi enúcia- enantiatie fie tio smplex eit naturatlis/ At coniuncta
pon sit vna nili pofitióne et quali ab extrinieco. Sed quod elbra-turale
prius eft eo qdi pofitione eli tale ‹ aurefimplicé tiationis limpiscis
voitas eltà natura, etiá ipla crita na tura.eadem.n.ratio.eft
entis,&evnius:proponitionis& voius: ve di in elenchis. Sed
Arifto.ait contra Plaroné nullam afonem e/lea natura. Igitur vé hacexpolitio
contra Ariltot. Propterca dico, go via inuentiua, quee compositione agitur, simplex
enunciatio prior sit, via vero anayitica hoc sit resolutoria composita sit
priortim plici. sed qi LIZIO inilto lib.eltinuentiuus, iurelim
Litera exp. plicem praponit. Inquit igitur, est aut vna prima oratio
enuntiatiua affirmatio et midens ad particuli, prima (ubicribit, deinceps
negatio: gaipla negatio voce posterior est. Ad particulam illam vna, midens
aitalia vero coniunctione sunt vna. ve hypothetica &id ge- Duli Mexi,
nus. Sed adhue elt dubitatio Alex videlicet, vtrum divisio enuntiationis per
affirmationem et negationem sit generis in species. Secunda est dubitatio
Ammonij: Scle tran vtrum hec sive enunciatio fue propositio fol existente
super terram dies est, sit simplex, aut coniunctione vna. espondet Alexander
qudiuisio enunciationis per Rie Ani. affirmationem de negationem non ellet
generis in species: qinin genere non eltordo, in enunciatione elt ordo. Refpondet
Ammonius, et BOEZIO, et expositor o bene vna porest esse altera prior comparatione
facta inter fe vt in numeris patet. Sed comparatione adter- tin: vt poread
coc genus nullus est ordogi aqualter funt orones veri vel falli
participes, qua eit definitio enuntiationis et hec responsio potelt stare,
Scias tá q BOEZIO et Ammonius inter afiarmationem et negationem nullum alium
volüt ordinem, nili prolationis et vocum. Expolitoralios affert, quos
deiecimus. Ad Ri. ad/elam. Secundam dici por quod illa elt coniunctione
vna: ablatiuus absolutus resoluitur per coniunctionem alig, vt dicunt grammatici.
Hee de divisionibus colliguné. Expõ secunda Deinde vt Ammonius et
BOEZIO introducút. LIZIO, vo- partisprime lens disputare de affirmatione et
negatione: que sunt species enunciationis. pramititquoddam vulead fer monem de
illis, videlicet, pois enunciatio conftat ex verbo, videlicet, presentis t
pistaut casu verbi: q' est preteriti aut futuri. Tacuit verbum infinitum,
ve ait Ammo. Tum quia principaliter de afhrmatione loquetur: tum vel
maxime, quia coordinatur cum negativo. haber. hictim co fere cádem vim. Sed
dubitat Ammo. curpreteriit nomen. pót.n.imo constat enunciatio ex nomine de RECTO,
vt fol oritur: et cafu cius, yt me tedet scribere. Respondet primo hoc esse
pratermilium: ga potett esse enuntiatio, de non ex noie vel casu nois: vt: “Kire
tum nihil est”: vbi verbum est subiectum. Nulla ri enunciatio elle põe line
verbo, aut verbi casu. Hec responsio non valet: em vérba illa in enuntiatione
nomina funt. Propterea Porphyrius philofophus, qué BOEZIO (equit, volie prater mififeipfum
nomen: quía verbum est principalior pars, cum sit pars formalis, quafito-tius
enuntiationis compositiva. Signum aut aftert /to-ta oro à pradicato, o est
verbum nomen mancilcitur. dicitur. n. cathegorica, hoceit PREDICATIVA. Hac
eit Exp5 propria. vna exposítio,
qua stare pór.Mihi tá videtur o LIZIO refondeat quattioni tacite, dixit. n. efic
enuntiationú alteram limplicé, alteram coniunctione vnam. Lo quis abifciet. ois
enunciatio coltat,ex verbo, verbü aut im portar compositionem, j fine extremis
non efintelligere. Igitur ois enuntiatio di composita. Cuirídet q ois enútiatio
eft composita ex nomine e verbo. Sed di simplex quia non ex pluribus
enuntiationibus constat. Veluti hacfi solesoritr, dies efliqua pluribus
conltatoronibus.Et tunc continucilitera fic: licet enuntiationú fitédam
fimplex, necefle efi tá oem oroné enunciatiua esse ex verbo, aut casu
verbigitur de simplex simplicitate opposita compositioni ex pluribus enunciationibus.
Et hac est expórectior. Primo, ga illa particula Apprebatio ex ADVERSATIVA
(ait) poni non tolet sic obiter, nili ad obic Peitionis, Etiones tacitas tollendas.
Sedo, quia interpositio fuif- fetnimis casualis et nopetinens. Tacuic aut
nomen: dú à maion liciga fiqua oro cét enunciativa line verbo maxime
ellet definitio. Mo ingt, on et hois to, nitripm “est”, aut “fui”,
auv “erit” :aut tale aligd adiiciat, nequai ofo enunciativa sit. Igié ois
enunciativa ofo ex verbo constare debet. Sed qni de definitione locutuselt, et
qualtio de vitate cius elt alterius negocij, ideo se excufat, interponit
tamen consutationé cuiufda falf ráfionis. Di cebant enim quiddam, ep
definitio est vna, quia partes propinquius iacent. Inquit. quamobre vnum fit et
non multa “animal, ressibile, bipes.” Interponit solutionem falsam: et
inquit, negi enim quia propinque dicuntur: vna crit. Tunc redit ad excusationem,
quali dicés, quare Natabile. vnvm sit definitio erit alterius hoc
tractar negocij. Aiadverfione dignum, vt declarat BOEZIO et Ammonius ad
vnitatem definitionis elle necessaria partiú propinqui tatem, quia bi partes
longo interuallo cocila profer rent, definitio nó ellet vaa. Neigit credat hanc
elle cau fam vera, remouit illa &e tranfmilerit nos ad septimum et octavum
meta. Etlicet de vnitate definitionis LIZIO. Dubitatio. Rifie
T bre. tralmiferit nos ad metaphyficá, Dubitant expositores graeci que
eit causa vnitatis definitionis Ridet Theophratus in libro de affirmatione et negatione,
e definitio est una ratione fubicati: quod definit. Secundo propter partium
proximam constitutionem. Obij-ciunt contra Theophrast, quia tunc definitio no esset
vna per se, qín ellet vna ratione fubie ti, et ita ratione extrinseca Secundo,
quia tuc oia accidentia essent, vnvm essentialiter, quia funtin vno subiecto,
vel faltéca, qua effent in vao fubicCo. Ammonius affert duas causas. Prima
elt partiú vicinitas. Secunda vero est, quia in re est aliquid loco materia,
aliquid loco forma. et cum inter hac nihil medvet, rationabiliter faciunt
definitionem nam: Sed ambo pollunt bene dicere, quia Vt Auerroes ait in,
g-mera. com.4a. dehnitio vno modo potest fumi vtinfirmenum, quo intellectus
inducitur ad intelligendas essentias rerum, de cú instrumentum fumat vnitatem
afine. Finis aut est definiti essentia, iure ab vitate definiti definitio
crit vna. Et sic recte Theophraftus ait. Altero vero fumi potelt yt etipfarei
eilentia, que cum refultet ex vitima diffe- rentia sive vitima forma, que
cil vtmusaCtus, ficbe- Dubitatin The ne Ammonius ait. Sed le res
non est hic tractanda, vi bene LIZIO. Dubitatetia Themitius primo posse. quia
videtur a definitio sit enuntiatio, quia est species ponis immediatz, vt ait LIZIO
hic autem vult non esse enuntiationem. Hanc qualtionem multi fol uere
enituntur, quosin pripo polte confutamus, nunc vero Philoponi expositione
afferimus, g› definitio pa-test colderari vt premilla, et e sic eit propositio et
enuntiatio, vt LIZIO vultibi. Alo modo vt terminus, et lic loquitur LIZIO hic iquia
vt sic non est ENUNTIATIVA ORATIO, sed terminus vt dicit. Elait una ORATIO ENUNTIATIVA, dutes que unm SIGNIFICAT aut
es que coniunione est uns. Plures vero esse que plu a co non un significat. Aut
ee que sine coniuntione sunt. Cim. as. Expositores fere ois volunt LIZIO
divisionem pre-politam nunc exponere, quod, vt mihi videtur, stare non potest
Addit-n, mónulla mébra que non pdiuilit Primarupt. Confutatin,
Ideo LIZIO divisione enuntiationis rurfus núc alio modo ordit, qua hac forma reducit.
Enuntiationú, alia est vna. Alia plures, yna bifaria dicit, hac quidem simpliciter,illa
vero Fm quid vr dicemus. Plures
rurfus biari: en quide plures, ga piura et no vnvm SIGNIFICAT, ille plures,
ga line coniunctione multe sunt. Huius secunda divisionis prima
pars prima parti prima divilionis ad- Prime duba. versat. Secunda
vero pars ciude, secunda illius modi. Referfie Ambigút que diviso sit
hac? Ridet et lane fapide gpeltdiuifioziquinoci infigaificata/ve i
hodiniderdt in verum, et e marmore, nã lola enuntiatio vna est enuntiatio,
plures vero fune vna platione, et METAPHORICA (“You’re the cream in my
coffee”). Secundo dubitant quid LIZIO, velit p enuntiationem vnam limpir, et
vnam fm qd: quid g; p plures imptir: Secunda dabi. et plures fm quid. Ad hac BOEZIO et Ammo cocorditer
rident: et volut eo vnitas et multitudo referan ad enú Referacãs.
tiationis signantiam. Simplicitas vero et compo ad voces. Ex his fiunt lex coniugationes:
quarum dua sunt impossibiles, quatuor possibiles: vt figura
declarat. Eninciations coniugationes fer: quatuor possibiles, o due
impossibiles. Vna Polis Simplex sgod Lmpof Impossibilis
Polis Composita Polis Plures Erita vna simplex est, felt
vna fimpir, vt ho eft ro- nale. cit. o. na quo ad lignantiam.Simplex vero
quo ad voces vna vero composita eit vna Pm gd, vt lifol vritur – ut: “Dies est.”
“Socrates disputat et Plato legit” e id genus. Hec. n. de vna fm gd, quia
colutione vna. Plures etia bifaria funt: plures composita contra primum membrum,
vt g incon-lucta sunt tales, vt: “Socrates legit,” “Plato disputat.” LIZIO mo uef.
sunt. n. plures et composite fm voces. Plures vero simplices – ut: “Canis
latrat.” cit quide plures signatu, vocibus vero slimplex. Simil
mo hoc: “AIACE pugnavit cum ETTORE. Multin. fuere Aiaces. Hec quo opponit ad fam membrum. Sed huic obiicit expositor.
Frimo, quia p defunitione: qua interponit vi distinguere inter
oratione, 9 significat vni, et gelt voa coniunctione. Secuco, quia supra
dixit, gp est vnvm quoddam et non multa aial grefsibile BIPES: quod vero est coniunctione
vnvm o est vnvm, et non multa, sed eit vnvm ex multis. Sed ifterones frivole sunt.
Prima qdem, ga non difigit inter vna, et coniunctione vna: sed inter vna simplice,
g tubintellexit in primo membro, et vna coniuctione. Adicam dico upenes aliud accipif vaitas enuntiationis
et definitionis hic et ibi. Qía hic
fumit vnitas a significatum multitudo etia. Ibi aliter vdisimus. Terio
dubitantois – “Homo vel equus currit” -- est vna fimplex, aut vna composita.
Similt Plato athenielslapiés academic est in lycio LIZIO LYCIO r est vna simplex,
vel vna composita. Silr ois – “Homo lieft bos mugit, et Socrates et Plato
disputant” sunt ne vna simplices ? an vna composi-tel Quiced velnt BOEZIO,
Porphyrius, Ammonius: et ali. dico g glibet harum est vna simplex. Nã
verbum elt vnu, a quio lumit vnitas enuntiandi. Prima gdem vna de subiecto
disiuncto, iccúda una de subiecto composito. Tertia vna de SUBIECTO
CONDICIONATO. Quarta vero vna de subiecto copulato, et ita qualibet est vna simplex. Quantum
vero ad verba attinet adiccit et no vnü quali dicat propositio sine enuntiatio
est vna simplex, de plures plures qua fignificane plura, et non
vnum. Q in vt Ammonius inquit, sunt enuntiationes
plures de aliquo vniversali, vt aial g “Ressibile bipes est homo.” Potest enim resolvi hac in plures, sed quia continent sub
aiali, sunt vna. Propterea ait. 8e no vaú pp tales enuntiationes. Aut
dici potvt Porphyrius philosophus ait hoc esse di tú ad differentia
enuntiation, qua fumüt definitione pro subieêto, aut pro pradicato. Na videntur
multa significare: sed in re vera vnum significant. Esenciatio fi Nomen quidem igitur aut verbum didio sit
solum. Cum non contingat utis, qui voce aliquid significet, fie dicat, ut
cauntier: fue INTERROGANTE ALIQUO, sive non, sed ipse profert. Videtur
o LIZIO inferat ve per particulam illariua defignar. Videtur vero gy dubitatione
excludat, vé per Icriem verborum haberi pot. Est.n.dubitatio talis,
quia dictum et enuntiationem esse nã ab vnitate significatus, sed nomen aut
verbum vaú significat. Igitur enuntiatio vna erit nomen vnum, aut verbum vnum.
Solvit de volt ‹pis, qui profert nomen aut verbum vnum, vum dicit, et is etiam
qui protert enuntiationem vna, vuû dicitil ed non eodem modo. Nã dicens
nomen vel verbum, dicit nú prolatite, et non enuntiative, at is qui
enuntiatione vá dicit, vnvm dicit enuntiatiue. quatenus enuntiat voú de vno, aut
remouet vnú ab vno. Et hoc inquit {nome quide igitor aur verbum dictio
fitlo- cu non contingat vtis qui VOCE aliquid signiticat sic dicat
vt enuntict, sed contingit ve sic dicat vt profe rat tifadiecit fue
interrogante aliquo, fue non inter- rogante aliquo,g qui aliquid nomine
aut verbo fignificat poteft dicere vt enuntict aliquo interrogante, vt fiquis
petat quis hodie venenum bibit, et refpon deatur Socrates. Patet e is qui dixit
Socrates: enuntia uit: 8 hoc quia precefsit interrogatio. vbi autem nulla
pretuisset interrogatio, dicens Socrates em, NON enuntia uit, sed protulit
ditaxat. Igitur enuntiatio differtà verbo hue noie: gi enuntiationem SIGNIFICAT
viium de vno enuntiative, live precedat, liue non precedat interrogatio. At
nomen vel verbú pót enuntiare nú de vno solum precedente interrogatione.
Propterca air cum non contingat vis qui voce aliquid SIGNIFICAT, sic di.
cat vt enuntict, line interrogate aliquo, fite nullo, hoc est vt enuntict
in omni casu. ham non nisi vbi prace-filet interrogatio, sed ipse ita dicit ve
in omni casu PROFERAT nû. Er lie differt enuntiatio a verbo et nomine, Harum vero
hee quidem est simplex enuntiatio, sclut que Tutto imples, aliquid de
aliquo, aut aliquid ab aliquo enuntiat, illa vero ex his composita: acluti ca
oratio quedam que (ane componitur. Ammonius vule vt LIZIO sub-dividat eas
enuntiationes, quas dicimus aut INTERROGANTE aliquo, aut quas volumes dicere
per nos ipsos. Sed hoc est repcte-reidem pluries: quod non
conucnit LIZIO. Melius igitur divisionis pradicte membra exponit per exempla.
Er inquit, harum vero hac quide est simplex enuntiiatio, velut per exempla ca,
que aliquid de aliquo, aut aliquid ab aliquo subaudi enuntiat. Hoc est ve
affirmatio – “Socrates est academicus,” aut negation – ut: “Socrates non est
timidus.” Illa vero cit qua ex his componitur, quod trifariam ft, vt Ammonius
ait, videlicer, aut ex ambabus affirmationibus,aut ambabus
negationibus, ved ex alter afirmatione, altra negatione. Cuius exemplum
fabdit, et cinquiti veluti es oratio
quizdam, qua fane componitur, fupple ex duabus affirmationibus – ut: “AIACE
pugnavit et ULISSE fürit.” Ex duabos negationibus – ut: “Plato non est
crudelis: et Socrates non est avarus.” Aut ex vna affirmatione,
8e altera negatione, vt: “PLATONE eit in lycio LYCIO LIZIO et Socrates non in
academia.” Et ita per exempla paret divilso et membra divisionis. Est autem
simplex enuntiatio vox que SIGNIFICAT aliquid Iniciato quid «/Je de
aliquo, aut non esse, modo quo tempora distinguitur. Alexander
aphrodifius exponit LIZIO nunc Cin 35- definire simplicem
enuntiationem, qua ait definifle species. Argumento, enuntiatio no genus cit illari, sed veluti æquivocum
quodda. Hac Aspalius ratione hac confirmat: quia eo modo hic LIZIO
enuntiationem definit, quo primo priorum descripsit propositionem: ed illic sic
propositionem descriplit, propositio est oratio affirmativa vel negativa
alicuius de aliquo, aut alicuius ab aliquot igitur de timiliter enuntiationem
describere debet. Obijcit autem Ammonius, vt fumit expositor, quia statim LIZIO
definiens affirmationem et negationem ponit enuntiationem, et non vt
differentia migitur vt genus. Et ita non æquivocum, sed genus erit illarum, et
per consequens non definiendum per species. Porphyrius philosophus cum
Alexandro volens LIZIO definire enuntiationem simplicem, ait non per species
dehnifle, sed per virtutes affirmationis de negationis, efie enim &e non, elle
non sunt pecies enuntiationis, sed virtutes affirmationis et negationis. Sed
obijcit expositor, quoniam sicut in definitione generis non debent poni species.
Ita neg; ea qua sunt propria specierum: MODO SIGNIFICARE esse, proprium est
affirmationi, SIGNIFICARE non esse negationi. Igitur non debent poni in
definitione generis. BOEZIO autem quafihac miscens vult LIZIO
Espibe. lemfimul dividere enuntiationem simplicem, &e definire, vt
intelligenti pateti& longis verbis exponit. Sed hoc expositor
refellit, quia si enuntiatio simul definiretur et divideretur, cum mon videatur
definiri nifiatt per species, aut per virtutes specierum, necessario cum dicere
oportebit vel vt Alexander, vel vt Porphyrius. Com Ammonio vero expositor sentit,
&enos quod; sentimus, videlicet, gi LIZIO enuntiatione simplicem in
duas differentias dividit, vt inde definitiones pécicrum näcifcatur. Et inquiteft
autem simplex enunrtiatio, lupple omnis, aur que SIGNIFICAT aliquid esse de
aliquo, quod ad affirmationem atunet, aut que SIGNIFICAT aliquid non esse de
aliquo, quod ad negatione nde ne intelligatur solum de prasenti tempore, sub-scribit
modo quo tempora distinguuntur, quasi dicat; etiam in aljs verbi temporibus.
Hac vero divisio vt expositor sentit non est enuntiationis in species, sed
in differentiaa specificas, non enim ait quod enuntiatio est affirmatio vel
negatio, sed VOX SIGNIFICATIVA cius quod est esse, qua est dificrentia
affirmationis specifica, vel eius quod est non esse, que tangitur differentia specifica
negationis. Propter hac ex his differentiis subscribet specierum
descriptiones. Hac est optima expositio. Verum illa Alexandri non est
de-rifibilis? Propterea primo debes scire Alexandrum voluisse enuntiationem,
non esse simpliciter æquivocum sed ANALOGVM, quasi analogia genus dicitur
analogum speciebus Septimo physica auscultationis. Hac
enim analogia perfecti ad imperfectum rationi generis non repugnat. Viterius
animaduertendum enuntiationem posse bifariam definiti a prioris, et e sic in
pracedentibns definit LIZIO nullas in eius definitione addendo species: aut a posteriori.
Et hoc dupliciter vel per ea que intellectui competunt: et ita per species
acceptas a vero e falso, superius descripsit, aut per ea que rebus conveniunt, et
e ita describit hic icú di cit enuntiatio simplex VOX EST QUA SIGNIFICAT
ALIQUID DE ALIQUO ESSE, VEL NON ESSE. Vox enim loco generis accipitur.
SIGNIFICANS esse vel non esse loco differentir a posteriori accepta Et hac elt
mens Alexandri: que mulcum confsnat littera. Tunc ad argumentum contra
Alexandrum patet solutio. Non enim negat enuntiationem esse genus: sed ait esse
analogum etiam. Per hac patetrefponfio ad illud contra Porphyriú.
Pofiunt enim poni in definitione generis propria fpc-cierü:no quidé in
definitione propter quid, sed in definitione quia: et a posteriori. Similiter ad illud contra BOEZIO, simul.n. definit vt
notat illud genus vox et dividit ve notat differentia accepta à virtutibus,
hoc De bypatbetis est propriis specierum. Credunt
forticola LIZIO- củ. lem per simplice intelligere categoricam, et
per com Prima pofiria. ciatio sit cathegorica, vel bye que
in, gua a pluril categorias confans con.- etetica. sunctione vna
eit: de quonia plures categorica, possunt coniungi pluribus modis, {queda enim
per nota causa, vt quia Socrates bibit venenum, fuit fortis: Aliz
moritur, fepelitur. Et possunt etiam coniung: plures categorica innumeris fere
modis; Ideo hypothetice secundum iltos funt fera innumera. Quare ois
enuntiatio, qua expliribus conflatenutiationibus el hypothetica. Et sic inductio,
exemplum, et enthymema: atgi syllogilmus: et caetera id genus cum sint
enuntiationes coniunte per notam illationis, omnes sunt hypothetica. Alij ponun
thypotheticarum, fex species sive modos -- vt conditionialem, copulatiua, disiunctiua. Tertia
põ. causalé, temporalem; demú et locale. Sorticole côiter aiunt
TRES esse species vt: CO-ORDINANS: copulativam (p e q), disiunctivam (p o q) et
SUB-ORDINANS: conditionalem: (si p, q). Nam cateras ad has reduci
contendút. Theophrastus vero et Eudemus volunt hypotheticam oêm esse conditionalem
et nullá alia nisi conditionalem. Huic BOEZIO assentit in primo Topicorum suorum
vbi air CONDICIONALES PROPOSITIONES esse, quas graeci hypotheticas (SUPPOSITIO
– suppositiva -- vocant. Amplius in libro de syllogismis hypotheticis ait CONDICIONALEM
ENUNTIATIONE fortiri speciem et nomen ab hypothesi graece, latine CONDICIO sive
SUPPOSITIO. R urfus LIZIO in libro priorum vult ex hypotheticis enuntiationibus
costitui syllogismos hypotheticos. Constat autem per ipsum non nisi ex CONDICIONALIBVS.
CONDICIONALIVM vero graci duas tradunt species altera eltquam continua
vocat. Velifol exoritur: dies est super nos. Altera
est: qua disontinua nuncupant, ve: “vel tu es, vel tu non es.” Oua
CONDICIONALIS discontinua appellatur, quia posita CONDICIONE ep non sis, sequitur
te non esse, cumitag; nihil ponat inesse, CONDICIONALIS eriticum inter partes
difun Al formi que Etio signetur discontinua appellatur. Haceit mês
om Riends, nnium graecorum et BOEZIO) vbi gi. Qua ratione sit ve hypothetica
6t lpés enutiationis coniunta. Nec cathegorica dividit contra hypotheticam sive
CONDICIONALEM sed potius cotra conjuntam. Consequenter videridá de pebus condiciona:
De peba con discontinue. Et dicendum vt Ammonius e BOEZIO fen tiunt péspofie
enumerari aut penes qualitaté cathegoricarum è quibus constat, aut penes forma,
que habetur ex vi notz CONDICIONIS. Si penes
qualitate partium: tunc sunt quatuor species. Prima ex categoricis AMBABVS
AFFIRMATIVIS: vel – ut: “SI sol lucet, dies est.” Secunda ex ambabus negativis
–vt: “SI non est animal, non est homo.” Tertia ex prima affirmativa, et secunda
negativa – vt: “SI dies est, nox non est.” Quarta ex prima negativa et secunda
afirmatiua -- vt: “SI dies non est, nox est pecies colligantur ex nota CONDICIONIS/
{Ouonihac nota si potest trifariam fumi. aut pure CONDICIONALITER – vt: “SI habere
homeri, suderé: Aut permissiva, vofiad me veneris, mille basia dabot aut illative
– vt: “SI dies est, sol lucet harum trium tertia est in viu graecorum: et
proprie CONDICIONALIS continua. Consequenter quaramus
penes quid atrenditur affirmatio vel negatio CONDICIONALIS continua. Respondent
recentiores o nota CONDICIONIS est tanqui FORMA CONDICIONALIS: quoniam e forma
qualitas profici fcif sicut è materia ipsa quantitastiure ea dicitur negativa,
cuius CONDICIONIS nota negatur. Contra vero aftirmativa, cuius CONDICIONIS nota
affirmatur. Qua ratione fievequalibetharum sit negatiua: non SI dies est,
sol lucet. Itemá; non dies est, SI sol lucet. Rurfus,
dies est: non filo lucet. In his .n.oibus semper CONDICIONIS
nota negatur. BOEZIO vero in de hypotheticis PiBu. affirmatione vel
negatione naciscitur ex qualitate consequentis. Vult enim CONDICIONALE esse
negativus etiam si solum consequens negatur. Hac enim est negativa.
ficit. a. non el. s. Hac affirmativa. f nonel. A. c. s. Hac positio persuaderi
pot, qín vis tota hypothetica est in illatione consequentis. Hypothetica enim
nihil po nit inesse, sed solum afferit illationem. Igitur negatio debet esse supra consequens, vbi vis
illationis habetur. Sed dices quales crunt ha, non SI DIES EST, sol est or
tus. et soleftortus SI DIES EST. Videtur mihi ep etia Dulltitie.
ciulimodi sunt negativg gm in omnnibus ijs vis negationis [Contra BOEZIO] exercetur
supra consequente ipso. Et pro tanto sunt negative pro quanto consequens
negatur. Non per hoc quia CONDICIONIS nota negatur, sed quia consequens negatur
lequi ex ANTE-CEDENTE. Quare apud BOEZIO potest CONDICIONALIS esse negativa
trifariam, aut per CONDICIONIS negationem, aut per negationis prepositione: aut
per negationem consequentis. Et de quantitate agamus Sorticola tenent CONDICIONALE
continua nullius esse quantitatis, gri quantitas est CONDICIO subiectei. Modo
illa non est ex subiecto et pradicato, quare crit ois non quanta. Probabiliter
teneri potest omnem CONDICIONALEM continuam esse quanta Ex hoc a
quantitate consequentis.Vocat coim LIZIO syllogilmorum hos vniversales, hos
particulares. et hoc a quantitate conclusionis. Igitur cum CONDICIONALIS continua
sit vt enthymema potest dici quanta ab cius consequentis quantitate. E tita hac
vniversalis, cuius consequens est vniversale, illa particularis simili ratione.
Hac quidem erit vniversalis, fi ois homo currit. ois homo mo- roes
feptimo phyfica aufcultationis, comméto fecundo vule aliquam conditionalem effe
veram, cuius an tecedens et confequens funt imposibilia: aliquã effe fallam,
cuius antecedés 8e cófequés funt neceflaria. Etita renet conditionalem diuidi
per verum et falfum. Pro hac politione arguút recétiores,
cotradictoria diuidunt omnem enuntiatione fm verum et falium. vt
dicit LIZIO primo priorum: sed conditionalis continua habet contraditorium quia
poteft negari et affirmari Igitur est vera vel falsa. Secundo cuiufli-bet
côtraditorij altera pars eft vera et e altera falla. Hec funt contradictoria, SI dies est, sol lucet. Etnon SI
dies est, sol lucet. Igitur altera vera et altera falla. Et e gdguid dicatur,
equitur conditionalem esse veram ve lfalsam c Confitatio. Sed hac
positio stare non potelt: quia vt dicitur in predicamentis ab eo quod res eit
vel no eit, oratio dicitur vera aut falsa. Sed
hypothetica nibil ponit in eile, aut in non esse. Igitur non poteft dici vera
vel falsa. Propria ph. Propter hac videtur mihi faluo meliori
iudicio quod nulla hypothetica debet dici vera vel falsa, sed bene necessaria
vel contingens, quam quidam vocant bonam aut mala. Reêtius necessariam aut
contingente, sive impossibilem. Et hac est intentio Boeuj vbigi-
Tune ad rationes dico. Ad primum, e contradiêto riu in hypotheticis non
cadem ratione accipit veluti in Simplicibus, na in simphcibus deltruit
veritate vel falsitaté, hoc est id quod est in re, vel quod non est in
re. In hypotheticis vero destruit necesitatem vel impolsibilitatem
illationis. Etita contradicere est fere ÆQVI-voce. Tuncad formam dico, g› contraditoria
dividunt verum et falsum in cathegoricis, in hypotheticis necessaria aut impossibile.
Et hoc satis. Similiter ad secundam. contraditoriorü enim de necesitate
alterum est verum, alterum falsum in cathegoricist in hypotheticis vero alterum
necessarium, alterum impoisibile, vel cotingens, hoc est non necessarium.
Et de conditionali discontinua agamus, quag; disjuntiva dicif. Et primo dicamus
o qualibet pars disiunctiva potesse consequens, ve dicédo: “Tu es, vel tu non
es.” Quamqua BOEZIO veatur vig; DVABVS disjuncttionis
notis, ve “Vel tu es, vel tu non es.” Et hoc ve notetur nihil poni inesse, nec
in prima nec in secunda [but cf. Grice on the metier of ‘or’ as providing pis
aller answer to a scenario where alternates are equally topically apt and held
to be liable to being truth.] Dico igitur o quelibet potest
esse consequens. Nam: “Vel movetur VEL quiescit” -- pot habere consequens
altera indifferenter, quia SI non movetur De fimuis quiescit; et SI non
quiescit, mouetur. Tunc dicendum e disiunctiva solum est negativa vel
affirmatiua per negationem propositam. Causa est, quia quicquid reneatur pro consequente,
intelligetur negatum, quod non est De quantite, ita in ipsa conditionali
continua. Secundo dico aliqua est vniversalis, et aliqua
particularis. Sed non à quititate alterius enuntiationis sed quoties amba sunt eiusdem
quantitatis. Causa elst, quia quelibet pot elie consequens, vigitur tenuetur
quantitas consequentis, Dabitatis. oportet ambas esse ciulde rationis
Sed dies velom. ne.n. est: vel quoddam. a. esse quanta est ista. Dici
potelt go hac est alcuius quantitatis in se, quonia ilius cuius quantitatis est
ab ea cathegorica, que fumetur pro consequente: Actu vero est disiunctiva vniversalis,
de disiunctiva Etiuz particularis. Nechae contradicunt. Pontenim vna
met disiunctiva esse vniversalis et particularis hac ratione, videlicet, disiunctiva
vniuvríalis, et disiunctiva ctia particularis. De sariste. De veritate
vero et falsitate ita sentienda, veluti de conditionali continua. Cum.n. disiunctiva
sit conditionalis, et conditionalis nihil ponat inesse, in re nulla erit vera,
8e nulla falsa, sed qualibet disiunctiva erit aut necessaria AVT impossibilis, sive
possibilis SIVE contingens. Et de æquipollentijs negatiavrum dicamus. Et
quamquam recentiores mula dica, mihi videur, e negatio praposita toti
coditionali AVT nota conditionis, AVT consequenti, facit æquipollere copulative
coltitut ex antecedente conditionalis et opposito consequentis verbi causa, si
homo est animal eft. Siquis praponens negationem dixerit non si homo cit animal
est. Hanc VULT SIGNIFICARE: homo est et non est animal. Similiter hac, non si
dies est, sol lucet, æquipollet huie, et e dies est: et sol non lucet. Huius
causa est, ga conditio non ponit inesse, copulatio vero ponit, quare cum
particula negativa neget conditionem, ponit copulationem, et cum neget consequens,
vi est vis omnis, ponet etiam oppositum consequentis. Simil ratione: “non vel
mouetur vel quiescit,” æquipollet copulativa conslitutz ex oppositis ambarum
cathegoricari, videlicer, et non mouetur, et e non quiescit. Causa
vero quare negatio preposite disiunctiva facit æquipollere vel ponit
copulationem, ele quia copulatio ponit inesse. Verum ponit contradictorium
ambarum partium, quia in discontinua qualibet pars potesse consequens, ideo
cuiuslibet partis oppositum debet ponere. In continua vero eit consequens
determinatem ideo ponit solum oppositum consequentis. Hac de liypotheticis ad
mentem grecorum expositorim volui dixille. Nam ab LIZIO pauca habemus.
Sorticola vero, cum studiorum fuorum finis sit ostentatio, non esse, muita
dicunt in confusione veritatis, que pretereun da funticum in illis non sit
felicitas, neqad falicitaté praparent De enuntiationibus vero coniun Ctis
grure gula funt in numerg, non cit núc prefens per tractatio, verum si
ocium dabitur, ad importunitates forticola- rumatg: captiunculatorum
interdum occurremus: ac quid peripatetice ficientiendun circa corum
captine culas et cauillos exponemus. Nunc vero de his lit di
Ctum intantum. Agostino Nifo. Nifo. Keywords: ludica, ludicra, intellectus,
animo intelligere, nous, intellectus passivus, intellectus activus, intellectus
agens, intellectus possibilis, intellectus passibilis, what is so ludicrious
about dialectis?– Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nifo: la dialettica ludrica”,
Grice, “Dreaming” – Malcolm, “Dreaming” --. – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Nigidio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano.
Friend of Cicerone. He enjoys a great reputation for learning. However, he is
on the wrong side of the civil war between Pompeo and GIULIO (si veda) Cesare,
and Cesare sends him into exile. He is particularly interested in
Pythagoreanism and is a leading figure in its revival in Rome. He specialises
in the mystical side of Pythagoreanism and is credited with occult powers. Publio Nigidio Figulo. Grice e Figulo – Roma –
Filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Publio Nigidio
Figulo e una personalità assai notevole. Senatore, pretore e ascoltatissimo
consigliere di Cicerone nel momento critico della congiura di Catilina. Nella
guerra civile, si schiera col partito di Pompeo e dopo la sconfitta di questo
vive in esilio. Nella vita politica Occupa sempre posizioni secondarie. Ha fama
notevole per l'ampiezza del suo sapere che lo fa ritenere il più dotto dei
romani al pari di Varrone, che però lo superava per ampiezza di
cultura. Cicerone afferma che fa risorgere le credenze della setta di
Crotona come dottrina filosofica. Ma effettivamente era riapparso come
Neo-Pitagorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appartenne Bolos di
Mendes, o Bolos Democrito. Quindi l’affermazione di Cicerone su lui si limita
al mondo romano. Raccogge intorno à sè un circolo di 'croonesi' che
permise ai suol nemici personali di parlare di una factio. Il suo sforzo di
fondere l'insegnamento della setta di Crotona (nel quale vede la verità su
filosofia, astronomia e scienze occulte -- con credenze, oltrechè romane,
etrusche. Suscita l'accusa di infedeltà alla 'religione' o culto ufficiale
dello stato romano. Sembra che coltiva l'astrologia e la magia e che predice al
padre di Ottaviano che il figlio che allora gli era nato avrebbe dominato il
mondo. Di lui si ricordano i seguenti scritti: "Commentarii
grammatici," di almeno 29 libri; "De gestu" -- una
monografia retorica."De dis" -- di cui è citato il 1. 199, è un
tentativo di rappresentare tutto il pantheon romano. Precede un’opera
simile di Varrone, che ne offusca il ricordoi si. Vi notano intuizioni stoiche.
E dubbio l'influsso di Posidonio. Chiari invece e l'influsso etrusco e
astrologici; "De extis," si diffonde sull'arte augurale
etrusca."Augurium privatum" in almeno 2 libri. È dubbia
l'attribuzione a lui di un libro Sulla interpretazione dei sogni. Uno
scritto "De ventis" comprendeva almeno 4 libri. Si cita di lui
il 4° libro di un'opera "De animalibus" e il 4° di un "De
hominum natura". È probabile abbia composto un "De terris" che
sembra fosse un’opera di geografia astrologica. La "Sphaera" di
lui e un saggio di astronomia e di astrologia che includede una Sphaera graecanica
(descriziene delle costellazioni greco-romana) e anche una "sphaera
barbarica," colla descrizione delle costellazione di altri popoli.
Probabilmente conteneva predizioni astrologiche. Le tendenze mistiche,
religiose e superstiziose che dominano in lui dovevano conservarsi in tutto il
Neo-Pitagorismo posteriore. Publio Nigidio Figulo. Figulo. Nigidio
Luigi Speranza --
Grice e Ninone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotona e la sua
causa -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. One of the
leaders of the anti-Pythagorean movement in Crotone. He claims that the
Pythagoreans are elitist and anti-democratic. He also claims to have a
knowledge of their secret teachings and published it in an essay. However,
according to Giamblico, N. Knows nothing of what the sect teaches and his essay
is ‘a work of pure invention.’
Luigi Speranza --
Grice e Nisio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia
molisena -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bojano). Filosofo italiano. Samnium, Bojano,
Campobasso, Molise. A pupil of Panezio. Nisio.
Luigi Speranza --
Grice e Nizolio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale –
la scuola di Brescello -- filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Brescello). Filosofo
italiano. Brescello, Reggio Emilia, Emilia Romagna. Grice: “I read Nizolio and
it’s like reading myself!” – Insegna a Brescia e Parma. Pubblica il lessico
Observationes in M. Tullium CICERONE, Brescia, il Thesaurus CICERONE, Venezia,
Facciolati, e il lexicon CICERONE, Venezia, Facciolati. Ha una lunga polemica
con MAIORAGIO per una critica portata da quest'ultimo a CICERONE che, iniziata
con la Epistola ad M. A. Majoragium, prosegue con l'antapologia e si conclude
con i De veris principiis et vera ratione philosophandi contra
pseudo-philosophos, Parma, scritto contro gli scholastici, che interessarono
Leibniz al punto che questi li fa ristampare premettendogli il titolo
Anti-barbarus Philosophicus, sive philosophia scholasticorum impugnata, con una
prefazione ed una lettera a Thomasius sulla dottrina del LIZIO, Francofurti,
Roma, Bocca. E chiamato da Gonzaga a Sabbioneta. Contemporaneamente alle
critiche di Ramo alla logica dei lizii, anche per lui occorre sostituire all'astrattezza
di quella logica un pensiero che sia concretamente legato al reale, e a questo
scopo la strada maestra sta nel ritrovare i processi del pensiero direttamente
nella struttura grammaticale dell’italiano. Individua cinque principi per fare
della buona filosofia. Il primo principio generale della verità e della buona
filosofia consiste nella conoscenza della lingua romana, in cui sono espressi
quei saggi filosofici. Il secondo principio è la conoscenza di quei precetti
che si trovano nella grammatica e nella retorica di CICERONE, sostituendo la
grammatica e la retorica alla metafisica, ontologia, o filosofia speculativa,
dal momento che il metafisico si e preoccupato solo di ricercare il vero, senza
occuparsi dell’utile, il necessario, o il pertinente delle cose trattate. Il
terzo principio consiste nell’interpretare il filosofo antico come CATONE IL
CENSORE, o Cicerone, o Antonino, e nello sforzarsi di comprendere il modo con
il quale il popolo romano si esprime, essendoci verità in quella schiettezza –
Grice: ‘slightness” -- di linguaggio. Il quarto principio generale del vero è
il libero, e la vera licenza delle opinioni e del giudizio su qualunque
argomento, in contro ogni domma, come richiede il vero e il naturale. Non
devono essere dunque CICERONE o ANTONINO nostril maestri, ma i cinque
sensi, l'intelligenza, il pensiero, la memoria, l'uso e l'esperienza delle
cose. Il quinto principio afferma che, oltre a esporre ogni tesi con la
chiarezza della lingua comune – l’italiano volgare, senza introdurre nel
discorso oscurità (avoid obscurity of expression, be perspicuous [sic], avoid
unnecessary prolixity [sic] o sottigliezze, occorre non trattare problemi che
non hanno realtà. Esempi di invenzioni filosofichi prive di oggettività sono la
idea platonica e la tesi del reale dell’universalie. Infatti, il reale è
costituito soltanto da singoli individui e questi devono essere indagati non
attraverso la loro natura propria e privata, ma attraverso la loro comune e
continua successione. Si fa filosofia non astraendo, ossia togliendo da una
singola realtà quel quid che viene poi analizzato come se esso fosse reale, ma
comprendendo, ossia considerando insieme il singolo reale. L'universale è una
vana e finta astrazione che deriva invece dalla comprensione di ogni singolare
di ogni genere, accolto insieme con un atto solo, senza astrazione
intellettiva, ma con il solo ausilio di un'intelligenza che comprende il
singolare. In sostanza, noi non possiamo distaccare, con un'operazione
dell'intelletto, un universale da ogni singolare, ma semmai passare
dall'individuale al collettivo. L'operazione consiste nel sostituire alla
dialettica la retorica e alla logica la grammatica ma, pur mettendo in rilievo
i difetti della logica classica, non riesce a fondare una nuova logica efficace
e persuasiva. Saggi: Garin, Rossi, Vasoli, Testi umanistici su la retorica;
Testi editi e inediti su retorica e dialettica di N., e Ramo, Milano,
Bocca N. in CICERONE observationes Caelii Secundi Curionis labore et
industria secundo atque iterum locupletatae, perpolitae et restitutae. Ejusdem
libellus, in quo vulgaria quaedam verba et parum Latina, ad purissimam CICERONE
consuetudinem emendantur, ab eodem Caelio, s.c. limatus et auctus; Dizionario biografico
degl’italiani. Ballestri, Massimiliano. Milano, Cosmo, Battistella, umanista e
filosofo, Treviso, Zoppelli, Il rinnovamento scientifico moderno, Como, Meroni,
Rossi, La celebrazione della rettorica e la polemica anti-metafisica del
De Principiis in La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Banfi, Milano,
Bocca; Fink, Logica aristotelica Universale Idea. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana;
Calogero, Dizionario di filosofia. Grice: “I was slightly disappointed when I
got hold of Nizolio’s overadvertised masterpiece, the “Lexicon Ciceronianum;”
while Urmson liked it, I found it more to be a common-or-garden dictionary. I
did not care for philosophical concepts, seeing that he starts wih “A”, ‘the
first letter of the alphabet,’ as N. defines it. So, I went straight to the
third tome – heavy as they are, and reprinted in London for use at public
schools –‘adolescens’ – to ROMA, ROMANVS, ROMVLVS. As for his advice as to deal
with the longitudinal unity of philosophy and his rhetorical, ‘Plato is my
friend but a better friend is truth,’ I can’t believe it coming from one who
dedicated his life to TRACE every little ‘idiom’ (slogans as the London edition
has it) uttered by Cicero! While I would expect praise against the barbarian
scholastic from Roger Bacon, it sounds hypocritical coming from Leibniz. By
N.’s standard, Leibniz was a barbarian his self. The scholastics actually saved
the books from the flames of the Longobards and the Eastern Goths (earlier on)
Roma, Contr. RuJ. Romain montibus posita, et
convalUbus, ccenacolis sublata atque suspensa. de Div. Certahant, Urbem Romam Uemamne
vocdrent, Post led. in Sen. Roma arx omnium terrarum. De Pet Cons. Roma civitas CK nationnm conventu
constituta. de Onu. Roma domus virtutis, imperii et dgnitatis. Roma domid Uum
imperii et gloris. Roma luxorbisterraruhi, et arx onuuum gentium. Div. Bmoul
sexennioj post Veios captos a GaUis capta. Rome et reges augnres, et postea
privati eodem sacerdotio prsediti, lem pub. Regionum
autoritate rexemnt. Qu. Fr. Roma, ubi tanta arrogantia est, tam immoderate
libertas, tam infinita hominum centia. Redu
Romam Fonteu cansa. Idns Qu. de Nat. Roma in terries nihU meUns. Inoer. Romam
conditam 01 vmpiadis sestss anno tertio. Romani. Pro Leg.Man. Romani præter
ctiteras gentes laudis et gloriæ avidi. Romani cives facti siculi
lege Antoni L. Fara. Romani veteres atque urbau sales. Tus. Romani serius quam
GffKci poeticam acceperant Di. Romaia nihU in bello sineextis agebant
nihU d<»B& sine auspiciis. Off. Romani toscoianos, equos, volscos,
sabinos, Hemicos, victoria parta non modo conservarunt, sed etiaro in ciritatem
acceperant Pro Mur. Romani tempora voluptatis laborisque dispelrtiunt, etc.
Tus. Romani omnia aut invenerant per se sapientius, quam Greciaut accepta ab
illis fcicerant meliora. Div. Romani omnibut rebus agendis, quod bonnm,
faustum, felix, fortunamque esset prefabantur. Pro Cnc. Romani eos vendere
solebant, qui mUites facti non essent de Ora. Romani minos qoam liitm Utteris studebant
Pro Leg. Man. Romani omnibus navalibus puffuis
Carthagienses vicerant Aoad. Romanorum antiqua juris jurandi formulaet
consuetudo. de Or. Romanoram ingenia raultnm csBteris liomiaibos omnium gentium
prsstiterunt Snavitassemkonis Atticoram et Romanomm propiia. Tosc.
Apod priscos Romanos morem honc epolaram fiijsseantor est Cato in
Originibus, ut deincepi, qui aocobaient, canerent ad tibiam virorom
daroram Uodes atqoe virtutes Romanos, a, uro. de Nat Romana RO
JaiioteIbBoa«t, <f«aUs8oif2li« $.S.Fo paU RoaiaBi ovnk religio in ftcrt etin
anspida diyia. Popalnm Boaunun nan DJ saasnon Sn defendenda ropnb.sed Sn
pUndendo cooso Bieie. Bum non nodo Romano bomini, sed ne Perse qwden coiqaam
tolerabile. Fam. Bomaoo nsoae oommendare. Romano more feqni. de Orat et Ver.
Romani ladL Att. Nu Bc Romanas res aedpe. Romilla,
iribus. t. cont Ral. Respondit, Romilla tribo se initiam esse £se-tnram. I,
Tribos. Romalos, li, Qutnntti. Romalam qu banc aibem condidit, ad deos
immortales benerolentia famaqae sastulimas. de L.Roawhis post exoessum suum
dixit Proculo Jolio, se deom esse, et Qaoinum vocartem plumaae sibi dedicari ia
eo loco jussit Romuhis quem iaauratum m Capitolio pamun ac lacttntem, uberibos
lopiais inhiantem fuisse meministis. OfF. Peccavit igitar, paoe vel
Qoirini toI Bomali du Eerim. de D. Romuhis puldier. Ih, Romulus
urbm auspicato oodidit Roamlus non solom aospieato Romam condidit, sed etiam
optimos augur feit de N.
Romnlos auspicBs, Numa sacris constitatb, fandamenta jeeit ostiSB dTitatii.
Off. Romulus, cum ci visom csset utilios solum, quam cum altero regnarefiratrem
interemit De Or. Roma Jns consitto magis et sapientfaqaam doqueotia usns est S.
Div. Romolas et Remus com altrice bdhui vi folminis idi oooddeiant Romulis et
Remus ambo augures fberant Roorali stataa decoelo taeta. Som.
Ronmlo moriente deficere sd bommibas eatingaiqao visus est.
Summatim quanam fine principia generalia veritatis investigande, recteque
philosophandi. Item in summa quanasmint princigpeianeralia pseudo-philosophorum
et perverse philosophandi. De generali omnium nominum divisione in substantiva,
adjectiva propria appellativa, deq; eorum proprietatibus et differentia,
nginguam facisusque inbuncdicmab ullo traditisaut cognitis, contra
pseudophilosophos. De nominibus propriis
et appellativis, tam cole&li vis quam simplicibus non cola Letivis, ac
decorum proprietatibus et diferentis, contra philosophastros. s. Deus) 0 (sem
(falsis. De denominativis reliquis capitibus Ante predicamentora, vel
supervalaneis vel. Universalia realia etiam five raese concedantur, tamen non
fuisse facienda quin. Que numeross ed velunumtantum, hoc est, GENUS, vel plura
quam quinque hoc est, septem veloflo, adiecto communi, simils, contrario, arque
substantia. De nominibus substantivis et adiectivis. De eorum proprietatibus ac
diferentis, contra pseudo-philosophos. De generaliomnium rerum
divisione oratoria pera et deila pseudo-philosophorum falsa, simul quede voce
universi anni versalis et in summa de falsirate universaslium realium ut
vocant. Universalia realia nec propter scientias artes quetradendas, nec propter
syllogismos eocateras argumentations formandas, nec propler predications
superiorum de inferioribus faciendas necessario ese ponenda contra
pseudo-philosophos. Universalia realta vere in rerum naturaese non posse. Co
propter canone c, uirea Etiffime dicunt nominales. Cintra sultam illam realium
opinionem de universalibus realibus, quorum rationes omnes plusquam in
aneslabefaltaneur. Um suffi.ientia, quam
vocant. De toris, et corum divisionibus, compositionibus quepere, contra
falsissimam dialecticorum de his omnibus doctrinam. De vere
philosophico e oratorio genere et de vera eius definitione. Contra falsum genus
dialecticum et falsam cius definitionem. De vera specie oratoria et vera ejus
definitione, contra falsam speciem dialecticam et falsam illius definitionem.
De vera diferentia et vero proprio philosophicis oratoriis do simulde eisdem
adversariorum vel falfsis vel inutilibus. De accidente vero quid esmedin
constanter definite et simul pauca quadam de falsis universalibus, eorum vanis
questionibus in universum. De preceptis dividendi et definiendi oratoriis veris
et dialecticis falis. De homonymis et
synonymis grammaticorum veris quid vere sint et quis verus eoru mufus, contra stultaila
aquivocado analoga dialecticorum. Ele tantum modo unum et summum et verum á
generalisimum genus oralo rium, quod est, genus rerum sex autem s a
transcendentia Dialecticorum, decem pre dilamenia LIZIO et tria VALLA (si veda)
falsa. Quam ob levem causam LIZIO CATEGORIAS fore predicamenta decem ponenda
existima verii et quam non re et tetria tantum Vallusta rucrit, simul quo pacto
nosar borem generica ma Porphyri analonge diversam, faciendam arbitramur. GENUS
rerum vere in duas rantum species divide in substantias et qualitates, omnia
alia accidentium dialecticorum pradicamenta sub qualitate generalitan quamo
verascius specie spere contineri. Simul de falsa universali. De o sem. De
qualitate generali et omnibus e iustam comparata quam absoluta speciebus,
praferrimquede qualitate speciali, quantum different a speciebus accidentium dialectic
corum et singularim quærario de causa diversitatis. De nominibus scientia arris
quid APUD LATINOS communite rad proprie significe ne, u quormo dis virum que
corum accipiatur et denique; quibus differentis attes elit entia mnter sed iftinguantur,
contra falsas scientias et artes pseudo-philosophorum, (falla. De generali
scientiarum do atrium divisione nostrar era, et pseudo-philosophorum. De
errales LIZIO in generali philosophia divisione admflis. Dialectica minter
scientias ariesnecut universalem nec ut particularem ul lum omni nolo cum
habere pose sed tanquam non modo falsams ed etiam in utslem de sua pervacuam ex
omni arti nm do scientiarum numero ejiciendam. Metaphysicam inter scientias
Cartesnecut universalem nec ut parricularem ul lumomn inolo, um habere pose,
sed tanquam partim falsam, parlim inutlim, partim super vacuam ab omni artium
scientiarum numero removendam. De comprehensione universo rufm singularium vere
philosophica de oratoria et simul de abstractınoe universalium
pseudo-philodophia et BARBARA contrafallam LIZIO doctrinam falso de ceniis,
abstrahentiam non efemendacsum. Oratoriam esse facultatem vere generalem,
grammaticam sub se primo, deinde reliqua somnesarl es screntias vere
continentem, ium partese jus majores breviter ex ponuntur omnes, o cidem, qua a
pseudo-philosophis unique fuerunt ablatare stituuntur. De sophisticis elenchis
ab LIZIO in rhetoricam non recte introductis et delio bro sophisticorum
elenchorum quid senciendum, Que et quot fintea, quarequiruntur cascientise
artibus, ex quibu spendetac fitomnis eorum dividio definition o distinctio,
contra falfam de eisdem rebus Pseudo-philosophorum doctrinam. De utilibus et
veris argumentis de que utili vero eorum iam tradendorum, quam usurpandorum
modo, conira partim sulum purtom inutilem ipsorum doctrinam ab LIZIO traduam in
libro Topicorum. De definitionibus nominis et verbido orarionis grammaticorum
veris. Pseudo-philosophorum falsis, condealis, queab LIZIO falso vel inutiliter
in libro Sepienpenveids traduntur. Dentilibus et veris argumeniationibus, de
queutilido vero carum usu, contrainu tolemdo vana LIZIO decudem rebus doctrinam
traditam in libris analyticorum. De falsa demonstratione et falsa scientia et
falsa sapientia pseudo-philosophorum simul de inutili falsoque posteriorum
analyticorum libro. De vanitate eorum, qua a recentioribus dialedicis
appellantur parva logicalia. Libros qus hodie sub LIZIO nomine leguntur
plerosque non vere essesri Roselicos, sed subdititios con adulterinos, contra
communem pseudo-philosophorum opinionem. De ACCADEMIA, LIZIO, Galeno, Porfirio.
Deomnibus LIZIO interpretibus Græcis et LATINIS: reviter quid sentiendum rectte
philosophaturis. De ratione philosophandi o de corrigendis instaurandisque;
Philosophia studis, qua nunc maxima exparte perveriæ corruptsaunt. N. stammt
aus Brescello in Reggio d’Emilia. Als Geburtsjahrà wird allgemein und als
Todesjahr angegeben. Indes ist diese Berechnung nach der Untersuchung
Batistellas auf Grund inschriftlicher Argumentation um ein Dezennium zu spät
angesetzt. Demzufolge lebte N. Ueber seine ersten
Lebensjahre und Studien ist nichts bekannt. Finden wir ihn am Hofe des Grafen
Gambarra, eines eifrigen Beschützers und Pflegers der Wissenschaften. Ihm widmete
auch N. seine erste, abgefasste Schrift, die
Observationes in CICERONE. Nachdem er eine lange Zeit als
Hauslehrer in der gräflichen Familie tätig gewesen, kam er als
professor in Parma. Wurde er, bereits, als Leiter an die von dem Herzog
Vespasiano Gonzaga neuerrichtete Universität zu Sabbioneta berufen. N.
war damals ein weithin berühmter Gelehrter: un vecchio consumato negli studi
dell’eloquenza e della filosofia, chiaro per molte opere, vittorioso nelle
concertazioni letterarie e per lungo usu di leggere sulle cattedre delle città
più cospicue praticissimo, di cui la memoria nei fasti dell’italica
letteratura, non perirà giammai. Altersschwäche und ein sich immer mehr
verschlimmerndes Augenleiden hemmten den Greis gewaltig in dem schweren
Berufe, den er auf sich geladen hatte. Schon ereilte ihn der
Tod, ob zu Sabbioneta, oder in seiner Heimat Brescello,
lässt sich nicht bestimmen. Vergl. Jöcher, Gelehrtenlexicon sub N.
Suppl., der sehr ungenau ist. Ausführl. biographische Notizen bringt
Batistella: N. Batist. Bat. Bat. Die Tätigkeit des N. erstreckte sich
zunächst nur auf das Gebiet der klassischen Sprachen. Er beschäftigte sich mit
der Interpretation griechischer und lateinischer Autoren, vor allem des
CICERONE. Mit rastlosem Fleiss verband er einen kritischen und vor allem
natürlichen Sinn. Aus dem letzterem Umstand erklärt sich auch
wohl der realistische Standpunkt, den er in philosophischer Hinsicht verfocht.
Zu eigentlich philosophischen Spekulationen kam N. erst spät und zwar durch
einen mehr äusseren Umstand. Während seines Aufenhaltes zu Parma geriet er in
einenheftigen Streit mit MAJORAGIO (si veda), professor der Eloquenz in
Mailand. Es handelte sich in der Hauptsache um zwei Fragen: Lateinischer Stil
und Philosophie, CICERONE und il LIZIO. Majoragio war wie N.
ein grosser Verehrer CICERONE, jedoch zog er der eklektischen
Philosophie desselben die reine Lehre des LIZIO vor und vertrat die
Ansicht, dass man die Philosophie CICERONE mit der des LIZIO
in Einklang bringen könne. N. dagegen strebte dahin, den
LIZIO für immer zu verbannen, indem er mit Ueberzeugung den
Standpunkt von der falschen und unnützlichen Doktrin LIZIO vertrat. Diesem
Streit, der auf beiden Seitem unerbittlich und unwürdig geführt wurde, machte
schliesslich der Tod MAJORAGIO ein Ende. Bat. Le
opere ei giudizi dei eritici. Bat. Bat. La polemica con MAJORAGIO
vergl. femer Gerh. Phil. und
N. in seiner Vorrede zum anti-barbarus, ad Lectores contra MAJORAGIO. Bat.
Bat N. soll in Jahren nicht recht haben schlafen können!
(Jöcher a. a, 0.) non solum calamo et chartis
venenatisimis, sed etiam putrido et fœtenti illo ore suo contra vitam et
mores nostros usque in hunc diem deblateravit et deblaterat, N. ad
lectores in De veris principiis, ipse MAJORAGIO qui licet, de
magnis et obscuris philosophiæ rebus loqui conetur, tarnen vere est
acocfoc, et tantum seit de philosophia quantum asinus de musica, Vorrede. MAJORAGIO hatte
auf die Angriffe des N. eine apologia erscheinen lassen, die N. mit einer
anti-apologia erwiderte. Es folgte nun seitens MAJORAGIO reprehensionum
libri contra N., worauf N. mit seinem anti-barbarus
philosophicus antwortete. Seine AngriflFe fasste N. dann noch einmal zusammen
in seiner Schrift: De veris principiis et vera ratione philosophandi
contra pseudo-philosophos In der Hauptsache war N. mehr gelehrter Humanist als
philosophischer Denker oder Kenner der älteren Philosophie. Sein Eifer für die
Beförderung der klassischen Latinität veranlasste ihn zur Abfassung einer
Reihe von Werken, die uns ein Bild geben von seiner bewunderungewürdigen
Arbeitskraft. Nur die wichtigsten seien genannt. Als sein Hauptwerk ist wohl
anzusehen ein Thesaurus sive latinæ linguæ Lexicon, das, wie auch die meisten
der anderen Werke, zahlreiche Neuauflagen erlebte. Das genannte Werk war
bereits unter dem Titel Observationes in CICERONE, dann als Apparatus
latinæ locutionis und endlich als Thesaurus CICERONE in Venedig, und
erweitert von Zanchi gedruckt wonien, erschien es zu Frankfurt und zu
Padua mit beigedruckten CICERONE Phrasen, die nicht von N. stammen.
Ausserdem verfasste er die bereits erwähnte antiapologia pro CICERONE
et Oratoribus contra MAJORAGIO Ciceromastigen, ferner
Defensiones locorum aliquot CICERONE contra disquisitione Calcagnini,Venedig,
und übersetzte aus dem Griechischen ins Lateinische Galeni explanatio
obsoletarum vocum Hippocratis. Fällt die Herausgabe des Werkes, welches
das vollständige philosophische System des N. enthält und mit vollem Titel
lautet: De veris principiis et vera ratione philosophandi contra
pseudo-philosophos, in quibus statuuntur ferme omnia vera verarum ar- Bat. Bat.
tium et scientiarura principia, refutatis et rejectis prope Omnibus
Dialecticorum et Metaphysicorura principiis falsis, et præterea refutantur fere
omnes MAJORAGIO objectationes contra eundem N. usque in hanc diem editæ.
Parma apud Viottum, Schon die Titel der Werke beweisen, dass die Tätigkeit des
N. eine mehr philologische als philosophische gewesen ist. In der ersteren Eigenschaft hat er daher auch stets warme
Anerkennung gefunden. Cælius Secundus, ein späterer Herausgeber seiner
Observationes, nennt ihn im proœmium einen gelehrten Mann, der sich
unstreitiges Verdienst um die lateinische Sprache erworben. N. quasi Deus
aliquis linguæ latinæ tanquam universitatem quandam fabricatus est, quam postea
hominibus non solum ntendam, verum etiam excolendam tradidit Aehnlich äussert
sich Simon Grynacus in der Vorrede zum Thesaurus CICERONE des N. Videtur
hie vir in hoc uuo opere, postquam delectum latinæ dictionis, ne promiscue
hauriremus, puritatemve linguæ confunderemus, optimum egit, simul et viam
loquendi certam post hac et expeditam monstrasse et vim ac copiam sermonis
Latii totius omnem effudisse et CICERONE libros nunc deum legendos omnibus exhibuisse.
Einer seiner Verehrer H. Fröhlich besingt das Lob des italienischen Humanisten
begeistert in dem Ruhmespoem N. quem thesaurum congessit in unum, ex latiæ
linguæ fönte, labore gravi: Tro)anas longe gazas superare memento, jjFortunas
Crassi, divitiasque Midæ. Für die Philosophie ist N. hauptsächlich von
Bedeutung, weil er der einzige Grammatiker ist, der Schule gemacht hat in der
Philosophie und ferner als erster unter den filosofi razionali in Italien
ausführhch gehandelt hat Ton der Dottrina metodica. Um indes den
Philosophen N. ganz nach Verdienst würdigen zu können, muss man die Zeit, in
der er lebte, in Rechnung ziehen. G. Bat. Daselbst auch die übrigen
kleineren Schriften. Siehe Bat Die Renaissance ist in philosophischer Hinsicht
charakterisiert durch die grosse Armut selbständiger philosophischer
Spekulation und durch vorläufiges Fortwuchern der scholastischen Philosophie.
Daneben kommen als positive Momente einerseits die Erneuerung antiker Systeme,
vor allem ein von den humanistischen Philologen in engster Anlehnung an
CICERONE gezüchteter Eklekticismus, andererseits eine mit der letzten
Erscheinung eng zusammenhängende rhetorische Behandlung der Philosophie,
speziell der Logik in Betracht. Die neologischen Humanisten mussten den Schriften
CICERONE wegen der Schönheit ihrer sprachlichen Form gegenüber dem
entstellten und verwilderten LIZIO der spätscholastischen Philosophie mit ihrer
dunklen und vielfach sinnlosen Diktion den Vorzug geben. Daher sehen wir
alle Philosophen der Renaissance in dem Streben, durch Beseitigung der
sinnlosen Auswüchse den reinen und ursprünglichen LIZIO für den literarischen
Betrieb der Logik wiederherzustellen und schliesslich die logische Disziplin zu
einer rhetorischen umzugestalten, einig gehen. Galt der Scholastik LIZIO
derp hilosophus xat' l^o-/'»]v, als Norm in jeder strittigen Sache, so
bekämpfen die Humanisten, wie jeden Autoritätsglauben,vor allem die
Ausschliesslichkeit, mit welcher man überhaupt nur dem LIZIO, den
man noch dazu in entstellter Form in Händen habe, Wert beilege. Als Massstab
und Norm will man vielmehr den
eigenen gesunden Menschen-verstand und die fünf Sinne gelten lassen. Und in
diesem Gesichtspunkte haben wir die Brücke zu der
sensualistisch-nominalistischen Tendenz, die gleichfalls mehr oder weniger die
Philosophen der Renaissance insgesamt beherrscht. Neben dem Italiener N. kommen
hier als bedeutende Vertreter der Renaissance-Philosophie in Betracht der Römer
VALLA (si veda), und Agricola. N. bringt
die Bestrebungen seiner Vorgänger zu einem gewissen systematischen Abschluss,
sich grösstenteils an sie anschliessend, vielfach dieselben aber auch
kritisierend. Von seinen Werken mass er selbst dem anti-barbarus Philosophicus
die Hauptbedeutung zu, da er in ihm eine Reformatio Philosophiæ bewirkt zu
haben meinte. Aber dennoch erntete er gerade durch seinen Index CICERONE seine
Berühmtheit, während seine Philosophie schon beim Entstehen kaum dem Ersticken
entging. Philosophia N. prope in ipso partu suffocationem aegre effugit. Das Geschick des in tenui labor, at
tenuis non gloria bei N. begründet
Leibniz durch den Umstand, dass N.
in Italien schrieb,
wo damals LIZIO und die Scholastiker in allzu tyrannischer Weise
herrschten. Leibniz ist der Ansicht, dass nunmehr seine Zeit, wo man wenigstens
zugebe, dass auch ein LIZIO irren könne, auch den Verdiensten eines N. gerecht
werden könne. Welche Wertschätzung Leibniz
selbst dem italienischen
Philosophen entgegenbrachte, beweisen
ausser der von ihm besorgten
zweimaligen Herausgabe des anti-barbarus die zahlreichen Anmerkungen, dieer in
den Text hineinsetzte, sowie die Abhandlungen, die er im Anschluss an die
Edition des N. Werkes erscheinen
liess. Unter ihnen ist die ausführlichste und wichtigste die sogenannte
Dissertation über den philosophischen Stil, Dissertatio Præliminaris de alienorum operum editione, de
philosophica dictione, de lapsibus N.,
wie Leibniz sie betitelt. Er schickte dieselbe nebst einer Widmung an
den Baron von Boineburg, ausserdem einen Brief an Thomasius über die Versöhnung
des LIZIO mit der neuen Philosophie De LIZIO recentioribus reconciliabili,
sowie Exzerpte aus Briefen des Thomasius ad Editorem, Leibniz, der eigentlichen
Abhandlung des N. voraus. G. Q. vel hoc saltem in
confesso est, LIZIO errare posse. Renhissanoe and Philosophie. Leibniz' üebereinstiramung mit N. Die
philosophische Diktion. Gerade die Schrift des N. musste Leibniz
besonders anziehen; war doch desselben Massstab in der Beurteilung und
Behandlung fremder Autoren derjenigen unseres Leibniz so durchaus ähnlich. Auch
N. knüpfte an die Scholastik, die Alten, vor allem
LIZIO, an, übernahm das viele Gute, das sich bei ihnen fand und besserte
und reinigte, wo es ihm gut und notwendig schien. In dieser Behandlungsweise
fremder Autoren sieht Leibniz ein Hauptverdienst des N.; er hält ihn daher den
Philosophen seiner Zeit entgegen, die nur darauf bedacht seien, sich ausschliesslich mit ihren eigenen
Gedanken-erfindungen zu befassen. Ein gleiches Mass von Uebereinstimmung mit N.
bekundet Leibniz in der Beurteilung oder vielmehr Verurteilung der Scholastik.
Mit Recht musste seiner Ansicht nach N. nach dem Studium des stofflich
vielseitigen und stilistisch glänzenden CICERONE die scholastische
Behandlungsweise, die mit ihren Finsternissen und ihrem geringen Gehalt an
Nützlichem irgendwelcher Art jeglicher elegantia entbehrte, verachten. Zwar
sucht Leibniz, die Scholastiker in Schutz nehmend, ihre Fehler und Schwächen zu
entschuldigen mit den damaligen ungünstigen Zeitverhältnissen. Welchen Wert er
aber im Innersten seines Herzens der Scholastik beimisst, beweisen die zornigen
Vorwürfe, die er denen macht, die noch jetzt, nachdem die Früchte gefunden,
lieber die Eicheln essenwoll en und mehr sich versündigen durch ihren Eigensinn
als durch Unwissenheit. Ihnen Gerh. Ritter G. vgl. auch G. hält er entgegen den
unvergleichlichen Verulamius und die übrigen ausgezeichneten Männer unter den
Neueren, die die Philosophie ex æreis
divagationibus aut etiam spatio imaginario ad terram hanc nostram et usum vitae
revocaverunt. Im Zeitalter der Erneuerung der Wissenschaften, so behauptet
Leibniz, hat es viele Gelehrte gegeben,
die gegen die barbarische Diktion der Vulgärphilosophen zu Felde zogen,
aber es war bei ihnen mehr ein Carpere als ein Emendare. Die einen jammerten,
andere mahnten und gaben Ratschläge, wieder andere donnerten gegendie
scholastischen Philosophen und nannten sich im Gegensatz zu ihnen Reales, aber
sie unterliessen es, die Sache selbst in die Hand zu nehmen. Da sei es nun N.
gewesen, der mit Eifer und Fleiss und, wenn man ihn läse, mit solcher efficacia
wie kein anderer Schriftsteller sich wirklich damit befasst habe, den Boden der
Philosophie von jenen spinæ verborum von Grund aus zu säubern. Er verdiene es
daher als exemplum dictionis philosophicæ reformatæ und zwar, soweit es für die
Logik, das vestibulum philosophiæ, gelte, angesehen zu werden. Leibniz
knüpfthieran den Wunsch, dass in seiner an Talenten so reichen Zeit sich Männer
finden möchten, das Werk des N.
für die
übrigen Teile der Philosophie fortzusetzen. Er selbst würde, wie er hinzufügt, sich dieser Aufgabe
unterziehen, wenn er sich nicht teils durch andere Studien daran verhindert
sähe, teils aber fürchten müsse, anderen, die dieselbe Sache besser leisten
möchten, vorzugreifen. Diese Einwendungen halten ihn jedoch nicht ab, auf die
N. Erörterungen wenigstens im allgemeinen einzugehen und ihnen Neues
hinzuzufügen. Rühmend hebt G. Ueber das Verhältnis Leibnizens zur Scholastik
siehe: Jasper, Leibniz und die Scholastik, Leipzig, ferner Rintelen Leibnizens
Beziehungren zur Scholastik, München, besonders G. Leibniz hervor, wie N.
überall nicht nur fordere, sondern auch selbst in Anwendung bringe eine dicendi
ratio naturalis et propria, simplex et perspicua, et ab omni detorsione et fuco
libera, et facilis et popularis et e media sumta, et congrua rebus, et luce sua
juvans potius memoriam quam Judicium inani acumine confundens. N. stellt fünf
allgemeine Prinzipien des rechten Philosophierens auf, die aber, wie Leibniz bemerkt,
mehr auf die Rede als auf das Denken
Bezug nehmen. Als erste Bedingung fordert er die Kenntnis des Griechischenund
des Lateinischen, als zweites das Vertrautsein mit den Vorschriften und Lehren,
die sich bei den Grammatikern und Rhetoren finden, ferner drittens eine umfassende und
andauernde Lektüre der besten griechischen und lateinischen Autoren und die
Kenntnis des allgemeinen Sprachgebrauchs
sowohl, soweit es die obigen betriflft, als auch des Volkes, das nach Horaz die Gewalt und Bestimmung hat über die Norm der Redeweise. Ein viertes Prinzip ist die Freiheit und wahre Willkür
im Denken und Urteilen über alle Dinge. Jeder, der richtig philosophieren will,
darf keiner bestimmten philosophischen Sekte anhängen, sondern soll vielmehr seinen eigenen fünf Sinnen,
seiner Intelligenz und der Erfahrung als seinen alleinigen Lehrern
undAutoritäten folgen. Endlich fordert
N. als letzte und fünfte Bedingung, dass man nicht abweiche von der
gewöhnlichen und bei allen G. N.
C. Siehe auch N. nemini fas est, ut Græci dieunt,
ovofAaxoTto-.sIv, hoc est, nova nomina tingere, nisi populo Atque ideo
dialectici non recte faciunt sed maximum committunt vitium, qui primum
impudenter et barbare nominant res a se non inventas et ab aliis ante
nominatas, ut exempli gratia, quæ grammatici et oratores jam inde a principio
vocaverunt nomina, verba, adjectiva, substantiva, supposita, apposita,
propositiones, assumptiones et plurima alia huiusmodi, ipsi prætermissis et
rejectis penitus nominibus antiquis et rectis. appellant terminos, copulas,
concreta, abstracta, subjecta, prædicata, maiores, minores et alia id genus
sexcenta. Gelehrten üblichen Redeweise, nicht za kurz oder dunkel schreibe oder
lese, keine quæstiones inconsistentes, nichts Paradoxes oder Ungebräuchliches
oder Neues in die Philosophie einführe, falls letzteres nicht unbedingt nötig
ist. Besonderen Nachdruck legt N. darauf,
dass ja nicht die mos scribendi et loquendi a populi ac vulgarium lo- [N. allem den dialektischen, und
metaphysischen und wo immer er handele von seinen mehr als monströsen genera,
species, secundæ substantiæ, universalia realia, abstractio, demonstratio u. s.
w., verdiene er den höchsten Tadel. In summa behauptet er von LIZIO: ubi bene
dicit nihil melius, ubi male nihil peius posse excogitari) Auch diese Ansicht
des N. teilt Leibniz durchaus nicht. Er behauptet im Gegenteil,
dass er fest überzeugt sei von der genuitas operum LIZIO, was auch sagen mögen
N., PICO (si veda), Petrus, Ramus u. a. Die Gründe, die N. angibt, sind ihm
nicht durchschlagend. CICERONE, auf den
sich Nizolius in
erster Linie als
Gewährsmann stütze, könne
nicht als solcher
gelten. Denn es sei nichverwunderlich, dass ein Mann wie CICERONE als
Politiker und Vielbeschäftigter -- infinitis
curis obrutus -- die Gedanken
gerade der feinsinnigsten Philosophen (subtilissimi cuiusdam Philosophi)
flüchtig gelesen und daher nicht genügend verstanden habe CICERONE (hie) duo dicit, primum communem esse
sententiam quod sint LIZIO, deinde non negat esse LIZIO, sed saltem conicit, posse fortasse esse filii. Hæc
vero a possibili coniectura communi illorum quoque temporum sententiae nihil
præjudicare debet. Ihm, Leibniz, selbst ist die Echtheit der Schriften
LIZIO vollständig verbürgt durch jene
perfecta hypothesium inter se Harmonia
et aequalis ubique methodus velocissiraæ subtilitatis. In seinem Briefe an
Thomasius') De LIZIO recentioribus
reconciliabili schreibt Leibniz:
Quæ LIZIO de materia, forma, privatione, natura, loco infinito tempore, motu,
ratiocinatur, pleraque certa et demonstrata sunt, hoc uno fere demto, quæ de impossibilitate
vacui et motus in vacuo asserit. De
cetero reliqua pleraque LIZIO Disputata nemo fere sanus in dubium vocabit. N.
Adnotatio. Q. Nizzoli. Mario Alberto Nizolio. Nizolio. Keywords: Cicerone,
lexicon ciceronianus, Antonino, Leibniz’s ‘anti-barbaro’. – Refs.: Luigi
Speranza: Grice e Nizolio: il thesaurus ciceronianus” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Noce: l’implicatura
conversazionale – la scuola di Pistoia -- filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo toscano. Filosofo italiano. Pistoia, Toscana.
Grice: “Only in Italy, philosophy and history are so connected; it would be as
if we at Oxford after the war would be only concerned with understanding
Churchill!” Grice: “For us, to do linguistic philosophy was to get away from
post-tramautic stress disorder acquired during what Winthrop stupidly called
the ‘phoney’ war!” – Grice: “It’s not difficult to understand why Noce’s notes
on Gentile were only published posthumously!” -- essential Italian philosopher.
«Certo i cattolici hanno un vizio
maledetto: pensare alla forza della modernità e ignorare come questa modernità,
nei limiti in cui pensa di voler negare la trascendenza religiosa, attraversi
oggi la sua massima crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici.»
(Risposte alla scristianità, da Il Sabato). Ttitolare della cattedra di
"Storia delle dottrine politiche" all'Università La Sapienza di
Roma. Studioso del razionalismo cartesiano e del pensiero moderno (Hegel,
Marx), analizzò le radici filosofiche e teologiche della crisi della modernità,
ricostruendo con cura le contraddizioni interne dell'immanentismo.
Argomentò l'incompatibilità tra marxismo, umanesimo, ed altri sistemi di
pensiero che propugnavano la liberazione secolare dell'uomo e la dottrina
cristiana (affermò: "solo il Redentore può emancipare"). Sostenne
tenacemente, per tali motivi, l'impossibilità del dialogo tra cattolici e
comunisti e previde il "suicidio della rivoluzione". Studioso del
fascismo, sostenne che tale ideologia fosse peraltro in continuità con il
comunismo e fosse anch'esso un momento della secolarizzazione della modernità.
Sostenne, inoltre, l'esistenza di molti punti di contatto tra il fascismo e il
pensiero dei sessantottini. Filosofo della politica, preconizzò la crisi
del socialismo reale, mentre esso viveva la sua massima espansione a livello
mondiale. Argomentò che tale sistema, da una parte applicava coerentemente la
filosofia di Marx, ma dall'altra negava le premesse del marxismo: ciò in
quantomostrava N. lo stesso sistema di Marx si basava sulla contraddizione tra
dialettica e materialismo storico. Ribadiva infine la necessità dei valori di
verità e di moralità. Figlio di un ufficiale dell'esercito e di Rosalia
Pratis, savonese discendente di una famiglia nobile savoiarda. L'anno dopo la
madre si trasferisce con il figlio a Savona e, allo scoppio della guerra
mondiale, a Torino, presso una zia materna. A Torino, Augusto svolge tutta la
sua carriera di studi: dapprima al noto liceo D'Azeglio, frequentato da alcuni
dei futuri protagonisti della vita politica e culturale della città e della
nazione (Bobbio, Mila, Pajetta, Pavese, Balbo e altri), poi all'Università
degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, allievo di Faggi,
Juvalta e Mazzantini con il quale si laurea con una tesi su Malebranche. Inizia
quindi a insegnare presso istituti superiori (Novi Ligure, Assisi, Mondovì),
mentre sviluppa la sua attività di studio anche con soggiorni
all'estero. Legge con entusiasmo Umanesimo integrale di Jacques Maritain,
che rafforza in lui, tra l'altro, una sempre più convinta opposizione al
fascismo. Cerca invano di farsi trasferire a Torino e di accedere qui alla
carriera universitaria. Si trasferisce a Roma per un distacco propostogli
dall'amico Castelli. A Roma frequenta Franco Rodano che, con Felice Balbo e
altri, anima l'esperienza di «Sinistra Cristiana», un tentativo di
conciliazione di comunismo e Cristianesimo da quale Del Noce resta per breve
tempo affascinato. Viene accolta la sua richiesta di trasferimento presso un
istituto superiore di Torino, dove torna a risiedere. Accompagna
all'insegnamento un'intensa attività di studio e di collaborazione a diversi
periodici, tra cui Cronache Sociali che gli dà occasione di incontrare
Dossetti. Scrive e pubblica il saggio La non filosofia di Marx, che
ripubblicherà vent'anni dopo nella sua opera maggiore (Il problema
dell'ateismo) e nel quale fissa i termini complessivi della sua interpretazione
del marxismo. Nello stesso anno cura l'edizione italiana di Concupiscentia
irresistibilis di Šestov. Inizia la collaborazione alla Enciclopedia filosofica
del Centro Studi Filosofici di Gallarate, diretta da Luigi Pareyson. Distaccato
a Bologna presso il centro di documentazione diretto da Giuseppe Dossetti. Nel
capoluogo emiliano frequenta Matteucci e collabora stabilmente al neonato
periodico «Il Mulino». Scrive su Ordine Civile, rivista animata da Bozzo, e
altri alcuni saggi, uno dei quali, «Idee per l'interpretazione del fascismo»,
sarà all'origine delle future revisioni storiografiche di Felice e Nolte. Partecipa
al convegno organizzato dalla Democrazia Cristiana a Santa Margherita Ligure
con una relazione intitolata L'incidenza della cultura sulla politica nella
presente situazione italiana: sugli stessi temi N. intratterrà per anni un
rapporto difficile con il partito cattolico (altri interventi nei convegni di
San Pellegrino e di Lucca. Partecipa a un concorso a cattedra a Trieste, ma non
ottiene il posto. Pubblica Il problema dell'ateismo e l'anno successivo Riforma
cattolica e filosofia moderna, Cartesio. Partecipa alla «Giornata rensiana» con
una relazione intitolata Giuseppe Rensi fra Leopardi e Pascal. Ovvero
l'autocritica dell'ateismo negativo in Rensi, nella quale espone la sua
fondamentale fenomenologia del pessimismo come pensiero religioso. Nello stesso
anno vince il concorso per una cattedra di Storia della filosofia moderna e
contemporanea a Trieste, dove divenne Professore. In quell'anno esce L'epoca
della secolarizzazione, che raccoglie molti dei saggi e degli interventi degli anni
sessanta. Si realizza il tanto atteso trasferimento a Roma, dove,
all'Università "La Sapienza", insegna prima Storia delle dottrine
politiche e poi dal Filosofia della politica. Si infittisce la sua
collaborazione a riviste e periodici, sui quali interviene anche riguardo
all'attualità politica e culturale. Diresse la collana «Documenti di cultura
moderna», dell'editore torinese Borla (poi passata alla Rusconi) proponendo al
pubblico italiano autori come Corte, Burkhardt, Pelayo, Sedlmayr e Voegelin.
Partecipa vivacemente al dibattito sul divorzio. Dopo la metà degli anni
settanta inizia il rapporto con gli universitari di Comunione e Liberazione
partecipando a convegni e incontri promossi dal Movimento Popolare. Pubblica il
saggio Il suicidio della rivoluzione, dedicato al compimento e alla dissoluzione
del marxismo. Con Il cattolico comunista chiude i conti con l'esperienza di
Rodano (che nel frattempo ha lasciato la DC per il PCI) e dei teorici della
conciliazione tra Cattolicesimo e marxismo. Inizia anche la collaborazione
continuativa con il settimanale «Il Sabato» e contribuisce alla creazione della
rivista 30 giorni, di cui rimarrà stabile collaboratore. Nello stesso anno
viene candidato come indipendente nelle liste della Democrazia Cristiana per il
Senato: primo dei non eletti, entrerà in Senato l'anno successivo a seguito
della morte di un collega. Viene insignito del «Premio Internazionale
Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica. Riceve il premio Nazionale di
Cultura nel Giornalismo: la penna d'oro. Viene premiato dal Meeting di Rimini.
Muore a Roma. È tumulato nel Famedio del cimitero di Savigliano. Esce
“Gentile”, che raccoglie diversi saggi sul padre dell'attualismo, sul fascismo
e sul suo significato nella storia, frutto di decenni di studi e
rielaborazioni. L'archivio del filosofo e la sua biblioteca sono custoditi a
Savigliano dalla fondazione Centro Studi N., sorta nei primi anni novanta,
diretta prima da G. Ramacciotti, poi da Mercadante, da Riconda, e
Randone. In “Il problema dell'ateismo” N. inizia l'analisi della storia
della filosofia moderna invertendo il paradigma storicistico e positivistico
che nel progressismo aveva la sua cifra comune. Il filosofo afferma infatti che
tale paradigma di illuministica origine ha come prima condizione d'esistenza la
postulazione dell'ateismo come necessità del progredire dei sistemi filosofici
e delle scienze a prescindere dalla teologia cristiana, cioè a prescindere
dalla Scolastica, anzi in più o meno esplicita opposizione alla Scolastica.
La tesi che Del Noce intende dimostrare in questa sua opera è -come evidenzia
appunto il titolo- la considerazione dell'ateismo non più come «necessità»
bensì come «problema» della modernità, il cui ultimo, coerente e necessario
sbocco è appunto il nichilismo post-nietzscheano distaccato ormai da qualsiasi
riflessione filosofica e sfociato in una pura forma di vita, in puro way of
life di distruzione e auto-distruzione dell'uomo. Del Noce pone quindi
innanzitutto una distinzione fra tre diverse forme di ateismo, ovvero fra l'ateismo
positivo o politico diurno, i cui esempi perfetti sono stati l'illuminismo di
un Diderot o l'umanesimo di un Feuerbach, l'ateismo negativo o nichilistico
(«notturno»), esemplificato invece dalla filosofia di Schopenhauer, e infine
l'ateismo tragico, detto anche «follia filosofica», cioè la forma più rara e
particolare di ateismo che N. trova solo in due casi in tutta la storia della
filosofia, ovvero in Nietzsche e in Jules Lequier. Posta questa
propedeutica distinzione, Del Noce inizia l'anamnesi del pensiero filosofico
moderno per rintracciare la genesi di ogni forma di ateismo, impossibile da
pensarsi per la filosofia antica come dimostra il fatto che anche la filosofia
epicurea -considerata comunemente come ateistica- ammetteva in realtà
l'esistenza degli dèi. Per N. appare evidente che la crisi della Scolastica
medievale non ha costituito un processo necessario per il semplice fatto che
proprio colui che aveva intenzione di riformarla -cioè Cartesio- fu invece
colui che in realtà la tradì e se ne allontanò: è nelle celeberrime Meditazioni
metafisiche che il filosofo francese -allievo dei Gesuiti- tentò di riproporre
una nuova prova dell'esistenza di Dio da opporre al naturalismo libertinista
del Seicento, che predicava relativismo etico e che sostituiva il dio-logos con
la Natura impersonale e senza ordine. In realtà però Cartesio, nel suo
sforzo apologetico, compì il definitivo tradimento della filosofia cristiana
riattingendo ad un agostinismo privato di platonismo e considerando così le
idee dei semplici «contenuti della mente». In altre parole se l'idea di Dio,
quantunque logicamente necessaria, non è il riflesso intellettivo di una realtà
ontologica esterna al soggetto ma è una semplice struttura logica, allora vale
realmente la critica kantiana della prova ontologica di Sant'Anselmo secondo la
quale non è lecito aggiungere il predicato dell'esistenza alla perfezione
dell'idea se non per un paralogismo. N. in sintesi ha mostrato come il
tradimento e la perdita della Scolastica, attuata innanzitutto da Cartesio, ha
come punto centrale l'idea di Idea, che è passata ad essere da struttura del
reale a struttura del razionale, passando quindi dal dominio dell'ontologia a
quello della psicologia. Per questo non vi è alcuna spiegazione se non il
rifiuto pregiudiziale di riconoscere uno statuto ontologico
all'idea, cosicché non vi sarebbe appunto alcuna necessità di trapasso
della Scolastica né tantomeno alcuna necessità di genesi del razionalismo; in
tal senso la famosa critica di Kant varrebbe quindi solo contro Cartesio e non
contro Sant'Anselmo, il cui platonismo gli permetteva ancora di inferire
necessariamente la «perfezione» dell'esistenza dall'idea dell'Essere con ogni
perfezione, cioè dall'idea di Dio. Prosegue la sua analisi mostrando quindi
come in Cartesio, che pur nelle sue intenzioni voleva essere un defensor Fidei,
già sussisteva in nuce ogni forma di illuminismo che avrebbe poi dominato nel
Settecento, per questo egli parla di un pre-illuminismo cartesiano e aggiunge
inoltre che proprio Cartesio, fiero avversario del libertinismo dilagante nel
suo tempo, fu colui che tradusse l'ateismo libertinistico e irrazionalistico
nella sua forma razionalizzata, cioè nell'illuminismo, che sarebbe stato
appunto un libertinismo razionalistico. Si noti che Del Noce non pone giudizi
sulla persona di Cartesio, e anzi sottolinea come al suo tempo egli si poteva
davvero credere il grande condottiero vincitore della battaglia culturale del
Cristianesimo contro il libertinismo, ma ciò perché non era riuscito a
prevedere una forma di ateismo non-irrazionalistico e non-relativistico quale
fu appunto l'illuminismo settecentesco, che non si limitò più ad opporsi alla
Scolastica ma che formò una propria dogmatica visione della storia in cui il Cristianesimo,
rappresentato dalle leggende nere del Medioevo, era stato solo un ostacolo per
lo «sviluppo» e l'«emancipazione» dell'umanità (si tenga presenta la
definizione kantiana di illuminismo). Da Cartesio in poi sono comunque
due i percorsi filosofici che partono e che sviluppano i due aspetti
compresenti in Cartesio, ovvero l'illuminismo e lo spiritualismo: da una parte
infatti Condillac, Kant, Condorcet, fino a Hegel e Marx riceveranno il lascito
propriamente razionalistico e sensu lato materialistico di Cartesio, dall'altra
invece Pascal, Malebranche, VICO (si veda) e infine SERBATI saranno gli eredi
del suo patrimonio spiritualistico, inteso questo come filosofia di accordo fra
ragione naturale e fede cristiana, posta la distanza epistemologica dalla
Scolastica; famosa ed illuminante è a questo proposito la teoria della «visione
in Dio» di Malebranche, nonché la distinzione pascaliana fra il divino dei
filosofi e Dio padre (IVPITER) dei romani. Andando comunque alla radice del
problema del tradimento della metafisica cristiana (Tomismo) da parte di
Cartesio e del conseguente illuminismo, N. individua come unica possibile
condizione per tale tradimento il rifiuto del peccato originale come male
metafisico e quindi il rifiuto dello «status naturae lapsae» di cui proprio il
Cristo sarebbe il redentore: senza alcuna natura umana da redimere, cioè
senzanecessità di alcun redentore, il razionalismo ha sostituito il peccato con
l'ignoranza e Dio con la ragion critica, rifacendosi così ad un pelagianesimo laicizzato
che da solo rende possibile una qualsiasi forma di ateismo. Egli nota, infine,
che avendo rifiutato la radice metafisica del male se ne è dovuta cercare
quella fisica o psicofisica, secondo gli schemi ideologici che nel Novecento
avrebbero reso la psicanalisi e la psicologia gli elementi complementari allo
scientismo per una completa e non riduttiva visione del mondo senza Dio, e per
una definitiva «ateologizzazione» della ragione. Compimento e
dissoluzione del marxismo Riguardo al marxismo e alla sua interpretazione Del
Noce scrisse due opere, ovvero Il cattolico comunista e Il suicidio della
rivoluzione, che costituiscono la continuazione de Il problema dell'ateismo in
quanto in esse il filosofo analizza più dettagliatamente solo una delle linee
filosofiche originate da Cartesio, quella razionalistica, cioè quella che nella
storia moderna fu vincente nella sua estensione politica, nel tentativo di
trovare e di dimostrare la continuità necessaria fra razionalismo,
materialismo, marxismo e infine nichilismo, quest'ultimo inteso come cifra
problematica della civiltà postmoderna. La giustificazione epistemologica
di questa analisi è data dal fatto incontestabile che la storia del Novecento
inizia da un fatto filosofico, ovvero dal passaggio della filosofia marxiana in
azione politica, ovvero dalla coerentizzazione di quella che N. definisce la
«non-filosofia di Marx»: da ciò appare non solo giustificato ma anche
necessario portarsi sul piano storico della filosofia per comprenderne il suo
portato teoretico, e così disinnescarne il suo sostrato ideologico. Si affianca
a diversi filosofi, quali ad esempio Voegelin, per rintracciare l'inizio della
cosiddetta secolarizzazione, il cui compimento sarebbe stato appunto il
marxismo e poi il nichilismo, nel sequestro della nozione di «progresso» da
parte di filosofie laiche dalla teologia di Gioacchino da Fiore, o meglio
dall'interpretazione di tale teologia: ben nota è infatti la distinzione
gioachimita nelle tre età della storia, l'Età di Dio-Padre (Ebraismo), l'Età di
Dio-Figlio (Cristianesimo) e infine l'Età di Dio-Spirito che avrebbe dovuto
superare i «limiti» del Cristianesimo ed estendere l'elezione e la salvezza in
modo universale. Di tale teologia mistica e profetica si appropriò lo
gnosticismo sviluppatosi in seno al Cristianesimo stesso ed estesosi pian piano
oltre i confini delle filosofie razionalistiche del Settecento e soprattutto
dell'Ottocento. N. nota infatti una sorta di dialettica nata all'interno
dell'illuminismo settecentesco non tanto fra atei e deisti bensì fra
rivoluzionari e conservatori, ovvero fra il puro giacobinismo ghigliottinatore
dell'«ancien Régime» e il progressismo che caratterizzò invece la fase
dell'illuminismo dopo la degenerazione della rivoluzione francese in Terrore,
ovvero la fase dei cosiddetti ideologues, fra i quali Cabanis e Condorcet. Il
punto attorno a cui si sviluppava tale dialettica fu appunto la differente
filosofia della storia che aveva caratterizzato l'illuminismo
pre-rivoluzionario e l'illuminismo post-rivoluzionario, in quanto il primo
aveva escluso una qualsiasi evoluzione storica e necessaria dell'umanità e
aveva anzi condannato il Medioevo con la storiografia della leggenda nera,
mentre il secondo aveva invece rivalutato l'intera storia pre-illuministica
(sia pagana che cristiana) considerandola come momento dialettico necessario
pur se negativo della storia universale. In questo senso N. ha potuto
mettere in parallelo l'opposizione fra illuminismo giacobino e spiritualismo in
Francia e quella fra kantismo e hegelismo in Germania, ove spiritualismo e
hegelismo sono state filosofie vincenti in quanto hanno assorbito in sé il
momento rivoluzionario e negativo dell'illuminismo per poi superarlo nella
formazione di quella filosofia della storia che ebbe certo in Hegel il suo
culmine. Riguardo al binomio illuminismo-spiritualismo la critica vincente del
secondo sul primo è stata quella di un estremo e insostenibile riduzionismo
rappresentato dal sensismo di Condillac, in altre parole è stata la critica di
ridurre la comprensione del mondo al pari di ciò che lo stesso illuminismo
aveva accusato la religione di aver fatto. In questo contesto è la nascita
della visione sociologica del mondo a rappresentare il tentativo di superare
questa aporia illuministica senza tuttavia dover ritornare alla metafisica
tradizionale: N. insomma sostiene il trapasso dell'illuminismo in socialismo,
non a caso nato in Francia, intesa questa come dottrina che dell'illuminismo
mantiene il carattere utopistico (socialismo utopistico) e quindi
anti-tradizionalistico, ma ne sconfessa invece il deprecabile riduzionismo che
ancora non permetteva un'adeguata analisi della società ai fini della
rivoluzione politica. In Germania invece la dialettica fra kantismo e
hegelismo, con netta vittoria dell'hegelismo, ha come punto di svolta la riconsiderazione
hegeliana della storia come storia dell'Assoluto -- storia di Dio --, secondo
il ben noto schema gioachimita che vedeva in ogni momento storico un grado
dimanifestazione dell'Assoluto, e quindi «necessario» pur nella sua negatività.
In questo senso Hegel è colui che diede forma alla corrente tradizionalistica
dell'illuminismo, ove la tradizione non è più peròcome per Tommaso
d'Aquinol'insieme delle verità eterne e immutabili che solcano trasversalmente
la dimensione temporale mediante il passaggio delle generazioni, ma è bensì la
struttura dialettica eterna che necessita l'evoluzione delle verità, e quindi
la sua temporalizzazione. Per questo N. afferma che l'idealismo hegeliano
ebbe nei confronti del kantismo la medesima funzione che in Francia ebbe il
positivismo comtiano nei confronti del socialismo utopistico: egli ricorda la
critica di Comte nei confronti dell'illuminismo settecentesco, la sua
rivalutazione della tradizione (in senso dialettico), nonché la celeberrima
teoria degli stadi che costituisceancora una voltauna forma secolarizzata della
teologia gioachimita. È dopo questa dettagliata analisi che Del Noce innesta il
discorso sul marxismo, il quale appunto si configuròper stessa ammissione di
Marxcome ripresa critica di Hegel attraverso la filtrazione di Feuerbach e
della sinistra hegeliana (celebri sono le marxiane Tesi su Feuerbach) e come
fusione fra la dialettica hegeliana e la politica del socialismo utopistico:
alla base del cosiddetto socialismo scientifico rimane ancora il desiderio di palingenesi
politica propria di Saint-Simon o di Fourier, ma onde evitare il risibile
utopismo di questi ultimi ad esso Marx applicò la dialettica hegeliana con cui
solamente si sarebbe potuto analizzare il capitalismo e prevederne così il
necessario fallimento. A tal punto però l'analisi marxiana di come potrà
nascere la società comunista introduce l'elemento di distacco non solo
dall'idealismo hegeliano ma anche dalla filosofia stessa, ovvero la necessità
di tradurre il pensiero analitico in azione politica e di affidare alla storia
invece che alla ragione il compito di dimostrare la verità delle tesi marxiane.
In questo N. si riallaccia a una lunga storiografia socialista, uno dei cui
esponenti più noti è per esempio Lukács, che afferma la stretta e necessaria
continuità fra filosofia di Marx e di Engels, politica di Lenin e politica di
Stalin, senza concedere alcuna differenza né alcuna opposizione fra socialismo
reale e socialismo ideale (quasi a guisa di giustificazione storica). Il
fattore fondamentale di continuità fra Marx e Lenin è infatti quella struttura
tipicamente gnostica che equalizza il male all'ignoranza e il bene alla
conoscenza e quindi divide il genere umano fra la massa degli ignoranti e la
ristretta cerchia degl’lluminati, che nella riflessione leniniana erano gli
intellettuali borghesi che per una non spiegata differenza dal resto della
borghesia avrebbero potuto e dovuto guidare la rivoluzione; in questo senso la
politica leniniana, poi proseguita coerentemente nella politica staliniana,
sarebbe stata l'incarnazione perfetta nonché l'unica incarnazione possibile
della filosofia marxiana, e non invece -come è tesi di una certa apologetica
socialista- un tradimento di Marx. Ancora una volta si rifà a una lunga
storiografia critica nel considerare il marxismo non come una filosofia ma come
una religione, ma a ciò egli aggiunge la dimostrazione non del suo carattere di
religione civile bensì di religione gnostica: in tal modo il marxismo leninista
sarebbe davvero il compimento del razionalismo ove quest'ultimo è inteso come
gnosticismo laico, religione non di Dio ma dell'Idea/ideale che non ha bisogno
dell'Incarnazione di un Dio-Uomo in quanto l'uomo stesso avrebbe potuto e
dovuto far incarnare tale Idea nel mondo attraverso la sua azione. Questo
è il senso dell'appellativo delnociano di «non-filosofia» per il
marxismo, giacché la contemplazione metafisica in esso viene interamente
assorbita dall'azione politica, in quanto per Marx la politica è la vera
metafisica al pari di come per Nietzsche lo è la morale. Eppure è proprio
questo punto a costituire secondo N. la contraddizione fondamentale interna al
marxismo e quindi la causa prima del suo fallimento storico: se infatti la
«riconciliazione con la realtà» iniziata da Hegel, proseguita da Feurbach a
portata a compimento da Marx deve rivoltare l'intera comprensione del mondo in
trasformazione del mondo, cioè in rivoluzione, allora in ciò non rimane
giustificato il riferimento ideologico all'avvenire come sede immaginifica
della società comunista, ovvero non rimane giustificato il carattere ancora
religioso del marxismo per cui esso ha sostituito il futuro all'eternità e il
lavoro dell'uomo alla redenzione del dio-uomo. Il fallimento storico del
comunismo, quindi, sarebbe stato non solo la dimostrazione sperimentale della
falsità delle teorie marxiane ma anche il coerente compimento del marxismo come
auto-distruggersi nella sua forma di religione. Con ciò si spiegherebbe per N.
l'attivismo comunista nonché la graduale decadenza del socialismo nel mondo
fino alla sua profetizzata fine, simboleggiata dalla caduta del Muro di
Berlino. È propria di lui infatti la teoria secondo cui il compimento e la
dissoluzione del marxismo non siano due momenti separati o addirittura opposti,
ma siano bensì il medesimo momento dispiegato coerentemente nel tempo.
L'interpretazione del fascismo Sul fascismo e sulla sua interpretazione in
stretta relazione al marxismo dedicato gran parte dei suoi studi e delle sue
opere, partendo appunto dalle opinioni comuni e molte volte ideologiche degli
storici nei confronti del fascismo e delineando una struttura paradigmatica
tanto controversa quanto precisa e fondata. È a partire dalla definizione data
dallo storico tedesco Nolte di ogni movimento fascista come «resistenza contro
la trascendenza», intesa come trascendenza storica e non metafisica, che N.
sottolinea la continuità fra questo serio giudizio e la communis opinio del
fascismo come movimento reazionario, per questo tradizionalista e nazionalista,
e per converso di ogni forma di tradizionalismo e di nazionalismo come rimando
implicito e forse inconscio al fascismo. Di questo fa una critica
serrata, facendo notare innanzitutto le origini culturali dei due fondatori del
fascismo, cioè Gentile e MUSSOLINI, come antitetiche rispetto a ogni forma di
politica reazionaria, tradizionalista e nazionalista e come invece affini
rispetto al socialismo, del quale Mussolini in particolare fu un esponente. Si
noti che l'obiettivo che N. intende colpire e abbattere è quella generale concezione
del fascismo come momento singolare e controcorrente rispetto all'intera storia
moderna, dalla rivoluzione francese in poi, mentre ciò che intende mostrare è
la continuità quasi necessaria che è posta fra l'hegelismo, il marxismo e il
fascismo come tre momenti dell'unico processo di secolarizzazione. Il filosofo
inizia quindi dall'analisi della figura storica di Mussolini e della sua
formazione culturale, notando il suo giovanile anticlericalismo, il suo
spontaneo confluire nel socialismo, e il seguente superamento di quest'ultimo
per l'evoluzione fascista del suo pensiero. È in particolare sul concetto di
«rivoluzione» che pone l'accento, essendo questo un concetto base del
marxismo che però, attraverso l'incontro mussoliniano con la tedesca «filosofia
dello Spirito» risorgente in Italia, dovette radicalmente trasformarsi e
portarsi dal livello sociale della «classe» a quello personale del «soggetto».
È insomma l'incontro intellettuale di Mussolini con la filosofia di Gentile ad
aver reso necessaria la trasformazione della rivoluzione in un senso non più
finalistico o escatologico (come era nel marxismo puro, il cui fine è appunto
la società comunista) ma in un senso propriamente attivistico e lato sensu
solipsistico, in termini gentiliani cioè attualistico. Con ciò N. può
connettere la psicologia di Mussolini con il vero e proprio formalismo pratico
del fascismo, il quale non aveva in realtà alcun contenuto definito, ma
proclamava bensì una forma di azione tanto vaga e generale da poter attrarre a
sé ogni sorta di ceto sociale (anche il proletariato) e di frangia ideologica,
in alcuni momenti persino quella marxistica. Il concetto di «rivoluzione»
infatti contiene in sé già un termine finale ben preciso verso cui lo stato
attuale del mondo andrebbe rivoluzionato, mentre nella politica fascista il
termine rivoluzione deve necessariamente essere sostituito dal termine
«riforma» (si pensi appunto alla riforma Gentile) in senso non più
tradizionale, cioè come ri-formare ciò che è stato de-formato, bensì in senso
creazionale, cioè come dare una nuova forma (indefinita) alle antiche cose,
perciò rimane un concetto molto affine a quello di marxistico di rivoluzione, e
permette l'affiancamento ideale dell'attualismo gentiliano al modernismo
teologico fiorente a quel tempo e condannato come eresia dalla Chiesa. Saggi:
“Teologia della storia” (Torino, Filosofia); “La solitudine di Faggi” (Torino,
Filosofia); “L'incidenza della cultura sulla politica italiana, Cultura e libertà”
(Roma, 5 lune); “A-teismo” (Bologna, Mulino); “Riforma e filosofia” (Bologna,
Mulino, Brescia); “In contra del domma cattolico-romano” (Torino, Erasmo);
“Contra il domma cattolico-romano” (Milano, UIPC); “L'amore di Dio” (Torino,
Borla); “Il secolare” (Milano, Giuffrè); “Il partito comunista italiano” (Roma,
Europea); “Il suicidio di un rivoluzionario” (Milano, Rusconi); “I comunisti” (Milano,
Rusconi); “L'interpretazione trans-politica della storia contemporanea,” Napoli,
Guida, “Secolarizzazione e crisi della modernità” (Napoli, Benincasa); “Gentile:
per una interpretazione FILOSOFICA del fascismo” (Bologna, Mulino); “Da
Cartesio a Serbati” -- Scritti vari di filosofia,” Milano, Giuffrè); “Esistenza
e libertà.” Spir, Chestov, Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, italiano Faggi,
Martinetti, italiano Rensi, italiano Juvalta, italiao Mazzantini, italiano Castelli,
italiano Capograssi” (Milano, Giuffrè); “Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione”;
Scritti su l'Europa e altri, Milano, Giuffrè); “I cattolici e il progressismo,”
Milano, Leonardo, “Fascismo e anti-fascismo:
errori della cultura” (Milano, Leonardo); “Il laico”; Scritti su Il sabato (e
vari, anche inediti), Milano, Giuffrè); Pensiero della Chiesa e filosofia
contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II” (Roma, Studium); “Verità
e ragione nella storia. Antologia di scritti, “ I. Mina, Milano, Biblioteca
Universale Rizzoli); “Modernità. Interpretazione transpolitica della storia
contemporanea” (Morcelliana, Brescia.). N. insegna nel capoluogo piemontese. Bozzo.
N., il filosofo della libertà politica). N., «Idee per l'interpretazione del
fascismo», Ordine Civile. E tra i componenti del comitato promotore del
referendum abrogativo antidivorzista) e più tardi sull'aborto. premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.
wordpress. Armellini, Razionalità e storia, in Il pensiero politico, Roma,
Aracne editrice, Borghesi, N.. La legittimazione critica del moderno. Marietti,
Genova-Milano.[collegamento interrotto] Luca Del Pozzo, Filosofia cristiana e
politica, Pagine, I libri del Borghese, Roma, Fumagalli, Gnosi moderna e
secolarizzazione nell'analisi di Samek Lodovici ed N., PUSC, (scaricabile in
PDF dal sito sergiofumagalli) Gian Franco Lami, La tradizione, Angeli, Milano,
Marietti, Genova-Milano. Enciclopedia ItalianaV Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Ratto, Ipotesi sul fondamento dell'essenza
dissolutiva del marxismo e del fascismo, in Boscoceduo. La rivoluzione comincia
dal principio, Sanremo, EBK Edizioni Leudoteca, Riili, N. interprete del Marxismo.
L'ateismo, la gnosi, il dialogo con Volpe e Goldmann, in Centotalleri, Saonara,
il prato, Tibursi, Il pensiero di N. come Teoria sociale, in Andrea
Millefiorini, Fenomenologia del disordine. Prospettive sull'irrazionale nella
riflessione sociologica italiana, Societas, Roma, Nuova Cultura, Xavier
Tilliette, Omaggi. Filosofi italiani del nostro tempo, traduzione di
Sansonetti, Brescia, Morcelliana, Natascia Villani, Marxismo ateismo
secolarizzazione. Dialogo aperto con N., in Pensiero giurdico. Saggi, Napoli,
Editoriale Scientifica, Augusto Del
Noce, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Repertori Bibliografici, su centenariodelnoce).
La metafisica civile: ontologismo e liberalismo dalla rivista telematica di filosofia
Dialeghesthai. P. Ratto, Laicità e Democrazia: da N. a Giotto, su Bosco Ceduo, Democrazia e modernità in N., articolo dal
mensile 30Giorni. L'inseparabilità dei Tre. La modernità, di Andrea Fiamma Centro
Culturale,//centrodelnoce. Fondazione //fondazione augustodelnoce.net. centenariodelnoce.
Articoli di N. «Il dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna» da Studi
Cattolici. «L'errore di Mounier» da Il Tempo. «Risposte alla scristianità» da
Il Sabato. «La sconfitta del modernismo» da Il Tempo. «La morale comune
dell'Ottocento e la morale di oggi», tratto da Il problema della morale oggi.
«Rivoluzione gramsciana», tratto da Il suicidio della rivoluzione. «Origini
dell'indifferenza morale» da Il Tempo. «Le origini dell'indifferenza religiosa»
da Il Tempo. «Religione civile e secolarizzazione» da Il Tempo. «Un dramma
europeo: il dissenso cattolico» da Corriere della Sera. «Questi poveri
cattolici minacciati dal suicidio» da Il Sabato «In stato di
porno-assedio»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «La più grande vergogna
del nostro secolo» da Il Sabato. «Fu vera gloria? La resistenza 40 anni
dopo»[collegamento interrotto], tratto da Litterae Communionis. «Una colomba, non
un santo (caso Bukarin)» da Il Sabato. «Intensità d'una gran illusione
(Dossetti e dossettismo)»[collegamento interrotto] da Il Sabato.
«L'antifascismo di comodo» da Corriere della Sera. «Togliatti? Un perfetto
gramsciano. Polemica su Gramsci»[collegamento interrotto] da Il Sabato.
«Il nazi contagio» da Il Sabato. «La morale catto-comunista» da Il Sabato.
«Abbasso Mazzini» da Il Sabato. «I lumi sull'Italia»[collegamento interrotto]
da Il Sabato. «Recensione del romanzo di Benson "Il Padrone del mondo"»
dal mensile 30Giorni. «Filo rosso da Mosca a Berlino (Hitler-Stalin)» da Il
Sabato. Le connessioni tra filosofia e politica da Il Tempo. Pci, l'impossibile
conversione» tratto da Prospettive nel mondo. Grice:
“Unfortunately, Noce is a philosopher, like me. We cannot lay word on history.
Had Hitler won, I wouldn’t have joined Austin’s Play Group. Being Italian, Noce
thinks different. He thinks history is guided by philosophical principes. It
wasn’t Mussolini’s charisma that led the populace, but Gentile’s attualismo
puro. He makes a good point about the distinction between Hitler and Mussolini.
Hitler is a Protestant, Mussolini ain’t! Most in Mussolini’s circle were just
as heathen as those in Hitler’s circle – different heathenism, though. No Odin,
but Giove. Not Siegrfied, but Enea! Noce does not know the first thing about
this. He never socialized with any of the people he is philosophizing about. In
any case, there’s Garibaldi, which is a stain to Italian history. Italians, and
a Ligurian friend of mine can testify to this, never wanted the UNITY. It was
forced ON them. So it’s only natural that Gentile and Noce regard the UNITY
brought by Risorgimento (alla Fichte Hegel, and the idea of the NATION) that
was furthered by Mussolini. Mussolini did use Garibaldi imagery – saying that
his movement was ‘garibalismo puro’ – but although he (Mussolini) did write a
little thing about Nietzsche, you won’t find his name in ‘dizionari di
flosofia’!” Non si
può dire che a Del Noce sia mancato il coraggio di proporre ipotesi
interpretative del pensiero contemporaneo anche in radicale antitesi con
la pubblicistica corrente e con gli intellettuali più ascoltati dal
potere culturale dominante. Come si è visto a proposito del marxismo, la
nettezza del giudizio critico non è mai venuta meno e non ha mai
ceduto ad attenuazioni, nemmeno nel caso di una vicinanza amicale
con i suoi interlocutori. Nel caso dell’interpretazione del
fascismo N. esprime un simile coraggio e propone sin dagli anni
Sessanta (ma brevi testi dell’immediato dopoguerra documentano già
la stessa lucidità)! un’interpretazione originale, solidamente
argomentata e assolutamente controcorrente. Anche in questo caso, come in
quello del marxismo, N. procede da una considerazione attenta del
fascismo che ne faccia emergere le specificità culturali, lo renda
identificabile e ne faccia perciò comprendere le ascendenze più o meno
evidenti. Quest'opera di studio e di approfondimento dei contenuti
del fascismo è già un aspetto rilevante dell’interpretazione, dal momento
che, ancora oggi il fascismo è stato rappresentato da una parte come una
sorta di barbarie irrazionale e oscura, dall’altra come l’esito della
coalizione di tutte le forze conservatrici e reazionarie a difesa di
interessi particolari. In questa prospettiva il fascismo viene
identificato come un’entità a sé stante e, nel contempo, caratterizzato
come male assoluto, mitizzato come un abisso di negatività al di fuori di
qualsiasi analisi critica e storica. Da ultimo, trasformato in una sorta
di essenza, il fascismo diviene la categoria alla quale ricondurre tutti
gli aspetti legati alla tradizione, alla metafisica, al tema
dell’autorità ecc., secondo uno schema per cui non si può affermare
la tradizione senza essere nel contempo, almeno incoattivamente,
fascisti e repressivi. AI contrario, per N. il fascismo è un momento
di quel percorso verso l’ateismo (descritto nei capitoli
precedenti) in cui consiste lo sviluppo del razionalismo e che può essere
designato più opportunamente come secolarizzazione, per intendere quel tentativo
di creare una società nella quale non ci sia più traccia dell’idea di
Dio. Il fascismo ha perciò una radice culturale precisa, situabile
in quel processo di decomposizione dell’idealismo che ha inizio con
il marxismo. È questo il punto più incandescente dell’analisi di N.: il
fascismo si presenta come un tentativo rivoluzionario di origine
marxista, nel quale il marxismo viene corretto per essere inverato, cioè
per essere effettivamente realizzato. In altre parole, tra marxismo
e fascismo c'è un legame profondo e intrinseco: nel percorso del
razionalismo che porta a una progressiva secolarizzazione del mondo,
l’ideale rivoluzionario tende ad assumere il ruolo sociale occupato
precedentemente dalla religione. In questo quadro, secondo N., la
rivoluzione può assumere due forme: quella marxista, che si fonda, come
si è visto, sul materialismo e sulla sua opera decostruttiva; oppure
quella attualista, che è una interpretazione dell’ideale rivoluzionario
da un punto di vista soggettivo-spiritualistico, che assume le
caratteristiche di una filosofia del divenire e della prassi e rifiuta
il materialismo marxista. La spiegazione del fenomeno fascista trova
perciò in Gentile una figura centrale, attraverso la quale N. mette in
evidenza il nesso storico e teorico tra idealismo e fascismo. Per
comprendere questo nesso, però, occorre che venga pienamente riconosciuta
la complessità e profondità di pensiero di Gentile, più spesso relegato
a personaggio di propaganda e di apparato. D. non solo riconosce in
Gentile una figura chiave del pensiero italiano, ma nel suo pensiero
coglie una svolta epocale, quella del tentato inveramento del marxismo:
perciò in esso egli vede il compiersi per l'Occidente del percorso razionalistico
del pensiero che così fortemente ha determinato le sorti dell’epoca
contemporanea. Gentile intende recuperare lo spirito risorgimentale
e connetterlo con l’ideale rivoluzionario, sganciandolo perciò dal
quel presupposto naturalismo e materialismo che rappresentavano ai suoi
occhi un limite nella comprensione del vero spirito idealistico. È in
questa temperie culturale che avviene l’incontro con Mussolini. N. è
certo attento nel precisare che i fenomeni storici si verificano per una
complessa serie di fattori che non possono essere ridotti a uno schema
concettuale. Tuttavia quando nelle sue analisi parla di incontro intende
evidenziare non solo l’incrociarsi di percorsi biografici e storici, ma
anche il congiungersi, si potrebbe dire fatale, di indirizzi di pensiero
che per consonanza e necessità logica danno luogo a un connubio creativo.
Nel caso del rapporto tra Gentile e il fascismo come regime N. parla, per
esempio, di armonia prestabilita, quasi a evidenziare una sorta di
attrazione fatale che ha compenetrato traiettorie di pensiero che avevano
origini distinte. Mussolini infatti era anch’egli incamminato verso
una revisione del marxismo, a partire dalla critica al socialismo
riformista, sebbene con una coscienza filosofica assai più sbiadita
rispetto a quella di Gentile. L’incontro avviene perciò sul terreno
comune della volontà di ripresa dello spirito rivoluzionario, in una
chiave però compatibile con la tradizione risorgimentale italiana.
All’interno di questa struttura significativa, certamente gioca poi un
ruolo determinante la personalità di Mussolini, che se è senz'altro
molto meno permeata di coscienza critica e culturale, è tuttavia perfetta
espressione esistenziale-politica di quell’ansia rivoluzionaria che
si traduce in attivismo come pura affermazione di potenza e in
solipsismo, inteso come soggettivismo assoluto, incapace di cogliere la
realtà esterna in sé sussistente se non in funzione del proprio processo
di autoaffermazione. Si comprende dunque perché N. abbia
parlato spesso di fascismo come errore della cultura e non errore
contro la cultura (interpretazione, come si è visto, dominante
nell'ultimo cinquantennio). Esso si configura non come fenomeno
estemporaneo di improvviso impazzimento della società italiana succube di
forze oscurantiste, ma segna un passo decisivo di quell'epoca della
secolarizzazione che contraddistingue l'evoluzione ultima del
razionalismo moderno e che, secondo N., ha il suo inizio con
l’opera rivoluzionaria di Lenin come colui che ha più coerentemente
inteso realizzare il farsi mondo della filosofia secondo quanto
prospettato da Marx. In questo senso, tra l’altro, si comprende perché
sia senz’altro errato interpretare il fascismo come fenomeno reazionario
e conservatore; in esso agisce la volontà di interpretazione dello
spirito rivoluzionario nel modo più radicale, per il quale la tradizione
e l’identità storica rappresentano puri strumenti per l’affermazione
dell’azione trasformatrice, che sarà perciò inevitabilmente violenta e
inesorabile. Ma in Italia, negli stessi anni in cui andava formandosi
il fascismo, vi è un altro pensatore che lavora alla revisione del
marxismo per elaborare una concezione rivoluzionaria capace di realizzare
effettivamente una nuova società: è Gramsci. Anche in questo caso N.
dimostra un’acutezza interpretativa unica, nonché coraggio nel
presentare le sue ipotesi. Egli infatti mette a punto una serie di studi
che confluiranno poi in un volume intitolato I/ suicidio della
rivoluzione, nel quale Gramsci è presentato come colui che, nel tentativo
di riformare il marxismo, incontra in realtà l’attualismo e trasforma
l'ideale rivoluzionario marxista in una filosofia della prassi
perfettamente funzionale e coerente con il realizzarsi del nichilismo.
Gramsci, perciò, identificato in quegli anni come il vero punto di
riferimento dell’antifascismo marxista e nume tutelare per il
realizzarsi del marxismo nei paesi occidentali, viene presentato da N. come
un autore gentiliano. Che cosa è infatti la revisione gramsciana del
marxismo se non il rifiuto del suo materialismo e del suo economicismo,
per fondare una filosofia della prassi che porti a realizzare la
rivoluzione prospettata dal marxismo a partire da una lotta per
l'egemonia culturale messa in atto dagli intellettuali militanti? Secondo
N. non è più marxismo, ma filosofia della prassi con tutti i caratteri
dell’attualismo. In che senso allora N. parla di suicidio
della rivoluzione? Precisamente nel senso per cui, nel proseguire
il suo progetto rivoluzionario a partire da una filosofia della prassi
non materialista, Gramsci riduce il pensiero a ideologia strumentale per
l’affermazione del potere, svincolandolo da qualsiasi riferimento alla
verità. Pensiero senza verità, pura affermazione di potenza, e
perciò nichilismo, approdo coerente di quell’impeto rivoluzionario
che però ottiene il suo opposto proprio attraverso il costituirsi del
predominio sociale di una classe borghese cinica e disincantata. Diciamo
che Gramsci rappresenta il paradigma italiano di quella dissoluzione
dell’idealismo e del marxismo che, per l’eterogenesi dei fini di cui s'è
detto, nel compiersi realizza l'opposto di quanto si era
proposto. Il primo testo del capitolo è una conferenza confluita in
L’epoca della secolarizzazione, che propone una definizione storica
generale del fascismo e consente uno sguardo sintetico d’insieme
sull’interpretazione di N. delle figure di Gentile e di Mussolini. Il
secondo testo è il capitolo secondo de I/ suzcidio della rivoluzione, che
imposta l’assunto fondamentale del libro, soprattutto nel mostrare la
vicinanza filosofica tra Gentile e Gramsci. Appunti per una
definizione storica del fascismo. Il fondamento del progressismo, così nella
sua forma di illuminismo laico come in quella di modernismo religioso,
è un giudizio sulla storia contemporanea; per dir meglio, su una
zona della storia contemporanea, quella dell'Europa fra le due guerre. Ora,
l'attitudine contraddittoria a cui ha dato luogo e per la cui
designazione ho usato il termine di millenarismo negativistico, porta al
problema della sua revisione. Si badi bene: non si tratta menomamente
di mutare il giudizio assiologicamente negativo sul fascismo; si
tratta, invece, di vedere quali posizioni ideali siano state coinvolte
nella sua catastrofe. È il primo saggio che tenta
un’esaustiva comprensione storico-filosofica del fascismo
come fenomeno epocale, quello di NOLTE? Sostanzialmente, si può dire
che esso abbia dato espressione rigorosa all’idea che informa i giudizi
correnti: quella secondo cui i fenomeni fascisti dovrebbero venire
sussunti sotto il concetto generale di controrivoluzione. Visto nel
suo aspetto più profondo, come fenomeno transpolitico, il fascismo
sarebbe per Nolte una disposizione di «resistenza contro la
trascendenza», termine con cui intende non la trascendenza religiosa, ma
quella che oggi si suol chiamare «trascendenza orizzontale»,
trascendimento storico, insomma. Quello che per il fascismo, in qualsiasi
delle sue forme, è il nemico, deve essere individuato nella libertà
verso l'infinito» che, «innata nell’individuo e reale nell’evoluzione
universale, minaccia di distruggere ciò che si conosce e si ama». Sul
piano più strettamente politico questa «resistenza contro la
trascendenza» si affermerà come lotta sino alla morte contro i movimenti
che la rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là
dell'ordine presente, verso una realtà sociale più ampia. Si dovrebbe
perciò parlare di un’essenza comune che si sarebbe specificata in diverse
forme nei vari paesi europei, a seconda delle loro diverse situazioni
politiche, economiche, culturali. Le principali di queste forme
costituirebbero altrettanti gradi; così Nolte ha delineato una linea
unitaria di sviluppo, il cui primo grado sarebbe rappresentato
dall’Action frangaise, il secondo dal fascismo italiano, il terzo dal
nazismo. Come è facile osservare, una tale interpretazione corrisponde
alla veduta corrente, secondo cui i termini ultimi dei contrasti presenti
sarebbero le parti dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore
venendo assorbito dalla causa dei progressisti; e secondo cui ogni
atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più
inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una possibilità
fascista. Ciò che però caratterizza la sua opera, è che questo giudizio
non condiziona la ricerca, come presupposto polemico, ma invece appare
essere il risultato di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la
sua importanza: perché la rigorosa messa in forma di un giudizio
corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili.
Anzitutto, da che cosa egli si trova portato a parlare di un’«epoca del
fascismo? Da questo: è esistito un periodo in cui, in seguito
all’arretramento e al chiudersi in se stesse delle potenze periferiche
(Stati Uniti, Unione Sovietica; isolazionismo americano, socialismo in un
solo Paese per cui la Russia ridivenne una terra incognita ai limiti
del mondo) l'Europa, pur dopo quell’anno, in cui la prima guerra
mondiale aveva cessato dall’essere un conflitto di stati nazionali,
poteva nuovamente considerare se stessa come il centro del mondo, e
affermarsi quale proscenio degli avvenimenti mondiali. Ora, poiché «si
deve denominare un’epoca, caratterizzata decisamente da contese
politiche, sulla scorta di quello che, nel punto culminante degli
avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più nuovo, ebbene, in tal
caso sarà inevitabile chiamare l'epoca delle guerre mondiali epoca del
fascismo»; termine che «presenta il vantaggio di non esibire alcun
contenuto concreto, e di non presentarsi al pari della parola
nazionalsocialismo con una pretesa contenutistica non però giustificata. Col
dare una tale definizione dell’epoca, Nolte non pretende affatto a una
particolare originalità. Ha cura, anzi, di sottolineare com’essa fosse
già stata affermata da rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel
giro di brevi anni l’intera Europa sarebbe stata fascista, era
stata affermazione di Mussolini, spesso ripetuta negli anni del
massimo suo potere. Ma, su questo punto, avversari decisissimi si erano
trovati d’accordo, con opposto accento valutativo. Così Mann nel define
il fascismo come «una malattia del nostro tempo, che è di casa
dappertutto, e dalla quale nessun paese può dirsi immune». Così, nella
nota opera La distruzione della ragione Lukacs ha indicato «nello
sviluppo spirituale e politico tedesco null’altro che la manifestazione
più saliente di un processo internazionale che si svolge nell’ambito
del mondo capitalistico. Bastano già queste citazioni per vedere il posto
che l’opera di Nolte occupa tra le interpretazioni del fascismo.
Essa si situa dopo quella, diciamo in largo senso liberale, della
malattia morale e dopo quella marxista. Luk4cs aveva parlato di una linea
unitaria di processo verso l’irrazionalismo da Schelling a Hitler»,
includendovi tutti i pensatori tedeschi di rilievo successivi alla morte
di Hegel. Da questa tesi, in cui riconosce però un aspetto di
verità, Nolte dissente soprattutto per quel che riguarda il
prefascismo di Weber, e naturalmente il dissenso su questo pensatore ha
un contraccolpo decisivo per quel che riguarda l’intera linea indicata da
Lukacs. Forse — non ho verificato quest'idea — il suo libro potrebbe
esser definito come un rifacimento per l'Europa intera di quello
che Lukacs ha scritto sul pensiero reazionario tedesco, operato
però da uno scrittore su cui è stata forte l'influenza di Weber. Ora,
nello stesso giro di tempo in cui Nolte scriveva il suo libro, io mi ero
proposto il suo medesimo problema — di una definizione del fascismo in
sede trascendentale — arrivando però a prospettive diverse. Infatti, nel
saggio di N., Il problema dell’ateismo, definie la peculiarità della
storia contemporanea per il suo carattere di storia filosofica. Il
mio punto di vista, che mantengo oggi del tutto invariato, era
semplice: se si riconosce un carattere genuinamente filosofico
all'opera di Marx, bisogna prendere alla lettera la sua frase secondo cui
la sua concezione è quella di una filosofia che diventa mondo (che si
oltrepassa nella realizzazione politica e cerca in questa la sua
verifica) opposta a quella di un mondo che diventa filosofia
nell’autocoscienza; se poi la storia contemporanea non può essere
compresa che in relazione alla rivoluzione comunista, essa acquisisce un
carattere nuovo, diverso da tutta la storia precedente, soprattutto dal
Rinascimento in poi. Non soltanto una storia che può essere compresa dal
filosofo; una storia fatta dal filosofo, perché il valore del
pensiero è per Marx quello di realizzare la condizione per
un’azione efficace a trasformare la società e il mondo; e per
riferimento al carattere precipuo della filosofia di Marx, mi parve di
doverla definire come l’età dell’espansione dell’ateismo. Preferirei
oggi, per indicare la stessa cosa, parlare d’epoca della
secolarizzazione, servendomi di un termine che ora è divenuto corrente.
Secolarizzazione e dr O ateismo sono certamente le due facce della
stessa moneta; ma siccome il termine di secolarizzazione dice ciò che
questa età vuol essere — processo verso una situazione in cui si
possa dire che Dio è scomparso senza lasciar tracce — e siccome qui si
tratta di un’analisi interna di quest'epoca, prima che di un giudizio
valutativo, qui è la ragione della mia preferenza. Ora se
l’età contemporanea deve, a mio giudizio, venir definita come epoca della
secolarizzazione, l’inizio non può essere cercato che nell’opera di
Lenin; quindi, davanti a una rivoluzione che nell’intenzione è mondiale,
non mi sembra possibile ritagliare l’idea di un’epoca semplicemente
europea e parlare di un’«epoca del fascismo». Bisognerà invece parlare
del «momento fascista» dell’epoca della secolarizzazione. Credo
inoltre che un’ulteriore specificazione si presenti come necessaria.
Nell’epoca della secolarizzazione noi possiamo distinguere un periodo che
si può dire sacrale (in relazione al fenomeno delle religioni secolari,
che accomunano comunismo, nazismo e fascismo) e un periodo profano;
a un dipresso, e con l’approssimazione necessaria delle date, possiamo
dire che il primo si chiude con la morte di Stalin. Fascismo e nazismo
appartengono interamente al periodo sacrale; fenomeno nuovo che
caratterizza in maniera precipua il periodo «profano» è la società
opulenta. Anche qui azzardando un'ipotesi, mi pare si possa dire
che Nolte sia stato sviato dall’analogia tra la posizione dell’Action
francaise rispetto al radicalismo e quella del nazismo rispetto al
comunismo. Non vorrò negare che la simmetria vi sia, ma, appunto,
soltanto una simmetria; è infatti altrettanto impossibile vedere nel
nazionalsocialismo la continuazione e lo svolgimento dell’Aczion
frangaise che nel comunismo lo svolgimento del radicalismo. Di più,
mi sembra che lo stesso Nolte si trovi in imbarazzo quando deve
trattare del termine medio tra Action francaise e nazismo, cioè del
fascismo propriamente detto. Nel considerarlo, infatti, egli accentua,
molto giustamente, i tratti segnati da un persistente influsso marxista,
e le curiose affinità tra Mussolini e Lenin. Si avrebbe dunque, nel
momento mediano, un elemento che è del tutto assente nel momento iniziale
(Action francaise) e di nuovo scompare nel momento conclusivo
nazionalsocialista. E, allora, non è almeno singolare definire l’intera
epoca con il termine di fascismo? Siamo con ciò arrivati al
punto veramente centrale: se si possano sussumere sotto il comune
concetto di controrivoluzione (o di reazione, o di resistenza contro
la trascendenza, ecc.) così i movimenti tradizionalisti
e nazionalisti, che più o meno si richiamano tutti all’ispirazione
dottrinaria dell’Action francaise, come il fascismo e il nazismo, in modo
che si possa parlare di una stessa essenza, che si è specificata
diversamente a seconda delle condizioni culturali ed economiche dei Paesi
in cui si era realizzata, o se invece l’attenzione debba
prevalentemente venir portata sulle differenze. Se ci si mette in questa
seconda via si delineano poi due diverse possibilità interpretative. Si
devono distinguere qualitativamente i movimenti nazionalisti dal fascismo
e dal nazismo, riconoscendo però una stessa essenza a questi due
ultimi fenomeni? 2) Si deve invece parlare di fascismo e di
nazismo, come di fenomeni per essenza diversi? Come si vede, il punto più
delicato, e quello che ora cercherò di affrontare, è proprio quello di
assegnare il punto giusto al fascismo italiano: che alcuni associano al
nazismo, mentre altri sono proclivi a considerarlo come una semplice
variante dei regimi autoritari. La distinzione così di fascismo
come di nazismo dal nazionalismo propriamente detto può essere
stabilita facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un
tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un'eredità, quest’eredità
essendo per lo più legittimata per rapporto a valori trascendenti, anche
se poi vi sia la tendenza a vederli soltanto nella funzione di
legittimare un’eredità (per ciò si può vedere nel nazionalismo lo sbocco
finale di un’inesatta idea della tradizione). ! Il fascismo concepisce
invece la nazione non più come un'eredità di valori, ma come un
divenire di potenza. A diversità del nazionalismo, la storia non è
concepita come una fedeltà, ma come una creazione continua che merita di
rovesciare nel suo passaggio tutto ciò che le si può opporre. Si tratta,
del resto, di una distinzione su cui spesso ebbero a insistere Hitler e
Goebbels, che riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato
il primo movimento che avesse combattuto marxismo e comunismo da un
punto di vista non reazionario; * sta in ciò la ragione della devozione
indubbiamente sincera che Hitler mantenne sempre per Mussolini. Assai più
che i tratti comuni importano però le differenze. In quello stesso libro
sostenevo che il fascismo deve essere storicamente definito come la piena
realizzazione e il completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che
ha accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e
dello scientismo, senza supporre la reale posizione di Marx (o pensandola
come una posizione contraddittoria di spirito rivoluzionario e di
materialismo); e che la biografia di Mussolini è il miglior documento per
lo studio dell’idea di rivoluzione totale sganciata dal materialismo
marxista e connessa invece col clima di pensiero dominante in
Europa nei primi decenni del Novecento. La successiva biografia di
De Felice, preparata in assoluta indipendenza dalle idee che avevo allora
accennato, mi pare offrirne la conferma. Rispetto alla caratterizzazione
del fascismo, tre mi sembrano essere i fatti essenziali su cui deve venir
portata l’attenzione: che fu fondato da colui che giustamente può
essere considerato come l’iniziatore, avanti la prima guerra mondiale,
del comunismo europeo; che l’ascesa di Mussolini ha temporalmente coinciso
con quella della cultura idealistica, che l'avvento del fascismo ha
coinciso con l'epoca del completo successo di questa cultura, che vi
è una corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e dell’altra; che questa cultura idealistica italiana
prende inizio da quella prima grande disputa sul marxismo
teorico, che segna l’europeizzarsi della cultura italiana. Non si
può, insomma, intendere Mussolini al di fuori della «misteriosa vicinanza
e lontananza insieme che lo collegava alla figura di Lenin», punto ben
visto da Nolte, ma non sufficientemente approfondito. Il mistero della
lontananza viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a quella
distinzione tra il vivo e il morto in Marx che la cultura idealistica
italiana aveva definito, che Mussolini aveva di fatto accettato, e Lenin,
nella sua riaffermazione dell’unità inscindibile tra materialismo
radicale e azione rivoluzionaria, rifiutato. La vicinanza a
Lenin è stata assai bene illustrata da Nolte: «Se per comunismo si
intende l’ala intransigente staccatasi da quella riformistica, disposta
alla collaborazione, del partito socialista, Mussolini può essere a
ragione definito il primo e, da un certo punto di vista, l’unico
comunista europeo del periodo, in quanto in tutti gli altri paesi
europei la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza del
bolscevismo russo, formatosi, nei limiti di una situazione affatto diversa. In
ogni caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi del
comunismo italiano postbellico... egli fu anche il
promotore dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta
intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della vittoria
fascista. Il suo “volontarismo”, che a torto si è tentato di contrapporre
alla sua ortodossia marxista, non è che l’espressione teoretica della sua
intransigenza. Tale volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente
contro la teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto
analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del decorso spontaneo.
Dove è giusto parlare di analogia, non di ortodossia marxista. Il
«volontarismo» di Mussolini non è la «dialettica» di Lenin; è il rifiuto
del materialismo marxista, in relazione alla generale critica allora
corrente del materialismo naturalistico e del positivismo evoluzionista.
Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa diventa l'atteggiamento
rivoluzionario — inteso nel suo senso più rigoroso, come sostituzione
della politica alla religione nella liberazione dell’uomo — quando venga
totalmente sganciato dal momento materialistico e
dall’utopistico? L’essenzialità del materialismo a quella che giustamente
è stata detta «non nuova filosofia della prassi, ma nuova prassi
della filosofia» di Lenin, autentico definitore su questo punto del
significato del pensiero marxista, è, oggi, assai chiara. Sotto un primo
riguardo il momento materialistico significa la sconsacrazione
dell’ordine che si deve abbattere; sotto il secondo assai più importante
— che implica la conservazione, e non la semplice negazione, del
pensiero utopistico nel pensiero rivoluzionario — è intrinseco alla
finalità rivoluzionaria stessa, in quanto diretta all’instaurazione di
una nuova idea dell’uomo, materialistica nel senso che è separata da ogni
traccia del divino, in quanto il pensiero dell’uomo è praxzs, attività
sensitiva umana, pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla
oltre la sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e
radicale materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo. Separato
dal materialismo, lo spirito rivoluzionario si converte in una specie di
mistica dell’azione, in quel che si suol dire con un termine diventato
logoro perché sciupato nelle abitudini del parlare comune, «attivismo»;
tensione verso un’azione che è voluta per sé, come semplice trasformazione
della realtà, e non finalizzata a un ordine, con la conseguente
retrocessione dei valori che, invece di dar significato all’azione, sono
pensati valere soltanto come strumenti che possono promuoverla. Ma non basta:
la logica che gli è intrinseca lo porta anche alla negazione della
personalità degli altri, alla loro riduzione a oggetti; dato il
conferimento del valore alla pura azione, gli altri soggetti cessano di
essere fini in se stessi per diventare puri strumenti e ostacoli. Questo
disconoscimento è però altra cosa dal semplice disconoscimento morale.
Nel caso del disconoscimento morale si tratta di un rifiuto pratico
di eseguire quel che la legge morale comanda; nel caso, invece,
dell’attivismo si tratta di una prospettiva totale per cui gli altri sono
ridotti a oggetti, in modo che non ha più senso parlare di doveri morali
nei loro riguardi. Come definire quest’attitudine? Io proporrei il termine
di solipsismo, e personalmente sarei portato a credere che l’unico
senso preciso che si possa dare alla nozione di solipsismo sia questo;
insostenibile come posizione teoretica, il solipsismo è possibile come
atteggiamento vissuto. La totale spersonalizzazione che l’attivismo
include porta a togliere alla realtà l’aspetto di sussistenza autonoma;
sembra che essa non esista che nella mia azione, come ostacolo che
proietto davanti a me per superarlo. Sul termine si potrà discutere; ma è
comunque certo che all’azione di Mussolini non si addicono la
qualificazione di anarchica, perché resta sempre che l’anarchismo cerca
l'abolizione del potere, e invece Mussolini la sua conquista, né quella
di reazionaria, perché non si può rintracciare la tradizione che
Mussolini abbia riaffermata e difesa; né, ovviamente, di giacobina e
di comunista. A me pare che partendo da una fenomenologia
dell’attivismo diventino comprensibili quegli aspetti contraddittori che
rendono così difficile, come De Felice ha giustamente notato, tratteggiare
un ritratto di Mussolini! Perfettamente De Felice ha parlato di un
miscuglio di personalismo, di scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in
se medesimo e al tempo stesso di sfiducia nell’intrinseco valore di
ogni atto, e, quindi, nella possibilità di dare all’azione un significato
morale, un valore che non fosse provvisorio, strumentale, tattico.
Partiamo dal primo, dal personalismo. Bene Cantimori lo ha delineato. Questo
senso della potenza, questa volontà di predominio che lo fa
identificarsi spontaneamente con la sua patria, questo fortissimo
protagonismo politico, diventa, nei momenti della lotta più aspra per
un’affermazione della propria volontà, consapevolezza e affermazione
della propria individualità... e questa consapevolezza di sé, questo
esser continuamente presente, cosciente della propria volontà e della
propria individualità, continuerà sempre: l’identificazione
spontanea con il proprio popolo si articola sempre più attraverso
tale consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in dominio,
in compiacimento per la disciplina e obbedienza ottenute». Per sé,
l’identificazione con la causa del proprio popolo caratterizza ogni
politico ed è da essa che questi trae la propria forza; ma in Mussolini
si compie in una volontà di predominio, in un protagonismo politico che
è consapevolezza e affermazione della propria personalità; che
altro può significare questo se non un’identificazione che si opera a
rovescio di quella dei grandi politici attraverso una specie di assorbimento,
per così dire, del popolo in sé? Di qui quei caratteri che sconcertarono
quegli uomini della vecchia generazione politica che furono in rapporto
con lui: l'esclusivo e feroce culto di se medesimo, l'eccezionale
energia volitiva, la nessuna discriminazione fra il bene e il male, il
nessun indizio di senso del diritto. Rispetto a cui è da aggiungere: se
si potesse ridurre la personalità di Mussolini a questo semplice
immoralismo, neppure si potrebbe intendere il suo successo. In realtà,
nella disposizione attivistica abbiamo una singolare coincidenza di
moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di autotrascendimento di
sé nell’azione; immoralismo, nel disconoscimento della personalità morale
degli altri. Qui è anche la radice ultima dell’antiliberalismo fascista,
se il liberalismo è caratterizzato dal rispetto dell’altrui
persona. Si spiega pure il tratto, su cui particolarmente aveva
insistito Gobetti, del suo tatticismo e trasformismo: l’assenza della
finalità ultima dell’azione gli concedeva infatti una disponibilità massima
per ogni tatticismo e trasformismo, ma al tempo stesso gli vietava di
dare all’azione un valore che non fosse appunto provvisorio e tattico. Di
qui l’altra contraddizione per cui non poteva pensare se stesso che
come creatore, mentre di fatto la sua azione non poteva esplicarsi che
come distruttrice. Per la radicalità di questa azione distruttiva,
pensiamo infatti al posto che gli verrà dato, tra qualche decennio, nei
manuali di storia: c'era una realtà storica nuova, il Regno d’Italia, e
fu Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto questo
rapporto, veramente l’antiCavour. Si intende anche l’osservazione
acuta di Gramsci per cui Mussolini non poteva essere un «capo»; ciò,
però, non già perché vi si debba vedere quel che Gramsci pensava, «il
tipo concentrato del piccolo borghese italiano», ma in
ragione proprio della sua disposizione attivistica. Costretto da essa
a trattare gli altri come forze, veniva a sua volta visto dagli altri
come una forza di cui disporre. Da ciò anche la continua minaccia di
restare prigioniero delle forze con cui si alleava, e il continuo bisogno
di bilanciare queste forze con altre; onde la sua continua politica di
compromessi e di contrappesi, anche se si trattava di compromessi che non
si davano per tali. Onde perfettamente De Felice ha scritto che
«credendo così di essere l’arbitro di tutto, non si accorgeva che, di
compromesso in compromesso, il suo margine di autonomia si riduceva
sempre più e che la logica delle cose, dei problemi di fondo rimasti
senza soluzione, lo soffoca progressivamente, e lo riduceva a un
piccolo Laocoonte che appariva forte solo perché poteva gonfiare i
muscoli, ma era irrimediabilmente stretto in un groviglio di spire che
lentamente lo avrebbero soffocato. Si intende pure la sua sfiducia negli
uomini, la sua incapacità di comunicazione umana e di amicizia, e quindi
il ricorso al pessimismo di MACHIAVELLI per sentire questa
solitudine come forza; per questo riguardo il suo Preludio a MACHIAVELLI è tra
le pagine che meglio illuminano la sua personalità. Né c’è difficoltà a
intendere come potessero combinarsi in lui una straordinaria attitudine
di parlare al popolo e di trascinarlo in quanto massa, e
l’incapacità di colloquiare con gli uomini in quanto singoli, e di
giudicarli. Perciò ebbe su di lui tanta presa la lettura della Psicologia
delle folle di Le Bon; gli rivelava i meccanismi che determinano il
comportamento collettivo, lo istruiva nella tecnica che doveva usare nei
suoi discorsi e nei suoi interventi. Diventa pure chiara la sua
incapacità di formare un’élite e di scegliere dei collaboratori veramente
validi; perché questi uomini che accettavano di essere strumenti, per
fare a loro volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo
essere le coscienze più diritte. Questi non sono che esempi che ho
addotto per proporre un tema: si può ravvisare, dal punto di vista
tipologico, in Mussolini la personalità solipsista allo stato puro.
Con l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei
tratti psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la psicologia di
Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà dalla sua iniziale scelta
per l’attitudine rivoluzionaria, pensata come contraddittoria col materialismo;
dalla irrazionalizzazione, se si vuol dir così, della posizione
rivoluzionaria. È a questo punto che deve esser posto il problema
del rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca. Bisogna però
guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea della cultura, e
arrivare al comune discorso sulla superficialità e ignoranza di
Mussolini; discorso che si traduce poi in quell’ordinario ritratto che lo
rappresenta come un semplice demagogo, sia pure con qualità, in questo
genere non comuni; o nell’altro che vi vede
l’esemplare dell’avventuriero opportunista, pronto a ogni
cambiamento, a seconda della possibilità di successo; di cui poi è
specificazione quello del traditore o del transfuga, o rispetto al
socialismo o all’interventismo democratico. Certo, non poté incontrare i
problemi culturali che da politico; e pensò contro certe idee che trovava
incarnate in posizioni politiche, e aderì a certe vedute culturali
piuttosto che ad altre, in relazione a questa polemica politica. Una
volta che si è detto questo, si deve vedere quali pensatori abbia
dovuto incontrare e domandarsi se abbia verificato nella pratica, e
quindi coinvolto nel suo scacco, certe direzioni di pensiero. Il termine
della sua polemica è chiaro: si tratta del socialismo riformista e della
cultura che lo accompagnava; del marxismo ripensato nella cultura
positivistica di fine Ottocento, e diventato un consiglio di prudenza
ai rivoluzionari. Perciò anch’egli fu detto e si disse volentieri
idealista perché «aperto come giovane che era alle correnti contemporanee,
procurò a infondere al socialismo una nuova anima, adoperando la teoria
della violenza di Sorel, l'intuizione di Bergson, il prammatismo,
il misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni
era nell’aria intellettuale e che pareva a molti, idealismo. È il noto
giudizio di Croce, non inesatto, ma tuttavia generico, e che per questa
genericità rischia di sviare. Maggior significato si deve dare alla
rievocazione, singolarmente istruttiva, con cui lo stesso Mussolini
illustra a De Begnac il processo che l’aveva portato più di vent'anni
prima alla fondazione dei Fasci di combattimento. Le guide spirituali
erano rimaste indietro di mille anni a noi che avevamo sofferto
l’esperienza della lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta
mesi una sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un
libro per noi combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma pochissimi
erano culturalmente in grado di comprendere il suo discorso. Gli economisti
riaprivano il nostro animo ad un qualche interesse alla vita. VITI, MARCO,
EINAUDI, RICCI e, soprattutto, PANTALEONI e Pareto. Sorel sembrava
appartenere ad altra età, ormai. GENTILE preparava la strada a chi — come
me — avesse desiderato camminare su di essa. Certamente, si tratta di una
veduta retrospettiva: è difficile pensare che Mussolini abbia
guardato a Gentile, anche se questi, particolarmente dopo Caporetto,
avesse preso posizione come scrittore politico. Suggerisce però una veduta
importante, anzitutto come indicazione dei limiti che si devono dare
all’influenza di Sorel su Mussolini: al momento in cui il Mussolini
«fascista» succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei
protagonisti della disputa italiana sul marxismo teorico, CROCE e
Sorel, non gli parlavano più. Mentre invece la sua veduta sul
momento storico si incontrava con quella di Gentile. Ora, la veduta
affermata dal Gentile scrittore politico non si può separare in alcun
modo dalla sua filosofia; e questa a sua volta (pongo qui una tesi che
non posso ora dimostrare con la precisione sufficiente, ma che tuttavia
penso possa venir largamente accettata) deve venire storicamente vista
come l’epilogo più rigoroso di quella disputa. Dobbiamo perciò
passare qui a definire il senso dell'incontro di Gentile e Mussolini.
Presenta certo degli aspetti singolari: Mussolini aveva provato interesse
per il Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile soltanto per
il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di un’influenza di
Nietzsche, come pure degli altri autori che possono aver esercitato
un’influenza su Mussolini: Sorel, Pareto, Le Bon. Genericamente
possiamo dire che fu un incontro per negazioni: per un verso l’attualismo
gentiliano era travagliato da un’aspirazione verso l’azione, mentre
per l’altro era del tutto impotente, nonché a formare, a modellare
e a prospettare un movimento politico; di più, nel riguardo delle forme
politiche esistenti, pronunziava le stesse negazioni che pure pronunziava
il fascismo. Mentre il fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva
bisogno di una legittimazione culturale. Facilmente si è portati da
ciò al pensiero di un'illusione del filosofo, accortamente captata
dal politico. In questo discorso la premessa è insufficiente e la
conclusione inesatta. Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini
come Gentile possono venir detti eretici rispetto al marxismo, è
strettamente simile. È giudizio ormai corrente che quel primo lavoro che
fu dedicato, nel mondo intero, alla filosofia di Marx da Gentile (La
filosofia di Marx) non è affatto un episodio marginale della sua opera.
Si può infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissociato
dal materialismo. È a partire da questo punto che possiamo definire il
senso dell’adesione di Gentile al fascismo. È una posizione che deve venir
vista come unica, perché non si può ascriverla a quella dei tanti
fiancheggiatori di ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile
che aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra
storica), e meno che mai, si intende, a quella dell’intransigentismo
diciannovista. Fu egli l’unico a vedere in Mussolini non già una forza
atta a servire o per il consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo
costruito a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace
di compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che
pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini, che decise la sua adesione alla
repubblica sociale, O l’Italia si salva con lui, o è perduta per parecchi
secoli, debbano venir intese nel senso più letterale, come conferma
ultima di questa sua interpretazione. Anche quando tutto indicava che il
fascismo stava per concludersi in una catastrofe, Gentile non poteva
staccarsene: per una coerenza intellettuale, ancor prima che per l'impegno
a restar fedele nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel
momento della fortuna. Per intendere la natura del suo consenso
converrà prender le mosse dallo saggio su Origini e dottrina del
fascismo. La data è molto importante. Esso appare dopo che il fascismo
aveva rotto definitivamente con il liberalismo prefascista e dopo che
Croce non soltanto si era messo all'opposizione, ma dopo che aveva
ragionato i motivi di questa nella Storsa d’Italia. Il primo paragrafo si
intitola Le due anime del popolo italiano prima della guerra, e contiene
un’interpretazione estremamente significativa dell’interventismo e
della partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Alla
vigilia e all’indomani della guerra l'animo non era concorde perché
«c'erano nell’anima italiana due correnti affatto diverse, e quasi due
anime irreducibili, che combattevano da quasi due decenni e si
contrastavano il campo accanitamente, per riuscire a quella conciliazione
che richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale
col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare del vinto,
quel che è conservabile». La partecipazione italiana alla prima guerra
mondiale è sentita essenzialmente come rivoluzione; la guerra è lo
strumento perché la parte risorgimentale possa vincere sulla parte non
risorgimentale: entrare nella guerra, gettare nel fuoco tutta la
nazione, dei volenti e dei nolenti, non tanto per Trento e Trieste e
la Dalmazia, e non certo per i vantaggi specifici, politici e
militari, se non economici, che queste annessioni avrebbero potuto
arrecare... In guerra bisognava entrare per cementare una volta nel sangue
questa Nazione formatasi più per fortuna che per valore dei suoi figli...
Cementare la Nazione, come può fare soltanto la guerra, creando a tutti
i cittadini un solo pensiero, un solo sentire, una stessa passione,
una comune speranza... Cementarla, questa Nazione, per farne una Nazione
vera, reale, viva, capace di muoversi e di volere, e farsi valere e
pesare nel mondo, ed entrare insomma nella storia, con una sua
personalità, con una sua fisionomia, con un suo carattere, con una nota
sua originale, senza più vivere d’accatto sulle civiltà altrui, e
al’ombra dei grandi popoli fattori della storia. Crearla dunque davvero
questa Nazione, come soltanto è possibile che sorga ogni realtà spirituale:
con uno sforzo attraverso il sacrifizio. Abbiamo qui il passaggio
dall’impostazione democratica della Prima guerra mondiale, come lotta per
la libertà delle Nazioni, all'impostazione fascista, e l’insieme
del saggio è estremamente interessante per far cogliere la rottura tra
l’interventismo democratico e l’interventismo fascista; insomma, tra il
fascismo e quello che successivamente prenderà nuova forma come
Partito d’azione. Com’erano definite queste due Italie? «I
neutralisti stavano per il tornaconto e gli interventisti per una
ragione morale, non tangibile, non palpabile, non pesabile sulla
bilancia. La prima parte era per Gentile quella dell’Italia giolittiana,
la seconda dell’Italia mazziniana; ed è appunto nella continuazione di
Mazzini che avverrebbe per Gentile il suo incontro con Mussolini. Mazziniano
(quest’ultimo) di quella tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella
sua Romagna, egli aveva già superato, prima per istinto e poi per
riflessione, attraverso una giovinezza travagliata e pensosa, ricca di
esperienza e di meditazione, nutrita della più recente cultura italiana,
tutta l’ideologia socialista. Particolarmente importante è quanto vi è
detto sulla separazione tra nazionalismo e fascismo: «Sta in ciò che
per il nazionalismo la nazione è un'entità che trascende la volontà
e la personalità dell'individuo, perché concepita come obiettivamente esistente,
indipendentemente dalla coscienza dei singoli; esistente anche se questi
non lavorino a farla esistere, a crearla. L'individuo nel
nazionalismo diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il
suo antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o condannandolo
sopra un terreno nel quale egli nasce, deve vivere e deve morire; mentre
per il fascismo lo stato e l'individuo si immedesimano, o meglio sono
termini inseparabili di una sintesi necessaria». In breve, quel che
caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal nazionalismo,
è il rifiuto di quel carattere naturalistico da cui proverrebbero gli
aspetti retrivi, illiberali, conservatori. Abbiamo in una certa maniera un
Gentile che si inserisce nello sviluppo del fascismo per contenderlo a
conservatori, nazionalisti e tradizionalisti? Lo stesso atteggiamento
viene da lui assunto nei riguardi della monarchia; nel nazionalismo
essa era un presupposto in quanto faceva parte del processo di formazione
storica della nazione italiana. E viceversa per Gentile «tutto che pareva
già in essere, e quasi un legato ereditario, si trasfigura in una nostra
personale conquista, che svanirebbe appena ce ne distraessimo, noi che ne
siamo gli autori». Sarebbe totalmente errato ridurre questo
saggio a un puro scritto di circostanza, e ciò perché la visione
del Risorgimento che Gentile vi afferma è in continuità diretta con
quella già delineata addirittura nei suoi primissimi scritti, espressa
già nella prefazione a SERBATI e Gioberti; e SERBATI e Gioberti e La filosofia
di Marx sono due libri inseparabili. * Gentile era
ossessionato dal termine di «riforma» al modo in cui Marx lo era stato da
quello di rivoluzione. Riforma della dialettica, riforma della scuola, riforma
dello stato, ecc.; ma il termine di riforma significava per lui non
già rettificazione di un ordine costituito, ma nuova forma
attraverso cui il passato deve essere restituito a nuova vita; è più
prossimo cioè a quello di rivoluzione che a quello di riforma
ordinariamente inteso. E la sua filosofia è veramente inscindibile
dall’idea di una riforma religioso-politica, continuazione in certo senso
di quella riforma cattolica giobertiana in cui già si trovano tutti i
motivi del modernismo; né ha senso per lui come puro sistema
speculativo, indipendentemente da questa riforma. Egli è l’ultimo dei
riformatori religioso-politici italiani, in una linea che va da BRUNO a
Gioberti, né del resto egli presentò la sua filosofia in altro modo; e in
certo senso può anche venir detto l’ultimo dei
risorgimentali. Gentile curiosamente ritrova la figura del filosofo
politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini e Gioberti e su
Marx. Studi, il cui senso complessivo può essere espresso nella formula
che segue: il marxismo separato dal materialismo e il giobertismo
separato dal platonismo, e perciò immanentizzato, si identificano. Da
ciò era arrivato a un’interpretazione del Risorgimento che si
ricollegava a quella di Gioberti nella forma di continuazione e di
approfondimento; di un giobertismo particolare, però, per cui
l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva affermare l’attualità di
Mazzini dopo Marx. Col che si stabiliva pure una curiosa analogia tra
Gentile e Marx; si può dire che come Marx pensa alla rivoluzione
francese come rivoluzione compiuta, così Gentile pensa al
Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto. Dal
mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità di religione e
di politica, seguiva quella serie di negazioni che coinvolgeva, oltre
l’intero sistema giolittiano, anche lo stesso
nazionalismo. Procedendo per accenni, è importante osservare quale
scossa avesse rappresentato per lui la Prima guerra mondiale, e
particolarmente Caporetto che gli parve segnare il crollo dell’Italia
post-risorgimentale, e quel che seguì, in cui egli ravvisò la rinascita
dello spirito risorgimentale. Ebbe allora l'impressione che le cose
venissero a lui, confermando la sua veduta filosofica e permettendone la
realizzazione, onde i vari scritti politici del periodo tra Caporetto e
la marcia su Roma — gli articoli raccolti in Guerra e Fede e Dopo
la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i Discorsi di religione,
in cui l'accento cade sull’impostazione di una politica religiosa.
Possiamo così renderci conto della necessità dell'incontro. Era
naturale che Gentile pensasse che come egli, a partire dalla critica
teorica di Marx, aveva incontrato il pensiero risorgimentale, lo stesso
dovesse avvenire per Mussolini a partire dalla critica politico-pratica
del marxismo.” Si vede dunque come, in sede di un giudizio
storico e non moralistico e polemico sul fascismo, la questione
delle illusioni di cui Gentile sarebbe stato vittima non debba
esser posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più complesso di come
viene presentato dalla consueta pubblicistica, se portò ad aderirvi, per
un obbligo di coerenza intellettuale, il maggior filosofo italiano del
tempo. D'altra parte non può non essere senza significato il fatto
che le stesse critiche fondamentali mosse contro l’attualismo, di
attivismo e di solipsismo, servano come criteri storici essenziali per
intendere la natura del fascismo. Mi si può domandare: se è facile
ricostruire l’idea che Gentile si formò di Mussolini, quale fu quella che
Mussolini si formò di Gentile? È un tema, questo, che non è stato
ancora trattato da alcuno, che io sappia. Certamente si può pensare che
egli non abbia troppo gradito di venir considerato come lo strumento di
una riforma religioso- politica pensata da un altro, e di cui neppur bene
afferrava i termini; e ho già detto della sua incapacità di vere
amicizie. Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente da
parte; così ricorse a lui per la stesura della Dottrina del Fascismo; così
mi è sembrato molto significativo quell’accenno nella conversazione con
De Begnac, avvenuta in un momento in cui Gentile non era certo troppo in
auge. Se è vero quanto finora ho detto, non poteva essere che così.
Possiamo ora tentare una definizione complessiva? Il fascismo,
secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione rivoluzionaria, di
origine marxista, quale doveva diventare dopo aver accettato i risultati
di quella critica del marxismo teorico che fu svolta in Italia negli
ultimi anni dell’Ottocento e di cui l’attualismo può essere considerato
la conclusione filosofica. Naturalmente, questa definizione non
concerne che la sua forza, che, per sé, non è sufficiente a spiegare
la sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non si sarebbe
data senza una serie di occasioni storiche: la guerra mondiale, il modo
in cui avvenne l'intervento, Caporetto, la trasfigurazione della
battaglia di Vittorio Veneto nel mito della vittoria mutilata, la
rivoluzione russa, il biennio rosso, ecc. Come si inserisce
in quella che prima si è chiamata l’epoca della secolarizzazione? Sotto
questo riguardo deve essere definito come alternativa al leninismo (al
leninismo, si badi, non allo stalinismo; anche se lo stalinismo e
il richiudersi della Russia in se stessa potevano sembrar
confermare la validità della soluzione fascista). Ma il termine
alternativa («o loro o noi») può essere inteso in due sensi: quello di
opposizione assoluta, o quello di inveramento, in una forma adeguata a un
paese di civiltà e di cultura superiori alla russa; non dell’Italia
soltanto, anzi, se Mussolini poté pensare a una prossima
fascistizzazione del mondo. A mio giudizio, è in questo secondo senso che
Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la differenza tra fascismo e
nazismo. Due uomini si contendevano nel mondo la pretesa di incarnare
la vera figura del rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si deve
riconoscere che in questa pretesa Mussolini fu veramente sincero.
Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la sua giustificazione storica,
nel senso di condizione della sua possibilità, nel fatto che il
marxleninismo non ha potuto realizzarsi come rivoluzione mondiale, ma ha
dovuto arrestarsi davanti alla realtà delle nazioni. Il constatare
però che il fascismo sia fallito come rivoluzione non equivale a
dire che debba esser considerato come fenomeno reazionario; né a
giustificare i giudizi secondo cui Mussolini avrebbe deliberatamente
ingannato sin dagli inizi, servendosi come copertura di una fraseologia rivoluzionaria.
Ma la considerazione dell’esito non può servire come criterio per la
definizione dell’inizio. Chi, per esempio, dice che il comunismo è
fallito perché ha portato a una nuova classe, più oppressiva di ogni
altra, non vuol certamente dire con questo che il comunismo sia sorto in
un’intenzione reazionaria. Perciò, se è inesatto parlare di
fascismi, altrettanto lo è il giudizio che la loro catastrofe coinvolga
quella degli ideali tradizionali in cui la vecchia Europa era cresciuta;
giudizio, il secondo, carico delle più gravi conseguenze pratiche.
Quel che, a mio modo di vedere, il crollo del fascismo propriamente
detto coinvolge, è la linea dei riformatori religioso-politici italiani,
linea unitaria che è insieme antiprotestante e in posizione eretica
rispetto al cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con
Gentile, al tentativo di inveramento idealistico del marxismo. AI
solito, si risponderà che nessuno pretende realmente affermare che la
caduta del fascismo coincida con il crollo degli ideali tradizionali; ma
questo significa soltanto che nessuno ha potuto seriamente dimostrare che
l’affermazione di tali ideali sia legata direttamente alla politica
fascista; non che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso
livello, non si ragioni cozze se l'epoca nuova, affermatasi dopo la
sua caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del nuovo
mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è sempre considerato
come un fascista più o meno consapevole, o quasi sempre inconscio; e
«fascismo» è fatto sinonimo di «repressività». Non vorrò certo accomunare
a simili personaggi uno studioso della serietà di Nolte, e sono ben
certo che il suo intendimento è tutt'altro, ma è un fatto che la formula
di resistenza contro la trascendenza facilmente si cangia a livello inferiore,
in quella di «spirito di repressività. Per il significato di quanto ho
detto, valga un esempio. Comunemente si pensa che il fascismo abbia
trovato un sostegno valido in quella parte del mondo cattolico che più
era avversa al modernismo; e in realtà, si può ben ammettere che
un'illusione vi fu, in molti dei suoi componenti; obbedienti a quella
visione cattolica dell’«antimoderno» che coinvolgeva in una
condanna globale tutti gli aspetti della modernità, e oltrepassava in
ciò la critica del modernismo, e che effettivamente e prevalente (come
dimenticare che diede anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro
il fascismo combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e
il socialismo, ed era destinato a esaurirsi in questa lotta,
lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica. Se questo è
vero, occorre però aggiungere che si trattò, per costoro, di
un'illusione; in illusioni rispetto al fascismo caddero troppi (si pensi
a Croce per i primi anni), sicché una storia completa del fascismo
sarebbe in gran parte la loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto
facile: quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che abbiamo
visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega come quasi nessuna
figura di rilievo della storia italiana del nostro secolo non si sia, per
un momento almeno, illusa su di lu (anche Salvemini e Gramsci, al
tempo dell’intervento!). Si è voluto qui mostrare come invece
l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può essere
considerato come il più coerente dei modernisti (in polemica con altri
modernisti per questa sua coerenza)? sia stata intellettualmente
obbligata. È per un singolare travolgimento che si pensa oggi come
interiormente obbligata l'adesione dei tradizionalisti, di qualsiasi
parte, e invece scusabile perché motivata da illusioni quella degli
assertori dello spirito di modernità. E proprio contro quest'idea,
solidificatasi ormai come abitudine mentale, che il presente discorso è
diretto. Alla base di questo travolgimento sta l’idea che novità
sia sempre sinonimo di poszzività. Idea, se ben si osserva, che è
intrinseca all’epoca della secolarizzazione, perché questa conferisce un
significato magico, di parola-forza, al termine rivoluzione; oggi quasi
sempre, come perfettamente osserva Monnerot, «la parola “rivoluzione” è
presa en donne part; quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca. Re:
Gentile e Gramsci, alcune premesse sono necessarie. In che senso dico —
prego intendere quanto scrivo alla lettera — che il pensiero di Gentile
rappresenta una svolta di capitale importanza nella storia della
filosofia, in un senso la più importante del Novecento, e lo dico senza
essere per nulla gentiliano? In quello che ha portato
all'estremo non soltanto, come normalmente si dice, l’idealismo o la sua
forma soggettivistica, ma la filosofia del primato del divenire,
chiarendone l'esito antimetafisico. È nel suo pensiero che si trovano,
portate all'estremo, tutte le possibili linee del pensiero
antimetafisico. Gentile ha stabilito, cioè, il rapporto di necessità che
intercorre tra la coerenza rigorosa della filosofia del divenire, e la
più radicale negazione della metafisica. Parlare perciò di una svolta
gentiliana della storia della filosofia» significa questo: la sua
considerazione ci permette di giudicare tutte le forme di pensiero
antimetafisico anteriori o successive, e di motivare le ragioni per cui
non possono venire affermate dopo l’attualismo. Con l'aggiunta: il suo
pensiero si svolge interamente entro la filosofia del primato del
divenire; perciò, se si pensa concluda in uno scacco, permette anche di
definire, facendola almeno intravedere controluce, quella sola linea
in cui il pensiero metafisico può venire ripresentato! O, in altre
parole: la sua grandezza resta identica, per la svolta che condiziona, sia
che si parli di successo come di scacco. Che la mia persuasione sia la
seconda, non ha ora importanza. La rivendicata «classicità» di Gentile,
dopo un lungo periodo di oblio, non significa perciò che il suo
pensiero appartenga al passato, anzi! Riflettiamo sulle due sue
prime opere che, per la loro data, possono essere considerate come i
due ultimi grandi libri di filosofia apparsi nell'Ottocento, e in cui
tutto il suo pensiero successivo si trova già virtualmente precontenuto,
Rosmini e GIOBERTI e La filosofia di Marx. Ho già dimostrato altra volta
come la sua filosofia, suscettibile di essere definita, se vista
nell'angolo visuale della prima, come «la riforma cattolica giobertiana
resa coerente attraverso lo hegelismo, rappresenti il punto ultimo,
soltanto ora raggiunto da coloro che si definiscono nuovi teologi, del
modernismo religioso. Per quel che riguarda la seconda ho già accennato —
ma devo confessare che il mio pensiero al riguardo non era ancora,
al tempo in cui ne scrissi, sufficientemente chiaro — alla sua
definizione come punto ultimo a cui deve giungere lo svolgimento dello
hegelismo nella forma della filosofia della prassi; quindi come un
oltre-marxismo rispetto a cui il marxismo non si trova nella possibilità
di rispondere. Si dirà che, la sua fortuna anche qui
in Italia — e si era trattato, del resto, di un successo che aveva
avuto scarsa eco oltre frontiera — è andata costantemente declinando
rispetto a quella di Heidegger, e che l’arretramento è avvenuto senza
resistenza: sintomo, questo, di cui è superfluo sottolineare l’estrema
significatività. È vero, ma, se ben si guarda, la visione heideggeriana
della storia della filosofia, quale emerge dal libro su Nietzsche,
coincide singolarmente con quella proposta da Gentile, ma con segno
rovesciato: è, cioè, letta come processo verso il nichilismo. In questo
senso, penso sia possibile dire che la filosofia di Heidegger è la verità
della filosofia di Gentile, quella verità di cui Gentile non si accorse;
o che la filosofia di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi
di Heidegger. Ma è appunto questo che le conferisce la sua
eccezionale importanza attuale; è attraverso il suo studio che possiamo
renderci conto della profondità della crisi del pensiero
teologico-metafisico e delle sue radici. D'altra parte, la posizione di Gentile
(e di Gramsci) nello hegelo- marxismo può apparire ulteriore a quella di
Lukdcs. Continuamente su Lukécs grava infatti l'ombra di Heidegger
come versione del suo pensiero in forma di filosofia speculativa; per
sottrarsi deve tornare, come fa nell’introduzione alla nuova edizione
della sua opera principale Storia e coscienza di classe, al
materialismo dialettico engelsiano. Cioè proprio quella forma di
pensiero nella cui critica, svolta ne La filosofia di Marx, è uno
dei convergenti punti di partenza dell’ attualismo. Tratterò in questa
occasione della questione seguente: se la proposizione: «La filosofia di
Gentile è il punto ultimo dello svolgimento dello hegelismo in termini di
filosofia della prassi», sia suscettibile di dimostrazione. Ci
troviamo per affrontarla in una posizione privilegiata in ragione
dell’esistenza dell’opera del «marxista dopo la filosofia dello Spirito»,
Gramsci. Uso il termine filosofia dello spirito, invece di altre sigle —
neoidealismo, neohegelismo, eccetera — come perfettamente adeguato
rispetto alle negazioni che lo specificano. Quella filosofia italiana
che genericamente viene detta idealistica, e che è la prima
filosofia dopo Marx che sia sorta nel mondo facendo inizialmente i conti
col marxismo, non può infatti venir caratterizzata altrimenti che come
«filosofia dello Spirito»: contro la metafisica per la negazione
dell’intuizione intellettuale, contro il positivismo, per la sua
subordinazione alla metafisica, che lo costringe a esprimersi come
naturalismo. In questo senso generale la filosofia dello spirito abbraccia
così l’opera di Croce come quella di Gentile. Il rapporto col marxismo è
patente: al modo del Marx filosofo, CROCE e GENTILE rifiutano così
Platone come Democrito, così l’idealismo metafisico come il
materialismo naturalistico. Per raggiungere la piena coerenza in
questo assunto, rifiutano anche il materialismo di Marx. Il
successo del neomarxismo in Italia dopo la «filosofia dello
Spirito» non può quindi venir inteso come un accidente, dato che è
la riapertura di un problema interno al suo processo di
costituzione. Quanto al neomarxismo di Gramsci, vuol essere
la riaffermazione di Marx dopo la filosofia dello spirito,
correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale si rendeva
necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di vittoria sul marxismo,
all’interno della riforma dello hegelismo. Vuole portare cioè il marxismo
al massimo rigore critico, liberandolo da tutte le incrostazioni
positivistico-naturalistiche, o paleomaterialistiche o giusnaturalistiche o
neokantiane. Il suo problema è rigorosamente filosofico, dato che la
vittoria del marxismo è legata per lui alla prova della sua verità
filosofica. Rivoluzione e filosofia vera fanno per lui tutt'uno. Si può
enunciare perciò il suo problema nei termini seguenti: come la
rivoluzione mondiale, perché totale, è possibile? È noto come su
questo neomarxismo circolino due giudizi opposti. Per il primo sarebbe la
forma più rigorosa che il marxismo abbia raggiunto in Occidente e l’unica
che possa dar luogo a una prassi politica capace di portare al
successo i partiti comunisti occidentali. Per il secondo sarebbe una
sorta di marxismo diminuito, accompagnante il processo di dissoluzione
della rivoluzione come sua involuzione borghese, condizione
dell’affermarsi della nuova classe borghese quale che possa essere il
successo del suo partito, giudizio che fu portato alle conseguenze
estreme da un comunista non secondo a nessuno per integrità morale,
BORDGIA (si veda). Entrambe le vedute sono vere; ma quel che può sembrare
paradossale e curioso (ma si dimostrerà come non lo sia) è che la prima è
vera per il non marxista e non comunista, la seconda per i marxisti
e comunisti autentici. Per anticipare brevemente quel che è il mio punto
di vista, dirò che vedo nel gramscismo non già il marxismo contagiato da
influenze filosofiche estranee, ma la sola forma in cui esso può
riaffermarsi dopo la «filosofia dello Spirito»; questa posizione non può
però venire assimilata a uno sviluppo del marxismo, e la realtà storica
a cui può dar luogo è ben diversa da quella significata nel PRINCIPIO
SPERANZA. Ma, d’altra parte, è inutile cercare dopo Gramsci un miglior»
marxismo, a cui corrisponda una più adeguata politica. Ricordiamo
per brevissimo accenno le tesi del marxismo antigramsciano. Esse hanno a
punto di partenza i giudizi di chi prende posto nella storia
contemporanea come il più intransigente moralista in nome del marxismo
letterale e del comunismo nella sua versione ideale, BORDIGA (si veda),
e hanno trovato la più rigorosa espressione filosofica in uno dei
migliori libri che sul pensatore sardo siano stati scritti, quello del
marxista eterodosso Riechers. Riechers, che pure non mostra di avere una
conoscenza approfondita del pensiero gentiliamo (al punto di
accomunare la posizione di Gentile nei riguardi del marxismo a quella di
Rodolfo Mondolfo), tuttavia, sul piano teorico critica Gramsci per aver
sostituito al materialismo marxiano un idealismo soggettivo di stampo
kantiano-fichtiano, piuttosto che hegeliano, a cui corrisponderebbe sul
piano politico una curiosa vicinanza al fascismo di sinistra. Scrive,
infatti: «Questi fascisti di sinistra la maggior parte dei quali confluì
dopo la fine del dominio fascista nel socialismo e nel comunismo, hanno
soltanto da sostituire l'attributo fascista con quello di
democratico, socialista o comunista, per scoprire negli scritti di
Gramsci una posizione analoga alla loro. Tolto il tono polemico, la
frase può essere intesa nel senso seguente: il neomarxismo di Gramsci
appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo, di cui fascismo e
postfascismo sono momenti che si avversano mortalmente, ma nello stesso
orizzonte; e lo stesso vedere nel fascismo un delitto, proprio degli
antifascisti, è posizione di chi deve chiamare delitto un errore perché
partecipa dello stesso errore. Orbene, uno studio approfondito di Gentile
può perfezionare la tesi del Riechers, portandola a un altro significato
che coinvolge la critica anche dell’eterodossia marxista. La
questione che ho proposto mi porta a una serie di tesi la cui
enunciazione può sembrare sconcertante, anzi stupefacente. Soltanto la
discussione del tema Gentile-Gramsci ci mette in grado di formulare
adeguatamente le categorie interpretative della storia
contemporanea. Con la sua discussione giungiamo al momento
conclusivo di quella che suol venir detta interpretazione transpolitica
della storia contemporanea, cioè quella che privilegia, in detta storia,
come l’essenziale, il momento filosofico; o che è attenta al parallelismo
tra filosofia e politica come tratto nuovo che la
specifica. Possiamo parlare in questo senso di un paradigma
italiano, decisivo per una lettura veramente adeguata di detta storia
(dato che Gentile e Gramsci possono trovare spiegazioni soltanto nella
storia del pensiero italiano). Si tratta, del resto, di paradossi
soltanto apparenti. Il carattere che accomuna le filosofie di Marx e di
Gentile è di essere, entrambe, svolgimenti dello hegelismo nel
senso della filosofia della prassi. Di questi svolgimenti, quale il
più rigoroso? Il pensiero di Gramsci, che ha presenti entrambe le
filosofie, e che è guidato dalla più ferma intenzione di riaffermare il
marxismo, ci dà la possibilità di una soluzione rigorosa della
questione. Ma perché ho parlato altresì delle categorie
interpretative della storia contemporanea, e della possibilità di
graduare, nella sterminata letteratura sull’argomento, il momento
di verità delle varie tesi, solo a partire dalla soluzione di tale
problema? Nel suo aspetto rivoluzionario la storia contemporanea non è
altro che il passaggio alla realtà di queste due filosofie della prassi.
La rivoluzione marxleninista e le sue eresie, per un verso; per l’altro,
l’idea di una rivoluzione occidentale ulteriore alla rivoluzione
russa, in quanto adeguata a paesi superiori per civiltà e cultura, o per
essere più esatti, per grado di modernizzazione. Non a caso questa idea
maturò soprattutto in Italia in relazione così al tentativo di
riforma dello hegelismo come all’interventismo rivoluzionario (la
guerra come rivoluzione, o per la rivoluzione) e incontrò la filosofia di
Gentile, anche se assunse poi forme opposte fino alla morte (ma la lotta
fino alla morte caratterizza pure le forme divergenti sorte
sull’orizzonte del marxleninismo). Poniamo ora si riesca a dimostrare —
ed è l’assunto che mi propongo — che il neomarxismo di Gramsci non è
più marxismo nella misura in cui cede all’attualismo. Avremo che la
politica che esso promuove prende posto in una rivoluzione ulteriore alla
marxleninista, non già, cosa che Gramsci avrebbe ammesso, o anzi a cui
esplicitamente lavorò (da ciò il suo dissenso con lo stalinismo), perché
il modello russo non può essere trasportato identico nei Paesi
occidentali, ma perché 07 più marxista. La domanda che sorge è se,
nonostante l'opposizione mortale, non si debba vedere una continuità tra
il periodo fascista e il postfascista, come continuità di un processo di
dissoluzione. In termini filosofici, se la filosofia del primato del
divenire, dopo aver elaborato il concetto di rivoluzione totale, giunta
al suo punto ultimo, non lo rovesci in quello di dissoluzione, di
processo verso il nichilismo. Trasportiamo la considerazione sul piano
mondiale. Se l’attualismo è la forma filosoficamente rigorosa della
filosofia della prassi, il marxleninismo si risolve in ideologia, nel
senso di strumento di potenza (ossia, Lenin ha trasformato il marxismo in
ideologia). Perciò la rivoluzione che esso ha promosso ha dato luogo alla
forma estrema dell’imperialismo (questo è il senso profondo, filosofico,
con cui si può render ragione del fatto dell’imperialismo
sovietico, al di là delle intenzioni di dirigenti). Viceversa, la forma
filosoficamente più rigorosa, non realizza la rivoluzione, ma il suo
opposto. Questo aspetto della storia contemporanea non deve però
produrre meraviglia, né far pensare all’irrazionale se si osserva il
fatto che la contraddizione della filosofia della prassi, come termine
ultimo della filosofia del primato del divenire, non può esplicarsi che
storicamente e praticamente. È In dipendenza delle
considerazioni sinora svolte, la trattazione presente deve articolarsi in
tre punti. Gramsci pensa di poter risalire da Croce a Marx, perché la
filosofia di Croce sarebbe il tentativo, fallito, di ritraduzione del
marxismo in forma di filosofia speculativa. Ossia, egli pensa di aver
compreso il segreto di CROCE. Questi aveva presentato l’avversario contro cui
muoveva, ora come il positivismo, ora come la filosofia
teologizzante, o anzi, come il genere filosofia senz'altro (con la
proposta della sostituzione della metodologia alla filosofia), ora
come l’irrazionalismo: Gramsci dice che è serzpre soprattutto il
marxismo, e che quello di Croce è l’unico tentativo serio di vincerlo.
Per cui, dopo il suo fallimento, il marxismo emergerebbe nella sua forma
più rigorosa. In questa asserzione c’è del vero nel senso che la
filosofia di Croce è una «ritraduzione in forma di filosofia speculativa
di un’altra filosofia». Ma quest'altra filosofia è la filosofia della
prassi di Marx o invece quella di Gentile? Si può dimostrare come sia
questa seconda. Gramsci dunque, nel suo lavoro di «ritraduzione
storicizzante» non incontra Marx, ma invece Gentile, pur credendo di
incontrare Marx. Questa tesi può avere la sua riprova nel fatto che
le novità del pensiero di Gramsci rispetto a Marx o rispetto a
Lenin — novità che nessuno può negare — non possono trovare spiegazione
come sviluppo del marxismo o del marxleninismo, mentre invece si
accordano con la forma gentiliana della filosofia della prassi
(rappresentano il cedimento rispetto a essa. Come può dunque Gramsci
essersi illuso di aver ritrovato il marxismo, se anche un marxismo
diverso dal marxismo volgare e, per quel che riguarda la lettera,
anche dalle formulazioni criticamente elaborate? Occorre
distinguere la filosofia della prassi’ gentiliana, dall’interpretazione
che lo stesso Gentile ne aveva dato e dalla politica con cui l’aveva
connessa. Effettivamente anche un’altra ne è possibile, quella svolta da
Gramsci. Si tratta quindi di porre in chiaro come nell’attualismo, e
più precisamente nella veduta attualista della storia della
filosofia, ci siano possibilità politiche diverse: l'una porta il
risorgimentale Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al
rivoluzionario Gramsci. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione che si
rovescia in dissoluzione: il nome di questa rivoluzione che si rovescia
in dissoluzione è: «contestazione. Non è un caso che Gramsci sia forse
l’unico filosofo marxista la cui fama abbia resistito alla contestazione
nelle sue forme anarchiche, o si sia anzi successivamente consolidata. Se
dunque Gramsci ha ragione nello scrivere che «la filosofia del Croce
rimane una filosofia “speculativa” e in ciò non è solo una traccia di
trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, ha
poi storicamente torto nell’identificare col marxismo la filosofia della
prassi che egli avrebbe ritradotto. Ha parimenti torto nell’idea
dell’ossessione del marxismo, raffigurato come avversario sempre presente
alla mente di Croce, anche se ossessione quasi sempre sottaciuta; perché
la tentazione rivoluzionario- marxista era stata accesa in Croce da
Labriola, e poi criticata senza troppa difficoltà in questa forma
labrioliana, e i motivi della critica rivoluzionaria si erano rovesciati
nella critica della mentalità radicale, e nell'accordo, su questo punto,
con Sorel. Come dalla critica di Labriola fosse riportato allo
Herbart, ho detto altrove: non più, per la verità, come al moralista che
nella prima gioventù gli aveva fornito un purismo etico, giovevole come un’armatura,
onde egli mi rivestiva contro il disfacimento dell’etica operato
dall’associazionismo, dallo psicologismo e dall’evoluzionismo e
dall’utilitarismo che stava sempre nel fondo di questi tentativi, ma al
filosofo che aveva sentito l’importanza della distinzione; e affermato
una linea che porta Croce attraverso il riconoscimento dell’autonomia
del momento economico alla hegeliana riconciliazione con la realtà.
Intenzione — sinora, per quel che so, non segnalata, ma che la
corrispondenza rende chiara — del Gentile de La filosofia di Marx è di
portarlo al suo pensiero attraverso una considerazione del marxismo più
profonda di quella di Labriola, condizionante una critica più rigorosa di
quella di Croce; segnalandogli una filosofia di Marx più profonda
di quella dell’antDibring, a cui Labriola sostanzialmente si
atteneva. Si sono dette le ragioni, profonde per riguardo alle esigenze
spirituali, che portarono Croce alla filosofia, tali da spiegare perché
questo tentativo doveva andare fallito; separando Croce le accettate
critica dell’intuito metafisico e affermazione del formalismo — che
rendono possibile anzitutto la costruzione di un'estetica liberata a un
tempo dalla metafisica e dal naturalismo — dalla filosofia della
prassi. In quegli anni Labriola e Gentile si contendono CROCE, senza
riuscire completamente né l’uno né l’altro nel loro intento; e senza
intendere appieno, né l’uno né l’altro, le ragioni della
resistenza. Dunque l'esame, preciso al mio credere, anche se
rapidamente accennato, dei rapporti tra la filosofia di Croce e di
Gentile, porta a dire che Gramsci, nella sua ritraduzione, avrebbe dovuto
ritrovare Gentile, o ripensare in forma attualistica il marxismo, dato
che la filosofia di Croce è l’esatta traduzione in termini di filosofia
speculativa, non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile.
Avrebbe dovuto: il condizionale dimostra che quanto abbiamo
detto non è ancora una prova sufficiente del suo attualismo. Potrebbe
infatti darsi che Gramsci avesse condotto un parallelo tra lo storicismo
marxiano e il crociano, mostrando la superiorità del primo, e avesse poi
voluto far coincidere questa ricerca con la dimostrazione che il
ripensamento italiano dello hegelismo doveva logicamente concludere
con la riaffermazione del marxismo. Le due ricerche potrebbero
essere di diritto autonome, e l’eventuale insuccesso della seconda non
inciderebbe sulla valutazione della prima. Non è tuttavia così, e
realmente quel che Gramsci chiama marxismo è il risultato coerente della
ritraduzione di Croce, così coerente da ricostruire dopo il
crocianesimo l’attualismo, come se procedesse dalla traduzione al
testo originale. Possiamo convincercene attraverso varie vie. La
prima è la coincidenza puntuale tra la critica gramsciana dello
storicismo di Croce e la gentiliana. La seconda è la formulazione nuova
che in Gramsci trova il concetto marxiano di società civile, con le sue
implicazioni, tra cui quella dell'abbandono dell’economismo e del
materialismo marxiani. La terza è la posizione rispetto a Labriola,
# inconsapevolmente identica a quella di Gentile. Si può dire che
l’invito che questi aveva rivolto a Croce sia stato invece recepito da
Gramsci. La quarta è il modo in cui è inteso il blocco storico. La quinta
è il giudizio sulla funzione capitale accordata alla filosofia italiana
nel processo di modernizzazione rivoluzionaria. La sesta, la differenza
da Lenin rispetto alla nozione di egemonia. Per gli ultimi
cinque di questi punti, se ne trova la miglior conferma in uno scritto
che Norberto Bobbio ha dedicato a Gramsci e la concezione della società
civile e che è il più penetrante nella linea, per dir così,
gramsciano-azionista, che è anche accettata, sostanzialmente, in quanto
riforma del marxismo e del leninismo che è insieme loro sviluppo,
dal comunismo occidentale. Da uno studioso di cui è nota la scarsissima
simpatia per Gentile e che non pone infatti la domanda essenziale: se
quella che pur chiama «la profonda innovazione che Gramsci introduce in
tutta la tradizione marxista possa essere considerata uno sviluppo
del pensiero marxiano, o risulti invece dall’accettazione della
critica gentiliana, inconsapevole, ma necessaria, dato l'assunto di
tradurre in linguaggio storicizzato il pensiero speculativo di Croce. È
piccante osservare come le precisazioni testualmente esatte del filosofo
italiano più avverso a Gentile rappresentino le tappe per la
dimostrazione rigorosa del cedimento in Gramsci della filosofia della
prassi marxiana rispetto alla gentiliana. Cominciamo con
l’osservare come la critica gramsciana dello storicismo crociano coincida
puntualmente con quella svolta da Gentile. Che cosa dice infatti Gramsci?
Che al divenire Croce ha sostituito il «concetto» del divenire; che
questa sostituzione coincide con quella del divenire reale con un
divenire dipinto; che la «non definitività» della filosofia ricopre di
fatto la definitività della società liberale, apparentemente aperta allo
sviluppo, in realtà chiusa alla trasformazione rivoluzionaria; che,
insomma, per usare un linguaggio lukAcsiano, Croce ha semplicemente
sostituito all’apologetica diretta dell'ordine esistente un’apologetica
indiretta. Che lo storicismo di CROCE, come storicismo separato dalla
filosofia della prassi e dall’unità di pensiero e di azione, è uno
storicismo chiuso al futuro. Se passiamo a considerare quel saggio in cui
Gentile conclude definitivamente i suoi conti con CROCE, Storicismo
e Storicismo, riscontriamo una corrispondenza perfetta. Gentile parla
dello storicismo crociano come appoggiato a fondamenta semplicemente
dipinte, perché all’interno di un realismo e di un naturalismo
presupposti; così da essere uno storicismo della realtà conclusa in cui
«il futuro preveduto o comunque pensato come un qualunque possibile
futuro, è logicamente un passato rispetto al pensiero che lo raffigura
nel sistema necessario della logica. Passiamo ora all’innovazione profonda
che Gramsci introduce in tutta la tradizione marxista, e che non ha
in questa precedenti. Sta nella diversa concezione della società
civile vista come appartenente non al momento della struttura, ma a
quello della sovrastruttura; cioè per Marx la società civile, intesa come
«il vero focolare, il teatro di ogni storia», comprende secondo la
definizione dell’Ideologia tedesca, poi ripresa nella Critica dell’economia
politica, tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli
individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle
forze produttive.& Affermazioni che sono la premessa della
celebre definizione della Critica dell'economia politica. L'insieme di questi
rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società,
ossia la base reale sulla quale si eleva una struttura giuridica e
politica e alla quale corrispondono forze determinanti della coscienza
sociale. Nella scuola marxista si può trattare dell’azione reciproca
tra struttura e sovrastruttura, ma non abolire il primato della
struttura, con la teoria materialistica del riflesso (le idee come
riflesso). Se, come Gramsci, si intende invece per «società civile» tutto
il complesso delle relazioni ideologico- culturali della vita spirituale,
si rimette la dialettica sulla testa, sia pure in modo diverso da quello
che aveva fatto Hegel. La storia non è più, in primo luogo, storia
economica, ma storia delle concezioni del mondo, storia della filosofia.
È quel che attesta il passo gramsciano così frequentemente citato,
secondo cui «la filosofia della prassi è il coronamento di tutto questo
movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto
tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma
protestante più Rivoluzione francese; è una filosofia che è anche una
politica e una politica che è anche filosofia».& Detto questo, le
altre novità gramsciane che BOBBIO mette in luce con tanta precisione non
possono servire ad altro che a illuminare meglio la coincidenza tra il
distacco di Gramsci da Marx e da Lenin (non soltanto nella lettera), e la
sua, certamente non voluta né consapevole, subordinazione
all’attualismo. Sembra che Gramsci ripercorra il processo di pensiero
di GENTILE da La filosofia di Marx alla prolusione palermitana sul
concetto di storia della filosofia, in cui la storia, in obbedienza, per
così dire, al mondo rimesso sulla testa nel giovanile libro su Marx, viene
risolta nella storia della filosofia. Con la conseguenza, per Gramsci,
che il concetto «borghese» di «modernità» si sostituisce alla
versione rivoluzionaria del concetto di «materialismo»; e sulla
base della «modernità» si ha poi l’incontro tipicamente gramsciano
tra la borghesia progressiva e il comunismo, quell’incontro così
severamente giudicato da BORDIGA (si veda), ma non da Bordiga
soltanto. La novità rispetto all’idea della società civile è
correlativa all’abbandono dell’oggettivismo di Labriola, come pure BOBBIO
acutamente avverte, senza però osservare che avviene esattamente nei
termini che Gentile auspicava. Per LABRIOLA la tesi che «le idee non
nascono dal cielo» era equivalente alla loro spiegazione a partire dalla
struttura economica, secondo la notissima sua frase per cui la
struttura economica determina 77 primzo luogo e per diretto i modi di
regolazione e di soggezione degli uomini verso gli uomini (il diritto, la
morale, lo stato), 1 secondo luogo e per indiretto gli obiettivi della
fantasia e del pensiero, nella produzione della religione e della
scienza». Le idee non nascono dal cielo neanche per Gentile e per
Gramsci; ma le concezioni del mondo hanno rispetto alle istituzioni
una funzione primaria; non sono giustificazioni postume di un
potere, ma forme creatrici di nuova storia. Ora, questo era appunto il
senso del congedo del materialismo marxiano — dell’ antDibring in nome
dell’elemento più positivo e rigorosamente critico delle tesi — proposto
dal Gentile anti-Labriola. La concezione gramsciana della società civile
porta alla critica dell’economismo a cui consegue quella del
materialismo. Marxismo dissociato da materialismo e da economismo; ma non
è una definizione che vale esattamente per l’attualismo? Con un paradosso
soltanto apparente si potrebbe giungere a dire che il rimprovero mosso a
Croce da Gramsci è di non avere, in quei lontani anni, ascoltato
Gentile. Passiamo a un quarto punto, a quella nozione di blocco
storico, in cui, benché gli accenni contenuti negli scritti gramsciani
siano scarsissimi, si suol riconoscere il nucleo fondamentale» del
gramscismo. Ebbene, in due di questi pochi passi si dice che nel «blocco
storico» le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma,
affermazione a cui Gramsci pensa di dover immediatamente aggiungere che
la distinzione di forma e di contenuto è meramente didascalica,
perché le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma
e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze
materiali; così che l’unità-distinzione tra la struttura e la
sovrastruttura viene esemplata su quella tra la natura e lo spirito.
Frasi di cui è inutile sottolineare l'accento
attualistico. Consideriamo poi la curiosa affermazione gramsciana
sul primato italiano nella promozione della rivoluzione comunista a
rivoluzione mondiale. Per lui, la missione del popolo italiano è nella
ripresa «del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella forma più
moderna e avanzata» non in quella nazionalistica rivolta al passato. Quanto
a dire è nella continuazione, nella forma che si è detto, della
filosofia dello Spirito italiana, vista da lui come il punto più
alto sinora raggiunto dal pensiero, che il marxismo si eleva alla
sua forma rigorosamente critica, condizione del carattere mondiale della
rivoluzione. Anche se non mi sembra si possano addurre passi precisi
al riguardo, ho l’impressione che il nuovo concetto di società civile ha
tra l’altro la funzione di permettere, attraverso una giustificazione
filosofica, la fondazione in linea di diritto della novità del leninismo
rispetto a Marx: la nozione di egemonia, ossia l’idea del partito
come strumento rivoluzionario permanente. Il leninismo aveva
parlato dell’egemonia come «direzione politica», andando in ciò oltre al
marxismo nella direzione volontaristica e partitica; per Gramsci bisogna
subordinare questa direzione politica alla direzione culturale. Si
potrebbe dire che il progresso politico di Lenin su Marx importa filosoficamente
per Gramsci un nuovo concetto di «società civile» che può trovare il suo
fondamento solo nel passaggio dalla prima alla seconda forma di filosofia
della prassi: è questo un punto che meriterebbe di venire svolto con particolare
attenzione. Anche se non si possono trovare citazioni precise, credo
si possa considerare pensiero centrale di Gramsci quello che la
riforma teorica del marxismo conseguente alla riforma italiana del
pensiero classico tedesco rende anche possibile la riforma politico-culturale
del leninismo. Altrimenti — non sembra arbitrario attribuire questo
pensiero a Gramsci — si va fatalmente a cadere nelle due opposte
deviazioni, quella di Stalin e quella di Trockij. Perché si può dire che
in entrambe egli dovesse vedere la conseguenza del non risolto
problema leninista; nello stalinismo prendeva la forma della
subordinazione della teoria alla pratica, con la conseguenza della
trasformazione del marxismo in un’ideologia di potere che doveva, in
definitiva, portare al social-imperialismo. Quanto al trockismo, la giusta
esigenza di non troncare il processo rivoluzionario non poteva trovare
soddisfazione sino a che non si fosse elaborata una filosofia
rivoluzionaria con significato veramente mondiale. La
priorità della direzione politica poteva cioè portare alla formazione di
una volontà collettiva, nel senso di volontà universale, solo a
condizione che fosse subordinata a una concezione del mondo, non più
usata strumentalmente, ma valida perché vera, tale da imporsi agli
intellettuali. Ciò aveva portato alla delusione degli stessi
intellettuali marxisti occidentali rispetto al comunismo russo, e alla
loro solidarietà con gli intellettuali liberi o socialdemocratici
nella convinzione che la rivoluzione marxleninista fosse fenomeno russo e
non inizio della rivoluzione mondiale. Come reazione di Gramsci a questa
impressione deve essere inteso quel passo ricordato dianzi sulla missione
del popolo italiano. La rivoluzione mondiale deve, cioè, procedere
dall’Italia: in dipendenza di quella rielaborazione veramente critica del
marxismo, che sarà il risultato di quell’opera fr ewig [per sempre] a cui
egli si accinge dopo la sconfitta politica e a cui lavora negli anni del
carcere. Il lungo giro che si è percorso ci riporta, certificandole,
alle ipotesi pronunziate all’inizio. È frequente il discorso
sull’insuperabilità della crisi che il marxismo non può confessare, e che
non può confessare perché è insuperabile. Ora, soltanto #/ necessario
cedimento di Gramsci rispetto a Gentile ci permette di definire questa
insuperabilità. Davanti alla filosofia dello spirito italiana non ci sono
per il marxismo filosofico che due vie: o respingere assolutamente
tale filosofia dalla storia del pensiero,@ o trasformarsi nel senso
gramsciano. Finché si porti l’attenzione sul solo Croce, la tesi del
marxismo di Gramsci può ancora, e sia pure con un po’ di difficoltà,
essere sostenuta: il suo è uno dei vari modi in cui può essere
sostenuta entro il marxismo la tesi dell’unità di struttura e di
soprastruttura; il gramscismo può anzi essere visto come la forma più
liberale che il marxismo sia suscettibile di assumere. Le cose cambiano
completamente, come si è visto, quando si ponga il problema del rapporto
con l’attualismo. D'altra parte evitare questi conti è impossibile
perché sia marxismo che attualismo si presentano come l’esito della
filosofia classica tedesca. Bisognerebbe dimostrare che l’attualismo è
un’involuzione, ma dove ravvisare l'elemento involgente? La
considerazione del modo con cui Gentile incontra il punto nodale del
pensiero marxiano, tronca anzi ogni possibile discorso
sull’involuzione attualistica dello hegelismo nel giobertismo,
nell’ideologia italiana, eccetera; tutti i discorsi del cattaneismo oggi
corrente. A partire dal rapporto Gramsci-Gentile viene così anche
definito il limite del marxismo di sinistra antigramsciano. Ha ragione
quando afferma che il neomarxismo di Gramsci non è effettivamente più
marxismo; non però perché contagiato da influenze che avrebbe subito, in
qualche modo passivamente, dall'ambiente culturale, o perché il
modo di pensare del suo autore non sia stato rigoroso: si deve invece
dire che rappresenta esattamente quel che il marxismo deve diventare
quando vuol prendere posizione rispetto alla «filosofia dello Spirito»
italiana. Meglio ancora: come già si è visto, l’originalità
incontestabile del pensiero gramsciano, quel che ne fa il più notevole
tra i commenti filosofici al marxleninismo, sta nel fatto che,
richiamandosi a LABRIOLA (si veda), ha posto il problema
dell’autosufficienza del marxismo, necessaria perché la rivoluzione non
venga riassorbita nel vecchio mondo; da ciò l’eccezionale
importanza che, a mio giudizio, ha il suo scacco. La critica di sinistra
non può procedere oltre dopo il rilievo del nonmarxismo di Gramsci: la
sua verità rispetto a giudizi di fatto abbisogna di una diversa
giustificazione teorica. Questo marxismo di sinistra respinge il Diazzat
come ideologia, e respinge insieme il gramscismo e, senza dubbio,
le sue osservazioni sono molto pertinenti per quel che riguarda le
conseguenze pratico-politiche del gramscismo. Non sa tuttavia indicare la
forma di marxismo critico che possa venir sostituita alla posizione di
GRAMSCI; ed è dogmatico nella convinzione, ancora, di una rivoluzione
nel senso del marxismo dopo che ha rifiutato e deve rifiutare tutte
le forme in cui sinora si è realizzata o si propone. Quanto si è detto
porta al non piccolo risultato del riconoscimento di un’impotenza non
superabile. La vera formulazione della crisi insuperabile del
marxismo teorico riguarda dunque il fatto se sia coinvolto nello scacco
dell’attualismo, da intendere non come scacco- fallimento, ma come
scacco-occasione di una svolta nella storia del pensiero. Ogni altra
critica appare esterna rispetto a questa: che mostra come, percorrendo lo
svolgimento dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi, non
si possa evitare l’attualismo come momento ultimo. Di quale portata
sia questa critica ci accorgiamo considerando come quella che si potrebbe
chiamare «prigionia gramsciana del marxismo nell’attualismo» porti a
rovesciare la rivoluzione, nel senso marxiano del termine, in
dissoluzione. Non è senza significato che oggi si affacci l’idea che
la contestazione (definibile appunto come rovesciamento della
rivoluzione in dissoluzione) abbia compiuto un’opera selettiva tra i
teorici del marxismo, risparmiando il solo Gramsci come elaboratore
dell’unica strategia capace di render possibile il passaggio al comunismo
nei Paesi occidentali. Ma come spiegare le opposte disposizioni politiche
di GENTILE e di GRAMSCI? Analizzare così il particolare fascismo di GENTILE
come il comunismo di Gramsci può portare a una visione della storia
contemporanea diversa dalle abituali. Nelle relazioni che ho ascoltato mi
è sembrato di sentire una certa reticenza nei riguardi del fascismo di
Gentile, quasi si trattasse di un tema su cui fosse preferibile non
insistere. Bisogna riconoscere che se fascismo vuol dire credere
nella funzione cosmico-storica della personalità di Mussolini,
nessuno fu fascista come Gentile. Come spiegare dunque, data la prossimità
di posizioni filosofiche, il fascismo di Gentile e l’antifascismo di
Gramsci? Cominciamo perciò col considerare a priori le possibilità
politiche contenute nell’attualismo, per passare poi al riscontro
testuale. Tali possibilità sono due, la risorgimentale” e la
rivoluzionaria. La prima si imparenta alla sua interpretazione in termini
di «filosofia cristiana». La grande cesura nella storia sarebbe
rappresentata dal cristianesimo = che il processo dell’oggettiviimo
al soggettivismo della filosofia cristiana libererebbe dalla rete,
in cui si trovò impigliato, del pensiero greco. A partire da questo e in
relazione alla sua critica del materialismo marxiano, da lui associato
con l’idea rivoluzionaria, GENTILE può pensare a un Marx oltrepassato in
GIOBERTI (si veda), e all’idea di rivoluzione oltrepassata in quella di
Risorgimento, elevata a vera e propria categoria filosofica. Risorgimento
che viene conseguentemente definito attraverso l’antitesi radicale
alle posizioni descritte ne La filosofia di Marx come conseguenti
al materialismo: ateismo, sensismo, individualismo e amoralismo, spirito
rivoluzionario, negazione della tradizione. Da ciò lo sganciamento totale
del Risorgimento dall’illuminismo e dallo spirito della Rivoluzione
francese e la sua connessione con la Restaurazione, nel senso di
vera restaurazione, restaurazione del divino. Intesa però non come
semplice riaffermazione del passato, ma come ripresa e affinamento di una
tradizione, dopo che essa era stata messa in crisi, così che potremmo
complessivamente dire che per Gentile spirito risorgimentale ha il
significato di riaffermata religione di SPIRITO (si veda), come
spiritualismo purificato da ogni traccia di naturalismo e di
soprannaturalismo insieme, essendo il soprannaturalismo per lui, per così
dire, una forma di naturalismo iperuranico. Se separiamo però l’attualismo
dal suo carattere «cattolico» o dall’interpretazione religiosa che il suo
autore gli aveva dato, esso assume un carattere rivoluzionario, per
quel che riguarda la sua posizione nella storia della filosofia (particolarmente
visibile, per esempio, nella prolusione pisana L'esperienza pura e la
realtà storica). Ossia: tutte le concezioni del mondo prima
dell’attualismo si sono mosse nell'orizzonte di una realtà e di una
verità presupposte; certamente la storia del pensiero è quella di
un processo di erosione della concezione oggettivistica e
trascendentistica, e con ciò prepara la «maturità dei tempi»; ciò non
toglie però il salto tra esse, e il rigoroso immanentismo. L’attualismo
non è soltanto il punto d’arrivo di un processo millenario, ma una
rivoluzione; e il passo ricordato del giovane Gramsci mostra come egli vi
vedesse questo; la rivoluzione filosofica attualista,
perfezionamento del marxismo, poteva ben congiungersi con la rivoluzione
comunista, negatrice delle formulazioni riformistiche o evoluzionistiche
del marxismo. Finora abbiamo parlato dell’attualismo interpretato da
Gramsci in senso rivoluzionario. Proponiamoci ora la domanda inversa:
l’interpretazione in termini di attualismo, di soggettivistica filosofia
della prassi, non porta al rovesciamento dell’idea di rivoluzione in
quella di dissoluzione? Cioè al nichilismo che è il termine esatto
per indicare questo rovesciamento? A parlare del nichilismo non può
non venire in mente la diagnosi di Nietzsche: l'avventura della
rivoluzione a contatto con l’attualismo può servire a mostrare che l’idea
rivoluzionaria non riesce a sormontare il nichilismo. È qui che si
manifesta massimamente quell’enorme potere di negatività, che è il
proprio dell’attualismo. Con un bisticcio di parole, direi che
l’attualismo è oggi attuale, o torna a esserlo, proprio per questo
motivo. La trasposizione sovrastrutturalistica mette in primo piano la
figura dell’intellettuale; e si sa quanta importanza la sua definizione
abbia assunto per GRAMSCI. Ora, si consideri: l'influenza gramsciana
nell’ultimo quarto del Novecento è stata enorme, solo paragonabile a
quella della cultura idealistica nel primo; ma i tipi di
intellettuale che oggi prevalgono sono quello del dissacratore
o demistificatore e quello dell’esperto o del tecnico; quale
rapporto hanno con la figura gramsciana dell’intellettuale organico?
Rispondo che sono il frutto della sua decomposizione. All’intellettuale
era assegnata da GRAMSCI una funzione un po’ simile a quella che
Marx assegnava al proletariato: quella di chi, liberando se stesso,
libera il mondo. La decomposizione lo trasforma in funzionario
dell’industria culturale, dipendente da una classe di potere che ha
bisogno così dell’intellettuale dissacratore (quale custode del
nichilismo) come dell'esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non
è del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si
configura, infatti, questo intellettuale? Messo da parte l’economismo,
l'opposizione diventerà quella tra intellettuali tradizionali e
intellettuali progressivi. Come storicisti, questi non potranno più
parlare in nome di un socialismo utopistico; neppure però di un
socialismo scientifico, dato l’abbandono dell’aspetto
materialistico-economicistico, oggettivistico, del marxismo. Semplicemente
in nome della storia come processo di
autotrascendimento. L’interpretazione dell’attualismo in chiave
illuministica porterà a una sorta d’illuminismo dopo il marxismo,
dunque a un illuminismo «senza diritto naturale», con la conseguenza che
l’intellettuale progressivo prenderà la figura dell’intellettuale
dissacratore: del devalorizzatore dei valori finora considerati come
supremi. Quella rivoluzione per erosione, e non per rottura brusca, che è
poi la «guerra di posizione» sostenuta da Gramsci, come tecnica
rivoluzionaria, alla «guerra di movimento», si risolve in una
dissoluzione entro l'ordine dato, che viene privato dei valori ideali che
lo fondano, così che viene chiusa la via a una loro riaffermazione
purificata. GRAMSCI, naturalmente, non ha il minimo sospetto di questo
possibile esito del suo pensiero. Si può garantire che avrebbe detestato
gli intellettuali profittatori dei connubi tra marxismo, psicanalisi di
sinistra e decadentismo sadico. Ci si può render conto di questa assenza
di previsione, se si pensa alle circostanze politiche che furono
l’occasione della sua riflessione filosofica. In GRAMSCI ordinovista c’è
la persuasione della solidarietà tra la nuova cultura italiana e la
rivoluzione socialista, nella forma in cui avrebbe potuto attuarsi in
Italia. Ed ecco che si verifica il fenomeno affatto imprevisto del
fascismo che attrae a sé il consenso della maggior parte di questa
cultura; in diversi gradi, ma praticamente è sufficiente il giudizio
della sua minore pericolosità rispetto a quella presentata dal comunismo.
Per il Gramsci dei Quaderni del carcere si tratta di riguadagnare
all’antifascismo la cultura del Novecento italiano, attraverso l’unica
via possibile: la dimostrazione che lo sviluppo coerente del suo motivo
più originale deve portarla all'incontro col marxismo autentico, o, per
dir meglio, alla sua scoperta. SPIRITO dice che GENTILE è il
creatore del fascismo. Si tratta di una frase forse un po’ a punta, ma
che è vera, quando venga bene intesa. Senza la cultura gentiliana il
fascismo non avrebbe potuto prender forma. Ebbene, si deve dire che GRAMSCI
e il creatore dell’antifascismo, quando lo si distingua
dall’opposizione mossa in nome del prefascismo (quella di CROCE,
per esempio). Sempre presente nei Quaderni è l’immagine del
fascismo come del nemico che si deve evertere; è quindi naturale che,
trasportato in una situazione in cui il fascismo non sussiste più,
l’antifascismo non possa esplicarsi che come fenomeno dissolutivo. Per
esprimere tutto in una rapida formula, direi che, visti nella loro radice
filosofica, fascismo e antifascismo sono i due aspetti in cui
quella filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel
farsi mondo. Ritorniamo al punto già accennato, sul vincolo
necessario che unisce, nel marxismo, materialismo e idea della
rivoluzione totale. Il pensiero di GRAMSCI, in quanto vuole assegnare al
termine materialismo un significato soltanto metaforico (al di là del
mondo storico non c’è nulla), ne è la completa riprova: la funzione
primaria data agli intellettuali come all'elemento attivo e unificante e
al partito moderno Principe come intellettuale collettivo porta in realtà
alla captazione borghese-illuministico-modernista. Osserviamo
infatti. In questa concezione storicistica gli intellettuali possono
operare soltanto come dissolutori delle verità eterne, svolgenti perciò
una critica che include quella dell'aspetto escatologico del marxismo. Il
momento negativo del pensiero rivoluzionario si dissocia così dal
positivo e si fa negazione, piuttosto che dell’ordine esistente, dei
valori ideali che lo legittimavano. Esercita un’azione dissolutiva che
non distrugge le classi, ma porta al dominio di una nuova classe, che
tratta ogni idea come strumento di potere. Il processo è quindi da uno
stadio all’altro, più razionalmente organizzato, del dominio di
classe. Si trova una precisa conferma a questa tesi se si porta
attenzione alle cose più pertinenti che siano state scritte negli ultimi
anni, così su GRAMSCI come su GENTILE. Così, è stato giustamente
osservato da Riechers come il socialismo si riduca fondamentalmente per GRAMSCI
a un modo di produzione capitalistica separato dalla figura
dell’imprenditore e in cui il funzionamento del piano è controllato dagl’intellettuali
organici (la nuova classe); e che per lui sembra esistere un’economia
indifferente alle classi, il cui sviluppo naturalmente positivo si trova
impedito da retrivi gruppi sociali. Per un verso, dunque, rivoluzione
è scissione completa col vecchio mondo, e tutto il suo lavoro è
svolto a definire l’idea, in questo significato scissionistico; di fatto,
questa purificata idea rivoluzionaria è destinata a rovesciarsi nel senso
che si è detto. [sal Si potrebbe dire che negli atteggiamenti
storico-politici opposti di GENTILE e di GRAMSCI si conclude la polemica
tra MAZZINI e Marx. Si conclude però nel modo più singolare,
estremamente istruttivo così per il pensiero filosofico come per il
politico. Marx aveva stabilito la solidarietà tra filosofia della prassi,
rivoluzione totale e materialismo; l’approfondimento gentiliano della
filosofia della prassi porta alla cancellazione del materialismo; GRAMSCI
tenta vanamente di ristabilire il concetto di rivoluzione totale
dopo la riforma gentiliana della filosofia della prassi. CROCE pensa che nelle
discussioni italiane il marxismo teorico avesse subito la sua critica
decisiva, fornendo in pari tempo l’occasione al pensiero italiano di
portarsi al livello più alto del pensiero mondiale. È un giudizio da
rettificare piuttosto che da escludere; a parte la consapevolezza che
egli stesso o altri abbiano potuto averne, il protagonista della grande e
insolubile crisi del marxismo teorico è GENTILE. E la crisi avviene
effettivamente in Italia attraverso la rottura non conciliabile tra
l’opera rigorosamente teorica di GRAMSCI e quella di BORDIGA (si veda),
che è costretta al marxismo letterale, e non può raggiungere una
formulazione teorica seria, proprio perché non ha affrontato Gentile, ma
che è nonostante ciò sufficiente per mettere in rilievo il non marxismo
di GRAMSCI. O, per concludere: l’attualismo è l’autocritica,
all’interno della filosofia della prassi dopo Hegel, dell’idea marxiana
della rivoluzione totale, autocritica che si esprime nella forma di
rovesciamento nell’opposto. Il pensiero di GRAMSCI ne è la decisiva
conferma. Se è vera la prospettiva che ho enunciato nel mio libro su I/
problema dell’ateismo, secondo cui il razionalismo, inteso come negazione
senza prove del soprannaturale, deve concludere sull’idea della
rivoluzione totale, l’attualismo è la prova del suo scacco. In ciò il
senso della svolta decisiva che la filosofia di GENTILE
rappresenta. Augusto Del Noce. Noce. Keywords:
saggio su Gentile e il fascismo, Faggi, Serbati, Spir, Vidari, Rensi,
Martinetti, Juvalta, Massantini, Catelli, Capograssi. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e del Noce," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Noferi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della setta di Firenze – la
scuola di Firenze – filosofia fiorentina -- filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo Fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Important
Italian philosopher, especially influential at what Grice called Italy’s
Oxford, i. e. Firenze“Palla Strozzi was more a mentor than a philosopher, but I
would consider him both a Grecian and Griceian in spirit.” alla Strozzi Palla e Lorenzo Strozzi. Dettaglio
dell'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano. Grazie alla ricchezza
accumulata nelle ultime generazioni dalla sua famiglia, il padre puo far
istruire il figlio da filosofi, e grazie all'interesse e all'intelligenza, divenne
di fatto uno dei più fini uomini di cultura fiorentini. Ricco e colto,
commissiona numerose opere d'arte, tra le quali la Cappella N. nella Basilica
di Santa Trinita, opera di Brunelleschi e Ghiberti. La cappella, progetto
irrealizzato da N., venne fatta erigere in la sua memoria e ne ospita la
sepoltura monumentale. Per questo ambiente commissiona l'Adorazione dei Magi a
Gentile da Fabriano e la Deposizione dalla Croce a L. Monaco, terminata poi da
Beato Angelico che ne fece uno dei suoi capolavori. Collezionista di libri rari
e conoscitore del greco e del latino, si trova nvischiato nell'opposizione
strenua contro Cosimo de' Medici. Cosimo e l'uomo che per la prima volta si e di
fatto preso tutto il potere cittadino, grazie a un sistema di clientelismo con
uomini chiave alla guida degli uffici della repubblica di Firenze. Davanti a
lui solo due strade sono possibili: l'alleanza accettando un ruolo subordinato
o lo scontro frontale. Forte della sua ricchezza e fiero della propria cultura,
e a capo della fazione anti-medicea assieme ad un altro oligarca indomabile,
Albizi. La fortuna arriva alla sua fazione, riuscendo ad ottenere prima
l'incarcerazione di de’ Medici, poi la dichiarazione del medesimo come magnate,
cioè tiranno, ed il suo conseguente esilio da Firenze. Il suo obiettivo
comunque non e tanto l'eliminazione di un avversario, ma la restaurazione della
“liberta”. In questo e diverso d’Albizi.
Intanto de’ Medici manda già segni di prepararsi a un ri-entro, che
avvenne puntuale al cambio di governo con il veloce avvicendamento dei
gonfalonieri. Tra i primi provvedimenti vi è proprio la vendetta sugli
avversari, con l’esilio del filosofo e d’Albizi. In questo de’ Medici e favorito
anche dall'appoggio popolare che lui e la sua casata si sono saputi
conquistare. Quindi parte per Padova. Il suo palazzo a Padova e un ritrovo di
filosofi, nel periodo d'oro quando la città veneta era uno dei centri culturali
più notevoli della penisola italiana, per certi risultati artistici più
importante della stessa Firenze. Si pensi ai capolavori lasciati proprio da due
fiorentini come Giotto o Donatello. Lascia la sua raccolta di libri rari,
arricchita ulteriormente durante il suo soggiorno padovano, al monastero di
Santa Giustina. Muore a Padova nel suo palazzo verso il Prato della Valle. Sepolto
nella vicina chiesa di Santa Maria di Betlemme. Cavaliere dello Speron d'oro nastrino
per uniforme ordinaria cavaliere dello speron d'oro Marcello Vannucci, Le grandi famiglie di
Firenze, Roma, Newton Compton, Palmarocchi, La famiglia Strozzi, in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “His main claim to
philosophical fame is in his character- unlike Alibizi’s and indeed Medici. He
loved freedom, and chose to settle in Padova, although his roots were well in
Firenze. He built hiw palace in Padova in Prato del Vallo to gather philosophers,
since what’s the good of knowing the classics if you cannot converse? He never
touched a university! His ‘bibliotheca’ is legendary! Strozzi-Noferi. Noferi. Keywords:
“Beautiful painting (by Gentile da Fabriano) of Noferi. Very Italian in an
exotic sort of way!” – Grice. Refs.:Luigi
Speranza, "Grice e Strozzi-Noferi -- Grecian, Griceian," per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Nola: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’urina – la scuola
di Crotone -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Crotone, Calabria. Gice: “At Oxford, we are proud
of our philosophy, at Bologna, and in Italy in general, they are proud of their
physicians, as they call them – students of nature!”. Di origini napoletane e zio di
Molisi, insegna per lungo tempo a Napoli. Discepolo di Altomare, divenne noto
per suo saggio, “Quod sedimentum sanorum, aegrorumque corporum non sit eiusdem
speciei adversus Ferdinandum Cassanum et alios contrarium sentientes.” Cf. Marruncelli,
Elementi dell'arte di ragionare in medicina” (Napoli, Gabinetto); S. Renzi, “Storia della medicina” (Napoli,
Filiatre-Sebezio); Adalberto Pazzini, La Calabria nella storia della medicina,
Roma); Lavoro critico (Bari, Dedalo). La Famiglia dei N.. Molise, Archivio
storico di Crotone. 1, quem ad modum
Ciuitates tunc optime gubernātur, (vt inquit Platoin lib. de Philo. cùm
iniustidant pænas: perin so& impudenter, impugnant, accontra dicunt, optimèquoquereor,
et scientiæ, et artesse haberent. Nam veras CLARISS. ALTIMARI discipulo, Auctore.
Med. Doctore scientias ac artes perfetè, et breui cuns et isaffequiliceret: at queitaetia
muerè scientes, acoptimos artifices fieri. Nuncueròcumlex falso
contradicentibus statuta nullafit, no immeritòe inoptimosuiros, arbitror,
impurissimum quen queac in eruditum iuuenem inuehiandere et admodum paucos vere
scientes, artifices quereperiri, cum& passim scribere omnibus liceat, et unicuique
sententiam ferre apud vulgus. Adde, quòdnefcio quo fato datum etiam fit
quibusdam, easdem docere artes, ac publicè profiter i, qui uel omnino inertes
fint, aut parumeas intelligant: cùm ueròne sciant, scire autem seputant, mirum non
est fidgeipfierrent, et alios aberrarecogant. Quandoquidem oporteret
(utinquitidem Plato in Alcib.) eos qui aliquid doftursiunt, priufquam doceant, intelligere,
fix OVOD SANORVM AEGRORVMQVE SEDIMENTVM IOANNE Andrea Nola Crotoniata Artium et
bique fuoq; martese dimenti ueritate mueftigauitad Hippo. es Gal. sententiam
quemadmodumo non nulla alia nonminu sad artem medicam utilia quàm necessaria,
ut in reliqus fuis scriptis palàmestuidere:) Sedcum hacfole clariorafint,
pateant quecun&tis artis medicæ candidatis, quirenera medicisunt, nedum in uniuersa
Italia, uerum etiam into tafere Europa in colentibus; mea approbationenon indigent.
Attem puseft ut adiftorum ignorantiam castigandam, ac in numeros errores
patefaciendos, accedamus. Nos uero eo, quo scriptifunt, ordine, eos
animaduertemus, etiam fiad sedimentorum naturam manifestandam non conferant; ut
discant studiosiquam maxime', nedum Artis medis ca, sed philosophia, et dialeticæ
fe imperitosese oftendant; quanto veliuore impulsitali ascribere conatifuerint.
Cum vero futurun fitut hominem reprehendamin doctum, ftolidum, opinione sua sapientem,
nugis interin erudite siuuenes uersatum in uniuersauita, queso, candidiß. lector,
liceat mihi uerbis huius ignorantiam castigare asperio nibus, quibus ego ut ialioquinon
foleo. Cum primimin prima pagellahicuirdă nassettum Plusquam commentatoris, tum
etiam Neotericorum opinionem de sedimento quiz whipseait, quamuis. Iaftenturf copumattigile,
longèalijs falluntur Sedimentum SANORUM ægrorumý; corp. biqueconsentire, e
nondissidere: hæcetenim bonos decet præcepto ses utipfeait. quod sita fieretnequehic
incognitus nescio quis Cassanus, tam fuisse taudaxs atque impudens, ut feuerisoppo
neret, nifiexilis esset, quiomnem funditus pudorem exuerunt, neque afuis præceptoribus
male eruditusac impulsus, eorumtamen opinio ne sapientibus totausus fuissetscriberenugas.
Quas omnes passimin minibus artis medicecandidatis, seclusoliuore, manifestare conabor,
quod huiu suiri ignorantia, simul quete meritas castigetur. difcantque
reliquiin posterum quàmmalum sitoptimis, aceruditiß. virisindies utilia,
Artisg; medicæ apprimè necessaria, et verissima scribentibus; O ut summatim
dicam, universam pene medicinam illustrantibus, falso contradicere. Non autem,
uteaquæa doctissimoac Clariss. Alti maro præceptore meo de sedimenti in urinis scripta
sunttuear, sunt et enim ad eòscitèacdo Et é conscripta, ég hæc, et
reliquaomniaque hactenus in luce medidit, acualidiß. auctoritatibus et
rationibus comprobata, ut nedumiftorum uirorumnugas non curent, sed quorumuis
etiam aliorum do tiffimorum, si quæ essent contradictiones paruifaciant, ipsea;
primus omnium quosuiderim, propria inuentione cumque 1 cumque neutri, fuo optimo
iudicio, ueritate mattigerint, et fimulli. Uore percitus eosdem recentiores scriptores
calumniasset, quorumnca quidem calciamentasoluere dignus esset, eisque falso tribueret
cunéta quaibitemerenarrat cõfestim, utipfeait. In fecüda ueritatë protulit quam
desedimentosentit, quæquantiss catea terroribus, quantumus averitatealienafit, et
Gal. sententia demonstrabimus, ubialios prius ciuserroresin eadem secunda pag.
conscriptos, manifeftauerimus: Aitetenim {senolle tempus conterere circa urine generationis
modă. Giovanni Andrea de Nola. Nola. Keywords:
Crotone, Plato, Nola-Molise, corpus sanum, focal unification, Owen, Pantzig,
brennpunktbedeutung, Grice, Aristotle, Metafisica, ‘unificazione focale’ –
universale: ‘sanitas’ instantiazione: corpus sanum, corpi sani. Refs.: “Grice e
Nola” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Sperana -- Grice e Noto: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di IVPITER – la scuola
di Noto -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pollina). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Pollina, Palermo,
Sicilia. Grice: “Italian philosophers, must be for St. Peter, who DIED there –
are obsessed with God – Noto wrote his thesis on that, evidence and lack
thereof for God – the part concerining the refutation for those who deny
evidence is fascinating! And typically of an Italian philosopher, he narrows
down his research to ‘secolo XIII,’ where we at England and Oxford hardly
existed!”Fa gli studi ginnasiali al Convento di Giaccherino e al Convento del
Bosco ai Frati. Vestì il saio francescano a Fucecchio e
professò. Studia filosofia a Lucca, Bosco ai Frati, il Convento di San Vivaldo,
Fiesole, Siena e il Convento di Sargiano. Emise i voti a Fiesole e fu ordinato
sacerdote a Siena. Andò a Parigi e frequentò l’Istituto Cattolico, la Sorbona e
il Collège de France. Conseguì il Dottorato in filosofia e il Diploma di studi
superiori alla Sorbona. Essendo andato a Londra per alcuni mesi ebbe il Diploma
di lingua inglese che in seguito perfezionò tornando ogni anno a Londra nel
periodo estivo. Pubblicò la tesi di laurea “L’evidenza di Dio nella filosofia"
(Ed. MILANI, Padova). Si imbarca per l’Egitto e si stabilì a Ghiza dove
insegnò. Lì ricoprì gli incarichi di Guardiano e Maestro dei Chierici. Torna in
Italia e fu per un anno direttore di un grande hotel di Montecatini Terme. Si
trasfere a Figline Valdarno per l’insegnamento all’Istituto Ficino. Si iscrisse
alla Università Cattolica dove conseguì il Dottorato in filosofia valido in
Italia. Aveva iniziato l’insegnamento della lingua inglese alla scuola per
infermieri dell’ospedale di Figline e un corso serale per adulti. Crea un
laboratorio linguistico per facilitare e perfezionare l’apprendimento delle
lingue. Deceduto nell’Ospedale di Figline Valdarno per edemapolmonare acuto da
miocardite in diabetico. Affetto da grave forma di diabete, si era sentito male
nella notte dell’11 novembre, ma dopo aver prolungato il riposo mattutino aveva
tenuto lezione fino a mezzogiorno. Prese allora poco cibo e tornò a riposarsi.
Alle 18 andò alla preghiera comune e alle 18.30 tenne il corso di lingua
inglese per adulti. Alle 20 mentre era a tavola fu chiamato il medico
cardiologo che ordinò il ricovero urgente in ospedale. Qui la sua vita è stata
stroncata da un complesso attacco cardiaco polmonare. Ai funerali, presieduti dal Padre Provinciale
nella Chiesa di San Francesco in Figline erano presenti tanti religiosi e
sacerdoti, i parenti, molte suore oltre che un grande pubblico di studenti e
popolo che riempiva la chiesa. È stato sepolto nel cimitero di Montemurlo. Convento
di Giaccherino Convento del Bosco ai Frati Convento di San Vivaldo Convento di
Sargiano Montemurlo L'evidenza di Dio
nella filosofia del secolo XIII. Grice: “Noto is playing with his surname. There’s no
‘significare’ in Italian. They use ‘notare’ – Now, how is God signified? When
Cicero said ‘god’ he meant Jupiter. Ask Ganymede: The literal truth is Ganymede
was killed in self-inflicted accidental with a boomerang. Her mother said: “His
corpse is here, but he was raped by Giove --. Taking this narrative literally –
Ganymede was RAPED, so the rape is the way the god gets ‘noted’. Noto.
Keywords: IVPITER -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Noto” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza --
Grice e Novara: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
d’Euclide – la scuola di Novara -- filosofia piemontese – filosofia italiana --
Luigi Speranza (Novara). Filosofo italianao.
Novara, Piemonte. m. Viterbo. matematico, astronomo e astrologo
italiano. Tra i più importanti scienziati e matematic (anche Bacone lo cita
come uno dei più grandi matematici a lui contemporanei), Campano è conosciuto
anche come Johannes Campanus (che è tuttavia anche il nome di un Johannes
Campanus anabattista belga del Cinquecento). Elementa geometriae,
Campano da Novara Tetragonismus idest circuli quadratura. Pubblicato
un'edizione degl’Elementa geometriae d’Euclide ed un importante commento
all'opera, introducendo un sistema di calcolo degli angoli del pentagono. Il
testo e utilizzato per circa due secoli e sarà stampato a Venezia
(Preclarissimus liber elementorum Euclidis). L'opera si basa su una traduzione
in lingua araba dell'originale testo greco. N. ha inoltre probabilmente
presente la traduzione latina eseguita da Bath. Cappellano di papa Urbano
IV (in un documento delle Curia pontificia se ne attesta la presenza e se ne
parla come di uno dei quattro migliori matematici viventi) e medico personale
di papa Bonifacio VIII e viaggia in Arabia e in Spagna. Su ordine dello stesso
Urbano IV egli si occupa anche di astronomia e realizzerà la Theorica
Planetarum, nella quale descrisse geometricamente i moti dei pianeti e il modo
per realizzare un planetario. I dati sui pianeti sono tratti dall'Almagesto e
dalle Tavole Toledane dell'astronomo arabo Azarquiel (al-Zarqālī). Dopo
trent'anni di presenza nella curia pontificia a contatto con i maggiori
filosofi naturali dell'epoca, raccolse un enorme patrimonio immobiliare,
stimato alla morte da un ambasciatore aragonese in più di 12 000 fiorini: una
ricchezza legata con ogni probabilità alla sua attività di medico. Negli
ambienti curiali fu assai fortunata una benefica pillola da lui fabbricata, di
cui poi si lesse la ricetta nel Breviarium Praticae. Si ricorda anche una sua
splendida dimora presso Viterbo, in una zona di bagni termali, nella quale
abitò negli ultimi anni della sua vita. Di lui ci restano l'Abbreviatio
equatorii planetarum, il Canon pro minutionibus et purgationibus, il Computus
maior, il Tractatus de sphera, il De computo ecclesiastico, un Calendarium, i
commenti ad Euclide e all'Almagesto. Secondo una recente ipotesi sarebbe a lui
attribuibile anche lo Speculum astronomiae, importantissimo catalogo di opere
astrologiche, che distingueva magia lecita dall'illecita. Da lui prende il nome
un sistema di domificazione in astrologia. Gli è inoltre stato intitolato il
cratere Campano, all'estremo sud-occidentale del Mare Nubium, sulla Luna.
Parte di questo testo proviene dalla relativa voce del progetto Mille anni di
scienza in Italia, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza, Francis
S.Benjamin Jr., G.J. Toomer, N. and Medieval Platenary Theory, The University
of Wisconsin Press, N. (et alii), Tetragonismus idest circuli quadratura,
Impressum Venetiis, per Ioan. Bapti. Sessa, Agostino Paravicini Bagliani, N., Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vacca, N. Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Campanus, su Enciclopedia Britannica, ALCUIN, Università di
Ratisbona. Modifica su Wikidata (EN) Campano da Novara, su MacTutor, University
of St Andrews, Scotland. Portale Astrologia Portale
Astronomia Portale Biografie Portale Matematica
Categorie: Matematici italiani Astronomi italiani Astrologi italiani Nati a
Novara Morti a Viterbo Astronomi medievali [altre]. Giovanni Campano da Novara.
Novara.
Luigi Speranza -- Grice e Novaro: la ragione
conversazionale e implicatura conversazionale ligure -- l’infinito del ponente
– la scuola di Diano Maria -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Diano Maria). Filosofo ligure. Filosofo italiano.
Diano Maria, Liguria. Grice: “Novaro comes from my favourite area in Italy, “La
riviera ligure”!” Grice: “Novaro wrote a nice little treatise on the nature of
the infinite – a concept which fascinates me!” --Fratello di Novaro, nacque da
famiglia economicamente agiata e dopo aver condotto brillantemente gli studi
liceali, ottenendo la laurea a Torino. Si stabilì a Oneglia dove fu assessore
comunale per il partito socialista. Dopo avere per breve tempo insegnato nel
locale liceo, con i fratelli si occupò dell'industria olearia intestata alla
madre Paolina Sasso. Pur dedito
all'attività imprenditoriale fece parte attiva della vita letteraria dei primo
anni del Novecento e fondò la rivista “La Riviera Ligure,” da lui diretta fino
alla sua cessazione. Ospitò nel suo giornale filosofi come Pascoli,
Roccatagliata, Jahier, Boine e Sbarbaro.
Scrisse saggi di carattere filosofico e raccolse tutte le sue poesie,
che hanno come tema principale il bellissimo paesaggio ligure, in un volume
intitolato Murmuri ed echi che vide le stampe. Fu anche il curatore
dell'edizione delle opere di Boine che sentiva affine negli interessi soprattutto
di carattere etico. Saggi: “Finito ed iinfinito”
(Roma, Balbi), “Murmuro ed echo” (Napoli, Ricciardi) – cf. Grice, “Implicatura
ecoica” --; “All'insegna del pesce d'oro” (Genova, Devoto). Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La Riviera Ligure
Nicolas Malebranche. Tra Diano Marina e Oneglia: i luoghi dei fratelli Novaro,
su parchiculturali. Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro.
Scheda biografica nel sito della Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione
novaro. Se il concetto di “infinito” è stato dal sorgere della filosofia italiana,
uno degl’oggetti più costanti degl’uomini, il progresso verso una
definitiva soluzione delle difficoltà che esso presenta non e
tuttavia che straordinariamente lento. A ciò à sopratutto contribuito il
rilegare, come a priori, l’infinito fuori del campo appunto della filosofia e
si considera il regresso all’infinito una fallacia. Poiché quando
si ammette senz’altro che, essendo l’uomo finite, non si può pretendere
eh' esso arrivi a comprendere l’infinito. Hobbes, De corpore; Descartes, Principien, ediz.
Kirclimann, GALILEI, Opere (Milano); Locke, Essay on humane Underslaning, ediz.
Ward, World Library, Hume, Treatise, ediz. Selby-Bigge, cfr. anche Jevons, Principia of
Science. S’è già troncata la questione senza neanche avei’la posta. S’è
lasciato intatto il mistero che sembra involgerla. Già tutti i concetti
che in qualche modo ha una stretta attinenza con altri concetti ontologici
dovettero per questo attendere a lungo prima di venir trattati in
corretto modo analitico. La oscurità misteriosa del concetto di “infinito” si
ripercorse naturalmente negli oggetti nei quali esso poteva trovare
applicazione, come il tempo, lo spazio, la materia, l’universo,
l’essere. Anzi si comincia dapprima ad accorgersi delle
difficoltà del concetto di “infinito” non cosi in astratto, ma nell’esame
degli oggetti ai quali la infinitezza pare doversi attribuire. Tanti
secoli prima della ripresa della questione per Locke, trattarono il
problema con sommo acume dialettico i veliani de Velia. Sugli veliani e la
loro importanza, vedi specialmente la “Kritische Geschichte der Philosophie” di
Dùhring. Le difficoltà che conduceno al veliano a negare la realtà dello
spazio non sono punto illusori. Cantor, “Geschichte der Matematik”. Bei ihnen [i
tropi dei veliani] handelt es sich um Schwierigkeiten, denen in der
That-wcder der Philosoph noch der Mathematiker in aller Strenge gerecht
werden Kann Zwei Jakrtausend und mehr haben an dieser zàhen Speise gekaut,
und es ware unbillig von den Veliani des funften vorcbristlichen
Iabrhunderts zu verlangen, dass sie in Klarbeit gewesen seien iiber Dinge,
welche freilich anders ausgesprocben noch Streitigkeiten unserer Gegenwart
bilden. Nò altre furono quelle che spinsero poi Kant ai risultati della
estetica trascendentale. Sebbene più d’uno storico della filosofia davanti
ai tropi di quell’ acutissimo filosofo sentendo l’imbarazzo suo a
confutarli, stima poterli chiamare sofismi o false sottigliezze che chi le
esaminasse da vicino e colla necessaria acutezza non dovrebbe tardare a
riconoscere evidentemente per tali. E più d’uno nel confutarli à seguito,
come Zeller, Aristotele che in questo se in altro mai fu
infelicissimo. Aristotele crede di confutare il veliano (V. anche
Apelt, Beitrdge sur Geschichte der Grieschischen Philosophie, Leipzig) col dire
che la dimostrazione data dal veliano riposa sulla falsa et i matematici, i quali spaventati dalle contraddizioni
svelate dai veliani avevano dovuto per forza rinunciare a far uso del
concetto di “infinito” e lasciar tanto tempo infruttuoso l’ardimento di
Antifontem continuarono a lungo ad aiutarsi altrimenti per non derogare
alla rigorosa esattezza delle loro dimostrazioni, Cosi il concetto d’”infinito”
non compare mai esplicitamente nella geometria degl’antichi. E Archimede ha
seguaci anche dopo che il calcolo infinitesimale ha chiaramente mostrati i
suoi cosi fecondi vantaggi. Ragione principale di ciò e il non
avere l’autore stesso del concetto di “infinitesimo”, saputo mai nè pienamente
giustificarlo, nè dargli un denotato preciso, si che egli molte volte ha
a espri supposizione che il tempo consti di singoli momenti (ex -J 5 v aio
Èrtovi come se la critica del velino non valesse indifferentemente tanto
per il continuo dello spazio che per quello del tempo stesso. Cfr.
Cantor. Er (Aristotele) lòst das Paradoxon der Duschlaufung
dieser unendlich vielen Raum-punkte in endlicher Zeit, durch das neue
Paradoxon, dass innerhalb der endlichen Zeit unendlich viele
Zeittheile von unendlich Kleiner Dauer anzunehmen seien. Sul concetto di “infinito”
in Aristotele vedi specialmente “Phys.”, De Coelo. Il LIZIO dà una divisione
dei vari generi di infinito, che come sempre 0 spessissimo presso lui è
più una spiegazione di parole che di concetti. Inoltre è la sua trattazione
oscura e affatto manchevole. Aristotele non accetta che l’infinito *potenziale*,
il quale nasce dal non trovar la nostra immaginazione alcun limite così
nel togliere come nell’aggiungere. Rifiuta l’infinito attuale. L’infinito, dice
Aristotele, non è grandezza nè à parti così, come il suono è per sò
invisibile (Phys., Ili, 4 ). Non esiste dunque in realtà, perchè non v’ è
grandezza cui possa attribuirsi. Ma la contraddizione che Aristotele crede
dover evitare rigettando il concetto dell’infinito attuale è appunto
nascosta invece in quello del continuo. Altrimenti Aristotele non avrebbe
così leggermente creduto di aver superate le difficoltà dei veliani. li
Montucla, Histoire cles recherches sur la quadrature du eercìe. Paris,
Hankel, Zur Geschickte der Matliematik ivi Alterthum und Mitelaltcr.] juersi
sulla sua nozione in modo affatto contradittorio. E se i filosofi non
riuscirono a chiarire i loro concetti riguardanti l’infinito trascurando
la maggior parte di aiutarsi con un esame accurato dalle difficoltà che
incontrano anche i matematici, questi dal canto loro si sono del pari in
grau parte appagati dei risultati, senza sentire troppo acuto il bisogno di
rendersi conto esatto dei concetti dei quali hanno a fare un continuo uso.
Che anzi per le difficoltà, oscurità o contraddizioni dell infinito
tranquillamente si rimettevano Leibniz, anche quando si esprime più
razionalmente intorno ai concetti infinitesimali, conserva pur sempre in
fondo una evidente ambiguità sulla natura generale del concetto d’“infinito”. Lascia
infatti alla ontologia, senza risolverla Leibniz stesso, la questione se
si diano propriamente degl’infinitamente piccoli rigorosi. E cosi tiene
pure per indifferente considerare per tali gl’infinitesimi o soltanto per
arbitrariamente piccoli. Leibniz inclina però più a tenere l’infinito
rigoroso per una finzione. Leibniz, Opera omnia, ed. Dutens e Leibniz; il/af/iema</se/»e
Schriften, Gerhardt I', dove Leibniz pare considerare gli infinitesimi
come quantità finite variabili e cfr. Gerhardt, Erdmann, dove egli
parrebbe ammettere l’infinitesimo *attuale*. In altri luoghi, Leibniz è affatto
incerto; ed. Dutens, Gerhardt, e vedi specialmente un passo ivi. Infatti dopo
l’adottamento del calcolo, una delle prime accademie d Europa, quella di
Berlino, presieduta da uno dei più grandi matematici, da Lagrange, apriva
un concorso sul concetto dell’infinito. Dice tra altro ai concorrenti. On
demande […] une thdorie clairc et precise de ce qu’ on appelle ‘influì en
mathcmati jue. On sait que la haute geometrie fait un usage continuel des
infiniment grands et des infiniinent petits. Cependant les geomètres et
meme les analystes anciens, ont eviti* soicneusement tòut ce qui approche
de l’infini, et des grands analystes modernes avouent que les termes
grawleur infmie sont contradictoires. L’Acad^mie sou- haitc donc qu’ on
explique comment on a déduit tant de theorèmes vrais d une supposition
contradictoire. Nouveaux Mémoires de l’Acad. des
Sciences. Berlin. come molti si rimettono tuttora, all’ongologia. L’unico
filosofo dal quale si sarebbe potuto aspettare qualche dilucidazione
definitiva, Corate, il quale era tanto versato nelle matematiche e che di esse
à dato una cosi bella e tuttora insuperata sistematica trattazion
generale, non solo non fa fare un passo alla questione, ma
neppure seppe bastantemente apprezzare i grandi meriti del lavoro di
Carnot, il quale prepara la soluzione definitiva. Solo Locke e Kant sono
cosi i filosofi che fanno verso di essa un passo decisivo. Kant però si
direbbè che lo fa in senso reazionario, chè se Locke avesse decisamente
cangiato li suo metodo empirico e psicologico con un metodo critico, come
egli in realtà è qualche volta inconsapevolmente vicino a fare, avrebbe egli
stesso còlto 1’ultimo futto della sua fine analisi. Ad ogni modo è merito
di Locke, oltre aver risolto l’infinitamente piccolo e grande nel processo
formale dell’animo, l’aver dimostrato come un tale concetto sia solo
propriamente applicabile a grandezze, al numero, al tempo ed allo spazio. Con
ciò ogni nebuloso abuso scolastico e metafisico di esso, era
reso impossibile, e ogni sua applicazione ad altro che a concetti di
grandezze diventava una pura metafora. Rilacendosi da Locke e approfittando
della luce che Carnot getta sulla natura dell’infinitesimo, il Duhnng à
finalmente completata la razionalizzazione di [ Leibniz, passo
citato, Gerhardt e Montucla, Histoire des mathématiques. Quanto alle questioni che l’ontologia
può sollevare sul concetto dell’infinito, il matematico “a droit de
ne s en pas plus embarasser que des disputes des physiciens sur la naure
de 1 etendue et du movement.” Locke,
On human Umlerst., questo concetto. L’infinito assoluto ha però Diihring
costantemente rifiutato come la più assurda contraddizione in tutti i suoi saggi
filosofici. Soltanto- nell’ultima suo saggio filosofico arriva egli ad
una luminosa distinzione dell’infinito *assoluto* dal infinito relativo.
La sua dimostrazione è però geometrica, e non insieme algebraica. Manca
quindi di generalità. Cosi si spiega come Diihring ritenga ancor ora
inammissibile l’applicazione dell infinito al tempo, che egli à
assurdamente e colla più gran forza di convinzione fatto finito nel
passato. Diihring vide che ove il concetto di infinito non viene dapprima
reso chiaro e incontradittorio nella matematica, la rocca in apparenza
più forte rimarrebbe in piedi a difesa del mistificante concetto. La
nozione di infinito non è però specificamente formale. Il concetto
d’infinito appartiene a quel campo della filosofia ‘speziale’, in cui anno
comuni le radici o i principi e la matematica e la logica.
La. soluzione di un problema cosi universale non può esser diversa,
ove esso venga formulato con la dovuta astrazione ed esattezza, sia che la si
cerchi nel campo piu astratto dell’ontologia della concezione universale dell’*essere*,
sia che la si cerchi nel campo dell’algebra. Non [Nat Uri
iche Dialéktik -- questo libro d’oro di puro criticismo, la cui prima edizione
è esaurita da molti anni senza che Diihring si decida a ri-pubblicarlo,
malgrado il viro desiderio di molti suoi ammiratori, quali per un esempio
v. Gizicky e Riebl. Vedi specialmente dello stesso, nei “ Xeue
Grundmitteln u. Erfindungen zur Analysis, ecc. il capitolo terzo.
L’analisi critica dell’infinitesimo ivi data riassumiamo noi brevemente
nel numero seguente, modificandola però nel senso della corretta legge
del numero determinato. V. sotto. Cursus der Philosophie; Logik und
KVssenschaftstheorie, è un differente problema quello di Senone di Velia,
da quello che occupa a cosi grande distanza di tempo i matematici dal
seicento in poi. In tutti i problemi riguardanti il concetto di “infinito”,
le difficoltà ànno la loro comune radice nella contraddizione fondamentale
nascente dalla posizione di un infinito numericamente dato e compiuto nel *finito*
stesso. Cosi l’infinitesimo, e già prima l’indisivibile di CAVALIERI, e
pensato assurdamente quale risultato di una infinita divisione, o come l’elemento
più piccolo d’ogni grandezza assegnabile, di cui si integra ogni
grandezza finita. Più piccolo di qualunque quantità data e pensato
l’infinitamente piccolo, e maggior d’ogni data grandezza l’infinitamente
grande, arrivando anche qui ad una infinità compiuta, come raggiungibile
per via di una sintesi successiva. Tra lo zero e una comunque
piccola grandezza dovrebbe dunque esistere qualcosa di intermedio. Questa
ibrida quantità non dovrebbe esser zero ma neppure perù una determinata
quantità per quanto arbitrariamente piccola. Essa dovrebbe esser minore
d’ogni quantità assegnabile o qualcosa che esprima l’ultimo
irraggiungibile grado di piccolezza immaginabile e prima dello zero.
Minore d’ogni quantità assegna- [Modificando la nozione di GALILEI di
“momento”, già Hobbes define il conatus (concetto che doveva poi diventare il
fondamento della teoria newtoniana), il moto lungo uno spazio minore di
qualsiasi assegnato. Hobbes conserva, però, malgrado l’equivoca
definizione, come dell infinitamente grande (De Corpore) cosi dell’infinitesimo
un giusto concetto. Di quest’ultimo haa intesa infatti a essenziale
relatività. V. De Corpore. Delimemus CONATUM
esse motum per spatium et tempus minus q’uam quarn bile è però soltanto
lo zero; una quantità non può venir immaginata oltre ogni assegnabile
grandezza. Tra la quantità e lo zero non vi è cotesta assurda
finzione. A meno che il dire “minor d’ogni data quantità” abbia quod
datar, id est determinatur, sine expositione vel numero assignatur ìaest
per punctum. Ad eius definitiouis explicationem meminisse oportet per
punctum non intelligi id quod quantitatcm nullam habet, sive quod nulla
ratione potest dividi (niliil enim est eiusmodi in rerum natura) sed id
cuius quantità non consideratili-, hoc est cuius neque quantitas neque
pars ulta inter demonstrandum computatur. Ita ut punctum non habeatur prò
IN-DIVISIBILI. Sed prò IN-DIVISO. Sicut edam instans sumendum est prò tempore IN-DIVISO
non prò IN-DIVIS-IBILE. Similiter Conatus ita mtelhgendus est, ut sit
quidem motus sed ita ut neque tempori in quo fìt neque lineai per quam
fit quantitas, ullam comparationem habeat in demonstratione cum quantitate
temporis vel line cuius ipsa est pars. Quanquam sicut punctum cura
puncto, ita conatus cum Canata comparaci potest et unus altero maior vel
minor reperiri.Poisson ammette invece nel modo più esplicito
l’assurdo concetto dell infinitesimo di cui sopra è parola. Un infiniment petit est une
grandeur moindre que toute grandcur donnée de la meme nature. On est
conduit naturellement a ridde des infiniment petits, lorsqu’on considère
les variations successives d’une grandeur soumise à la loi de continuiti.
Ainsi, le temps croit par des degrés mo.ndres qu’ aucun intervalle qu’on
puisse assigner, quelque petit quii soit. Les espaces parcourus par le
différents points d’un corps croissent aussi par des infiniment petits,
car chaque point ne peut fi er d une posdion à une autre, sans traverser
touts les positions intermédiaires, et l’on ne saurait assigner aucune
distance, aussi petite qu on voudrn, entre deux positions successives.
Les infiniment petits ont donc une existence rielle, et ne sont pus
seulement un mo.ven d’investigation imagini par les giometres. Traile de mécanique, Bruxelles) l’er questa ragione
non pochi matematici, quali Bernouille
“oto^amente Eulero, pensarono l’infinitesimo come assolutamente nullo.
Anche GALILEI, sebbene con altro linguaggio, scompone il continuo esteso
in infiniti punti inestesi o nulli senza però trovar poi il modo di farlo
generare da quelli. V. GALILEI Opere. Sopra gli atomi non quanti di lui vedi
Lasswitz, Galileis Thieorie der Materie, 1 lerteljahrsschrift f wiss. Philosph., a riferirsi non a qualcosa di effettivo o di
dato, ma al nostro animo -- il nostro volere -- come ragione della infinita
divisibilità, potendo noi sempre supporre una quantità più piccola di ogni
qualunque piccola quantità data. Come nella serie dei numeri noi possiamo
(prova Peano) farci un concetto dell’infinito aggiungimento di unità a unità,
cosi possiamo farcene uno della possibile divisione
dell'unità all’infinito. Un tal concetto non rimane tuttavia che
il campo d’una operazione che non può per la sua natura venir mai
compiuta. La infinita divisione come la infinita addizione non possono mai
senza contraddizione considerarsi come eseguite. Non si può con un salto
oltrepassare un’infinità di operazioni, ponendo l’ultima come già
compiuta, che invece non può mai essere. Ciò che esiste o è dato numericamente
quale totalità non può esser che in numero determinato. Un numero infinito
come qualcosa di dato o compiuto nel finito medesimo è un CONCEPTO
IMPOSSIBILE perchè vorrebbe porre ciò che insieme viene a negare. Ammesso
dunque che abbia a dirsi di una quantità che essa è minore d’ogni
possibile quantità data, ciò potrà solo razionalmente indicare che è pur
sempre possibile suppor quella come ancor più pioti) È questa la legge
formulata da Diihring sotto il nome di legge del numero determinato (Gesetz der
bestimmten Anzahl). Cfr. Kant: Kritikd. reinen Vcrn. edizione Kirchmann. Sohald
etwas als quantum discretum angenommen wird, so ist die Menge der
Einheiten darin bestimmt, daher auch jederzeit einer Zahl gleich. Diihring
però, e qui sta il grave errore della sua teoria dell’infinito, à
tralasciato come iKant di aggiungere che tale legge à valore appunto, come
diciamo noi, solo in riguardo a grandezze che si lasciano concepire come
totalità, ossia in riguardo a grandezze comprese tra limiti. cola di una
qualunque data comunque già piccola per sè. La illimitatezza riposa sul
concetto della infinita possibilità della ripetizione, non è dunque un
concetto di effettività, ma di mera possibilità. Il moto nevi realizza
come si crederebbe l’assurdità di una infinita divisione o di una infinità
di parti nel finito. Moto non è che il concetto di ciò che la
stessa cosa si trova seguentemente prima in un luogo e poi in un
altro. Nostro APPARATO SENSORIALE non fa che abbracciare un dato numero di
posizioni diverse, e l’animo non trova altro che il fatto ossia la
cangiata posizione. Noi non possiamo formarci nè pretendere altro chiaro
concetto che quello del passaggio da un punto all’altro. Possiamo solo,
ove ce ne sia l’animo, INTER-POLARE delle posizioni intermedie a piacere
senza limite alcuno. Ma effettivamente nè la natura nè noi possiamo
fis:arne altro che un numero determinato. È una illusione il credere che un
punto, ad esempio, nel muoversi in linea retta vei’so un altro punto
fisso, e trascorrendo secondo il concetto comune di un movimento
assolutamente continuo, per ogni posizione, trascorra con ciò effettivamente,
se posso dir cosi, per ogni grado di piccolezza. La posizione di
infiniti punti distinti in una determinata estensione è sempre e solo
una possibilità ma non mai un fatto compiuto. Di due punti immediatamente
aderenti NOI ABBIAMO ASSOLUTAMENTE CONCETTO ALCUNO. Punti inestesi o
coincidono, o hanno una posizione diversa, e allora anche una determinata
distanza. 11 punte non può che passare da uno ad un altro punto, comunque
noi idealmente possiamo astrarre da cotesti trapassi e considerare
unicamente la infinita possibilità (li posizioni diverse. La stessa
illusione è nel dire che una quantità cresce per gradi minori
di ogni comunque piccola grandezza data. E vero che m matematica le
quantità continue crescono per gradi e che ogni nuovo incremento
elementare possiamo immarginarcelo già per sè stesso composto di ancor più
piccoli incrementi elementari all’infinito. Ma oltre che nella realtà
bisogni. Che esistano dei limiti a questa illimitatezza che è solo della
facoltà del nostro ANIMO, è anche vero che le quantità non constano di
elementi per sè esistenti, e che invece noi solo distinguiamo in esse
delle divisioni e stabiliamo dei limiti che per sè non sono dati. Il
concetto di continuità ne involge uno infinitesimale che però inchiude
solo la possibilità di un infinito porre di limiti, ma non una infinità
di limiti posti. Esso è quindi come quello dell’infiuitamente piccolo un
concetto di pura posibilità. La illimitatezza nella scomponibilità
in parti che possono in ogni caso venir fatte ancora più piccole che una
qualunque piccola grandezza data, e dunque ciò che di razionale s’ à a
sostituire al concetto nebuloso dell’ infinitamente piccolo. Con ciò viene
evitata quella ipostasi o per cosi dire insostanziazione di un modo di
azione del nostro animo, o di una mera possibilità, la quale è
inchiusa nel falso concetto della grandezza minore di ogni altra
assegnabile, come di qualcosa realmente esistente quasi mèta irraggiungibile ma
pur reale di una infinità di operazioni. Non esiste un ultimo piccolo
o infinitesimo, ma solo una infinita possibilità di
rimpicciolimento. 1 Si deve dunque pensare che il differenziale è nel
calcolo una grandezza finita relativamente piccola, la quale nel complesso
delle operazioni può e deve rappresentare ad arbitrio ogni grado di
piccolezza. Si tratta per eempio, dice Diihring, di una lunghezza. Può questa,
come infinitamente piccolo, essere secondo le circostanze un
milionesimo di millimetro ovvero una distanza solare. L’essenziale non
istà in queste eventuali determinazioni, ma nel pensiero che in luogo di
quella grandezza, scelta in relazione a un tutto come parte
insignificante, possano nelle operazioni sostituirsi altre ed altre senza
limite alcuno sempre più piccole verso lo zero. L’ infinito o la
illimitatezza non è dunque ipostasiata nel differenziale, si bene sta nel
nostro animo che questa grandezza rappresenta qualunque grado di piccolezza
oltre il suo. Razionalizzato cosi il concetto fondamentale del calcolo,
non à più ragione quella ripugnanza che i migliori matematici anno sempre
sentito per quella oscura ipotesi o idea falsa, come la chiama Lagrange, dell’infinitamente
piccolo. L’analisi è dunque, dice Diihring, un calcolo d’ approssimazione, ma
si noti bene- non di semplice approssimazione, bensì di approssimazione
infinita. I sensi trascurano nel piccolo le quantità insignificanti che
loro NON SONO più PERCETTIBILI, e se fatti più acuti procederebbero del
pari in analoghe proporzioni; cosi fa il calcolo nel trascurare quantità che
nelle [l'reyeinet: Étude sur la métaphysique du haul calcul. Cfr.
Carnot : Reflexions sur la métaphysique du calcili infinitesima!, Comte:
Cours de philosophie positive] loro funzioni darebbero in ultimo per risultato
una grandezza che per la sua ultima piccolezza non à importanza alcuna.
Accanto a quantità finite si trascura nel risultato e con ragione, un
infinitamente piccolo, poiché è nella sna natura di poter venire senza
fine rimpicciolito verso lo zero. Idealmente c’ è dunque un abisso tra l’infinitesimo
e lo zero. Non quello ma questo è il limite dell’ infinito
rimpiccoliinento, e prima dello zero non vi sono che quantità in realtà
sempre finite, comunque possano secondo il bisogno venir supposte sempre più
piccole verso di esso. D’altra parte nella direzione opposta dell’ infiniitamente
grande si à analogamente a distinguere tra [Non altro significa il
luminoso concetto di Carnot delle equazioni imperfette. Tuttavia Carnot non
arriva a dar l’ultima chiarezza alla nozione dell’infinitesimo. Infatti
non avrebbe altrimenti creduto vi fosse bisogno (per dimostrare come i
risultati del calcolo in apparenza soltanto approssimativi, siano in realtà
esatti) oltre che della considerazione dell’arbitrarietà del differenziale,
anche di una dimostrazione della compensazione degli errori. Comte poi
frantese affatto ciò che di veramente importante e duraturo conteneva lo
scritto di Carnot, e ravvisa così il merito di lui appunto nella
dimostrazione della compensazione degli errori (Cours de philosophie positive),
la teoria invece dell’arbitrarietà del’infinitesimo la trova più sottile
che solida. l concetto della rigida uguaglianza degl’antichi venne
definitivamente superato con Leibnitz e Newton. Ciò che però non venne
schiarito e rimase oggetto di tutte le lunghe innumerevoli dispute a cui
diede luogo il calcolo differenziale, e un giusto concetto di ciò che
avesse a indicare la trascuranza, nelle equazioni, dell’infinitamente piccolo.
Dopo Carnot la relatività del concetto del differenziale s’è sempre più fatta
strada nelle menti dei matematici. Ma non basta questo a razionalizzare
l’infinitesimo. Dove colla relatività di esso si ammette però ancora (v.
ad es. Montucla : Histoire des maih.) che questo possa divenir minore d’ogni
quantità assegnabile, s’è pur sempre lontani da una esatta concezione.
questo e 1’ infinito assoluto o transfinito. Qui cometa si à una differenza
qualitativa: nell’ un caso si à ancora a fare con delle grandezze, nell’ altro
il concetto proprio di grandezza è scomparso. Il non aver distinto
questi due concetti non à forse meno contribuito della contraddizione di
un infinito compiuto nel finito stesso, implicato nel falso concetto del
differenziale e del continuo, a rendere cosi pieno di supposte insolubili
difficoltà il problema di cui ci occupiamo. All’infinitamente piccolo risponde
perfettamente l’infinitamente grande. Abbiamo qui un accrescimento senza
fine come là un illimitato rimpicciolimento. In entrambi i casi ci è data
la norma di un’operazione che non deve poter mai venir considerata come
compiuta, poiché essa deve rispondere alla illimitata possibilità di
ripetizione- del nostro animo, con la quale dunque non c’è grandezza per
quanto piccola o grande di cui non si possa sempre raggiungere un’altra
ancora più piccola o grande. Attribuito ad una data grandezza il concetto
di infinitamente grande non indica quindi altro che essa, comunque già
grande, può senza fine venir considerata ancor sempre più grande secondo
il bisogno. In ogni aso non sarà però ella mai altro che finite. Come
la nostra sintesi benché non abbia limite, pure in fatti non può --
Chiamo infinito assoluto o trans-finito – tras-finito, a distinzione
dell't/t/unVo relativo (infinitamente piccolo o grande), ciò che Diihring
dice illimitato (Unbegrcnzt) [LIMITATO/NON-LIMITATO] e Cantor, e dietro lui
Wundt e Lasswitz chiamano appunto transfinito o tras-finito (<o ). Del
resto una volta riconosciute queste differenze essenziali, nulla impedisce
di adoperare anche solo e indifferentemente l’espressione “infinito”, lasciando
al contesto conversazionale l’ulteriore specificazione. mai
esercitarsi che nel finito. Anche l’infinitamente grande è un concetto di
mera possibilità e non mai di effettività. Non è quindi propriamente
applicabile ad alcuna grandezza determinata. La serie progressiva dei
numeri nella sua illimitata addibilità è il più chiaro esempio
dell’infinitamente grande. Noi non possiamo mai arrivare ad un ultimo
membro delle serie, perchè la possibilità di aggiungerne altri riman
sempre la medesima. E nella natura dell’infinitamente grande di non poter
venir mai compiuto. La illimitatezza non è neppur qui data oggettivamente,
ma sta invece in questo che la grandezza infinitamente grande può rappresentare
ad arbitrio una grandezza sempre maggiore oltre la sua. Inteso cosi
è senz’altro chiaro che rinfinitamente grande non è un infinito in atto e
non può senza contraddizione venir scambiato con questo. L’aver confuse l’infinito
assoluto o transfinito o trasfinito o illimitato coll’infinitamente
grande è appunto la cagione che condusse chi mirava a un esatto [Locke,
On bum. Underst, Our idea
of infinity being, as I think, an endless growing idea, biit the idea of
any quantity our soul kas being at that tirae terminated in tbat idea (l'or be
it as great as it will, it can be no greater than it is), to join
infinity to it, is to adjust a standing measure to a growing bulk. We can bave
no more the positive idea of a body infinitely little than we have thè idea of
a body infinitelv great. Our conception of infinity being, as I may so say,
a growing and “fugitive” concept, stili in a boundless progression that
can stop nowhere. Our conception of the infinity [...] return at least to that
of number always to be added. But thereby never amounts to any distinct
idea of actual infinite parts. We bave, it is true, a clear idea of
division, as often as we will think of it. But thereby we have no more a
clear idea of infinite parts in matter than we have a clear idea of an
infinite number, by being able still to add numbers to any assigned
nember we have. E chiaro concetto di quest’ultimo a
rifiutare risolutamente il primo, dopo averlo trovato incompatibile colla
nozione di quello. Mentre l’infinitamente grande esprime una illimitata
possibilità, il transfinito o trasfinito esprime invece una effettività
compiuta cui l’infinitamente grande non arriva mai. Nel transfinito o
trasfinito ogni grado di ingrandimento è già anticipatamente dato. Esso è
realmente maggiore di ogni assegnabile grandezza, e dal finito non c’è
modo di farlo originare, sebbene ogni finito sia in esso. La facile
obbiezione che nessuna grandezza è la più grande perchè le possono sempre
venir aggiunte altre unità, non tocca. L’infinito assoluto, ma solo una NOZIONE
IRRAZIONALE dell’infinitamente grande,
partendo ella da un falso concetto del transfinito o tras-finito, secondo
il quale si avrebbe questo a lasciar pensare come un tutto, ossia,
contrariamente all’assunto, come finito. Il concetto di totalità applicato
al transfinito o tras-finito è trascendente, benché tale non sia il
transfinito o tras-finito per sé. Se l’infinito assoluto non può venir
esaurito dalla sintesi empirica di nostro animo, non è questa una ragione
per rifiutarne il concetto : la sua natura consiste infatti appunto in
ciò di NON POTER VENIR RAPPRESENTATO come una totalità ossia esaurito
per mezzo di una sintesi empirica di nostro animo -- successiva delle sue
parti. – Cf. Speranza, ‘mise-en-abime’ – come violazione del prinzipio
conversazionale – be brief. Rifiutarlo perchè non si lascia trascorrere da
un capo all altro, è rifiutare il transfinito perchè appunto tale,
ossia perchè non è finito, o perchè non si trovano endless divisibility
giving us no more a clear and distinct idea of actuallv infinite parts
than endless addibility, if I may so speak, gives us a clear and distinct idea
of an actually infinite number, both being only in a power stili of
increasing thè nuinber, be it already as great as it will” ia esso le
proprietà che dal suo concetto sono precisanente escluse. Mentre
nell’infinitamente grande la sintesi empirica di nostro animo è quella
che aggiunge membro a membro. Nell’infinito assoluto troviamo noi sempre ogni
ulteriore membro come già innanzi esistente prima che la nostra sintesi lo
abbia raggiunto, indipendentemente da essa. È dato quindi così il
numero infinito, se “numero” può questo ancora chiamarsi – “As far as I
know there are infinitely many stars” --, che è in realtà la negazione di esso
e con ciò di ogni determinazione nel grande. Il “numero” infinito
non è più nè ‘pari’ nè ‘dispari’, e neppur quindi aumentabile più, nè diminuibile.
Esso è dunque qualcosa di affatto compiuto, al contrario dell’infinitamente
grande che è in un continuo'flusso; e sta a questo come all’infinitamente
piccolo sta lo zero. Come nello zero non c’è più possibilità di
rimpicciolimento, cosi non ce n’è più di ingrandimento nel transfinito o
tras-finito. Questo è la negazione della grandezza misurata nel grande, e
lo zero la negazione della grandezza in generale e con ciò della
grandezza nella direzione deH’infinitamente piccolo. Lo zero come
l’infinito assoluto sono non tanto quantitativamente quanto per qualità
diversi da ogni altra grandezza. L’infinitamente piccolo e grande sono in un
continuo flusso, lo zero e il transfinito sono invece forme fisse ; il
principio generativo dei primi non è applicabile ai secondi. Dall’infìnitamente
piccolo allo zero e dall’infinitamente grande all’infinito assoluto c’è,
a dir proprio, un salto. Duhring: Neue Grundmlttel, ecc. Lo zero e l’infinito
assoluto o trasfinito si fanno dunque riscontro. Ed erra «quindi Lasswitz
che nega esserci qualcosa di corrispondente a que- [Nel primo caso il
passaggio sta non nel rimpiccilire all’infinito per successive divisioni la
quantità piccola in modo che avanzi pur sempre un resto, ma nell’ultimo atto
risolutivo col quale si sottrae interamente il resto stesso. Nell’un caso
si riman sempre nel campo dell’infinitamente piccolo, nell’altro si salta
propriamente dalla quantità al nulla di essa. Una quantità non viene
mai esaurita col sottrarre ripetutamente anche all’infinito una nuova parte del
sempre nuovo resto. Bsogna togliere in ima volta l’intero resto
altrimenti si avrà una convergenza continua verso l’irraggiungibile
zero, ma non mai propriamente lo zero. E solo in quest’ultimo caso sarebbe
veramente esaurita la grandezza. Non bisogna prender per esaustione reale
una infinita approssimazione. Ciò che e l’ESAUSTIONE è solo tale fino ad un
infinitamente piccolo. Ma questo vien da essa lasciato inesaurito. L’saustione
non à luogo che con un salto alla Peano, ossia con un vero passaggio. La
inter-polabilità infinita di posizioni tra punto e punto non toglie che
da posizione a posizione il passaggio debba rimanere E come v’è un salto
da un punto a un altro in una linea, cosi v’è da un punto al punto
ultimo col quale la grandezza finisce. Solo col st’ultimo.
(Lasswitz: Zum Problem der Continuitdt, Philosoph. Monats - hcfte); come
pure e più erra Wundt che crede cadere nel differenziale ogni differenza
essenziale tra l’infinito e il transfinito o trasfinito. Wundt: Kants
Kosmologische Antinomien u. das Problem der Unendlichke.it Philos.
Studien: (che) das Intinitesimalsy.nhol ebenso gut in Siane einer unendlich
zudenkenden Abnahme einer gegebener Grosse, wie im Sinne des bereits
vollzogenen Processes- dieser Abnahme gedacht werden kann. Hier fàllt
niimlich ein wesen- tlichcr Unterscbied des Infiniten und Transfiniten
vollig hinweg. -- passaggio allo zero si à però un risultato
differente non tanto per quantità quanto per qualità dagli
altri. D’altra parte lo stesso risultato qualitativamente differente si à
nel secondo caso del passaggio dall’infinitamente grande al transfinito o
tras-finito. Praticamente si può concliiudere è vero dal caso dell’incoutro di
due rette a distanza infinitamente grande al caso delle parallele,
in quanto si astrae dallo sbaglio infinitamente piccolo, e si pone
come identico il risultato solo infinitamente approssimativo. In realtà però
mentre il punto d'incontro si allontana infinitamente all’vvicinarsi delle
due rette al parallelismo senza raggiungerlo, raggiunto che
questo sia, esso è scomparso, essendo per sè la infinita estensione della
linea LA NEGAZIONE DELLA POSSIBILITa d'uu punto d’incontro, poiché questo
le farebbe finite. Ed à luogo allora quella illimitatezza od infinità
assoluta della retta, la quale è la negazione della grandezza misurata
nel grande, come lo zero è la negazione della grandezza in
generale. Un indubitabile significato si lascia dare al transfinito
o trasfinito, come vedremo in séguito soltanto nella serie infinita dei
processi del tempo passato. Il nostro regresso che assume qui la forma
dell’infinitamente grande, procede in base al transfinito o trasfinito della
realtà, poiché esso trova e suppone necessariamente come dati sempre piu
membri della serie di quelli che esso raggiunge. Se si fosse costretti a
pensare l’universo infinito in estensione si avrebbe una seconda applicazione
reale del nostro conti) Diihring, luogo citato. «etto ; ma rimanendo
insolubile la questione se la natura o L’UNIVERSO o il numero dei stelle sia
o no infinita, non si à che l’applicazione di esso allo spazio puro. Ed
ecco la dimostrazione che dà di questa Dtihring, colla quale egli stabilisce
appunto la distinzione dell’infinito relativo dall’infinito assoluto. La
tangente di un angolo che differisce da 90° di una infinitamente piccola
differenza, è come la rispettiva secante infinitamente grande. Ad ogni grado di
riin-piccioliinento della differenza risponde un grado di ingrandimento della
tangente e della secante dell’angolo. Cosi il punto in cui le linee si
tagliano si fa sempre più lontano. Rimane però sempre dato un incontro
reale delle linee fin che sia data una per quanto piccola
divergenza da 90°. Se si à invece una differenza uguale a zero ossia
se non se ne à alcuna, non si à nemmanco più propriamente una SECANTE nè
una propria TANGENTE. Entrambe le linee loro corrispondenti non si tagliano
più. Nel caso dello zero o, ciò che sarebbe lo stesso, per la CO-SECANTE
e la CO-TANGENTE di 0 non esiste più alcuna grandezza, allo stesso modo
che nello zero medesimo. Intatti la illimitatezza di una linea non è già
una quantità della stessa j ella è invece l’assenza d’ogni determinazione
quantitativa. In tal modo allo zero dall’una parte corrisponde dall'altra
l’illimitato non quanto (das grossenlose Unbegrenzte). Il caso
dell’infinitamente grande si distingue da quello dell’infinito assoluto
per questo, che la possibilità (della illimitata estensibilità) non
figura come per sè data, ma vien 'riferita alla nostra attività.Di pio
quest’ultima possibilità vien sempre rappresentata coinè dipendente di
un’altra, in modo che dall’infinito rimpicciolimento e dal grado di
questo dipende l’infinito ingrandimento e rispettivo grado costantemente
corrispondente Una distinzione simile a quella di Diihring à fatto in
riguardo all’infinito Cantor, seguito in ciò da Wundt e seguito pure, sebbene
con qualche riserva, da Lasswitz. Ad essa fa però assolutamente difetto
quella spiccata razionalità che è la caratteristica della filosofia di
Diihring. Crede Cantor che la serie dei numeri si lasci pensare non solo
come compiutamente- infinita, ma come compiuta totalità. Cantor stima che
si lasci pensar radunato in un tutto ogni numero intero positivo. L’aver
sconosciuto l’inapplicabilità del concetto di totalità al transfinito o
tras-finito è la cagione dell’assurda nozione che s’è fatto Cantor di
questo. Infatti perciò à e Cantor potuto credere che il transfinito o
trasfinito pnssa trovarsi nel finito stesso quasi come suo sostrato, e
servire cosi alla spiegazione del continuo e del NUMERO IRRAZIONALE. Ma
qui non si ferma Cantor : chè anzi la vera originalità della sua dottrina vede
egli nelle differenze essenziali da lui trovate nel campo stesso dell’infinito
assoluto. Si tratta infatti per lui sopratutto dell’ampliazione o proseguimento
della reale serie dei numeri intieri Duhrinq. Logik. Cantor:
Grundlagen einer Mannichfaltigkeitslehre; Zur Lehre vom Transfinite.] oltre
l’infinito medesimo. Egli non ottiene solo un unico numero intiero
infinito, si bene una infinita serie di tali numeri come benissimo tra
loro distinti. Vi sarebbero cosi infinite classi di numeri ; la l a classe
sarebbe la serie dei numeri finiti 1. 2. 3... v..., ad essa terrebbe
dietro la 2 a classe composta di successivi numeri intieri infiniti in ordine
determinato. Dopo la 2 a si verrebbe alla 3 a e alla 4 a classe e cosi
all’infinito. In tal modo naturalmente l'infinito propriamente detto (“das
eigentlicbe Unendliche”) non sarebbe ancora il vero infinito (“das walire
Unendliche”) o l’assoluto. Chè anzi Cantor espressamente fa notare che in tal
guisa non si arriverà mai a un limite ultimo, e neppure a una sia pur
soltanto approssimativa comprensione dell’assoluto, il quale solo è
un infinito non più oltre aumentabile. Con ciò il transfinito o trasfinito,
quantunque determinato e maggiore d'ogni finito, avrebbe assurdamente
comune col finito il carattere della illimitata aumentabilità. Cantor dà
per esempio del transfinito o trasfinito la totalità dei numeri finiti,
confessa però non darsi, o almeno pel nostro animo, una totalità dei
numeri transfiniti, ossia l’assoluto o il vero infinito non poter venir
concepito, quantunque necessariamente postulato. Qui dunque ritorna la
difficoltà del problema, e questa volta Cantor confessa di non saperla
sciogliere. Con ciò dà Cantor stesso involontariamente la miglior critica della
sua teoria dell'infinito. Il suo transfinito o trasfinito del resto non è in
fondo altro che l’infinito dell’animo di Spinoza e BRUNO [ Grundlagen. Zur
Lehre. Illusorie come la infinita totalità sono le altre proprietà clie
Cantor crede dover attribuire ai suoi immaginari numeri della nuova serie
al DI là DELL INFINITO. Cosi il
non esser questi più soggetti alla LEGGE DI COMMUTAZIONE (p e q = q e p) è una evidente ASSURDITà che rivela una
inesatta concezione dell'infinito assoluto. Questo infatti è indifferente
in riguardo al più e al meno. Ad esso non si può nè aggiungere nè togliere,
come quello che non si lascia originare per via di operazioni. Per poter ad
esso aggiungere qualche cosa converrebbe pensarlo dato quale compiuta totalità.
Dia è falso che l'infinito si lasci concepire in tal guise. Cosicché
invece di operare con esso si opera inavvedutamente con una quantità pur
essa finita. Il concetto formulato da Diihriug dell’infinito
assoluto non è nella storia dell’ONTOLOGIA del tutto senza
precedenti, per quanto la critica da lui fatta dell’infinitesimo possa
assai più facilmente rannodarsi a quella del Locke e di Ivant da una
parte, e dall’altra a quella di Carnot, che non si lasci questa sua
nuova distinzione rannodare a’ suoi precedenti storici (3). Veraci)
Cantor: Grundlagen. Bradwardinus distingue nel suo trattato “De Continuo”, come
espone Cantor (Geschichte d. Mathematik), “ zwei Unendlichkeiten, die “kathetische”
und die “synkathetische”. “Katlietisch”
oder einfach unendlich ist eine Grosse die kein Ende hat.” Syn-kathetisch”
unendlich ist eine Griisse der gegenùber es eine endliche Gròsse giebt
und ein andsres gròsseres Endliche, und wieder Eines gròsser als jenes
Gròssere, und so oline dass ein Letzes sicb fiinde, welckes den Abschluss
bildete; aucli dieses ist immer eine Gròsse, aber nickt wenn es mit
Gròsserem verglicken wird. Man
erkennt leicht dass das kathe- tisck Unendliclie Bradwardinus das
Ueberendliche oder Transfinite ‘mente l’INFINITO POSITIVO di Descartes,
di GIORDANO BRUNO e di Spinoza è un concetto che tradisce un’origine quasi del
tutto- ancora scolastica. L’infinito inteso coinè attributi necessario
dell’essere è una concezione comune a BRUNO, e mostra chiara la sua derivazione
da un altro concetto. Quantunque esso non ha in BRUNO questa sola origine
‘divino’. unserer neuerer Philosophen ist, dem von Anfang an das
Merkmal der Begrenztheit, welches deu endlichen Gròssen zukommt fehlt,
wàhrcnd das “synkathetisch” Unendliche mit den Endlosen oder Infinitcn
ùbercin stimmt, welches aus der endlichen Grosse durcli unbegrenztes Wa-
chsen hervorgelit. BRUNO capovolge la dottrina di Aristotele. Risolve
arditamente e con grande acume il continuo ne’ minimi onde liberarsi
dalle contraddizioni svelate da SENONE DI VELIA, come farà poi anche ma
meno felicemente Hume, e accetta l’infinito nel grande: gli atomi e la
infinità del mondo. (V. Acrotismus, citato dal TOCCO, Le opere di BRUNO, p. liti: De Minimo). Devcsi però
avvertire che il minimo è per BRUNO ancora una grandezza che ei pensa
giustamente, come fa anche Hobbes, relativamente trascurabile nel calcolo. Il
progresso infinito nelle divisioni è solo una continua possibilità dell’animo,
mai un’effettività. BRUNO non nega all’animo, all’immaginazione o alla ratio, a
distinzione della mensì di poter ulteriormente suddividere il minimo all’infìnito,
-- dum non promere subiectae credat con- formia rei. — Intìnitae
progressioni IMAGINATIONIS seu mathesis NATURA non respondet neque ullus
usus ARTI-FICIALIS obsecundat. De Min. Tuttavia anche alla matematica
vorrebbe BRUNO dare una base atomistica, facendo valere pel concetto del
corpo matematico ciò che vale per quello del corpo fisico. In questo
anzi non sa BRUNO liberarsi dalla influenza dell’aristotelismo, pel quale
ciò che vale della materia doveva naturalmente valere dello spazio. Il suo
strano tentativo ricorda l’antica dottrina delle linee indivisibili o
atomiche di Senocrate, anch’essa stabilita per evitare le stesse contraddizioni
del continuo messe in chiaro dalla critica dei veliani (V. nello scritto -epì
à-riuiov ypaujLùv Apelt, Beitrcige z. Geschichte d. Griech. Philosoph.
dove ne è anche data la traduzione) Della dottrina atomistica di BRUNO
riconosce giustamente il merito Lasswitz (“ Bruno und die Atomistik”, Viertelsjahrsschift
f. icissensch. Tuttavia alcune importanti considerazioni sono comuni al Cusano
e a quest’ultimo sulla natura dell’infinito ossia sull’esistenza di un unico
infinito in riguardo al quale non possa esservi divisione possibile uè
disuguaglianza se misurato immaginariamente da misure differenti. L’infinito
assoluto considera poi Spinoza come dato nei noti due cerchi l’uno dei
quali è dentro all’altro e che non si toccano nè sono concentrici,
esempio ricavato da Cartesio (Principii) e da Spinoza medesimo già
illustrato nella esposizione dei principii cartesiani della filosofia. Ma come
è impossibile che la materia mossa tra due cerchi possa realmente
dividersi all’infinito, cosi è impossibile farsi un concetto di una
infinità assoluta di disuguaglianze come effettuata dalla relazione di
quelli. Poiché data questa infinità non è nè può essere. Altrimenti la
potremmo anche pensare effettuata in un qualunque segmento di linea
da’suoi punti infiniti. Una tale infinità non può cosi che
venir riferita alla facoltà della nostra mente quale suo fondamento ; non
può esser che un caso di infinita possibilità come lo è quello
dell'infinitamente grande. Philos.): “BRUNO hat darci» (lcn
erkenntnisstheoretiscben Ausgangspunkt seiner Monadologie sicli das bleibendc
Verdienst erworben, den Atombegriff klar und wiederpruchslos dargestellt
zu haben. So lange
das Atom nur als Letzes der Theilung gilt, blcibt es immer fraglich, ob man auf
ein solches Kommen masse. Erst die Einsicht, dass es ein Krfordcrniss dcs
Erkennens istein Erstes der Znsammcnsetzung zn liaben, macht den
Atombegriff za einem nothwendigen. Cusano, Dada ignoranza. Già Aristotele tiene per
inapplicabile ad ogni grandezza l’intìnito attuale, ma perciò appunto ne
aveva rifiutato il concetto. Il caso (lei due cerchi si lascia
ricondurre a quello d’ogni grandezza continua. Ora l’esame del continuo
non può per sè mai darci l’infinito assoluto ; il continuo riceve i
termini che noi segniamo in esso senza lasciarsi però mai esaurire da
successive suddivisioni. Con ciò esso non ci dà che il campo di una regola
d’operazioni infinite, rimanendo pur sempre finiti i risultati di
queste. Che le parti del continuo non si lascino esprimere con alcun
numero (nullo numero explicari possunt) indica solo che sarebbe, contradittorio
pensare come raggiunto il risultato d’una operazione infinita ossia da
ripetersi senza fine. Il continuo non ci dà insomma che l’infinito
relativo. E così ciò che Spinoza distingue dall’infinitamente grande non è in
realtà l’infinito assoluto. Esso è soltanto lo stesso infinito relativo
nella direzione opposta del primo, ossia nella direzione del piccolo. Ammette inoltre
Spinoza che l’infinito propriamente detto può esser suscettibile di più e di
meno. Ma non è esso allora cangiato nel finito? (2) e non dice egli
altrove che SPAVENTA, Saggi critici, seguendo Hegel trova la
distinzione dello Spinoza dell'infinito della immaginazione da
quello dell’ANIMO veramente profonda, e ravvisava in questo ultimo
fissato il concetto dell’infinito assoluto che trascende ogni
determinazione. Infatti però esso non può rappresentare che lo
stesso infinito della immaginazione. Vedi lettera XXIX. In complesso
questa importante lettera parmi mostrare molta incertezza malgrado il tono
suo dommatico e tanto sicuro. I due unici esempi che Spinoza porta dei molti
che ei dice avrebbe potuto addurre dell’infinito dell’ANIMO, non sono omo-genei. La
infinità dei moti che furono, e la infinità delle disuguaglianze dei due cerchi
non cadono sotto uno stesso concetto. Lo stesso abbiamo notato del
transfinito o trasfinito di Cantor, il quale dovrebbe del pari
esprimere appunto e l’intervallo ( 0.1) come totalità infinita, e il
complesso della serie dei numeri intieri positivi. Etica, I, prop.
XV. è un assurdo che un infinito possa essere il doppio di un
altro? A questo assurdo risultato arrivano tutti quelli che pensano
potersi DARE L’INFINITO NEL FINITO medesimo. Di Locke s’è visto qual
razionale concetto egli ha dell’infinitamente piccolo e grande. Locke non sa
tuttavia considerare l’infinito altro che nella illimitata addibilità e
divisibilità, per cui non intese l’infinito assoluto. Locke analizza con una
grande acutezza soltanto le funzioni dell’ANIMO in riguardo all’infinito,
non però il riscontro loro oggettivo. Infatti e questo per Locke
ancora Dio, il quale oltre i confini raggiungibili dal nostro ANIMO
coll’illimitato progresso, riempiva tanto l’infinito del tempo che quello
dello spazio. Ed è cosi che Locke puo pensare esser l’idea positiva di
infinito troppo ampia per una capacità finita e angusta come la nostra
(2). Kant scioglie trionfalmente tutte le difficoltà che incontra Locke
nell’esame dello spazio, e fissa l’idealità di questo. Una idealità che
se è conseguenza delle stesse ragioni che l’avevano fatta necessaria ai
veliani, à però, un significato e una giustificazione scientifica di gran lunga
superiore. Ma quanto al concetto proprio di infinito Kant non fa un passo
oltre Locke. E neppure Hume e andato più oltre sulle tracce di
quest’ultimo. E’ non sa anzi per il metodo suo empirico apprezzare la bella
trattazione lockiana dell’infinito, in cui la funzione SINTETICA dell’animo
trovava una cosi Locke: Essay on Human Under ai. giusta e importante
bencliè non del tutto consapevole applicazione. Hume, senza esaminare
particolarmente l’infinitamente grande, si volge in special modo a
considerare l’infinito nel piccolo. Ciò che più, come già BRUNO, imbarazza
il grande scozzese è la considerazione della infinità nel continuo, ossia della
infinita divisibilità, la quale egli non distingue dall’infinito esser
diviso, ossia dalla infinita divisione effettuata. Il suo empirismo,
confondendo il reale colla forma, lo porta a stabilire lo spazio come
composto di punti visibili e sensibili (meno risolutamente però nella “Inquiry”)
; e il tempo della somma dei minimi delle sensazioni. Come può, si
domanda egli, un infinito numero di infinitamente piccoli non dare una
grandezza infinitamente grande? o, come può un tal numero esser compreso
allo stesso modo in una data grandezza che in una doppia di quella?
Come può passare il tempo da un punto all’altro per un numero infinito di
parti reali successivamente esaurientisi ? Sono in conclusione le stesse
contraddizioni svelate dapprima da Senone di Velia, l’amato di Parmende. Senone
conclude col negare lo spazio e il moto. Hume invece accusa L’ANIMO STESSO
senza dare soluzione alcuna definitiva. L’aver confuso la forma col reale, e il
non aver più acutamente esaminate le funzioni sintetiche dell’ANIMO sono
la ragione della infruttuosità delle sue ricerche sull’infinito. Locke è
insomma l’unico tra’ filosofi moderni, o alti) Treaiise; Essays, edizione World
Library. Exsai/s (4; Hume: Essai/s. meno sino a Diiliring, che
segna un notevolissimo progresso nella razionalizzazione del concetto di
infinito. D’altra parte tra’ matematici, dopo le lunghe discussioni sulla
natura dell’infinitesimo, si fa strada, è vero, con Carnot, e con Cauchy,
in séguito, l’opinione della arbitrarietà del differenziale, ma riman pur
sempre come sfondo oscuro l’infinito esatto, una sfinge che i matematici
dichiarano spettare AL ONTOLOGO di interrogare. E con ciò la mente è
ben lontana ancora dal trovarsi appagata. Con Gauss poi, e dietro a lui
con Riemann e con Steiner e con tutti i geometri anti-euclidèi, la nebbia
che avvolgeva l’infinito s’è fatta ancora più fitta, e rimarrà cosi
quale indizio dello spirito mistico dell'epoca nostra, la quale non
sente quel bisogno vivo e quell’amore della chiarezza che cosi grande
aveva il secolo decimottavo Nfe i filosofi del nostro secolo sono certo fatti
per confortarci della mistica incertezza dei matematici e sbugiardare così il
notato carattere generale dello spirito del decimonono dicontro al
secolo precedente. (V. più sotto di Hamilton e Spencer n. 8). Dove
l’universo, come presso Democrito e gl’epicurei, o presso BRUNO e Spinoza si
stabilisce dommaticamente infinito, l’ONTOLOGIA non s’è ancor spogliata
di tutti gli elementi puramente poetici. Col criticismo mo¬ derno
la questione della reale estensione dell’universo si è fatta
essenzialmente empirica. La illimitatezza della nostra concezione dello spazio
non ci garantisce una infinità oggettiva materiale. Empiricamente non si
lascia dimostrare nè la finitezza nè la infinità dell'universo; È
chiaro che chi volesse supporre un riscontro materiale assolutamente completo
della nostra concezione infinita dello spazio correrebbe dietro una chimera. La
nostra rappresentazione dello spazio il la sua spiegazione nella costante
unità della coscienza e nella sua libertà del porre e dell’oltrepassare
continuamente il posto. Ora a questa funzione de nostro ANIMO non si deve
attribuire senz’altro un carattere oggettivo. Al contrario fa il Urtino
infinito il mondo appunto perchè è infinito lo spazio, ritenendo che la
materia stia allo spazio come questo a quella: “ e se non v’ha differenza
tra spazio e spazio, non c’è nessuna ragione che solo quel breve tratto
occupato dal nostro sistema planetario sia pieno e tutto il resto
dell’immenso spazio vuoto. „ Cfr. Schopenhauer (Die Welt als Wille ecc.).
il quale commenta gli argomenti affatto ineritici di BRUNO e vorrebbe
farli servire a dimostrare anche la infinità del tempo. altro che il
finito noi non possiamo raggiungere e non possiamo mai giudicare se altro
non vi sia più oltre da raggiungere nella realtà. Se essa stessa abbia o
no dei limiti come gli à costantemente la nostra RAPPRESENTAZIONE. L’infinito
COME TALE non può diventar oggetto DELLA NOSTRA ESPERIENZA. Ma se questa è per
la sua natura limitata, non perciò dobbiamo pensar limitata la realta
inconscia. Il concetto nostro dell’universo sarebbe dunque sempre solo
comparativo. Certo è però che praticamente l'universo sarà per noi
costantemente finito, poiché altro che in limiti finiti non può venir da
noi conosciuto. Il principio della costanza della materia e della
forza non basta, come crede Rielil, a dimostrare la finitezza della massa
dell'universo. Seia massa si fa infinita, dice Riehl, verrebbe a mancarle
con ciò ogni determinazione quantitativa, il che è incompatibile col
concetto stesso di massa. Ogni determinazione le mancherebbe
però naturalmente se considerata solo nella sua
trascendente totalità, non mai invece nel finite. Nè d’altro che di
masse finite può aver ad occuparsi l’uomo. Il grande principio della
costanza della materia e della forza, nota ancora Riehl, diventerebbe una mera
e inutile TAUTOLOGIA, data la infinità loro. Non potendo evidentemente
l’infinito venir nè aumentato nè sminuito. Neppur questo è giusto. Il
principio in discorso sarebbe tautologico se stabilisse appunto la costanza
della materia infinita come tale. Non se, come esso fa, stabilisce quella
del finito in essa datoci. Infatti la conservazione costante del
finito [Riehl, Ber pMosoph. Kriticismus. non è (lata analiticamente
colla inalterabilità quantitativa dell’infinito, poiché come l’infinito non è
toccato da addizione o sottrazione, cosi potrebbe, posta infinita
la materia, il finito in essa assolutamente crearsi o annichilarsi senza
contraddizione alcuna. G. Mentre la estensione e la massa dell’universo
sono presumibilmente finite, ma nessuna necessità apriorica od
empirica ci sforza a pensarle piuttosto finite che infinite. In riguardo al
tempo concorrono invece necessità dell’esperienza e dell’ANIMO a farlo
nel REGRESSO assolutamente infinito. Il problema cosmologico del tempo non à
tuttavia avuto sinora una soluzione definitiva. A il tempo reale mai avuto
principio? Vi fu nell'universo o nell’essere un primo cangiamento? E se il
tempo non à avuto principio, ed è nel passato infinito, come può
senza contraddizione venir pensata cotesta sua infinità? Che il
cangiamento abbia una volta cominciato è, per il principio di causalità,
impossibile ammettere. La ausa di un cangiamento deve cercarsi a priori
in un cangiamento anteriore e cosi via all’infinito. Un cangiamento
assoluto è empiricamente impossibile e a priori inconcepibile. Vi sono
nell’essere ultime ragioni dei processi, ma non ultime cause. In ogni
punto del tempo è esistita la serie delle variazioni. Non che nel
concetto di sostanza si trovi unita necessariamente coll’esistenza
l’azione, come crede il Rielil, e che non lasciandosi quindi
disgiungere il fare dell’essere dalla sua esistenza, venga ad esser
perciò inconcepibile la sostanza scompagnata dal cangiaménto.
Inconcepibile sarebbe solo una esistenza vuota, ossia scompagnata dalla
essenza. La forza potrebbe però concepirsi ovunque come in equilibrio
stabile, e con ciò l’universo come privo di ogni mutamento. Vi è una
condizione del divenire cbe non entra mai come membro nella serie causale
-- è questa il fondamento ultimo d’ogni fenomeno, la ragione della loro
possibilità. Un tal fondamento riman quindi come fuori del
tempo ossia veramente ETERNO, senza origine nè fine. Non è cosi dei
cangiamenti o degli stati momentanei dell’essere. Lo stato precedente a un
DATO momento nella serie molteplice dei cangiamenti, se fosse sempre esistito,
non avrebbe mai prodotto un effetto cbe si origina solo nel tempo;
auche quello deve dunque aver avuto una causa, e cosi all’infinito. Delle
cause non ve ne può essere una cbe da sè inizi assolutamente una serie;
ogni causa di cangia¬ mento è essa stessa un cangiamento, e suppone con
ciò un’altra causa, un altro stato cbe la spieghi. Tutto è seguenza nella
serie, e un principio assoluto è un assurdo. Una prima causa del
cangiamento per cui avvenga qualcosa cbe anteriormente non era, non è in alcun
modo a connettersi coll’esperienza. La fine della primitiva
quiete nell’ essere senza una causa che la faccia cessare è un
pensiero irrealizzabile. Esprimerebbe una spontaneità incomprensibile, anche
formalmente, cbe noi non possiamo accettare sensa derogare alle leggi
della conoscenza e della natura. Come la legge della causalità non conduce
fuori della causalità empirica (all’Assoluto), cosi non conduce fuori del
cangiamento. Esenti da mutazione rimangono soltanto la sostanza e le
sue qualità originarie, ossia in generale gli elementi, per cui solo sou
possibili le variazioni. La causalità è applicabile unicamente ai
cangiamenti, di modo che causa di un cangiamento non può mai esser che un
altro cangiamento, non una cosa come tale. E quindi unicamente l’ideniico
che sta a base del vario FENOMENICO che non à nè causa nè ragione, se non
quella almeno che con Schopenhauer potremmo chiamare la ragione
dell’essere, o di identita. La medesimezza con sè stesso è infatti
la ragione della sua eterna esistenza. Dove non c’è variazione non c’è
causa da ricercare. Poiché causa non è che la ragion reale del
cangiamento. Una variazione che non procedesse in base a qualcosa di
stabile è un assurdo. Degli elementi non si dà quindi nè generazione nè
corruzione alcuna. L’essere non è mai causa; le cause che la scienza
rintraccia sono cangiamenti, e le leggi sono la uniformità e costanza del
loro succedersi. Tanto l’essere universale quanto la materia e la forza
sono fuori della catena causale. Nn sono per sè causa, si bene la
ragione della connessione stessa causale. E cosi l’essere non si
può porre quale ultimo anello della causalità. Tanto il più remoto
fenomeno immaginabile quanto il presente presupponendo l’essere, il fare
dell’essere. Un sistema dinamico non può mai per sè stesso originarsi da
un sistema STATICO, come neminanco può a questo passare. Sempre le forze
si son misurate a vicenda, ed elementi di esse si son fatti equilibrio ed
altri ànno prodotto dei cangiamenti col lavoro meccanico; ed equilibrio e
lavoro sono sempre stati necessari da una parte per conservare i
cangiamenti lenti concretatisi, ossia in generale le forme durevoli, e
d’altra parte per alimentare la vicissitudine o la vita nell’essere. Il
voler dunque trovare un principio della mutazione sarebbe lo stesso che
credere che la materia una volta non sia esistita. Il sorgere della coscienza a
un dato momento nell'universo, che il momento innanzi noi possiamo
immaginare come affatto privo di vita conscia, non è uua creazione
assoluta, nè rappresenta una infrazione alle nostre leggi della conoscenza
dell’animo. Perchè quell’apparizione della vita conscia noi non l’abbiamo
a pensare che come una combinazione di elementi, nè di elementi v'è
creazione, poiché essi esistono eterni. Pensare la combinazione come
occasionata dallo svolgersi delle variazioni non à nulla di
sovrannaturale. Certo la coscienza nella sua natura generale non à causa;
ad essa come agli elementi ultimi d’ogni realtà è applicabile soltanto
ciò che s’è detta la ragione dell’essere. Altra è però la questione della
sua fenomenologia- In questa come nella fenomenologia generale la
causalità à il suo regno. Se la coscienza al pensiero si presenta come
originata dal NULLA, gli è perchè le sue cause, nella loro natura
oggettiva materiale, non possono in essa evidentemente comparire. Gli
elementi di coscienza, o meglio le disposizioni alla coscienza nella
realtà inconscia sono ora come latenti o neutralizzate: una data
combinazione materiale ecco ne suscita la luce subitanea. Il sorgere del
cangiamento in generale implicherebbe invece una derogazione alla legge
fondamentale dell’ANIMO; noi non lo possiamo in modo alcuno concepire,
e la realtà empirica ci costringe ad ammettere il contrario. Il variabile
non è per sè stesso intelligibile senza un identico a sostrato. La
identità dell’io come dà origine alla ragione logica cosi la dà a quella del
cangiamento reale. Le diiferenze come tali non possono farsi contenuto
della coscienza. Per esserlo anno a venir riferite a una totalità identica.
Ammesso che cangiamenti potessero avvenire senza conseguire ad altri,
verrebbe a mancare la connessione dei fenomeni secondo leggi costanti. Il concetto
di natura perderebbe la sua unità e l’ONTOLOGIA con ciò ogni fondamento.
Le leggi dell’animo si incontrano invece con quelle della realtà. È chiaro
che come l’animo è la condizione inevitabile della esperienza, e con ciò
del nostro mondo fenomenico, cosi le sue leggi o funzioni generali devono
anche di quello esser leggi a priori, o assolutamente valide
indipendentemente da ogni esperienza. Ciò non toglie tuttavia che coteste leggi
possano venir trovate, come vengono in realtà, consone alla natura propria
delle cose, ossia non imposte loro direi quasi arbitrariamente, perchè
nelle cose sono le stesse leggi quantunque impensate. Che anzi in
riguardo al fatto dell'esperienza, in riguardo alla unità sistematica
dell’essere e dell’ontologia, potrà trovarsi necessario di veder nelle
leggi che la coscienza applica a priori alle cose nuli’altro che un
riverbero o meglio null’altro che l’espressione soggettiva delle
determinazioni autonome della stessa realtà inconscia. Ponendo un
principio del tempo reale e con ciò un cominciamento delle causalità non
si sfugge d’ altronde alla domanda. E perchè non prima? Se il primo
cangiamento non ebbe causa, o perchè è esso avvenuto
solo, mettiamo,parecchi quadrilioni di secoli fa? È vero che non
si ammette una causa che l’abbia chiamato all’esistenza, ma nemruanco
si dice che qualche cosa l’abhia impedito di nascere prima. Per questo,
per quanto lo si allontani dal presente, esso riesce sempre troppo
vicino. Richiamarsi alla originarietà dell'essere come fa Duliring,
alla sua effettività indipendente da ogni pensiero e da ogni
ragione, richiamarsi alla natura della realtà inconscia, cui il pensiero
non può mai ricevere completamente in sè stesso, mai fondare in senso
assoluto, ma soltanto ammettere come fatto, non è permesso quando intanto
alla stessa effettività della natura impensata dell’essere evidentemente
si contraddice. Si contraddice, dico, poiché, lasciando da parte
l'analogia del pensiero che ammesso il cangiamento non sa vedere come
esso possa originarsi in modo assoluto, noi non abbiamo in realtà
conoscenza alcuna di un cangiamento cui un altro non preceda, ogni
cangiamento che apparentemente si presenta come tale — il nuovo
nell’evoluzione — noi lo riduciamo è vero alle forze o forme, agli
elementi costanti dell’essere de’ quali non c’è ragione a domandare. Ma il
perchè della loro manifestazione appunto in un tale momento e non
in altro, è nell’ininterrotto cangiamento collaterale, occasionai e in rapporto
a quello. Ben possiamo invece richiamarci noi alla assoluta autonomia della
realtà, che nulla ammettiamo contro il suo reale manifestarsi,
quando diciamo che in senso assoluto non c’è una ragione del perchè
quest’oggi, poniamo, sia proprio ora e non sia già stato in passato o non
abbia piuttosto a venire in futuro, che v’è tanto poco ragione di questo
suo essere Logik. il, Wiscnschaftsftheorsie, presente che della esistenza
stessa universale : dacché come questa non à inai avuta fuori di sè la
ragione del suo essere, così nemmanco il suo fare, il suo divenire
interno. In qualunque punto del tempo noi fissiamo l’essere,
non lo troviamo mai privo di determinazioni, perchè queste sono autonome; e dal
suo stato in dato momento dipende ogni sua ulteriore evoluzione ; come però non
c’ è un momento in cui l’essere non sia, nemmanco ve n’è uno in cui
esso non abbia un suo stato determinato. E cosi che del divenire v’ è
sempre la ragione in un divenire anteriore, ma del divenire in senso
assoluto, v’è tanto poco un perchè quanto dei suoi durevoli elementi.
In ciò che esiste è la ragione di ciò che esisterà ; in ciò che à
esistito la ragione di ciò che esiste. Nella origina¬ ria nebulosa è la
ragione dell’attuale disposizione del sistema nostro solare, ed in altri
processi cosmici ebbe essa stessa la sua origine, i quali se la scienza
non può oggi rintracciare, non è però assolutamente impossibile che
un giorno ella trovi, e che ad ogni modo sono necessariamente avvenuti. Il
cangiamento non à dunque avuto principio. Ed ecco appunto dove sorgono
specialmente gravi, e a molti filosofi son parse insormontabili, le
difficoltà del problema cosmologico del tempo. Si è sempre trovato,
e Cusanus, Opera, Complementura theologicum, Si enim numerare
possumus decem revolutiones praeteritas, et centum, et mille, et omnes. Si quis dixerit non omnes esse
numcrabiles, sed practeriisse infinitas, et dixerit imam futuram
revolutionem in futuro anno, essent igitur tunc infinitae et una, quod
est impossibile. Bacone, Novum Organimi, odi/.. Fcllow, Ne- Kant
è il filosofo che più vi à attira’ o l'attenzione, che ponendo la
mancanza d’ogni principio nella serie regressiva delle cause, si viene
conseguentemente ad ammettere che un’infinità di cause si sia esaurita, una
infinità di cangiamenti sia realmente tutta trascorsaci che contraddice
al concetto di infinito, ed è quindi assurdo accettare. Non solo Kant, ma
anche, tra gli altri, il più acuto forse dei filosofi post-kantiani,
Duliring trova qui una insuperabile contraddizione, ed è stato da essa spinto a
stabilire che il cangiamento nel mondo abbia ad un dato punto cosi
casualmente senza ragione alcuna avuto un assoluto principio nell’essere,
cosa evi- quc. cogitari potest quomodo seternitas dofluxerit
ad lume diem; cum distinctio illa, quae recipi consuerit. quod sit
infinitum a parte ante et a parte post, nullo modo constarò possit; quia
inde sequeretur quod sit unum infinitum alio infinito maius, atque ut
consumetur infinitum et vergat ad finitum. Hobbes, il quale dichiara
insolubile la questione dell’ infinito in riguardo al problema
cosmologico, ammette tuttavia cautamente la infinità del tempo nel
passato e non si lascia ritenere dalla contraddizione di un infinito maggiore
di un altro che sarebbe data dalla relazione dell’infinito passato a
momenti diversi della serie temporale. Non sa però pensar
l’infinito assoluto in modo razionale poiché crede di vincere quella
supposta contraddizione obbiettando: « similis demonstratio est siquis ex
co quod numerorum parinm numerus sit infinitus, totidem esse
conclu- deretur numeros pares quod sunt simpliciter numeri, id est
pares et impares simul sumpti ». De corpore La impossiblità del “regressus
in infinitum in causis efficienticibus” REGRESSUS IN INFINITUM -- e un
principio riconosciuto della scolastica. È vero però che gli scolastici lo
facevano ancor più che a dimostrare un principio del tempo, o,
secondo loro, del mondo, servire a dimostrare (seguendo Aristotele nella
sua dimostrazione del PRIMO MOTORE) la necessità di una prima causa
assoluta. ossia ontologica. Cfr. il libro apocrifo Idella “Metafisica” di
Aristotele, secondo il quale non solo la serie delle cause nel passato, ma
anche quella del futuro sarebbe contraddittoria. Cursus der Philosophie,
Logik. luoghi citati. dentemente assurda, e tanto più per chi come lui è
sur un terreno affatto critico e scientifico. Io trovo al contrario che
la illimitatezza della serie regressiva dei cangiamenti si lascia senza
contraddizione alcuna concepire infinita o, più propriamente,
assolutamente infinita. Dtlliring, non à compreso come l’infinito assoluto
possa attribuirsi anche a ciò che è per sé numerabile. E cosi alla
infinità dei cangiamenti nel tempo ritroso, che è l’unico caso dove una tale
applicazione sia necessaria, egli à fatto invece quella ingiustificata
della sua manchevole legge del numero determinato. La difficoltà da me
superata sta in questo, cui nessuno, per quanto io mi sappia, à mai badato
sin’ora. I cangiamenti infiniti di cui si discorre non
involgono contraddizione perchè essi non sono nè furono mai dati come
totalità, ossia come complesso di una serie infinita. Acciò la
contraddizione esistesse, bisognerebbe che s’ammettesse tacitamente un
principio del cangiamento. Di fatti altrimenti nell’assenza d’ ogni
principio come si può dire. Ora, in questo momento si è esaurita uua serie
infinita di cangiamenti ? Ma da quando dunque? Si pensa con un tratto
indefinito di tempo di avvicinarsi di più all’ infinito del passato, mentre
in- -- Questa soluzione è gù brevemente enunciata nella mia “Lettera
filosofica” a I Simirenko” (Torino, Roux). Schopenhauer, Parcrga u. Paralipomena:
Wenn cin erster Anfang nicht gewesen wure, so tornite die jetzige
reale Gegenwart nicht erst, jetzt seyn, sondern wiire schou liingst
gewesen, dcnn zwischen ihr und dem ersten Anfange miisscn mir irgend
einen. jedoch bestimmten und begriinzten Zeitraum annehmen, der min
aber, wenn wir den Anfung liiugnen, d. h. ihn ins Unendliclic
hinaufruckén, mit hinaufriickt, ecc. ecc. E vece noi ne rimangbiaino
sempre alla medesima distanza. Qualunque punto del tempo si scelga, anche
milioni di milioni di secoli addietro nel passato, noi siamo sempre tanto
vicini lo stesso all’infinito di prima. Come noi per quanto risalghiatno
addietro non possiamo esaurire l’infinito che fu, cosi non dobbiamo
inavvertentemente ammettere che l'essere sia ne’ suoi cangiamenti
partito da un punto per quanto distante da noi. Poiché in realtà
ogni e qualunque suo cangiamento ne à sempre avuti dietro a sè una stessa
infinità di altri. Non è che l’essere avendo dovuto compiere i cangiamenti in
senso inverso di quello che noi tenghiamo nell’abbracciarli venga con ciò
ad aver esaurito una infinità di variazioni. Il tempo nella sua durata
bisogna considerarlo analogamente a una retta che in una direzione è
assolutamente infinita e nell’altra in ogni momento terminata, ma
prolungabile a piacere all’infinito. Come non implica contraddizione far
terminare a un punto una linea assolutamente infinita, cosi non la implica il
passato assolutamente infinito che si termina nel presente e può prolungarsi
senza limite nel futuro. L’errore di Kant e di Diiliring e di tanti altri
sta nel credere che posta la serie regressiva infinita si abbia con ciò
una totalità infinita. L’infinito passato invece non è nè può essere un tutto,
e non ammette quindi alcuna determinazione numerica, pur contenendo in sè
ogni numero. Tale infinità non involge, come crede Diihring,
l'assurdo di una contata (o percorsa, come direbbe Kant) serie infinita (“den
Widerspruch einer abgezàblten unendlicher Zalilenreihe”). In qual modo potrebbe
una tal serie esser contata? Non s’accorge Diihring che con ciò egli
ammette già quello che ei vorrebbe dimostrare, ossia un principio del tempo
reale? In verità è quella serie non contata, ma innumerata e innumcrabile,
ciò che detto di un infinito non inchiude punto contraddizione. Il moto
non à principio nel tempo, e: sino a un punto qualunque del tempo è
trascorsa una infinita serie di cangiamenti — non si equivalgono esattamente.
Con è trascorsa si vorrebbe tacitamente porre come dato ciò che è
impossibile a darsi. Di fatti la contraddizione scompare subito che si
dice: la serie dei cangiamenti nel passato è infinita. É trascorsa sembra
rinchiudere l’idea di un punto iniziale della serie, dove (die i
cangiamenti non si possono considerare un tutto o come serie completa
senza contraddire al concetto di ogni assenza di principio. Una infinità
di cangiamenti, una infinità di momenti del tempo non è trascorsa,
sibbene l’infinito trascorre sempre, e in ogni momento è esistita la
serie dei processi. La successione perpetua è appunto la forma
della infinità del tempo. Se si dice che l’infinito è trascorso si
scambia, a jiarlar esattamente, il suo concetto, ponendo in vece sua
quello del finito, o almeno si combinano insieme due concetti incongruenti.
Poiché ammettendo che una infinità di movimenti è trascorsa o s’è esaurita
nel passato, noi raduniamo in un tutto ciò che per sua natura non
può mai venir radunato. Il concetto di infinito e quello di totalità sono
incommensurabili.Una totalità è sempre raggiungibile con una sintesi successiva
delle sue parti, non cosi l’infinito. Diciamo invece. Le serie dei cangiamenti
del passato è infinita — quale contraddizione nel pensare che ogni
cangiamento avvenuto è stato preceduto da un altro? Dov’è qui l’assurdo
di un tatto infinito che avrebbe dietro a sè ogni momento del tempo? I fenomeni
per sè non suppongono se non i fenomeni che immediatamente li precedono ;
e come non c’è qui contraddizione, cosi per quanto noi ci trasportiamo addietro
nel tempo, mai la troveremo. Come à fatto il tempo reale a giungere
all’ora presente dall’infinito? È potuto giungere dall’ infinito
perchè non è mai partito. Se fosse a un dato punto partito non sarebbe potuto
giungere. E tanto concepibile l’infinito verso il quale tende la serie che
quello dal quale essa procede. Nell’un caso e nell’altro si deve
solo avvertire di non fare un insieme o un complesso di ciò che non
è mai dato come tale, ossia un insieme in cui ogni momento dell’ infinito
fosse anticipatamente compreso. Kant nella prima ANTINOMIA spiega dapprima egli
stesso che l’infinità di una serie consiste nel non poter
questa venir mai compiuta per mezzo di una sintesi successiva e che
il CONCETTO di fatalità non è altro che la rappresi) Schopenhauer crede di
sciogliere il sofisma Kantiano con un altro sofisma, distinguendo tra
assenza di principio e infinità del tempo. Schopenhauer cosi infatti
obbietta alla tesi della prima ANTINOMIA. Uebrigens besteht das Sophisma darin,
dass statt der Anfangslosigkeit der Reihe der Zustànde, ivovon zuerst die
Rede, plutzlich die Endlosigkeit (Unendliclikeit) derselben
untergeschoben und nun bewiesen wird, was Xiemand bezweifelt, dass dieser
das Vollendetsein logisch widerspreclie und dennocb jede Gegenwart das
Ende de Vergangenheit sei. Das Ende einer anfangslosen Reilic làsst sich
aber immer denken, oline ihrer Anfangslosigkeit Abbruok zu tbun : wic sich
aneli umgekehrt der Anfang einer endlosen Reihe denken làsst. “Die Welt als Wille” ecc. “Kritik
der reinen Venunft”, ed. Kirchmann p. 3G4, 3GG, 3G0. 4G sentanone
della sintesi completa delle sue parti. Dunque anche secondo lui dovrebbe il
concetto di totalità non esser applicabile ad una serie infinita.
Tuttavia per dimostrare che le cose coesistenti non possono essere
infinite, alla loro infinita sostituisce egli appunto il concetto
contradittorio di un tutto infinito. Ed à bel giuoco nel rigettare quindi
un tale assurdo. Ecco la sua dimostrazione . un tutto infinito per venir
pensato tale dovrebbe lasciarsi esaurire per mezzo di una sintesi successive.
Ma l ’infinito non può mai venir cosi esaurito, dunque una totalità
infinita di cose coesistenti non può considerarsi come data. Insomma dice Kant
: una infinità non potrebbe venir numerata ossia non potrebbe esser
finita, dunque non può esser data; vien rigettato l’infinito
semplicemente perchè è altra cosa che il finito. Non l’nfinito per sè, solo
l’infinito nel finito è realmente un assurdo, poiché come tale dovrebbe
esser necessariamente dato tutto. Ogni insieme di cose deve perciò contenere
soltanto un numero finito di elementi numerabili. Ma quanto al temilo non
c’è ragione di negarne la infinità ; numerabili sono i processi da un
punto a un altro della serie, non la serie stessa in senso assoluto,
perchè ella non è mai data come un tutto, Is eli infinito
assoluto o transfinito che è proprio del tempo, non abbiamo più veramente
una grandezza ma 1 assenza di essa, poiché è data la necessità della
mancanza di un limite nel regrèsso, ed una tale mancanza è oggettivamente
mallevata come nello schema spaziale della mente essa lo è
soggettivamente. La ragione della infinità dello schema spaziale, come di
quella della serie dei numeri sta nel soggetto ; la infinità invece della
serie causale à la sua ragione nell’ oggetto o nella realtà estramentale.
E appunto solo nell’infinito del tempo passato che si lascia necessariamente
attuare un significato reale del transfinito. Poiché una simile
illimitatezza assoluta è bensi anche dello spazio, ma soltanto dello spazio ideale
o matematico, in quanto questo viene ogget- tivato e lo possibilità che
realmente è solo nella funzione mentale vien naturalmente considerata
come oggettiva e per sé esistente indipendentemente da noi. L’infinità
del passato non à, come tale, determinazione alcuna quantitativa, non si
lascia esprimere col numero ; in essa è invece ogni numero e può porsi
ogni determinazione rimanendo ella assolutamente indeterminata. Cosi la distanza
di due punti nel tempo, per quanto grande la si immagini, se si à
riguardo alla sua relazione all’infinito del tempo anteriore, non
significa nulla per questo appunto che l’infinito assoluto essendo propriamente
la negazione di ogni grandezza nel grande non può venir posto in
relazione con altre grandezze. La nostra fantasia non può correre che all’
infinitamente grande del passato. SOLO L’ANIMO ne intende la infinità
assoluta. Della seriedel tempo non possiamo ottenere una assurda
totalità; per padroneggiare quella bisogna uscire dal cangiamento e
volgersi al fondamento della infinità temporale, ossia all’essere come
presente in ogni momento e come fonte d’ogni possibile. Meravigliarsi che
la più grande grandezza immaginabile non sia più vicina all’infinito assoluto
che la più piccola, è analogo al meravigliarsi che la più ampia
conoscenza dei fenomeni non arrivi più vicino alla cosa in sè che la
conoscenza più limitata. Qui come là si tratta di una differenza
qualitativa che nou si lascia esaurire pei aiiazioni di quantità. L’apparente
paradosso che con una comunque grande grandezza non s’è mai più
vicini che con altra infinitamente minore al transfinito, riposa in
questo, che le due grandezze vengono riferite a quello senza mantenere di
esso il giusto concetto, ma consideiandolo invece come una quantità
determinata; nel qual caso sarebbe veramente un assurdo dire che da
esso disti ugualmente un dato punto e un altro che fosse prima o dopo di
questo. Come nel transfinito del passato non c è assolutamente un
termine, cosi esso non è raggiungibile in alcun modo; dunque tutte le grandezze
sono per riguardo ad esso insignificanti. Parimenti è un assurdo credere
di poter addizionare una unità al transfinito o trasfinito. Si può solo
addizionarla al finito. L’accrescimento esisterà pertanto in riguai do ad un
segmento finito di retta, ma non in riguardo alla retta stessa nella sua
infinità. In una retta infinita nelle due direzioni è indifferente il far
la divisione più in un punto che in un altro da quello lontanissimo ; le
due rette risultanti sono sempre lo stesso transfinito e con ciò sempre
uguali. Nella retta co’_a _b _m rx - A — Aoo e oo’B ossia (
co’A-H AB ) — B oo uguale cioè (A oo — AB). Si vede cosi contrariamente
alla dottrina di Cantor. Dice Cantor. Zu einer unendlichen Zalil, wenn sie
als bestimmt und vollendet gedacht wird, selir «ohi cine endliche
hinzu- gelugt und mit ihr vereinigt werden kann, oline dass kierdurch
eine Aufhebung der letzeren bewirkt wird ; nur der umgekerte Vorgang,
die llinzufugung einer unendlicker Zahl zu einer en dlicbcn, wenn
diese che oo-t-1 ( <> —J— 1 secondo la sua notazione) non è maggiore
di <», nè 1-f-o è differente da essendo co’A + A B = A B + oo.
Non v’è infinito maggiore d'altro infinito: tanto sarebbe infinito il tempo
ritroso se la serie dei cangiamenti fosse terminata migliaia di
secoli fa, quanto se esso continui all’infinito a trascorrere ancora. Il
passato si può misurare tanto a minuti che a secoli, e dirlo eguale, se
fosse lecito così esprimersi, a numero infinito di minuti o a uno
infinito di secoli; non pertanto sarebbe sempre lo stesso infinito nè più
nè meno. E la ragione di ciò è che la quantità transfinita non è
misurabile. La immensità supera ogni numero, come direbbe Spinoza.
Nella infinita serie delle cause è da pensarsi un numero di esse (se tale
può chiamarsi), maggiore di ogni numero assegnabile ; oltre ogni
raggiungibile anello la natura ne offre costantemente altri ulteriori.
Nella natura la contraddizione non può esistere ella non ef¬ fettua il
passaggio che da un momento a un altro; e questo passaggio non può farsi
attraverso l’infinito. Per quanto noi risalghiamo all’indietro nella
serie causale, come non troviamo contraddizione pel pensiero, cosi non la
troviamo nella realtà. Essa ci offre sempre e solo un ziierst, gesetzt
wird, bewickt die Anfhebung der letzeren, ohne dass eine Modification der
ersteren eintritt. (Grundlagen ecc.); e più oltre: “Ist co die erste Zalil der
zweiten Zalilenelasse, so iiat man: 1+01=10, dagegen u> 4 .i-=(coq-l),
wo (co- 1 - 1 ) eine von co durchaus verschiedene Zahl ist. Aiif die Stellung
des Endliclien konmtes also alles an. Una tale inapplicabilità della LEGGE DI
COMMUTAZIONE ai numeri transfiniti o trasfiniti dovrebbe per Cantor servire
inoltre a dimostrare come tali numeri debbano poter essere e pari e dispari
insieme o anche nè pari nè dispari. . 5dato cangiamento e la sua
causa. II fenomeno non richiede per la sua spiegazione la totalità della serie
delle cause anteriori, si bene soltanto la causa immediatamente
antecedente; e il principio di ragione domanda unicamente la immediata
condizione e non una totalità di condizioni. In quanto la stessa
richiesta si rivolge successivamente alla causa della causa e cosi via
all’infinito, si viene a domandare costantemente una nuova condizione e questa
è un nuovo membro della serie e niente di più. Al tempo è essenziale la
posizione in atto di un solo momento. Fatta astrazione dai
cangiamenti, e supposto l’essere affatto immoto in una rigida stabilità
assoluta, noi lo poniamo però sempre in qualunque punto del tempo
ideale che noi fissiamo ; la sua esistenza la poniamo cosi
necessariamente infinita nel passato. Or come può nascere la
contraddizione se noi in uno qualunque di questi punti pensiamo invece
l’essere universale nel flusso del cangiamento? Assurda è la posizione di un
tutto infinito, quale non può qui esser dato, poiché la successione
perpetua è la forma dell’infinito del tempo; noi abbiamo qui una serie
che in riguardo al nostro procedere a ritroso nel tempo da fenomeno a fenomeno
è infinitamente grande, e per sé è transfinita come la tangente
dell’angolo di 90° -- Wundt è condotto a credere (Philos., Stadie. Kant’s
kosmologichen Antinonien n. das Problem des Unendl.) che l’applicazione
de concetto di transfinito non sia possibile nel problema cosmologico del
tempo. Egli crede un tal concetto trascendente, che invece non è e cosi
gli viene a mancare un concetto che esprima la infinità oggettiva ossìa 1
eternità del processo della natura. Il concetto limite del in.
Kant crede che la sua dottrina della idealità del tempo e dello
spazio o della transcendentalità in generale, spiegasse la supposta
antinomia del problema cosmologico, e rendesse con ciò inutile e vana la
ricerca di una soluzione. Ma appartenga o no il tempo e lo spazio
al reale in sè, riman sempre tuttavia la questione se questo, che Kant
non può a meno di accettare, si abbia a pensai’e come fondamento di un
mondo fenomenico finito ovvero di uno infinito. Non vale rispondere che
la serie regressiva delle percezioni nostre non può essere realmente
infinita perchè come tale impossibile, e neppure finita perchè nessun
limite dei fenomeni può venir concepito come assoluto, e dichiarare con
ciò insolubile la questione. Dacché l’oggetto trascendentale
condiziona realmente, come egli ammette un determinato regresso
empirico, per un esempio nell’ordine dei corpi celesti ; doveva Kant pur
ammettere che rimaneva sempre a ve- regresso infinito (o a dir proprio
infinitamente grande) non è già un concetto trascendente della creazione
quale dovrebbe, secondo Wundt, accettare ogni spiegazione filosofica della
natura (v. Wundt, “Ueber das Kosmolog. Problm, Yiertelsjahrszeitscb.);
quel suo concetto limite nuli’ altro è invece appunto die l’infinito
assoluto del tempo oggettivo, in base al quale è possibile il nostro
infinito (infinitamente grande) regresso. Il non aver considerato
l’eternità del fare della natura, e specialmente il non aver badato die
l’infinito regresso è in realtà per la natura un perpetuo progresso,
il cui concetto non può venir altrimenti pensato che per via del
transfinito,stata la causa per cui Wundt concepì il tempo passato sotto
il concetto dell’infinitamente grande concordando in fondo col Kant, come
il Lasswitz si trova in questo d’accordo con lui. (Ein Beitrag zum Kosmol.
Proli. Viertels. Kritik der reinen Vermnft. dere se l’oggetto trascendentale determinasse un
possibile regresso finito od infinito (11. Perchè se per lui tuttii
processi compiutisi da tempo remotissimo ad ora non significano altro che la
possibilità deirallungamento della catena dell’esperienza dalla
percezione attuale indietro alle condizioni che la determinano nel tempo;
pure egli, per ciò che s’è sopra citato, non può negare che il possibile
regresso delle nostre percezioni secondo le soggettive leggi della mente, non
supponga un regresso oggettivo determinato dalla realtà inconscia
indipendentemente da ogni esperienza. Trasportati a indefinita distanza
dal nostro sistema solare, avremmo noi sempre ancora nuove percezioni? E
cosi, trasportati indefinitamente addietro nel tempo vedremmo noi
necessariamente sempre nuovi cangiamenti? Poiché la nostra
necessaria produzione dello schema dello spazio e del tempo, non
potrebbe per sè far si che noi avessimo nuove percezioni dove l’oggetto
trascendentale non le condizionasse e si mostrasse con ciò finito. Lo
spazio e il tempo ideali non sono per sè garanti di una corrispondente
possibile PERCEZIONE. Non una necessità del nostro concetto a priori del
tempo, ma il principio di causalità richiede la infinità della serie
regressiva dei cangiamenti. Poiché non si può conchiudere la mancanza di
un principio del tempo -- Cfr. Schopenhauer, Parerga. Die wicklichen Dinge
der vergangenen Zeit si nel in dm transcendentaien Gegenstand der Erfahnmg
gegeben ; sie sind aber ftir mieli nur Gegenstànde und in der vergangenen
Zeit wicklich, sofern als ich ecc.). Saranno però dunque sempre non
null’altro, come dice Kant poco sotto, ma qualcosa di più della
possibilità dell’allungamento della catena dell’esperienza dalla presente
percezione indietro alle condizioni che la determinano nel tempo. ]da
questo, che ogni limite è necessariamente da noi pensato come relativo.
La relazione di termine e terminante è infinita come quella di soggetto e
oggetto ; perciò appunto vuota ; essa nulla può aggiungere al contenuto reale
cui viene applicata. Come il pensiero dell’essere impensato, che è la forma in
cui comprendiamo il reale, nulla toglie alla realtà estraraentale od in
sè della cosa, allo stesso modo la relazione mentale di limite e
limitante non può evidentemente mettere nella realtà il suo secondo
termine se nella realtà non è dato. Questo secondo termine, il limitante,
rimane, se si astrae da ogni altra considerazione, un puro complemento
ideale. Riehl non seppe neppur egli superare o sciogliere la falsa
contraddizione che Kant e Dtihring, per non dir che di loro, credettero
inchiusa nella concezione di una serie regressiva infinita di
cangiamenti. Visto che la contraddizione stava nel concetto di una
infinità la quale quei filosofi avevano pensato necessariamente
[Hamilton il quale (“Lectures un Metaphysics”, lettura; On logic) segue
Kant nelle antinomie, non giunge che a questo risultato, di pensare in riguardo
all’infinito del tempo e dello spazio, che se la ragione non ci fa
piegare necessariamente nè da una parte nè dall’altra, pure in realtà il
tempo e lo spazio dehban essere o finiti o infiniti. (Cfr. del resto
l’acume del Mill nella sua confutazione di Hamilton, La philosnphie de IL).
Spencer poi, che à fatto la sua più alta educazione filosofica presso di Hamilton appunto
e del suo scolare Mansel, professore di metafisica a OXFORD, seguendo il
maestro dichiara questioni insolubili tanto quella riguardanti l’infinità del
tempo e dello spazio che quella della divisibilità della materia e altre
ancora. Egli pensa, cerne è noto, che i concetti di spazio, di tempo, di
moto, di materia e di forza si mostrino in ultima analisi inconcepibili e
ci lascino sempre del pari nell’alternativa tra due opposte assurdità, “First
Principles”, la quale io stimo certo l’opera più infelice del filosofo
inglese. data come totalità, egli pensò di sfuggirla col negare la
numerabilità o la reale distinzione e indipendenza numerica nella catena delle
cause e delle variazioni. Numerabili, dice egli, sono le cose, non i
processi. In quanto le cose sono od appaiono spazialmente divise,
deve è vero valere ciò die il Duhring à formulato come legge del numero
determinato; ma altrettanto, séguita Kiehl, è certo che quella presupposizione
non vale per i processi temporali. Questi non sono, secondo lui, per
sé stessi distinti numericamente : è solo per la nostra distinzione
mentale che essi ottengono una tale determinatezza. Un argomento dunque che
vale per il numero non può senz’altro venir applicato al tempo, poiché
mancano in questo per sé considerato e non riferito allo spazio,
degli effettivi processi indipendenti, separati l’uno dall’altro, o posti
insomma come numerabili. Noi possiamo distinguere dei processi nel tempo
soltanto in determinato numero finito, nessun processo è però
indipendente [Il Itielil (Ber phUosopliischc Kriticismus) inclinava dapprima
decisamente a porre con Duhring un principio del cangiamento. Soltanto
nella seconda parte del secondo tomo, tormentato dalla necessità del principio
di causalità cangiò opinione (quantunque non lo abbia fatto notare egli stesso
esplicitamente); ma per uscire dalla presunta contraddizione dell’
infinito regresso, pensò, al contrario di prima, i processi come
assolutamente, e con ciò assurdamente continui. Si vede del resto
evidentemente clic il Riehl oltre aver cangiato di parere, non ò nemmanco
ancor ora troppo certo della sua nuova teoria; poiché la tratta troppo
brevemente e troppo alla larga, come se gli scottasse di dover render più
minuto conto di ragioni che a lui stesso non possono parere troppo
convincenti Ciononostante l'opera sua e specialmente la seconda parte del
secondo tomo è un lavoro filosofico non solo di grande valore, ma anche
molto attraente, il che è una cosa assai rara. 1C e distinto da quello che immediatamente lo
precede o segue. Rielil, non sapendo come uscire dalla supposta
contraddizione à dunque rinunciato a concetti di cui l’esatto pensiero
scientifico non sa nè può lare a meno, senza che ciò del resto gli abbia
giovato per la eliminazione della temuta assurdità come più innanzi
vedremo. La questione dell’infinito riguarda tanto il tempo che lo
spazio. Solo si à sempre a distinguere tra l’esistenza loro ideale ; cioè
il loro schema mentale, e la loro esistenza reale. Non numerabile possiamo noi
solo pensare lo spazio ideale, lo spazio o l’estensione materiale
dobbiamo invece necessariamente porla numerabile. Poiché estensione reale
è coesistenza, e la continuità assoluta non può essere reale ma soltanto
ideale ; altrimenti essa inchioderebbe la contraddizione dell’infinito
compiuto nel finito, chè senza parti è solo il continuo della rappresentazione.
Porre la continuità assoluta come effettiva è non spiegar nulla e mettere
il mistero nella realtà, rinunciando a comprenderla. L’irriducibile noi lo
dobbiamo soltanto rilegare negli atomi sia dello spazio che del
tempo reali. I tropi degli Eleati non valgono meno contro il continuo del tempo
che contro quello dello spazio; non meno contro lo spazio percorso da un
pendolo in una oscillazione, che contro il tempo in questa impiegato. In
parti ultime non si può dividere il tempo nè lo spazio ideale, perchè
essi nè sono composti nè si originano da una sintesi di parti, come in fatti
non possono venire analiticamente scomposti in ultimi elementi semplici,
e sono conseguentemente l’uno e l’altro divisibili all’infinito ; ma non è cosi
del tempo e dello spazio leali, dove la natura viene necessariamente
aH'atto. Dice Diehl che solo il nostro intelletto scompone
l’accadere temporale in singoli processi, e che questi solo per ciò ci
appaiono indipendenti, che partono da cose spaziali e si trasmettono ad
altre cose nello spazio. Un processo secondo lui può aver indipendenza
solo perchè vien riferito alle cose nello spazio e non al tempo
unicamente. Ma è naturale che tutti i processi siano nel mondo materiale (e
non vengano soltanto da noi) schematizzati per dir cosi nello
spazio, poiché essi non sono altro che cangiamenti della realtà spaziale,
e unicamente i processi della coscienza in sè considerati possono venir
riferiti al tempo come tale senza riguardo allo spazio. Difatti non pensa
ora Rielil che sia concepibile una materia assolutamente continua
come lo spazio mentale, ossia non costituita da atomi? Anche della
materia allora si dovrebbe dire che gli elementi distinti solo la nostra
mente li pone. Come può egli dunque affermare ripetutamente che soltanto la
riferenza dei processi temporali allo spazio ci faccia considerar
questi come distinti e per sè numerabili? Voler negare la numerabilità
nel tempo reale o ne’ suoi processi dovrebbe al contrario anche secondo
il Riehl esser lo stesso che negare nello spazio gli atomi o le cose
ossia gli aggruppamenti durevoli degli atomi. Ogni grandezza nella
realtà à parti elementari, non esclusi i cangiamenti; un certo gi’ado di
cangiamento è una somma di successivi cangiamenti minimali. Ma il
pensiero come per istinto sembra rifuggire dalla concezione dell’atomo o minimo
temporale, perchè colla determinatezza scompare quel che di vago e di
nebuloso E ir, rdie altrimenti conserva la concezione (lei tempo, e
per cui la mente non avverte o avverte assai meno la inintelligibilità di
quello. Colla posizione dell'atomo o minimo, la natura non più oltre
scrutabile del tempo si affaccia bruscamente all’intelletto. Il tempo
come rappresentazione rimane naturalmente strettamente continuo pur essendo
discreti i processi reali, cliè la sua continuità assoluta ideale è una
proprietà necessaria dipendente dalla natura della coscienza, la quale
tra due processi per quanto infinitamente vicini interpola pur sempre la
sua unità. Non c’è un minimo concettuale del tempo come c’è invece
e si richiede il minimo reale. I n minimo nella rappresentazione del
tempo sarebbe un punto inesteso, e considerarlo come elemento della
durata tanto varrebbe quanto rendere impossibile il concetto di
questa. Non deve più urtarci l’accettar gli atomi, o meglio
la concessione atomistica, per la materia, che accettarla in riguardo
alla forza e al cangiamento. Non crediamo siano più intelligibili gli elementi
materiali che quelli del divenire. La facoltà nostra mentale di pensare
gli Schopenhauer trattando nella quadruplice radice del principio di
ragione del tempo del cangiamento, mette in piena e con ciò
stridentissima luce il concetto ch’egli à della continuità assoluta del tempo,
quale egli trova acutamente espresso presso il LIZIO. “ Come tra due punti v’ è
ancor sempre una linea, dice egli, così tra due ora vi è ancor sempre del
tempo. È questo il tempo del cangiamento ; esso è come ogni tempo
divisibile all’ infinito e per conseguenza il cangiamento percorre in esso un
numero infinito di gradi per i quali dal primo stato nasce a poco a poco
il secondo. Egli conchiude con Aristotele dalla infinita divisibilità del
tempo, che ogni contenuto di esso e con ciò ogni cangiamento, o il
passaggio da uno stato all’altro deve essere infinitamente divisibile, e
che dunque tutto- ciò che diviene s’origina in fatti da punti
infiniti. atomi come ulteriormente divisibili vale per tutti e due
gli ordini senza diminuire perciò la necessità che à la mente di
ammetterli. Quel sentimento direi quasi di disagio clic par darci questa
necessità, non è in fondo che ca¬ gionato da quella nostra come
ripugnanza a riconoscere che l’analisi mentale della realtà deve a un
dato punto arrestarsi. La mente deve arrivare ed arriva, ad
elementi i quali non sono più oltre scomponibili, altrimenti il
reale potrebbe sciogliersi nel pensiero.La divisibilità ideale non porta
con sè una reale divisione. Solo il tempo ideale può venir diviso a
piacere all' infinito, e non à quindi elementi numerabili, ma il tempo
reale col suo vario contenuto fenomenico è di sua natura numerabile; quantunque
noi, come ci accade per gli atomi della materia, non arriviamo direttamente
a’ suoi elementi. Non meno delle cose o degli elementi delle cose sono
anche i processi numericamente distinti. E se in astratto la grandezza
non à divisione, essa non può tuttavia nella realtà venir
esattamente concepita che come risultante di una immediata ripetizione numerica
d’uno stesso identico. L’assenza di elementi reali è solo nel nostro
pensiero che può a- strarre da ogni divisione nel considerare una
grandezza, ed è pienamente libero di dividerla o accrescerla all’
infinito, allo stesso modo che esso procede co’ numeri. Tanto la natura
che il pensiero ànno del resto la possibilità dell’infinito accrescere e
interpolare ; ma ne’ loro prodotti non possono dare che il determinato:
l’infinito si riferisce solo al loro operare, non al loro
operato. Il concetto del continuo assoluto applicato al tempo reale
sarebbe del resto affatto inutile anche quando fosse giustificato. Poiché
empiricamente un tal continuo noi non lo incontreremmo mai. Il fatto che
noi della sintesi della natura (come dice Diihring in qualche luogo della “Dialettica”),
non abbiamo altro che rappresentazioni di effettività, non ci dà il
diritto di fare delle possibilità del nostro pensiero la misura della
realtà. Come in sé sia fatto il passaggio da un punto del tempo all’
altro, non può venir inteso. Tanto varrebbe domandare perché esiste
il tempo o magari l’essere stesso nella sua -effettiva natura Voler ancora
spiegare gli elementi del tempo è uno sconoscere la natura del pensiero; noi
non li possiamo ridurre ad altro perchè il tempo non è un prodotto della
mente, è condizione anzi dell’esperienza, e non à una natura puramente
logica. Il passaggio è una determinazione della realtà che noi non
possiamo che riflettere. Sarebbe lo stesso voler spiegare gli atomi
della materia; noi non possiamo che ammetterli o riconoscerli; una
pretesa spiegazione di essi è assurda poiché il pensiero non è tutta la realtà,
ma vien confinato da qualcosa che se pò dare ad esso un contenuto
formale, non può però dare il suo essere. Da un grado a un alti’O del
cangiamento si fa il passaggio in quanto il cangia¬ mento stesso ci si
mostra come fatto compiuto. Noi non dobbiamo quindi illuderci col
concetto misterioso del continuo assoluto di penetrare più addentro nel
fare della natura, nel divenire dei fenomeni. Noi non possiamo mai
altro che constatare gli avvenuti cangiamenti, nuH’altro possiamo. E cosi
in realtà non conosciamo come il cangiamento, ma che il cangiamento s’è
fatto. Tornando ora alla soluzione di Riehl, nemmanco col fare la
serie dei cangiamenti assolutamente continua sfugge egli, secondo crede,
alla temuta e presunta contraddizione dell’infinito compiuto od esaurito. E 1'
errore suo si fa più stridente e palese quando egli sostiene che la infinità
del tempo si mostrerebbe esaurita se si dovesse pensare ad un suo fine
nel futuro. Ei crede che solo in tal caso, per evitare la contraddizione,
si dovrebbe ammettere un principio assoluto del tempo. E così fa
dipendere, cosa enorme, la infinità del regresso dalla infinità del
progresso nel futuro. Ma la fine del tempo non è invece punto
contradditoria. É questa una questione di natura empirica; e cosi secondo
lui non dovrebbe esser allora inconcepibile e contraddittorio neppure un
principio del tempo. Il tempo reale, ove fossero date le condizioni di un
equilibrio universale, potrebbe finire ad ogni momento senza assurdità
alcuna. Poiché ad ogni modo nella natura ogni fine non è della
serie infinita ma dell’ultimo cangiamento. Del resto, sia pure, ammettiamo
che i processi non siano per sé distinti e numerabili, ma siano invece
assolutamente continui. Dice Riehl che le oscillazioni di un pendolo
sono senza dubbio determinate numericamente. Ora come risponderebbe egli
alla domanda — nè vi può in modo alcuno sfuggire — se si debba pensare
che insieme sommate le oscillazioni dei pendoli che possono dall’eternità
esser mai esistiti in infiniti mondi, possano venir compresi da un numero
finito? E se no sotto quale concetto una tale somma o regola di somma
dovrà venir pensata? A ciò non à egli risposta. E più ancora come
risponde Riehl a quest’altra, la domanda. Il numero delle terre dall'eternità
ad ora nate e morte è egli infinito o finito? Poiché qui
manifestamente abbiamo delle esistenze separate, indipendenti,
numerabili anche secondo lui. L’unica giusta risposta è che un tal
numero è necessarianente infinito, o, propriamente, transfinito. Nel corso
perpetuo del tempo non solo non è contraddittorio, sibbene è necessario che un
infinito numero di corpi celesti (dato che le moderne teorie cosmiche
siano, come pare, inevitabili) abbia gradatamente avuto nascita e morte.
Con ciò come non vi fu un primo cangiamento, nemmanco vi fu una prima
terra. Il concetto dell’infinito assoluto o transfinito è applicabile solo
alla serie regressiva dei cangiamenti, non alla progressiva. La natura di
questa consistendo appunto nel crescere suo continuo verso il futuro non
può cadere, se infinita, che sotto il concetto dell’infinitamenfe
grande. Poiché in nessun punto iminaginabi'e del futuro non si sarà
compiuta, a partire da un punto qualunque del tempo precedente, una
infinità assoluta di cangiamenti. E ciò che si avrà sarà solo la continua
possibilità di sempre nuove mutazioni. La questione però se realmente
nella natura dell’essere sia la disposizione a qnes'.o infinito futuro è
affatto empirica, non essendoci, come s’è visto sopra, alcuna difficoltà che a
priori ci impedisca di pensare possibile un termine d’ogni cangiamento in un
qualunque momento avvenire. Il concetto del tempo per sé non ci dà alcuna
soluzione; la questione è puramente di fatto. La soggettiva possibile
anzi necessaria illimatezza dello schema spaziale non porta seco
necessariamente un infinito riscontro nella esistenza materiale oggettiva. Allo
stesso modo neppure la illimitatezza del tempo ideale porta con sè quella del
tempo reale ossia una serie infinita di reali cangiamenti. Essa non
ci impedisce in modo alcuno di considerare come possibile un limite del mondo
nel tempo. Se noi siamo sforzati di pensare ad un tempo vuoto non è però il
pensiero di esso che gli dà un contenuto reale in ogni suo momento.
Essendo che per sè stesso la vuota durata tanto è del reale come del
nulla ; sebbene la durata non rimane mai nel nostro pensiero priva adatto
di contenuto, in quanto la permanenza dell’essere, indipendentemente dallo
svolgersi o no esso in fenomeni, non può mai mancare di farle riscontro.
Ed è in questo una grandissima differenza tra la rappresentazione dello spazio
e quella del tempo. Mentre a niun punto arbitrario del tempo viene
a mancare il contenuto materiale, non così necessaria¬ mente ad ogni
punto dello spazio. A parte i cangiamenti in cui l’universo si svolge è
evidente che non può ad. esso venir applicato il concetto di una
determinata durata. Come esso è sempre quello che è, cosi il tempo non à
a suo riguardo significato alcuno. In un qualunque momento inesteso del
tempo 1’ essere è completo, è tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà.
Se dunque nel futuro venisse realmente a mancare ogni mutazione nell’essere,
questo potrebbe solo impropriamente venir considerato come nel tempo; la
durata dal punto in cui il cangiamento sarebbe cessato à soltanto
senso perchè noi la immaginiamo misurata da quella piena di
cangiamenti della nostra coscienza. Intanto la meccanica non ammette
assolutamente la possibilità del passaggio di un sistema da uno stato dinamico
ad uno statico. E cosi il tempo futuro è indubbiamente infinito nel senso di
una progressione senza fine – V. anche le considerazioni di Sleyer,
“Mechanick iter l Verme”. Tra le due infinità del passato e del futuro sta il
momento presente, il quale inchiude la realtà eterna, la realtà che fu e
che sarà. La pienezza dell’essere non ci sfugge come parrebbe a
considerarlo nella infinita sua fenomenologia. L’essere è sempre tutto
presente, non c’ è elemento di cui possa dirsi che sia stato o che abbia
a originarsi. Certamente l’interesse nostro va al suo svolgersi ne’
cangiamenti per cui solo ci si svela la sua natura e per cui solo noi ci
commoviamo e viviamo. Che per la coscienza l’essere immoto in una rigida
inerzia non avrebbe valore alcuno. Tuttavia la infinita possibilità del
cangiamento è tutta nell’essere in un qualunque punto matematico del
tempo. E cosi T importanza del tempo finito non si perde di contro alla
infinità passata e futura del processso: ogni momento del tempo ci
dà l’essere sub specie aeternitacis, nè altra mai è stata la esistenza
della realtà che quella del momento. Solo in questa considerazione della
permanenza eterna del reale possiamo noi comprenderne la infondata e
infondabile natura sistematica. Lo sguardo alla incessante evoluzione può
troppo facilmente far considerare le interne determinazioni dell’ essere come
transitorie. Che l’evoluzione sia tale quale noi l’andiamo scoprendo non è
altrimenti a intendersi. Giova quindi, per la concezione universale
dell’esistenza, oltre che aver riguardo allo svolgimento di un sistema
parziale nel tempo considerare gli altri sistemi parziali del cosmo
nel loro coesistente diverso grado di svolgimento, per cui si lascia
forse quasi pensare come in ogni momento attuata nello spazio la
evoluzione temporale dei singoli mondi. Nello spazio e nel tempo, da
cosa a cosa, da processo a processo, per il filo della causalità
materiale spiega l’essere la sua unità. Alla necessaria necessità logica
rispondi la effettiva unità materiale della esistenza. L’unità dello spazio e
del tempo nella rappresentazione non basterebbero per sè a escludere una
radicale disparità nel reale. Se lo spazio e il tempo fossero
puramente forme ideali nascerebbe il problema del come la realtà
non possa dare origine a duplicità di sorta. E la questione si scioglie solo in
quanto si riconosce che l’unità stessa del reale è che crea quella dello
spazio e del tempo. Le proprietà dello spazio sono esse stesse di
na¬ tura meccanica, nè altrimenti potrebbero le leggi della natura
esprimersi in relazioni di spazio; nelle necessità spaziali è la logica
immanente delle forze della natura. Due spazi differenti sono un assurdo non
solo avuto riguardo al pensiero, ma anche in riguardo alla oggettiva
realtà materiale. Il pensiero per sè non trova alcun impedimento a
riunire ogni spazio in uno spazio unico nel vuoto schema spaziale e non
può trovar quindi ragione di considerarlo come disuniforme. Nella realtà
poi la pluralità degli spazi vorrebbe dire pluralità di esseri. Ora
una tale pluralità non solo non può mai venir oggetto del nostro pensiero
e per noi non può quindi assolutamente esistere, ma è dalla realtà
smentita, perchè anche l’esperienza colla omogeneità universale della
materia mostra esser l’essere uno. Le posizioni delle distanze nello
spazio reale non sono che rapporti di forza. Ogni elemento dell’
esistenza materiale è quindi nello stesso unico spazio. Non esistendo
cosi elemento alcuno fuori d’ogni relazione cogli altri. Analogamente è del
tempo reale ; la sua unità suppone quella dello spazio materiale e
dipende insieme dalla universalità del cangiamento. Per la natura radicalmente
omogenea delle cose e per la temporalità d’ogni cangiamento è uno anche
il tempo oggettivo. E cosi che i principii meccanici si estendono
presumibilmente e con sempre maggior certezza ad ogni massa
dell’universo, a ogni sistema di stelle fisse e gruppo di sistemi. Poiché
la base dell’esistenza è di natura meccanica. Solo la sensazione come tale o il
campo della coscienza ne resta fuori e riceve dalla spiegazione meccanica una
eterogenea sebbene costante e parallela illustrazione. L’unità dell’essere non
à riscontro in una fantasticata e contraddittoria unità cosciente universale;
rifrange invece per dir cosi la sua unità in quella di molteplici
coscienze individuali. L’unità oggettiva estramentale e la unità della
coscienza: due abissi del pari inscrutabili ma rispondentisi. Albana e
all’altra sta a base e direi quasi a tergo quella che noi non possiamo
concepire che col concetto formale di ragione o di fondamento unitivo
e subfenomenico dei due fatti. Non è meno inscrutabile l’una unità
dell’altra, sebbene quella della coscienza implica per sé quella materiale
oggettiva. Infatti che cosà di meno oltre analizzabile dell’unità
radicale che con la mutazione si appalesa esistere negli elementi
dell’essere? Come spiegare la effettiva comunione delle sostanze, il
fatto che lo stalo di un atomo porti seco un dato altro stato di un
altro? Queste riflessioni ci richiamano alla infondata originarietà delle
cose, e alla natura per così dire superficiale della conoscenza e del pensiero.
Quelli sono resti refrattari ad ogni ulteriore analisi; nè già
per difetto del nostro istrumento, ma per la necessaria natura stessa del
conoscere, chè altrimenti la realtà dovrebbe cessare di esistere come distinta
dal pensiero. La analisi à necessariamente de’ limiti, i quali non
anno però bisogno d’esser limiti della conoscenza nel modo in cui
falsamente per lo più vengono intesi, quasi indizi di limitatezza di
contro a una sia pur solo logicamente possibile conoscenza superiore. Come non
è incondizionatamente applicabile al reale il principio di ragione, tanto
meno lo sono altri concetti essenzialmente relativi quali quelli di
grandezza e di scopo. Se l’universo è infinito, non à evidentemente
per ciò stesso determinazione alcuna quantitativa; se finito è vero
però che in relazione ad una sua parte esso à una grandezza determinata,
sebbene nell’estenzione variabile da un momento all’altro. E che possiamo
quindi dirlo più piccolo di una grandezza posta mentalmente
superiore alla sua ; che anzi possiamo anche considerarlo infinitamente
piccolo in relazione all’infinito assoluto dello spazio ideale. Ma in sè
non si potrebbe dirlo propriamente nè grande nè piccolo, perchè fuori di esso
non vi è nulla che possa darci una unità di misura. E del pari è
affatto relativo il concetto di durata e inapplicabile perciò in modo
incondizionato all’essere. Questo non dura nè tanto nè poco; e la ragione
di ciò è che esso non è nel tempo. Considerando però la serie dei
cangiamenti, al contrario di quanto ci accade per lo spazio, lo schema
ideale del tempo riceve necessariamente un contenuto reale perfettamente
corrispondente. E sciogliendo la difficoltà che più che tale a molti filosofi
è parsa sinora una stridente contraddizione, abbiamo visto che come
per mezzo del tempo si fa possibile il cangiamento, il quale altrimenti sarebbe
contraddittorio, cosi per il cangiamento trova una necessaria
applicazione alla realtà oggettiva l’infinito assoluto o trans-finito. Mario
Novaro. Novaro. Keywords: implicatura ligure, ‘la riviera ligure’, Grice
echoing Kant, echo, implicature ecoica, Strawson’s ditto-theory of truth,
Strawson’s echoic theory of truth, Skinner on echo – ecoico, eco, implicature
ecoica, infinito, Lucrezio – Luigi Speranza, “Grice e Novaro” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Riviera Ligure. Novaro.
Luigi Speranza --
Grice e Novato: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Seneca’s brother. Adopted by Lucio Giunio Gallio. Seneca dedicates
two of his philosophical dialogues to him. Seneca’s exhortations suggest that
if Novato was not a follower of the Porch, he was a the very least a
sympathiser. Lucio Anneo Novato. Novato.
Luigi Speranza --
Grice e Numa: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la
logica del regno – Roma – la scuola di Cures -- filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cures). Filosofo italiano. Cures, Fara in Sabina, Rieti,
Lazio. The second king of Rome. A book was discovered. It wasn’t written by
Numa, but the Romans said it was. It was very philosophical. The Roman senate
ordered that it should be burned. It was! But most Italians can recite by heart
all the indiscriminate teachings it contained. The big polemic came from
Cicero. He didn’t want Roman philosophy to have a start other than in Rome, so
he denied the school of Crotone and much more any Etrurian influence via N.
Still… N.dal Promptuarii Iconum Insigniorum di Guillaume
Rouillé 2º Re di Roma Predecessore Romolo Successore Tullo Ostilio Nascita Cures
Dinastia Re latino-sabini ConiugeTazia Figli Pompilia N., Cures Sabini, -- è
stato il secondo re di Roma, e il suo regno durò 42 anni. Numa Pompilio, di
origine sabina, per la tradizione e la mitologia romana, tramandataci grazie
soprattutto a Tito Livio e a Plutarco, che ne scrive anche una biografia, era
noto per la sua pietà religiosa e regna
succedendo, come re di Roma, a Romolo. N. e un re pio, e in tutto il suo regno
non combatté nemmeno una guerra. L'incoronazione di N. non avvenne
immediatamente dopo la scomparsa di Romolo. Per un certo periodo, i senatori
governarono Roma a rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un tentativo
di sostituire la monarchia con una oligarchia. Però, incalzati dal sempre
maggiore malcontento popolare causato dalla disorganizzazione e scarsa
efficienza di questa modalità di governo, dopo un anno, i senatori furono
costretti ad eleggere un nuovo re. La scelta apparve subito difficile a causa
delle tensioni fra i senatori romani che proponevano il senatore Proculo ed i
senatori sabini che proponevano il senatore Velesio. Per trovare un
accordo si decise che i senatori romani avrebbero proposto un nome scelto fra i
Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un romano. I
Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abita nella
a Cures ed era sposato con Tazia, figlia di Tito Tazio. Sembra che N. fosse
nato nello stesso giorno in cui Romolo fondò Roma. N., concittadino di Tazio, e
noto a Roma come uomo di provata rettitudine oltreché esperto conoscitore di
leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di ‘pio.’ I Sabini accettarono la proposta rinunciando
a proporre un altro nome. Furono dunque inviati a Cures Proculo e Velesio, i
due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini, per
offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei
senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, N. vi acconsente solo dopo
aver preso gl’auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli. N. fu
quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo. La leggenda afferma che
il progetto di riforma politica e religiosa di Roma attuato da N. fu a lui
dettato dalla ninfa Egeria con la quale, ormai vedovo, soleva passeggiare nei
boschi e che si innamorò di lui al punto da renderlo suo sposo. A N. viene
attribuito il merito di aver creato una serie di riforme tese a consolidare le
istituzioni di Roma, prime tra tutti e quelle religiose, raccolte per iscritto
nei commentarii N. o libri N., che andarono perduti nel sacco gallico di Roma. Sulla
base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano
amministrati da otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le
Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici. N.stabilì di unificare
ed armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani per eliminare le
divisioni e le tensioni, riducendo l'importanza delle tribù e creando nuove
associazioni basate sui mestieri. Appena divenuto re nomina, a fianco del
sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un
terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino, gli dei più importanti
dell'epoca arcaica. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio
sacerdotale che fu detto dei flamini, a cui diede precise regole ed istruzioni.
Numa proibe ai Romani di venerare immagini divine a forma umana e animale
perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini. Durante il regno
di N. non furono costruite statue raffiguranti gli dei. Istituì il collegio
sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa
ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestal, sulla
moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le prescrizioni di
carattere sacro. Istituì poi il collegio delle vergini Vestali assegnando a
queste uno stipendio e la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro
della città. Le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia. Anco Marzio
ne aggiunse altre due. Istituì anche il collegio dei Feziali, i guardiani della
pace, che erano magistrati-sacerdoti con il compito di tentare di appianare i
conflitti e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi
diplomatici. Nell'ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei salii,
sacerdoti che avevano il compito di separare il tempo di pace e di guerra -- per
i romani il periodo per le guerre anda da marzo ad ottobre. Era, questa
funzione, molto importante per gli abitanti di Roma, perché sanciva, nel corso
dell'anno, il passaggio dallo stato di cives -- cittadini soggetti
all'amministrazione civile e dediti alle attività produttive -- a milites -- militari
soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e dediti alle esercitazioni
militari -- e viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Numa migliora
anche le condizioni di vita degli schiavi, per esempio permettendo loro di
partecipare alle feste in onore di Saturno, i Saturnalia assieme ai loro
padroni. La tradizione romana rimanda a N. la definizione dei confini tra le
proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa,
statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis,
e l'istituzione della festività dei Terminalia. Nel Foro, fa costruire il
tempio di Vesta, e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via
Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse
solo in tempo di pace -- e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo
regno -- Secondo Marco Verrio Flacco, riportato da Sesto Pompeo Festo, il re N.,
ordinando la costruzione del tempio di Vesta, volle che fosse di forma rotonda
(ad pilæ similitudinem), cioè della stessa forma del mondo, in quanto N. e un
convinto sostenitore della sfericità della terra, tesi dunque evidentemente già
in voga in quei lontani tempi. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il re N. poi
incluse a Roma il Quirinale, anche se questo a quell'epoca non era ancora cinto
da mura. A N. e ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli
lunari, che passò da 10 a 12 mesi di 355 giorni -- secondo Livio invece lo
divise in 10 mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo -- con
l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine
dell'anno, dopo dicembre. L'anno iniziava con il mese di marzo. Da notare la
persistenza dei nomi degli ultimi mesi dell'anno con i numeri: settembre,
ottobre, novembre, dicembre. Il calendario conteneva anche l'indicazione dei
giorni fasti e ne-fasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna
decisione pubblica. Anche in questo caso, come per tutte le riforme più
difficili, la tradizione racconta che il re N. segue i consigli della ninfa
Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni. Atque
omnium primum ad cursus lunae in duodecim menses discribit annum; quem quia
tricenos dies singulis mensibus luna non explet, desuntque sex dies solido anno
qui solstitiali circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita
dispensavit, ut vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis
omnium annorum spatiis, dies congruerent. Idem nefastos dies fastosque fecit,
quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat. Anzitutto divise l'anno
in dodici mesi secondo il corso della luna, ma poiché i mesi lunari non
arrivano a trenta giorni, e complessivamente mancano alcuni giorni per fare
l'anno intero, che corrisponde al giro del sole, inserì nel calendario dei mesi
intercalari, ordinandoli in modo che ogni venti anni i giorni concordavano,
tornando allo stesso punto dell'orbita solare donde era partito il ciclo
ventennale del calendario. Egli fissa pure i giorni fasti e nefasti, ritenendo
cosa utile che in qualche giorno non si potessero discutere le questioni
politiche davanti al popolo. (Livio, Ab Urbe condita) L'anno così
suddiviso da N., non coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad anni
alterni veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni,
togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a decidere
queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze politiche. Floro
racconta che N. insegna i sacrifici, le cerimonie ed il culto del sacro ai
Romani. Crea anche i pontefici, gli auguri ed i salii. La tradizione vuole che
Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la festa di Quirino e la festa di
Marte. La festa di Quirino si celebra a febbraio. La festa dedicata a Marte si
celebra a marzo, e venne officiata dai salii. N. partecipa di persona a tutte
le feste religiose, durante le quali e proibito lavorare. A queste
riforme di carattere religioso corrispose anche un periodo di prosperità e di
pace che permitte a Roma di crescere e rafforzarsi, tanto che durante tutto il
regno di Numa le porte del tempio di Giano non furono mai aperte. N. muore ottantenne
e non di morte improvvisa, ma consunto dagl’anni (per malattia secondo Livio),
quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, ha solo cinque anni, circondato
dall'affetto dei romani, grati anche per il lungo periodo di prosperità e pace
di cui avevano goduto. Alla processione funebre parteciparono anche molti
rappresentanti dei popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito
insieme ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo. Dopo la bellicosa
esperienza del regno di Romolo, N. seppe con la sua saggezza fornire un saldo
equilibrio alla nascente città. Durante il consolato di Marco Bebio
Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, due contadini ritrovarono il luogo della sua
sepoltura, contenente sette libri in latino di diritto pontificale, ed
altrettanti di filosofia. Per decreto del senato, i primi furono conservati con
cura. I secondi furono pubblicamente bruciati. Il senatore sabino Marcio, che
aveva sposato la figlia Pompilia, si candida alla successione ma fu superato da
Tullo Ostilio e si lascia morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra
Pompilia e Marcio e nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune
fonti raccontano di un secondo matrimonio di N. con una certa Lucrezia da cui
sarebbero nati quattro figli: Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali
avrebbero avuto origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni
e dei Marci. L’esistenza di N., come accade per quella di Romolo, è discussa.
Per alcuni studiosi la sua figura sarebbe principalmente simbolica; un re per
metà filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento
religioso di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente opposto
al suo predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa del nome (secondo
alcuni N. viene da Nómos = "legge" e Pompilio da pompé = "abito
sacerdotale") indicherebbe l'idealizzazione della sua
figura. Strabone, Geografia, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Livio:
Ab Urbe condita. Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non
posset, simulat sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu
quae acceptissima dis essent sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum
praeficere. Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum, Tacito,
Annali, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Sesto Pompeo Festo, De verborum
significatione. Budapest, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio,
Periochae ab Urbe condita libri, Plutarco, Vite Parallele: Licurgo e N.; Valerio
Massimo, Factorum et dictorum memorabilium Plutarco, Vita di N. Antonio
Brancati, Civiltà a confronto, Firenze, La Nuova Italia, Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane. Eutropio, Breviarium historiae romanae, Livio,
Ab Urbe condita libri; Periochae. Plutarco, Vita di N.. Fonti storiografiche
moderne, Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Roma in Italia, Milano,
Einaudi, Brizzi, Storia di Roma. Dalle origini ad Azio, Bologna, Pàtron,
Carandini, Roma il primo giorno, Roma-Bari, Laterza, Gabba, Dionigi e la storia
di Roma arcaica, Bari, Edipuglia, Matyszak, Chronicle of the roman republic:
the rulers of ancient Rome from Romulus to Augustus, Londra, Thames and Hudson,
Mommsen, Storia di Roma antica, Firenze, Sansoni, Pallottino, Origini e storia
primitiva di Roma, Milano, Rusconi, Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano,
Il Saggiatore, Howard H. Scullard, Storia del mondo romano, Milano, Rizzoli,
Voci correlate Gens Pompilia Gentes originarie Età regia di Roma Rex (storia
romana) Lex regia Flamini Salii Pontefice (storia romana). N. Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Sanctis., N. Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
N. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, N. sapere.it, De
Agostini. N. Enciclopedia Britannica, Goodreads. Predecessore Re di Roma Successore
Romolo a.C. Tullo Ostilio Storia romana Plutarco Portale Antica
Roma Portale Biografie Portale Mitologia Categorie:
Sovrani Sovrani Romani Nati a Cures Sabini Personaggi della mitologia romana Re
di Roma Oracoli classici [altre] Cassius Hemina, vetustus auctor annalium, in
quarto libro tradit Cneum Terentium scribam in Ianiculo effodisse arcam, in qua
N., qui Romae regnaverat, sepultus erat. Addit etiam in arca repertos esse
libros a rege Numa scriptos quingentis et triginta annis ante. Fuisse e charta
N. libros Cassius etiam scribit, refertos multis rebus obscuris. Cassius etiam
tradit libros in arca integros repertos esse magno cum stupore omnium et a
scriba senatui portatos esse. Quoniam omnes notabant libros, in terra infossos,
permansisse integros, Cassius Hemina ipse suam rationem praebebat: dicebat enim
eos libros in arca sub lapide quadrato positos esse et propter hoc integros
mansisse; praeterea, quod libri citrati fuerant magna cum cura, tineae illos
non tetigerant. Tamen, lectis
libris, multa scripta inventa sunt de Pythagorica philosophia et propter hoc a
praetore ussi sunt. Hoc idem tradit
Piso quoque in libro primo commentariorum suorum, sed libros VII iuris
pontificii, totidem Pythagoricos fuisse narrat. Valerius Antias autem in opera
sua etiam senatus consultum tradit quo eos uri iussum est. Cassio Emina, antico
autore di annali, nel quarto libro tramanda che lo scrivano Gneo Terenzio
avesse disseppellito nel Gianicolo il sarcofago, nel quale N., che aveva
regnato a Roma, era stato sepolto. Aggiunge inoltre che nel sarcofago erano
stati trovati i libri scritti dal re Numa cinquecentotrenta anni prima. Cassio
scrive anche che i libri di N. erano di carta, pieni di molte cose misteriose.
Cassio tramanda anche che i libri nel sarcofago fossero stati trovati integri
con grande stupore di tutti e che fossero stati portati dallo scrivano al
senato. Poiché tutti notavano che i libri, sepolti sotto terra, erano rimasti
integri, Cassio Emina stesso fornisce la sua spiegazione. Dice, in effetti, che questi libri erano
stati posti nel sarcofago sotto una pietra quadrata e per questo erano rimasti
integri. Inoltre, poiché i libri erano
stati cosparsi con grande cura di olio di cedro, i tarli non li avevano toccati.
Tuttavia, letti i libri, furono trovati molti scritti sulla filosofia
pitagorica e per questo furono bruciati dal pretore. Questa stessa notizia la tramanda anche
Pisone nel primo libro dei suoi commentari ma narra che i sette libri del
diritto pontificio fossero stati altrettanto pitagorici. Valerio di Anzio
inoltre nella sua opera tramanda anche la consultazione del senato nella quale
fu ordinato che essi fossero bruciati. The original Romans are the ones who did the choosing
part. They don’t select anyone from the Sabine senators but find a man in the
Sabine city of Cures, the birthplace of the former king Titus Tatius, famous
for his justice, wisdom, and piety. His name was N.. The people, happy with
this choice, accepted their new king quickly. Only one small problem now
occurred – the man who was chosen to rule after so much effort and such a
lengthy and difficult process was not really keen on reigning at all. When a
delegation from Rome approached him, he humbly refused. It required much much
persuasion from his father and brothers with arguments about honour too great
to refuse, but in the end, N. finally agreed and became the king of Rome. Numa Pompilio. Numa.
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